Dal pastorato al management. La via del 'governo economico' degli uomini 9788833395135


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italian Pages 515 [552] Year 2021

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Table of contents :
Introduzione VII
Parte I
Nascita e sviluppo del moderNo ‘goverNo ecoNomico degli uomiNi’
Capitolo 1
Una storia della governamentalità 3
Capitolo 2
Governo e resistenza 235
Capitolo 3
Governo teologico-politico-economico e soggetto 311
Capitolo 4
Verso la governamentalità contemporanea 351
Parte II
la Nuova goverNameNtalità
Capitolo 5
La governance neo-liberale 425
Bibliografia 497
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Dal pastorato al management. La via del 'governo economico' degli uomini
 9788833395135

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Luciano Fanti

DAL PASTORATO AL MANAGEMENT LA VIA DEL ‘GOVERNO ECONOMICO’ DEGLI UOMINI

Fanti, Luciano Dal pastorato al management : la via del ‘governo economico’ degli uomini / Luciano Fanti. - Pisa : Pisa university press, 2021. 330.01 (23.) 1. Economia - Teorie 2. Governo - Filosofia politica CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa

© Copyright 2021 by Pisa University Press srl Società con socio unico Università di Pisa Capitale Sociale Euro 20.000,00 i.v. - Partita IVA 02047370503 Sede legale: Lungarno Pacinotti 43/44 - 56126, Pisa Tel. + 39 050 2212056 Fax + 39 050 2212945 e-mail: [email protected] www.pisauniversitypress.it

ISBN 978-88-3339-513-5 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi – Centro Licenze e Autorizzazione per le Riproduzioni Editoriali – Corso di Porta Romana, 108 – 20122 Milano – Tel. (+39) 02 89280804 – E-mail: [email protected] – Sito web: www.clearedi.org

INDICE

Introduzione

VII

Parte I Nascita e sviluppo del moderNo ‘goverNo ecoNomico degli uomiNi’ Capitolo 1

Una storia della governamentalità 1.1. Dal pastorato alla moderna governamentalità 1.2. Il pastorato cristiano e il governo del soggetto occidentale 1.3. Pastorato cristiano versus pensiero greco nella politica occidentale 1.4. Il pastorato del Grande Inquisitore 1.5. La soggettivazione del pastorato: cristianesimo e omosessualità secondo Freud 1.6. Soggettivazione e assoggettamento 1.7. Meccanismi di potere nella storia delle società occidentali: la comparazione fra sistemi legali, disciplinari e sistemi di sicurezza 1.8. Tecnologie di potere nella storia dell’Occidente nel campo penale 1.9. Tecnologie di potere nella storia dell’Occidente: il trattamento delle malattie 1.10. Fra regno e governo, fra Dio e ragione: la ragione di governo della sovranità e la ragion di Stato 1.11. Il nuovo modo di governo: da Machiavelli alla ragion di Stato 1.12. La ragion di Stato: strumenti e polizia 1.13. I ‘saperi’ del governo degli uomini nell’evoluzione storica 1.14. La popolazione e il governo 1.15. Foucault e il liberalismo economico 1.16. Rischio, incertezza, probabilità e odierna governamentalità

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IV

Dal pastorato al management

Capitolo 2

Governo e resistenza

235

2.1. La politica e le contro-condotte anti-pastorali dal Medioevo al moderno capitalismo 2.2. Lo spirito dello gnosticismo all’origine di ogni contro-condotta 2.3. Illuminismo e Rivoluzione: dalle idee alle azioni

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Capitolo 3

Governo teologico-politico-economico e soggetto

311

3.1. La macchina del governo teologico-politico-economico e l’uomo 3.2. La persona divina e il paradigma “economico” 3.3. Il dispositivo e l’eredità teologica 3.4. Caratteristiche della macchina teologico-politica 3.5. Personalizzazione in relazione a religione, politica ed economia 3.6. Persona e soggetto: i filosofi nella macchina teologico-politica 3.7. Teorie “maledette” dell’impersonalità divina e umana

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Capitolo 4

Verso la governamentalità contemporanea 4.1. Le ‘dicotomie’ foucaultiane nell’affermazione dell’odierna politica neo-liberale 4.2. Il mercato come “luogo di verità” 4.3. L’odierna governamentalità neoliberale e i suoi caratteri distintivi 4.4. Una figura letteraria di controcondotta 4.5. L’attuale macchina capitalistica secondo la psicanalisi 4.6. Psicopolitica come evoluzione della biopolitica 4.7. Le evidenze governamentali di un documento dell’Unione Europea sulla normazione

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Parte II la Nuova goverNameNtalità Capitolo 5

La governance neo-liberale

425

5.1. Dal government liberale alla governance 5.2. La narrazione della governance 5.3. Governance, democrazia e sovranità 5.4. La “corporate governance” come matrice generale

425 436 445 456

Indice

V

5.5. La governance neo-liberale e la creazione di un nuovo soggetto economico 5.6. La “buona” governance 5.7. La governance come neo-corporativismo 5.8. La Commissione Trilaterale e la governance 5.9. Governance e sicurezza 5.10. Cenni ad una tecnica di governance della Unione Europea

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Bibliografia

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INTRODUZIONE

Questo libro si propone di offrire elementi interpretativi della nascita e dello sviluppo del moderno ‘governo economico degli uomini’. Che l’economia sia al governo o che il governo operi attraverso e per l’economia sono quasi ovvietà generalmente condivise da molti e da molto tempo. Tuttavia, meno evidente è la ricerca genealogica che possa gettare luce sui perché di ciò che appare così scontato fino al punto di tarpare ogni interrogazione in merito all’esistente. Probabilmente si tratta, se visto nella sua declinazione attuale, del primo tipo di governo nella storia, che, in una sonnolenza impensabile del pensiero critico, appare senza alternative; e l’esistente così “economicamente” governato sembra l’unico futuro pensabile. Il discorso di Michel Foucault sulla storia del potere occidentale, pur percorso dalle tensioni, ambiguità e trasformazioni che il concetto di potere subisce nell’evoluzione temporale del suo pensiero, e che risultano accentuate soprattutto nei suoi interpreti di diversa provenienza, offre spunti più che illuminanti per la nostra ricostruzione. Ad esso ci si ispira in buona parte per la rivisitazione della storia del governo degli uomini nella società occidentale, fino ad arrivare alla contemporaneità. Va inteso, ovviamente, che i quasi quarant’anni successivi alla morte del filosofo francese nel 1984, nei quali si è ancor di più affermato il governo economico degli uomini, possono ancora essere illuminati dagli sprazzi delle sue spesso preconizzanti idee, ma richiedono anche sia nuove forme di interrogazione che la considerazione di nuovi aspetti. Sebbene in una prima parte del lavoro si descrivano in modo ampio i risultati raggiunti da Foucault nella sua analisi, non si tratta di una ricostruzione filologica del suo discorso. Nondimeno, per minimizzare l’effetto distorsivo che potrebbero avere criteri di valutazione propri dell’autore, si dà nel libro ampio spazio

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Dal pastorato al management

ai testi del filosofo francese e a quelli di alcuni suoi accurati commentatori (come anche, in genere, a quelli degli altri noti pensatori che abbiamo chiamato in causa), sostenendo la nostra ricostruzione della storia del governo economico degli uomini con riferimenti dettagliati e, spesso, con la citazione di lunghi brani. L’analisi non deve mirare alla interpretazione del presente alla luce del passato, oppure anche, anacronisticamente, del passato alla luce del presente, ma deve usare lo sforzo congiunto dei saperi per una ontologia dell’attualità, ovvero, per dirla con Foucault (2009), per “la storia delle condizioni di possibilità della nostra esperienza attuale”: si tratta della domanda sul momento presente, sul suo senso e sulla sua direzione, sul chi siamo e sul chi stiamo diventando, allo scopo non di osservarlo eruditamente per farne una diagnosi, ma di essere nell’attualità, intesa kantianamente come il tempo dell’atto, dell’azione creativa, della interruzione e rottura del presente. All’attualità intesa in questo senso tenta, infatti, di accedere questo libro, ripercorrendo la genealogia foucaultiana del governo, da un lato, e la storia delle resistenze al medesimo (seguendo in parte le suggestioni di Eric Voegelin), dall’altro lato, ma non trascurando la recente indagine sulla macchina del governo teologico-politico-economico per approdare, infine, alla riflessione sulle odierne forme di governo. Seguendo l’idea che i saperi debbano essere usati per rendere intelligibile l’attuale, una chiave per farlo è lo scavo genealogico di ciò che nell’attuale si mostra come una forma tanto inesorabilmente dominante da apparire ovvia, vale a dire il governo economico degli uomini. Riferendosi anche in questo caso al pensiero di Foucault, riteniamo che l’attività del ricercatore debba far «uso del suo sapere, della sua competenza, del suo rapporto con la verità» tenendo conto anche del senso politico che è sempre implicato in quello professionale, sebbene il suo compito non sia tanto quella di detenere verità da contrapporre ad altre, quanto, nel proprio specifico, di essere consapevoli che «la verità non è al di fuori del potere, né senza potere», e che il potere esercita la politica della verità, il che significa che il potere non solo pone i criteri per la verità, ma decide anche chi può parlare e in che modo può farlo; vale a dire, come scrive Bernini (2008, 6) commentando il pensiero di Foucau-

Introduzione

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lt, che «nelle società come le nostre, ad esempio, la verità prende soprattutto la forma del discorso scientifico, circola in apparati di educazione e informazione, ed è sottomessa al controllo della stampa, dei mass-media, degli organismi giudiziari e polizieschi, delle università». In questo senso va intesa la motivazione della ricerca in Foucault, il quale non ambisce ad offrire vecchie o nuove verità, ma a svolgere «un’analisi dettagliata dei rapporti che sussistono tra forme di sapere specifiche e specifiche forme di potere, con l’intenzione di fornire a chi è governato strumenti critici utili alla resistenza contro chi governa» (Bernini, 2008, 6). Qui desidero adesso ripercorrere soltanto alcuni temi tipici dell’analisi del governo sviluppata nel libro, a partire dal potere pastorale e dal suo ruolo più o meno indirettamente politico. Due caratteristiche delineano le specificità della politica, da un lato, e del pastorato religioso dall’altro. Peculiarità della politica è relazionare l’individuo e l’insieme generico degli individui ‒ la moltitudine ‒ componendoli, classicamente, nello spazio della città e nella formazione della cittadinanza, e, più modernamente, nel quadro giuridico unitario dello stato. Peculiarità del pastorato è il focus sulla vita degli individui, l’attenzione alla conservazione, durata, miglioria, comportamento della vita di tutti e di ciascuno (omnes et singulatim). In questa duplice direzione, totalizzante e individualizzante, si è orientato il potere occidentale, anche nella sua forma moderna. Se, da un lato, sembrerebbe ovvio osservare che il potere politico occidentale si è evoluto con la nascita dello Stato, con la sua amministrazione e la sua burocrazia, in direzione di una maggiore centralizzazione, in realtà, dall’altro lato, si debbono considerare gli sviluppi delle tecniche di potere orientate verso gli individui e destinate a guidarli in modo continuo e permanente. Allora, detto in soldoni, il pastorato apparirebbe come il potere individualizzante e lo Stato come il potere totalizzante. La connotazione speciale, però, è che entrambi, nella declinazione del moderno governo, sono sempre rimasti correlati e combinati, e probabilmente oggi, nelle forme del governo economico neo-liberale, questa connotazione è ancora più rilevante.

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Dal pastorato al management

Nello sviluppo del modo di governo del mondo occidentale non si assiste, con l’avvento dell’era moderna, al passaggio di testimone dal potere pastorale a quello statale, ma osserviamo una evoluzione del primo nel secondo. Come fa notare Foucault, la nascita dello Stato assistenziale del XX secolo (welfare state) non è tanto il portato di cambiamenti avvenuti nel mondo che deve essere governato o di invenzioni nelle tecnologie di governo, ma è, a ben vedere, solo una delle innumerevoli varianti del rapporto adattivo tra il potere politico esercitato su dei soggetti giuridici e il potere pastorale che si esercita su degli individui viventi. L’attuale governo neoliberale, che pure si costituisce in una critica viscerale allo Stato assistenziale, è in realtà a sua volta una nuova declinazione ‒ effettivamente segnata dalle novità delle tecniche psico-politiche, della tecnologia digitale e della globalizzazione economica ‒ della relazione fra sudditanza giuridico-statale e sudditanza pastorale. Il pastorato è una tecnologia del potere. Foucault ne individua alcune fondamentali caratteristiche che lo distinguono da altre forme di potere, che lo hanno preceduto. Proviamo a sintetizzarne alcuni elementi, la cui identificazione non è solo un esercizio di analisi storica riguardo a una grande idea e a un grande potere cruciale per l’occidente, ma fornisce spunti illuminanti per fare emergere aspetti nascosti dell’attuale governo. Intanto, viene posta una prima cesura nelle origini: il pastorato non nasce nel mondo classico greco-romano ma nella matrice giudaica. Una seconda cesura sta in alcune distintive peculiarità del pastorato cristiano anche rispetto a tale matrice. Riguardo alla prima cesura, osserviamo che la metafora del gregge per rappresentare la moltitudine è tipica delle società orientali antiche (Egitto come Giudea) e pressoché sconosciuta alla civiltà politica greco-romana. Tale metafora è sviluppata specialmente nella civiltà ebraica, con la singolare peculiarità che il pastore di quel popolo è il Dio medesimo. In contrasto con il pensiero politico greco, va osservato che: i) il potere pastorale riguarda un gregge in movimento (in cerca della terra promessa) e non una città e una terra; ii) il popolo come gregge significa una moltitudine di individui dispersi che solo il fischio e il vincastro del pastore tengono riuniti; in assenza di esso ‒ di Mosè ‒ il gregge si disperde, mentre in assenza del

Introduzione

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legislatore greco – di Solone ‒ rimangono pur sempre la legge e la città; iii) la modalità di salvezza del pastorato implica che il pastore ‒ al contrario del capo greco che tiene la città lontano dal pericolo quando questo si approssima, come il timoniere di una nave la tiene lontano dagli scogli nella procella ‒ agisca con benevolenza costante (giorno dopo giorno deve nutrire il gregge), individualizzata (Mosè deve salvare ciascuna pecora e persino lasciare il gregge per andare alla ricerca di una sola pecora smarrita) e finalizzata (l’obiettivo per il suo gregge è il pascolo grasso, il sicuro ricovero e in ultimo la terra promessa); iv) la modalità di azione del pastore è la dedizione, la veglia, l’umiltà mentre quella del capo greco è la ricerca della gloria. Rispetto alla seconda cesura, vi è, infatti, da parte del cristianesimo una specifica declinazione dei temi ebraici del pastorato, dei quali vengono evidenziati o generati nuovi aspetti. Il primo riguarda il concetto di responsabilità, che ‒ sulla base dell’assunzione della medesima da parte del pastore per l’intero gregge e per ogni pecora, responsabilità per la quale deve rendere conto di ogni azione che esse compiono o che subiscono e da cui dipende anche la sua salvezza ‒ introduce «tra ogni pecora e il suo pastore, uno scambio e una circolazione complessa di meriti e di peccati». Il secondo aspetto attiene al concetto di obbedienza, che ‒ modificando quello ebraico in cui Dio è il pastore e il gregge lo segue obbedendo alla sua legge ‒ concepisce il legame tra il pastore e la sua pecora come una sottomissione individuale totale, in cui la pecora adempie alla volontà del pastore soltanto perché questa è la sua volontà e non perché esprima la legge. Foucault ricorda come, per esempio, nelle Istituzioni dei Cenobiti di Cassiano abbondino gli esempi dove il monaco trova la sua salvezza eseguendo gli ordini più assurdi del suo superiore, mentre un greco avrebbe obbedito solo alla legge o, al limite, alla persuasione razionale circoscritta al raggiungimento di uno scopo (ad esempio, obbedire al medico esperto per guarire da una malattia). Il che può anche essere interpretato dicendo che per il pensiero cristiano l’obbedienza è una virtù da praticare costantemente per tutta la vita, cioè un fine in sé, mentre per il pensiero greco è solo un mezzo provvisorio per raggiungere un certo fine. La radicale distinzione nel significato di obbedienza la si ritrova nell’uso del

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Dal pastorato al management

termine apàtheia, che nel cristianesimo indica l’obbedienza intesa nel senso di liberazione dal pathos, a sua volta inteso come la forza di volontà esercitata su di sé e per sé, mentre per i greci denota il controllo razionale delle proprie passioni. Il terzo aspetto peculiare inerisce al concetto di conoscenza, che nel pastorato cristiano è individualizzata, specifica per ogni pecora, della quale si devono conoscere in dettaglio i bisogni, le azioni o i peccati pubblici, e, soprattutto, l’intimità o i peccati segreti; questo avviene attraverso la trasformazione di due strumenti essenziali, l’esame di coscienza e la direzione di coscienza, che pure pitagorici, stoici ed epicurei già utilizzavano, ma solo per progredire nella padronanza di sé e delle proprie passioni e non per essere denudati nell’intimità mentale ed eterodiretti in ogni istante nell’agire. Infine, il quarto aspetto si riferisce al concetto di mortificazione, di rinuncia a questo mondo e a se stessi, a cui induce il potere pastorale attraverso le tecniche di esame, di confessione, di direzione e di obbedienza, che è del tutto diverso dal sacrificio per la polis richiesto dal potere politico greco. È il Cristianesimo che fa di queste sue peculiarità distintive l’importante ingrediente del potere politico dal Medioevo alla contemporaneità. La creazione del soggetto occidentale avviene attraverso il pastorato. Se il soggetto veniva in precedenza identificato per status sociale, natali e valore delle azioni compiute, col pastorato il soggetto è misurato tramite una graduatoria ininterrotta e mutevole di meriti e demeriti, ovvero dei suoi pregi e difetti stabiliti da una analisi continuativa per la vita e inappellabilmente fatta da altri; non conta più la sua padronanza di sé e la sua capacità di azione distintiva nella gerarchia sociale, ma, al contrario, contano l’annichilimento del suo ego e la sua appartenenza a una rete di servilismi, a un campo di servitù generalizzata; infine, la verità del soggetto non consiste più nelle sue buone o cattive azioni esterne, vale a dire una verità oggettiva, ma in ciò che vi è in esso di profondo e intimo che possa venire estratto, tramite l’esame di coscienza e la confessione. È quella che Foucault chiama creazione del soggetto, dell’individuo, tramite “assoggettamento”. Queste caratteristiche del governo pastorale risuoneranno anche in quelle dell’odierna governance, quale modalità di governo de-politicizzato ispirata al management aziendale.

Introduzione

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In particolare, risulta interessante analizzare la tipologia di Pastore impersonificata dal Grande Inquisitore dostoevskiano, che sembra, con la misteriosa potenza della letteratura, già delineare aspetti contemporanei del modo di governo imbricati nel modello pastorale, e preconizzare le brillanti osservazioni foucaultiane. Non è difficile pensare, quando l’Inquisitore parla di come organizzare la vita degli uomini nel tempo libero attraverso “giochi infantili”, anche alle teorie neo-liberali del soggetto consumatore-produttore di soddisfazione (e oggetto dei big data per il capitalismo digitale e di sorveglianza) mentre digita sui cellulari nei social network. Ma il racconto dostoevskiano mostra anche un modello possibile di resistenza alla seduzione del potere pastorale-governamentale: nel drammatico confronto fra l’Inquisitore e Gesù, il gesto di quest’ultimo sembra prefigurare un ambito di libertà in cui si infrangono la razionalità politica e la logica economica del pastorato. Inoltre, Freud, in una parte poco nota della sua lettura dell’opera di Dostoevskij, compie, sviluppando ulteriormente la sua analisi teoretica delle origini e dei fondamenti delle religioni, e della civiltà, uno straordinario excursus sulla omosessualità e sul cristianesimo, in cui a quest’ultimo è attribuito un fondamentale meccanismo di conciliazione delle tendenze antitetiche presenti nell’essere umano, per natura bisessuale; questo meccanismo intrinseco al cristianesimo potrebbe fornire la soluzione al conflitto psichico più grave con il quale deve lottare l’uomo, e questo suggerimento di Freud potrebbe anche costituire, secondo noi, un ulteriore tassello per spiegare come il pastorato religioso sia risultato superiore quale modalità millenaria di condotta degli uomini. Foucault non nasconde persino un certo stupore nel constatare che solo le società occidentali cristianizzate hanno creato un fenomeno assolutamente singolare nel corso della storia, una «strana tecnologia del potere che tratta come un gregge la stragrande maggioranza degli uomini tramite un pugno di pastori» e stabilendo di conseguenza «tra gli uomini una serie di rapporti complessi, continui e paradossali». Forse una sorpresa ancora maggiore la si può manifestare di fronte al paradosso osservato da Foucault, per cui l’uomo occidentale, che ha prodotto una civiltà tanto evoluta e dominante,

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non sia altro che una pecora, e tutta la sua presunta grandezza politica, che si è manifestata nei secoli nel cangiare di idee, teorie e sistemi politici apparentemente geniali e razionali, non sia altro che un «affare da ovili». Ciò che vogliamo sottolineare è che la singolare relazione «tra la sottomissione totale, la conoscenza di sé e la confessione a qualcun altro», insorta col potere pastorale, è ancora del tutto presente nell’odierna governance e nell’odierno management. Una nuova razionalità politica si afferma con la nascita degli stati nazionali, in cui la novità emergente è l’abbandono del modello dell’arte di governo tomistico-medievale, che cerca di riprodurre in terra le leggi che Dio ha imposto alla natura e agli uomini e che ha per obiettivo il raggiungimento della beatitudine celeste. A questo modello ‒ cioè ad un’arte di governo basata sul rispetto delle leggi divine o naturali ed essenzialmente sul concetto di “giusto” ‒ si sostituisce quello della ragion di Stato, ovvero un governo razionale con gli obiettivi di accrescere la potenza dello Stato, la difesa e l’accrescimento quantitativo e qualitativo della nazione e in particolare di accrescere la popolazione ‒ e, quindi, il lavoro, la ricchezza e la potenza dello Stato stesso ‒ in un quadro di espansione e di competizione con gli altri stati (si pensi al contesto post-vestfaliano). Nella ragion di Stato si formano un particolare tipo di conoscenza legata allo sviluppo di ciò che allora fu chiamata statistica o aritmetica politica, necessaria per conoscere esattamente e rigorosamente sia la potenza dello Stato che la forza e la capacità degli altri Stati, e una particolare tecnologia di potere, che, Foucault, denota nel termine inglobante di polizia, sulla base di una vasta documentazione del ‘600 e ‘700; da questa emerge che sono gli italiani e i tedeschi (i teorici della Cameralistica e della Polizeiwissenschaft) ‒ cioè, paradossalmente, quelli più in ritardo nella nascita degli Stati nazionali ‒ a fornire le più importanti speculazioni sul tema dello Stato. La polizia si occupa di tutto ciò che riguarda uomini, cose e territorio, ma, soprattutto gli uomini nelle loro attività comuni (coesistenza, proprietà, lavoro, produzione, scambio) e nei loro modi di vivere, nascere e morire (malattie e incidenti compresi). La Polizeiwissenschaft ‒ ci dice Foucault ‒ è sia

Introduzione

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al tempo stesso un’arte di governo che una tecnica per analizzare una popolazione che vive in un territorio. Poiché la vita umana è divenuta spersonalizzata e “biologizzata”, la polizia si incarica di individualizzare l’intervento sui governati presi in cura tutti insieme e uno per uno. Al termine dell’excursus sulla storia del governo degli uomini dal primo cristianesimo all’avvento degli stati nazionali, ci piace riportare l’affermazione di Foucault che, ben lontane da quanto avrebbero potuto immaginare i Greci e gli Ebrei, «le nostre società si sono rivelate veramente demoniache da quando sono riuscite a combinare questi due giochi — il gioco città-cittadino e il gioco pastore-gregge ‒ in ciò che noi chiamiamo gli Stati moderni». Foucault ha anche il merito di stabilire un certo legame fra i mutamenti dell’arte di governo e la storia del capitalismo. Questo legame può avere anche direzioni reciproche (smentendo il noto legame marxiano di univoca dipendenza della sovrastruttura dalla struttura economica) oppure, come forse sembra credere Foucault, è probabile che i fenomeni connessi a quest’arte di governo abbiano una origine molteplice e si siano poi organizzati e inseriti in una traiettoria storica, cioè, in altre parole, la borghesia più che essere la intenzionale produttrice dei medesimi ne ha approfittato per volgerli a suo favore. Foucault discute, come esempio, l’apparizione dell’interesse per l’educazione, il corpo, la salute, con le connesse tecnologie di potere quali la medicalizzazione e le varie discipline, ritenendo che questo interesse abbia origine in tempi diversi e si sviluppi per canali vari, ma che alla fine, però, divenga un interesse cruciale del capitalismo. Foucault (2001) ci racconta come inizialmente la borghesia si fosse occupata della salute e della normalità per se stessa, per la sua discendenza, per i suoi figli, per chi faceva parte del suo ambiente, al fine della sua salvezza e dell’affermazione della sua forza, infischiandosene della salute degli operai, come testimonierebbe Marx descrivendo il «terribile massacro della classe operaia cui si è assistito in Europa all’inizio del XIX secolo, quando, in condizioni abitative spaventose, di sottoalimentazione, le persone, uomini, donne, bambini soprattutto, erano costrette a lavorare per un numero di ore per noi inconcepibile: sedici, diciassette ore al giorno di lavoro con una mortalità spaventosa». Ma, a un certo punto, la borghesia ca-

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pisce che il controllo della salute e in genere della vita biologica della popolazione (la biopolitica), già apparso come strumento di governo dello Stato moderno, è anche uno strumento di una maggiore estrazione di profitto dal lavoro. Quindi, la biopolitica vista non tanto come strumento di governo volto genericamente all’utile dello Stato, come sappiamo dalla generale descrizione foucaultiana della ragion di Stato, quanto come specifica risposta al «bisogno di conservare il più a lungo possibile gli operai che venivano utilizzati e si è compreso che era meglio far lavorare un operaio intensamente per otto, nove, dieci ore, piuttosto che ammazzarlo facendolo lavorare quattordici, quindici, sedici ore», ovvero si presta interesse al materiale umano della popolazione operaia come una risorsa preziosa da gestire efficacemente. Ma anche in altri casi Foucault sembra sostenere che non sia tanto il capitalismo a creare le opportune tecnologie di potere, ma siano queste ultime ad essere state opportunamente usate in modo strumentale dal capitalismo: nel caso delle tecnologie del potere disciplinare, Foucault (1975) ritiene che esse non siano il prodotto del rapporto capitalistico ma che il capitalismo industriale nascente le abbia fatte proprie per disciplinare il lavoro nelle fabbriche; nel caso della tecnologia del potere basata sulla sessualità, Foucault (1976) ritiene che essa inizialmente sia nata dalla borghesia che cercava di moralizzare la propria condotta e solo successivamente la borghesia ne abbia fatto uno strumento per rendere più docile la classe operaia. Ma la prestazione più feconda, per comprendere l’attualità, Foucault la offre concependo l’idea della “governamentalità”. Il passaggio al potere moderno implica almeno due spostamenti di visione generale: il primo è di natura antropologica, ovvero riguarda come il potere intenda l’uomo che è oggetto del suo esercizio, il secondo riguarda il tipo di razionalità e di logica del governo. Rispetto al primo punto viene osservato che, mentre il governo del sovrano esercitato mediante la legge si rivolgeva al genere umano, il governo moderno si rivolge alla specie umana, per cui la politica viene ad occuparsi per la prima volta dal suo interno di demografia, biologia, salute, igiene; si ha cioè un passaggio da una visione filosofico-giuridica degli individui ad una statistico-biologica dei medesimi. Annotiamo che, da un punto

Introduzione

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di vista epistemologico e culturale, il progressivo avvicinamento tra la vita umana e quella animale, implicito nella visione “biologista”, ha significato anche rivolgere l’attenzione ai meccanismi biologici dell’autoregolazione e dell’equilibrio omeostatico, ai quali, prima, si riferiranno sia Hume che i fisiocratici e dai quali, due secoli dopo, nasceranno le teorie neo-liberali di Hayek sul mercato e sulla conoscenza. Rispetto al secondo punto, la moderna arte di governo ‒ ci dice Foucault ‒ introduce un nuovo tipo di razionalità, che era estraneo al precedente approccio giuridico-sovrano, cioè quello della ragione calcolante dell’economia, per cui, a suo parere, nella modernità «la posta in gioco fondamentale del governo è l’introduzione dell’economia all’interno dell’esercizio politico». Si tratta di un nuovo pensiero politico in cui il governo non ricerca più il giusto e il bello trascendente, ma l’utile. D’ora in poi potremmo dire che non più la legittimità o l’illegittimità, ma il successo o il fallimento, siano il criterio con cui giudicare l’azione di governo, criterio del tutto esasperato nel potere attuale inteso come governance. Se l’arte di governo affermatasi nel post-Rinascimento introduce le tecniche disciplinari a sovrastare quelle giuridico-sovrane, con quel cruciale snodo del moderno che è l’illuminismo entra in gioco la nozione di “governamentalità”, ancora oggi rilevante, in cui si realizza una intersezione triangolare fra sovranità, disciplina e governo. La sua definizione, data da Foucault, quale «l’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha 1) nella popolazione il bersaglio principale, 2) nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e 3) nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale», mostra una nuova razionalità politica in cui l’aspetto del “governo”, coi suoi dispositivi e i suoi saperi (in primis l’economia), viene in primo piano rispetto a quelli della sovranità e della disciplina. La nuova razionalità è del tutto immanente alla società (ed indifferente alle ragioni e alla legittimità “superiori” del suo operare) e con essa, come sintetizza Chignola (2006), cambia il significato del governo: governare non significa dare imposizioni al

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soggetto bensì significa condurre, orientare, in particolare indirizzare le condotte e i comportamenti dei soggetti ‒ postulati come liberi di agire e di muoversi ‒ verso finalità assunte come convenienti, regolandoli in modo sia individuale che generale. Si tratta di un’arte del governo dolce, oblativa, omnes et singulatim, non coattiva, immanente alla società che eredita l’arte del governo pastorale. Dalla Chiesa al cameralismo, dalla Polizei all’economia politica, la tecnica del potere pastorale permane con le sue radici profonde tanto nelle istituzioni del Welfare state e nel keynesismo del XX secolo, quanto nel suo dichiarato nemico ‒ il connubio fra ordoliberalismo teutonico e neoliberalismo austro-americano ‒ dominante in questo primo XXI secolo. Gli attuali invasivi schemi regolativi, propri sia della sussunzione al mercato di ogni cosa e della formazione di ciascun individuo come impresa/capitale umano che delle modalità di governo manageriale della governance, risentono della matrice pastorale probabilmente più di ogni altro precedente modo di governo. Aldilà dell’invenzione del concetto della governamentalità, quale sia la vera visione del potere secondo Foucault è stato da sempre oggetto di dibattito accademico; sembra comunque accertato che, per Foucault, sia del tutto inutile e di parte la ricerca di fondamenti e legittimazioni di valore universale dell’ordine politico, mentre sia feconda l’analisi di come opera e funziona concretamente il potere (anche attraverso l’indagine storico-genealogica), insomma possiamo dire che egli possegga una visione pragmatica del potere. Tuttavia, noi siamo scevri dall’infilarsi nel rigoglioso sottobosco delle concezioni del potere iniziato forse dallo stesso Foucault e fatto crescere ‒ talvolta per incuria, talaltra per perversa coltivazione ‒ dalle miriadi di suoi commentatori. Non è questione importante sapere se il potere sia conflittualità forte oppure debole, sia conflitto oppure agonismo, sia irrazionale o razionale, ecc. Quel che ci pare indubbio è che esso sia sempre conflitto all’interno dello schema governanti-governati, anche quando nella sua azione di “condotta” delle azioni altrui privilegia forme “dolci” ‒ come nel pastorato religioso ‒, forme coercitive ‒ come nell’approccio disciplinare ‒, forme di razionalità strumentale, sotto il sapere delle dottrine economiche, applicate

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anche all’azione dei governati ‒ come nell’approccio prettamente “economico” (management) della governamentalità moderna ‒, forme di soggettivazione assoggettanti ‒ di servitù volontarie ‒ nell’odierno approccio “psicopolitico”. Va comunque notato che privilegiare l’interpretazione del potere in senso microfisico, plurale, locale ecc. ha una conseguenza in termini di storia e di lotta politica. Se il potere è diffuso ed effonde aldilà delle istituzioni politiche centrali (p.e. lo Stato), allora anche per i governati cambiano il senso e l’insieme di obiettivi della opposizione al governo: non c’è più il potere ‒ idea universale ‒ da conquistare in nome della giustizia e libertà ‒ idea universale ‒, e quindi non esiste un atto ultimo della lotta al potere ‒ se non altro perché se quest’ultimo non si trova più solo negli apparati statali ma è diffuso in tutta la società, allora il rivoluzionario (p.e. la classe operaia), anche assumendo il controllo dello stato, non potrebbe ottenere il potere. Allora, se è impraticabile la lotta finale per il potere unico e centrale, le opzioni si restringono (o si allargano) alla resistenza contro i vari poteri diffusi in vari ambiti sociali per perseguire alcune libertà pragmatiche, e tale resistenza è continuativa e senza un termine. Sebbene si tenda a ritenere prevalente in Foucault l’idea del potere diffuso, plurale e microfisico e, di conseguenza, la negazione della tesi che il potere si strutturi nei termini di una distinzione univoca fra dominanti e dominati, noi pensiamo che la governamentalità di Foucault esprima un potere pervasivo ed oppressivo dove i governanti, chiunque siano, sono sempre distinti e dominanti sui governati. Il fatto che il potere governamentale sia dolce non significa che sia neutrale, come lo sarebbe nel caso che anche i governati avessero il governo di altri individui, magari in ambiti diversi da quelli in cui sono governati (idea di neutralità del potere che può comparire nella visione apologetica della governance). Gli esempi dello scambio contrattuale fra venditore e acquirente in un contesto concorrenziale o della relazione sado-masochistica possono rappresentare l’idea di un potere neutrale, diffuso, cangiante, reversibile (a seconda dei punti di osservazione, A ha potere su B e B ha potere su A); appare chiaro che invece sarebbe difficile applicare questi esempi al potere capitalistico, alla relazione di classe capitale-lavoro, in cui il dominio unidirezionale e irreversibile dell’uno sugli altri è invece intrinseco, sebbene

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nelle indagini più sottilmente filosofiche del potere (compreso le vastissime implicazioni della relazione hegeliana servo-padrone) gli aspetti univoci del dominio possano apparire sfumati. Possiamo dire, secondo una nostra sintesi, che il potere è, in genere, esercizio più che solo potestà, e che l’esercizio di potere basilare è la conduzione degli uomini in società; l’esercizio del potere di conduzione richiede ‒ ed è definito da ‒ un dispositivo o da una combinazione dei medesimi, in cui appaiono sia aspetti relazionali (reti e interazioni con nodi cruciali fra istituzioni e fra individui) sia aspetti di sapere-potere sia aspetti di soggettivazione/assoggettamento. Di questi aspetti, poi, i differenti commentatori sottolineeranno quello che più è conforme alle proprie ideologie: per esempio, privilegeranno l’aspetto relazionale del potere sia il commentatore liberale ‒ perché esso elude le questioni del potere sovrano e statale ‒ sia il commentatore neo-liberale ‒ perché vi trova corrispondenza col potere diffuso del mercato e della concorrenza ‒ ed entrambi lo faranno anche perché sanno che tale aspetto occulta la realtà del potere capitalistico. Foucault ha sicuramente il merito di aver identificato già negli anni settanta la cifra stilistica del nuovo potere neo-ordoliberale, la sua caratteristica di governo economico degli uomini genealogicamente tanto affondato nel cristianesimo, quanto emergente dalla crisi del novecento, dalla crisi del capitalismo che doveva essere salvato e rafforzato di fronte ai contro-poteri del comunismo e, seppure più transeunte, del nazionalsocialismo nonché del keynesismo, che di questi ultimi era ritenuto un più o meno inconsapevole battistrada. In questo, Foucault, a differenza degli economisti ‒ che erano, al suo tempo, presi nel confronto fra il tardo keynesismo al tramonto e i primi fuochi delle aspettative razionali con lo snaturamento della tradizione macroeoconomica attraverso l’innesto del paradigma microeconomico, e che, in maggioranza, sono a tutt’oggi ignari, nel loro sempre maggiore baloccarsi con modellini-giocattolo, della loro origine e del loro ruolo ‒ aveva già individuato nei semi dell’ordoliberalismo tedesco e nell’economia austriaca degli anni trenta, da un lato, e della scuola di Chicago del dopoguerra, dall’altro lato, le radici di sapere-potere al cuore della tipologia di governamentalità che caratterizza l’odierno regime neo-ordoliberale dominante in gran parte dell’occidente.

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Quindi, il contributo cruciale di Foucault rispetto al potere può essere riassunto nel concetto di governamentalità; e ci apparirebbe lesivo della fecondità della lezione di Foucault, il perdersi nel discettare sulle sue pur variate nozioni di potere1. Più che la nozione di potere, ci appare proficuo considerare la storia del potere politico. Per Foucault la politica è sicuramente conflittuale, ma, egli precisa, non è definita dalla contrapposizione fondante amico-nemico come in Carl Schmitt, ma nasce, e quindi si definisce, con la prima resistenza alla governamentalità, vale a dire, la politica è il fronteggiarsi fra la condotta di governo e la resistenza alla medesima (o controcondotta). Dove non c’è controcondotta non c’è politica, e se non c’è politica non c’è storia. Si può leggere così l’enfatica sottolineatura della “fine della storia”, da parte dei pensatori neoliberali, al termine del vittorioso confronto con il socialismo reale e con la conclamata sparizione della sovranità (statale, ma anche paterna e così via) insita nella globalizzazione e nella desoggettivazione identitaria, giustificata dall’affermazione di un regime di condotta senza più resistenza: niente resistenza, niente politica, niente storia. Quindi, ci suggerisce Foucault, alla storia della ragione governamentale si accompagna necessariamente la storia delle controcondotte che le hanno posto resistenza. La storia è lo svolgersi della relazione fra governamentalità (la condotta) e resistenza ad essa. Che il confronto sia dialettico (per successivi confronti risolti in terzi sintetici) o rimanga ineliminabilmente dualistico (anche se sotto camuffate vesti che potrebbero apparire incautamente come momenti di sintesi di un precedente confronto) è questione importante. L’interpretazione che vede la storia come una persistente, per non dire eterna (fino alla fine dei tempi) contrapposizione fra condotta e controcondotta ‒ quindi senza superamenti e tendenze al progresso ‒ finisce per cadere nella tentazione di leggere la storia stessa come conflitto fra l’ordine naturale tradizionale (la condotta) e il disordine dello gnosticismo (la controcondotta) all’interno di uno schema

1 Ad esempio, Fraser (1981, 286) afferma seccamente che «Foucault chiama col termine potere troppo differenti tipologie di cose».

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implicitamente apocalittico (a cui apparterrebbero tanto Gioacchino da Fiore quanto Marx, Comte e Freud), come quello risalente a Voegelin, di cui offriamo una nostra lettura nel secondo capitolo. Evocando il mito gnostico antico e fondendolo con i movimenti politici rivoluzionari dell’ordine esistente, Voegelin individua in quella corrente spirituale di pensiero (che ovviamente, per lui, sostanzialmente cattolico conservatore, è uno “spirito malato”) il motore del “progresso” distruttivo dell’ordine; noi, muniti della lente di lettura foucaultiana, potremmo definire il mito gnostico perenne come il motore della dicotomia fra condotta ‒ vale a dire le varianti, nei secoli aggiornate, del governo economico degli uomini ‒ e controcondotta, di quella dicotomia che, per Foucault, è origine della politica e della storia. Anche la crisi del capitalismo è, quindi, per Voegelin, una crisi esclusivamente di ordine spirituale, perché sono le idee e i complessi simbolici ‒ da indagare e comprendere nel loro profondo sottosuolo spirituale ‒ che muovono le risposte esistenziali. La dicotomia è, espressa in estrema sintesi, fra l’ordine dell’essere platonico e cristiano e la negazione gnostica di quell’ordine e di quell’essere. Qui appare una forte semplificazione ma anche una illuminazione del concetto di potere nel mondo occidentale, indagato da Foucault. Come dice Jonas, lo gnosticismo riduce il mondo a «un sistema di potere che può essere superato solo attraverso il potere» ed è l’«arma magica della conoscenza (gnosi)», rivelata dall’irruzione messianica nel cosmo malvagio che intrappola le anime, ad aprire a quest’ultime le vie della liberazione. Il ruolo dell’economia nel governo attuale è ovviamente primario, e ancora una volta è stato Foucault ad evidenziarlo in modo profondo, affrontando le più recenti teorie dei Nobel neo-liberali e ricollegandole, prive della asettica maschera formalizzata, a temi etici, antropologici e politici. Se il liberalismo classico rivendicava la preminenza di uno spazio di libertà economica ma riconosceva la necessità di porla in qualche modo sotto la sorveglianza statale, con il neo-ordoli-

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beralismo2 il problema viene esattamente rovesciato. Nell’analisi neo-ordoliberale si crea, secondo la brillante metafora di Foucault, «uno stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato». Con i neo-ordoliberali si affermano due principi: i) la libertà di mercato come principio organizzatore e regolatore dello stato, ii) il mercato non si definisce più sulla base dello scambio ma sulla base della concorrenza. Quindi la concorrenza ‒ intesa come principio formalizzante con una sua logica ed una sua struttura interna ‒ costituisce un modello per governare lo stato e la società, modello che necessita di condizioni artificiali da costruire appositamente attraverso una politica niente affatto passiva ma costantemente attiva, senza la quale la concorrenza non potrebbe praticamente funzionare. Il governo nell’ottica neo-ordoliberale, deve costruire e proteggere il modello concorrenziale e il mercato diventa il comandamento a cui si devono attenere tutte le azioni del governo, vale a dire, ancora secondo la metaforica foucaultiana «si dovrà governare per il mercato, piuttosto che governare a causa del mercato». Tuttavia notiamo una differenza interna fra ordoliberali teutonici e neo-liberali americani. Mentre l’ordoliberalismo tedesco, dalle radici ancorate nel cristianesimo, mantiene una certa attenzione ai valori sociali tradizionali (comunità territoriale, famiglia, ecc..) ritenendoli efficaci nell’eliminare la coscienza di classe dei lavoratori, i neoliberali americani compiono il passo in avanti consistente nella riduzione alla logica economica di tutti i campi privati e pubblici non-economici (famiglia, procreazione, salute, diritto, elezioni, servizi e istituzioni pubbliche), ma soprattutto il lavoro. Per i neoliberali americani il lavoro viene concettualmente deformato rispetto all’economia politica classica e keynesiana, e trasformato nel suo opposto, il capitale. Foucault prende in esame criticamente le teorie di Theodore Schultz e Gary Becker, diffusesi tra gli anni Cinquanta e Settanta

2 Neo-ordoliberalismo è un termine usato in Conti e Fanti (2020) per significare la uniformità, soprattutto in tema di obiettivi politici, del pensiero ordoliberale tedesco (la Scuola di Friburgo) e di quello neoliberale austriaco (la Scuola austriaca di Hayek e von Mises) e americano (la Scuola di Chicago).

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dello scorso secolo, che definiscono il lavoro come capitale umano, un capitale però particolare perché indissociabile da colui che lo detiene; quindi il lavoratore è considerato una macchina, i cui componenti, in parte ereditati e in parte acquisiti, sono costituiti da talento naturale, scolarità, formazione professionale, mobilità, flessibilità, affetti, cura, tutti elementi tradizionalmente extra-economici che adesso invece sono fatti rientrare nel punto di vista economico. Se il lavoro è capitale, anche il lavoratore diventa come un’impresa in sé, l’imprenditore di sé stesso. Già questo consente di ridefinire il concetto di homo oeconomicus, che non è più l’uomo che scambia come nel contesto liberale classico del laissez-faire, ma, nella concezione neoliberale, è l’uomo imprenditore. Foucault, in maniera davvero lungimirante, prevede che la conoscenza biologica e soprattutto quella genetica diventino un rilevante problema politico, nella misura in cui la genetica permettendo, ad esempio, di misurare il rischio di patologie per ciascun individuo potrà incidere sul valore del capitale umano. Ma Foucault prende ancora in esame il pensiero neo-liberale ‒ e, in specie, Becker ‒ per la sua trasformazione del modo di considerare il crimine; a quest’ultimo oggetto di studio Becker applica, a partire dall’approccio illuminista di Beccaria e Bentham basato sull’utilitarismo, lo schema di analisi economica, per cui non si giudica più l’azione ‒ il crimine ‒ ma il criminale, inteso adesso, senza più alcun riferimento morale e psicologico, come un qualsiasi individuo che può compiere l’azione criminale, accettando il rischio di investire in un’azione che può anche procurargli una certa perdita. Più in generale, la griglia economica diviene l’unica fonte scientificamente attendibile di intelligibilità del comportamento umano, in quanto si ritiene metodologicamente che ogni condotta razionale umana ‒ intesa nel senso di un ragionamento formale di azione ottimale partendo da risorse scarse sotto fini alternativi ‒ possa essere oggetto dell’analisi economica. L’economia diventa una scienza del comportamento umano in generale. Ma Foucault è abile nel cogliere un altro aspetto poco considerato, che invece è cruciale per comprendere le modalità e il significato del governo neo-liberale come governo economico degli uomini: sempre facendo riferimento a Becker, ma non solo, l’analisi eco-

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nomica può avere, piuttosto sorprendentemente, come oggetto anche condotte che non sono razionali nel senso sopra definito. Essa può infatti essere applicata a qualsiasi condotta che risponda in maniera sistematica alle modificazioni dell’ambiente: in questo caso l’oggetto dell’analisi economica sarà l’insieme delle risposte, anche non razionali, che l’individuo può dare di fronte a mutamenti delle variabili ambientali, con l’ovvia implicazione politica che l’individuo può essere opportunamente controllato e “condotto”, controllando e modificando opportunamente le variabili ambientali. Foucault (2005, 219), seguendo queste interpretazioni, arriverà a definire la scienza economica come «la scienza della sistematicità delle risposte alle variabili dell’ambiente». Foucault individua così con chiarezza il governo degli uomini ottenuto mediante la manipolazione economica dei medesimi: gli individui sono sistematicamente “condotti” come cani ammaestrati da esperimenti pavloviani. Gli economisti neoliberali possono essere visti come ingegneri “comportamentisti” che esperimentano come “condurre”, attraverso gli stimoli, gli uomini dove si vuole, lasciandogli formalmente credere che siano loro ad agire liberamente. L’aspetto prettamente governamentale della scienza economica neo-liberale viene evidenziato dalla nuova formulazione dell’homo oeconomicus che emerge da questo approccio: quest’ultimo non è altro che «colui che accetta la realtà o che risponde sistematicamente alle variabili dell’ambiente». Nella misura in cui si scopre come l’uomo risponda sistematicamente alle modificazioni che vengono introdotte nell’ambiente, si può fare di lui un oggetto formalmente libero ma eminentemente manipolabile. Nelle parole di Foucault (2005, 219) «l’homo oeconomicus è, insomma, colui che risulta eminentemente governabile. Da partner intangibile del laissez-faire, l’homo oeconomicus appare ora come il correlato di una governamentalità che agisce sull’ambiente e modifica sistematicamente le variabili dell’ambiente». Oltre all’analisi del recente pensiero economico, centrale, e fecondo per la comprensione dell’attualità, rimane, del pensiero di Foucault, lo smascheramento del liberalismo.

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Intanto, va rilevato che Foucault è il primo a collegare ordoliberalismo tedesco e neo-liberalismo americano e a vederli, già negli anni settanta, come un unico pensiero che avrebbe caratterizzato l’odierna governamentalità. Non interessa qui domandarsi se la convergenza tra l’ordoliberalismo tedesco e il neoliberalismo anglo-sassone, adombrata ante-litteram da Foucault ed evidenziata dopo la fine del comunismo nelle pratiche di governo europee, sia giustificata su basi epistemologiche e ontologiche, né se, sostenendo tale convergenza, sia trascurato il fatto che le due scuole di pensiero hanno origini ideali e situazioni storiche diverse. Quel che conta di più è che l’ordoliberalismo tedesco e il neoliberalismo austro-americano convergono nel progetto politico che ne è al cuore, aldilà delle differenze esplicite su alcuni assunti antropologici ed etici, come sottolineato da Mirowski e Plehwe (2009) e Conti e Fanti (2020): progetto per eliminare la coscienza di classe delle masse operaie e l’influenza del marxismo e del comunismo, e salvare il capitalismo in generale (e il saggio del profitto in particolare) da una crisi piuttosto seria, appalesatasi, in forme ovviamente diverse, sia negli anni Trenta che negli anni Sessanta-Settanta del XX secolo. Tuttavia, quando, nell’attualità del XXI secolo, il capitalismo è trionfante e il marxismo solo un paragrafo dei manuali di filosofia (e quindi si potrebbe dire che dal punto di vista politico la missione è compiuta), si può osservare ‒ e studiare – finalmente nel suo ubiquo concreto applicarsi ‒ scevro dalle necessità imposte dalla “guerra fredda” ‒ tutta la specificità della governamentalità neo-liberale, che continua ad operare di fronte alla persistenza della storia, la quale non è affatto morta con il vittorioso termine della missione. In fondo, è vero che il capitalismo è stato solidamente preservato grazie alla neutralizzazione politica e all’attuale governo economico degli uomini, ma le crisi rimangono la sua intrinseca natura. Tornando allo smascheramento del liberalismo, Foucault ci racconta che nel liberalismo non si tratta, come vorrebbe il senso comune, di definire e proteggere una certa sfera di libertà privata dalle ingerenze pubbliche o criminali, e, per il resto, dedicarsi alla protezione degli interessi economici. Al contrario, il liberalismo come arte di governo ha un rapporto ambiguo con la liber-

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tà; essa non è una sfera data da proteggere, ma esiste solo nella misura in cui il governo la crea allo scopo di esercitare meglio il suo governo, e la sua creazione è direttamente proporzionale a quella dei meccanismi securitari, dominatori e repressivi, magari giustificati come correlati necessari alla libertà concessa. Foucault parla dell’arte liberale di governo come intrinsecamente connesso con un rapporto di produzione/distruzione nei confronti della libertà: da una parte si fabbrica la libertà, dall’altra parte si stabiliscono limitazioni e obblighi basati su minacce, e si estendono le procedure di controllo, di costrizione, di coercizione, come una sorta di contraccambio delle libertà, in cui, sulla bilancia, il peso dei controlli finisce tendenzialmente per superare sempre quello delle libertà. Foucault è forse il primo a far rilevare come contemporaneamente all’epoca delle libertà ‒ le libertà politiche post-illuministe e quelle economiche dell’economia politica ‒ si diffonde nella società il controllo tramite le grandi tecniche disciplinari che, in modo continuo e minutamente dettagliato, si fanno carico del comportamento degli individui: libertà politica ed economica, ovvero il liberalismo classico, sono legate a doppio filo alle tecniche disciplinari. Il pensatore paradigmatico in questo senso è Bentham, che negli anni della Rivoluzione francese, di cui era riconosciuto come partecipante onorario, inventava il metodo del panopticon attraverso il quale si sarebbe potuto sorvegliare il comportamento degli individui nelle fabbriche come nelle scuole (e ovviamente nelle istituzioni come prigioni, manicomi, ospedali e così via), accrescendo il loro rendimento e la loro produttività, tanto che Foucault ci ricorda come Bentham stesso, nei suoi tentativi di presentare progetti di codificazione generale della legislazione inglese, dicesse: «il panopticon è la formula stessa del governo liberale, perché, in fondo, che cosa deve fare un governo?». Ad insistere sulla importante specificità della governamentalità liberale ‒ ed ad attualizzarla ‒ è Agamben, per il quale gli elementi della governamentalità di Foucault devono essere interpretati in senso esteso per riuscire a cogliere l’attuale fase del potere capitalistico, e perciò si devono individuare come dispositivi di potere che “conducono” gli uomini non soltanto il Panopticon o la fabbrica, ma piuttosto la televisione, i computers, i telefoni cel-

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lulari, di cui suggerisce la “profanazione”, nel senso classico-antico del termine, come via liberatoria. Naturalmente si può opporre all’idea di una unica razionalità politica della modernità, che sostanzialmente individua uno stesso modello di governo degli uomini in tutte le sue varianti dal Rinascimento all’attualità, a sua volta erede del modello pastorale del millennio precedente ‒ e che quindi trova comuni denominatori in domini tanto differenti quali quelli della Francia del ‘600 o dell’Unione Europea del XXI secolo, dell’assolutismo o delle democrazie parlamentari ‒, l’idea liberaleggiante che politica e potere/coazione siano cose differenti, che storia della politica e storia del potere non si identifichino, anzi, al contrario, che la storia della politica sia anche ‒ vedi la tradizionale visione del liberalismo ‒ quella dei tentativi di limitare il potere e di controllarlo. Nel filone politico liberale ‒ vedi Hannah Arendt ‒ il luogo della politica è il discorso pubblico fra cittadini interagenti, e la politica non deve considerare il potere come un rapporto di dominazione, ma come possibilità ‒ vedi Jürgen Habermas ‒ di azione concertata e comune, insomma come possibilità di consenso fra soggetti, possibilità rivendicata come propria caratteristica dalla governance. Ma Foucault non si limita al riconoscimento della politica come conflitto piuttosto che come consenso. Infatti, la sua lezione spinge anche allo smascheramento del falso consenso. Intanto, il modello liberale della politica come consenso richiede soggettività libere nel loro agire discorsivo. In realtà, si può facilmente arguire che la soggettività è una creazione storica in cui il potere gioca il suo ruolo demiurgico, tanto che la soggettivazione avviene per Foucault tramite l’assoggettamento. E quest’ultimo deve essere inteso come cosa ben differente dall’imposizione di un ordine. Anzi, abbiamo assoggettamento anche nel mondo attuale, nonostante quasi nessuna imposizione gerarchica si possa più appalesare, ormai persino nemmeno nell’educazione dei bambini, vista la accertata morte del ‘padre’. Qui Foucault vede un modo di funzionare delle sfere del potere, riguardo al processo di assoggettamento, diverso da quello tradizionale o dall’imposizione dell’ordine in senso stretto, un modo che si esprime proprio, paradossalmente, in nome del consenso, della liberazione, dell’espressione personale, dell’autenticità e dei diritti ad ogni cosa,

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della presunta libertà di farsi e di intraprendere di ciascuno, e che proprio per questo il potere esprime un dominio ancor più pericoloso ‒ memore della servitù volontaria di La Boétie ‒ di quello esplicitamente gerarchico. La questione del soggetto è ovviamente cruciale (vedi par. 3.1). Non si tratta di collocarsi in una qualche posizione fra le tesi polari che vedono una pura e ineludibile costruzione sociale (da parte delle tecnologie di potere, secondo Foucault) della soggettività oppure una soggettività, al contrario, già esistente “per natura” e più o meno indipendentemente dalla vita sociale. Si tratta invece di prendere atto che il problema del soggetto ‒ affrontato dalla filosofia antica come da quella contemporanea ‒ è al cuore del governo bio-politico ed economico oggi trionfante, perché, come rivela l’analisi genealogica compiuta da Deleuze, Agamben, Esposito e altri, il soggetto come persona è al centro del funzionamento di quella macchina teologico-politico-economica che opera la condotta degli uomini; ne consegue anche che un soggetto pluralizzato ‒ cioè che sia irriducibile al singolo individuo ‒ mina alla radice tale macchina. Inoltre, del liberalismo Foucault vede, in modo lungimirante, un altro elemento costitutivo, quello della stimolazione periodica, se non continua, del timore del pericolo: «niente liberalismo senza cultura del pericolo». Nell’attualità, la scelta e la stessa definizione dell’oggetto da governare (il gruppo o la popolazione anziché il cittadino e il popolo come nelle democrazie) è fatta grazie ad un pericolo ‒ seppure solo potenziale e soprattutto anche inventato ad hoc ‒ di tipo vitale, in modo che a causa del pericolo evocato si è autorizzati a governare gli uomini; per di più, si riesce a farlo pure con successo, perché il tipo di rischio è scelto in modo che sia gestibile e il problema connesso sia risolvibile, anche perché col governo neo-liberale la legittimazione del potere avviene solo in misura del successo o del fallimento nel problem-solving e non più in base ai suoi fondamenti sovrani. Inoltre, la creazione del pericolo autorizza una più pervasiva tecnologia securitaria di governo, che può così applicare un controllo preventivo sugli uomini. La scoperta del pericolo come generatore di effetti di governo ci ha spinti anche sulla strada di interpretazione del po-

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tere governamentale come un potere “teurgico”, nella misura in cui l’aspetto probabilistico del rischio rivisita ‒ con la meccanica quantistica ‒ l’ontologia della realtà. Seguendo la suggestione di Agamben (2016), annotiamo che Majorana, nell’articolo divulgativo postumo intitolato Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali, osservava, di fronte alla rivoluzione epocale della fisica di cui coglieva inquietanti aspetti, che «il risultato di qualunque misura sembra perciò riguardare piuttosto lo stato in cui il sistema viene portato nel corso dell’esperimento stesso, che non quello inconoscibile in cui si trovava prima di essere perturbato», implicando così che la scienza, quella fisica come quella statistica dell’economia, non ha più come obiettivo la conoscenza della realtà, ma l’intervento su di essa per riuscire a governarla. Noi poniamo quindi in questione anche l’ontologia della realtà con cui si confronta il potere governamentale, a cui si può persino attribuire la teurgica creazione della realtà ai fini del suo governo. Bisogna resistere ad accettare come ovvie le due idee che sembrano sorgere dalla osservazione dell’ultima modernità: la riduzione del sentimento religioso e quindi anche delle relative pratiche pastorali a livello individuale e di massa; l’indebolimento dello stato nazionale. Il ruolo del pastore e il ruolo dello stato sono solo apparentemente svaniti. La conduzione degli uomini tramite tecniche pastorali e tecniche di polizia o ragion di Stato hanno solo assunto nuove configurazioni. La formidabile specificità dell’odierna governamentalità è nella sussunzione in forme nuove della relazione fra tecniche pastorali e tecniche di polizia, relazione già presente anche nel governo liberale tramite, per esempio le tecnologie di potere disciplinari teorizzate da Bentham. Queste nuove forme della convergenza di governo pastorale e governo statale, di cui l’odierna pervasività della governance è un segnale, sono più adeguate alle trasformazioni sopraggiunte nei profili della valorizzazione capitalistica; non solo la ben nota predominanza della finanza e della speculazione (il turbo-capitalismo finanziario), ma anche la sussunzione della vita in tutti i suoi aspetti al processo capitalistico, tanto l’uomo come capitale umano e il consumo come attività produttiva teorizzati dagli economisti di Chicago quanto l’informazione su tutti gli aspetti della

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vita connessa alle nuove tecnologie comunicative, come indagato dall’economista di Google, Hal Varian; in particolare l’economia digitale come nuova frontiera dell’espansione del capitale non più vincolato alla sola espansione spaziale. Nella II parte del volume, una particolare attenzione è stata rivolta a quella che appare la modalità di governo tipica dell’odierno neo-liberalismo, la governance, che è andata a sostituire la modalità liberale classica del government. La governance nasce nell’ambito teorico e pragmatico dell’impresa per designare la gestione, o management, della medesima. Con essa si afferma di governare in un ambiente di fiducia, trasparenza e responsabilità (termini che ricordano il governo pastorale), “coinvolgendo” e cercando il consenso di tutti coloro ‒ quindi non solo dei proprietari ‒ che sono interessati, in un qualche modo e in qualsiasi posizione ricoperta, alla vita dell’impresa (dal lavoratore al residente nei pressi dell’impresa, dal fornitore al cliente, ecc.), per ottenere non solo maggiore produttività ma anche società più inclusive, come sostengono gli sponsor mondiali della governance quali l’Ocse o l’Unione Europea. Il fatto distintivo della governamentalità neo-liberale è la trasposizione di questa modalità di governo aziendale a tutto il sistema pubblico, con la deliberata conseguenza di limitare l’azione pubblica nella scelta politica dei fini per sostituirla con la scelta soltanto dei mezzi più economici per obiettivi di mercato o concettualmente ad esso assimilabili. Il neoliberalismo contemporaneo è impensabile senza governance, perché tramite quest’ultima si può realizzare compiutamente la caratteristica distintiva della governamentalità che Foucault aveva sottolineato, vale a dire che il mercato è il luogo di veridizione e di legittimazione del governo. Come osserva efficacemente Brown (2015), con la governance la vita pubblica è ridotta al problem solving e vengono eliminati politica, conflitto, e deliberazione su fini e valori comuni, e può accadere che «istituzioni educative o sanitarie siano trasformate da pratiche sviluppate nell’industria aeronautica o dei computer». Il modello aziendale e privatistico della governance si applica a tutta l’amministrazione pubblica, dalla scuola e l’università alla sanità, dalla politica alla

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giustizia3, ed è caratterizzato da termini tecnici come il benchmarking, che produce graduatorie e punteggi in ambiti e con regole ovviamente scelti dai managers, obbligando in questo modo i soggetti “valutati” ad adottare le best practices, ossia quelle tecniche gestionali-organizzative ritenute modello vincente per poter così migliorare il proprio punteggio e la propria graduatoria ed evitare il naming and shaming gravante sui ritardatari a conformarsi. Neave (2012), per esempio, riflettendo sul ruolo del benchmarking e della valutazione, parla della trasformazione dello Stato da macchina amministrativa a macchina cibernetico-governamentale e definisce l’apparato statale invaso dalla governance come un nuovo “Stato valutativo”, una metamorfosi estensiva del progetto panottico attraverso cui si realizza, tramite il benchmarking, un controllo a catena in cui ogni anello controlla i suoi vicini spingendoli ad autocontrollarsi4. La governance improntata sul benchmarking non è solo un esempio di governamentalizzazione dello stato, già preconizzata da Foucault, in cui sia accentuata l’invasività delle forme di controllo, ma costituisce una vera e propria «trasformazione dell’intera funzione di governo in funzione di controllo: del divenire cioè la valutazione il modo stesso di esistere dello stato nella sua configurazione neoliberale» (Pinto, 2013, 19). La governance trova una intensa applicazione nella Unione Europea, di cui si analizzano alcune procedure esemplificative. Questa realtà e questa umanità appaiono ingabbiate ‒ se si accetta la lezione che Foucault e altri pensatori hanno impartito ‒ in una governamentalità ben più cogente e invasiva della “gabbia” che un secolo fa Weber vide nel mondo creato dallo spirito protestante del capitalismo. La logica economica e manageriale, che sembra esercitare oggi come non mai un trionfante “imperialismo” (come si esprime il Nobel neo-liberale Stigler) verso tutti gli ambiti della vita sociale e privata, appare come il sapere ferreo col quale il potere forgia le inferriate della gabbia. Se l’indi-

3 D’Eramo (2020) osserva che «curiosamente solo l’esercito sfugge, almeno in parte, e almeno per ora, alla tirannia della governance». 4 È facile notare qui una corrispondenza col caso del pastorato, vale a dire col “campo di obbedienza generalizzata” di cui parla Foucault e con quel governo degli uomini che è governo “degli uomini attraverso gli uomini” (vedi par. 1.2).

Introduzione

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viduazione smascherante di questa gabbia descritta nel libro ha corrisposto alla pars destruens di tanto pensiero critico, viene da domandarsi se può esistere anche una pars costruens indicante alcune possibilità di trasformazione e uscita dalla gabbia. La ricerca si limita, in questo volume, ad accennare sommarie e sommesse indicazioni provenienti da chi già ha affrontato la tematica del governo economico degli uomini. Le folgoranti resistenze del pensiero politico “gnostico”, esecrate e magnificate da Voegelin, sembrano scomparse, almeno in superficie, dalla politica e dalla storia. Gli scritti dell’ultimo Foucault, che vanno alla ricerca delle pratiche di libertà nell’etica classica greco-romana, vagheggiano nuove tecniche di vita e di cura di sé indirizzate ad una creazione dis-assoggettata del proprio sé, in grado di liberare l’individuo e consentirgli il governo di se stesso. Le riflessioni di Agamben puntano alla “inoperosità” dell’individuo e alla “profanazione” dei dispositivi di potere come speranze di sfuggire alla gabbia governamentale. Possiamo ricordare anche Lacan che, in chiave psicanalitica, denuncia “l’astuzia del discorso del capitalista”, in cui si esalta la libertà di godimento pulsionale immediato, l’oggetto-merce (il brand), la prestazione, il successo, per la resistenza al quale si dovrebbe rivalutare il fallimento, l’irresolutezza, l’inesattezza, la fuga, l’insuccesso, oppure Han, in chiave di critica filosofica, e Zuboff (in chiave di critica tecnologica), che denunciano la psico-programmazione degli individui associata sia al sapere “statistico” dei big data e alla fine della teoria sia al potere del capitalismo dell’informazione, a cui resistere perseguendo, come Ulisse col gigante Polifemo, ciò che può “accecare” quel sapere-potere, ovvero l’unicità, l’evento, la singolarità, l’improbabile, l’estemporaneo, il particolare, l’anormale, l’estremo. Quanto agli esempi di vita “reale” e letteraria, sappiamo che Majorana “scomparve” e Bartleby “preferì di no” fino alla fine. Altri suggeriscono una miscela di azione “soft” e dirittura morale, che abbia la forma «di un’opposizione reticolare di disinnescamento, smascheramento e anche boicottaggio di norme e prassi per lo più interiorizzate […] in primo luogo un condiviso lavoro su di sé [… per] smontare dall’interno una macchina, o meglio

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Dal pastorato al management

una rete di congegni, che non può funzionare se non grazie a inavvertiti (o complici) consensi» (Pinto, 2013, 42). Ma il cantiere di costruzione delle idee e delle prassi per avviare trasformazioni o alternative all’odierno ‘governo economico degli uomini’ ci sembra aperto, anche se necessita di molteplici, e non necessariamente nuovi, strumenti di lavoro. In conclusione, questo libro ha cercato di tracciare il tortuoso, sorprendente e impensato percorso che dal pastorato cristiano va all’odierno management per disegnare il “governo economico degli uomini”, consapevole che la politica e la storia scaturiscono dal confronto fra quella conduzione e i tentativi di resistenza e di contro-condotta ad essa, scorrendo nel tempo fra la bonaccia della immanente auto-organizzazione evolutiva dei mercati e la tempesta del trascendente richiamo delle cose ultime.

Parte I Nascita e sviluppo del moderno ‘governo economico degli uomini’

Capitolo 1 UNA STORIA DELLA GOVERNAMENTALITÀ

1.1. Dal pastorato alla moderna governamentalità soltanto il clero, guidato da Roma, parla al popolo minuto […] Cinquantamila preti ripetono le stesse parole nel giorno indicato dai capi, e il popolo, che dopo tutto fornisce i soldati, sarà più sensibile alla parola dei suoi sacerdoti che non a quella di tutti i vermiciattoli del mondo. (Stendhal 1990, 424) la fede richiede dogmi non tanto veri, quanto pii, cioè capaci di spingere l’animo all’obbedienza. (Spinoza 1972, 624)

La cura pastorale, o pastoralità, è la conduzione della comunità cristiana da parte dei ministri (e collaboratori) a ciò predisposti. Il governo della comunità cristiana è già definito nella Prima lettera di Pietro, 5.2, dove, con riferimento agli “anziani” della comunità, si legge: «pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo» [corsivo nostro], dove pascere ha il significato di “avere in custodia, guidare, dare una condotta”. Quindi dare una condotta e sorvegliare (per impedire deviazioni dalla condotta data) è il contenuto della pastoralità cristiana, che nella versione delle sette religiose riformate si estende anche a un esplicito contenuto disciplinare (come ci narra Weber). Il can. 519 del Codice di diritto canonico regola la cura pastorale nella comunità parrocchiale cattolica: Il parroco è il pastore proprio della parrocchia affidatagli, esercitando la cura pastorale di quella comunità sotto l’autorità del Vescovo […] per compiere al servizio della comunità le funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi e con l’apporto dei fedeli laici, a norma del diritto. [corsivo nostro]

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Quindi, governo e insegnamento sulla base del diritto, a cui si dedicano oltre ai ministri ufficiali anche coloro che del gregge rappresentano fedeli esempi di giusta condotta, appaiono qui come le funzioni tipiche della pastoralità. Ma il compito ‘pastorale’ deve essere inteso in senso ampio, non trascurando cioè neppure gli aspetti punitivi. Il noto cardinale Bellarmino (più noto forse per il processo e la condanna di Galileo), a commento del versetto evangelico «pasci le mie pecore» (Gv 21, 15-17), osserva: con la parola “pasce”, secondo il modo comune di parlare, s’intende ogni azione pastorale: infatti, “pascere” è la stessa cosa dell’agire del pastore o dell’essere pastore. Precisamente, l’atto del pastore non è solo dare da mangiare, ma anche condurre, richiamare, proteggere, preservare, reggere e punire col bastone (Bellarmino 1856, 506).

Come noto, è Foucault il primo ad indagare, col metodo genealogico1, le origini delle forme di governo della società e degli uomini2, e ad individuare nella ‘pastoralità’ l’arte di governo valida

1 Solo per enucleare sinteticamente alcune caratteristiche del metodo genealogico sviluppatosi lungo l’asse Nietzsche-Foucault (Chignola 2006), osserviamo che la genealogia 1) muove sempre dalla fine: quindi, il punto di partenza è il presente; 2) diffida delle linearità e delle continuità, spezzandole; 3) non cerca e non trova puntuali origini; 4) è immersa nella storia, di cui il genealogista ha bisogno proprio per scongiurare la chimera dell’origine; 5) dissotterra sentieri omogenei che biforcano ed estrae punti di innesto tra logiche eterogenee; 6) illumina rotture, nuovi inizi, deviazioni. 2 Questa indagine si sviluppa principalmente nel corso di Michel Foucault al College de France nel 1977-1978 intitolato Securité, territoire, population (Foucault 2017). Come riassume con chiarezza Agamben, tale corso «è dedicato a una genealogia della “governamentalità” moderna. Foucault comincia col distinguere, nella storia delle relazioni di potere, tre diverse modalità: il sistema legale, che corrisponde al modello istituzionale dello Stato territoriale di sovranità e si definisce attraverso un codice normativo che oppone ciò che e permesso e ciò che e proibito e stabilisce in conseguenza un sistema di pene; i meccanismi disciplinari, che corrispondono alle moderne società di disciplina e mettono in atto, accanto alla legge, una serie di tecniche poliziesche, mediche e penitenziarie per ordinare, correggere e modulare i corpi dei sudditi; i dispositivi di sicurezza, infine, che corrispondono allo stato di popolazione contemporaneo e alla nuova pratica che lo definisce, che egli chiama il “governo degli uomini”. Foucault ha cura di precisare che queste tre modalità non si succedono cronologicamente né si escludono a

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fino alla nascita del ‘moderno’ tra il ’500 e il ’700, ‘moderno’ che peraltro, come vedremo, ne eredita almeno in parte le modalità. È infatti il pastorato che condividerà con la nuova governamentalità (vedi più avanti il significato completo di questa nozione), che si afferma con la modernità, le caratteristiche i) di essere rivolto non a un territorio, a una città, a uno Stato o a un ente sovrano, ma ad una molteplicità di individui, considerati sia nell’insieme che nella loro singolarità (omnes e singulatim) con l’obiettivo di far loro del “bene”; ii) di essere un potere non coattivo ma ‘dolce’, e di basarsi sulla collaborazione volontaria del fedele, che rimane “libero di essere guidato” e che a sua volta può collaborare a condurre anche le vite degli altri fedeli incappati in dubbi e difficoltà varie. Per Foucault, il potere pastorale è un potere che non si esercita su di un territorio ma su di una molteplicità, un potere nel quale il carattere benefico, lo scopo di fare del bene, non è un aspetto marginale della sua natura ma la sua stessa ragion d’essere. Un potere infine finalizzato, diretto e orientato a quelli su cui si esercita e non rivolto a unità superiori come la città, lo stato o il sovrano (Vagnarelli 2017, 156).

Ma, soprattutto, della moderna governamentalità il potere pastorale mostra una duplice caratteristica principale, quella, da un lato, di individualizzare i soggetti su cui si esercita portandoli a dire come propria verità auto-prodotta quella ad essi imposta, e, dall’altro lato, di assoggettare e rendere obbedienti, nel contempo, i medesimi. Infatti, per Foucault, il pastorato cristiano è quantomeno un preludio alla moderna governamentalità che nasce a partire dal ’500, come si può chiaramente notare quando lo si consideri almeno secondo due modalità, una oggettiva basata sulle procedure complesse che relazionano in modo originale salvezza, legge e

vicenda, ma convivono e si articolano l’una con l’altra, in modo, però, che una di esse costituisce di volta in volta la tecnologia politica dominante. La nascita dello stato di popolazione e il primato dei dispositivi di sicurezza coincidono cosi col relativo declino della funzione sovrana e con l’emergere in primo piano di quella governamentalità che definisce il problema politico essenziale del nostro tempo» (Agamben 2007, 125).

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verità, ed una soggettiva basata sulla costruzione del tipico uomo occidentale attraverso il suo esame analitico, la sua assoggettazione all’obbedienza e la sua ‘soggettivazione’ (vedi anche par. 1.6) tramite le tipiche pratiche pastorali: Mi sembra che il pastorato […] costituisca il preludio di ciò che ho chiamato governamentalità […] in due modi. Per le procedure tipiche del pastorato, per il fatto che non si limita a far interagire, puramente e semplicemente, il principio della salvezza, della legge e della verità, ma attraverso un intreccio di diagonali instaura altri tipi di rapporti, sotto la legge, la salvezza e la verità […] [Per] la costituzione di un soggetto specifico, i cui meriti sono identificati in maniera analitica: un soggetto assoggettato attraverso reti ininterrotte di obbedienza e soggettivato (subjectivé) estraendo da lui stesso la verità che gli viene imposta. Mi sembra quindi che siamo di fronte alla costituzione del soggetto occidentale moderno, che rende senza dubbio il pastorato uno dei momenti decisivi nella storia del potere nelle società occidentali (Foucault 2017, 141).

In questo cruciale passaggio storico per la costruzione della razionalità governamentale, che va dalla formazione dello Stato moderno con la sua “ragion di Stato” alla diffusione dell’illuminismo nel ’700, si ri-configura anche il governo pastorale cristiano. Con la tipologia di Pastore impersonificata dal Grande Inquisitore dostoevskiano (vedi il paragrafo 1.4) appaiono, infatti, anche una nuova finalità e una nuova modalità operativa del “governo degli uomini” secondo l’istituzione della Chiesa. Questa figura dostoevskiana ha accenti estremamente moderni, quando descrive come e perché si debbano governare gli uomini, che sono in palese sintonia con le acute osservazioni foucaultiane sulla trasformazione moderna del modo di governo pastorale. Il Principe rinascimentale, che incarna la «ragion di Stato», vede dappertutto potenziali nemici ch’egli deve «spegnere»; l’Inquisitore di Dostoevskij, che incarna la «ragion del volgo», vede dappertutto potenziali amici, da blandire, compiacere e incantare. Entrambi si considerano liberi da vincoli legali, ma, per il primo, questa libertà coincide con la crudeltà e l’arbitrio; per il secondo, con la pietà e l’indulgenza. Perfino il rogo, quando occorre, è una manifestazione di bontà e dedizione. C’è qui la differenza tra terrorizzare e sedurre, come ingredienti del governo (Zagrebelsky 2015, 31).

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Il Pastore-per-seduzione, come appare quello dostoevskiano, non persegue – diversamente dal Pastore-per-repressione – chi devia dalla fede, ovvero non fustiga le debolezze umane e innalza la trascendenza, anzi si immerge nell’umanità per “guidarla” proprio attraverso le sue debolezze, si comporta come un vero sociologo, un pianificatore dell’immanenza, traendo da questo governo apparentemente amico, seduttivo, rispettoso, un potere assoluto. Esso non ha di fronte a sé i nemici della Chiesa, ma l’umanità di cui si è assunto il governo: deve preservarla da se stessa, cioè dalle sue debolezze intrinseche. Egli ha a che fare con la pasta di cui è fatta l’umanità, della quale è al servizio. Il suo compito non è correggere e raddrizzare, ma assecondare e accontentare. L’Inquisitore è un pianificatore; a suo modo, è uno scienziato sociale. La sua grande trovata sta in questo: il potere può essere assoluto se non si propone di cambiare, punire, frenare la natura umana secondo una qualche dottrina, secondo qualche dogma, secondo qualche morale, ma se la rispetta così com’è, la blandisce, la lascia sfogare (Zagrebelsky 2015, 33).

Esso non interviene sugli uomini perché sia migliorata in futuro la loro natura ai fini della salvezza, anzi, conoscendone la debole natura, la usa – costruendo a partire da essa una nuova modalità di potere pastorale – affinché sia per sempre prevenuta una loro deviazione dal pascolo preordinato, una ribellione al suo governo: Egli conosce e rispetta la natura umana e ne ha pietà. Con i suoi mezzi l’accompagna, non vuole «risvegliarla alla verità», ma addormentarla; «addomesticarla», sí, ma prima che essa s’affacci alla conoscenza del bene e del male, cioè alla libertà. Ancora una volta la «ragione» che lo muove è la «ragion del volgo», del volgo che aspira alla quiete, che rifugge dal tormento del dubbio. In certo senso, l’Inquisitore di Dostoevskij viene logicamente prima degli inquisitori della Santa Inquisizione: questi devono reprimere, quello si preoccupa di prevenire affinché reprimere non sia poi necessario […]. Egli ha come scopo un popolo di omologati nell’accettazione gradevole della terra così com’è, non un popolo di uomini inquieti nella ricerca d’una vita individuale come potrebbe e dovrebbe essere per loro. Ciò che l’Inquisitore mira a costruire è una forma di «potere pastorale» (Zagrebelsky 2015, 34-35).

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La nuova razionalità governamentale incorpora le esperienze storiche precedenti, prima quelle della sovranità – nel significato ristretto del governo quale esercizio della sovranità politica –, poi quelle della disciplina – come controllo strumentale sia del corpo dei singoli sudditi, o cittadini, allo scopo di ottenere dai medesimi docilità e utilità, sia della specie umana nella forma di azione e regolazione degli aspetti biologici (fertilità, longevità, sanità, ecc.) – e, quindi, le integra con altre molteplici pratiche di governo. Questa nuova razionalità di governo, o governamentalità, può essere allora definita secondo una triplice accezione. La prima si addice particolarmente alla modernità, ed è individuata, a sua volta, da una tripletta composta da un oggetto d’intervento (la popolazione come specie), una tecnologia di intervento (i dispositivi di sicurezza) e, infine, una scienza o sapere (la scienza economica) che giustifica in modo neutrale (vale a dire, a-politicamente e a-valutativamente) l’intervento e, nel contempo, contribuisce anche alla creazione dell’oggetto e della tecnologia di intervento medesime: [Primo] l’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale.

La seconda definizione sottolinea la crescente predominanza nella storia del potere occidentale dell’aspetto amministrativo di “governo” rispetto a quello della sovranità o del controllo disciplinare, che ha comportato il proliferare di dispositivi di governo e di saperi, sempre accoppiati insieme: Secondo, per “governamentalità” intendo la tendenza, la linea di forza che, in tutto l’Occidente e da lungo tempo, continua ad affermare la preminenza di questo tipo di potere che chiamiamo “governo” su tutti gli altri – sovranità, disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato, di una serie di apparati specifici di governo, e, [dall’altro] di una serie di saperi.

La terza definizione, infine, privilegia gli aspetti storico-evolutivi del contenuto connotativo del potere pubblico, che si trasforma da stato di giustizia a stato amministrativo e, infine, a stato “governamentale” (vedi anche par. 1.13):

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Infine, per “governamentalità” bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo, mediante il quale lo stato di giustizia del Medioevo, divenuto stato amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato gradualmente “governamentalizzato” (Foucault 2017, 88).

Peraltro bisogna subito sottolineare che Foucault ha seguito un’intuizione chiara, secondo la quale la governamentalità deve in realtà rispondere soprattutto all’obiettivo di introdurre l’economia nell’esercizio politico: L’arte di governo che emerge da tutta questa letteratura deve rispondere in definitiva a una questione basilare: come introdurre l’economia – cioè la maniera di gestire adeguatamente gli individui, i beni, le ricchezze alla stregua del buon padre di famiglia […] nella gestione dello stato? La posta in gioco fondamentale del governo è, a mio parere, l’introduzione dell’economia all’interno della pratica politica (Foucault 2017, 76).

Non sarebbe difficile qualificare, con l’aggettivo “capitalista”, il termine economia, che Foucault vede come il cardine surrettizio della nuova governamentalità, in quanto essa descrive e prescrive – diversamente dall’oikonomia aristotelica del buon padre di famiglia3 – l’efficienza massima nella ricerca del profitto, prescrizione che la politica – ridotta a puro governo e amministrazione – deve osservare e fare osservare. Per Foucault, la nuova governamentalità – che risulta propugnata dal verbo neo-ordoliberale – ha un obiettivo chiaro: non solo non intervenire più per regolare l’economia di mercato allo scopo di proteggere la società dai suoi squilibri e danni (come, ad esempio, propone il keynesismo), ma fare del mercato il nuovo principio regolatore della società: semmai, l’unico intervento pubblico ammissibile è quello che miri a rimuovere ogni ostacolo che possa frapporsi al libero sviluppo della concorrenza nelle relazioni non solo economiche ma anche umane. Avremo dunque una sorta di totale sovrapposizione dei meccanismi di mercato, ancorati alla concorrenza, e della politica di governo. Il governo, insomma, deve accompagnare dall’inizio alla fine l’economia di 3 Sull’economia classica e aristotelica – p.e., sulla crematistica ‒ e sulla sua opposizione a quella cristiana, vedi Conti e Fanti 2020, parte I.

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mercato. L’economia di mercato, infine, non sottrae qualcosa al governo, bensì indica, costituisce l’indice generale sotto il quale dovrà venire collocata la regola destinata a definire tutte le azioni di governo. Si dovrà governare per il mercato, piuttosto che governare a causa del mercato (Foucault 2005, 112).

Mercato, impresa e concorrenza sono la potenza performante della società: «Si tratta di fare del mercato, della concorrenza, e dunque dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società» (Foucault 2005, 131). Qui, Foucault, nell’indicare gli obiettivi della nuova governamentalità, equipara concorrenza e impresa, senza soffermarsi a rilevare invece la distinzione fra le due nozioni, che sono simultaneamente presenti, sebbene costituiscano una contraddizione interna, nei pensatori ordoliberali e neoliberali, ispiratori di tale governamentalità – come discusso in Conti e Fanti (2020, parte III). Secondo questi pensatori la concorrenza dovrebbe costituire un ordine spontaneo e trasparente in cui i soggetti partecipanti al mercato sono “liberi” nel senso di non dominati da alcun potere economico. Invece, facciamo notare che l’impresa non può essere equiparata alla concorrenza perché non solo non è un soggetto spontaneo e trasparente ma rappresenta, al contrario, una organizzazione di poteri gerarchici e opachi. La nuova governamentalità, che si sviluppa a partire dall’800 col pieno dispiegarsi del capitalismo industriale e finanziario, quindi, integra in modo complesso i precedenti sistemi di governo degli uomini: Arte di governare secondo la verità, arte di governare secondo la razionalità dello stato sovrano, arte di governare secondo la razionalità degli agenti economici, e più in generale arte di governare in base alla razionalità degli stessi governati. Sono tutte queste diverse arti di governo, queste diverse modalità di calcolare, di razionalizzare, di regolare l’arte del governare che, sovrapponendosi le une alle altre, costituiscono, grosso modo, l’oggetto del dibattito politico a partire dal XIX secolo (Foucault 2005, 258).

La forma economica del mercato, intesa come un imperativo e come una nuova ragione – l’economia politica – contraddistinta dalla efficienza, viene generalizzata attraverso la nuova governamentalità.

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Quali sono i distintivi caratteri filosofici di quest’ultima? In primis, la sua immanenza. Ovvero, i suoi obiettivi non sono più dettati da ragioni trascendenti o comunque esterne (p.e. dal “sommo bene” medievale o dalla “ragion di Stato” moderna) ma sono immanenti e connaturati alla società. Come il doux commerce addolcisce l’uomo e le sue relazioni, tanto quelle personali quanto quelle interstatali, così la nuova governamentalità è all’apparenza un “dolce governo”. In secundis, mutano drasticamente i fondamenti del potere di governo. Non è più necessario supporre o fondare la “legittimità” del potere e dei suoi atti. Il problema del fondamento del potere sovrano e della legittimità del governo viene sostituito da un nuovo criterio pratico: gli atti di governo sono giustificati e giudicati secondo il metro della efficacia e dell’utilità. Si tratta, d’altronde, della metodologia dell’economia politica, assunta a paradigma scientifico, la quale non si domanda né i fondamenti del potere di decidere, né il loro contenuto etico, ma si cura solo degli effetti – in termini di utilità in senso lato – di tali decisioni. Ne dà una illustrazione chiara Foucault, quando scrive che nell’economia politica «non si chiede, ad esempio, che cosa autorizza un sovrano a riscuotere le imposte, ma semplicemente che cosa accade quando si riscuote una imposta, in un momento dato, su una certa categoria di persone o su un particolare genere di merci» (Foucault 2005, 26). Il governo è adesso definito, misurato e giudicato – al contrario che in precedenza dove la sfera del diritto pubblico ne definiva giuridicamente gli ambiti e i limiti – praticamente soltanto in termini economici, cioè dagli effetti in termini di utilità dei suoi atti. Non si tratta di proseguire su quella che il filosofo [Foucault] definisce la via della preventiva definizione dei diritti naturali o originari, e della successiva verifica delle condizioni di una loro limitazione. Si tratta, al contrario, di muovere dalle pratiche del governo in quanto tali, nella loro effettività, e di stabilire cosa per il governo possa essere utile o inutile. Se il diritto pubblico ha rappresentato la tecnologia giuridica con la quale si è tentato di stabilire dei limiti all’estensione della ragion di stato, l’utilitarismo diviene, a partire dalla metà del XVIIII secolo, la nuova tecnologia che definisce i limiti di fatto del governo (Vagnarelli 2017, 158).

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Appare in tal modo superata anche la tradizionale analisi marxiana dello Stato e della società civile, secondo cui l’ambito economico è la struttura e l’ambito giuridico-politico è una sovrastruttura da essa causalmente dipendente, in quanto per Foucault (2005, 136): «anziché contrapporre un economico che apparterrebbe all’ordine dell’infrastruttura e un giuridico-politico che apparterebbe all’ordine della sovrastruttura, si dovrà parlare quindi di un ordine economico-giuridico». Una terza caratteristica della nuova governamentalità è la molteplicità sia degli ambiti in cui viene esercitata che delle pratiche con cui si applica. Gli ambiti del tutto nuovi – già a partire dalla fine del ’600 – sono (vedi par. 1.12), secondo Foucault, la religione, i costumi, la sanità e i beni di sussistenza, la tranquillità pubblica, la cura degli edifici, delle piazze e delle strade, le scienze e le arti liberali, il commercio, le manifatture e le arti meccaniche, i servi e i manovali, il teatro e i giochi, e infine la cura e la disciplina dei poveri, in quanto “parte considerevole del bene pubblico” (Foucault 2017, 241).

Ciò che va notato è che l’immensa estensione degli ambiti e delle pratiche di governo è consentita dalla nuova comune ed ubiquitaria razionalità, che può essere appunto applicata a tutti gli ambiti e a tutte le pratiche: cioè a dire, il calcolo, proprio della scienza economica, come l’unica forma di ragione. Un quarto punto necessario per qualificare la governamentalità è la riflessione sul concetto-cardine della modernità liberale, quello della libertà formale. Infatti, per comprendere a fondo la teoria foucaultiana della governamentalità e la sua disamina critica del liberalismo, bisogna ricordare come Foucault abbia una visione critica del concetto della libertà formale, da lui sottoposto a una drastica revoca in dubbio. Per Foucault, innanzitutto, tale concetto, come osserva Domenicali (2018), deve essere totalmente ridiscusso a causa dell’evidente scollamento tra il piano dei principi e quello dei fatti, ma, cosa più originale, la categoria stessa di libertà ‒ definita dalla teoria giuridico-discorsiva e intesa come una proprietà o un diritto detenuti in via continuativa da un soggetto ben definito ‒ appare ‒ come molte altre categorie politiche della modernità ‒ di ben poca utilità analitica e interpretativa. Bisogna ‒ così

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possiamo sintetizzare il pensiero di Foucault – intendere la libertà come una pratica concreta e non come un concetto giuridico astratto. Tuttavia ricordiamo che, anche rispetto alla nozione di libertà, il multiforme e cangiante pensiero foucaultiano ha prodotto piuttosto due definizioni di ciò che non è la libertà, e anche queste fra loro dissimili. In ogni caso, prima di affrontare le due definizioni, notiamo che la critica generale alla concezione giuridico-discorsiva del potere si basa sul fatto che in essa il concetto di libertà presuppone l’esistenza di un soggetto dotato di libertà di scelta (vedi sulla questione del ruolo del soggetto all’interno della macchina del potere i par. 3.2-3.7), mentre, al contrario, secondo il filone foucaultiano, il soggetto è prodotto dal potere stesso come risultato di una molteplicità di tecniche di assoggettamento. Riguardo alla prima definizione, la critica di Foucault alle libertà formali – in cui egli mette insieme sia quelle espresse dalla democrazia rousseauiana che quelle espresse dal contrattualismo liberale – si fonda sullo svelarne il necessario sottofondo contrappuntistico rappresentato dal complesso coercitivo tecnico-disciplinare: gli illuministi inventano le libertà contemporaneamente alle coercizioni disciplinari, e le prime non potrebbero essere effettive senza la corrispondente presenza delle seconde. L’idealità liberale è solo ideologia che nasconde l’assoggettamento tramite o l’apparato disciplinare o l’apparato securitario4. Se il potere ha storicamente concesso libertà civili e politiche formali, ciò è avvenuto solo allo scopo di un suo rafforzamento, vale a dire che non esistono libertà nate autonomamente: se, in modo formale, il regime rappresentativo permette che direttamente o indirettamente, con o senza sostituzioni, la volontà di tutti formi l’istanza fondamentale della sovranità, le discipline forniscono, alla base, la garanzia della sottomissione delle forze e dei corpi. Le discipline reali e corporali hanno costituito il sottosuolo delle libertà formali e giuridi-

4 Per il tema dell’assoggettamento come per quelli della disciplina e della sicurezza, vedi, rispettivamente, i par. 1.6 e 1.7. La posizione di Foucault rispetto alla relazione fra le libertà e l’odierna governamentalità neoliberale è discussa anche nel par. 1.15.

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che. Il contratto poteva ben essere postulato, come fondamento ideale del diritto e del potere politico; il panoptismo costituiva il procedimento tecnico, universalmente diffuso, della coercizione. Esso non ha cessato di operare in profondità nelle strutture giuridiche della società, per far funzionare i meccanismi effettivi del potere contro il quadro formale che questo si era dato. I “Lumi” che hanno scoperto le libertà, hanno anche inventato le discipline (Foucault 1976, 258).

L’originale posizione metodologica5 di Foucault esclude l’uso degli universali6 nell’analisi della storia, quindi si tratta di scrivere, forse, un’altra storia. Questo investe anche la sua seconda definizione di libertà: la libertà non va considerata come un universale che presenterebbe, nel tempo, un compimento progressivo, o delle variazioni quantitative, o delle amputazioni più o meno gravi, degli occultamenti più o meno rilevanti. La libertà non è un universale che si particolarizza con il tempo e la geografia […]. La libertà non è mai nient’altro – ma è già tanto – che un rapporto attuale tra governanti e governati: un rapporto in cui la misura del “troppo poco” di liberta che c’è, è data dall’“ancor più” di libertà che viene richiesta (Foucault 2005, 64).

La definizione della libertà come rapporto di potere vuol dire non solo che essa non è un concetto universale e perennemente valido, non solo che cambia a seconda del rapporto a cui si riferisce, ma che la sua stessa esistenza misurabile dipende dall’intensità del potere e dalla forza della resistenza, dipende cioè dal rapporto e dallo scontro fra condotta e controcondotta, fra potere e resistenza. La libertà esiste nella misura in cui esiste la politica,

5 «Io parto da una decisione, al tempo stesso teorica e metodologica, che consiste nel dire: supponiamo che gli universali non esistano; da qui in poi, sottopongo la questione alla storia e agli storici, a cui chiedo: e possibile scrivere la storia senza ammettere a priori che esistano cose quali lo stato, la società, il sovrano e i sudditi?… quello che vorrei mettere in atto… non interrogare gli universali, utilizzando come metodo critico la storia, bensì partire dalla decisione che afferma l’inesistenza degli universali per cercare di stabilire quale storia si può fare» (Foucault 2005, 5). 6 Gli “universali” sono concetti astratti e generali, come, ad esempio, stato, società, sovrano, libertà, follia, crimine, ecc., che per Foucault sono soltanto nomi la cui esistenza è una convenzione linguistica e non fisica (per cui egli è un “nominalista”).

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e un tempo senza politica, come quello attuale – in cui la politica è sostituita dall’economia – tende ad essere anche un tempo senza libertà. In linea con il Foucault che propone «di sostituire a degli universali come la follia, il crimine, la sessualità l’analisi di esperienze che costituiscono delle forme storiche singolari» (Foucault 2008, 7), possiamo dire che anche la libertà può essere intesa, anziché come un universale, come una forma storica singolare, un evento7, visto come ciò che si mostra nella sua unicità, contingenza, transitorietà, intermedietà, intersezionalità, sincronia passato-presente. Se le libertà formali sono state introdotte nella governamentalità moderna – sia liberale che soprattuto neo-ordoliberale – è perché il corrispondente apparato disciplinare e securitario, nel suo operare invasivo e pervasivo, permanente e capillare, ha totalmente annichilito ogni possibilità di resistenza e dissenso: vale a dire che possiamo affermare, utilizzando la definizione “evenemenziale” di libertà di cui sopra, che le libertà formali sono piena assenza di libertà effettiva. Solo con l’approfondita analisi genealogica che ne svela i più complicati percorsi, la libertà potrà essere non solo compresa ma, forse, anche realmente creata. Quinto punto importante, dopo quello delle libertà, è l’affermazione che la governamentalità non implica il tradizionale concetto di potere, il dominio verticale e gerarchico, l’imposizione dall’alto della norma di condotta, ma un complesso intervento di tecniche di governo e di tecniche del sé. Infatti, oltre alle analisi del potere compiute negli anni settanta, incentrate sulle tecniche di dominio, Foucault (2007, 2008) in seguito studia la governamentalità non solo nel suo aspetto di governo dei soggetti ma anche del governo di sé, e mette sotto la lente della ricerca le tecniche e le pratiche che “costituiscono la concezione occidentale del soggetto” ovvero come il soggetto occidentale è stato formato dalle politiche di governo e dalle “po-

7 L’evento «non è tanto un segmento di tempo, quanto, in fondo, il punto d’intersezione tra due durate, due velocità, due evoluzioni, due linee storiche» (Foucault 2001a, 224).

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litiche di noi stessi”. Tuttavia, sebbene Foucault osservi come governare non significhi “forzare le persone a fare ciò che vuole chi governa” e come il governo risulti da un connubio di tecniche di potere e tecniche di sé, ci pare evidente che l’intero programma filosofico neo-ordoliberale – nella sua virulenza elitistica e anti-democratica incentrata sul termine “libertà” – intenda il governo della libera concorrenza di tutti su tutto nel senso di “rendere le persone libere di fare ciò che vuole chi governa”. Come al solito, è utile la chiarificazione terminologica. Cosa intende Foucault col termine “tecnica”? Durante la lezione del 25 marzo 1981 del corso al Collège de France Subjectivité et vérité, Foucault definisce le “tecniche” come “procedure regolate, modi di fare che sono il prodotto di una riflessione e che sono destinati a operare, su un oggetto determinato, un certo numero di trasformazioni. Queste trasformazioni sono ordinate a certi fini che si tratta di realizzare attraverso di esse (Cremonesi et al. 2014, 121).

E cosa intende col termine di “tecniche del sé”? È a Berkeley, nell’ottobre del 1980, che Foucault parla per la prima volta, a questo proposito, di “tecniche” o “tecnologie del sé” […] definendole (accanto alle tecniche di produzione, alle tecniche di significazione e alle tecniche di dominio) tecniche “che permettono agli individui di effettuare, con i propri mezzi [o con l’aiuto degli altri], un certo numero di operazioni sui propri corpi, sulle proprie anime, sui propri pensieri, sulla propria condotta (Cremonesi et al. 2014, 122).

Foucault approfondisce il tema attraverso uno studio comparato delle tecniche di sé greco-romane e cristiane. Una indagine che ritorna alle origini dell’ermeneutica del sé consente di comprendere la duplice contrapposta visione che si è sviluppata cronologicamente in occidente rispetto alla tesi di un sé sostanzialmente nascosto che solo una guida esterna consente di far conoscere: questa conoscenza interiore del sé, infatti può servire o per reprimerlo, come nella pratica del cristianesimo soprattutto primitivo (marcato dal pessimismo sulla natura dell’uomo), o, all’opposto, per farlo emergere interamente, in questo caso nella convinzione che l’“autenticità” sia un valore e l’uomo autentico sia una figura positiva (ottimismo antropologico, tipico dell’uma-

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nesimo sia classico che moderno). Foucault, come esito della sua indagine, esprime una duplice convinzione: 1) non esiste alcun sé “naturale”, “originario”, nessun soggetto-entità “nascosto”, ma il “sé”, il soggetto occidentale, è solo un esito della storia e della contingenza ed è un prodotto “artificiale” delle tecniche di costruzione “esterne” e “interne”8, al punto che in tal senso il soggetto occidentale è un fatto “politico”; 2) in entrambi i casi, sia di “svalorizzazione” (paleocristiana) che di “valorizzazione” (umanistica) di questo soggetto, non cambia il fatto che l’ermeneutica del sé è l’esito di una costruzione artificiale attraverso tecniche di potere connesse all’obbedienza, ovvero di una soggettivazione che è assoggettamento9. Quindi, Foucault individua l’origine del soggetto occidentale moderno nel cristianesimo primitivo, specialmente quello delle comunità cenobitiche di origine orientale del IV secolo: per esempio, le due forme di confessione (tramite l’esibizione pubblica oppure l’esame esaustivo di sé), tipiche del cristianesimo, hanno rappresentato tecniche che con la loro diffusione in altri ambiti secolari sono diventate lo strumento chiave della moderna governamentalità. Già in Foucault (1978), dove la confessione come procedura di produzione della verità era già stata individuata quale base delle procedure mediche e scientifiche che hanno dato forma al moderno dispositivo di sessualità, il termine confessione viene definito come

8 È stato osservato: «lo studio delle tecniche di sé […] ci permette di comprendere (e di mostrare) che “il sé non è nient’altro che il correlato storico [delle tecnologie] che abbiamo costruito nella nostra storia” […]. Non esiste un “sé” originario, naturale, necessario, che dovremmo scoprire e portare alla luce, al fine di rinunciarvi (come vorrebbe il cristianesimo) o di identificarci totalmente con esso (come vorrebbero le etiche dell’autenticità). Il sé è sempre storico e contingente» (Cremonesi et al. 2014, 123-124). 9 Infatti, «se uno dei maggiori problemi della cultura occidentale moderna è stato di fondare non più sul sacrificio di sé e sulla rinuncia a sé (come nel caso del cristianesimo dei primi secoli), bensì sull’emergenza teorico pratica di un “sé positivo”, della “figura positiva dell’uomo”, tale soluzione resta inaccettabile per Foucault, poiché questo sé positivo è pur sempre […] il risultato della fabbricazione del sé tramite una serie di tecniche di potere» (Cremonesi et al. 2014, 123).

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un rituale discorsivo in cui il soggetto che parla coincide con il soggetto dell’enunciato; è anche un rituale che si dispiega in un rapporto di potere, poiché non si confessa senza la presenza almeno virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza ed interviene per giudicare, punire, perdonare, consolare, riconciliare; un rituale in cui la verità mostra la sua autenticità grazie all’ostacolo ed alle resistenze che deve eliminare per formularsi; un rituale, infine, in cui la sola enunciazione, indipendentemente dalle sue conseguenze esterne, produce in colui che l’articola delle modificazioni intrinseche: lo rende innocente, lo riscatta, lo purifica, lo sgrava dalle sue colpe, lo libera, gli promette la salvezza (Foucault 1978, 57).

La confessione si caratterizza per essere una forma di potere-sapere del tutto contrapposta ‒ come dice Foucault ‒ all’arte delle iniziazioni ed al segreto magistrale. Mentre in questi ultimi casi soltanto il potere “sa” ed occulta il sapere ‒ la massa dei governati ne è all’oscuro ‒ e gli “arcana” ne sono la cifra, nel caso della confessione il potere si esercita su un sapere estratto dal governato che deve sapere quello che il potere vuole che sappia. La confessione diviene un rito preminente ‒ quello di produzione della verità di rito ‒ a partire dal 1215, quando dal Concilio Laterano emerge il disciplinamento del sacramento della penitenza. In seguito la confessione avrà sempre di più un ruolo cruciale nell’ambito dei poteri civili e religiosi: si assisterà, da un lato, sia ‒ nell’ambito religioso ‒ alla creazione dei tribunali dell’inquisizione ed all’estensione e raffinamento delle tecniche di confessione, sia ‒ nell’ambito civile ‒ all’incremento delle tecniche per interrogare e investigare e dell’azione giudiziaria pubblica contro le trasgressioni, e si osserverà, dall’altro lato, specularmente, sia alla riduzione dei processi della giustizia criminale come delle procedure di transazione privata, sia il dileguamento delle tradizionali prove di colpevolezza quali i giuramenti, i duelli, le ordalie. Foucault identifica proprio nella traslazione di significato della parola aveu un passaggio centrale: dal significato di omaggio quale termine giuridico per indicare garanzia di statuto, d’identità e di valore accordata da qualcuno a qualcun altro, si passa a quello di confessione per indicare che le proprie azioni e pensieri ottengono il riconoscimento da parte di qualcun altro.

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Se, in precedenza, un uomo si individualizzava mediante la patente di autenticità emergente dalle forme centrali della relazione comunitaria, quali famiglia, rapporto di vassallaggio, protezione, adesso tale patente gli è rilasciata dall’autorità pastorale sulla base della produzione di verità su se stesso che è in grado di fare o di farsi estrarre, e, quindi, la confessione è diventata una modalità con cui il potere “individualizza”. Infatti, la società occidentale è divenuta una società particolarmente confessante. La confessione ha propagato lontano i suoi effetti: nella giustizia, nella medicina, nella pedagogia, nei rapporti familiari, nelle relazioni amorose, nella realtà più quotidiana e nei riti più solenni; si confessano i propri crimini, si confessano i peccati, si confessano i pensieri ed i desideri, si confessa il proprio passato e i propri sogni, si confessa l’infanzia; si confessano le proprie malattie e miserie; ci si sforza di dire con la massima precisione quel che è più difficile dire; ci si confessa in pubblico ed in privato, ai genitori, agli educatori, al medico, a coloro che amiamo; facciamo a noi stessi, nel piacere e nella pena, confessioni impossibili ad ogni altro, e di cui facciamo dei libri (Foucault 1978, 81-82).

Tuttavia, non si debba credere che la confessione sia sempre spontanea, o che, quando non lo è, sia “dolcemente” estratta. Quando non è spontanea, o imposta da qualche imperativo interno, la confessione è estorta; la si stana nell’anima e la si strappa al corpo. Dal Medio Evo la tortura l’accompagna come un’ombra e l’incoraggia quando cerca di sfuggire: tetri gemelli. Come la tenerezza più disarmata, così i poteri più sanguinari ne hanno bisogno. L’uomo, in Occidente, è diventato una bestia da confessione (Foucault 1978, 82).

Il potere pastorale della confessione produce una mutazione strutturale anche nel contenuto sia della letteratura che della filosofia: Di qui probabilmente una metamorfosi nella letteratura: da un piacere di raccontare e di ascoltare, che era centrato sul racconto eroico o meraviglioso delle “prove” di bravura o di santità, si è passati ad una letteratura finalizzata al compito infinito di far sorgere dal fondo di se stessi, fra le parole, una verità che la forma stessa della confessione fa intravedere come inaccessibile. Di qui anche quest’altra maniera di filosofare: cercare il rapporto fondamentale con la verità, non semplicemente in se stessi ‒ in qualche sapere dimenticato, o in una traccia originaria ‒, ma nell’e-

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same di se stessi che consegna, attraverso tante impressioni fuggitive, le certezze fondamentali della coscienza (Foucault 1978, 82).

Si deve sottolineare che Foucault conduce un rovesciamento totale del senso e del ruolo della confessione rispetto a come viene compreso da parte del senso comune, e svela la capacità dell’autorità, e del meccanismo interno alla confessione stessa, di occultarne il vero significato, di far credere che mentre il potere vuole ridurre al silenzio, la confessione, invece, vuole rendere liberi. Infatti, sembra ben riuscito l’inganno di far credere che tutte le voci che si levano a rivendicare la libertà di esprimere se stessi in tutti i modi e in tutti i dettagli siano invocazioni di libertà di espressione contro la censura e il divieto, quando, invece, si tratta tipicamente di una irresistibile ingiunzione del potere a confessare tutto, a «dire ciò che siamo, quel che facciamo, quel che ricordiamo e quel che abbiamo dimenticato, quel che nascondiamo e quel che si nasconde, quello a cui non pensiamo e quel che pensiamo di non pensare» (Foucault 1978, 82-83). Secondo Foucault, un duplice immenso lavoro, quello dell’attività pastorale10, da un lato, e quella del lavoro umano per assicurare l’accumulazione del capitale, dall’altro lato, ha portato alla costruzione dell’uomo obbediente, assoggettato in un duplice senso, quello di essere costruito come “soggetto” e nel contempo di essere reso suddito. Nella Volontà di sapere, Foucault collega strettamente la tecnica della confessione al dire la verità del sesso, non a caso oggetto cruciale della confessione. Nella sua indagine Foucault si domanda se il sesso, denotato nel senso comune come ciò che si nasconde, non sia, invece, da denotare proprio come ciò che si confessa, e l’obbligo di nascondimento non sia, quindi, altro che la modalità per rendere più profonda, piena e performativa la confessione11, arrivando, inoltre, ad una ulteriore potente interro-

10 «Si pensi a quanto dovette sembrare esorbitante, all’inizio del XIII secolo, l’ordine dato a tutti i cristiani d’inginocchiarsi almeno una volta all’anno per confessare tutte le loro colpe senza ometterne nemmeno una» (Foucault 1978, 82). 11 «Se l’obbligo di nasconderlo [il sesso] non fosse che un altro aspetto del dovere di confessarlo (celarlo tanto meglio e con tanta maggior cura, che la con-

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gazione: che, forse, la formazione del sesso come discorso, da un lato, e il sostegno alla diffusione pervasiva di sessualità di vario tipo (a cui assistiamo oggi in misura assai maggiore o, almeno più visibile, nei riti istituzionalizzati che sono la televisione, la pubblicità ecc., rispetto al periodo in cui Foucault scriveva), dall’altro lato, non siano altro che «due elementi di uno stesso dispositivo, che si articolano grazie all’elemento centrale di una confessione che costringe all’enunciazione veridica della singolarità sessuale — per quanto estrema essa sia» (Foucault 1978, 83) ? L’altra tecnica pastorale è la direzione di coscienza. All’interno delle comunità cenobitiche, la direzione di coscienza è interamente modellata sul principio di obbedienza dei diretti ai direttori, ma in cui si preserva la libertà di annullarsi nel potere dell’altro e nel potere dall’alto. Sottolineiamo “dall’alto”, per marcare l’aspetto gerarchico della pratica, in modo che non possa confondersi con l’interpretazione – forse politicamente interessata – di chi vede il potere foucaultiano come una relazione fra soggetti paritari in cui ciascuno talvolta obbedisce, talvolta è obbedito. I diretti devono, da un lato, annullare la propria volontà in pratica, ma dall’altro lato la fanno – paradossalmente in modo volontario – coincidere in modo completo e permanente con quella del direttore. La sottomissione al direttore può assumere persino forme paradossali ed esasperate. È facile osservare che anche in tempi moderni le pratiche di conduzione degli appartenenti a comunità religiose siano rimaste del tutto simili, basti pensare alle regole della Compagnia di Gesù, dove l’obbedienza al proprio direttore è definita come perinde ac cadaver. Dove è rintracciabile la differenza cruciale fra le pratiche di sé cristiane e quelle classiche? Essa giace nella relazione fra la volontà del soggetto e il mondo esterno. Se il dispositivo cristiano mira a dirigere il soggetto verso una rinuncia permanente a sé e al proprio volere (la direzione di coscienza assume un contesto di obbedienza illimitata), quello classico mirava, invece, a rendere il soggetto padrone di sé e dotato di volontà autonoma rispetto alle

fessione ne sia più importante, esiga un rituale più rigido e prometta effetti più decisivi)?» (Foucault 1978, 83).

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influenze esterne. La cesura fra le pratiche di sé cristiane e classiche è in questo senso assoluta. Il meccanismo introdotto nelle comunità cenobitiche per la formazione del soggetto si basa su un nuovo metodo, in cui il soggetto si costituisce attraverso la «veridizione» di quanto i suoi assoggettatori gli impongono come verità, in un anello di “libertà ed obbedienza” che assomiglia alla «gabbia di ferro» weberiana che il capitalismo avrebbe calato sugli individui, come emerge in modo limpidamente paradigmatico nelle parole di Foucault, secondo cui l’individuo viene «assoggettato attraverso reti ininterrotte di obbedienza […] soggettivato estraendo da lui stesso la verità che gli viene imposta» (Foucault 2017, 141)12. Soffermiamoci sul cuore del dispositivo governamentale cristiano, cioè la confessione, che viene identificata come un elemento cruciale per la produzione della soggettività occidentale moderna, seguendo Foucault nella distinzione delle due tipologie che la caratterizzano in due differenti periodi storici. Intanto, va ricordato che, per Foucault, la confessione è, indipendentemente dalle tipologie, sempre una tecnica di assoggettamento. Venendo al particolare, vi è stata una prima fase in cui la confessione (definita exomologesis) non era “in parole” come oggi, ma in forme “gestuali” ovvero come azione teatrale davanti al pubblico della comunità13. Si trattava quindi essenzialmente di un meccanismo di “esposizione di sé”, dopo il quale, però, l’auto-percezione del confessato risultava comunque mutata, anche in assenza di un direttore e di un’obbedienza diretta ad esso. La successiva forma (definita exagoreusis) è quella anche oggi nota, che avviene in

12 «È quindi facile comprendere perché la genealogia del soggetto occidentale moderno debba essere intrapresa a partire dal cristianesimo primitivo e dall’insieme tecnologico che esso ha storicamente inaugurato per la soggettivazione, o meglio per l’assoggettamento, degli individui» (Cremonesi et al. 2014, 128). 13 «In un primo momento, e più precisamente all’interno del cristianesimo primitivo, essa [la confessione] non possedeva ancora la forma verbale che conosciamo oggi, ma si realizzava in un modo che Foucault definisce “teatrale” perché, per manifestare il proprio stato di peccatore di fronte all’intera comunità dei fedeli, il penitente ricorreva a una serie di atti, di gesti, e a tutto il proprio aspetto fisico» (Cremonesi et al. 2014, 128).

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forma privata con un ministro-confessore. Si tratta della confessione “all’orecchio”, in cui viene esposto verbalmente e in modo dettagliato ogni peccato commesso, sottoponendo così la propria coscienza ad un esame attento e continuo; tale confessione, diffondendosi all’interno delle comunità cenobitiche, si complementa col rapporto diretto di obbedienza e sottomissione col proprio direttore14. Se la promessa della confessione è la “liberazione” dal peccato inteso in senso teologico, l’esito non è però altrettanto liberatorio in senso psicologico: lungi dal liberarci, questa messa in discorso perpetua di noi stessi ha l’effetto contrario di spingerci ad accettare una tecnologia di governo che mira a condurci, omnes et singulatim, verso i grandi obiettivi della salute individuale e del benessere delle popolazioni, tramite la presa in carico dei dettagli più infimi della nostra vita quotidiana» (Cremonesi et al. 2014, 129-130).

Questo sé nascosto contiene verità che solo la pratica della confessione rivela. Foucault si sofferma sull’effetto che il conduttore ha sul condotto, quando il primo sia un filosofo-maestro che “dice il vero”, e, quindi, la “verità” allora abbia di per sé una sua forza trasformatrice. In questo caso la retorica usata dal filosofo non è solo una tecnica di persuasione (che può ingannare), ma è una parresia, vale a dire al contempo una retorica e un’etica, un’arte e una morale15.

14 «Secondo Foucault, questa nuova forma di confessione implica conseguenze importanti al livello dei processi di assoggettamento. Per avere effetto, essa deve infatti essere associata a un esame di sé permanente, che richiede un’attenzione profonda e costante verso ogni minimo movimento dell’anima. Tale attenta analisi dei movimenti interiori costituisce, per Foucault, un’importante novità rispetto a quello che accadeva nell’Antichità greco-romana, poiché postula la presenza, nello spazio interiore dell’individuo, di movimenti e di pensieri sospetti, che potrebbero essere animati da forze estranee e pericolose, capaci di indurlo – suo malgrado – a peccare. Per salvarsi da questi pericoli interni e nascosti, e progredire verso la salvezza, è dunque necessario esporre al direttore ogni pensiero, anche quello all’apparenza più innocente» (Cremonesi et al. 2014, 126). 15 Non possiamo soffermarci qui sul ruolo che Foucault attribuirà nella sua tarda produzione alla ‘parresia’, che qualcuno interpreta anche come una possi-

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Quel che importa sottolineare è che, aldilà del caso specifico della “verità” che il filosofo-maestro può trasmettere, in generale la comunicazione del potere esprime un discorso razionale, dove la razionalità è intesa in un senso preciso di duplicità di contenuti-verità del detto e obbligo di performarlo. La comunicazione del potere si compone delle frasi, degli elementi di discorso, dotati di razionalità: ma di una razionalità che dice il vero e, insieme, prescrive quel che si deve fare (Foucault 2007, 285).

Ma la peculiarità della comunicazione del potere è che essa può essere creduta dal soggetto dominato “come se fosse una credenza spontanea”: Si tratta, cioè, di schemi induttori d’azione, i quali possiedono un valore e un’efficacia induttrice tali per cui, a partire dal momento in cui cominciano a esser presenti – presenti nella testa, nel pensiero, nel cuore, e persino nel corpo di chi ne ha il possesso – risultano tali da spingerlo ad agire come se agisse spontaneamente (Foucault 2007, 285-286).

Evidentemente i “mantra” esaltatori del mercato – e gli astratti modelli degli economisti, ma anche le ubiquitarie e iper-proliferanti normazioni, come vedremo più avanti quando consi-

bile modalità di liberazione dall’‘assoggettamento’ e dalla ‘gabbia di ferro’ del dominio ‘governamentale’ neoliberale, ma ci limitiamo a riportarne soltanto la definizione fornita da Foucault medesimo: «Ciò che nella parresia è in questione, è quella sorta di retorica specifica, o di retorica senza retorica, che deve essere quella del discorso filosofico. […] È proprio a partire da tale superficie di conflitto che si deve definire la parresia. La quale parresia rappresenta la forma necessaria al discorso filosofico, dal momento che […], per poter utilizzare il logos, è necessario che vi sia una lexis (un certo modo di dire le cose), ed è inoltre necessario che vi sia anche un certo numero di parole che dovranno essere scelte al posto di altre. Non può dunque esserci logos filosofico senza una sorta di corpo di linguaggio, e risulta necessario un corpo di linguaggio che abbia le sue specifiche qualità, e i suoi particolari effetti, effetti anche patetici. Ma allorché si è filosofi, quel che dovrà risultare necessario, il modo di regolare tali elementi (elementi verbali, elementi che hanno come funzione quella di agire direttamente sull’anima), non dovrà coincidere, tuttavia, con un’arte, con una techné, come quella della retorica. Dovrà piuttosto consistere in quell’altra cosa che rappresenta una tecnica e un’etica al contempo, che è insieme un’arte e una morale, e che è chiamata parresia» (Foucault 2007, 328).

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dereremo i meccanismi giurisdizionali con cui si applicano la veridizione e la condotta governamentale ‒ sono efficaci nella stipulazione del “contratto di veridizione”, si presentano cioè come una “razionalità che dice il vero” ed hanno una potenza induttrice di azioni “surrettiziamente” volontarie. Il mercato come relazione basica fra individui, la concorrenza come unico modo di agire, il lavoro come capitale umano, l’individuo come impresa, sono concezioni veicolate e interiorizzate come verità scientifiche indiscutibili. Eppure sarebbe facile ironizzare sulla credenza della “sovranità del consumatore” (una marchiana falsità per chiunque abbia una conoscenza persino rudimentale del marketing e della psicologia). E sarebbe ancor più facile schernire la credenza che un lavoratore salariato precario, sottoposto tanto alla minaccia della disoccupazione e della conseguente dequalificazione quanto all’obsolescenza tecnologica delle sue capacità – ricordiamo che entrambi i casi, disoccupazione e innovazione, sono strumenti di garanzia del mantenimento del saggio di profitto – sia definito come un imprenditore di sé stesso e un investitore nel proprio capitale umano oppure ridere della credenza ancor più bizzarra che il medesimo lavoratore salariato – una semplice pedina in balìa delle imprese e dei mercati – sia il “responsabile” del proprio stato di disoccupazione e dequalificazione! La veridizione, per la linguistica, è un insieme di procedure discorsive che, rispetto ai contenuti che vengono enunciati, segnalano il tipo e il grado di verità o costruiscono un effetto di verità. Come insegna la semiotica, tuttavia, affinché le enunciazioni possano essere prese come “vere” dal destinatario delle medesime, quest’ultimo deve in qualche modo essere messo in condizioni di “complicità” con chi enuncia: il creder-vero dell’enunciante non basta, temiamo, alla trasmissione della verità: l’enunciante ha un bel dire, a proposito dell’oggetto di sapere che comunica, che egli ‘sa’ che è ‘certo’, che è “evidente”; non è comunque sicuro di essere creduto dall’enunciatario: un creder-vero deve essere installato alle due estremità del canale della comunicazione, ed è questo equilibrio, più o meno stabile, questa tacita intesa di due complici più o meno coscienti che noi chiamiamo contratto di veridizione (Greimas e Courtés 1979).

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Ciò rinvia alla stessa questione della fiducia, del debito che ha origine in una concessione di credito e, quindi, in un sentirsi in colpa (o in debito, che, secondo Nietzsche, è sinonimo di colpa) da parte del debitore che lo spinge a cercare responsabilmente di onorare il debito attraverso una conseguente modifica dei propri comportamenti. Qui sta anche l’importanza della guida pastorale degli individui, e dell’intersezione fra le tecniche di governo e le tecniche di sé. Il mercato e le sue interpretazioni date dalla scienza economica costituiscono i discorsi che enunciano “verità”, e i destinatari della comunicazione, gli individui, sono stati resi – attraverso la “guida pastorale” – “complici” affinché prendano come “verità” gli enunciati a loro rivolti. Gli atti del governo ottengono la loro veridizione dalla narrativa – autodichiarata obiettiva dagli economisti – del mercato. È importante sottolineare come per Foucault il cristianesimo, con la sua pastoralità, costituisca un unicum e una discontinuità nella storia, che ha permesso, dopo la sua istituzionalizzazione, lo sviluppo di quello che conosciamo sia come il sistema occidentale di governo degli uomini che come il “soggetto” occidentale, i quali si differenziano nettamente dal governo dei soggetti e dalla soggettività esistenti nel mondo classico. Merita notare che questa considerazione del cristianesimo non è lontana né da Marx, che, nella Questione Ebraica, rivendica al cristianesimo la specificità dello sviluppo del capitalismo, né da Agamben, che, con la sua teologia economica, fa risalire il moderno governo e la moderna economia al cristianesimo con la peculiarità della sua dottrina trinitaria. Tuttavia, va anche ricordato che Foucault individua nella Grecia classica i segni di alcune “dicotomie” essenziali che da allora avranno ineliminabili echi 1) per la comprensione della moderna governamentalità, specialmente riguardo al fatto che il “luogo di verità” è oggi il mercato e la pratica di governo è buona e legittima se e solo se funzionale a quel luogo di veridizione; 2) per il nesso fra la democrazia e la moderna governamentalità. Foucault, infatti, individua un conflitto essenzialmente politico nel rapporto fra retorica e filosofia nell’età classica. La intrinseca “politicità” di quel rapporto conflittuale sta nel fatto che entrambi i discorsi giocano un ruolo importante ma differente nel

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governo degli uomini, dato che la relazione di cura dell’altro, e la corrispondente cura di sé, sono già una pratica di governo: Ci troviamo […] di fronte al grande ed essenziale punto di divergenza tra la filosofia e la retorica, che esplode e si manifesta proprio a quest’epoca. La retorica è diventata, ormai, l’inventario e l’analisi dei mezzi attraverso i quali è possibile agire sugli altri grazie agli strumenti messi a disposizione del discorso. La filosofia, viceversa, coincide invece con l’insieme dei principi e delle pratiche che è possibile avere a propria disposizione, oppure mettere a disposizione degli altri, onde potersi prendere cura di se stessi, oppure degli altri, proprio come si deve (Foucault 2007, 120).

In altri termini, il conflitto fra retorica e filosofia rivela «un’opposizione tra una parola che mira alla persuasione e al dominio degli altri, e una parola che permette invece la trasmissione della cura di sé» (Sforzini 2013, 63). Nella formazione del soggetto gioca un ruolo tanto importante quanto necessario la relazione con l’altro. Gli attori chiave delle pratiche di soggettivazione mutano il proprio ruolo nel passaggio dalla Grecia classica a quella ellenistica, fra il I e II secolo d.C: Se nell’età classica, tale altro funge da depositario della memoria, capace quindi di portare il proprio interlocutore dall’ignoranza al sapere (e il Socrate platonico ne è l’esempio per eccellenza), nel passaggio all’età ellenistica il maestro diventa per Foucault colui che può “guarire” e correggere l’individuo “malato”, corrotto da cattive abitudini, incapace di essere padrone di sé e della propria felicità. Nel mondo tardo antico, l’altro è chiamato a operare una trasformazione del modo d’essere del soggetto stesso; diventa cioè un operatore essenziale nel rapporto di costruzione del soggetto da parte di se stesso. Chiaramente, la figura che da subito rivendica con forza tale capacità di mediazione e conduzione alla pienezza di sé è il filosofo (Sforzini 2013, 62).

Ma il momento in cui il cruciale conflitto retorica/filosofia assume una valenza politica tanto forte quanto estremamente attuale è da situarsi ancora alcuni secoli prima rispetto al nodo altrettanto centrale individuato sopra nell’età ellenistica: infatti Foucault (2009) individua un altro passaggio storico essenziale della cultura greca fra il quinto e il quarto secolo a.C. – come noto, periodo di crisi della democrazia ateniese – quando la retorica, quale elemento discorsivo essenziale dello svolgimento della po-

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litica democratica nella sua forma cruciale di tecnica di persuasione, sembra veicolare la menzogna, la corruzione, la demagogia, l’adulazione, l’interesse personale a danno del bene comune. La filosofia sembra allora opporsi alla retorica per sottrarre a quest’ultima il deposito esclusivo della veridizione. Potremmo dire che Foucault rilegge il conflitto fra Socrate e i sofisti come una sottrazione della forza della verità alla retorica, per cui la filosofia si appropria della capacità di dire il vero e di farlo funzionare eticamente nella vita collettiva della polis. Ed è evidente che […] la polis stessa, il gioco politico, cambia di conseguenza volto (Sforzini 2013, 67).

Questa focalizzazione sulla relazione fra veridizione e politica nella Grecia antica è quindi estremamente attuale. Evidenzia la necessità, per salvaguardare la democrazia, di trovare una modalità – certamente impossibile per legge, ma possibile solo in una dimensione etica – per riuscire a distinguere coloro che sono effettivamente capaci di un discorso vero e coraggioso da coloro che non lo sono, come esplicitamente riconosce lo stesso Foucault: In un’epoca come la nostra – in cui si ama tanto sollevare i problemi della democrazia in termini di distribuzione del potere, di autonomia di ognuno nell’esercizio del potere, in termini di trasparenza e di opacità, di rapporto tra società civile e stato – credo sia forse un bene richiamare questa vecchia questione, che è stata contemporanea al funzionamento stesso della democrazia ateniese e alle sue crisi: cioè la questione del discorso vero e della cesura necessaria, indispensabile e fragile che il discorso vero non può non introdurre in una democrazia (Foucault 2009, 168).

Foucault ha, quindi, il merito di aver rilevato come, prendendo in considerazione i discorsi, le tecniche di persuasione e i luoghi di veridizione, si possono rintracciare due visioni della politica, della democrazia e della polis greca, che sono ancora oggi attuali e che potremmo, semplificando, distinguere, in termini schmittiani e agambeniani, tra una visione pratico-gestionale, che non ha (e non cerca) fondamento, se non nel discorso tecnico retorico stesso, e un’altra visione, opposta alla prima, che è, invece, ontologicamente e teleologicamente caratterizzata, vale a dire, sempre semplificando, la visione dei sofisti contrapposta a quella platonica.

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1.2. Il pastorato cristiano e il governo del soggetto occidentale Dico che mi pare che […] il Sig.r Galileo faccia[no] prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato il Copernico. (Card. Bellarmino, in Galilei 1968, 171) Il mattino è trascorso/ e la fabbrica libera donne e operai […] Dice un secco operaio,/ che, va bene, la schiena si rompe al lavoro,/ ma mangiare si mangia. Si fuma persino./ L’uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente […] Ci pensano tutti/ aspettando il lavoro, come un gregge svogliato. (Pavese, Esterno, 1976, 99-100)

Il governo è sempre governo degli uomini. Questa concezione viene dall’Oriente, in specie dal giudaismo, che comunque la condivide o la eredita dalla tradizione egizia ed assiro-babilonese, ed è filtrata in modo autonomo dal cristianesimo per il mondo occidentale. Credo si possa già dire, in termini generali, che l’idea di un governo degli uomini ha avuto origine piuttosto in Oriente ‒ inizialmente in un Oriente precristiano e poi nell’Oriente cristiano ‒, in due forme: da un lato con l’idea e l’organizzazione di un potere di tipo pastorale, dall’altro con la direzione di coscienza e la direzione delle anime. Iniziamo dall’idea e dall’organizzazione di un potere pastorale. Che il re, il dio o il capo siano dei pastori nei riguardi degli uomini, considerati un gregge, è un tema molto ricorrente in tutto l’Oriente mediterraneo (Foucault 2017, 99).

Foucault ci fornisce una descrizione di numerosi esempi orientali, in cui sia gli dei che il re vengono designati col termine di pastore, e il bastone del pastore è nientemeno che il simbolo del potere del Faraone. La designazione dell’autorità suprema, sia divina che terrena, come pastore di uomini viene rintracciata in Egitto, in Assiria, in Mesopotamia […]. In Egitto, ad esempio, ma anche nelle monarchie assiro-babilonesi, il re è designato in maniera rituale come il pastore degli uomini. Durante la cerimonia di incoronazione il faraone riceve le insegne del pastore: gli viene consegnato il vincastro del pastore ed è chiamato effettivamente il pastore degli uomini. Questo titolo fa parte delle credenziali regie anche per i monarchi babilonesi, ed è prima di tutto un termine che designa il rapporto degli dei ‒ o del dio ‒ con gli uomini. È il dio, infatti, il pastore degli uomini. In un inno

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egiziano, troviamo frasi di questo tipo: “Oh Ra, tu che vegli quando tutti dormono, e cerchi il bene del tuo gregge…” […] Un inno assiro rivolgendosi al re dice: “Compagno eminente che partecipi al pastorato di Dio, tu che ti curi del paese, tu che lo nutri, o pastore d’abbondanza” (Foucault 2017, 99).

Ma è soprattutto fra gli ebrei che si riscontra una più significativa concezione strettamente religiosa della relazione pastore-gregge, in cui, in particolare, Dio è in prima persona il pastore (e come tale solo raramente sono indicati anche alcuni profeti e mai nessun re, tranne Davide): è con gli ebrei che il tema del pastorato si sviluppa e si approfondisce in modo decisivo, con la peculiarità che il rapporto pastore-gregge diventa […] un rapporto religioso. Sono le relazioni tra Dio e il suo popolo a essere definite come relazioni tra un pastore (Pasteur) e un gregge. Nessun re ebreo, ad eccezione di David, fondatore della monarchia, è chiamato esplicitamente pastore: è un termine riservato a Dio. Si ritiene semplicemente che alcuni profeti abbiano ricevuto dalle mani di Dio il gregge degli uomini, e a lui debbano restituirlo (Foucault 2017, 99-100).

In particolare, l’odierna governamentalità (nella prima delle accezioni date in precedenza) è frutto peculiare del cristianesimo, vale a dire che è maturata all’interno di un progetto addirittura bimillenario; è anche da sottolineare che la forma moderna del potere nasce sulla scia della discontinuità introdotta dal cristianesimo e non ha a che vedere con le forme di potere né del giudaismo (a cui non è direttamente riconducibile) né del classicismo greco-romano (a cui è persino opposta): Insomma, la biopolitica liberale, di cui l’economia politica, la popolazione e i dispositivi di sicurezza rappresentano qui le tre coordinate moderne, sarebbe la finalità della politica occidentale, preparata da molto lontano – con l’operazione cristiana, come doppia torsione dell’eredità greco-romana e dell’eredità ebraica, come pastorato irriducibile a quello di Mosè ma anche opposto alla politica degli antichi. Il contesto che, per la politica occidentale nel suo insieme, dà forma alla governamentalità è dunque quello cristiano (e non giudaico-cristiano) (Karsenti 2006, 82).

In ogni modo, viene messa in risalto la novità dell’irruzione del cristianesimo, in seguito al quale si forma l’idea della politica

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come prassi di governo e del governo come specifico governo degli uomini. Foucault sottolinea come sia stato un padre della chiesa, il cappadoce Gregorio di Nazianzo, il primo a mettere al centro l’arte di governare gli uomini come «arte delle arti», «scienza delle scienze» – termini che erano tradizionalmente riservati alla filosofia ‒ e quest’arte era il pastorato: Infatti, ben prima del XVII e XVIII secolo, l’ars artium, che nell’occidente cristiano prese il posto della filosofia, non era un’altra filosofia, e neppure la teologia, bensì la pastorale. Era l’arte con cui si insegnava a governare gli altri, e si insegnava agli altri a farsi governare. Questo gioco del governo degli uni da parte degli altri, del governo quotidiano, del governo pastorale, è stato considerato per quindici secoli come la scienza per eccellenza, l’arte di tutte le arti, il sapere di tutti i saperi (Foucault 2017, 118).

È insomma solo con l’istituzione della Chiesa cristiana che il governo degli uomini fa una irruzione nella teoria e nella prassi politica occidentale: È la Chiesa cristiana ad avere codificato tutti i temi del potere pastorale in meccanismi precisi e istituzioni definite: ha organizzato un potere pastorale specifico e autonomo, ne ha installato i dispositivi all’interno dell’impero romano istituendo un tipo di potere che, credo, nessun’altra civiltà aveva conosciuto prima (Foucault 2017, 104).

Secondo Slongo, la vera originalità del cristianesimo – o meglio il suo carattere unico nella storia sociale – sarebbe stata individuata da Foucault non tanto nel suo contenuto religioso quanto nel fatto che con esso viene istituzionalizzata una religione che si trasforma in Chiesa e la teologia diventa il discorso di questa istituzione, nel quale si manifesta un progetto generale per la società: Ma la nozione di pastorato cristiano comporta, per Foucault, la riduzione del teologico alla sua realtà ecclesiale e, in più, la sua radicale specificità rispetto al “pensiero greco”: la teologia non è che funzione discorsiva “de l’institutionnalisation d’une religion comme Èglise”, nel suo carattere unico nella storia delle società. […] si evidenzia un progetto che mira a “quelque chose d’extérieur et de général”, e cioè “un projet absolument global, visant la société toute entière” (Slongo 2013, 436).

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Inoltre, merita notare ‒ con Agamben ‒ che l'idea della centralità del governo pastorale nella genealogia del potere in Occidente appare già in Carl Schmitt, in uno scritto del fatidico 1933, in cui ‒ in riferimento all’estensione dei poteri del presidente del Reich in quanto “custode della costituzione” ‒ lo definisce come un capo di Stato “costituzionale” che “regna ma non governa” e rielabora il concetto di guida del governo con una nuova figura denominata Führung, in cui riecheggia il dogma teologico che la Chiesa ha elaborato sul tema della guida del pastore: «Guidare [führen] non è comandare […] La Chiesa cattolica romana per il suo potere di dominio sopra i credenti ha trasformato e completato l’immagine del pastore e del gregge in un’idea teologico-dogmatica» (Schmitt 2005, 41).

Agamben può così affermare che in tale contesto, Schmitt «traccia una genealogia del “governo degli uomini” che sembra anticipare, in uno scorcio vertiginoso, quella che, nella seconda metà degli anni ’70, avrebbe occupato Michel Foucault nei suoi corsi al College de France. Come Foucault, egli vede nel pastorato della Chiesa cattolica il paradigma del moderno concetto di governo» (Agamben 2007, 90). Il seppur breve excursus storico compiuto da Foucault rivela che sia nei primi quindici secoli di storia del cristianesimo fino alla Riforma ‒ quella che va dal vangelo secondo Giovanni passando per i Padri della Chiesa (San Cipriano, Sant’Ambrogio, San Giovanni Crisostomo, Giovanni Cassiano, San Benedetto, San Gregorio Magno, ecc.), fino a chiudersi all’incirca alla fine del XV secolo ‒, sia, soprattutto, proprio con la Riforma e la Controriforma, il pastorato religioso mantiene in modo pervasivo il governo degli uomini: Nel corso del XVI secolo, non si assiste alla scomparsa del pastorato e neppure al trasferimento massiccio e globale delle funzioni della Chiesa allo stato. […] La Riforma e la Controriforma conferiscono al pastorato religioso un controllo, una presa spirituale degli individui molto più grande che in passato: incremento delle condotte di devozione, dei controlli spirituali, intensificazione del rapporto tra gli individui e le loro guide (Foucault 2017, 167).

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Seguendo Karsenti, è possibile sottolineare persino la peculiarità dell’origine cristiana del liberalismo, attraverso una catena di influenze: la politica viene intesa dal cristianesimo come governo, lo Stato come un prodotto del governo, il cristianesimo come religione politica dell’impero e, infine, il liberalismo ‒ religione politica dello stato moderno ‒ come un portato del cristianesimo: Allora, si sarebbe portati a rileggere questa lunga storia, che termina con le pratiche neoliberali americane e tedesche del dopoguerra, come una lunga storia dei mutevoli rapporti tra governo e politica – vale a dire, se si adotta l’angolo visuale più ampio, tra cristianesimo e politica. E così come si è potuto dire che lo Stato è una peripezia del governo, si sarebbe portati a dire che il liberalismo è una peripezia della religione cristiana, come religione politica. Peripezia fondamentale per noi, perché riassume e completa il processo di governamentalizzazione dello Stato avviatosi a partire dal XVI secolo (Karsenti 2006, 82-83).

Il liberalismo viene individuato come intrinsecamente connesso alla governamentalità. Il Leviatano non unifica il potere spirituale e quello temporale nel motto “Gesù è il Cristo”, come suggerirebbe la nota interpretazione di Schmitt. Al contrario di Schmitt, Foucault lascia disparati, ma in tensione, l’ambito spirituale e quello temporale: sarebbe qui, in questo spazio tensionale, che emergerebbe la governamentalità liberale. Foucault, implicitamente, comprende il frontespizio del Leviatano di Hobbes come figura emblematica dello Stato moderno occidentale: il sovrano tiene la spada e lo scettro pastorale, ma non li confonde, non li tiene nella stessa mano; ha due mani, e le due non fanno la stessa cosa. Persino nella sua pretesa di superare la separazione fra spirituale e temporale, persino nel suo gesto di unificazione della sovranità, il potere statale moderno resta un composto eterogeneo. […]. Tutto lo sforzo di Foucault è di lasciare persistere la tensione tra i due termini, anche e soprattutto nel momento in cui si articolano in una stessa figura. E di mostrare che è solo mantenendo questa tensione, condensata nella nozione di governamentalità, che l’emergenza del liberalismo diventa intelligibile (Karsenti 2006, 84).

Il cristianesimo come obbedienza pura: ecco la scoperta centrale di Foucault rispetto al pastorato cristiano. Ma non si tratta solo dell’obbedienza della pecora al pastore; a sua volta il pastore non desidera comandare ma agisce solo per adempiere ad

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un officium, come un servo, come un impiegato, come un civil servant. Si crea quindi quello che Foucault chiama «un campo di obbedienza generalizzata». Attraverso il pastorato, viene a crearsi una speciale soggettività: non avere altra volontà che quella di non averne. A questo proposito, Foucault cita San Benedetto: San Benedetto, nel capitolo V della sua Regola dice: “Non vivono più del loro libero arbitrio, ambulantes alieno judicio et imperio, procedendo sotto il giudizio e l’ordine di un altro, desiderano sempre che qualcuno li comandi” (Foucault 2017, 135).

L’istituzionalizzazione del pastorato nelle pratiche di governo trova ispirazione e fondamento genealogico nel corpo della morale cristiana, che fa tesoro della spiritualità classica ed ellenistica specialmente per quel che riguarda le prescrizioni e gli esercizi di controllo delle passioni (Hadot 2005). Tuttavia si osserva, col cristianesimo, una netta inversione dell’obiettivo da raggiungere col distacco dalle passioni, con la mortificazione dei desideri e dei piaceri carnali: mentre per i classici l’obiettivo della rinuncia ai desideri era l’acquisizione del potere su se stessi e sul proprio volere, per il cristianesimo essa è, all’opposto, la perdita della propria volontà, l’oblio di se stessi, che però qui equivale anche alla cessione ad altri della propria volontà. Osserva sempre Foucault (2017, 136): L’apatheia greca garantisce la padronanza di sé di cui rappresenta, in un certo senso, l’inverso. Si obbedisce e si rinuncia a un certo numero di cose, anche ai piaceri della carne e del corpo, come nella filosofia stoica e nell’ultimo epicureismo, pur di assicurare l’apatheia, che è l’inverso, il vuoto negativo dello stato positivo cui si mira, appunto la padronanza di sé. Per diventare maestri occorre rinunciare. La parola apatheia, trasmessa al cristianesimo dai moralisti greci o greco-romani, [acquisterà] un senso completamente diverso; la rinuncia ai piaceri del corpo, ai piaceri sessuali, ai desideri della carne avrà un effetto del tutto diverso nel cristianesimo. Che significa, infatti, per il cristianesimo assenza di pathè, cioè assenza di passioni? Vuol dire essenzialmente rinunciare al proprio egoismo, alla propria volontà individuale.

Foucault prosegue sottolineando che nella morale cristiana la rinuncia ai piaceri della carne non è però inattività. La passività di fronte al mondo era un temo caro a stoici e, anche, ad epicurei. Il pathos che si tenta di mettere a freno con le pratiche dell’obbedienza non è propriamente tanto l’attività passionale quanto la

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volontà rivolta a se stessi, perciò l’apatheia è tutt’altra cosa, essendo «la volontà che ha rinunciato a se stessa e non smette di rinunciare a se stessa» (Foucault 2017, 136)16. Il medesimo meccanismo internamente contradditorio Foucault lo riscontra nella stessa missione del pastore che, nella dottrina dell’obbedienza cristiana, è colui che è preposto al comando, a seconda delle varie funzioni che ricopre nella gerarchia ecclesiastica, ma comanda solo in quanto ordinato a farlo, quindi per una missione di obbedienza. Egli stesso, dal momento in cui è stato ordinato sacerdote, ha rinunciato alla propria volontà per obbedienza, e, sempre per obbedienza, deve assolvere ai propri compiti di comando, secondo la missione del proprio pastorato. Un aspetto importante, che sottolinea poi Foucault, è la peculiarità del pastorato, che ha una «economia complessa di meriti e demeriti» in riferimento a un principio generale della legge. Infatti la sottomissione personale – egli osserva– «avviene certamente sotto il segno della legge, ma al di fuori del suo campo, in una dipendenza che non ha alcuna generalità, non garantisce alcuna libertà» (Foucault 2017, 137), si direbbe perciò un puro stato di eccezione permanente, seppure di questo Foucault non faccia parola. Ma egli prosegue nell’analisi della dicotomia servo-padrone e, all’interno di essa, di quella «servitù-servizio», in questi termini: «La pecora, colui che è diretto, deve vivere il rapporto col pastore in termini di servitù integrale, mentre il pastore deve sentire la sua carica come un servizio che fa di lui il servitore delle sue pecore» (Foucault 2017, 137). Questo doppio rapporto comporta, per Foucault, la distruzione dell’io.

16 Può essere illuminante il commento di Karsenti, per il quale l’obbedienza del cristiano «è profondamente distinta dall’obbedienza alla legge, e anche dall’obbedienza a un signore determinato in vista di uno scopo determinato – anche quando si tratti della salvezza. Il governo degli uomini è governo “degli uomini attraverso gli uomini”, in un gioco infinito e continuo, che avvolge la vita in tutta la sua estensione come nelle sue intime pieghe, un gioco di relazioni nel quale nessuno, sia esso pastore o pecora, agisce secondo la propria volontà. Questo governo definisce ciò che Foucault chiama un “campo di obbedienza generalizzata”, nel quale non esiste in senso stretto istanza di comando, ma dove ogni comando rinvia al fatto di essere comandato, e perfino si dissolve nel fatto di essere comandato» (Karsenti 2006, 86-87).

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Nell’interpretazioni di Karsenti delle pagine foucaultiane sul pastorato, l’obbedienza «pura» è la «vera invenzione cristiana»17. Si tratta di un’invenzione in cui il soggetto annulla la propria volontà per un’obbedienza incondizionata18. Il pastorato cristiano non instaura direttamente un rapporto politico col soggetto, appare davvero un potere politico “altro” rispetto alle procedure disciplinari attuate dal sovrano o alla richiesta di obbedienza da parte del medesimo, che sono basate su un rapporto di potere verticale. Il pastorato invece opera orizzontalmente, inter-individualmente, religiosamente: eppure è un rapporto che può diventare politicizzabile nella misura in cui finisce poi per inglobare il rapporto politico. Il pastorato è religioso, ma l’autorità in esso presente ha cura, più che del fondamento della trascendenza, del compito di soggettivare l’individuo; secondo Foucault – memore della lezione di Nietzsche per il quale il soggetto creato dal cristianesimo è l’uomo peggiore, l’uomo malato – questo compito funziona sulla base di una sistematica distruzione dell’Io. In questo modo si forma un rapporto di obbedienza con la sovranità territoriale, pur senza identificarsi con essa o ridursi a un rapporto di pratiche disciplinari. Ciò è spiegato in questi termini: È questo il rapporto, non politico ma eminentemente politicizzabile – o che, in ogni caso, doveva per lungo tempo rivestire dall’esterno il rapporto politico, per poi abitarlo ed evolvere dentro di esso fino a subordinarlo a sé. Un rapporto forgiato orizzontalmente, al livello delle relazioni interindividuali; un rapporto che si può dire religioso, ma in cui la questione della trascendenza dell’autorità è molto meno decisiva di quella

17 «Il pastoralismo genera una situazione di obbedienza pura, della quale occorre comprendere che né i greci né gli ebrei – la massa radunata ai piedi del Sinai di cui parla Spinoza – potevano avere idea. Il principio dell’obbedienza pura, l’obbedienza come tipo di condotta unitaria, questa è la vera invenzione cristiana, da cui derivano gli effetti di istituzionalizzazione concretizzatisi nella forma della “Chiesa” e nelle sue procedure» (Karsenti 2006, 86-87). 18 L’obbedienza «consiste in un lavoro sulla soggettività, in un’individualizzazione del soggetto, in cui egli si costruisce sotto l’egida di una sottomissione a qualcuno, o piuttosto di una dipendenza nei confronti di qualcuno, in modo tale da non avere altra volontà che quella di non averne. Abbiamo qui una soggettivazione inedita: avere come sola volontà quella di non averne più» (Karsenti 2006, 86-87).

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della perpetuazione di una operazione soggettiva, che Foucault chiama in modo molto forte, con evidenti accenti nietzscheani, la “distruzione dell’io” – quella distruzione concertata, tecnicizzata, ininterrotta, della quale il cristianesimo sarebbe stato, nella sua versione occidentale, il grande operatore (Karsenti 2006, 86-87).

Va però sottolineato che Foucault non rivendica una esistenza libera dell’io che sia precedente all’intervento pastorale volto a minarlo e demolirlo, ma piuttosto conferma che, in ogni caso, l’io non esiste di per sé ma può esistere solo nella misura in cui viene formato dagli interventi appunto detti di soggettivazione, che, nel caso dell’intervento del pastorato, Karsenti definisce «soggettivazione per distruzione». Infatti, il pastorato rappresenta anche la storia delle modalità di creazione del soggetto occidentale. Col pastorato sparisce il modo precedente di identificare un individuo, un soggetto; quel modo si basava, per semplificare, su una triade di connotazioni: posizione di status nella società, natali che ne stabilivano la collocazione gerarchica nella società, valore dimostrato dalle azioni compiute. Invece, si introduce una nuova modalità di individualizzazione, in cui agisce un’altra inedita triade di componenti: col pastore cristiano assistiamo alla nascita di una forma di potere del tutto inedita. Assistiamo anche […] al delinearsi di quelle che potremmo definire modalità assolutamente specifiche di individualizzazione. Nel pastorato cristiano l’individualizzazione si realizza secondo una modalità particolare, che abbiamo visto all’opera nel rapporto con la salvezza, con la legge e con la verità. Questa individualizzazione, garantita dall’esercizio del potere pastorale, non sarà più definita dallo status, dai natali o dal valore delle azioni dell’individuo. Sarà invece definita in altri tre modi (Foucault 2017, 140).

Il primo modo rinuncia a considerare lo status oggettivo dell’individuo, sostituendolo con una graduatoria di meriti e demeriti risultante da un’analisi identificativa sempre mutevole, contingente, che tiene quindi l’identità del soggetto sempre sub condicione (dei suoi pregi e difetti valutati e misurati inappellabilmente da altri): innanzitutto, attraverso un gioco di scomposizioni che stabilisce in ogni istante l’equilibrio, il gioco e la circolazione di meriti e demeriti. Diciamo

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che si tratta di individualizzazione non di status, ma basata sull’identificazione analitica (Foucault 2017, 141).

Il secondo modo rinuncia a considerare il rango nella gerarchia sociale come anche la padronanza che l’individuo mostra di sé, per introdurre invece il bando dell’ego e l’obbedienza generalizzata di tutti a tutti, potremmo dire una forma di totale servitù volontaria, un modo che porta Foucault a formulare l’equazione “invidualizzazione uguale assggettamento”: è un’individualizzazione che non avviene mediante la designazione e l’attribuzione di un rango gerarchico dell’individuo. E non avviene neppure tramite la padronanza di sé, ma tramite una rete di servilismi che implicano una servitù generalizzata, in cui tutti sono servi di tutti, mentre vengono completamente banditi l’io, l’ego, l’egoismo come forme centrali e nucleari dell’individuo. Si tratta pertanto di un’individualizzazione mediante assoggettamento [assujettissement] (Foucault 2017, 141).

Il terzo modo rinuncia a considerare il valore delle azioni visibili ‒ una verità oggettivamente riconosciuta ‒ per sostituirlo con ciò che giace nel profondo della mente e che viene estratto, tramite esame di sé e confessione ‒ una verità interna e segreta: è un’individualizzazione che non si conquista grazie a una verità riconosciuta; al contrario, richiede la produzione di una verità interna, segreta e nascosta (Foucault 2017, 141).

Ecco, quindi, come Foucault ha riscritto la storia del soggetto occidentale: Identificazione analitica, assoggettamento e soggettivazione: ecco ciò che caratterizza le procedure di individualizzazione che saranno effettivamente messe in opera dal pastorato cristiano e dalle sue istituzioni. È tutta la storia delle procedure di individualizzazione umana in Occidente a essere mobilitata dalla storia del pastorato. Diciamo pure che è la storia del soggetto (Foucault 2017, 141).

E in questa storia, osserva ancora Foucault, appare un paradosso davvero singolare, consistente nel fatto che tanta indubbia grandezza della civiltà occidentale si basa, in fondo, su un uomo che è e si sente una pecora:

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Sta proprio qui il paradosso […] tra tutte, la civiltà dell’Occidente cristiano è stata senza dubbio la più creativa, la più conquistatrice, la più arrogante e certamente una delle più cruente. […] Ma allo stesso tempo – e vorrei insistere proprio su questo paradosso – l’uomo occidentale ha appreso nel corso dei millenni ciò che nessun greco avrebbe mai accettato di riconoscere: considerarsi una pecora tra le pecore. Per millenni, [l’uomo occidentale] ha imparato a chiedere la salvezza a un pastore che si sacrifica per lui. […] Questa forma di potere, così caratteristica dell’Occidente, e così unica, credo, in tutta la storia delle civiltà, è nata o almeno si è modellata sulla funzione del pastore, e su una politica considerata un affare da ovile (Foucault 2017, 104).

Peraltro, Foucault, nella sua incisione chirurgica di quell’oggetto che è il governo politico nella storia occidentale per portarne alla luce il contenuto nascosto e rimosso, sarebbe rimasto molto stupito, secondo Karsenti, per avere scoperto (particolarmente in Sicurezza, territorio, popolazione), sia il segreto del governo – ossia che il governo non è altro che il “governo degli uomini” – sia il segreto della materia umana – cioè che l’uomo è fatto per essere governato. Allo stupore si può associare persino un certo spavento, che sorgerebbe principalmente per tre motivi: per avere scoperto, di quel governo degli uomini, l’indistruttibile origine cristiana e ancor più inizialmente orientale, per aver visto, nel governo pastorale, il tipo di governo operante attraverso sia la pura e generalizzata obbedienza, sia la distruzione dell’Io, e, infine, per aver svelato che la politica non è una nobile attività superiore ma solo un vile lavorio da stalla di pecore19. Per Foucault la governamentalità attraverso il pastorato, costruita dal cristianesimo su basi orientali e giudaiche, non ha mai smesso di essere la chiave del governo negli ultimi duemila anni, a dispetto di rivoluzioni e mutamenti epocali, e quindi anche a

19 «uno stupore provato di fronte a una situazione molto semplice […] il governo è fondamentalmente e originariamente “governo degli uomini”. Gli uomini sono esseri che si governano, sono una materia specifica che deve essere governata […] Che la politica sia […] un “affare da ovili”, sembra essere stata per Foucault una fonte di spavento. È questo che egli ha visto, come un Cuvier della politica, nel momento in cui ha aperto lo Stato sulle pratiche governamentali e ha affondato il bisturi fino al cristianesimo» (Karsenti 2006, 83, 87).

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dispetto del diffuso riferimento ai modelli della libertà greco-romana e della filosofia greca (p.e. Socrate, stoicismo, epicureismo, ecc.) da parte della modernità liberale. Il pastorato sembra quindi costituire una “cappa” inamovibile, una trappola inevadibile, una macchina tecnica e linguistico-retorica in grado di costruire una nuova antropologia dell’obbedienza generalizzata e della dipendenza, entrambe queste ultime prodotte e nutrite indissolubilmente da “vuote” libertà20. La ricerca dei fondamenti genealogici del potere moderno nel pastorato cristiano non fa dimenticare a Foucault altri passaggi storici meno antichi che per lui restano cruciali e in cui il pastorato si rafforza riqualificandosi, come sottolinea nel passo qui riportato: È vero che la Riforma è una grande battaglia pastorale, più di quanto non sia una grande battaglia dottrinale, ed è vero che la posta in gioco della Riforma era proprio il modo di esercitare il potere pastorale; ma se si guarda all’esito della Riforma – un mondo protestante o di chiese protestanti, da un lato, e la Controriforma, dall’altro – bisogna ammettere che nessuno di questi due mondi ha rinunciato al pastorato. Al contrario, da questa serie di agitazioni e rivolte iniziate nel XIII secolo e stabilizzatesi all’incirca nel XVII e XVIII secolo, è scaturito un prodigioso consolidamento del potere pastorale […]. Ci sono state rivoluzioni antifeudali, ma non ci sono mai state rivoluzioni antipastorali (Foucault 2017, 117).

Quindi, nessuna rivoluzione politica, anche la più violenta, è mai uscita da questo spazio di potere, né ha mai seriamente depotenziato il macchinismo pastorale21. Nondimeno Foucault lascia spazio alla speranza di una liberazione dalla “cappa” di questo governo degli uomini: una vera profonda rivoluzione, che

20 Si veda ancora Karsenti: «il buon governo non deve essere cercato solo nello Stato, dal momento che quest’ultimo è espressamente governamentale, cioè produttore di quelle libertà che vengono pensate solo su misura delle dipendenze» (Karsenti 2006, 88-89). 21 Ha chiosato Karsenti: «che cos’è che, politicamente, non è mai accaduto?”, la risposta è: una rivoluzione antipastorale, una eliminazione del pastorato […]. Ancora di più, si può dire che le lotte stesse, in ciò che hanno avuto di più violento, nei processi rivoluzionari che hanno generato, si sono sempre svolte all’interno del suo spazio. Ogni volta, si trattava di sapere in che modo, perché e a vantaggio di chi cambiare pastorato» (Karsenti 2006, 88).

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probabilmente richiederebbe una totale e attualmente non immaginabile de-interiorizzazione di duemila anni di governamentalità. Infatti, il «pastorato non ha ancora conosciuto il processo di rivoluzione profonda che lo congederebbe definitivamente dalla storia» (Foucault 2017, 117). La grande perspicacia di Foucault emerge nel momento in cui 1) fa emergere nella politica del pastorato cristiano una caratteristica decisamente paradossale, ossia il riuscire a costruire un insieme procedurale dettagliato e completo per tenere sotto controllo ogni singola pecora e contemporaneamente l’intero gregge, paradosso che invece continua a tenere in scacco l’interpretazione ebraica e rabbinica del Mosè nel ruolo di pastore; 2) fa emergere, se non l’equivalenza, almeno una forte somiglianza fra le tecniche di potere nel pastorato cristiano, e le moderne tecniche di potere governamentale rispetto alle popolazioni e agli individui. Rispetto al primo punto, merita leggere le parole di Foucault per cogliere la novità del pastorato cristiano nella sua capacità del tutto originale – che supera quindi l’origine orientale – di gestire un paradosso intrinseco alla tecnica di potere sottostante, che per la salvezza del gregge ma anche di ciascuna pecora richiede il sacrificio del pastore per il gregge e del gregge per la singola pecora: Qui ci imbattiamo nel famoso paradosso del pastore, che assume due forme. Da un lato, il pastore deve avere l’occhio su tutti e su ciascuno, omnes et singulatim – e sarà questo a costituire il grande problema delle tecniche di potere nel pastorato cristiano, così come delle tecniche impiegate nella gestione della popolazione nella modernità […]. Omnes et singulatim. Il paradosso emerge in maniera ancora più chiara nel tema del sacrificio del pastore per il suo gregge: sacrificio di se stesso per la totalità del gregge, e sacrificio della totalità del gregge per la singola pecora. In altre parole, in questa concezione ebraica del gregge, il pastore deve tutto al suo gregge, al punto che per salvarlo accetta di sacrificare se stesso. D’altro canto, il pastore si troverà nella situazione di trascurare la totalità del gregge per salvare una singola pecora. È un tema ripetuto mille volte nelle varie sedimentazioni del testo biblico, dalla Genesi fino ai commenti rabbinici che hanno al loro centro la figura di Mosè. Mosè è colui che ha effettivamente accettato di abbandonare la totalità del gregge per andare a salvare una pecora; una volta trovata, la riporta sulle proprie spalle, e a quel punto anche il gregge, che aveva accettato di sacrificare, è salvo, simbolicamente proprio grazie al fatto di aver accettato quel sacrificio.

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Siamo al cuore della sfida, del paradosso morale e religioso del pastore: sacrificio dell’uno per il tutto, e del tutto per l’uno, che sarà al centro della problematica del pastorato cristiano (Foucault 2017, 103).

È stata già sottolineata la derivazione nietszcheana dell’elaborazione di Foucualt riguardo al tema del pastorato (p.e., Pandolfi 1999). Come noto, Nietzsche, nella Genealogia della morale, da un lato stigmatizza la diffusione della morale giudaico-cristiana come una decadenza rispetto alla morale signorile, ritenendola viziata dal ressentiment dell’uomo comune, una morale da schiavi basata sulla vendetta immaginaria di chi si vede privo della possibilità di azione, che potrebbe persino condurre all’anarchia e alla dissoluzione della comunità: Atteniamoci ai dati di fatto: il popolo ha vinto – ovvero “gli schiavi” o “la plebe” o “il gregge” […] “I signori” sono liquidati, la morale dell’uomo comune ha vinto. Si può considerare, al tempo stesso, questa vittoria come un avvelenamento del sangue […] La “redenzione” del genere umano (dai “signori”) è sulla migliore delle strade; tutto si giudaizza o si cristianizza o si plebeizza a vista d’occhio (Nietzsche 2012, Prima dissertazione, 9).

Dall’altro lato, Nietzsche si focalizza sulla figura e sul ruolo del prete, qualificandolo come pastore ed individuandone il ruolo di curatore della singola pecora come del gregge. Se il tema e l’intuizione già prefigurano l’ufficio del pastorato come modo di governo, tuttavia Nietzsche offre anche acute osservazioni non del tutto sottolineate. In particolare, notiamo che Nietzsche, di cui è noto soprattutto l’aspetto di invettiva contro i preti e la Chiesa, riconosce, seppure con motivazioni e sfumature diverse, a tale ufficio un ambiguo compito storico-antropologico che si avvicina a quello che Dostoevskij attribuisce al Grande Inquisitore, compito che è in bilico, a seconda delle interpretazioni, fra il rappresentare il male in opposizione al bene che è Cristo o rappresentare il miglior rimedio possibile per l’uomo al male rappresentato ‒ sempre per l’uomo ‒ da Cristo (vedi par. 1.4). Infatti, Nietzsche attribuisce al pastore il ruolo, oltre a quello ‒ poi ripreso da Foucault ‒ di sacrificarsi per curare accoratamente pecora e gregge, di mutare

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la direzione del ressentiment delle masse22 e di salvare così la società dalla auto-distruzione: In realtà costui [il prete] difende abbastanza bene il suo gregge malato, questo singolare pastore – lo difende altresì contro se medesimo, contro quella scelleratezza, malignità, malevolenza che persino nel gregge covano sotto la cenere […] lotta accortamente, spietatamente e segretamente con l’anarchia e con l’autodissoluzione sempre prossime a generarsi all’interno del gregge, nel quale si va continuamente vieppiù accumulando quella pericolosa sostanza deflagratrice ed esplosiva, il ressentiment. Far esplodere questa sostanza deflagrante così che non mandi all’aria né il gregge né il suo pastore, questo è il suo caratteristico giuoco di destrezza e anche la sua massima utilità: se si volesse compendiare, in una stringatissima formola, il valore dell’esistenza sacerdotale, si dovrebbe senz’altro dire: il prete è il modificatore di direzione del ressentiment […] “Io soffro: qualcuno deve averne colpa”– così pensa ogni pecora malaticcia. Ma il suo pastore, il prete asceta, le risponde: “Bene così, la mia pecora! Qualcuno deve averne la colpa: ma sei tu stessa questo qualcuno, sei unicamente tu ad averne la colpa – sei unicamente tu ad aver colpa di te stessa!” […] se non altro una cosa in tal modo è raggiunta, in tal modo come si è detto la direzione del ressentiment… è mutata (Nietzsche 2012, Prima dissertazione, 10);

e, inoltre, attribuisce alla Chiesa un ruolo inatteso di katechon, di paradossale trattenitore rispetto alla dissoluzione finale causata dalla diffusione inarrestabile della intossicazione della morale giudaico-cristiana: Il progredire di questa intossicazione, attraverso l’intero corpo dell’umanità, sembra irresistibile, il suo andamento e il suo incremento possono perfino, a partire da questo istante, essere sempre più lenti, più sottili, più inavvertibili, più cauti […] Compete ancor oggi alla Chiesa, sotto questo riguardo, un compito necessario […] Non sembra che essa intralci e raffreni quel progresso, invece di accelerarlo? Ebbene, potrebbe appunto essere questa la sua utilità (Nietzsche 2012, Prima dissertazione, 9).

22 Notiamo la somiglianza della tecnica del pastore di convincere l’individuo della propria colpevolezza per la situazione in cui si trova al fine di deviarne così il ressentiment ‒ genialmente osservata da Nietzsche ‒ con l’odierna tecnica del governo neo-liberale di convincere l’individuo di essere un capitale umano e di essere “responsabile” per lo stato del suo capitale (per la sua povertà, disoccupazione, dequalificazione, ecc.) al fine di demotivare così ogni richiesta di giustizia sociale.

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Naturalmente, il potere pastorale si evolve con il progresso della tecnica e con la secolarizzazione, palesando nuovi obiettivi caratterizzati più dal benessere intramondano ‒ obiettivi che erano peraltro già presenti nell’attività assistenziale delle chiese sia cattolica che protestante ‒ che dalla salvezza nell’aldilà, ma rimanendo sostanzialmente identico quale tecnologia di potere governamentale: È possibile osservare [nel potere pastorale] un cambiamento nei suoi obiettivi. Il problema non è più stato quello di guidare gli uomini alla salvezza nell’altro mondo, ma piuttosto di assicurarla in questo. In tale contesto la parola salvezza ha acquistato significati diversi: salute, benessere (cioè, sufficienti ricchezze, adeguato standard di vita), sicurezza, protezione dagli incidenti. Una serie di obiettivi mondani è venuto facilmente a prendere il posto di quelli religiosi della pastorale tradizionale, in quanto, per diverse ragioni, quest’ultima aveva già assunto in modo complementare un certo numero di quei fini; è sufficiente pensare alle funzioni dell’assistenza anche medica, che a lungo la chiesa cattolica e protestante hanno assicurato (Foucault 2001, II, 1049).

In conclusione, evidenziamo come il potere pastorale abbia alcune caratteristiche che, da un lato, lo distinguono decisamente dal potere sovrano dello Stato, e, dall’altro lato, appaiono incorporate in modo cruciale nell’odierno potere governamentale neo-liberale. È un potere che si esercita sulle popolazioni (vedi anche par. 1.14) e che ha come obiettivo le popolazioni intese come singolarità e moltitudine, e non si esercita su un territorio e per un obiettivo come la ragion di Stato. È un potere che riguarda ciascuno e tutti, concepiti – ancora una volta in modo paradossale – come equivalenti, e non è riferito ad una totalità come il popolo, che è un concetto dove il tutto è altro e superiore rispetto alla somma dei componenti. È quindi possibile individuare una somiglianza fra questo potere e quello concepito dai pensatori neo-ordoliberali.

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1.3. Pastorato cristiano versus pensiero greco nella politica occidentale guardando al modo in cui le cose nascono dal loro principio […], si otterranno i risultati migliori. (Aristotele, Politica, I, 1252a) [gli uomini al tempo di Crono] li pascolava la divinità stessa, presidiandoli, proprio come gli uomini, […] pascolano adesso altre specie a loro inferiori. E sotto la sua cura non c’erano costituzioni (politeiai) né possesso di donne e bambini, perché tutti rivivevano dalla terra, immemori della vita di prima. (Platone, Politico, 271e) La colpa produce caducità. Per sottrarsi alla caducità, l’uomo deve tentare di liberarsi dalla colpa che si è accumulata in lui durante la vita […]. La parola egiziana per dire “mummia”, sch, vuol dire anche “dignità” e “nobiltà”. Quale ultimo stadio della mummificazione, il defunto si sottopone al vaglio del tribunale dei morti e ottiene infine la “nobiltà della mummia”. (Assmann 2002, 139)

È molto importante sottolineare l’insistenza con cui Foucault tende a dimostrare l’estraneità del pensiero greco alla concezione del potere come pastorato. Infatti, individuare il governo odierno come il portato secolarizzato di una concezione giudaico-cristiana, che poi si autonomizza e perfeziona nel cristianesimo istituzionalizzato, significa riportare in “oriente” e nei confessionali delle chiese la matrice del pensiero politico liberale, che invece aveva costruito, come noto, la propria carta d’identità in riferimento alla polis greca (proprio come contrapposta al dispotismo orientale). Foucault è infatti chiaro nel rintracciare – attraverso la metaforica, la mitologia e le scritture – una distinzione invalicabile nelle concezioni dei due poteri per eccellenza, quello divino e quello terreno – il dio e il re – fra l’ambito greco e quello orientale ed ebraico. La distinzione si basa appunto sul concetto di potere come pastorato. «Ci imbattiamo qui, mi sembra – afferma Foucault –, in un elemento di fondamentale importanza, verosimilmente assai peculiare a questo Oriente mediterraneo, affatto diverso dal mondo dei greci. Poiché non troverete mai, presso i greci, l’idea che gli dei guidino gli uomini come un pastore guida il gregge» (2017, 100). Il re greco è un timoniere che governa la nave, meta-

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fora per la città-stato. L’oggetto della sua azione di governo è la nave nel suo insieme, non gli individui. Gli individui, semmai, sono contemplati solo nella misura in cui sono marinai a bordo della nave, ma non costituiscono mai, come individui, l’obiettivo del governo, e peraltro il loro controllo è affidato a intermediari del potere come i capi-ciurma. Foucault infatti osserva, da una semplice analisi, la prevalenza delle metafore in cui il re è assimilato a un timoniere e la città a una nave, occorre sottolineare che chi è governato […] è la città stessa, simile a una nave che, tra gli scogli e in piena tempesta, è costretta a destreggiarsi per evitare i pirati, i nemici, ed è questa nave che va condotta sicura in porto. L’oggetto del governo non sono gli individui; il capitano o il pilota della nave non governano i marinai, bensì la nave, così come il re governa la città, non gli uomini della città. È la città […] a costituire l’obiettivo del governo. Gli uomini dal canto loro sono governati solo indirettamente, in quanto imbarcati sulla nave […] Ma non sono gli uomini in quanto tali a essere direttamente governati da chi è al comando della città (Foucault 2017, 98).

Il dio greco appare nello splendore e nel gioco e il re greco lo imita. Al contrario, il dio orientale ed ebraico – o il suo incaricato come Mosè – appare come un occhiuto pastore che veglia e fatica nei suoi compiti. Il dio greco e il re greco appaiono sulle mura a difendere la loro polis, il loro stato, il loro territorio. Il dio ebraico o i suoi incaricati appaiono alla testa di moltitudini in cammino. Se Atena è la divinità della polis, il dio ebraico lo è del cosmopolitismo. La fondamentale differenza fra i greci e gli orientali sta proprio nel concetto di soggetto, di popolo a cui si deve riferire la sovranità dall’alto. Per i greci il popolo soggetto alla sovranità è quello della polis, della città, dello stato, del territorio giuridicamente e fisicamente delimitato. Il dio greco fonda la città, ne indica il luogo di insediamento, contribuisce alla costruzione delle mura, ne garantisce la solidità, le attribuisce il suo nome, invia oracoli mediante i quali trasmette i suoi consigli. Gli uomini consultano il dio, che interviene e protegge; può accadere che si adiri e poi si riconcili, ma in nessun caso il dio greco guida gli uomini della città come il pastore guida le sue pecore (Foucault 2017, 100-101).

Per gli orientali, ma soprattutto per gli ebrei, il popolo è una “moltitudine” senza territorio, genericamente in movimento,

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verso la Terra promessa. Foucault riassume i tratti specifici differenzianti quello che è il potere per i greci da quello che è per gli ebrei il potere del pastore non si esercita su un territorio, ma per definizione su un gregge e, più esattamente, sul gregge che si sposta da un luogo all’altro. Il potere del pastore si esercita essenzialmente su una molteplicità in movimento. Il dio greco è un dio territoriale, intra muros, che ha un suo posto privilegiato, una città o un tempio. Il Dio ebraico è invece il Dio che cammina, si sposta, è errante. La sua presenza è più intensa e visibile proprio quando il suo popolo si sposta. Quando il popolo vaga, […] Dio prende la guida e gli mostra la direzione da seguire. Il dio greco appare sulle mura per difendere la propria città, mentre il Dio ebraico appare nel momento in cui inizia a seguire la via che attraversa i prati. “O Dio, quando movesti alla testa del tuo popolo”, dicono i Salmi (Foucault 2017, 100).

È importante sottolineare questa differenza fra le peculiarità distintive che le culture greca ed ebraica attribuiscono al potere: la differenza dell’oggetto su cui esso si esercita. Per i greci esso si esercita su un territorio ben specificato (e su un soggetto strettamente a quello collegato, come il cittadino della polis), per gli ebrei si esercita su quella che Foucault chiama “una molteplicità in movimento”, senza un territorio e su un soggetto senza attributi se non quello di appartenere a una moltitudine che solo una religione può tenere unita23. Foucault rammenta che semmai ci sia un riferimento al territorio nel pensiero ebraico è solo perché «il dio-pastore sa dove sono i prati fertili, conosce le strade buone su cui incamminarsi e i luoghi propizi al riposo. A proposito di Yahvè, nell’Esodo si dice: «Hai condotto, con la tua grazia, questo popolo che hai riscattato, l’hai guidato, con la tua forza, alla tua santa dimora» (Foucault 2017, 100-101). Altra caratteristica centrale del potere pastorale nell’ebraismo è che esso viene esercitato direttamente da Dio (generalmente non dai re): qui sta il tipico potere religioso ebraico. La direzione pastorale – osserva ancora Foucault – nella sua forma tipica

23 «Diversamente dal potere che si esercita sull’unità del territorio, il potere pastorale si esercita su una molteplicità in movimento» (Foucault 2017, 101).

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e autentica è essenzialmente una relazione che Dio instaura con gli uomini sulla base di un patto religioso tra la divinità e il suo popolo. Va, inoltre, messo in risalto un altro carattere: il potere pastorale è in primis potere di nutrimento, potere di cura. Nutrimento in senso ampio, come dalla comune radice pâ derivano pascere, pascolo, ma anche pasto, pane e pastore (e, forse, padre). Il potere pastorale mi pare […] interamente caratterizzato dalla sua capacità di fare del bene: la sua ragion d’essere si esaurisce in questa funzione, perché l’obiettivo essenziale del potere pastorale è la salvezza del gregge. In questo senso, certo, non siamo molto lontani dall’obiettivo tradizionalmente attribuito al sovrano, la salvezza della patria, lex suprema, dell’esercizio del potere. Ma nella tematica del potere pastorale la salvezza da assicurare al gregge possiede un senso molto preciso. La salvezza è innanzitutto la sussistenza fornita, il nutrimento garantito, i pascoli più buoni. Il pastore è colui che nutre il gregge direttamente con le sue mani o, comunque, guidandolo verso i prati fertili e accertandosi che gli animali mangino a dovere. Il potere pastorale è un potere che cura: assiste il gregge, i suoi membri, si preoccupa che le pecore non soffrano, parte alla ricerca di quelle che si sono smarrite e cura quelle che sono rimaste ferite (Foucault 2017, 101).

Foucault, riferendosi anche a un commento rabbinico, fa l’esempio di Mosè, scelto da Dio come guida del popolo d’Israele verso la Terra promessa proprio perché aveva dato prova in Egitto di essere un ottimo pastore di greggi. Infatti, quando era in Egitto Mosè era molto bravo a far pascolare le sue pecore e sapeva, ad esempio, che quando arrivava in un prato doveva accompagnare per prime le pecore più giovani affinché potessero cibarsi dell’erba più tenera, e poi le più anziane e robuste, capaci di brucare l’erba più dura. In questo modo ogni pecora, secondo le sue caratteristiche, disponeva dell’erba di cui aveva bisogno e di un nutrimento adeguato. Il pastore, Mosè, presiede a questa distribuzione giusta, calcolata e ponderata del nutrimento, e Yahvè, assistendo alla scena, gli dice: “Poiché tu sai avere pietà delle pecore, avrai pietà del mio popolo ed è a te che lo affiderò” (Foucault 2017, 101-102).

Ma chi è questo accurato benefattore? È un dio-governatore. Quale forma splendente dovrebbe assumere questo dio? Quella, in realtà dimessa e umile, del pastore. Con quali peculiarità si

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manifesta questo dio-pastore? Con lo zelo, con la devozione, col dovere continuo e infinito. In qual modo riesce a svolgere il suo compito? Vegliando, vigilando. Infine, perché lo fa? Perché questo è il suo ufficio, oneroso e non onorifico. Il potere del pastore si manifesta pertanto in un dovere […] attraverso lo zelo, la devozione, l’infinita sollecitudine. Chi è il pastore? Colui la cui potenza balza agli occhi degli uomini, come succede per i sovrani o gli dei greci che appaiono in tutto il loro splendore? Niente affatto. Il pastore è qualcuno che veglia […] sul gregge e sventa tutte le disgrazie che potrebbero minacciare le pecore. Questo vale sia per il Dio ebraico sia per il dio egizio, a proposito del quale si dice: “Oh Ra, tu che vegli quando gli uomini dormono e cerchi il bene per il gregge …”. Per quale motivo? Essenzialmente perché detiene una carica che non è definita in primo luogo dalle onorificenze, ma dall’onere e dalla fatica (Foucault 2017, 102).

È solo con la Chiesa divenuta istituzione che anche il pastorato sarà istituzionalizzato, acquisendo uno statuto autonomo e inclusivo, formato da “leggi, regole, tecniche e procedure”. Se nell’ebraismo il tema di Mosè pastore era posto a fianco di altri temi, nella Chiesa del Cristo pastore esso diventa “la chiave di volta di tutta l’organizzazione della Chiesa”: Nella Chiesa cristiana, invece, il tema del pastore […] diventerà il rapporto fondamentale, essenziale, che comprende tutti gli altri e che, inoltre, si istituzionalizza in un pastorato con le proprie leggi, regole, tecniche e procedure. Il pastorato diventa perciò autonomo, inglobante e specifico. Nella Chiesa tutti i rapporti di autorità sono fondati sui privilegi e, contemporaneamente, sui compiti assunti dal pastore nei riguardi del suo gregge. Cristo è un pastore che si sacrifica per ricondurre a Dio il gregge che si è smarrito e si sacrifica non solo per il gregge in generale, ma per ogni singola pecora. Ritroviamo qui il tema mosaico del buon pastore [… che] diviene ora la chiave di volta di tutta l’organizzazione della Chiesa (Foucault 2017, 119).

Quindi, per Foucault, la politica antica, l’esperienza della polis, è sostanzialmente estranea alla costituzione e alle caratteristiche dell’esperienza politica del mondo occidentale. Quest’ultima è, invece, il portato del cristianesimo, anche nelle sue odierne modalità di governo.

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Per Foucault, il governo delle anime del pastorato della Chiesa diventa il modello da cui dopo il 1700 nasce il moderno governo della popolazione, che eredita e conserva l’arcano del governo economico divino riflesso nel pastorato: la cura pastorale omnes et singulatim si trasla nel moderno governo che individualizza e totalizza. Foucault è consapevole che pastorato della chiesa e governo politico aderiscono alla medesima idea di gestione economica, modellata sull’ordine dell’oikonomia del pater familias che gestisce efficientemente l’ordine degli individui, delle cose e delle ricchezze, e condividono lo stesso paradigma ‒ quello dell’economia. Inoltre, egli è estremamente chiaro nell’affermare che lo scopo essenziale del governo è, in fondo, l’introduzione dell’economia politica all’interno della politica e che l’arte di governo consiste nell’esercizio del potere in forma economica. Agamben critica Foucault per non aver portato la sua analisi archeologica ancora più indietro rispetto al tempo del trionfo del pastorato e del regime medievale. Foucault avrebbe, infatti, continuato a ritenere che nel regime medievale come nel tomismo vi fosse una sostanziale unità (vedi par. 1.10) fra sovranità e governo ‒ ossia non fosse stato ancora chiarito che “il re regna ma non governa” ‒, unità che per Foucault si sarebbe rotta solo con il diffondersi del nuovo paradigma scientifico24. Secondo Agamben, la genealogia 24 Agamben critica per lo stesso motivo ‒ ossia, che il regime medievale sarebbe un binario morto che non porta al moderno governo politico ‒ anche il curatore della pubblicazione delle lezioni foucaultiane, Senellart (1995), in quanto «il concetto moderno di governo non continua la storia del regimen medievale, che rappresenta, per cosi dire, una sorta di binario morto nella storia del pensiero occidentale, ma quella, del resto assai più ampia e articolata, della trattatistica provvidenziale, la quale ha, a sua volta, origine nell’oikonomia trinitaria» (Agamben 2007, 128-129). Senellart aveva creduto di individuare la radice della governamentalità, di cui parla Foucault, nella nozione medievale di regimen, inteso come governo/ ministero, responsabile della esecuzione degli interventi dell’autorità pubblica quale potere intermediario della volontà sovrana, da cui Machiavelli riprenderà per delineare una scienza dello stato. Tuttavia il concetto di governamentalità di Foucault è irriducibile alla nozione di governo/potere esecutivo, che è pur sempre un elemento della logica della sovranità, a cui, invece, il concetto foucaultiano pare più antitetico che complementare. In questo senso, vale l’avvertenza che «l’equivoco che consiste nel concepire il governo come potere esecutivo è uno degli errori più carichi di conseguenze della storia del pensiero politico occidentale» (Agamben 2007, 173).

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foucaultiana della governamentalità avrebbe potuto essere portata più indietro fino a scoprire che l’origine della nozione di un governo economico degli uomini e del mondo è situata direttamente nel divino, attraverso il concetto trinitario in cui nella vita divina si articolano già in chiave economica regno e governo del mondo. Infatti, secondo Agamben, «il primo germe della divisione fra Regno e Governo è nella oikonomia trinitaria, che introduce nella stessa divinità una frattura fra essere e prassi» (2007, 127): è qui la radice della cosiddetta teologia economica25. Inoltre, Foucault non avrebbe nemmeno registrato l’importanza del dibattito post-rinascimentale sulla provvidenza, la quale non è altro che l’elemento teologico in cui e da cui si manifesta l’economia. Agamben spiega perciò, in modo parzialmente alternativo e parzialmente complementare, il passaggio dal pastorato al governo statale moderno rispetto a quanto fatto da Foucault ‒ che, secondo Agamben, avrebbe cercato di «spiegare, a dire il vero in modo non troppo convincente, attraverso il sorgere di tutta una serie di controcondotte che resistono al pastorato». La spiegazione di Agamben concepisce, invece, quel passaggio «come una secolarizzazione di quella minuziosa fenomenologia di cause prime e seconde, prossime e remote, occasionali ed efficienti, volontà generali e volontà particolari, concorsi mediati e immediati, ordinatio ed executio, attraverso i quali i teorici della provvidenza avevano cercato di rendere intellegibile il governo divino del mondo» (Agamben 2007, 128). Piuttosto, suggerisce Agamben, la nascita del paradigma scientifico è coeva alla frattura fra governo pastorale e governo statale, in quanto attorno a quel paradigma ruota una radicalizzazione della dicotomia, apparentemente solo teologica, fra provvidenza generale e provvidenza speciale, che può essere intesa

25 «Provvidenza è il nome dell’”oikonomia”, in quanto questa si presenta come governo del mondo. Se la dottrina dell’oikonomia — e quella della provvidenza che da essa dipende ‒ possono essere viste, in questo senso, come macchine per fondare e spiegare il governo del mondo e solo in questo modo diventano pienamente intellegibili, è altrettanto vero, per converso, che la nascita del paradigma governamentale diventa comprensibile solo se lo si situa sullo sfondo “economico-teologico” della provvidenza di cui è solidale» (Agamben 2007, 127-128).

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come l’opposizione fra Regno e Governo, fra essere e prassi, fra il deus otiosus e il deus actuosus (in cui è evidente la reminiscenza gnostica, vedi par. 2.2), con il secondo termine di queste opposizioni che da quel momento inizia a prevalere sul primo. Tuttavia, suggerisce ancora Agamben ‒ e qui sta il suo distintivo contributo ad una teoria teologico-economica ‒, il governo può essere pensato solo se essere e prassi sono “economicamente” divisi epperò coordinati, ovvero se esiste una macchina teologico-economica di tipo bi-polare in cui il polo del Regno e quello del Governo restano collegati ma collocati su due piani distanti, la cui distanza varia a seconda delle epoche e dei saperi-poteri dominanti26. Questa macchina teologico-economica sottolineata da Agamben ha una sua diretta conseguenza sulle forme del potere, che dal privilegio dell’essere, ossia dalla verticalità della sovranità descritta dalla teologia politica e mirante al sommo bene, passa alla fatica della prassi, che mira all’efficienza nelle opere particolari, differenziate e minute. La figura del potere passa quindi da quella del vertice imperscrutabile e autocratico a quella del pastore, gestore abile e flessibile del piano di salvezza, ossia, più in generale in termini politici, passa a quella di un potere-servitore mirante all’incremento della vita27.

26 Ad esempio, possiamo dire che nell’epoca attuale, e nel nesso “potere capitalistico-sapere economico” che la caratterizza, il Governo “puramente economico e amministrativo” è in assoluto primo piano mentre il Regno è svanito e opacizzato nello sfondo. 27 Gli effetti della teologia economica di Agamben sulle forme del potere sono sintetizzati in questi termini da Bazzicalupo (2013a, 5): «Il principio di verità non si limita a manifestarsi nella carne del Cristo, ma si dispiega come opera di mediazione e salvazione, scendendo dalla verticalità dell’essere (la teologia politica) al tortuoso iter delle cose da fare, nella casistica di provvidenze differenziate. Queste si misurano nell’efficacia dell’opera, non nella sua ‘somiglianza’ alla sfera del bene. Nel dispositivo si presenta ‒ cioè si fa visibile e concreto ‒ un potere che non è l’Imperscrutabile, l’assoluto, ma auctoritas, l’adattatore, il gestore del piano di incremento della vita. Una figura, quella del potere-che-serve, che fa da pastore, che non parla a nome di se stesso perché si subordina ad una verità per un compito pratico».

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1.4. Il pastorato del Grande Inquisitore [È] questo il tratto più distintivo del cattolicesimo romano, almeno a mio avviso: “Tutto, dice, è stato trasmesso da Tu [Gesù] al Papa e, dunque, ora tutto è nelle mani del Papa; Tu puoi anche evitare di venire o se non altro, non infastidirci prima del tempo”. E in questo modo non solo parlano, ma anche scrivono, i gesuiti. (Dostoievskij 1994, 263) O greggia mia che posi, oh te beata,/ che la miseria tua credo non sai! (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)

La potenza della letteratura ha trattato in modo indiretto il tema del pastorato, facendo risaltare una figura sublime che ne incarna una rappresentazione, talvolta fuorviata dalla vulgata popolare che ne farebbe soltanto un semplice sadico, torturatore, fanatico della fede e oscurantista: l’Inquisitore. Seguendo Zagrebelsky (2015), distinguiamo due rappresentazioni letterarie di tale figura, quella del dramma Don Carlos di Schiller (2004) e quella della “leggenda” inserita come un capitolo ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij (1994)28. Infatti, come noto, nel paragrafo V del libro V (Pro e contra) della parte II de I fratelli Karamazov, pubblicato nel 1880, Ivàn Karamazov racconta al fratello Alëša un suo «sconclusionato poema» che diventerà noto come «la leggenda del Grande Inquisitore»29. Per Badii e Fabbri (2013, 14) «l’eternità della Leggenda del Grande Inquisitore, la sua capacità di parlarci e di parlare di noi, si deve al fatto di essere una “metafora assoluta” per lo scenario tar-

28 Tale capitolo fu già nel 1894 rinominato da Vasilij Rozanov col titolo, tuttora esistente, di La leggenda del Grande Inquisitore, e presentato come uno scritto eminentemente filosofico e simbolico da leggersi come un testo autonomo rispetto al famoso romanzo in cui è incluso. 29 Osserva Zagrebelsky: «siamo di fronte, oltre che a una pagina di grande e potente letteratura, a un trattato sui massimi problemi della filosofia politica (la natura del legame sociale e l’origine dell’obbedienza), della teologia politica (la funzione della religione nel governo degli uomini), dell’antropologia politica (la disposizione degli esseri umani di fronte alla propria libertà e all’altrui potere) e della filosofia morale (la natura della felicità e dell’infelicità)» (Zagrebelsky 2015, 39).

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do-moderno», dove le metafore “assolute” sono appunto quelle metafore che, secondo Blumenberg (1960), si mostrano irriducibili al programma della filosofia cartesiana di rendere del tutto inutili le traslazioni linguistiche ‒ quali sono le metafore ‒ attraverso la creazione di un linguaggio filosofico puramente logico-concettuale, sono cioè quelle immagini del mondo (Weltbilder) che vanno intese come orizzonte ultimo di riferimento per orientare l’uomo nella sua prassi. Per Badii e Fabbri (2013, 17), la Leggenda è, in particolare, metafora assoluta rispetto alle “entità” necessarie per pensare il mondo – quali Dio, tempo o storia, natura, natura umana, male, bene – che i personaggi del Grande Inquisitore e del Cristo esibiscono di fronte ai lettori della Leggenda – l’uno con la logica ferrea delle sue accuse, l’altro col suo mite tacere e coll’enigmatico bacio che chiude, o forse differisce soltanto, la resa dei conti tra i due personaggi.

Possiamo, sempre rivisitando Badii e Fabbri (2013), enucleare sei questioni ‒ e interpretazioni ‒ che si possono trarre dalla Leggenda. Nella prima ci si domanda se libertà e felicità umana siano conciliabili o antitetici. La seconda offre una dicotomica ed inconciliabile lettura delle possibilità di emancipazione dell’uomo occidentale: da un lato, secondo l’Inquisitore, tale emancipazione sarebbe impossibile perché l’uomo è troppo fragile e incapace se non di darsi alla servitù volontaria, dall’altro lato, secondo Cristo, sarebbe possibile per la forza e la capacità ottenibili dalla grazia. La terza si domanda se le istituzioni abbiano un ruolo positivo per l’uomo, riducendone le ansie spirituali e le miserie materiali, oppure negativo, indebolendone la costituzione più di quanto non lo sia già all’origine a causa della sua indifesa “apertura al mondo”. La quarta si interroga sulla possibilità o meno che il rapporto tra l’uomo e la trascendenza (fede in Dio o in un’utopia politica) sia mediato da una autorità (chiesa, partito o stato) del tutto necessaria per il tempo dell’attesa oppure questa mediazione non solo non sia necessaria ma sia invece fonte di corruzione della purezza iniziale della fede o dell’utopia di redenzione. La quinta si domanda se la relazione fra uomo e mondo debba implicare la politica e, quindi, anche la connessa violenza, oppure l’uomo

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debba astenersi dalla politica, ovvero si chiede quale deve essere la relazione fra etica e azione politica, dicotomicamente divisa, riguardo a quale sia l’etica che deve guidare l’azione, fra l’etica dell’intenzione (rappresentata dal Cristo, estraneo al mondo se non per agire a scopo di amore, fede, libertà di coscienza) e l’etica consequenzialista (rappresentata dall’Inquisitore che considera realisticamente le conseguenze del proprio agire per realizzare la desiderata trasformazione del mondo). La sesta mette in guardia dal considerare il conflitto politico come scontro di valori, in quanto sia l’Inquisitore che il Cristo amano profondamente l’uomo e quindi stanno testimoniando lo stesso valore, ma la loro inconciliabile opposizione è dovuta, piuttosto, alle due diverse immagini del mondo e al modo di realizzare i valori nel mondo e nella società. Possiamo inoltre distinguere due tipologie dell’Inquisitore medesimo, consegnateci dalla letteratura, che, sebbene contraddistinte da una duplice differenza negli obiettivi dichiarati e nei metodi perseguiti, di cui diremo qui di seguito, rappresentano due facce della stessa medaglia del “pastorato” cristiano, nella sua evoluzione verso la moderna forma di governamentalità nei termini foucaultiani. Due lati della medaglia che in parte possono essere coesistenti, in parte invece rappresentano due diversi segmenti della linea temporale lunga duemila anni, in cui inizialmente ha prevalso la faccia dell’Inquisitore Pastore-per-repressione e poi, all’incirca a partire dal ’700 illuminista ed economicista (con le sue Rivoluzioni politiche) fino alla consolidazione nel periodo odierno, ha prevalso il volto dell’Inquisitore Pastore-per-seduzione. Le due figure di Inquisitore sono letterariamente espresse la prima da Schiller e la seconda da Dostoevskij. Teologicamente, la prima ha il fine primario di guidare i comportamenti umani verso la salvezza prescritta dalla fede con qualsiasi mezzo: per essa il fine (la fede e la salvezza) giustifica i mezzi (il rogo). In questo appare gemella alla machiavellica ragion di Stato, che si afferma con la nascita degli Stati moderni. Antropologicamente si confronta con l’uomo post-lapsariano, con l’uomo imperfetto dopo la caduta, tendenzialmente ribelle e dubbioso (l’uomo hobbesiano e giusnaturalista, che solo nello stato di natura si sentirebbe libero e sovrano), e bisognoso quindi di essere messo con la forza sulla retta

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via (ovviamente raggiungendo la massima efficacia della guida pastorale non tanto nella ferrea punizione del reo, ma piuttosto quando il peccatore introietta la sua colpa e riconosce, persino mentre sale sul rogo, la gioia della salvezza). La seconda figura, teologicamente, mette in preminenza il governo, l’amministrazione, cioè il mezzo, che diventa la seduzione e il convincimento, mentre il fine, pur sempre primario, è l’addomesticamento, l’istupidimento, l’intorpidimento di ogni istinto di volontà e libertà, quindi la fede del singolo come gioia di appartenenza al gregge dei fedeli senza domande su come quest’ultimo sia condotto nel suo insieme. Antropologicamente, invece, qui l’uomo è considerato di natura tendenzialmente affine alla sottomissione e timoroso della libertà, e quindi ben disposto a sottomettersi alla “guida” pastorale che lo conduce senza alcun sforzo ad una salvezza in forma di benessere da aversi nell’aldiquà più che nell’aldilà. E in questo caso anche il rogo, che infatti sarà ancora applicato per gli irriducibili che non accettassero la “guida” verso il benessere in cambio della libertà, apparirà però più come un festa e una celebrazione di massa per la Gloria di chi ha portato la salvezza-benessere che come una pena necessaria alla salvezza del reo. Il rogo non è più il terrifico strumento per il recupero alla vita cristiana del reprobo in obbedienza alla volontà divina, ma rappresenta al massimo un momento celebrativo per il volgo ‒ che non sa cosa fare della propria libertà ‒ a fronte di quei condannati che invece hanno osato elevarsi sopra il volgo mostrando interesse per la libertà30; traslando all’oggi i termini (e ovviamente

30 «Tuttavia, si poteva, all’occorrenza, del rogo recuperare un valore come “ragion del volgo”, trasformandolo in un rito della città, una cerimonia perfino festosa, proprio com’era accaduto per quelle centinaia di eretici bruciati nel “grandioso autodafé” celebrato come un rituale del potere il giorno prima dell’incontro col Cristo sulla piazza della Cattedrale di Siviglia, davanti alla corte al completo e al suo codazzo. A quella celebrazione il cardinale Grande Inquisitore aveva partecipato ma, potremmo dire, come se si trattasse d’una necessità dei tempi non ancora giunti nella perfezione del compimento […]. Quando ciò sarà accaduto, il «governo pastorale» che guiderà gli uomini (non verso la salvezza: come vorrebbe insensatamente il Cristo, ma) verso il quieto benessere avrà bandito la violenza dal suo armamentario. Non si trattava primariamente di punire, di fare soffrire i colpevoli, ma piuttosto di dare sollievo agli innocenti, facendoli sentire dalla parte giusta nella genuflessione collettiva davanti ai loro benefattori, mostrando, al tem-

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anche i costumi), al “rogo” sarebbero inviati quegli intellettuali che non hanno riconosciuto le buone pratiche manageriali per la governance e invece sognano improbabili e dannose libertà, come ben chiariva il documento della Commissione Trilaterale del 1975 (vedi par. 5.8). È utile indicare gli elementi che distinguono i due tipi di Inquisitore, ovvero in una certa misura le due forme e i due periodi storici di pastorato cristiano. L’Inquisitore schilleriano rappresenta la sapienza politica dei preti al servizio del principe e l’obbedienza del principe al servizio della sapienza dei preti, in una fusione che “l’arte del governo” rende incondizionatamente necessaria, perfino a costo del più abominevole dei delitti, l’assassinio del figlio […]. In sintesi, secondo l’Inquisitore schilleriano: i governanti devono soffocare la legge di natura; devono far tacere amore e pietà e ricordarsi soltanto del “governo” ch’essi impersonano (Zagrebelsky 2015, 27).

Sebbene i due Inquisitori condividano elementi comuni presi dalla storia, come la freddezza e spietatezza della ragion di Stato, la inderogabile necessità e la inconoscibilità per l’uomo comune della presenza degli arcani del potere31, la situazione storica spagnola – in cui si ebbe il tragico confronto tra Filippo II, re di Spa-

po stesso, in quali mali s’incorre quando ci si lascia prendere dall’inquietudine e dalla tentazione del dubbio, e da quali mali si è esenti, quando vi si rinuncia. Per questo, quell’autodafé […] permetteva di mostrare la grande benevolenza degli inquisitori nei confronti degli umili che non sanno che farsi della libertà: la libertà che è il lusso degli orgogliosi, degli arroganti, dei superbi, di coloro che possono e vogliono distinguersi dal volgo. Questi, gli aristocratici nello spirito e i ricchi di beni che rendono superbi, sono i veri nemici dell’Inquisitore» (Zagrebelsky 2015, 34-35). 31 «Il governo ha le sue fredde leggi che non conoscono passione e compassione e non coincidono in ogni caso con quelle degli uomini comuni: “Se a uno è concessa la grazia, con quale diritto ne avremo noi allora sacrificati centomila?”, dice l’Inquisitore […]. La Leggenda di Dostoevskij è talora ascritta alla medesima tradizione cui appartiene questo tragico confronto tra Filippo II e il Grande Inquisitore del Regno di Spagna: la tradizione degli arcana imperii e degli arcana dominationis, cioè la tradizione delle occultae atque abstrusae artes reipublicae constituendae (gli arcana imperii) atque conservandae (gli arcana dominationis) […]. Gli arcana del potere sono il tema classico della letteratura della “ragion di Stato” che, da lontano, si ispira a Tacito e, da vicino, al Principe di Machiavelli: una letteratura che conosce il massimo successo proprio nel tempo della Contro-

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gna, e il Grande Inquisitore rispetto al destino del giovane Don Carlos (proprio quello mirabilmente scolpito da Verdi) – la differenza fra loro è indiscutibile. Zagrebelsky definisce la ragione che guida l’Inquisitore schilleriano ragion di Stato o “ragione di fede”, mentre quella che guida l’Inquisitore dostoevskiano “ragione del volgo” o “ragione di quiete”. In ogni caso entrambi, il Pastore-per-repressione e il Pastore-per-seduzione esprimono il pastorato cristiano nel suo aspetto di governo politico sotto due differenti modalità adeguate a due differenti epoche storiche32. Al contrario, il Grande Inquisitore, che pure conosce gli arcana imperii, non governa il gregge per conto dello Stato, non necessita degli strumenti per spingerlo all’obbedienza della sovranità politica, non ricorre alla trascendenza; invece, si immerge nella realtà del popolo, dalla natura stessa degli uomini trae gli strumenti del tutto immanenti perché essi si assoggettino volontariamente: Il Grande Inquisitore è anch’egli immerso nella distinzione tra coloro (i pochi eletti) che conoscono i segreti del governo degli uomini e coloro (i molti) che li ignorano; ma, per legittimare il potere dei primi e la soggezione dei secondi, egli non si rivolge alla «ragion di Stato» […] che ha le sue leggi oggettive e le sue astratte e fredde istituzioni in una sfera trascendente. Per l’Inquisitore di Dostoevskij, tutto è umano, molto umano. Dalla sua, egli ha piuttosto quella che si potrebbe dire la «ragion del volgo». Il suo intento non è di salvaguardare lo Stato, piegando alla “ragione” di quest’ultimo quella dei sudditi tramite il potere sovrano del governante. Egli non è nemmeno il teorico dei poteri eccezionali, dei coups d’Ètat. Si appella non alla natura straordinaria dello Stato, ma a quella ordinaria degli uomini. Il potere di cui si proclama investito non è contro, ma è per loro. È un potere benigno che apertamente viene incontro ai bisogni della loro indole normale (Zagrebelsky 2015, 30-31).

La volontaria sottomissione che cerca e ottiene il Grande Inquisitore non è quella dell’individuo caro ai giusnaturalisti e a

riforma cattolica, il tempo in cui è ambientata la storia narrata dalla Leggenda» (Zagrebelsky 2015, 28). 32 «Sia gli inquisitori della fede che l’Inquisitore di Dostoevskij possono dirsi pastori del loro gregge, ma in senso diverso […]. Il primo pensa alla violenza esteriore, il secondo mira all’assecondamento interiore» (Zagrebelsky 2015, 34).

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Hobbes, il quale è sì antropologicamente amante della libertà, che sarebbe la sua condizione se rimanesse allo stato di natura, ma è anche sommamente razionale quando opta per trasferire volontariamente, in tutto o in parte, la sua “naturale” libertà a un’autorità sovrana, in quanto la libertà di tutti sarebbe però una minaccia alla vita e ai beni primari di ciascuno. Non è neppure la «servitù volontaria» di cui parla La Boétie, cioè quella di chi si fa volontariamente servo di un tiranno, come il cortigiano e l’adulatore, dove la cessione della libertà avviene in cambio di vantaggi (potere, denaro, protezione, etc.) ritenuti superiori alla medesima33. Semmai assomiglierebbe di più alla famosa definizione del potere da parte di Tocqueville, che tenderebbe, sebbene assoluto e immenso, ad apparire come un potere pastorale non più mirante alla difesa della fede con tutti i mezzi ma un potere tutelatore, vegliante, regolare, previdente e dolce, insomma un potere “amico”: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri […]. Al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sor-

33 «Non sono gli squadroni a cavallo né le schiere di fanti, né le armi a difendere il tiranno. Da principio si fa fatica a crederlo, ma è così […] È accaduto sempre che cinque o sei uomini siano diventati i confidenti del tiranno, o perché si sono fatti avanti da soli o perché sono stati chiamati da questi per diventare complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, ruffiani della sua lussuria, soci nello spartirsi i frutti delle sue ruberie […] Questi sei profittatori ne hanno altri seicento sotto di loro, che si comportano nei loro riguardi come essi fanno col tiranno. A loro volta i seicento ne hanno sotto di loro altri seimila […] Dietro costoro la fila prosegue interminabile, e chi volesse divertirsi a dipanare questa matassa vedrebbe che non sono seimila, ma centomila, milioni le persone che rimangono legate al tiranno con questa fune e si mantengono ad essa […] Insomma, tra favori e vantaggi, protezioni e profitti ottenuti grazie ai tiranni, si arriva al punto che quanti ritengono vantaggiosa la tirannia sono quasi altrettanto numerosi di quelli che preferirebbero la libertà […] Così il tiranno assoggetta gli uni servendosi degli altri, e viene difeso da uomini da cui dovrebbe difendersi, se valessero qualcosa […] Non è sufficiente che gli obbediscano, devono compiacerlo […] devono amare ciò che egli ama, sacrificare i propri gusti ai suoi, violentare la propria indole sino a spogliarsi della propria personalità […] Quale condizione è più miserabile del vivere così, senza avere nulla di proprio, dipendendo da un altro per il proprio benessere, la propria libertà, il proprio corpo, la vita stessa?» (La Boètie 2004, 30).

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te. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite (Tocqueville 1992, 812 [libro II, p. iv]).

Come è stato detto da famosi critici letterari, Dostoevskij avrebbe descritto profeticamente la società futura dei totalitarismi del ’90034. Infatti, per Bachtin (1968), Dostoevskij, con la Leggenda, ha scritto «la storia dei prossimi due secoli», mentre per Steiner (2005) «prefigura con incredibile acutezza i regimi totalitari del XX secolo, il controllo del pensiero, i poteri annichilenti e salvifici delle élites, l’estasi animalesca delle masse coinvolte nei riti musicali e coreografici di Norimberga e del Palazzo dello Sport di Mosca, l’uso della confessione, e la totale subordinazione della vita privata a quella pubblica». Esiste, quindi, una diffusa lettura del Grande Inquisitore che lo associa, come ne fosse una profezia, ai dittatori comunisti e nazi-fascisti del Novecento, una lettura però evidentemente ignara che l’incubo di cui Dostoievski presentiva la futura apparizione stava nel Palazzo di cristallo dell’Esposizione universale a Londra, simbolo del potere del capitalismo industriale trionfante e del regime politico liberale35, piuttosto che a Mosca o a Berlino.

34 E non solo: «Ma Dostoevskij non parla del Cinquecento-Seicento, bensì dell’Ottocento-Novecento e oltre. Anzi, forse soprattutto oltre» (Zagrebelsky 2015, 28). 35 Vale la pena riportare per intero, quello che Dostoievski scrive nel 1862 nella Londra dell’Esposizione universale brulicante di visitatori in un capitolo dedicato, crediamo non a caso, al dio fenicio Baal che nell’Esodo è il vitello d’oro che adorano le masse nostalgiche delle pentole di carne egizie: «una città sconfinata come un mare e colma giorno e notte di movimento; i fischi e gli urli delle macchine; queste ferrovie edificate al di sopra delle case (e tra breve anche sotto di esse); quest’audace spirito d’iniziativa, questo apparente disordine che in sostanza è invece l’espressione dell’ordine borghese nella sua forma piú elevata; questo Tamigi avvelenato, quest’aria pregna di carbon fossile, questi stupendi giardinetti, e i parchi, e questi angoli terribili della città come Whitechapel, con la sua popolazione stracciona, selvaggia e affamata. E la City, coi suoi milioni e col commercio mondiale, il “Palazzo di cristallo”, l’esposizione universale … Sí, l’esposizione è qualcosa di sbalorditivo. Vi percepite una forza tremenda che ha lí riunito in un unico gregge tutto quell’incalcolabile numero di persone giunte da ogni parte del mondo […] Voi avete coscienza d’un pensiero immane: percepite che lí qualcosa è già stato raggiunto, che lí è la vittoria, lí è il trionfo. Cominciate persino come a temere qualcosa. Per quanto siate indipendenti, pure per un

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Ne è un esempio noto la lettura che ne dà nel suo iniziale libro nel 1983 Sloterdijk (1992) ‒ peraltro definito «un debuttante che già esibiva i tratti pirotecnici e bulimici di un autore destinato a diventare, non fosse altro che per mancanza di rivali, il pensatore più affermato sulla scena tedesca» (Donaggio 2013, 279) ‒ il quale «Sotto le vesti del Vegliardo di Siviglia, […] scorge infatti i volti di Hitler e Goebbels, Stalin e Beria. Nello scontro tra l’antropologia dell’Inquisitore e quella di Cristo vede tralucere la “logica della catastrofe politica moderna” […] Di ogni bandiera, autorizzerebbero a pensare gli argomenti in esame. Di quella comunista in particolare, precisano invece una sapida nota a fondo testo e la storia della fortuna del personaggio nella Russia novecentesca, un’autentica pastorale rossa» (Donaggio 2013, 285). Annotiamo come in realtà appare ben più verosimile accostare il contenuto profetico della Leggenda alle tendenze odierne del regime neo-ordoliberale, viste anche come trasformazione del regime di governo pastorale cristiano, di cui gli Inquisitori rappresentano forme tipiche del pastore, con le differenze fra loro rispetto alle finalità e metodi di governo che abbiamo sottolineato. Proprio direttamente dalla lettura della Leggenda si possono individuare profetiche formulazioni di una nuova governamentalità pastorale, come di seguito descritto. L’Inquisitore accusa Gesù di aver levato la bandiera della libertà, ma ciò non è servito a ridurre ribellioni e stermini, mentre

qualche motivo sarete assaliti dal timore. “Non è forse questo, realmente, l’ideale raggiunto?” cosí vi vien da pensare. “Non è questa la fine? E non è già questo, in effetti, l’“unico gregge” (Gv 10, 16)? E non bisogna dunque accettare tutto ciò come la completa verità, e tacere per sempre? Tutto questo è a tal punto solenne, vittorioso e fiero, che cominciate a sentir un peso sul cuore. Guardate queste centinaia di migliaia, questi milioni di persone che docili sono affluite fin qui da tutte le parti del globo terrestre: persone giunte con un unico pensiero, che si affollano tranquillamente, con ostinazione e in silenzio, in questo palazzo colossale, e percepite che lí si è realizzato qualcosa di definitivo, si è realizzato e si è concluso. È una sorta di quadro biblico, un’evocazione di Babilonia, una specie di profezia dell’Apocalisse, quella che si va realizzando davanti ai vostri occhi. Voi percepite che occorre molta resistenza spirituale e un’eterna capacità di negazione per non cedere, per non soggiacere all’effetto, per non inchinarsi davanti al fatto e per non deificare Baal, e cioè per non accettare quello che esiste come il proprio ideale» (Dostoevskij 1984, 55-56; cit. in Zagrebelsky 2015, 15).

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l’uomo non vuole essere fra i forti e gli eletti, vuole solo il pane per tutti. Ed è Gesù che avrebbe diviso il gregge, ma adesso il pastore-per-seduzione lo avrebbe di nuovo riunito e per sempre, come l’Inquisitore proclama: Tu sei orgoglioso dei tuoi eletti, ma tu non hai che eletti, mentre noi porteremo la serenità a tutti […] con noi invece saranno tutti felici e non si ribelleranno più né si stermineranno a vicenda, come facevano ovunque con la tua libertà. Oh, noi li convinceremo che saranno liberi soltanto quando rinunceranno alla loro libertà e si assoggetteranno a noi […]. Chi ha diviso il gregge, disperdendolo per vie sconosciute? Eppure il gregge si radunerà di nuovo e tornerà a sottomettersi, questa volta per sempre (Dostoevskij 1994, 271-272).

A questo punto la penna di Dostoevskij si proietta profeticamente nel futuro, lontana dalla Siviglia di Don Carlos, a disegnare le forme di governo degli uomini che i pastori che hanno di nuovo radunato per sempre il gregge eserciteranno. Per primo appare la necessità di governare – e le modalità con cui farlo – il tempo libero dal lavoro; non sembra quindi lontana, in queste pur ottocentesche parole, l’odierna organizzazione del tempo libero dell’individuo, visto come consumatore-imprenditore di sé stesso-produttore di dati, basta sostituire con un minimo di fantasia ai fanciulleschi cori di cui parla lo scrittore russo gli altrettanto fanciulleschi rituali social sugli smartphone: «Sì, li costringeremo a lavorare, ma nelle ore libere dalla fatica organizzeremo la loro vita come un gioco infantile, con fanciulleschi cori e canti e danze innocenti» (Dostoevskij 1994, 272). Il soggetto sarà anche libero di conquistare, fra i mille diritti personali rivendicati dalle identità frantumate e ricomposte solo nell’infinito desiderio di crescenti e nuovi consumi, il diritto di peccare, che verrà volentieri concesso perché il soggetto è ormai un prevedibile automa; qui l’eco antica del segreto del confessionale e quello degli sterili dibattiti contemporanei sul diritto alla privacy si confondono in un loro ineluttabile superamento: «Oh, concederemo loro anche il peccato perché sono deboli e fragili e ci ameranno come bambini perché permetteremo loro di peccare […]. E non avranno più segreti per noi» (Dostoevskij 1994, 272).

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Ma il Grande Inquisitore sembra già rivelare con l’anticipo di un secolo quello che poi Foucault mostrerà rispetto alla odierna governamentalità neo-ordoliberale, quando suggerisce che: i) permessi e proibizioni non avranno più alcun contenuto etico-normativo ma saranno solo funzione della loro capacità di produrre compliance ed obbedienza; quindi potrebbero essere concessi più permessi e più libertà proprio perché queste libertà consentono in realtà più obbedienza, perfettamente in accordo con le tesi foucaultiane che più interventi “liberogeni” consentono più interventi di controllo e sorveglianza; ii) gli eventuali interventi “liberogeni” avranno tanto il ruolo di assoggettare l’uomo quanto di soggettivarlo in modo tale da renderlo liberamente sottomesso, obbediente e consenziente con allegria e gioia; iii) infine, attraverso il riconoscimento e l’emersione dei problemi direttamente dalla realtà umana si punterà alla loro soluzione; anche qui appare una eco di una delle moderne tecniche di governance, quella di spezzettare la realtà – all’uopo umilmente interrogata dai poteri – in tanti singoli problemi e poi risolverli, dimostrando così l’efficacia della politica governamentale intesa come semplice e necessario problem-solving: «Noi permetteremo o proibiremo loro di vivere con le proprie mogli o amanti, di avere o non avere figli – sempre giudicando in base alla loro obbedienza – e loro si assoggetteranno con allegria e con gioia. Tutti, proprio tutti i segreti più angosciosi della loro coscienza li porteranno da noi e noi li risolveremo» (Dostoevskij 1994, 272). Saranno invece i pastori che alla fine si saranno sacrificati per la felicità del gregge: «Perché solo noi, noi che siamo depositari del segreto, saremo infelici. Vi saranno miliardi di creature felici e centomila martiri che avranno preso su di sé la maledizione della conoscenza del bene e del male» (Dostoevskij 1994, 272). Inoltre, merita soffermarsi brevemente su una specifica interpretazione della Leggenda, quella del teologo luterano Dietrich Bohnoeffer, sviluppata nel capitolo della sua Etica (1995 [1922]) dal titolo Le cose ultime e penultime, e commentata da Zagrebelski (2013). Questa interpretazione rileva qui perché Bohnoeffer è il teologo ispiratore dell’ordoliberalismo. Come i recenti lavori di Krarup (2019a,b) mettono in luce, i primi pensatori ordoliberali (p.e., gli economisti Walter Eucken e Adolf Lampe, il giurista Franz

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Böhm e lo storico Constantin von Dietze) svilupparono un distinto approccio evangelico luterano alla teoria economica e politica, concretizzatosi nel cosiddetto Memorandum Bohnoeffer del 1943, il quale prende appunto il nome dal pastore e co-fondatore della Chiesa confessionale evangelica, che rappresentò l’ala anti-nazista del luteranesimo tedesco, invece, in genere, acritico sostenitore del nazismo36. Per inquadrare brevemente il contesto, va ricordato che la teologia luterana del ‘900 ‒ a partire da Karl Barth con la sua severa rilettura di Paolo e di Lutero ‒ radicalizza la differenza sia 1) con la visione tradizionale del cristianesimo quale religione umanista: non esistono “buone azioni”, non può esistere una società umana “giusta”, anzi “amare il prossimo” può comportare punire e persino uccidere, sia 2) con la tradizione tedesca del XIX secolo del protestantesimo umanista, liberale, storicista, permeato di idealismo kantiano e della fiducia nel progresso e nella giustizia sociale. Basandosi sull’insegnamento paolino della Lettera ai Romani, Barth e seguaci uniscono l’apparente amore per la libertà dato dalla giustificazione per sola fede (e non per obbedienza alla legge) con la richiesta dell’assoluta obbedienza alle autorità mondane. Infatti per Lutero, come anche per Calvino, i cristiani devono assolutamente obbedire alle autorità terrene, che sono nominate da Dio per mantenere l’ordine sociale, castigare i malfattori e consentire ai credenti di essere buoni cristiani, ma, nonostante l’assoluta obbedienza alle autorità, essi mantengono intimamente una propria libertà spirituale. Quel che è cruciale qui è comunque la negazione di ogni resistenza: “chiunque resiste all’autorità resiste a ciò che Dio ha nominato” (Paolo, Rom 13,2). Anzi, in nome dell’autorità mondana, l’“amore” cristiano, per Lutero, può implicare la punizione e persino l’uccisione del prossimo, come testimoniano le famigerate lodi alle autorità che “si scagliano contro, strangolano e pugnalano, segretamente o in pubblico”, i “topi predatori e assassini” dei contadini che si erano ribellati per i diritti politici ed economici, dato che chi usa la spada contro i ribelli non viola neppure il comandamento di non uc-

36 Peraltro, Bonhoeffer, fu giustiziato per la sua opposizione al regime e per i suoi tentativi di fare affari con le forze alleate nel 1945.

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cidere perché non è altro che un soldato dell’ira di Dio medesimo. Il vero e unico nemico è il ribelle: come dice Lutero “niente può essere più velenoso, pernicioso, diabolico di un uomo ammutinato”. Seguaci di Barth, come Emil Brunner e Friedrich Gogarten, esaltano il concetto di “ordine” di Lutero come base di costruzione di un ordine sociale “etico” in cui siano centrali l’autorità statale, la coercizione, la disuguaglianza37, l’accettazione della posizione sociale che è stata data negli “ordini” divini. La loro etica politica si base su una sottostante radicale antropologia negativa, in cui gli uomini sono radicalmente peccatori e ogni loro azione non può che creare il caos di forze antagoniste e violente, che solo un “ordine” sociale che sia specchio di quello divino può tenere a freno. Questa antropologia negativa non può che mettere in questione la possibilità che gli esseri umani siano in grado di produrre miglioramenti politici e sociali; quindi, l’unica azione umana migliorativa possibile consisterà per gli ordoliberali nella creazione di una società di “ordini” divinamente ispirati che tenga a freno l’uomo, e uno strumento formativo di questo “ordine” è la concorrenza economica intesa in senso ampio. Bonhoeffer è fra questi teologi, indipendentemente dal fatto che sia anti-nazista quanto Gogarten, per esempio, sarà vicino al nazismo. La crisi del capitalismo è la crisi di un “ordine” divino: i primi ordoliberali hanno davanti i drammi degli anni Trenta, esperimentano il fallimento del nazismo (a cui alcuni di loro hanno aderito) come un possibile rappresentante forte di quell’ordine e sentono il fiato dell’orco bolscevico e del proletariato europeo sul collo del capitalismo. Anche per loro il nemico diabolico è il proletario ribelle, pronto a salire sul ponte della nave dello Stato liberale che è stato reso imbelle dalla classica ideologia del laissez-faire. È quindi nel luteranesimo di Bohnoeffer e altri, che gli ordoliberali trovano ispirazione: essi devono eseguire l’“incarico” divino di “ordinare” la società, consapevoli che l’armonia prestabilita del liberalesimo classico non esiste e il crederlo apre solo la porta alla

37 Brunner (1978, 196-197) ritene esplicitamente anticristiana l’eguaglianza, perché gli uomini sono creati come «vecchi e giovani, bambini e papà, leader [Führer] e coloro che sono guidati», ed essere di pari valore davanti a Dio «in nessun modo significa uguaglianza nella vita storica».

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vittoria delle forze del male ‒ il proletariato ‒ e alla scomparsa del capitalismo. Da questo, come Krarup suggerisce, si può veramente capire la strana combinazione di mercato ultra-libero e stato ultra-forte nell’ordoliberalismo: il mercato come lo stato non interessano come obiettivi in sè, ma solo perché il mercato è un meccanismo di ordine che è di natura non umana, e lo stato solo perché è una “vera autorità” garante degli ordini divini. Quale interpretazione offre Bonhoeffer del dialogo fra l’Inquisitore e Cristo? Bonhoeffer distingue le cose ultime dalle cose penultime. Le “cose ultime”, la parola divina, sono irraggiungibili e inafferrabili. Le cose penultime sono quelle del mondo in cui si manifesta in toto la condizione umana, stanno prima delle cose ultime ma a queste sono necessariamente collegate. Sebbene le cose penultime non abbiano valore in sé, esse sono il limite invalicabile della vita umana e pertanto vanno prese in considerazione proprio se si tiene molto alle cose ultime. Allora, per quanto le cose penultime possano apparire di bassa natura se viste con la lente dello spirito, nondimeno va compreso chi, come l’Inquisitore, si occupa delle cose umane e lavora affinché la società mondana possa esistere e conservarsi; peraltro, Bonhoeffer, mentre sembra condividere il ruolo “sociale” dell’Inquisitore, ritiene anche che in disaccordo con le affermazioni dell’Inquisitore, la libertà cristiana non sia qualcosa di superiore e di incompatibile con l’uomo, cioè una libertà che può aversi solo nell’aldilà o in rari uomini superiori, ma possa esistere nel mondo. Ecco, quindi, che per Bonhoeffer non avrebbe torto «l’Inquisitore nell’occuparsi del gregge e il bacio di gratificazione datogli dal Cristo sembra essere un riconoscimento» (Zagrebelsky 2013, 86). Si chiude qui, con Bonhoeffer, un circolo ermeneutico, che conduce dall’Inquisitore dostoevskiano all’odierno ordoliberalismo. Infine, il dramma della Leggenda può anche leggersi come una irriducibile polarità fra la condotta governamentale dell’Inquisitore e una controcondotta (Cristo) che la rompe nell’anello cruciale dell’assoggettamento volontario, e lo fa non contrapponendo il suo potere e la sua azione, bensì la sua impotenza e la sua inazione. Bazzicalupo (2013) individua nelle parole dell’Inquisitore la presenza di un circuito perverso, una circolarità che inizia con

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la Legge, la quale attraverso la proibizione provoca il desiderio ‒ ossia la verità rivelata/estorta dal soggetto nella confessione ‒ e, quindi, il peccato, per il quale il soggetto auto-riflettendo si auto-condanna, e a causa della auto-condanna si genera nel soggetto il desiderio della Legge, chiudendosi così in questo modo il circuito che va dal potere e ritorna al potere, incatenando saldamente il soggetto (vedi par. 1.6). Il circuito di dominio, che è anche più generale di quello enunciato dall’Inquisitore, è, in realtà, già svelato da Paolo nella Lettera ai Romani: Che diremo allora? La Legge è peccato? Non sia mai detto! Ma io non conobbi peccato se non attraverso la Legge: non avrei infatti conosciuto il desiderio passionale se la legge non dicesse: non desiderare. E il peccato, trovato un punto di appoggio mediante il comando, ha suscitato in me tutti i desideri passionali; il peccato senza la Legge è morto (Paolo, Romani 7, 7).

Quindi, la Legge genera il desiderio, e con esso la catena della trasgressione, del peccato, dell’auto-condanna e della introiezione del piacere per la Legge medesima. Le Legge crea strutturalmente la colpa in tutti gli uomini, vale a dire crea la soggettivazione assoggettata. Già nell’episodio idolatrico dell’Esodo troviamo il precursore biblico del moderno circuito perverso: Mosè come la Legge, le pentole di carne come il desiderio, il peccato idolatra che richiede la punizione a fil di spada per gli irriducibili e il perdono per tutti gli altri che, invece, appaiono controllabili. Per Bazzicalupo, la Leggenda mette in scena una polarità irriducibile fra il potere pastorale dell’Inquisitore ‒ oggi tecnica governamentale neoliberale ‒ e la libertà del Cristo. Questa libertà è un evento che non deve mai accadere per non disconnettere l’ordine governamentale. Se questa polarità è irriducibile, allora non si può comunicare, dialogare, negoziare, contrattare, competere ‒ né volontariamente come vorrebbero i teorici del liberalismo, né obbligatoriamente by rules come vorrebbero i cantori della odierna governance neo-ordoliberale. All’interno della tensione che si crea fra i due poli nasce lo spazio della politica, che è tenuto aperto e vivo proprio dalla possibilità di quell’evento, di quel novum, di quel residuo irriducibile alla totalizzazione della governamentalità.

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Al circuito perverso del pastorato biopolitico, alla servitù volontaria della plebe mondiale del mondo neoliberale, il muto Cristo rompe38 ‒ con un bacio ‒ l’anello della catena laddove il desiderio suscitato dal potere si trasforma nel desiderio che è del potere, laddove la passione vitale si trasforma nel suo contrario. La rottura della catena nel punto cruciale della governamentalità avviene attraverso il rifiuto della Legge per sostituirla con la legge dell’Amore, con la libertà gratuita, l’impotenza, l’inoperosità39. La rottura del Cristo deve però essere intesa come una libertà totalmente impolitica, impotente, interiore, istantanea, che, peraltro, Arendt non considererebbe come una libertà politica perché questa, secondo la filosofa tedesca, la si può avere solo fra uomini in discussione fra loro alla luce del mondo. L’Inquisitore accusa ancora Gesù di aver omesso di fare proprio ciò che avrebbe soddisfatto l’uomo:

38 «Contro il circuito perverso: la verità del Cristo. Un altro ordine, non positivo, dell’essere, o meglio: non un ordine né un sapere, ma un evento che si sottrae al tempo e al centro positivo dell’essere […] non si deduce dalle premesse, non si prevede, non consegue, non si distende nel tempo, non cade nella positività delle negoziazioni e delle argomentazioni, non contratta, non spiega, non interpreta: è meta-temporale e assolutamente contingente perché non parla, non media: è impotente e fortissima […] La Verità-Sapere-Legge del cardinale è totalizzante, inclusiva: vede problemi e disfunzioni singolari marginali e li riduce, li risolve. Invece la Verità-Evento è proprio la disconnessione dall’ordine delle cause e degli scambi, incarna l’eccesso e la mancanza di quella totalità governata […] Il Male può scaturire dalla ontologizzazione del Bene, dalla caduta nel positivo, dalla iscrizione nell’ordine delle cose e dei saperi-poteri: è quanto avviene nella biopolitica del Pastore, che ontologizzando la Legge innesca il circuito perverso della dipendenza senza sbocco. Il Cristo viene a rompere le identificazione stabilite da quel circolo, porta disordine: dà voce all’inquietudine della soggettività, intesa come negazione incessante dell’ordine dell’assoggettamento» (Bazzicalupo 2013, 58-59). 39 «Il Dio dell’amore sospende la Legge e poggia il rifiuto ad obbedirle non sul desiderio perverso della Legge stessa, ma sull’impossibile libertà gratuita dell’Amore. La fedeltà al desiderio, quando esso è sganciato dal circolo perverso, apre un nuovo inizio, che però si manifesta paradossalmente come impotenza, inoperosità» (Bazzicalupo 2013, 61). Il tema della “inoperosità” come cuneo di resistenza che spezza nel punto cruciale la catena dell’assoggettamento ritorna anche nelle riflessioni sui possibili significati della scomparsa di Majorana (par. 1.16) e del comportamento dello scrivano melvilliano Bartleby (par. 4.4).

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tu avresti esaudito tutto ciò che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: chi venerare, a chi affidare la propria coscienza e in che modo infine riunirsi tutti in un unico formicaio comune e concorde […] da sempre l’umanità, nel suo insieme, ha mirato ad organizzarsi in modo universale […] accettando il mondo e la porpora dei Cesari, avresti fondato il regno universale e garantito una pace universale (Dostoevskij 1994, 270).

Come ha osservato Givone (1984), Dostoevskij aveva prefigurato per l’intera Europa una riunione di potere spirituale e potere temporale, di cui l’immagine dell’Anticristo era la personificazione in un connubio di pacificazione e benessere. L’alleanza «segreta» che lo scrittore russo prevede pare quella di una doppia religione alla Assmann (2017)40 sotto un unico pastore che con mano invisibile guida gli uomini anche nelle loro preferenze, non solo per i loro doveri e debiti inestinguibili: E chissà, forse questo vecchio maledetto, che amava così a modo suo e con tanta ostinazione l’umanità, esista anche ora sotto l’aspetto di una intera schiera di vecchi siffatti […] in conseguenza di un accordo, di un’alleanza segreta, stabilità già da molto tempo per custodire il mistero, per preservarlo dai comuni mortali rendendoli così felici. Ma ho l’impressione che anche i massoni abbiano alla base qualcosa di analogo a questo mistero e che i cattolici odino tanto i massoni perché vedono in loro dei concorrenti, una dispersione dell’unità dell’idea, mentre vi dovrebbero essere un unico gregge e un unico pastore (Dostoevskij 1994, 275).

La situazione odierna, ci dice Bazzicalupo, è già diversa da quella cristallizzata da Dostoievski, perché minori sono i ruoli giocabili dal peccato e dal perdono. Nondimeno l’odierno governo pastorale biopolitico continua ad agire col circuito perverso dell’assoggettamento volontario del soggetto, ma con un differenza: la Legge ha sostituito l’interdetto, e il conseguente desi-

40 Per inciso, Assmann propone per l’odierno mondo globalizzato, cosmopolita ed inclusivo una religio duplex quale «una “religione naturale” che ritorna all’antico e supera le religioni rivelate e monoteiste […] la religione della ragione riscoperta dagli umanisti e sviluppata dall’illuminismo in religione doppia, da una parte, esoterica e misterica, ma unica, elevata ed elitaria, che però, dall’altra parte, ingloba le religioni popolari che guidano verso la legge morale con l’ausilio di credenze e riti» (Conti e Fanti 2020, 634).

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derio-peccato, con l’incentivo smodato al piacere, essa agisce come un Super-Io in cui parla un Padre osceno e laido che invita/ obbliga non al desiderio, ma al godimento continuo, spossante (vedi par. 4.5). Cassano (2012) identifica una moderna tecnica del potere governamentale odierno ‒ tipica di un Inquisitore mite, aziendal-efficiente e democratico ‒ consistente nell’eliminare l’ultimo pericolo per il potere, quello degli uomini migliori, che non si adeguano alle complici dipendenze, quei rari “santi” ‒ persone-faro, uomini verticali, «per le quali la parola testimonianza non evoca il processo penale, ma la capacità di fare onore alle proprie idee»‒, ma la loro eliminazione la si persegue non più con il rogo, non più con lo scontro diretto, ma lavorando ad isolarli da tutti gli altri: Occorre usare le debolezze dei migliori, annichilirne l’esempio, accentuare la loro distanza dagli uomini “normali”, istigando questi ultimi contro di loro. L’obiettivo è chiaro e costante: mantenere gli uomini in uno stato di perenne immaturità, come se fossero dei bambini. E i mezzi possono essere i più diversi: se nella Leggenda il Grande Inquisitore esalta il miracolo, il mistero e l’autorità, oggi offrirebbe anche e soprattutto i consumi, il piccolo divismo dei mediocri, il narcisismo amorale dei reality, ecc. E se nel passato il mezzo poteva essere quello della sottomissione esplicita al potere, del genuflettersi del suddito, della rinunzia ai diritti, oggi esso consiste invece nella rinunzia ai doveri, in una sorta di superomismo dei peggiori, in un dilagare della volgarità (Cassano 2011, 84, 88-89).

1.5. La soggettivazione del pastorato: cristianesimo e omosessualità secondo Freud il Prigioniero l’ha ascoltato per tutto il tempo senza mai distogliere da lui il suo sguardo calmo e penetrante […] a un tratto Egli [Gesù] in silenzio si avvicina al vecchio e lo bacia dolcemente sulle sue vecchie labbra esangui. Ed è tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. […] Forse sei tu stesso un massone! – sbottò Alëša […] Io, fratello, […] quella formula «tutto è lecito» non la rinnego, e perciò sarai tu a rinnegarmi […] Alëša si alzò, gli si avvicinò e lo baciò dolcemente sulle labbra. (Dostoievskij 1994, 275-277)

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Freud, nel suo saggio del 192841, mostra una pluralità di opinioni riguardo a Dostoevskij scrittore e uomo: evidente ostilità42 nei confronti del Dostoievski moralista e peccatore, una neutralità da medico nei confronti di quello nevrotico, ed una forte stima riguardo allo scrittore43. Di questa ostilità Freud sembra esserne consapevole; in una lettera del 14 aprile 1929 a Theodor Reik, che aveva ritenuto troppo dure le opinioni di Freud sulla moralità di Dostoevskij, ammette francamente: «Lei, inoltre, ha ragione anche quando ipotizza che a me, in realtà, Dostoevskij non piaccia, nonostante tutta la mia ammirazione per la sua intensità e superiorità. Dipende dal fatto che la mia pazienza si è esaurita in analisi, lavorando con le nature patologiche. Nell’arte e nella vita sono intollerante nei loro confronti» (Freud 1929, 64). E consapevole ne è il suo biografo e curatore Ernest Jones: «Lo scrittore oggetto di studio è Dostoevskij, che Freud ammirava moltissimo. […] Molto minore è la sua stima per l’uomo: lo aveva probabilmente deluso il fatto che un essere destinato a guidare l’umanità verso cose migliori fosse finito come un remissivo reazionario» (Jones 1953, 498).

41 Freud scrisse su commissione fra il 1926 e il 1927 il saggio intitolato Dostojewski und die Vatertötung, che fu pubblicato nel 1928 come prefazione a un volume di interventi critici su I fratelli Karamazov. 42 Il sentimento di ostilità potrebbe essere persino un “proiezione” dell’uomo Freud, la cui biografia rivela un altrettanto intenso e ambivalente rapporto col padre. Lang (1980) ricorda che Freud, in una lettera a Romain Rolland in cui racconta del suo primo viaggio da solo col fratello a Atene nel 1904, ebbe in quell’occasione, che avrebbe dovuto essere per lui di soddisfazione per l’avverarsi di un sogno che risaliva agli anni giovanili, una vera e propria depressione, e questo paradossale stato d’animo, che Freud associa anche alle parole che Napoleone avrebbe detto al fratello Giuseppe durante l’incoronazione a Notre-Dame: “Cosa direbbe Monsieur notre père se potesse essere qui adesso?”, sarebbe stato dovuto al fatto che «un senso di colpa resta legato alla soddisfazione di aver fatto tanta strada; c’è qualcosa di illecito in questo, di proibito fin dall’età più lontana […] È come se l’essenziale del successo consistesse nel fare più strada del padre, e che fosse tuttora proibito voler superare il padre» (Freud, cit. in Lang 1980, 135). 43 «I fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che mai sia stato scritto, l’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile» (Freud 2002, 33).

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Per Freud, l’aspetto più aggredibile in Dostoevskij è quello etico44. Sbaglia ‒ pensa Freud ‒ chi voglia vedere una elevata moralità nella sua risalita dall’abisso del peccato, perché chi prima si macchia di colpe e poi si pente non fa altro che i propri comodi, come gli invasori barbarici, Ivan il Terribile e in genere i russi, per i quali, anzi, il pentimento è una tecnica che rende possibile il delitto45. Ma anche nell’etica sociale e politica, Dostoievski è da biasimare; in quest’ambito, Freud arriva ad esprimere persino preferenze politiche in un modo insolitamente esplicito46, accusandolo di aver assunto alfine posizioni “retrograde”, “reazio44 Giusto per avere una idea della durezza freudiana sull’uomo Dostoevskij, citiamo come Freud, in relazione alla scena del libro in cui lo starec Zosima, intuendo dal colloquio con Dmitrij la sua tendenza al parricidio, si prostra davanti a lui, significando che allontana da sé la tentazione di disprezzarlo, affermi che la «simpatia di Dostoevskij per il criminale è in effetti senza limiti, supera assai i confini della compassione alla quale l’infelice ha diritto, ricorda l’orrore sacro con cui l’antichità guardava all’epilettico e al malato di mente. Il criminale è per lui quasi un redentore che ha preso su di sé la colpa che in caso contrario sarebbe toccato agli altri portare. Uccidere non è più necessario dopo che egli ha già compiuto il delitto, ma bisogna essergliene grati, perché altrimenti avremmo dovuto uccidere noi stessi. Questa non è soltanto sollecita compassione, è identificazione fondata sugli stessi impulsi assassini» (Freud 2002, 42). Ma subito dopo emerge un altrettanto severo pessimismo antropologico quando, riferendosi al meccanismo di identificazione con l’assassino, Freud suggerisce che forse «questo è il meccanismo generale della partecipazione sollecita alla sorte degli altri uomini» (Freud 2002, 42). 45 «Se lo si vuole esaltare come uomo morale con l’argomentazione che soltanto chi ha toccato il fondo estremo del peccato può raggiungere il grado più alto della moralità, si trascura una riflessione: morale è colui che già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, senza cedervi. Chi alternativamente pecca e poi, una volta in preda al rimorso, avanza alte pretese morali, si espone al rimprovero di fare i propri comodi. Manca in questo caso l’elemento essenziale della moralità, la rinuncia, essendo la condotta di vita morale un interesse pratico dell’umanità. Questo tipo d’uomo richiama alla memoria i barbari delle migrazioni etniche, i quali uccidono e poi fanno ammenda per l’uccisione: dove l’ammenda diventa una pura e semplice tecnica volta a rendere possibile il delitto. Ivan il Terribile si comportava in maniera analoga; e anzi questo accomodamento con la moralità è un tratto tipicamente russo» (Freud 2002, 33). 46 «Noi ci esponiamo qui al rimprovero di rinunciare all’imparzialità dell’analisi e di sottoporre Dostoevskij a valutazioni giustificate soltanto dal punto di vista partigiano di una determinata concezione del mondo. Un conservatore prenderebbe le parti del Grande Inquisitore e darebbe di Dostoevskij un giudizio diverso» (Freud 2002, 41).

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narie”, “nazionaliste”47. Infine, da medico, Freud, ovviamente, lo giustifica come “malato”48. Freud attribuisce a Dostoevskij una omosessualità latente nell’importanza che ebbero per la sua vita le amicizie maschili, nel suo comportamento singolarmente dolce verso i rivali in amore e nella sua eccezionale intelligenza di situazioni spiegabili soltanto in base a un’omosessualità rimossa, come mostrano molti esempi tratti dai suoi romanzi […una] componente femminile particolarmente forte […una] condotta masochistica […] una disposizione bisessuale particolarmente forte (Freud 2002, 38-39).

Freud, ancora nella citata lettera a Reik, rimprovera a Dostoevskij la sua patologica relazione con l’amore, sempre caratterizzata da ciò che è abnorme, crudo, istintivo, goffo, masochistico, compassionevole: Avrei anche dovuto rimproverargli di aver eccessivamente limitato le sue indagini alla vita psichica abnorme. Pensi alla sua stupefacente goffaggine rispetto al fenomeno dell’amore; in realtà, egli conosce soltanto il desiderio crudo, istintivo, la sottomissione masochistica e l’amore derivante da compassione (Freud 1929, 64).

Per Freud risulta evidente che sia indifferente chi tra i fratelli Karamazov abbia effettivamente compiuto l’assassinio del padre: l’assassinio è opera di un altro, ma di un altro che aveva verso l’assassinato lo stesso rapporto filiale dell’eroe Dmitrij […] un fratello di Dmitrij al quale Dostoevskij ha attribuito significativamente la sua stessa malattia, la sua supposta epilessia, come se volesse confessare: “l’epilettico, il nevrotico che è in me è un parricida”. […] per la psicologia ciò che importa è soltanto sapere chi l’ha voluto nel suo intimo e ha accolto con soddisfazione il misfatto quando s’è compiuto; perciò tutti i fratelli (a ec-

47 «egli finisce con l’approdare a una posizione retrograda: la sottomissione sia all’autorità terrena che a quella spirituale, la venerazione per lo zar e per il Dio cristiano, e un gretto nazionalismo russo […] Dostoevskij ha mancato di diventare un maestro e un liberatore dell’umanità, si è associato ai suoi carcerieri. La civiltà futura degli uomini avrà pochi motivi di essergli grata» (Freud 2002, 33). 48 «Probabilmente è dimostrabile che fu la sua nevrosi a condannarlo a questo fallimento […] possiamo dire soltanto che la decisione di Dostoevskij sembra determinata dall’inibizione intellettuale conseguente alla sua nevrosi» (Freud 2002, 33, 41).

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cezione di Alëša, che è la figura di contrasto) sono ugualmente colpevoli […] (Freud 2002, 41-42).

Poiché Dostoevskij a diciott’anni aveva perso il padre ‒ peraltro uomo brutale e violento ‒ vittima di un assassinio, Freud nota che gli attacchi epilettici dello scrittore si manifestarono solo in seguito al grave trauma, e furono dovuti al fatto che l’odio verso il padre e le fantasie di morte nei suoi confronti erano divenute bruscamente, anche se per mano d’altri, realtà49. L’identificazione del bambino col padre produce un super-Io a carattere sadico che costringe l’Io in una posizione masochistica, vale a dire sostanzialmente femminile e passiva. L’interpretazione di Franchini (2013) della Leggenda si situa nel filone freudiano dell’omoerotismo dostoevskiano; tuttavia, il gesto del bacio omoerotico di Gesù al vecchio, può essere interpretato anche come una contro-condotta del tutto altra rispetto alla condotta pastorale e giuridica razionalmente e realisticamente perorata dal vecchio, una contro-condotta imperniata sul silenzio, sulla magia, sull’irrompere dello psico-fisico e dell’eros, sull’a-logico. D’altronde le due figure del vecchio e di Gesù, sebbene impegnate in un tragico dramma, sono in realtà due astrazioni filosofiche, dal contenuto e dalla forma del tutto inconciliabili50. Se la perorazione del vecchio è un’arringa accusatoria e una sentenza capitale nel perfetto stile della logica del diritto canonico, il bacio di Gesù è una contro-condotta in stile pre-logico, violenta51 e per di

49 Freud suppone che l’epilessia, come sostituto della punizione meritata per le fantasie di morte nei confronti del padre, non si facesse sentire durante la condanna in Siberia perché lo scrittore era stato già punito in tale modo dallo Zar. 50 «al di là dell’aspetto omoerotico più visibile, sembrano contrapporsi due silhouette stilizzate, ideali e perfette, due princìpi anonimi di legittimazione, privi di personalità individuata: un logos teologico e giuridico, intellettuale, razionale e iper-realistico, da un lato, e un gesto muto, magico, a-logico, pre-logico e psicofisico, dall’altro» (Franchini 2013, 187-188). 51 «Nel bacio del condannato non vi è soltanto un semplice gesto d’amore, ma anche un gesto di contrapposizione, sottilmente violento, un gesto imposto e non certo richiesto, paragonabile a uno schiaffo, a un pugno, a un rifiuto condiscendente, che non innesca ulteriore violenza, ma neutralizza il conflitto: è una violenza astuta, mimetizzata, codificata, è una violenza paralizzante, che lascia attonito e interdetto chi la riceve. Non a caso Dostoevskij, in un passo precedente

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più riuscita, per certi versi vittoriosa52. Franchini osserva, inoltre, come in Dostoevskij emergano in positivo solo figure pratiche, serene, laconiche, a-logiche e a-razionali, sostanzialmente femminili53 e matriarcali – le grandi madri russe lontane dal virilismo patriarcale – di cui il bacio di Gesù può essere considerato una visibile e sintetica espressione, le quali, però, hanno anche una valenza filosofico-politica in quanto prefigurano una via alternativa ai modelli di potere occidentale sia di Chiesa che di Stato, sia di cattolicesimo pre-moderno che di protestantesimo moderno e liberale, una via tutta russa, ortodossa e “matriarcale”54. Freud è forse colui che traccia, a partire già da Totem e tabù (1912-13) per finire con L’uomo Mosè e la religione monoteistica, ultimo scritto prima della morte, la genealogia dell’umanità più lineare che sia possibile: alla base della società vi è il parricidio come «delitto principale e primordiale sia dell’umanità che dell’individuo». La storia del senso di colpa dell’individuo che nasce dalla relazione ambivalente del bambino col padre è ben nota (complesso edipico) e la sintetizziamo così: il bambino vorrebbe eliminare il

dei Fratelli Karamazov, cita un verso dai Masnadieri di Schiller: “Il bacio sulle labbra e il pugnale in cuore”» (Franchini 2013, 187). 52 «Il bacio omoerotico finale spariglia visibilmente le carte, butta all’aria la struttura logica dell’accusa e della sentenza, poiché vi irrompe una forza non contemplata dal diritto canonico, un amore inclassificabile per la teologia se non come peccato. L’eros, la libido, la sessualità, la dynamis psicofisica irrompe nel cristallo giuridico, nel diritto e nell’argomentazione gius-razionalistica e teologico-politica del Grande Inquisitore, definendo improvvisamente, per il condannato, una via di salvezza personale» (Franchini 2013, 187). 53 Anche Proust, nella sua Recherche, coglie acutamente la centralità, con una sua invariante caratteristica, della donna in Dostoievkij: «la donna di Dostoievskij […], con il suo viso misterioso la cui bellezza gentile si muta bruscamente, come se avesse recitato la commedia della bontà, in una terribile insolenza (sebbene, nel fondo, sembra che sia piuttosto buona), non è forse sempre la stessa […]? Grùšen'ka, Nastasja, figure non meno originali, non meno misteriose, non solo delle cortigiane di Carpaccio, ma della Betsabea di Rembrandt […] egli non ha certamente conosciuto che quel viso straordinario, doppio, le cui improvvise vampate d'orgoglio fanno apparire la donna diversa da quella che è» (Proust 1995, 411). 54 «il Gesù della novella segna una “terza via” tra il modello premoderno e patriarcale, “cattolico-socialista-nazionalista”, della Chiesa che si fa Stato, da un lato, e l’ideale moderno, “protestante”, dell’individuo liberale, ateo e razionale, dall’altro. È forse il mattone fondante di quel modello “ortodosso” utopico di uno Stato-padre che si fa Chiesa, Grande Madre» (Franchini 2013, 188).

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padre in quanto rivale nel possesso della madre, ma ha verso di lui anche una «certa dose di tenerezza» per cui la soluzione dell’ambivalenza si situa nell’identificazione col padre; tuttavia la minaccia della punizione dell’evirazione da parte del padre porta il bambino «al desiderio di possedere la madre e di togliere di mezzo il padre». Il conflitto viene rimosso nell’inconscio, e si costituisce il senso di colpa. Ma questa descrizione non esaurisce il complesso edipico, e infatti Freud la integra sottolineando come l’elemento bisessuale, endogeno ad ogni uomo, viene a qualificarsi meglio nel bambino, per cui, in risposta alla minaccia alla sua virilità rappresentata dall’evirazione, egli «dall’evirazione rafforza la tendenza a divergere in direzione della femminilità, a porsi piuttosto nella posizione della madre e ad assumere il suo ruolo di oggetto d’amore agli occhi del padre». Ma non è finita qui, perché il bambino comprende come questa soluzione ‒ che il padre lo ami come una donna ‒ non risolve il problema della inevitabile evirazione55, e allora l’ambivalenza conflittuale ‒ l’odio/innamoramento nei confronti del padre ‒ porta entrambe le tendenze alla loro rimozione. Freud, nel saggio del 1928, accenna brevemente ad un legame politico fra tre elementi, ossia l’essere refrattario alla libertà, l’essere reazionario e il sentimento religioso: la universale caratteristica umana del senso di colpa del figlio conduce appunto sia a non scegliere la libertà ma la sottomissione al potere (nel caso specifico lo Zar), sia a sviluppare una sottomissione alla religione: «Se tutto sommato non approdò alla libertà e divenne reazionario, ciò fu dovuto al fatto che la colpa universalmente umana del figlio, sulla quale è costruito il sentimento religioso, aveva raggiunto in lui una forza superindividuale e restò insuperabile perfino al cospetto della sua grande intelligenza» (Freud 2002, 40-41). Sempre nel medesimo saggio, Freud fa un altro fuggevole riferimento ad una relazione ‒ già osservabile nella storia del mondo ‒ fra religione e colpa, stavolta individuando esplicitamente nella figura di Cristo e nelle sue sofferenze l’oggetto

55 Riportiamo la curiosa chiosa che lo stesso Freud fa quando descrive il meccanismo da noi sopra riportato: «Mi dispiace, ma non posso farci niente se questa esposizione degli atteggiamenti d’odio e d’amore verso il padre, e delle loro metamorfosi sotto l’influenza della minaccia di evirazione, riesce sgradevole e ben poco credibile al lettore inesperto di psicoanalisi» (Freud 2002, 38).

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della immedesimazione e imitazione da parte dell’uomo, imitatio Christi che verrebba intesa dall’uomo come una via per la liberazione dalla colpa, via che avrebbe, evidentemente, imboccato e percorso Dostoievskij: «Ripetendo a livello individuale un’evoluzione già avvenuta nella storia del mondo, sperò di trovare nell’ideale di Cristo una via d’uscita e una liberazione dalla colpa, di sfruttare le sue stesse sofferenze per pretendere la parte del Cristo» (Freud 2002, 40). Ci preme quindi annotare che qui Freud, in modo fuggevole ma comunque esplicito, stabilisce due relazioni: quella in cui, da un lato, si osserva i) una tendenza politica reazionaria, oppure ii) una adesione a Cristo, e, dall’altro lato, si manifesta un determinato mondo psichico-sessuale (ovvero un irrisolto complesso edipico e una tendenza omosessuale) dell’individuo. Ma è soprattutto in un lavoro del 1931, pubblicato postumo56, che troviamo esplicitata una particolare teoria che associa omosessualità e religione cristiana. L’esposizione della teoria inizia rilevando come la psicanalisi abbia largamente rinvenuto in soggetti normali una identificazione fra gli effetti edipici verso il padre sopra descritti57 e l’identificazione del soggetto con Gesù Cristo: 56 Si tratta della biografia del presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson, scritta congiuntamente da Freud ‒ la cui parte manoscritta data al 1931 ‒ e Bullitt, ma pubblicata solo nel 1967 a Boston e Londra, e nel medesimo anno tradotta in Italia (Freud e Bullitt 1967). Tuttavia nella versione edita nel 1967, apparve solo una minima parte del contributo di Freud, che era stato, invece, privato delle parti relative alla evirazione, alla omosessualità e al cristianesimo. L’intero lavoro di Freud ‒ ritrovato da Paul Roazen nel 2004 nel lascito di William Bullitt, ora depositato alla Yale University, fu pubblicato per la prima volta nel 2005. La storia avventurosa del libro di Freud e Bullitt (politico americano che era stato paziente di Freud a Vienna nel 1920) è narrata da Roazen nella prefazione a Freud (2005). Secondo Ranchetti (2005, 455) quel lavoro di Freud è «di eccezionale importanza quale “sommario di psicoanalisi”, che precede di alcuni anni il Compendio del 1938 (pubblicato nel 1940), [ed] è forse il testo più esplicito sul “cristianesimo” dovuto a Freud, e si iscrive in quel ripensamento teoretico delle origini e dei fondamenti delle religioni che costituisce, con il suo L’uomo Mosè e la religione monoteistica, la scena finale della sua speculazione». 57 Riportiamo qui la sintesi degli effetti conflittuali del complesso edipico secondo Freud medesimo: «L’influsso dell’angoscia di castrazione sull’attività e passività del bambino gli ha imposto la lotta contro i due dilemmi di cui si compone il complesso di Edipo. Egli vuole uccidere suo padre e al contempo vuole assoggettarvisi incondizionatamente, perfino mediante il sacrificio della castrazione e la trasformazione in una donna. D’altra parte, vuole possedere sua madre come amante e al contempo ne ha repulsione, poiché gli appare come monito per la detestata castrazione. Il conflitto diventa infine così insopportabile che il bambino si

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In molti casi, un uomo il cui atteggiamento passivo verso il padre non ha trovato alcuna espressione diretta, si creerà tale espressione identificandosi con Gesù Cristo. Questa identificazione è un evento per così dire regolare nella vita psichica di un cristiano; secondo le testimonianze della psicoanalisi essa può essere rinvenuta in persone normalissime (Freud 2005, 473-474)58.

Tale identificazione agisce con un meccanismo che qui ci interessa particolarmente, ovvero quello della soggettivazione mediante assoggettamento; secondo Freud, il cristianesimo consente una complexio oppositorum ‒ un gioco di prestigio, un miracolo, dice Freud ‒, da cui il soggetto riesce a costituire la sua identità maschile attiva nel momento in cui si assoggetta passivamente: Questo non ci deve meravigliare (Wunder nehmen), poiché tale identificazione realizza quel gioco di prestigio di conciliare uno con l’altro, come con un miracolo (Wunder), due desideri affatto possenti e che si contraddicono a vicenda in maniera assoluta, esaudendoli entrambi contemporaneamente. I due desideri sono: di essere assoggettato del tutto passivamente nei confronti del padre, di essere completamente femminile, e d’altro canto, di essere totalmente maschile, potente, imperativo come il padre stesso (Freud 2005, 474).

In che modo Freud può dire che è Cristo a realizzare questo miracolo? Perché Egli, proprio attraverso il totale e passivo ab-

vede costretto a imboccare una via d’uscita» (Freud 2005, 467-468). La via d’uscita a tale insopportabile e duplice conflitto ‒ o almeno a quello col padre ‒ avrà a che fare, secondo Freud, col cristianesimo. 58 Come Freud ci racconta, l’equilibrio dell’Io richiede il difficile compito di conciliare le pretese pulsionali, i comandi del Super-Io e la realtà esterna. Posta la impossibilità di soddisfare senza problemi tali pretese, l’Io ricorre a tre meccanismi: la rimozione (negare le pretese pulsionali e relegarle nell’inconscio, che è il meccanismo più pericoloso), l’identificazione (soddisfare le pretese pulsionali trasformando l’Io, che è il soggetto desiderante, nel contempo anche nell’oggetto desiderato) e la sublimazione (soddisfare almeno in parte le pretese pulsionali spostandole da un oggetto irraggiungibile/vietato ad uno forse meno appagante, ma più raggiungibile/permesso, che è il meccanismo che ha permesso arte, letteratura e tutte le più elevate conquiste della civiltà). Il cristianesimo faciliterebbe questo compito fornendo il materiale per risolvere il difficile compito di conciliazione.

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bandono al Padre, ottiene il potere attivo di redimere la creazione: Cristo è stato in grado, sottomettendosi umilmente alla volontà di Dio padre, di diventare egli stesso Dio, è stato in grado, votandosi alla più completa femminilità, di raggiungere l’obiettivo estremo della mascolinità. Diventa quindi comprensibile che l’identificazione con Cristo venga intrapresa così spesso, al fine di risolvere il più rilevante dei due problemi edipici: il rapporto col padre […] Cristo rappresenta appunto la più completa conciliazione di mascolinità e femminilità. La fede nella sua natura divina include la fede nel fatto che mediante l’estrema passività si possano realizzare i sogni più arditi di attività, che assoggettandosi senza riserve al padre, si possa superarlo e diventare essi stessi Dio (Freud 2005, 474-475).

L’identificazione in Cristo consentirebbe, quindi, la soluzione del conflittuale rapporto edipico col padre e una conciliazione della bisessualità congenita. Si può vedere in azione, secondo una terminologia foucaultiana, una soggettivazione forte mediante forte assoggettamento. Freud porta a supporto della sua tesi l’osservazione fattuale di una duplicità di fenomeni che si affermano con la diffusione del cristianesimo: da un lato, l’omosessualità esplicita regredisce, dall’altro lato, tale omosessualità viene repressa59. Il perché della regressione dell’omosessualità esplicita è presto detto: viene meno il bisogno di esprimerla direttamente, perché essa ha trovato il modo di esprimersi nella identificazione col Cristo, un modo che è oltretutto estremamente soddisfacente perché ottiene una gratificazione sia dall’approvazione sociale sia dal super-Io che apprezza una identificazione con la divinità60. Se l’essere umano è in natura bisessuale, vale a dire presenta una costitutiva antinomia conflittuale, la soluzione conciliatoria offerta dal Cristo è così importante per l’uomo che Freud attribuisce a ciò

59 «Non è forse un caso che, nei primi secoli dopo la nascita di Cristo, con la diffusione del cristianesimo nel mondo, una straordinaria regressione nell’espressione diretta dell’omosessualità coincida con una repressione della stessa» (Freud 2005, 475). 60 «Questa espressione diretta infatti non era più indispensabile. L’identificazione con Cristo diede espressione all’omosessualità in una maniera che non solo trovò approvazione sociale, ma che doveva essere gradita anche al Super-Io, che difatti anela sempre alla somiglianza con Dio» (Freud 2005, 475).

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la rapida affermazione e la grande durata del cristianesimo come pure la previsione di un suo proseguimento indefinito nel futuro: Questo meccanismo di conciliazione delle tendenze antitetiche di mascolinità presenti nell’essere umano, per natura bisessuale, [operante] con l’aiuto della identificazione con Cristo, è qualcosa di così appagante da garantire lunga vita alla religione cristiana. Gli uomini non diventano inclini tanto in fretta ad abbandonare quello che per loro significa la liberazione [Erlösung] dal conflitto più grave con il quale devono lottare. Essi si serviranno ancora per molto tempo della identificazione con Cristo (Freud 2005, 475).

Ancora in questo lavoro del 1931, Freud delinea anche un’altra genealogia della civiltà, stavolta basata, piuttosto inaspettatamente, sulla omosessualità: La stessa società umana è tenuta insieme da libido omosessuale sublimata, poiché la passività del bambino verso il padre si converte in amore per il prossimo, al servizio della società […] Se gli uomini non dispiegassero altro che attività aggressiva e le donne passività, il genere umano si sarebbe estinto molto tempo prima del sorgere dell’epoca storica, perché gli uomini si sarebbero sterminati fra loro (Freud 2005, 476)61.

Freud spezza, quindi, in modo esplicito una lancia in favore della accettazione sociale dell’omosessualità: «Se la bisessualità umana ci sembra oggi una grave tara e una fonte di infinite difficoltà, non dobbiamo però dimenticare che senza di essa la società umana non potrebbe affatto esistere» (Freud 2005, 476). Peraltro, la condizione per cui l’omosessualità è la fonte della civiltà ne nega, al contempo, anche l’esplicita manifestazione, a favore, invece, di forme sublimate: «È l’omosessualità che, non certo nella sua forma manifesta ma sicuramente nelle sue sublimazioni, assicura la conservazione di una comunità maschile» (Freud 2005, 476). Da ultimo, Freud si lancia dalla genealogia della civiltà alla proiezione nel futuro, congetturando che l’omosessualità sarà la

61 Come interessante memento a studiosi e scienziati, Freud ricorda che «perfino la ricerca scientifica è un derivato di quella prima curiosità che il bambino ha mostrato per i genitali dei suoi genitori» (Freud 2005, 476).

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fonte anche di una pacifica globalizzazione delle società umane: «l’omosessualità […] forse un giorno o l’altro riuscirà a unificare tutte le razze dell’umanità in una grande comunità di fratelli» (Freud 2005, 476). Questo, peraltro poco noto, meccanismo individuato da Freud, che suggerisce un legame fra una forma di superamento “religioso” del conflitto edipico, l’omosessualità e la universalità del cristianesimo, può aggiungere un tassello alla storia della governamentalità incentrata sul pastorato cristiano che finora, sulle orme di Foucault, abbiamo cercato di delineare.

1.6. Soggettivazione e assoggettamento Il secolo del livellamento di massa si manifesta come quello in cui le apparizioni casuali più stravaganti della soggettività pretendono riconoscimento e considerazione da parte del pubblico, e con successo. (Gehlen 1967, 103)

Come noto (Cremonesi et al. 2016, 2017), si deve principalmente a Foucault il diffuso interesse per i concetti di soggettività, soggettivazione e assoggettamento, sia in filosofia che nelle scienze sociali. In particolare, soggettivazione e assoggettamento sono concepiti come fenomeni tra loro strettamente interconnessi e non indipendenti, modificandosi così radicalmente il concetto del soggetto cartesiano (vedi par. 3.3-3.7) e, di conseguenza, rilevando per l’ambito delle teorie politiche ed economiche. Analizzare il soggetto significa analizzare anche sia il potere e il contesto materiale che produce il soggetto ‒ cioè le pratiche di soggettivazione, vale a dire la serie dei meccanismi di oggettivazione e assoggettamento attraverso cui gli individui sono prodotti come soggetti ‒ sia le modalità che gli individui usano per sottrarsi a forme di assoggettamento e di controllo disciplinare e/o biopolitico, ossia, in generale, le tecniche di trasformazione del sé che tali individui possono applicare a loro stessi. L’ambivalenza del fenomeno, la sua duplicità, la sua ineludibile interconnessione, sono stati studiati, anche da molti altri autori, all’interno di un contesto sociale per coglierne i cambiamenti in corso, grazie alla griglia analitica delle modalità di soggettivazione, che viene definita come «esperienza interiore della persona che

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include le sue posizioni nel campo del potere relazionale», e ne viene studiata la produzione «attraverso l’esperienza della violenza e il modo in cui i flussi globali che coinvolgono immagini, capitale e persone si articolano con logiche locali relative alla formazione dell’identità» (Das et al. 2000, 1). La rilevanza socio-politica di questa concezione del soggetto appare evidente quando si pensi che tutte le posizioni filosofico-politiche ed economiche caratterizzate da un individualismo metodologico ritengono che sia un assioma l’esistenza della capacità di azione (razionale ed indipendente) del soggetto, misconoscendo, invece, del tutto la dimensione dei processi di assoggettamento connessi alla formazione dell’identità del soggetto. Invece, per Foucault, la soggettivazione non può prescindere dal potere che agisce sulla formazione del soggetto, e la forma moderna del potere, che è una forma relazionale e governamentale, si basa specificamente sul governo e sulla condotta. Il potere non è l’esito di un conflitto fra nemici, né l’obbligo imposto da qualcuno a qualcun altro, ma è piuttosto la “guida” dei comportamenti degli altri, guida flessibile a seconda degli accadimenti, delle possibilità che si aprono, delle reazioni, delle conseguenze. Forse la natura equivoca del termine condotta è uno dei migliori aiuti per arrivare a cogliere la specificità delle relazioni di potere. ˮCondurre” significa al contempo ˮguidare” gli altri (a seconda dei meccanismi di coercizione più o meno rigidi), ed un modo di comportarsi all’interno di un campo più o meno aperto di possibilità. L’esercizio del potere consiste nel guidare la possibilità di condotta, e nel regolare le possibili conseguenze. Fondamentalmente, il potere non è tanto un affrontamento fra due avversari o l’obbligo di qualcuno nei confronti di qualcun altro, quanto una questione di governo (Foucault 2010, 248-249).

Già nei primi lavori degli anni settanta Foucault concepisce la capacità soggettivante del potere come capacità di assoggettare e di produrre, allo stesso tempo, una soggettività assoggettata. Ne è un esempio la qualificazione del potere disciplinare, che si afferma all’inizio dell’età moderna, il quale, a differenza di quello sovrano-giuridico, associa una funzione-soggetto a una specificità del corpo, determinando l’individualizzazione tramite l’assoggettamento del corpo:

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Nel potere di sovranità la funzione-soggetto non è mai agganciata a una singolarità somatica […]. Nel potere disciplinare, al contrario, la funzione-soggetto coincide esattamente con la singolarità somatica. […] La disciplina è quella tecnica di potere in virtù della quale la funzione-soggetto arriva a sovrapporsi e ad aderire esattamente alla singolarità somatica. In breve, potremmo dire che il potere disciplinare ha come proprietà senza dubbio fondamentale quella di fabbricare corpi assoggettati e di applicare [épingler] per l’appunto la funzione-soggetto al corpo (Foucault 2014, 64).

Quindi, già nella descrizione del potere disciplinare appare l’interconnessione fra soggettivazione e assoggettamento, come pure appare il collegamento di tale interconnessione con una possibilità di resistenza del soggetto assoggettato, seppure si tratti di una resistenza grossolana come l’azione di resistenza delle isteriche al potere pischiatrico attraverso «sempre nuovi modi per aggirare e invertire i dispositivi del sapere medico, sfidandolo continuamente in una lunga battaglia, risoltasi poi storicamente a favore del potere psichiatrico» (Cremonesi et al. 2017, 10). Se la relazione di potere è una relazione di governo e conduzione degli altri, allora emerge la presenza di una duplice azione: quella del potere sugli individui per formare il soggetto (l’aspetto del governo degli altri), e quella degli individui su se stessi, in reazione all’azione del potere (l’ambito del governo di sé). Il soggetto è, allora, formato dal potere nella sua azione di superamento di ogni resistenza, ma anche dal gioco, vale a dire dall’interazione strategica, tra tecniche di governo e tecniche di sé. Secondo Revel (2016, 177), fra la creazione eteronoma del soggetto, oggettiva e assoggettante, e quella autonoma delle tecniche del sé, esiste una interconnessione incrociata; la creazione di un soggetto è «l’esito provvisorio di modi oggettivizzanti di soggettivazione così come di modi autonomi di soggettivazione, e possiede una struttura a chiasmo, in cui le due dimensioni della soggettivazione e dell’assoggettamento non possono essere completamente separate». Solo a partire da un riconoscimento genealogico di come il potere ha determinato la forma attuale del soggetto, solo svelando quali dispositivi di sapere e di potere lo abbiano, nel corso della storia e nel mutare delle contingenze, costituito, sarà possibile

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un’opera di disassoggettamento, un liberatorio lavoro su sé stessi, che per Foucault è il compito etico-politico del presente. In quali modi questo sia possibile è un tema, affrontato ma non risolto da Focault e da molti altri, che apre difficili cantieri di ricerca. Se il soggetto è costituito in determinati rapporti di potere formati da tecniche, strategie e dispositivi di controllo, queste modalità si basano su una assunzione di una verità che deve essere riconosciuta dal soggetto. L’esercizio del potere richiede sempre una aleturgia, cioè la produzione di una propria verità che deve essere la verità, attraverso la quale governare gli uomini, i quali non devono solo obbedire ma anche credere in quella verità e, in più, dire al potere la verità su se stessi; ne è un esempio lampante il potere pastorale che si basa sulle tre tecniche del battesimo, della confessione e della direzione di coscienza. Oggi che il dispositivo di verità è transitato dal pastorato cristiano al calcolo economico, tecnico e, in generale, scientifico, anche gli “atti di verità” richiesti dal potere transitano dalla confessione a nuove forme previste dalla attuale governamentalità neoliberale, fra le quali non è difficile vedervi l’esposizione intima dei social, le procedure di rating aziendale ‒ estese a ogni campo relazionale (politico, giuridico, sociale etc.) ‒ quali i report, le valutazioni, i rating attribuiti a tutti (sanitari, docenti etc.) e, in generale, le tecniche della cosiddetta psicopolitica (Han 2016). Per rimanere nel campo del pensiero foucaultiano, si può rintracciare una sua evoluzione riguardo al ruolo della verità e del sapere nella relazione fra potere e individui, che passa da un dispositivo, in cui la verità-sapere è strettamente interconnessa al potere secondo un meccanismo di produzione e rafforzamento reciproci (il sapere è prodotto e sostenuto dal potere, ma, al contempo, il sapere induce effetti di potere con i quali si riproduce), ad un dispositivo del potere che diventa di governo e che governa tramite la verità “economica” e scientifica. Il mutamento sembrerebbe riguardare il modo in cui questa verità agisce sugli individui; nel caso del primo dispositivo essa agisce come un qualcosa che viene dall’esterno e che per gli individui è da accettare come obbligo o a cui è da dare un assenso, nel caso del secondo dispositivo anche gli individui diventano parte attiva non solo nella sua ricezione ma anche nella sua validazione e replicazione. Tuttavia, a ben guar-

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dare, «questo spostamento concettuale di Foucault sembra più formale che sostanziale […] e il gioco tra ‘sapere’ e ‘potere’ e ‘verità’ è ancora ben presente […] la distinzione tra meccanismi di verità prodotti dal rapporto tra ‘sapere’ e ‘potere’ e quelli prodotti dal ‘governo attraverso la verità’ sembra sottile e quasi inesistente (i secondi discendendo comunque dai primi)» (De Michelis 2014). Inoltre, in entrambi i casi gli individui sono soggettivati attraverso l’essere oggetto di ‘sapere’ e recettori di una verità eteronoma, anche se questa verità sembra diventare propria e personale e non più esterna, vale a dire che gli effetti di libera scelta volontaria della verità sono parte più di un discorso retorico neoliberale che reali. Quindi, esattamente come nella confessione in cui appare chiaro come il “regime di verità” cristiano si basa non solo sull’‘obbligo di credere’ ma anche sull’obbligo di ciascuno di ‘guardare dentro se stesso’ e vedere e dire la propria verità, anche nell’attuale “regime di verità” governamentale neoliberale si intrecciano l’obbligo di credere (alla verità della religione capitalistica) e l’obbligo di ciascuno non solo di essere esaminato ma di esaminarsi e auto-valutarsi: il potere produce ancora e sempre più intensamente la verità utile solo al proprio potenziamento e alla propria infinita riproducibilità, facendola introiettare a ciascuno – e oggi il ‘regime di verità’ del capitalismo impone un ‘obbligo di credere’ (nel mercato, nella mano invisibile) e poi chiede a ciascuno di ‘guardare dentro se stesso’, riproducendo e convalidando quella verità comunque eteronoma e prodotta dal sapere-potere capitalista, ciascuno infine dovendosi giudicare o meno come ‘peccatore’, cioè domandandosi: sono un buon capitalista? sono abbastanza imprenditore di me stesso? so vendermi bene sul mercato? ho un buon ‘capitale’ umano? (De Michelis 2014).

La nuova arte di governo, la governamentalità, la conduzione degli individui, hanno generato nel pensiero e nel mondo occidentale, come contraltare, come modo di allentare, rifiutare, sfuggire alla presa, un atteggiamento critico. All’arte di governo si risponde con la critica, vale a dire con l’arte della disobbedienza e della indocilità come scelta volontaria razionale del soggetto. Poiché la soggettivizzazione e il concomitante assoggettamento avvengono nel nome di una verità, quella religiosa del pastorato o quella scientifica della moderna arte di governo, l’azione di

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disassoggettamento non può che passare per il vaglio, appunto, critico di quella verità: il nucleo originario della critica rinvia a quel fascio di rapporti in cui si intessono i problemi del potere, della verità e del soggetto. E se la governamentalizzazione designa il movimento attraverso il quale si trattava, nella stessa realtà di una pratica sociale, di assoggettare gli individui mediante meccanismi di potere che si appellano a una verità, allora direi che la critica designa il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità; la critica sarà pertanto l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata. Funzione fondamentale della critica sarebbe perciò il disassoggettamento nel gioco di quel che si potrebbe chiamare la politica della verità (Foucault 1997, 40).

La perdita dell’atteggiamento critico, l’annientamento della funzione critica ‒ funzione che richiedeva un’adeguata conoscenza di saperi “altri” se non alternativi a quelli del potere e che il processo educativo prima del recente regime educativo neoliberale poteva assicurare ‒ lascia nel gioco della verità un solo vincitore, il potere, e tarpa ogni possibilità di liberazione dall’assoggettamento. Per questo, in un’ottica foucaultiana, è necessario approfondire l’analisi genealogica non tanto del soggetto, quanto, da un lato, delle pratiche e dei processi di soggettivazione e, dall’altro, delle modalità di assoggettamento. Questo sia per interrogarsi sulle forme e le modalità specifiche di assoggettamento/soggettivazione in un contesto storico-politico determinato, come quello odierno, sia per rendere intelligibile l’eventuale possibilità di praticare, come tenta di esperire l’ultimo Foucault, una serie di tecniche di sé al fine di trasformare il proprio essere e modellare la propria soggettività al di fuori del controllo del potere. I concetti di potere e di soggetto sono una tematica quanto mai studiata nei secoli. La teoria “liberale” del contrattualismo moderno come la teoria tradizionale della sovranità statale, nelle loro pur enormi differenze, condividono due elementi cruciali: i) soggetto e potere sono considerati come fossero due entità distinte; ii) il potere è considerato come un “entità” oggettivamente identificabile, per esempio in un diritto che si acquisisce o si aliena mediante atti giuridici. Invece, Foucault, sulla scia di Nietzsche,

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ritiene il potere una “relazione” tra “soggetti”, e questo vale anche per il potere sociale che, in via ultima, è sempre potere dell’uomo sull’uomo. Questo aspetto relazionale del potere sociale va oltre la comune definizione auto-evidente del potere quale relazione nella quale un determinato soggetto (attivo) ne induce un altro (passivo) a fare o a non fare qualcosa, superando la duplicità del ruolo (attivo o passivo) che il soggetto può assumere nella relazione di potere, per far coincidere soggetto e potere nella misura in cui il soggetto diviene un prodotto del potere, e il potere diventa intelligibile proprio tramite lo studio non tanto di quale sia la sua essenza ab origine ma piuttosto dei suoi effetti, di ciò che produce nella società e nei suoi membri, di come influenza gli stessi corpi e le relazioni fra i medesimi, i comportamenti nel modo di vivere e di pensare e l’identità, ciò che è verità o falsità, ecc. Foucault, già nel 1976 in Sorvegliare e punire, critica le teorie ‘liberali’ della società secondo le quali essa è costituita da atomi individuali, come quelli teorizzati dal contrattualismo giuridico, e dallo scambio economico, liberi appunto di scambiare e di stipulare contratti, ricordando, invece, come gli individui non siano ‒ o non siano soltanto ‒ quelli immaginati dalla rappresentazione fittizia ed “ideologica” fornita da giuristi ed economisti, ma siano, altresì, prodotti del potere tramite la tecnologia disciplinare; quindi, Foucault insiste proprio sulla produzione di soggettività da parte del potere e sul ridefinire il potere in termini positivi di creazione, fabbricazione, produzione di individui e di connessi saperi, piuttosto che negativi di divieto, censura, esclusione, repressione ecc.: Si dice spesso che il modello di una società che abbia come elementi costitutivi gli individui è presa a prestito dalle forme giuridiche astratte del contratto e dello scambio. La società mercantile si sarebbe presentata come una associazione contrattuale di soggetti giuridici isolati. Forse. La teoria politica dei secoli Diciassettesimo e Diciottesimo sembra in effetti obbedire spesso a questo schema. Ma non bisogna dimenticare che nella stessa epoca è esistita una tecnica per costituire effettivamente gli individui come elementi correlativi di un potere e di un sapere. L’individuo è senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione “ideologica” della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama “la disciplina”. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: “esclude”, “reprime”,

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“respinge”, “astrae”, “maschera”, “nasconde”, “censura”. In effetti il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione (Foucault 1993, 212).

Bisogna sottolineare l’aspetto peculiare del potere foucaultiano, acuito dalla riflessione di Butler (2013), che consiste nel fatto che il soggetto non solo è prodotto dal potere ma deve incorporare il potere, in una forma di obbedienza preventiva, o almeno pavloviana, se vuole esistere nella società, e tale incorporazione ‒ la forma di vita psichica del potere ‒ significa necessariamente (più che volontariamente) anche attaccamento e passione verso il potere. Ne consegue anche che ogni forma di resistenza o disobbedienza al potere viene ad essere influenzata e filtrata dalla psiche appassionatamente appiccicata al potere. Butler mette in evidenza l’aporia implicita nell’ambivalenza del processo di soggettivazione/assoggettamento, ambivalenza notoriamente manifestata nella parola “soggetto”, che denota sia la soggezione al potere ‒ cioè l’“assoggettamento” ‒, sia la formazione del soggetto medesimo ‒ cioè la “soggettivazione”, come appare chiaramente nel significato contrapposto delle espressioni “essere reso soggetto a una legge” ed “essere reso soggetto titolare di un diritto”. Vediamo come viene enunciata questa aporia: Come avviene che il soggetto, inteso come condizione e strumento dell’agire, sia allo stesso tempo effetto di una forma di soggezione? Se la soggezione stabilisce la condizione di possibilità dell’agire, come può quest’ultimo essere concettualizzato in opposizione alle forze della soggezione? (Butler 2013, 53).

Aldilà del dibattito su cosa sia il soggetto, sulla sua interscambiabilità o meno con le nozioni di “persona” o “individuo” ecc. (vedi anche par. 3.3-3.7), Butler cerca di affondare il bisturi genealogico dentro l’aporia. Per fare ciò, Butler recupera sia la dialettica servo-padrone della Fenomenologia dello spirito di Hegel, sia il nesso bi-direzionale tra potere e morale rivelato nella Genealogia della morale di Nietzsche. Il servo riceve identità personale e sociale dal padrone e, perciò, ad esso si attacca emotivamente, a dispetto che l’identità che

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riceve sia in realtà quella di un suddito, di un servo. La relazione con il padrone, consistente nel lavoro ripetitivo per quest’ultimo, in realtà “produce” un potere, che il servo incorpora. Infatti, poiché il corpo del servo lavora per procurare la sussistenza-esistenza del corpo del padrone, si ha una traslazione di quest’ultimo ‒ liberato dalle preoccupazioni per il proprio corpo e quindi, di fatto, dal medesimo ‒ nel corpo del servo, ossia il corpo del servo diventa il corpo del padrone, il quale ultimo, allora, permane nella psiche del servo sotto forma di coscienza. Tuttavia si tratta di una cattiva coscienza, di una colpa, perché al momento in cui il servo potrebbe liberarsi dalla relazione di soggezione al padrone, ovvero dal potere, incorre nell’auto-attribuzione della colpa, per via del fatto che quel tentativo di liberazione coincide nientemeno che con un tentativo di liberazione dalla propria identità, dalla propria esistenza sociale, da ciò che fino a quel momento lo ha mantenuto in vita. L’auto-attribuzione della colpa (o cattiva coscienza) è ciò che propriamente induce il soggetto a ritornare sui binari sicuri della relazione assoggettante e al contempo soggettivante dietro l’auto-esortazione ingannevole all’assunzione delle “proprie” responsabilità; liberarsi da quella relazione, per il servo e per il soggetto, significherebbe esporsi alla contingenza, ed esporsi alla contingenza prevede anche la possibilità di morire. È dunque in seno a questa paura di morire ‒ il “timore assoluto” di perdere tutto, di perdere se stessi ‒ che si origina la riflessività, la torsione rimproverante (violenta, estrema) dell’io su se stesso, la creazione di una prospettiva interna dalla quale il soggetto possa esprimere un giudizio su di sé (Zappino 2013, 25-26).

Quindi, è in Hegel, nella dialettica servo-padrone, che troviamo già perfettamente delineato il tema della soggettivazione, vale a dire di come il soggetto si costituisca mediante la sottomissione. Il potere-padrone appare “esterno” al servo, ma solo fino a che non ri-appare, in seguito alla trasmutazione del padrone in realtà psichica, come coscienza del servo, coscienza che, al momento della possibile liberazione, si pone come auto-rimprovero e auto-mortificazione, ovvero come “coscienza infelice”. La cattiva coscienza alla base della formazione e stabilità del soggetto è ciò che emerge da Nietzsche nella sua Genealogia della morale. Butler, a partire da Hegel e Nietzsche, si sofferma sul potere, che passa da essere una influenza esterna ad essere una parte

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psichica formativa dell’identità del soggetto stesso, che finirebbe quindi a ribellarsi contro se stesso: In entrambi i casi, se il potere inizialmente si impone al soggetto dall’esterno, subordinandolo, in un secondo tempo assume una forma psichica che costituisce la stessa identità di quel soggetto. La forma psichica assunta dal potere, suggerisco, sembrerebbe dunque contrassegnata dall’immagine del torcersi, inteso come un ripiegarsi su se stesso, o inteso anche come un ribellarsi contro se stesso (Butler 2013, 47).

Butler estende la riflessione di Foucault sulla teoria del soggetto, ponendosi la domanda su come sia possibile per il soggetto porsi «in una relazione oppositiva con il potere che è, com’è noto, implicata nello stesso potere cui si oppone», domanda cruciale per ogni teoria politica e sociale contemporanea, e offrendo una interpretazione sostanzialmente basata su una doppia negazione, ossia né/né. Non si dovrebbe né credere che l’agire del soggetto sia da sempre implicato nel processo di subordinazione ‒ il che significa, per esempio, pensare che il dominio capitalistico si eserciti in forme tali da rendere le azioni del soggetto “addomesticate” sin dall’inizio, una credenza fatalistica politicamente ottusa, e per la quale, peraltro non vi sarebbero solide motivazioni né logiche né storiche ‒, né adottare la visione tipica del soggetto di parte liberale o umanista che intende l’agire sempre e solo come ciò che è in grado di contrastare il potere, una credenza ottimistica politicamente ingenua. Cosa offre allora Butler nella propria interpretazione del soggetto, che tenga, secondo i suoi auspici, «la debita distanza da entrambe» le teorie negate? Il suo suggerimento è che il soggetto può essere concepito come se il suo agire derivasse proprio dal potere a cui si oppone, benché tale formulazione possa sembrare scomoda e disturbante, soprattutto agli occhi di quanti credono nella possibilità di sradicare questa complicità e questa ambiguità una volta per tutte (Butler 2013, 59).

Ma l’uscita dall’aporia della teoria del soggetto e dalla impasse della doppia negazione, entrambe descritte sopra, viene proposta da Butler in termini di una uscita dalla logica binaria, riprendendo il riferimento che Lacan usa per il soggetto, quello di essere una “escrescenza” della logica:

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Se il soggetto non è né completamente definito dal potere, né completamente in grado di definire il potere (ma risponde in maniera significativa e parziale a entrambe le condizioni), esso si spinge oltre la logica della non-contraddizione, costituisce un’escrescenza della logica, per così dire. Sostenere che il soggetto vada oltre la logica binaria o/o (o questo/o quello, ecc.) non significa sostenere che esso viva in una sorta di zona franca da egli stesso edificata. Spingersi oltre non significa infatti fuggire, e in questo senso il soggetto si spinge effettivamente oltre ciò cui si è legato: non può dunque reprimere del tutto quell ’ambivalenza dalla quale è costituito (Butler 2013, 59).

L’azione del soggetto è perciò sempre segnata da tale ambivalenza costitutiva, tra il ciò che già-è e il ciò che deve-ancora-essere. Butler vuole andare oltre la tesi, ormai consolidata dopo Foucault, che il potere non consiste solo nel governo o nell’oppressione di soggetti già esistenti, ma anche nella creazione di quei soggetti stessi, per domandarsi, invece, secondo quali modalità avviene la creazione del soggetto da parte del potere. Nello specifico, si tratta di andare oltre gli effetti del potere regolativo sulla vita psichica già individuati da Foucault ‒ ad esempio nelle manifestazioni in cui il soggetto si rivolta contro se stesso in seguito ai processi della regolazione sociale, quali l’auto-rimprovero e la melanconia ‒ e alla constatazione che la creazione del soggetto dal parte del potere si dà, principalmente, attraverso la modalità dell’incorporazione di determinate norme. Più in generale, si tratta di andare oltre la scissione ontologica tra sociale e psichico, per offrire una teoria politica della formazione del soggetto indirizzata alla comprensione del processo di soggettivizzazione psichica, compreso quello dell’incorporazione delle norme, processo finora preso come esogenamente dato senza che nessuno abbia «ancora spiegato in cosa effettivamente consista l’incorporazione o la stessa interiorizzazione, né cosa significhi per una norma essere interiorizzata, né cosa le accada nel processo di interiorizzazione». Per Butler, capire questo processo significa conoscere in che modo la soggettivazione del desiderio esige e crea il desiderio per l’assoggettamento e arrivare ad «una distinzione tra psichico e sociale profondamente diversa da una descrizione dell’interiorizzazione psichica delle norme».

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Butler ci ricorda come già Freud e Nietzsche avevano proposto una teoria della soggettivazione psichica in cui l’interiorizzazione della norma non significa solo l’interiorizzazione di una proibizione ma ha anche e soprattutto un aspetto produttivo della coscienza, la quale nasce dall’effetto di auto-rimprovero per gli impulsi e desideri primari che diviene produttivo di una introspezione e riflessione su se stesso. Il movimento che va dal desiderio, precluso e reindirizzato, all’auto-rimprovero conduce alla formazione della coscienza62. Andando oltre, Butler si domanda anche se non vi sia alla base della formazione del soggetto non tanto un desiderio represso, quanto ‒ come già, a vari livelli, Hegel, Nietzsche e Freud avevano postulato ‒ un desiderio forcluso, escluso a priori, quindi una perdita preventiva (la impensabile “perdita delle perdite” secondo Hegel), a cui il soggetto si ribella attraverso gli atti di auto-ostacolamento, di assoggettazione, di desiderio e di fabbricazione delle proprie catene, attuandosi così secondo tali modi la definizione e la stabilità del soggetto63. Aldilà delle peculiarità del percorso teorico di Butler, quali la melanconia posta alla base del soggetto e del suo assoggettamento in termini psichici, quindi melanconia come condizione sociale e non patologia psichica, oppure una teoria della società che poggia le sue basi sulla proibizione originaria dell’omosessualità e sul mancato lavoro del lutto che questa imporrebbe, qui ciò che rileva è la sua ri-marcatura sulle modalità di soggettivazione psichica, sul modo in cui l’interiorizzazione della norma produ-

62 «La coscienza è lo strumento attraverso il quale il soggetto diventa un oggetto per se stesso: diventa cioè capace di riflettere su se stesso e di determinarsi in quanto essere riflettente e riflessivo» (Butler 2013, 59). 63 Detto di passaggio, Butler individua nella omosessualità il desiderio forcluso, che diventa quindi l’elemento fondativo di una certa versione eterosessuale del soggetto. Inoltre, viene ipotizzato che è da un duplice disconoscimento del lutto per la perdita primaria, impensabile, che nasce non solo il soggetto eterosessuale, ma la sessualità stessa, cioè da «quel duplice disconoscimento che suona pressappoco così: “non l’ho mai amato, non l’ho mai perduto”? È su questo “maimai” che poggia la naturalizzata vita eterosessuale con tutto il suo bagaglio di pervasiva melanconia? È dal disconoscimento del lutto che dipende la costituzione della sessualità, ivi compresa quella delle persone gay?» (Butler 2013, 175).

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ce auto-condanna e quindi coscienza (hegelianamente infelice); quindi, l’attenzione su come il potere, l’eterodirezione normativa, diventa “vita psichica” superandosi la scissione fra sociale e psichico, infine, il focus su una spiegazione dell’attaccamento emotivo del soggetto al potere assoggettatore, insomma, una spiegazione del meccanismo del potere pastorale. Come ci ricorda Bazzicalupo (2013), Butler approfondisce la relazione, già prevista da Nietzsche, fra potere e morale, con l’introiezione dell’assoggettamento al potere tramite la ricerca incessante e puntigliosa della verità su di sé e scoperta dentro di sé, con la rivelazione dei desideri fino ad allora nascosti o sconosciuti attraverso la confessione che, una volta apparsi, auto-condannano. La soggettivazione da parte del potere, specie pastorale, è costruita affinché l’individuo sia sempre già colpevole, modalità che Butler designa come «la vita psichica del potere», la cui dinamica congiunge la produzione di soggezione con l’appassionato attaccamento del soggetto all’assoggettatore. Pertanto, una breve digressione sulla relazione fra potere e morale postulata da Nietzsche può essere, infine, utile per articolare un’analisi del potere capitalistico neo-ordoliberale tipico dello scenario occidentale contemporaneo, che da Hegel e Freud fino a Foucault e Butler vede in Nietzsche un interprete sempre attuale. La grande operazione genealogico-demistificatoria di Nietzsche riguardo alla morale conduce almeno a quattro capisaldi in grado di ribaltare il comune senso moderno: i) la morale e i valori sono frutto umano, troppo umano, del potere come strumento di oppressione ii) la morale agisce come tecnologia di potere in quanto il potere deve penetrare i sottoposti nel punto dove è più specifico il rischio di disobbedienza, ovvero nel pensiero, e la morale, appunto, crea, produce, inietta, marchia, mette in circolo appositi valori, categorie, circuiti funzionali per ottenere l’obiettivo del dominio64; iii) la morale mira a raggiungere la totale uniformi-

64 «Strumento di dominio (di‒ e per‒ qualsiasi dominio), la Morale è per Nietzsche adibita a raggiungere i recessi più profondi e «liberi» dell’individuo. L’uomo infatti non è un animale dominabile con la mera coercizione fisica. Egli pensa: il suo pensiero è una forza sfuggente e pericolosa. Per questo chi intende

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tà, prevedibilità, calcolabilità e conformità alla verità prestabilita degli uomini, tramite le memoria e il ricordo, la distinzione fra necessario e casuale, l’apprendimento della relazione di causalità, l’abilità di fare calcolo economico, di usare i mezzi per un fine, in altre parole di fare promesse, di indebitarsi, di obbligarsi, di scambiare inter-temporalmente, di farsi responsabile, insomma di fare economia come la forma di potere del capitalismo richiede; iv) la morale come legittimazione delle relazioni economico-giuridiche storicamente determinatesi, vale a dire come legittimazione del capitalismo. Nietzsche racconta che la morale e il suo bagaglio di principi e valori non provengono né dalla rivelazione divina né dalla riflessione dello spirito umano tramite la ragione, bensì provengono dall’uomo stesso con esclusive finalità di dominio e controllo sociali, provengono da una classe che la crea e la impone alle altre classi usandola come efficace strumento di potere. La moderna governamentalità rivelata da Foucault ha i propri punti peculiari proprio nell’economia politica, intesa quale principio di veridizione, e negli uomini, intesi come popolazione biologica, i quali, per essere governati e rispondere alla verità economica (ovvero ai dettami del capitalismo) devono essere resi in media ‒ vale a dire come specie ‒ prevedibili, calcolabili, conformi, il che avviene al meglio se le loro risposte sono state fatte loro introiettare dal potere medesimo, cioè se gli uomini sono come il cane pavloviano rispetto a uno specifico modello stimolo-reazione preparato dal padrone o dall’economista per conto di questi. Nietzsche racconta con ineguagliabile lucidità questa millenaria pratica di potere, rappresentata dalla morale, che opera sulle trasformazioni dell’uomo per adeguarlo all’obbedienza al potere:

possedere l’uomo deve penetrarlo fino al pensiero – manipolandovi funzioni e categorie, introiettandovi determinati valori. E questo appunto è il compito riservato alla Morale […] L’universo contemplato con orrore da Nietzsche è quello in cui l’individuo è manipolato fino (lo si è detto) nei più intimi recessi psichici; quello in cui la Morale diventa incisione a fuoco nella memoria di determinati valori» (Moravia 2012, 12-13).

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Quanto deve aver prima imparato, l’uomo, per disporre anticipatamente del futuro in tal modo, quanto deve aver prima imparato a separare l’accadimento necessario da quello casuale, a pensare secondo causalità, a vedere e ad anticipare il lontano come presente, a saper stabilire con sicurezza e calcolare e valutare in generale quel che è scopo e quel che è mezzo in tal senso – quanto, a questo fine, deve prima essere divenuto, l’uomo stesso, calcolabile, regolare, necessario, facendo altresì di se stesso la sua propria rappresentazione, per potere alla fine rispondere di sé come avvenire, allo stesso modo di uno che fa promessa! (Nietzsche 2012, Seconda dissertazione, 1).

Ma, soprattutto, Nietzsche sa cogliere tanto l’origine quanto la centralità della trasformazione dell’uomo in soggetto “responsabile”, mostrandola come condizione necessaria per la governabilità dell’uomo medesimo; egli anticipa così Foucault e nobilita col suo pensiero filosofico alto quella contenuta riflessione contemporanea che coglie nell’ossessivo richiamo alla “responsabilità” del regime neo-ordoliberale una delle caratteristiche non della sbandierata libertà ma della più ferrea assoggettazione del nuovo soggetto postmoderno: Questa appunto è la lunga storia dell’origine della responsabilità. Quel compito di allevare un animale che possa fare promesse, implica in sé, come già ci siamo resi conto, quale condizione e preparazione, il più immediato compito di rendere dapprima l’uomo, sino a un certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, coerente alla regola e di conseguenza calcolabile (Nietzsche 2012, Seconda dissertazione, 2).

La morale che si rappresenta nel meccanismo colpa-punizione-pena è svelata da Nietzsche come l’occultazione ideologica di un meccanismo di dominio economico; colpa-punizione-pena sono concetti morali che sottacciono, in realtà per legittimarli, i veri corrispondenti concetti della sfera economico-giuridica. Un lungo lavorio di teologi e filosofi attorno alla giustificazione della morale ha cercato di conferire un (illusorio e mistificante) libero volere all’uomo allo scopo di renderlo responsabile del proprio agire e, quindi, di poterlo più lontanamente e legittimamente perseguire e condannare per determinati atti. Ma questo lavoro secolare non ha raggiunto i risultati sperati. La costruzione morale – o antropologico-morale – del meccanismo colpa-punizione-pena si

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rileva, a saperla “leggere” adeguatamente, non poco fragile. La «volontà di verità» sa demistificare l’aspetto “visibile” di tale meccanismo, sa di svelarne l’inconfessabile sostanza occulta. Il freddo sguardo dell’«immoralista» [Nietzsche] non tarda a scoprire la vera origine (umana troppo umana) di categorie e principi ingannevolmente presentati come universali e necessari. Tale origine, lo si è già preannunciato, è eminentemente economico-giuridica (Moravia 2012, 14).

La genealogia nietzscheana dei concetti morali approda senza dubbio ad una radice economico-giuridica delle categorie morali, a partire delle loro prime elementari forme, intrise ancora di sangue e violenza, che Nietzsche ritrova persino nel moderno Kant, quando questi teorizza il dovere negli imperativi categorici: In questa sfera, nel diritto delle obbligazioni dunque, ha il suo primo focolare il mondo dei concetti morali di «colpa», «coscienza», «dovere», «sacralità del dovere» […] E non sarebbe lecito aggiungere che in fondo quel mondo non si è mai più liberato di un certo qual odore di sangue e di tortura? (anche nel vecchio Kant: l’imperativo categorico sa di crudeltà…) (Nietzsche 2012, Seconda dissertazione, 6).

Discutiamo brevemente della triade concettuale colpa-pena-punizione, nell’ottica di rivelarne l’origine posta all’interno dell’ambito economico-giuridico. Per Nietzsche, la colpa, anziché concetto filosofico e morale, ha origine nel concetto economico di debito, proviene da un contesto relazionale umano e sociale in cui l’uomo è inteso come elemento di un contratto economico e valutato sulla base dei suoi adempimenti agli obblighi giuridici. Qui appare centrale la nozione di valutazione, laddove Nietzsche attribuisce all’uomo la peculiare natura di essere che “valuta” tutto; quindi, anche l’uomo stesso viene valutato attraverso la sua relazione col debito. Nietzsche anticipa così, anche in questo caso, l’ossessione del regime neo-ordoliberale per la “valutazione”, ovviamente intesa come la relazione fra l’uomo e le varie sfere della società capitalistica in cui è inserito e messo al lavoro (dalla famiglia al sistema educativo): Il sentimento della colpa, dei nostri obblighi personali, per riprendere il filo della nostra ricerca, ha avuto, come abbiamo visto, le sue radici nel rapporto interpersonale più antico e originario che si sia mai dato, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui, per

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la prima volta, si contrapponeva persona a persona, qui, per la prima volta, la persona si misurò alla persona. Non è stato ancora trovato un grado di civilizzazione, tanto basso in cui non si notasse qualcosa di questo rapporto. Fissare i prezzi, misurare i valori, inventare equilivalenze, scambi – tutto ciò ha preoccupato il pensiero più antico dell’uomo in misura tale che, in un certo senso, il pensare è questo: qui è stata allevata la forma più antica di intelligenza, qui si potrebbe supporre anche l’avvio primo dell’orgoglio umano, il suo sentimento di superiorità nei confronti degli altri animali (Nietzsche 2012, Seconda dissertazione, 8).

Nietzsche arriva persino a stabilire una equivalenza semantica fra il termine uomo (man, mensch) e il termine sanscrito (man) per mente, pensiero, spirito, aggiungendovi quindi una implicita equivalenza fra il pensiero e la volontà di valutazione di tutte le cose (fino ad arrivare al noto proverbio “ogni cosa ha un prezzo”); quindi l’uomo è l’essere “valutante”: Forse il nostro termine “Mensch” (manas) esprime proprio parte di questo sentimento di sé: l’uomo si definiva come l’essere che stabilisce valori, stima e misura perché è l’«animale valutante in sé». La compravendita, con tutti i suoi attributi psicologici, è più antica anche degli inizi di ogni altra forma di organizzazione sociale e di associazione: dalle forme più rudimentali del diritto personale si è invece, prima di tutto, trasposto il nascente sentimento di scambio, contratto, debito, diritto, obbligo, compensazione nei più rozzi e iniziali complessi comunitari (nei loro rapporti con complessi simili), contemporaneamente all’abitudine di paragonare potenza a potenza, di misurarle e calcolarle […] si arrivò molto presto, con grande generalizzazione, a «ogni cosa ha il suo prezzo; tutto si può comprare (Nietzsche 2012, Seconda dissertazione, 8).

La pena, pur nella complessità dei suoi rimandi psicologici e sociali, non è tanto un concetto morale quanto economico, a partire dalla elementare equivalenza fra pena e risarcimento di un danno, che Nietzsche declina poi in molteplici modi (pur avvertendo di essere stato limitato, incompleto e casuale), in cui, comunque appare sempre almeno un certo “sapore” economico-giuridico: Pena come neutralizzazione, come impedimento di un ulteriore danno. Pena come risarcimento del danno al danneggiato […] Pena come isolamento di una turbativa dell’equilibrio, come prevenzione di un progredire della turbativa stessa. Pena come instillazione di timore […] Pena

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come una sorta di compensazione per i vantaggi di cui il trasgressore ha goduto fino a quel momento […] Pena come enucleazione di un elemento che è in procinto di degenerare […] Pena come festa, cioè come violenza e beffa ai danni di un nemico finalmente abbattuto. Pena come memorializzazione […] Pena come saldo di un onorario che la potenza si riserva per proteggere il malfattore dagli accessi della vendetta. Pena come compromesso […] Pena come dichiarazione e norma di guerra contro un nemico (Nietzsche 2012, Seconda dissertazione, 13).

Infine ‒ terzo cardine del meccanismo morale ‒ la punizione, la cui radice economica sta nel principio che ogni danno deve essere risarcito con una proporzionale misura di sofferenza, somigliante alla pulsione di vendetta e di collera che punisce l’autore del danno come il genitore punisce i figli che fanno danni. Nietzsche arriva a domandarsi, una volta che siano appurati i legami fra debito e colpa, fra colpa e dolore e fra danno e dolore, se quest’ultimo non possa essere quindi considerato come un risarcimento o un rimborso del debito: E parimenti qui è stata ribadita per la prima volta quella più crudele concatenazione di idee, “colpa e dolore”, che forse si è fatta indissolubile. E chiediamoci ancora: in che misura il dolore può essere una compensazione dei “debiti”? (Nietzsche 2012, Seconda dissertazione, 6).

In conclusione, riassumiamo il pensiero sulla morale di Nietzsche nella efficace sintesi di Moravia: Il significato […] è chiaro. Proiezione diretta della sfera economica, la Morale tende a perpetuare e a legittimare la disuguaglianza, la gerarchia, la violenza che regnano nei rapporti umani. E tende anche ad installare nella coscienza degli uomini il senso dell’esistenza (della giusta esistenza) d’un complesso meccanismo di divieti e di reati, di giudizi e di condanne, di ammende e di pene. Tutto ciò serve, in ultima analisi, a rafforzare il Dominio: a fornire al Potere i mezzi per meglio opprimere gli uomini (Moravia 2012, 15).

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1.7. Meccanismi di potere nella storia delle società occidentali: la comparazione fra sistemi legali, disciplinari e sistemi di sicurezza forse il punto più importante è che le persone da ispezionare dovrebbero sempre sentirsi come se fossero sottoposte a ispezione. (Bentham, Panopticon, Letter V) Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere [il sorvegliante]; nella torre centrale si vede tutto, senza mai essere visti. Dispositivo importante perché automatizza e de-individualizza il potere. (Foucault 1976, 220)

Sebbene Foucault sostenga che non si possono distinguere in successione cronologica un’età legale, un’età disciplinare e un’età della sicurezza, tuttavia ritiene anche che una illustrazione cronologica per epoche sia utile come strumento di orientamento ‘storico’. Naturalmente, legge, disciplina e sicurezza sono una serie di dispositivi e di tecnologie in cui si articola il potere, che compaiono spesso in combinazione fra loro ma con pesi e rilevanza relativamente differenti in differenti epoche storiche. Foucault adotta allo scopo una metafora pittorica: sebbene tutti e tre i dispositivi compaiono sulla scena del quadro, la loro relazione reciproca va vista come in una prospettiva architettonica in cui i tre elementi di volta in volta appaiono scambiarsi i posti del primo piano, del piano intermedio e dello sfondo. Allora, si può sostenere, in questa interpretazione ‘prospettivistica’ (vedi anche tavola 9 nel par. 1.13), che nell’età post-illuministica la sicurezza passa in primo piano relegando la disciplina al secondo piano, invertendosi così la prospettiva prevalente nei secoli precedenti, mentre il diritto, che era in primo piano nella scena pre-rinascimentale, finisce relegato sullo sfondo. Pur continuando a ricordare l’interscambio di ordine prospettico e la permeabilità di contenuti dei tre strumenti di governo, Foucault analizza le differenze fra dispositivi disciplinari e dispositivi di sicurezza secondo tre ambiti principali in cui le differenze si manifestano: rispetto alla distribuzione spaziale, rispetto alla irruzione degli avvenimenti e rispetto alla normazione-normalizzazione.

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Rispetto allo spazio, si osserva che quando è il contenitore entro cui opera la disciplina, esso è vuoto e artificiale e deve essere completamente costruito, mentre quando è quello in cui agisce la sicurezza, esso si basa su una serie di materiali già dati (ad esempio, flussi delle acque, isole, aria e così via) che non devono essere costruiti ex-novo per ottenere la perfezione, come invece accade in uno spazio disciplinare. Su questi dati materiali, la sicurezza opera in modo da massimizzare le possibilità di circolazione e minimizzare i rischi (furti, malattie, ecc.), sapendo però che questi ultimi non potranno essere mai completamente soppressi, ovvero la sicurezza lavora sulle probabilità. Lo spazio della città non è statico, ma è aperto e concepito per tenere conto dei possibili eventi futuri, serie indefinite di accadimenti (come l’accumulazione di case, abitanti, carriaggi, ladri, miasmi ecc.), la cui gestione richiede la sicurezza: «La gestione di queste serie aperte, controllabili solo in base a una stima delle probabilità, è la caratteristica fondamentale del meccanismo di sicurezza» (Foucault 2017, 29). Se lo spazio specifico della sicurezza si riferisce al temporaneo e all’incerto, esso non è altro che ciò che si chiama l’ambiente. L’ambiente designa quella zona di interferenza tra gli eventi prodotti da individui, popolazioni e gruppi, e gli eventi naturali che accadono intorno ad essi, zona in cui vi sono effetti complessivi combinati che influiscono su tutti coloro che abitano l’ambiente e in cui si produce un legame circolare tra effetti e cause, poiché ciò che è, da un certo punto di vista, un effetto sarà una causa da un altro punto di vista65. In sintesi, mentre le discipline danno una struttura architettonica ad uno spazio e cercano una distribuzione gerarchica e funzionale degli elementi, i dispositivi di sicurezza cercano di pianificare un ambiente in funzione di una serie di eventi o elementi possibili ed aleatori, e che bisogna iscrivere in uno spazio dato. Se lo spazio in cui opera il dispositivo della sicurezza è, come

65 Foucault fornisce come esempio del fenomeno della circolarità di cause ed effetti l’aumento del sovraffollamento, che significherà più miasmi e quindi più malattie, ma, a loro volta, più malattie significheranno più morti, e più morti significheranno più cadaveri, e di conseguenza più miasmi, e così via.

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detto, l’ambiente, allora appare cruciale la nuova considerazione che con tale dispositivo la politica deve avere degli individui. Qui si mostra una palese differenza fra i tre dispositivi del potere: mentre nel caso della sovranità e della legge, il potere considera gli individui come un insieme di soggetti giuridici capaci di volontà e azioni proprie, e nel caso della disciplina li considera come una molteplicità di corpi capaci di prestazioni e di eseguire le prestazioni richieste, nel caso della sicurezza li considera come una popolazione-specie, come esseri biologicamente determinati. Rispetto al problema della irruzioni degli avvenimenti, Foucault illustra la specificità della sicurezza rispetto agli altri due dispositivi, con l’esempio dell’apparire della scarsità (che non è carestia) dei cereali. Mentre i dispositivi legale e disciplinare predispongono all’uopo un sistema permanente fatto di limitazioni, obblighi e sorveglianza, la sicurezza predispone un paradigma economico, vale a dire la libertà del commercio e della circolazione dei cereali, smantellando ‒ come accadde nel decennio 17541764 in Francia sotto la pressione dei fisiocratici e di Turgot ‒ il precedente sistema giuridico e disciplinare. Più in generale, abbiamo cinque differenze fra disciplina e sicurezza. La prima è che mentre la disciplina è centripeta, i dispositivi di sicurezza sono centrifughi. La disciplina concentra e chiude, funziona solo se isola uno spazio, la sua prima azione è circoscrivere uno spazio in cui il suo potere ed i meccanismi del suo potere funzioneranno pienamente e illimitatamente (basti pensare alla polizia disciplinare cerealicola di De la Mare, protezionista dello spazio del mercato e dintorni). La sicurezza, al contrario, tende ad allargare il raggio d’azione, integrando in continuazione nuovi elementi e sviluppando circuiti sempre più larghi (basti pensare all’integrazione di produttori, consumatori, esportatori, importatori, con le loro preferenze e comportamenti, fino alla mondializzazione del mercato). La seconda differenza si mostra nel fatto che mentre la disciplina cerca di impedire tutto, e lo fa nel dettaglio, la sicurezza invece “lascia fare” e considera i dettagli per quello che sono, ossia non li considera benevoli o malevoli, bensì processi naturali, necessari, inevitabili, di cui viene considerato l’effetto sulla popolazione.

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La terza differenza riguarda l’approccio comportamentale alla realtà delle cose. Mentre la legge suddivide le cose secondo il codice del lecito e del vietato e la disciplina, in aggiunta, specifica all’interno di questo codice binario ciò che è obbligatorio66, la sicurezza, anziché adottare tali codici, tende a distanziarsi sufficientemente dagli eventi per vedere come si determinano, indipendentemente che siano essi graditi o indesiderati, ovvero si appoggia sulla realtà effettiva per cercare di regolarla. La quarta differenza riguarda il campo immaginario o reale in cui i dispositivi operano. Per Foucault, la legge si relaziona all’immaginario, poiché la legge può formulare tutte le cose che potrebbero e non devono essere fatte solo immaginandole, mentre la disciplina, che considera la realtà umana come negativa, crea lo spazio disciplinare, all’interno del quale ricreare artificiosamente tramite prescrizioni ed obblighi una realtà non più negativa, quindi crea uno spazio complementare alla realtà effettiva. Invece, la sicurezza cerca di agire all’interno della realtà, facendo gareggiare fra loro le componenti della realtà, grazie e attraverso una serie di analisi e disposizioni specifiche. La differenza fra i tre dispositivi, rispetto a questo specifico ambito, consente di cogliere anche il passaggio alle moderne concezioni della politica, il cui compito passa da quello di rendere gli individui rispondenti alle leggi astratte e trascendenti a quello di agire considerandoli nella loro realtà immanente, fisica (come appartenenti alla fisica erano ritenute dai fisiocratici anche l’economia e la politica). Seguendo Foucault, potremmo sintetizzare dicendo che il potere passa dalla metafisica alla fisica. In realtà, osservando che l’oggetto del potere è la popolazione, sarebbe meglio dire dalla metafisica alla biologia. Infine, la quinta differenza riguarda la norma. Sintetizzando, possiamo dire che mentre la disciplina parte dalla norma e, riferendosi ad essa, distingue il normale dall’anormale, con la sicurezza, invece, si calcolano, dopo aver identificato cosa sia normale 66 Mentre la legge si specifica nel divieto delle cose, la disciplina, più che dirci le cose che non vanno fatte, ci dice quelle che devono essere fatte. Conseguenza logica è che mentre per la legge ciò che è indeterminato è permesso, per la disciplina ciò che è specificato deve essere fatto e ciò che è indeterminato è vietato.

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e anormale, delle differenti curve di normalità sia in generale che per differenti specificità, e l’operazione di normalizzazione vera e propria consiste nello studiare queste distribuzioni e ricondurre le più sfavorevoli al livello delle altre. Si ha, quindi, nel transitare dalla disciplina alla sicurezza, un passaggio dalla normazione alla normalizzazione; e, potremmo aggiungere, rispetto ai saperi del potere, un passaggio dalla meccanica alla statistica, dal determinismo alla probabilità. Foucault chiarisce la differenza fra norma e normalizzazione, che è poi connessa alla differenza fra i dispositivi legali, disciplinari e di sicurezza. Vi è un rapporto fondamentale tra la legge e la norma: ogni sistema di diritto è collegato a un sistema di norme, la normatività è intrinseca alla legge, o, à la Kelsen, fondatrice della legge: la legge si riferisce a una norma, e quindi il ruolo e la funzione della legge ‒ il funzionamento stesso della legge ‒ è codificare una norma. Invece, le procedure e le tecniche di normalizzazione esulano, e talvolta persino si oppongono, a un sistema di diritto. Anche riguardo alla disciplina, la specificità della normalizzazione disciplinare fa sì che alla fine si tratti anche in questo caso di una centralità della norma. Infatti cosa fa la disciplina? Uno, applicando la cosiddetta griglia disciplinare, analizza e scompone individui, luoghi, tempo, movimenti, azioni e operazioni in componenti, in modo da renderli, da un lato, visibili, e dall’altro lato, modificabili. Due, classifica le componenti così selezionate secondo obiettivi definiti, quali individuare le azioni migliori per ottenere un determinato risultato: per esempio, quali lavoratori sono più adatti per un compito particolare? Tre, organizza gli oggetti da disciplinare in sequenze o coordinate ottimali: per esempio, come distribuire i lavoratori in fabbrica? Quattro, allo scopo di dividere fra gli inadatti e gli altri, o meglio, fra anormali e normali, stabilisce i processi di addestramento progressivo (dressage) e di controllo: per esempio, come addestrare e monitorare i lavoratori per scoprire quali sono gli inabili e quali gli altri? La normalizzazione disciplinare consiste prima nel trovare il modello-norma ottimale per un certo obiettivo e poi nel cercare di far conformare persone, movimenti e azioni a questo modello-norma, evidenziando il normale (capace di conformarsi a questa norma), e l’anormale (incapace di conformarsi a questa norma).

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Allora, Foucault conclude che nella disciplina è, in realtà, centrale una norma (normazione) piuttosto che una normalizzazione. La tecnica di potere della sicurezza, invece, considera nuove nozioni che la caratterizzeranno: il caso, il rischio, il pericolo e la crisi (Foucault 2017, 53-54). Il confronto fra le tre tecniche viene ben illustrato nei casi di trattamento delle malattie, come vedremo meglio nel par. 1.9. Infatti, con il caso della inoculazione emergono proprio le nozioni caratteristiche della tecnica securitaria. Mentre nel sistema disciplinare applicato nei regolamenti anti-epidemici, o anti-lebbra, si trattava prima di tutto di curare per quanto possibile la malattia di ogni paziente e poi di prevenire il contagio isolando i malati dai sani, con l’inoculazione-vaccinazione (o variolizzazione) non c’è la divisione tra chi è malato e chi non lo è, ma essa ha come oggetto l’intera popolazione, e di questa individua la normale aspettativa di malattia e di morte legata alla malattia. Ma non ci si accontenta di questa “normale” della popolazione: si effettua, inoltre, una raffinazione che ottenga la distribuzione “normale” per ogni età, regione, città, aree della città, tipo di occupazione e così via. Così si avranno la curva normale generale e le specifiche curve normali, e la tecnica utilizzata consiste nel cercare di portare le “normalità” specifiche più sfavorevoli e devianti rispetto alla curva normale generale in linea con quest’ultima67. Ricapitolando, se nella disciplina si parte da una norma e con riferimento ad essa si è in grado di distinguere il normale dall’anormale, nella sicurezza, invece, abbiamo diverse curve di normalità, e l’operazione di normalizzazione consiste nel far interagire fra loro queste diverse curve per portare le più sfavorevoli in linea con le più favorevoli. Quindi, all’opposto della disciplina, nella sicurezza si parte dal normale e, attraverso il gioco fra distribuzioni differenziali, si ricava la norma, che è quindi un’intera-

67 Foucault fa l’esempio dei bambini sotto i tre anni che erano maggiormente affetti da vaiolo, per cui il problema era di come ridurre questa morbilità e mortalità infantile in modo che tendesse a rientrare in linea con il livello medio di morbilità e mortalità, che sarebbe stato, a sua volta, anch’esso alterato dal fatto che adesso una parte di individui (cioè i bambini sotto i tre anni) all’interno di questa popolazione generale avrebbe avuto una morbilità e mortalità inferiore.

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zione di normalità differenziali. Prima abbiamo ciò che è normale ed è da esso che viene ricavata la norma. La tecnica di sicurezza, allora, secondo Foucault, è quella che opera effettivamente la normalizzazione. Foucault, in particolare, avanza l’ipotesi che più che ad una successione di modelli ‒ prima legge, quindi disciplina, infine sicurezza ‒ ci si trovi invece di fronte ad una aggiunta dei meccanismi specifici di sicurezza alla vecchia armatura di legge e disciplina, oppure a meccanismi di controllo sociale, come nel caso del sistema penale, o, infine, a meccanismi con la funzione di modificare qualcosa nel destino biologico della specie nei quali si applicano le nuove tecnologie di sicurezza; quindi, avanzata l’ipotesi, Foucault si domanda se l’economia generale del potere delle società contemporanee stia davvero prendendo la forma prevalente della tecnologia della sicurezza e se esse possono chiamarsi società della sicurezza.

1.8. Tecnologie di potere nella storia dell’Occidente nel campo penale È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile. (Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1763)

La tecnologia giuridica-legale costituisce la legge penale in modo semplice: c’è un divieto (non rubare) e c’è la sua punizione (multa, esilio, impiccagione ecc.). Il sistema del codice legale dicotomizza le azioni umane fra permesse e proibite, associando a ciascun tipo di azione proibita un tipo di punizione. La tecnologia disciplinare parte anch’essa dal precedente sistema penale di tipo giuridico-legale “divieto-pena”, ma vi aggiunge, da un lato, un aspetto di controllo che permette di anticipare il comportamento del criminale, e, dall’altro lato, la punizione non si limita all’applicazione puntuale di multa, esilio, impiccagione, ma vi aggiunge una pratica, come l’incarcerazione con una serie di esercizi, e un lavoro di trasformazione sui colpevoli sotto forma di quelle che chiamiamo tecniche penitenziarie: lavoro obbligatorio, moralizzazione, correzione e così via. La novità del sistema discipli-

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nare è che aggiunge un terzo elemento alla divisione dicotomica del sistema giuridico-legale: non c’è più solo il reato e la pena, ma c’è anche il colpevole in carne ed ossa. Ed è su di esso, aldilà della sentenza legale, che si esercitano una serie di tecniche contigue ‒ investigative, mediche e psicologiche ‒ che rientrano nell’ambito della sorveglianza, diagnosi e possibile trasformazione degli individui. La tecnologia della sicurezza si differenzia dalle precedenti in almeno tre punti: i) inquadra il fenomeno criminale in esame all’interno di un campo di probabilità; ii) analizza la risposta del potere al fenomeno criminale in termini dei costi della risposta; iii) invece di accettare la dicotomia permesso-vietato, stabilisce, da un lato, una media considerata ottimale e, dall’altro, una banda di accettabilità che non deve essere superata. La novità del sistema della sicurezza, è che, prendendo anche come data l’esistenza di un quadro legale che definisce i divieti e le punizioni e di un quadro disciplinare per l’applicazione della legge in cui sono gestite le misure preventive, correttive, vigilatrici ecc., vengono aggiunte per la definizione della politica penale sia l’indagine statistica68 che la considerazione economica69. Rispetto al sistema penale, Foucault individua una prima suddivisione per epoche storiche, ciascuna caratterizzata da una propria tecnologia di potere (vedi tavola 1). La tecnologia di potere che va dal Medioevo fino al XVII o XVIII secolo è quella giuridica, che è quindi anche la forma arcaica dell’ordine penale. A partire

68 «qual è il tasso medio di criminalità per questo [tipo] di reati? Come si può prevedere statisticamente se ci sarà una certa quantità di furti in un dato momento, in una certa società, in una città precisa, in città o in campagna, in un questa o quella classe sociale? Seconda questione: esistono fasi, regioni o sistemi penali tali da poter registrare un aumento o una riduzione del tasso di criminalità? Le crisi, le carestie, le guerre, i castighi rigorosi o lievi possono incidere su queste grandezze?» (Foucault 2017, 16). 69 «quanto costa alla società la criminalità, per esempio il furto in generale, o questo o quel furto in particolare? Quali danni produce e quali perdite di guadagno determina? E ancora: quanto costa reprimere questi furti? Costa di più una repressione severa e rigorosa oppure una debole, una repressione esemplare e discontinua o una continua? Qual è in definitiva il costo comparato del furto e della sua repressione? […] Altra questione: una volta catturato, vale la pena punire il colpevole? Quanto costerà punirlo?» (Foucault 2017, 16).

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dal XVIII secolo, è stata istituita la tecnologia disciplinare che è la forma moderna del sistema penale. Infine abbiamo il sistema contemporaneo che è caratterizzato dalla tecnologia della sicurezza. Foucault ricorda, comunque, che le tre tecnologie non sono strettamente separate nel corso della storia, ma che aspetti di ciascuna sono sempre presenti in ogni epoca, sebbene in forme non dominanti. Per esempio, l’aspetto disciplinare come quello della sicurezza erano presenti anche nel sistema giuridico-legale, dominante fino al ’700, come si può osservare quando si considerino tre casi: per il primo aspetto, sono ascrivibili a una tecnica correttiva e disciplinare i) la cosiddetta punizione esemplare per un reato poco importante, con la quale si mirava anche ad ottenere un effetto correttivo sia sullo stesso colpevole che sul resto della popolazione, e ii) le pratiche della tortura pubblica e dell’esecuzione come esempi per la popolazione; per il secondo aspetto, appare chiaro che quello che veniva preso di mira era fondamentalmente un crimine che veniva esageratamente punito solo per la sua elevata probabilità, che era, per esempio, il caso in cui si puniva il furto in una casa con la pena di morte se questo furto fosse stato commesso da qualcuno che vi era stato accolto o che vi era stato impiegato come domestico. Per quanto riguarda il sistema disciplinare attivo dopo il ‘700, è facile vedere in esso anche la presenza di aspetti che appartengono assolutamente al dominio della sicurezza, come quando, per esempio, ci si impegna a correggere un condannato in base al rischio di recidiva, cioè in base a quel fattore che sarà cruciale nel sistema di sicurezza, cioè la pericolosità. Infine, nel contemporaneo sistema della sicurezza, si osserva che per far funzionare al meglio i meccanismi di sicurezza si devono incrementare anche i meccanismi sia legali che disciplinari. In riferimento a quelli legali, si riscontra ‒ al contrario della tradizione dal medioevo fino al ‘700 in cui il codice legale era molto semplice ‒ una serie sempre più vasta di misure legislative, decreti, regolamenti e circolari; per esempio nel caso di furto, di fronte alla precedente semplicità del sistema giuridico-legale, oggi si assiste a una inflazione della produzione giuridica connessa al furto (furto da parte di minori, lo stato penale dei minori, la responsabilità mentale, ecc.) e alle misure di sicurezza come la sorveglianza delle persone uscite dal carcere.

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Parimenti, per far funzionare i meccanismi di sicurezza è necessaria anche una proliferazione delle pratiche disciplinari (per esempio, per la sorveglianza degli individui, la diagnosi di ciò che sono, la classificazione della loro struttura mentale, della loro specifica patologia, e così via). Quindi, i meccanismi di sicurezza non solo non vanno a sostituire i meccanismi disciplinari, ma neppure quelli giuridico-legali ‒ che a loro volta non erano stati affatto sostituiti da quelli disciplinari ‒, anzi li moltiplicano entrambi, ma ciò che cambia è la caratteristica dominante: fondamentalmente, nella tecnologia securitaria ciò che domina è l’economia, vale a dire, in particolare, il rapporto tra il costo del reato e il costo della repressione. Ciò che si vuole raggiungere è un obiettivo che non avrà nulla a che vedere con la giustizia o la rieducazione, ma sarà soltanto il mantenimento della criminalità, ad esempio il furto, entro «limiti socialmente ed economicamente accettabili e intorno a una media che si riterrà ottimale per un certo funzionamento sociale» (Foucault 2017, 16). La tecnologia securitaria nel campo penale trova la sua sistematizzazione teorica nel pensiero neoliberale, in particolare nella scuola di Chicago. I neoliberali hanno fatto della criminalità e del funzionamento della giustizia penale un tipico caso di uso dell’analisi economica attraverso cui sia i) tutti i comportamenti umani non economici, sia ii) la critica e la valutazione dell’azione del potere pubblico, sono incorporati nell’ambito ‘economico’ e resi intelligibili solo nei termini della scienza economica, imperniata sul mercato. Foucault si riferisce esplicitamente ai lavori di Ehrlich (1975), di Stigler (1970) e di Becker (1974), di cui però ‒ da buon genealogista ‒ svela l’origine: infatti, in realtà sono stati alcuni fra i primi riformatori illuminati del diritto penale, che erano nel contempo economisti politici (p.e. Beccaria e Bentham), ad aver posto, alla fine del XVIII secolo, il problema della riforma del diritto penale all’interno della griglia di intelligibilità dell’economia politica. In che modo la loro analisi economica intercettava questioni strettamente giuridiche e politiche? Nel fatto che la giustizia penale doveva essere valutata per il suo funzionamento, e l’osservazione di questo funzionamento doveva essere fatto con la lente della

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logica economica e del calcolo utilitaristico. Quindi, i neoliberali chicaghiani non hanno fatto altro che tornare a Beccaria e Bentham, come vedremo, con alcune differenze. A testimonianza dell’evidenza che il sistema penale fosse, dai riformatori illuminati del XVIII secolo, vagliato da un crivello economico in termini di massima utilità e minimi costi, Foucault ricorda che nei loro scritti compaiono una serie di considerazioni basate su alcuni calcoli grossolani del costo della delinquenza: quanto costa, a un paese o a una città, il fatto che i ladri possano circolare liberamente; il problema del costo della pratica giudiziaria in quanto tale e dell’istituzione giudiziaria nel suo effettivo funzionamento; la critica rivolta alla scarsa efficacia del sistema punitivo: ad esempio, il fatto che le torture, o l’esilio, non avevano alcun effetto sensibile sulla diminuzione del tasso di criminalità, nella misura in cui poteva essere stimato all’epoca (Foucault 2005, 203).

I legislatori e i codificatori della fine del XVIII e dell’inizio del XIX secolo, come Beccaria e il suo sostenitore Bentham, hanno puntato a un sistema penale di tipo legalista, in quanto hanno ritenuto la legge la soluzione più economica per punire adeguatamente ed efficacemente gli individui, o, tradotto in termini economici moderni, hanno ricercato la soluzione che rendesse minimo il costo di transazione. Se la legge, naturalmente, non sanziona che atti, tuttavia i suoi principi (per esempio la gradazione e le modalità della punizione) riguardano l’autore dell’atto, creandosi così un equivoco tra il crimine (atto giuridico) e il criminale (individuo in carne ed ossa). Questa distinzione ha consentito al sistema penale di spostarsi verso l’individuo al quale viene applicata la legge e verso la tematica psicologica, sociologica, antropologica. Le misure individualizzanti in termini di norma hanno condotto a una babele legale inflattiva, in cui il rigoroso principio economico del riferimento alla legge ha finito per confondere il sistema penale, con uno spostamento dall’homo oeconomicus70 iniziale all’homo legalis,

70 Foucault (2005, 214) offre una sua definizione dell’homo oeconomicus: «Un soggetto economico è un soggetto che, in senso stretto, cerca in ogni modo di massimizzare il suo profitto, di ottimizzare il rapporto guadagno/perdita; in

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all’homo penalis, e infine all’homo criminalis. Il sogno di Beccaria e di Bentham era che l’intera struttura giuridica potesse fondarsi e formarsi sul calcolo utilitaristico, ovvero che il diritto si edificasse interamente a partire dall’utilità. Però, a causa della confusione di cui sopra, non è stato possibile costruire, a partire dal fondamento dell’homo oeconomicus, una struttura giuridica corrispondente. Ma adesso la tecnologia di potere della sicurezza è tornata ad interpretare il problema penale come un problema esclusivamente economico, ed il potenziale criminale viene ad essere un qualsiasi individuo ‒ e non più l’homo criminalis ‒ che può decidere di rubare o meno sulla base di un semplice calcolo economico di ricavi e costi ‒ quindi ancora soltanto l’homo eoconomicus ‒ e anche lo Stato viene a comportarsi come un qualsiasi manager aziendale che decida la sanzione allo scopo di massimizzare il profitto sociale. Per l’analisi dei neoliberali, il “campione” può essere considerato il premio Nobel Gary Becker, il cui modello ‒ nell’articolo apparso sul “Journal of Political Economy” nel 1968 e ripubblicato nel 1974 ‒ consiste, in essenza, nella ripresa del modello utilitaristico, come già era in Beccaria e Bentham, ma attenendosi esclusivamente a un’analisi puramente economica e all’homo oeconomicus, ed evitando così il tentativo difficoltoso di questi illuministi di ri-fondare il diritto sull’economia. Apparentemente il punto di partenza di Becker riguardo al crimine e al criminale appare simile a quello basico del diritto penale, che è scevro da ogni considerazione ontologica o etica in quanto il codice penale definisce oggettivamente e operativamente il crimine solo come ciò che viene punito dalla legge. Foucault attribuisce ai neoliberali la definizione piuttosto rozza (ma in linea con quella del codice penale) che è un crimine ogni azione che fa correre a un individuo il rischio di essere condannato a una pena (e quando Foucault si esprime così, a lezione, scatena le risate dell’auditorio). Ma ciò che cambia in modo cruciale – secondo Foucault ‒ è il punto di vista, che per i neoliberali non è quello del giudice ma quello del soggetto in procinto di decidere se commettere o meno un crimine che non ha

senso ampio, è colui la cui condotta è influenzata dai guadagni e dalle perdite che vi sono associati».

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per lui alcuna connotazione psicologica, morale, antropologica ma semplicemente è quella cosa per cui egli corre il rischio di essere punito: questo è lo stesso spostamento del punto di vista che i neoliberali chicaghiani operano nel caso del soggetto lavoratore, ipotizzato come in procinto di decidere se (e quanto) lavorare o meno; rispetto all’individuo, sia che esso debba decidere se e quanto delinquere oppure se e quanto lavorare, non viene mai chiamato in causa un sapere psicologico, un contenuto antropologico, uno statuto etico, una cornice sociale ma solo un calcolo ingegneristico di ottimizzazione statica o dinamica tra costi e benefici. Quindi l’individuo delinquente o lavoratore interessa ai neoliberali solo e soltanto nella misura in cui è un homo oeconomicus (ogni altro differente aspetto della sua essenza o identità è semplicemente non rilevante). Questo perché è soltanto l’aspetto di homo economicus che consente la presa della governamentalità sull’individuo, perché solo in quanto soggetto economico esso è anche soggetto ‘governabile’ e ‘governato’. Quali sono le radicali conseguenze di questo spostamento di punto di vista operato dai neoliberali? Nel momento in cui Becker definisce l’obiettivo del suo lavoro quello di trovare «la quantità di risorse e la quantità di punizione che dovrebbero essere utilizzate per applicare diversi tipi di legislazione», egli chiarisce anche il vero significato equivalente di quell’obiettivo, significato che, come lui stesso ammette, potrebbe sembrare persino strano: «Detto in modo equivalente, anche se più stranamente, quanti reati dovrebbero essere consentiti e quanti delinquenti dovrebbero rimanere impuniti?» (Becker 1974, 2). Il medesimo concetto è espresso altrettanto chiaramente da un altro Nobel chicaghiano: «Lo scopo dell’applicazione, supponiamo, è di raggiungere quel grado di conformità con la regola del comportamento prescritto (o vietato) che la società crede di potersi permettere. C’è una ragione decisiva per cui la società deve rinunciare alla “completa” applicazione della regola: l’applicazione è costosa» (Stigler 1970, 526-527). La legislazione penale non è più né una questione di diritto, né una questione etica e nemmeno vi rientra più il concetto di giustizia, ma è solo un problema di calcolo economico. Le conseguenze di questo approccio “economicistico” sono enucleate da Foucault: i) se l’individuo considerato dalla legge

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è l’homo oeconomicus, e il crimine considerato dalla legge è definito come l’atto compiuto da un individuo disposto a correre il rischio di essere punito dalla legge ovvero che investe in un’azione perché si attende da ciò un certo profitto col rischio di una certa perdita, allora «non ci sarà allora nessuna differenza tra un’infrazione del codice della strada e un omicidio premeditato» (Foucault 2005, 207), ii) non si considera riguardo al criminale alcun aspetto morale o antropologico71; iii) il criminale, visti i due punti precedenti, è, quindi, una persona qualsiasi, o almeno come tale viene considerato; iv) nell’analisi “economica” degli strumenti di punizione socialmente ottimali è escluso ogni aspetto etico72; v) al contrario che nell’approccio disciplinare, per esempio quello benthamiano, il sistema penale non prende più in considerazione la duplice realtà del crimine e del criminale, ma solo quello delle condotte “economiche” (atti criminosi che sono da considerare solo per il fatto di essere, da un lato, economicamente profittevoli, e, dall’altro, economicamente dannosi perché gravati dal rischio penale); vi) la società non dovrebbe essere regolata da un sistema disciplinare onnicomprensivo; non

71 Le affermazioni di un altro chicaghiano, Erlich, allievo di Becker, non lasciano dubbi sul fatto che un ripugnante assassino debba essere antropologicamente considerato del tutto simile a un uomo pio ai fini della politica del diritto penale, in quanto entrambi rispondono all’incentivo-disincentivo economico allo stesso modo, e questo è tutto quel che conta: «Nonostante la natura ripugnante, crudele e occasionalmente patologica dell’omicidio, le prove disponibili non sono almeno incoerenti con queste affermazioni di base [1) che l’omicidio e altri crimini contro la persona sono commessi in gran parte come risultato di odio, gelosia e altri conflitti interpersonali che coinvolgono motivi pecuniari e motivi non pecuniari o come sottoprodotto di crimini contro la proprietà; e 2) che la propensione a perpetrare tali crimini è influenzata dai potenziali guadagni e perdite associati alle loro commissioni]. […] Non c’è motivo a priori di aspettarsi che le persone che odiano o amano gli altri siano meno sensibili ai cambiamenti di costi e guadagni associati alle attività che potrebbero desiderare di perseguire rispetto alle persone indifferenti verso il benessere degli altri» (Erlich 1975, 399). 72 Sulla indifferenza ai problemi etici dell’analisi “economica” neoliberale sono esemplari le algide conclusioni di un’analisi di Ehrlich, per cui la pena di morte è una punizione piuttosto efficace: «Alla luce delle nuove prove presentate qui, non si può respingere l’ipotesi che le attività di contrasto in generale e le esecuzioni in particolare esercitino un effetto deterrente sugli atti di omicidio» (Ehrlich 1975, 416).

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tutti dovranno essere conformi alle regole, ma, come dice Stigler sopra, può essere ottimale un certo livello di conformità, il che significa anche che si starebbe peggio se il crimine fosse minore: «una società si trova bene con un certo tasso di illegalismo, mentre si troverebbe molto male se volesse ridurre indefinitamente questo tasso di illegalismo» (Foucault 2005, 211); vii) al contrario del sistema penale dei riformatori illuministi, che mirava alla instaurazione della completa legalità e quindi alla totale eliminazione del crimine73, la politica penale del pensiero neoliberale non considera affatto l’obiettivo di eradicare completamente il crimine. La conclusione paradossale è che la società starebbe peggio con troppo pochi criminali in giro! Bisogna sottolineare lo slittamento radicale, che ha evidenti implicazioni etiche, antropologiche e politiche, che il neoliberalismo introduce nel significato del crimine e del criminale. Il crimine non sarebbe altro che qualsiasi “azione che fa correre il rischio a un individuo di essere condannato a una pena”, secondo la definizione che Foucault attribuisce a Becker durante la sua lezione fra le risate degli studenti. Il sistema penale dovrà solo considerare le condotte degli individui e affrontare, quindi, una certa offerta di crimine. Poiché questa offerta produce danni, ovvero esternalità sociali negative, il sistema penale deve prevedere le punizioni come mezzo per limitare queste esternalità. In questo aspetto, l’idea è la medesima di Beccaria e Bentham74.

73 «La legge penale, e tutta la meccanica penale sognata da Bentham, doveva essere tale per cui, alla fine, non ci sarebbe stato più crimine, anche se nella realtà questo non poteva accadere. E l’idea del panopticon, l’idea di una trasparenza e di uno sguardo che investisse singolarmente ciascun individuo, l’idea di una gradazione di pene che fosse abbastanza sottile da far sì che ciascun individuo nel suo calcolo individuale, nel suo foro interiore, nel suo calcolo economico, potesse dire a se stesso: no, alla fin fine, se commetto questo crimine, la pena in cui incorro è troppo grave, e pertanto non lo commetterò ‒ insomma, questa specie di annullamento generale del crimine come bersaglio, coincideva con il principio di razionalità, con il principio organizzatore del calcolo penale nello spirito riformatore del XVIII secolo» (Foucault 2005, 210). 74 «Anche qui, come potete vedere, siamo molto vicini a Beccaria, a Bentham e a tutta la problematica del XVIII secolo in cui, come sapete, la punizione si giustificava per il fatto che l’atto punito era dannoso, e che proprio per questa ragione si era costituita una legge. A dover essere applicato alla misura della punizione era

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Vediamo di sintetizzare l’argomentazione “economica” della teoria neoliberale del crimine, come descritta da Foucault. Il sistema penale è una istituzione costosa a partire dalla formazione della legge (per la quale sono necessari parlamento, discussioni, votazioni, ecc.) per continuare con gli strumenti che conferiscono un certo grado di forza alla legge, espressa in inglese come enforcement75. Quest’ultima ‒ una certa forza della legge, della sua certezza ed efficacia ‒ può essere vista come la domanda “negativa” di crimine che si confronta con l’offerta. Abbiamo visto come i comportamenti degli individui genereranno una offerta “economica” di crimine. Tuttavia, questa offerta ha differenti gradi di elasticità, ovvero reagisce in modo differente ai livelli della domanda negativa, vale a dire che ci sono certe forme di crimine oppure un certo livello di crimine, che reagiscono molto (poco) a una piccola (grande) variazione della domanda negativa (cioè all’enforcement). Foucault fornisce l’esempio della differente reazione della quantità di furti in un grande magazzino alla domanda negativa a seconda del livello raggiunto dai furti medesimi: se tale livello raggiunge il 20% delle merci, basterà l’introduzione di un piccolo enforcement per abbassarlo al 10%. Se però lo si volesse abbassare ancora, diciamo al 5%, sarebbe necessario un sensibile

sempre lo stesso principio dell’utilità. Si doveva punire in modo tale che gli effetti nocivi dell’azione potessero essere o annullati o prevenuti» (Foucault 2005, 208). 75 «L’enforcement of law è qualcosa di più dell’applicazione della legge, poiché si tratta di tutta una serie di strumenti reali che si è obbligati a mettere in atto per applicare la legge. Tuttavia, è anche qualcosa di meno di un rafforzamento della legge, nella misura in cui rafforzamento vorrebbe dire che la legge è troppo debole, e pertanto le si deve fornire un piccolo supplemento o renderla più severa. L’enforcement of law è l’insieme degli strumenti messi in opera per conferire all’atto dell’interdizione ‒ in cui consiste la formulazione della legge ‒ realtà sociale, politica ecc. [… cioè] della quantità di punizione prevista per ogni crimine, dell’importanza, dell’attività, dello zelo e della competenza dell’apparato incaricato di individuare i crimini. Si tratterà della rilevanza, della qualità dell’apparato incaricato di convincere i criminali e di apportare le prove che hanno effettivamente commesso un certo crimine. Si tratterà della rapidità con cui i giudici giudicheranno, della severità con cui osserveranno i margini fissati dalla legge per la loro attività. Si tratterà anche della maggiore o minore efficacia della punizione, dell’inflessibilità più o meno grande della pena applicata e che l’amministrazione penitenziaria potrà modificare, attenuare, eventualmente aggravare» (Foucault 2005, 209).

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incremento dell’enforcement. Tale incremento dovrebbe essere ben più che proporzionalmente aumentato se si volesse ridurre ancora il furto, diciamo al 2%. Infine è probabile che quando il furto ha raggiunto tale livello piuttosto basso, la sua offerta è divenuta altamente rigida, per cui se si volesse scendere sotto il 2% gli incrementi dell’enforcement dovrebbero tendere sempre più verso valori spropositati76. D’altro canto, questo enforcement ha a sua volta un costo in termini di i) costo-opportunità, perché gli investimenti nell’enforcement della legge non potranno essere investiti in altri utilizzi alternativi e remunerativi, e ii) esternalità negative dovute a reazioni politiche e sociali. Quindi, l’enforcement da opporre all’offerta di crimine per limitarla non deve costare alla società più di quanto costi il danno provocato dalla criminalità. La politica penale ottima che agisce intervenendo sul mercato del crimine per limitarne l’offerta attraverso la fornitura di una domanda negativa del medesimo, consisterà, alla fine, in un equilibrio tra la curva dell’offerta di crimine e la curva della domanda negativa, in cui il crimine è ad un livello positivo, e quindi tale politica non mira affatto a ‒ né, quindi, ottiene ‒ un’estinzione del crimine. Infine, riteniamo interessante sottolineare in modo più dettagliato come il lavoro più rappresentativo del pensiero neoliberale riguardo alla politica penale, cioè l’articolo di Becker, che è anche l’esempio usato da Foucault per illustrare il contenuto della tecnologia di potere oggi preminente, quella della sicurezza, abbia come consapevole pietra di paragone e ispirazione la politica penale di Bentham, modificandone però alcuni aspetti non secondari. Osservando come il crimine non fosse stato ancora preso in considerazione dagli economisti, Becker (1974, 3) attribuisce

76 Foucault aggiunge al furto in negozio un altro esempio di tipo di crimine, il delitto passionale, e di corrispondente tipo di enforcement, il divorzio: «si può far sparire tutta una prima serie di crimini passionali facilitando i divorzi. Ma c’è tuttavia un nucleo di crimini passionali che il lassismo, a livello delle leggi sul divorzio, non riuscirà a modificare. Insomma, l’elasticità, vale a dire la modificazione dell’offerta in rapporto agli effetti della domanda negativa, non è omogenea secondo i diversi settori o i diversi tipi di azione esaminati» (Foucault 2005, 210).

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«questa negligenza» all’«atteggiamento secondo cui l’attività illegale è troppo immorale per meritare un’attenzione scientifica sistematica» e fa riferimento ad Alfred Marshall ‒ che a sua volta fa riferimento a Bentham ‒ per illustrare l’influenza degli atteggiamenti morali su un’analisi scientifica, riportandone una citazione secondo la quale l’economista non dovrebbe considerare la felicità data dal gioco d’azzardo perché dannoso su molti altri aspetti: È vero che questa perdita di probabile felicità non deve essere maggiore del piacere derivato dall’eccitazione del gioco d’azzardo, e quindi siamo gettati indietro sull’induzione [sic] che i piaceri del gioco d’azzardo sono nella frase di Bentham “impuri”; poiché l’esperienza mostra che è probabile che generino un carattere irrequieto e febbrile, inadatto per un lavoro stabile così come per i piaceri della vita più elevati e più solidi (Marshall 1961, Nota X, Appendice matematica).

Per Becker invece l’utilità-felicità tratta da un crimine è del tutto equivalente a quella tratta da un onesto lavoro. I riferimenti di Becker a Bentham sono molteplici nel suo lavoro. Innanzitutto, Becker, per ottenere credito dai suoi lettori per la sua pionieristica analisi del tema del crimine in una cornice esclusivamente “economica”, ricorda che, in realtà, la sua analisi è pionieristica solo se vista relativamente alle vie e agli sviluppi che hanno riguardato le teorie criminologiche, ma che, invece, è da vedere solo come una ripresa delle teorie dei due importanti illuministi a cavallo fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, Beccaria e Bentham77. Becker sottolinea spesso nel suo lavoro se e come i suoi risultati siano in linea con le proposte di Bentham. Per esempio, Becker osserva che, nel proprio modello, definite come p la probabilità che un reato venga cancellato con la punizione f, e come L una funzione di perdita di reddito o benessere sociale, i valori 77 «Affinché il lettore non sia respinto dall’apparente novità di un quadro “economico” per il comportamento illegale, ricordiamo che due importanti contributori alla criminologia durante il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, Beccaria e Bentham, applicarono esplicitamente un calcolo economico. Sfortunatamente, un tale approccio ha perso il favore negli ultimi cento anni e i miei sforzi possono essere visti come una risurrezione, una modernizzazione e quindi spero un miglioramento di questi studi pionieristici molto precedenti» (Becker 1974, 46).

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ottimali di p e f si muovono nelle stesse direzioni, piuttosto che in direzioni opposte, e sottolinea che questo risultato contrasterebbe col «famoso e apparentemente plausibile detto di Bentham che “più una punizione è priva di certezza, più dovrebbe essere severa” (1931, cap. II della sezione intitolata “Of Punishment”, seconda regola)» (Becker 1974, 19), spiegando, quindi, che il detto benthamiano sarebbe confermato anche nel suo modello ma soltanto se p (o f) fosse determinato esogenamente e se L fosse minimizzato soltanto rispetto a f (o p), perché allora il valore ottimale di f (o p) sarebbe inversamente correlato al valore dato di p (o f). Tuttavia, se, come egli postula, L è minimizzato rispetto ad entrambi, allora f e p si muovono in molti casi nella stessa direzione contrastando così il detto benthamiano. Ancora, Becker ricorda la correttezza dell’affermazione di Bentham (1931, prima regola), “Il male causato dalla punizione deve essere calcolato in modo tale da eccedere il vantaggio del reato”, ma la qualifica rispetto ai risultati del proprio modello, specificando che la proposta di Bentham non considera che vi siano costi di enforcement della legge (ovvero costi per arrestare, condannare e punire i trasgressori) e assume che ogni reato causi esternalità sociali negative maggiori del guadagno privato78. Quindi Becker affronta il tema della forma della penalità e si rifà ancora a Bentham, ricordando come questi sostenga la preminenza della multa come forma di sanzione79, e come anch’egli concordi sul fatto che le multe dovrebbero essere utilizzate il più possibile, perché aumentano relativamente il benessere sociale in quanto non richiedono costi di enforcement quali, per esempio, le risorse necessarie in termini di stipendi e di tempo per la carce-

78 «In altre parole, se i costi per arrestare, condannare e punire i trasgressori fossero nulli e se ogni reato causasse più danni esterni che guadagni privati, la perdita sociale da reati sarebbe minimizzata impostando le pene abbastanza alte da eliminare tutti i reati. Minimizzare il danno sociale diventerebbe identico al criterio di minimizzare la criminalità fissando pene sufficientemente alte» (Becker 1974, 25). 79 «Molti dei primi scrittori di criminologia hanno riconosciuto questo vantaggio delle multe. Per esempio, “Le pene pecuniarie sono altamente economiche, poiché tutto il male provato da chi paga si trasforma in un vantaggio per chi riceve” (Bentham 1931, cap. VI)» (Becker 1974, 28).

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razione e la libertà vigilata80. In particolare, Becker riconosce di essere perfettamente in linea con Bentham nella dimostrazione che la multa ottimale fornisce un risarcimento ottimale nel senso che al margine la vittima è indifferente ad aver subito il crimine o a non averlo subito affatto: Le ammende forniscono un risarcimento alle vittime e le multe ottimali compensano al margine completamente le vittime e ripristinano lo status quo ante, in modo che non stiano peggio che se i reati non fossero stati commessi […] Bentham lo riconobbe e disse: “Fornire un’indennità alla parte lesa è un’altra qualità utile in una punizione. È un mezzo per realizzare due obiettivi contemporaneamente: punire un reato e ripararlo: rimuovere il male del primo ordine e porre fine all’allarme. Questo è un vantaggio caratteristico delle pene pecuniarie “(1931, cap. vi) (Becker 1974, 29).

Inoltre, Becker ricorda come per Bentham l’ammenda ottimale non deve essere una somma fissa, ma deve dipendere da tre cose ‒ il danno procurato dal reato, il guadagno che il reato ha procurato al criminale e la ricchezza personale del criminale ‒ e, quindi, Becker riconosce di discostarsi in un punto da Bentham: quello di non far dipendere l’ammenda ottimale dalla ricchezza personale del criminale. Per Bentham si trattava probabilmente di applicare anche una considerazione di equità e di giustizia, le quali però, come sappiamo, non rientrano nell’apparato solo “economico” dell’economista neoliberale81.

80 «Questa sezione presenta diversi argomenti che implicano che il benessere sociale è aumentato se le ammende vengono utilizzate ogni volta che sia possibile. In primo luogo, la libertà vigilata e la carcerazione consumano risorse sociali e invece le multe non lo fanno, poiché queste ultime sono fondamentalmente solo trasferimenti monetari, mentre le prime utilizzano risorse sotto forma di guardie, di personale di supervisione, di sorveglianti e del tempo privato dei trasgressori» (Becker 1974, 28). 81 «Le ammende ottimali […] dipendono solo dal danno e dal costo marginale, ma non dalla posizione economica degli autori di reato. Ciò è stato criticato come ingiusto e sono state suggerite multe proporzionali ai redditi degli autori di reato […] Ad esempio, Bentham ha detto: “Una punizione pecuniaria, se la somma è fissa, è al massimo grado disuguale … Le multe sono state determinate senza riguardo al profitto del reato, al suo danno o alla ricchezza dell’autore del reato. … Le pene pecuniarie dovrebbero sempre essere regolate dalla ricchezza

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Infine Becker cerca di difendere la sua scelta “economicista” di aver utilizzato la minimizzazione della perdita di reddito della società come unico criterio di valutazione e trattamento del crimine e di aver ottenuto il risultato di considerare ottimale una certa quantità di crimine, ma riconosce anche che altre importanti richieste (ad esempio, la vendetta o la sicurezza) sono emerse nella storia, richieste tali da far sembrare il suo criterio debole e bizzarro. In particolare, riconosce che Bentham era preoccupato dell’allarme creato dal crimine e che quindi il suo obiettivo era l’eliminazione del crimine, non il suo livello ottimale: La vendetta, la deterrenza, la sicurezza, la riabilitazione e il risarcimento sono forse i più importanti dei tanti desiderata proposti nel corso della storia. Accanto a questi, ridurre al minimo la perdita sociale di reddito può sembrare limitato, blando e persino bizzarro. Indiscutibilmente, il criterio del reddito può essere utilmente generalizzato in più direzioni, e alcune sono già state suggerite nel saggio. Tuttavia non si dovrebbe perdere di vista il fatto che è più generale e potente di quanto possa sembrare e in realtà include desiderata più drammatici come casi speciali. Ad esempio, se la punizione fosse una multa ottimale, ridurre al minimo la perdita di reddito equivarrebbe a risarcire completamente le “vittime” ed eliminare l’“allarme” che tanto preoccupava Bentham; oppure sarebbe equivalente a scoraggiare tutti i reati che causano gravi danni se il costo per l’arresto, la condanna e la punizione di questi autori di reato fosse relativamente basso. Poiché lo stesso potrebbe essere dimostrato anche per la vendetta o la riabilitazione, la morale dovrebbe essere chiara: ridurre al minimo la perdita di reddito è in realtà molto generale e quindi è più utile di questi desiderata accattivanti e drammatici ma inflessibili (Becker 1974, 46).

Ma è importante notare che il campo penale è solo uno degli oggetti dell’analisi economica che riguardano il comportamento o la condotta umana. Altri comportamenti, oltre a quello criminale, possono essere definiti come un’allocazione ottimale delle risorse a fini alternativi, cosicché oggetto dell’analisi economica

del delinquente. Dovrebbe essere stabilito l’importo relativo della multa, non il suo importo assoluto; per un certo reato, una certa parte della ricchezza del delinquente “(1931, cap. ix). Si noti che le multe ottimali […] dipendono dal “profitto del reato” e dal “suo danno”, ma non dalla ricchezza dell’autore del reato» (Becker 1974, 29-30).

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sarà ogni condotta razionale in questo senso; persino il ragionamento, ci dice Foucault, è formalmente analizzabile economicamente, nella misura in cui consiste di mezzi scarsi (per esempio, un certo sistema simbolico, un gioco di assiomi, un certo numero di regole di costruzione ecc.) da disporre in modo ottimale al fine di raggiungere un obiettivo (per esempio, una conclusione vera piuttosto che una falsa). Il comportamento umano non sarà più oggetto della filosofia, antropologia, teologia, diritto, sociologia, psicologia ecc, ma dell’economia, che, a differenza delle altre, è una scienza. Peraltro, l’economia politica era venuta a costituire già dalla sua nascita, secondo la riflessione foucaultiana, un sapere che non solo riguarda ciò che appare sempre più come l’essenziale della vita di una società ‒ cioè le attività economiche, il che ne giustificherebbe già di per sé il ruolo centrale ‒ ma, soprattutto, che è intrinsecamente avverso alla forma e al contenuto della sovranità giuridica, deprivante di ogni prospettiva sovrana, ostile a ogni visione totale unitaria, persino, chiosa Foucault, un sapere ateo e senza Dio: L’economia è una disciplina atea; l’economia è una disciplina senza Dio; l’economia è una disciplina senza totalità; l’economia è una disciplina che comincia a manifestare non soltanto l’inutilità, ma addirittura l’impossibilità di un punto di vista sovrano, di un punto di vista del sovrano sulla totalità dello stato che deve governare (Foucault 2005, 231-232).

Tuttavia, Foucault evidenzia una indicazione ancor più dirompente: il pensiero neo-liberale ritiene oggetto di analisi economica non solo ogni comportamento razionale ‒ qualunque esso sia, come sopra detto ‒ ma anche, come insegna Becker, comportamenti non razionali (ovvero che non cercano di ottimizzare l’allocazione delle risorse scarse a un fine determinato). Infatti l’analisi economica potrà essere applicata a ogni condotta non razionale ma che, però, risulta sensibile a «modificazioni nelle variabili dell’ambiente e che risponde a esse in modo non aleatorio, e dunque sistematico». Allora, Foucault offre una nuova definizione dell’economia come «la scienza della sistematicità delle risposte alle variabili dell’ambiente» (Foucault 2005, 219).

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Foucault suggerisce anche una interessante correlazione fra due saperi “governamentali”, vale a dire fra la microeconomia neo-liberale e la psicologia comportamentistica. Quest’ultima, diffusa particolarmente negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘50 (Skinner 1971), sviluppa tecniche comportamentali per cui non ci si interessa alla ‘natura’ della condotta, ma semplicemente a come questa può essere ottenuta scientificamente attraverso una determinata serie di stimoli, i quali tramite i meccanismi di “rinforzo”, daranno reazioni sistematiche, osservabili e classificabili, tali che si possano selezionare le condotte ritenute conformi attraverso la manipolazione dell’individuo. Aberrante o meno che possa sembrare ad un’anima bella, questa è la psicologia behavioristica ed è interessante notare che, unitamente alla teoria basata sui principi del condizionamento (Pavlov), si adatta perfettamente alla definizione neo-liberale dell’economia come scienza del comportamento umano. Infatti, dalla definizione dell’homo oeconomicus, nell’accezione di Becker, come colui che risponde sistematicamente alle modificazioni delle variabili dell’ambiente, emerge un formidabile corollario: poiché l’uomo risponderà sistematicamente alle modificazioni che verranno introdotte artificialmente nell’ambiente, allora l’uomo appare come colui che è possibile manipolare facilmente dal potere governamentale (che agisce sistematicamente sulle variabili dell’ambiente). In questa nuova accezione neo-liberale, osserva acutamente Foucault, l’homo oeconomicus non è più ‒ come nel liberalismo classico del laissez-faire ‒ il soggetto autonomo e intangibile che obbedisce al proprio interesse ‒ a sua volta, spontaneamente o per mano invisibile, convergente con l’interesse degli altri ‒ ma un soggetto che risulta eminentemente governabile. Il matrimonio potere-sapere fra governamentalità e scienza economica neo-liberale è concluso.

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Tav. 1 - Differenti modalità di trattamento penale del furto.

1.9. Tecnologie di potere nella storia dell’Occidente: il trattamento delle malattie L’umanità non è che quella sottile striscia di terra che si stende tra un’ondata e l’altra della peste ‒ emergendo allo scoperto soltanto quando la marea si ritira, prima di risalire e sommergerci di nuovo. (Esposito 2013a)

Foucault propone una illuminante divisione dei modelli di potere in tre elementi, una tricotomia che, ovviamente, non predice il ve-

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rificarsi di una sola delle tre possibilità, essendo possibile anche una compresenza di tali modelli, sebbene sempre con differenti gradi di importanza. I modelli di potere sono quello giudiziario, quello disciplinare e quello di sicurezza. Di questa tricotomia egli offre un riferimento storico nei differenti trattamenti che, nel corso della storia dell’Occidente, il potere vigente ha riservato a tre malattie: la lebbra, la peste e le malattie endemiche e ricorrenti come il vaiolo (vedi tavola 2). Alla base del trattamento della lebbra, nel Medioevo vi era il modello giudiziario (una combinazione giuridica di leggi e regolamenti), con l’obiettivo intermedio di dividere in modo dicotomico tra coloro che erano lebbrosi e coloro che non lo erano, e con l’obiettivo finale dell’esclusione dei lebbrosi. Alla base del trattamento della peste, dalla fine del Medioevo fino ancora nel XVII secolo, vi è invece il modello disciplinare che ha sia mezzi che fini del tutto diversi. Nel caso della peste, il potere è estensivamente esercitato ‒ tramite ripartizioni, gerarchie, sorveglianze, controlli, scritturazioni, coercizioni ‒ su tutti i corpi individuali in uno spazio chiuso e immobilizzato ‒ la città appestata82. Infine, alla base del trattamento della malattia endemica del vaiolo vi è l’analisi statistica, il calcolo delle probabilità, l’empirismo medico, la campagna medica di inoculazione-vaccinazione83. Foucault ricorda il duplice aspetto di interesse sotto cui la peste deve essere considerata, quello letterario e quello politico. Sotto il primo, si sottolinea l’effetto di smascheramento dell’ordine sociale: sospensione delle leggi e abolizione dei divieti, una concezione del tempo alterata, accelerata o sospesa che sia, la sessua-

82 Foucault sintetizza i caratteri di questo sistema disciplinare, ricordando come i regolamenti sulla peste implicano dettagliatamente l’imposizione di una griglia di partizioni sulle regioni e sui paesi colpiti dalla peste, con corrispondenti regolamenti che indicano quando le persone possono uscire, come, a che ora, cosa devono fare a casa, che tipo di cibo devono mangiare, proibiscono loro determinati tipi di contatto, richiedono loro di farsi riconoscere dagli ispettori e di aprire le loro case ai medesimi. 83 Si tratta di conoscere le statistiche sulle persone infettate dal vaiolo (numero, età, tasso di mortalità, effetti postumi, ecc.), sui rischi di inoculazione, sulla probabilità che un individuo muoia o venga infettato dal vaiolo nonostante l’inoculazione e gli effetti statistici sulla popolazione in generale.

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lità irrispettosamente frenetica, la caduta delle maschere e delle identità sociali. Sotto il secondo, la peste costituisce il laboratorio ove sperimentare un sogno politico, esattamente opposto a quello evidenziato dalla finzione letteraria: non la festa collettiva, ma le divisioni rigorose; non le leggi trasgredite, ma la penetrazione, fin dentro ai più sottili dettagli della esistenza, del regolamento – e intermediario era una gerarchia completa garante del funzionamento capillare del potere; non le maschere messe e tolte, ma l’assegnazione a ciascuno del suo “vero” nome, del suo “vero” posto, del suo “vero” corpo, della sua “vera” malattia (Foucault 1976, 216).

La lebbra e la peste riflettono due differenti modi di esercizio del potere sugli individui, attraverso il controllo e lo scioglimento delle loro pericolose relazioni. Foucault ci fornisce, in Sorvegliare e punire, una brillante tassonomia delle peculiarità tipiche della dicotomia lebbra-peste. La lebbra è la madre dei rituali di esclusione (e modello quindi della carcerazione), la peste è la madre dei rituali disciplinari. La lebbra divide in due parti fra inclusi ed esclusi, la peste divide in multiple partizioni e distribuzioni individualizzanti, ramificando il potere di controllo in profondità. Il lebbroso è lasciato perdersi in una massa indifferenziata di rifiutati ed esiliati; l’appestato è meticolosamente incasellamento e differenziato individualmente per una migliore esercizio di un potere costrittivo articolato, moltiplicato, suddiviso. La lebbra rispecchia la grande reclusione; la peste il buon addestramento. La lebbra è la separazione e la marchiatura; la peste è ripartizione e suddivisione analiticamente individuate. La lebbra riflette il sogno politico di una comunità pura, la peste quello di una società disciplinata. Il sistema giuridico è analizzato dai giuristi a partire dalla collocazione nello stato di natura; il sistema disciplinare è analizzato dai governanti collocandosi nello stato di peste (la cui immagine riproduce quella di ogni disordine), che (almeno finché quella immagine resta allo stato di previsione) rappresenta la prova nel corso della quale si può definire idealmente l’esercizio del potere disciplinare. Lo schema giuridico dell’esclusione e quello disciplinare dell’incasellamento e controllo, come peraltro è contemplato

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nell’ottica “prospettivista” prima delineata, non sono mutuamente incompatibili, anzi tendono ad avvicinarsi in alcune forme tipiche già dell’800. Foucault sottolinea questo avvicinamento col quale si applica la tecnica del potere disciplinare allo spazio “giuridico” dell’esclusione, occupato simbolicamente dal lebbroso e fattivamente dai mendicanti, vagabondi, pazzi, violenti. Come noto, Foucault evidenzia il doppio schema di funzionamento del potere disciplinare dall’inizio dell’800 (manicomio, carcere, ospedali, ecc.): da un lato stabilire la dicotomia “normale-anormale”, dall’altro ripartire analiticamente e in modo differenziale (caratterizzare, individualizzare) e assegnare coercitivamente (esercizio individuale di sorveglianza ecc.). C’è una circolarità in questo funzionamento: si tratta i “lebbrosi” esclusi come fossero “appestati”, ovvero si sottopongono alle discipline individualizzanti, e nel contempo la generalizzazione dei controlli disciplinari a tutti gli individui permette di scoprire i “lebbrosi”. Ovviamente le categorie di lebbrosi e appestati sono generici contenitori che da allora fino ad oggi possono applicarsi a chiunque, ad esempio a studenti o a lavoratori. Foucault, infatti, afferma che «Tutti i meccanismi di potere che, ancora ai nostri giorni, si dispongono intorno all’anormale, per marchiarlo come per modificarlo, compongono quelle due forme da cui derivano di lontano» (Foucault 1976, 218). Inoltre Foucault propone un’altra interessante schematizzazione che riguarda la tricotomia delle forme di potere nella storia: la sovranità e la legge si esercitano entro i confini di un territorio, la disciplina si esercita sui corpi degli individui e la sicurezza si esercita su un’intera popolazione.

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Tav. 2 - Differenti modalità di trattamento sociale della malattia.

All’elemento della tecnica di potere denominata da Foucault della sicurezza ‒ e che, come abbiamo visto sopra, secondo il filosofo francese è salita in primo piano proprio nel mondo contemporaneo ‒ e agli esempi “sanitari” che questi ha sviluppato per illustrare il contenuto e il modo di operare delle varie tecnologie di potere nel corso dei secoli, come sintetizza la tavola 2, dobbiamo aggiungere brevemente l’odierna riflessione condotta da Agamben (2020). Questa riflessione prende spunto da un’altra emergenza sanitaria, la pandemia influenzale apparsa nel 2020, e da un raffinamento della tecnologia di potere della sicurezza, che viene denotata come “biosicurezza”. Quest’ultima si basa su un dispositivo combinato di almeno tre elementi: quello giuridico ‒ lo stato di eccezione ‒, quello religioso ‒ la religione della scienza ‒ e quello tecnico ‒ la tecnologia digitale. Possiamo chiamare «biosicurezza» il dispositivo di governo che risulta dalla congiunzione fra la nuova religione della salute e il potere statale col suo stato di eccezione. Esso è probabilmente il più efficace fra quanto la storia dell’Occidente abbia finora conosciuto. L’esperienza ha mostrato infatti che una volta che in questione sia una minaccia alla salute gli uomini sembrano disposti ad accettare limitazioni della libertà che non si erano mai sognati di poter tollerare, né durante le due guerre mondiali né sotto le dittature totalitarie. Se il dispositivo giuridico-politico della Grande Trasformazione è lo stato di eccezione e quello religioso la scienza, sul piano dei rapporti sociali essa ha affidato la sua efficacia alla tecnologia digitale, che, com’è ormai evidente, fa sistema con il «distan-

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ziamento sociale» che definisce la nuova struttura delle relazioni fra gli uomini (Agamben 2020, Avvertenze).

Peraltro, Agamben attribuisce al dispositivo della “biosicurezza” non solo la caratteristica di essere una tecnologia di governo adatta ad una situazione specifica ma di essere anche lo strumento per una trasformazione epocale delle forme di potere: Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia […] per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose, ciò significa che quei modelli erano ai loro occhi in progressivo, inesorabile declino e non erano ormai più adeguati alle nuove esigenze. Come, di fronte alla crisi che sconvolse l’Impero nel iii secolo, Diocleziano e poi Costantino intrapresero quelle radicali riforme delle strutture amministrative, militari ed economiche che dovevano culminare nell’autocrazia bizantina, così i poteri dominanti hanno deciso di abbandonare senza rimpianti i paradigmi delle democrazie borghesi, coi loro diritti, i loro parlamenti e le loro costituzioni, per sostituirle con nuovi dispositivi di cui possiamo appena intravedere il disegno, probabilmente non ancora del tutto chiaro nemmeno per coloro che ne stanno tracciando le linee (Agamben 2020, Avvertenze).

1.10. Fra regno e governo, fra Dio e ragione: la ragione di governo della sovranità e la ragion di Stato L’unità politica non può essere, per sua essenza, universale nel senso di un’unità comprendente l’intera umanità e l’intera terra. (Schmitt 1972, 138) quasi dire si può de lo Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa! [corsivo nostro]. (Dante, Convivio, IV, ix, 10).

Qual’era la ragione di governo specifica della “sovranità”? La risposta è nel pensiero tomista. Infatti, per cercare di spiegare la ragione governativa (ratio gubernatoria) specifica per l’esercizio della sovranità, Foucault rimanda al pensiero scolastico, focalizzandosi sul testo ‒ il De Regno ‒ in cui Tommaso spiega la natura

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del potere reale. Foucault ricorda che Tommaso ha chiaramente detto che il re non doveva solo regnare come sovrano, ma doveva anche sempre governare, come si evince dalla definizione che ne dà: «[…] un re è colui che governa sulla comunità [moltitudo] di una città o provincia, e lo fa per il bene comune» (Tommaso d’Aquino 1979, I, 1, 173-175). Nel contempo per Tommaso, esercizio della sovranità e funzione di governo non sono disgiunte. In particolare, Tommaso connota con una serie di riferimenti il governo del re. Innanzitutto definisce quando si possa dire che un’arte sarà eccellente: E poiché è vero che l’arte imita la natura […] sembrerebbe meglio inferire i doveri di un re dalle forme di governo che si verificano in natura. Ora tra le cose naturali si trovano una forma di governo universale e una particolare. La forma universale è quella secondo la quale tutte le cose sono contenute sotto il governo di Dio, che governa tutte le cose con la sua Provvidenza (Tommaso d’Aquino 1979, Libro I, cap. 12, 3-11).

Quindi l’eccellenza di un’arte si misura con il successo con cui imita la natura. E la natura è sotto il governo continuo di Dio che, dopo averla creata, continua sempre a governarla, come Tommaso ci chiarisce: «Ora l’opera di Dio in relazione al mondo deve essere considerata sotto due aspetti generali. Primo, ha creato il mondo; secondo, governa il mondo che ha creato» (Tommaso d’Aquino 1979, Libro I, cap. 13, 4-7). Quindi, Tommaso chiude sillogisticamente la sua costruzione definitoria dell’arte di governo del re: poiché l’arte è eccellente nella misura in cui imita la natura, e poiché la natura è governata per tutto il tempo da Dio, allora l’arte di governo del re sarà eccellente nella misura in cui opera ad imitazione di Dio84. Quindi, Tommaso, per definire cosa sia questo governo che il sovrano deve necessariamente esercitare, ha fatto riferimento ad una analogia di governo fra il sovrano e Dio: nella misura in cui governa, il sovrano non fa altro che riprodurre un modello che è semplicemente quello del governo di Dio sulla Terra. Ma

84 «E proprio come Dio ha creato la natura, il re sarà il fondatore dello stato o della città, e proprio come Dio governa la natura, il re governerà il suo stato, città o provincia» (Foucault 2017, 170).

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questa non è la sola analogia a cui Tommaso ricorre per spiegare la propria definizione di governo del sovrano. Infatti, Tommaso ci dice anche: «il corpo di un uomo e di qualsiasi altro animale cadrebbe a pezzi se non ci fosse una forza dominante generale per sostenere il corpo e assicurare il bene comune di tutte le sue parti» (Tommaso d’Aquino 1979. Libro 1, cap. 1, 75-78), e continua ancora: «[…] in ogni moltitudine dovrebbe esserci un qualche governante» (Tommaso d’Aquino 1979 Libro 1, cap. 1, 98-99). Con ciò Tommaso intende dire che, come nessun organismo vivente potrebbe sopravvivere se non ci fosse una forza vitale interna che tiene insieme i diversi elementi (p.e. cuore, stomaco, orecchi, piedi, etc.) e li armonizza al fine del bene comune dell’animale o dell’uomo, così nessun popolo di un regno potrebbe sopravvivere ‒ dato che ciascun individuo di quel popolo sarebbe per natura interessato al solo proprio bene ‒ se non vi fosse nel regno una forza vitale interna, ovvero il re, a tenere insieme il popolo volgendo la tendenza di ogni individuo dal proprio bene al bene comune. Ma le analogie per definire il governo del re non finiscono qui. Infatti, Tommaso afferma: «E poiché la fine del nostro vivere bene in questo tempo presente è la beatitudine del cielo, il dovere del re è quindi di assicurare la buona vita per la comunità [moltitudo] in modo tale da garantire che sia condotta alla beatitudine celeste» (Tommaso d’Aquino 1979 Libro I, cap. 15, 20-24). Qui Tommaso intende dire che il re deve rispettare e contribuire al benessere dell’uomo, che, notoriamente, nel pensiero aristotelico-tomistico, non è la ricchezza o il godimento terreno ma la beatitudine eterna e il godimento di Dio, e quindi deve guidare la moltitudine secondo un’arte che procuri ad essa il bene comune, ovvero la beatitudine celeste. Qui, secondo Foucault, si manifesta un’analogia fra il re, il pastore e il padre di famiglia, e quindi l’esercizio del potere del re rispetto al popolo del suo regno sarà similare a quello del pastore riguardo al suo gregge, e a quello del padre con riguardo alla sua famiglia. Quindi, la prima analogia è con Dio. La seconda analogia è fra il re e la forza vitale di un organismo, cioè fra il governo del popolo e il governo dell’organismo vivente ovvero con la natu-

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ra stessa. Infine, la terza analogia è fra il potere regio, il potere pastorale e il potere della paternità. Cosa si può desumere dalle descrizioni tomiste ‒ in termini delle analogie di governo, l’analogia con Dio, l’analogia con la natura, e l’analogia con il pastore e padre di famiglia ‒ della funzione regia? Foucault ne desume che il sovrano è autorizzato a governare e deve farlo in quanto fa parte del grande continuum teologico-cosmologico che si estende da Dio al padre di famiglia per mezzo della natura e dei pastori: il grande continuum dalla sovranità al governo non è altro che la traduzione, nell’ordine “politico“, del continuum che da Dio giunge agli uomini (Foucault 2017, 171).

A questo punto Foucault suggerisce alcune osservazioni sul governo degli uomini, la cui comprensione consente di formare alcune basi analitiche che saranno utili ad interpretare ‘finemente’ e ‘ criticamente’ la ‘governamentalità’ contemporanea. Riassumiamo queste osservazioni in tre parti: i) la giustificazione del governo degli uomini da parte del re, basata sul continuum teologico-cosmologico tomista, subisce una traumatica frattura nel XVI secolo; ii) tuttavia quelle analogie fra chi governa (re o altro), da un lato, e Dio, la natura, il pastore religioso e il padre di famiglia, dall’altro lato, non si interrompono, bensì si ridispongono e si ristabiliscono in un quadro diverso e secondo una diversa economia; iii) il pensiero politico alla fine del Cinquecento e all’inizio del Seicento compie una radicale rivisitazione dell’esercizio della sovranità, cercando ‒ da parte di una setta composta dalle nuove figure dei ‘politici’ e da un sapere che viene definendosi e autonomizzandosi come ‘scienza politica’ ‒ una specifica forma di governo che contenga gli elementi della funzione regia tomista (la natura divina, il pastore, il padre) ma con qualcosa di più e di diverso: insomma, un’arte di governo. Foucault colloca precisamente tra il 1580 e il 1650 la nascita della ‘politica’, della nuova arte di governo, della ragion di Stato. Cosa accade in questo periodo? In generale possiamo rispondere che nasce una nuova episteme, caratterizzata dal tramonto della visione del cosmo medievale e rinascimentale e dall’apparizione di nuove, numerose e potenti pratiche discorsive e scientifiche. Focalizzandoci quindi sul tema del governo, ci domandiamo cosa

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di esso è stato coinvolto nel tramonto e cosa invece nell’apparizione? Alla prima delle due domande Foucault dedica una risposta che noi possiamo articolare in cinque punti. Innanzitutto rileva un effetto di tipo teologico causato dalle nuove scienze, ovvero la formazione di una nuova visione della relazione fra Dio e la sua creazione. Cosa afferma questa nuova visione? In essenza, che Dio non interviene più continuamente nel corso del tempo nella gestione degli affari del mondo, ma che, all’inizio, ha inserito, nella sua creazione, delle leggi dinamiche immutabili ‒ leggi di natura che la scienza ritiene di riuscire a scoprire ‒ le quali guideranno inesorabilmente la sequenza temporale degli eventi fisici. Dio è ingegnere ed economista, ha previsto leggi il più possibile semplici, il più possibile efficienti, che seguono una “ragione” (logica, matematica, ecc.) che le rende intelligibili all’uomo, universali e immutabili. In realtà l’episteme che si va formando non è univoca come sembra esemplificare Foucault e contiene, secondo noi, visioni che appaiono introdurre dicotomie su temi non secondari, basti pensare alle differenti posizioni “scientifiche” di Newton e Leibniz o alle dispute para-teologiche che distinguono Malebranche, i giansenisti, Spinoza e ancora Leibniz. Pur tuttavia la conclusione che Foucault trae in tema di conseguenze per il concetto di governo sono feconde: se si crede che Dio governi il mondo solo attraverso leggi generali, immutabili, universali, semplici e intelligibili, allora si deve ammettere che Dio non sia coinvolto nella gestione della sua creature ovvero che non “governi” il mondo, ma “regni” sul mondo in modo sovrano attraverso le leggi di natura (principia naturae). Foucault introduce quindi un secondo punto, che è un passaggio per potere descrivere poi cosa si è perduto in termini di forma di governo: Dio in precedenza governava il mondo affinché l’uomo ‒ che ne era quindi il centro ‒ potesse guadagnarsi la salvezza e passare in un altro mondo, il che significava, in altri termini, che il mondo era soggetto a un’economia di salvezza. La forma di potere mondano corrispondente alla stessa economia di salvezza non era altro che il pastorato religioso già descritto da Foucault. In esso erano evidenziati come aspetti basilari di tale economia, gli specifici trattamenti riguardanti la salvezza finale, l’obbedienza individualizzata come sistema e la modalità di conoscenza della verità. Quindi, Foucault

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compie una traslazione di caratteristiche di governo dal mondo a Dio, dalla specifica economia del potere pastorale degli uomini riguardante la salvezza, l’obbedienza e la verità, all’esercizio del potere di Dio sulla Natura. Compiuta questa operazione di attribuire a Dio una forma di governo pastorale della sua creazione, allora appaiono quali siano le prime due caratteristiche perdutesi con la nuova episteme: il finalismo e l’antropocentrismo85. La terza caratteristica perduta deriva ancora dall’ipotesi foucaultiana che il governo divino del mondo fosse di tipo pastorale, ovvero il mondo fosse un soggetto di obbedienza. In tal caso, la modalità di intervento divino nel mondo sarebbe stata quella del pastore che “individualizza” l’obbedienza di ogni pecora, quindi, per ciascuna particolare circostanza che riguardasse la salvezza o la perdizione di qualcuno, la manifestazione della volontà divina a cui obbedire non poteva che prendere la forma di ‘segni’ mediante i quali gli esseri obbedivano. Questa modalità di governo divino implicava che la volontà divina si manifestasse «attraverso segni, prodigi, meraviglie e mostruosità che erano altrettante minacce di castigo, promesse di salvezza e segni di elezione» e che quindi si avesse «una natura popolata da prodigi, meraviglie e segni» (Foucault 2017, 172). La quarta caratteristica, presente in un mondo soggetto al governo divino di tipo pastorale, e che tende a svanire in quel periodo, riguarda il sistema di insegnamento della verità tipico del pastorato religioso, dove il pastore, da un lato, insegna la verità e, dall’altro, la fa emergere, estraendola, dal profondo dell’individuo. Quindi, proseguendo nell’analogia, Dio, da un lato, “insegna” la verità attraverso il “libro” del mondo, che è “aperto” e in cui si può leggere direttamente la verità e, da un’altro lato, mantiene nascosta la verità che deve essere estratta. Ciascuno dei due lati richiedeva un appropriato metodo di lettura: nel mondo

85 «Se applichiamo questo schema a Dio, allora il governo pastorale di Dio del mondo significava che il mondo era soggetto a un’economia di salvezza… era [quindi] un mondo di cause finali culminate nell’uomo che doveva guadagnarsi la salvezza in questo mondo. Cause finali e antropocentrismo era una delle forme, una delle manifestazioni, uno dei segni del governo pastorale di Dio del mondo» (Foucault 2017, 172).

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come libro aperto il metodo non era quello deduttivo-induttivo che si sarebbe affermato in seguito alla diffusione della scienza bensì quello magicamente complesso dell’uso di somiglianze86 e analogie; nel mondo come scrigno di verità nascoste in una cifratura, il metodo era quello di estrarle attraverso un decodificazione, una decifrazione87. Per ricapitolare, tramontando la forma manifesta del governo pastorale del creato da parte di Dio, si eclissa allora una rappresentazione del mondo con l’uomo al centro del cosmo e con un finalismo salvifico, di un creato costellato di prodigi, meraviglie e segni, e spiegato ed ordinato dall’uomo attraverso un sistema di analogie e somiglianze visibili, e una trama di cifrature e codici nascosti. Mentre si inabissa tale rappresentazione ne appare invece un’altra, in cui il mondo è strutturato ‒ e intelligibile ‒ in termini matematici o logici o di altre forme classificatorie (come nel caso della storia naturale). Il mondo fisico non appare più “governato” direttamente da Dio. Questo passaggio nella visione umana del cosmo è chiamato da Foucault “de-governamentalizzazione del cosmo”. Ma, se da un lato, il cosmo non appare più governato direttamente e in modo contingente da Dio ma sovranamente guidato da leggi eterne (Foucault preferisce chiamarle

86 La somiglianza come metodo di costruzione della conoscenza, diffuso fino all’affermarsi della cosiddetta rivoluzione scientifica, è indagato in mirabile pagine da Foucault: «Sino alla fine del XVI secolo, la somiglianza ha svolto una parte costruttiva nel sapere della cultura occidentale. È essa che ha guidato in gran parte l’esegesi e l’interpretazione dei testi; è essa che ha organizzato il gioco dei simboli, permesso la conoscenza delle cose visibili ed invisibili, regolato l’arte di rappresentarle. Il mondo si avvolgeva su se medesimo: la terra ripeteva il cielo, i volti si contemplavano nelle stelle e l’erba accoglieva nei suoi steli i segreti che servivano all’uomo. La pittura imitava lo spazio. E la rappresentazione ‒ fosse essa festa o sapere ‒ si offriva come ripetizione: teatro della vita o specchio del mondo, tale era il titolo di ogni linguaggio, il suo modo di annunciarsi e di formulare il suo diritto a parlare» (Foucault 1967, 31). 87 «Il mondo era un libro aperto nel quale era possibile scoprire la verità, o piuttosto nel quale la verità, le verità si insegnavano da sole, essenzialmente nella forma del rinvio reciproco dall’una all’altra, ovvero nella forma della somiglianza e dell’analogia. Allo stesso tempo era un mondo nel quale bisogna decifrare le verità nascoste che si mostravano nascondendosi e si nascondevano mostrandosi. Era un mondo, dunque, pieno di cifre che occorreva decodificare» (Foucault 2017, 172-173).

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“principi” della natura), dall’altro lato, il potere sugli uomini non appare più risolvibile nell’esercizio della sovranità del monarca sui suoi sudditi come riflesso terrestre della sovranità di Dio in relazione alla natura, o nelle forme usate dal pastore col suo gregge, o dal padre con i suoi figli, ma appare necessitare di un quid in più in differenza e in qualità. Si tratta di trovare un modello di governo che non può più essere trovato né in Dio né nella natura e che non può esaurirsi nel modello pastorale o patriarcale. Questo potere deve essere un governo. È più che sovranità, di cui peraltro è un complemento, ed è anche qualcosa di diverso dal pastorato, che peraltro sussume, è un’arte: l’arte di governo. La sua razionalità non è data dal diritto né dal pastorato religioso sebbene essa si serva di entrambi: essa prende il nuovo nome di ratio status, la ragione di Stato. Come si può definire questa ragione di Stato? Per rispondere, lasciamo parlare i suoi primi teorici. Foucault premette che gli italiani sono sempre un passo avanti e sono stati i primi a definire la ‘raison d’Ètat’. Il precursore è, alla fine del Cinquecento, il gesuita Botero che offre una definizione articolata dello Stato e della sua ratio: Lo Stato è un saldo dominio sui popoli. Ragione di Stato si è notizia de ‘mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio. Egli è vero che, sebbene assolutamente parlando, ella si stende alle tre parti sudette, nondimeno pare che più strettamente abbracci la conservazione che l’altre, e dall’altre due più l’ampliazione che la fondazione (Botero 1997, I, 1, 7).

Foucault osserva come lo Stato boteriano non significhi nè un territorio, nè una istituzione geografica o politica (come una provincia o un regno), ma semplicemente e significativamente soltanto un fermo dominio sui popoli. E la sua ragione è definita, in modo ampio, come una conoscenza strumentale a un fine fondamentale, che è quello della fondazione, mantenimento ed espansione dello Stato; ma tra i componenti di questo fine soprattutto è importante ‒ sottolinea Botero ‒ il mantenimento, la salvaguardia dello Stato mentre adesso viene a rivestire una importanza secondaria la conoscenza dei suoi fondamenti. La ragion di Stato costituisce il tipo di razionalità necessaria per la conservazione dello Stato, non importa come fondato, attraverso la sua gestione quotidiana.

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Vediamo adesso le definizioni di pensatori successivi a Botero. Secondo Palazzo, la ragion di Stato ha due significati. Secondo il primo «è l’intiera essenza delle cose, & i requisiti di tutte l’arti, e di tutti gli officij, che sono nella Repubblica […] perché mancando [qualunque di essi] viene a cessare l’integrità della sua essenza; perciò si deono, e possono usare i debiti mezi per reintegrarlo, e questo uso di mezi si esercita per ragion di Stato, cioè per la sua integrità» (Palazzo 1606, I, 3, 18). Per il secondo, la ragion di Stato, come sopra «è una regola & arte, che insegna, & osserva i debiti mezi per conseguire il fine destinato dall’artefice» e che si realizza tramite il «governo, perch’egli è che ci fà conoscere i mezi, e c’insegna l’esercitio di quelli per conseguire la tranquillità, e lo bene della Repubblica» (Palazzo 1606, I, 3, 19). Anche secondo Chemnitz (quarant’anni dopo)88, la ragion di Stato è «una certa considerazione politica che occorre avere in tutti gli affari pubblici, in tutti i consigli e progetti, che deve tendere unicamente alla conservazione, all’incremento e alla felicità dello Stato, e che richiede l’impiego dei mezzi più facili e più immediati» (Chemnitz 1712, I, 12). In questa definizione di Chemnitz intendiamo sottolineare due punti, in termini delle categorie dei mezzi e dei fini: i) nei fini della ragion di Stato spiccano anche la crescita e la felicità, ma esse sono esclusivamente riferite allo Stato, e non agli uomini; ii) nei mezzi, invece, si accenna chiaramente ad un calcolo economico che “minimizzi” in termini di costi e tempi i mezzi da impiegare. Da queste definizioni ‒ e da altre di diversi autori sostanzialmente simili ‒ si palesano quattro caratteristiche: 1) l’oggetto di questa ragione è esclusivamente lo Stato, senza alcun riferimento ad un ordine divino o naturale; 2) questa ragione si presenta come un’arte pratica, che mette in relazione l’essenza dello Stato con la conoscenza o il sapere ‒ anch’essi di ordine eminentemente empirico e pratico ‒, che illumina la struttura in cui si articola tale ragione, permettendone così anche il rispetto e l’obbedienza; 3) il proposito di tale ragione è il mantenimento o il recupero dell’in-

88 La data presunta della prima pubblicazione del suo lavoro Dissertatio de ratione status in Imperio nostro Romano-Germanico è del 1640. Noi qui citiamo dalla traduzione francese del 1712.

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tegrità dello Stato; 4) secondo tale ragione, non esiste alcun scopo aldilà dello Stato stesso (e quindi anche tutti i possibili obiettivi specifici di tale ragione, quali la ricchezza o la felicità sono da riferire solo allo Stato stesso); questo è in palese contrasto con lo scopo attribuito alla repubblica e al suo governo dal pensiero tomista, per il quale, sebbene il governo fosse di natura mondana, esso mirava a uno scopo superiore e, ovviamente, extra-statale, quale il permettere che gli uomini potessero arrivare alla beatitudine eterna e al godimento di Dio. Questo ha implicazioni anche sulla temporalità e sul finalismo della storia: non c’è più un ultimo giorno, non c’è più un punto finale, ma un indefinito susseguirsi nel tempo del medesimo Stato che si conserva. Il cambiamento rispetto a Medioevo e Rinascimento è totale, perché introduce per il governo una temporalità indefinita, la temporalità di un governo che è sia senza fine che conservatore di se stesso. Le implicazioni di questa nuova temporalità del governo sono molteplici. Se il tempo dello Stato è indefinito, sparisce il problema della sua origine, della sua fondazione, della sua legittimità, del suo riferimento dinastico, e in termini pratici perde di senso distinguere, come ancora fa Machiavelli, i modi di governo in base ai modi di acquisizione del potere (usurpazione, eredità, conquista, accordo fra principi). Se nel Medioevo non si immaginava stato o regno destinato a durare indefinitamente nel tempo perché si pensava che prima o poi tutte le differenze politiche sarebbero finite con un unico Impero universale, segno degli ultimi giorni e luogo del ritorno di Cristo, adesso, non essendoci più un punto finale del tempo, il governo non si porrà più il problema del suo compimento e fra i suoi propositi sparisce la cura della salvezza individuale. La governamentalità tende alla sua indefinita riproduzione, senza alcun finalismo storico o religioso. Riteniamo interessante rimarcare la specificità italiana della Ragion di stato, già riconosciuta da Foucault, ampliandone la genealogia. Borrelli (2010) ascrive la nascita della riflessione sullo Stato alla più ampia cornice del Rinascimento italiano nel periodo nei primi decenni del Cinquecento, in cui la cultura civile italiana ‒ in risposta ai più acuti conflitti sia interni alle corti che di guerra tra gli stati italiani e alla invasione spagnola e francese ‒ sviluppa un progetto tendenzialmente pacificatorio di trasfor-

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mazione di linguaggi e di comportamenti, definito di civil conversazione (ad esempio, la trattatistica di autori come Castiglione, della Casa e Guazzo), di cui la riflessione sulla Ragion di stato può essere considerata la declinazione politica. Di questa riflessione, in cui la Ragion di stato viene sviluppata come una nuova arte di governo basata sulla ragione ‒ vari saperi razionali, quali morale, geografia, urbanistica, arte militare, demografia, statistica, antropologia, economia, risistemati e finalizzati all’arte politica di governo ‒ che deve guidare ‒ in un nuovo tempo storico e politico che non è più quello teleologico della salvezza ma è un tempo indefinito, perpetuo e conservativo dello stato, inteso come giurisdizione e dominio su di un ambito territoriale, su una popolazione come specie e come vita dei corpi individuali ‒ tutte le cose inerenti lo stato, Botero, con altri italiani, è un pioniere, e dall’Italia tale riflessione si estende al resto d’Europa mantenendone l’impronta originale89. La pace perpetua, pensata in precedenza come raggiungibile solo con l’Impero finale degli ultimi giorni, diventa, invece, una idea perseguibile nel tempo finito, una pace tra un pluralismo di singoli stati separati, ma che potranno coesistere tra loro in un equilibrio che impedisca all’uno di dominare gli altri. Nella creazione della bilancia europea si possono vedere le radici dei processi di mondializzazione che appariranno tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. La pace universale viene vista come un esito naturale, raggiungibile anche senza più la credenza di natura escatologica nell’Impero finale degli ultimi giorni.

89 Al cuore della riflessione sulla ragion di Stato va, infatti, collocata «l’opera di Botero sulle Relazioni universali, vera e propria enciclopedia dei saperi per tutti i continenti e le civilizzazioni allora conosciute, che ebbe un successo enorme in Europa e che deve essere immediatamente affiancata al libro Della Ragion di Stato (1589) per poter intendere il complesso del progetto boteriano. In questa scrittura, vengono argomentate l’autonomia e la centralità della politica prudenziale: questa è ars practica posta in essere per l’attuazione del progetto conservativo finalizzato all’assicurazione materiale della vita e alla salvaguardia di tradizioni sedimentate e risorse accumulate di ogni tipo: economiche, artistiche, religiose […] Dal luogo italiano di origine, tematiche e scritture di ragion di Stato si estenderanno in tutta Europa con caratteristiche diverse, ma con scopi pressoché identici» (Borrelli 2010, 62).

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È Kant, in Per la pace perpetua, a fondarla filosoficamente e non più escatologicamente. La nuova ragione per il suo raggiungimento sta nella natura e nell’economia, che, peraltro, è ritenuta anch’essa appartenente all’ambito naturale. Il raggiungimento dei rapporti pacifici nella storia sarà l’esito della volontà della natura che ha destinato tutto il mondo all’attività economica, strumento della sopravvivenza e della crescita, e che per questo ha creato quei naturali ordinamenti giuridici come il diritto interno (fondato su una costituzione repubblicana), il diritto internazionale (fondato su un federalismo di Stati liberi di realizzarsi dall’interno, senza nessun intervento esterno) e il diritto cosmopolitico (diritto per ciascuno di muoversi liberamente e proporre relazioni commerciali con i cittadini di altri Stati). Quest’ultimo diritto ha una evidente natura “economica”, in quanto grazie ad esso ‒ vale a dire il permesso di visita agli stranieri che hanno lo scopo di allacciare affari con i residenti ‒ si può diffondere la rete di relazioni tra individui e stati a livello commerciale. Ma aldilà di questa intenzione sanamente borghese, il diritto cosmopolitico kantiano è stato interpretato in modo spesso polarmente opposto. Per esempio, da un lato, Kant è visto come colui che teorizza il diritto esteso all’ospitalità universale, vale a dire ‒ se visto nelle contingenze dell’attualità ‒ un profetico difensore della causa dei richiedenti asilo e degli immigrati. Dall’altro lato, viene sostenuto che Kant intendesse solo un diritto di visita molto limitato. In realtà Kant ‒ nel Terzo articolo definitivo per la pace perpetua ‒ impone preliminarmente la limitazione90 del diritto cosmopolitico: «Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni della ospitalità universale» (Kant 2010, 34). E più oltre egli specifica quale sia l’obiettivo del tutto ristretto di questo diritto, peraltro

90 «La limitazione consiste nel fatto che il diritto di visita non autorizza lo straniero a risiedere nel paese che lo ospita. Non è, letteralmente, un diritto di essere ospitato […] Dunque, non è in gioco un diritto cosmopolitico all’ospitalità universale, ma […] si tratta di determinare a quali “condizioni” il diritto del visitatore si rende compatibile con un ordine universale di pace. Così, l’accento non cade su un diritto all’ospitalità che andrebbe esteso universalmente ad ogni uomo» (Cicatello 2018, 330).

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già limitato nella sua definizione: «questo diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri di stabilirsi momentaneamente sul territorio altrui, non mira a nulla più che ad assicurare le condizioni necessarie per tentare un commercio con gli antichi abitanti» (Kant 2010, 35). Se questo è lo spazio nel quale deve essere limitato il diritto di ospitalità, appare chiaro l’obiettivo esclusivamente economico di questo diritto di “visita” più che di ospitalità. Sicuramente appare del tutto parziale l’interpretazione che vuole Kant mirare a un ordine cosmopolitico di pace mondiale da raggiungere attraverso la globalizzazione di popoli ed economie diretta da una struttura politica e giuridica sovranazionale, interpretazione che peraltro sottovaluta i corrispondenti rischi91; insomma, si interpreterebbe la pace mondiale come realizzabile solo sotto un governo mondiale e un’unica economia, che era peraltro l’interpretazione di Hayek e degli attori del sovranazionalismo, come gli europeisti del secondo dopoguerra. Kant, come gli economisti fisiocratici a lui contemporanei, ricorre alle leggi della natura per giustificare l’espansione mondiale degli scambi economici, ovvero del capitalismo. Tornando alla ragion di Stato, notiamo che essa è, per Foucault, anche colpo di Stato, e il colpo di Stato è la auto-manifestazione dello Stato. È colpo di Stato nel senso che essa fa uso della legge solo nella misura in cui le è utile e se ne libera ogniqualvolta deb-

91 «Da questo punto di vista, la traiettoria che descrive il progresso verso un ordine cosmopolitico di pace mondiale non si identifica con la semplice idea di una crescente interazione sociale e politica per la quale si richieda una normazione giuridica sovranazionale. L’urgenza è invece quella di arginare i rischi che una crescente interazione sociale e politica può produrre, quando non sia concepita all’insegna di regole che ne limitino il potenziale autodistruttivo. Il porre l’accento sull’elemento di socievolezza del diritto cosmopolitico, o, viceversa, sul potenziale di insocievolezza che può essere innescato dall’estendersi su scala globale degli antagonismi, sta dunque alla base di due modi diversi di leggere l’idea kantiana di progresso. Da un lato si pone al centro la valorizzazione di un diritto universale, fondato su principi a priori della ragione, che garantisca e incentivi il contatto e la comunicazione tra i popoli. Dall’altro, appare invece decisiva la necessità di arginare l’elemento di violenza e prevaricazione implicato nell’esercizio di un diritto d’ospitalità non ristretto» (Cicatello 2018, 335).

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ba appellarsi a uno stato di necessità o di salvezza dello Stato92. E il colpo di Stato si ha quando è lo Stato che agisce da solo su se stesso, all’istante, senza regole, con urgenza e drammaticamente, e non quando si ha ‒ come era senso comune nel ‘600 ‒ una espropriazione dello Stato da parte di alcuni a scapito di altri. In questo senso, nel colpo di Stato quest’ultimo manifesta se stesso e afferma la sua ragione. Ma al momento che lo Stato si manifesta, esso si mostra con tre peculiarità: i) la necessità, che oltrepassa il diritto divino, il diritto naturale, il diritto positivo, ogni idea di giustizia; ii) la violenza, connaturata al colpo di Stato, portatrice, oltreché di morti, di torti e in questo la ragion di Stato viene acutamente contrapposta alla ragione pastorale: «è il principio opposto al tema pastorale, secondo cui la salvezza di ognuno è la salvezza di tutti e la salvezza di tutti è la salvezza di ognuno. D’ora in poi avremo una ragion di stato che adotterà una pastorale della scelta, dell’esclusione, del sacrificio di alcuni per il tutto, e di alcuni per lo Stato» Foucault (2017, 191); iii) la teatralità. Quest’ultimo aspetto merita alcune osservazioni. Intanto, la duplice connotazione ossimorica del colpo di Stato. Esso deve essere, ovviamente, segreto per essere efficace, ma nel contempo teatrale e solenne, per manifestare, proprio sul palcoscenico in cui viene messo in scena, la ragion di Stato che lo anima e che gli fa perdonare le violazioni della legge e la violen-

92 Questo intrinseco rapporto della ragion di Stato sia con le leggi che con la totale deroga ad esse è così espresso da Foucault (2017, 190):«la ragion di stato è in ogni caso fondamentale nel rapporto con le leggi, e nel suo gioco ordinario ne fa uso perché lo ritiene necessario o utile. Tuttavia, ci sono momenti in cui la ragion di stato non può più servirsi delle leggi ed è costretta, da qualche avvenimento pressante e urgente, che determina uno stato di necessità, ad affrancarsi da queste leggi in nome della salvezza dello Stato. La necessità dello Stato rispetto a se stesso spingerà a un certo punto la ragion di Stato a sbarazzarsi delle leggi civili, morali, naturali che essa aveva pur riconosciuto […] La necessità, l’urgenza, il bisogno di salvezza dello stato interromperanno il gioco con queste leggi naturali e produrranno qualcosa che sarà il rapporto diretto dello stato con se stesso sotto il segno della necessità e della salvezza». D’altronde ciò era già del tutto chiaro anche ai primi teorici della ragion di stato, per cui «la ragione di stato […] le leggi pubbliche, particolari, fondamentali, o di qualsiasi altra specie non la pregiudicano affatto; e quando si tratta di salvare lo stato essa può impunemente derogare a tali leggi» (Chemnitz 1712, I, 17).

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za. Foucault nota che il dramma teatrale classico di Shakespeare, Corneille e Racine è davvero una rappresentazione del dramma del colpo di Stato, così come, per contrappunto, nella politica la ragion di Stato appare ammantata di teatralità. Come ancora per contrappunto, proprio nel periodo in cui viene meno l’aspetto degli eventi eccezionali e del tragico nella rappresentazione della natura e del cosmo, il tragico si ripresenta come il nuovo orizzonte della politica e della storia. Dopo il Rinascimento, uomo e natura si scambiano fra loro le forme di potere che li dominano. Se, prima, vigeva un Regno sugli uomini e un Governo sulla natura, dopo, la sovranità sugli uomini si trasforma in un governo modellato sulla ragion di Stato, mentre il governo della natura si trasforma in una sovranità esercitata sotto forma di leggi o principi immutabili fissati una volta per tutte. Possiamo dire che vi sia stato una sorta di chiasmo (vedi tavola 3), una sorta di scambio incrociato fondamentale, nelle forme di potere (Regno e Governo) esercitate, fra Natura e Stato. Prima del 1580, Dio governa in continuità la Natura attraverso l’onnipresente intervento ‘provvidenziale’, dopo il 1660 regna attraverso alcune leggi generali di natura stabilite con la creazione. Prima del 1580, la forma di potere esercitata sulla res publica è quella regia, mediante la sovranità e la Legge, dopo il 1660 è quella dell’arte di governo, mediante la ragion di Stato. Come chiosa Foucault, con principia naturae e ratio status, principi della natura e ragion di Stato, natura e Stato, i due grandi riferimenti dei saperi e delle tecniche dati all’uomo moderno occidentale sono finalmente costituiti e resi separati. Il chiasmo osservato si può sintetizzare anche così: si assiste, da un lato, alla de-governamentalizzazione del cosmo, dall’altro lato, alla governamentalizzazione dello Stato (res publica).

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Tav. 3 - Il grande chiasmo del periodo 1580-1660: la de-governamentalizzazione del cosmo e la governamentalizzazione della res publica (Stato). Oggetto del potere

Forme di potere < 1580

> 1660

Natura, Cosmo

Governo (mediante intervento continuo della Provvidenza)

Regno (mediante Principi generali o Ragione)

Res publica, Stato

Regno (mediante sovranità e legge)

Governo (mediante ragion di Stato)

C’è un passaggio, sia cronologico che di forme e contenuti, dal potere pastorale a quello del governo/Stato rispetto agli uomini? La risposta è ‘sì e no’, a seconda delle angolature da cui si considera e si descrive il passaggio. È sì, se, in omaggio al principio di causalità in storia (peraltro da taluni considerato inappropriato)93, si fa dipendere questo passaggio: 1) dall’apparizione della più grande rivolta di condotta che è stata la Riforma, e che, dice Foucault, ha saputo incorporare e comprendere tutte le precedenti rivolte di condotta, unendo le recuperate controcondotte ad altre forme non religiose (filosofia e politica/Stato); 2) dalle lotte sociali (p.e. la guerra dei contadini) e la fine dei due grandi poli del potere, l’Impero e la Chiesa, che, ci dice Foucault (2017, 167) «al di sopra di principi e re, simboleggiavano una sorta di grande pastorato spirituale e temporale»; 3) dalla riapparizione della domanda, sparita dopo l’età ellenistica, su come comportarsi in modo giusto e consono anche in tutti gli ambiti non religiosi, come verso se stessi, i figli, gli altri, le autorità, la vita quotidiana in genere, e pure anche verso temi filosofici come la verità (di cui sono esempio certe forme di pratica filosofica di Cartesio, come le Meditazioni metafisiche); 4) la ricomparsa di temi di conduzione anche in ambito pubblico, tra cui preminente quello dell’educazione dei bambini. La risposta è, invece, no, se si osserva che: 1) tutte le insurrezioni hanno avuto un’asse, una dimensione, una

93 Ad esempio, Veyne (1973, 163) afferma icasticamente che «il problema della causalità in storia è una sopravvivenza dell’era paleoepistemologica».

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direzione, se non un perno, di controcondotta religiosa, per cui in tutti i grandi processi rivoluzionari, in cui peraltro erano altri gli obiettivi dichiarati, la rivolta di condotta è sempre stata presente (nella Rivoluzione inglese del ‘600, in cui, peraltro, la lotta religiosa era esplicitamente componente primaria, come anche nella Rivoluzione Francese, e persino nella Rivoluzione russa), al punto che, se tipicamente la condotta religiosa si prefiggeva e realizzava il governo degli uomini, anche il governo degli uomini nei casi delle rivoluzioni si configurerà come una condotta religiosa; 2) Riforma e Controriforma realizzano entrambe una intensificazione senza precedenti della conduzione degli uomini, sia sul piano spirituale (aumento delle devozioni, dei controlli spirituali, dei rapporti fra il pastore e l’individuo), sia su quello materiale (per esempio problemi di igiene ed educazione dei bambini). In pratica, nel periodo 1580-1660, secondo Foucault, si afferma un potere inteso come governo e prende corpo una specifica arte di governo.

1.11. Il nuovo modo di governo: da Machiavelli alla ragion di Stato Il fratello [consanguineo] che, in una guerra civile, uccide in combattimento il fratello, sarà considerato puro, come se avesse ucciso un nemico. (Platone, Leggi, IX, 869 c-d) colui che, quando la città si trova in una guerra civile, non prende le armi per alcuna delle due parti sia punito con l’infamia e sia escluso dalla politica. (Aristotele, Ath. Const., VIII, 5) che il popolo sia un corpo distinto da colui o coloro che hanno la sovranità su di esso è un errore. (Hobbes 1969 [1640], 3, II, 27, 9) Non senza motivo/ lo spuntare di ogni nuovo giorno/ è preceduto dal canto del gallo/ che annuncia un tradimento. (Brecht, Lo spuntare del giorno, 2004)

Questa nuova ragione di governo inizia anche a rendersi esplicita teoricamente. Lo sviluppo di trattati e trattatelli come quelli di letteratura politica medievale e rinascimentale, che più

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che «consigli al principe» sono manuali dell’arte di governare, accompagna come genere letterario la nuova teoria politica. In questo genere, la teoria politica abbandona già chiaramente il paradigma della sovranità, per abbracciare quello della moderna governamentalità. Esempi di questa letteratura, sono: i) nel cinquecento, principalmente quelli di Guillaume de La Perrière, Le Miroir politique (1555) diretto contro Il Principe di Machiavelli, e di Giovanni Botero, Della Ragione di stato (1589), diretto a fondare la ragion di Stato come manutenzione dello Stato e a criticare, come peraltro anche gli altri autori qui citati di seguito, il cinismo di Machiavelli per sostenere invece la necessità di un compromesso tra politica e morale; ii) nel seicento, quelli di Giovanni Antonio Palazzo (Discorso del governo e della ragione vera di Stato, 1604-1606) e di Bogislaus Philipp von Chemnitz (Dissertatio de ratione status in imperio nostro Romano-Germanico, 1640?), entrambi diretti ad estendere l’ambito degli obiettivi della ragion di Stato con l’incremento dei suoi poteri, e di François La Mothe Le Vayer, L’oeconomique du prince (1653), una serie di testi pedagogici scritti per il Delfino di Francia. Riguardo al settecento, il tema cruciale individuato da Foucault è la Polizeiwissenschaft sviluppata in terra tedesca da Johann Heinrich Gottlob von Justi (Grundsätze der Policey-Wissenschaft, 1756), Johan Peter Willebrandt (Abrégé de la police, accompagné de réflexions sur l’accroissement des villes, 1765), Peter Carl Wilhelm von Hohenthal (Liber de politia, adspersis observationibus de causarum politiae et justitiae differentiis, 1776), e la police sviluppata in terra francese con il Traité de la police (1705-1738) di Nicolas de La Mare94.

94 Alcune brevi note biografiche su questi autori: Guillaume de La Perrière (1499-1503) fu, a Tolosa, scrittore di cronache locali e autore di libri di emblemi, genere popolare all’epoca; Giovanni Botero (1544-1617), sacerdote gesuita, fu segretario della curia vescovile di Milano, e precettore dei figli di Emanuele I a Torino; Giovanni Antonio Palazzo fu, a Napoli alla fine del XVI secolo, avvocato e segretario del signore di Vietri, Fabrizio di Sangro; Bogislaus Philipp von Chemnitz (1605-1678), allievo del giurista calvinista Dominicus Arumaeus (ritenuto il padre del diritto pubblico tedesco), fu ufficiale nell’esercito svedese dal 1630 e dal 1644 fu nominato storico di corte dalla regina Cristina; François La Mothe Le Vayer (1588-1672), fu, a Parigi, un filosofo esponente del pensiero scettico e libertino, cortigiano e tutore del re Sole; Nicolas de La Mare (1639-1723), fu decano dei

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La Perrière appartiene, da un lato, alla vasta letteratura ‒ esplicitamente o implicitamente ‒ anti-machiavelliana dei secoli XVI e XVII, abbondantemente di provenienza cattolica e gesuita. Foucault prima individua un tratto da sottolineare in questa letteratura, quindi si sofferma su Machiavelli con acute osservazioni. Il tratto che vuole sottolineare riguarda non tanto la scontata censura e negazione delle opere del fiorentino, quanto quello che dall’analisi del Principe, sviluppata da questa letteratura per “detestarlo”, emerge invece come uno sguardo in “positivo”: Prendiamo allora questa letteratura […]. Che cosa ci troviamo? Certo, non manca la rappresentazione negativa e vuota di Machiavelli, che viene presentato in maniera avversa per giustificare ciò che si ha da dire. Ma in che modo questo principe, più o meno ricostruito, viene caratterizzato dalla letteratura […] questo principe contro il quale ci si batte e si vuole sostenere qualcosa? (Foucault 2017, 73).

Da questa caratterizzazione del principe può emergere qualcosa di nuovo e di positivo. Infatti, La Perrière dimostrerebbe, secondo Foucault, nel suo anti-machiavellismo, invece, il formarsi ‒ già nel ‘500 ‒ di una nuova consapevolezza sulla molteplicità delle funzioni e dei fini del governo politico e delle complesse relazioni tra Stato e individui. Peraltro, Foucault osserva che il Principe di Machiavelli, nella sua relazione con il principato mantiene la caratteristica tradizionale della sovranità; nella relazione troviamo «singolarità, esteriorità e trascendenza», che in altre parole significano che il principe ‒ tale per eredità o per conquista, quindi per tradizione o per violenza o per accordi con altri principi ‒ rimane del tutto esterno al principato con cui è soltanto artificialmente relazionato. Non esiste cioè una fondazione legittimante (per origine, natura, di-

commissari dello chatelet sotto il regno di Luigi XIV; Joan Heinrich Gottlob von Justi (1717-1771), fu segretario privato, avvocato e consigliere presso la duchessa di Sassonia, e docente, dal 1751, di retorica e cameralistica al Theresianum di Vienna e poi amministratore generale delle miniere di Federico II, per cui fu accusato di distrazione di denaro pubblico e imprigionato fino alla morte; Johan Peter Willebrandt (1719-1789?), fu Polizeidirektor ‒ poi dimissionario ‒ a Lubecca; Peter Carl Wilhelm von Hohenthal (1754-1825) fu dal 1800 presidente della Corte d’appello di Dresda e dal 1807 Konferenzminister nella stessa città.

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ritto) del suo potere, e, per questo, quest’ultimo è intrinsecamente fragile, soggetto a minacce esterne di pretendenti altrettanto legittimi quanto il principe, e, soprattutto, anche a minacce interne da parte dei sudditi che non vedono i fondati motivi per accettare tale sudditanza. Ecco che, per questi motivi, emerge ciò che il principe deve fare con il suo potere: conservare, rafforzare, difendere il principato. Se Machiavelli pensa, infatti, di insegnare al principe come conquistare e conservare il potere, allora anche nel fiorentino la “sovranità” ha un fine “circolare”, il mantenimento di se stessa: Il fine della sovranità è circolare, perché rinvia all’esercizio stesso della sovranità. Il bene è l’obbedienza alla legge e perciò il bene che la sovranità persegue è l’obbedienza degli uomini alla sovranità. Circolarità essenziale che, qualunque sia la struttura teorica, la giustificazione morale o gli effetti pratici, non è poi così distante da quanto affermava Machiavelli quando [sosteneva] che l’obiettivo principale del principe doveva essere la salvaguardia del suo principato (Foucault 2017, 79-80).

Invece, si tratta di acquisire la consapevolezza che la sovranità unica ed esteriore del Principe non può essere considerata l’unica modalità di potere, ma che esistono altre modalità che sono eminentemente di gestione, pragmatiche e diffuse all’interno della società: il Principe quale appare in Machiavelli, e piuttosto nelle rappresentazioni che se ne danno, è per definizione unico nel suo principato ed in una posizione di esteriorità e di trascendenza. Mentre vediamo che le pratiche del governo sono da una parte, delle pratiche molteplici che coinvolgono molta gente: il padre di famiglia, il superiore del convento, il pedagogo e il maestro rispetto al bambino o al discepolo; ci sono pertanto molti governi rispetto ai quali quello del Principe nei confronti del suo Stato non è che una delle modalità, e, d’altra parte, tutti questi governi sono interni alla società o allo Stato (Foucault 1994, 48).

Naturalmente, essere contro Machiavelli significa affermare che, a meno che non sia basata su Dio e le leggi naturali, e sulla sovranità e la legge che ad esse si rifanno, non vi può essere non solo fondazione del potere ‒ Dio, re e pastorato ‒ ma nemmeno un’arte di governo che funzioni. Significa ritenere che governamentalità in sé non esista, ma che sia soltanto una maschera posta sui capricci del Principe e sui machiavellismi. L’estrema accusa

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ad una ragion di Stato che in realtà sarebbe solo machiavellismo è quella mossa da padre Contzen, nel 1620, con una frase che sarebbe rimasta confinata agli studiosi e che invece ha avuto una vastissima notorietà perché sarebbe riapparsa secoli dopo nella Russia di Dostojevski: «se Dio non esiste, allora tutto è permesso». È la medesima frase con cui Ivan Karamazov riassume la sua “rivolta” contro il mondo pervaso dal male. Non si tratterebbe quindi solo di opporsi a un’arte di governo dietro a cui starebbero, in verità, gli arbitrii del principe, ma di sottolineare la sparizione di Dio dalla sfera della politica e, quindi, del fondamento dell’obbedienza degli uomini alle leggi. Annotiamo qui come Foucault avesse abbozzato, in alcune frasi rimaste manoscritte, una interessante riflessione sul tema: cosa renderebbe possibile il rispetto degli uomini per la legge e per il potere, nel caso di sparizione di Dio ‒ in termini di fondazione sia della sovranità che del sistema di punizioni nell’aldiqua e nell’aldilà ‒ dal sistema politico? Probabilmente, secondo Foucault, l’obbligo a tale rispetto sarebbe reso possibile dall’uomo stesso, nel senso che egli, anche senza Dio e le sue punizioni, vorrebbe comunque rispettare i contratti da lui sottoscritti, come il caso del Leviatano descritto da Hobbes illustrerebbe. Foucault sottolinea in Machiavelli i presupposti di una fondazione razionale dell’arte del governo, ma rileva che nel fiorentino il fondamento della razionalità governamentale rimane ancora imperniato sulla figura del regnante. Questo tradizionale concetto di sovranità ‒ che sarebbe ancora presente in Machiavelli ‒ si riferisce a ciò che governa territorio, proprietà terriere e sudditi, i quali, obbedendo alla legge, non comprometteranno il potere del Principe, concorrendo così alla costruzione del bene comune. Il potere della nuova governamentalità riguarda, invece, ciò che governa uomini e cose: […] nel testo di La Perrière, vi accorgete che la definizione del governo non si riferisce in alcun modo ad un territorio. Si governano le cose. Ma cosa significa questa espressione? Non credo che si tratti di opporre le cose agli uomini, ma di mostrare piuttosto che ciò a cui si riferisce il governo non è il territorio, ma una specie di complesso costituito dagli uomini e dalle cose. Pertanto le cose di cui deve occuparsi il governo sono gli uomini, ma nei loro rapporti, legami, imbricazioni con queste altre cose che sono

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le ricchezze, le risorse, i mezzi di sussistenza, il territorio, certo, nelle sue frontiere, con le sue qualità, il suo clima, la sua siccità, la sua fertilità; sono gli uomini nei loro rapporti con queste altre cose che sono gli usi, le abitudini, i modi di fare o di pensare, ecc., e infine gli uomini nei loro rapporti con queste altre cose ancora che possono essere gli incidenti o le disgrazie come la carestia, l’epidemia, la morte (Foucault 1994, 52).

È sia sul significato del bene comune da perseguire che sulle modalità per realizzarlo che emerge una dicotomia fra sovranità tradizionale e moderna governamentalità: per la prima, il bene comune è l’obbedienza dei sudditi alla legge e lo si realizza attraverso la legge; per la seconda esso è una pluralità di fini da realizzare strumentalmente attraverso una disposizione conveniente dei mezzi. Quindi, dice Foucault, nel primo caso si ricorre alla legge e nel secondo caso alle “tattiche”. Foucault, a proposito del nuovo modo di intendere il bene comune, fa parlare de La Perrière, che ci dice come “il governo è la retta disposizione delle cose di cui ci si occupa per indirizzarle ad un fine conveniente”, e Pufendorf, che afferma come “un sovrano non deve perseguire nulla di vantaggioso per se stesso se non lo è anche per lo Stato”. Infatti, nel testo di La Perrière ‒ che può quindi considerarsi come uno dei pionieri della teoria della governamentalità moderna ‒ si riconosce un nuovo modo di intendere il bene comune: Nella nuova definizione di La Perrière, nel suo tentativo di definire il governo, credo invece che si possa intravedere un nuovo tipo di finalità. Egli definisce il governo come una maniera retta di disporre le cose per indirizzarle non verso la forma del “bene comune”, come dicevano i giuristi, ma verso un “fine conveniente” per ognuna delle cose da governare (Foucault 2017, 80).

Il fine del potere politico non è più l’obbedienza dei sudditi alla legge, ma vi sono nuovi e molteplici fini, come la ricchezza della popolazione e la sua sicurezza, la sua salute e la sua crescita, da perseguirsi in maniera efficiente tramite il calcolo razionale dei mezzi: la nuova definizione di La Perrière «implica immediatamente una pluralità di fini specifici. Per esempio, il governo dovrà adoperarsi per produrre più ricchezza possibile, per fornire agli individui sufficienti mezzi di sussistenza, o addirittura tutti i

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mezzi di sussistenza possibili, in maniera da permettere alla popolazione di moltiplicarsi» (Foucault 2017, 80). Per mostrare come la politica tenda già a separarsi e ad autonomizzarsi rispetto alla morale e all’economia, Foucault cita i testi pedagogici scritti per il Delfino di Francia da La Mothe Le Vayer; in essi appare una tripartizione delle diverse forme di governo, a seconda della sfera “teorica” a cui sono riferite: i) il governo di se stessi, che appartiene alla sfera morale; ii) l’arte di governare adeguatamente la famiglia, che appartiene alla sfera economica; iii) la “scienza del buon governo” dello Stato, che appartiene alla sfera politica. Se già in questi scritti di La Mothe Le Vayer appare chiara una certa autonomia della politica dalla morale, e dell’economia da entrambe, tuttavia c’è anche un altro elemento che Foucault mette in evidenza, quello di una continuità e una orizzontalità sostanziale fra le tre forme di governo; questa parità fra le differenti forme di governo è in netto contrasto con la precedente teoria giuridica della sovranità che era interessata sia ad indagare le fondamenta della medesima che a mostrare la discontinuità della linea verticale tra il potere del Principe e qualsiasi altra forma di potere. A questo riguardo, Foucault osserva una forma di continuità del potere che definisce di tipo “ascendente-discendente”: ascendente, nel senso che chi aspira al governo statale può farlo solo se prima ha mostrato di saper governare se stesso e di essere un pater familias adeguato per la cura della famiglia, dei beni, del patrimonio; discendente, nel senso che quando uno Stato è ben governato, allora, viceversa, anche il padre di famiglia e gli individui si comporteranno come si deve. Quest’ultima linea di continuità discendente implica che è il buon governo dello Stato ad influenzare sia il comportamento individuale che la gestione familiare, l’oikonomia; in questo senso il tipo di buon governo è ciò che da allora in poi comincerà ad essere chiamato “polizia”: «La pedagogia del Principe assicura la continuità ascendente delle forme di governo, la polizia quella discendente (Foucault 2017, 76). In questo nuovo sguardo sul potere, l’occhio cade sul ruolo centrale che l’oikonomia viene a ricoprire, e sul fatto che essa, in qualche modo, tende già a rendersi autonoma da morale e politica. Ci si avvicina già a quello che diventerà chiaro nella voce

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“Economia politica” scritta da Rousseau per l’Encyclopedie, cioè al problema di come estendere il governo dell’economia della famiglia a tutto lo Stato; appare, quindi, un nuovo tipo di governo che nel fisiocratico Quesnay acquisterà proprio il termine di “governo economico”, inteso in una accezione nuova e dirompente che porterà all’attualità del governo neo-ordoliberale: «questa nozione di governo economico […] è in definitiva una tautologia, perché l’arte di governo è precisamente l’arte di esercitare il potere nella forma e secondo il modello dell’economia» (Foucault 2017, 77). È l’esercizio del potere nell’Europa di oggi. Mentre in precedenza il focus della dottrina relativa al potere politico era puntato sulla legittimità e la giustizia (quali rispecchiamento di ordini divini o naturali) del medesimo, con le teorie della ragion di Stato, il focus si sposta sulla razionalità del governo95: L’arte del governare è razionale, se la riflessione la induce a osservare la natura di ciò che viene governato – in questo caso, lo stato. Ora, formulare una tale banalità significa rompere con una tradizione al tempo stesso cristiana e giudiziaria, una tradizione che esigeva che il governo fosse essenzialmente giusto (Foucault 2001, 132).

E la razionalità dello Stato si intende come il perseguimento della potenza del medesimo. In quel periodo viene anche affrontata la questione dell’obbedienza degli uomini ‒ considerati pure nelle loro stratificazioni sociali ‒ al potere e quindi la difesa del potere medesimo. Foucault prende in considerazioni le posizioni sul tema di Machiavelli e Bacone (nel suo Of seditions and troubles pubblicato nel 1625, un anno prima della sua morte). Entrambi concordano su due punti:

95 Bernini (2008) osserva che in questa occasione Foucault riprende alcune tesi dal classico studio del 1924 di Friedrich Meinecke, storico tedesco che nel 1934 fu costretto ad abbandonare la presidenza della Commissione storica del Reich e nel 1948, divenuto simbolo del rinnovamento delle scienze storiche tedesche, fu nominato rettore dell’appena fondata Freie Universität Berlin, mentre Senellart, il curatore di Sicurezza, territorio, popolazione, oltre agli studi di Meinecke, opina che Foucault avrebbe potuto conoscere il testo, anch’esso ormai classico, di Schiera (1968).

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i) il rischio della sedizione è sempre presente; ii) questa diventa effettivamente pericolosa quando nobili e popolo si uniscono96. Tuttavia, ci sono anche almeno tre differenze: i) per Machiavelli la minaccia era diretta contro il principe e il suo principato, per Bacone lo è contro lo Stato; ii) per Machiavelli il pericolo viene dai nobili, per Bacone dal popolo; iii) per Machiavelli quel che bisogna tenere in conto per evitare e contenere la sedizione sono gli attributi e il modo di apparire del principe (deve essere giusto? deve apparire temibile? deve nascondere la debolezza?), per Bacone sono l’attenzione ai temi dell’economia (la produzione di ricchezze, la circolazione dei beni, la tassazione, etc.) e all’opinione pubblica. Qui, in particolare, appare la modernità di Bacone, secondo cui economia e opinione dovranno essere i campi reali di impegno dei governanti, con la corrispondente nascita degli economisti e dei pubblicisti97. L’arte di governo non deve né essere né mostrare il diritto di far valere la forza, ma piuttosto mostrare la pazienza più che la collera, dare prova di quella saggezza che nasce dalla conoscenza non tanto ‒ come nella definizione classica ‒ delle leggi divine, della giustizia e dell’equità, quanto di quali sono e come sono le cose e gli obiettivi da raggiungere e, soprattutto, dei dispositivi per farlo, e, infine, manifestare quella diligenza98 che permette al sovrano di governare «come se fosse al servizio di

96 In realtà, come ricorda D’Eramo (2020), Machiavelli fu forse il primo fra i pochi a ricordare gli effetti positivi delle rivoluzioni (i “tumulti”) e del conflitto, diremmo – anacronisticamente – di classe, fra “nobili” e “plebe”: «coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro» (Machiavelli 1960, I, IV, 138). 97 A questo proposito Foucault (2017, 199) ricorda che «Richelieu ha inventato la campagna politica attraverso i libelli, i pamphlet e ha inventato anche la professione dei manipolatori dell’opinione, chiamati all’epoca “pubblicisti”, in linea con la sua precoce intuizione che “governare è far credere”». 98 È La Perriére (1555, f.23r) ad affermare che «Ogni governatore di un regno o di una repubblica deve necessariamente avere in sé saggezza, pazienza e diligenza».

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coloro che sono governati» (Foucault 2017, 81), prendendo ad esempio la diligenza del pater familias (e, soprattutto, potremmo aggiungere, del pastore). L’arte di governo che si forma nel ‘600, senz’altro correlata alla formazione delle strutture amministrative degli stati nazionali, non decolla ‒ fino al ‘700 ‒ nella sua autonomia, innanzi tutto perché rimane bloccata, da un lato, dalla vigente teoria della sovranità ‒ che, nella sua rigidità e astrazione, permea, per esempio, anche il mercantilismo, pur essendo già esso una prima forma tecnica razionale di governo ‒ e, dall’altro lato, dal riferimento al modello oikonomico della famiglia, troppo debole e fragile per rappresentare l’economia dei nuovi stati. Secondo Foucault, ad un certo punto questo blocco sparisce: sullo sblocco della techné di governo della ragion di Stato dai due freni sopradetti avrebbe agito non tanto la nascita dell’economia politica liberale (come, per esempio, sostiene Senellart), ma la nuova concezione della popolazione che consente di superare il modello economico della famiglia. Come vi si riesce? Sicuramente la statistica ha un ruolo importante, nella misura in cui rivela e quantifica i fenomeni della popolazione (nascite, morti, incidenti, epidemie, contagi, lavoro, ricchezze, spostamenti, comportamenti) con i loro finalmente evidenti effetti economici, fenomeni che non hanno più un riferimento al quadretto familiare, il quale, da modello mitico di buon governo, si trasforma solo in uno strumento attraverso il quale si agisce “amministrativamente” sulla popolazione (matrimonio, vaccinazioni, etc.). Di conseguenza, come dice Foucault (2017, 86-87) «lo sblocco dell’arte di governo è legato all’emergere del problema della popolazione […] perché elimina il modello della famiglia». D’altra parte, la popolazione diventa il fine principale del governo, sia come soggetto di bisogni e aspirazioni che come oggetto di intervento, per cui Foucault chiosa che la popolazione è «consapevole di ciò che vuole dinanzi al governo e inconsapevole di ciò che le si fa fare» (Foucault 2017, 85-86). Lo studioso francese ascrive all’entrata in scena della popolazione persino la nascita dell’economia politica, che non solo surroga il sapere strettamente necessario al governo per affrontare i fenomeni riguardanti la popolazione, ma estende questo sapere

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all’insieme dei processi connessi alla popolazione in senso lato e alla ricchezza, intesa sempre in senso lato, con l’esito finale del costituirsi come il cuore della governamentalità moderna: l’economia politica era riuscita a costituirsi dal momento in cui tra i diversi elementi della ricchezza era entrato in scena un soggetto nuovo, la popolazione […] nel XVIII secolo, intorno alla popolazione e quindi intorno alla nascita dell’economia, si realizza il passaggio […] dalle strutture della sovranità a un regime dominato dalle tecniche di governo (Foucault 2017, 86).

Tuttavia merita osservare che il governo della popolazione non può non avere un riferimento analitico alla relazione fra essa e le condizioni di realizzazione del profitto e quindi di sviluppo del capitalismo. La popolazione viene intesa non come oggetto indistinto, ma come strutturazione di classe da governare non più per la ricchezza del sovrano o dello Stato ma per l’accumulazione capitalista, di cui lo Stato è il garante e il supporto (e questo vale non solo dopo la Rivoluzione Francese, come sarebbe ovvio, quando lo Stato è palesemente il “comitato di affari della borghesia”, ma era valido già anche prima, quando le élites capitalistiche giocano la loro partita di alleanza-conflitto con lo stato monarchico e questi gioca la sua con loro). Quindi, la governamentalità basata sulla popolazione concettualizzata da Foucault ha in primis la caratteristica ‒ a prescindere qui dall’interesse anche verso altre peculiarità di tale concettualizzazione quali le ipotesi di un rovesciamento ontologico fra Stato e governo99 oppure del rovesciamento della nota relazione marxiana fra struttura e sovrastruttura che Foucault mette in campo ‒ di avere, non a caso, la sua genealogia nell’economia politica liberale che si sviluppa sull’assioma della “naturalità” del capitalismo.

99 Foucault (2017, 182-183), infatti, rivisita la storia dello Stato criticando coloro che sostengono una visione ontologica di quest’ultimo, e giustifica questa mancata essenza dello Stato ipotizzandone una sua costruzione pragmatica, a partire soltanto da molteplici tecniche di governo coagulatesi a poco a poco. Questo conduce ad una inversione del nesso causale fra Stato e governo: il governo non è lo strumento creato dallo Stato, ma è lo Stato uno strumento creato, più o meno accidentalmente, dalle molteplici relazioni di potere e di governo della società civile.

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Se Foucault afferma che non è tanto il capitalismo ad aver generato la tecnologia di potere “governamentale”, ma che è stata quest’ultima ad avere favorito lo sviluppo del capitalismo, quel che merita sottolineare è comunque, a prescindere dalla direzione causale, il nesso inscindibile che esiste fra la governamentalità e il capitalismo.

1.12. La ragion di Stato: strumenti e polizia In uno Stato, noi chiamiamo politia la direzione e la giusta amministrazione del tutto: e questa concezione non può che essere confermata se si segue fin quanto è possibile la catena della natura. (Linneo, Dissertatio academica de politia naturae, 1760) Lo Stato deve essere l’amministrazione di una grande azienda che si chiama patria appartenente a una grande associazione che si chiama nazione. (Marinetti 2015)

La nuova razionalità di governo, ossia la ragione politica o anche la nuova scienza politica, si definisce e si “oggettivizza” nella dinamica politica e nel relativo calcolo delle forze in gioco, individuando nel rapporto fra queste forze, che devono mantenersi in un equilibrio mobile, una nuova finalità, da soddisfare attraverso due dispositivi: 1) il dispositivo diplomatico-militare, 2) il dispositivo di polizia, che insieme assicurano il meccanismo di sicurezza, definito come «il mantenimento del rapporto di forze e lo sviluppo delle forze interne a ogni elemento, oltre che il loro collegamento» (Foucault 2017, 215). Tale meccanismo si manifesta al termine della guerra dei trent’anni con la pace di Westfalia100.

100 La pace di Westfalia, firmata definitivamente a Münster il 24 ottobre 1648 alla fine della Guerra dei Trent’anni, fu il risultato di cinque anni di complesse trattative tra le maggiori potenze europee, concluse con la firma dei due trattati, tra l’Impero e la Francia a Münster (Instrumentum Pacis Monstieriense), e tra l’Impero e la Svezia a Osnabrück (Instrumentum Pacis Osnabrucense). L’Impero stesso, privato del suo carattere “sacro”, continuò a sopravvivere come uno Stato, sebbene con alcune modifiche costituzionali. I trattati, fra l’altro, sancirono il

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Le dottrine della ragion di Stato si articolano in tre distinte sfere di problemi: la sfera economica che si declina nelle teorie mercantilistiche, la sfera politica estera che si scandisce nei dispositivi diplomatico-militari, la sfera politica interna che si articola nelle teorie dello Stato di polizia (Polizeiwissenschaft). Si forma, a partire dal XVI-XVII secolo, un nuovo concetto dei rapporti fra Stati: non più in forma di ostilità-rivalità, ma di concorrenza. Vi sono tre cambiamenti dietro al nuovo concetto, ovvero dietro al passaggio dalla rivalità dinastica fra principi alla competizione fra stati, cambiamenti che concernono sostanzialmente la valutazione di quale sia la vera misura della potenza in caso di guerra e su come calcolarla: i) la ricchezza, il tesoro, l’oro del principe sono sostituite dalla (o interpretate come la) ricchezza dello Stato; ii) l’estensione dei possedimenti del principe è sostituita dalla ricchezze intrinseche dello Stato (come risorse naturali, potenziale produttivo e commerciale, saldo positivo della bilancia commerciale, etc.); iii) il sistema delle alleanze dinastiche e familiari è sostituito da quello delle alleanze basate sugli interessi, che quindi divengono ricomponibili, mutevoli e provvisorie. Vi è un nuovo elemento che sale al vertice della teoria politica: è la forza degli stati, e, quindi, la politica interna e quella internazionale sono viste sotto l’aspetto di dinamica di forze, in accordo con la fisica che si sviluppa in quel periodo, tanto che possiamo parlare anche di fisica degli stati; questo concetto fisico diventa anche il principio della diplomazia, specie se esso è inteso come il principio dell’equilibrio della dinamica delle forze statali. Se l’ottica della teoria politica è la dinamica delle forze, anche l’obiettivo del governo non è più la conservazione statica dello Stato, bensì la conservazione di «un certo rapporto di forze […] nonché la crescita di ognuna di queste forze senza che l’insieme si sfaldi» (Foucault 2017, 214-215). Per realizzare questi nuovi obiettivi politici vengono sviluppati i due dispositivi complessi, quello diplomatico-militare e quello della polizia.

riconoscimento del calvinismo come terza religione legale dell’Impero, insieme al cattolicesimo e al luteranesimo.

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La data ad quem della nuova razionalità di governo è la fine della guerra dei Trent’anni, che termina un secolo di faide religiose, e che è anche la fine concreta dell’idea dell’universalismo politico dell’Impero e di quello spirituale della Chiesa. In sostituzione del vecchio mondo e della vecchia idea, un nuovo sistema deve essere creato. Di fronte alla fine del sogno universalista imperial-ecclesiastico, alla sparizione della teleologia della politica volta al compimento della storia, all’immersione dello Stato in un tempo indefinito, senza fine e senza fini, se non la propria perpetuazione e forza, cosa resta che sia almeno e ancora un frammento di escatologia debole e profana e un surrogato dell’universalità perduta? Restano la nozione e l’obiettivo di una pace, il più possibile universale e duratura. Tuttavia adesso si deve prendere atto dell’esistenza di una varietà di stati e che solo dalla loro competizione si può, semmai sarà possibile, raggiungere una pace, poiché «non è più dall’unità che scaturisce la pace, ma dalla non-unità, dalla pluralità mantenuta come tale» (Foucault 2017, 218). Il nuovo sistema politico che deve essere creato è l’Europa (vedi tavola 4). Ciò che, quindi, la definisce è: i) l’essere una fabbricazione geografica, particolaristica e con confini delimitati; ii) l’essere una pluralità di stati, senza una gerarchia interna fra di essi; iii) l’essere costitutivamente differenziata al suo interno fra stati piccoli e grandi; iv) l’essere fin dall’inizio orientata a espandersi nel resto del mondo in termini di dominazione economica. La costruzione europea ha un obiettivo: l’equilibrio delle forze dei vari stati101 europei da costruire con la “bilancia d’Europa”. Questa bilancia ha il significato di i) impedire allo Stato più forte di imporre la sua legge a qualsiasi altro Stato; ii) limitare il divario tra lo Stato più forte e quelli che stanno dietro, facendo sì che la differenza tra il più forte e gli altri, sia tale da prevenire che il più forte pos101 Foucault riconosce come antesignana di una politica di equilibrio quella fra gli stati italiani del Rinascimento analizzata da Guicciardini: «E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori potentati ampliasse piú la sua potenza, [Lorenzo de Medici] procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino che piú in una che in un’altra parte non pendessino: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare con somma diligenza ogni accidente benché minimo, succedere non poteva» (Guicciardini 1971, 6-7).

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sa imporre la sua legge a tutti gli altri; iii) costituire un numero limitato di stati più forti (diciamo Inghilterra, Austria, Francia e Spagna), che devono essere tenuti sul medesimo piano di uguaglianza in modo che ciascuno di loro sia in grado di impedire a chiunque altro di prendere il sopravvento, e semmai uno di loro lo prendesse, la prima reazione degli altri tre sarebbe ovviamente quella di intervenire in comune, per preservare in questo modo l’equilibrio europeo; iv) infine, il predisporre le cose in modo tale che la combinazione ‒ ad esempio una alleanza realizzabile in un dato momento e in un determinato luogo ‒ di diversi piccoli stati possa controbilanciare la forza di uno Stato grande che stesse minacciando uno di essi. Come riassume Foucault (2017, 217), «limitazione assoluta della forza dei più forti, pareggiamento dei più forti, possibilità di combinarsi dei più deboli contro i più forti: ecco […] la bilancia dell’Europa». Tav. 4 - L’Europa alla fine della guerra dei Trent’anni.

Per raggiungere l’obiettivo dell’equilibrio, la bilancia d’Europa si avvale dei quattro strumenti della sfera diplomatico-militare che vengono a costituire la ragion di Stato del mondo post-Westfalia (vedi tavola 5). Il primo che assicura la pur fragile pace è, paradossalmente, la guerra, vale a dire che, d’ora in poi, sarà possibile e necessario fare la guerra proprio al fine di preservare questo equilibrio. Se prima la guerra era sempre

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collegata a un tema di diritto, ad esempio la risposta a una violazione del diritto o a una ingiustizia, adesso è collegata a un tema politico e diplomatico. Se l’equilibrio è messo a repentaglio, si ha il pieno diritto di iniziare una guerra per ristabilirlo, è la politica diplomatica a deciderla come a decidere di terminarla. È insomma entrata già in vigore la nota massima di von Clausewitz che, due secoli dopo, dice: “La guerra è la politica continuata con altri mezzi”. Il secondo strumento è la diplomazia. Tutto ciò che deve essere regolato e risolto sta dentro a un trattato multilaterale fra stati europei (Inghilterra esclusa), e si deve far ciò applicando non leggi, tradizioni, vincoli ereditari, diritti dinastici ecc. ma seguendo dinamiche di forze di cui si deve cercare di mantenere l’equilibrio, il che richiede l’organizzazione di una diplomazia permanente, gli ambasciatori, e persino un luogo per una tale organizzazione (per esempio, all’inizio del ‘600 fu proposta Venezia). Emerge così l’idea simbolica di una società delle nazioni, degli stati, con la corrispondente necessaria codificazione delle relazioni fra stati in società, che prende la forma del diritto delle genti (jus gentium)102. L’equilibrio delle dinamiche delle forze politiche regolato nel trattato di Westfalia provoca anche il fenomeno che dominerà in più occasioni i secoli successivi fino ad oggi, ovvero la centralità della Germania nella storia europea fino alla quasi identificazione fra Germania ed Europa. Lasciamo quest’ultimo punto alle efficaci parole di Foucault (2017, 221-222): Non bisogna infatti dimenticare che l’Europa, in quanto entità politico-giuridica, e sistema di sicurezza diplomatica e politica, è il giogo che i paesi più potenti d’ Europa hanno imposto alla Germania ogni qualvolta hanno cercato di farle dimenticare il sogno dell’imperatore assopito, che fosse Carlo Magno, Barbarossa o [Hitler…] L’Europa è la maniera per

102 Una confacente immagine dell’idea di società degli stati europei ce la fornisce, all’inizio del ‘700, il teorico del diritto delle genti, Burlamaqui: «L’attenzione continua dei sovrani a tutto ciò che accade nella propria e in altre nazioni, ministri permanentemente residenti, e i negoziati continui rendono l’Europa moderna una specie di repubblica i cui membri, pur essendo indipendenti, sono legati dall’interesse interesse comune e si riuniscono per mantenere l’ordine e la libertà» (cit. in Foucault 2017, 221).

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far dimenticare l’Impero alla Germania. E se l’imperatore effettivamente non si risveglia, non c’è da stupirsi che la Germania alzi la testa a volte e dica: “Io sono l’Europa, perché voi avete voluto che io sia l’Europa” […] Si è voluto sostituire il desiderio di impero, in Germania, con l’obbligo dell’Europa.

Il terzo strumento di garanzia della bilancia europea è la creazione di dispositivi militari permanenti (eserciti professionali, infrastrutture militari, sapere militare specifico), supporto fondamentale del meccanismo di sicurezza necessario all’equilibrio europeo (di cui la guerra è solo una delle sue operazioni). Infine, come quarto strumento, il dispositivo informativo, da usare tanto per conoscere le proprie forze e nasconderle agli altri, quanto per conoscere le forze nascoste degli altri. Tav. 5 - La tecnologia politica della ragion di Stato.

Se la ragion di Stato, in generale, come anche gli obiettivi della bilancia europea e gli strumenti diplomatico-militari per raggiungerli, sono stati nelle forme e nei contenuti abbastanza comuni ai vari stati, nel caso della polizia ‒ intesa sia come riflessione teorica, sia come forme di istituzionalizzazioni concrete ‒ si sono registrate significative differenze fra i vari paesi. Foucault prende in considerazione tre stati, due, allora, frammentati come l’Italia e la Germania, ed uno già unificato, la Francia (vedi tavola 6).

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Per l’Italia si osserva un paradosso: sebbene la teoria della ragion di Stato fosse stata ben sviluppata in Italia, e sebbene fosse importante, e fosse anche stato precocemente analizzato, l’equilibrio fra le forze dei vari stati italiani, la polizia, invece, risultava assente sia come istituzione che come forma di analisi e riflessione. Il motivo va ricercato nella grande divisione dell’Italia (divisione di territorio, di livello economico, di dominazioni straniere, di una Chiesa fra missione spirituale universale e potere temporale locale), a causa della quale il problema primario è sempre stato quella di bilanciare le diverse forze: quindi, il primato della diplomazia a scapito dello sviluppo delle forze dello Stato. Foucault attribuisce questa caratteristica, insieme ad altre, allo Stato italiano anche dopo l’unità fino ad oggi, Stato che non sarebbe mai diventato uno stato di polizia, nel senso che questo termine ha nel diciassettesimo e diciottesimo secolo ‒ ma è sempre rimasto uno stato di diplomazia, vale a dire un insieme di forze plurali tra cui bisogna stabilire un equilibrio: i partiti, i sindacati, le clientele, la Chiesa, il Nord, il Sud, la mafia, ecc. Tutto ciò fa sì che l’Italia sia uno stato di diplomazia senza essere uno stato di polizia. Forse è questa la ragione per cui è la forma di esistenza permanente dello Stato italiano è una sorta di guerra, o guerriglia, o quasi guerra (Foucault 2017, 229).

All’opposto dell’Italia, in Germania la frammentazione territoriale ha prodotto, altrettanto paradossalmente, una “eccesso” di centralità della polizia, sia sul piano teorico che pratico. Una possibile spiegazione del paradosso è rintracciata nel fatto che questi piccoli stati tedeschi ‒ riorganizzati e talvolta persino fabbricati dal trattato di Westfalia, a cavallo tra il feudalesimo e il grande stato moderno e privi del necessario personale amministrativo, che invece in Francia era già presente ‒ sono diventati laboratori sperimentali, a livello di micro-stato, per modelli di incremento delle forze dello Stato, esprimenti per i quali era necessario formare anche gli sperimentatori, vale a dire i tecnici amministrativi. E dove stanno i laboratori per sperimentare? Nelle università, che nella Germania divisa in tre confessioni religiose assumevano una importanza rilevante, al contrario che nella Francia, dove le università perdevano

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costantemente importanza, per ragioni derivanti sia dalla crescente centralizzazione amministrativa che anche dal ruolo dominante della Chiesa cattolica. E in questi laboratori collegati al mondo universitario avveniva che si sviluppassero sia le più alte riflessioni teoriche sul concetto di polizia che la migliore formazione del personale tecnico per la tecnologia di polizia, tanto che la Polizeiwissenschaft, la scienza della polizia, sarà per un secolo una peculiarità tutta tedesca con grande influenza sul resto d’Europa. La Francia, a sua volta, presenta una situazione del tutto diversa: probabilmente a causa della preminenza della centralizzazione amministrativa, la polizia è stata sviluppata solo come pratica amministrativa e sottoposta a riflessione solo da taluni amministratori e persino da pedagoghi come Fènelon: quindi una pratica senza teoria, senza la sistematizzazione della Polizeiwissenschaft tedesca. Tav. 6 - Classificazione di tre realtà europee per tipologie di ‘polizia’.

La Polizeiwissenschaft, in tutti i sensi una disciplina teorica universitaria appartenente all’ambito della cameralistica (o scienza dell’amministrazione) tedesca, si occupa di intervenire sui processi della popolazione per mantenere ed accrescere la potenza dello Stato: il termine “polizia” indica nei manuali non «un’istituzione o un meccanismo che funziona all’interno dello stato, ma una tecnica di governo propria dello stato» (Foucault 2001, 135).

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L’oggetto di questa tecnica lo si desume dalla raccolta di De la Mare, in tre volumi, delle ordinanze di polizia all’inizio del ‘700, cioè è l’insieme della vita sociale di una nazione: la religione, i costumi, la moralità, la salute, la sussistenza, la quiete pubblica, l’alimentazione, l’ambiente, la sicurezza dalle calamità naturali e dagli infortuni, la gestione del tempo libero, il teatro e i giochi, l’amministrazione della giustizia, la cura delle scienze, delle arti e degli elementi costitutivi delle città, come palazzi, ponti, piazze e strade, il commercio e l’industria, servi e operai, e, in particolare, la gestione dei poveri, consistente nel loro controllo (mendicanti, vagabondi) e nell’obbligo al lavoro. Basta scorrere questa pur incompleta lista di oggetti d’intervento, per poter concludere che la polizia si occupa della bontà della vita (religione e costumi), della sua conservazione (igiene, sanità, alimentazione, sussistenza, protezione dalle calamità naturali, ecc.), della sua gradevolezza (quiete, città ordinata e ben organizzata, beni commerciali, teatro, giochi, ecc.). Insomma, la polizia viene ad occuparsi, in senso lato, di qualcosa di più della semplice esistenza, vale a dire del ben-essere più che del solo essere. Le relazioni che più qualificano la polizia sono quelle con i) la città, ii) il mercato e l’economia urbana, iii) la repressione della delinquenza, iv) il mercantilismo, il tutto in un’ottica post-Westfalia. La città significa oggetti urbani e popolazione urbana, oggetti come strade, piazze, edifici, mercati, fabbriche, etc., e popolazione come salute, alimentazione, sussistenza, accattonaggio e vagabondaggio, intensa convivenza. Strettamente legati a questi problemi della città, ma con la sua specificità, sta l’economia, intesa come problemi del mercato, dell’acquisto e della vendita, dello scambio, dell’approvvigionamento e della scarsità, per i quali la polizia significa regolamentazione dettagliata (cosa può o deve essere prodotto e venduto, a quali prezzi e in quali modi, ecc.). Oggetto della polizia è il regolamento di uomini e cose, coesistenza tra uomini e circolazione di uomini, da un lato, e, dall’altro lato, fabbricazione, circolazione, commercializzazione e scambio delle merci. Per questo Foucault arriva a dire che la polizia è votata alla città e al mercato, e per dirla in modo ancora più brutale, «è un’istituzione di mercato», sebbene in senso lato. Inoltre, pre-

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liminare alla polizia in senso generale, è l’istituzione repressiva del disordine, cioè, per esempio in Francia, la maréchaussée, vale a dire la forza armata che il potere reale fu costretto a dispiegare nel XV secolo per reprimere i disordini in seguito alla guerra, specialmente quando lo scioglimento degli eserciti alla fine delle guerre liberava masse fluttuanti di ex-soldati che erano ovviamente dedicati a ogni tipo di delinquenza. Quindi, nei termini sopra descritti, la polizia, può anche essere vista come condizione dell’esistenza della società urbana. In questo senso, Foucault afferma che l’istituzione della polizia è assolutamente inseparabile dalla teoria e pratica governativa nota come mercantilismo, che è sottolineato proprio per i suoi aspetti pratico-amministrativi e politici più che come corpus dottrinario dell’economia. Infatti, per Foucault, il mercantilismo è «una tecnica e un calcolo di rafforzamento della potenza degli Stati nella competizione europea attraverso il commercio, il suo sviluppo e il nuovo vigore impresso alle relazioni commerciali» (Foucault 2017, 243). Sempre seguendo Foucault, le caratteristiche del mercantilismo sono riferite, per ciascun Stato, all’obiettivo di avere, in primo luogo, la più numerosa popolazione possibile, in secondo luogo l’intera popolazione messa al lavoro, in terzo luogo i salari più bassi possibile, in quarto luogo il costo di produzione dei beni il più basso possibile (come conseguenza dei bassi salari), i prezzi di vendita all’estero più bassi possibili (come conseguenza dei bassi costi), la massima quantità di esportazioni (come conseguenza dei bassi prezzi di vendita all’estero), la massima quantità di afflusso di oro dall’estero (come conseguenza delle elevate esportazioni di beni), oro, che, per chiudere infine il cerchio, potrà incrementare sia il potere del sovrano e dello Stato in termini di maggior reclutamento di soldati e di forza militare ‒ indispensabile per la crescita dello Stato e per il suo gioco nell’equilibrio europeo ‒, sia la produzione e, quindi, il progresso economico. In particolare il testo di von Justi, che secondo Foucault rappresenta l’esempio più completo della Polizeiwissenschaft, distingue tra la Politik e la Polizei, e così facendo aggiunge alle funzioni tradizionali delle teorie sulla sovranità (comprese nella Politik) le funzioni specifiche della governamentalità dello stato moderno (la Polizei), in cui la popolazione assume un ruolo centrale:

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[Von Justi] definisce perfettamente ciò che io considero il fine della moderna arte del governo o della razionalità dello stato: sviluppare gli elementi costitutivi della vita degli individui in modo che il loro sviluppo rafforzi anche la potenza dello stato. Von Justi stabilisce poi una distinzione tra questo compito, che egli definisce Polizei – come i suoi contemporanei –, e la Politik, die Politik. Die Politik è sostanzialmente un compito negativo. Essa consiste, per lo stato, nel combattere i nemici interni ed esterni. La Polizei, invece, è un compito positivo: consiste nel favorire, al tempo stesso, la vita dei cittadini e la forza dello stato. Arriviamo così al punto essenziale: von Justi insiste ben più di quanto non faccia de La Mare su una nozione che avrebbe assunto un’importanza crescente nel corso del XVIII secolo – la popolazione. La popolazione viene intesa da lui come un gruppo di individui viventi le cui caratteristiche sono quelle di tutti gli individui che appartengono a una stessa specie e vivono fianco a fianco (Foucault 2001, 142).

Quali sono le modalità di funzionamento della nuova ragion di Stato? Lo Stato ha una propria struttura di conoscibilità, organizzata in due direzioni: all’esterno, con le tecniche diplomatico-militari – i cui strumenti sono la concorrenza di equilibrio fra stati, la diplomazia, gli eserciti permanenti, l’apparato informativo – e all’interno con lo Stato di polizia, frutto sia della nuova razionalità statale, secondo la quale il fine e la storia dello Stato sono interni al medesimo, che degli obblighi internazionali post-Westfalia, i cui obiettivi sono la massima efficienza di impiego delle forze dello Stato e ‒ dato che una maggiore potenza esterna richiede una migliore organizzazione interna ‒ quel preciso rapporto fra equilibrio esterno ed interno che consenta la massimizzazione delle forze dello Stato. Per gli autori interpellati da Foucault, il termine polizia rappresenta nel suo insieme il nuovo campo d’intervento per il potere politico: polizia è vigilare sulla vita per garantirla e insieme garantire il benessere e la felicità degli individui, e questo è poi, in realtà, il modo che consente allo Stato di accrescere il suo potere e la sua forza al massimo livello. In Von Justi e in Hohenthal troviamo due definizioni del termine polizia. Il primo, nel 1756, afferma che sotto il nome di polizia includiamo le leggi e i regolamenti che riguardano l’interno di uno stato, che si sforzano di rafforzare e aumentare il suo potere, di fare buon uso delle sue forze, per procurare la felicità dei suoi

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sudditi, in una parola, il commercio, le finanze, l’agricoltura, l’estrazione mineraria, i boschi, le foreste, eccetera, in considerazione del fatto che la felicità dello Stato dipende dalla saggezza con cui tutte queste cose sono amministrate (cit. in Foucault 2017, n.8 p. 353).

Il secondo, nel 1776, accetta «la definizione di coloro che chiamano la polizia l’insieme dei mezzi che servono lo splendore dell’intero stato e la felicità di tutti i suoi cittadini» (cit. in Foucault 2017, 226). La ragione dello stato di polizia si articola nella triade, Politik – che consiste nel combattere i nemici interni ed esterni ‒, Polizei – che consiste nel favorire al tempo stesso la vita dei cittadini e la potenza dello Stato ‒ e nuovo concetto di popolazione. Con la polizia si smette di vedere la popolazione come una serie di sudditi di diritto e la si vede, invece, come una specie soggetta ai propri processi naturali; nel senso che essa non obbedisce immediatamente come il singolo suddito all’azione del sovrano, ma dipende da diverse variabili come leggi e tradizioni, valori morali o religiosi, clima, intensità dei traffici commerciali, ecc. La polizia è anche il colpo di Stato permanente, perché essa si eserciterà sulla base dei propri principi pratici e non sulla base di regole di giustizia altrove definite. La modalità con cui opera non è la legge ma è l’intervento diretto, minuzioso e inesorabile, della sovranità sul suddito (non della legge sul cittadino) attraverso lo strumento del regolamento, dell’ordinanza, del divieto, della consegna. È illuminante ciò che dicono le Istruzioni di Caterina II (1769, § 535) scritte sotto l’influsso degli illuministi francesi (per esempio, dello Spirito delle leggi di Montesquieu): «I regolamenti di polizia sono di una specie completamente diversa da quella delle altri leggi civili. Le cose di polizia sono cose di ogni istante, mentre le cose di legge sono definitive e permanenti. La polizia si occupa di inezie, mentre le leggi si occupano di cose importanti. La polizia si occupa continuamente di dettagli». Come chiosa Foucault (2017, 246), con la polizia ci troviamo «in un mondo di regolamentazione indefinita, di regolamentazione permanente, continuamente rinnovata e sempre più dettagliata». Quando Foucault scrive, ispirandosi al titolo del libro di Montchrètien, che la polizia è o fa l’economia politica, inte-

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sa come quella disciplina ed arte che non si occupa dell’essere bensì del ben-essere, coglie in realtà una verità essenziale: l’economia politica è, quindi, come polizia, anche il colpo di Stato permanente, ovvero, in termini contemporanei, è lo stato d’eccezione. Le caratteristiche che, come al solito brillantemente, Foucault ascrive al colpo di Stato quali i) necessità, ii) violenza, iii) teatralità, miste all’ovvia segretezza, sono applicabili al caso contemporaneo dell’economia politica al governo dell’Europa. La lettera di Draghi per richiedere la rimozione del governo italiano in carica nel 2011 (per necessità) o i diktat della troika al governo greco nel 2015 (ai limiti della imposizione violenta) o le lacrime del ministro Fornero (nel teatrino mediatico della politica) per i danni causati dalle riforme richieste come oggettivamente necessarie dall’economia politica, ne sono esempi correnti. Mentre sotto il regime del sovrano gli individui interessavano certamente anche per le loro qualità lavorative ma soprattutto interessavano per l’obbedienza, la giustizia e la intrinseca virtù o sotto il regime fiscale interessavano per la loro capacità di contribuzione, in uno stato di polizia ciò che interessa allo Stato è ciò che fanno gli uomini e, in particolare, il controllo della loro attività di lavoro nella misura in cui questa attività costituisce un elemento differenziale nello sviluppo delle forze dello Stato. Le parole del protoeconomista Montchrètien (1889, 27) ‒ vagamente pre-keynesiane ‒ ne costituiscono una efficace illustrazione: «L’uomo più competente in materia di polizia non è colui che stermina briganti e ladri con rigorose torture, ma colui che, con l’occupazione che dà a coloro che sono impegnati nel suo governo, impedisce che ce ne siano». Pertanto, l’obiettivo, in generale, della polizia è quello di accrescere l’utilità per lo Stato, attraverso l’attività degli uomini, mediante regolamenti e istituzioni. Quali attività umane interessano alla polizia? Essenzialmente, come e quanto gli uomini lavorano e consumano, sia nel senso che si comportino onestamente e lealmente in tali attività, sia curandosi, fin dalla loro infanzia, della loro formazione professionale e della loro occupazione (naturalmente perché tutto ciò è collegato all’utilità dello Stato) (vedi tavola 7).

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Quali sono quindi in pratica i compiti specifici della polizia? Sulla base dell’obiettivo generale è facile individuare i compiti pratici; riassumendo l’analisi di Foucault, ne individuiamo cinque: 1) preoccuparsi del numero di uomini, che sia il più alto possibile (ovviamente in rapporto all’estensione e alle risorse dello Stato), perché come già dal medioevo si ritiene che forza dello Stato e numero di individui siano strettamente correlati; 2) preoccuparsi delle necessità vitali degli uomini, perché un principe deve essere come un padre nel nutrire e accudire il popolo, il che, in pratica, implica che la polizia debba sostenere, per esempio, sia una politica agricola (aumentare il numero di persone riducendo le imposte, le corvèes, il servizio militare obbligatorio, le terre incolte) sia una politica cerealicola (supervisione della commercializzazione di prodotti alimentari e provviste, e anche la supervisione della loro qualità al momento della vendita); 3) preoccuparsi della salute degli uomini, perché è necessaria affinché lavorino, quindi non più una preoccupazione saltuaria legata e epidemia e contagi, ma permanente, anche riguardo alle cause indirettamente agenti sulla salute (l’aria, la ventilazione, lo spazio urbano, la larghezza delle strade, mattatoi, cimiteri); 4) preoccuparsi della completa attività della popolazione, sia combattendo l’ozio, sia regolamentando le professioni in modo che i servizi e i prodotti più utili per il paese vengano prodotti; 5) preoccuparsi di regolare la circolazione sia delle merci che degli uomini, nel primo caso occupandosi, per esempio, delle condizioni e dello sviluppo di fiumi, canali, porti, ponti, piazze, strade per facilitare la circolazione delle merci in questa o quella direzione, nel secondo caso agendo sia per reprimere il vagabondaggio che per impedire a lavoratori qualificati di spostarsi o soprattutto di lasciare il regno. Come sintetizza Foucault (2017, 237) «la coesistenza e la comunicazione reciproca degli uomini rappresentano in definitiva il campo di pertinenza della Polizeiwissenschaft e dell’istituzione poliziesca di cui si parla nel XVII e XVIII secolo».

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Tav. 7 - Le sfere di attività della polizia.

La polizia si trova, come strumento di governo, ad agire da due lati, sempre per conto dello Stato e dell’accrescimento della sua utilità. Da un lato, essa dovrà provvedere a tutto ciò che è necessario e sufficiente per integrare efficacemente l’attività degli uomini nello Stato e nello sviluppo delle sue forze, vale a dire che l’attività umana produca oltre la sussistenza della specie e che il surplus creato circoli correttamente in modo tale che lo Stato possa davvero trarne la forza e, dall’altro lato, dovrà garantire che lo Stato, a sua volta, possa stimolare, determinare e orientare questa attività in modo che gli sia effettivamente utile. La polizia, per usare una metafora, è il mozzo della ruota che assicura la perfetta circolazione delle forze che partono dall’intervento statale per irrobustire, razionalizzare, formare, dirigere le vite umane, in ultima analisi dar loro una forza, sebbene eterodiretta e orientata, per ritornare allo Stato come forza prodotta dal lavoro di quelle vite (vedi tavola 8).

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Tav. 8 - Il cerchio Stato-individui mediante la ‘Polizia’.

1.13. I ‘saperi’ del governo degli uomini nell’evoluzione storica Gli affilati strumenti dello stato non possono essere mostrati ad alcuno. (Lao-Tzu, Tao Te Ching, cap. 36) Mai lo Stato ha perso tanta potenza per mettersi con tanta forza al servizio della potenza economica. (Deleuze e Guattari 1972, 300)

Quali sono le grandi forme del potere e del connesso sapere nella storia dell’Occidente? Per rispondere a questa domanda, abbiamo ricostruito l’analisi di Foucault (schematizzata nella tavola 9). Per tutto il Medioevo e primo Rinascimento, in corrispondenza di una struttura feudale della società, abbiamo una società della legge il cui sapere è fornito dai giuristi e che possiamo chiamare stato di giustizia; successivamente, dopo il Rinascimento, in corrispondenza di una struttura statuale, abbiamo una società delle regolamentazioni e delle discipline, il cui sapere è fornito dalle dottrine politiche (la ‘setta’ dei politici) e che possiamo chiamare stato amministrativo; infine, a partire dalla seconda metà del ‘700, in corrispondenza della centralità della popolazione e della sua vita coi suoi attributi, abbiamo una società dei dispositivi di sicurezza, il cui sapere è fornito dall’economia politica (la ‘setta’ degli economisti) e che possiamo chiamare stato di governo o governamentale. Quali sono le caratteristiche distintive di queste tipologie di potere-sapere? Per la prima epoca è la Legge naturale, ossia il

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buon governo inscritto nell’ordine divino del mondo (cornice cosmo-teologica). Per la seconda epoca, è l’artificialità del governo e della ragion di Stato (invece che la ‘legge naturale’), ossia scienza politica del governo mediante ‘polizia’. Infine, per la terza epoca esse sono i) la “naturalità” sia 1) della società vista come società civile, che 2) della popolazione; ii) scienza che ‘governa’; iii) gestione invece che regolamentazione; iv) causalità bidirezionale fra sicurezza e libertà; v) economia politica invece che ‘polizia’. Quando si forma la “setta dei politici”? Per politici si intendono persone (e per politica una pratica e una dottrina, come anche una professione o una vocazione) che hanno in comune l’obiettivo di comprendere ciò che un governo deve fare e su quale forma di razionalità può poggiare, politici che appaiono per la prima volta nel XVI e XVII secolo in Occidente. La lontananza dai temi dei fondamenti trascendenti della sovranità e l’indifferenza ai temi della moralità, della giustizia e dei fini nella politica per valorizzare invece gli aspetti pragmatico-gestionali e il solo fine dell’autoconservazione del potere, li fa ritenere inizialmente, almeno nella polemica degli anti-politici e anti-machiavelliani, in odore di ‘eresia’. Foucault prende, come esempio dell’avvenuto mutamento nella considerazione dei politici e della politica, l’opinione avanzata dal vescovo Bossuet quando parla di “politica tratta dalla Sacra Scrittura”, poiché ciò indica che la politica non è certo più un’eresia, anzi si è riconciliata con la pastorale religiosa, e, ancor di più, indica che il gallicanesimo103 è giustificato, il che vale a dire che è giustificato il fatto che la ragion di Stato può opporsi anche alla Chiesa. Ricordiamo qui che, invece, Bossuet sarà preso ad esempio da Voegelin proprio come difensore dell’ordine tradizionale in opposizione al “rivoluzionario” Voltaire, come racconteremo

103 Per gallicanesimo si intende, in sintesi, lo sviluppo di dottrine e atteggiamenti politici manifestatosi in Francia soprattutto nel XIV e XVII secolo, intese ad accrescere l’autonomia della Chiesa francese e della monarchia nei confronti dell’autorità pontificia, con gli effetti sia pratici in termini di un controllo della monarchia sulle nomine e sulle decisioni dei vescovi, sia dottrinali in termini di una superiorità dell’autorità dei vescovi riuniti in concilio rispetto a quella del papa (Bossuet, per esempio, si occupò della redazione dei quattro articoli gallicani del 1682 sottoscritti dai vescovi di Francia, in cui si affermava l’autorità del sinodo dei vescovi).

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nel capitolo 2. Nel ‘700 la ragione governativa si trasforma fino a formare una nuova governamentalità. La causa di questa trasformazione è l’apparizione della setta degli economisti e la nuova governamentalità è, in pratica, l’economia. Mentre i giuristi erano stati la spina dorsale della sovranità attraverso il diritto come la setta dei politici quella della ragion di Stato in barba al diritto, la setta degli economisti monta una critica dello stato di polizia non solo in termini di limitazione di un potere crescente del re (cosa invisa anche a qualche giurista), ma soprattutto di proposta di una nuova arte del governo che è poi l’economia stessa. Foucault, con una mirabile sintesi, mette a confronto le due grandi famiglie ‒ separate da almeno un secolo ‒ dei politici e degli economisti, derivandone non una parziale contiguità ma una radicale dicotomia. La setta dei politici, all’inizio del ‘600, aveva definito una nuova razionalità e una corrispondente nuova arte di governo: veniva abbandonata la visione cosmo-teologica alla base dell’arte di governo fino al Rinascimento, la governamentalità pastorale, insieme alla coppia sovrana Impero-Chiesa, e, invece, venivano cercati e definiti i principi e le forme di calcolo razionali dell’arte di governo all’interno del governo medesimo dello Stato. Lo Stato diveniva il centro di un nuovo cosmo immanente, indefinito nel tempo, collocato al posto del sovrano e del diritto che era, invece, inserito nel grande quadro cosmo-teologico del pensiero medievale e rinascimentale. Nel ‘700 appare una nuova setta, che, a sua volta, abbandona la visione della ragion di Stato e del connesso stato di polizia, per costruire una nuova arte del governo, il cui centro è l’economia e la cui teologia è quella del calcolo economico e del capitalismo. La ragion di Stato concepisce lo Stato come il principio, trascendente e sintetico, della trasformazione della felicità di ciascuno nella felicità di tutti. Per gli economisti lo Stato deve intervenire solo per regolare l’interesse di ciascuno in modo tale da poter effettivamente servire l’interesse di tutti. Si passa dalla competizione fra Stati tipica della bilancia europea e del mercantilismo, alla competizione fra privati. Il gioco di concorrenza che deve essere lasciato libero di svilupparsi non è più quello tra stati, bensì quella tra «privati», che permetterà alla collettività di ricavare dei benefici. Adesso

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non si tratta più di vendere tutta la merce possibile […] per importare la maggior quantità di oro, poiché nelle nuove tecniche di governamentalità concepite dagli economisti si tratta di integrare i paesi stranieri in meccanismi di regolazione che opereranno all’interno di ogni paese […] Il bene di tutti sarà assicurato dal comportamento di ognuno dal momento in cui lo stato, il governo, sapranno lasciar giocare i meccanismi dell’interesse privato, che finiranno così per servire a tutti grazie a un fenomeno di accumulazione e di regolazione (Foucault 2017, 251).

Sebbene inizialmente ancora formalmente compresa nell’ambito della ragion di Stato, la ragione economica la trasforma radicalmente nei contenuti; trasformazione che condurrà infine allo Stato contemporaneo, tendenzialmente depoliticizzato, desovranizzato e limitato da organismi sovra-statuali costituiti economicamente. Così Foucault sintetizza il grande passaggio epocale nella governamentalità a partire dal XVIII secolo: Con gli economisti nasce una nuova governamentalità, più di un secolo dopo la comparsa dell’altra governamentalità che risale al XVII secolo. La governamentalità dei politici ci dà la polizia, mentre la governamentalità degli economisti ci introduce in alcune linee direttrici fondamentali della governamentalità moderna e contemporanea (Foucault 2017, 253).

La setta degli economisti si caratterizza, secondo Foucault, per quattro tesi principali. Con la prima tesi, in opposizione ai mercantilisti ‒ che volevano una politica di abbondanza di grano a prezzo basso, perché il grano a buon mercato consente di pagare i salari più bassi possibili, e quindi il costo e il prezzo dei beni da vendere all’estero sarà altrettanto basso per importare il massimo possibile di oro ‒, gli economisti dicono che per evitare la scarsità, vale a dire se si vuole un’abbondanza di grano, prima di tutto, il grano deve essere ben pagato e allora bisogna concentrarsi sulla produzione e sui profitti in agricoltura (guardare alla produzione agricola piuttosto che alla sua commercializzazione, puntare alla centralità della campagna agricola piuttosto che all’urbanizzazione). La seconda tesi suggerisce che, invece di una politica del grano tenuto per legge a basso prezzo per tenere bassi i salari dei lavoratori, si dovrebbe lasciare fissare il prezzo dal gioco dell’offerta e della domanda sul mercato, senza temere che esso diventi troppo alto perché si bilancerà verso il prezzo

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giusto da solo. Il motivo di ciò sta nella seguente logica economica: se il prezzo del grano è sufficientemente alto, gli agricoltori non esiteranno a seminare il più possibile proprio perché con il prezzo alto sono attesi anche profitti elevati, quindi ci saranno raccolti abbondanti, cosa che chiaramente ridurrà la tentazione di accumulare grano in attesa di futuri periodi di scarsità, così che tutto il grano sarà immesso sul mercato; d’altro canto, se il prezzo è alto, in condizioni di completa libertà di commercio internazionale, gli stranieri cercheranno ovviamente di inviare la maggior quantità possibile di grano per trarre profitto da questo buon prezzo, cosa che unita all’abbondanza di grano prodotta all’interno tenderà così a contenere e abbassare il prezzo; per questo, dicono gli economisti, il prezzo alto del grano non va temuto e impedito per legge, poiché più alto è il prezzo, più tenderà a ridursi e poi stabilizzarsi al “giusto” livello. Poiché il grano è caro quando è scarso, la police pensa di prevenire la carenza di grano con regolamenti che ne fissano il prezzo ad un livello basso. Ma se così fanno, insegnano gli economisti, le persone non vorranno né produrre né vendere il loro grano, preferendo metterlo a scorta, invece che immetterlo sul mercato, in attesa di prezzi futuri migliori, e, quindi, più si cerca di abbassare il prezzo, peggiore sarà la scarsità e più i prezzi tenderanno ad aumentare: vale a dire, la polizia ottiene un risultato esattamente opposto a quello desiderato. Il corso delle cose, per gli economisti, è dettato da leggi naturali (come sono ritenute quelle economiche) e le leggi umane, se non si adeguano ad esse e le facilitano, non solo sono inutili ma dannose. Con la terza tesi, gli economisti pensano che, al contrario del sistema di polizia ‒ dove la popolazione deve essere il più abbondante possibile (e la regolamentazione deve assicurare che le persone si riproducano il più possibile, che tutti lavorino e siano docili) perché così si abbia un gran numero di lavoratori, che sono necessari, da un lato, per produrre il più possibile, dall’altro per evitare che i salari aumentino troppo e facciano così alzare i prezzi dei beni prodotti ‒ la popolazione intesa come massimo numero possibile di persone non sia un bene in sé, che la misura della popolazione sia solo un valore relativo e che ci sia, invece, un numero ottimale di persone che si regolerà automaticamente da solo in funzione delle risorse economiche del territorio. Infine,

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con la quarta tesi, gli economisti propongono che, al contrario del sistema di polizia, che regolamentava per avere la maggior quantità possibile di merci esportate in altri paesi, in modo da ottenere l’arrivo della maggior quantità possibile di oro nel paese, sia lasciato libero lo scambio di merci fra paesi; per esempio, come già detto sopra, se i prezzi del grano sono lasciati liberi e libero è lasciato il commercio fra paesi, quando il prezzo all’estero sarà alto il paese esporterà il grano interno e quando il prezzo interno sarà alto gli altri paesi invieranno il loro grano, ma in questo caso la concorrenza sarà fra liberi privati anziché fra Stati inseriti nel quadro della bilancia europea. La setta degli economisti, con le sue quattro tesi principali, eredita la ragion di Stato, sottoponendola però ad alcune radicali modificazioni, dalle quali si delinea la governamentalità contemporanea. Le modificazioni sono almeno cinque. La prima è la riapparizione della «naturalità». Ma non si tratta dei processi della natura del mondo, bensì dei processi oggetto dell’attenzione della police, vale a dire quella naturalità che è specifica ai rapporti di convivenza tra gli uomini, la «naturalità della società». Questa naturalità sta in opposizione prima di tutto concettuale con l’artificialità della governamentalità della polizia e della ragion di Stato, che aveva, a sua volta, rotto con la naturalità della vecchia cosmo-teologia che imperniava il sistema politico medievale su sovrano e suddito. Ma anche la naturalità degli economisti non si riferisce, almeno apparentemente, all’ordine naturale della vecchia visione cosmo-teologica, ma è peculiare ad un nuovo processo del tutto umano. È la società che viene, per la prima volta, intesa come natura, cioè come campo specifico di naturalità propria dell’uomo, con ciò facendo, a sua volta, apparire quella sorta di «interfaccia dello stato» chiamato «società civile», che viene appunto definita come «ciò che il pensiero governativo, la nuova forma di governamentalità nata nel diciottesimo secolo, rivela come il correlato necessario dello stato» (Foucault 2017, 254). Questo trasforma completamente l’oggetto dello Stato e la sua modalità di azione: lo Stato deve occuparsi di «una società, una società civile, ed è la gestione di questa società civile che è chiamato ad assicurare» (Foucault 2017, 254). La seconda modificazione riguarda il nuovo concetto di naturalità della società, il quale implica anche una nuova «conoscen-

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za», analoga nel metodo a quella della conoscenza scientifica, ed è proprio questa razionalità scientifica che viene rivendicata dagli economisti, una conoscenza che è tanto necessaria per il governo, quanto è necessario che non venga ricavata internamente alla pratica di governo stessa, ma sia esterna, sia verità di per sé, ed essendo verità deve imporsi al governo. Questa conoscenza è l’economia politica. L’affermazione della razionalità scientifica ‒ ovvero che le conoscenze coinvolte nell’arte di governo devono essere metodologicamente scientifiche, cosa ovviamente sconosciuta ai mercantilisti ‒ significa che i calcoli di forze e di diplomazie della ragion di Stato del ‘600 non possono che essere infondati e fallimentari, come ne è esempio il governo che controlla il commercio del grano e ne fissa il prezzo massimo: agisce alla cieca, contro il suo interesse, in totale confusione e assenza di basi scientifiche. Assistiamo quindi al sorgere di «un particolare tipo di rapporto tra potere e sapere, tra governo e scienza». L’economia politica è una «scienza che gareggia quasi da pari a pari con l’arte di governo, una scienza esterna che si può perfettamente fondare, stabilire, sviluppare, provare da cima a fondo anche se non si è governanti, anche se non si partecipa all’arte di governo» (Foucault 2017, 255). Questa economia politica si caratterizza sempre più per la duplicità delle sue rivendicazioni: da un lato, rivendica la purezza teorica scientifica, e dall’altro lato, rivendica di essere presa in considerazione da un governo che deve modellare le sue decisioni su di essa. La terza modificazione concerne il problema della popolazione, che adesso compare in una nuova forma, quella di una «naturalità intrinseca della popolazione», che finora era stata considerata soprattutto in termini di numero da incrementare. La popolazione invece rivela dei meccanismi interni di interazione fra individui e forme di auto-regolazione spontanea che la rendono molto più complessa rispetto a quanto era stato ritenuto fino ad allora, e che limitano la possibilità che essa risponda direttamente ai comandi e alle intenzioni dello Stato. Tutto ciò finirà per determinare un nuovo compito dello Stato ‒ cioè, «la presa in carico della popolazione nella sua stessa naturalità» ‒ ed implicare nuove pratiche d’intervento del medesimo, per esempio la medicina sociale, o igiene pubblica, e la demografia, il che significa anche che la popolazione non è più intesa come un insieme di sudditi, ma come un «insieme di fenomeni naturali». Ma

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se la popolazione è un insieme di fenomeni naturali, allora viene meno lo scopo di regolamentarla sotto forma di comandi o divieti, piuttosto d’ora in poi, «bisognerà manipolare, suscitare, facilitare, lasciar fare, in altre parole gestire e non più regolamentare», e tutto questo non per impedire i processi naturali, ma, piuttosto, per far sì che essi siano rispettati e lasciati liberi di operare, anche giocando gli uni con gli altri. Se l’intervento dello Stato deve essere limitato solo allo stretto necessario affinché il gioco possa avvenire ‒ in generale i fenomeni naturali della popolazione e dei processi economici devono essere lasciati liberi di agire e di giocare tra di loro ‒, allora bisognerà conoscere “scientificamente” questi processi per far sì che essi non vengano deviati dalla giusta rotta da interventi politici ignoranti della scienza. Vale a dire, sarà necessario istituire meccanismi di sicurezza per rispettare l’obiettivo fondamentale della governamentalità, intesa adesso come quell’intervento dello Stato avente la funzione essenziale «di garantire la sicurezza dei fenomeni naturali dei processi economici o processi intrinseci alla popolazione» (Foucault 2017, 257). Infine, il quarto elemento della razionalità di Stato che gli economisti modificano riguarda la nozione di libertà, la quale acquista un nuovo significato in correlazione con i dispositivi di sicurezza che caratterizzano la nuova governamentalità: essa non è più solo un diritto legittimo opposto ad un abuso, ma è a sua volta un elemento di un processo naturale. Se con la nuova governamentalità «bisognerà mettere a punto dei sistemi di sicurezza», allora «d’ora in poi è possibile governare bene solo a condizione di rispettare la libertà o un certo numero di forme di libertà» (Foucault 2017, 257). La polizia perde, quindi, le plurime connotazioni fornitegli dalla dottrina della ragion di Stato, per mantenerne una soltanto, quella che mantiene ancor oggi: garantire la prevenzione o la repressione di disordini, irregolarità, illegalità e delinquenza, o meglio, per dirla con gli odierni economisti neo-liberali discussi nel par. 1.8, garantire un tasso ottimale di questi crimini. In conclusione, lasciamo parlare ancora Foucault (2017, 258259): «Società, economia, popolazione, sicurezza, libertà: sono questi gli elementi della nuova governamentalità di cui ancora adesso conosciamo le forme delle sue modificazioni contemporanee».

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Tav. 9 - I ‘saperi’ del governo degli uomini nell’evoluzione storica. Aspetto diacronico

Tipo di sapere

Tipo di ‘sapiente’

Caratteristiche dei ‘saperi’

Tipo di Stato

Medioevo e primo Rinascimento (fino al 1600)

Il diritto

I giuristi

Legge naturale; buon governo inscritto nell’ordine divino del mondo (cornice cosmo-teologica)

Stato di giustizia

1600-1750 ca.

La scienza politica

La ‘setta’ dei politici

> 1750 ca.

La scienza economica

La ‘setta’ degli economisti

Artificialità del goStato verno e della ragion amministradi Stato (invece che tivo la ‘legge naturale’); scienza politica del governo mediante ‘polizia’ Naturalità i) della società vista come società civile, e ii) della popolazione; scienza che ‘governa’; gestione invece che regolamentazione; causalità bidirezionale fra sicurezza e libertà; economia politica invece che ‘polizia’

Stato di governo

1.14. La popolazione e il governo è la vita, molto piú del diritto, che è diventata la posta in gioco delle lotte politiche. (Foucault 1978, 128) A lungo termine, il valore di uno Stato è il valore degli individui che lo compongono. (Stuart Mill 2009, 155)

La popolazione rappresenta per Foucault il nuovo personaggio politico che appare nel ‘700. Fino ad allora, il termine popolazione era diviso fra un’accezione negativa (come ripopolazione dopo una catastrofe) oppure una positiva (come blasone del so-

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vrano – p.e. per la numerosità delle truppe ‒ in aggiunta al territorio e ai tesori). Tuttavia già nel ‘600, mercantilisti e cameralisti introducono un nuovo modo di pensare il governo, di pensarlo anche attraverso la dimensione economica. Quindi, mercantilismo e cameralismo non si dovrebbero vedere come dottrine economiche, ma come sistemi di governo in cui economia e popolazione sono elementi fondamentali. In particolare, viene ad essere fondamentale la popolazione, e ciò accade per i motivi ben noti connessi alla visione delle politiche mercantiliste. Infatti, la popolazione i) fornisce manodopera per l’agricoltura e siccome ci saranno molti coltivatori ed estese terre coltivate, essa garantisce raccolti abbondanti, e di conseguenza un prezzo basso del grano e delle derrate agricole; ii) fornisce anche manodopera per la produzione manifatturiera, vale a dire, per quanto è possibile, permette di fare a meno delle importazioni e di tutto ciò per cui si deve pagare l’estero con oro o argento; iii) garantisce la concorrenza nella forza lavoro all’interno dello Stato, il che significa bassi salari, che a loro volta significano prezzi bassi dei prodotti e migliori possibilità di esportazione, e quindi una nuova fonte di ricchezza dello Stato. Ma è importante, per ottenere gli effetti positivi sopra descritti, la disciplina da esercitare sulla popolazione e sull’economia; rispetto alla popolazione, si regola strettamente la prevenzione dell’emigrazione, l’incentivo all’immigrazione e la promozione della natalità; rispetto all’economia, l’apparato regolativo definisce anche i prodotti utili ed esportabili, fissa gli oggetti da produrre, i mezzi della loro produzione, nonché il salario, e impedisce l’ozio e il vagabondaggio. Il trattamento della popolazione come pura forza produttiva richiede necessariamente anche un inquadramento disciplinare della medesima che la formi, la suddivida, la distribuisca, la organizzi e la strutturi. Per Foucault, su questi aspetti regolativi avviene una significativa rottura con l’emersione della setta degli economisti. L’idea mercantilista, cameralista (e colbertiana) collocava il problema della popolazione – di cui si osservava la duplice natura di soggetto creatore di ricchezza e di oggetto da disciplinare ‒ all’interno del rapporto gerarchico fra la volontà del sovrano

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e l’obbedienza della volontà assoggettata del popolo: cioè in relazione a sudditi di diritto, soggetti alla legge e all’inquadramento disciplinare, ovvero, in generale, soggetti alla volontà del sovrano. Invece, l’idea che della popolazione hanno i fisiocratici e, più in generale, gli economisti del diciottesimo secolo, non è più quella di un insieme di sudditi di diritto obbedienti alla volontà del sovrano espressa per mezzo di regolamenti, leggi, editti e così via. Piuttosto essi considerano la popolazione come un processo (o un insieme di processi) “naturale” e, a partire dalla accettazione e dalla conoscenza di questa ineliminabile “naturalità”, la considerano inoltre un oggetto di intervento e di gestione. Quindi, il dilemma non è più quello secondo cui per la potenza dello Stato sarebbe meglio avere una popolazione più o meno numerosa, ma quello secondo il quale la popolazione sia ritenuta una collezione di sudditi chiamati ad obbedire oppure, invece, un oggetto biologico naturale da studiare “razionalmente” e altrettanto “razionalmente” da gestire tecnicamente al fine del potere. Con gli economisti, che ovviamente scelgono il secondo corno del dilemma, la popolazione diviene un oggetto tecnico-politico, caratterizzato da una processualità “naturale”, su cui esercitare la gestione e il governo. Quindi, lo statuto epistemologico della popolazione sembra cambiare con i fisiocratici. Innanzitutto, essi realizzano che la popolazione non è i) la semplice somma di individui che abitano un territorio, ii) solo il risultato della loro volontà di riprodursi, iii) l’oggetto di una volontà sovrana che può incentivarla o modellarla a suo piacere, iv) un “dato primario”, una variabile indipendente (o dipendente solo dal sovrano). Piuttosto, la popolazione è dipendente da un insieme eterogeneo di variabili. La si può conoscere nella sua vera natura solo se si ha conoscenza di ciò che la individua in minore o maggiore grado, come i) il clima, ii) l’ambiente materiale, iii) l’intensità del commercio e dell’attività nella circolazione della ricchezza, iv) le leggi che regolano la successione dei beni, v) le leggi fiscali o matrimoniali, vi) le usanze delle persone, come, per esempio, il modo in cui alle figlie viene data una dote, o il modo in cui è garantito il diritto di primogenitura, e anche con il modo in cui

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vengono allevati i figli, e se sono o non sono affidati a badanti, vii) i valori morali o religiosi associati ai diversi tipi di condotta, ad esempio il valore etico-religioso del celibato dei preti e dei monaci, viii) soprattutto, la condizione dei mezzi di sussistenza che naturalmente fanno variare la popolazione104. Quindi, per arrivare ad influenzare la popolazione ci saranno molteplici registri di differente importanza, ma una cosa certa è che essa non si può cambiare per decreto, perché è costituita da processi “naturali”: Dal momento che è un dato dipendente da numerose variabili, la popolazione non può essere trasparente all’azione del sovrano …. le variabili da cui essa dipende la sottraggono in gran parte all’azione volontaristica e diretta del sovrano nella forma della legge. Se si intima a una popolazione “fai questo”, nulla prova che lo farà, e nemmeno che lo possa fare (Foucault 2017, 62).

Tuttavia gli economisti pensano che questa “naturalità” sia “penetrabile” dalla razionalità economica e quindi trasformabile: la naturalità della popolazione la rende continuamente accessibile ad agenti e tecniche di trasformazione, a condizione che questi siano illuminati, ragionati, guidati dall’analisi e dal calcolo (Foucault 2017, 62).

Ma in aggiunta agli elementi sopra detti (dal clima ai costumi alla religione alla sussistenza etc.), a dimostrare il carattere “naturale” della popolazione vi sarebbero altri due elementi importanti: i) il desiderio degli uomini; ii) la costanza dei fenomeni. Rispetto al desiderio, l’osservazione chiave è che la popolazione è composta da individui la cui azione è mossa esclusivamente da desideri (nozione già nota nell’ambito della direzione di coscienza di tipo pastorale e adesso rivisitata in una nuova chiave, ma sempre all’interno delle tecniche di potere e di governo), i quali hanno due caratteristiche: 1) sono in gran parte incomprimibili; 2) ma molti di essi, seppur impossibilitati ad essere mutati, possono produrre, se abbandonati

104 Foucault cita in proposito il famoso aforisma di Mirabeau padre (17151789) secondo cui la popolazione non può in nessuna circostanza superare i limiti fissati dalla quantità di mezzi di sussistenza.

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al loro stesso gioco, un effetto “globale” quale “l’interesse generale della popolazione”. Se, tradizionalmente, il sovrano aveva il potere di dire ‘no’ ai desideri, potere che, come noto, era soggetto sia a critiche di legittimità, sia a problemi di corretta misura, adesso con gli economisti sparisce quel potere, che si trasforma invece in un nuovo compito del sovrano: come agire politicamente per dire, invece, sì ai desideri e far produrre attraverso di loro il benessere sociale, secondo la filosofia utilitarista105. Rispetto alla costanza dei fenomeni, essa è la scoperta che tutti i fenomeni che appaiono casuali, individuali, instabili e congiunturali possono invece essere considerati come serie di eventi che si ripetono con regolarità: per esempio la natalità, la mortalità, le malattie, i suicidi, il sesso alla nascita, e gli incidenti, sono analizzabili, organizzabili in statistiche, raggruppabili in base a determinati parametri, e quindi, infine, suscettibili di una qualche prevedibilità. Se prima i sudditi di diritto che popolavano un territorio erano ‘individualizzati’ e ‘differenziati’ in termini di status, localizzazione, beni, cariche, responsabilità e uffici, adesso con il concetto di popolazione abbiamo, da un lato, un insieme di esseri viventi immersi nella biologia e nella natura, insomma pure vite ‒ ciò accade quando si passa dal “genere” alla “specie” umana, in linea con il dominio del pensiero biologico ‒, e, dall’altro, questo insieme di individui che costituisce la popolazione manifesta visibilmente opinioni, modi di fare, attività, abitudini, comportamenti, mentalità, timori, pregiudizi ed esigenze che possono prestarsi «all’opera dell’educazione, delle campagne di convincimento, ecc.», e in questo senso la popolazione non è più solo biologia ma forma quello che può chiamarsi un “pubblico”. In altri termini, la popolazione ammette due registri complementari: la “specie umana” e il “pubblico”. Quindi, si può dire che fra gli estremi dell’essere pura processualità biologica e dell’essere un pubblico, si situa l’oggetto della

105 Sarebbe interessante seguire la correlazione fra teorie filosofiche e pratiche governamentali solo accennata da Foucault (2017, 64), per cui gli Ideologues capitanati da Condillac, ovvero il sensismo, rappresentavano la cornice teorica con cui poteva essere sostenuto il governo disciplinare, e la filosofia utilitaristica era lo strumento teorico su cui si fondava il governo delle popolazioni.

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popolazione106, da intendere come insieme di campi reali in cui si possono e si devono agganciare le prese del potere. Foucault osserva che nell’approfondire il tema della popolazione, veniva ad essere interessato sempre meno il tema del sovrano e sempre di più quello del governo. Ciò lo porta ad affermare una identificazione fra forma politica moderna e popolazione: «il fatto che il governo sia in definitiva molto più della sovranità, molto più del regno, molto più dell’imperium, mostra che il problema politico moderno è interamente legato alla popolazione» Foucault (2017, 66). E al nuovo concetto di popolazione, come specie animale e come insieme composto dalle nude vite biologiche dei singoli individui, si deve far risalire non solo la nuova forma di governo delle vite ma anche la possibilità di equiparare tutti gli individui; senza di ciò, senza aver tolto all’uomo la sua natura spirituale, forse non sarebbe stata possibile né l’egalité né la proclamazione dei diritti universali dell’uomo. È a partire da questa tecnica di potere individuata da Foucault – la popolazione come invenzione di un soggetto da parte del potere che la confeziona come oggetto di un esercizio nuovo ed efficace del proprio potere – mediante la quale viene configurato l’uomo come nuda vita biologica, ovvero come elemento indifferenziato e indistinguibile di una specie animale, che potrà uscire dalla Rivoluzione Francese il concetto di eguaglianza formale degli uomini e poi dagli ottocenteschi stati liberali la sua codificazione giuridica (non ultimo la nota frase “tutti sono uguali davanti alla legge”). È, quindi, a giudizio di chi scrive, questa tecnica di potere – la costituzione della popolazione come “specie” ‒ e non tanto, o non solo, l’implicazione universalista della salvezza umana cristiana né l’implicazione della “globalizzazione” della filosofia stoica e neo-stoica (né, più in generale, l’implicazione di proclamati diritti “naturali” dell’uomo originario) che avrebbe permesso che l’eguaglianza formale di tutti gli uomini divenisse un indiscutibile luogo comune. Quindi non istanze “rivoluzionarie”, sia religiose ‒ come fu a suo tempo, nel 106 «La popolazione è pertanto quell’insieme che si estende dal radicamento biologico della specie fino alla superficie di presa offerta dal pubblico» (Foucault 2017, 66).

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ribaltare la visione classica, il cristianesimo ‒ che politiche come la rivoluzione francese, quindi non lotte e vittorie di contro-poteri, ma è il potere stesso nel momento della sua espansione statale in chiave borghese e capitalistica che eguaglia tutti gli uomini come mezzo e non come fine. Tuttavia, si presenta la domanda su chi sia e come abbia agito quell’agente di trasformazione che operando su saperi e poteri ha condotto alla definizione di nuovi concetti e oggetti del sapere/ potere. Per Foucault non sarebbe corretto «sostenere che le classi dirigenti, comprendendo l’importanza della popolazione, hanno indirizzato su questa pista» gli studiosi che ancora non l’avevano pensata, ma piuttosto sarebbe stato «un gioco incessante tra le tecniche di potere e il loro oggetto ad aver gradualmente ritagliato nel reale, in quanto campo di realtà, la popolazione e i suoi fenomeni specifici» (Foucault 2017, 68). Ci permettiamo di aggiungere, tuttavia, che piuttosto che il gioco incessante fra poteri ed oggetti di potere che partorisce spontaneamente e non intenzionalmente un tipo di governamentalità quale la popolazione, nel pensiero foucaultiano è già insito il nesso che collega l’emergere o il mutare di una tecnologia di potere all’azione più o meno endogena di un contro-potere (o contro-condotta), dove le strategie di potere e contropotere sono intenzionali ed organizzate. Infatti la politica è concepita da Foucault in termini, o dal punto di vista, delle forme di resistenza al potere, di resistenza e lotta alla “governamentalità”: gli esiti della politica emergono dagli esiti del fronteggiarsi primario fra condotta e contro-condotta (vedi cap. 2). Non vi è quindi alcun motivo per ritenere che, per esempio, la nuova consapevolezza della popolazione emerga spontaneamente da quel gioco incessante sopra detto e non invece da consapevoli strategie politiche condotte da classi dirigenti ‒ e da gruppi contro-dirigenti ‒ attraverso i loro strumenti organizzativi, talvolta più o meno segreti e violenti: basta pensare al sapere/ potere implicato nell’azione di organizzazioni come i Gesuiti e la Massoneria nel cruciale gioco della modernità. La popolazione dal punto di vista epistemologico – e anche da quello dello sviluppo storico – viene a sostituire l’uomo classico o quello rinascimentale dell’umanesimo; l’uomo diventa solo una “figura della popolazione”. Con la popolazione, la politica e

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il potere entrano nella vita e nella natura. La biopolitica107 (vedi anche par. 4.3, 4.6) appare del tutto altra, non integrabile e non sussumibile, alla «declinazione fisico cosmologica, all’accezione giuridica dello Stato e del diritto di natura e all’artificialità della ragion di Stato e della polizia», e viene a definire «un ambito fenomenico determinato da eventi e processi autonomi e autoconsistenti e, a un tempo, passibili di trasformazione; di incitamento e regolazione; di facilitazioni e di gestione» (Pandolfi 2006, 109110). Se la popolazione vista come una collezione di soggetti è sostituita dalla popolazione come un insieme di fenomeni naturali, che cosa implica per il “governo” sapere che i processi della popolazione e quelli economici sono processi “naturali”? In primis, implica che sistemi regolatori basati su leggi, ingiunzioni, imperativi e interdizioni su questi processi non potrebbero essere allora più giustificati sul piano teorico, ma soprattutto che non ci sarebbe, sul piano pragmatico, alcun interesse o guadagno nell’imporli: Il ruolo dello stato, e la forma di governamentalità che gli sarà prescritta d’ora in poi dovranno rispettare, come principio fondamentale, i processi naturali […] Bisognerà inquadrare i fenomeni naturali in maniera tale che non vengano deviati o che un intervento inappropriato, arbitrario, cieco li faccia deviare (Foucault 2017, 257).

107 La biopolitica riguarda la forma di esercizio del potere che, secondo Foucault, a partire dal XVIII secolo, si focalizza sulle condizioni di vita degli esseri umani (salute, alimentazione, variazioni demografiche, ambiente) e che il positivismo aveva già preso in considerazione (la biocrazia di Comte come il darwinismo sociale di Spencer). L’intervento del potere sulla vita ‒ che viene garantita, condizionata, resa accessibile, disponibile, modificabile ‒ punta ad assicurare il miglior funzionamento della moderna produzione capitalistica. Scrive infatti Foucault rispetto al ruolo giocato dal potere biopolitico nello sviluppo del capitalismo: «Questo biopotere è stato, senza dubbio, uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo; questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici […] l’adeguarsi dell’accumulazione degli uomini a quella del capitale, l’articolazione della crescita dei gruppi umani con l’espansione delle forze produttive e la ripartizione differenziale del profitto, sono stati resi possibili in parte dall’esercizio del bio-potere, nelle sue forme e con i suoi procedimenti svariati» (Foucault 1978, 124-125).

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In secundis, non solo l’intervento del governo statale dovrà così essere limitato, ma anche nel campo così delimitato gli interventi che siano possibili e necessari non debbono, come principio generale, assumere affatto la forma di regole e regolamenti. Al contrario, sarà necessario «manipolare, suscitare, facilitare e, lasciar fare, in altre parole gestire e non più regolamentare. Questa gestione avrà essenzialmente per obiettivo […] le regolazioni naturali […] far sì che le regolazioni necessarie e naturali giochino fra loro» (Foucault 2017, 257). Quindi, gestire, intervenendo anche pesantemente, ma solo per far sì che possano esplicarsi liberamente le “verità” della vita e del mercato. Il sapere biopolitico produce sulla biologia e sulla natura effetti simili a quelli che, per esempio, il sapere della scienza politica sul ‘governo’ ha prodotto riguardo allo Stato: nasce una bio-storia analoga alla storia dello Stato. Ma il sapere bio-politico presenta una differenza rispetto ad altri saperi che pure sono stati determinanti per la modernità, come l’astronomia; esso trasforma il dato biologico-naturale: Mentre la dimostrazione scientifica che la terra è un pianeta del sistema solare “non ha influenzato in nulla la posizione della terra nel cosmo”, le pratiche discorsive e le tecnologie politiche che hanno determinato la nascita della popolazione sono state fondamentali nel far sì che i dati biologici che caratterizzano la specie umana entrassero in una pratica attiva, concertata e di riflessione, la quale, a sua volta, ha inciso sulla natura della popolazione e, più in generale, sulla vita stessa (Pandolfi 2006, 109).

In questo senso non ci appare garantita l’interpretazione foucaultiana, da altri punti di vista condivisibile, che la governamentalità contemporanea parta dall’assunzione della naturalità dei processi economici e della popolazione e intervenga ‒ magari persino pesantemente attraverso i meccanismi securitari ‒ solo allo scopo di salvaguardare sempre ‒ anche facendole giocare fra di loro ‒ le naturalità coi loro meccanismi endogeni di auto-regolazione. Vogliamo cioè suggerire che la bio-politica non può essere interpretata come salvaguardia delle libertà “naturali” ‒ cosa creduta anche da chi giustamente pensa che tale salvaguardia avvenga però al prezzo troppo alto della fabbricazione liberticida di una gabbia di ‘sicurezza’ ‒ in quanto essa implica una modi-

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ficazione della “natura”: infatti, la vita contemporanea, soggetto e oggetto della biopolitica, è divenuta fortemente “artificiale”, e sarebbe quindi un nonsenso asserire che il ‘governo’ deve partire dalla constatazione e dalla difesa di un processo “naturale”. Come già accennato, gli economisti, a partire dai fisiocratici, concettualizzano la popolazione in un modo completamente nuovo. Innanzitutto, 1) la popolazione non è un “bene” in sé; 2) la numerosità della popolazione non ha un valore assoluto, ma semplicemente un valore relativo; 3) c’è un numero ottimale di persone in un determinato territorio, in base alle risorse, al lavoro possibile e ai consumi necessari per sostenere i prezzi e l’economia in generale; 4) il numero di persone si adatterà automaticamente senza che sia necessario alcun intervento attraverso le normative. Quindi, se c’è un valore ottimale che dipende dall’economia e la popolazione si autoregola su basi “economiche”, ne consegue che non è un oggetto modificabile autoritariamente da parte del governo né è modificabile andando contro le leggi economiche. Che di questo siano già consapevoli i fisiocratici, lo dimostra una semplice frase di Quesnay: “Si vorrebbe aumentare la popolazione nelle campagne e non si sa che l’aumento della popolazione dipende anzitutto dall’aumento delle ricchezze” (Quesnay 1966, vol. I, 158). Se l’uomo è in questa visione biopolitica solo una figura della popolazione, tuttavia, secondo le scienze umane, l’uomo è sia pura vita biologica appartenente a una specie animale, sia un soggetto capace di darsi delle rappresentazioni di questa stessa vita ovvero di farsi consapevole di essere vivente. Questa visione della natura umana come oscillante fra il campo dell’animalità e quello della coscienza rappresentante ha il suo corrispettivo nella visione della popolazione come oscillante fra l’essere specie soggetta al generale regime biologico e l’essere visibile come soggetto storico-sociale ovvero l’essere “pubblico”. Non vi è dubbio che qui si confrontano anche concezione economica e visione antropologica. Foucault ha l’originalità di ridurre l’economia ad una derivazione di una antropologia negativa. Quindi, qui non si tratta di discutere della ben nota dicotomia nel concetto di valore che oppone chi lo situa nella domanda e nella soddisfazione dei

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bisogni (Condillac nel ‘700 e poi i marginalisti) e chi invece nel lavoro e nei costi di produzione (l’economia politica classica)108. La frattura individuata da Foucault si situa invece in un terreno che coinvolge il ruolo e la dinamica della nuova scoperta degli economisti, la popolazione, che stiamo qui trattando. La frattura nell’economia si manifesta nel passaggio dai fisiocratici a Ricardo (quindi dal secondo ‘700 al primo ‘800) e verte sulla differenza nel significato del concetto ‒ sempre centrale per il pensiero economico ‒ di rarità o scarsità. Per i fisiocratici la rarità aveva un significato relativo e non assoluto ed era rimediabile proprio grazie all’economia stessa: la rarità era definita in riferimento al bisogno: si ammetteva che la rarità si accentuasse o si spostasse a misura che i bisogni aumentavano o assumevano nuove forme; per coloro che hanno fame, rarità di grano; ma per i ricchi che frequentano il bel mondo, rarità di diamante. Gli economisti del XVIII secolo ‒ fisiocrati o no ‒ pensavano che la terra, o il lavoro della terra, permettesse di superare tale rarità almeno in parte: appunto perché la terra ha la meravigliosa proprietà di poter coprire bisogni assai più numerosi di quelli degli uomini che la coltivano […] vi è rarità perché gli uomini si rappresentano oggetti che non hanno; ma vi è ricchezza, perché la terra produce in una certa abbondanza oggetti che non vengono immediatamente consumati e possono pertanto rappresentarne altri negli scambi e nella circolazione (Foucault 1967, 277-278).

Ricardo invece mette al centro della sua costruzione un dato antropologico negativo: la carenza costitutiva dell’uomo, lo stato di scarsità originario ed endemico. In esso, la carenza non è in relazione alla quantità e al tipo di bisogni che la mente umana si rappresenta, bensì è costitutiva. E vi aggiunge, in relazione a tale

108 Naturalmente, rispetto a questa cruciale dicotomia del pensiero economico, Foucault esprime un commento in linea con l’analisi standard: infatti secondo lui, dopo Ricardo «il bisogno, il desiderio, si ritirano dalla parte della sfera soggettiva, in quella regione che, nello stesso periodo, sta diventando l’oggetto della psicologia. E qui, appunto, che nella seconda metà del XIX secolo, i marginalisti andranno a cercare la nozione d’utilità. Si crederà cosi che Condillac, o Graslín, o Fort-bonnais, fossero “già” degli “psicologisti” dal momento che analizzavano il valore a partire dal bisogno; e si crederà ugualmente che i fisiocrati siano stati i primi precursori d’un’economia che, dopo Ricardo, aveva analizzato il valore a partire dai costi di produzione» (Foucault 1967, 279).

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carenza, un’altrettanto negativa visione della terra, ovvero dell’economia: da un lato, il lavoro, l’economia, nascono solo quando l’uomo prende coscienza della sua carenza (è finito il tempo dei frutti che cadevano gratuitamente dall’albero) e deve quindi lavorare la terra spinto dalla minaccia di morte; dall’altro lato, la terra, anche se lavorata, non è affatto generosa bensì avara ed avara in modo crescente: Ricardo rovescia i termini di tali analisi: l’apparente generosità della terra è in realtà dovuta solo alla sua crescente avarizia; ciò che è primario, non è il bisogno e la rappresentazione del bisogno nella mente degli uomini, ma semplicemente proprio una carenza originaria. Infatti il lavoro ‒ cioè l’attività economica ‒ è comparso nella storia del mondo solo quando gli uomini sono stati troppo numerosi per potersi cibare dei frutti spontanei della terra […]. Ad ogni istante della sua storia, l’umanità non lavora ormai che sotto la minaccia della morte […] .In tal modo, ciò che rende l’economia possibile e necessaria, è un perpetuo e fondamentale stato di rarità: di fronte a una natura che per se stessa è inerte, e, tranne una piccolissima parte, sterile, l’uomo rischia la sua vita. Non è più nei giochi della rappresentazione che l’economia trova il proprio principio, ma in quella ragione rischiosa in cui la vita fronteggia la morte (Foucault 1967, 278).

La scarsità non riguarda più i mezzi con cui raggiungere dati fini, ovvero la definizione dell’economia come semplice calcolo strumentale, come dirà Robbins nel 1932. Ciò che conta qui, ciò che sta dietro alla scarsità di Ricardo, è la visione dell’uomo come essere finito e mortale. Qui l’homo oeconomicus non è l’applicatore, l’incarnazione, della mathesis con cui l’economia nasce, alla stregua di ogni altra scienza fisica nel ‘700, ma piuttosto un dannato che nell’economia logora la propria vita sempre con la morte imminente: L’homo oeconomicus, non è quello che si rappresenta i propri bisogni, e gli oggetti capaci di saziarli; è colui che passa, logora e perde la propria vita nello sfuggire all’imminenza della morte […] L’economia del XVIII secolo era collegata a una mathesis in quanto scienza generale di tutti gli ordini possibili; quella del XIX sarà rapportata a una antropologia intesa come discorso sulla finitudine naturale dell’uomo (Foucault 1967, 278-279).

Qui si manifesta il circuito che collega l’antropologia, da un lato, all’economia e, dall’altro lato, alla popolazione. La finitudine

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dell’uomo e la costante minaccia di morte che lo grava ‒ nozioni sufficientemente ambigue al punto che possiamo chiamarle antropologiche, dice, forse ironicamente, Foucault ‒ sono alla base sia della demografia umana che dell’economia e del lavoro: una specie umana, a proposito della quale Malthus, nello stesso periodo di Ricardo, mostrò che essa tende sempre a aumentare se non vi si porta rimedio o costrizione; l’economia si rapporta altresì alla situazione di quegli esseri viventi i quali rischiano di non trovare nella natura che li circonda di che garantire la propria esistenza; essa indica infine nel lavoro, e nella durezza stessa di tale lavoro, il solo mezzo di negare la carenza fondamentale e di trionfare per un istante sulla morte (Foucault 1967, 278).

Come noto, Malthus espone una legge ‘naturale’, la quale afferma che mentre la crescita della popolazione è geometrica, quella dei mezzi di sussistenza è solo aritmetica. Da tale legge ‘naturale’ della popolazione e dell’economia, ne discende una evidente implicazione politica, in quanto la diffusione della povertà e della miseria nel mondo sono, allora, da attribuire principalmente alla pressione demografica, cioè in sostanza alla legge esistente che collega popolazione e risorse naturali e non, invece, al vigente sistema dei rapporti di produzione, ovvero al sistema capitalistico. Malthus, partendo da Ricardo, ha quindi pensato la popolazione in termini di bio-economia. Per Foucault, la nota opposizione tra Malthus e Marx sarebbe la prova che nel diciannovesimo secolo il problema della popolazione è ancora realmente centrale in ogni pensiero politico ed economico. Dove si manifesta la contrapposizione fra Marx e Malthus ‒ entrambi simili nei presupposti ricardiani ‒ rispetto alla popolazione? Per Foucault, Marx sopprime la problematica biopolitica connessa col soggetto-oggetto della popolazione per ritrovare la stessa popolazione «sotto forma non più bio-economica, bensì storico-politica di classe, di confronto e lotta di classe» (Foucault 2017, 67). In questa decostruzione e rivisitazione marxiana della popolazione, Foucault intravede un’alternativa al sapere governamentale dell’economia politica, che è focalizzato sulla popolazione, e questa alternativa è la categoria di ‘classe’:

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Ecco l’alternativa: o la popolazione o la classe; qui avviene la frattura, sulla base di un pensiero dell’economia politica che era stato reso possibile proprio dalla comparsa del soggetto-popolazione (Foucault 2017, 67)109.

Marx, in effetti, sembra compiere una operazione genealogica quasi foucaultiana, decostruendo il concetto “universale” di popolazione per evidenziarne origini e costituenti multipli che in realtà sono i veri responsabili dell’effetto “globale” della demografia. Non solo non c’è niente di “naturale” nella definizione della popolazione, ma essa non sarà altro che ciò che farà di essa la componente della classe del proletariato, la quale, a sua volta, dipenderà da ciò che il lavoro, il capitale, il salario, il profitto, insomma l’accumulazione, faranno, e così via110: La popolazione è un’astrazione, se ad esempio non tengo conto delle classi di cui si compone. Queste classi sono a loro volta una parola priva di significato, se non conosco gli elementi sui quali esse si fondano. Ad esempio il lavoro salariato, il capitale, ecc. (Marx 1976a, 24-25).

Marx, come noto, critica aspramente Malthus. Per Marx, la teoria malthusiana che diagnostica la «sovrappopolazione assoluta» e il pauperismo come frutto del crescente divario “naturale’’ tra il ritmo geometrico di crescita della popolazione e il ritmo aritmetico di crescita dei mezzi di sussistenza ‒ e che indica come solo rimedio la riduzione, tramite freni morali e costrizioni varie, della natalità ‒ è del tutto antiscientifica e mistificatrice: In differenti modi sociali di produzione esistono differenti leggi di aumento della popolazione e della sovrappopolazione; quest’ultima si identifica col pauperismo. Queste differenti leggi vanno semplicemen-

109 Annotiamo come Pandolfi, interpretando Foucault in questo senso, legga in un opportuno recupero dell’analisi marxiana della popolazione un’alternativa alla biopolitica contemporanea: «Sopprimendo la problematica biopolitica della popolazione, Marx fornisce un’alternativa che, se valgono le implicazioni articolate da Foucault, vale come alternativa alla stessa politica moderna» (Pandolfi 2006, 111). 110 «In regime di accumulazione capitalistica, tutti gli indicatori relativi agli andamenti demografici dipenderanno dall’aumento del proletariato in quanto vettore trainante e, a un tempo, principio e agente di destrutturazione della popolazione in quanto “effetto globale”» (Pandolfi 2006, 111).

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te ridotte ai differenti tipi di rapporto con le condizioni di produzione (Marx 1970, 268).

Invece, per Marx, il fenomeno della sovrappopolazione ha solo carattere «relativo» poiché è determinato dal regime capitalistico di produzione, come sua necessità intrinseca. Non può esistere una legge generale della popolazione, ma solo “leggi storiche” variabili, dipendenti dai rapporti di produzione vigenti in singole epoche e in singoli Paesi: L’eccedenza di manodopera è una legge della popolazione peculiare del modo di produzione capitalistico, come di fatto ogni modo di produzione storico particolare ha le proprie leggi della popolazione particolari, storicamente valide (Marx 1952, cap. 23, 82).

In particolare l’affondo verso Malthus è evidente quando Marx dice che Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia (Marx 1952, cap. 23, 82)111.

La sovrappopolazione malthusiana non solo dipende dall’accumulazione, ma risulterà funzionale alle strategie dell’accumula-

111 Come sintetizza Calderan Beltrâo (1973), Marx espone nel cap. 23 del Libro Primo del Capitale, ai paragrafi 3 e 4, la sua teoria della “sovrappopolazione relativa”. L’accumulazione capitalistica tenderebbe ad accrescere l’occupazione (e quindi la popolazione) se non si verificasse in pari tempo un cambiamento qualitativo nella composizione organica del capitale (che è definita dal rapporto tra il capitale costante e il capitale variabile ‒ la massa salariale ‒ all’interno del capitale totale) in termini di riduzione del capitale variabile, che è ciò che consente di occupare, e quindi di sfruttare, la manodopera. È quindi nell’eccesso di manodopera la valvola di sicurezza caratteristica del capitalismo industriale. Marx dimostra così che la sovrappopolazione non si crea a causa di una forza espansiva interna alla popolazione, ma solo in ordine al funzionamento del capitalismo industriale (“sovrappopolazione relativa”). Peraltro, Calderan Beltrâo osserva anche che invece Engels ‒ in una lettera a Kautsky del 1881, in cui richiamava quanto già aveva sostenuto circa quarant’anni prima ‒ si dimostrò possibilista nei confronti della teoria malthusiana, e non escluse l’ipotesi che il fenomeno della sovrappopolazione, e il conseguente problema di un controllo della natalità, potessero sorgere anche nella futura società comunista, che sicuramente però sarebbe stata in grado di pianificare efficacemente la natalità.

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zione che la costituisce. Man mano che la popolazione si sviluppa, i costi di produzione necessari per sfruttare risorse sempre più ridotte e scarsamente remunerative, aumentano proporzionalmente. Poco importa che, alla fine, Ricardo giunga ad ipotizzare uno stato stazionario in cui si stabilizzeranno contemporaneamente la crescita demografica, la disoccupazione, le rendite fondiarie e i profitti industriali. Ciò che conta, osserva Foucault, è che l’economia abbia trovato il proprio principio in «quell’ordine di considerazioni sufficientemente ambigue che possiamo chiamare antropologiche» (Foucault 1967, 278).

1.15. Foucault e il liberalismo economico i corpi celesti si comportano meglio dei corpi umani, ma è concepibile che ci avvicineremo a quest’ideale con l’estendersi della teoria economica del comportamento all’intero campo delle scienze sociali. (Stigler 1984, 313)

Senellart (1993) rivisita l’analisi di Foucault del potere ‘governamentale’ nell’età contemporanea (impregnato dalle idee neo-ordoliberali), ricordando come Foucault, nonostante avesse dichiarato nel 1976 che il lavoro critico doveva passare per uno storicismo radicale, rovesci invece la metodologia storicista, che parte dagli universali (p.e. stato, classe, follia, sesso, ecc.) per “passarli, in qualche modo, al setaccio della storia” ‒ cioè, in un approccio ancora ‘platonizzante’, mirante a particolarizzare gli universali ‒ introducendo un modo sperimentale, dove egli ‒ partendo dall’ipotesi della loro non-esistenza ‒ li rintraccia, semmai vi riesca, negli esempi pratici, nell’analisi delle pratiche concrete, negli “avvenimenti” singolari (evenement). Questa posizione di Foucault lo pone in linea col cosiddetto nominalismo, secondo il quale i concetti astratti e generali (gli “universali”), al contrario degli oggetti fisici, non posseggono una propria esistenza autonoma ma esistono solo come convenzioni verbali112.

112 «Io parto da una decisione, al tempo stesso teorica e metodologica, che consiste nel dire: supponiamo che gli universali non esistano; da qui in poi, sottopongo la questione alla storia e agli storici, a cui chiedo: è possibile scrivere la

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Sebbene Senellart riconosca che questa inversione, in realtà, non sia affatto la negazione dello storicismo e, anzi, da esso proceda, sulle orme di Nietzsche, fare il ritratto di un Foucault in opposizione allo storicismo è un passo quantomeno efficace per poterlo poi inquadrare nella cornice del pensiero neo-ordoliberale, notoriamente unito, pur nelle sue varie sfaccettature teoriche, nell’avversione per lo storicismo. Come infatti ci dice Ricciardi (2017), l’ordoliberalismo tedesco come il neoliberalismo di Hayek nascono dalla percezione non tanto della pur pluri-segnalata reazione alla crisi economica degli anni Trenta, ma piuttosto da quella del fallimento del «laboratorio dell’epoca borghese» che aveva dato forma alla politica tedesca nel XIX e nei primi decenni del XX secolo e che è crollato negli anni Trenta, dimostrando il fallimento del progetto settecentesco di egemonia della libertà individuale: l’epoca borghese non è riuscita a tenere fede alle promesse di quel progetto «soccombendo alla rivoluzione che aveva consentito l’affermazione della stessa borghesia» (Ricciardi 2017, 12). Il neo-ordoliberalismo attribuisce il fallimento “dell’epoca borghese” alla sua coesistenza con l’influenza pervasiva e perniciosa dello storicismo, causa di un «fatalismo» politico che avrebbe portato alla disgregazione dell’ordine della società, perché lo storicismo sarebbe pronto a giustificare ogni emergenza di domanda sociale in quanto dotata di una legittimità storica. Per i neo-ordoliberali, importanti storicisti come Werner Sombart e Gustav Schmoller hanno portato il peso di quel fallimento, in quanto il loro storicismo ha spalancato la porta a un relativismo storico sotto il quale è stata seppellita la conoscenza di quelle strutture d’ordine necessarie a scongiurare i pericoli. Il pericolo principe da scongiurare per i neo-ordoliberali è la fine del capitalismo, che, invece, deve rappresentare e rimanere il principio d’ordine della società per tutto il corso della storia.

storia senza ammettere a priori che esistano cose quali lo stato, la società, il sovrano e i sudditi?… quello che vorrei mettere in atto… non interrogare gli universali, utilizzando come metodo critico la storia, bensì partire dalla decisione che afferma l’inesistenza degli universali per cercare di stabilire quale storia si può fare» (Foucault 2005, 5).

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Invece, la storicizzazione sombartiana descriveva l’origine e l’evoluzione del capitalismo arrivando a prevederne la senescenza, la inevitabile crisi e, se non la fine, quantomeno la necessità di suoi mutamenti. Quanto a Schmoller, esso era mosso da una considerazione sostanzialmente positiva della natura umana e dalla efficacia del ruolo etico dello Stato nel contrastare le inclinazioni negative dell’uomo, quindi esso non poteva che essere sotto il tiro dei pensatori ordoliberali, mossi dall’antropologia negativa sottesa al rigorismo protestante agostiniano e suggeritori di un governo degli uomini nelle forme di quella ‘governamentalità’ contemporanea acutamente individuata da Foucault. Insomma, lo storicismo viene visto come un nemico dal neo-ordoliberalismo. L’operazione di Senellart consiste nel dipingere l’analisi della governamentalità contemporanea di Foucault come la formulazione di una alternativa preferibile ai meccanismi della sovranità, della giuridicità e della disciplinarietà; tale governamentalità sarebbe infatti caratterizzata, al contrario degli altri meccanismi di potere sopradetti, da una produzione “naturale” di libertà da parte dello Stato medesimo, che ne auto-limiterebbe endogenamente la sovranità stessa (però al prezzo anche di estendere dei meccanismi securitari che sarebbero il necessario contraltare per consentire e proteggere l’estensione delle libertà, i quali, tuttavia, secondo Senellart, non sarebbero tali da limitare significativamente la carica ‘liberogena’ della governamentalità neo-ordoliberale). Mentre è facile concordare con Senellart sul fatto che l’originalità di Foucault sia consistita nel mettere in secondo piano la pur innegabile relazione della ragion di Stato con la guerra (relazione che sarebbe l’unica, o comunque quella dominante, secondo l’analisi storicistica della ragion di Stato proposta da Meinecke, a cui Foucault parrebbe inizialmente ispirarsi) e la validità del modello istituzionale dell’esercito, per mettere invece in primo piano la relazione con lo spazio nascente dell’economia e con la sbandierata validità del modello concorrenziale e di mercato, è, però, più difficile concordare con la sua tesi che Foucault avrebbe compiuto una inversione netta rispetto alla propria ben nota visione della problematica governamentale legata alla griglia disciplinare. Ci appare invece che, per Foucault, tale problematica non solo rimanga in stretto rapporto alla griglia disciplinare ma che

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incorpori anche una griglia securitaria, in una complessa interazione fra le due griglie, che serve a Foucault proprio per il fine di evidenziare in maniera originale e feconda la natura ‘totalitaria’ soggiacente all’apparente facciata ‘liberogena’ del neo-ordo-liberalismo. Pur tuttavia, seguiamo il ragionamento di Senellart, perché paradigmatico di un ‘cotè’ interpretativo ‘liberaleggiante’ del pensiero critico foucaultiano, che merita di essere osservato. Il luogo dove Senellart mostra di trovare il Foucault convergente con il ‘liberalismo’ si troverebbe nelle pagine della ‘Nascita della biopolitica’, laddove l’analisi che Foucault compie della famosa frase di Adam Smith su la “mano invisibile” dimostrerebbe una radicale inversione della sua arcinota tesi della relazione fra ragione governamentale tipica della ragion di Stato e tecnica disciplinare, illustrata dal ruolo paradigmatico del Panopticon di Bentham. Per Senellart, l’analisi di Foucault della ‘mano invisibile’ smithiana sarebbe, in effetti, una critica radicale del Panopticon. È infatti Bentham, concependo alla fine del XVIII secolo una razionalizzazione dell’amministrazione penale attraverso una utopia architetturale (il progetto del Panopticon), a realizzare la figura paradigmatica dello stato di polizia, con una disciplina basata su un progetto di una universale visibilità funzionale a un potere universalmente diffuso, rigoroso e meticoloso, fin nei dettagli. Come noto, il fatto di essere (o di credere di essere) sempre visto senza interruzione, mantiene nel suo assoggettamento l’individuo sottoposto a disciplinamento. La differenza del governo disciplinare rispetto a quello del sovrano si condensa proprio nell’aspetto della “visibilità”: mentre in quest’ultimo caso il potere si esercita attraverso un sovrano che si manifesta e si esibisce allo sguardo di tutti i sudditi, nel primo caso il potere si esercita imponendo a coloro che sottomette un principio di visibilità obbligatoria rimanendo esso invece del tutto invisibile. Foucault (2005, 228-231) cita la famosa frase di Adam Smith, che si trova nel secondo capitolo del libro quarto della La ricchezza delle nazioni, in cui si parla della ‘mano invisibile113 e si

113 «Preferendo il successo dell’industria nazionale a quello dell’industria straniera, il mercante pensa solo a garantire a se stesso la maggiore sicurezza possibile; dirigendo tale industria in modo che il suo prodotto abbia il maggior valore

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domanda cosa sia questa mano invisibile, che inizialmente definisce come quella «bizzarra meccanica che fa funzionare l’homo oeconomicus come soggetto d’interesse individuale all’interno di una totalità che gli sfugge e che, tuttavia, fonda la razionalità delle sue scelte egoistiche» (Foucault 2005, 228). Per dare una risposta, Foucault osserva che il riferimento smithiano alla ‘mano invisibile’ può essere interpretato come un ottimismo economico più o meno riflesso o come un residuo di una concezione teologica dell’ordine naturale. In quest’ultima accezione la mano invisibile sarebbe il correlato economico del Dio “provvidenziale” di Malebranche, che occupa interamente il mondo nella sua interezza, fino ai più infimi dettagli, grazie a una rete interconnessa da un’estensione intelligibile di cui egli ha il dominio assoluto, e che quindi occupa segretamente anche il processo economico. In modo immaginifico, Foucault dice che l’estensione intelligibile del Dio “provvidenziale” di Malebranche in forma di mano invisibile economica «sarebbe popolata non tanto da linee, superfici e corpi, ma da mercanti, mercati, navi, carri e grandi strade» (Foucault 2005, 228). L’idea che sta dietro la metafora smithiana è quella di un punto in cui l’insieme (dell’economia) è totalmente trasparente alla vista di qualcuno, la cui mano invisibile annoda insieme i fili di tutti questi interessi dispersi dei singoli soggetti economici, per i quali invece il mondo economico (e non solo) è del tutto opaco e ai quali ovviamente la totalità del processo sfugge. Successivamente alla metafora della mano invisibile, Smith fa anche notare che se ognuno pensa solo al proprio guadagno e non pensa affatto al profitto di tutti, alla fine, tutti, presi nel loro insieme, ne traggono profitto, e aggiunge che in fondo è salutare che i mercanti siano in genere dei perfetti egoisti, perché se fossero altruisti le cose inizierebbero ad andare male114.

possibile, il mercante pensa unicamente al proprio guadagno; in questo, e in molti altri [casi], egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava per nulla nelle sue intenzioni» (Smith 1976, libro iv, cap. 2, 584). 114 «Non mi è mai capitato di vedere che coloro i quali, nelle loro imprese commerciali, aspirano a lavorare per il bene generale, abbiano fatto qualcosa di buono. È vero anche che questa bella passione non è molto comune tra i mercan-

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Affinché si abbia un guadagno per la ‘collettività’ a partire dalle azioni individuali interessate è allora necessario che regni un’assoluta incertezza di ciascuno rispetto al risultato collettivo: è assolutamente necessario che ciascuno degli attori sia cieco rispetto a questa totalità. Deve esserci un’incertezza in relazione al risultato collettivo per ciascuno, affinché tale risultato collettivo positivo possa essere effettivamente atteso […] L’oscurità e l’accecamento sono assolutamente necessari a tutti gli agenti economici (Foucault 2005, 229).

A questo punto Foucault propone una propria particolare sottolineatura rispetto alla interpretazione corrente della metafora smithiana, osservando come in essa si è soliti insistere sull’aspetto della “mano” e si trascuri invece l’aspetto dell’invisibilità. Invece, per Foucault, l’invisibilità, è almeno altrettanto importante perché fa in modo che nessun agente economico debba e possa cercare il bene collettivo, e inoltre esclude la comprensione, da parte di chiunque, dell’insieme del processo economico. Ne consegue che la dinamica “naturale”, implicante che ciascuno segua il proprio interesse, non deve essere ostacolata dal potere politico115, il quale, peraltro, sarebbe incapace di avere sul meccanismo economico un punto di vista che abbracci l’insieme degli elementi e permetta di combinarli artificialmente: La mano invisibile, che combina spontaneamente gli interessi, allo stesso tempo interdice ogni forma di intervento, o meglio ogni forma di sguardo dall’alto che permetterebbe di dominare la totalità del processo economico (Foucault 2005, 230).

Questo “accecamento” dei soggetti rispetto al funzionamento del mondo economico, Foucault (2005, 145-148), peraltro, lo osserva già commentando le limitazioni che incontra il diritto nell’ordine economico pensato dai neo-ordoliberali. Secondo

ti… E non è sempre un male per la società che questo fine non entri per nulla nelle sue intenzioni» (Smith 1976, 584). 115 Per Foucault, che al governo sia dunque interdetto ostacolare l’interesse degli individui, è «ciò che intende Adam Smith quando dice che l’interesse comune esige che ciascuno sappia intendere il proprio interesse e che possa obbedirgli senza ostacoli» (Foucault 2005, 230).

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questi ultimi, nell’economico non ci può essere né sovranità politica né legge. Detto in altri termini, lo stato di diritto nell’ordine economico non può che essere unicamente formale. Cosa significhi ciò, lo dice Hayek nel suo libro ‘La Costituzione della Libertà’. Lo stato di diritto, o comunque una legislazione economica formale, è molto semplicemente il contrario di un piano. E che cosa identifica un piano (nell’ordine economico)? Rispondendo in sintesi: 1) la presenza di finalità (p.e. puntare ad una crescita, o a un certo tipo di consumo o di investimento, o a ridurre lo scarto tra i redditi di classi sociali diverse, etc.); 2) la possibilità di introdurre, nel momento che si riterrà opportuno, delle correzioni, delle rettifiche, delle sospensioni di provvedimenti, delle misure alternative, a seconda che il tal fine sia stato raggiunto o meno; 3) la presenza dell’ente pubblico come decisore (sia come sostituto delle decisioni individuali sia come agente economico in proprio); 4) la conoscenza da parte dell’ente pubblico dell’insieme dei processi economici e quindi la capacità di controllarli. Per Hayek, invece, lo stato di diritto nell’ordine economico deve 1) restare formale, ovvero senza fini specifici; 2) essere sempre sotto forma di regole fisse (quindi non modificabili in funzione degli effetti prodotti); 3) definire il quadro generale non modificabile entro cui si inquadra l’azione della libera scelta di ciascuno degli agenti economici; 4) vincolare lo Stato non meno degli altri soggetti, con la conseguenza che tale legge consente a ciascuno degli agenti economici di prevedere esattamente il comportamento dell’ente pubblico (si può facilmente vedere qui la cornice filosofico-politica che dà la stura ai modelli macroeconomici neo-liberali da Friedman a Lucas, vedi Conti e Fanti 2020, parte II). Quale conclusione principale trae Foucault dall’analisi hayekiana? Che lo stato di diritto entro l’ordine economico esclude l’esistenza di un soggetto universale (vale a dire lo Stato) del sapere economico e impone che lo Stato sia cieco rispetto ai processi economici. Quindi apparirebbe qui evidente la vicinanza della interpretazione foucaultiana della mano invisibile di Smith con l’analisi dello stato di diritto e della critica della pianificazione secondo Hayek. Come noto, il Panopticon benthamiano rappresentava in qualche modo sia la formalizzazione di un meccanismo di controllo,

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destinato a diventare sempre più estensivo nelle società, che la base stessa della nascita e diffusione delle scienze sociali. Con esso, il potere si accresce nella misura in cui acquisisce una conoscenza sempre maggiore attraverso il vedere tutto senza esser visto. Per Senellart, Foucault invece opporrebbe a questo la dottrina dell’economia politica, per la quale il potere non solo non vede tutto ma è del tutto cieco, e il suo accrescimento non deriverebbe dalla crescita delle conoscenze ma solo a causa di una sua invincibile incapacità ad autolimitarsi. Foucault fa discendere, secondo Senellart, dalla invisibilità della mano di Smith la conseguenza che, in un sistema retto dalla meccanica degli interessi individuali, il sovrano deve essere ed è in effetti cieco, incapace di acquisire un punto di vista totalizzante. Il processo economico è inconoscibile: nessuno può tentare di comporre gli interessi, ovvero di agire più efficacemente per il bene generale, nemmeno il sovrano. Ma allora l’economia politica sarebbe per Foucault, secondo Senellart, un nuovo tipo di limitazione della potenza statuale che è del tutto estranea ed agli antipodi della limitazione del tipo contrattuale hobbesiano. È una limitazione di tipo “naturale”, perché proviene dalla “natura” cieca del processo economico (dalla “naturalità” del meccanismo di mercato). Come osserva Senellart, la limitazione al potere dello Stato non consiste più nel contratto col quale si impone al sovrano il ricordo dei diritti che egli non può violare, ma nel ricordare ed imporre al sovrano la realtà naturale della sua impotenza: egli non deve voler controllare il processo economico fin nei dettagli, perché egli non può conoscere tale processo. La “libertà naturale” dell’economia politica si presenterebbe così come “critica” della ragione governamentale. Inoltre, è di interesse anche la considerazione del ruolo dell’economia politica liberale nel superamento di una visione teologica del mondo. Ricordiamo che in Bentham, e nel suo tentativo di collegare il giuridico e l’economico, rimane però ineliminabile la contraddizione logica tra naturalismo economico e artificialismo giuridico, già notata da Halévy (1901), il quale osserva che si tratta di due razionalità estranee l’una all’altra e inoltre sottolinea come l’esaltazione di Bentham per il suo Panopticon ‒ visto quale “principio d’ispezione universale” da applicare in tutti gli ambiti sociali (fabbriche, ospedali, scuole etc.), che lo porta a paragonare

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il potere di sorveglianza all’onnipotenza divina ‒ sia un indicatore convincente del fatto che il potere disciplinare appartiene ancora a una visione teologica della società. Secondo Senellart, Foucault, invece, scoprirebbe proprio nella critica liberale dell’economia politica all’obiettivo totalitarista dello stato di polizia il pieno compimento della deteologizzazione del mondo moderno: «non c’è posto per Dio nel processo economico. L’economia, allo stesso tempo che dimostra l’impossibilità di un punto di vista globale sullo Stato, offre la prima teoria atea del funzionamento sociale» (Senellart 2006, 29)116. Senellart vede quindi nell’economia ciò che tende a frenare e ridurre quella che sarebbe una tendenza meccanica a estendere l’impresa dello Stato ‒ tendenza insita nella governamentalità e nella ragion di Stato vista attraverso la griglia disciplinare benthamita ‒ ovvero l’economia come la “resistenza” al potere; una resistenza che inoltre è pacifica e non più intrisa di un discorso di guerra, come lo sarebbero state quella del regime legale-giuridico di sovranità, in cui la relazione di potere correva tra il sovrano e i sudditi, o quella del regime governamentale di tipo disciplinare benthamita, in cui quella relazione intercorreva fra le istituzioni e i corpi. Naturalmente Senellart smussa la sua tesi che attribuisce a Foucault un lato di agiografia liberale, precisando che non si vuole certamente sostenere né «che il mercato sia il luogo di una libertà immediata e piena da far valere contro tutti gli eccessi del governamento», né che «l’economia sia completamente il campo alla fine ritrovato della pura spontaneità individuale, ma una delle logiche che reggono i rapporti attuali tra governanti e governati», né che, infine «la libertà si deve difendere in termini puramente economici, ma che piuttosto l’economia crea

116 Senellart ricorda anche che a questa deteologizzazione non ha contribuito solo l’economia politica liberale, ma anche il neo-stoicismo (a cui peraltro ci sembrerebbe che non fosse estraneo proprio lo stesso Adam Smith) e, più sorprendentemente, diverse correnti del pensiero cristiano, sia cattolico che riformato, di cui un esempio potrebbe essere il pensiero del gesuita e massimo teorico della ragion di Stato, Botero, studiato dallo stesso Senellart (1989), che lo porta a ricordare una incisiva affermazione di Gauchet (1989), per il quale il cristianesimo “sarà stata la religione dell’uscita dalla religione ”.

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uno spazio di gioco nuovo per la rivendicazione della libertà» (Senellart 2006, 30). Il pensiero di Foucault sarebbe allora, secondo l’interpretazione rappresentata da Senellart, nel solco convenzionalmente inteso di Smith, dell’economia politica delle ‘libertà naturali’ e delle mani invisibili, e di Kant: la ragione di ‘governo’ liberale si basa dal punto di vista filosofico sulla convinzione della finitudine umana (dell’ignoranza dell’uomo e quindi della impossibilità di ogni sua costruzione razionale, direbbero i neo-ordoliberali come Hayek), per cui come l’uomo non può conoscere la totalità del mondo, egualmente il sovrano non può conoscere la totalità del processo economico. Come dice Senellart (2006, 30) «La critica della sovranità non procede più da un antigiuridicismo a priori, ma si trova sviluppata nell’analitica della finitudine». Un’altra interpretazione che pone in relazione il pensiero di Foucault con quello neo-liberale verte sul tema del “governo dei poteri”. Su questo tema viene riconosciuta (p.e. Marchetti 2018) una vicinanza fra Foucault e Hayek, nella misura in cui entrambi, pongono il potere ‒ produzione ed esercizio del medesimo ‒ internamente alle relazioni umane e non esternamente nelle istituzioni del diritto e dello Stato; e la prima di queste relazioni sarebbe lo scambio. Il punto di contatto fra i due pensatori starebbe dunque nell’idea che il potere non sarebbe centrale e verticale ma policentrico e orizzontale, il cui paradigma illustrativo è il mercato inteso secondo Hayek. Inoltre, secondo punto importante, per entrambi questo micro-potere diffuso nelle relazioni di scambio ‒ relazioni intese in senso ampio, che vanno dai rapporti sessuali agli scambi economici di mercato ‒ può riguardare ciascun individuo in modo multiforme, coinvolgendolo in molteplici e pluridirezionali relazioni di potere, all’interno delle quali l’individuo può mutare la propria posizione nel tempo e nello spazio ‒ essere dominante oggi e sottomesso domani in certo rapporto generico, essere dominante in un rapporto personale e sottomesso in un rapporto economico, e così via ‒ affinché si possa dire che il potere non è fissato in forme stabili di coercizione. È certamente interessante l’interpretazione diciamo “liberale” della governamentalità foucaultiana. Questa interpretazione

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tende a negare che Foucault veda nella ragion di Stato del moderno periodo liberale una tendenza alla coercizione totalitaria per sottolineare invece come il liberalismo politico contenga, per Foucault, una forte auto-limitazione del potere governamentale, per cui la ragion di Stato del mondo liberale si snoda fra le due contrapposte tendenze al massimo e al minimo di Stato117. In realtà, annotiamo come questa interpretazione “liberale” della odierna governamentalità e la sottolineatura della sfera della libertà nel potere governamentale non dia ragione ‒ per evidenti ragioni ideologiche che tendono ad ascrivere la teoria del potere foucaltiana all’ambito liberale e persino neo-liberale ‒ del vero messaggio foucaultiano, che non oscilla né evolve linearmente fra le tre nozioni di potere ‒ potere come negazione, come produttore di controllo e assoggettamento e, infine, come relazione ludica e liberogena ‒, ma, scoprendo genealogicamente le interazioni fra queste nozioni, fornisce una chiave di lettura e, nel contempo nuove direzioni di ricerca, per l’odierno sistema di potere capitalistico. Non bisogna dimenticare che sia le ampie ricognizioni storiche, sia la coniazione di nuove categorie interpretative, che hanno rivoluzionato la filosofia politica, quali quelle di biopolitica, bioeconomia, potere pastorale, dispositivo, governamentalità, società disciplinare e società di sicurezza, etc.. sono servite soprattutto all’obiettivo dichiarato di Foucault, quello di indagare il passato per illuminare l’attualità, ovvero di costruire una «storia del presente»: È di questa prigione, con tutti gli interventi del potere politico sul corpo che essa riunisce nella sua architettura chiusa, che io vorrei fare la storia. Per puro anacronismo? No, se intendiamo con questo fare la storia del passato in termini del presente. Sì, se intendiamo con questo fare la storia del presente (Foucault 1976, 34).

117 «La ragion di Stato, così come viene ricollocata da Foucault nella storia, tra il pastorato cristiano e la biopolitica moderna, è l’esempio più probante di come essa non segnali certamente, dietro ogni ratio, la tetra costrizione di una violenza totalitaria. Se è vero che, secondo una certa tendenza, essa conduce a una dominazione illimitata, secondo un’altra, essa porta all’autolimitazione governamentale del liberalismo: ragione del massimo di Stato e ragione del minimo di Stato. “La ragione”, fosse pure quella dello Stato, è dunque sempre l’articolazione complessa di ragioni multiple» (Senellart 2006, 31).

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È grazie a questa ottica che Foucault ha potuto fornire una lettura originale dei fenomeni politici che hanno caratterizzato la storia del Novecento e una griglia interpretativa per quelli del XXI secolo.

1.16. Rischio, incertezza, probabilità e odierna governamentalità Correvano su e giù le maglie rosse,/ le maglie bianche, in una luce d’una/ strana iridata trasparenza. Il vento/ deviava il pallone, la Fortuna/ si rimetteva agli occhi la benda. (Saba, Tredicesima partita, 1990, 169) Ogni giocatore rischia con certezza per guadagnare con incertezza; ciononostante, egli rischia certamente il finito per guadagnare incertamente il finito, senza peccare, per questo, contro la ragione. (Pascal 1971, 440) oggi è il dovere del genio, restare misconosciuto. (Dürrenmatt 1985, 71)

L’approccio probabilistico che il potere governamentale adotta come suo sapere centrale e come supporto operativo delle sue tecnologie di governo merita una breve riflessione. Come racconta Lupton (2003) per quanto riguarda l’etimologia di tradizione romanza, il termine ‘rischio’ sembra essere legato a ciò che nell’italiano corrente è definito tagliare o squarciare. L’etimologia di rischio sembra appartenere, tuttavia, principalmente all’area semantica navale, e per la precisione al pericolo più grande per il marinaio: l’urtare e squarciare lo scafo della nave sugli scogli o lo sfiorare la catastrofe affrontando un’onda in modo pericoloso. La maggioranza degli osservatori riconduce la comparsa del termine e del concetto di rischio alle prime imprese marittime dell’epoca pre-moderna, a cui avrebbe fatto seguito il significato di saldo pagato al soldato mercenario che agisce in condizione di rischio, ma vi è anche chi propone l’etimo derivante dall’arabo rizq che si riferisce a tutto ciò che ‘dio’ offre affinché se ne possa trarre profitto nella vita. Il rischio è associato, quindi, a un guadagno, e, in particolare nell’ultima accezione, all’ottenimento di un profitto. Vi si legge un possibile riferimento alla co-

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mune narrazione ‒ tipica del pensiero neoliberale corrente ‒ che l’imprenditore fronteggia il rischio e chi è responsabile ed educato a farlo ne trarrà un meritato profitto, mentre chi va invece in rovina è perché non è stato capace di assumersi la responsabilità di educarsi al rischio. Ma vi si legge anche la propensione del potere neoliberale corrente ad usare, o meglio inventare, il rischio perenne incombente sulle vite per il loro più facile governo e per trarne quindi un guadagno in termini di potere. Come ricorda D’Eramo (2020) nel prologo, il braccio destro di Barack Obama, Rahm Emanuel, poi sindaco di Chicago, disse nel pieno della crisi del 2008: «Non lasciare che nessuna crisi seria vada sprecata» ovvero «Che non si sprechi né una penuria, né un’insolvenza, né un attentato, né una crisi finanziaria, né una pandemia», per rafforzare il potere governamentale118. La nascita della teoria della probabilità e della statistica sono andati di pari passo con due elementi cruciali della storia delle idee e della storia politica, in particolare nel corso del XVIII e XIX secolo: 1) l’Illuminismo, e quindi, il positivismo; 2) il rafforzamento degli Stati europei con le moderne tecnologie di governo, quali la polizia. Infatti, dal lato del pensiero, si affermano le convinzioni che sia possibile i) una conoscenza ‒ attraverso ragione, calcolo e scienza ‒ oggettiva sia della natura che della società stessa, entrambe soggette a leggi naturali immutabili ‒ misurabili, calcolabili e quindi anche prevedibili ‒ e ii) un costante progresso sia umano che sociale guidato dal trono della razionalità strumentale. Dal lato politico, si mette al centro del rafforzamento degli stati la polizia che controlla e amministra in senso produttivistico le popolazioni, e gestisce i processi di urbanizzazione e industrializzazione ‒ il governo di tipo disciplinare di cui parla Foucault ‒ in linea con la fase di sviluppo del capitalismo industriale. Il nuovo sapere del calcolo della probabilità e della statistica ‒ che non a caso significa ‘scienza dello stato’ ‒ consentendo l’identificazione matematica della norma e della devianza, consente, da un lato, la formulazione

118 Mirowski scriverà nel 2013 il libro Never Let a Serious Crisis Go to Waste: How Neoliberalism Survived the Financial Meltdown, per dimostrare il senso di questa frase.

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di un concetto scientifico di rischio e, dall’altro lato, la diffusione dell’idea che si possa razionalizzare e controllare il caso, in modo che si possa sviluppare, attraverso l’identificazione, la valutazione e la gestione dei rischi in relazione ai soggetti da essi investiti e formati, una più moderna governamentalità che sostituisce ‒ assorbendone le forme ereditarie ‒ il precedente millenario governo pastorale. Douglas (1996) offre una definizione di rischio in cui sono visibilmente associati la teoria della probabilità e il calcolo strumentale economico: “il rischio è la probabilità di un evento combinata con la magnitudine delle perdite e dei profitti che questo evento comporterà”. Assumendo questo carattere eminentemente statistico ed economico, il rischio passa da essere associato a disastri tanto di eccezionale gravità quanto di rara evenienza119 a diventare associato a tutte le situazioni di emergenza che vengono sempre più ritenute comuni, e rispetto a queste comuni situazioni vengono studiati gli atteggiamenti e le propensioni soggettive di individui e categorie sociali nei confronti del rischio, allo scopo di usarne i risultati a fini di governo. La relazione fra il rischio e il calcolo economico appare già nel primo approccio scientifico al rischio che, pur emergendo da saperi non-economici come l’epidemiologia e l’ingegneria, mira ad anticipare le perdite potenziali, a calcolarne la frequenza e la distribuzione attese e ad utilizzare queste informazioni per evitare tali perdite, minimizzarle o suddividerne i costi tra soggetti e istituzioni diverse, basandosi ovviamente sull’idea illuministica di un uomo razionale e misurabile nei suoi comportamenti e nelle sue risposte, come è l’homo oeconomicus120.

119 Annotiamo, a conferma del ruolo del rischio nel pensiero illuministico, come il disastroso terremoto di Lisbona del 1755 influenzò la riflessione filosofica di pensatori come Kant, Goethe, Rousseau (Blumenberg 1962). 120 Ovviamente rientrano in questi studi per migliorare la misurabilità e la prevedibilità dei comportamenti umani anche le recenti ricerche (p.e. Kahnemann et al. 1982) che hanno ridimensionato la razionalità illuministica dell’homo oeconomicus, per sottolineare invece le distorsioni nell’uso del calcolo probabilistico e l’importanza di elementi molto soggettivi e socialmente mediati nella percezione e nella decisione connesse al riconoscimento e alla gestione stessa del rischio.

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Naturalmente il rischio non esiste mai in se stesso come un pericolo oggettivo e astratto121, ma a determinare ciò che appare una minaccia è anche il prodotto di una situazione storicamente, socialmente e politicamente determinata. Il rischio è quindi socialmente inventabile e manipolabile, e quindi è eminentemente usabile come tecnologia di governo. Ma se Giddens (1994) e Beck (2000) parlano della società moderna come di ‘società del rischio’, essi intendono solo sottolineare rischi di natura ecologica o dell’eventualità di un conflitto nucleare, che sfuggirebbero quindi al nostro controllo; in seguito a ciò, alla percezione di un’incombente minaccia da parte della natura socializzata si accompagna una crescente consapevolezza sia dei limiti stessi del sapere scientifico nel trovare rimedi, sia del fatto che, talvolta, tale sapere può causare, a sua volta, dei rischi. Insomma, si tratta di riflessioni ai limiti dell’ovvio e che non considerano la differente natura della relazione fra rischio, potere, società e capitalismo che invece è investigata da Foucault e dai suoi continuatori. È una cruciale inversione analitica quella che Foucault compie, rispetto a Beck e Giddens, sul ruolo della scienza in relazione al rischio: come in Beck e Giddens, anche per gli autori di orientamento foucaltiano il rischio è il prodotto del processo di modernizzazione, ma, a differenza dei due sociologi, i saperi esperti non vengono considerati strumenti utili per un impegno concreto nella riflessività quanto piuttosto elementi fondamentali della strategia e del potere governamentale.

121 Luhmann (1993) distingue tra i concetti di rischio e pericolo: rispetto a un dato sistema inserito in un dato ambiente, i) il rischio è interno al sistema, intrinseco al suo funzionamento, il pericolo dipende ‒ o è percepito dipendere ‒ da fattori ambientali esterni al sistema; ii) il rischio implica decisione sull’osservazione contingente, il pericolo sorge esternamente, imprevedibilmente e inosservabilmente; iii) il pericolo è solo possibile, e quando si attualizza si fa minaccia concreta; il rischio, al contrario, non è puramente possibile, ma l’accadimento dell’evento rischioso non è né impossibile né necessario, dunque sempre contingente, e sempre presente nella sua inattualità, sempre concreto tra la non-impossibilità e la non-necessità. Luhmann inoltre caratterizza i quattro punti peculiari attraverso cui gestire i rischi nelle società contemporanee come processi di “selettività”, di “comunicazione”, di “decisione” e di “prevenzione”.

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Qual è invece l’interpretazione del rischio secondo il filone della “governamentalità” di Foucault? Centrale è l’idea ‒ celebrata dalla retorica neoliberista, che ne fa una obbligatoria etica sociale ‒ della responsabilità individuale nella gestione del rischio. Questa idea strategica operativamente risulta in uno spostamento progressivo della responsabilità della gestione e prevenzione dei rischi dalle istituzioni pubbliche (welfare state) agli individui. Questi ultimi sono spinti a premunirsi contro i rischi a proprie spese, sia assicurandosi contro i rischi attraverso polizze private, sia prevenendo i medesimi con un intervento su se stessi, attraverso condotte di vita sane e razionali, improntate all’autocontrollo, alla conoscenza e alla valorizzazione del sé. Di fronte ai problemi dei rischi, che sono socialmente prodotti e che dovrebbero quindi trovare una soluzione collettiva, si richiede sempre più all’individuo di trovare risposte private. Questo è in linea col processo neoliberale di radicale “individualizzazione”, volto a creare un soggetto che deve riprodurre privatamente le condizioni della propria vita, sottratta ‒ sia in termini di intervento che di conferimento di “senso” ‒ al “pubblico”. La gestione privatizzata del rischio da parte del nuovo individuo, che quale “imprenditore di se stesso” deve gestire in forma autonoma e individualizzata il rischio senza poter fare più affidamento nel “pubblico”, si diffonde nel contesto neoliberale che, a sua volta, produce in modo crescente il rischio e l’incertezza. Il rischio e la sua gestione rappresentano la strategia governamentale per controllare la popolazione ai fini del perseguimento degli obiettivi del neoliberalismo. Sulla base dei rischi si attua la normalizzazione, si disciplina, si controlla e si conforma alla norma la popolazione. Come discusso nel par. 1.7, i rischi vengono identificati, monitorati, misurati, resi calcolabili, stimati nelle probabilità del loro prodursi, in una sistematica diagnosi anticipatrice dispensata dal proliferare sia delle regolamentazioni di basso grado (la soft-law, che regola in modo dettagliato ogni condotta per evitare i rischi, magari impone la misura della canna fumaria del camino) sia dei saperi esperti, mentre nel contempo gli individui sono consigliati a perseguire il progetto di costruire il proprio

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sé, vale a dire ad interiorizzare gli obiettivi del potere costituendosi in soggetti che per condurre la propria esistenza cercano di preservarsi da quei rischi; e fare resistenza a quei consigli strategicamente forniti dal potere equivarrebbe alla confessione da parte dell’individuo dell’incapacità a prendersi cura di sé e a valorizzarsi. Peraltro, la tecnologia del sé, orientata all’essere imprenditore di se stessi e all’evitare i rischi, deve essere continuamente nutrita e rinforzata, attraverso un apprendimento destinato a non concludersi mai, ma a proseguire per l’intera durata della vita, come si esplicita nella retorica educativa neoliberale quando si parla di lifelong learning. Un passaggio cruciale che caratterizza la governamentalità neoliberale, e la distingue da quella precedente, è che il potere non si esercita più disciplinarmente sul corpo, ma crea, accompagna, dirige, orienta il desiderio individuale. Già Bentham, che era pure inventore del controllo disciplinare sui corpi, suggerisce che il potere deve esercitare ciò che egli chiama l’”influenza”: il segreto dell’arte del potere è far sì che l’individuo persegua il proprio interesse come se fosse il suo dovere e viceversa. La direzione indiretta della condotta si basa sulla logica economica infusa nella cosiddetta “libertà di scelta” promossa dall’ideologia neoliberale. Tale libertà ha infatti un carattere normativo in quanto consiste, in effetti, nell’obbligo di obbedire ad una condotta di massimizzazione del proprio interesse, ma in un ambiente (giuridico, istituzionale, relazionale) che è modellato esattamente in un modo tale che l’individuo scelga «in piena libertà» ciò che deve necessariamente scegliere. Per fare ciò, come scrivono Dardot e Laval (2013, 314-315), il potere deve dunque penetrare nel calcolo individuale, persino parteciparvi, per agire sulle anticipazioni immaginarie degli individui, per rafforzare il desiderio (con la ricompensa), per indebolirlo (con la punizione), per deviarlo (con la sostituzione dell’oggetto); e questo non è altro che una anticipazione del modo di governo neoliberale studiato da Foucault ed esplicitato nelle tecniche elaborate dalla scienza economica. Foucault tratta in modo più specifico la gestione governamentale del rischio a scopo genetico, affermando che tale problematica, sebbene possa apparire fantascientifica, può presto diventare

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attuale. Se la genetica svela in ciascun individuo «le probabilità di contrarre un certo tipo di malattia, a un’età determinata, durante un particolare periodo della sua vita, o in maniera del tutto casuale, in qualsiasi momento della sua vita» sarà possibile che «una società si porrà la questione del miglioramento del proprio capitale umano in generale, inevitabilmente il problema del controllo, del vaglio e del miglioramento del capitale umano degli individui, in funzione delle unioni e delle procreazioni che ne seguiranno»122 e quindi si pone «il problema politico dell’utilizzazione della genetica […] in termini di costituzione, di crescita, di accumulazione e di miglioramento del capitale umano» (Foucault 2005, 189-190). Lemke (2008) illustra la relazione fra i concetti foucaultiani di biopolitica e di governamentalità mediante un argomento concreto: l’analisi riguardo a come le pratiche di diagnostica genetica, di analisi genomica e la visione della medicina molecolare, le quali hanno evidenti implicazioni sociali e politiche, siano intellegibili attraverso la prospettiva di un “governo dei rischi genetici”. Questo “governo” viene visto come un rapporto specifico fra tecniche di potere e forme di sapere, fra gestione autonoma e gestione eteronoma. Ricordando come la governamentalità foucaultiana connette in un rapporto interattivo le tecniche del potere, le forme

122 Foucault abbozza anche una analisi “economica” della genetica: «sarà perfettamente possibile immaginare uno scenario di questo tipo: i patrimoni genetici buoni ‒ ovvero [quelli] in grado di produrre individui a basso rischio o il cui tasso di rischio non sarà dannoso né per essi, né per la loro cerchia famigliare, né per la società ‒ diventeranno sicuramente rari, e nella misura in cui saranno qualcosa di raro, potranno perfettamente [entrare] […] all’interno di circuiti o di calcoli economici, vale a dire di scelte alternative […] questo significherà che, avendo io un mio determinato patrimonio genetico, se voglio avere un discendente il cui corredo sia perlomeno altrettanto buono del mio se non, possibilmente, migliore, sarà anche necessario che io sposi qualcuno il cui patrimonio genetico sia a sua volta buono […] E se vorrete avere un figlio con un capitale umano elevato, inteso semplicemente in termini di elementi innati e di elementi ereditari, vedete bene che sarà necessario effettuare tutto un investimento, il che significa aver lavorato a sufficienza, avere redditi sufficienti, avere uno status sociale che vi consentirà di prendere come congiunto, o come co-produttore di questo futuro capitale umano, qualcuno il cui capitale sarà a sua volta di una certa rilevanza. Tutte queste cose di cui parlo non sono affatto uno scherzo» (Foucault 2005, 189-190).

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del sapere e i processi di soggettivazione (vedi par. 1.1), Lemke distingue nella sua analisi dei rischi genetici tre dimensioni: regimi di verità, strategie di potere e tecnologie del sé. Il paradigma genetico può essere inteso come “regime di verità” che organizza un campo conoscitivo del visibile e del dicibile, e che specifica le condizioni del vero e del falso, cioè come una “ideologia” dagli effetti sociali. La medicina predittiva, in quest’ottica, va intesa come una strategia di potere. Questa strategia di potere richiede lo sviluppo e la diffusione di specifiche tecnologie del sé, ovvero la costituzione di un ‘homo geneticus’, responsabile e previdente utilizzatore della diagnostica genetica, che esercita autocontrollo e gestisce attivamente il rischio fisico. Infatti, l’analisi genomica e la diagnostica genetica vanno ad incidere anche sull’identità personale e sociale dei soggetti e sulla gestione della loro vita123. I cambiamento cruciali avvenuti a partire dagli anni ‘70, sono, secondo Lemke, due: 1) la sostituzione del diritto alla salute con il dovere di gestione della salute e dell’assunzione della responsabilità rispetto ai rischi; 2) la trasformazione dei pazienti in clienti e, nel contempo, in soggetti a rischio. Quindi, l’emergere del discorso genetico è connesso alla strategia governamentale del “governo dei rischi genetici”. L’estendersi del discorso genetico può essere inteso come una strategia di potere, come il nesso fra lo sviluppo tecnico-scientifico e quello socio-politico: attraverso questo nesso strategico, il potere ha usato la diagnostica genetica come fattore importante per una trasformazione del sociale che dissolve le forme tradizionali di solidarietà sociale e di copertura tecnico-assicurativa dei rischi collettivi. La società assicurativa viene sostituita dal dispositivo del rischio, la quantificazione e il rimborso del danno vengono sostituiti dalla prevenzione e impedimento del danno medesimo. Quindi, come dice Lemke, «anziché considerare la diagnostica genetica come espressione di una ragione strumentale si

123 La storia ci ha già offerto, come noto, esempi esecrabili di politica eugenetica, ma «meno noto è che, ben prima del nazismo, una politica eugenetica, potentemente finanziata dal Carnegie Institute e dalla Rockefeller Foundation, era stata programmata negli Stati Uniti, in particolare in California, e che Hitler si era esplicitamente richiamato a quel modello» (Agamben 2020, par. 16).

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dovrebbe considerarla quindi come effetto e strumento di una razionalità politica che si propone un cämbiamento di rapporti di forza sociali e sollecita un’individualizzazione e una privatizzazione dei rischi collettivi» (Lemke 2008, 300). Le conseguenze pratiche del “rischio genetico” come tecnica governamentale sono, fra le altre, il fatto che i) il sapere medico si modifica nel senso di concepire sempre di più le malattie come causate geneticamente, ii) le spiegazioni delle cause delle malattie passano dall’ambiente socio-economico, come nei casi delle sostanze inquinanti o dello stress sociale o delle cattive condizioni di lavoro, a quello del rischio genetico collocato nell’individuo stesso, iii) con il paradigma genetico si indebolisce la separazione tra salute e malattia, tra normalità e patologia. Secondo la concezione ‘genetica’ della malattia, le cause patogene sono nell’individuo e non nell’ambiente e nei rapporti sociali, quindi le soluzioni stanno nella individualizzazione degli interventi e non nei cambiamenti sociali. In modo non dissimile, anche la concezione della prevenzione delle attività criminali non cerca più di intervenire sulle cause sociali e strutturali alla base di tali attività, nella misura in cui il criminale è considerato solo un attore (senza storia e biografia) della scelta razionale che decide se commettere o meno un reato avendo soppesato i costi e i benefici, come discusso nel par. 1.8. In quest’ottica, i rischi non sono eventi reali (come quelli considerati da Beck e Giddens nella loro concezione di società del rischio), ma sono essi stessi produttori di una realtà sociale. Nelle parole di Lemke (2008, 298) «i ‘rischi genetici’ sono più inventati che scoperti. Essi non sono dei dati di fatto biologico-empirici, ma l”effetto di una problematizzazione” sociale; in altre parole, essi rappresentano uno specifico calcolo sociale, un modo di pensare gli eventi». I rischi genetici non sono assicurabili, i danni si debbono prevenire e non rimborsare, e sebbene si debba calcolare anche la distribuzione dei casi in una popolazione, la caratteristica precipua è che il rischio viene individuato direttamente nel corpo degli individui124. 124 «A differenza del sistema dei rischi assicurabili, che per esempio non tende a individuare le vittime di futuri incidenti stradali e quindi ad evitarli, i rischi genetici sono localizzabili e prognosticabili» (Lemke 2008, 298).

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Come dice Lemke, «la salute oggi non è tanto la “vita nel silenzio degli organi”, quanto una valutazione e un calcolo premuroso e loquace di un numero immenso di rischi di malattia» (Lemke 2008, 307). Il concetto di rischio genetico crea 1) una nuova figura della medicina, e 2) un’estensione e una trasformazione del concetto di malattia. La nuova figura è il soggetto a rischio genetico, la persona «che si muove in una terra di nessuno tra salute e malattia», e inoltre anche il soggetto della malattia si estende dalla persona ai geni, alle cellule, ai feti, alle coppie, alle famiglie e infine alla popolazione. In altre parole, sebbene si possa dire che l’individuo rimane l’oggetto centrale della prassi medica, Lemke lo considera soltanto come uno degli elementi appartenenti all’insieme che va dal livello sub-cellulare al livello della popolazione, per cui ad essere trattati come soggetti “malati” possono essere anche i non ancora nati o le entità collettive come la famiglia o la popolazione. Quanto al concetto di malattia, esso perde rigore e confini definitori rispetto a quello tradizionale, per cui emergono dalla medicina molecolare nuove patologie non fisiche, come, ad esempio, una intelligenza o una aggressività anormali, che hanno un evidente riferimento sociale e non organico oppure l’insorgenza della malattia (e della terapia) diventa indipendente dal tempo della manifestazione della medesima, ovvero, ad esempio, la futura possibile malattia viene anticipata al presente, Un altro esempio della gestione del “rischio” a fini governamentali nelle odierne società neoliberali è analizzato in Simone (2010): la regolazione giuridica della violenza sessuale di genere, che rende esplicito l’uso delle categorie di rischio e pericolo per implementare la logica del dispositivo securitario descritto da Foucault, in cui le istanze di libertà e di auto-responsabilizzazione dei soggetti vanno di pari passo con l’aumento del controllo ai fini della sicurezza. In questo senso, la definizione, costruzione e regolazione del pericolo è uno strumento con cui lo stesso sistema giuridico si fa attore del dispositivo securitario. Infatti, rispetto alla disciplina penale della violenza sessuale, il moderno sistema giuridico ha contribuito ad una specifica costruzione del genere e della sessualità tramite gli strumenti neoliberali del

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“rischio” e della “responsabilizzazione” del soggetto governato. Lo status della donna ‒ peraltro fortemente connotato dal punto di vista di genere nel senso di una riduzione della sua piena soggettività giuridica rispetto a quella attribuita al maschio adulto ‒ viene identificato con quello del soggetto portatore di rischio. Questo rischio la investe in una duplice asimmetrica forma. Da un lato, nella prospettiva antico-patriarcale, la donna è portatrice di rischio nella misura in cui essa mette a rischio il controllo del maschio sui suoi impulsi primordiali. Da un altro lato, nella prospettiva odierna, tipica delle società neoliberali investite dalla emancipazione femminile avvenuta in pieno accordo con le presunte tendenze liberogene di tali società nei confronti dei soggetti, la donna diventa portatrice di rischio nella misura in cui essa è un soggetto debole esposto al pericolo di aggressione. Secondo la prima prospettiva, la donna, nella misura in cui provoca la sessualità maschile, de-responsabilizza l’uomo per la sua condotta sessuale, secondo la seconda prospettiva è la donna che si deve iper-responsabilizzare assumendosi il rischio di cui è costitutivamente portatrice e quindi modificando la propria condotta ed il proprio stile di vita in base alle necessità di prevenzione. La costruzione giuridica del caso di violenza sessuale viene così basata sul grado di rischio associato al genere femminile, sia nel senso di un eccesso di deresponsabilizzazione dell’uomo (una sessualità femminile indisciplinata) o di un deficit di responsabilizzazione della donna (scarsità di precauzioni), e la risposta del sistema giuridico appartiene alla logica securitaria nella forma di una tutela e di un controllo tanto paternalistico quanto poliziesco. Ma il rischio riveste un ruolo assolutamente centrale ‒ aldilà di quello nel campo medico e nel campo penale appena discussi ‒ soprattutto nel campo economico. Il racconto che Peter Bernstein, consulente finanziario ed economista che ha recentemente introdotto la riedizione del noto volume dei coniugi Friedman sulla “grande depressione” (Friedman e Schwartz 2009), fa del ruolo del rischio nella storia umana, ha il pregio di mostrare il punto di vista di un capitalista finanziario e attivo agiografo del pensiero neoliberale. Cerchiamo qui di riassumere i punti salienti toccati dal suo ragionamento. Innanzi-

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tutto, la collocazione para-teologica, secondo cui i pensatori del rischio rovesciano come Prometeo l’ordine divino, ovvero Come Prometeo, [gli uomini] hanno sfidato gli dei e hanno esplorato l’oscurità alla ricerca della luce che ha trasformato il futuro da nemico in un’opportunità (Bernstein 1998, 13-14).

In secundis, il rischio è il concetto che rappresenta meglio ‒ più che il progresso, la scienza, la tecnologia, il capitalismo e la democrazia ‒ il superamento della soglia della modernità: Cos’è che distingue le migliaia di anni di storia da ciò che consideriamo tempi moderni? […] L’idea rivoluzionaria che definisce il confine tra i tempi moderni e il passato è la padronanza del rischio (Bernstein 1998, 13-14).

Prima della comparsa e del trattamento di quel concetto, già da migliaia di anni, ci dice Bernstein, erano comparsi brillanti scienziati, matematici, inventori, tecnologi e filosofi politici che già avevano fondato un sapere fondamentale e anche la domanda di innovazione tecnologica nella guerra non era da meno di quella di oggi. Tuttavia non si poteva entrare nella modernità perché mancava il concetto di rischio, che poi non significava altro che questo: la natura e il futuro erano fuori dell’orizzonte umano. Il rigido confine che impediva l’accesso al moderno, nonostante che le basi della scienza e della tecnologia non mancassero, era l’inaccessibilità del futuro, ovvero l’appartenenza del futuro, come della natura, ad una sfera non umana. Un confine che si può varcare quando l’uomo sviluppa l’idea che il futuro sia più di un capriccio degli dei e che uomini e donne non siano passivi di fronte alla natura. Fino a quando gli esseri umani non scoprirono un modo per oltrepassare quel confine, il futuro era uno specchio del passato o l’oscuro dominio degli oracoli e degli indovini che avevano il monopolio sulla conoscenza degli eventi previsti (Bernstein 1998, 13).

La straordinaria visione dei pensatori del rischio «ha rivelato come mettere il futuro al servizio del presente» (Bernstein 1998, 13). Peraltro, questa rivelazione coincide con una definizione del capitalismo finanziario e del debito come compravendita del futuro nel presente.

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Terzo, è interessante la collocazione storica e genealogica della formazione del concetto di rischio. Dal punto di vista storico, Bernstein colloca la comparsa di un serio studio del rischio nel periodo del Rinascimento quando le persone si sono liberate dai vincoli del passato e hanno sottoposto le credenze di lunga data a una sfida aperta. Era un periodo in cui gran parte del mondo doveva essere scoperto e le sue risorse sfruttate. Era un periodo di disordini religiosi, capitalismo nascente e un approccio vigoroso alla scienza e al futuro (Bernstein 1998, 14-15).

Dal punto di vista genealogico, esso viene collocato a partire dal pisano Fibonacci, nel 1202: In quell’anno apparve in Italia un libro intitolato Liber Abaci, o Libro dell’Abaco […] L’autore, Leonardo Pisano […] era noto per la maggior parte della sua vita come Fibonacci […] una contrazione di figlio di Bonacio. Bonacio significa “sempliciotto” e Fibonacci significa “stupido”. Bonacio […] rappresentava Pisa come console in molte città diverse, e suo figlio Leonardo non era certo uno stupido […] un matematico arabo gli rivelò le meraviglie del sistema di numerazione arabo-indù che i matematici arabi avevano introdotto in Occidente durante le Crociate in Terra Santa […] Il Liber Abaci rese le persone consapevoli di un mondo completamente nuovo in cui i numeri potevano essere sostituiti ai sistemi ebraico, greco e romano che utilizzavano le lettere per contare e calcolare […] Lì troviamo calcoli che utilizzano numeri interi e frazioni, regole di proporzione, estrazione di radici quadrate e radici di ordini superiori e persino soluzioni per equazioni lineari e quadratiche (Bernstein 1998, 43-44).

Tuttavia la caratteristica che rese, secondo Bernstein, popolare e importante, fuori dalle ristrette cerchie matematiche, il libro di Fibonacci è che Fibonacci lo riempì di applicazioni pratiche. Ad esempio, ha descritto e illustrato molte innovazioni che i nuovi numeri hanno reso possibili nella contabilità commerciale, come la determinazione dei margini di profitto, il cambio di denaro, le conversioni di pesi e misure e, sebbene l’usura fosse ancora vietata in molti luoghi, ha anche incluso calcoli pagamenti di interessi (Bernstein 1998, 43-44).

Oltre a Fibonacci, l’altro pensatore cruciale, direttamente collegato a Fibonacci, è, ben tre secoli dopo, il monaco francescano

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Luca Pacioli che insegnò matematica a Perugia, Roma, Napoli, Pisa e Venezia e infine, nel 1496, a Milano, dove divenne amico di Leonardo da Vinci: Il capolavoro di Paccioli [sic], Summa de arithmetica, geometria et proporzionalità […] nel 1494 […] riconosce il debito di Paccioli nei confronti del Liber Abaci di Fibonacci, scritto quasi trecento anni prima. La Summa definisce i principi di base dell’algebra e contiene tabelle di moltiplicazione fino a 60 × 60, una caratteristica utile in un momento in cui la stampa stava diffondendo l’uso del nuovo sistema di numerazione. Uno dei contributi più durevoli del libro è stata la presentazione della contabilità in partita doppia. Questa non era un’invenzione di Paccioli, sebbene il suo trattamento fosse il più ampio fino ad oggi. La nozione di contabilità in partita doppia era evidente nel Liber Abaci di Fibonacci ed era apparsa in un libro pubblicato intorno al 1305 dalla filiale londinese di una società italiana. Qualunque fosse la sua fonte, questa innovazione rivoluzionaria nei metodi contabili ebbe conseguenze economiche significative, paragonabili alla scoperta della macchina a vapore trecento anni dopo (Bernstein 1998, 68-69).

È a Pacioli che si deve anche la formulazione di un problema, di un puzzle matematico che sarebbe rimasto insoluto per quasi due secoli, fino a che Pascal e Fermat, risolvendolo, avrebbero creato la teoria della probabilità. Infatti, riprendendo il puzzle matematico di Pacioli, il cavaliere de Méré, nobile francese orientato tanto al gioco d’azzardo quanto alla matematica, sfidò Pascal a trovare la soluzione per la divisione della posta in un gioco d’azzardo tra due giocatori interrotto a un certo punto quando uno di loro è in vantaggio: Il puzzle aveva confuso i matematici da quando era stato posto circa duecento anni prima dal monaco Luca Paccioli. Questo è stato l’uomo che ha portato la contabilità in partita doppia all’attenzione dei dirigenti aziendali del suo tempo e ha istruito Leonardo da Vinci nelle tabelline. Pascal ha chiesto aiuto a Pierre de Fermat, un avvocato che era anche un brillante matematico. Il risultato della loro collaborazione è stata la dinamite intellettuale [portando] alla scoperta della teoria della probabilità, il cuore matematico del concetto di rischio (Bernstein 1998, 16).

Merita sottolineare l’aspetto cruciale nella ricostruzione del concetto di rischio di Bernstein: è dal calcolo strumentale applica-

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to alle questioni aziendali che nasce indirettamente la teoria della probabilità e con essa, o per meglio dire, con entrambe, calcolo aziendale e teoria probabilistica, nasce la modernità. Quarto, secondo Bernstein, la teoria della probabilità gioca un ruolo nello spostare l’attenzione sull’economia, che a noi ricorda ‒ mutatis mutandis ‒ quello che Hirschman (1979) vede al centro della nascita del capitalismo e della modernità, ovvero il passaggio “antropologico” dalle passioni all’interesse. Infatti, Bernstein attribuisce alla teoria del rischio il merito della trasformazione di una antica e deteriore passione umana ‒ quella per il gioco e la scommessa ‒ in un interesse verso l’economia e il benessere: La trasformazione degli atteggiamenti verso la gestione del rischio scatenata dai loro risultati ha incanalato la passione umana per i giochi e le scommesse verso la crescita economica, il miglioramento della qualità della vita e il progresso tecnologico. Definendo un processo razionale di assunzione del rischio, questi innovatori hanno fornito l’ingrediente mancante che ha spinto la scienza e l’impresa nel mondo della velocità, della potenza, della comunicazione istantanea e della finanza sofisticata che segna la nostra epoca (Bernstein 1998, 14).

Per finire, l’osservazione che la “rational choice” derivata da questi pensatori del rischio ha condotto all’attuale capitalismo neoliberale, che su di essa si basa per ogni minuto dettaglio ‒ dalla salute alla guerra, dalla famiglia ai cornflakes ‒ e che ovviamente è, per Bernstein, la panacea di tutti i mali umani. Le loro scoperte sulla natura del rischio e sull’arte e la scienza della scelta sono al centro della nostra moderna economia di mercato a cui le nazioni di tutto il mondo si stanno affrettando ad aderire. Dati tutti i suoi problemi e le sue insidie, l’economia libera, con la scelta al centro, ha portato all’umanità un accesso senza precedenti alle cose buone della vita. La capacità di definire ciò che può accadere in futuro e di scegliere tra alternative è al centro delle società contemporanee. La gestione del rischio ci guida in una vasta gamma di processi decisionali, dall’allocazione della ricchezza alla salvaguardia della salute pubblica, dal fare la guerra alla pianificazione di una famiglia, dal pagamento dei premi assicurativi all’indossare una cintura di sicurezza, dalla semina del mais alla commercializzazione dei cornflakes (Bernstein 1998, 14).

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Merita qui ricordare la duplice dimensione del concetto di rischio. Da un lato, l’aspetto oggettivo del rischio, che è misurabile tramite la statistica e le leggi della probabilità. Dall’altro lato, l’aspetto soggettivo del rischio, che si concentra sul soggetto che prende la decisione di assumere un rischio o d’intraprendere un’azione rischiosa. L’aspetto oggettivo si basa su passato e presente, quello soggettivo sul futuro atteso da parte del soggetto che ovviamente dipende dalle sue stesse (o dei suoi simili) convinzioni, opinioni e desideri. La nascita dell’aspetto soggettivo del rischio si deve a colui che anche fonda e unisce la soggettività dell’utilità basata sui desideri con la possibilità della scelta basata sulla misurazione e sul calcolo, ovvero che fornisce alla visione utilitaristica, implicita nella teoria del soggetto libero di scegliere (il libero arbitrio) elaborata dai teologi gesuiti, le gambe del calcolo strumentale, ovvero, ancora, che fornisce la matrice per la nascita dell’economia marginalista. Si tratta di Bernoulli che, all’inizio del ‘700, dopo aver formulato la tesi che le persone attribuiscono valori diversi al rischio, introduce un’idea cardine: [L’]utilità risultante da qualsiasi piccolo aumento della ricchezza sarà inversamente proporzionale alla quantità di beni precedentemente posseduti.” Poi osserva: “Considerando la natura dell’uomo, mi sembra che l’ipotesi precedente possa essere valida per molte persone a cui questo tipo di confronto può essere applicato”. L’ipotesi che l’utilità sia inversamente proporzionale alla quantità di beni precedentemente posseduti è uno dei grandi balzi intellettuali nella storia delle idee. In meno di una pagina stampata intera, Bernoulli converte il processo di calcolo delle probabilità in una procedura per introdurre considerazioni soggettive in decisioni che hanno esiti incerti. La genialità della formulazione di Bernoulli sta nel suo riconoscimento che, mentre il ruolo dei fatti è quello di fornire un’unica risposta al valore atteso (i fatti sono gli stessi per tutti), il processo soggettivo produrrà tante risposte quanti sono gli esseri umani coinvolti. Ma va anche oltre: suggerisce un approccio sistematico per determinare quanto ogni individuo desidera di più rispetto a meno: il desiderio è inversamente proporzionale alla quantità di beni posseduti. Per la prima volta nella storia, Bernoulli applica la misurazione a qualcosa che non può essere contato. Ha agito da intermediario nel matrimonio di intuizione e misurazione. Cardano, Pascal e Fermat hanno fornito un metodo per calcolare i rischi in ogni lancio di dadi, ma Bernoulli ci presenta chi prende il rischio, il giocatore che sceglie quanto scommettere o

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se puntare del tutto. Mentre la teoria della probabilità stabilisce le scelte, Bernoulli definisce le motivazioni della persona che fa la scelta. Questa è un’area di studio e un corpo di teoria completamente nuovi. Bernoulli pose le basi intellettuali per gran parte di ciò che sarebbe seguito non solo in economia, ma nelle teorie su come le persone prendono decisioni e scelte in ogni aspetto della vita (Bernstein 1998, 163-164).

Questa duplicità del concetto di rischio si riverbera, successivamente, nella nota distinzione fra rischio e incertezza che si snoda nel pensiero economico. Tale distinzione viene esplicitata da Knight nel 1921: la differenza pratica tra le due categorie, rischio e incertezza, è che nella prima si conosce la distribuzione del risultato in un gruppo di casi (o tramite calcoli a priori o da statistiche dell’esperienza passata), mentre nel caso dell’incertezza questo non è vero […] il miglior esempio di incertezza è in relazione all’esercizio del giudizio o alla formazione di quelle opinioni sul futuro corso degli eventi, in cui le opinioni (e non le conoscenze specifiche) guidano effettivamente la maggior parte delle nostre condotte (Knight 1964, 233).

Ed è il concetto di incertezza, inteso in opposizione a quello di rischio, ad essere considerato da Keynes come quello centrale per l’economia. L’economista inglese, nella “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del 1936, paragona il mercato finanziario a un concorso di bellezza in cui il criterio di comportamento dei giudici non è quello di scegliere la ragazza che ciascuno ritiene più bella ma quello di anticipare la scelta degli altri giudici. Così i valori del mercato finanziario non rispecchiano valutazioni reali, ma sono determinati dal tentativo di anticipare le scelte d’investimento futuro da parte degli altri operatori economici. In risposta al dibattito sorto per la precedente definizione, Keynes sarà ancora più esplicito l’anno seguente in un articolo sul Quarterly Journal of Economics: Per conoscenza “incerta” […] Non intendo solo distinguere ciò che è noto per certo da ciò che è solo probabile. Il gioco della roulette non è soggetto, in questo senso, all’incertezza […] Il senso in cui sto usando il termine è quello in cui la prospettiva di una guerra europea è incerta, o il prezzo del rame e il tasso di interesse tra vent’anni, o l’obsolescenza di una nuova invenzione […] Riguardo a questi argomenti, non vi è alcuna

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base scientifica su cui formare alcuna probabilità calcolabile. Semplicemente non lo sappiamo! (Keynes 1937).

La somiglianza di Keynes con Knight e i pensatori neoliberali rispetto alla visione della gestione del rischio inteso come incertezza è notevole. E il paradosso consiste qui nel fatto che, mentre Keynes ritiene il futuro incerto e lascia l’orizzonte aperto alla novità per quanto riguarda la determinazione politica del futuro, il keynesismo, come applicazione di politica economica e sociale, prende la forma di una governamentalità in cui il “pubblico” si cura dei rischi e li considera sia nella loro piena calcolabilità che nella loro dimensione sociale e non individuale, e che si focalizza sulla efficacia dei formalismi matematici dei rischi per ottenere il più efficace intervento economico. De Carolis (2019) riconosce questa somiglianza, che avvicina Keynes più ai teorici della impossibilità di far meglio del mercato e della dannosità di ogni tentativo di intervenirvi dall’alto ‒ cioè Hayek e von Mises, padri del neoliberalismo ‒ che all’economia dei modelli “matematici”, sia quella mainstream (persino nella recente versione delle aspettative razionali)125 che quella della programmazione ‒ o persino della pianificazione ‒ in voga dai “gloriosi Trenta” fino all’era del welfare del dopoguerra. Tuttavia, sebbene le premesse e le argomentazioni sul ruolo dell’incertezza di Keynes, l’interventista sul mercato per antonomasia, siano simili a quelle dei neoliberali austriaci, che invece ne deducono l’impossibilità di ogni intervento e l’intangibilità dell’ordine spontaneo del mercato, è possibile, secondo De Carolis, che Keynes tragga da premesse simili conclusioni esattamente opposte ai teorici della superiorità e pervasività del mercato, grazie alla distinzione concettuale, elaborata nel capitolo XII della Teoria generale, tra impresa e speculazione: seb-

125 Come dice Reddy (1996, 228-29), con riferimento alla dominante economia mainstream che ha “sterilizzato” Keynes (secondo cui investitori e imprenditori erano guidati da “spiriti animali”, per loro stessa natura non soggetti ad analisi probabilistica del” rischio”), «oggi gli economisti tradizionali usano i termini rischio e incertezza in modo intercambiabile. In altre parole, non sembrano preoccuparsi di altro che degli aspetti tecnici della risoluzione dei problemi attuariali, cioè dei problemi di riduzione o gestione dei rischi noti o sconosciuti ma ben definiti e di diffonderli in modo “ottimale” tra le persone».

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bene sia vero che un’impresa fronteggia sempre una fondamentale e radicale incertezza e opera per «sconfiggere le forze oscure del tempo e dell’ignoranza che avviluppano il nostro futuro», il suo comportamento sarà convenzionale, nel senso di adottare un processo mimetico di adattamento alle altrui opinioni; l’impresa agirà, cioè, per anticipare ‒ e per quanto possibile manipolare e manovrare ‒ le scelte degli altri, «sfruttando la credulità altrui per lucrare il massimo guadagno e scaricare sugli altri – più lenti o meno furbi – i rischi dell’operazione»(De Carolis 2019). Dove Keynes si distingue dai cantori della libertà autoregolata dei mercati è nel ritenere che «il progresso tecnico e l’evoluzione spontanea dei mercati, se lasciati a se stessi, tendono non a ridurre ma, anzi, a potenziare al massimo la preponderanza della speculazione sull’impresa vera e propria» (De Carolis 2019). La storia dell’economia è rivelatrice sotto questo aspetto di una dicotomia che contiene in sé anche una contraddizione, che ci limitiamo a segnalare. Da un lato, all’interno della teoria economica la nozione di ‘rischio’ (come definito da Knight), vale a dire una visione del futuro soggetta ad analisi probabilistica, ha di gran lunga vinto sulla nozione di ‘incertezza’, cioè di una visione del futuro radicalmente indeterminata che rende impossibile tale analisi. Questo è andato di pari passo con una più o meno deliberata moltiplicazione dei rischi e della altrettanto deliberata introiezione di essi e responsabilizzazione per essi da parte degli individui, nonché della altrettanto deliberata diffusione della convinzione che burocrazie esperte possiedano capacità superiori di anticipazione e di gestioni dei rischi, con ovvie derive autoritarie anche se nascoste dalla ideologia liberogena della nuova governamentalità. Da un altro lato, l’estensione e la pervasiva diffusione del modello-impresa anche agli individui tenderebbe a trasmettere anche ad essi la stessa nozione di ‘incertezza’ che era stata postulata come peculiare all’impresa e al profitto; questo condurrebbe allora, come dice Bernstein, riprendendo la nozione di incertezza Keynesiana e usandola per l’agiografica descrizione dell’“imprenditorializzazione” dell’umanità, alla estensione della “libertà” umana: Un’idea straordinaria giace sepolta nell’idea che semplicemente non sappiamo. Piuttosto che spaventarci, le parole di Keynes portano grandi no-

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tizie: non siamo prigionieri di un futuro inevitabile. L’incertezza ci rende liberi (Bernstein 2009, 347, corsivo nostro).

Ma dove sta qui la contraddizione? Sta nel fatto che secondo alcuni (p.e. Reddy 1996; O’Malley 2000), se l’’incertezza’ deve prendere il posto del ‘rischio’ come visione generale per l’analisi del rischio, allora, attraverso la riduzione del potere autoritario degli esperti, si avrebbe un miglioramento sia in termini di legittimità democratica che di efficacia consequenziale delle procedure decisionali sociali. In realtà, la visione dell’incertezza che esalterebbe la libertà e la creatività dell’imprenditore, e che sostiene che se ci fosse il rischio calcolabile e non l’incertezza allora non vi sarebbe profitto ‒ e, quindi, il profitto viene così fatto derivare da un merito speciale, e non dalla fortuna, quasi da una specie di grazia, che consente di essere più bravo degli altri, ma non più bravo rispetto alla calcolabilità dei rischi (che sarebbe un merito di razionalità), piuttosto, invece, più bravo nell’anticipare le azioni degli altri (che è un merito di intuitività) ‒ è pura ideologia. Questa ideologia nasce alla fine del XIX secolo, quando l’incertezza sui risultati dei processi economici era ancora osservabile tramite regolarità statistiche ed era attribuita, come diceva Menger, solo all’interferenza reciproca di molte “leggi causali inesorabili”, ovvero, in altri termini, l’economia rimaneva ancora governata da leggi puramente deterministiche. Nasce con von Thunen (ed altri), quando sostiene che il profitto non emerge dall’operare di leggi deterministiche, ma dalla creatività degli imprenditori, e, come sintetizza Blaug (1988, 461), allora «i profitti ottenuti dall’imprenditore [… sono] i ritorni per incorrere in quei rischi che nessuna compagnia assicurativa coprirà perché imprevedibili, e in questo senso l’imprenditore è necessariamente un inventore ed esploratore nel suo campo». Possiamo vedere come questa tesi sia ripresa ed estesa, nel 1921, da Knight che ‒ dopo aver distinto tra due forme di indeterminatezza, il “rischio”, che è calcolabile e prevedibile sulla base dei modelli statistici, e l’“incertezza”, che non è statisticamente calcolabile ‒ sostiene che l’economia è fondata principalmente sull’“incertezza” e non sul “rischio”, perché nella realtà esiste un eccesso di casuale volatilità che per la sua stessa natura non può essere inquadrata in termini di aspettativa razionale, ed è quindi

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l’“incertezza” e non il “rischio” quella che rileva per l’attività creativa dell’imprenditore. Knight, quindi, esprime con chiarezza la nuova ideologia del profitto: l’unico “rischio” che porta al profitto è un’incertezza unica derivante da un esercizio di responsabilità ultima che per sua natura non può essere assicurata, né capitalizzata, né retribuita. Il profitto nasce dall’inerente, assoluta imprevedibilità delle cose, dal puro e brutale fatto che i risultati dell’attività umana non possono essere anticipati e quindi solo nella misura in cui anche un calcolo di probabilità riguardo ad essi è impossibile e privo di significato (Knight 1964, 310).

Con altrettanta chiarezza viene sostenuto che il profitto non può che essere il risultato di una forma di superiorità nel giudizio. Inoltre, questa superiorità non è razionalmente spiegabile ma è ineffabile come una grazia, e nel caso ci fosse modo di formulare un giudizio basato su casi empirici e sul calcolo del rischio, allora il profitto guadagnato non sarebbe più tale, ma sarebbe pari ‒ e questo viene detto come se si trattasse di svalorizzazione ‒ ad un salario: Si può sostenere che il guadagno in un caso particolare sia il risultato di un giudizio superiore. Ma è un giudizio di giudizio, specialmente il proprio giudizio, e in un caso individuale non c’è modo di distinguere il buon giudizio dalla buona fortuna, e una successione di casi sufficiente per valutare il giudizio o determinarne il valore probabile trasforma il profitto in un salario (Knight 1964, 310-311).

Così viene da pensare che mentre l’ideologia neoliberale esalta l’approccio dell’’incertezza’, perché sarebbe quello caro alle imprese e ai mercati ‒ che poi sarebbero, rispettivamente, gli individui (considerati come imprese) e le relazioni sociali in ogni loro singolo aspetto (considerate come mercati) ‒ e perché genererebbe, come dice Bernstein appropriandosi di Keynes, la loro “libertà”, in realtà la governamentalità neoliberale usa proprio l’approccio del ‘rischio’ come tecnologia di potere e di soggettivazione-assoggettamento. La connessione fra la teoria della probabilità, la statistica sociale, il rischio, l’incertezza, da un lato, e il governo, dall’altro lato,

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trova una inaspettata e originale riflessione in un ultimo scritto di Majorana prima della sua scomparsa, che Agamben (2016) recupera e interpreta acutamente. La scomparsa di Ettore Majorana, genio scientifico scomparso nel nulla nel 1938, ha dato luogo a recenti molteplici, e spesso affascinanti, interpretazioni di natura filosofica. Se Dürrenmatt (1985), pur non riferendosi direttamente a Majorana, ci narra del fisico Möbius che per senso di responsabilità preferisce seguire un’altra via ‒ fingersi pazzo e finire in manicomio, bruciando tutti i suoi risultati ‒ sostenendo che nel tempo odierno il dovere del genio è restare misconosciuto, se per Sciascia (1975) a spingere Majorana ad abbandonare la fisica e a scomparire sarebbe stata la sua capacità di intravedere e conseguentemente rifiutare la bomba atomica, oppure se, per Punzi (2017), Majorana è colui che rifiuta la modernità, sfuggendo alla struttura di aspettative in cui la famiglia, lo Stato e l’Università126 hanno chiuso la sua esistenza, come in una gabbia d’acciaio, e, quindi, la sua scomparsa parla del disagio dell’individuo moderno, ma anche delle possibilità di resistenza allo spirito del capitalismo, per Agamben, invece, la sua scomparsa contiene «un’obiezione decisiva alla natura probabilistica della meccanica quantistica […] è l’unico modo in cui il reale può affermarsi perentoriamente come tale, sottraendosi alla presa del calcolo […] ha prodotto in questo modo un evento insieme assolutamente reale e assolutamente improbabile» (Agamben 2016, 52-53). Secondo Agamben, Majorana ha visto acutamente «le implicazioni di una meccanica che rinunciava a ogni concezione non probabilistica del reale: la scienza non cercava più di conoscere la realtà ma solo di intervenire su di essa per governarla» (Agamben 2016, 50). In altre parole, Majorana con la sua volontaria scomparsa si sarebbe dunque sottratto al comando dell’esperimento da parte del soggetto che, affidando alla probabilità la realizzazione di un evento iniziale (come la scissione dell’atomo, ma anche ‒ potrem-

126 Infatti, secondo Magueijo (2010, 110), Majorana «era destinato a subire anche in Università la pressione sociale dello sguardo di secondo ordine, perché nell’Istituto di Fisica, tutti seguivano il mantra “o pubblichi o muori” che è parte integrante della sopravvivenza in ambito accademico».

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mo aggiungere noi nel caso che il soggetto sperimentatore sia il potere di governo ‒ come l’arrivo di una pandemia), manipola la catena di eventi su cui conduce l’esperimento stesso. Inizialmente, Majorana (2016) nel suo ultimo lavoro stabilisce una stretta analogia formale fra le leggi della fisica meccanica e le leggi “sociali”. Prima condensa in tre punti principali la relazione fra fisica classica e leggi statistiche: 1) i fenomeni naturali obbediscono ad un determinismo assoluto; 2) l’osservazione ordinaria non permette di riconoscere esattamente lo stato interno di un corpo, ma solo di stabilire un complesso innumerevole di possibilità indistinguibili; 3) stabilite delle ipotesi plausibili sulla probabilità delle diverse possibilità, e supposte valide le leggi della meccanica, il calcolo delle probabilità permette la previsione più o meno certa dei fenomeni futuri. Possiamo ormai esaminare il rapporto che passa fra le leggi stabilite dalla meccanica classica e quelle regolarità francamente empiriche che sono note con lo stesso nome in modo particolare nelle scienze sociali. Bisogna anzitutto convincersi che l’analogia formale non potrebbe essere più stretta (Majorana 2016, 70).

Tralasciando per semplicità le considerazioni che Majorana porta per convincere di quella stretta analogia formale, passiamo ad osservare come il fisico introduce la allora neonata meccanica quantistica per osservare un’altra stretta, e apparentemente impensabile, analogia di quest’ultima con la statistica sociale. Fino a suggerire, o forse meglio rivelare, il segreto della governamentalità contemporanea, fornendo ad essa un supporto sia ontologico che epistemologico sorprendente, come vedremo di seguito. Majorana, quindi, espone in modo sintetico quella che chiama «straordinaria teoria […] così solidamente fondata nell’esperienza come forse nessun’altra fu mai» enucleandone le due caratteristiche distintive ed estreme, l’assenza reale sia di determinismo che di oggettività nel mondo fisico, e, cosa ancor più inquietante, il fatto che mentre la conoscenza vera dello stato del mondo è impossibile, l’atto stesso di conoscenza compiuto, o meglio tentato dallo sperimentatore, diventa un atto di creazione della realtà fisica: a) non esistono in natura leggi che esprimano una successione fatale di fenomeni; anche le leggi ultime che riguardano i fenomeni elementari

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(sistemi atomici) hanno carattere statistico, permettendo di stabilire soltanto la probabilità che … una misura eseguita su un sistema preparato in un dato modo dia un certo risultato, e ciò qualunque siano i mezzi di cui disponiamo per determinare con la maggior esattezza possibile lo stato iniziale del sistema. Queste leggi statistiche indicano un reale difetto di determinismo [corsivo nostro], e non hanno nulla di comune con le leggi statistiche classiche nelle quali l’incertezza dei risultati deriva dalla volontaria rinunzia, per ragioni pratiche, a indagare nei più minuti particolari le condizioni iniziali dei sistemi fisici. Vedremo più avanti un esempio ben noto di questo nuovo tipo di leggi naturali. b) una certa mancanza di oggettività nella descrizione dei fenomeni. Qualunque esperienza eseguita in un sistema atomico esercita su di esso una perturbazione finita che non può essere, per ragioni di principio, eliminata o ridotta. Il risultato di qualunque misura sembra perciò riguardare piuttosto lo stato in cui il sistema viene portato [corsivo nostro], nel corso dell’esperimento stesso che non quello inconoscibile [corsivo nostro], in cui si trovava prima di essere perturbato. Questo aspetto della meccanica quantistica è senza dubbio più inquietante [corsivo nostro], cioè più lontano dalle nostre intuizioni ordinarie, che non la semplice mancanza di determinismo (Majorana 2016, 74-75).

Lo stato di un sistema atomico non si può stabilire con esattezza; al massimo, ci dice Majorana, secondo la fisica quantistica si può stabilire la probabilità che una misura eseguita su un sistema preparato in un dato modo dia un certo risultato, ma allora quello che si osserva è lo stato del sistema che la perturbazione dell’esperimento ha prodotto, mentre il sistema rimane inconoscibile. Quindi, la realtà è “inconoscibile” e forse è creata dagli artefatti e dalle tecnologie dello scienziato sperimentatore. Le osservazioni sperimentali, inspiegabili nei termini tradizionali, attraverso cui i fisici erano giunti alla conclusione che una singola particella poteva trovarsi simultaneamente in più stati, aveva trovato all’epoca un modello divulgativo in un esperimento mentale noto come il paradosso del «gatto di Schroedinger» in cui, secondo i principi quantistici, un gatto risulta vivo e morto allo stesso tempo; il paradosso era in grado di mostrare come la “strana” meccanica quantistica può riguardare non solo il mondo microscopico ma anche quello complesso osservabile quotidianamente. Infatti, lo scienziato austriaco Erwin Schrödinger costruisce, come lui stesso dice, un caso del tutto burlesco consistente nel chiudere un gatto in una scatola d’acciaio insieme a una mac-

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china infernale che libera una fiala di cianuro al disintegrarsi di un singolo atomo di una sostanza radioattiva, le cui probabilità di accadere o non accadere entro un’ora sono identiche. Lasciando indisturbato questo intero sistema per un’ora, allora si ha che il gatto è vivo se nel frattempo nessun atomo si è disintegrato, mentre è morto avvelenato se almeno un atomo si è disintegrato liberando il cianuro. In termini probabilistici, dopo un’ora il gatto è allo stesso tempo vivo e morto, ma aprendo la scatola ‒ e solo in tale modo ‒ il sistema viene comandato a passare in uno dei due stati, gatto vivo o gatto morto. È da questa impossibilità di descrivere con esattezza lo stato di un sistema fisico microscopico che secondo Heisenberg le leggi statistiche devono essere poste alla base della meccanica dei quanti127. Se la perturbazione esercitata dalla misurazione di un sistema atomico è ineliminabile, allora, come afferma Agamben, quel che si rivela nell’esperimento scientifico è soprattutto la modificazione che il sistema subisce attraverso gli strumenti di misurazione ‒ più che la conoscenza del sistema stesso. È in questo aspetto peculiare, che lega sperimentatore e realtà, che il principio di indeterminazione di Heisenberg rivela il suo vero significato, che è quello di legittimare come inevitabile l’intervento dello sperimentatore più che quello di porre un limite alla conoscenza. Majorana non solo tenta di interpretare in modo originale la novità della meccanica quantistica ma soprattutto suggerisce una nuova analogia fra le leggi statistiche alla sua base e quelle della statistica sociale, arrivando a conclusioni riguardanti la società e il suo governo persino più sorprendenti ed inquietanti della stessa meccanica dei quanti. Majorana rappresenta la legge statistica implicata nella meccanica dei quanti attraverso il caso del tasso di decadimento degli

127 Infatti, Heisenberg (1957) aveva già chiarito in Natura e Fisica moderna questa nozione, affermando che «L’idea della obbiettiva realtà delle particelle elementari si è quindi sorprendentemente dissolta, e non nella nebbia di una qualche nuova, poco chiara o ancora incompresa idea di realtà, ma nella trasparente chiarezza di una matematica che non rappresenta più il comportamento della particella, ma il nostro sapere sopra questo comportamento […] dietro il mondo statistico non c’è nessun mondo “reale” in cui valga il principio di causalità».

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atomi radioattivi che è indipendente dall’età dell’atomo e puramente probabilistico (ogni determinismo causale è così escluso): È stato possibile verificare, mediante dirette rilevazioni statistiche e applicazioni del calcolo delle probabilità, che i singoli atomi radioattivi non subiscono alcuna influenza reciproca o esterna per quanto riguarda l’istante della trasformazione; infatti il numero delle disintegrazioni che hanno luogo in un certo intervallo di tempo è soggetto a fluttuazioni dipendenti esclusivamente dal caso, cioè dal carattere probabilistico della legge individuale di trasformazione (Majorana 2016, 76).

Successivamente Majorana propone una analogia apparentemente impensabile fra le leggi probabilistiche del “tasso di mortalità” degli atomi radioattivi e quelle, ad esempio, del “tasso di mortalità” della popolazione, tipiche delle statistiche sociali, affermando quindi che l’analogia fra le leggi probabilistiche della statistica sociale statistiche e quella della fisica classica tiene, sebbene in modo ancor più enigmatico, anche con quelle della fisica quantistica. Ma l’introduzione nella fisica di un nuovo tipo di legge statistica, o meglio semplicemente probabilistica, che si nasconde, in luogo del supposto determinismo, sotto le leggi statistiche ordinarie obbliga a rivedere le basi dell’analogia che abbiamo stabilita più sopra con le leggi statistiche sociali […] se ricordiamo quanto si è detto più sopra sulle tavole di mortalità degli atomi radioattivi, siamo indotti a chiederci se non esista anche qui un’analogia reale con i fatti sociali, che si descrivono con linguaggio alquanto simile (Majorana 2016, 76-77).

Ma, nell’argomentare la risposta, Majorana non soltanto non esclude l’analogia con le leggi statistiche sociali, ma attribuisce a quest’ultime un fondamento ontologico diretto, e indirettamente lo fornisce anche all’attività di governo. Per riconfermare l’analogia, Majorana prima riconosce l’obiezione che può ad essa essere posta, cioè quella per cui, del tutto diversamente dagli eventi sociali, la disintegrazione di un atomo radioattivo è un evento singolare e imprevedibile nell’arco di migliaia di anni, che tuttavia tramite comuni artifici preparatori può comandare la manifestazione di una complessa realtà: La disintegrazione di un atomo radioattivo può obbligare un contatore automatico a registrarlo con effetto meccanico, reso possibile da adatta

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amplificazione. Bastano quindi comuni artifici di laboratorio per preparare una catena complessa e vistosa di fenomeni che sia comandata dalla disintegrazione accidentale di un solo atomo radioattivo (Majorana 2016, 77-78).

Nel corsivo che Majorana impone alla parola “comandata”, si vede non tanto o non solo la creazione di quella catena complessa e vistosa di fenomeni che qualche anno dopo diventerà la fissione nucleare della prima bomba atomica, ma l’acuta osservazione del nesso ‒ implicito nel carattere del tutto probabilistico dei fenomeni secondo la fisica quantistica ‒ fra lo sperimentatore e il suo “comandare” una intenzionale direzione al fenomeno stesso. Come l’evento singolare dell’atomo radioattivo comanda artificialmente una realtà, altrettanto plausibile è che un evento altrettanto singolare (invisibile e imprevedibile) dia origine a fatti della storia evenemenziale umana: Non vi è nulla dal punto di vista strettamente scientifico che impedisca di considerare come plausibile che all’origine di avvenimenti umani possa trovarsi un fatto vitale egualmente semplice, invisibile e imprevedibile (Majorana 2016, 78).

Ma se questa analogia altamente plausibile è stabilita, allora la statistica sociale non è solo lo strumento approssimativo per una conoscenza oggettivamente difficile della realtà, ma fornisce concretezza, sostanza, manifestazione alla realtà stessa. E qui, in modo inquietante, Majorana introduce l’“ufficio”, il compito, il dovere che è proprio dell’approccio probabilistico alla realtà sociale; quello della “interpretazione” di tale probabilità, che è anche atto politico, o meglio amministrativo, di creazione della realtà sociale e storica intrinseco al governo stesso della medesima: Se è così, come noi riteniamo, le leggi statistiche delle scienze sociali vedono accresciuto il loro ufficio, che non è soltanto quello di stabilire empiricamente la risultante di un gran numero di cause sconosciute, ma soprattutto di dare della realtà una testimonianza immediata e concreta. La cui interpretazione richiede un’arte speciale, non ultimo sussidio dell’arte di governo (Majorana 2016, 78).

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Majorana, riflettendo sui modelli statistici nella descrizione della realtà ‒ fisica o sociale ‒ offre scenari inediti sul “potere di comando” dello sperimentatore, del fisico come dello scienziato sociale. La frase finale dell’articolo di Majorana, pur nella sua enigmaticità, sembra piuttosto connettersi sorprendentemente, fornendo loro un fondamento ontologico, alle considerazioni foucaltiane sulla governamentalità moderna, sulla sua peculiarità di contemporanea creazione e governo della realtà sociale imperniata sul paradigma dell’emergenza, sulla continua invenzione e gestione dei rischi, come discusso anche nel par. 4.3. Anche secondo Agamben, Majorana, nel suo ultimo articolo, istituendo l’analogia con le leggi probabilistiche della meccanica quantistica che mirano non a conoscere ma a “comandare” lo stato dei sistemi atomici, suggerirebbe che anche le leggi della statistica sociale non sono volte alla conoscenza, ma al “governo” dei fenomeni sociali. È possibile, allora, che l’ipotesi di Sciascia sulle motivazioni che hanno spinto Majorana ad abbandonare la fisica vada corretta e integrata nel senso che, se non è certo che Majorana avesse intravisto le conseguenze della scissione dell’atomo, è invece sicuro che egli avesse visto con chiarezza le implicazioni di una meccanica che rinunciava a ogni concezione non probabilistica del reale: la scienza non cercava più di conoscere la realtà, ma ‒ al pari della statistica nelle scienze sociali ‒ soltanto di intervenire su di essa per governarla (Agamben 2016, 19).

Agamben, a partire dalla individuazione di una intenzionale contraddizione fra due possibili stati di realtà esplicitata nelle due quasi contemporanee lettere che il fisico scrive al collega Carrelli e alla propria famiglia nel momento della sua scomparsa, arriva ad arguire che tale scomparsa abbia in se stessa una motivazione e un senso che la rendono anche «un’obiezione decisiva alla natura probabilistica della meccanica quantistica», e fornisce un quadro ontologico in cui inserire le sue tesi sulla scomparsa del fisico. L’essere può essere sia potenza o possibilità (dynamis) che atto (energeia) e quindi la potenza esiste anche senza l’atto, anzi essa è definibile come la possibilità del suo sospendere il passaggio all’atto, come il suo potere di essere e non essere realtà, di passare

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o non passare all’atto, di esistere nella forma di un non essere ancora in atto, di esistere indipendentemente dalla sua realizzazione effettiva128. Sebbene Aristotele stabilisca il primato della realtà sulla possibilità, la supremazia della energeia sulla dynamis ‒ perché, ad esempio, l’uomo è necessariamente anteriore al seme oppure l’atto di vedere è anteriore rispetto alla possibilità di vedere ‒ e, inoltre, ponga nell’atto il fine più proprio della potenza, risultando quindi che per il filosofo greco non possa esistere qualcosa come una scienza del caso, una teoria della probabilità, perché “ogni scienza si occupa di ciò che è sempre o per lo più, mentre l’accidente non rientra in nessuna di queste due cose”, tuttavia Agamben prova a definire la probabilità usando le argomentazioni di Aristotele, per cui allora «essa è una potenza che si è emancipata dalla sua soggezione gerarchica all’atto. In quanto si è assicurata un’esistenza indipendente dalla sua realizzazione effettiva, una tale possibilità tende a sostituirsi alla realtà e diventare così oggetto di una […] scienza dell’accidentale che la considera in sé, non come uno strumento di conoscenza del reale, ma come un modo per intervenire in esso per governarlo» (Agamben 2016, 49-50). Da queste definizioni della probabilità, possiamo trarne alcune sorprendenti conseguenze. La probabilità non serve per conoscere la realtà, ma per crearla con la proprietà della governabilità. La probabilità crea la realtà attraverso la ‒ e ai fini della ‒ calcolabilità. La realtà nasce per comando e nasce già economica. La realtà “comandata” per calcolo elimina la possibilità di distinguere il reale dal non-reale, anzi elimina la possibilità stessa, la quale solo sottraendosi al comando che attualizza per calcolo e governo, ritorna reale. La scomparsa di Majorana mette a tema la differenza tra reale ed esistente, riguarda la soglia fra vita e non-vita. Quella

128 Le osservazioni sulla ontologia della realtà sottesa alla meccanica quantistica ci suggeriscono, per analogia, anche un’altra osservazione, questa volta in merito alla relazione fra “possibilità” di un’opera d'arte e la sua realtà: infatti, come afferma Bergson, l’Amleto deve essere stato già composto per sapere che l’Amleto è possibile, ovvero la possibilità dell’Amleto entra nel mondo allo stesso tempo in cui avviene la creazione del medesimo nella mente e nella penna di Shakespeare. Prima che fosse già realtà, l’Amleto non era “possibile”.

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scomparsa è la realtà ma l’evento (suicidio o fuga, rapimento o clausura volontaria, morte o vita) è indecidibile. Majorana, se vogliamo seguire questa via interpretativa, allora si sottrae al comando, rappresenta nel suo comportamento-esperimento l’esistenza di una potenza di essere e di non-essere. Majorana dimostra l’“impotenza”, la sottrazione all’“opera” come antidoto alla produzione di realtà per calcolo e per governo. Nel suo esperimento ha reso impotente lo sperimentatore. Non è facile resistere alla tentazione di equiparare il significato della scomparsa di Majorana ‒ la dimostrazione dell’“impotenza” ‒ a quello del “I would prefer to not” dello scrivano Bartleby (vedi par. 4.4) ‒ la sottrazione al comando dell’“operosità” ‒ e di collegare entrambi alla resistenza all’obbligo del fare quale dovere religioso del capitalismo129. Ma nel suggerire una connessione fra questa interpretazione sia dello scritto che della scomparsa di Majorana e le analisi del potere di Foucault discusse in questo libro, possiamo andare ben oltre la suggestione di considerare l’“inoperosità” conseguente alla scelta di “scomparire” come un esempio di contro-condotta riferita alla condotta governamentale, riferimento che è stato pur centrale nella riflessione sulla genealogia del potere in Foucau-

129 Basta qui ricordare la stupenda narrazione di Weber che con dovizia di documentazione ‒ fra cui le opere del teologo ‘puritano’ Baxter ‒ dimostra come lo spirito capitalista sia derivato da quello religioso delle sette riformate. Un collegamento fra il rifiuto di continuare a “fare” ‒ implicito in Majorana ed esplicito, sebbene enigmatico, in Bartleby ‒ e il rifiuto dello spirito religioso del capitalismo identificato da Weber è suggerito anche da Punzi (2017, 69-70): «Nonostante Ettore [Majorana] avesse ricevuto una educazione cattolica, il suo tentare di non fare quel che deve fare, quel che non può non fare può essere interpretato, corrispondentemente allo scriba che non scrive [Bartleby], come un oltraggio a quell’etica protestante che il capitalismo assunse, almeno inizialmente, come suo spirito guida. Secondo quest’etica, infatti, non fare quel che si deve fare è perdere tempo e la perdita di tempo è il peccato più grande. Nel Christian Directory, come ricorda Weber, Richard Baxter offre un compendio della teologia morale puritana in cui afferma che «Se Dio vi indica una via dove voi […] potete guadagnare di più che seguendo un’altra strada, e se voi la rifiutate e seguite il cammino che apporta un guadagno minore, allora voi contrastate uno degli scopi della vostra chiamata (“calling”), voi rifiutate di essere amministratori (“stewarts”) di Dio e di ricevere i suoi doni per poterli usare per lui, se lo dovesse chiedere» (Weber 2006, 222)».

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lt (vedi cap. 2), per suggerire invece che la teoria della probabilità con il suo “comando” inquietante sulla realtà come arte di governo, che sta al cuore dell’interpretazione agambeniana, sia strettamente collegata con la concezione della governamentalità neoliberale indagata da Foucault. Potremmo dire che Majorana (se vogliamo seguire la suggestione di Agamben) conferisce, seppure in modo enigmatico, un senso altamente ontologico a quella che in termini foucaultiani era più semplicemente la descrizione della governamentalità neoliberale, caratterizzata dalla sua stretta relazione fra rischio, incertezza e tecnologia di governo. Possiamo anche dire, con parole e considerazioni che saranno riprese ed estese nel par. 4.3, che i dispositivi governamentali e l’approccio probabilistico insieme creano quella realtà e quella verità che viene portata alla luce proprio perché è già in sé eminentemente governabile.

Capitolo 2 GOVERNO E RESISTENZA

2.1. La politica e le contro-condotte anti-pastorali dal Medioevo al moderno capitalismo Onore a quanti nella loro vita/ decisero difese di Termopile […] E di più grande onore sono degni/ se prevedono (e molti lo prevedono)/ che spunterà da ultimo un Efialte/ e i Persiani, alla fine, passeranno. (Kavafis, Termopile, 2004, 11)

Foucault studia le rivolte di condotta anti-pastorali, partendo dalle tesi sul potere e sulla resistenza al medesimo, presentate in La Volonté de savoir nel 1975, e la nozione di resistenza là introdotta rimane centrale per la definizione del concetto di politica di Foucault. In un manoscritto di undici fogli senza titolo, inserito tra le lezioni del 21 febbraio e del 7 marzo del corso del 1979 (Foucault 2005), egli, infatti, scrive: «L’analisi della governamentalità […] implica che “tutto è politico”. […] La politica non è niente di più e niente di meno che ciò che nasce con la resistenza alla governamentalità, la prima sollevazione, il primo fronteggiarsi» (Senellart 2017, 291). Insomma la politica esiste e consiste nella resistenza alla condotta. Se per Schmitt la politica è nel conflitto ineliminabile fra amico e nemico, per Foucault è insita nella relazione di potere, ad esempio quella del potere pastorale, ma nel momento e luogo ove sorge la controcondotta. Possiamo allora arguire che l’eliminazione della politica (fenomeno perseguito dall’odierna governamentalità neo-liberale) è l’eliminazione della resistenza al potere. Foucault sviluppa ‒ nella Volonté de savoir ‒ un concetto del potere che, sebbene riconosca che il suo esercizio richieda sempre l’uso dell’intenzionalità, del calcolo e la determinazione di

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obiettivi, appare però non centralizzato in una specifica élite dirigente, ma variamente e vagamente sfumato in una rete di agenti multipli inizialmente scollegati fra loro ‒ il «cinismo locale del potere» ‒ ma fra cui si stabiliscono connessioni, implicazioni e proliferazioni che alla fine delineano «dei dispositivi d’insieme» dietro ai quali, pur apparendovi una intelligibile logica e una chiara strategia, non c’è però una unica mano strategica1. Questa sembra essere una microfisica del potere diffuso, in cui c’è sempre un confronto fra chi comanda e colui che resiste (e, peraltro, il soggetto che resiste viene costituito nella stessa relazione dal potere), e, quindi, per questo la resistenza non può essere vista come “esterna” al potere2. I rapporti di potere sono una “relazione”, per cui «essi non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, d’appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama del potere» e la loro trama «finisce per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni senza localizzarsi esattamente in essi» (Foucault 1978, 125-126). Con la sua individuazione microfisica del potere come rapporto relazionale, come rapporto di forza, Foucault rovescia la tradizionale teoria politica della sovranità, l’unicità del potere verticale del sovrano e della legge, rifacendosi al pioniere Machiavelli, che per primo analizza spregiudicatamente il potere in

1 «non mettiamoci a cercare lo stato maggiore che presiede alla sua [del potere] razionalità; né la casta che governa, né i gruppi che controllano gli apparati dello Stato, né quelli che prendono le decisioni economiche più importanti gestiscono l’insieme della trama di potere che funziona in una società (e la fa funzionare); la razionalità del potere è quella di tattiche, spesso molto esplicite al livello limitato in cui s’iscrivono ‒ cinismo locale del potere ‒, che, connettendosi le une alle altre, implicandosi e propagandosi, trovano altrove la loro base e la loro condizione, delineano alla fine dei dispositivi d’insieme: qui la logica è ancora perfettamente chiara, gli intenti decifrabili, eppure può darsi che non ci sia nessuno che li abbia concepiti e ben pochi che li abbiano formulati» (Foucault 1978, 125). 2 «dove c’è potere c’è resistenza e che tuttavia […] essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere […] per definizione, [le resistenze] non possono esistere che nel campo strategico delle relazioni di potere» (Foucault 1978, 125).

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termini di rapporti di forza, e superandolo perché sostituisce alla figura del Principe machiavelliano la molteplicità delle figure sociali3. Come c’è un potere diffuso a livello micro, così, necessariamente, c’è una micro-resistenza diffusa. Non esiste un principio “esterno” che ne sia alla base. Per Foucault le «grandi rotture radicali», le «divisioni binarie e massicce», pur non escludendole, non sono la regola ma l’eccezione4. Al contrario di Voegelin, che questo principio esterno, questa rottura radicale e dualistica, le trova sostanzialmente unificate nel suo riferimento allo gnosticismo, come vedremo nel prossimo paragrafo. Dunque, per Foucault, le resistenze sono irregolarmente diffuse nel tempo e nello spazio, hanno caratteri eterogenei e spesso contrastanti, agiscono trasversalmente sulla vita sia del corpo sociale che individuale in modo più o meno temporaneo e in senso sia separatore, che trasformativo e riunificatore5. Tuttavia, Foucault aggiunge che sarebbe errato pensare di essere «necessariamente “dentro” il potere, che non gli si “sfugge,” che non c’è, rispetto ad esso, un’esteriorità assoluta, perché si sa-

3 «È nel campo dei rapporti di forza che bisogna tentare di analizzare i meccanismi di potere così sfuggiremo a questo sistema Sovrano-Legge che per tanto tempo ha affascinato il pensiero politico. E, se è vero che Machiavelli fu uno dei pochi ‒ ed era questo probabilmente lo scandalo del suo “cinismo” ‒ a pensare il potere del Principe in termini di rapporti di forza, bisogna forse fare ancora un passo, rinunciare al personaggio del Principe e decifrare i meccanismi di potere a partire da una strategia immanente ai rapporti di forza» (Foucault 1978, 126). 4 «Le resistenze non dipendono da un qualche principio eterogeneo […] Sono l’altro termine nelle relazioni di potere, vi s’iscrivono come ciò che sta irriducibilmente di fronte a loro. […] Non c’è dunque rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto — anima della rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario» (Foucault 1978, 125-126). 5 Le resistenze sono «possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali […] distribuite in modo irregolare […] con maggiore o minore densità nel tempo e nello spazio» e i punti di resistenza sono «mobili e transitori, […] introducono in una società separazioni che si spostano, rompendo unità e suscitando raggruppamenti, marcando gl’individui stessi, smembrandoli e rimodellandoli, tracciando in loro, nel loro corpo e nella loro anima, regioni irriducibili» e la loro diffusione «attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali» (Foucault 1978, 125-126).

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rebbe immancabilmente soggetti alla legge», perché pensare questo significherebbe allora non aver capito il significato e la portata del «carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere» (Foucault 1978, 126). Foucault addirittura pensa che sia proprio questa microfisica delle resistenze a costituire l’occasione per una rivoluzione complessiva, purché se ne sappia individuare la «codificazione strategica», ovvero si sappia integrare tutti i punti di resistenza in modo similare a come lo Stato costituisce la sua forza «sull’integrazione istituzionale dei rapporti di potere» (Foucault 1978, 126). Ovviamente, forme di resistenza al potere politico sovrano come al potere di sfruttamento economico sono ampiamente riscontrabili nella storia. Foucault però si concentra sulle forme di resistenza al potere inteso come condotta, come direzione, insomma resistenze specificamente di tipo anti-pastorale. Se il pastorato è una specifica forma di potere il cui obiettivo è la condotta degli uomini esercitata facendo perno sul modo in cui essi si comportano di per se stessi, bisogna osservare che questo potere si scontrò, anche frontalmente, con una resistenza che assunse forme “esterne” oppure “interne” al medesimo. Le forme di resistenza “esterna” che Foucault indica ‒ e che, peraltro, non indagherà ulteriormente ‒ sono per esempio, la resistenza passiva delle popolazioni ‒ ancora in fase di conversione o da poco convertite ‒ al cristianesimo o, almeno nel tardo Medioevo, ad obblighi pastorali come la pratica obbligatoria della confessione imposta dal Concilio Lateranense nel 1215, che si manifesta, ad esempio, nelle forme della stregoneria o delle grandi eresie del Medioevo, come quella catara, o, infine, dei conflitti con le autorità politiche e con le emergenti strutture economiche. Maggiore attenzione è invece rivolta alle resistenze e le insubordinazioni che sono apparse nel campo del pastorato e che, per simmetria con il termine “condotta”, possono essere definiti come movimenti di contro-condotta, la cui cifra è appunto il rifiuto del pastorato come etero-direzione e delle sue procedure, dei suoi obiettivi e vie di salvezza. Le contro-condotte sono peculiarmente distinte, per forma e obiettivi, dalle rivolte politiche e/o economiche contro il potere politico, ma la specificità delle contro-condotte non implica che

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esse non siano collegate ad altri conflitti e problemi, specialmente politici ed economici. L’esempio più chiaro è forse quello della più grande rivolta di condotta, quella protestante, che sicuramente partiva da un aspetto strettamente teologico e pastorale, ma che presto si intersecò con problemi economici e politici. Fatta salva la specificità della resistenza alla condotta, Foucault elenca un serie di rivolte in cui è possibile associare alla specificità anti-pastorale anche altre problematiche conflittuali: 1) le lotte tra la borghesia e il feudalesimo, nei Paesi Bassi investiti, per esempio, dall’eresia del Libero Spirito, oppure a Lione con la fratellanza dei poveri di Lione fondata da Valdo; 2) lo sganciamento delle economie urbane da quelle rurali, a partire dal XII secolo, per esempio nel conflitto fra hussiti e calixtini, da un lato, e i taboriti dall’altro; 3) il ruolo delle donne nella società civile o nella società religiosa, con le rivolte di condotta diffuse nei conventi (per esempio il movimento Nonnenmystik renano nel XII secolo) o tramite gruppi formati intorno alle donne profetesse o mistiche (nel Medioevo, con Jeanne Dabenton e Marguerite Porete, nella Spagna del XVI secolo con l’“illuminata” Isabelle de la Cruz, o nella Francia del XVII secolo con Armelle Nicolas, Marie des Vallées, e Madame Acarie; 4) la differenza fra gruppi e livelli culturali, con, ad esempio, l’opposizione o il conflitto tra Medici della Chiesa e pastori nel caso di Wycliffe, con gli Amauriani a Parigi, e con John Huss a Praga; 5) la varietà dei conflitti istituzionali, di classe ed economici della Rivoluzione inglese del diciassettesimo secolo, con il suo feroce scontro confessionale; 6) lo spirito politico ed economico del capitalismo (vedi Weber) con il movimento metodista nella seconda metà del XVIII secolo, fondato da John Wesley, appartenente alla corrente del Risveglio operante per un ritorno alla fede originaria all’interno del protestantesimo. Nella tavola 10 abbiamo sintetizzato le principali tipologie di contro-condotta corrispondenti alle opponenti tipologia di ‘condotta’ e ai periodi storici della loro manifestazione.

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Tav. 10 - Condotta e controcondotta degli uomini nell’evoluzione storica. Aspetto diacronico I-V secolo VI-inizio XVII secolo

Tipo di ‘condotta’ Tipo di ‘controcondotta’ Pastorato religioso Gnosi antica ““ i) Ascesi, ii) Comunità, iii) Mistica, iv) Scrittura, v) Escatologia; (Gnosi moderna) inizio XVII - fine Pastorato-Istitu- i) Diserzione-insubordinaXVIII secolo (e zioni politiche-Isti- zione, ii) Eresie mediche e parzialmente fino al tuzioni mediche e resistenze alla medicina, iii) XX secolo) scientifiche, ragion Società segrete, iv) Messianesimo politico, v) Partiti di Stato politici rivoluzionari; (Gnosi moderna) Dalla fine del XVIII Pastorato-Gover- i) Escatologia dell’abbattimensecolo a oggi namentalità to dello Stato (la società civile supera lo Stato), ii) Diritto alla rivoluzione, iii) Nazione/società; (Gnosi moderna)

Esistono però degli sviluppi del pastorato nel Medioevo, che costituiscono anche dei fattori di incubazione per il formarsi e poi l’esplodere delle numerose contro-condotte. Foucault ne individua quattro fattori, i primi due strettamente religiosi, il terzo decisamente politico e il quarto giuridico: 1) una tendenza alla istituzionalizzazione inflessibile del pastorato unita ad una sofisticazione delle sue tecniche di intervento; 2) lo sviluppo di un dimorfismo, di una struttura binaria all’interno del campo pastorale, che andava distinguendo il clero dai laici; 3) la commistione del pastorato religioso con il governo civile e il potere politico; 4) l’introduzione di un modello e di un sapere essenzialmente e fondamentalmente secolare, laico, nella consueta pratica pastorale: vale a dire, il modello giudiziario e il sapere giuridico. Un esempio della istituzionalizzazione del pastorato riguarda l’attribuzione del potere sacramentale al sacerdote ‒ mentre presbiteri, vescovi e pastori delle prime comunità cristiane, non avevano potere sacramentale ‒ attraverso il quale esso, tramite la sua azione e le sue parole, influenza direttamente le possibilità di salvezza delle sue pecore.

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L’apparizione del dimorfismo tra clero e laici costituirà uno dei maggiori problemi e uno dei punti di attacco delle contro-condotte, poiché l’arrivo di un clero con privilegi economici, civili e spirituali (questi ultimi, perché, ad esempio, ad esso viene teologicamente anche concesso di essere più vicino degli altri individui laici alla salvezza) immetteva un sottile malcontento nelle comunità cristiane. Gli aspetti politici dell’evoluzione del pastorato consistono, ovviamente, nella mescolanza con la politica nella feudalizzazione della Chiesa e del clero secolare. Gli aspetti giuridici ‒ di matrice ovviamente laica ‒ che vengono introdotti nella Chiesa ‒ che, peraltro, già dal VII e VIII secolo aveva acquisito funzioni giudiziarie ‒ consistono principalmente nella obbligatorietà della pratica della confessione nel 1235 ‒ che crea una specie di tribunale permanente alla cui sbarra le pecore sono periodicamente chiamate ad accusarsi e a discolparsi ‒ e nella credenza nel Purgatorio ‒ che permette al pastore di promettere migliori possibilità di salvezza tramite il sistema delle indulgenze a pagamento. Entrambe le novità introducono nella consueta pratica pastorale un modello giudiziario e penale, come nel caso della penitenza “tariffata”6, e rafforzano il potere discrezionale del pastore nell’indicazione delle vie di salvezza. Foucault individua la motivazione per lo sviluppo del pastorato nei primi secoli del cristianesimo (I-V secolo) nella guerra contro lo gnosticismo, che, sebbene non esistesse ancora una chiara forma pastorale di condotta, possiamo comunque considerare la prima forma di contro-condotta. Foucault indica anche una lista di caratteristiche identificative dello gnosticismo antico ‒ come aveva fatto Voegelin per quello che definiva gnosticismo

6 La penitenza “tariffata” si riferisce a riti di penitenza svolti in privato con il successivo perdono da parte di un semplice sacerdote, mentre inizialmente nel cristianesimo la penitenza era svolta in pubblico e il perdono era concesso da un vescovo. La modalità giuridico-penale consisteva nella redazione di specie di codici “penali”, i “tariffari”, che indicavano la casistica delle colpe e delle corrispondenti tipologie di penitenza, e a cui il confessore doveva attenersi per la scelta della penitenza da comminare.

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moderno e che vedremo nel prossimo paragrafo ‒ allo scopo di enucleare quei semi che la Chiesa considerava di intossicazione e disordine e che il pastorato aveva il compito di estirpare. Se la caratteristica generale dello gnosticismo è 1) l’identificazione della materia con il male assoluto, da essa conseguono altre caratteristiche, come 2) liberarsi dalla materia il più rapidamente possibile, per esempio attraverso una specie di ascetismo illimitato che potrebbe persino portare, come forma estrema di rifiuto del mondo materiale, al suicidio, 3) distruggere la materia attraverso l’esaurimento del male che contiene, commettendo ogni possibile peccato, 4) annullare il mondo della legge, infrangendo sistematicamente ogni legge, opporsi senza requie a tutti i poteri del mondo, per rovesciare il regno di colui ‒ il demiurgo, un dio comunque inferiore ‒ che ha creato il mondo. Foucault attribuisce agli gnostici le preferenze per i sacrifici di Caino, l’amore per Esaù e l’odio per Giacobbe, e la glorificazione di Sodoma, e interpreta tali preferenze gnostiche come una risposta al creatore del mondo materiale, Yahweh, che ha accettato i sacrifici di Abele e ha rifiutato Caino, che ha amato Giacobbe e odiato Esaù e che ha punito Sodoma. Sebbene Foucault si sia limitato a considerare solo la gnosi antica, noi aggiungiamo anche la gnosi moderna come il seme delle contro-condotte più evidenti negli ultimi secoli, come discusso nel par. 2.2. In un periodo successivo alla gnosi antica, che indichiamo approssimativamente fra il VI e l’inizio del XVII secolo, si manifestano svariate forme di contro-condotta (vedi tavola 11), che Foucault classifica in cinque tipologie: i) Ascesi, ii) Comunità, iii) Mistica, iv) Scrittura, v) Escatologia. Iniziando dall’ascetismo, è innanzitutto necessario capire come e dove esso, anziché essere, come spesso ritenuto, l’essenza stessa del cristianesimo, possa invece rappresentare una importante contro-condotta. Sebbene secondo il senso comune il cristianesimo, se visto in confronto con le antiche religioni, possa apparire una religione ascetica, Foucault ricorda che inizialmente il pastorato nella Chiesa orientale e occidentale si è sviluppato proprio fronteggiando i rigori dell’anacoresi, caratterizzata da rigide pratiche ascetiche, ed opponendovi, invece,

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l’organizzazione gerarchica e gli obblighi della vita comunitaria nei monasteri, in cui il fattore qualificante era l’esistenza dell’indiscussa autorità del superiore con la regola dell’obbedienza assoluta. Il punto stava tutto qui: la spiritualità è obbedienza e rinuncia ad ogni età; obbedienza al superiore e rinuncia alla propria volontà. Ecco qui una prima cruciale dicotomia: completa libertà della volontà oppure totale rinuncia ad essa; in questo senso, l’ascesi, che è libertà della volontà e rinuncia al corpo, è quindi incompatibile con l’organizzazione del potere pastorale. Foucault individua, in particolare, cinque aspetti dell’ascetismo che si contrappongono al potere pastorale e che costituiscono gli elementi di una contro-condotta: la sfida con se stessi7, la gara ascetica con gli altri8, la progressione dei risultati9 e l’esperienza dei limiti da superare10, la padronanza di sé e stesso e del mondo11, il rifiuto della materia a somiglianza dell’acosmismo gnostico12, il rifiuto del proprio corpo per glorificare Cristo attraverso l’identificazione con il suo corpo13. 7 «Credo […] che l’ascesi sia un esercizio di sé su se stessi […] nel quale l’autorità di un altro, la presenza di un altro […] sono, se non impossibili, almeno non necessari» (Foucault 2017, 154). 8 «le storie che descrivono le vite degli asceti […] abbondano di particolari su come […] ogni anacoreta svolge un esercizio di estrema difficoltà a cui un altro asceta, un altro anacoreta risponde con un esercizio di una difficoltà ancora maggiore: digiunare per un mese, un anno, sette anni, quattordici anni» (Foucault 2017, 155). 9 «l’ascetismo è una percorso che segue una scala di difficoltà crescente» (Foucault 2017, 155). 10 «è precisamente attraverso la sua esperienza diretta con il bordo e il limite che egli si sente spinto a superarlo» (Foucault 2017, 154). 11 «l’apatheia dell’asceta è la padronanza che esercita su se stesso, sul suo corpo e sulle sue stesse sofferenze […] Si tratta, insomma di vincersi» (Foucault 2017, 155). 12 «Si tratta di vincere […] il mondo, il corpo, la materia o ancora di vincere il diavolo e le sue tentazioni […] L’ideale dell’asceta, infatti non consiste nell’eliminare le tentazioni ma nel pervenire a un grado di padronanza tale che ogni tentazione gli risulterà indifferente […] tratto dell’ascetismo, che postula sia il rifiuto del corpo e della materia ‒ quindi una sorta di acosmismo, una delle dimensioni della gnosi e del dualismo» (Foucault 2017, 155). 13 «Essere asceta, accettare le sofferenze, rifiutare di mangiare, frustarsi, portare il ferro sul proprio corpo, sulla propria carne, significa fare in modo che il proprio corpo diventi come il corpo di Cristo» (Foucault 2017, 155).

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Se l’ascetismo porta a una sfida con se stessi e con gli altri, nell’obbedienza del pastorato non vi è, invece, gara ma umiltà permanente. Se l’ascetismo conduce a uno stato di beatitudine o di identificazione con Cristo o di perfetta padronanza, il pastorato comporta l’obbedienza permanente e, soprattutto, la rinuncia alla volontà. Se l’ascetismo implica il rifiuto del mondo, nel pastorato c’è il pieno dispiegamento della condotta dell’individuo nel mondo. In altre parole, l’ascesi viene vista come profondamente incompatibile col pastorato, il quale è tanto rinuncia alla volontà propria e obbedienza a quella altrui quanto condotta dell’uomo in un orizzonte interamente intra-mondano. Una seconda contro-condotta nasce come modo di sottrarsi al potere pastorale attraverso la formazione di una comunità, la quale si caratterizza come opposizione alla Chiesa e a Roma, viste, rispettivamente, come Anticristo e Babilonia, quindi, con un’ottica moralistica e apocalittica. Questa contro-condotta anti-pastorale pone al suo centro il rifiuto del potere del pastore e delle sue prerogative stabilite secondo la teologia ufficiale. Questo rifiuto si articola in numerose componenti, riassumibili in almeno sette: i) l’importanza della moralità del pastore, ii) la critica o il rifiuto dei poteri sacramentali del sacerdote, iii) l’eucarestia intesa come pasto comunitario e non come dogma della partecipazione reale di Cristo, iv) soppressione del dimorfismo clero e popolo, v) esaltazione, invece, del dimorfismo eletti-non eletti, 6) uguaglianza, anche economica, all’interno della comunità, vii) disconoscimento del principio di obbedienza. Il pastore non può ritenere il suo privilegio, una volta ottenuto, come definitivo, ma un tale stato privilegiato deve dipendere dal suo carattere morale e dalla sua condotta di vita. Se il pastore è in uno stato di peccato, perde ogni autorità, fino al punto ‒ sostenuto da John Huss ‒ che chi obbedisse a un pastore che ha violato i suoi obblighi diventerebbe, a sua volta, un eretico. I poteri sacramentali del sacerdote ‒ che la Chiesa ha, strada facendo, accresciuto ‒ vengono revocati in dubbio. Tali poteri, i quali fanno sì che il sacerdote possa controllare l’ingresso nella comunità attraverso il battesimo, sciogliere in cielo ciò che si scioglie sulla Terra in confessione, e dare il corpo di Cristo attraverso l’Eucaristia, sono criticati dalle comunità, e la critica si rivolge specialmente a due

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di essi: a) il battesimo obbligatorio dei bambini che non posseggono volontà propria, il quale viene tendenzialmente sostituito dal battesimo volontario dell’adulto, che la comunità, a sua volta, ha la facoltà di accettare o meno nel proprio seno, come è nel caso dell’anabattismo; b) la confessione ‒ che, va ricordato, era praticata fra individui laici l’uno verso l’altro fino al X-XI secolo, e che viene riservata solo ai sacerdoti a partire dall’XI-XII secolo ‒ che tende ad essere rifiutata14. Viene altresì contestato il dogma della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, che assume all’interno delle comunità ancora una volta solo la forma del pasto comune con il consumo di pane e vino. Inoltre, la formazione di queste comunità è caratterizzata dalla tendenza alla soppressione del dimorfismo preti-laici, attraverso l’elezione in via provvisoria del pastore (come fra i Taboriti), che quindi perde sia il sacramento che la definitività del ruolo. Il dimorfismo del clero e dei laici sarà spesso sostituito da un altro ben diverso dimorfismo, che è quello della distinzione irrimediabile tra eletti e altri (come nei catari). Siccome l’elezione è per grazia, il ruolo del pastore perde ogni efficacia, in quanto gli eletti non hanno più bisogno di lui e i non eletti ‒ che non potranno esserlo mai ‒ non trarrebbero alcun giovamento dal medesimo, e quindi questa distinzione vanifica completamente il potere pastorale. Il principio dell’uguaglianza è un altro elemento peculiare comunitario, che coinvolge tutti i membri, sia nell’aspetto religioso, perché nella comunità ciascuno è prete, sia nell’aspetto economico, perché non vi è proprietà privata dei beni e la ricchezza viene divisa fra tutti o utilizzata da tutti in comune (come nei Taboriti). Anche il principio dell’obbedienza che sta alla base del pastorato viene radicalmente messo in dubbio, in almeno tre forme: a) nessuna forma di obbedienza (come nei Fratelli del Libero Spirito), poiché avendo identificato panteisticamente Dio con la natura, sia l’individualità sia l’opposizione fra bene e male sono puramente illusorie, per cui, come in certe sette gnostiche, ogni azione è legittima; b) forme di

14 Foucault riporta, in proposito, una storia proveniente dalla comunità degli Amici di Dio dell’Oberland, in cui una donna andò da un sacerdote per raccontargli la sua esperienza di tentazioni carnali, venendo da questi rassicurata sulla loro venialità, ma la notte seguente Cristo le apparve e le disse: «Perché hai confidato i tuoi segreti a un prete? Devi mantenere i tuoi segreti per te».

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obbedienza reciproca fra membri, come nel caso di due membri degli Amici di Dio dell’Oberland che fecero un patto di reciproca obbedienza fra loro, come se lo avessero fatto a Dio stesso, per 28 anni; c) inversione sistematica delle gerarchie sociali nella comunità, secondo cui alla guida della comunità viene posto la persona più ignorante o più dissoluta o più povera (come nella Società dei Poveri e nel gruppo di Jeanne Dabenton, in fama di ex-prostituta). Foucault rileva come queste comunità religiose paiono costituirsi per inversione delle modalità del pastorato ufficiale e delle regole della società, un po’ come il carnevale che è una inversione dei rapporti e delle gerarchie sociali15. La terza contro-condotta, la mistica, è una esperienza così personale e così indicibile da non offrire alcun appiglio di presa al potere pastorale. Quattro sono le sue peculiarità in cui appare più evidente la contrapposizione ad elementi essenziali della pastorale. Primo, la verità che raggiunge la mistica è “diretta” e individuale, al contrario dell’“economia della verità” del potere pastorale che si compone di «una verità trasmessa come dogma a tutti i fedeli e una verità estratta da ognuno di loro come un segreto che giace in fondo all’anima» (Foucault 2017, 160-161). In particolare, nella mistica non vi è l’occhio dell’altro ‒ il pastore ‒ ad indagare nel profondo dell’anima, ma una riflessione dell’anima su se stessa che «vede se stessa in Dio e vede Dio in se stessa», sottraendo così al pastore l’oggetto da esaminare. L’economia della verità della mistica è diretta e auto-riflessa: l’anima si conosce e conosce Dio da sola, senza alcuna mediazione pastorale. Secondo, l’anima conosce Dio immediatamente nell’attimo della illuminazione, senza la necessità dell’insegnamento pastorale che è prolungato nel tempo. Terzo, la conoscenza avviene tramite l’“ignoranza” o il “silenzio”, al contrario della trasmissione pastorale che pretende di seguire un percorso progressivo dall’ignoranza alla conoscenza16.

15 In queste comunità religiose l’aspetto dell’inversione è tale che «Il primo sarà davvero l’ultimo, ma l’ultimo sarà anche il primo» (Foucault 2017, 160). 16 Al contrario dell’insegnamento gradualista, lento, accumulativo del pastore alle pecore, la mistica è come una folgore nera in un cielo rosso fuoco che annichila ogni regola di trasmissione progressiva di sapere e si sviluppa seguendo un gioco «di alternanze ‒ notte / giorno, ombra / luce, perdita / ritrovamento, assenza / presenza ‒ un gioco che si rovescia continuamente […] di esperienze assolutamente ambigue, in una sorta di equivoco, poiché il segreto della notte è

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Quarto, la mistica è comunicazione diretta, dialogica, fra anima e Dio, o silenziosa fra il corpo del mistico e quello di Cristo, al contrario che nella pastorale in cui la comunicazione con Dio richiede la mediazione del controllo e della direzione da parte del pastore. Un altro modo di opporsi alla pastorale, è invocare un ritorno alla lettura diretta dei testi delle Scritture, senza l’insegnamento, l’interpretazione, l’intervento del pastore, sottolineando due aspetti: la lettura è un atto spirituale che collega l’uomo con la parola divina e che può illuminarlo interiormente, e tale parola scritta, ancorché mal compresa dal lettore, è comunque proprio quello che Dio ha voluto rivelare all’uomo. Va, inoltre, notato, che l’invocazione del ritorno alla lettura diretta delle Scritture è ritenuto da Foucault (1997) la modalità con cui si è inizialmente manifestato e sviluppato l’atteggiamento critico, cioè un atteggiamento morale, politico e una maniera di pensare, che viene definito proprio come l’arte di non essere governati, o ancora, più semplicemente, come l’arte di non essere eccessivamente governati, tanto che il pensiero critico avrebbe persino una filiazione diretta dalla lettura biblica17. Infine, come ultimo tipo di contro-condotta, le credenze escatologiche, intese come modo per invalidare la pastorale: i pastori gestori della storia e del tempo del mondo sono congedati dal ritorno, ritenuto incipiente, del vero pastore, Cristo. Sulla scia della profezia gioachimita (vedi prossimo capitolo) si crede all’arrivo della terza era della storia, con la discesa dello Spirito Santo in ciascun uomo, la qualcosa renderà vana la pastorale.

che essa è un’illuminazione. Il segreto, la forza dell’illuminazione, sta nel fatto che acceca. Nella mistica, l’ignoranza è un sapere e il sapere ha la forma stessa dell’ignoranza» (Foucault 2017, 161). 17 «in un’epoca in cui il governo degli uomini era essenzialmente […] una pratica soprattutto religiosa derivata dall’autorità di una Chiesa […] non voler essere governati in questo modo significava per lo più cercare con la Scrittura un rapporto diverso […] non voler essere governati era una certa maniera di rifiutare, ricusare, limitare il magistero ecclesiastico, significava un ritorno alla Scrittura. Era la questione di ciò che è autentico nella Scrittura […] del tipo di verità che essa custodisce, di come avere accesso a questa verità della Scrittura nella Scrittura e a dispetto, forse, di ciò che è scritto; in definitiva la questione semplice e essenziale era: la Scrittura è vera? Pertanto, da Wycliffe a Pierre Bayle la critica si è sviluppata su un versante, che mi sembra capitale anche se non esclusivo, che è il rapporto con la Scrittura. Diciamo che la critica è storicamente biblica» (Foucault 1997, 38).

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Tav. 11 - Tipologia e caratteristiche dell’opposizione anti-pastorale dal VI all’inizio del XVIII secolo (e parzialmente fino al XX secolo). Tipo di ‘controcondotta’ Ascesi

Comunità

Mistica

Scrittura Escatologia

(Gnosi moderna)

Caratteristiche della ‘controcondotta’ e dell’opposizione anti-pastorale i) La gara dell’atleta, ii) la padronanza di sè e del mondo, iii) rifiuto del mondo e acosmismo gnostico, iv) identificazione glorificatrice del corpo. Incompatibilità col pastorato che è i) condotta dentro (e non fuori) al mondo, ii) rinuncia alla volontà propria e obbedienza a quella altrui (invece che padronanza di sè) i) Tema morale e apocalittico nell’opposizione alla Chiesa e a Roma, viste come l’Anticristo e Babilonia, ii) necessaria moralità del pastore, iii) negazione dei poteri sacramentali del pastore; iv) eucarestia senza il dogma della presenza reale; v) soppressione del di-morfismo preti-laici; vi) esaltazione del dimorfismo eletti-non eletti; vii) inversione della gerarchia sociale; viii) uguaglianza, anche economica, nella comunità. i) Economia della verità “diretta”: l’anima si conosce e conosce Dio senza mediazione pastorale (p.e. la confessione), ii) l’anima conosce Dio direttamente nell’attimo dell’illuminazione, senza la mediazione dell’insegnamento pastorale; iii) conoscenza tramite “ignoranza” o “silenzio” e non via trasmissione pastorale (che procede dall’ignoranza verso la conoscenza) Il testo che parla da solo senza mediazione pastorale i) i pastori del tempo e della storia sono congedati dal ritorno incipiente del vero pastore, ii) la profezia gioachimita, col terzo regno in cui lo spirito santo si diffonderà in tutti, vanificando il ruolo del potere pastorale (Le caratteristiche sono nel par. 2.2)

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Dalla fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo, il pastorato ecclesiastico inizia ad essere parzialmente sostituito nelle sue funzioni dallo Stato emergente, che vuole anche assumersi in proprio la responsabilità per la condotta delle persone, per cui le rivolte di condotta sono meno peculiari alla sfera pastorale religiosa e riguardano molto di più gli aspetti “pastorali” ereditati dalle istituzioni politiche. Queste nuove forme di contro-condotta anti-pastorale, confinanti con la rivolta contro le istituzioni politiche, possiamo riassumerle in cinque filoni. Il primo è quello che, probabilmente, ha il carattere più passivo e individualistico e assomiglia ad una resistenza alla condotta pastorale religiosa del Medioevo, di cui era esempio la resistenza all’obbligo confessionale sopra citata, ma la differenza sta nel fatto che stavolta la resistenza è alla condotta “pastorale” dello Stato, di cui è esempio la resistenza all’obbligo del servizio militare. Infatti, fino a quando fare la guerra era solo una professione o uno status nobiliare, la diserzione non acquistava significati ulteriori, ma quando la figura del soldato passa ad esprimere l’etica comportamentale di ogni buon cittadino di un paese, ovvero la devozione al bene comune diretta disciplinarmente da un’autorità pubblica, allora ‘fare la guerra’ diventa una forma di condotta morale. Quindi, la diserzione (o comunque il rifiuto di portare le armi) acquisisce un ulteriore senso, quello di una insubordinazione, di una rivolta di condotta, che Foucault chiama appunto diserzione-insubordinazione, la quale appare come una forma di contro-condotta morale, indirizzata contro l’educazione civica, i valori della società e l’esistente sistema politico della nazione. Il secondo filone riguarda quella forma moderna di pastorato che si esplica sotto forma di saperi, pratiche e istituzioni mediche, poiché, secondo Foucault, «la medicina è stata una delle grandi potenze che sono state eredi del pastorato» (Foucault 2017, 149). Anche rispetto a questa forma, si sono registrate, a partire dalla fine del XVIII secolo fino ad oggi, contro-condotte che possono essere di due tipi, a seconda del soggetto dissidente: se quest’ultimo è l’oggetto delle pratiche di condotta mediche, la reazione va dal rifiuto di alcuni farmaci e di misure preventive come la vaccinazione a quello della medicina tout court, reazione che si trova spesso in alcuni gruppi religiosi e può essere chiamata di “dis-

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senso medico”; se invece il soggetto fa parte dei saperi medici, la reazione si focalizza sulla pratica e la ricerca di metodi alternativi quali elettricità, magnetismo, erbe e medicina tradizionale, ai quali aderiscono alcuni di coloro che rifiutano la condotta medica ortodossa e può essere chiamata di “eresia medica”. Il terzo filone di contro-condotte, che stanno alla giunzione fra l’anti-pastorato religioso e quello politico e statale, si diffonde, a partire dal diciottesimo secolo, attraverso la formazione di società segrete, le quali, mantenendo dogmi, rituali, gerarchie, gestualità, cerimoniali e forme di comunità, presentano ancora evidenti elementi di contro-condotta religiosa. L’esempio principe portato da Foucault è, ovviamente, la massoneria. Col quarto filone, nel diciannovesimo secolo, la contro-condotta diviene espressamente politica nei metodi e negli obiettivi. Questi ultimi sono manifestati dalla volontà di sostituire ‒ attraverso, complotti, trame, rivoluzioni ‒ la governamentalità ufficiale della società con un altro tipo di condotta. I metodi, invece, si mantengono quelli delle società segrete, di cui il carattere clandestino è senza dubbio il più necessario, ma in essi ‒ per esempio l’anonimità dei dirigenti e la specificità delle regole di obbedienza ‒ appare già un’altra forma di condotta alternativa alla esistente governamentalità. Il quinto filone è un proseguimento del precedente che appare, nelle società contemporanee a Foucault, sotto forma del partito politico. Evidentemente Foucault pensa in particolare ai partiti comunisti dell’Europa occidentale18, che funzionano come una forma di condotta alternativa verso i propri membri ‒ con i propri capi, le proprie regole, i propri stili di vita e i propri principi di obbedienza, la propria etica dell’ascetismo dei militanti ‒ e sono in grado di apparire come una contro-società e di raccogliere, unire, indirizzare altre rivolte di condotta.

18 «In fondo, si potrebbe sostenere che nelle società contemporanee esistono soltanto due tipi di partiti politici: i partiti che fungono soltanto da trampolini per accedere all’esercizio del potere, a funzioni e a responsabilità, e i partiti politici, o piuttosto il partito politico che ha smesso da tempo di essere clandestino, ma continua a possedere l’aura di un vecchio progetto, che ha evidentemente abbandonato ma al quale il suo destino e il nome rimangono legati: il progetto di dare vita a un nuovo ordine sociale e di generare un uomo nuovo» (Foucault 2017, 148-149). Sembra scontato che qui Foucault stesse riferendosi criticamente al Partito comunista francese.

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Se le contro-condotte fino alla metà del ‘700 sono state il correlato oppositivo della forma di condotta pastorale, nella forma moderna esse si sono sviluppate in correlazione con la governamentalità nella sua forma moderna, mostrandosi in opposizione alle ragioni della ragion di Stato, così opponendo, per esempio, la società civile allo Stato, la verità degli economisti all’ignoranza precedente, gli interessi privati liberi, che così assicurano il benessere di tutti, allo stato di polizia che realizza la felicità collettiva, la popolazione come realtà naturale alla popolazione come oggetto di regolazione, la sicurezza all’insicurezza e al pericolo, la libertà alle regole. Foucault individua nella nuova temporalità senza un tempo finito, in cui si immergono lo Stato, l’individuo e la storia moderna, una legge centrale della moderna governamentalità: lo Stato con la sua ragione è eterno e non vi sono possibilità di una sua interruzione, venendo così esclusa ogni escatologia. È contro questo principio, che, come dice Foucault, è stato formulato alla fine del XVI secolo ed è ancora con noi oggi, che si sviluppano le contro-condotte moderne, il cui obiettivo è «l’affermazione secondo cui verrà il momento in cui il tempo sarà finito […] la possibilità di un’escatologia, di un tempo ultimo, di una sospensione o di una conclusione del tempo storico e del tempo politico in cui la governamentalità indefinita dello stato sarà arrestata» (Foucault 2017, 260). Ma se questo è l’obiettivo generale delle contro-condotte “politiche” ‒ l’arresto della infinitezza del potere statale ‒ ben diversificati sono sia i vettori che gli esiti desiderati delle contro-condotte. Una tassonomia stilizzata ne individua tre. Nella prima è la società civile che si oppone allo Stato e l’esito sarà un riassorbimento di quello in essa, in modo che il tempo della politica sarà arrestato, grazie alla vittoria della società civile sullo Stato; è questa una «escatologia rivoluzionaria che non ha smesso di ossessionare il diciannovesimo e il ventesimo secolo» (Foucault 2017, 260). Una seconda controcondotta rivendica il diritto a non obbedire allo Stato in nome dei diritti e dei bisogni della popolazione, i quali divengono la nuova legge che sostituisce quella dell’obbedienza: una «escatologia, quindi, che assume la forma del diritto assoluto alla rivolta, alla sedizione, alla rottura di tutti i legami di obbedienza ‒ il diritto alla rivoluzione stessa» (Foucault 2017, 260). Infine. una terza contro-condotta si oppone

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alla presunzione della ragion di Stato di essere l’unica detentrice della verità riguardante gli uomini, la popolazione e il territorio, nei singoli e in aggregato: essa ha come obiettivo quello di trasferire alla nazione o alla società stessa la titolarità della verità su ciò che accade al proprio interno e ai propri componenti, perché essa ne ha diritto «anche a costo che sia un elemento della popolazione, oppure un’organizzazione, un partito, ma rappresentativo di tutta la popolazione, a formulare questa verità» (Foucault 2017, 260-261). In ogni caso, si può dire che, a partire dal pastorato iniziale dei cristiani occidentali e orientali contro il disordine della gnosi fino ad arrivare alla governamentalità moderna, esiste una correlazione e una inseparabilità tra condotta e contro-condotta. Tuttavia, la governamentalità neo-ordoliberale attuale deve, forse, ancora trovare la sua contro-condotta.

2.2. Lo spirito dello gnosticismo all’origine di ogni contro-condotta «Potere occulto», «organizzazione segreta», «trame», «muovere le fila», «complotto», «doppio gioco»: parole, gesti mentali che furono della gnosi, che ancora erano illuminati dalla luce obliqua dei Templari e oggi designano sequenze di assassinii, imbrogli planetari, ricatti, sopraffazioni. Il crimine assume il calco che fu dell’eresia perenne: della gnosi. (Calasso 1989, 324) Extraterrestre portami via/ Voglio una stella che sia tutta mia/ Extraterrestre vienimi a cercare/ Voglio un pianeta su cui ricominciare. (Eugenio Finardi, Extraterrestre, dicembre 1977)

La più coerente e originale analisi di quella che noi potremmo definire, usando la terminologia foucaultiana, la contro-condotta per eccellenza, data la sua estensione temporale, la sua ricchezza mitico-simbolica e la sua presenza nell’epoca moderna fino all’attualità, è stata compiuta principalmente da Eric Voegelin19,

19 Eric Voegelin è noto come un filosofo, politologo e storico tedesco naturalizzato statunitense, originale interprete del pensiero conservatore e cattolico;

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il quale ha inteso far passare numerose forme della modernità ‒ rivoluzioni scientifiche e politiche comprese ‒ sotto il nome di apocalittica gnostica20 o gnosticismo. Invitato a tenere le Walgreen Lectures all’Università di Chicago nel 1951 ‒ dove anche l’amico Hayek teneva lectures e stava lavorando alla fondazione del neoliberalismo (Mirowski-Plehwe 2009) ‒, pubblicate l’anno successivo col titolo The new science of politics, Voegelin mostrò come la promessa di salvezza cristiana nell’aldilà divenne, attraverso la distorsione del simbolismo cristiano in varie forme di gnosticismo religioso, intellettuale e politico21, la promessa di perfezione sia dell’uomo sia della società

laureato nel 1928 a Vienna con Hans Kelsen e Othmar Spann, dove stabilì gli inizi della sua frequentazione e amicizia con Friedrich Hayek e altri economisti, fu professore associato di Scienze Politiche alla Facoltà di Legge fino al 1938 quando emigrò negli Stati Uniti, facendo carriera accademica alla Louisiana State University fino al 1958, quando accettò a Monaco la cattedra di Scienze Politiche, vuota sin dalla morte di Weber nel 1920, che lasciò per tornare di nuovo negli Stati Uniti nel 1969 per l’Hoover Institute della Stanford University fino alla morte nel 1985. Voegelin, nelle sue Autobiographical Reflections (2006), racconta della sua frequentazione ed appartenenza ad un gruppo che comprendeva i fondatori del neoliberalismo, Mises e Hayek: «i seminari privati di Ludwig von Mises che io ho frequentato per molti anni, fino alla fine della mia permanenza in Austria e dove strinsi legami con Friedrich August von Hayek, Oscar Morgenstern, Fritz Machlup, and Gottfried von Haberler» (Voegelin 2011, 34), e ci informa che i noti economisti di questo gruppo desideravano emigrare ben prima di Hitler, poiché Vienna andava loro stretta non tanto per la situazione politica ma per la carriera professionale: «Gli economisti erano colpiti dal restringimento dell’università di Vienna sotto la repubblica. Una sola università non poteva sistemare i tanti economisti di alto livello apparsi in quegli anni e i nomi di Hayek, Haberler, Morgenstern, and Machlup sono dovuti divenire famosi in Inghilterra e in America. Essi intendevano lasciare Vienna anche prima di Hitler» (Voegelin 2011, 35). 20 «l’apocalittica gnostica, è esattamente il tema che Voegelin individua come la radice di questa nuova religione, che egli definisce demoniaca. Il termine è da lui utilizzato nell’accezione data da Goethe e Schiller che definivano demoniaco lo stato in cui si trova l’uomo moderno che, a loro parere, è «l’uomo esaltato che vive a partire dal centro di un sé creativo, indefessamente, senza momenti di debolezza» […] La nuova morale demoniaca diventa quindi l’esatto contrario di quello che fino allora si era inteso per morale» (Caroniti 2005, 10). 21 Per Giovanni Filoramo lo gnosticismo è come «un fiume sotterraneo della nostra tradizione storico–religiosa, che carsicamente riaffiora coi suoi miti, simboli, immagini» (Filoramo 1990: VII). Lo gnosticismo è anche considerato la matrice del “nichilismo” moderno. Karl Jaspers qualifica il “nichilismo” tramite a) due tratti

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nella storia. Col paradigma dello gnosticismo Voegelin spiega «il tratto essenziale della modernità» (Voegelin 1999, 161) e tanto le ideologie scientiste-positiviste quanto quelle politiche del XIX e XX secolo (scientismo, progressismo, positivismo, marxismo, psicanalisi ma anche comunismo e nazi-fascismo), le cui radici immanentistiche e anti-trascendenti, mirano a porre l’essere, la storia e la società sotto il controllo di un uomo divinizzato22, per cui lo stesso Marx viene qualificato come un pensatore gnostico (“speculative Gnostic”)23, che, peraltro, nella sua declinazione rivoluzionaria non pensa soltanto all’arrivo del regno spirituale ma anche agisce con forza per instaurarlo: «Secondo il rivoluzionario gnostico, l’avvento del regno esige la sua cooperazione militare» (Voegelin 1999, 182). Voegelin conia l’espressione “movimento gnostico di massa”. Tuttavia non ne fornisce una definizione, poiché appellandosi al metodo aristotelico preferisce prima descrivere l’oggetto da esaminare, fino a renderlo chiaro per il senso comune della esperienza individuale, e, dopo, analizzarlo; ma, arrivato a quel punto

caratteristici: i) il rifiuto dei valori, ii) il rifiuto della realtà; e b) due declinazioni di questi tratti: i) modo quietistico, di cui sono esempi il buddismo oppure Schopenhauer; ii) modo attivo in cui «si cerca nell’agire negativo rivolto verso l’esterno un ultimo sostegno mentre si sta sprofondando» (Jaspers 1950, 347). 22 Nella sua polemica verso divinità e miti prodotti dalla modernità, Voegelin si è considerato in compagnia di altri pochi autori: «Davanti alle fallimentari evocazioni di nuove divinità e nuovi miti da parte del pensiero moderno, che sono state alla base delle grandi tragedie ideologiche del novecento, Voegelin si pose il problema di rivolgere la propria attenzione a quanti avevano cercato di trovare una spiegazione del senso della storia all’interno di una separazione tra una storia sacra e una profana che evitasse una cultura totalizzante. Su questa strada egli incontrò, oltre Vico, Spengler e Toynbee. A questi autori egli attribuisce il merito di avere dato il via a quello “splendido progresso delle scienze storiche” che ha finalmente “svelato il carattere grottesco delle costruzioni ideologiche che ancora dominano la scena”» (Caroniti 2005, 19). 23 Sono peraltro numerosi gli autori (citiamo, fra gli altri, Hans Jonas 2010; Jacob Taubes 1997; Raymond Aron 1991; e Ernst Topitsch 1977) che, oltre a Voegelin, hanno colto le derivazioni teologico-religiose del marxismo, stimandolo come gnosticismo mistico, come il prototipo della gnosi della modernità, testimoniando così la presenza di un significativo filone di studi che, pur nelle differenze fra loro, evidenzia le radici gnostiche e religiose, seppure immanentizzate, del pensiero di Marx.

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finale, assunto che le definizioni si danno alla fine dell’analisi e non all’inizio, Voegelin ritiene poi superfluo darla perché non sarebbe altro che un sommario dei risultati dell’analisi. Egli preferisce elencare in modo descrittivo (vedi tavola 12) i suoi oggetti di analisi, i movimenti gnostici ‒ politici di massa o solo intellettuali che siano ‒ quali il progressismo, il positivismo, il neopositivismo, il marxismo, la psicanalisi, il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo, convinto che la differenza fra masse ed élites intellettuali sia, al contrario di quel che crede il senso comune, minima, in quanto i movimenti di massa nascono sempre da ristretti circoli intellettuali. La loro relazione può essere esemplificata dal positivismo, che, pur nato come movimento intellettuale con Saint-Simon e Comte e i loro seguaci, si dà anche degli obiettivi di unificazione e rigenerazione del genere umano sotto la guida spirituale dei medesimi fondatori della “religione dell’umanità”. Voegelin ricorda l’influenza avuta da essi nelle due direzioni, quella politica e quella intellettuale; rispetto alla prima, Comte coltivò programmi ambiziosi, testimoniati dai contatti con lo zar Nicola I, con il Generale dei Gesuiti e con il gran visir per incorporare le rispettive religioni (ortodossa, cattolica e islamica) nel quadro del positivismo, ma anche da movimenti politici di ispirazione positivista, come testimonia ancor oggi la bandiera del Brasile con l’iscrizione comtiana “Ordine e progresso”. Rispetto alla seconda, Voegelin colloca fra gli influenzati dal positivismo pensatori come John Stuart Mill, Max Weber, Ernst Cassirer, Edmund Husserl, e concetti come l’altruismo e la fratellanza fra uomini non legati da vincoli familiari, che Voegelin definisce come il surrogato secolare-immanente del concetto di amore cristiano. Tutti questi movimenti hanno in comune una caratteristica: sono gnostici. Voegelin, per questa qualifica, ricorre, anche qui, non a definizioni ma ad esempi storici, partendo dall’antichità del primo cristianesimo di cui san Paolo è un esemplare di derivato gnostico24,

24 Voegelin tende a ritenere che la gnosi non sia solo una eresia cristiana ma che possa avere diverse e precedenti progeniture, come confermerebbe il fatto che Paolo, coevo della nascita del cristianesimo, mostri già quelle evidenti influenze. La genesi dello gnosticismo è ovviamente una vexata questio negli studi

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e da allora la continuità storica dello gnosticismo fino ai tempi moderni gli appare indubitabile. Tav. 12 - Modernità della gnosi secondo Voegelin (1997). I movimenti gnostici del nostro tempo positivismo, marxismo, psicoanalisi, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo

Caratteristiche della natura gnostica i) l’insoddisfazione per la condizione umana ii) presa di coscienza che il mondo è intrinsecamente deficiente, perverso, malvagio iii) credenza nella possibilità di salvezza dal male del mondo iv) la salvezza ‒ la nascita di un mondo buono da uno cattivo ‒ come risultato di un processo storico. Quindi, contrapposizione con la soluzione cristiana, per la quale il processo storico non cambia il mondo (aldiqua) e la salvezza completa dell’uomo si realizza solo nell’aldilà, con la morte, mediante la grazia v) il cambiamento della natura dell’essere come risultato dell’azione personale vi) la conoscenza-gnosi per il cambiamento dell’essere e soprattutto come metodo per raggiungere la salvezza dell’io e del genere umano

Se definizione e genesi dei movimenti gnostici possono apparire problematiche, Voegelin rintraccia come criterio di individuazione della natura gnostica un complesso caratteriologico (la presenza di sei caratteristiche) che, come un reagente chimico, è in grado di evidenziare l’atteggiamento gnostico: 1) l’insoddisfazione per la condizione umana (che, peraltro, Voegelin ritiene piuttosto diffusa e di per sè non qualificante); 2) presa di coscienza dell’esistenza del dolore dovuto al fatto che il mondo ha una struttura intrinsecamente deficiente, al contrario di chi ritiene che l’ordine dell’essere

specialistici; volendo sintetizzare, abbiamo una dicotomica attribuzione della sua origine: 1) come prodotto del sincretismo con confini e definizioni assai mobili (Jonas 1991), oppure 2) come sistema unitario e indissolubile, non confondibile con alcun altro sistema (Couliano 1989).

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è buono e la perversione è negli esseri umani (per esempio, come il cristianesimo, con la tesi del peccato originale); 3) salda credenza nella possibilità di salvezza dal male del mondo; 4) il cambiamento da un mondo cattivo ad uno buono e perfetto deve avvenire come risultato di un processo storico, al contrario di quanto pensa il cristianesimo, per il quale il mondo è destinato a restare così com’è per tutto il corso della storia e la salvezza dell’uomo si realizza solo con la morte, mediante la grazia; 5) ferma credenza nel fatto che la trasformazione nell’ordine dell’essere ‒ la salvezza ‒ sia possibile grazie agli sforzi personali dell’uomo (che Voegelin ritiene sia la caratteristica tipica dello gnosticismo nel senso più stretto); 6) dato che lo gnostico ritiene concepibile realizzare una trasformazione che conduca ad un ordine totale e perfetto tramite l’azione umana, allora esso ha il dovere di cercare la ricetta per tale trasformazione, la quale consiste nella gnosi, intesa come conoscenza dell’essere. Lo gnostico conosce la ricetta per salvare l’essere umano e il mondo, e, con un tipico atteggiamento profetico, asserisce, soprattutto, di conoscere i mezzi per raggiungere tale obiettivo. Lo “gnostico speculativo” conosce il corso e il significato della storia, perciò intesa come progresso verso un compimento salvifico che è nelle prerogative del potere umano, quindi, verso una escatologia immanente. Voegelin nota come lo gnosticismo abbia creato un vasto universo simbolico, per cui merita soffermarsi su almeno due complessi simbolici, riferibili i) all’idea cristiana di perfezione, e ii) alla speculazione della storia formulata da Gioacchino da Fiore. Voegelin cerca di dimostrare la componente gnostica in tutti i moderni movimenti di massa (religiosi, economici e politici che siano, o meglio, come direbbe Foucault, tutti i movimenti sono una miscela di questi elementi). Per far questo, individua nella modificazione dell’idea cristiana di perfezione, declinata in tre varianti, la caratteristica gnostica tipica. Sebbene lo gnosticismo presenti sempre una multiforme varietà, si può rintracciare una comune tendenza a rivisitare e trasformare in senso immanentistico l’idea cristiana di perfezione di tipo trascendente (vedi tavola 13). L’idea cristiana di perfezione può essere distinta in due componenti (secondo l’analisi di Ernst Troeltsch da cui Voegelin riprende): i) quella teleolo-

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gica (di movimento verso un fine); ii) quella assiologica (il fine stesso, lo stato di perfezione da raggiungere). L’idea cristiana di perfezione consiste ‒ ci ricorda sempre Voegelin ‒ nell’intuizione che la natura umana non trova il proprio compimento in questo mondo, ma soltanto nella visione beatifica ovvero nella perfezione soprannaturale mediante la grazia nella morte, e la vita cristiana sulla terra deve tenere in conto del compimento finale nell’aldilà, intraprendendo la strada della santificazione (sanctificatio vitae, o “progresso del pellegrino” secondo il puritanesimo inglese). Questo movimento verso la perfezione viene indicato col termine di componente teleologica. Inoltre, poiché il fine a cui tende questo movimento teleologico, cioè il telos, è considerato come la somma perfezione e come uno stato di altissimo valore, allora si definisce assiologica la seconda componente. Tav. 13 - La perfezione possibile per la natura umana secondo il cristianesimo.

I movimenti di massa gnostici hanno derivato le loro idee di perfezione dall’idea cristiana (vedi tavola 14). Inoltre, per Voegelin, ci sono tre possibilità di derivare dall’idea cristiana il concetto di perfezione gnostica, da realizzare nel mondo storico: infatti, le componenti teleologica e assiologica possono essere immanentizzate separatamente o congiuntamente, come vedremo nei seguenti casi.

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Tav. 14 - Modificazione gnostico-politica dell’idea di perfezione cristiana.

Quando si consideri soprattutto la componente teleologica, l’accento degli gnostici si pone sul movimento verso un futuro di perfezione non ancora intellegibile, come nell’illuminismo settecentesco, e troviamo così le interpretazione progressiste, come in Diderot e D’Alembert, o nelle idee di progresso di Kant e di Condorcet. Kant vede il progresso come la tendenza costante e indefinita verso una umanità razionale e perfetta in una società mondializzata (sebbene, nota Voegelin, Kant predice il progresso senza fine del genere umano ma non la salvezza per l’uomo singolo), Condorcet non si accontenta della tendenza perpetua verso un fine raggiungibile solo asintoticamente, ma ne perora l’accelerazione affidata all’attivismo degli intellettuali (presentando così una caratteristica tipica del terzo tipo di derivazione, che vedremo più avanti). Quando invece sia considerata soprattutto la componente assiologica, troviamo le elaborazioni utopistiche, come in Tommaso Moro o in più recenti utopismi sociali, in cui il fine è ben chiaro ma non c’è, invece, chiarezza circa i mezzi per raggiungere tale fine. La componente assiologica dello gnosticismo pone l’accento sullo stato di perfezione dell’ordine sociale, un ordine ideale, analizzato e descritto fin nei minimi dettagli, anche se Voegelin ricorda l’esistenza fin dall’antichità (Esiodo) di derivati assiologici meno dettagliati, in cui lo stato di perfezione ideale è riferito solo in contrapposizione a uno specifico male (povertà, malattia, an-

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sietà, morte, necessità del lavoro, problemi sessuali) e che pertanto possono essere considerati come stati finali ideali ma non vere e proprie utopie. In ogni caso, la caratteristica di questo secondo tipo di derivazione è una certa chiarezza dello stato finale da raggiungere unita a una completa vaghezza dei mezzi per ottenere tale raggiungimento nella realtà. Infine, qualora entrambe le componenti siano compresenti nella loro versione immanentizzate, e si riscontri la conoscenza sia dello stato finale da raggiungere, sia dei mezzi grazie ai quali raggiungerlo, ne risulta il tipo del “misticismo attivistico”. Quindi, nel terzo tipo di derivazione il simbolismo cristiano è immanentizzato nella sua interezza. Come casi tipici del misticismo attivistico, Voegelin nomina i movimenti che discendono dal pensiero di Auguste Comte e Karl Marx: sia lo stato di perfezione finale che le vie per raggiungerlo sono chiari in entrambi (una società industriale sotto la direzione temporale dei managers e la direzione spirituale degli intellettuali positivisti da raggiungere tramite la trasformazione dell’uomo nella sua forma suprema, l’uomo positivista, per Comte; un regno della libertà privo di classi, da raggiungere attraverso la rivoluzione proletaria e la trasformazione dell’uomo nel superuomo comunista, per Marx). Voegelin individua già nel pensiero teologico di Gioacchino da Fiore, alla fine del secolo XII, i primi germogli di una gnosi al limite del pensiero cristiano. Quindi, rispetto al secondo complesso di simboli, Voegelin ne individua quattro, rinvenibili nella riflessione religiosa di Gioacchino da Fiore, e caratteristici dei movimenti di massa moderni (vedi tavola 15). Il primo è lo schema cronologico trinitario della storia universale: per il frate calabrese la storia universale è una successione di tre grandi epoche: quella del Padre, quella del Figlio e quella dello Spirito Santo. La prima epoca va dalla creazione alla nascita del Cristo, la seconda coincide con Cristo e la terza è quella dello Spirito Santo, il cui inizio è ‒ secondo Gioacchino ‒ l’anno 1260, la quale costituisce il “Terzo Regno”, cioè l’epoca del compimento finale. Quindi, l’epoca di Cristo non era, al contrario di quello che aveva postulato Agostino, l’ultima per il genere umano, ma sarebbe stata seguita da un’altra epoca

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di vera perfezione. Tutte e tre le epoche sono annunciate dalla comparsa precorritrice di un capo: Abramo, Cristo, e Francesco d’Assisi (il movimento francescano che nasce e si sviluppa in quel periodo). Voegelin annota che già qui, nell’introduzione di un ulteriore Regno dopo quello segnato da Cristo, è facile intravedere, pur in un contesto assolutamente cristiano, il seme dell’idea di un’epoca postcristiana. Tav. 15 - La filosofia della storia di Gioacchino da Fiore.

La speculazione storica di Gioacchino si colloca in opposizione alla speculazione cristiana della storia, vale a dire alla filosofia della storia di sant’Agostino che divideva la storia terrena in sei epoche, l’ultima delle quali era appunto segnata dall’arrivo di Cristo, col quale si inaugurava l’epoca della vecchiaia del genere umano (cioè il saeculum senescens), epoca senza significato se non quello dell’attesa della fine della storia attraverso l’eskaton. La motivazione offerta da Voegelin per spiegare l’apparizione della nuova speculazione gioachimita è tipica degli storici: mentre nel V secolo Agostino non poteva che osservare un mondo ‒ l’impero romano ‒ moribondo, l’uomo europeo del secolo XII non poteva

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vedere che un mondo in vitale ascesa (aumento della popolazione, dell’urbanizzazione, della ricchezza, della vita intellettuale, di cui la formazione degli ordini religiosi come quello cluniacense erano testimonianza). Ciò che a Voegelin sta più a cuore di questa tripartizione gioachimita, è ovviamente il “Terzo Regno”, in cui si muovono i movimenti politici di massa dei tempi moderni, cioè la concezione di una terza fase della storia universale che è nello stesso tempo l’ultima, cioè l’epoca del compimento; il “terzo regno” è il simbolo mediante il quale la società moderna comprenderebbe se stessa, simbolo assai pervasivo, come testimonierebbero i numerosi secoli di attesa dell’avvento di tale regno finale, tanto da far predire a Voegelin che rimarrà dominante per ancora del tempo nella storia occidentale. Voegelin sottolinea come nell’età dell’illuminismo si afferma una divisione tripartita della storia ben diversa da quella tradizionale ‒ attribuita al Biondo ‒ che periodizzava la storia umana in antica, medievale (il millennio compreso fra la conquista di Roma da parte dei Goti occidentali e l’anno 1410) e moderna. Rispetto al periodo illuminista, la storia umana viene divisa in tre fasi, variamente declinate all’interno di quattro principali accentuazioni enucleate da Voegelin: i) nel pensiero che va da Turgot a Comte, entrambi i quali, peraltro, pongono l’accento sullo sviluppo spirituale umano, abbiamo la prima fase teologica, la seconda metafisica e la terza scientifica (positivista); ii) in Hegel, che pone l’accento sulla libertà umana, abbiamo la fase dell’antichità (dispotismo orientale, in cui solo il despota era libero), quella aristocratica (in cui solo pochi erano liberi) e, infine, quella moderna (in cui tutti sono liberi); iii) in Marx ed Engels, che si concentrano sulle leggi dialettiche immanenti alla storia, abbiamo una prima fase di comunismo primitivo, una seconda di società classista borghese e, finalmente, una terza caratterizzata dalla società senza classi, quando si sarebbe realizzato il regno comunista finale della libertà; iv) in Schelling, che pone l’accento sulla storia umana cristiana, abbiamo la distinzione nelle tre fasi del cristianesimo, in ordine di successione, la petrina, la paolina, e, infine, a compimento della perfezione del cristianesimo, la giovannea.

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Il secondo simbolo considerato da Gioacchino da Fiore è quello del leader, o dux, che introduce ogni nuova epoca e la realizza. I contemporanei di Gioacchino, nella loro ansia di salvezza, pensarono subito a san Francesco d’Assisi ‒ in realtà sostanzialmente fedele all’ortodossia ‒ come il capo che avrebbe instaurato il regno dello Spirito Santo, convinzione che influenzò anche la visione politica di Dante25. Successivamente anche le sette religiose apparse nel Rinascimento e nella Riforma seguono l’idea gioachimita tanto che «i loro capi erano paracleti posseduti dallo spirito di Dio e i loro seguaci erano gli homines novi o spirituales». In seguito, quando lo spirito moderno e secolare inizia a prevalere, al simbolo del capo come paracleto ispirato da Dio, si sostituisce il simbolo del superuomo (termine coniato da Goethe nel Faust), variamente declinato come il superuomo progressista di Condorcet che spera e tende all’immortalita, quello positivista di Comte, quello comunista di Marx e quello dionisiaco di Nietzsche. La caratteristica saliente che riguarda tutta la declinazione è la sostituzione ‒ che avviene a partire dal processo di creazione dell’uomo perfetto dei “settari” fino ad arrivare a quello del superuomo dei moderni ‒ della effettiva sostanza divina (che entra nell’uomo perfetto postulata dai settari) con l’idea divina (prima erroneamente posta, per un effetto psicologico, in un Dio dell’aldilà) di cui si riappropria l’uomo al suo interno, postulata dai moderni superomisti: Il processo mediante il quale si crea il superuomo è molto simile al movimento dello spirito per cui i vecchi settari facevano entrare in se stessi la sostanza di Dio e si trasformavano in uomini divinizzati. Dio è concepito dai settori secolarizzati come una proiezione della sostanza dell’anima umana nella vastità illusoria dell’“aldilà”. Mediante l’analisi psicologica quest’illusione può essere dissipata e “Dio” può essere ricondotto dall’aldilà nell’anima, dalla quale è scaturito. Dissipando l’illusione, la sostanza divina viene reincorporata nell’uomo e l’uomo diventa superuomo. L’atto per cui Dio è ricondotto nell’uomo determina, come nel caso dei vecchi settari, la creazione di un tipo umano che afferma la pro-

25 Voegelin osserva come la concezione dantesca di un dux del nuovo regno abbia ispirato una certa letteraratura tedesca e italiana nella quale i capi preannunciati da Dante sono associati a Hitler e Mussolini.

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pria esistenza al di fuori di ogni condizionamento di obbligazioni e vincoli istituzionali» (Voegelin 1997, 66).

Il terzo simbolo gioachimita è rappresentato dal profeta, in quanto era una idea di Gioacchino che ogni nuova epoca dovesse avere non solo un capo ma anche una sorta di suo precursore, come era stato Giovanni Battista per Cristo. Per Voegelin, il profeta dei tempi moderni, non è altro che l’intellettuale laico che ‒ al contrario dell’intellettuale Gioacchino, che, considerandosi lui stesso il profeta del prossimo dux e Babylone mandato da Dio, mostra di essere ancora profondamente radicato nel contesto del cristianesimo ‒ presume di conoscere sia il significato e il fine (immanenti) della storia che, anche, la formula del riscatto futuro dalle sventure del mondo. Nel mondo moderno la distinzione fra profeta e capo è meno netta, in quanto, per esempio Comte è sia l’intellettuale che “profetizza” il proprio ruolo di capo della storia umana, sia il capo medesimo, scaturito, per il processo magico della trasformazione meditativa, dalla figura dell’intellettuale, mentre, al contrario, nell’apocalittica gnostica del comunismo, Marx e Engels possono essere considerati i “profeti” precursori di Lenin e Stalin, entrambi leader del Terzo Regno comunista. Infine, il quarto simbolo tracciato da Gioacchino è quello della nuova comunità degli uomini “perfetti” spiritualmente. Mentre il monachesimo del tempo gioachimita immaginava a conclusione del corso della storia una forma perfetta di umanità spiritualizzata, una comunità spirituale di monaci liberi senza mediazione della chiesa o di altre istituzioni, nei tempi moderni si riscontra lo stesso simbolismo in quei movimenti di massa che, progettando con razionalità il disegno di salvazione divina in versione immanente, concepiscono la perfezione in un regno intramondano finale; per Voegelin è particolarmente il caso sia della «idea di democrazia che trae alimento, in misura considerevole, dal simbolismo di una comunità di uomini autonomi» sia del comunismo che concepisce «il Regno Finale come una libera comunità di uomini dopo l’abolizione dello Stato e delle altre istituzioni». Quindi, secondo Voegelin, questi quattro simboli gioachimiti costituiscono un complesso mitico-simbolico particolarmente

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vivo nei moderni movimenti politici di massa fino ai giorni nostri. Nelle derivazioni gnostiche dell’idea cristiana di perfezione e nella speculazione gioachimita (ma anche nell’averroismo latino e nel nominalismo medievale), Voegelin individua la presenza di una caratteristica fondamentale, quella della immanentizzazione. Infatti tutti i movimenti gnostici-politici avrebbero, per Voegelin, l’obiettivo di negare il legame dell’uomo con l’essere divino e trascendente per postulare invece un ordine dell’uomo immanente al mondo, e la convinzione che l’azione umana deve e può modificare radicalmente la insoddisfacente struttura del mondo per creare un soddisfacente mondo nuovo. Quindi, tutte e tre le tipologie di derivazione gnostica dell’idea di perfezione cristiana condividerebbero sia la convinzione che la costituzione dell’essere può effettivamente venire modificata dall’uomo, sia l’obiettivo di creare un mondo nuovo. Ovviamente, per Voegelin, esattamente come per qualsiasi altro conservatore e neo-ordoliberale, «il mondo, tuttavia, resta quale a noi è dato e non rientra nelle facoltà umane la possibilità di cambiarne la struttura» (Voegelin 1997, 69). Qual’è allora la caratteristica precipua di ogni sistema gnostico-politico? Il modo con cui il pensatore gnostico cerca di far apparire possibile ciò che invece non può essere possibile: l’effettività del suo programma di trasformazione del mondo. Per convincere i seguaci di tale effettività egli deve prima di tutto «costruire un quadro del mondo dal quale siano stati eliminati quei caratteri essenziali della costituzione dell’essere che farebbero apparire disperato e insensato il programma stesso» (Voegelin 1997, 69). Quindi, un carattere generale degli approcci gnostici sarebbe l’omissione di un importante aspetto della realtà, al fine di far sembrare possibile un cambiamento di uno stato di cose di per sé insoddisfacente. Per illustrare quello che considera un tratto specifico e caratterizzante dei modelli gnostici del mondo ‒ le omissioni di elementi della realtà al fine di mostrare possibile un’alterazione dell’insoddisfacente stato di cose esistente ‒ Voegelin prende in esame tre casi esemplari della storia del pensiero moderno: l’Utopia di Tommaso Moro (1478-1535), il Leviatano di Hobbes

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(1588-1689), e la concezione della storia di Hegel (1770-1831). Per Voegelin, i pensatori da lui catalogati come gnostici debbono essere viziati da una “singolare e anormale condizione spirituale”, per la quale conia un termine ad hoc, preso a prestito da Schelling: “pneumopatologia”. Questa insana condizione “pneumopatologica” si rivela nel fatto che il pensatore ‒ cosa che Voegelin ritiene sarà facile constatare nei tre casi di Moro, Hobbes ed Hegel ‒ «sopprime un elemento essenziale della realtà per poter costruire un’immagine dell’uomo o della società o della storia che sia conforme ai suoi desideri» (Voegelin 1997, 73). Iniziando da Moro, Voegelin rileva come nell’opera Utopia questi costruisce un uomo e una società che considera perfetti e in cui elemento essenziale è l’abolizione della proprietà privata. Dove sta allora l’errore e la disonestà di questa costruzione così lesiva del mondo capitalista? Moro, essendo anche eccellente teologo, è ben conscio che il peccato originale ha radicato nell’uomo la superbia agostiniana, la brama della proprietà, e nella parte finale riassuntiva dell’opera addirittura giunge a riconoscere che tutta la sua costruzione utopistica viene vanificata dal “serpente della superbia”. Allora, Moro può essere accusato del peccato gnostico di aver nascosto ‒ pur essendone conscio ‒ un reale elemento, quello della ineliminabile superbia umana, per poter mostrare la possibilità di un mondo altro dall’esistente. Voegelin è estremamente sprezzante e insultante ‒ postulandone l’intenzionale disonestà e lo stato mentale malato ‒ ogni volta che parla di un pensatore che sia ‘critico’ dell’esistente. Nel caso dell’autore dell’Utopia, a Voegelin viene naturale domandarsi in quale peculiare condizione psicopatologica dovesse trovarsi un uomo come Moro quando elaborò un modello della società perfetta nella storia, pur essendo pienamente consapevole che esso non avrebbe mai potuto venire realizzato a causa del peccato originale […] In un caso come quello di Moro noi possiamo dunque parlare della condizione pneumopatologica di un uomo che, nella sua rivolta contro il mondo quale è stato creato da Dio, omette arbitrariamente un elemento della realtà al fine di creare la visione di un nuovo mondo (Voegelin 1997, 70).

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Rivolgendosi quindi ad Hobbes, Voegelin lo accusa di aver omesso nel suo Leviatano un altro essenziale elemento della realtà, che consisterebbe nel fine ultimo di tutta l’azione umana razionale secondo l’etica classica e tomistica, cioè il “sommo bene”. Grazie a tale nascondimento, che impedisce di conferire qualsivoglia grado di razionalità all’azione umana, quest’ultima può essere ascritta da Hobbes esclusivamente al motivo ‘passionale’. L’uomo è ‘naturalmente’ dominato dalle passioni, in particolare «dalla passione dell’aggressione, della sopraffazione del proprio prossimo», quindi, a causa dell’esclusione dell’etica per cui «gli uomini non indirizzano con libero amore le loro azioni verso il sommo bene […] lo stato “naturale” della società dev’essere quindi concepito come la guerra di tutti contro tutti» (Voegelin 1997, 70). Ovviamente conosciamo l’argomentazione cogente di Hobbes, che Voegelin riporta così: Il solo modo per gli uomini di uscire dalla guerra di questo stato di natura condizionato dalla passione è di sottomettersi a una passione più forte di tutte le altre, che domerà la loro aggressività e il loro impulso di dominazione e li indurrà a vivere in un ordine pacifico. Per Hobbes, questa passione è la paura del summum malum, la paura della morte per mano di altri, alla quale ogni uomo è esposto nel suo stato naturale. Se gli uomini non sono spinti a vivere in pace tra loro mediante il comune amore del sommo e divino bene, allora è la paura del summum malum della morte che deve costringerli a vivere in una società ordinata (Voegelin 1997, 70-71).

Più originale appare invece la motivazione a cui Voegelin attribuisce la stesura del Leviatano. Sarebbe stata la pressione della rivoluzione puritana per instaurare il Regno di Dio, come espressione della “libido dominandi del rivoluzionario che vuole piegare gli uomini alla sua volontà”, ad influenzare l’immagine dell’uomo e della società hobbesiani. Lo “spirito” dei puritani ‒ di questi “profeti armati del nuovo mondo” ‒ individuato come espressione della brama umana del potere e della “rivolta dell’uomo contro la propria natura e contro Dio” è lo stampo dal quale Hobbes estrasse la convinzione della “libido dominandi” come la caratteristica della ‘natura’ degli esseri umani. Per Hobbes, se l’azione umana non mirava più al “sommo bene” o all’amore per Dio, ma

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era solo preda delle passioni, dell’“‘impulso di potenza, immanente al mondo”, allora solo il Leviatano, “Signore dei Superbi”, agitando la minaccia del “summum malum” ‒ cioè la morte ‒ per questi “uomini superbi”, sarebbe stato in grado di controllarli all’interno dell’ordine pacifico della società. Tanto riferendosi a Hobbes che a Moro, Voegelin annota che, di fronte alla ‘naturale’ deficienza dell’uomo, viene ad ergersi il pensatore gnostico che «possiede la formula della restaurazione dell’ordine e della garanzia della pace eterna» (Voegelin 1997, 71). La società che non è governata né dalla volontà di Dio né dalla propria sarà assoggettata alla volontà del pensatore gnostico. La libido dominandi che Hobbes diagnosticò nei puritani celebra il suo massimo trionfo nella costruzione di un sistema che nega all’uomo la libertà e la capacità di ordinare la propria vita nella società. Attraverso la costruzione del sistema il pensatore diventa la sola persona libera: un dio che libererà l’uomo dai mali dello “stato di natura” (Voegelin 1997, 71).

Voegelin afferma inoltre che la disonestà e la pericolosità sono maggiori in Hobbes che in Moro, perché, mentre quest’ultimo aveva costruito solo un gioco da umanista per presentare una società perfetta essendo ben consapevole della sua “impossibilità”, il primo invece «prende terribilmente sul serio la sua costruzione» indirizzata intenzionalmente a «un “sovrano” che può leggerla, meditarla e agire in conformità con essa» (Voegelin 1997, 72). Infine, prendendo in considerazione la filosofia della storia di Hegel26, Voegelin individua la caratteristica gnostica dell’omissione di un fattore essenziale della realtà nel nascondimento del “mistero” della storia. Ovviamente, per Voegelin la storia procede senza che se ne conosca la fine (o il fine, aggiungiamo noi), «la storia come un tutto non è, per essenza, un oggetto di conoscenza; il significato del tutto non è individuabile».

26 Voegelin contesta persino l’uso del termine “filosofia della storia” in riferimento a Hegel, accusandolo di aver espunto “gnosticamente” la storia dalla realtà: «Dobbiamo prima di tutto precisare che l’espressione “filosofia della storia” può essere applicata alla speculazione di Hegel solo con le debite riserve. Infatti, la storia di Hegel non deve essere cercata nella realtà e la realtà della storia non è in Hegel» (Voegelin 1997, 72).

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Invece Hegel assume che la rivelazione di Dio nella storia sia pienamente comprensibile, in particolare a partire dal momento cruciale della storia umana in cui l’incarnazione di Cristo rivela la ragione (il Logos) inverata nella storia. Ma, per Voegelin, Hegel, da buon gnostico, vuole sostituirsi ‒ o meglio sostituire il suo intelletto ‒ alla rivelazione divina che gli appare incompleta: la rivelazione era incompleta ed Hegel ritenne suo dovere d’uomo completare la rivelazione elevando il Logos a compiuta chiarezza nella coscienza. Questa elevazione alla coscienza è di fatto possibile attraverso la mente del filosofo e, più concretamente, attraverso la mente di Hegel: grazie alla dialettica hegeliana, la rivelazione di Dio nella storia perviene alla sua pienezza (Voegelin 1997, 72).

Il dispiegamento dialettico del Logos in Hegel rende perfettamente trasparente e denso di significato il percorso della storia. Voegelin assimila le figure di Gioacchino da Fiore e di Hegel in quanto entrambi vogliono sia offrire un significato intelligibile alla storia sia mostrarsi come uomini “conoscenti” e divulgatori di questa conoscenza (profeti nel senso gioachimitico)27. Secondo Voegelin, Moro, Hobbes, Hegel come anche la lunga lista di pensatori ‘critici’ dell’esistente (con, ovviamente, Marx in testa) si pongono in una voluta contraddizione con la realtà, senza basarsi su alcun fondamento teorico razionale, anzi, scelgono una dimensione irrazionale con la quale evitano o falsificano, in totale malafede, elementi essenziali della realtà. Perché lo fanno? La risposta di Voegelin è psicologica e si articola in due fasi. Nella prima fase, si evidenzia che “la volontà di potenza dello gnostico che vuole governare il mondo prende il sopravvento sull’umiltà della subordinazione alla costituzione dell’essere”; tuttavia, questa risposta non può essere esauriente, perché rimane il fatto in27 «Ci troviamo qui [in Hegel] di fronte a una costruzione molto prossima a quella di Gioacchino da Fiore. Anche Gioacchino era insoddisfatto dell’attesa agostiniana della fine; anch’egli pretendeva di trovare, hic et nunc, un significato intelligibile nella storia; e, al fine di renderne intelligibile il significato, aveva dovuto presentarsi nella veste del profeta al quale questo significato era chiaro. Allo stesso modo, Hegel identifica il suo Logos umano con il Logos che è Cristo, al fine di rendere pienamente comprensibile il processo significativo della storia» (Voegelin 1997, 73).

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controvertibile che se la volontà di potenza ha vinto l’umiltà del pensatore, tuttavia è risultata impotente ad ottenere una effettiva modificazione della costituzione dell’essere. Insomma i vari pensatori avrebbero ottenuto solo una soddisfazione dell’immaginazione, coltivato la pura illusione di aver scoperto un programma efficace per cambiare l’esistenza umana, che invece sarebbe visibilmente rimasta la medesima. Nella seconda fase della risposta, Voegelin supera l’insoddisfazione della prima e si domanda allora a quali bisogni psichici corrisponde, e quali guadagni psicologici fa ottenere ‒ ai medesimi e alle masse che li seguono ‒ la costruzione psicologico-immaginaria di tali pensatori. La risposta a quest’ultima domanda prende l’avvio da una constatazione: nell’idea cristiana di fede appare implicito un elemento di insicurezza. Ciò appare evidente nella Lettera agli Ebrei, dove la fede è definita come “realtà di cose sperate e convincimento di cose che non si vedono”, definizione che costituisce la base dell’esposizione teologica della fede di Tommaso d’Aquino. La fede cristiana, fondata sulla certezza dell’esistenza di un Dio trascendente, fonda in realtà il suo convincimento solo su se stessa: Nella lettera agli ebrei la fede è definita come “realtà di cose sperate e convincimento di cose che non si vedono”. Questa è la definizione che costituisce la base dell’esposizione teologica della fede di Tommaso d’Aquino. La definizione consiste di due parti: una proposizione ontologica e una epistemologica. La proposizione ontologica afferma che la fede è la realtà di cose sperate. La realtà di queste cose sussiste soltanto in questa stessa fede e non certo nel suo simbolismo teologico. La seconda proposizione afferma che la fede è convincimento di cose che non si vedono. Anche qui il convincimento risiede soltanto nella fede stessa (Voegelin 1997, 74).

Insomma la fede cristiana richiede una forza spirituale che non tutti gli uomini posseggono. Molti uomini sono spinti, data tale insicurezza, alla ricerca di un più saldo fondamento della loro esistenza nel mondo. Allora, secondo Voegelin, la gnosi, che pretende di conoscere con certezza il significato dell’esistenza umana e anche il futuro, fornirebbe un aiuto esteriore per superare l’incertezza intrinseca nel cristianesimo: non a caso, dice Voegelin, con riferimento al caso del Medioevo, più il cristianesimo si espande maggiore è la

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sua debolezza e più frequenti sono le eresie gnostiche. Qui sta la seconda e più esauriente risposta di Voegelin: i pensatori danno una certezza immaginaria alle masse che li seguono, fornendo loro una certezza più salda sul significato dell’esistenza umana, sull’ordine dell’essere e del posto che l’uomo occupa in esso, una nuova conoscenza del futuro, una più sicura base per l’azione nel futuro. Infine merita osservare il trattamento che Voegelin riserva a Marx. Lo definisce uno speculatore gnostico, e, accusandolo del tipico atteggiamento gnostico di camuffare la realtà per nasconderla con una “seconda realtà” (termine che Voegelin riprende dall’Uomo senza qualità di Musil), lo biasima come truffatore: Si può seriamente credere che il lavoro dell’intera vita di un pensatore di notevole livello [Marx] possa essere fondato su una truffa intellettuale? Un lavoro basato su una truffa avrebbe potuto attrarre una massa di seguaci e diventare una forza politica mondiale? […] non esitiamo…a rispondere: sì, Marx era un truffatore intellettuale (Voegelin 1997, 19)

È interessante osservare come e dove Voegelin individui il vizio gnostico in Marx; tale vizio viene rintracciato già nella dissertazione di laurea che Marx scrisse nel 1840-41, dove in un passo si può leggere: La filosofia non fa mistero di ciò. La confessione di Prometeo ‒ “Insomma, io odio tutti gli dèi” ‒ è la sua confessione, il suo verdetto contro tutti gli dèi celesti e terrestri che non riconoscono l’autocoscienza umana come la deità suprema. Non ce ne dev’essere alcuna oltre ad essa […] Prometeo è primo santo e martire nel calendario filosofico (Marx 184041, 10).

Qui, in verità, apparirebbe soltanto una confessione del giovane Marx che mostrerebbe la sua predilezione per il simbolo di Prometeo, lontana origine ellenica della lunga storia della rivolta contro Dio, che, peraltro, Voegelin rivisita, sottolineando che se il mito ellenico aveva rappresentato, attraverso Prometeo incatenato, la ribellione dell’anima contro l’ordine del cosmo, l’odio degli dèi e la rivolta dei Titani sconfitti da Giove, spetta però allo gnosticismo l’opera del “rovesciamento rivoluzionario del simbolo

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con la detronizzazione degli dèi e la vittoria di Prometeo”. Ma esprimere una predilezione non è certo essere truffaldino. Dove sarebbe allora la ‘truffa’ di Marx? Il verso di Eschilo citato da Marx avrebbe, secondo Voegelin, una differente interpretazione, nel senso che Eschilo non rappresenta un monologo di Prometeo da approvare, ma un dialogo di questi con Ermes, il quale, alla fine dello sfogo prometeico, esprime una precisa considerazione: che Prometeo non dice cose giuste ma cose folli e per questo va ammonito. Marx, invece, pur conoscendo sicuramente il Prometeo incatenato di Eschilo, si sarebbe limitato a menzionare solo lo sfogo di Prometeo, evidentemente riconoscendosi in esso, e avrebbe taciuto colpevolmente rispetto all’ammonizione di Ermes. Da questo Voegelin deduce ‒ lasciamo al lettore la valutazione sulla plausibilità o meno della deduzione ‒ che, in primis, Prometeo e Marx soffrono della stessa malattia spirituale di rivolta gnostica, e, in secundis, che Marx soffre anche di una propensione alla truffa intellettuale (secondo lui tipica di tutti gli gnostici)28.

28 Riportiamo qui per esteso l’argomentazione di Voegelin, che è indicativa del suo metodo di indagine storica alla ricerca degli gnostici moderni: «Cerchiamo di chiarire prima di tutto il rapporto fra le considerazioni di Marx e il verso di Eschilo da lui citato. Prometeo è incatenato a una roccia presso il mare. Sotto, sulla striscia di sabbia, sta Ermete con lo sguardo rivolto a lui. Prometeo incatenato da libero sfogo alla sua amarezza; Ermete cerca di calmarlo e di indurlo alla moderazione. Allora Prometeo compendia la sua impotenza e la sua ribellione nel verso citato da Marx: “Insomma, io odio tutti gli dèi”. Ma il verso non fa parte di un monologo. A questa esplosione di odio il messaggero degli dèi replica in tono ammonitore: “Sembra che tu sia stato colpito da “grande follia” […]. Qui siamo di fronte alla natura malata (pneumopatologica) della rivolta, alla quale abbiamo precedentemente accennato. E che cosa risponde Marx a questa osservazione del messaggero degli dei? Non replica nulla. Chi non conosce il Prometeo incatenato deve concludere che la “confessione” citata riassume il significato della tragedia e non invece che Eschilo voleva rappresentare come follia l’odio degli dei. Nella distorsione del significato intenzionale nel suo contrario, noi possiamo vedere di nuovo tutti i vari gradi della soppressione delle domande: l’inganno del lettore con l’isolare il testo (la confessione appare nella prefazione a una dissertazione di laurea), la consapevolezza della truffa (infatti noi supponiamo che Marx abbia letto la tragedia) e la perseveranza demoniaca nella rivolta contro un giudizio migliore» (Voegelin 1997, 25).

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2.3. Illuminismo e Rivoluzione: dalle idee alle azioni Il grande errore dei marxisti e di tutto il XIX secolo è stato di credere che procedendo diritti davanti a sé, si salisse in aria. (Weil 1988, 130) Il Grande Essere è l’insieme degli esseri, passati, futuri e presenti, che liberamente concorrono a perfezionare l’ordine universale. (Comte 1929, t. IV, 30) Né dubitò mai, come D’Alembert, che avrebbe vinto: solo Pascal era un grande nemico, tutti gli altri/ erano topi, già avvelenati; certo, c’era molto da fare,/ e lui non disponeva che di sé./ Il caro Diderot era ottuso, ma faceva del suo meglio;/ Rousseau, lo sapeva da sempre, avrebbe pianto e/ capitolato. (Auden, Voltaire a Fernet, 1997)

Voegelin (1975), come storico delle idee e filosofo politico manifesta la convinzione che le istituzioni sono il prodotto delle idee politiche e degli ordini mitico-simbolici che ad esse, seppure spesso occultamente, sono associati, e che la crisi di questi ultimi (idee e simboli) implichi anche la crisi e la decadenza di tali istituzioni; in questo senso, egli è quindi pienamente in linea con i pensatori che nella prima metà del XX secolo fronteggiano la crisi del capitalismo liberale e ne paventano la fine sotto la forza dei movimenti rivoluzionari. Ma a differenza dei neoliberali, come gli amici austriaci Mises e Hayek, e degli ordoliberali tedeschi, che accusano la rivoluzione francese di aver aperto il vaso di Pandora da cui escono tutti gli aspiranti rivoluzionari, la sua indagine va ben più indietro a ricercare l’origine della crisi del coevo capitalismo e del suo ordine politico; va a ricercarla nella più generale crisi della cultura europea (ancora idee e simboli), a partire dal malvagio gemello inestirpabile che accompagna l’era cristiana, lo gnosticismo, anche se poi anch’egli si sofferma particolarmente sugli aspetti del pensiero del settecento e dell’ottocento quali precursori dei fenomeni “rivoluzionari” del novecento. Anche in questo caso, seguire l’analisi di Voegelin della relazione fra le idee ‒ dall’illuminismo in poi ‒ e la rivoluzione dell’ordine esistente, fornisce un punto di vista della storia, per quanto particolare perché segnato dall’ipotesi della gnosi politica moderna, in cui la politica nasce, sempre nella

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suggestione foucaultiana, dalla relazione fra potere come condotta degli uomini e resistenza come contro-condotta, ricordando come anche per Foucault la gnosi (antica) avesse rappresentato una delle prime forma di contro-condotta. Una categoria tipica che Voegelin utilizza nella sua analisi è quella della “coscienza dell’epoca”. Quando la “coscienza dell’epoca”, vale a dire la coscienza diffusa di trovarsi ad un punto di svolta epocale verso un nuovo mondo, si propaga dai circoli iniziatici ‒ che coltivano le idee di mutazione e ne organizzano la diffusione ‒ all’intera società o almeno ai suoi intellettuali dominanti, allora il processo rivoluzionario si attiva. La discriminante per l’espressione del giudizio sulle varie periodizzazioni del pensiero umano è il significato (o la sua assenza) che tale pensiero attribuisce alla storia, all’autocomprensione dell’uomo e della propria azione sociale. Possiamo chiamare “un’onda a due creste” l’evolversi di tale significato: inizialmente locale (etnico e tribale precristiano) e poi universale (l’impero romano e quindi il sacro impero cristiano e la chiesa), quindi di nuovo locale (stati e nazioni) e, infine, di nuovo universale (le utopie politiche e sociali e il capitalismo global-finanziario). Possiamo sottolineare due antitesi principali che oppongono, da un lato l’llluminismo, e, dall’altro lato, sia il cristianesimo che il pensiero dell’età classico-antica. La prima antitesi si esprime nel differente significato attribuito alle due storie, quella sacra rivelata dalle scritture e quella profana degli uomini e dei loro avvenimenti quotidiani: con l’Illuminismo la storia profana si sostituisce a quella sacra, assorbendone, però, in senso immanentistico, il significato salvifico. La seconda antitesi sta 1) nella eliminazione della metafisica e della trascendenza, 2) nell’abbandono del fine del sommo bene (eudaimonia), e 3) nel ribaltamento del concetto di ragione, da parte dell’Illuminismo. Per Voegelin, l’ordine dell’essere viene spiegato da Platone. La contrapposizione paradigmatica, desumibile dal “Gorgia”, è quella fra Socrate e Callicle (il politicante sofista per cui la giustizia è solo il vantaggio del più forte e la legge vale finché non si riesce a sovvertirla), vale a dire fra la ragione platonica ‒ che guarda all’ordine trascendente del bene ‒ e l’utilitarismo sofistico ‒ per cui la giustizia è solo la legge del più forte.

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La nascita del contratto, del patto e della legge di natura contrattuale ‒ che sarà poi alla base del mondo moderno, utilitarista e illuminista ‒ poggia, secondo Platone, su una visione di partenza “ingiusta”, esito di una concezione della politica priva di filosofia e di ricerca del sommo bene, come fa capire Socrate, nella «Repubblica», quando spiega che cosa sia la giustizia e quale sia la sua origine: Dicono che commettere ingiustizia è per natura un bene e subirla un male; e che v’è più male a subirla che bene a commetterla. Sicché quando gli uomini si fanno reciprocamente ingiustizia e provano il male e il bene, coloro che non sono capaci di evitare l’uno e di ottenere l’altro ritengono vantaggioso venire a un accordo, di non farsi a vicenda ingiustizia. E così hanno cominciato a porre leggi e a fare patti tra loro; e hanno dato nome di legittimo e giusto a ciò che è stabilito dalla legge (Platone 2019, II, 358e, 359a).

Platone, nella Repubblica, indica come irrazionale, cioè opposto alla ragione29, proprio ciò che per Voltaire è sinonimo della ragione, vale a dire la ricerca di ciò che è utile. Aristotele, nell’Etica Nicomachea, definisce la felicità come sommo bene e, nella Politica, contrappone l’utile a ciò che si confà ad uomini magnanimi e liberi30. Al contrario, Voltaire, alla voce “bene (sommo bene)” del suo “Dizionario filosofico” irride il summum bonum dei classici, equiparandolo nel significato al sommo manicaretto o ad altri summum vili, fra cui include la virtù stessa, che sarebbe spesso poco piacevole e del tutto inutile, e, infine, irride il saggio virtuoso, che esalta summum bonum e virtù, paragonandolo a un ciarlatano31.

29 «si tratti di due elementi tra loro diversi: l’uno, quello con cui l’anima ragiona, lo chiameremo il suo elemento razionale; l’altro, quello che le fa provare amore, fame, sete e che ne eccita gli altri appetiti, irrazionale e appetitivo, compagno di soddisfazioni e piaceri materiali»(Platone 2019, IV, 439d). 30 «appare chiaro che dire “il sommo bene è la felicità” è una cosa su cui tutti sono d’accordo» (Aristotele 2003, I, 6, 1027b; 22, p.19); «cercare da ogni parte l’utile non s’addice affatto a uomini magnanimi e liberi» (Aristotele 1996, VIII, 3, 1338b, 43, 267). 31 «Gli antichi hanno molto disputato sul sommo bene. Tanto valeva chiedersi che cos’è il sommo blu, o il sommo manicaretto, il sommo incedere, il som-

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Non vi può essere più evidente sostituzione nelle finalità dell’uomo di quella che si manifesta nel passaggio dalla felicità e virtù degli antichi all’utile dei moderni. Voegelin individua nella figura di Voltaire il passaggio dalla “teologia della storia” ‒ sviluppatasi secondo la linea Agostino-Orosio-Bossuet ‒ alla “filosofia della storia”, passaggio riassumibile nel fatto che con quest’ultima si finisce per attribuire ‒ come direbbe Löwith ‒ un significato e un fine alla storia umana. Voegelin, nella sua History of political ideas, nota che Agostino tralascia la storia profana, che viene lasciata ad Orosio nella Historiae adversus paganos. L’idea centrale in questi pensatori è che la storia profana degli imperi finisce per essere soltanto ancillare alla storia sacra; ancora Bossuet (vescovo e istitutore del delfino del Re Sole), nella sua storia universale, che sarà oggetto di rivisitazione in chiave di contrapposizione da parte di Voltaire, riconosce la distinzione tra storia sacra e storia profana, in cui la prima, la storia di Israele e la storia della Chiesa, è significativa, mentre la seconda, la storia dell’impero, è in sé irrilevante se non come funzionale alla manifestazione di quella di Israele e della Chiesa. Invece, con Voltaire, venendo a mancare la fede nelle Scritture, la storia profana viene rivista e valorizzata; lo spostamento assiale che si verifica nel concetto della storia profana è che essa non è più “teologizzata”, ma diviene “teleologizzata”. Il suo senso non è più quello di curarsi delle tribolazioni di Israele e della Chiesa in attesa del loro trionfo finale, ma quello di curarsi della realizzazione di un altro obiettivo finale, il progresso dello spirito umano (esprit humain)32. Si tratta, in fondo, di una semplice sosti-

mo leggere, ecc. […] la virtù non è un bene, è un dovere […] Non ha niente a che vedere con le sensazioni dolorose o piacevoli. L’uomo virtuoso, che soffre di calcoli o di gotta, senza appoggio, senza amici, privato del necessario, perseguitato, messo in catene da un tiranno voluttuoso che stia bene in salute, è molto infelice; mentre il persecutore insolente che accarezza una nuova amante sul suo letto di porpora è molto felice. Andate pure a dire che il saggio perseguitato è preferibile al suo insolente persecutore, che amate l’uno e detestate l’altro; confessate però che il saggio incatenato si rode l’anima. Se il saggio non è di questo avviso, è segno che vi inganna e che è un ciarlatano» (Voltaire 1991, 94-95). 32 Annotiamo che, se, per Voegelin, Bossuet è l’ultimo difensore della visione cristiana della storia che Voltaire ribalta e demolisce, per Agamben è co-

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tuzione di divinità nei segnavia della storia: dallo spirito di Dio allo spirito dell’Uomo: Voltaire è indotto dalla stessa eliminazione del trascendente a ricercare un nuovo fattore unificante della storia, alla luce del quale interpretare gli eventi. Bisogna attribuire nuovi significati ai fatti storici e alla stessa vita di ogni uomo che ha, a questo punto, la propria realizzazione all’interno della storia. Il significato della storia non può più essere metastorico ma immanente. Il valore immanente, alla luce del quale dare un significato alla storia, fu da Voltaire indicato nel progresso dello spirito umano (Caroniti 2005).

Per Voegelin, Voltaire riparte dalla storia concepita dalla contro-condotta gnostica medievale di Gioacchino da Fiore. Le categorie del significato della storia sono in Voltaire ancora equivalenti a quelle cristiane, però rivisitate secondo la rielaborazione trinitaria di Gioacchino da Fiore. Voltaire nel suo Essai sur les moeurs introduce le categorie dell’estinzione (corrispondente alla Caduta), della rinascita (corrispondente alla Redenzione) e del progresso dello spirito umano (corrispondente a un Terzo Regno della perfezione

lui che ha affermato una visione provvidenziale così pervasiva del mondo, tanto da affermare che anche la libertà umana nell’azione concreta è già prevista dalla provvidenza, che libertà umana e volontà divina sono la stessa cosa, e anche senza Dio il mondo in cui l’uomo sia libero di agire secondo il criterio ad esso proprio della razionalità sarebbe in realtà sempre guidato da Dio: «noi siamo liberi in forza del decreto che vuole che noi siamo liberi […] Dio ci fa tali quali saremmo se potessimo essere da noi stessi» (Bossuet 1871, cap. 8, 64-65). Agamben tira allora le estreme conseguenze dell’estremo provvidenzialismo rappresentato da Bossuet, sostenendo che le cifre peculiari del moderno, ateismo e democrazia, sono non solo il proseguimento ma il compimento della teologia (della oikonomia provvidenzale). Infatti, con l’immagine forte del governo provvidenziale del mondo disegnata da Bossuet «la teologia può risolversi in ateismo e il provvidenzialismo in democrazia, perche Dio ha fatto il mondo come se esso fosse senza Dio e lo governa come se esso si governasse da se […] In questa immagine grandiosa, in cui il mondo creato da Dio si identifica col mondo senza Dio e contingenza e necessità, libertà e servitù sfumano l’una nell’altra, il centro glorioso della macchina governamentale appare in piena luce» (Agamben 2007, 314). Allora, in fondo, anche il grande progetto laicista dell’illuminismo, tacciato di demoniaco gnosticismo da Voegelin, che ha aperto la strada al dominio del calcolo economico nel governo del mondo, null’altro sarebbe che il compimento della teologia politica-economica intrinseco già nella visione patristica del cristianesimo (vedi par. 3.1).

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spirituale). In queste categorie si possono collocare gli accadimenti storici, quindi il medioevo rappresenta l’estinzione, l’epoca dell’inizio della tolleranza a partire da Enrico IV rappresenta la rinascita, e l’era dello stesso Voltaire rappresenta il progresso: Voltaire riprende la riorganizzazione della storia nel punto in cui i pensatori del tredicesimo secolo dovettero abbandonarla a fronte della resistenza ortodossa, con la fondamentale differenza che lo spirito del Terzo Regno non è lo spirito della personalità autonoma cristiana, ma lo spirito dell’intellettuale autonomo (Voegelin 1975, 11).

E Voltaire non sarebbe altro che il precursore dei successivi Saint-Simon e Comte con la «legge» delle tre fasi (religiosa, metafisica e positivo-scientifica), e anche dei più recenti marxismo e nazismo che riempiranno le medesime categorie di altri contenuti. La marchesa du Châtelet, che ospiterà nel suo castello per molti anni Voltaire, era donna di lettere e di scienza (sarà la prima traduttrice dei Principia di Newton in Francia)33, e, fra le altre cose, si dedicò allo studio critico dei Discours sur l’histoire universelle di Bossuet, nel quale redasse due note che furono evidenziate da Voltaire e che risulteranno stimolanti e paradigmatiche per la nuova visione della storia che permeerà il suo Essai. Nelle due note, la marchesa registrava due interrogativi riguardo alle affermazioni di Bossuet, il primo rispetto a Israele e il secondo rispetto a Roma: i) “si può parlare molto di questo popolo in teologia, ma esso merita poco spazio nella storia”; ii) “Perché l’autore afferma che Roma inghiottì tutti gli imperi dell’universo? La Russia da sola è più grande di tutto l’Impero romano”. Osserviamo bene ‒ ci dice Voegelin ‒ gli effetti di queste piccole osservazioni. La apparentemente irrilevante prima nota della marchesa assume, invece, una dirompenza rivoluzionaria, una volta che se ne abbandoni l’interpretazione letterale ‒ cioè, Israele è un piccolo paese e non un impero, sulla qualcosa poteva certamente convenire anche Bossuet ‒ e se ne colga, piuttosto, la diretta conseguenza logica, che può essere riassunta nel concetto di “secola-

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Federico il Grande la definì “Venere newtoniana”.

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rizzazione della storia”. La marchesa contrappone la storia alla teologia, non tanto perché osserva come Israele sia irrilevante nel campo della dinamica politica universale, ma perché afferma che per i popoli sono rilevanti gli avvenimenti della storia profana e il cristianesimo non è altro che un avvenimento nella storia. Non ha perciò più alcun senso la distinzione tra storia sacra e profana, quando la prima era il sistema di riferimento assoluto e la seconda veniva così definita per negazione. Sparita la distinzione, si ha un’unica storia, intesa come un avvicendarsi di fatti umani intramondani, compreso quelli attinenti al cristianesimo, vale a dire una storia secolarizzata. La seconda nota della marchesa, è immediatamente rivoluzionaria, perché introduce la categoria della quantità come principio e attacca così la funzione di Roma come fattore costituente dell’universalità occidentale. La rilevanza di Roma non è un problema relativo alla sua grandezza. La civiltà occidentale, così come emerge dal medioevo, si fonda soltanto sull’equilibrio precario tra gli elementi delle civiltà antiche, che erano affluiti in essa: il razionalismo ellenico, lo spiritualismo ebraico e l’ordine giurisdizionale che regola gli affari pubblici e privati. La koine della civiltà ellenistica, l’universalità dell’imperium romano e la cattolicità della Chiesa sono riprese, su nuova base etnica, nella sintesi imperiale cristiana del medioevo. Il mito dell’universalità dell’Impero può dominare i sentimenti finché la pluralità di altri mondi non si frappone troppo duramente (Voegelin 1975, 7).

Ma basta pensare alla Russia con la sua enorme dimensione per revocare in dubbio la significatività universale dell’impero cristiano. Se il centro dell’universalità si è spostato dal livello sacro a quello profano, tuttavia bisogna rimarcare che del primo non viene perso il senso dell’esistenza di un ordine e di un significato nella storia umana universale. Ancora una volta si presenta la centralità di un altro chiasmo: si passa da una concezione di due storie in cui soltanto la storia “sacra” ha un “senso” mentre quella profana, mondana, è insignificante ‒ se non come, talvolta, necessaria ancella della prima ‒, ad una unificazione della storia, che diventa adesso tutta e soltanto quella “mondana”, ma che, in questo caso, si trova a presentare

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quelle due caratteristiche che non aveva in precedenza, ovvero eredita e mantiene quelle che, prima, possedeva la storia “sacra”: i) la universalità; ii) un significato. Tuttavia, la dimostrazione della presenza delle due caratteristiche necessita di ulteriori passaggi. Il passaggio centrale consiste nel porre un nuovo oggetto della storia: lo spirito dell’uomo e la sua evoluzione. Come dice Voltare nell’Essai, non si tratta di cumulare fatti e dettagli, ma selezionarli e giudicarli per arrivare a scrivere la storia dello spirito umano, dalla sua estinzione alla sua rinascita e al suo progresso. Adesso, di fronte alla universalità intesa come totalità dei fatti empirici, come raccolta dettagliata di ogni materiale relativo ad eventi, si apre il compito decisivo: con la conoscenza integrale di «tutto quel che sia avvenuto nell’esistenza dell’umanità nel tempo» non si deve aprire una «bottega delle curiosità» ma si deve ricavare «una rilevante interpretazione della storia» (Voegelin 1975, 9), o, meglio, il suo “significato”. Voegelin costruisce un apparato analitico attraverso cui vagliare e portare alla luce tutte le interpretazioni della storia che definisce rivoluzionarie, apocalittiche, gnostiche, ecc. e che per lui sono “insostenibili” e “inaccettabili”. Quello che è per i fautori delle contro-condotte gnostiche una evoluzione finalizzata verso l’elevazione dell’uomo nelle sue varie accezioni e caratteristiche ‒ passando dall’esprit humain, secondo Voltaire, all’uomo padrone delle scienze e della natura, secondo i positivisti, oppure all’uomo comunista emancipato dalle necessità della natura e libero di elevare il suo “spirito” immanentizzato, secondo Marx ‒ è, invece, per Voegelin, una “involuzione” discendente dell’uomo verso il basso dell’animalità34. La tesi gioachimita dei tre regni, che per Voegelin è la base del pensiero secolarizzato inconsapevole di stare incorporando ancora i significati della storia “sacra”, conduce ad una modificazione dei sentimenti religiosi in senso

34 Annotiamo che, sebbene senza richiamare attribuzioni ad influenze gnostiche e a premeditate azioni rivoluzionarie, anche Hannah Arendt vede la modernità, e ancor peggio la contemporaneità, come una “involuzione” discendente dell’uomo verso il basso dell’animalità, involuzione che, per esempio, Marx ‒ secondo Arendt ‒ non seppe prevedere a causa della sua errata convinzione che vi fosse una evoluzione ascendente necessariamente intrinseca alla storia umana.

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immanente o intramondano, che «passano dalla deificazione della ragione e dell’intelletto alla deificazione della base animale dell’esistenza», spingono «verso il basso l’interpretazione della storia e della politica dallo spirito alla base animale dell’esistenza», causano, attraverso la tecnica, la «rapida caduta dalla ragione, attraverso l’intelletto tecnico e ideatore, ai livelli economici, psicologici e biologici della natura umana, intesi come quelli dominanti dell’uomo», rendono instabile, frenetico e perituro il pensiero di fronte, invece, «all’imponente stabilità dell’antropologia cristiana durante diciotto secoli» e, infine, avendo ormai «tolto l’ancoraggio trascendentale, la discesa dalla natura razionale a quella animale sembra così inevitabile» (Voegelin 1975, 13). La teologia, intesa come corpo di proposizioni empiricamente testabili, perde ogni significato, visto che non può reggere all’analisi scientifica a cui la sottopone la ragione. Ovviamente, il cattolico Voegelin osserva che la dottrina teologica ha una differente epistemologia, e in essa la conoscenza viene raggiunta attraverso la fede, la grazia, la carità ecc., come ben spiega Tommaso d’Aquino, e come sembra che invece abbiano dimenticato i suoi epigoni della seconda scolastica, in gran parte gesuiti, impegnatisi come professionisti della teologia nella capziosa e sterile ‒ così com’è proverbialmente considerata ‒ analisi della “scolastica”. Se la riflessione del pensiero passa ad inquadrare il mondo esterno lasciando nell’oscurità il mondo spirituale interiore ‒ divenuto monco del suo centro, l’anima ‒ allora i simboli cruciali di tale mondo spirituale (cristiano), come Dio e l’anima, i) se del tutto obliati, divengono nozioni irrilevanti, e ii) se ancora vivi come tradizione anche nella mente dei filosofi, diventano oggetti della chirurgia della ragione ‒ che di questi simboli oscuri e incomprensibili cerca, appunto, di darsi una ragione ‒, attraverso i ferri sezionatori della psicologia o dell’utilitarismo. E Newton, come il suo ammiratore Voltaire, appartengono al secondo caso: una volta fissato il modello epistemologico nel metodo sperimentale e nella fisica, quei simboli spirituali ancora vivi sono sottoposti ad analisi secondo tale modello e tale metodo. Allora, qual’è il motivo per cui Newton deve essere convinto (come infatti lo era aldilà di ogni dubbio) dell’esistenza di Dio? Perché

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lo prevede l’ordine dell’universo rivelato dalla sua fisica astronomica, che richiede un creatore estremamente abile, per cui, dato tale ordine scientificamente asserito, non può non esistere il suo ordinatore35. Tuttavia, se la fisica indirettamente ne dimostra l’esistenza, essa null’altro può dire su di Lui, come, invece, consentiva la speculazione teologica e metafisica. La porta al pragmatismo è spalancata, occuparsi delle cose ultime è quantomeno inutile. L’elogio del pragmatismo e l’attacco alla speculazione metafisica portati avanti da Voltaire sono evidenziati da una serie di sue citazioni: «La filosofia può dimostrare che esiste un Dio, ma è incapace di insegnare cosa sia e cosa faccia» (Voltaire 1785, vol. 38, 25, pt. 1, cap. 1); «O uomo! Questo Dio ti ha dato l’intelletto per ben regolarti, e non per penetrare l’essenza delle cose che lui ha creato» (Voltaire 2012, 693); «Dondindac: Che mi importa che [Dio] esista da sempre o no? […] non voglio essere filosofo, voglio essere uomo […] Logomachos: Come! non sai che cos’è uno spirito? Dondindac: Nemmeno un po’: a che cosa mi servirebbe? Sarei forse per questo più giusto? Sarei miglior marito, miglior padre, miglior padrone, miglior cittadino?» (Voltaire 2012, 816). Insomma la metafisica non serve a niente, non è utile, bensì è alle cose pratiche mondane e non alle speculazioni filosofiche che l’uomo illuminato dovrebbe darsi. Ma una più interessante osservazione di Voltaire la si può compiere leggendo la seguente frase citata da Voegelin: Sono ben lungi dal concludere che occorra attenersi unicamente a una cieca pratica; ma sarebbe cosa felice se i fisici e i matematici unissero, per quanto è possibile, la pratica alla speculazione. E necessario che quello che fa più onore allo spirito umano sia spesso ciò ch’è meno utile? Un uomo, con le quattro regole d’aritmetica e un po’ di buonsenso, diventa un gran commerciante […], mentre un povero algebrista passa la vita a cercare nei numeri delle relazioni e delle proprietà stupefacenti ma non suscettibili d’applicazioni pratiche e che non gli insegneranno che cosa sia il cambio. Tutte le arti si trovano, press’a poco, in tali condizioni; v’è un punto, passato il quale le ricerche non soddisfano altro che la curiosi-

35 Voegelin (1975, 26), riguardo al nuovo modo di argomentare l’altamente probabile esistenza di Dio, chiosa: «Il credo ut intelligam dei cristiani, che presuppone il valore della fede, muta in intelligo ut credam».

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tà: queste verità ingegnose e inutili somigliano a stelle che, situate troppo lontano da noi, non possono darci luce (Voltaire 1994, 150).

Per Voegelin, con questo modo di pensare, la «sfera del socialmente valutabile è ristretta al procacciamento del benessere animale e alle scoperte scientifiche che possono essere utili a questo scopo» (Voegelin 1975, 28). Quindi Newton e Voltaire sarebbero gli ultimi a rispettare i simboli ma avendone perso il significato. L’uomo moderno, secolare, razionalizzatore, insomma il raisonneur, è intrinsecamente perverso. Ne sarebbe del tutto cosciente lo stesso Voltaire: «la conoscenza di un Dio è un’idea sterile, che invita al crimine con la speranza dell’impunità, perché ogni raisonneur è nato perverso» (Voltaire 1785, vol. 38, 25). È, in fondo, la medesima argomentazione che troveremo in Ivan Karamazov (v. par. 1.4). Voltaire basa una nuova morale sulla religione naturale, che è comune a tutta la specie perché è connaturata alla struttura biologica umana, e questa morale serve alla vita sociale; la virtù non riguarda la persona e la sua spiritualità ma riguarda la società e deve essere espressa solo in forma sociale, come sotto forma di buone azioni e compassione, e la virtù è anche misurabile proprio in termini di utilità per la società: «In ogni società si chiama col nome di virtù ciò che è utile alla società […] senza umanità, virtù che comprende tutte le virtù, difficilmente un uomo merita il nome di filosofo» (Voltaire 1785, vol. 38, pt. 1, cap. 6, 63). Insomma, il santo pieno di virtù teologali e cardinali, ma non partecipe del prossimo e della società, non possiede alcun valore. Voegelin individua in questo nuovo modo di pensare l’uomo e l’etica alcune specifiche influenze: «Elementi di stoicismo e averroismo sono evidentemente entrati a far parte del credo dell’umanità come un istinto biologico rarefatto che serve all’esistenza della tribù animale» (Voegelin 1975, 28). Ma Voegelin, con una acrobatica generalizzazione, individua in questa nuova forma di morale anche, in nuce, niente popò di meno che l’attacco comunista e nazista alla libertà e alle conquiste dello spirito […] il virtuoso terreur di Robespierre e i massacri da parte dei successivi filantropi dai cuori pieni di compassione, tanto da essere disposti a

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fare strage di mezza umanità allo scopo di rendere felice l’altra metà […] L’identificazione del buono con il socialmente utile prelude sia la bontà obbligatoria del programmatore sociale che anche l’idea della giustizia rivoluzionaria, con l’affermazione che giusto è quel che serve al proletariato, alla nazione o alla razza eletta (Voegelin 1975, 28-29).

Particolarmente rilevante per il tema della formazione e organizzazione delle contro-condotte, è un carattere peculiare dei sostenitori della Ragione come Voltaire, che Voegelin sottolinea con forza: a dispetto della funzione sociale che questi intellettuali si riconoscono, essi pensano anche che le loro idee devono rimanere confinate a un ristretto circolo esoterico (mentre per le masse una religione rimane utile per mantenere la coesione sociale) ma nel contempo possono essere anche usate aggressivamente per obiettivi politici in senso lato: egli sembra essere stato convinto che le proprie idee fossero rilevanti soltanto per un circolo sociale relativamente ristretto […]. Questa particolare tensione tra sentimento esoterico e intervento aggressivo pervade l’intera opera di Voltaire […]. Per un verso, i filosofi sono un piccolo gruppo che non vuole preoccuparsi del pubblico, dall’altro, egli spera che essi terranno incontri pubblici quando la loro setta s’ingrandirà (Voegelin 1975, 30-31).

Voegelin effettua quindi un’altra similitudine interessante quando paragona Voltaire e gli illuministi agli averroisti medievali: Il suo atteggiamento somiglia, per alcuni aspetti, a quello di Averroè e degli averroisti latini: la cura della Ragione avrebbe dovuto essere confinata a una setta di intellettuali, mentre la società, il popolo come i governanti, sarebbero dovuti rimanere nella fede ortodossa […] l’esoterismo, poco importa se sottocorrente o sentimento originale, non deve essere perso di vista […] nella tensione di Voltaire, bisogna riconoscere l’ultima fase dell’evoluzione di quell’intellettualismo mondano di cui il settarismo averroista ha rappresentato, nel tredicesimo e quattordicesimo secolo, la prima fase (Voegelin 1975, 29-30)36.

36 Va comunque notato che Voegelin salva, in un certo senso, l’“uomo” Voltaire, riconoscendogli la grande qualità positiva della «compassione verso la creatura sofferente, calpestata dalle forze storiche al di là di ogni senso e misura […] Se essa fosse stata meno ardente e più spirituale, si sarebbe potuto riconoscere in lui quasi un francescano» (Voegelin 1975, 34).

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Il totalitarismo comunista e nazi-fascista è lo spettro da esorcizzare per tutti i pensatori conservatori del capitalismo (cattolici ed ebrei isolati, come Voegelin e Leo Strauss, oppure appartenenti al collettivo di pensiero neo-ordoliberale ‒ vedi Conti e Fanti 2020, parte III ‒ come Mises, Hayek, Popper, ecc.) e per farlo Voegelin si mette alla ricerca dell’origine di quelle che, secondo lui, sono le premesse ideologiche, le radici religiose e filosofiche di quei totalitarismi, nelle loro varie declinazioni. Voegelin, in particolare, coinvolge in queste origini l’intera modernità, la quale, a sua volta, avrebbe origine nel pensiero della gnosi antica (traslatosi, senza alcuna significativa soluzione di continuità, in una consanguinea gnosi moderna) che, come un cetaceo proteiforme solca occultamente e in modo variegato l’intero mare della storia dell’Occidente fino a dominare la contemporaneità. Per Voegelin, la modernità stessa è il prodotto e la manifestazione della contro-condotta che è effettivamente permanente nei secoli, vale a dire quella gnostica. Tuttavia, tutte le contro-condotte (ascesi, misticismo, ecc., vedi tavola 11) sono, in fondo, secondo noi riconducibili ad un’unica dicotomia-matrice, che però ha, a sua volta, un riferimento duplice, l’uno riguardante il Creatore e la Natura creata, l’altro riguardante la natura dell’uomo, che è a sua volta duplice. Per il primo riferimento, la dicotomia si enuncia così: il Dio creatore e la sua creazione sono i) buoni e/o perfetti, ii) sono malvagi e/o imperfetti. Ne segue che anche i governatori mondani (il potere) della creazione divina sono ritenuti appartenere al corrispondente elemento della dicotomia: il potere o è buono e da rispettare oppure è malvagio e da abbattere. Per il secondo riferimento, l’uomo i) è caduto per sua colpa, ma l’incarnazione di Cristo ha permesso una via di redenzione e salvezza, ii) non è caduto per sua colpa, ma a causa dell’intrinseca imperfezione-malvagità del demiurgo creatore (un dio minore), tuttavia conserva ‒ seppure solo in una sua più o meno ristretta élite ‒ la scintilla divina originaria per una redenzione attraverso la gnosi, individuale e/o di gruppo. Inoltre, anche questa dicotomia inerente alla natura dell’uomo, ha una sua ulteriore dicotomia interna ‒ che è trasversale a quella primaria e che è comunque specifica dei pensieri della contro-condotta ‒ che possiamo così enunciare: l’uomo è i) peccatore originale e quindi imperfetto in

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“natura”, ma può emanciparsi nella società e nella storia “progressiva” (per opere e/o per grazia), ii) perfetto in “natura”, ma si deteriora nella società e nella storia (salvo una redenzione messianica o rivoluzionaria). È facile leggere in quest’ultima dicotomia, rispettivamente, Hobbes e Rousseau. Inoltre, per fare un esempio rilevante per la modernità, il calvinismo partecipa riguardo alla prima dicotomia sia del primo elemento (il Dio del cristianesimo) che del secondo (gnostico, nella misura del suo aspetto elitario, della grazia individuale e del gruppo dei “perfetti” come approssimazione della scintilla dei possessori della gnosi). Voegelin spinge più all’indietro ‒ rispetto ad altri pensatori conservatori antistoricisti e antirazionalisti ‒ sia cronologicamente che idealmente, la crisi culturale che è anche crisi politica e sociale, vale a dire che è ‒ per usare la terminologia foucaultiana ‒ manifestazione di contro-condotta. Foucault afferma che dove c’è politica c’è contro-condotta, anzi, più radicalmente, la politica è la contro-condotta (vedi par. 2.1). Se Albert Camus, nel suo L’uomo in rivolta, rivolge a Rousseau, Hegel e al pensiero tedesco dell’ottocento le accuse di essere progenitori del totalitarismo, se, come origine di tutti i mali del loro presente, i neoliberali austriaci (Mises, Hayek) e gli ordoliberali tedeschi, al pari dei reazionari cattolici del secolo precedente de Maistre e de Bonald, demonizzano l’illuminismo e la Rivoluzione Francese, se Leo Strauss ascrive, andando ancor più indietro, ad Hobbes la cesura che sostituendo la trascendenza con l’ordine immanente apre alla divinizzazione dello Stato e al totalitarismo, Voegelin, invece, va più indietro di tutti nella sua genealogia del moderno, dell’immanentismo e, di quella che secondo lui ne è l’impronta, cioè dell’apocalittica gnostica. Lo stato presente si sviluppa, secondo lui, in quattro passaggi a partire dal medioevo (vedi par. 2.2): 1) con il francescanesimo apocalittico di Gioacchino da Fiore, col quale la salvezza avviene nella storia futura che va, quindi, interpretata secondo questo finalismo salvifico; 2) con la Riforma protestante, con la quale, sparendo la dualità simbolica fra auctoritas (potere spirituale, Chiesa) e potestas (potere temporale, Impero), fonde e confonde la sfera spirituale con quella politica; 3) con la filosofia politica di Hobbes, che istituisce «uno stato dio sulle ceneri del disordine generato dalla libido dominandi

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espressa dalla rivoluzione puritana» (Caroniti 2005, 11); 4) infine con il modello di storia intramondana della storiografia illuminista e la concezione fideistica del progresso dell’esprit humain quale motore e senso della storia. Da quest’ultimo passaggio in poi si sviluppano tutte le logiche conseguenze dei precedenti passaggi, in una evoluzione delle idee che attivano il processo rivoluzionario e che Voegelin analizza in quei personaggi e movimenti che, secondo lui, sono i capisaldi della storia delle idee impregnate di gnosticismo, le quali portano, alla fine, all’affermazione delle ideologia totalitarie (Helvetius col suo utilitarismo e l’amour de soi, gli “enciclopedisti” col loro antiumanesimo e proto-positivismo, Turgot con la sua legge storicista delle tre fasi, il progressismo estremo e matematico-statistico di Condorcet37, l’apocalittica reazionaria di de Maistre38 e 37 Voegelin commenta l’Esquisse di Condorcet, un testo tanto più valido perché una sorta di sommario dottrinale e testamento per il pubblico scritto nel 1793 mentre il matematico francese cercava di sfuggire alla ghigliottina, in cui, secondo lui, si traduce l’aspirazione di trasmettere l’idea progressista al popolo, profilando così «il nuovo tipo di intellettuale parassita, per il quale l’entusiasmo di insegnare ad altri qualcosa è maggiore della volontà di sottomettersi a una disciplina di studio» (Voegelin 1975, 126). Quest’uomo, che persegue il «sogno dell’umanità in marcia verso la saggezza e l’immortalità al modo degli dei […] dell’umanità liberata dalle sue catene, non più soggetta al caso e alla fortuna, né ai nemici del progresso» (Voegelin 1975, 134), ha scritto un libro che «sembra estratto da un foglio di istruzioni destinato al suo staff da un ministro nazional socialista per l’illuminazione del popolo […] i passaggi sono un locus classicus per il confondersi tra loro di vere ingiustizie sociali, di indignazione morale e legittime richieste di riforma, di compassione per la miseria umana e sincero idealismo sociale, di ressentiment e odio del sistema (Goebbels) […] sembra essere il primo progetto sistematico elaborato da un totalitarista occidentale rivolto alla distruzione radicale di tutte le civiltà umane […] forgiata dall’ideologia di un pugno di intellettuali megalomani. Non vi è che qualche sensibile differenza a questo riguardo tra il progressista totalitario e i suoi successori comunisti e nazional socialisti» (Voegelin 1975, 129, 130, 133). Inoltre, Voegelin riprende dal Counter-revolution of Science di Hayek la citazione di una affermazione di Condorcet che celebra la distruzione dei documenti relativi alla storia delle nobili famiglie di Francia, per poter concludere che le cose peggiori, che oggi sono associate al nazionalsocialismo e al comunismo, derivano dall’arsenale del progressismo. 38 Da notare che per Voegelin il pensiero controrivoluzionario cattolico (deMaistre, de Bonald) è perfettamente inserito, in funzione quindi complementare a quello rivoluzionario, nello spirito dell’apocalittica gnostica (si tratta di contrapporre l’escatologia cristiana a quella intramondana). L’ingessamento del “presen-

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della Santa Alleanza, Comte e Saint-Simon con il loro positivismo e la loro religione tecnico-umanistica, e infine il socialismo di Bakunin39 e Marx). Una penetrante caratteristica dell’analisi di Voegelin merita qui di essere evidenziata. Sarebbe ingenuo ritenere che il solo risultato prevedibile dell’operazione storico-filosofica di Voegelin sia quello di aver compiuto una “rozza” separazione fra i vincitori nella modernità ‒ i distruttori dell’ordine spirituale del mondo spinti dalla visione gnostica e demoniaca, rintracciata, disseppellita e fatta riemergere dalla sua pala di raffinato storico delle idee in tutte le officine di pensiero dei movimenti e dei pensatori moderni ‒ e, diciamo, i perdenti, i difensori ‒ e aspiranti restauratori ‒ di quell’ordine. Una separazione netta fra buoni e cattivi, dove ciascuno può scegliere da che parte stare; peraltro, anche Voegelin, che certamente ritiene che i cattivi siano i nuovi gnostici colpevoli della decadenza della civiltà occidentale, nel momento in cui li ricopre di pesanti critiche ne

te”, in un struttura “clericale” depositaria di un pensiero unico, sembra una vocazione del moderno, condivisa dai rivoluzionari e dai controrivoluzionari. 39 Secondo Voegelin, mentre il desiderio distruttivo di Comte era rivolto al cristianesimo e alla metafisica ma era oscurato dall’ordine della sua repubblica scientista, «nel caso di Bakunin, invece, tutte le strutture, sia tradizionali che futuristiche, sono consumate dalla brama di distruzione: nel presente il passato deve essere cancellato fin dalle sue fondamenta e il futuro non deve neanche essere immaginato dagli uomini ancora contaminati dal passato. In Bakunin viene messa a nudo l’esistenza distruttiva del rivoluzionario». (Voegelin 1975, 195). Voegelin sottolinea con forza le radici cristiane dell’apocalittica gnostica di Bakunin: «Non è necessario indugiare a lungo sul fatto che l’idea dell’esistenza democratica e rivoluzionaria di Bakunin porta i segni visibili del passato cristiano dal quale emerge […] L’intera atmosfera di una nuova imminente ridistribuzione ha forti reminiscenze dell’attesa tipica delle sette inglesi del “Dio che arriverà balzando sulle montagne” e stabilirà il suo regno sulla terra […] La prospettiva storica di Bakunin non lascia dubbi circa il suo ruolo di nuovo San Giovanni Battista che annuncia, dopo il cattolicesimo e il protestantesimo, il Terzo Regno dello spirito definitivamente libero» (Voegelin 1975, 196, 201). Infine, secondo Voegelin, Bakunin, per l’autenticità del suo spirito rivoluzionario, è stato anche condizione necessaria per la nascita del marxismo: «La linea marxista della rivoluzione ebbe successo grazie agli elementi mancanti in Bakunin, ma il sistema di Marx non sarebbe mai stato scritto e non avrebbe mai esercitato la sua influenza se non fosse nato nel genuino pathos dell’esistenza rivoluzionaria, riscontrabile nella sua purezza in Bakunin» (Voegelin 1975, 201).

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riconosce però anche un seme di luce trascendente, che talvolta si riflette nel loro quasi sempre nobile percorso esistenziale. Né ci interessa qui evidenziare la caratteristica forse più “filosofica” dell’analisi della crisi occidentale compiuta da Voegelin, cioè il richiamo alla perduta classicità ‒ in primis Platone ‒ e al suo recupero quale possibile rimedio alla crisi stessa ‒ fatto peculiare rispetto ad altri nemici delle rivoluzioni e del liberalismo classico, come i suoi conterranei Hayek e Popper, che vedono proprio in Platone l’origine di tali fenomeni negativi. La sua caratteristica peculiare è di aver evidenziato nella storia moderna il seme ‒ diciamo, secondo lui, gnostico ‒ della crisi, che è sostanzialmente di tipo “spirituale”. Questo seme deve essere individuato laddove si occulta, aldilà degli eventi cronologici di evidente rottura di sistema, come la Rivoluzione francese. Quest’ultima può essere presa qui proprio ad emblema, perché è il nemico acclarato di tutto il neo-ordoliberalesimo oggi dominante, vista come origine di tutte le rivoluzioni e persino delle riforme che hanno messo in crisi, nei due secoli successivi, il sistema capitalistico e l’ordine sociale ad esso confacente. Invece, per Voegelin, rivoluzione e restaurazione appartengono come due facce, peraltro a loro volta pluri-sfaccettate, ad un’unica medaglia, in cui è inscritta la crisi spirituale dell’uomo occidentale. Esiste un solo filo nel tessuto della storia, un filo introdotto dall’apparizione dello spirito gnostico nell’ordine spirituale del mondo; e lungo questo filo, che disegna anche la figura della crisi spirituale, si muovono tendenze, significati, contenuti che appaiono, se presi isolatamente, del tutto contrapposti, ma che in realtà leggono parti diverse del medesimo spartito. Se la cronologia degli eventi sembra delineare fasi storiche distinte e contrapposte, come periodi di rivoluzione e periodi di restaurazione, in realtà la storia delle idee non segue la storia evenemenziale e corre tutta lungo quel filo che, a dispetto di apparenti ritorcimenti e annodamenti, rimane unico. Non si può, nel caso della Rivoluzione francese, parlare ‒ come potrebbe invece essere fatto per la Rivoluzione inglese del ‘600 ‒ di una rivoluzione politica e sociale che al momento non raggiunge l’obiettivo e di una controrivoluzione che vi pone fine fissando un nuovo equilibrio; nel caso francese «rivoluzione e re-

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staurazione sono talmente interconnesse da divenire indistinguibili, perché entrambi i movimenti penetrano al cuore spirituale della crisi» (Voegelin 1975, 174). Non ha allora più senso contrapporre rivoluzionari a controrivoluzionari nel senso di ritenere i primi generatori della crisi spirituale e i secondi restauratori dell’ordine spirituale. Come afferma Voegelin (1975, 174) «il senso della rivoluzione e della restaurazione non viene risolto dalla contrapposizione tra un movimento e un contro movimento, perché entrambi finiscono per assimilarsi l’un l’altro sviluppando insieme il movimento della crisi». I secondi parlano la stessa lingua dei primi, sono inscritti nel medesimo orizzonte, corrono lungo il medesimo filo, sebbene appaiano otticamente contrapposti come su un nastro di Moebius. L’apocalittica ingloba nelle sue file rivoluzionari e controrivoluzionari. Voegelin fornisce due esempi che illustrano questa situazione. Il primo appartiene alla storia politica e riguarda il tragico e persino oscuro scontro all’ultimo sangue, nelle maglie del Terrore, fra l’istituzione di potere rappresentato dal Comitato di salute pubblica, diciamo il governo di Robespierre, e quella della Comune di Parigi, diciamo la sinistra degli arrabbiati di Hébert, che se trasportato nella storia delle idee e dello spirito vede il culto dell’Être suprême di Robespierre contrapporsi al Culte de la Raison di Hébert. Pur trovandosi qui, come noto, all’apex del processo rivoluzionario, non è tuttavia peregrino domandarsi se Robespierre ‒ tentando, come dice Voegelin, di «stabilizzare spiritualmente la rivoluzione avvicinandosi al deismo dei philosophes e al suo attacco al Culte de la Raison visto da lui come un’avventura ateista che si spinge troppo oltre» ‒ non sia in realtà un restauratore piuttosto che un rivoluzionario. Il secondo esempio, che, pur appartenendo più alla storia delle idee che degli eventi, è comunque connesso al primo, si differenza da questo perché, invece di essere concentrato in modo paradigmatico solo in pochi mesi, è diluito in oltre mezzo secolo. Voegelin, prendendo a riferimento i noti lavori di Aulard e Mathiez sulla rivoluzione francese e i suoi aspetti religiosi, esamina brevemente dal suo punto di vista la storia religiosa della rivoluzione per evidenziarne in modo origi-

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nale, ancorché monotematico, alcune caratteristiche: i) lo spirito della rivoluzione francese era antireligioso solo nella separazione tra Stato e chiesa; ii) l’ideale della rivoluzione non era la nascita di uno stato secolare bensì quella di un regime cesaro-papista di una religione non cristiana, ideale già evidente ‒ vedi la réligion civile di Rousseau ‒ nei philosophes prima del 1789; iii) questo tentativo di stato teocratico, in cui si sarebbe compiuta l’identificazione e la traslazione sia delle autorità ecclesiastiche nei deputati legislatori, sia della volontà divina nella Legge e dell’essenza nel bene comune, aveva visto numerosi e tortuosi passaggi, dalla trasformazione della Chiesa cattolica francese in chiesa nazionale (clero costituzionale) e poi in approcci non cristiani quali il Culte de la Raison dei dantoniani, il culto dell’Être Suprème di Robespierre, l’istituzione del Culte décadaire, la religion di stato del Directoire sotto il pontificato di La Révellière, e, minore ma non ultima per significato, la teofilantropia di Chemin-Dupontès che, secondo Voegelin, formò l’unica setta religiosa in grado di rivaleggiare con il Culte décadaire per diventare religione di stato e di far preoccupare la Chiesa cattolica (Mathiez 1904)40.

40 Jean-Baptiste Chemin scrisse nel 1796 il Manuel des théopanthropophiles (in seguito scriverà manuali di iniziazione massonica) e la nascente setta deista dei teofilantropi (“Amici di Dio e dell’uomo”) si riunirà (per riassumere la sua liturgia eterogenea, annotiamo che in essa vi sono feste in cui Socrate, Jean-Jacques Rousseau e San Vincenzo de ‘Paoli sono egualmente onorati) prima all’istituto per ciechi offerto da Valentin Haüy e in seguito nella chiesetta di Sainte Catherine, offerta dalla Convenzione; tale setta ebbe come seguace e protettore principale Louis Marie de La Révellière-Lépeaux, membro influente del Direttorio, e divenne dominante a Parigi dopo la Rivoluzione del 18 Fruttidoro, incorporando il culte décadaire, ed entrando in possesso di alcune delle grandi chiese di Parigi come Notre Dame de Paris, Saint-Jacques du Haut Pas, St-Médard. Ma questo culto, fortemente osteggiato sia dalla Chiesa del clero costituzionale ‒ come si legge nella parole del noto Abbè Gregoire nei suoi Annales de la Religion (VI, n. 5.) del 1797: “Il teofilantropismo è una di quelle istituzioni derisorie che fingono di portare a Dio quelle stesse persone che allontanano da Lui allontanandole dal cristianesimo […] Orrore dei cristiani, è respinto dai filosofi che, sebbene non ne sentano il bisogno di una religione per se stessi, vogliono ancora che le persone si aggrappino alla fede dei loro padri“ ‒ sia dalla Chiesa romana (Papa Pio VI, il 17 maggio 1800 impose l’interdetto alle chiese che erano state usate dai deisti, e il cardinale Consalvi ne richiese l’uso nel corso delle trattative sul Concordato del 1801), venne soppresso da Napoleone.

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Nella rivoluzione francese, sempre secondo Voegelin, politica e religione, anziché essere in antitesi come vuole una certa vulgata, sono in stretta relazione; allora, quella tensione spirituale e intellettuale fra le medesime costituisce, se vogliamo tirare le logiche conseguenze, la matrice di una evoluzione dell’apocalittica gnostica che prende direzioni apparentemente opposte nelle posizioni politiche (reazionarie e controrivoluzionarie piuttosto che riformiste e rivoluzionarie, fino ad arrivare al nazifascismo e al comunismo) ma medesime nello spirito. E in questa evoluzione incontriamo altri importanti pensatori. Fra la religione dell’umanità di Comte e gli aspetti religiosi della rivoluzione francese ‒ culto della Dea ragione piuttosto che quello dell’Essere supremo ‒ esiste una continuità. Ma allora dove si colloca Comte, dalla parte della rivoluzione o della restaurazione? La contraddizione è evidente, secondo Voegelin: Le idee di Comte si collocano certamente in continuità con quelle della rivoluzione, sia per gli aspetti liberali che giacobini e anche napoleonici, ma sicuramente vanno pure al di là della rivoluzione, e appartengono a quel movimento della restaurazione che intende «porre fine» alla rivoluzione (Voegelin 1975, 174).

Così abbiamo un movimento ‒ quello positivista ‒ che Voegelin ritiene estremamente apocalittico-gnostico, ma che in realtà restaura l’ordine e il progresso messi in crisi da quella ‒ la rivoluzione francese ‒ che è universalmente riconosciuta come la rottura violenta e irrecuperabile dell’ordine politico rappresentativo della società cristiana e l’instauratrice del moderno secolarizzato, ovvero da quella che è ritenuta il progetto gnostico per eccellenza. Si tratta, quindi, di una contraddizione che, secondo noi, va affrontata dotandosi di una griglia analitica per leggere la storia differente da quella di Voegelin e della sua categoria onnicomprensiva di “crisi spirituale”, ovvero adottando quella genealogica foucaultiana. In questo caso, la contraddizione viene anche risolta: la politica è la contro-condotta (la rivoluzione francese col suo portato distruttivo e liberatorio), la condotta è la governamentalità che da sempre, nell’ottica giudaico-cristiana, è finalizzata al governo immanente degli uomini (la morsa di scienza e potere del positivismo). Il fatto che ‒ secondo Voegelin ‒ entram-

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be siano causa ed effetto della crisi spirituale dell’uomo e partecipino del medesimo progetto gnostico diventa contraddittorio, ma secondario. È l’ordine “spirituale” del capitalismo che la rivoluzione (francese o russa che sia) ribalta e che la restaurazione (sia il pensiero positivista, che il pensiero neo-ordoliberale) restaura. La dicotomia interpretativa appare ben definita: o la religione politica di Comte è una continuazione della rivoluzione nel senso che tende a stabilizzarla e conservarla, in questo simile al tentativo di conclusione operato da Robespierre, oppure tale religione, come lo stesso Comte sembra ritenere, terminerà la rivoluzione e restaurerà l’ordine. Ciò è una prova che «La restaurazione finisce per identificarsi con il completamento della rivoluzione» (Voegelin 1975, 177). Come si risolve questa apparente coincidentia oppositorum della storia politica ma non altrettanto della storia delle idee? Secondo Voegelin, «la contraddizione può essere risolta riconoscendo che sia la rivoluzione che la restaurazione si incontrano nel problema della crisi (Voegelin 1975, 177). Tenendo conto di questa impostazione, noi potremmo dire che ancora una volta è l’irruzione ‒ usando la terminologia foucaultiana ‒ della “contro-condotta” (l’apocalittica gnostica) a battere il ritmo della marcia della storia e, in conseguenza, la condotta si sintonizza su quella marcia per recuperare il governo degli uomini per i suoi fini (trascendenti od immanenti che siano qui non rileva e per i quali si rimanda alla tematica del Grande Inquisitore dostoevskiano), attraverso la modificazione dei dispositivi di governamentalità coi quali si depriva la crisi spirituale ‒ che pure ne è ancor più approfondita ‒ dei suoi effetti rivoluzionari dell’ordine capitalistico, come dimostrato dal regime di governo neo-ordoliberale. Nella rivoluzione francese c’è già compreso tutto il processo della storia, controrivoluzione compresa. Ci sono tutti quei concetti politici che, presi singolarmente, identificano uno specifico periodo e un certo ordinamento socio-politico: vi troviamo simultaneamente feudalesimo, democrazia, monarchia, repubblica, parlamentarismo e dittatura, società borghese e movimento proletario, i quali per i successivi due secoli permeano la politica francese, suddivisa in fasi alternanti di rivoluzione populista radicale, ordine dittatoriale e repubblica moderata. Come nei pochissimi anni della vera rivoluzione «si possono distinguere

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più fasi: (1) quella liberale anticlericale e antifeudale, (2) quella antimonarchica e repubblicana, (3) e quella della chiesa-stato settaria culminante nel Terrore» (Voegelin 1975, 176), così tutta la successiva storia francese mostra la medesima alternanza ed ambivalenza ‒ dall’impero plebiscitario di Napoleone al liberalismo costituzionale di Luigi XVIII fino alla seconda e terza Repubblica che riprendono la fase antimonarchica della rivoluzione ‒ in cui sono sempre presenti quegli aspetti sia rivoluzionari che restauratori che erano già emersi in una miracolosa sintesi nei quattro anni davvero apocalittici della rivoluzione. Voegelin riassume le ambivalenze del processo rivoluzionario e del suo stesso significato in un «fondamentale caso spirituale che la rivoluzione ha rivelato per la prima volta in tutta la sua chiarezza: l’apocalisse dell’uomo sta portando, grazie alla logica del sentimento, verso la deificazione della società intramondana. La rivoluzione si è spinta al di là dei problemi secondari della forma di governo al vero centro della crisi, la distruzione della civiltà cristiana occidentale e il tentativo di creare una società non cristiana. Gli sforzi restaurativi sono di conseguenza affetti dalla necessità di cimentarsi col problema spirituale della crisi che era stato posto dalla rivoluzione» (Voegelin 1975, 176-177). La crisi per Voegelin è, quindi, essenzialmente spirituale. Ai rivoluzionari e agli anarchici forti del loro afflato gnostico (e, di converso, ai controrivoluzionari posti sul medesimo piano) è inutile contrapporre quello che un certo liberalismo di primo ottocento propugna, cioè impedire l’ampia oscillazione del pendolo fra gli estremi delle crisi rivoluzionarie e quelli delle risposte reazionarie, attraverso una modifica pacifica e permanente della società, insomma una politica gradualista di riforme guidata dalla ragione in senso progressista, che risolva i problemi sociali ed elimini alla radice la crisi e i suoi pericoli per il progresso. Secondo Voegelin, questa opzione non è efficace. In particolare, le classi dirigenti non sono neppure mai all’altezza, nel momento decisivo, di attuare il riformismo gradualista che taglierebbe le unghie dei rivoluzionari: i comportamenti dell’aristocrazia di fronte ai problemi posti dalla borghesia in ascesa durante i prodromi della rivoluzione oppure quelli della piccola borghesia tedesca di fronte alla rivoluzione nazional-socialista ne costituirebbero

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esempi calzanti. Inoltre, questa incapacità delle classi dirigenti ha l’ulteriore negativo effetto di peggiorare la dinamica della crisi occidentale, in quanto la riluttanza di tali classi al perseguimento strategico di una riforma graduale permanente ‒ che Voegelin definisce «trasformazione pacifica» ‒ finisce per legittimare spiritualmente i rivoluzionari: «dobbiamo essere molto chiari: una propaganda a favore del gradualismo che ignori e oscuri i veri problemi è diventata un serio fattore di aggravamento della crisi», anche perché pensare come possibile e risolutiva tale soluzione liberal-riformista «si aggiunge perfino alla gravità della crisi, giacché sottrae attenzione alla ricerca di una vera alternativa». Insomma, per Voegelin «non sussiste alcuna alternativa di intelligente gradualismo» (Voegelin 1975, 180). Ma, allora, qual’è il perché di questa incapacità liberal-riformista delle classi dirigenti? Voegelin non ha dubbi nel rispondere sia con una motivazione generale ‒ e principale ‒ sia con un’altra più contestualizzata al periodo storico. La causa generale sta nell’assenza all’interno della classe dirigente della necessaria forza spirituale e morale. Il motivo più storicamente contingente, invece, è sostanzialmente il solito: il liberal-riformismo non può che ignorare la vera causa principale «perché il problema spirituale della crisi è ai loro occhi oscurato dal cliché illuminista della “ragione”. La luce della ragione è però una guida incerta nella notte dello spirito» (Voegelin 1975, 181). Allora ci potrebbero essere rimedi a questa crisi che sta alle radici profonde dell’occidente? Il vero rimedio consisterebbe per Voegelin nella restaurazione della sostanza spirituale nella classe dirigente di una società, con la conseguente restaurazione della forza morale atta a creare un giusto ordine sociale. Il problema della crisi deve essere posto nei termini platonici di spirito e potere (Voegelin 1975, 180).

Ma riguardo a quanto la riapparizione di Platone o di Dante, o quanto meno della consapevolezza dei ruoli del potere in termini di potestas e auctoritas, tanto quanto l’apparizione di pensatori che indichino con chiarezza la crisi spirituale, possano effettivamente incidere sul risollevare il piano della storia inclinato verso il basso, Voegelin è realisticamente piuttosto scettico:

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Il valore pragmatico di quest’alternativa, come l’esperienza ci dimostra, non è molto elevato. L’apparizione di Platone non cambiò il corso della crisi ellenica, il caso di Nietzsche non servì da monito alla Germania, né la comparsa di Dostoievsky intaccò il sistema zarista (Voegelin 1975, 180).

Quindi, per Voegelin, anche la restaurazione è permeata di afflati apocalittici; in particolare secondo Voegelin sono tre le visioni apocalittiche del periodo della restaurazione, tutte a modo loro unite nel porre un termine alla Rivoluzione francese: 1) la cattolica (vedi l’apocalittica cattolica degli emigrati, internazionalista e anti-gallicana), 2) la pietista (vedi la S.Alleanza), 3) la scientista (vedi Comte e Saint Simon). Se la rivoluzione fu internazionalista, anche la controrivoluzione lo fu, nelle forme dell’emigrazione francese, che si aprì all’Europa smentendo la visione nazionale del gallicanesimo e rivalutando un potere spirituale più universale che nazionale. Il problema di una nuova unità spirituale della civiltà occidentale permea le riflessioni dei pensatori controrivoluzionari come De Maistre e de Bonald, novità che, seppure politicamente intesa come una passatista restaurazione dell’Europa sotto il dominio papale, assume comunque il fervore apocalittico, la febbre dell’attesa imminente di un terzo regno spirituale. Sono particolarmente originali ed importanti le similitudini e le connessioni che Voegelin stabilisce fra il pensiero contro-rivoluzionario (De Maistre) e il positivismo di Saint-Simon e Comte. Prima di tutto, fra le similitudini, il tema apocalittico che li pervade, l’attesa di una parusia, dell’avvento di un terzo regno messianico, dell’unione di scienza e religione, di una specie di teocrazia. Quando, nelle Soirées de Saint-Pétersbourg, de Maistre, racconta che alcuni scrittori credono che l’Apocalisse giovannea sia già iniziata e «che la nazione francese deve essere il più grande strumento della più grande rivoluzione» si respira un evidente tono apocalittico; come lo si respira quando De Maistre avverte che «bisogna tenerci pronti a un avvenimento immenso nell’ordine divino verso il quale marciamo con celere passo. Non c’è più religione sulla terra: il genere umano non può restare in questo stato […] non c’ è oggi un uomo veramente religioso in Europa (parlo della classe colta), che non attende qualcosa di straordinario» (De Maistre 2004, 143).

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L’attesa di una parusia, di un ritorno messianico, sarebbe leggibile nell’accordo e nella richiesta generale che tutti gli uomini suoi contemporanei esprimerebbero sul tema, richiesta che rassomiglierebbe a quella diffusa voce levata ad annunciare l’arrivo di Cristo di cui si ritiene abbia profeticamente parlato Virgilio nella sua quarta egloga: Non vale a niente questo grido generale che annunzia grandi cose? Risalite i secoli passati, trasportatevi alla nascita del Salvatore; a quell’epoca una voce alta e misteriosa partita dalle regioni orientali esclamava: L’Oriente sta per trionfare, il vincitore partirà dalla Giudea, un bambino divino ci è donato, sta per nascere, egli discende dall’alto dei cieli, riporterà l’età dell’oro sulla terra… (De Maistre 2004, 143-144).

E quale prova e quale contenuto De Maistre fornisce per la profezia dell’imminente parusia messianica? Lo sviluppo della scienza, che è affine alla religione (come testimoniano Pitagora e Newton), e sta tornando, se non c’è già, colui che riporterà l’unità in un nuovo mondo: Volete una prova di quel che si va preparando? cercatela nelle scienze; riflettete al cammino della chimica, dell’astronomia e vedrete dove ci conducono. Credereste che per esempio Newton ci riporti a Pitagora […] attendete che l’affinità naturale della religione e della scienza le riunisca nella testa di un solo uomo di genio; l’apparizione di quest’uomo non potrebbe essere lontana, e forse egli già esiste (De Maistre 2004, 145-146).

Non può non stupirci il fatto che queste parole sembrano tolte dalla bocca di Comte. E ancor di più rivelano l’anelito apocalittico post-gioachimita e la somiglianza con Comte ‒ la periodizzazione della storia in tre epoche ‒ le speculazioni di De Maistre sulla funzione del numero mistico tre nella storia (per esempio tre rivelazioni, Mosè, Cristo e la scoperta dell’America, ovvero la modernità): Dio parlò una prima volta agli uomini sul Monte Sinai, e questa rivelazione fu ristretta, per ragioni che ignoriamo, negli angusti limiti di un popolo solo e di un solo paese. Dopo quindici secoli una seconda rivelazione fu fatta a tutti gli uomini senza distinzioni […]; ma l’universalità della sua azione doveva ancora essere infinitamente ristretta dalle circostanze di tempo e di luogo. Dovevano passare quindici secoli prima che l’America vedesse la luce (De Maistre 2004, 147).

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Ma il cristianesimo e i suoi valori sono, secondo lui, ormai del tutto distrutti, dagli islamici e dai protestanti in primis. Ma se da un lato vi è questo lugubre scenario, dall’altro vi è l’attesa da parte di uomini eletti, e quindi gli illuminati non «hanno torto di guardare come più o meno prossima una terza esplosione della onnipotente bontà a favore del genere umano […] Tutto lascia intendere […] che noi marciamo a grandi passi verso non so quale grande unità» (De Maistre 2004, 148-149). Voegelin cita come chiaramente paradigmatiche le parole di De Maistre nelle sue Considérations sur la France, dove scrive che a lui sembra che «ogni vero filosofo dovrebbe scegliere tra due ipotesi: o sta per nascere una nuova religione, oppure il cristianesimo ringiovanirà se stesso in modo straordinario», e chiosa icasticamente: «De Maistre decide per la cristianità, Comte per la nuova religione, ma entrambi convengono sul principio» (Voegelin 1975, 183). La sensazione ‒ diffusa dopo la fine di Napoleone ‒ che non si possa terminare la rivoluzione e ricostruire un ordine solo sull’equilibrio dei poteri secolari, senza un intervento o un crisma spirituale, può essere paradigmaticamente espressa da questa affermazione di Novalis, citata da Voegelin: «È impossibile che forze terrene si equilibrino da sole; soltanto un terzo elemento, al tempo stesso terreno e ultraterreno, è in grado di risolvere questo problema» (Novalis 2002, 121). Ma noi potremmo aggiungere altre citazioni a testimonianza di uno spirito diffuso nell’Europa della Restaurazione. L’economista romantico tedesco Adam Müller nel suo Elemente der Staatskunst (1809) argomenta che la concezione organisticista e teocratica dovrebbe essere estesa ad una Europa unita, perché «Cristo non è morto solo per gli uomini, ma anche per gli stati». E il poeta francese Chateaubriand si esprimeva con parole che ritroveremmo facilmente alla base della Santa Allenza: «Tutte le monarchie europee sono all’incirca figlie degli stessi costumi e delle stesse epoche: tutti i re sono davvero una sorta di fratelli uniti dalla religione cristiana e dall’antichità dei comuni ricordi» (Chateaubriand 1814, 79). Questo diffuso sentimento europeo “restauratore” trova l’espressione e il compimento politico nel trattato internazionale della Santa Alleanza firmato a Parigi il 26 Settembre 1815 dalle

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tre grandi monarchie cristiane della Russia (ortodossa), Austria (cattolica) e Prussia (protestante). Metternich la definì, all’inizio, una “clamorosa nullità” e Lord Castlereagh, il segretario degli esteri britannico e rappresentante al congresso di Vienna, la definì “un esempio di sublime misticismo e di insensatezza”. Ma Voegelin ritiene che, nella storia delle idee, frasi come quelle di Metternich e Castlereagh non rilevino, e riporta il caso per lui recente «di due uomini di stato, per altri aspetti molto capaci, che promettevano all’universo la “liberazione dal bisogno e dalla paura”, anche in forma di accordo internazionale»41 (Voegelin 1975, 188) come esempio per sottolineare l’importanza di considerare le idee più che la rilevanza legale di un atto. Sebbene molti storici tradizionalmente si siano impegnati per controbattere la teoria secondo cui il trattato della Santa Alleanza era fondamentalmente un documento mistico e idealista, e sostenere, invece, che fosse un atto in cui i concetti mistici non erano che una sovrastruttura per certe idee politiche, i difensori dell’interpretazione ideologica della Santa Alleanza sottolineano i contributi di pensatori come Koshelev, lo studioso russo del misticismo tedesco; Jung-Stilling, il “padre del pietismo tedesco”; la “profetessa” livoniana, Madame de Kruedener; il filosofo francese Bergasse; e anche i quaccheri inglesi si fecero avanti per la sua realizzazione (Fischer-Galati 1953, 27).

Lo zar Alessandro può essere stato debitore a Koshelev sia del perdurare dell’interesse per le questioni spirituali sia dell’idea generale di riconoscere la supremazia della volontà di Dio e della possibilità di stabilire il regno di Gesù sulla terra42. Dorland (1939) ha sottolineato l’importanza anche del contributo dei quac-

41 Sebbene non sia detto espressamente, il caso potrebbe essere quello dell’iniziale patto fra Hitler e Stalin, noto come patto Molotov-Ribbentrop. 42 Knapton (1941) ricorda che esiste una tradizione mistica russa alimentata da parte dei russi che viaggiano all’estero, dalla crescita delle logge massoniche, dall’influenza molto forte di Alexander Golitsyn, Kochelev, Labzine sullo zar Alexander, e che nell’insieme delle loro idee appare il seme da cui sorge la Santa Alleanza. Vernadsky (1923) sottolinea il contributo dato dalle logge massoniche a questi aspetti religiosi.

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cheri inglesi, che desideravano il ristabilimento della pace europea e dei principi del cristianesimo. Alessandro e Jung-Stilling si incontrarono nel primavera del 1814 e discussero della nozione della sovranità di Dio (ricordiamo, a conferma dell’apprezzamento dell’imperatore, un generoso regalo dello zar al pietista tedesco su richiesta di Madame de Kruedener). Del tutto evidente è l’influenza di Franz von Baader, che nell’estate del 1814, e di nuovo in primavera del 1815, aveva inviato all’imperatore d’Austria, al re di Prussia e allo zar di Russia identici progetti per la fondazione di un’unione universale basata sui principi della religione cristiana, quali l’amore fraterno sia tra gli individui che tra le nazioni, una specie di teocrazia per l’Europa, poiché i problemi della società civile avrebbero richiesto lo spirito della religione nella linea generale di una libera unione dell’umanità guidata dallo spirito di Gesù Cristo. Come Büchler (1926) e Mertens (1926) dimostrano, il trattato della Santa Alleanza incorpora riga per riga esattamente le idee del progetto di Baader, basta leggerne alcuni articoli, a partire dal primo: i tre monarchi contraenti rimarranno uniti dai vincoli di una vera e indissolubile fraternità […] e considerandosi nei confronti dei loro sudditi ed eserciti come padri di famiglia, li guideranno, con lo stesso spirito di fraternità con cui sono animati, a proteggere la religione, la pace e la giustizia […] I monarchi dichiarano solennemente che il presente atto non ha altro scopo che pubblicare, di fronte al mondo intero, la loro risoluzione ferma, sia nell’amministrazione dei rispettivi Stati che nelle loro relazioni politiche con ogni altro governo, per prendere come unica guida i precetti di quella santa religione […] Le Loro Maestà raccomandano di conseguenza al loro popolo, con la loro più tenera sollecitudine, come unico mezzo per godere di quella Pace […] di rafforzarsi ogni giorno di più nei principi e esercizio dei doveri che il Divin Salvatore ha insegnato all’umanità43.

Dagli articoli del trattato appaiono esplicitati alcuni punti cruciali a cui i monarchi benedetti dalla Divina Provvidenza si sarebbero dovuti attenere: i) le relazioni fra le potenze si devono basare sulle verità supreme insegnate dalla religione cristiana,

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Le citazioni dal trattato sono riprese da Phillips (1920, 305-306).

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ii) regola di condotta sono i principi di giustizia, carità e pace, sia nelle relazioni interne che in quelle con l’estero, iii) questi principi devono ispirare ad ogni passo i monarchi, perché sono la condizione per il superamento della imperfezione delle istituzioni umane, iv) come gli uomini si considerano l’un l’altro fratelli, così i tre monarchi saranno uniti da un legame di inscindibile fraternità, comportandosi come compatrioti membri di un’unica nazione cristiana, il cui comune sovrano è Dio, v) i monarchi saranno come i padri di famiglia per sudditi ed eserciti, guidati dall’amore per la religione, la pace e la giustizia, vi) i popoli devono fortificarsi sempre di più rispettando i principi e i doveri dell’insegnamento cristiano, condizione per la pace duratura derivante dalla buona coscienza, vii) le altre potenze sono invitate ad aderire all’alleanza perché le verità cristiane qui considerate guidino tutte le nazioni verso la pace e il benessere44. Quanto a Madame de Kruedener e al suo gruppo, sebbene lei stessa abbia dichiarato che avevano fatto tutto “Dio e l’Imperatore”, e vi siano testimonianze che limitano l’intervento di Madame de Kruedener e del suo gruppo ‒ a cui appartiene anche Bergasse, che a sua volta credeva in un sistema teocratico e in una pace universale garantita dai re cristiani ‒ all’ispezione e a eventuali revisioni (tipo l’aggiunta della parola “Santo” al termine “Alleanza”) del testo del trattato, la loro certa influenza diretta sul trattato la si può desumere semplicemente dai giorni di incontri a Parigi con l’Imperatore nei mesi che precedettero la sua presentazione ufficiale45.

44 Ovviamente, le prime a non aderire ‒ oltre alla Gran Bretagna (Giorgio IV aderì solo in qualità di Re di Hannover) ‒ furono le potenze spirituali come il Papa e il Sultano dell’impero islamico ottomano. 45 «Nel Giugno 1815 egli [lo zar] aveva i suoi quartieri generali a Heilbronn, non molto lontano ad un villaggio dove Mme. De Kruedener era occupata a persuadere alcuni contadini a vendere la loro proprietà e a fuggire dall’incombente catastrofe escatologica. Per la dama, era questa l’opportunità della sua vita. Ella ottenne un colloquio con lo zar e, in molte ore di predicazioni, fece crollare l’uomo in singhiozzi, fino a che egli non “trovò la pace” – almeno per un po’ di tempo. A sua richiesta, lei seguì lo zar a Parigi ed essi rimasero in contatto quotidiano grazie agli incontri di preghiera. Nella notte la dama era diventata una forza politica» (Voegelin 1975, 187).

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Come conclude Fischer-Galati (1953, 39) sarebbe difficile presumere, considerando lo sviluppo del misticismo dello zar, che tali passaggi come “i tre principi alleati, considerandosi semplicemente delegati dalla Provvidenza a governare tre rami dell’unica famiglia”, o “il mondo cristiano… non ha in realtà altro Sovrano che Lui… “, che sono incorporati nel trattato, siano solo sovrastrutture per coprire schemi politici. Al contrario, sembrano essere parte integrante di un documento in cui si elaborano insieme idee mistiche e politiche e in cui l’elemento mistico sembra essere protagonista.

È curioso che gli storici si siano in gran parte focalizzati solo sulla ricerca delle impossibili prove che questi personaggi mistici e religiosi siano stati i redattori del contenuto del Trattato, magari approfittando delle ore dei molti documentati incontri di ciascuno di loro con lo zar, invece di approfondire l’evidente connessione in termini di idee ‒ e non di dettatura di commi ‒ fra le sette religiose e la Santa Alleanza. Voegelin non è fra questi e si limita a commentare quella connessione ideale, considerando cruciale per la nascita della Santa Alleanza la relazione fra le vite di Mme. De Kruedener e dello Zar. La prima era l’animatrice di un movimento pietistico internazionale46 che univa contadini, nobili, e monarchie di nazioni diverse e alle cui sedute religiose francesi partecipavano, per esempio, Chateaubriand, Benjamin Constant, Bergasse e M.me Récamier: «Con la mediazione dei pastori e di altre personalità mistiche, il pietismo aveva creato una comunanza di sentimenti e di idee che collegava socialmente la gente di campagna con le corti e, geograficamente, la Germania occidentale con la Russia» (Voegelin 1975, 186).

46 Voegelin elenca i contatti fra circoli pietistici cuciti dalla baronessa livoniana a partire dalla sua conversione (con i moraviani a Herrenhut, con il circolo di Heinrich JungStilling a Karlsruhe, con Fontaines in Alsazia, con Wegelin a Strassburg, e con Jean Frédéric Oberlin a Waldbach) e in particolare l’importanza del contatto con la Corte di Baden, perché l’imperatrice Elisabetta di Russia, come anche la moglie di Gustavo Adolfo IV di Svezia, erano principesse di Baden, appartenenti a quel gruppo pietistico. Osservando l’organizzazione intessuta dalla De Kruedener, Voegelin (1975, 186) annota che «Qui si tocca con mano la base sociale internazionale dell’elemento pietistico nella restaurazione in Russia e in Germania, e si comprende anche come Mme. De Kruedener potesse avere accesso presso lo Zar».

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Voegelin individua i punti qualificanti delle idee pietiste, specie dal punto di vista politico: 1) il movimento pietista è imbevuto di idee chiliastiche con specifiche interpretazioni delle profezie, secondo le quali Napoleone47 rappresentava l’Anticristo e Alessandro I il salvatore che giunge dal nord, sulla base di varie profezie, quali Isaia 41:25: «Ecco, io ho suscitato uno dal nord, l’ho chiamato per nome dall’oriente; egli calpesterà i potenti come creta, come un vasaio schiaccia l’argilla», Daniele 11 (il re del nord), Geremia 4:5 (il leone che viene dal nord), Geremia 50:9, 41-44 (il popolo che viene dal nord), e la più recente del 1541 attribuita a Paracelso, secondo il quale un leone giallo sceso dal nord (“Loewen von Mitternacht”) avrebbe sconfitto l’aquila dell’impero cattolico asburgico (profezia che ebbe gran seguito ai tempi della guerra dei trent’anni); 2) il movimento pietista rappresenta la reazione protestante apocalittica, proprio come De Maistre rappresenta la reazione cattolico-apocalittica; 3) il movimento pietista non caldeggia una restaurazione istituzionale del potere spirituale con al vertice un Papa, come in De Maistre, o un sommo sacerdote come in Comte, ma piuttosto una fratellanza universale di monarchi e popoli uniti in un unico mondo; 4) anche qui troviamo la soluzione per l’uscita dalla crisi spirituale in una operazione di “magia”, «un tipo di magia che sopravvive ancora adesso in certi circoli intellettuali, nei quali i problemi politici sono affrontati attraverso “elevati propositi” e dichiarazioni di “nobili principi”» (Voegelin 1975, 189); qui, la forma legale di un accordo internazionale è il parallelo di quella “magia” tentata nelle declamazioni universaliste dell’umanitarismo rivoluzionario francese o di quell’altra tentata da Comte tramite la sua trasformazione personale e la pubblicazione di un suo libro. Per tornare al tema del positivismo come derivato, peraltro più o meno terminatore, della Rivoluzione, sono rilevanti le figure di Comte e Saint-Simon, viste nella loro interrelazione. Come osserva Voegelin, i due pensatori si connettono così intensamente che sarebbe difficile vedere nel complesso di idee che

47 Di passaggio, ricordiamo come, secondo Martin Buber (nel romanzo ʻGog e Magog’, pubblicato in tedesco nel 1949), Napoleone, al contrario, era visto dalle comunità ebraiche europeo-orientali come un inviato divino che avrebbe sconfitto le forze del male (Gog e Magog) ad una nuova Armageddon.

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emersero nei loro anni di fattiva collaborazione cosa appartenga a Comte e cosa a Saint-Simon, se non nel comune recepimento dello spirito dell’epoca, grazie alla «profonda sensibilità che dimostrarono del carattere critico dell’epoca e all’abilità nell’esprimere l’atmosfera apocalittica con splendidi simboli di distruzione e salvezza» e nella somiglianza in almeno due ambiti, «(1) la dottrina scientista e (2) l’intuizione delle conseguenze sociali della rivoluzione industriale» (Voegelin 1975, 190). Saint-Simon vuole rendere sistematica la filosofia di Dio, discendendo, come ispirato dalla fisica newtoniana e dal suo metodo matematico, dai fenomeni dell’universo a quelli della società umana, ma comprende lo scacco (cosa che fa anche Comte) dell’impossibilità di fondare una legge di gravità newtoniana anche per le scienze sociali, e allora, come lo stesso Comte, si rivolge al metodo positivista, ovvero non più un progetto di una scienza unificata, non più la speculazione sulla scienza e sulla filosofia, ma sugli scienziati e sui filosofi visti sotto l’aspetto “positivo” dei loro ruoli e compiti nella società. Voegelin prende a prestito dalla lettura di Counter-revolution of science, del compagno di università Hayek (1952), alcuni commenti di sintesi del positivismo saintsimoniano e comtiano, in cui, di quest’ultimo, si evidenziano i caratteri del dominio tecnologico dell’uomo sulla natura in una società politicamente totalitaria e utilitarista, guidata da tecnici e industriali: Gli scienziati e i filosofi hanno la funzione “positiva” di sviluppare il corpo sistematico della conoscenza che garantirà il dominio dell’uomo sulla natura. L’organizzazione sociale abolirà il vecchio dominio dell’uomo sull’uomo e lo sostituirà con un governo di scienziati, ingegneri e industriali, che assicureranno e accresceranno la supremazia dell’uomo sulla natura per il benessere di tutta la società. Sul piano politico, il progresso della scienza si trasforma in una «controrivoluzione della scienza» (così come Bonald ha chiamato questo sviluppo), con la visione di una società totalitaria, dominata da tecnocrati teorici e pratici (Voegelin 1975, 191).

Questa è la struttura ideale di base, che potrà poi essere incorporata e declinata in successivi movimenti politici di qualsiasi tendenza, dal nazismo al comunismo al keynesismo e così via:

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questo elemento si può amalgamare con idee politiche e movimenti tra loro molto differenti. Questa è infatti rimasta una delle grandi costanti del pensiero politico fino ad oggi. La si ritrova come componente «dell’industrialismo» imprenditoriale in Saint-Simon e Comte, nel concetto di crédit mobilier degli istituti di credito allo scopo di finanziare l’espansione industriale, nel socialismo di Marx ed Engels, nelle moderne concezioni di governo dei tecnici, come pure nell’interventismo progressista dello stato assistenziale (Voegelin 1975, 192).

Il progetto di società di Saint-Simon è contenuto, in nuce, in una sua prima opera, Lettres d’un habitant de Genève à ses contemporains del 1802, che merita di essere riportato nella sintesi fatta da Voegelin, in quanto evidenzia il trasferimento della filosofia naturale o scientifica di Newton e Voltaire, tipica dell’illuminismo settecentesco, sull’oggetto dell’organizzazione della società industriale e umana tipico del secolo successivo fino ad oggi, con particolari fra il bizzarro e l’inquietante che forniranno buon materiale per la polemica antirazionalista e controrivoluzionaria dei Voegelin e degli Hayek: Saint-Simon nelle Lettres è alla ricerca di sostenitori finanziari per il progetto di un Concilio di Newton, per il quale i sottoscrittori nomineranno i membri tra i matematici, i fisici, i chimici, i fisiologi, gli scrittori, i pittori e i musicisti del tempo. Il Concilio dei ventuno, eletti così «dall’umanità», saranno presieduti dal matematico che ha ricevuto il numero più alto di voti. Esso rappresenterà Dio in terra, abolirà il papato, che non ha adeguatamente compreso la divina scienza che un giorno creerà il paradiso terrestre, suddividerà il mondo in regioni con locali Concili di Newton, con culto, studi e insegnamento concentrati nei Templi di Newton. La rivelazione proviene dal Signore stesso, che ha Newton al suo fianco come il logos che illuminerà il mondo e Saint-Simon come profeta (Voegelin 1975, 192).

La connessione fra le diverse reazioni apocalittiche è addirittura esplicita nel momento in cui il saint-simonismo di Enfantin e Bazard, eredi del maestro, compie una acrobatica rivisitazione dell’attesa profetica di De Maistre, in cui il Salvatore da quest’ultimo annunciato viene addirittura personificato in Saint-Simon stesso: Teniamoci pronti, come afferma de Maistre, per un grandissimo evento nell’ordine divino verso cui marciamo a una velocità tale da stupire qualunque osservatore. Non vi è più alcuna religione sulla terra, l’umanità

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non può restare in questo stato. Tuttavia, più sereni di de Maistre, noi non aspettiamo più l’uomo d’ingegno che egli annunciava e che, secondo lui, avrebbe dovuto imminentemente rivelare al mondo l’affinità naturale di scienza e religione: SAINT-SIMON è già apparso (AA.VV. 1924, 418).

È questa una evidente visione apocalittica della restaurazione, in cui la terminazione della rivoluzione francese è assicurato da una nuova diade del potere temporale e di quello religioso, il primo attribuito alla classe dei possidenti, e il secondo al corpo degli scienziati. Tuttavia gli apocalittici gnostici non sono tutti uguali. Infatti, gli scientisti (Comte, Saint Simon) mantengono, tuttavia, nella loro visione apocalittica un ruolo per l’ordine assicurato dallo Stato (ordine e progresso è il sintagma riassuntivo del programma comtiano, oggi ancora visibile inscritto nella bandiera brasiliana). Questo ruolo viene del tutto a mancare nell’apocalittica rivoluzionaria di Bakunin e Marx. Qui, noi possiamo separare l’apocalittica della restaurazione da quella della rivoluzione. Secondo Voegelin, Marx oppone, nella Critica della filosofia del diritto di Hegel, una peculiarità tutta tedesca alle altre nazioni occidentali, peculiarità che consiste di due elementi: i) il ritardo nell’emancipazione politica ma il primato nella speculazione filosofica, e ii) una possibilità di unire filosofia e proletariato in una reciproca vittoriosa missione. In particolare si realizzerebbe una virtuosa causazione circolare, ossia la filosofia che consente il superamento del proletariato e quest’ultimo che consente la realizzazione della filosofia: «La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza la soppressione del proletariato, il proletariato non può sopprimersi senza la realizzazione della filosofia» (Marx 1843, 619-621). Peraltro, questo primato della speculazione nell’avvio di una rivoluzione trasformatrice dell’esistente si è già manifestato in Germania con Lutero e la Riforma, come chiosa lo stesso Marx: «Il passato rivoluzionario della Germania è teorico, è la riforma. Come allora la rivoluzione ebbe inizio nel cervello del monaco, oggi essa ha inizio nel cervello del filosofo» (Marx 1843, 615). In aggiunta, Voegelin, sulla scorta delle precedenti affermazioni di Marx, ascrive senza troppi distinguo il marxismo alla Riforma protestante, asserendo che persino lo stesso Marx ne fosse consapevole:

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Questi brani mostrano come Marx fosse perfettamente consapevole della concordanza tra il suo pensiero e il protestantesimo tedesco. Esiste infatti la possibilità di tracciare una linea di continuità che va dall’abbattimento di Lutero dell’autorità ecclesiastica alla distruzione dei simboli dogmatici della generazione di Strauss, Bruno Bauer e Feuerbach, fino all’annientamento di “tutti gli dei”, quindi, di tutto l’ordine dell’autorità, operato da Marx. Mentre sarebbe scorretto affermare che il protestantesimo conduce necessariamente da Lutero fino a Hegel e Marx, è però vero che il marxismo è il prodotto finale della disintegrazione in una branchia del protestantesimo liberale tedesco (Voegelin 1975, 283).

I commenti critici e feroci, e talvolta singolari, di Voegelin nei confronti di Marx sono numerosi. Intanto la sua malattia spirituale, lo gnosticismo, il suo misticismo, il suo voler farsi Dio, la sua disgustosa stravaganza demoniaca: Alle radici dell’idea marxista troviamo la malattia spirituale, la rivolta gnostica […] caratteristica combinazione tra l’impotenza spirituale e la sete di potere mondano che dà vita a un grandioso misticismo di esistenza paracletica […] Le Tesi su Feuerbach […] rimangono un capolavoro insuperato di speculazione mistica di un tipo di esistenza chiusa in modo demoniaco. Marx credeva di essere un dio che crea il mondo, non voleva essere una creatura […] Il mondo lo voleva vedere dal punto di vista della coincidentia oppositorum, dalla posizione di Dio […] egli usava i metodi della speculazione che i mistici utilizzano quando traducono l’esperienza di Dio in un linguaggio immanente […] un uomo che si lascia andare a tali stravaganze demoniache può essere disgustoso, ma gli aspetti ripugnanti e forse comici della rappresentazione lo rendono non meno pericoloso dal punto di vista sociale (Voegelin 1975, 299).

Tuttavia, altrettanto singolarmente, Voegelin è prodigo di riconoscimenti a Marx, che avrebbe individuato, a parte lo sbaglio nell’indicazione del rimedio rivoluzionario, ben più di altri i veri problemi della società industriale: Marx ha messo il dito nella piaga della società industriale moderna […] Marx si è sbagliato sulle dimensioni del male, ma non sulla sua natura […] La parte escatologica della soluzione, il cambiamento nella natura dell’uomo grazie all’esperienza della rivoluzione che renderà possibile l’impresa, è un pezzo di deragliamento mistico intramondano. Nonostante ciò, la diagnosi del male è pressoché completa (Voegelin 1975, 299-300).

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In particolare, Marx avrebbe colto l’annientamento persino dell’idea di libertà da parte del dominio crescente dell’economia sulla vita umana, vale a dire avrebbe evidenziato «la trasformazione delle istituzioni economiche in un potere tanto incidente sulla vita di ogni singolo uomo da far sì che, di fronte a tale potere, ogni discorso sulla libertà dell’uomo diventi futile». Avrebbe evidenziato l’alienazione umana come il tratto distintivo del capitalismo: «Marx ha trattato il problema chiamandolo col nome di “alienazione” […] Il suo modello era il destino dell’operaio, ma si tratta di un destino che inghiotte praticamente tutta la nostra società». Inoltre, soltanto Marx avrebbe degnamente studiato l’economia politica dal punto di vista della critica e della filosofia: Marx è l’unico pensatore di rilievo del diciannovesimo secolo (e nessuno lo ha seguito), che azzardò una filosofia del lavoro umano, così come un’analisi critica delle istituzioni della società industriale dalla sua posizione filosofica. L’opera principale, Das Kapital, non è una teoria economica come quelle di Adam Smith, o di Ricardo, o di John Stuart Mill, e non ci si può sbarazzare di essa mostrando i difetti delle teorie marxiste del valore, dell’interesse, dell’accumulo del capitale, etc., tutte sicuramente imperfette. Si tratta invece, come afferma il sottotitolo, di una critica dell’economia politica: è un tentativo di scoprire il mito sociale contenuto nei concetti di teoria economica, e di arrivare al cuore del problema, il rapporto dell’uomo con la natura, e a una filosofia di questo rapporto, che è il lavoro (Voegelin 1975, 300).

E, senza Marx, questo ramo della scienza ‒ come ambisce ad auto-definirsi l’economia politica ‒ sarebbe rimasto solo una ottundente ideologia: Che nessun teorico economico dopo Marx si mostrò sufficientemente interessato ai fondamenti filosofici della sua scienza per esplorare ulteriormente questo problema, che non esiste alcuna scuola moderna di teoria economica che abbia compreso e sviluppato le premesse importantissime di Marx, getta una luce molto significativa su questo ramo della scienza (Voegelin 1975, 300).

Potremmo chiosare che è davvero sorprendente che colui che sembra rappresentare un pilastro del conservatorismo ed essere un sodale di alcuni pensatori neoliberali, ribalti completamente,

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in queste considerazioni, la vulgata corrente degli economisti che ritengono se stessi scienziati e Marx un ideologo, e che, persino, individui in Marx ‒ lo gnostico demoniaco e truffaldino che vuole distruggere l’ordine dell’Occidente ‒ un difensore della libertà dell’uomo contro il dominio dell’economia, economia che è invece il cuore del governo neoliberale e narrata come il fattore (tramite concorrenza e mercato) della sua presunta libertà. Fra chi vede il mondo esistente come il migliore dei possibili, secondo la teodicea leibniziana, caratterizzato dal calcolo ottimizzante, di cui farà un dogma anche l’economia, e dalle fortezze monadi ‒ sempre leibniziane ‒ di cui si potrà nutrire l’individualismo metodologico, anch’esso dogma dell’economia, da un lato, e chi lo vede nell’inferno della Londra operaia descritto dallo “gnostico” Marx, dall’altro lato, la partita è aperta: è la storia.

Capitolo 3 GOVERNO TEOLOGICO-POLITICO-ECONOMICO E SOGGETTO

3.1. La macchina del governo teologico-politico-economico e l’uomo l’arcano centrale della politica non è la sovranità, ma il governo, non è Dio, ma l’angelo, non è il re, ma il ministro, non è la legge, ma la polizia — ovvero, la macchina governamentale che essi formano e mantengono in movimento. (Agamben 2007, 303)

Il ruolo di Averroè appare interessante non solo per la tesi del suo “spirito” gnostico visibile nella sua dottrina della “conoscenza” elitaria che avrebbe influenzato Voltaire e gli illuministi, come Voegelin ha osservato (v. par. 2.3), ma anche per la sua “pionieristica” critica del concetto di persona vigente nel pensiero cristiano, che sta alla base del meccanismo governamentale teologico-politico di soggettivazione e assoggettamento. Per questo, a partire dalla figura di Averroè e dal suo ruolo sopradetto, è possibile rivisitare il funzionamento e la centralità di tale meccanismo, recentemente messo al centro della riflessione, sulla scia degli studi sulla governamentalità di Foucault, da alcuni filosofi quali Agamben ed Esposito. La teologia politica nasce come concetto analitico moderno con l’affermazione di Schmitt (1972, 49) che «tutti i concetti decisivi della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». D’altro canto, una storia genealogica della teologia (Agamben 2007; Esposito 2013), ha mostrato che fin dai suoi inizi essa è sviluppata secondo un paradigma “economico”, per cui la vita divina segue una “economia”. Quindi, l’ovvia implicazione di ciò è che l’uomo, modellato sull’immagine divina, non possa

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che esprimere la sua natura se non secondo l’“economia” e che, allora, la storia umana non sia segnata tanto dalla politica quanto dall’amministrazione e dal governo, implicazione che pare profeticamente realizzata in ciò che ci mostrano l’uomo e la storia attuale. Peraltro, la relazione fra teologia ed economia capitalista era apparsa evidente già in Marx1 e in Benjamin2. Agamben (2007), in particolare, afferma che dalla teologia cristiana derivano due paradigmi, l’uno politico e l’altro economico, i quali, sebbene concettualmente distinti, interagiscono funzionalmente in più aspetti: i) la teologia politica, che fonda

1 Che il capitalismo sia una religione, secolarizzata o meno, è una chiara – anche se non adeguatamente investigata ‒ convinzione anche di Marx. Egli pare anticipare chiaramente Weber, riguardo alla relazione fra protestantesimo e capitalismo, in più occasioni. Infatti, nel I libro del Capitale si legge: «Per una società di produttori di merci il cristianesimo con il suo culto dell’uomo astratto, e soprattutto nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione che più gli corrisponde» (Marx 2011, 81). E nei Grundrisse troviamo: «Il culto del danaro ha il suo ascetismo, la sua rinuncia e suoi sacrifici: la parsimonia e la frugalità, il disprezzo per i godimenti terreni, temporali e transitori: la caccia al tesoro eterno. Di qui la connessione tra il puritanesimo inglese o anche il protestantesimo olandese e il far denaro» (Marx 1976, 173). Ma anche sulla struttura trinitaria della teologia cristiana, Marx costruisce corrispondenze simboliche con il capitale, che anticipano le speculazioni della cosiddetta teologia economica di Agamben, Esposito etc., sopra accennate. Per Marx, il valore «si distingue, in quanto valore originario, da se stesso in quanto plusvalore, così come Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, e ambedue sono coetanei e sono in effetti una sola persona, giacché le centodieci L.st. anticipate divengono capitale solo per mezzo del plusvalore di dieci L.st., e una volta divenute capitale, una volta generato il figlio e tramite esso il padre, la loro distinzione sparisce di nuovo ed entrambi sono uno, centodieci L.st.» (Marx 2011, 131). E ancora: «Ma Cristo è il dio alienato e l’uomo alienato. Dio ha ormai valore soltanto in quanto rappresenta Cristo, e l’uomo ha valore in quanto rappresenta Cristo. La stessa cosa vale per il danaro» (Marx 1976, 231). 2 Benjamin, in un frammento del 1921, Il capitalismo come religione, suggerisce che il capitalismo non è la secolarizzazione profana della religione, ma è esso stesso religione, senza dogmi ma con un culto inesorabilmente continuo il cui oggetto è la merce, emanazione visibile della astrazione trascendente e spirituale del danaro: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore» (Benjamin 2013, 43).

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nell’unico Dio la trascendenza del potere sovrano, e da cui derivano la filosofia politica e la teoria moderna della sovranità; ii) la teologia economica, che pone l’idea di una oikonomia – quindi una organizzazione domestica e non politica in senso stretto ‒ tanto della vita divina che di quella umana, e da cui derivano il governo biopolitico ed economico trionfante in ogni altro aspetto della vita sociale, non meno che la nascita dell’economia politica stessa nel ‘7003. Agamben mostra, utilizzando in particolare il Rousseau del Contratto sociale, come tutto il dispositivo economico-provvidenziale ‒ basato sulla conciliazione sostanziale di uno e trino, di provvidenza generale e particolare ‒ si trasferisce nella politica moderna, per esempio come modello di conciliazione della sovranità e della legge con la particolarità dell’economia e del governo efficace dei singoli, giungendo ad una genealogia del potere piuttosto originale: dalla teologia politica deriva la sovranità delle monarchie, dalla teologia economica quella delle democrazie4. Alla luce del capitalismo del XXI secolo e dei risultati genealogici sulla relazione fra teologia e strutture della società occidentale di Marx, Weber, Benjamin, Schmitt e, recentemente, Agamben (2007), Esposito (2013), Cacciari (2013) e altri, ci sia consentito di usare il termine unificante teologia politica-economica.

3.2. La persona divina e il paradigma “economico" anche se c’è diversità nel numero, tale natura non viene recisa nella sostanza. Per questo motivo la Monade, mossasi ab initio a produrre una diade, si è fermata in una Trinità. (Gregorio Nazianzeno, Omelia 29, Orazione I sul Figlio, 2)

3 Quindi, da un lato, il moderno diritto pubblico eredita dalla teologia (vedi la teologia politica di Schmitt 1972), dall’altro lato, sia l’economia che la gestione della vita biologica della specie originano dal paradigma economico della teologia cristiana (vedi, rispettivamente, la teologia economica di Agamben 2007, e la biopolitica di Foucault 2017). 4 «Le due sovranità, quella dinastica e quella democratico-popolare, rimandano a due genealogie affatto distinte. La sovranità dinastica di diritto divino deriva dal paradigma teologico-politico; la sovranità popolare democratica deriva invece dal paradigma teologico-economico-provvidenziale» (Agamben 2007, 274-275).

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Il concetto di persona appare centrale per l’operare della macchina teologico-politica, che costituisce una Unificazione del Due (Esposito 2013), attraverso la subordinazione di una componente all’altra, come discuteremo nel seguito. Infatti l’operazione teologico-politica avviene tramite la categoria teologica di persona che tuttavia appare in due versioni: quella Trinitaria in cui una medesima sostanza si suddivide in tre persone, e quella dell’Incarnazione, o cristologica, in cui una persona si suddivide due sostanze. È questa persona teologica, nelle due versioni trinitaria e cristologica, che articola l’Uno mediante la divisione e l’organizzazione interna che fa di un componente lo strumento operativo dell’altro5. Come in un disegno di Escher, si può vedere in questa articolazione interna tanto la negazione del mito gnostico quanto l’affermazione del medesimo, basta spingere più sul pedale interpretativo, rispettivamente, dell’Uno (non separazione ontica e comunque subordinazione del secondo al primo) oppure su quello del Due (separazione ontica e conflitto fra le parti), con al centro l’interpretazione dei Padri, che rimarcano l’aspetto,

5 L’articolazione interna trinitaria è ovviamente più complessa di quella binaria. Tertulliano prima e Gregorio Nazianzeno poi forniscono brillanti soluzioni, in cui, sostanzialmente il Terzo (lo Spirito Santo) gode di un rango peculiare, nè sotto nè accanto ma in una posizione mediana che potrebbe significare anche mediatoria, che porta in luce, rivelandolo, il significato trinitario come connessione fra l’ontologia monista e l’espressione pragmatica dell’economia: lo Spirito santo è «la terza persona della divinità e il terzo grado della maestà, il banditore di un’unica monarchia ma anche l’interprete dell’economia» (Tertulliano, Adversus Praxeam, XXX.5). Comunque, la trinità rimane una unità anche attraverso la divisione, che pur differenziando non divide ma unisce: le tre persone «sono divise senza divisione, se cosi posso dire, e sono unite nella divisione» (Gregorio Nazianzeno, Oratio XXXIX. II). Peraltro, secondo Esposito (2013, 92-93), il problema cruciale a cui Tertulliano, pur parlando del rapporto fra le tre persone, cerca di rispondere, attraverso il paradigma di persona, è «la relazione tra i Due, e cioè tra Padre e Figlio» ovvero «come può, un’unica entità, sdoppiarsi in due? O come possono, due entità distinte, unificarsi conservando la loro differenza?». Osserviamo qui che nel tentativo di rispondere al quesito teologico, da un lato, Esposito sottolinea la centralità del concetto di persona, che insegue in un percorso dal cristiano-romano alla filosofia contemporanea, nella macchina teologico-politica, mentre, da un altro lato, Agamben (2007) sottolinea la centralità del concetto di economia, prassi e amministrazione nella medesima macchina che assume quindi il connotato di dispositivo teologico-economico.

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diciamo, collaborativo fra le componenti tramite la centralità del ruolo dell’economia ‒ peraltro essa stessa misteriosa ‒ nello svelare il mistero trinitario. La parola oikonomia nella discussione patristica porta il significato sia, genericamente, di prassi, gestione, amministrazione, esecuzione che, tecnicamente, quello di articolazione binaria (incarnazione e rivelazione di Dio nel tempo) o trinitaria (processione delle persone all’interno della divinità) della vita divina. Questo significa anche che l’economia riguarda tutta l’attività di gestione della vita divina, intesa sia nel suo aspetto celeste che nella manifestazione creaturale. La differenziazione, trinitaria o cristologica che sia, riguarda l’agire e la prassi piuttosto che l’essere e l’ontologia: «Secondo un paradigma che segnerà profondamente la teologia cristiana, la trinità non è un’articolazione dell’essere divino, ma della sua prassi» (Agamben 2007, 56). Tertulliano ci racconta come l’unità trae da sè la trinità, uscendone da questa creazione rafforzata perché ne viene amministrata: Le persone semplici […] non comprendono che si deve credere sì a un unico Dio, ma con la sua oikonomia e si spaventano perche presumono che l’oikonomia significhi pluralità e la disposizione [dispositio] della trinità una divisione dell’unità, mentre invece l’unità, traendo da se stessa la trinità, non è distrutta da questa, ma amministrata» (Tertulliano, Adversus Praxeum, 3, 1).

È utile anche ricordare la distinzione semantica del termine “economia” fra elemento teologico, connesso al mistero (mistero dell’economia ed economia del mistero), e significato di organizzazione, ordine, taxis, disposizione ordinata del corpo, della materia, della retorica linguistica, e, più in generale, di governo e amministrazione di uomini e cose (in gergo moderno, management). Inoltre, l’elemento teologico non è solo cristiano, ma anche gnostico, dove per “economia” si indica, per esempio, il processo interno del pleroma o la fusione degli eoni che porta a Gesù. D’altronde, monarchia ed economia, che si riconciliano nell’amministrazione in Tertulliano, sono già combacianti in Aristotele, che afferma «La politica è una poliarchia, l’economia è una monarchia» (Oec. 1, 1343 a).

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Il paradigma teologico dell’amministrazione prescrive come i ruoli di gestione siano affidati dall’Uno-Padre al Figlio e non solo, ma anche a molteplici funzionari angelici, senza che la sovranità ne sia inficiata: la monarchia, tuttavia, per il fatto che è di uno solo, non prescrive che colui al quale essa appartiene non possa avere un figlio o non possa farsi figlio a se stesso ovvero amministrare la sua monarchia per mezzo di chi vuole […] Se poi chi detiene la monarchia ha un figlio, la monarchia non viene subito divisa né cessa di esistere, se anche il figlio ne viene fatto partecipe; ma in quanto continua a essere innanzitutto di colui dal quale viene comunicata al figlio e finché rimane sua, per questo è monarchia anche quella che è tenuta insieme da due persone cosi unite. Se quindi anche la monarchia divina e amministrata attraverso tante legioni e schiere di angeli, come scritto: “Mille e cento volte centomila lo assistevano e mille volte cento lo obbedivano”, non per questo ha cessato di appartenere a uno solo e di esser monarchia, per il fatto di essere amministrata da tante migliaia di virtù. In che modo Dio potrebbe subire una divisione e una dispersione nel figlio e nello spirito santo, che occupano il secondo e il terzo rango e sono cosi partecipi della sostanza del padre, se non le subisce attraverso un così gran numero di angeli, che sono alieni dalla sostanza divina? Ritieni forse che le membra, i figli, gli strumenti e la stessa forza e tutte le ricchezze di una monarchia siano la sua sovversione? (Tertulliano, Adversus Praxeam, 3, 2-5).

Teologia della storia e filosofia della storia hanno un evidente origine nel cristianesimo e nel suo concetto di tempo e di via di salvezza. Se la storia ha un senso e un destino, ciò è a causa del nesso che la teologia cristiana stabilisce fra oikonomia e storia, come la filosofia della storia dell’idealismo tedesco rivela. È questo è ancor di più evidente ‒ come suggerisce Agamben ‒ se si pensa che, quando Marx si stacca dall’idealismo tedesco, è la parte immanente dell’economia, quella umana, che viene al centro del processo storico, a sostituire la parte trascendente: Si può dire, in particolare, che la concezione della storia nell’idealismo tedesco, da Hegel a Schelling e ancora fino a Feuerbach, non sia che il tentativo di pensare il nesso “economico” fra il processo della rivelazione divina e la storia […] È curioso che quando la sinistra hegeliana rompe con questa concezione teologica, essa può farlo solo a patto di mettere al centro del processo storico l’economia in senso moderno, cioè l’auto-

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produzione storica dell’uomo. Essa sostituisce, in questo senso, all’economia divina un economia puramente umana (Agamben 2007, 60).

Ma ciò che ancor più caratterizza il paradigma “economico” cristiano è una duplice peculiarità, assente sia nel pensiero pagano che in quello giudaico, compreso la sua intersezione stoica-alessandrina: 1) l’insistenza sul libero arbitrio dell’uomo; 2) l’immanenza intrinseca alla manifestazione divina, sia della sua ontologia che della sua prassi, nell’economia, nel governo pragmatico, minuzioso ma flessibile, delle cose e degli uomini. La relazione Dio/mondo/uomo prende la piega dell’economico e si pone al centro del governo moderno degli uomini, giocando sulla giunzione includente-escludente in cui la trascendenza è tangente all’immanenza. Questo distingue il paradigma economico trinitario o cristologico dal monoteismo rigido e verticale mosaico o dal Dio stoico che è legge immanente al mondo, ma soprattutto dal mito gnostico del vero Dio assente dal mondo che è solo regno del falso dio: Sul terreno dell’oikonomia si gioca, cioè, una partita in ogni senso decisiva […] Fra l’unitarismo inarticolato dei monarchiani e del giudaismo e la proliferazione gnostica delle ipostasi divine, fra l’estraneità al mondo del Dio gnostico ed epicureo e l’idea stoica di un deus actuosus che provvede al mondo, l’oikonomia rende possibile una conciliazione in cui un Dio trascendente, insieme uno e trino, può — restando trascendente — assumere su di sè la cura del mondo e fondare una prassi immanente di governo il cui mistero sovramondano coincide con la storia dell’umanità (Agamben 2007, 65).

Ancora in contrasto con l’inesorabilità del fato pagano come del necessitarismo stoico, la storia cristiana si snoda e si svela del suo mistero tramite l”economia”, con la quale ciò che accade è libero e contingente, e soprattutto liberi sono gli uomini nelle loro inclinazioni e volontà. Libertà ed economia si stringono in un nesso bidirezionale che nasce dall’interpretazione patristica della persona divina e che agisce tuttora, riflesso di quella genesi, nella “teologia economica”: La storia cristiana si afferma contro il fato pagano come prassi libera; e, tuttavia, questa libertà, in quanto corrisponde e invera un disegno divi-

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no, è essa stessa mistero: il “mistero della libertà” che non è che l’altra faccia del “mistero dell’economia” (Agamben 2007, 65).

È già in Origene che questo nesso fra l’economia, come espressione del divino, e l’uomo razionale e dotato di libero arbitrio trova chiara dicitura: Riteniamo che Dio, padre di tutte le cose, per mezzo del logos della sua ineffabile sapienza, per la salvezza di tutte le creature ha disposto tutte le singole cose, in modo che nessuno degli spiriti o anime, in qualunque modo si vogliano chiamare queste esistenze razionali, sia costretto ad agire contro la libertà del suo arbitrio, cioè in modo diverso dall’inclinazione della sua mente […] i diversi movimenti si adattano così utilmente e adeguatamente alla consonanza dell’unico mondo (Origene, Princ., 2, 1, 2).

Clemente mostra come la Provvidenza intervenga in modo personale e volontario (invece che necessario e involontario come la provvidenza stoica) nell’economia (distribuzione) dei beni, affermando che «Dio non è buono involontariamente […] volontaria è in lui la distribuzione dei beni […] egli non fa il bene per necessità, ma benefica secondo una libera scelta» e Giovanni Crisostomo dichiara di essere stato «avendo voluto sondare l’abisso della sua provvidenza, colto da vertigine davanti all’indicibilità di questa economia e meravigliandosi davanti all’ineffabile»6. L’economia provvidenziale colma la separazione fra natura divina e storia umana, che è, in termini gnostici, quella fra il vero Dio assente dalla storia e il demiurgo che è invece attivo in essa. Provvidenza ed economia si saldano strettamente. Adam Smith ha nel suo albero genealogico Clemente e Giovanni Crisostomo. Questa è la chiave attraverso cui la teologia, usando strategicamente il paradigma “economico”, si collegherà alla modernità in cui la verticalità e la personalità del Politico sfumerà nell’orizzontalità ed impersonalità dell’Economico.

6

62-63).

Le citazioni di Clemente e Giovanni Crisostomo sono in Agamben (2007,

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3.3. Il dispositivo e l’eredità teologica Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non espia il peccato, ma crea colpa/debito. In ciò questo sistema religioso è preso nel gorgo di un movimento spaventoso. Una coscienza spaventosamente colpevole, che non sa come espiare, si afferra al culto, non per espiare in esso questa colpa/debito, ma per renderla universale. (Benjamin 2013, 43)

Il termine foucaultiano “dispositivo” appare di natura “economica”, essendo semanticamente collegato strettamente all’oikonomia greco tramite la sua traduzione latina in dispensatio (dispensa), distributio (distribuzione) e, quindi, in dispositio (disposizione). Come dice Foucault (1994, 299-300) per elementi del dispositivo si deve intendere un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non-detto e il dispositivo è definito come la rete che si stabilisce fra questi elementi […] di natura essenzialmente strategica, il che implica che si tratti di una certa manipolazione di rapporti di forza, di un intervento razionale e concertato nei rapporti di forza, sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli o per fissarli e utilizzarli […] un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati.

Poiché oikonomia e dispositio nella teologia cristiana significano ‒ specie col nesso indissolubile fra “economia” e provvidenza postulato a partire da Clemente ‒ il governo (salvifico) della storia degli uomini, il termine foucaultiano “dispositivo” è strettamente collegato all’oikonomia teologica, ovvero all’articolazione interna alla divinità fra essere e sostanza, da un lato, e prassi e operatività con cui viene amministrato e governato il mondo delle creature, dall’altro lato. Il risultato di questa eredità teologica del “dispositivo” foucaultiano è riassunto in Agamben (2006, 18-19): «Il termine dispositivo nomina ciò in cui e attraverso cui si realizza una pura attività di governo senza alcun fondamento nell’essere». La pura “economicità” de-sostanzializzata del dispositivo è tale che «i dispositivi devono creare il loro soggetto, attraverso un processo cosiddetto di soggettivazione» (Agamben 2006, 18-19).

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La genealogia teologica collega quindi il “dispositivo” foucaultiano all’oikonomia, cioè «a un insieme di prassi, di saperi, di misure, di istituzioni il cui scopo è di gestire, governare, controllare e orientare in un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini» (Agamben 2006, 20). In questo senso generalizzato, Agamben estende l’insieme dei dispositivi aldilà di quelli connessi strettamente con la relazione di potere e già analizzati da Foucault, come le prigioni, i manicomi, la medicina e gli ospedali, il Panopticon, le scuole, la confessione pastorale, le fabbriche, le discipline, le norme giuridiche ecc., per comprendervi, per esempio, «la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e ‒ perché no ‒ il linguaggio stesso». La produzione di “governo” richiede che il dispositivo produca “soggettivazioni” mediante assoggettamento. Prendiamo la confessione cattolica ‒ dispositivo o strumento di governamentalità pastorale per eccellenza, con cui viene formato il soggetto occidentale, vedi par. 1.3 ‒ come esempio istruttivo del processo di de-soggettivazione e ri-soggettivazione; nella penitenza, l’Io si scinde e il nuovo soggetto si forma nella negazione del vecchio trovando la propria verità nel ripudio della non-verità del vecchio Io peccatore. Il dispositivo pastorale della confessione e penitenza, come altri dispositivi della società disciplinare, applica pratiche, discorsi, saperi, esercizi per creare un soggetto libero, che però assume la propria identità e libertà nel processo stesso in cui viene assoggettato. Agamben (2006) annota i più recenti effetti del meccanismo del dispositivo ereditato dalla macchina teologica di governo, suggerendo che l’attuale fase del capitalismo prolifera a dismisura i dispositivi tanto quanto i corrispondenti processi di soggettivazione, con la novità che, però, adesso la dinamica soggettivazione-desoggettivazione non conduce alla formazione di un nuovo soggetto, e nemmeno a una molteplicità di identità nel soggetto, come sarebbe implicito nella proliferazione di dispositivi, ma i due poli della dinamica, per così dire, sono l’un l’altro disattivanti, si depotenziano reciprocamente, e non creano un nuovo soggetto «se non in forma larvata e, per cosí dire, spettrale». Due dispositivi caratteristici del capitalismo contemporaneo

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‒ il telefono cellulare e la televisione ‒ illustrano questa novità del loro funzionamento governamentale: Colui che si lascia catturare nel dispositivo “telefono cellulare”, qualunque sia l’intensità del desiderio che lo ha spinto, non acquista per questo, una nuova soggettività, ma soltanto un numero attraverso cui può essere, eventualmente, controllato; lo spettatore che passa le sue serate davanti alla televisione non riceve in cambio della sua desoggettivazione che la maschera frustrante dello zappeur o l’inclusione nel calcolo di un indice di ascolto (Agamben 2006, 31).

3.4. Caratteristiche della macchina teologico-politica Mille teologi s’immersero/ nell’antica notte del tuo nome./ Vergini si destarono/ e giovani coperti d’argento partirono/ sfavillando in te, battaglia. (Rilke, Il libro d’ore, 2004, 13)

La macchina teologico-politica (Esposito 2013) si presenta come i) impenetrabile, ii) occulta e occultatrice; iii) incantatrice, iv) risucchiante, v) estraniante, vi) sdoppiante. È impenetrabile in sé, perché ciò che mostra è solo la forma di ciò che le è opposto. È risucchiante, perché trascina dentro di sé chi ha che fare con lei, affinché essi non vedano il suo modo di funzionare. È occulta, perché si nasconde interamente nel mantello della falsità del proprio opposto, ed è occultatrice perché dissimula ciò che fa e cosa produce, simulando invece i suoi opposti. È incantatrice, perché dove la macchina è totalizzante, eliminando ogni possibilità di comprensione e di opposizione alla medesima, diventa anche “strega”, incantando senza che neppure si possa avvertire lo “stregamento”, come si esprime Heidegger riferendosi al suo concetto di “macchinazione”, che coinvolge più la tecnica che la teologia ma che nella procedura di funzionamento non è dissimile dalla macchina teologico politica7; l’effetto di “stregamento”, secondo Heidegger, sorge quando si arriva allo

7 «quanto […] Heidegger aveva voluto intendere con l’espressione […] «macchinazione», il significato d’insieme che ne emerge appare assai vicino a quel che troviamo nella macchina della teologia politica» (Esposito 2013, 19).

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«sconfinato dominio della macchinazione. Se questa giunge al dominio finale e penetra ovunque, allora non ci sono più le condizioni per avvertire ancora espressamente l’incanto e per opporvisi» (Heidegger 2007, 142). Il disincanto dell’età moderna, di cui parla Weber, allora sarebbe soltanto la produzione falsificata da parte della macchina per rafforzare il suo opposto ‒ l’incanto. In ogni modo, non solo non esiste un passaggio lineare dall’incanto all’età del disincanto, ma la genealogia, rivelando l’annodamento fra incanto e disincanto8, riconferma anche il nodo che stringe teologia cristiana e apparente modernità. La macchina teologico-politica è anche estraniante per il suo oggetto che ha catturato, la cui esperienza viene separata da sé medesima. È anche sdoppiante dell’oggetto catturato e inconsapevole della cattura, la cui vita viene separata in due parti. In particolare lo sdoppiamento non costituisce due parti equivalenti, poiché una viene sottoposta al potere dell’altra, nè produce due parti simmetriche, bensì le parti emerse dallo sdoppiamento sono separate da un dislivello, da una non-corrispondenza, da un eccesso di una rispetto all’altra. Ma è proprio l’opposizione delle parti a costituire, paradossalmente, il collante che forma l’unità. La macchina teologico-politica funziona «separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante la sottomissione di una parte al dominio dell’altra» (Esposito 2013, 5). Tuttavia, perché la macchina possa funzionare è necessaria l’esistenza di un oggetto specifico, che può essere concettualizzato con il termine di “persona”. L’analisi genealogica colloca l’origine del concetto di “persona” laddove vennero in fecondo contatto religione cristiana e diritto romano9, entrambi declinando unità e

8 «Che la macchinazione «streghi», significa non solo che essa produce l’incanto ma che, nello stesso tempo, nasconde il vincolo originario che lo lega, in un nodo metafisico, al disincanto. Come ogni demitizzazione nei confronti del mito, il preteso disincanto non solo non libera dall’incanto della macchinazione ma sta al suo interno come una reazione di superficie che rafforza ciò cui intende contrapporsi» (Esposito 2013, 28). 9 «Che sia stato il lessico giuridico a influenzare la dogmatica cristiana, oppure questa ad anticipare quello, rimane assodato il transito, lessicale e concettuale, che fin dall’inizio si determina tra i due ambiti […] Ciò che colpisce, comunque siano andate le cose in sede storica, è una sorta di corrispondenza, o almeno

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separazione in modo da ottenerne una performazione. Già allora, Tertulliano elabora la trinità in senso “economico” per rispondere all’unitarianismo monarchiano ‒ che accentua la sovranità monoteista ‒ e al dualismo gnostico dell’irriducibile conflitto cosmico e terreno. In essa la persona divina è sdoppiata in Prima e Seconda, a sua volta sdoppiata in umana e divina, sdoppiamento che si ricompone nell’unità tramite la sottomissione dell’altra all’una. Il diritto romano, a sua volta, formalizza il concetto di persona giuridica, nel quale il genere umano è separato fra uomo e cosa (schiavo) con sottomissione dell’altro all’uno. Anche il soggetto della filosofia moderna sperimenta la separazione dell’unità in due parti e la sottomissione dell’una all’altra, cioè, in generale, fra la parte razionale e pensante e quella animale, che è sottomessa alla prima. Allora quei filosofi che dubitano della identificazione fra pensiero e soggetto, che lo collocano all’esterno del medesimo, che ‒ riprendendo peraltro un tema aristotelico10 ‒ collocano il pensiero fuori della potenza umana, che contestano il dualismo cartesiano fra anima dominante e corpo sottomesso, disattivano eversivamente il dispositivo della persona che è al cuore della macchina teologico-politica. Questi filosofi sostenitori dell’intelletto “impersonale”, della percezione scollegata da coscienza e corpo del soggetto, e della tesi che il soggetto è ormai irriconducibile al singolo individuo, minano alla radice la macchina della condotta degli uomini basata sulla teologia cristiana e sul concetto di “persona”, inteso nelle sue due declinazioni ‒ politica ed economica, separate ma legate ‒ ben indagate da Foucault.

di risonanza, che, nonostante le profondissime difformità di contesto, collega le due categorie» (Esposito 2013, 8). 10 «In realtà quanto oggi appare un’evidenza indiscutibile ‒ l’appartenenza del pensiero a una singola coscienza di esso titolare ‒ era tutt’altro che scontato per la concezione classica, in particolare nel suo versante aristotelico. Essa avrebbe considerato bizzarra l’idea di un pensiero chiuso nei confini di un soggetto o di una persona, qualsiasi significato si fosse assegnato a tali termini» (Esposito 2013, 12).

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3.5. Personalizzazione in relazione a religione, politica ed economia il mondo è governato da demoni e chi s’immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche […]. Chi non lo capisce in politica non è che un fanciullo. (Weber 1976, 112-113)

Lingua e concetti mantengono indubbi connotati teologico-politici sotto il camuffamento della “secolarizzazione”. La “secolarizzazione”, a sua volta, non è lo scivolamento continuo e lineare dal dominio teologico a quello politico, così come dall’incanto del mondo originario al disincanto di quello moderno. La “secolarizzazione” non è nemmeno la laicizzazione, se Hegel e Weber ne vedono la sua apparizione nel mondo moderno causata, secondo l’uno, dallo Spirito, e secondo l’altro, dalla religione calvinista. Teologia e politica, incanto e disincanto, persistono in uno spazio metempirico in cui interagiscono i loro significati. Una legge che opera nel profondo a riguardo di una dicotomia concettuale è quella che possiamo chiamare polarizzazione che si unifica in un polo. Proviamo ad enunciare questa dicotomia: presi due poli apparentemente contrapposti, l’uno dei due produce l’altro, ma, in realtà, facendo ciò rafforza occultamente se stesso. Questo processo è simile alla procedura che Heidegger (2007, 150) chiama “macchinazione”, il cui funzionamento è così spiegato da Esposito (2013, 29): «Non solo la macchinazione si nasconde avvolgendosi nella falsa evidenza del proprio contrario ma immette nel suo oggetto un elemento di estraneazione che lo separa da se stesso assimilandolo al suo opposto», e a quella che Foucault chiama “dispositivo”. Ancora Esposito (2013, 30) chiarisce la similarità della funzione delle due procedure: «La prestazione comune della macchinazione heideggeriana e dei dispositivi foucaultiani è, insomma, la produzione di qualcosa destinata ad assoggettare l’esistenza attraverso la sua separazione da se stessa». È interessante riportare l’esempio fatto da Heidegger, che parla del dispositivo della radio come “gabbia” per l’uomo che si crede libero, se non altro per l’uso del medesimo termine di “gabbia” usato già da Weber per esprimere lo stesso concetto di libertà ingabbiata dal meccanismo del capitalismo: l’addetto della radio ‒ tanto quanto l’ascoltatore ‒ è «ingabbiato anche quando con-

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tinua a ritenere che l’atto di accendere e spegnere l’apparecchio sia completamente affidato alla sua libertà» (Heidegger 2002, 62). Come noto, sia per Hegel che per Weber, seppure in modi diversi, è il cristianesimo, in specie riformato, la genesi della storia moderna e della razionalità capitalista. Ma se in Hegel il cristianesimo protestante conduce allo Stato sovrano, che riconcilia in sé il dualismo fra l’ambito temporale e quello spirituale del cristianesimo originario ‒ sanando così tale frattura in una riunificazione nella vita ‒ e costituisce il risultato finale della immanentizzazione e della realizzazione dello Spirito, così raggiungendo una saldatura organica fra teologia e politica, in Weber conduce, all’opposto, alla totale spoliticizzazione, dovuta alla separazione assoluta ‒ senza più alcuna mediazione magica o religiosa ‒ fra trascendenza divina e vita umana. Tale separazione introduce nel mondo la massima distanza tra Dio e uomo, distanza che separa implacabilmente il creatore dalle creature e che, quindi, pregiudica nell’uomo la presenza sia del comune sentimento religioso che, persino, dell’approccio mistico. Essa produce quella che Weber ha definito, come un ossimoro, ascesi intramondana. L’ascesi intramondana è perciò il frutto paradossale della assoluta impotenza dell’uomo rispetto alla propria salvezza, salvezza riservata da Dio in modo predestinato e imperscrutabile a pochi eletti rispetto alla massa dei dannati; rispetto a questa salvezza, concessa per insindacabile e inconoscibile predestinazione, l’uomo può, al massimo, presagire soltanto la probabilità della eventuale concessione nella misura in cui ha successo il suo sottoporsi a una ferrea e continua disciplina interiore, di cui il risparmio, la frugalità, il continuo lavoro, l’ottenimento del profitto economico, la rinuncia al godimento dei beni mondani, sono i contenuti. Quindi l’ascesi intramondana ‒ ovvero la straordinaria vita ascetica dei santi inserita nella ordinaria vita del comune credente11 ‒ si costituisce come una fuga dal mondo restando esclusivamente dentro il mondo e si manifesta con il controllo e la regola-

11 «Quella vita speciale dei santi, richiesta dalla religione e diversa dalla vita “naturale”, si svolgerà ‒ questo è il punto decisivo ‒ non più fuori del mondo nelle comunità monastiche ma dentro il mondo e i suoi ordinamenti» (Weber 1982, 154).

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mentazione di ogni singolo atto della vita per tutta la durata della medesima. Questo giunge ad un esito paradossale, nel senso che è proprio la rinuncia al mondo a consentirne il pieno dominio. Ma giunge anche ad un altro esito che capovolge quanto si sarebbe dovuto aspettare l’uomo calvinista. Infatti, invece di rispettare nel proprio profondo il distacco ‒ pur essendo pienamente impegnati nel mondo ‒ dalle cose del mondo, come predicava, per esempio, il teologo puritano Richard Baxter, per il quale la cura per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei santi calvinisti soltanto come un “sottile mantello che si possa gettar via in ogni momento”, il mondo aumenta la sua presa sull’individuo e si perviene a un esito angosciante: il mantello lieve e temporaneo si è trasformato in una gabbia d’acciaio. Il capitalismo esce vittorioso da questa origine religiosa, fino a trasformare senza alcuna possibilità di salvezza l’uomo in una arrogante nullità. Le lucide quanto angosciate e pessimiste parole di Weber meritano di essere qui riportate: Il destino fece del mantello una gabbia d’acciaio […] I beni esteriori di questo mondo acquistarono un potere crescente e, alla fine, ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia. Oggi il suo spirito – chissà se per sempre – è fuggito da questa gabbia. In ogni caso il capitalismo vittorioso, da quando si fonda su una base meccanica, non ha più bisogno di questo sostegno. Anche l’ottimistico stato d’animo del suo sorridente erede, l’Illuminismo, sembra stia sfumando per sempre […] Sul terreno del suo massimo scatenamento, gli Stati Uniti, l’aspirazione all’acquisizione – spogliata del suo senso etico-religioso – tende oggi ad associarsi con passioni puramente agonistiche […] Nessuno sa chi in futuro abiterà in quella gabbia e se, alla fine di questo enorme sviluppo, vi saranno profeti interamente nuovi o una potente rinascita di principi ideali antichi, oppure, ancora – escludendo l’una e l’altra alternativa – una pietrificazione meccanizzata. Allora, certo, per gli “ultimi uomini” di questo sviluppo culturale potrebbe diventare verità il principio: “specialisti senza spirito, gaudenti senza cuore – questo nulla s’immagina di essere salito a un grado mai prima raggiunto di umanità” (Weber 1982, 192).

Il capitalismo vittorioso è tecnica, burocrazia, amministrazione e con esso la decisione diventa prerogativa di tali ambiti manageriali e non più della politica. Adesso teologia ed economia sono strettamente legate, mentre è crollato il ponte fra teologia e politica. Tuttavia, in questa interpretazione weberiana del capitalismo

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vittorioso, la politica può riemergere, ma non più come elemento importante della secolarizzazione (come nello Stato sovrano di Hegel), bensì come sua rottura. Infatti, riemerge come rottura della principale caratteristica secolare, cioè della razionalizzazione, e lo fa attraverso il rientro in gioco della “persona”. Si tratta ovviamente della persona “carismatica”, forma di potere primitivo e comunque antecedente a quello razionale, che è però destinato a riapparire proprio di fronte alla espunzione del politico e della sua necessaria energia da parte del dominio astratto, automatico, burocratico, algoritmico, calcolatorio conquistato dalla sfera economica. È la persona carismatica, o il profeta, che fa risorgere il politico in contrapposizione all’economico. La persona dotata di carismi ‒ secondo le note nozioni paoline ‒ può guidare la Chiesa in opposizione alla guida strutturata dal diritto. La guida carismatica, in nome di Cristo, non può che stabilire una struttura verticale e gerarchica del potere. La persona carismatica viene in contrapposizione con altri due tipi di persone esercitanti il potere: il pater familias che lo esercita tramite la oikonomia nella famiglia e l’imprenditore o manager che lo esercita tramite la burocrazia nell’impresa. Esposito sottolinea giustamente come Weber abbia visto la presenza nel potere carismatico di una sostanziale anti-economicità12. Non si tratta solo di una idiosincrasia con il linguaggio economico che è, chiaramente, incapace di concepire fra i suoi soggetti l’esistenza di un tale tipo di potere, ma di una differenza sostanziale con altri tipi di potere come quello antico del pater familias e quello moderno del burocrate o manager che sono essenzialmente di tipo economico13. Sul piano teologico-politico, si evidenziano sia una differenza che una convergenza interne al pensiero weberiano: da un lato, l’etica calvinista appare essenzialmente economica nel suo generare l’etica capitalistica, ma, da

12 «Il carisma “puro” ‒ in antitesi a ogni potere “patriarcale” ‒ rappresenta l’opposto di ogni economia ordinata; esso è una potenza, e anzi proprio la potenza dell’antieconomicità» (Weber 1961, 442). 13 «L’antagonismo tra carisma e vita quotidiana si ritrova anche sul terreno dell’economia specificamente capitalistica; solamente che qui non si contrappongono più il carisma e la “casa”, ma il carisma e l’“impresa”» (Weber 1961, 428).

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un altro lato, il santo calvinista appare dotato del potere carismatico. Più che accentuare una divergenza, si tratta invece, secondo noi, di sottolineare la coesistenza della macchinazione teologico-politica con l’apparato teologico-economico. Anche Weber e Schmitt convergono sulla centralità della persona nella sovranità politica, ma divergono sulla relazione della Chiesa con la persona. Per Weber la Chiesa segna l’affermazione di una istituzione di diritto ‒ l’ufficio ‒ sul carisma, al contrario della setta, in cui sgorga il potere personale del carisma14; figure paradigmatiche di questa opposizione sono, da un lato, il sacerdote che è legittimato solo dal suo ufficio e parla per conto della sua impresa, la Chiesa, e, dall’altro lato, il profeta, o il capo carismatico della setta, che è legittimato solo dalle sue doti personali e parla per proprio conto15. Al contrario, per Schmitt, sebbene egli concordi con Weber per quanto riguarda il legame fra Chiesa e diritto, la Chiesa non solo non è la negazione della persona concreta, ma integrando e non opponendo la persona all’ufficio, egli

14 «Ciò che noi intendiamo con il nome di “profeta” è un portatore di carisma puramente personale, che annuncia, in forza della sua missione, una dottrina religiosa o un comando divino […] Decisiva per noi è la vocazione “personale”. Questa separa il profeta dal sacerdote. […] Certamente l’ufficio di sacerdote può essere congiunto a un carisma personale. Ma anche in questo caso il sacerdote, in quanto membro di un’impresa associativa di salvezza, resta legittimato dal suo ufficio; mentre il profeta, non diversamente dallo stregone carismatico, opera esclusivamente in virtù dei suoi doni personali» (Weber 1961, 446). 15 La personalità carismatica, secondo Esposito, appartiene per intero alla macchina teologico-politica, nel cui funzionamento l’Uno è diviso in due ambiti separati da un dislivello che li oppone pur unendoli, e si qualifica, come il santo calvinista, per «la sua divaricazione tra due realtà legate in un rapporto asimmetrico. Il suo specifico ruolo è, infatti, quello di trasportare in terra un valore ultraterreno, incarnato nel proprio corpo, come del resto accadde al più grande portatore di carisma, vale a dire Gesù. Come lui, il capo carismatico è perfettamente diviso, nel suo stesso corpo, tra cielo e terra, divino e mondano, bene e potere. Nel senso stretto che trae il proprio potere sugli altri dal valore che rappresenta, consentendo loro di parteciparvi. Solo a partire dalla distanza che la taglia in parti contrapposte può dominare la vita propria e altrui» (Esposito 2013, 42). Tuttavia la tensione fra le due parti mina la stabilità del potere carismatico indebolendo la parte personale e così si innesca una oscillazione, un pendolo storico in cui esso «scivola inevitabilmente nel potere tradizionale o in quello razionale ‒ fino a quando, con un contraccolpo pendolare, il dispositivo della persona non torni a risorgere nel cuore di essi» (Esposito 2013, 42).

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fa della Chiesa «la concreta rappresentazione personale di una personalità concreta» (Schmitt 1986, 47), l’idea che si fa persona e grazie a questa capacità di complexio oppositorum, di coesistenza e commistione di opposti, di “et-et”, “e questo e quello”, “sia questo sia quello”, non solo supera i dualismi ma riesce a formare e dominare la vita degli uomini ad un grado prima mai raggiunto.

3.6. Persona e soggetto: i filosofi nella macchina teologico-politica il soggetto che pensa, che ha rappresentazioni, non esiste. (Wittgenstein 1922, 5.631)

Una semplice analisi semantica del termine soggetto (subiectus) chiarisce il nesso paradossale fra libertà e obbedienza. Per diventare “soggetto” bisogna essere “assoggettato”, a se stessi o ad altri. Obbedienza e salvezza sono coniugati insieme dal cristianesimo, che, sul piano politico, crea prima la servitù degli abitanti dell’Impero e poi la sudditanza ai sovrani degli Stati. Il paradosso della coincidenza fra libertà e obbedienza, della coniugazione fra soggetto e suddito, insomma, della libertà assoggettata, è ben espresso dalla teoria dell’autorizzazione di Hobbes, «in base a cui il potere degli uomini è consegnato a colui che li rende tutti soggetti del proprio assoggettamento» (Esposito 2013, 114). Hobbes, all’interno di una disputa teologica sul dogma trinitario nella seconda meta del ‘600 inglese e nota come controversia sociniana, interpreta Cristo e lo Spirito santo (e anche, curiosamente, Mosè) come ministri e rappresentanti di Dio, ma non partecipi della sua sostanza. Questa interpretazione ha, evidentemente, una replicazione nel pensiero politico di Hobbes, per cui i ministri nominati dal sovrano svolgono una funzione delegata, ma non partecipano del suo potere. Per gli individui aderenti al patto che crea lo Stato accade contemporaneamente, da un lato, di diventare persone giuridiche, all’interno del sistema di diritto dello Stato creato, e, dall’altro, di essere incorporati nella persona del sovrano. Come dice Esposito (2013, 120) si tratta di «una modalità che articola inclusione di diritto ed esclusione di fatto […] Certo, il rappresentante include il rappresentato ma al contempo

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lo esclude dalla forma attiva della rappresentanza, sospendendo in questo modo l’unità a una intrinseca separazione». Il ruolo cruciale nella creazione di quel modello di obbedienza volontaria ‒ o libera obbedienza ‒ che va La Boétie al corrente neo-ordoliberalismo, è giocato dal concetto di autorizzazione, che è l’invenzione giuridica di Hobbes nel Leviatano. Qui si forma la libera scelta degli individui aderenti al patto di cedere la loro volontà al sovrano, mediante l’autorizzazione al medesimo di assumerne la rappresentanza. Qual è l’effetto di tale autorizzazione? Che l’individuo non avrà più da ribellarsi di fronte alle decisioni del potere sovrano, perché indirettamente le decisioni del sovrano sono le proprie decisioni, come ben rivela il noto caso limite secondo cui un individuo innocente deve comunque accettare l’ingiusta condanna16. Qui si forma il vero significato ambivalente e teologico-politico del termine subiectus, che indica la persona come, al tempo stesso, il soggetto e il suddito assoggettato. Né il potere politico esiste prima che il popolo lo fondi nel sovrano, né il popolo esiste come corpo, prima che gli individui lo costituiscano artificialmente attraverso il patto. Quindi, con il patto, il popolo si forma e consiste di persone civili, mentre altrimenti non vi sarebbe popolo ma solo una moltitudine di individui; inoltre, la volizione sia della singola persona civile che del popolo come unità esiste e si esprime soltanto tramite il suo rappresentante. Quando Hobbes afferma nel De Cive che in un regime monarchico «il re è il popolo», si manifesta il paradosso per il quale il popolo, originariamente massa disordinata di individui, diventa tale solo attraverso l’unicità del potere sovrano17. Gli individui diventano popolo solo se obbediscono ciecamente alla volontà del re.

16 Come noto, il patto costitutivo della sovranità contiene due elementi, il trasferimento del diritto naturale e l’autorizzazione: «Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile» (Hobbes, Leviatano, II, XVII). Con l’autorizzazione l’individuo si assume la responsabilità delle azioni del sovrano; da un lato, il sovrano è l’alter ego del suddito, dall’altro lato, a causa della sottomissione, è il suo dominus. 17 Al contrario, il popolo nel feudalesimo è un popolo di ceti e non di persone, e questo implica una contrapposizione rispetto all’elemento sovrano come il feudatario e il re.

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Ciò conduce al corollario del paradosso precedente: poiché il potere del sovrano non è estraneo al popolo ma è il potere del popolo su cui si fonda, allora non c’è niente fuori del popolo, il quale, di conseguenza, non avrà alcun potere estraneo a cui fare resistenza o opposizione. La persona non è un suddito ma si forma come soggetto nel momento in cui volontariamente si assoggetta. La costruzione hobbesiana, specialmente nella misura in cui esprime il concetto di rappresentanza, diventa, quindi, la base di ogni successiva dottrina dello Stato, e la sua logica viene riproposta anche da Kant (1983), quando ribadisce che fuori della rappresentanza non esiste popolo ma solo sudditi e che, quindi, non è possibile fare resistenza all’organo sovrano, come il monarca. Questo conduce ad un ulteriore paradosso (Duso 2003, 24) che sfata il senso comune ‒ per cui si penserebbe che la rappresentatività è più alta se è più alto il rapporto fra rappresentanti e rappresentati ‒ e che si può così formulare: quanto più aumenta il divario numerico tra rappresentanti e rappresentati, tanto più aumenta la rappresentatività. È per questo che Kant (2010) può affermare che, poiché l’elemento repubblicano ‒ nel senso di concepire lo Stato come res-publica ‒ è tanto più forte quanto più forte è la rappresentatività, allora un regime monarchico è più “repubblicano” di un regime con un numero maggiore di rappresentanti, e, al limite, la democrazia in cui tutti esercitano il potere è, in realtà, un governo dispotico. La persona concreta, la persona della sovranità, come elemento cruciale della teologia politica, si appalesa senza mezze misure in Hobbes e in Schmitt. Hobbes, per quanto filosofo e scienziato naturale, ma anche giurista ‒ quando, come annota Schmitt, il «pensiero giuridico non era ancora stato sopraffatto da quello delle scienze naturali» ‒ collega, nell’ambito politico, la decisionalità alla persona, mostrando di essere ancora scevro da quel positivismo giuridico che, invece, collegherà la decisione ad un ordinamento di norme astratte e impersonali: È indicativo che uno dei rappresentanti più coerenti della scienza naturale astratta del XVII secolo fosse così personalistico […] prescindendo dalla natura decisionistica del suo pensiero, questa è una delle ragioni per cui Hobbes, nonostante nominalismo e scienze naturali, nonostante la sua riduzione dell’individuo all’atomo, rimane tuttavia personalista (Schmitt 1972, 58, 70).

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Lo Stato di Hobbes è, infatti, una persona, sebbene mitologica e mostruosa, cioè il Leviatano. Questo personalismo «non significa per lui nessun antropomorfismo, da cui egli era del tutto libero: si trattava piuttosto di una necessità metodologica e sistematica del suo pensiero giuridico» (Schmitt 1972, 70). A sua volta, Schmitt, nella sua nota polemica con Kelsen (che, ricordiamo, fu maestro di Voegelin, ma poi divenne suo oppositore), per il cui positivismo giuridico la posizione di potere non può appartenere a una persona né reale, né fittizia, ma solo all’unità del sistema normativo, sostiene che tale unità non può aversi e mantenersi senza che il punto di riferimento sia una persona che in sé la incarni concretamente18. La macchina teologico-politica cristiana si basa per il suo funzionamento su una definizione generalmente bi-componente e dualistica del singolo individuo; tale definizione internamente dualistica è a sua volta duplice, perché viene derivata da due ambiti diversi: i) dall’ambito giuridico del diritto romano, per cui ‒ prima definizione ‒ un uomo è sia persona che cosa, oppure ii) dalla teologia agostinana, per cui ‒ seconda definizione ‒ un uomo è sia anima che corpo, col secondo ancillare alla prima19. Locke si allontana decisamente dall’identità personale del pensiero antico, fatta di una sostanza immutabile, declinabile solo per differenti qualità. Come noto, Locke separa i concetti di uomo e di persona, il primo inteso come corpo vivente di materiali organizzati,

18 Secondo Schmitt (1972, 45-47), per Kelsen «lo Stato, cioè l’ordinamento giuridico, è un sistema di riferimenti ad un punto di riferimento finale e ad una norma fondamentale finale» ma, sebbene lo si trovi «interessante mitologia matematica, secondo la quale un punto deve essere un ordinamento e un sistema e deve identificarsi con una norma», di fatto, ciò «risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo», cosa peraltro esplicita in Kelsen, laddove nel suo Das Problem der Souveränität und die Theorie des Välkerrechts, afferma: «il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Schmitt chiosa: «Di fatto si tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto» (Schmitt 1972, 47). 19 Esposito (2013) analizza i passaggi che si manifestano nel concetto di persona nel corso dei secoli, da Gaio e Tertulliano fino a Carl Schmitt e ai contemporanei Peter Singer e Hugo Tristram Engelhardt passando, fra gli altri, per Hobbes, Locke, Kant e Hegel, e, quindi, ricostruisce le drastiche decostruzioni di quel concetto avvenute nei secoli da Averroè a Deleuze.

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la seconda definita dalla coscienza e dalla memoria che consentono di individuare una identità che sia differente da quella di tutti gli altri. Da un lato l’uomo non è più definito tale per la sua ragione ma per la sua biologia: «Chiunque infatti veda una creatura fatta come lui, anche se in tutta la sua vita non avesse più raziocinio di un gatto o di un pappagallo, lo chiamerebbe ancora uomo; e chiunque sentisse un gatto od un pappagallo discorrere, ragionare, filosofare, lo chiamerebbe tuttavia e lo considererebbe null’altro che un gatto o un pappagallo» (Locke 1971, libro secondo, capitolo XXVII). Dall’altro lato, «fin dove questa coscienza può essere estesa indietro ad una qualsiasi azione o pensiero del passato, fin lì giunge l’identità di quella persona» (Locke 1971, libro secondo, capitolo XXVII). Locke conclude dicendo che, sebbene «nel modo di parlare corrente, la stessa persona e lo stesso uomo rappresentano una cosa sola […] È soltanto la coscienza che unisce le azioni per formare la stessa persona […] sicché chiunque abbia la coscienza di azioni presenti e passate è la stessa persona cui appartengono entrambe» (Locke 1971, cap. XXVII, par. 17-18, 377 399). E Locke ‒ per esemplificare il fatto di attribuire alla memoria‒coscienza il primato fra gli elementi che servono nella definizione della persona ‒ scrive che se avesse coscienza di aver visto il diluvio universale nel mentre che sta scrivendo, allora sarebbe anche senz’altro certo che si tratterebbe in entrambi i casi, seppure così lontani fra loro, del medesimo Io, anche se non si trattasse della medesima anima o del medesimo corpo. Locke si imbarca in un riflessione, in sé piuttosto eccentrica20, su cosa accade dopo la morte e la resurrezione: cosa accade alla persona se dopo la morte fisica si incarna in un altro corpo fisico o dopo la resurrezione il suo corpo non è esattamente lo stesso della vita terrena? Ovviamente il dilemma è estendibile anche, per

20 Per meglio inquadrare nel contesto storico le domande affrontate da Locke, è illustrativo ricordare che nei dibattiti teologici del tempo, che tramite i teologi platonici cantabrigensi non potevano non riguardare anche la metempsicosi, apparve una disputa solo apparentemente bizzarra «sul caso di due gemelle siamesi, unite nella vagina e nel retto, delle quali ci si chiedeva quante anime avessero ‒ se una o due; così come ci si interrogava sulle modalità di battesimo di un bambino deforme nato con due teste. In entrambi i casi poteva dirsi che si trattava sia di una persona con due corpi sia di un solo corpo appartenente a due persone» (Esposito 2013, 123-124).

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esempio, a chi è invecchiato oppure impazzito: il vecchio di oggi è lo stesso giovane di ieri così come il folle di oggi è lo stesso sano di mente di ieri? È possibile immaginare che due persone diverse siano rappresentate dallo stesso singolo uomo in età diverse o che due singoli uomini rappresentino la medesima persona? Altrettanto ovviamente, in questa sede non interessa tanto la questione in sé, quanto le conseguenze che da essa ne traggono Locke e il pensiero moderno in tema di definizione del soggetto umano e quanto tale definizione sia rilevante sia per la forma di governamentalità basata sulla macchina teologico-politica (cioè la condotta dominante) che per l’affermarsi delle contro-condotte. Qual è la soluzione che Locke dà a quel dilemma? La soluzione è quella di separare la persona dalla sostanza del corpo per poi definirla esclusivamente in base a un criterio puramente “attributivo”: perché qualcuno possa assumere tale titolo deve provare, innanzitutto a se stesso, di essere il medesimo individuo nel corso del tempo e perfino, una volta accettato il dogma della Resurrezione, da morto, allorché la sua anima dovesse passare all’interno di un altro corpo (Esposito 2013, 124).

Il nesso di questa apparentemente astratta argomentazione sul tema metafisico-religioso della relazione fra anima, corpo, individuo e persona, in un contesto di morte, resurrezione, trasmigrazione di anime ecc., con la macchina teologico politica può essere evidenziato collegando ad essa la relazione fra Resurrezione e Giudizio divino. Infatti, la prima ha ovviamente a che fare con la continuità o meno della persona, la seconda con la Giustizia mondana che a quella divina si rifà come modello. Se si ritiene che sia il corpo, sia l’anima siano entrambi necessari per formare l’uomo, allora nel caso di una trasmigrazione dell’anima in un altro corpo essa non sarebbe sufficiente per formare il medesimo uomo di cui ha abbandonato il corpo. Locke si domanda: se l’anima di un principe, che avesse la coscienza della vita passata del principe, entrasse nel corpo di un calzolaio e lo informasse non appena l’anima sua l’avesse abbandonato, sarebbe la stessa persona del principe, responsabile solo delle azioni del principe; ma chi direbbe che si tratta dello stesso uomo? (Locke 1971, cap. XXVII, par. 17, 399).

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Poiché anche il corpo è necessario, per tutti gli osservatori si tratterebbe ‒ a dispetto delle idee principesche che potrebbe esprimere il corpo del calzolaio ‒ sempre del calzolaio e non del principe. Il collegamento fra aspetto etico ed aspetto giuridico si forma nel concetto di persona, che per Locke è un termine giuridico per attribuire le azioni, che rientrano nel dominio giuridico e sono eticamente connotabili come meritevoli o colpevoli, ad un agente; ma ciò è possibile solo se l’agente ha una coscienza che lo fa persona, ovvero che lo rende coinvolto e responsabile non solo per il presente ma anche per il passato sulle medesime basi e ragioni21. Il tribunale che giudica e l’individuo che è giudicato devono essere entrambi certi che l’“imputato” sia la medesima persona che ha compiuto coscientemente una determinata azione che rientra nel dominio forense. Per Locke, la persona si definisce per «la possibilità di imputare a un individuo la responsabilità delle sue azioni secondo un giudizio, di innocenza o colpevolezza, formulato da un giudice virtuale che può essere un altro o anche se stesso» (Esposito 2013, 124). Locke de-sostanzializza la persona costruendola invece su un minimum definitorio giuridico-etico basato su un solo carattere fondamentale e imprescindibile: l’accountability22. Si diventa soggetti nel duplice senso di subiectum o suddito alla legge e di

21 «Solo mediante la coscienza la personalità si estende al di là dell’esistenza presente fino al passato, e con ciò ne viene coinvolta e ne diventa responsabile; riconosce come sue e imputa a se stessa azioni passate sulla stessa base e per la stessa ragione per cui lo fa per azioni presenti» (Locke 1971, cap. XXVII, par. 28, 385 407). Non è, però, per un giudice terreno un compito facile l’imputazione perché è possibile che «sebbene il castigo sia connesso con la personalità e la personalità con la coscienza, e sebbene forse l’ubriaco non è cosciente di ciò che ha fatto, ‒ i tribunali umani tuttavia lo puniscono giustamente» (Locke 1971, 404), mentre è ragionevolmente ipotizzabile che almeno nel giorno del Giudizio «nessuno verrà chiamato a rispondere di ciò di cui non sa nulla; ma riceverà quello che gli è dovuto» (Locke 1971, cap. XXVII, par 24, 382 404). 22 «Non importa se colui che dice «io» abbia una determinata sostanza ‒ se al suo corpo corrisponda un’anima o se a tale anima possano essere ascritte date qualità. Basta che egli risponda di sé, e dei suoi atti, riconoscendo di essere colui che li ha commessi. È quanto Locke intende per accountability» (Esposito 2013, 125).

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“proprietario” di una unica coscienza e personalità. Questa concezione giuridico-etica della persona costituisce l’amo col quale la macchina teologico-politica aggancia saldamente gli individui: «l’uomo risulta agente, e cioè soggetto, solo in quanto assoggettato alle leggi e dunque oggetto di imputazione» (Esposito 2013, 126). La coscienza, intesa come certezza della proprietà dello spirito che sta percependo, è fondamentale per qualificare l’accountability non solo come «responsabilità ‒ […] necessità interiore di rendere conto di sé ‒ ma anche […] certificazione contabile della proprietà di se stesso» (Esposito 2013, 127). Con la definizione di individuo proprietario della propria persona, Locke «apre una filiera alla fine della quale, riattivando il lessico teologico-politico della sovranità, [John Stuart] Mill potrà affermare che “su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano”» (Esposito 2013, 126). L’accountability della persona, così introdotta, viene estesa e intesa all’interno del meccanismo di governo degli individui, nel senso che ciascuno è chiamato a rendere conto delle proprie azioni, a riferire di sé e dei propri atti, a chi detiene il potere, che peraltro lascia le azioni da scegliere al singolo: se la moderna governance delle istituzioni private (p.e. imprese) e pubbliche esalta l’accountability e la racconta come il dovere che chi prende decisioni ha di rendere conto delle stesse e di risponderne delle conseguenze, ammantandosi così di un alone liberale di anti-sovranità, in realtà l’accountability non è altro che la modalità con cui il potere si relaziona alla “vita” degli individui, e ciò sottolinea il fatto che essi sono soggetti “liberi” solo nella misura in cui debbono rendicontare delle proprie azioni, venendo quindi premiati o puniti. Il concetto di libertà di Mill viene traslato ‒ aggiornando la presa teologico-politica ‒ in modo paradossale: l’individuo è sovrano su se stesso solo se e proprio perché è soggetto ad accountability verso altri soggetti. Questi ultimi, mentre nel mondo post-hobbesiano o post-lockeano erano unici e posizionati verticalmente come il Sovrano e la Legge, nel contemporaneo mondo neo-ordoliberale sono soggetti multipli spesso orizzontalmente posti e impersonalmente definiti (agenzie, commissioni, tavoli, mercati ecc.). In altre parole, con l’accountability l’individuo è obbligato a informare tali soggetti delle sue azioni correnti, passate

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o future, può essere chiamato a giustificarle, per queste è valutato, secondo criteri in genere estranei al diritto e che sono invece posti da questi soggetti, e per queste può essere sanzionato. Quindi più sovranità su se stessi implica intrinsecamente più accountability verso altri soggetti, più “obbligazioni”, più assoggettamento. È questo, secondo noi, un altro modo per vedere il fondamento del dispositivo governamentale contemporaneo di cui parla Foucault, per cui il potere produce più libertà per i singoli allo scopo di ottenere più volontario assoggettamento. Locke è seguito da Kant, che ne condivide l’aspetto essenziale per il funzionamento della macchina teologico-politica, vale a dire il dispositivo basato sul concetto di persona, ovvero il costituirsi del soggetto tramite il processo di soggettivazione per assoggettamento. Infatti, anche per Kant è l’imputabilità di pensieri e azioni nel corso del tempo ad un medesimo soggetto a costituirne la persona: Persona è quel soggetto, le cui azioni sono suscettibili di una imputazione. La personalità morale non è, dunque, altro che la libertà di un essere ragionevole sottomesso a leggi morali […], e da ciò segue che una persona non può essere soggetta a nessun’altra legge che a quelle che essa stessa (o sola, o almeno nello stesso tempo con altri) si dà (Kant 1965, 399).

Nello specifico, la formulazione kantiana della persona può definirsi come «quel modo di costituzione del soggetto che lo sottomette alla legge che egli stesso si è data» (Esposito 2013, 128). Però Kant è avvertito della difficoltà logica insita in tale definizione, dovuta al fatto che il soggetto dovrebbe essere al tempo stesso sia legiferatore che imputato della legge da lui posta; ma se chi fa la legge penale e chi da questa è punito come delinquente è paradossalmente la stessa persona, allora appare una evidente aporia logica: se la persona è un delinquente come può essa aver stabilito la legge penale23? Per risolvere il dilemma, il soggetto è ulteriormente suddiviso da Kant in due perso-

23 «È impossibile che io, come cooperante alla legislazione, cioè dettante la legge penale, sia la stessa persona che, come suddito, è punito in nome di questa legge, perché, come tale, cioè come delinquente, è impossibile che io abbia voce nell’opera legislatrice» (Kant 1965, 525).

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ne, l’una superiore ‒ noumenica ‒ che costantemente mette sotto giudizio l’altra subalterna ‒ fenomenica ‒, come se quest’ultima fosse una persona differente. Si ha qui una scissione permanente per tutta la vita dell’individuo in due persone24, l’una che giudica l’altra, l’una di natura spirituale e morale, l’altra animale. Inoltre questa doppia personalità implicata nel soggetto umano, che si scinde in una parte morale che esclude includendo la parte animale secondo il processo del dispositivo della persona, conduce Kant a ritenere, in barba all’hara-kiri televisivo di Mishima, che un uomo sia padrone ma non proprietario di se stesso e quindi non possa disporre di sé a proprio piacimento in quanto ha un dovere da rispettare nei confronti dell’umanità che contiene: Un uomo può ben essere padrone di se stesso (sui iuris), ma non proprietario di se stesso (sui dominus) (non può disporre di se stesso a piacimento), e a più forte ragione degli altri uomini, perché egli è responsabile dell’umanità che risiede nella sua propria persona (Kant 1965, 452).

3.7. Teorie “maledette” dell’impersonalità divina e umana Che si tratti di pensare il divenire, o di esprimerlo, o anche di percepirlo, noi non facciamo mai altro che azionare una specie di cinematografo interiore […] il meccanismo della nostra conoscenza abituale è di natura cinematografica. (Bergson 2002, 250)

Il primo attacco al funzionamento della macchina teologico-politica appare con il Gran Commento di Averroè al De anima di Aristotele. Il filosofo andaluso, che influenzò anche Dante per la sua posizione secondo la quale la conoscenza è interamente raggiungibile nella vita terrena solo per una cerchia ristretta di eletti, appare oggetto di attacchi tanto feroci da farne un pensatore “maledetto”25.

24 Quindi, la scissione dell’individuo teorizzata da Kant differisce dalla tesi di Locke secondo cui la scissione dell’individuo concerneva periodi diversi con stati psichici diversi (ad esempio salute mentale o follia). 25 Esilio, rogo pubblico delle opere nell’ambiente islamico, condanna della Chiesa, denigrazione da parte degli intellettuali cristiani, sono l’emblema della maledizione calata su Averroè, in questo simile a quella che circonderà

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L’Averroè interpretabile nel modo più strettamente cosmologico-politico, ovvero riguardo alla corrispondenza fra i due ambiti ‒ la struttura del cosmo e la struttura della società ‒ tipica delle concezioni dell’epoca, non differisce dalle idee prevalenti nel Medioevo. Rispetto al polo cosmologico, egli, come Aristotele e il tardo-platonismo dell’emanatismo, gerarchizza per qualità superiori gli enti in base alla loro vicinanza o lontananza dal principio primo, il primum movens immobile, con l’uomo posto come ente intermedio fra il celeste e il terrestre. Rispetto al polo sociale, la società si organizza gerarchicamente in corrispondenza biunivoca con la gerarchia cosmologica. Pertanto, il governo della società dovrebbe spettare a chi è collocato più vicino al centro creatore, ovvero a quella élite fra gli uomini la cui natura è determinata da una maggiore vicinanza al centro divino e che possono comprenderne e attuarne i piani. Chi è compreso in questa élite? I saggi, i filosofi. Quale caratteristica superiore posseggono e che li rende atti alla funzione di comando? La capacità conoscitiva, l’uso della ragione dimostrativa ‒ talento del tutto innato, quindi per grazia ‒ che permette loro di connettersi all’intelletto materiale separato, cosa che è preclusa al resto dell’umanità (sebbene la facoltà della ragione sia comune a tutti gli uomini)26.

Spinoza. Come esemplifica Esposito (2013, 158-159), Papa Giovanni XXI, nel 1270, mette all’indice prima 13 e poi 219 proposizioni averroiste, Duns Scoto lo appella “maledictus”, Petrarca “cane arrabbiato latrante contro la fede cattolica”, Lorenzo Valla “sozzo ubriacone analfabeta”, Leibniz asserisce che con lui “si oltrepassino i confini della ragione” e, più recentemente, Renan che “meriterebbe di figurare negli annali della demenza e non in quelli della filosofia”. Fa, come noto, eccezione Dante, che nel Limbo in cui, diversamente dai teologi, colloca oltre ai fanciulli morti senza battesimo anche gli adulti sommi spiriti (spiriti magni) del mondo non cristiano, ospiti in un nobile castello, cinto da sette mura e difeso da un bel fiumicello, adatto alla loro nobile grandezza, e fra questi sommi spiriti mette, titolare di un intero verso, quell’“Averoìs, che ’l gran comento feo”. (Inferno IV.144). 26 La teoria averroista dell’intelletto è ovviamente complessa. Seguiamo qui l’efficace sintesi tratta da Esposito (2013, 159-160). Averroè distingue in intelletto «agente» e «materiale» (trascuriamo perché meno rilevanti altri tre tipi di intelletto), separati fra loro, in cui le forme intelligibili del secondo sono pure potenze attualizzate dal primo. La relazione tra i due intelletti è tale che «l’intelletto agente fa passare in atto le intenzioni intelligibili in potenza affinché l’intelletto materiale le riceva» e Averroè la illustra tramite la similitudine con quella tra la

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È questa connessione fra la facoltà immaginativa, di pensiero, di chi è dotato di una inclinazione, quella alla attività speculativa, e l’intelletto materiale, a consentire il congiungimento del finito corruttibile (la realtà fisica del corpo) con l’infinito eterno e incorruttibile dell’intelletto. Insomma, il raggiungimento per studio e speculazione della ‘conoscenza’ permetterebbe ai pochi eletti di percorrere la via della salvezza, come appare chiaro nelle parole di Averroè: Una volta spiegato che la condizione di felicità appartiene per necessità all’uomo non per il fatto di morire ma piuttosto a causa dell’attributo e forma che lo rendono immortale, qual è il modo per conseguirla? La strada per raggiungere l’Intelletto è lo studio e la speculazione27.

Possiamo osservare un certo sapore gnostico in questa frase, peraltro confermato nella concezione elitaria e salvifica della conoscenza presente in tutta la sua opera. In che modo questa filosofia dell’intelletto materiale impersonale e dell’elitismo sapienziale, che peraltro ambiva ad essere soprattutto una ermeneutica militante di un testo aristotelico, apre, invece, una ferita incolmabile a quella tipologia di governamentalità ‒ articolata fra teologia politica e teologia economica ‒ che regolava dall’avvento del cristianesimo gli uomini dell’Occidente politico? Per Esposito, la dirompente conseguenza della asserzione averroista di un intelletto separato è strettamente connessa col fatto che collocando l’intelletto «materiale» al di fuori dell’individuo se ne dissolve la caratteristica fondante del suo essere soggetto personale. Se il pensiero non è la caratteristica del sog-

luce solare (l’intelletto agente) e l’aria (l’intelletto materiale) in cui quest’ultima è il mezzo invisibile che permette alla luce del sole di illuminare gli oggetti. L’intelletto materiale è una unità eterna fuori dal corpo dei singoli individui, che quindi sono separati da esso, ma ad esso, tramite l’atto immaginativo, attingono il pensiero o, meglio, gli individui si fanno occasione di pensiero. La relazione tra la molteplicità delle persone individuali e l’unità, separata e impersonale, dell’intelletto appare quindi un punto critico. 27 La frase, dal Trattato sulla possibilità di unione tra intelletto materiale e intelletto agente nel corso della vita corporea (Epistola Averoys), è citata in Illuminati (1996, 198) e ripresa da Esposito (2013, 160-161).

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getto umano, in quanto la relazione fra pensiero e individuo è solo occasionale e passiva, il soggetto non possiede il pensiero ma semmai ne è posseduto, e il pensiero è una competenza (potenza) collettiva disponibile ad attualizzarsi in chiunque in modo transitorio e contingente. Infatti la macchina teologico-politica è basata sul soggetto personale, inteso sia come nel paradigma religioso cristiano, più o meno ereditato da quello romano, vale a dire come persona, sia come nel paradigma secolare moderno, ossia quale soggetto cartesiano cogitante. Se l’uomo “non intellegit, non cogitans” ma piuttosto è “cogitor”, cadono i fondamenti teologico-politici dell’assoggettamento alla Legge di un individuo responsabile. È Tommaso a dichiararsi limpidamente contro Averroè in un apposito trattato, avendo capito la gravità delle conseguenze della sparizione della persona responsabile dei propri pensieri ed atti per la morale e la legge espresse nel paradigma teologico-politico. Posto al centro dello snodo cruciale della speculazione scolastica in cui si bilanciano o si sbilanciano i pesi dell’intelletto e della volontà, Tommaso può enucleare chirurgicamente in poche parole il problema: Se perciò l’intelletto non è proprio del singolo uomo […] la volontà non sarà propria di quest’uomo singolo ma soltanto dell’intelletto separato. E cosi il singolo non sarà più padrone dei propri atti e nessuna sua azione potrà essere lodabile o biasimabile: il che significa sradicare i principi della filosofia morale ed è contrario alla vita umana (altrimenti a niente varrebbe il consigliarci e il promulgare leggi) (Tommaso, De unitate intellectus contra Averroistas (111.82))

Non si poteva esprimere più chiaramente il pericolo che Averroè rappresenta per l’asse teologico-politico intorno a cui ruota l’ordine giuridico cristiano e poi secolare-moderno. Per tale ordine sono rilevanti le due linee speculative ‒ sviluppate nelle dispute della prima e, soprattutto, della seconda scolastica ‒ rispetto al libero arbitrio che sfocerà nella distinzione fra Dio creatore che governa direttamente la sua creatura oppure che delega il governo del creato. Chi sottolinea la probabilità e la contingenza tanto quanto il primato della volontà sull’intelletto postula un mondo creato ‒ e poi direttamente governato ‒ attraverso un

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atto arbitrario e insindacabile della volontà di un Dio onnipotente, che esercita una sovranità assoluta sulla natura e sull’uomo, intervenendo in tutti i particolari della vita dei singoli e del mondo. Si tratta di un accentuato agostinismo che permeerà, per esempio, le posizioni di Pascal e dei giansenisti in campo cattolico e del calvinismo in campo protestante, ma per quanto riguarda il probabilismo e il primato della libertà e della volontà dell’uomo, anche dei loro oppositori teologici gesuiti. Chi, invece, sottolinea la necessità tanto quanto il primato dell’intelletto sulla volontà ritiene che la creazione non sia un atto arbitrario della volontà e che Dio non governa il mondo e non si cura dei suoi particolari e, quindi, nemmeno delle vicende umane. Averroè, ponendo il primato di un intelletto esterno all’uomo, implica che Dio rimanga in una posizione esterna e disinteressata alle particolarità delle vicende umane, e che quindi non governi il mondo, venendo allora a coincidere con la necessità e l’ordine della Natura. Si tratta, per esempio, di una posizione che sfocerà nel “Deus sive Natura” di Spinoza. Questa dicotomia relativa alla relazione fra Dio e il governo del mondo si trasporterà nel tempo fino a permeare anche l’approccio scientifico, dicotomia rappresentata con la metafora del Dio-orologiaio che interviene per caricare e manutenzionare regolarmente il suo orologio (Newton) oppure lo dota inizialmente con un programma più o meno efficiente (sicuramente efficiente per Leibniz) senza più intervenirvi (posizione anche questa sfociante nel Dio coincidente con necessità e natura di Spinoza). La metafora di Dio come orologiaio e il mondo come orologio ‒ usata già da autori inglesi come Boyle e Sir Walter Raleigh, o francesi come Fontenelle e Cartesio ‒ è utile per illustrare il modo dicotomico di operare della provvidenza rispetto al mondo, di cui sono alfieri i due più grandi geni della nascita della scienza, Newton e Leibniz. Newton considerava l’orologio della natura ordinato e regolare, ma bisognoso di un intervento speciale occasionale di Dio per mantenerlo in ordine, ovvero, in altre parole, una volta che Dio aveva creato il mondo la sua creatura non era poi rimasta autonoma. Per Leibniz, invece, non vi era alcun ruolo ulteriore per Dio una volta che aveva creato l’universo (fatti salvi gli interventi speciali come i miracoli e la grazia, che però non riguardavano l’ordine del cosmo), perché ammettere, come face-

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va Newton, che per sostenere l’ordine del cosmo fosse necessario un intervento intermittente o periodico da parte di Dio, avrebbe significato dubitare dell’originale opera di Dio28. Per tutta la fase iniziale dello sviluppo scientifico, almeno fino all’inizio dell’800, la dicotomia divideva gli uomini fra chi credeva che la natura avesse o non avesse bisogno dell’intervento della provvidenza divina29. Con Averroè e la sua tesi di un intelletto generale estraneo al singolo individuo, viene meno il concetto di persona che sta alla base della macchina teologico-politica. Questo accade sia che si guardi al concetto di persona a cui si possano imputare pensieri e atti (e comminare premi e punizioni) sviluppato nella linea Locke-Kant, sia che si guardi al concetto di persona coinvolto nella linea della sovranità di Hobbes-Hegel. Infatti, nel primo caso, la definizione di persona necessaria all’esistenza di un sistema giuridico-politico che assoggetta l’individuo alla legge richiede la personalità morale e giuridica a cui attribuire la paternità delle azioni compiute, e conseguentemente, sia la responsabilità morale di fronte al giudice religioso o divino che la responsabilità legale di fronte ai giudici dei tribunale. Ma affinché venga riconosciuta tale personalità, si richiede l’appartenenza esclusiva ‒ e continua, tramite la memoria ‒ del pensiero al soggetto. Nel secondo caso, la possibilità di esercitare la sovranità, la direzione degli uomini, richiede che questi ultimi posseggano il controllo razionale sulla propria volizione e siano padroni dei propri atti, il che, ovviamente richiede, a sua volta, «un’unità e insieme una

28 Come riporta Viner (1972, 17), Leibniz, in una lettera in cui commentava il sistema di Newton, annotò piuttosto sarcasticamente, che “secondo questa dottrina, Dio Onnipotente vuole di tanto in tanto sorvegliare l’orologio. Altrimenti smetterebbe di andare. Dio, a quanto pare, non era sufficientemente lungimirante per renderlo un moto perpetuo “. 29 Ancora Viner (1972, 17) riporta come illustrazione della persistenza della dicotomia che «di due contributori alla rivista gesuita Journal de Trevoux, uno nel 1703 e l’altro nel 1728, entrambi usando la metafora dell’orologio, uno di loro professasse una preferenza per il sistema leibniziano di una provvidenza che non interviene, mentre l’altro sostenesse che sarebbe stata richiesta ancora più irregolarità nel funzionamento dell’universo di quanto Newton avesse concesso se Dio avesse avuto spazio adeguato per il libero esercizio della sua sovranità e l’espressione del suo temperamento».

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divisione tra una parte, appunto razionale e volontaria, costituita dall’intelletto individuale e dal libero arbitrio, e un’altra zona, corporea o animale, soggetta alla prima come una sorta di schiavo interno» (Esposito 2013, 165). La macchina teologico-politica per esercitare il suo potere sugli individui abbisogna di un appropriato apparato semantico di persona. Poiché tale macchina funziona mediante l’obbligo giuridico-politico del soggetto nei confronti di un ordinamento autorizzato a chiedergli conto di ogni sua azione, il soggetto da assoggettare alla macchina è quello fornito sia dal pensiero teologico che dalla moderna filosofia che si stacca dalla teologia, ovvero l’uomo come incarnazione di un principio spirituale in un corpo vivente, una unità di anima e corpo, o mente e corpo, dove il secondo elemento è guidato dal primo. Allora, diventa cruciale stabilire quale sia il concetto di pensiero e quale tipo di relazione sia postulata fra esso e l’individuo. Chi non pensa non è un uomo, chi non pensa non è assoggettabile alla macchina. È evidente che una teoria, come quella averroista, interrompe il filo costituente tra pensiero e soggetto; il pensiero, anziché costituire il soggetto, rimane impersonale e al massimo riduce il soggetto personale a un intermediario, a un tramite, a un fruitore contingente e inconsapevole. L’uomo non possiede i suoi pensieri, ma ne è visitato come un albergo a ore, e quindi anche i suoi atti volontari collegati a quell’impersonale visitatore non gli appartengono pienamente. E se ciascun individuo non è più padrone dei propri pensieri e delle proprie azioni, si precludono le costruzioni etiche e giuridiche basate sul concetto di persona. Salta la macchina teologico-politica impiantata dal cristianesimo e ereditata sotto occulte e/o mentite spoglie dal moderno sedicente secolarizzato: Averroè disgrega non solo un blocco metafisico ma un orizzonte teologico-politico imperniato intorno alla semantica della persona (Esposito 2013, 164).

Delle caratteristiche innovative dell’averroismo, Esposito sottolinea l’aspetto dell’intelletto collettivo e dell’individuo che ne è solo un tramite temporaneo e occasionale. Se la volontà individuale non è più collegata a un intelletto individuale, ma temporaneamente e occasionalmente a un intelletto estraneo e impersonale che

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riguarda in potenza l’intera specie umana, allora anche le decisioni che la volontà individuale prende ineriscono al collettivo umano. Tale aspetto così sottolineato ha implicazioni politiche. Infatti, non si tratterebbe, quindi, solo della perdita del soggetto personale e, con essa, della rovina della macchina teologico-politica incentrata su tale soggetto, ma anche della novità consistente nel fatto che allora, con l’intelletto impersonale, le azioni e le scelte individuali, vengono a riguardare il collettivo, la specie umana, piuttosto che il singolo individuo. L’implicazione politica riguarda persino il significato stesso della politica e la forma basilare dell’ordine politico; entrambe subiscono un netto rovesciamento: A mutare, in tal caso, è l’intero significato di ciò che si definisce politica ‒ non più il dominio di sé orientato a quello sugli altri, ma la elaborazione di una risorsa che fin dall’inizio appartiene a tutti. In questo modo quella macchina teologico‒politica, che nel dispositivo della persona unisce gli uomini separandoli, si rovescia in una teoria dell’intelletto separato che li unifica in un destino comune (Esposito 2013, 165).

La linea ‒ spesso interrotta e sospesa ‒ in cui si dipana l’eliminazione del soggetto personale, sia quello cristiano-romano del diritto e della teologia, sia quello secolar-moderno della filosofia, compiutamente iniziata da Averroè, vede successive differenti tappe e declinazioni in Bruno, Spinoza, Hume, Nietzsche, Bergson, per finire a Deleuze. Infatti, Nardi (1965, 142) afferma che «per trovare un aperto sostenitore della dottrina averroistica bisogna lasciarsi dietro l’averroismo cristiano […] e arrivare a Giordano Bruno». Se i Padri avevano articolato le persone divine nella Trinità secondo un paradigma economico, che è alla base della macchina teologico-politica, Bruno afferma l’unità e l’impersonalità dell’intelligenza divina, emanata come luce nel cosmo creato in un tempo determinato e non necessariamente eterno, e lontana, quindi, da ogni intervento sovrano nel medesimo30. Inoltre, Bruno contesta anche il concetto di persona, decostruendo proprio quel soggetto che successivamente Car30 Bruno rifiuta l’idea trinitaria della divinità persino davanti agli inquisitori, dichiarando di aver «dubitato circa il nome di persona del Figliuolo e dello Spirito santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre».

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tesio porrà alle fondamenta del pensiero moderno (Esposito 2011). Quindi, nell’un caso della divinità trinitaria regnante e governante economicamente come nell’altro caso del concetto di persona ‒ ovvero le due gambe della macchina teologico-politica ‒ c’è il rifiuto di Bruno, che in tal modo amputa in modo totale la macchina teologico-politica. Un altro “maledetto”, Spinoza, delegittima l’ordine trinitario divino, pensando Dio come pura sostanza impersonale, come necessità immanente alla natura e agli uomini, e l’individuo come normalmente difettivo di memoria31 e nient’altro che «un momento di passaggio da uno stadio pre-individuale a un altro trans-individuale» (Esposito 2013, 180). Per Hume, in contrasto con Locke, l’identità personale ‒ un Io permanente ‒ è un’illusione, un feticcio, in quanto «noi non siamo altro che fasci o collezione di differenti percezioni che si susseguono l’un l’altra con una inconcepibile rapidità, e sono in perpetuo flusso e movimento» (Hume 1738), e, in ogni caso, l’elemento della memoria ‒ che è centrale in Locke ‒ non ha efficacia per percepire l’identità, se non altro a causa delle amnesie rispetto al passato a cui la memoria va soggetta. Tuttavia, se la ragione è inerme, allora passioni e sentimenti emergono nell’immersione sociale, e, tramite quell’inclinazione naturale che è l’immaginazione, si applicano al flusso instabile di isolate percezioni principi di somiglianza e di causalità, e così si stabilisce una certa costanza della memoria che consente la scoperta di una identità. L’autonomia che sia Cartesio che Kant riconoscevano al soggetto, viene negata da Hume, e viene sostituita «da un intreccio di sintesi passive e abitudini primarie precedenti la sua opposizione all’oggetto» (Esposito 2013, 214). Come afferma Deleuze nel suo saggio su Hume

31 «Accade infatti, talvolta, che un uomo subisca mutamenti tali che molto difficilmente potrei dire che è lo stesso uomo; come ho sentito raccontare di un certo Poeta Spagnolo [Gongora] che era stato colpito da una malattia, e benché guarito, era rimasto cosi smemorato della sua vita passata da non credere che le commedie e le tragedie che aveva scritto fossero sue, e avrebbe potuto, in verità, essere considerato un bambino se si fosse dimenticato anche la lingua materna» (Spinoza 1972, 301).

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Parlare del soggetto, adesso, è parlare di una durata, di un costume, di un’abitudine, di un’attesa. L’attesa è abitudine, l’abitudine è attesa: queste due determinazioni ‒ la spinta del passato e lo slancio verso l’avvenire ‒ sono i due aspetti di un medesimo dinamismo fondamentale, al centro della filosofia di Hume. L’abitudine è la radice costitutiva del soggetto, e ciò che il soggetto è nella propria radice è la sintesi del tempo, la sintesi del presente e del passato in vista dell’avvenire (Deleuze 2000, 91, corsivo nostro),

e, ancora, la mente diventa soggetto «quando mobilita la propria vividezza in maniera tale che una parte di cui essa è il carattere (l’impressione) la comunichi a un’altra parte (l’idea)32, e dall’altro lato, quando tutte le parti prese insieme risuonano producendo qualcosa di nuovo» (Deleuze 2000, 133). Nietzsche racconta, nel Crepuscolo degli idoli, l’errore generalizzato di aver considerato l’Io, il soggetto personale, come causa del pensiero: «chi avrebbe contestato il fatto che un pensiero viene causato? che l’Io causa il pensiero? […] il mondo divenne […] una molteplicità di soggetti agenti, in ogni accadere si suppose un soggetto agente (un “soggetto”)» (Nietzsche 1989, 143). Ma il filosofo, condensando gli sviluppi della riflessione sul tema, afferma che Oggi non crediamo più una parola di tutto questo. Il “mondo interiore” è pieno di chimere e di fuochi fatui: la volontà è uno di essi. La volontà non muove più nulla […] E poi l’Io! È diventato una favola, una finzione, un gioco di parole: ha cessato del tutto di pensare, di sentire e di volere! (Nietzsche 1989, 143).

Che il pensiero affiori nell’individuo, confuso nell’affollamento oscurante di altre sensazioni, venendo inspiegabilmente da un altrove ‒ creando così una immagine calzante di un uomo che “non intellegit”, che non pensa ma è “cogitur” e che quindi richiama l’uomo averroista separato dall’intelletto ‒, Nietzsche già lo dice nitidamente in un frammento del 1885, di tre anni antecedente le affermazioni sopra riportate: «il pensiero […] affiora in 32 Hume, come noto, divide le percezioni in impressioni ‒ che nascono da una presente sensazione (il dolore nel ferirsi) e idee ‒ che nascono soltanto dalle impressioni come loro sbiadite copie (il ricordo del dolore della ferita).

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me ‒ da dove? per quale ragione? Non lo so. Viene, indipendentemente dalla mia volontà, di solito ravvolto e oscurato da una folla di sentimenti, desideri, avversioni» (Nietzsche 2011, 277). Nietzsche individua nell’idea di libero arbitrio, nel personalismo e nel volontarismo, quell’errore per il quale “oggi non abbiamo più nessuna compassione” perché si tratta del più infame trucco dei teologi che esista, volto a rendere l’umanità “responsabile” nel senso loro, vale a dire a renderla dipendente da loro […] Ovunque si cerchino responsabilità, è sempre l’istinto del voler punire e giudicare a cercarle. Si è spogliato il divenire della sua innocenza, quando si riconduce l’essere in questo o in quel modo a volontà, a intenzioni, ad atti di responsabilità: la dottrina della volontà è stata inventata essenzialmente allo scopo di punire, ossia allo scopo del voler trovare colpevoli (Nietzsche 1989, 146-147).

Ancora, Nietzsche imputa alla casta sacerdotale l’invenzione del libero arbitrio e la conseguente imputazione dei pensieri e delle azioni al singolo individuo, come strumento per generare colpa e infliggere pena, per sottomettere gli individui stessi: i sacerdoti al vertice di antiche comunità, vollero crearsi un diritto a infliggere pene – oppure lo vollero creare a Dio… Gli esseri umani vennero pensati “liberi” perché potessero essere giudicati, puniti, – perché potessero diventare colpevoli: di conseguenza ogni azione doveva essere pensata come voluta, e l’origine di ogni azione riposta nella coscienza […] Oggi che […] noi immoralisti cerchiamo con tutte le forze di spazzar via dal mondo il concetto di colpa e il concetto di punizione, e di purificare da essi la psicologia, la storia, la natura, le istituzioni e le sanzioni sociali, non esiste ai nostri occhi opposizione più radicale di quella dei teologi, che con il loro concetto di “ordinamento morale del mondo” continuano a contaminare l’innocenza del divenire per mezzo della “punizione” e della “colpa”. Il Cristianesimo è una metafisica del boia […] (Nietzsche 1989, 146).

La cattiva coscienza è la coscienza della colpa, che origina nell’antichità dal debito che ogni uomo della comunità sentiva di pagare ai propri antenati per aver generato la vita e che, secondo Nietzsche, una casta sacerdotale giudaico-cristiana aveva trasformato in un debito permanente e irredimibile verso Dio (l’lncarnazione viene per la ‘remissione’ del debito), per cui l’ateismo o il nichilismo avrebbero consentito la liberazione da debito e colpa

3 - Governo teologico-politico-economico e soggetto

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(ovviamente solo per quegli eletti in grado di regredire alla coscienza “innocente” e liberarsi di quella cattiva della colpa). Nietzsche si domanda ‒ nella Genealogia della morale ‒ quale sia l’effetto sull’uomo della cattiva coscienza, del peso della colpa e, per illustrare quale possa essere tale effetto, ricorda quando Spinoza, che pure aveva relegato il bene e il male tra le fantasie umane, comunque avvertì un pomeriggio, incappando in chi sa quale ricordo, il famoso “morsus conscientiae” e lo descrisse come «l’opposto del “gaudium”, come una tristezza accompagnata dalla rappresentazione di un evento passato avvenuto in modo contrario ad ogni aspettativa». Peraltro, Nietzsche riconosce a Spinoza di aver riportato il mondo «in quella innocenza in cui si trovava prima che fosse escogitata la cattiva coscienza»33 (Nietzsche 2012, Seconda dissertazione, 14). La via della redenzione, per Nietzsche, si può trovare proprio nel far saltare il perno della macchina teologico-politica, nel sottrarre ad essa la produzione del soggetto responsabile, nell’eliminazione dell’imputazione e dell’accountability introdotte da Locke: Che nessuno venga più reso responsabile […] – solo così si ripristina l’innocenza del divenire […] soltanto così redimiamo il mondo (Nietzsche 1989, 147).

Infine, Deleuze postula un soggetto ‒ se ancora vogliamo chiamarlo tale ‒ alterato, impersonale, pre-individuale, che non è individuo né persona, ma nemmeno è l’indifferenziato: Ci hanno fatto rimanere a lungo nell’alternativa; o sarete degli individui e delle persone, o raggiungerete un fondo anonimo indifferenziato. Scopriamo invece un mondo di singolarità pre-individuali, impersonali che non si riducono né agli individui, né alle persone, né a un fondo indifferenziato (Deleuze 2007, 177).

Il soggetto è, piuttosto, una coesistenza plurale di singoli, che possono identificarsi nel passato ma che nel presente sono sog-

33 Esposito (2013, 197) afferma che Nietzsche, parlando di invenzione della cattiva coscienza, «allude appunto al meccanismo di attribuzione di responsabilità e di imputazione di colpa, posto dalla filiera teologico-politica moderna alla base dell’identità personale».

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getti a una trasformazione in atto che impedisce loro di identificarsi come Io: «Contro ogni personalismo, psicologico o linguistico […] noi crediamo che la nozione di soggetto abbia perso molto del suo interesse a vantaggio delle singolarità pre-individuali e delle individualità non-personali» (Deleuze 2010, 290). Dopo il breve excursus sul tema del soggetto e della persona da Averroè a Deleuze, torniamo, per concludere, al filosofo medievale per ricordarne il collegamento al filo rosso delle contro-condotte ‒ il filo gnostico ‒ seguito nei due paragrafi precedenti. È stato, infatti, proprio a partire da Averroè, che Voegelin ha delineato il carattere gnostico dell’élite esoterica che “conosce” e che per tale via si salva rispetto alla massa degli ignoranti (e dannati), carattere che si ripresenterà negli illuministi e nei rivoluzionari. Ma Averroè è anche il punto di partenza di una radicale decostruzione del concetto di persona, ovvero di quel dispositivo operante nella macchina teologico-economico-politica. Il “soggetto” che emerge lungo la linea speculativa aperta da Averroè e proseguita da altri pensatori, come lui “maledetti”, quali Spinoza e Nietzsche, è incompatibile con la persona necessaria al funzionamento di quella macchina. È incompatibile perché tale “soggetto” tende a sfuggire alla presa dei due bracci tentacolari della macchina, quello della soggettivazione-desoggettivazione e quello dell’assoggettamento. E sfugge alla presa della macchina perché esso tende all’impersonalizzazione, alla inversione causale e temporale, alla de-economicizzazione, al divenire, alla illusorietà. La crisi del dispositivo basato sul concetto di persona non significa tuttavia che la macchina viene resa inoperante. Altri dispositivi appaiono e proliferano; quel che accade è che la macchina teologico-economico-politica resta ma diventa coincidente – vedi il “capitalismo come religione” di Benjamin – con l’odierna manifestazione del capitalismo in forma di governo e ideologia neo-ordoliberale, nella quale paradossalmente muta una delle caratteristiche tipiche della macchina ‒ quella dell’occultamento ‒ e si viene, invece, a rivelare palesemente l’origine economica, cioè la macchina «mette allo scoperto la propria nervatura oikonomica» (Esposito 2013, 16).

Capitolo 4 VERSO LA GOVERNAMENTALITÀ CONTEMPORANEA

4.1. Le ‘dicotomie’ foucaultiane nell’affermazione dell’odierna politica neo-liberale Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini uguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. (Tocqueville 1992, 732-733)

Come può essere avvenuto lo slittamento del governo dalla applicazione della Legge (prodotta politicamente da un qualsivoglia regime politico fra cui quello democratico) ad una regolazione prodotta dal mercato e dagli individui agenti (e agiti) come fossero essi stessi un’impresa capitalistica? Il riferimento è alla ben nota teoria del “capitale umano”, secondo la quale quando gli operai percepiscono un salario dalla vendita della loro forza-lavoro, in realtà essi starebbero percependo il rendimento della loro attività di investitori nella produzione del proprio capitale umano, ovvero nella valorizzazione capitalista dell’impresa che coincide col loro corpo! Foucault individua due “soglie” principali di discontinuità tra le fasi e le ragioni di questo slittamento delle modalità di governo. La prima discontinuità appare quando, a partire dal ’700 e poi nell’800, l’homo economicus affianca e quindi sostituisce l’homo juridicus1; dapprima, in corrispondenza dell’affiancamento, na-

1 L’affiancamento fra le due visioni avviene esattamente nell’epoca illuminista: «Dopotutto, i primi economisti erano anche dei giuristi, persone che discutevano il problema del diritto pubblico. Beccaria, ad esempio, teorico del dirit-

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sce il problema di coniugare le esigenze del mercato, già luogo di verità e di legittimazione politica, con le esigenze giuspubbliciste di delimitare il potere sovrano alla luce delle esperienze statuali post-hobbesiane2, quindi, nel prosieguo, si manifesta infine la sostanziale vittoria del mercato3. Questo implica l’osservazione che il liberalismo, dunque, non significa tanto il riconoscimento giuridico dei diritti naturali degli individui, quanto il riconoscimento dei diritti naturali del mercato e dei connessi processi concorrenziali in tutti i campi, e che, di conseguenza, la governamentalità liberale non trova il limite nella libertà degli uomini, ma nel funzionamento, nel processo dinamico, nell’evoluzione interna dei mercati. La discontinuità, che fa passare da tecniche di governo piuttosto disciplinari alla moderna governamentalità “veridicata” dal mercato, viene facilmente rilevata in una diacronica lettura4:

to pubblico, in particolare nella forma del diritto penale, era anche un economista. Per quanto concerne Adam Smith, basta leggere La ricchezza delle nazioni, senza bisogno di ricorrere agli altri suoi testi, per accorgersi che il problema del diritto pubblico attraversa per intero la sua analisi. Bentham, teorico del diritto pubblico, era anche un economista e ha scritto dei libri di economia politica» (Foucault 2005, 45). 2 «In termini chiari, il problema che comincerà a porsi a partire dalla fine del XVIII secolo è questo: se c’è un’economia politica, che ne è allora del diritto pubblico?» (Foucault 2005, 45). 3 Foucault ricorda che, sebbene al giorno d’oggi l’accoppiamento tra economia politica e diritto pubblico possa sembrare bizzarro, il fatto che per molto tempo, fino a tempi relativamente recenti, le facoltà di legge in Francia e altrove erano anche facoltà di economia politica, «con grave disagio degli economisti e dei giuristi, non è altro che il prolungamento, senza dubbio abusivo in termini di storia, di un fatto originario fondamentale, e cioè non si poteva pensare l’economia politica, vale a dire la libertà del mercato, senza porre nel contempo il problema del diritto pubblico, e cioè della limitazione della potenza pubblica» (Foucault 2005, 45). 4 Se la lettura diacronica dei fenomeni è chiara, un formidabile oggetto d’indagine rimane quello di come un governo così intrinsecamente poco politico si sia potuto politicamente affermare: «Ma allora, il problema è ancora più difficile da risolvere: in che modo si è configurata una politica così poco politica, in che modo la governamentalità ha potuto darsi come l’asse stesso della politica, fino al punto di secolarizzare e imporre una ridefinizione della sovranità, della legge, del regolamento sulla base dei propri canoni concettuali?» (Karsenti 2006, 80).

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nel 1978, la lettura che Foucault fa del mercantilismo e del cameralismo del XVII secolo li caratterizza come meccanismi disciplinari, come tecniche messe in atto nel disciplinamento e nel controllo della popolazione, ma sempre in quanto esse hanno come fine la potenza dello Stato, e dunque in quanto restano destinate al consolidamento della sovranità. Con la governamentalità, la cui prima figura liberale è fornita dai fisiocrati, si sarebbe in presenza di qualcos’altro: una “fisica politica”, nel senso di un’azione che investe una naturalità, processi che sono all’opera naturalmente, regolarità già presenti nel mondo, una naturalità che non è tanto ciò che resiste alla politica quanto ciò in cui la politica penetra per definirvi zone di pertinenza (Karsenti 2006, 80).

Inoltre, l’altra soglia di discontinuità col passato si pone quando si affermano due visioni liberali, differenti tra loro, conseguenti alle due rivoluzioni borghesi, quella francese e quella inglese, dalle caratteristiche e ispirazioni radicalmente differenti ma entrambe utilizzate – sebbene con una netta prevalenza della seconda – per generare e giustificare quella caratteristica effettivamente unica che contraddistingue il liberalismo: con esso prevale il Governo e non il Regno, la governamentalità e non la sovranità politica, il mercato e non la legge, e così via. Rispetto alla prima discontinuità, osserviamo, quindi, il manifestarsi di un declino del ruolo del diritto nella sua funzione di limite esterno all’esercizio del potere a favore del ruolo sempre più prevalente dell’economia politica5. Rispetto alla seconda discontinuità, in cui si afferma una distinzione tra la via “rivoluzionaria” francese e quella “radicale” inglese, Foucault rileva che, mentre la prima – in linea con il giusnaturalismo del ’600 – pone l’esercizio del potere statale e l’attività economica sotto le condizioni dettate da una lunga lista di diritti imprescrittibili ed inviolabili della persona, la seconda – più in linea con la storia del liberalismo europeo – pone l’attività di governo in dipendenza della sua utilità per l’interesse dei singoli e di tutti, stabilendo così

5 «Potremmo parlare, dunque, di uno spostamento del centro di gravità del diritto pubblico. Il problema di gran lunga più importante del diritto pubblico non sarà più, come nel XVII e XVIII secolo, quello di stabilire in che modo fondare la sovranità, a quali condizioni il sovrano sarà legittimato, e a quali altre potrà esercitare legittimamente i suoi diritti, bensì decidere come fissare dei limiti giuridici all’esercizio di un potenza pubblica» (Foucault 2005, 46).

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anche gli ambiti di competenza pubblica. Ne emerge una prima caratteristica distintiva: mentre nel primo caso il diritto consiste in precetti giuridicamente sanzionati in via preventiva e stabile, nel secondo caso il diritto diventa il risultato temporaneo ed evolvente di un continuum di negoziazioni, contratti, transazioni, scambi (insomma del mercato), in cui, appunto, si ordinano e si compongono gli interessi molteplici e si crea insieme con l’utilità dei singoli, l’utilità generale. Un secondo carattere distintivo riguarda il significato del termine “legge”. Per Foucault la storia del liberalismo non si inscrive in una storia dialettica della politica, di cui il liberalismo rappresenti una sintesi più o meno riuscita e stabile in cui elementi eterogenei si omogeneizzano; anzi il liberalismo deve essere indagato non con un metodo dialettico ma con una logica della strategia in cui si cerca di individuare le connessioni possibili tra termini eterogenei che, comunque, pur connettendosi, non si omogeneizzano. Infatti, Foucault cerca di connettere due elementi eterogenei del percorso liberale, quello rivoluzionario dei diritti naturali e del diritto pubblico e quello utilitarista del governo economico e del diritto privato, che appaiono separatamente quando nel ’700 il regime assolutista con il suo stato di Polizia dai poteri illimitati viene superato. Quindi, il liberalismo prende due strade: da un lato, la via rivoluzionaria, giuridico-deduttiva, che si affida ai diritti imprescrittibili e che, in questo modo, riattiva, sotto un nuovo volto, una antica resistenza giuridica all’esercizio del potere pubblico; dall’altro, la via utilitarista, che parte dalla pratica governamentale e le trova un limite interno direttamente negli obbiettivi che questa si prefigge, mediante procedure di calcolo applicate a una natura analizzabile e penetrabile, quella che la popolazione, con gli interessi individuali e collettivi che la attraversano, raccoglie nel suo raggio d’azione (Karsenti 2006, 74).

Il liberalismo quindi è segnato da una ambiguità costitutiva, e sebbene la seconda via diventi quella dominante, rimangono più o meno vitali i punti e i momenti di connessione di entrambe le vie, dai quali si sprigiona il suo fato di crisi, instabilità, emergenza permanente, proliferazione di norme. Sono questi due sistemi, nella loro coesistenza, a segnare l’ambiguità del liberalismo europeo. E anche se sembra che l’uno, il secondo, abbia finito

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per dominare l’altro, non lo fa mai scomparire. Il liberalismo, fino alla fine, resta un misto. Esso non esiste, in quanto tale, che nel modo della crisi. Questo punto è fondamentale: da un capo all’altro della lunga storia che racconta Foucault, non c’è e non può esserci pacificazione o sintesi liberale (Karsenti 2006, 74).

Le due vie del liberalismo, quindi, contengono anche due significati distinti per le parole “legge” e “libertà”, che dipendono, da un punto di vista, dai diritti naturali inalienabili degli individui, dall’altro punto di vista, dalla naturalità degli interessi molteplici, mobili e soprattutto creatori di utilità degli individui: Di qui emergono due significati della parola legge (a seconda che la si veda dal lato del diritto o dal lato della natura, dato che l’idea di natura fa da contrappunto all’idea di naturalità degli interessi), così come due significati della parola libertà (fondata da un lato sui diritti inalienabili, con un forte riferimento al classico polo politico della sovranità, dall’altro sull’indipendenza dei governati, che sostituisce il principio di legittimazione con un principio di pertinenza e di verificazione) (Karsenti 2006, 73).

Se consideriamo il secondo significato, si tratta quindi di quella stessa libertà che pone l’azione dei governanti al vaglio di un criterio efficientista. Tuttavia, Foucault, dando una precisa definizione del concetto di eterogeneità, fa notare due punti importanti. Il primo è che le due vie, i dualismi nelle relazioni di potere sopra evidenziati – quella “giuridico-deduttiva” formale, unitaria e stabile, quella “radical-utilitarista” informale, plurale e mobile – sono sì costitutivamente opposte, ma rappresentano una eterogeneità piuttosto che una mutua esclusione6. Il secondo punto è che, essendo il liberalismo comprensibile più come tecnologia di governo che come ideologia, la sua logica di funzionamento

6 «Quando parlo di due diversi percorsi, non voglio dire che siamo di fronte a due sistemi separati, estranei, incompatibili, contraddittori, che si escludono a vicenda; voglio dire che esistono due procedure, due tipi di coerenza, due modi di fare che risultano, in un certo senso, eterogenei. Del resto è bene ricordare che l’eterogeneità non costituisce mai un principio di esclusione; o meglio ancora, l’eterogeneità non impedisce in nessun caso la coesistenza, la congiunzione, la connessione» (Foucault 2005, 49).

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non è di tipo dialettico ma strategico, dove con quest’ultimo concetto si intende la possibilità di mettere in connessione termini eterogenei che però restano separati7, al contrario della logica dialettica che tende a fondere in una superiore unità termini in contraddizione esclusiva8. Quindi la logica di funzionamento del liberalismo – inteso qui come tecnologia di governo e non come ideologia – non è dialettica, non mira al superamento in una «totalità riconciliata di diverse concezioni della legge, della libertà e del diritto». Invece, sposando la logica “strategica” come ragione della governamentalità liberale, abbiamo che la contingenza può implicare che, temporaneamente e con mobili configurazioni, l’arte di governo liberale possa giocare la carta di un approccio oppure l’altra, oppure giocarle insieme, magari l’una contro l’altra. In questo senso i due approcci hanno avuto punti di contatto, di tangenza, di permeabilizzazione, di connessione, di ibridazione, sempre strategici e contingenti9. Quindi, per Foucault, il liberalismo europeo del XIX e XX secolo presenta un’ambiguità costitutiva, un dualismo nell’interpretazione del potere, della sovranità, della legge e della libertà. Ma, poiché la storia, sebbene possa spesso mostrare coesistenze e convivenze di molteplicità altamente eterogenee, mostra sempre anche la preminenza di una qualche specifica razionalità connessa a un dispositivo di go7 «Sono due sistemi, quello dei diritti dell’uomo e dell’indipendenza dei governati, di cui non dirò che non si compenetrano; hanno tuttavia un’origine storica diversa, e implicano un’eterogeneità e una disparità – io credo – essenziali» (Foucault 2005, 49). 8 Foucault spiega che una «logica dialettica» è quella che «mette in gioco dei termini contraddittori nell’elemento dell’omogeneo. A questa logica io propongo piuttosto di sostituire quella che chiamerei una logica della strategia. Infatti, una logica della strategia non fa valere termini contraddittori in un elemento dell’omogeneo, destinato a garantire la loro risoluzione in unità; al contrario, ha la funzione di stabilire quali sono le connessioni possibili tra termini disparati, che restano tali. La logica della strategia è la logica della connessione dell’eterogeneo, non quella dell’omogeneizzazione del contraddittorio» (Foucault 2005, 49). 9 Infatti Foucault precisa che «tra questi due sistemi eterogenei – quello dell’assiomatica rivoluzionaria, del diritto pubblico e dei diritti dell’uomo, e la via empirica e utilitaristica che definisce la sfera d’indipendenza dei governati a partire dalla necessaria limitazione del governo – sussiste ovviamente una connessione, ed è una connessione incessante, con tutta una serie di ponti, di transiti, di giunture, di passaggi» (Foucault 2005, 50).

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vernamentalità potere-sapere, allora si può dire che la soluzione radical-utilitarista è stata sicuramente preminente in confronto a quella assiomatica-rivoluzionaria sia per la teoria che per la prassi della politica moderna e di quella odierna in particolare. Sembra quindi attiva in Foucault una griglia di lettura dei fenomeni storici di tipo “dualistico”, nel senso che vengono presentati sempre due approcci polarmente opposti nella definizione e nella prassi rispetto ad alcuni concetti-base della politica (ricordiamo la definizione di «grandi dicotomie» nell’approccio di Bobbio)10. In primis, l’oggetto del diritto pubblico cambia, fra il ’700 e l’800, passando dalla ricerca del fondamento, della legittimità e delle prerogative del sovrano, alla definizione dei limiti giuridici al potere pubblico. In questo senso Foucault – come abbiamo visto – individua uno spostamento del baricentro del diritto pubblico, per lo sfasamento dovuto alla congiunzione con l’economia politica, e per questa via, evidenzia una sottrazione al diritto pubblico di quella posizione privilegiata di tradizionale fondamento della sovranità, delle condizioni di legittimità del sovrano ossia dei diritti che il sovrano può esercitare legittimamente, come avveniva prima del XVII-XVIII secolo. L’irruzione dell’economia politica sposta l’asse stesso della legittimazione ponendo a fondamento di tutto

10 Bobbio (1985) pone l’accento sull’importanza metodologica per le varie discipline giuridiche, sociali, storiche di sottolineare la presenza di “grandi dicotomie” ‒ ad esempio nel campo giuridico la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico o nel campo delle scienze sociali, le grandi dicotomie come pace/guerra, democrazia/autocrazia, società/comunità, stato di natura / stato civile ‒ per delimitare, rappresentare, ordinare il proprio oggetto di studio. In particolare, Bobbio chiarisce quando metodologicamente si può ricorrere alla definizione di grande dicotomia: «Si può parlare correttamente di una grande dicotomia quando ci si trova di fronte a una distinzione di cui si può dimostrare l’idoneità: a) a dividere un universo in due sfere, congiuntamente esaustive, nel senso che tutti gli enti di quell’universo vi rientrano, nessuno escluso, e reciprocamente esclusive, nel senso che un ente compreso nella prima non può essere contemporaneamente compreso nella seconda; b) a stabilire una divisione che è insieme totale, in quanto tutti gli enti cui attualmente e potenzialmente la disciplina si riferisce debbono potervi rientrare, e principale, in quanto tende a far convergere verso di sé altre dicotomie che diventano rispetto ad essa secondarie» (Bobbio 1985, 3).

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il sistema di potere i limiti giuridici all’esercizio del potere da parte di ogni autorità pubblica. Questa regola della duplicità, della dicotomia, della biforcazione in due rami di un originario concetto, prosegue, in riferimento all’approccio alla politica che erompe tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, che, di conseguenza, si distingue in un approccio della Rivoluzione francese, chiamato rivoluzionario, rousseauiano, assiomatico, giuridico-deduttivo, e in un approccio inglese, chiamato radicale, utilitarista, induttivo e residuale. Nel primo approccio si parte dai diritti naturali originari, dell’uomo, e sulla base di essi si definisce la sfera del potere pubblico e dei suoi limiti rispetto al privato, istituendosi così un nesso e una continuità fra i giusnaturalisti e i rivoluzionari francesi. Foucault descrive così i contenuti distintivi del primo approccio: La prima è quella che chiamerei la via assiomatica giuridico-deduttiva: via seguita, almeno fino a un certo punto, dalla Rivoluzione francese, e che in fondo potremmo anche chiamare la via rousseauiana. In che cosa consiste? Prende le mosse, per l’appunto, non dal governo e dalla sua necessaria limitazione, bensì dal diritto, e in particolare dal diritto nella sua forma classica; tenta, cioè, di definire quali sono i diritti naturali o originari di ciascun individuo, per determinare in seguito a quali condizioni, a causa di cosa, secondo quali formalità ideali o storiche è stata accettata una limitazione o uno scambio di diritto. Consiste inoltre nel definire i diritti di cui si è accettata la cessione e, viceversa, quali sono i diritti a cui non è stata accordata alcuna cessione, e che restano perciò – in ogni condizione di causa, e sotto qualsiasi governo o regime politico – imprescrivibili. Infine […] dopo aver stabilito la suddivisione dei diritti, la sfera della sovranità e i limiti del suo diritto, si possono dedurre […] quelli che possiamo chiamare i confini della competenza del governo, entro la cornice fissata dall’armatura che costituisce la sovranità stessa. […] questo modo di procedere consiste nel partire dai diritti dell’uomo per giungere a stabilire i limiti della governabilità, passando attraverso la costituzione del sovrano. Questa via la chiamerei, in maniera approssimativa, la via rivoluzionaria. Si tratta di un modo di porre fin dall’inizio, e in una sorta di ricominciamento ideale o reale della società, dello stato, del sovrano, il problema della legittimità e della inaccessibilità dei diritti. […] questo modo di procedere, che pure è stato politicamente e storicamente quello dei rivoluzionari, può essere definito retroattivo, o retroazionario, nella misura in cui consiste nel riprendere il problema del diritto pubblico, che i giuristi avevano continuato a opporre alla ragion di stato del XVII e del XVIII secolo. Perciò siamo anche in grado di stabilire una continuità tra

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i teorici del diritto naturale del XVII secolo, e quelli che potremmo chiamare i giuristi e i legislatori della Rivoluzione francese (Foucault 2005, 46-47).

Riguardo alla seconda via, quella radicale inglese11, in essa si sostituisce alle questioni rousseauiane dei diritti originali, della legittimazione della sovranità, del Diritto che esprime la volontà generale, la questione dell’utilità – misurata empiricamente rispetto agli obiettivi di governo quali ricchezze, popolazione, ecc. – di ogni azione pubblica, che diventa il criterio della sua desiderabilità o meno. L’altra via consiste, invece, nel partire non dal diritto, ma dalla pratica di governo in quanto tale. Muovendo da questa pratica si cerca di analizzarla, in vista […] di definire i limiti di fatto, che si possono imporre alla governamentalità. Limiti di fatto che a volte è la storia o la tradizione a porre, o anche uno stato di cose storicamente determinato, ma che poi possono, anzi devono, essere determinati come limiti in un certo senso auspicabili […] in funzione degli obiettivi della governamentalità, degli oggetti con cui essa ha a che fare, delle risorse del paese, della sua popolazione, della sua economia, e così via. In breve, si tratta di promuovere l’analisi del governo, della sua pratica, dei suoi limiti di fatto e dei suoi limiti auspicabili […]. Meglio ancora, e più radicalmente, si tratta di far emergere ciò di cui sarebbe, per il governo, inutile interessarsi. Questo significa che la sfera di competenza del governo sarà ora definita, seguendo questa via, secondo il criterio di ciò che sarebbe utile o inutile, per il governo, fare o non fare. Il limite di competenza del governo sarà definito dall’utilità di un suo intervento.

11 Per amor di verità, continuando nelle dicotomie, Foucault sottolinea che anche il termine “radicale” ha avuto in Inghilterra un duplice contrapponibile significato. Infatti, «a proposito delle espressioni “radicalismo” e “radicale”» precisa che «il termine “radicale” era stato impiegato in Inghilterra (la parola, credo, risale alla fine del XVII o all’inizio del XVIII secolo) per designare –e questo è assai interessante – la posizione di coloro che, opponendosi agli abusi reali o possibili del sovrano, volevano far valere i diritti originari: quei famosi diritti originari che i popoli anglosassoni avrebbero detenuto prima dell’invasione dei normanni […]. Il radicalismo rappresentava la tendenza a far valere i diritti originari, nel senso che il diritto pubblico, nelle sue riflessioni storiche, poteva ritrovare i diritti fondamentali. Attualmente per il radicalismo inglese la parola “radicale” designa l’atteggiamento che consiste nel porre di continuo al governo, e più in generale alla governamentalità, la questione della sua utilità o mancanza di utilità» (Foucault 2005, 48).

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Chiedere continuamente a un governo, in ogni fase della sua azione e per ognuna delle sue istituzioni, antiche o recenti, se sia utile a che cosa, entro quali limiti, a quali condizioni; oppure, al contrario, chiedergli in base a cosa, a quali condizioni diventi inutile o addirittura dannoso, non è esattamente lo stesso che porgli il quesito, di natura rivoluzionaria, su quali siano i diritti originari, e in che modo li si possa far valere davanti a qualsiasi sovrano. Si tratta qui piuttosto della questione radicale, della questione del radicalismo inglese, il cui problema è infatti quello dell’utilità (Foucault 2005, 47).

Peraltro, Foucault ricorda che, se con la ragion di Stato si tende a esercitare una illimitata espansione verso l’interno dei poteri statali (tanto quanto quella verso l’esterno era limitata dal quadro della balance of powers degli accordi vestfaliani), allora si può interpretare la duplicità delle vie come differenza nelle tecnologie per ottenere comunque un obiettivo condiviso, quello della definizione dei poteri e dei limiti della sovranità: con la via rivoluzionaria la tecnologia è giuridica (lo Stato di diritto), con quella radicale la tecnologia è l’utilitarismo, il quale, sebbene costruito su basi filosofiche, si riduce sotto l’aspetto politico ad essere una pratica di governamentalità. Non si deve credere che il radicalismo politico inglese sia solo la proiezione, sul piano politico, di un’ideologia che potremmo chiamare utilitarista. […] il problema di questo radicalismo è usare la pratica di governo come base di definizione della sua sfera di competenza, in termini di utilità. Attenendosi a questo presupposto, l’utilitarismo mostra di essere tutt’altro che una filosofia o un’ideologia, costituendo invece una tecnologia di governo, così come il diritto pubblico, all’epoca della ragion di stato, rappresentava la forma di riflessione o, se preferite, la tecnologia giuridica con la quale si cercava di porre dei limiti alla linea di tendenza indefinita della ragion di stato (Foucault 2005, 47-48).

Quindi, se ci sono due approcci, quello rivoluzionario francese, giuridico di tipo giuspubblicistico, e quello radicale inglese, economicistico governamentale, ci sarà anche una dicotomia nell’idea di diritto. Col primo approccio, il diritto che regolamenta le sfere pubbliche e private è espressione della volontà gene-

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rale, col secondo è il risultato di un contratto12. Ne consegue che anche la libertà è intesa in un modo dualisticamente oppositivo, secondo un dualismo che è probabilmente primario e antecedente rispetto alle altre questioni connesse col concetto di libertà, come il dualismo libertà degli antichi/libertà dei moderni oppure libertà negativa/libertà positiva. «Abbiamo dunque – ritiene Foucault – due concezioni del tutto eterogenee della libertà: la prima formata a partire dai diritti dell’uomo, la seconda a partire dall’indipendenza dei governati» (Foucault 2005, 49). Poiché nel contrattualismo moderno l’istituzione dello Stato e del diritto, ovvero il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, risulterebbe da una cessione interessata da parte degli individui di alcuni diritti al fine di salvaguardare determinati interessi, allora, a prima vista, l’interesse individuale e la legge sembrerebbero perfettamente conciliabili. Invece, Foucault opera qui ancora una rilevante dicotomizzazione, questa volta rispetto al soggetto individuale, mettendo in opposizione due figure della soggettività, cioè il soggetto d’interesse e il soggetto di diritto. Fa la sua comparsa qui la figura dell’homo oeconomicus, definito appunto come soggetto di interesse (sujet d’intérêt), vale a dire come soggetto di scelte individuali a un tempo irriducibili, non trasferibili, incondizionatamente soggettive, insomma “interessate”. E, a dare un chiaro esempio di tali rigorose proprietà delle scelte umane, Foucault richiama un noto aforisma di Hume: «Non è contrario alla ragione preferire la distruzione del mondo intero a una scalfittura del mio dito»13. 12 Precisa Foucault: «nella via assiomatica di tipo rivoluzionario, la legge verrà concepita come l’espressione di una volontà, e avremo dunque un sistema volontà-legge. Il problema della volontà si ritrova anche al centro di tutti i problemi di diritto, ed è un’altra conferma del fatto che si tratta di una problematica di tipo fondamentalmente giuridico. La legge è dunque concepita come l’espressione di una volontà: una volontà collettiva, che manifesta la parte del diritto che gli individui hanno accettato di cedere, e la parte che vogliono invece conservare». Mentre nell’altra problematica, cioè «nella via radicale utilitarista, la legge sarà concepita come l’effetto di una transazione che giunge a separare, da un lato, la sfera d’intervento della potenza pubblica e, dall’altro, la sfera dell’indipendenza degli individui» (Foucault 2005, 48). 13 La traduzione italiana (Foucault 2005, 324, n. 15) riporta il termine «diritto» al posto di “dito”. Sebbene si tratti di un evidente refuso tipografico, ci pare che

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Più nel dettaglio, Foucault definisce l’homo oeconomicus ‒ che nasce alla fine del XVIII secolo ‒ come colui che obbedisce al proprio interesse, colui il cui interesse giunge spontaneamente a convergere con l’interesse degli altri. Dal punto di vista di una teoria del governo, l’homo oeconomicus è colui che non si deve toccare. Lo si lascia fare. È il soggetto, o l’oggetto del laissez-faire (Foucault 2005, 220).

Ed è proprio questa caratteristica unica di riconciliazione, nello stesso soggetto, di libertà di fare, da un lato, e di intrinseca maneggiabilità e governabilità, dall’altro lato, che permette al sistema politico di governo di considerare l’homo oeconomicus «come partner, interlocutore, come elemento di base di una nuova ragione di governo così come viene formulata nel XVIII secolo» (Foucault 2005, 221). Il soggetto d’interesse si afferma dunque come soggetto di diritto nel momento in cui accetta il trasferimento, o la cessione, attraverso cui viene istituito lo Stato. Non soltanto il diritto viene ad essere derivato dall’interesse, ma il soggetto di diritto continua a obbedire alle leggi solo perché comprende che è soggetto di un interesse. Il soggetto di interesse non solo esisterà sempre fin quando vi sarà un mondo di contratti, quindi un ordinamento giuridico, ma sopravanzerà, eccederà, ingloberà sempre il soggetto di diritto, a cui sarà sempre irriducibile. È infatti Hume a dirci che l’individuo che rispetta un contratto non lo fa perché voglia rispettarlo come fosse una legge, nel qual caso, quindi, diventerebbe un soggetto di diritto che riconosce se non la trascendenza comunque la superiorità legale di ciò che ha liberamente sottoscritto. Invece lo fa perché, perfettamente in linea col suo essere un puro soggetto di interesse, percepisce che il rispetto degli impegni gli offre la sicurezza di commerciare con profitto: cioè, non rispetta il contratto perché lo ha sottoscritto, ma perché ha “interesse” a che il contratto sia valido. Quindi un’altra dicotomia emerge: i due soggetti ‒ di diritto o di interesse ‒ obbediscono a

anche così espresso (una violazione del proprio diritto o interesse anziché del proprio dito) sarebbe stato un aforisma perfettamente attribuibile al pensiero di Hume.

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logiche differenti. Infatti, a quella delle opposte nature dell’individuo, se visto come soggetto di diritto o di interesse, segue la corrispondente dicotomia della logica rispettiva. Possiamo chiamare le due logiche dissociate, la logica del mercato e la logica del contratto. Foucault oppone la dinamica del “soggetto d’interesse” alla dialettica del “soggetto di diritto”, vede cioè delinearsi, proprio nel XVIII secolo, un’eterogeneità radicale fra l’economico e il politico-giuridico: da un lato, una meccanica egoista immediatamente moltiplicatrice e senza trascendenza alcuna in cui l’interesse di ciascuno si accorda spontaneamente e come involontariamente all’interesse degli altri – è questa la logica del mercato. Dall’altro, una dialettica della rinuncia, della trascendenza e del legame volontario ed è la teoria politico-giuridica del contratto (Slongo 2013, 435).

Quindi mercato e contratto appaiono radicalmente dissociati nel modello dell’homo oeconomicus. L’opposizione dell’homo oeconomicus e dell’homo juridicus, o homo legalis, emersa dalla metà del XVIII secolo, è pensabile anche come una differenza interna alla razionalità politica stessa, differenza tra razionalità giuridica da una parte e razionalità economica dall’altra, ovvero due relazioni sostanzialmente differenti dell’individuo col potere politico: non c’è soltanto un’eterogeneità formale tra il soggetto economico e il soggetto di diritto […], ma mi sembra, solo in parte come conseguenza, che vi sia anche una differenza essenziale tra il soggetto di diritto e il soggetto economico nel rapporto che intrattengono con il potere politico. Oppure, se preferite, la problematica dell’uomo economico pone alla questione del fondamento del potere e dell’esercizio del potere un tipo di domanda del tutto diversa da quella che poteva essere posta dalla figura e dall’elemento dell’uomo giuridico, del soggetto di diritto (Foucault 2005, 226).

Questo implica ancora una opposizione dualistica: i) volontà e chiarezza della legge nel sistema politico; ii) involontarietà, contingenza e imprevedibilità nel sistema economico del mercato: Da un lato la logica volontaristica della prospettiva legicentrista, dall’altro la meccanica delle conseguenze involontarie, opache e non dominabili, associate all’economia di mercato e alla sua nascita nel XVIII secolo (Slongo 2013, 435).

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Inoltre, una duplicità paradossale avvolge e sostanzia ovunque l’homo oeconomicus, una molteplice doppiezza di effetti – situazioni doppiamente involontarie, doppiamente indefinite, doppiamente incontrollabili e doppiamente non totalizzabili – che, in realtà, dà consistenza al suo essere nel mondo; un essere interamente “calcolatore” che ottiene un guadagno solo grazie a ciò che, in realtà, si sottrae al suo calcolo: L’homo oeconomicus si trova quindi situato all’interno di quello che si potrebbe chiamare un doppio involontario: l’involontario degli accidenti che gli capitano e l’involontario del profitto che egli produce per gli altri senza averlo cercato. Ma al tempo stesso è anche situato in un doppio indefinito, poiché, da un lato, gli accidenti da cui dipende il suo interesse appartengono a un ambito che non si può attraversare, né totalizzare [nel senso di calcolare] e, dall’altro, anche il profitto che produrrà per gli altri, mentre produce il proprio, è a sua volta un indefinito, che non può essere totalizzato. […] Al contrario, tali indefiniti fondano in un certo senso il calcolo propriamente individuale che egli compie, gli danno consistenza, effettualità, lo inseriscono nella realtà e lo legano nel miglior modo possibile a tutto il resto del mondo. Abbiamo dunque un sistema in cui l’homo oeconomicus dovrà il carattere positivo del suo calcolo a tutto ciò che sfugge al suo calcolo (Foucault 2005, 227).

4.2. Il mercato come “luogo di verità” Luigi XV nobilitò Quesnay nella stanza di Madame de Pompadour: prese tre viole del pensiero da un vaso della manifattura di Sèvres […] e disse: “Tenete, Quesnay, vi nobilito e vi do uno stemma che parla”. Nacque allora l’economia politica.” (Calasso 1989, 133-134) Il primo atto mediante il quale Adamo ha costituito la sua signoria sugli animali è che egli diede loro un nome, vale a dire li annientò in quanto esistenti. (Hegel 1984, 25)

È interessante tracciare il percorso, seguendo Foucault, con cui il mercato, inteso inizialmente come luogo fisico degli scambi, modifichi nel tempo la sua natura, oseremmo dire gli attributi della sua stessa “essenza”, passando da un luogo in cui si esercita la “giustizia” (distributiva) ad un luogo in cui si ha la rivelazione

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della “verità”, ovvero da un luogo giurisdizionale a un luogo teologico. Intanto, il mercato nel Medioevo e fino al ’600 può essere considerato un luogo di giustizia: il mercato – nel senso esteso del termine, per come ha funzionato nel Medioevo, tra il XVI e il XVII secolo – è stato essenzialmente un luogo di giustizia (Foucault 2005, 37).

Ed era un luogo di giustizia per almeno quattro ragioni. La prima perché era un luogo dove si applicava un rigoroso e dettagliato apparato giuridico volto a regolamentarlo, vale a dire perché si trattava di un luogo investito da una regolamentazione sovrabbondante e rigida, che riguardava gli oggetti da immettere sui mercati, il tipo di fabbricazione, l’origine dei prodotti, i diritti da pagare, le stesse procedure di vendita e, infine, i prezzi fissati. Questo era dunque il mercato (Foucault 2005, 37-38).

La seconda ragione per considerare il mercato un luogo di giustizia, stava nella convinzione che in esso si praticasse il “giusto” prezzo, nel senso che il prezzo di vendita fissato nel mercato veniva considerato, tanto dai teorici quanto dagli operatori, come un giusto prezzo o come un prezzo che comunque doveva corrispondere al giusto prezzo, vale a dire un prezzo che doveva mantenere un certo rapporto col lavoro fatto, con i bisogni dei mercanti e, ovviamente, con i bisogni e le possibilità dei consumatori (Foucault 2005, 37-38).

Il terzo motivo che giustifica l’attribuzione della qualifica di luogo di giustizia al mercato è che in esso si praticava una specie di giustizia distributiva, nel senso che le regole del mercato […] facevano sì che ci si accordasse almeno in relazione a un certo numero di prodotti essenziali, come ad esempio quelli alimentari, in modo che, se non i più poveri, almeno alcuni dei più poveri potessero acquistare determinati beni alle stesse condizioni dei più ricchi. Il mercato era dunque, in questo senso, un luogo di giustizia distributiva.

Infine, il quarto motivo è che il mercato garantiva, non tanto la formazione di prezzi indiscutibilmente veri e naturali ‒ come

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recita l’attuale mantra neoliberale ‒ quanto l’assenza di frodi, inganni, crimini, specie a danno dell’acquirente; ovvero il mercato era un luogo di giustizia, perché la condizione che soprattutto doveva essere garantita nel mercato, attraverso il mercato o piuttosto grazie alle sue regolamentazioni, che cos’era? Era forse la verità dei prezzi, come diremmo oggi? Niente affatto. Era l’assenza di frode. Si trattava, cioè, di difendere l’acquirente. La regolamentazione di mercato aveva dunque come scopo la distribuzione più equa possibile delle merci, e poi il non rubare, il non commettere reati (Foucault 2005, 37-38).

Insomma, la considerazione di queste ragioni – regolamentazione rigorosa, giusto prezzo, giustizia distributiva, difesa dalla frode – porta a concludere che il mercato fosse essenzialmente, e funzionasse realmente come un luogo di giustizia, un luogo in cui ciò che doveva manifestarsi nello scambio e formularsi nel prezzo qualcosa come la giustizia. Diciamo pertanto che il mercato era un luogo di giurisdizione (Foucault 2005, 37-38).

Vediamo quindi come accade che, in primis, il mercato – all’incirca alla metà del ’700 – cambi i suoi attributi, divenendo un ente naturale, autonomo, dinamico, spontaneo, e, in secundis, come questo mercato-natura dia quindi luogo alla formazione di un prezzo “naturale” (senza che a tutto ciò si possano attribuire né proprietà etiche né ordinamenti giuridici): è in questo luogo [il mercato] che si verifica un cambiamento […]. A metà del XVIII secolo, il mercato è sembrato non essere più […] un luogo di giurisdizione. Da una parte, sembra obbedire, e anzi sembra dover obbedire, a meccanismi “naturali”, cioè spontanei […] la loro spontaneità era tale che, provando a modificarli, si finiva per alterarli e snaturarli. Dall’altra parte il mercato – ed è in questo secondo senso che diventa luogo di verità – non solo lascia intravedere i meccanismi naturali cui obbedisce, ma qualora si dia libero corso a questi meccanismi, essi permettono di determinare un certo prezzo che Boisguilbert chiamerà “prezzo naturale”, i fisiocrati “buon prezzo”, indicato in seguito come “prezzo normale”: insomma un prezzo, comunque lo si voglia designare – naturale, buono, nomale –, che è tale in quanto esprime un rapporto adeguato tra costo di produzione e ampiezza della domanda. Quando lo si lascia agire da sé, in base alla natura

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che gli è propria e, per così dire, nella sua verità naturale, il mercato consente il formarsi di un certo prezzo che verrà chiamato metaforicamente il vero prezzo, o talvolta anche il giusto prezzo, per quanto non abbia in più sé alcuna connotazione di giustizia. Si tratterà ormai di un prezzo determinato, che oscillerà attorno al valore del prodotto (Foucault 2005, 38-39).

A questo punto se il mercato è natura e forma un prezzo naturale, diventa necessario fornire, rispetto a questo istituto inteso nella nuova accezione, una corrispondente cognizione dotata di uno statuto “scientifico” (né più né meno di quanto è stato fatto rispetto alla natura e al mondo fisico), ovvero di fare dell’analisi del mercato una “scienza”, l’economia politica: L’importanza della teoria del prezzo-valore – la teoria, voglio dire, costruita e formata nel discorso degli economisti, nella loro testa – deriva in particolare dal fatto che essa permette alla teoria economica di indicare un elemento che diventa, da allora in poi, di fondamentale importanza: il mercato è da considerarsi rivelatore di qualcosa che è come una verità (Foucault 2005, 39 [corsivo nostro]).

La rivelazione della verità naturalmente non ha soltanto un valore teologico, ossia quello di fare dell’economia politica una dogmatica, degli economisti degli officianti, del mercato un altare e del vettore dei prezzi un sacramento. Essa ha anche, e soprattutto, un effetto importante sulla prassi del governo, al punto da trasformare la pre-esistente governamentalità disciplinare in quella liberale. Questo non significa che i prezzi siano veri in senso stretto, o che ci siano prezzi veri e prezzi falsi […] i prezzi, in quanto conformi ai meccanismi naturali del mercato, finiscono col costituire una misura di verità che permetterà di discernere, tra le pratiche di governo, quelle che sono giuste da quelle che invece sono sbagliate. In altri termini, è il meccanismo naturale del mercato, insieme alla formazione di un prezzo naturale, a permettere di falsificare e di verificare la pratica di governo […]. È il mercato, di conseguenza, a far sì che un buon governo non sia semplicemente un governo che procede secondo giustizia. È il mercato a far sì che il buon governo non sia più soltanto un governo giusto. È ancora il mercato a far sì che ora il governo, per essere un buon governo, debba funzionare secondo verità (Foucault 2005, 39).

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Insomma, alla fine del ’700, la considerazione del mercato passa da quella di un luogo del diritto (quindi di una convenzione umana) a quella di un luogo di verità (quindi della natura, quindi indipendente dagli uomini), e a questa verità dovrà abbeverarsi ogni pratica di governo: In termini semplici e rudimentali, possiamo dire che il mercato, da luogo di giurisdizione quale era ancora all’inizio del XVIII secolo, sta diventando un luogo che chiamerò di veridizione. […] Il mercato deve dire il vero [dire le vrai], e deve farlo in relazione alla pratica di governo (Foucault 2005, 40).

Foucault non intende sostenere – cose che, peraltro, sarebbero tanto vere quanto banali – che la nascita dell’economia politica di per sé e/o la seduzione esercitata dall’economia politica – o dalla pressione di gruppi di interessi che nel nome dell’economia politica basavano le loro richieste – sui governanti ha trasformato il mercato ‒ che era da sempre il luogo principale dello scambio ‒ nel luogo produttore di verità per i governanti. Anzi, questa trasformazione del significato del mercato sarebbe avvenuto per una serie concomitante di differenti cause, di cui la nascita dell’economia politica come una scienza è solo una di esse: per riuscire a comprendere come mai il mercato, nella sua realtà, sia diventato per la pratica di governo un luogo di veridizione, bisognerebbe piuttosto stabilire quella che chiamerei una relazione poligonale, o poliedrica, se preferite, tra [diversi fenomeni]: una certa situazione monetaria specifica del XVIII secolo, con un nuovo afflusso di oro, da un lato, e una relativa costanza di monete [dall’altro]; la crescita ininterrotta, economica e demografica, che caratterizza quella stessa epoca; l’intensificazione della produzione agricola; l’ingresso nella pratica di governo di un certo numero di tecnici, dotati sia di metodi sia di strumenti di riflessione; infine, la messa in forma teorica di una serie di problemi economici (Foucault 2005, 40).

L’economia politica come sapere e il mercato come suo luogo di manifestazione sono entrambi oggettivi e naturali, quindi indiscutibili. Ciò che essi dicono è la verità. Il mercantilismo, la ragion di Stato e la polizia come saperi e strumenti che si occupano dell’economia, diventano, di fronte alle tesi dei fisiocratici e di Smith, dei ferrivecchi. È l’economia che dice, semmai, come ci

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si deve occupare dello Stato. È l’economia che dice la verità alla quale lo Stato deve sottoporsi. Non è più il sovrano hobbesiano a dover attestare l’unica verità che “Gesù è il Cristo”, che così placava, tramite questo minimo comune denominatore di verità, le rivendicazioni di carattere veritativo delle confessioni religiose in conflitto. L’attestazione di verità, il luogo della verità, per dirla con Foucault, non è più né nel sovrano trascendente né in quello terreno, ma nel mercato, che è però inteso dalla scienza economica come natura, armonia prestabilita, provvidenziale eterogenesi degli ingannevoli e parziali fini individuali, quindi più o meno implicitamente inscritto in un ordine natural-provvidenziale. La verità non la stabilisce il sovrano ma il mercato, o detto in termini attuali, non più lo stato democratico ma i mercati finanziari, non più la costituzione giuridica ma indici dai nomi improbabili espressi nella lingua imperiale, quali spread, rating ecc14. Foucault ricorda che, sebbene al giorno d’oggi l’accoppiamento tra economia politica e diritto pubblico possa sembrare bizzarro, nel ’700 la riflessione sull’economia come disciplina scientifica e quella sulla politica come definita dal diritto pubblico erano concomitanti, entrambe avendo a che fare con la definizione di due libertà, quella del mercato e quella dell’individuo, entrambe considerate come libertà rispetto al potere politico; prova ne sia che pensatori come Beccaria, Bentham e lo stesso Smith erano al contempo studiosi sia del diritto pubblico che dell’economia. Quello che, in fondo, accade alla fine del ’700 è lo spostamento radicale del punto di vista rispetto alla sovranità politica: men-

14 «Nel passaggio dalle pratiche economiche empiriche dell’alba del capitalismo al regime di mercato teorizzato da quella scienza moderna che è l’economia politica, la “verità” economica si stabilizza: la battaglia antiprotezionista dei fisiocratici la sottrae alla definizione da parte del sovrano e alle sue decisioni contingenti e la consegna alla “natura”, all’armonia spontanea della domanda e dell’offerta nel mercato […] La fiducia non si trasferisce al sovrano che tenta di assumerne nel protezionismo la gestione, ma al mercato stesso, nella sua invisibile e dunque inappropriabile “mano”, che a partire dal liberalismo fisiocratico ad Adam Smith fino ad oggi, esibisce – ovviamente non senza controcanti e contrasti, decisamente perdenti – un suo criterio di verità, cui le pratiche devono uniformarsi se vogliono essere efficaci» (Bazzicalupo 2013b, 24).

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tre quest’ultima era stata fino ad allora l’oggetto della riflessione gius-pubblica in termini di ricerca sui suoi fondamenti e sulla sua legittimità, adesso è il come limitare tale sovranità che diventa l’oggetto della riflessione gius-pubblica. La tesi è quindi che il mercato è il luogo di veridizione del governo. Possiamo perciò domandarci quali sono i meccanismi giurisdizionali in cui si performa la veridizione. In primis, attraverso la proliferazione esponenziale delle norme, ovvero la normazione di ogni aspetto della vita (economica, sociale e individuale)15, di cui è un esempio emblematico, come vedremo nel par. 4.3, la normazione dell’attività produttiva, attraverso un articolato processo in continuo sviluppo. Le principali caratteristiche della “normazione proliferante” sono: i) di essere una pratica di governo che non mira più ad avere un effetto trasformativo del reale – obiettivi di modellamento del reale secondo una teleologia – ma che ha come principio quello di essere derivata dal reale; la norma non ha fondamenti trascendenti ma è un prodotto artificialmente costruito su basi immanenti, sul reale: il reale non deve modellarsi sulle norme, ma le

15 Potremmo dire, con un riferimento alla tecnica della pastoralità, che la normazione proliferante consente una condotta per tutti e per ciascuno, omnis et singulatim. Possiamo fare un esempio a scopo solo illustrativo dell’efficacia della normazione costruita sulla pratica produttiva reale con modalità omnes et singulatim, ovvero con modalità che, nel momento in cui si conduce il singolo verso la sua salvezza si adempie anche alla conduzione dell’intero gregge in conformità al piano generale della salvezza. Supponiamo una norma tecnica, fra le decine di migliaia relative alle certificazioni qualitative, etc.; supponiamo che riguardi – singulatim – la produzione di telefoni cellulari e consista nel rendere la geo-localizzazione una prestazione di default non modificabile dall’utente: tale singolarissima technicality, una volta normativizzata in opache e anonime sedi di governance, avrebbe ovviamente un effetto enorme sul governo della vita di tutti gli individui (omnes) e otterrebbe un risultato (diciamo quello della trasformazione del mondo in una società orwelliana in cui ciascuno è localizzato in ogni momento della sua giornata), che, invece, se avesse dovuto passare dalla sfera politica (specie in un contesto democratico, ma non solo), avrebbe richiesto infiniti dibattiti e probabilmente una opposizione insuperabile. Ecco quindi che un tale enorme risultato generale si può ottenere con una delle invisibili (invisibilità che viene addirittura sottolineata proprio nelle parole dei governanti della UE, vedi il par. 4.7) decine di migliaia di norme sulle attività produttive!

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norme devono essere modellate sul reale16; ii) la pretesa di “oggettività” e “scientificità”: l’atto di governo è potente nella misura in cui è tratto dall’obiettività del reale, dalle pratiche di mercato che sono “certificate” oggettivamente dalla scienza economica e dai cosiddetti “tecnici”. Gli obiettivi della normazione proliferante sono 1) l’efficacia che tende a diventare il contenuto della norma stessa, 2) la sottrazione alla Legge, come insieme di norme generali e astratte, sottrazione non solo rispetto alla sua sempre incombente inefficacia, ma soprattutto rispetto a ogni contenuto etico e finalistico; 3) la sottrazione dello spazio al politico17, di cui restano solo simulacri all’interno dell’esercizio tecnico della governance (per esempio nei vari consigli autoreferenziali delle istituzioni europee). Questi aspetti della normazione tipici della governamentalità neo-liberale aprono gli spazi a forme di gestione schiettamente privatistica, lobbies che governano settori della produzione e della società, dove le posizioni deboli che sono coinvolte non riescono a far valere le loro istanze a fronte di expertise specialistiche, di organizzazioni dei poteri forti finanziari e industriali, di studi legali che maneggiano a vantaggio di pochi con estrema tecnica le possibilità di difesa attiva, che pure il diritto offrirebbe a tutti. Della faccia opaca della partecipazione lobbistica, d’altronde, sappiamo tutti anche troppo (Bazzicalupo 2013a, 411).

La banalità tautologica di una normazione che replica il “reale” del mercato, la quasi invisibilità di tale normazione, la dichiarata limitatezza del disegno razionale dietro all’esercizio normativo che appare solo tecnico, amministrativo e concreto, tutto

16 «Non si tratta tanto di rendere gli individui e i loro comportamenti conformi alle norme, ma soprattutto di pensare delle norme conformi e adatte agli individui e alle loro attività «economiche». Che appaiano cioè come una loro espressione. Piuttosto che disciplinare degli individui si tratterà di disciplinare le norme, per così dire» (Slongo 2013, 443-444). 17 Osserva Slongo: «ciò che resta dello spazio politico è definito dalle articolazioni del Mercato, dalla sua cura e dalla sua operatività “pastorale”. Vale a dire da ciò che definisce il suo carattere più proprio: quello della sua positività polimorfa, locale, multipla, tecnica, operativa e concreta, che trova solo in se stessa i mezzi del suo esercizio, e che ha di mira nient’altro che il suo stesso esercizio “tecnico”. Una a-teologia normativa che svela il suo perfetto carattere amministrativo» (Slongo 2013, 444-445).

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concorre a fare apparire questa pratica di governo come una sorta di “guida pastorale” silenziosa, umile e servizievole. Questa ambizione dimessa nel passaggio da Legge a norma tecnica, questo aspetto di “presa in cura” soffice (soft-law), consentono in realtà l’esplicarsi tanto della efficacia applicativa quanto della proliferazione pervasiva della normazione. Quindi una norma è tanto più efficace quanto più è banale, acefala nel significato, invisibile, ridondante, insomma quanto più è interrotto il flusso “etico” fra espressione linguistica e azione umana. La pratica governamentale pastoral-normazionale spezza il progetto etico della Legge sostituito dalla proliferazione normativa che “giuridicizza” in tono minore ogni aspetto del reale, regolando secondo la legge naturale concorrenziale ogni aspetto della vita, rendendo lo spazio politico perfettamente inutile e anzi semmai dannoso perché non-reale, non-naturale, non-vero. Tale modo di governo intende quindi regolare il rapporto delle parole con le cose, allora, non più sotto la forma massiccia, inefficace e limitata della Legge, pretendendo di poter modellare il reale stesso a partire da essa, ma per mezzo di una proliferazione senza precedenti di dispositivi normativi che non smettono di sorgere dal reale, vale a dire di norme che dicono ciò che è, che dicono come designare adeguatamente ogni aspetto di ciò che è, la sua economia immanente, un’economia-governo in cui qualcosa come un’esperienza politica diventa sempre più precaria (Slongo 2013, 444).

Potremmo ricercare nelle tecniche governamentali odierne, da quelle della UE a quelle di una qualsiasi agenzia intra-statale, la similarità con quelle del pastorato cristiano; non sarebbe difficile paragonare il “rapporto sul proprio operato”, richiesto a ciascun governato, alla confessione, l’“auto-valutazione” all’esame di coscienza, la “valutazione” alla direzione di coscienza, la “raccomandazione” alla indicazione della strada da seguire, la “procedura d’infrazione” all’esposizione pubblica dei peccatori (chi non ricorda il vescovo di Prato e la sua denuncia pubblica nel 1956 di una coppia di parrocchiani come concubini peccatori perché colpevoli di essersi sposati solo civilmente), il sistema di incentivi e disincentivi (concessione di finanziamenti se fai le “riforme” richieste dal capitalismo mondiale oppure restrizione

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di crediti se non le fai, come nel meccanismo del MES della UE), comparabili al sistema premiale/punitivo del pastorato (come il passaggio ad assistente laico o la penitenza), e così via. Il contesto filosofico-cognitivo in cui si colloca il pensiero governamentale è quello della “razionalità limitata”: le norme sono immanenti, emergono solo dal reale, sono regole del pollice adottate perché funzionali a un obiettivo (il quale può apparire come soltanto la risoluzione di uno specifico problema tecnico ma in realtà anche essere un implicito obiettivo di governance generale), funzionano come una direzione pastorale. Allora la proliferazione di norme consente di estendere, in misura proporzionale alla proliferazione medesima, il potere di governo. Si governa indefinitamente senza un governo. Si governa tutto con norme immanenti e con pratiche-procedure di accompagnamento di ciascuna norma (cioè con rapporti, auto-valutazioni, valutazioni, raccomandazioni ecc.). Si governa attraverso norme travestite da tautologie (delle quali quindi non si può dubitare): esse apparentemente non prescrivono, non indicano un dover essere ma replicano solo ciò che è, ciò che sta nel mercato, e che quindi è anche ciò che è “vero”. Si crea “norma” su ciò che è già apparso spontaneamente, e che proprio per questa sua apparizione “naturale” non può che essere “vero”. Ma qual è il prezzo o meglio l’effetto correlativo di questo governo attraverso una normazione proliferante? La totale rottura del nesso etico fra le parole e le cose. Se abbiamo perduto il nesso etico fra parole e cose, in che modo si esprime ancora il loro rapporto nella situazione odierna? È di nuovo Foucault a individuare la stretta reciproca relazione fra politica e lingua in quanto, con entrambe, l’uomo, al contrario degli animali, può mettere in gioco se stesso, la propria vita. Ed è all’incrocio fra politica e lingua che si situa il giuramento: Come, nelle parole di Foucault, l’uomo “è un animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente”, così egli è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita. Queste due definizioni sono, anzi, inseparabili e dipendono costitutivamente l’una dall’altra. Al loro incrocio si situa il giuramento, inteso come l’operatore antropogenetico attraverso cui il vivente, che si è scoperto parlante, ha deciso di rispondere delle sue parole e, votandosi al logos, di costituirsi come il “vivente che ha il linguaggio”. Perché qualcosa come un giuramento possa aver luogo, è

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necessario, infatti, poter innanzitutto distinguere, e articolare in qualche modo insieme, vita e linguaggio, azioni e parole – e questo è precisamente ciò che l’animale, per il quale il linguaggio è ancora parte integrante della sua prassi vitale, non può fare (Agamben 2011, 69).

La nominazione è già nella sua origine attraversata da una doppiezza (su questo la discussione filosofica sui nomi sviluppata nel Cratilo di Platone è ancora illuminante); il nome può essere tutt’uno con la cosa nominata oppure essere una pura convenzione, essere quindi il nome vero oppure quello falso, e questa doppiezza è costitutiva dell’esperienza dell’uomo, del suo accesso al logos, del suo essere l’unico animale parlante. Ogni denominazione è, infatti, doppia: è una benedizione o una maledizione. Una benedizione, se la parola è piena, se c’è una corrispondenza tra il significante e il significato, tra parole e cose; una maledizione se la parola è vuota, se rimane, tra la semiotica e la semantica, un vuoto e una lacuna. Giuramento e falsa testimonianza, benedizione e maledizione corrispondono a questa doppia possibilità inscritta nel logos, nell’esperienza per mezzo della quale l’essere vivente è stato costituito come essere parlante (Agamben 2011, 69-70).

Per questo, l’uomo nella storia produce quelle technè necessarie a formalizzare e operativizzare la doppiezza nominativa, a regolare il suo uso terribilmente “performante” nel bene e nel male; quelle technè sono la religione e il diritto, nelle quali si dà luogo al come trattare correttamente la parola, così pericolosamente incline tanto al vero quanto al falso. La lingua, trattata dalla religione e dal diritto, assume una sacralità che, ove e nella misura in cui la parola è più terribilmente performativa, cioè nel giuramento come nella maledizione, diventa “sacramento del potere”: Religione e diritto tecnicizzano questa esperienza antropica della parola nel giuramento e nella maledizione come istituzioni storiche, che separano e oppongono punto per punto verità e menzogna, vero nome e falso nome, formula efficace e formula errata. Ciò che era “mal detto” divenne in questo modo una maledizione in senso tecnico, e la fedeltà alla parola divenne una preoccupazione ossessiva e scrupolosa con formule e cerimonie appropriate, cioè religio e ius (religione e diritto). L’esperienza performativa della parola è costituita e isolata in un “sacramento del linguaggio” e quest’ultimo in un “sacramento del potere”(Agamben 2011, 70).

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È da questo originario nucleo di potenza performativa, di distinzione di verità e falsità, della parola che nomina, che la Legge ottiene la sua forza, la sua efficacia, la sua intrinseca capacità di essere obbedita: La “forza della legge” che sostiene le società umane, l’idea di enunciazioni linguistiche che obbligano stabilmente gli esseri viventi, che possono essere osservate e trasgredite, derivano da questo tentativo di inchiodare la forza performativa originaria dell’esperienza antropogenica, e sono, in questo senso, un epifenomeno del giuramento e della maledizione che lo accompagnava (Agamben 2011, 70).

Ma qual è la caratteristica distintiva più importante del linguaggio umano? Che con esso, che altrimenti sarebbe visto solo come strumento formale e cognitivo, il soggetto umano costruisce un discorso del quale assume in proprio la responsabilità e col quale mette in gioco la sua vita, quindi anche un discorso politico. L’uomo prende la parola come soggetto – “Io prendo la parola” – e in questo gesto relazionale esprime non una tecnicità ma una eticità. Tra la parola, la vita e l’azione umana si stabilisce un nesso etico. Ed è questo nesso etico che conferisce sacralità alla lingua e al potere che la usa. L’elemento decisivo che conferisce al linguaggio umano la sua peculiare virtù non è nello strumento stesso, ma nel posto che lascia a chi parla […] nella relazione etica che si stabilisce tra chi parla e la sua lingua. L’essere umano è quell’essere vivente che, per parlare, deve dire “Io”, deve “prendere la parola”, assumerla e farla propria. La riflessione occidentale sul linguaggio ha impiegato quasi due millenni per isolare, nel meccanismo formale della lingua, la funzione enunciativa, l’insieme di quegli indicatori o comandi (io, tu, qui, ora, ecc.) per mezzo del quale chi parla assume la lingua in un atto concreto di discorso. Ciò che la linguistica, tuttavia, non è senza dubbio capace di tenere in conto, è l’ethos che viene prodotto in questo gesto e che determina la straordinaria implicazione del soggetto nella sua parola. È in questa relazione etica […] che il “sacramento del linguaggio” ha luogo. Proprio perché, a differenza di altri esseri viventi, per parlare, l’essere umano deve mettersi in gioco nel suo discorso, per questo può benedire e maledire, giurare e spergiurare (Agamben 2011, 70).

Nella situazione odierna la fedeltà alla parola, l’adesione rigorosa al bene-detto (in cui significante e significato coincidono

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riempiendo la lingua), il “sacramento del potere”, sembrano tutti essere venuti meno, come osserva Prodi (1992), il quale nota come, poiché le nostre generazioni sono oggi le prime della storia a vivere senza il vincolo del giuramento nella vita pubblica, anche quest’ultima è implicata in una trasformazione che sarà radicale18. «Se questa diagnosi è vera, ciò significa che l’umanità si trova oggi di fronte all’emergere di una disgiunzione o, almeno, di un allentamento del legame che, mediante il giuramento, ha unito l’essere vivente al suo linguaggio» (Agamben 2011, 70). A che punto la sconnessione fra parole e cose, fra lingua e vita, la fine del giuramento, il conseguente depotenziamento della “forza della legge”, hanno effetto sulla situazione odierna dell’uomo, come soggetto e, soprattutto, come soggetto politico? Innanzitutto, dobbiamo rilevare che la sconnessione fra parola e vita, fra parola e azione politica, quindi fra vita e politica, è situata all’interno del soggetto stesso, ridotto essenzialmente a nuda vita e parlante il puro vuoto, ormai esclusivamente attraverso la mediazione delle tecnologie mediatiche: Da un lato, c’è l’essere vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e alla nuda vita. Dall’altra parte, c’è l’essere parlante, diviso artificialmente dal primo, attraverso una molteplicità di apparati tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola che diventa sempre più vana, per la quale è impossibile essere responsabili e in cui ogni cosa che somigli a un’esperienza politica diventa sempre più precaria (Agamben 2011, 70).

Ma cosa accade allora quando viene meno quella connessione etica fra parole, cose e azioni umane? Ci sono due effetti concomitanti. Il primo si manifesta come «una proliferazione spettacolare e senza precedenti di parole vane» (Agamben 2011, 71). Il secondo

18 Di questa trasformazione radicale della politica a farne le spese sarà per prima la democrazia, se è vera l’importanza rivestita dal giuramento nella costituzione politica che l’ateniese Licurgo espresse chiaramente in un passo della sua arringa contro il mercante Leocrate ‒ il quale aveva liquidato i propri beni e, in compagnia di un’etera, era fuggito all’estero per darsi agli affari dopo la sconfitta inflitta ad Atene da Filippo di Macedonia nella battaglia di Cheronea ‒ messa in esergo in Prodi (1992): “Il giuramento è ciò che tiene [to synechon] insieme la democrazia”.

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effetto si estrinseca in una proliferazione «di apparati legislativi che cercano ostinatamente di legiferare su ogni aspetto di quella vita su cui sembrano non avere più alcun controllo» (Agamben 2011, 71). Due effetti che sarebbe difficile non vedere nella odierna società neoliberale, dominata dai metodi della governance (vedi parte II) e dallo “sciame” digitale (Han 2015).

4.3. L’odierna governamentalità neoliberale e i suoi caratteri distintivi lpotizziamo di nuovo il caso, ancora più improbabile, che d’improvviso, ovunque sulla terra, svanissero da ogni ambiente gli apparecchi radiofonici: chi potrebbe immaginare lo sgomento, la noia e la vuotezza che assalirebbero di colpo gli uomini, stravolgendo da cima a fondo la loro vita quotidiana? (Heidegger 2002, 62) Ti ho visto, Walt Whitman […] a frugare le carni nel frigorifero […] Ho girato fra le pile di scatolame luccicante seguendoti, e seguito nell’immaginazione dal poliziotto del mercato […] assaggiando carciofi, possedendo ogni leccornia congelata, e senza mai passare davanti al cassiere. (Ginsberg, Un supermarket in California, 2004, 39)

Foucault (2005, 2017) racconta come la governamentalità col sapere/potere dell’economia sia da intendere come un governo delle vite, ossia una bio-politica (Esposito 2004; Bazzicalupo 2006, 2010, 2015; Chignola 2006; Amendola et al. 2008; Butler 2013; Han 2016; Domenicali 2018). Ma qui l’accezione è diversa e più generale rispetto a quella che in precedenza Foucault attribuiva alla bio-politica e che, peraltro, molti hanno ritenuto fosse quella principale: non si tratta, infatti, del dispositivo che mira al miglioramento della vita e della razza connettendo sapere biomedico e socio-darwinismo, bensì del potere che gestisce le vite per due obiettivi: i) la “valorizzazione” capitalistica delle vite (ossia, la migliore realizzazione del profitto); ii) l’eliminazione di ogni possibile opposizione a tale “valorizzazione”. Il primo obiettivo è notoriamente permeato dall’origine teologica, sottolineata in vari modi da Marx, Weber e Benjamin, come i recenti sviluppi della teologia politica e di quella economica fanno emergere, e risente del carattere “innovatore” e “distruttivo” del capitalismo; il secondo

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è la realizzazione del sogno “conservatore” di ogni capitalista, nemico di ogni Rivoluzione e attivo contro ogni spettro che si aggiri per il mondo ad inquietare i propri sonni. Come si realizza questa bio-politica, specie nella attuale versione neoliberale della governamentalità? Individuiamo alcune caratteristiche principali, che discuteremo in dodici punti. Primo, omologazione orizzontale di tutte le forme di vita sotto qualunque aspetto ‒ giuridico, politico, concettuale ‒ le si consideri. Secondo, assenza, quindi, di unità e verticalità, ma tale assenza ha, però, un effetto paradossale: la pluralità e l’orizzontalità aperte alla libertà di autorealizzarsi, di farsi19 il proprio percorso di capitalizzazione seguendo la logica economica sono, in realtà, sotto il totale controllo del potere implicato dalla introiezione dei comportamenti dettati dalla logica economica stessa. Terzo, il concetto di economia si riferisce non tanto alla sfera della produzione e distribuzione quanto, soprattutto, alla gestione economica (management) e alle regole di calcolo ottimizzante da applicare come organizzazione e governo di tutti gli ambiti umani. Quarto, la gestione pastorale con le sue tecniche si trasla nella gestione manageriale con le sue pratiche, ed, in particolare sottolineiamo come l’estrazione/produzione della verità e l’insegnamento della verità ‒ un tempo la confessione e la direzione di coscienza, oggi le preferenze del consumatore e il marketing in senso lato ‒ hanno comunque una peculiarità pastoral-oblativa: si convince il governato che la verità prodotta e insegnata è esclusivamente a suo favore, che il pastore (un tempo) oppure il manager (oggi) sono solo al suo servizio, che tale verità è il viatico un tempo per la salvezza dell’anima oppure oggi per il successo (benessere) economico20. Quinto, la bio-politica non è

19 Questa libertà di autorealizzarsi o di “farsi” ‒ esaltata dal regime neoliberale ‒ richiama il quadro psicopatologico del tossicomane che si “fa” (come ha notato Recalcati (2011)). 20 Come afferma Bazzicalupo, la «verità circa la vita del governato riguardante l’autoregolazione della vita che detiene la chiave del suo potenziamento […] è “oggettiva”, scientifica e tecnica […] esterna alla dinamica del potere, non discussa né discutibile: una verità che organizza funzionalmente le prestazioni vitali ottimizzandole» e in riferimento ai programmi universitari pubblici aggiunge che «Non è certo un caso se il blocco solo apparentemente eterogeneo di questi saperi: la biologia, l’ingegneria genetica, la neurobiologia, il cognitivismo menta-

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generico interesse della politica per la vita, ma è la governamentalità ovvero un insieme di tecnologie di potere e di dispositivi e di saperi (ad esempio dispositivi di sicurezza ed economia politica) ‒ reciprocamente connessi e rinviabili ‒ che hanno come bersaglio la popolazione, nel senso della produzione di specifiche soggettività assoggettate ‒ libere di obbedire, lasciate/stimolate alla auto-realizzazione e autogoverno perché siano così eminentemente governabili. Sesto, il sapere relativo all’oggetto di governo si presenta in una relazione causalmente bi-direzionale col suo oggetto: non esiste un oggetto da studiare e sul quale costruire un sapere, ma un sapere che costruisce il suo oggetto, che in questo caso sono i soggetti, ossia gli individui resi soggetti, sulla base di un obiettivo preciso: cioè, quello di ottenere un oggetto/soggetto i) che sia un oggetto/soggetto malleabile, che sia reattivo agli stimoli, agli incentivi, alle modifiche ambientali, insomma che sia significativamente governabile; ii) che abbia problemi che debbono (e possono) essere risolti, che sia esposto al rischio o alla paura di perdite, perdita di benessere ma soprattutto della vita; le potenzialità produttivistiche e le esposizioni al rischio sono ovviamente individuate dal potere-sapere nella misura in cui sono suscettibili di governo. Settimo, vedendo all’inverso il punto precedente, è proprio la seconda caratteristica del soggetto creato (ovvero che sia esposto al rischio) che giustifica, anche agli occhi del governato, il fatto di governarlo data la sua esposizione al rischio e al pericolo. Ottavo, l’oggetto del governo sono i gruppi e le popolazioni (piuttosto che il popolo e l’individuo, che sono i classici soggetti, rispettivamente, della democrazia e del liberalismo tradizionale), che sono suddivisi in base alla tipologia di esposizione al rischio e/o alla tipologia e alla intensità di risposta alla stimolazione della produttività e, in generale, in base ai margini di incremento della medesima. Nono, l’oggetto di governo è costruito, disegnato, ritagliato a partire da una sua concreta esistenza in generale ‒ ovvero sono le, la neuroeconomia, la neurosociologia, la sociobiologia e, come codice comune di tutte queste scienze, la teoria dell’organizzazione, oggi ricevano grande credito (e grandi finanziamenti) presso i dipartimenti di ricerca» (Bazzicalupo 2015, 32).

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l’individuo e la popolazione ‒ a misura della possibilità di governarlo, ossia facendo emergere le sue criticità, problematicità (e potenzialità), riclassificandolo in gruppi, categorie, generi omogenei per problemi, carenze e margini di miglioramento, nella misura in cui esse sono nel contempo risolvibili. Il governo diventa il problem solver rispetto a problemi ‒ esistenti o indotti dal potere stesso ‒ dei governati di cui si conosce la soluzione. Decimo, tutte le vite sono differenti. Ogni vita viene valorizzata nel senso che deve avere un valore o prezzo attribuito dal mercato capitalista, in cui tutte le differenze competono fra loro attraverso procedure standardizzate e norme e valutazioni che vengono fatte emergere dal mercato stesso come prodotto delle interazioni del mercato. Il sapere ‒ la setta degli economisti come quella dei medici ‒ fornisce l’expertise definendo le statistiche emergenti dalle processualità mercatistiche in cui viene immerso il singolo in tutti gli ambiti sociali, le quali costituiscono norme e standard insindacabili sui quali attivare le tipiche pratiche del dispositivo governamentale ‒ valutazioni e autovalutazioni, ranking e rating, ecc. Ogni decisione ‒ un tempo politica o sovrana ‒ viene oggi motivata dalla expertise che fornisce insindacabilmente i parametri valutativi: questo implica una “obbligatoria” accettazione della decisione da parte dei soggetti, a dispetto degli effetti di selezione e di esclusione fra i medesimi che essa produce. Infatti, mentre in precedenti sistemi di potere una decisione svantaggiosa avrebbe generato resistenze, adesso ogni decisione viene percepita come “esperta”, “neutrale”, “scientifica”, “oggettiva”, “pragmatica”, tutti attributi che la rendono legittima pure agli occhi di chi la subisce. Non vi è trascendimento del potere decisionale perché la decisione “sembra” emergere da criteri “oggettivi” determinati da domande e offerte, tra aspettative e realizzazioni in mercati aperti virtualmente in ogni ambito del sociale, ordinati dalla prescritta logica economica e concorrenziale. Undicesimo, viene raccontato che non esiste un sapere che può conoscere tutto il sociale, ma che al massimo l’unico sapere possibile è quello che si può raccogliere dal meccanismo concorrenziale del mercato ‒ informazioni empiriche e pragmatiche ‒ e guai a chi ambisse a conoscere la totalità perché questa conoscenza ‒ ovviamente ritenuta solo presunta perché impossibile ‒ “di-

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storcerebbe” soltanto l’operare del sistema-mercato con effetti dannosi. Dodicesimo, al contrario del paradigma moderno della sovranità (Schmitt 1972; Agamben 2003), dove l’emergenza è la dichiarazione dello stato di eccezione ‒ per definizione temporaneo ‒ che, sospendendo l’ordinamento e, nel contempo, uscendo dall’ordinamento dal di dentro del medesimo, manifesta dove sta il fondamento della legge e stabilisce chi è il sovrano e il responsabile politico, il paradigma governamentale, invece, concepisce una emergenza sempre continua come costitutiva della tecnica di potere, una emergenza che è semplicemente la strutturazione della quotidianità nell’ottica dell’imprevisto governabile, risolvibile: emergenza è la realtà sociale nella prospettiva che ne rileva i problemi via via emergenti e volta per volta li gestisce. La tecnica governamentale appare come un gigantesco generatore di eccezioni (Bazzicalupo 2015, 29).

La governamentalità neoliberale teorizza e convince che tutti sono lasciati liberi nelle loro azioni senza alcun governo diretto. Il governo diventa un esercizio amministrativo che segue le regole indiscutibili della razionalità dei saperi, in primis l’economia politica e le teorie dell’organizzazione manageriale, quindi un governo de-politicizzato e de-responsabilizzato, le cui decisioni sembrano dettate solo dai dati oggettivi della realtà. Una realtà costruita e letta nell’ottica dell’emergenza, del rischio e della esistenza di problemi nocivi e difficili, tutti problemi da superare e che, guarda caso, il governo “esperto” sa risolvere. Se la governamentalità neoliberale sembra esaltare le differenze e le qualità nei soggetti, liberandoli da identità uniche e omologanti21, lo fa soltanto perché essa possiede una triplice pro-

21 Il pesante dominio neoliberale sulle vite fintamente libere è davvero paradossale se si pensa che ‒ ai fini dell’assoggettamento psichico ‒ le sue narrazioni, le quali esaltano e persino impongono le differenze e le pulsioni antigerarchiche, hanno seguito, spesso addirittura volgarmente copiato, le istanze libertarie del post-sessantotto (peraltro non a caso ritenute già allora poco pericolose e persino utili dalle superiori organizzazioni di potere, come si vedrà nei giudizi della Commissione Trilaterale nella parte II). Questo paradosso viene ben colto

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prietà: i) le differenze sono mantenute per selezionare, classificare, graduare per problemi e potenzialità gli oggetti di governo in modo più efficace che nel caso di omogeneità dei governati; ii) la libertà è concessa ‒ oltreché allo scopo di poter giustificare la crescita, più che proporzionale a quella delle libertà, dei dispositivi di sicurezza nel più recente modello governamentale chiamato da Foucault “securitario” ‒ solo perché la formazione psichica delle soggettività ha già introiettato l’auto-regolazione secondo gli obiettivi del regime governamentale; iii) questa auto-regolazione individuale o di gruppo è prodotta e rinforzata attraverso uno strumentario specifico: l’organizzazione della concorrenza fra i soggetti, sottoposti a una continua valutazione comparativa, ad un auto-monitoraggio e a una trasparente comunicazione di sé, ad una auto-valutazione incessante rispetto agli altri concorrenti, con l’effetto di una produzione di diseguaglianze orizzontali mutevoli con le contingenze, le emergenze, e i cambiamenti delle norme, ingannevolmente vendute come fossero naturali produzioni di mercati acefali e, quindi, scientificamente oggettive e irrecusabili; è dietro a questi presunti irresponsabili e acefali mercati che si rende invisibile il vero potere22. Il processo culturale (e politico, perché non dobbiamo dimenticare il progetto e l’organizzazione deliberata del neo-ordoliberalismo, vedi Conti e Fanti 2020, parte III, e dei suoi attuatori politici, quali la Thatcher, col suo sbandierato slogan che non esistono stato, società, istituzioni ma solo individui) più generale, che sta dietro alla eradicazione dell’identità, del soggetto, del diritto, delle istituzioni, della giustizia, proprio della governamentalità neoliberale ‒ e che ha come scopo quel-

da Bazzicalupo (2015, 36-37): «Se il sogno della spinta antirappresentativa era liberare la differenza dalla gerarchia e ritrovare una libertà che fosse esperienza e pratica orizzontale, non gerarchica, questa apertura all’illimitato è continuamente catturata. Una gigantesca, paradossale eteronomia emerge dallo scatenamento delle onde, o delle pieghe che il sistema neoliberale asseconda». 22 «Questo sistema acefalo ha come risvolto la assoluta irresponsabilità della norma sociale, nel senso che diverrà normativo lo standard che emerge nello scambio delle comunicazioni. Irresponsabilità di un qualsiasi sovrano e responsabilità di tutti i vettori di scelta e di autogoverno, ciechi rispetto all’insieme» (Bazzicalupo 2015, 37).

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lo di creare monadi desideranti senza un principio organizzatore, ma che interagiscono come molecole in un moto browniano (perfettamente libere e indeterminate singolarmente e perfettamente prevedibili in media o in aggregato)23 ‒ è quello di produrre l’immanentizzazione della realtà, che per l’uomo significa il passaggio dall’umano (anima/mente spirituale e corpo animale separati, in cui la prima domina sul secondo) al puro biologico, dalla comunità o popolo alla specie. Il soggetto definito dalla separazione conflittuale tra io e mondo, che costituiva la possibilità dell’autonomia e della libertà umana, tramonta per essere sostituito da una concezione dell’essere come l’esserci gettato nel suo mondo, senza fondamenti per la propria provenienza e per la propria esistenza, se non la propria effettività, cioè al puro fatto di essere nel mondo (Heidegger). La coincidenza dell’essere con la vita è quella del soggetto col suo corpo. Non più suddivisione del soggetto fra parte spirituale (anima/mente) e animale (corpo), ma la parte spirituale ridotta alla pura legge biologica, senza possibilità alcuna di trascendenza e

23 Questa metafora, tipica della fisica statistica, riguardante la relazione fra uomo e ambiente potrebbe ben corrispondere all’auto-narrazione dei teorici neo-liberali, la cui filosofia del mercato e della concorrenza (Hayek, in primis) ‒ che postula mercati auto-poietici e auto-regolati ‒ ha evidenti riferimenti al darwinismo, alla biologia e alle dinamiche evolutive di amebe cieche, che, quand’anche intenzionali nel loro agire, sono del tutto impotenti a realizzare le proprie intenzioni, perché le conseguenze del loro monadico comportamento sono determinate “in the large” da leggi naturali evoluzionistiche (le quali ultime sono evidentemente teleologiche ‒ ad esempio l’evoluzione verso un uomo transumano ‒ ma che, in apparenza e nella narrazione ideologica, sembrano nemiche di ogni finalismo, e che spesso sono dispettosamente caratterizzate dall’eterogenesi dei fini umani, come suggerivano Mandeville, Smith e oggi il pensiero neo-ordoliberale). Tuttavia, siamo ben consci che le ideologie del mercato e della storia intesa come frutto dell’equilibrio contingente del mercato di infiniti agenti senza potere sono del tutto mistificatorie del fatto che, invece, potenti organizzazioni esistono ‒ a dispetto della de-politicizzazione e de-sovranizzazione degli stati, se guardiamo all’aspetto politico, e a dispetto della favola delle norme e degli equilibri che emergono “liberamente” dalle singolarità lasciate alla propria indeterminata realizzazione, se guardiamo al racconto filosofico ‒ e che tali organizzazioni (basti pensare alle imprese multinazionali, ma anche ai clubs, logge, associazioni più o meno riservate) indirizzano con vista molto acuta e intensa progettualità gli atomi individuali e gli avvenimenti della storia.

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di senso, se non l’adesione incondizionata alla contingenza della vita e al suo destinale biologicamente dato. L’insieme degli uomini ridotti a puro vivente biologico non può che seguire meccanismi auto-regolantesi secondo regole competitive dell’evoluzionismo darwiniano, di cui il mercato è una espressione simbolica per non dire una banalizzazione: vita e mercato diventano irresistibilmente connessi se non addirittura intercambiabili. Logica economica e logica della vita diventano strettamente apparentate. La fuoriuscita dal quadro giuridico della sovranità e l’apertura alla governamentalità moderna è avvenuta attraverso una triplice riflessione: da un primo lato, la percezione della popolazione come problema, bersaglio e specie biologica, da un secondo lato, la formazione dell’economia come sapere e logica organizzativa, e, infine, dall’ultimo lato, l’utilitarismo, inteso non come filosofia, e nemmeno come ideologia, ma come tecnologia di governo (Foucault 2005, 48) specificamente adatta per la gestione degli individui recepiti come pura vita biologica24. Tuttavia, ci sembra anche interessante notare che gli odierni sviluppi delle società investite sia dal pensiero che dal modo di governo neo-liberale, erano, almeno in alcune sue caratteristiche di fondo, già percepiti decenni prima delle acute analisi foucaultiane. Ad esempio, già nel 1956 Erich Fromm individuava la peculiarità dell’uomo richiesto e forgiato dal capitalismo moderno,

24 Anche per Bazzicalupo la considerazione dell’individuo come puro bios e della popolazione come pura specie biologica ‒ insieme alla corrispondente logica competitiva economica ‒ è il punto cruciale della governamentalità e della biopolitica (entrambe viste come strettamente connesse se non sinonime) foucaultiane: «Per Foucault, bio-politica è proprio il governo dell’umano ricondotto alla sua naturalizzazione, al suo bios governabile una volta che si penetrino i suoi segreti, la dinamica delle sue leggi autoregolative “naturali”. Governabile è il bios oggettivato dalla scienza biologica; e, nel legame sociale, bios è la presunta legge generale, “naturale” dell’affermazione di sé che rende prevedibile le condotte e le scelte di ciascuno e perciò governabili attraverso la spinta al miglioramento delle prestazioni. È infatti con la biologizzazione del vivente, governata da una legge economica di adattamento competitivo, e con l’espansione nella forma di vita capitalista di un naturale egoismo utilitarista, che l’economia non tanto come sfera di attività, ma come logica organizzazionale, viene a occupare lo spazio del gioco, il medium; pensare i viventi come organizzabili e governabili in modo più produttivo e più efficiente: questa la grande rivoluzione della biopolitica contemporanea» (Bazzicalupo 2015, 31-32).

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quella di essere un consumatore puro convinto della sua libertà di scelta mentre, al contrario, è del tutto eterodiretto “dolcemente”, o ancor meglio, convinto che la sua libertà consista proprio nel fare volontariamente ciò che gli si comanda di fare: Il capitalismo moderno necessita di uomini […] che vogliano consumare sempre di più; i cui gusti siano standardizzati e possano essere facilmente previsti e influenzati […] di uomini che si sentano liberi e indipendenti, che non si assoggettino ad alcuna autorità e tuttavia siano desiderosi di essere comandati, di fare ciò che ci si aspetta da loro […] che possano essere guidati senza la forza, guidati senza capi, incitati senza uno scopo, tranne quello di rendere […] di funzionare (Fromm 1975, 110).

Se la fondazione dell’individuo come impresa e della sua forza-lavoro come capitale e investimento da valorizzare viene fatta risalire in modo dirompente al pensiero economico neo-liberale, in realtà di essa parla già Fromm. Se nel 1971 uno degli economisti della scuola di Chicago ‒ Theodor Schultz ‒ formalizza “scientificamente” questa visione del lavoratore, scrivendo che «Il segno distintivo del capitale umano è che fa parte dell’uomo. È umano perché è incarnato nell’uomo e capitale perché è una fonte di soddisfazioni future, o di guadagni futuri, o di entrambi» (Schultz 1971, 48), quindici anni prima lo psicanalista Fromm affermava lo stesso concetto: L’uomo moderno è stato trasformato in un oggetto, sente le sue forze vitali come un investimento che gli deve dare il massimo profitto ottenibile alle condizioni di mercato del momento (Fromm 1975, 110).

Ancora in anticipo sulle scoperte tecnologiche digitali, veicolo della odierna eterodirezione degli uomini, per esempio la rete e il cellulare25, Fromm coglie nell’induzione di un consumo

25 Il cellulare è uno strumento che riteniamo possa avere un ruolo privilegiato all’interno dell’odierno dispositivo di governamentalità che Foucault chiama di sicurezza (vedi par. 1.7); infatti, come suggerisce Han (2015), nello smartphone ‒ e coi corrispondenti social network ‒ si attiva il paradosso per il quale dalla sua promessa di una maggiore libertà deriva la costrizione fatale alla comunicazione ossessiva e coatta, per cui anche qui la maggior libertà si rovescia in maggior costrizione. D’altronde, anche questo effetto deriva dalla logica del capitale, poiché, tramite la costrizione alla comunicazione insita nel cellulare e nel social network, si

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di immagini esasperato ‒ che chiama, in sintonia col suo tempo, industria del divertimento ‒ una modalità di asservimento che agisce tramite la narcosi della disperazione dovuta alla alienazione indotta dal funzionamento del sistema capitalistico: L’uomo supera la propria inconsapevole disperazione mediante la routine dei divertimenti, della consumazione passiva dei suoni e delle immagini offerti dall’industria del divertimento: oltre a ciò, mediante la soddisfazione di comprare sempre cose nuove, per subito scambiarle con altre […] Divertirsi significa consumare (Fromm 1975, 111).

Infine segnaliamo come Fromm associ il comportamento dell’individuo liberamente asservito al sistema capitalistico a quello della pecora nel gregge, implicitamente confermando che sotto tale sistema il governo degli uomini debba assumere le caratteristiche di quello del pastore rispetto al gregge: «Le relazioni umane sono essenzialmente quelle degli automi, ognuno dei quali basa la propria sicurezza tenendosi vicino al gregge e non divergendo» (Fromm 1975, 110). La governamentalità neoliberale si avvale ovviamente di vari strumenti tecnici e giuridici, che essa veicola attraverso le istituzioni che controlla, per realizzare l’assoggettamento dei soggetti formalmente sempre più liberi. A fianco, e spesso precedenti a questi strumenti, emergono i saperi strettamente economici che ne forniscono la veridizione, talvolta ammantati di aspetti “valoriali” umani che li vorrebbero migliorativi del sapere puramente strumentale del calcolo economico. Prendiamo ad esempio l’uso dello strumento educativo. Come noto, la strategia “lisboniana” della UE (Commissione europea 2010) punta a indirizzare istruzione, saperi, competenze e formazione dei cittadini e dei lavoratori europei ri-orientando i sistemi formativi nell’ottica del lifelong learning e a modificare il mercato del lavoro nell’ottica della mobilità e della flessibilità, il tutto sotto il mantra della circolazione delle informazioni e dei saperi (ovvero della trasparenza), per l’obiettivo economico del

accelera la circolazione dell’informazione e questa porta alla circolazione accelerata del capitale: cioè, piú comunicazione significa piú capitale (vedi anche par. 4.6).

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miglioramento della produttività (ovvero del saggio di profitto) e per quello sociale e antropologico della creazione del lavoratore-impresa-capitale umano (ovvero dell’obbedienza libera). Cosa intendono gli strateghi europei con il termine lifelong learning (o apprendimento permanente)? Un processo di auto-orientamento ed auto-educazione continua durante tutto l’arco della vita che sia “personalizzato” sulla tipologia di persona, in cui a differenza con quanto accadeva da molti decenni fino agli anni ‘70, adesso l’individuo non solo non acquisirà una conoscenza valida e duratura da parte delle istituzioni scolastiche ma sarà responsabile in prima persona di tutto ciò che apprende e del modo in cui apprende. Rendere responsabili del proprio learning implica la centralità della persona come soggetto attivo nelle scelte e ne rivela il significato: creare persone capaci di saper agire in modo promozionale, attivo, propositivo, creativo e produttivo all’interno del contesto in cui lavorano ovvero fare meglio gli interessi dell’impresa nella convinzione di realizzare i propri. Il Premio Nobel per l’economia 1998 Amartya Sen e la filosofa americana Martha Nussbaum, hanno sviluppato il concetto di Capability, termine con cui illustrano la necessità di sviluppare in tutti gli individui quelle capacitazioni, o risorse interne, che lo rendano capace di agire in modo libero e responsabile all’interno della azienda in cui opera, aumentandone così la produttività, col risultato di fare felici se stessi e più ricco il sistema26. Il concetto chiave di tale approccio è che, poiché antropologicamente ciascun individuo è diverso dagli altri nel valore che dà alle cose, nelle caratteristiche personali, nell’ambiente esterno, nella capacità di convertire risorse in obiettivi, allora bisogna fare acquisire a ciascuno le proprie opportunità e competenze in libertà in modo che, mentre gli individui credono di autorealizzarsi,

26 Per Nussbaum (2011), il termine capabilities significa un «insieme di capacità non innate nel soggetto, ma da lui costruite, sviluppate, e garantite socialmente», e per Sen (2009) solo se si «attribuisce alle persone maggiore libertà nell’azione, e quindi capability, rispetto a quanto accade solitamente in ambito sociale, politico, economico, internazionale, queste persone possono sentirsi attive ed attivate nel miglioramento della propria condizione esistenziale prima e di quella umana poi».

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sia possibile poi nell’insieme del sistema sfruttare al meglio le potenzialità di ciascuno (insomma, le tesi delle capabilities da sviluppare realizzano per il sistema capitalista qualcosa di simile al sogno di ogni monopolista discriminatore, prelevare il massimo surplus da ciascun consumatore). Sen punta a rendere lo sviluppo delle competenze umane coerente con quelle dello sviluppo economico capitalistico: se l’istruzione e la formazione sono orientate allo sviluppo delle capabilities, ovvero la possibilità per ciascuno di avere e sfruttare al meglio le proprie opportunità, queste non solo segnano il percorso di sviluppo umano ma lo rendono un migliore capitale umano che consenta un miglior sfruttamento della forza-lavoro dell’individuo e un aumento della produttività per sostenere al meglio lo sviluppo capitalista, ovvero dicendo che il valore della persona deve basarsi sulle possibilità di auto-realizzazione umana si tende, in realtà, a migliorare il valore “capitalistico” della persona, misurato in termini di produttività e reddito ovvero come capitale umano. Quindi, un sistema di valutazione alternativo che intende valorizzare gli aspetti umani, etici ed egualitari rispetto al sistema utilitaristico e neo-liberale ‒ come appare ad occhi ingenui quello proposto da Sen e Nussbaum ‒ finisce, invece, per fortificare le nozioni chiave della governamentalità neoliberale ‒ responsabilità, autoformazione, flessibilità, precarietà, mobilità, produttività ecc. ‒ le quali, magicamente, fanno dell’individuo un soggetto liberamente obbediente, della forza-lavoro un capitale e del lavoratore un imprenditore. Infine, vogliamo sottolineare come emerga una dicotomia nell’interpretazione del potere attuale in epoca di globalizzazione fra chi, in perfetto stile neoliberale (à la Hayek), pensa che la globalizzazione implichi un potere completamente diffuso ed acefalo e pertanto ritiene che esso non sia un potere, anche perché risulta spogliato, a causa della sua atomizzazione, della “ipseità” ‒ ossia della deliberata volontà di volersi, di ripetersi e di ingrandirsi ‒ e chi ritiene, come noi, che il potere può essere strategicamente decentrato e, solo apparentemente, diffuso da parte delle organizzazioni stesse che lo detengono per esercitarlo meglio e con minori rischi. Secondo Beck, nell’economia globale il potere politico ed economico sarebbe sparito ‒ sparizione che è auspicato pure quale fatto positivo dal pensiero neo-ordoliberale ‒ perché l’economia globale è «un potere

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diffuso, in quanto è un potere anonimo privo di un centro, senza imputabilità e senza una chiara struttura di responsabilità» (Beck 2010, 73). Secondo Han (2016), invece, bisogna distinguere, più correttamente, fra mercato e organizzazione d’impresa in un contesto globale. Il primo non sarebbe in quanto tale una struttura di potere, poiché la frammentazione in miriadi di strutture di potere economiche o politiche rende impossibile la costruzione di un potere ampio e stabile, ossia il mercato globale sarebbe un potere interamente diffuso e quindi non un potere. Nel secondo caso, invece, una organizzazione come un’impresa multinazionale rappresenta una struttura di potere, perché organizzazione decentrata e diffusione del potere sono cose del tutto diverse, e il decentramento può essere solo una scelta strategica che può persino creare maggior potere dell’organizzazione centralizzata. Noi osserviamo, invece, che anche la distinzione fra mercato ‒ ritenuto libero e diffuso ‒ e impresa o organizzazione ‒ ritenuta invece luogo di potere ‒ sia fuorviante in quanto il mercato non è altro che il campo d’azione delle imprese che lo costituiscono. E, più in generale, osserviamo che l’indebolimento del potere degli Stati sovrani, ad opera di organismi ipocritamente definiti apolitici ed espressione di mercati altrettanto ingannevolmente definiti come, vedi sopra, non-poteri, è in realtà una scelta strategica delle organizzazioni dominanti ‒ come è stato il caso della costruzione dell’Unione Europea ‒ per preservarsi dal rischio di perdita di controllo, data la minor controllabilità delle dinamiche politiche in contesti statuali democratici.

4.4. Una figura letteraria di controcondotta ben presto egli apparve sulla soglia del suo eremo. – Che desiderate? – chiese tranquillo. – Le copie, le copie – risposi in fretta. – Le dobbiamo collazionare. Ecco – e gli tesi il quarto esemplare. – Preferirei di no – disse, scomparendo tranquillo dietro il paravento. (Melville, Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street, 1853)

“Bartleby lo scrivano”, racconto di Melville del 1853, rimane un indecifrabile enigma a causa della formula che la figura indimenticabile dello scrivano senza riferimenti e referenze da un certo

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punto in poi non si stanca di ripetere a ogni richiesta di fare “copie”: “preferirei di no” (I would prefer to not), che Gianni Celati ha tradotto in italiano, tentando di rendere la “stranezza” dell’espressione di Bartleby, come “Avrei preferenza di no”. Deleuze (1993) ci riassume le aporie di senso rilevabile da quella formula linguistica, che non è né un’affermazione né una negazione, né un rifiuto né un’accettazione, è un “avanzata in cui si ritira, una esposizione in cui si ritrae”: La formula è devastatrice perché elimina impietosamente tanto il preferibile quanto qualsiasi non-preferito. Essa annienta il termine a cui conduce e che ricusa; ma anche l’altro termine che sembra preservare e che diventa impossibile. In realtà li rende indistinti: scava una zona d’indiscernibilità, di crescente indeterminazione tra attività non-preferite e un’attività preferibile. Ogni particolarità, ogni referenza è abolita. La formula rende impossibile “copiare”, il solo riferimento in rapporto al quale qualcosa potrebbe essere o no preferito (Deleuze 1993, 12).

Si tratta di una inaudito atto umano, il non volere, il nulla della volontà, da non confondere con il pur demoniaco e nichilistico volere il nulla: «Preferirei niente piuttosto che qualcosa: non una volontà di nulla, ma l’avanzare di un nulla di volontà» (ibidem). Infatti, anche per il Nietzsche della Genealogia della morale «l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere» (2012, Terza dissertazione, 11). Enucleiamo qui dall’analisi del racconto fatta da Agamben (1993) tre elementi: 1) la relazione fra copia ed eterno ritorno, già ipotizzata da Benjamin27; 2) la relazione fra la copia, o la ripetizione, e la potenza del creatore, perché soltanto l’eterno ritorno vedendo «ripetersi ciò che è avvenuto e, solo a questo prezzo,

27 «Benjamin ha scorto l’intima corrispondenza fra copia e eterno ritorno, quando paragona una volta quest’ultimo alla Strafe des Nachsitzens, cioè alla punizione che il maestro assegna agli scolari negligenti e che consiste nel copiare innumerevoli volte lo stesso testo. (“L’eterno ritorno è la copia proiettata nel cosmo. L’umanità deve copiare il suo testo in interminabile ripetizione.”) L’infinita ripetizione di ciò che è stato abbandona del tutto la potenza di non essere. Nel suo ostinato copiare, come nel contingente di Aristotele, “nulla vi è di potente non essere”. La volontà di potenza è, in verità, volontà di volontà, atto eternamente ripetuto, e solo in questo modo potenziato» (Agamben 1993, 59).

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cancella la differenza tra mondo attuale e mondo possibile, gli restituisce potenza» (Agamben 1993, 59), cosa che anche il Leibniz del Dio ingegnere ‒ che sceglie il mondo attuale fra gli infiniti possibili perché è quello che massimizza una certa sommatoria di male e bene (in cui magari c’è più male che in altri ma nei quali il minor male non implicherebbe però un massimo di quella somma) ‒ che si domanda angosciato perché il nulla non sia meglio di qualcosa avrebbe chiaro tanto quanto lo Zaratustra di Nietzsche; 3) poiché Bartleby è un law-copist, uno scriba in senso evangelico, e il suo rinunciare alla copia è anche una rinunciare alla Legge, è facile accostare Bartleby, come già il kakfiano Josef K., a una figura cristica che viene ad abolire la vecchia Legge e ad instaurarne una nuova, dove però Bartleby non verrebbe, come Gesù, per redimere ciò che è stato, ma per salvare ciò che non è stato28. L’interruzione della copia da parte dello scrivano, trincerato dietro il paravento che lo isola dagli altri presenti nello studio29,

28 Agamben porta come parallelo sostegno a questa interpretazione quelle speculazioni cabalistiche secondo cui il Messia non verrebbe tanto a portare una nuova Legge, ma a portare a compimento la Torah tramite la sua totale distruzione, cioè non vi sarebbe solo una prima Scrittura ma anche una seconda: «La Scrittura è la legge della prima creazione (che i cabalisti chiamano “Torah di Beriah”), in cui Dio ha creato il mondo a partire dalla sua potenza di essere, tenendola separata dalla sua potenza di non essere. Ogni lettera di questa Torah è, perciò, rivolta tanto verso la vita che verso la morte, significa tanto l’anello che il dito cui era diretto e che si disfa nella tomba, tanto ciò che è stato che ciò che non ha potuto essere. L’interruzione della scrittura segna il passaggio alla creazione seconda, in cui Dio richiama a sé la sua potenza di non essere e crea a partire dal punto di indifferenza di potenza e impotenza. La creazione che ora si compie non è una ricreazione né una ripetizione eterna, ma, piuttosto, una decreazione, in cui ciò che è avvenuto e ciò che non è stato sono restituiti alla loro unità originaria nella mente di Dio e ciò che poteva non essere ed è stato sfuma in ciò che poteva essere e non è stato» (Agamben 1993, 60). 29 Come noto, l’avvocato lo sistema in quello spazio aperto e chiuso nello stesso tempo: «procurai un alto paravento verde pieghevole che poteva escludere completamente Bartleby dalla mia vista, pur lasciandolo a portata di voce. Così, in certo modo, convivevano solitudine e compagnia». In quello spazio Agamben immagina un laboratorio, che in ciò noi suggeriamo simile a quello di fisica nucleare in cui lavora Majorana, dove avviene un esperimento sull’ontologia del reale: «Il verde paravento che isola il suo scrittoio traccia il perimetro di un laboratorio in cui la potenza, tre decenni prima di Nietzsche e in tutt’altro senso, allestisce l’esperimento in cui, sciogliendosi dal principio di ragione, essa si emancipa tanto

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giustificata da una frase a-grammaticale, che tanto lascia sbigottito e affascinato l’avvocato che lo ha assunto quanto rischia di far proseliti negli altri dipendenti, e che in un certo senso somiglia al dialogo-monologo fra l’Inquisitore e Cristo (il silenzio di Bartleby rotto solo dalla sua formula sarebbe assimilabile al silenzio ostinato e poi al bacio di Cristo che interrompe il monologo aprendo l’interruzione della legge), è l’interruzione della replica e dell’ingrandimento del potere, dello spazio, quindi, insomma, anche del capitale, la liberazione dalla coazione a ripetersi e ad espandersi da un piano all’altro della piramide dei mondi della teodicea, con un solo vertice ‒ il mondo ottimizzato ‒ ma con una base infinita, l’apertura al possibile che non è stato. Peraltro, l’argomento della “inoperosità” ‒ persino quella inaudita e destabilizzante di Bartleby ‒ ha un alto riferimento filosofico. La specificità dell’umano, secondo Agamben (2007) che rilegge Spinoza, sta nella contemplazione di se stesso e della propria potenza di agire, nella inoperosità che disattiva ogni agire, ogni fare, e, in questo senso, rimane soltanto la vita attraverso cui si vive e che soltanto consente di esperire il proprio sé; in altri termini, la prassi caratteristica della vita umana è inoperosità perché solo così si disattiva la necessità biologica e sociale e si apre alla possibilità, alla politica, ovvero alla libertà d’azione. La macchina teologico-economica deve allora carpire per il ‒ e nel ‒ suo funzionamento l’acquiescenza, la contemplazione, l’inoperosità, il sabatismo, la letizia accompagnata dall’idea di sé30, che altrimenti disattiverebbero l’economia, ossia il dispositivo teologico di governo del mondo. Agamben, per illustrare come la politica e la filosofia avrebbero il compito di mostrare il modo di disattivare la potenza di agire per rendere inattive la destinazione economica e biologica della vita ed aprire alla inattesa possibilità l’uomo come corpo biologico, utilizza il modello della “poesia” che contempla la potenza della lingua, disattivandola rispetto al suo uso comunicativo e informativo, e aprendone, invece,

dall’essere che dal non-essere e crea la sua propria ontologia» (Agamben 2007, 73-74). 30 Spinoza (Etica, IV, 52, dimostrazione) descrive questa “inoperosità” congenita alla prassi umana come una “acquiescenza”: «L’acquiescenza in se stessi è una letizia nata da ciò, che l’uomo contempla se stesso e la sua potenza di agire».

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l’uso alla possibilità, alla novità ‒ Dante o Leopardi per la lingua italiana quanto Rimbaud e Hölderlin per quelle francesi e tedesche: Un modello di questa operazione che consiste nel rendere inoperose tutte le opere umane e divine è il poema. Poiché la poesia è precisamente quell’operazione linguistica che rende inoperosa la lingua […] Così La vita nuova o i Canti sono la contemplazione della lingua italiana […] E il soggetto poetico è non l’individuo che ha scritto queste poesie, ma quel soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è stata resa inoperosa, è, cioè, divenuta, in lui e per lui, puramente dicibile. Ciò che la poesia compie per la potenza di dire, la politica e la filosofia devono compiere per la potenza di agire (Agamben 2007, 274-275).

Tentiamo qui di associare, attraverso un excursus etimologico, il gesto di interrompere la copia da parte di Bartleby con quello di interrompere la riproduzione incessante del capitale (ricordando che non a caso il sottotitolo del racconto di Melville è “Una storia di Wall Street”). Copia, derivando come contrazione dal latino cum opis, ha il significato di ricchezza, di potere, di potenza, di mezzo per fare, di possibilità, di licenza di fare. Capitale, derivando dal latino caput, denota il “principale” da cui discendono altre cose, il cespite da cui discende la rendita. Han (2019) sottolinea che il potere è spazio e lo spazio di diritto, l’ordinamento, rendono per la prima volta la terra un luogo31, come Schmitt e Tillich chiariscono32. Innanzitutto, noi evidenziamo, con Schmitt, il legame inestricabile che sussiste tra Ordnung e Ortung, tra ordinamento e localizzazione (o collocazione), il le-

31 In termini di potere non vi è differenza fra potere territoriale, terraneo, e potere digitale. In questo senso, per esempio, sia le fusioni fra imprese che le acquisizioni di un’impresa da parte di un’altra ‒ anche se solo contabili ‒ sono appropriazioni “territoriali”, espansioni del potere (economico). 32 Secondo il giuspubblicista tedesco «L’occupazione di terra è l’archetipo di un processo giuridico costitutivo […] l’ordinamento iniziale dello spazio, l’origine di ogni ulteriore ordinamento concreto e di ogni ulteriore diritto» (Schmitt 1991, 27-28). Anche secondo Tillich il potere è connesso allo spazio geografico: «La potenza dell’essere consiste nel potere di avere uno spazio. Da ciò derivano i conflitti di tutti i gruppi sociali in tema di spazio. È inoltre il motivo dell’immane importanza dello spazio geografico e delle lotte per la conquista di spazio geografico in tutti i gruppi di potere» (Tillich 1962, 229).

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game che rivela il radicamento primigenio del diritto nella terra; ciò è, infatti, quello che il termine greco nomos tende a mostrare, a dispetto del fatto che tale termine oggi viene comunemente (ed erroneamente) tradotto con norma o legge, rivelando che nel corso della storia la derivazione del nomos dalla terra, dall’occupazione del suolo, è andata perduta fino a creare, paradossalmente, una vera e propria contrapposizione tra nomos e physis, “in base alla quale il nomos finisce per consistere in un dover essere che si stacca dall’essere e che si impone su di esso”, mentre propriamente il termine nomos è la parola greca che designa la prima misurazione, da cui derivano tutti gli altri criteri di misura; la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria, è nomos. Questa parola, intesa nel suo significato originario, legato allo spazio, è quella che meglio si presta a rendere l’idea del processo fondamentale di unificazione di ordinamento e localizzazione (Schmitt 1991, 54).

Heidegger, da parte sua, collega il luogo (Ort) con il suo significato primigenio di “punta di lancia”, traendone l’osservazione che esso è ciò che attrae a sé, che localizza, che offre la propria luce e accoglie con ciò che gli è proprio: Il termine Ort [luogo] significa originariamente punta della lancia. Tutte le parti della lancia convergono nella punta. L’Ort riunisce attirando verso di sé in quanto punto più alto ed estremo (Heidegger 1959, 45).

Han osserva acutamente che, tuttavia, Heidegger non va oltre nell’analisi morfologica del luogo e non collega la localizzazione con il potere, mentre facendolo è possibile ottenere ulteriori conclusioni. Intanto, se luogo è punta della lancia e la punta indica che il luogo è centrato, allora il luogo “trae” tutto a sé, “riunisce attirando verso di sé”, fa riunire tutte le forze nella punta. È quindi strutturato in maniera ipsocentrica, ovvero quella attrazione del tutto verso la punta ci dice che il luogo ha “ipseità”, vuole se stesso e afferma se stesso. Quindi il potere, al pari della localizzazio-

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ne, è ipsocentrico33, tende a ripetere e ad affermare se stesso, privo di ogni apertura all’alterità. Come dice Han, «Ciascun luogo politico o economico punta a se stesso, afferma se stesso». Anche il capitale, che deriva da caput, è etimologicamente collegato alla “punta”, quindi, per quanto detto sopra su luogo e potere, è intrinsecamente volto alla ripetizione e alla espansione di se stesso. Il potere e il capitale, il capitale che è potere e comando (come sia Smith che Marx sottolineano), tendono a replicarsi ed espandersi, a fare copia di sè. Allora, Bartleby rifiutando di fare la copia, astenendosi dall’agire come copista, impersonifica una originale controcondotta, che depotenzia il capitale, il luogo del potere, nel suo intrinseco afflato alla continua riproduzione allargata di sé.

4.5. L’attuale macchina capitalistica secondo la psicanalisi è proprio il vero nuovo potere che non vuole più avere tra i piedi simili padri. È proprio questo potere che non vuole più che i figli si impossessino di simili eredità ideali. (Pasolini 1975, 24) I capelloni ignorano/ di inventare una nuova religione./ È più oscura delle altre ma sappiamo/ che il peggio non ha limiti e come strada è la più larga e sicura. (Montale, I nuovi credenti (?), 1990, 840)

Seguendo le lezioni di Lacan (2002) e Pasolini (1999), possiamo affermare che il capitalismo contemporaneo sia caratterizzato dalla evaporazione dell’Ideale e del Padre34, e non solo e non tanto di quello teologico (l’Uno, il Fondamento, il Dio), ma di quello che svolge sia la funzione simbolica di interdizione della coppia incestuosa (madre-figlio), sia quella di testimone per la trasmissione del desiderio, quello che ha permesso sia il patto sociale che

33 Anche Derrida (2003, 39) dice che «L’idea di forza (kratos), di potere e di dominio è analiticamente compresa nel concetto di ipseità». 34 Intendendo il Padre soprattutto come funzione normativa, si è assistito non solo alla evaporazione del Padre nella famiglia, ma anche di quelle istituzioni sociali come il Partito o la Chiesa o la Scuola in grado di surrogarne la funzione.

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il patto intergenerazionale, il padre interditore e, nel contempo, donatore35. Qui, il passaggio dal potere del sovrano al potere governamentale discusso da Foucault, diventa quello da suddito a consumatore. Nel brano I giovani infelici, Pasolini accusa irrevocabilmente le colpe dei padri, ma anche dei figli, nel quadro di una degenerazione antropologica epocale. Il poeta dice di aver capito solo ora, di fronte a quelle colpe e a quella degenerazione, ciò che il coro democratico ateniese intendesse quando esclamava ‒ in modo apparentemente crudele e insensato ‒ che i figli debbano pagare le colpe dei padri: Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati ‒ in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano ‒ dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi. Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri. È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una così atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana (Pasolini 1999).

L’evaporazione del Padre e di Dio ha il parallelo nella traslazione della fede salvifica della religione in quella capitalistica della merce salvifica, feticcio, idolo, che Marx aveva acutamente già svelato, e sulla quale il Benjamin del “capitalismo come religione” aveva gettato una luce chiarificatrice. Lacan, come ci ricorda Recalcati (2011), costruisce il concetto dell’“astuzia fondamentale del discorso del capitalista”36. Quel

35 «Se il padre dell’interdizione è il padre che castra il godimento (incestuoso) imponendogli un limite simbolico, il padre donatore è il padre che compensa questa rinuncia al godimento più immediato con l’offerta di un’identificazione idealizzante, con la trasmissione, più precisamente, del diritto di desiderare un proprio desiderio» (Recalcati 2011, 50). 36 Lacan introduce un primo fugace riferimento al “discorso del capitalista” nel seminario tenuto presso la Facoltà di diritto del Panthéon nel 1969-1970, riferimento ripreso e sviluppato in una conferenza milanese del 1972, e collegato al più generale oggetto del suo corso che era il “discorso del padrone”.

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discorso veicola una duplice credenza: 1) la libertà senza limiti del soggetto, mosso e rapito soltanto dalla sua volontà di godimento e dalla sua avidità di consumo; 2) la schiavitù totale del soggetto rispetto al potere totalizzante dell’oggetto-merce (o marca), a sua volta causata da una sua duplicità: da un lato, l’illusione di salvezza nell’oggetto-merce, e, dall’altro lato, la vacuità e la rapida obsolescenza di tale oggetto. Il discorso del capitalista si qualifica come macchina di godimento37. I due assi portanti del discorso del capitalista sono, secondo Lacan, i) la “forclusione della castrazione” e quindi della rimozione o sublimazione (vedi par. 1.5), cioè del limite e della formazione del desiderio, ovvero della sua umanizzazione38, ii) l’“esclusione delle cose dell’amore”, cioè il soggetto preferisce rifiutare sia la mancanza che lo costituisce ‒ ossia la perdita originaria dovuta alla irreparabile separazione dal proprio essere causata dalla nascita del linguaggio ‒ che il desiderio che scaturisce da tale mancanza, e non pone la ricerca di ciò che ha originariamente perduto nell’Altro ‒ la ricerca rischiosa e turbativa dell’incontro con l’amore e con l’Altro sesso ‒ ma pone l’oggetto-merce come suo inumano partner. Il carattere disumano del capitalismo non è dato solo dalla marxiana alienazione dell’uomo e della sua riduzione a mera forza-lavoro animale, ma anche alla riduzione dell’uomo a “maniaco”39, nel senso della sua perdita dell’inconscio e di un desiderio umanizzato, per essere, invece, ridotto all’azione della sola pulsione di morte come

37 «Il carattere vacuo dell’oggetto – il suo destino caduco, la sua obsolescenza costitutiva – alimenta l’insoddisfazione permanente alla quale il discorso del capitalista risponde con l’offerta dell’oggetto come luogo di salvezza che però, anziché salvare, riproduce quella stessa circolarità che prometteva di spezzare. In questo senso l’iperattività che Lacan gli attribuisce non è una caratteristica tra le altre, ma la condizione (“infernale”) del suo funzionamento che, per reggere efficacemente il carattere bifido del suo oggetto, deve viaggiare con una velocità costantemente accelerata» (Recalcati 2011, 29). 38 Ne consegue, quindi, «che il godimento deborda senza argine, senza freni, non si aggancia al desiderio, sospinge verso la consumazione dissipativa della vita» (Recalcati 2011, 30). 39 La condizione dell’uomo “maniacale” prodotto dal discorso del capitalista è rappresentata da una «festinazione oscena» intesa come «quell’impasto tragico tra la volatilità perpetua e la tendenza eminentemente mortifera che caratterizza questo genere di legame sociale» (Recalcati 2011, 29-30).

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pulsione che trasforma la vita nella ricerca continua di un godimento tanto illimitato quanto distruttivo; in questo Lacan, così intendendo il soggetto maniacale, offre una dimensione sociale ‒ ossia la società del capitalismo ‒ alla manifestazione pura della pulsione di morte, quando invece Melanie Klein intendeva il soggetto maniacale come colui che si difende dalla melanconia quale manifestazione della pulsione di morte. Il discorso del capitalista (nella sua doppia credenza e nella sua duplice caratteristica, sopra evidenziate) genera l’evaporazione del Padre (e da essa è anche generato, il nesso causale non rileva qui), e, quindi, il Desiderio senza legge. Peraltro, un Padre capace solo di interdire e non di donare, genera la Legge senza desiderio. Se quest’ultima tende a porsi come un dovere ferreo sul soggetto tendendo così all’annichilimento della vita tramite repressione e disciplina, invece il Desiderio senza legge tende «alla dissipazione, all’eccitazione senza sponde, alla dispersione sregolata del godimento pulsionale […] precipita verso una deriva mortifera, diviene godimento dissipativo, schiacciato sul soddisfacimento immediato privo della mediazione del fantasma inconscio» (Recalcati 2011, 51). Quindi, ribaltando la tesi del “disagio della civiltà”, il “discorso” del capitalista crea un mondo ‒ che Lacan ritiene strutturalmente psicotico ‒ dominato da un tirannico imperativo di godimento, dove se il Padre, inteso come garante dell’alleanza tra Legge e Desiderio, svanisce, rimane, invece, come oggetto il Padrone. La lungimiranza dell’analisi di Lacan si rivela nell’aneddoto contenuto nel resoconto del suo seminario, secondo cui nella lezione del 3 dicembre del 1969, ancora nel pieno della contestazione, alla domanda di uno studente Lacan offre questa risposta: «Ciò a cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. L’avrete» (Lacan 2001, 29-30). Si afferma, in tal caso, il Super-Io alterato e patologico, in cui Legge e desiderio sono inconciliabilmente separati. I poli estremi della separazione sono rappresentati, da un lato, dall’imperativo categorico, il dover-essere perenne e irrangiungibile, di Kant, e dall’altro lato, dal puro principio del piacere di Sade; il primo, che svilisce la dimensione vitale del desiderio, il secondo che scatena una volontà di godimento senza limite il cui esito

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è la rovina e la morte. Si afferma il Super-Io del soggetto “maniacale” generato dal discorso capitalista che consente il trionfo dell’oggetto nell’economia capitalista. La lettura di Lacan della macchina capitalistica in termini di macchina di godimento complementa quella foucaultiana come governamentalità (vedi par. 1.3) e quelle come macchina teologico-politica secondo Benjamin, prima, e oggi, secondo, ad esempio, Esposito ed Agamben, quest’ultimo con la sua variante teologico-economica (vedi par. 3.2-3.7). Il dramma dell’evaporazione del Padre è vissuto in maniera duplice, da un lato, da coloro che perorano un ritorno alla funzione normativa del Padre, dall’altro lato da coloro che ‒ in linea col discorso del capitalista ‒ esaltano questa liberazione delle pulsioni. Recalcati patrocina una via intermedia in cui si riesca ad «evitare il rimpianto nostalgico per la versione edipica della Legge – sostenuta dal carattere universale dell’Ideale – senza scadere in un’adesione collusiva e acritica alle promesse di salvezza messe in gioco astutamente dal discorso del capitalista e dalla sua enfatizzazione del godimento pulsionale più immediato» (Recalcati 2011, 55). Una via di uscita dal dramma, e quindi anche dal “discorso del capitalista”, che la psicanalisi suggerisce è quella di opporre al culto ipermoderno della prestazione, del successo e della velocità, l’elogio del fallimento, dell’errore, dell’indecisione, della sconfitta40. L’elogio del fallimento, in cui viene visto «uno zoppicamento salutare dell’efficienza della prestazione» dichiara, con Lacan, che ad essere fallito è l’oggetto, con ciò smontando l’interessata esaltazione dell’oggetto-merce (o marca) del “discorso del capitalista”, perché l’oggetto non si presenta come ciò che può colmare la “mancanza a essere” che abita il soggetto, ma che l’incontro con l’oggetto è strutturalmente marcato da una condizione fallimentare. L’oggetto è sempre fallito, è sempre insoddisfacente, è sempre un vuoto, una lacuna. La pulsione non si chiu-

40 Come dice Lacan, un atto mancato ‒ la dimenticanza, il lapsus ‒ è tale solo per l’io, ma non per il soggetto dell’inconscio, per il quale invece è un atto riuscito, o, ancor meglio un “atto mancato è il solo atto riuscito possibile”. Ne consegue che il fallimento è un successo del soggetto dell’inconscio, che il soggetto “maniacale” generato dal discorso del capitalista ha annichilito e sostituito.

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de su di esso, ma deve farne il giro. L’oggetto è fallito perché non è mai raggiunto, perché si raggiunge solo la sua ombra (Recalcati 2011, 80-81)41.

La libertà dell’odierno capitalismo ‒ al centro del pensiero neo-liberale ‒ è non solo del tutto “immaginaria”, come afferma Magatti (2009), è non solo il prodotto del dispositivo securitario al cuore dell’odierno dominio governamentale capitalistico, come afferma Foucault (2005, 2017), ma nella sua natura di libertà del godimento è solo una manifestazione del Super-io, cioè di quell’alterazione psicopatologica connessa, dal punto di vista psichico, all’evaporazione del padre e, dal punto di vista sociale, al successo del discorso del capitalista, ossia di quella «istanza che nega ogni forma possibile di libertà, che rende schiavi […] una nuova forma di schiavitù che rigetta ogni forma di responsabilità» (Recalcati 2011, 80). Per concludere queste considerazioni sulla diagnosi psicoanalitica del corrente potere capitalistico e sulle possibilità di “resistenza o controcondotta”, osserviamo con Recalcati (2011, 82) che il discorso della psicoanalisi è antagonista a quello del capitalista perché la psicoanalisi denuncia l’oggetto come fallito, mentre il discorso del capitalista ne sostiene il potere feticistico, idolatrico, anche se astutamente ne sfrutta l’inconsistenza. Schierarsi dalla parte del fallimento dell’oggetto, del fallimento del rapporto sessuale, del fallimento proprio del soggetto dell’inconscio, è la sola possibilità per provare a far sorgere di nuovo il desiderio e la sua Legge42.

41 Di passaggio, si ricorda che il fallimento dell’oggetto è per Lacan anche il fallimento del rapporto sessuale, poiché l’uomo, al contrario dell’animale che di esso ha solo il portato biologico, ne deve fare esperienza senza poterne mai cogliere il significato, il mistero. 42 Per illustrare l’evaporazione del padre e le degenerazione postmoderna di tale figura ‒ e per ricordare anche l’esistenza della figura evocata da Freud, sulla base delle considerazioni antropologiche di Darwin (1871), quella del Padre primigenio dell’orda, che non ha funzione normativa ma gode illimitatamente di tutte le donne e caccia i figli dal gruppo (e che da questi viene ucciso, con la conseguente fondazione della società, della legge e del senso di colpa) ‒ Recalcati ricorre alla figura ormai aneddotica dell’ex premier Berlusconi in cui la «figura del padre ridotta a “papi”, anziché sostenere il valore virtuoso del limite, diviene ciò che autorizza alla sua più totale dissoluzione. Il denaro elargito non come riconoscimento di un lavoro, ma come puro atto arbitrario, l’illusione che si

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Infine, anche Pasolini, con una lucidità quasi profetica, pochi mesi prima di essere assassinato, poneva la questione della mutazione antropologica indotta dal capitalismo contemporaneo e dal suo modello pedagogico. Rispetto a quest’ultimo, Pasolini, rivolgendosi ad un immaginario adolescente, individuava i nuovi educatori, rispettivamente, nelle merci del consumismo e nei suoi coetanei portatori nel vivere quotidiano dei nuovi dirompenti valori, o meglio non-valori, mentre il padre e la famiglia come la scuola, loro surrogato, erano esclusi e impotenti, ed indicava nei media i nuovi spaventosi educatori senza alternative: Le tue fonti educative più immediate sono mute, materiali, oggettuali, inerti, puramente presenti […] i tuoi compagni che sono […] i tuoi veri educatori. Essi sono portatori, inconsapevoli e perciò tanto più prepotenti, di valori assolutamente nuovi, che solo tu e loro vivete. Noi ‒ vostri padri ‒ ne siamo esclusi […] i due genitori […] i tuoi diseducatori […] la scuola […] che ti ha completamente diseducato […] la stampa e la televisione, questi spaventosi organi pedagogici privi di alcuna alternativa (Pasolini 1999).

Rispetto alla mutazione antropologica, Pasolini osservava ‒ ad esempio, nel paragrafo quinto dell’Intervento al congresso del Partito Radicale pubblicato nelle Lettere Luterane ‒ come, mentre fino alla corrente fase del capitalismo, i rapporti sociali erano modificabili e in questa possibilità di modifica stava il ruolo dell’alterità (la lotta di classe, i movimenti rivoluzionari, ovvero verrebbe da dire qui ‒ con Foucault ‒ le controcondotte), adesso il capitalismo raggiungerebbe l’immodificabilità di questi rapporti sia con un dominio tecno-fascista, denominato però tecno-antifascista, sia con un dominio di falso laicismo, tolleranza, diritti

possa raggiungere l’affermazione di se stessi rapidamente, senza rinuncia né fatica, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili come strumenti di godimento, il disprezzo per la verità, l’opposizione ostentata nei confronti delle istituzioni e della Legge, l’esibizione di se stessi come un io forte e onnipotente, il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà senza vincoli, l’assenza di pudore e di senso di colpa costituiscono alcuni tratti del ribaltamento ipermoderno della funzione simbolica del padre» (Recalcati 2011, 5-6). Il passaggio dal Padre normativo al “papi” del godimento segnala anche «una metamorfosi dello statuto profondo del potere (dal regime edipico della democrazia al sultanato post-ideologico di tipo perverso)» (ibidem).

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civili, relegando per sempre l’alternativa rivoluzionaria all’utopia o al ricordo (ovvero, detto ancora in termini foucaultiani, prevenendo alla radice ogni possibilità di controcondotta): In fondo il «rapporto sociale» che si incarnava nel rapporto tra servo della gleba e feudatario, non era poi molto diverso da quello che si incarnava nel rapporto tra operaio e padrone dell’industria: e comunque si tratta di «rapporti sociali» che si son dimostrati ugualmente modificabili. Ma se la Seconda rivoluzione industriale — attraverso le nuove immense possibilità che si è data — producesse da ora in poi dei «rapporti sociali» immodificabili? Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta […] Da questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d’uomo: ma l’umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei «rapporti sociali» immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi antifascismo); sia, com’è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica, un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili. In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all’utopia o al ricordo (Pasolini 1999).

4.6. Psicopolitica come evoluzione della biopolitica In ogni democrazia ci sono sempre partiti, oratori e demagoghi, dai prostatai della democrazia ateniese fino ai bosses della democrazia americana, oltre a stampa, films, e altri metodi di manipolazione psicotecnica delle grandi masse. (Schmitt 1984, 324) ho un moto di timore o terrore dinanzi […] a uno spazio pubblico, che non dia spazio al segreto. Per me, esigere che si metta tutto in piazza e che non vi sia un foro interno è già il farsi totalitaria della democrazia. (Derrida, in Derrida e Ferraris 1997, 52-53).

Han (2016) ritiene che le categorie originarie della società disciplinare, quali biopolitica e popolazione, non siano più adatte a descrivere il corrente regime neoliberale, e che per questo Foucault

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avrebbe dovuto compiere il passaggio a quella che Han definisce psicopolitica. Peraltro, abbiamo in precedenza mostrato come Foucault abbia proposto il passaggio dalla società disciplinare a quella securitaria per meglio rappresentare la governamentalità neo-liberale; tuttavia si può concordare sul fatto che il filosofo francese non abbia approfondito lo psicoprogramma individuale e collettivo come una tecnologia di potere del dominio neo-liberale. È con Deleuze che si afferma l’idea che la psicopolitica (e non la biopolitica) sia la vera forma di governo del regime neoliberale. Se il regime disciplinare è basato su spazi chiusi (famiglia, scuola, prigione, caserma, ospizio, fabbrica) non può adattarsi al mondo post-industriale e post-moderno con le sue produzioni immateriali e interconnesse, desideroso di globalizzazione e informazione illimitata. Gli spazi chiusi implicano limiti di movimento e quindi limiti alla espansione della produttività, mentre gli spazi aperti, i mondi globali, e le autostrade digitali, consentono movimenti che espandono la produttività. È per questo che il capitalismo odierno abbandona il sistema di controllo disciplinare per passare a quello digitale tipico dell’attuale regime governamentale. Il passaggio dal regime disciplinare a quello neo-liberale viene metaforizzato come il passaggio dalla talpa al serpente, le cui caratteristiche, sempre metaforiche, sono tre43: i) la talpa si muove in spazi chiusi predeterminati e, anche al massimo della propria disciplina, ha comunque sempre un limite superiore alla produttività, mentre il serpente si fa spazio col suo movimento stesso; ii) la talpa è soggetta a restrizioni, è un soggetto sottomesso, mentre

43 «La vecchia talpa monetaria è l’animale dei luoghi penitenziari, ma il serpente è quello delle società di controllo. Noi siamo passati da un animale all’altro, dalla talpa al serpente, nel regime in cui viviamo, ma anche nel nostro modo di vivere e nei nostri rapporti con gli altri» (Deleuze 1990, 244). Nel suo commento a queste figure zoopolitiche deleuziane, Chignola precisa che «La talpa è adattata alla profondità, alla terra; è una forma di vita della stratificazione e del suo attraversamento. Monetaria, perché si alimenta di salario e sul salario costruisce le gallerie che scavano, destabilizzandole sino a farle implodere, le gerarchie che su giornata lavorativa e misura del salario si fondano. Il serpente, di contro, è animale dell’ondulazione e della superficie […] custode del ritmo abitudinario dell’essere, della pura energheia senza attuazione; icona pura del movimento come energheia atelēs […] il serpente è esercizio vivente di deterritorializzazione e sfuggente immagine della potenza del divenire» (Chignola 2017, 3).

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il serpente è un progetto; iii) la talpa è un lavoratore mentre il serpente è un imprenditore44. Secondo Deleuze, se il regime disciplinare è biopolitico e si organizza come un “corpo”, il regime della società di controllo neo-liberale si comporta come un’“anima”. Tale regime governa tramite la tecnica dell’impresa, la cui peculiarità è quella di introdurre una rivalità inestinguibile come sana emulazione, come motivazione eccellente che oppone gli individui fra loro e attraversa ciascun individuo, creando una divisione al suo interno stesso (Deleuze 1990, 242-243),

e che Han chiama ‒ nei suoi elementi portanti quali motivazione, progetto, emulazione, ottimizzazione e iniziativa imprenditoriale ‒ tecnica psicopolitica con cui si esercita il dominio neo-liberale. Deleuze rivisita il passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo ‒ termine ripreso da Burroughs ‒ attraverso tre soglie con le quali si attua la fuoriuscita dalla prima e l’ingresso nella seconda, soglie appartenenti a tre diversi ambiti: quello della metafora zoopolitica, quello del lavoro e quello della moneta. Per la prima, la soglia è quella della metamorfosi dell’animale in relazione all’ambiente sociale, ossia dalla talpa al serpente. La seconda soglia è attraversata quando il salario contrattuale ‒ che era centralizzato e rappresentava l’equilibrio fra il massimo sfruttamento possibile in termini di orario, carico di lavoro e progresso tecnico e la resistenza organizzata di classe ‒ diviene decentrato e individualizzato in base alla performance per obiettivi e il rapporto di lavoro include colloqui, formazione permanente, costante valutazione del singolo. La terza soglia viene individuata in termini monetari, sia per indicare una data simbolica per l’attraversamento della medesima, che è individuata nella crisi del sistema di Bretton Woods e nella fine della convertibilità del dollaro in oro, sia per esemplificare la differenza tra le strategie di potere delle due società,

44 Non a caso la figura del serpente evoca la colpa e il debito (uniti nel termine Schuld), sui quali il regime neoliberale poggia il suo dominio (vedi Conti e Fanti 2020, parte II).

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la prima (di disciplina) che si è sempre rapportata a una moneta il cui valore è riferito all’oro, la seconda (di controllo) che invece fa riferimento alle fluttuazioni dei riferimenti di valore nei rapporti di cambio tra le singole monete (vedi Conti e Fanti 2020, parte II). Una caratteristica peculiare della società di controllo neo-liberale è l’esplosione e l’utilizzo dei cosiddetti Big data. Sebbene il panopticon di Bentham abbia costituito il meccanismo di controllo più pervasivo e diffuso fra le tecnologie di potere, tuttavia, quei soggetti controllati da ogni visuale potevano comunque mantenere segreti i loro desideri e pensieri. Invece, i big data e il controllo digitale consentono non solo di sorvegliare il comportamento umano, ma anche di scrutare dentro la psiche umana. Mentre col panopticon benthamiano la registrazione dei fatti riguardanti i controllati è solo molto parziale ‒ infatti, si registrano i fatti principali del disciplinamento del soggetto ma non tutta la sua vita e, soprattutto, non si possono conoscere i pensieri di tali soggetti ‒ col controllo digitale è invece possibile protocollare l’intera vita di ciascuno e, nella misura in cui i big data rendono leggibili comportamenti che sono inconsci persino per chi li ha ‒ basti pensare ai comportamenti di consumo ‒, applicare un controllo psicopolitico45. Un rapporto della Casa Bianca per Obama, registra la centralità e la criticità dei big data:

45 Han istituisce una similitudine fra i big data e l’inconscio collettivo, nel senso che il data-mining dettagliato rispetto alle azioni umane farebbe emergere degli actomes ‒ micro-azioni ‒ inconsce, e potrebbe promuovere comportamenti di massa inconsci per i singoli, insomma una psicopolitica digitale: il fatto che «una donna, in una certa settimana della gravidanza, desideri un determinato prodotto, implica una correlazione della quale lei stessa non è cosciente Compra semplicemente quel prodotto, ma non sa perché. È cosí. Questo “esser-cosí” ha forse una prossimità psichica con l’Es freudiano, che si sottrae all’Io cosciente. Visti in questa prospettiva, i big data farebbero dell’Es un Io, che si lascerebbe sfruttare sul piano psicopolitico. Se i big data dessero accesso al regno inconscio di azioni e inclinazioni, allora sarebbe pensabile una psicopolitica capace di innestarsi in profondità nella nostra psiche e di sfruttarla…. di impadronirsi del comportamento delle masse su un piano che si sottrae alla coscienza» (Han 2016).

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La traiettoria tecnologica […] è chiara: verranno generati sempre più dati sugli individui e rimarranno sotto il controllo di altri […] la raccolta e l’analisi dei dati vengono condotte a una velocità che si avvicina sempre più al tempo reale, il che significa che esiste un potenziale crescente per l’analisi dei big data per avere un effetto immediato sull’ambiente circostante di una persona o sulle decisioni prese sulla sua vita. Esempi di dati ad alta velocità includono i dati del flusso di click che registrano le attività online degli utenti mentre interagiscono con le pagine web, i dati GPS da dispositivi mobili che tracciano la posizione in tempo reale e i social media ampiamente condivisi (White House 2014, 5, 9).

Zuboff (2015) analizza due documenti scritti dal capo economista di Google, Hal Varian (2010, 2014) ‒ che molti studenti conoscevano per il suo libro di testo di microeconomia ‒ per comprendere meglio la logica sistemica dell’accumulazione in cui sono incorporati i big data46. Varian ricorda che l’informazione dell’economia è costituita da una registrazione pervasiva e continua dei dettagli di ogni transazione e quindi sottolinea l’importanza del fatto nuovo, ovvero che «Il computer crea una registrazione della transazione […] queste transazioni mediate dal computer hanno consentito miglioramenti significativi nel modo in cui vengono eseguite le transazioni e continueranno ad avere un impatto sull’economia per il prossimo futuro» (Varian 2010, 2). Per Zuboff, adesso che la mediazione informatica rende un’economia trasparente e conoscibile in modi nuovi, si riqualifica la concezione del mercato ‒ intrinsecamente ineffabile e inconoscibile ‒ di Hayek come un “ordine

46 I “big data” sono costituiti da cinque fonti di dati principali: i dati provenienti 1) dalle transazioni economiche mediate dal computer; 2) da una varietà di sistemi istituzionali e trans-istituzionali mediati dal computer; 3) da miliardi di sensori incorporati in una gamma sempre più ampia di oggetti, corpi e luoghi (per esempio Google investe massicciamente in machine learning, droni, dispositivi indossabili, auto a guida autonoma, nanoparticelle che “pattugliano” il corpo alla ricerca di segni di malattia e dispositivi intelligenti per la casa); 4) da database aziendali e governativi, inclusi banche, agenzie di rating del credito, compagnie aeree, registri fiscali e di censimento, operazioni sanitarie, carte di credito, assicurazioni, società farmaceutiche e di telecomunicazioni etc., poi acquistati, aggregati, analizzati, confezionati e venduti da data broker più o meno illegalmente; 5) da fonti eterogenee quali telecamere di sorveglianza pubbliche e private, smartphone e satelliti, Google Street View e Google Earth.

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esteso” incomprensibile47 al quale gli individui ignoranti devono sottomettere le loro volontà (Hayek 1988, 14-15), e questa nuova forma del capitalismo ‒ che Zuboff definisce della “sorveglianza” ‒ impersonificata da Google può essere immaginata come «l’istanza materiale dell ‘ “ordine esteso” di Hayek che prende vita nella trasparenza esplicita della mediazione informatica» (Zuboff 2015, 82). Varian stabilisce quattro usi che derivano dalle transazioni mediate dal computer: “estrazione48 e analisi49 dei dati”, “nuove forme contrattuali grazie a un migliore monitoraggio”50, “perso-

47 Per il pensiero neo-liberale la nostra civiltà dipende dalla conservazione del capitalismo; quest’ultimo esprimerebbe un ordine esteso di norme formatosi in maniera spontanea in una società di liberi mercati, ordine che la presunzione del sapere ‒ titolo del discorso che Hayek tenne nel 1974, quando fu insignito del premio Nobel per l’Economia ‒ degli uomini che progettano una società diversa da quella naturale del mercato non può che distruggere. 48 Secondo Varian, l’”estrazione” non è una relazione, ma solo un “prendere da” tipicamente in assenza di dialogo o consenso, nonostante che si tratti di vite individuali (per esempio il modello Street View consiste in incursioni ‒ progettate per essere non rilevabili ‒ in territori legalmente e socialmente indifesi continuate fino a quando non appare una resistenza o un Edward Snowden). 49 Varian sottolinea la necessità dell’“analisi” sia dal lato dei costi materiali che da quello della conoscenza. Rispetto ai primi, l’analisi rivela che le aziende di informazioni ad alto volume richiedono milioni di ”server virtuali” che aumentano in modo esponenziale le capacità di elaborazione senza richiedere una sostanziale espansione dei costi dello spazio fisico o dell’energia elettrica, per cui esse possono raggiungere scale elevatissime a costi marginali digitali che si avvicinano allo zero. Rispetto alla conoscenza, si richiedono nuovi scienziati di dati che abbiano padronanza dei nuovi metodi associati all’analisi predittiva, mining della realtà, analisi dei modelli di vita e così via. 50 Secondo Varian (2014, 30), «Poiché le transazioni sono ora mediate dal computer, possiamo osservare un comportamento che prima non era osservabile e scrivere contratti su di esso. Ciò consente transazioni che semplicemente non erano fattibili prima […] Le transazioni mediate dal computer hanno consentito nuovi modelli di business». Un esempio di questi nuovi modelli contrattuali, dice ancora Varian, riguarderanno le compagnie di assicurazione che potranno usare sistemi di monitoraggio tali da verificare se i clienti stanno guidando in sicurezza e quindi determinare se mantenere o meno la loro assicurazione o pagare i sinistri. Tuttavia, per Zuboff, «Varian non sembra rendersi conto che ciò che sta celebrando qui non sono nuove forme di contratto, ma piuttosto il “non contratto”. La sua versione di un mondo mediato dal computer trascende la forma del contratto eliminando la governance e lo stato di diritto». Varian penserebbe di poter eliminare con i big data l’incertezza dai contratti e quindi la necessità sociale di sviluppare fiducia, cosa che, secondo Zuboff, significa «che i contratti vengono revocati dal

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nalizzazione e “customizzazione”51, 52 e “esperimenti continui”53. Questi usi ‒ che mettono in luce la logica implicita del capitali-

sociale e reinventati come processi meccanici. La partecipazione consensuale ai valori da cui deriva l’autorità legittima, insieme al libero arbitrio e ai diritti e agli obblighi reciproci, vengono scambiati per l’equivalente universale del braccialetto elettronico alla caviglia del prigioniero» (Zuboff 2015, 81). 51 Personalizzazione e “customizzazione” (customization) non sono sinonimi: la personalizzazione viene avviata dall’utente, mentre la customizzazione viene eseguita per l’utente. Quest’ultima si ha per esempio quando l’utente clicca per nascondere gli annunci di Google e viene inviato a una pagina in cui può selezionare le proprie preferenze per i medesimi, personalizzando il tipo di essi che gli appariranno durante la navigazione nei siti web: questo lo rende propenso a rispondere positivamente agli annunci che vedrà in seguito! 52 Varian (2014, 28) afferma che invece di dover porre domande a Google, è Google che dovrebbe «sapere cosa vuoi e dirti prima di porre la domanda». Bisogna ammettere che la frase di Varian è piuttosto inquietante, ma ci si deve domandare perché le persone dovrebbero far sapere così tanto di se stesse. Anche Varian (2014, 28) si pone la domanda e la sua risposta è in perfetto tono da economista neo-liberale «Perché sono disposto a condividere tutte queste informazioni private? Perché ottengo qualcosa in cambio». Zuboff pone l’accento sul ragionamento che Varian fa per giustificare lo scambio fra privacy e libertà, da un lato, e “qualcos’altro”, dall’altro lato. Che cosa può essere questo “qualcos’altro”? Il grimaldello per ottenere un così asimmetrico scambio, per Varian, consiste nel fare offrire a Google ‒ l’esempio è il prodotto Google Now ‒ ciò che hanno i ricchi, perché quello è ciò che vorranno anche la classe media e i poveri: «Cosa hanno i ricchi adesso? Assistenti personali […] Questo è Google Now» (Varian 2014, 29). Zuboff rileva che si tratta di un antico meccanismo di espansione del capitalismo attraverso l’espansione della domanda mediante il passaggio dei beni un tempo di lusso in beni necessari per tutti, già notato da Smith: «La scommessa di Varian è che Google Now sarà una risorsa così vitale nella lotta per una vita efficace che la gente comune accederà alle “invasioni della privacy” che sono il suo quid pro quo. In questa formulazione Varian sfrutta una visione di vecchia data del capitalismo ma la piega agli obiettivi del progetto di sorveglianza. Adam Smith ha scritto in modo perspicace sull’evoluzione del lusso in necessità. I beni in uso tra la classe superiore e considerati lussi possono col tempo essere rifusi come “necessari”» (Zuboff 2015, 84). 53 Varian (2014) sa bene che l’analisi dei “big data” produce solo modelli di correlazione da cui non si possono ricavare modelli causali, per cui, per risolvere il problema, suggerisce di compiere continui esperimenti, sfruttando il Web come campo sperimentale, assegnando gruppi di trattamento e controllo in base a traffico, cookie, nomi utente, aree geografiche e così via (come insegna il crescente settore dell’economia sperimentale). Google e Facebook di esperimenti ne hanno realizzati in quantità, in genere in segreto, e quando qualcuno di essi è divenuto noto non sono mancati scandalo e dibattito, ovviamente senza alcun effetto.

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smo della sorveglianza ‒ non sono il portato naturale delle nuove tecnologie, ma una scelta intenzionale e strategica di tale nuovo capitalismo54, che peraltro poggia proprio sull’architettura globale della mediazione informatica, la quale produce un nuovo tipo di potere incontrastato che Zuboff chiama Big Other (o Grande Altro)55. Questa forma di potere è costituita da meccanismi di estrazione, mercificazione e controllo inattesi e spesso illeggibili che di fatto esiliano le persone dal proprio comportamento mentre producono nuovi mercati di previsione e modifica comportamentale […] È un regime istituzionale in rete onnipresente che registra, modifica e mercifica l’esperienza quotidiana dai tostapane ai corpi, dalla comunicazione al pensiero, il tutto con l’obiettivo di stabilire nuovi percorsi per la monetizzazione e il profitto (Zuboff 2015, 75, 85).

Il Grande Altro è ben diverso dal Grande Fratello, non è più quel potere di comando e controllo centralizzato della società di massa, di cui il panopticon di Bentham era la metafora architettonica centrale, quel potere basato su un unico punto di osservazione che era in grado di indurre conformità ma solo al suo interno, mentre all’esterno di esso rimaneva la possibilità della non conformità (è, per esempio, il caso della fabbrica). Invece col Grande Altro, basato sui quattro usi descritti da Varian, non ci sono vie di fuga: Nel mondo implicito nelle ipotesi di Varian, gli habitat all’interno e all’esterno del corpo umano sono saturi di dati e producono opportunità radicalmente distribuite per l’osservazione, l’interpretazione, la comunicazione, l’influenza, la previsione e, in ultima analisi, la modifica della totalità dell’azione. A differenza del potere centralizzato della società di massa, non c’è scampo dal Grande Altro. Non c’è posto dove essere dove l’Altro non è (Zuboff 2015, 82).

54 «I “big data” […] non sono una tecnologia o un effetto tecnologico inevitabile […] i “big data” sono soprattutto la componente fondamentale di una nuova logica di accumulazione profondamente intenzionale e altamente consequenziale che chiamo capitalismo della sorveglianza. Questa nuova forma di capitalismo dell’informazione mira a prevedere e modificare il comportamento umano come mezzo per produrre profitti e controllo del mercato» (Zuboff 2015, 75). 55 «una nuova architettura universale esistente da qualche parte tra la natura e Dio che chiamo Grande Altro» (Zuboff 2015, 85).

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Zuboff sembra ritenere del tutto distinto il capitalismo del Grande Altro dal capitalismo liberale basato su mercati e contratti (tanto demoniaco il primo quanto buono o accettabile il secondo): Il capitalismo della sorveglianza sfida le norme democratiche e si allontana in modo chiave dall’evoluzione secolare del capitalismo di mercato […] è il potere sovrano di un futuro prossimo che annienta la libertà raggiunta dallo Stato di diritto. È un nuovo regime di fatti indipendenti e controllati in modo indipendente che soppianta la necessità di contratti, governance e dinamismo di una democrazia di mercato (Zuboff 2015, 75, 85).

Han individua nei big data lo strumento di un secondo illuminismo, tanto importante e specifico come la statistica lo fu per il primo. In quel tempo, il metodo statistico, facendo emergere le probabilità e la regolarità statistiche, fornì i fondamenti tanto alla “volontà generale“ di Rousseau ‒ che si formerebbe come una operazione statistico-matematica a partire dai valori medi ‒ e alla sua concezione del benessere sociale ‒ che non implicherebbe moralità e giustizia ma sarebbe misurabile dalla positività delle statistiche demografiche56 ‒ quanto alla teleologia storica di Kant, che ‒ in similitudine con Mandeville e Smith, per cui la mano invisibile permette a scambi egoistici di generare il benessere di tutti, tramite una eterogenesi dei fini ‒ vede nelle regolarità statistiche il disegno in cui tutti i singoli fini delle azioni vengono eterogeneizzati per tendere al fine delle leggi di natura57. Questo secondo illuminismo si baserebbe su una

56 Han riporta ad illustrazione della relazione fra il calcolo statistico e le idee di Rousseau, le seguenti affermazioni del ginevrino: «Vi è spesso molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale; questa mira soltanto all’interesse comune; l’altra all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono a vicenda, resta quale somma delle differenze la volontà generale […] Calcolatori, adesso è affar vostro: contate, misurate, confrontate» (Rousseau 2010, 41, 123). 57 Han cita queste illuminanti frasi di Kant: «Cosí i matrimoni, le nascite che ne derivano, le morti, giacché la libera volontà degli uomini ha così grande influsso su di essi, non appaiono sottoposti ad alcuna regola che possa determinarne anticipatamente il numero mediante calcoli; eppure le tabelle annuali dei grandi paesi dimostrano che quegli eventi accadono secondo regolari leggi di natura […] I singoli uomini, ma anche i popoli interi, pensano poco al fatto che, mentre perseguono i loro scopi, ciascuno a proprio senno e spesso l’uno contro l’altro, procedono senza accorgersene verso lo scopo della natura, che pure è loro sconosciuto, come fosse il

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nuova filosofia ed una nuova epistemologia, la cui premessa fondante recita così: poiché il mondo è piuttosto complesso, sicuramente troppo per la mente di un singolo o persino di un’associazione di singoli (Stato compreso), per il sapere bisogna affidarsi solo ai dati, che sono necessari e sufficienti per generare il sapere e che, grazie ai big data, diventano sempre di più disponibili in dimensione impensate. Ne consegue che la teoria è, quindi, superflua. Ma non solo: è da combattere perché è il frutto di un arbitrio soggettivo, di una intuizione ‒ che non serve più perché i dati parlano da soli ‒, di una ideologia58. Tutti gli elementi di questa nuova fede si possono enucleare dalle paradigmatiche affermazioni dell’articolo La fine della teoria di Chris Anderson del 2008. Mentre il metodo scientifico ritiene che la correlazione non è causalità e che i dati senza un modello sono solo rumore, Anderson liquida drasticamente questa basilare asserzione scientifica fino ad annunziare il nuovo sapere “dataistico”, dei “petabyte”, la nuova epoca storica del “digitalesimo”: Questo è un mondo in cui enormi quantità di dati e matematica applicata sostituiscono ogni altro strumento che potrebbe essere utilizzato. Fuori da ogni teoria del comportamento umano, dalla linguistica alla sociologia. Dimentica tassonomia, ontologia e psicologia. Chissà perché le persone fanno quello che fanno? Il punto è che lo fanno e possiamo monitorarlo e misurarlo con una fedeltà senza precedenti. Con dati sufficienti, i numeri parlano da soli (Anderson 2008, corsivo nostro).

Non più la mente umana, ma gli “algoritmi statistici” potranno “modellare” veramente la realtà che la scienza tradizionale non è in grado di cogliere: I petabyte ci permettono di dire: “La correlazione è sufficiente”. Possiamo smettere di cercare modelli. Possiamo analizzare i dati senza ipotesi

loro filo conduttore, e lavorano al suo promuovimento, per il quale avrebbero assai scarso interesse anche se quello scopo fosse loro noto» (Kant 2004, 29-30). 58 Anderson considera implicitamente come una debolezza il fatto che la scienza nasca nella testa degli uomini (Hayek ci direbbe che i saperi ‒ le teorie ‒ che nascono dalla testa degli uomini e non sono invece forniti dalla impersonalità dei mercati non sono saperi ma solo idee socialmente dannose) quando afferma: «Questi modelli, per la maggior parte, sono sistemi visualizzati nella mente degli scienziati» (Anderson 2008).

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su cosa potrebbero mostrare. Possiamo inserire i numeri nei più grandi cluster di computer che il mondo abbia mai visto e lasciare che gli algoritmi statistici trovino modelli dove la scienza non può (Anderson 2008).

Anderson ha ben chiaro sia la portata totale del cambiamento del paradigma di pensiero, sia la sua vittoriosa diffusione: Questo tipo di pensiero è pronto per diventare mainstream […] l’opportunità è grande: la nuova disponibilità di enormi quantità di dati, insieme agli strumenti statistici per elaborare questi numeri, offre un modo completamente nuovo di comprendere il mondo. La correlazione sostituisce la causalità e la scienza può avanzare anche senza modelli coerenti, teorie unificate o in realtà alcuna spiegazione meccanicistica (Anderson 2008).

Non siamo in grado di dire quanto del diluvio profetizzato da Anderson si stia realizzando, ma possiamo osservare come il sapere “senza teoria ma solo con numeri” stia diventando pervasivo in gran parte delle discipline in cui si estrinseca il pensiero umano. Anche un articolo divulgativo di Brooks del 2013 sul New York Times (citato da Han) contiene gli elementi portanti di questo nuovo pensiero, ossia l’essere una filosofia in ascesa, rendere misurabile e misurato tutto il possibile, ritenere i dati un modo per eliminare dal pensiero umano l’intuizione e l’ideologia, essere in grado di prevedere il futuro: Se mi fosse chiesto di descrivere la filosofia attualmente emergente, direi che è il Dataismo (Data-ism). Ora abbiamo la capacità di raccogliere enormi quantità di dati. Questa capacità sembra portare con sé alcuni presupposti culturali – che tutto ciò che può essere misurato dovrebbe essere misurato; che i dati sono una lente trasparente e affidabile che ci permette di filtrare l’emotività e l’ideologia; quei dati ci aiuteranno a fare cose straordinarie, come predire il futuro (Brooks 2013)59.

59 Brooks sottolinea due effetti, secondo lui, indiscutibilmente originali e superiori del Dataismo: «Uno è rivelare modelli di comportamento che non avevamo notato. L’altro è rivelare la mancanza di uno schema anche se siamo sicuri che ne stiamo guardando uno». E allo scopo di illustrare questi effetti descrive una serie di esempi. Rispetto al primo effetto, fa notare come «ogni persona che gioca a basket e quasi ogni persona che lo guarda crede che i giocatori attraversino una “striscia calda” [le cosiddette “hot hands”, N.d.A.], quando sentono di essere entrati nel giusto ritmo (groove), e strisce fredde, quando non lo sentono. Ma Thomas Gilovich, Amos

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Inoltre, in questa citazione troviamo l’accento sulla trasparenza, una delle chiavi ideologiche del regime governamentale neo-liberale, per cui tutto deve diventare dato e informazione; la dittatura della trasparenza è parallela a quella dei dati, al totalitarismo digitale. La trasparenza è una condizione necessaria per il funzionamento del dispositivo neoliberale, col quale il controllo passa dal sistema disciplinare, in cui i dati dovevano essere carpiti ai controllati e ai medesimi si vietava la comunicazione, al sistema digitale, in cui la comunicazione è esaltata e la fornitura dei dati diventa compito e, nel contempo, esigenza volontaria dei controllati, ossia si passa dal panopticon benthamiano al panopticon digitale. La trasparenza, peraltro sempre invocata in nome della libertà di informazione, significa esternazione dell’interiore, eliminazione della riservatezza, del pudore, di un sé segreto e inattingibile al potere; questa esaltazione della trasparenza accade perché la circolazione dell’informazione e la comunicazione vengono accelerate dalla trasparenza, dall’apertura, dalla omologazione dei soggetti, dalla rimozione di muri, ripari, riserve, soglie. Ma questa accelerazione dell’informazione tendente all’illimitatezza ha una sua ben precisa origine: essa corrisponde a un modo attuale del capitalismo di estendere la valorizzazione del capitale e sostenere il saggio di profitto, perché, dato l’odierno tendenziale prevalere della produzione immateriale e intangibile, più informazione e più comunicazione implicano più produttività e più crescita. Han sottopone al vaglio critico della filosofia hegeliana il nuovo paradigma dei Big data, ovvero, come abbiamo detto, la fine della teoria e il sapere guidato soltanto dai numeri che parlano da soli. Come ricorda Han, il sapere assoluto sbandierato dai fautori dei Big data sarebbe stato, invece, per il filosofo Hegel un non-sapere assoluto: qualsiasi relazione si voglia intendere che esista fra A e B, ad esempio, di tipo causale unidirezionale o, cosa ancor più complessa,

Tversky [Nobel per l’Economia, N.d.A.] e Robert Vallone hanno scoperto che un giocatore che ha fatto sei tiri vincenti consecutivi ha le stesse possibilità di fare il suo settimo come se avesse sbagliato i sei tiri precedenti». Rispetto al secondo effetto, l’esempio è musicale: «Pensiamo a John Lennon come il più intellettuale dei Beatles, ma, in realtà, i testi di Paul McCartney avevano strutture più flessibili e diversificate e quelli di George Harrison erano più cognitivamente complessi».

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bi-direzionale, con ciò si sta solo affermando la necessità della relazione fra i due termini, ma ancora non si sta comprendendo il perché della medesima; il vero sapere è dialettico in quanto concetto C che «comprende in sé A e B, ed è compreso attraverso A e B»60. Mentre il sapere dei big data è additivo, il sapere assoluto è narrativo, ovvero è il sillogismo, inteso nel senso che nella narrazione sviluppata da un inizio ad una fine si crea una unità piena di significato. Lo spirito è nel sillogismo e il sillogismo è in ogni razionale; si tratta di una totalità nella quale vi è il superamento razionale delle parti61. Anche la teoria è un sillogismo perché in essa le parti vi sono incluse e concettualmente comprese. Allora Han può affermare che «I big data sono privi di concetto e di spirito». L’additività e l’accelerazione62 tipiche del dataismo impediscono il raggiungimento della conclusione del processo narrati-

60 Secondo Hegel, il “sillogismo” è il giudizio concluso, le cui parti sono date – come dicono le dottrine aristotelica e scolastica – da una premessa maggiore (A), una premessa minore (B) e una conclusione (C). Nella forma del sillogismo ‒ o conclusione ‒ nel quale ogni cosa è compresa è espresso il concetto, inteso come un’unità che include e comprende in sé le sue parti. 61 «Ogni razionale è un sillogismo» (Hegel 2004, libro II, sez. I, cap. III, 753). 62 Come ricorda Cassano (2011), la velocizzazione del mondo è la caratteristica della modernità, che persino nella sua etimologia, modo che equivale ad “ora, in questo momento”, rimanda alla produzione incessante del nuovo, a «ciò che vale adesso», e, come noto, lo storico Koselleck (1989) vede il tratto specifico della modernità nello spostamento dal passato al futuro come basamento dell’azione umana e nella Rivoluzione industriale, e, inoltre, ravvisa nella Rivoluzione francese ‒ ancora il fatale XVIII secolo ‒ la nascita di quel fenomeno materiale e oggettivo che è l’accelerazione del ritmo della vita umana. Se il progresso stesso è stato misurabile in termini dell’accelerazione delle scoperte e delle invenzioni, tuttavia l’odierna modernità capitalistica ha richiesto una crescente e ubiquitaria accelerazione volta ad eliminare ogni finitezza spaziale e a ridisegnare le coordinate spazio-temporali dell’esperienza umana, in cui la durata si appiattisce sul punto del presente ‒ quello che per Agostino, come per Euclide, non è. Bauman (2002) individua un passaggio dalla modernità solida e pesante a quella liquida e leggera, acqua e aria in cui non solo si perde il nomos della terra (la legge e la statualità) ma si indeboliscono anche la calcolabilità e la razionalità weberiana che sono state una cifra dello sviluppo del capitalismo. Ma possiamo anche parlare di passaggio dalla modernità alla post-modernità come raggiungimento di una percezione del tempo senza spessore, un tempo visto nel punto del suo presto frammentarsi e dissolversi, quindi del nulla, quindi un passaggio ad una modernità depurata dal futuro, all’accelerazione senza futuro. E i matematici sanno bene che una crescita ad infinito in tempo finito conduce all’esplosione del sistema!

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vo, ossia la formazione del concetto, del sillogismo, quindi del razionale. La fine della teoria è la fine dello spirito e della ragione: Il sapere-totale-dei-dati è un assoluto non-sapere al punto zero dello spirito […] la percezione è incapace di una conclusione, perché naviga nell’infinita rete digitale […] Se tutto ciò che è razionale è un sillogismo, allora l’era dei big data è un’epoca senza ragione (Han 2016).

La filosofia dei Big data in realtà si rivela essa stessa una fede ed una ideologia. E quanto i Big data, capaci di leggere il presente e il passato, si dimostrino, in realtà, altrettanto abili anche per quanto riguarda la previsione del futuro, è questionabile, perché calcolando e scoprendo valori medi statistici, ci dice Han, i Big data sono incapaci di accedere a ciò che è unico. I big data sono completamente ciechi agli eventi. La storia, il futuro umano non sono determinati dalla probabilità statistica, ma dall’improbabile, dal singolare, dall’evento. Cosí, i big data sono anche ciechi verso il futuro (Han 2016).

Possiamo, quindi, concordare con Han sugli aspetti negativi del nuovo paradigma di sapere ‒ un sapere privo di concetto e di spirito ‒ e delle sue potenzialità per un uso psicopolitico da parte dell’odierno regime neoliberale, che possiamo sintetizzare, con riferimento a Foucault e alla storia della governamentalità dei precedenti capitoli, in questo modo: il dataismo, estendendo quelli che erano gli strumenti governamentali individuati da Foucault in termini di bio-politica, come i poteri disciplinari e securitari e i saperi connessi, come la medicina, la statistica e soprattutto l’economia politica, può essere visto come un pilastro di una nuova governamentalità, di un possibile nuovo nesso potere-sapere quale il potere psicopolitico associato con il sapere dei soli numeri. Nella misura in cui si resiste alla fine della teoria e si persegue l’unicità, l’evento, la singolarità, l’improbabile, l’estemporaneo, il particolare, l’anormale, l’estremo, accecando così i big data nella loro funzione per la psico-programmazione del futuro degli individui, potremmo dire che questo emergente nesso potere-sapere, volto ad una ulteriore modalità di conduzione degli uomini, avrebbe già trovato una sua almeno parziale contro-condotta.

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4.7. Le evidenze governamentali di un documento dell’Unione Europea sulla normazione Le leggi sono moltissime quando lo stato è corrottissimo (Corruptissima re publica plurimae leges). (Tacito, Annales, Libro III, 27)

Una sintetica analisi testuale di un documento UE relativo alla normazione risulta illuminante rispetto alle pratiche governamentali in esso implicate e agli obiettivi palesati o lasciati impliciti; a scopo soltanto illustrativo prendiamo in considerazione una comunicazione della Commissione europea (UE 2004) relativa alla “Integrazione degli aspetti ambientali nella normazione europea”. Sebbene la comunicazione presa in esame intenda nello specifico attivare e regolare soltanto l’uso sistematico di strumenti per l’integrazione degli aspetti ambientali all’interno dell’apparato normativo, essa però può servire da rappresentazione generale del ruolo e significato della “normazione” nel progetto e nella pratica di governance europea (per maggiori informazioni sulla governance e su altri concetti tecnici ad essa relativi, che appaiono in questo paragrafo, vedere la Parte II). Innanzitutto, si riconoscono esplicitamente due fenomeni specifici a questa pratica: i) la proliferazione di norme “mercatistiche” che devono investire sempre più la totalità di beni e servizi disponibili al consumo; ii) l’invisibilità di questa normazione che deve costituire una forza coercitiva ma inavvertibile per garantire il buon funzionamento del mercato capitalistico: Oramai esistono norme per la maggior parte dei beni e dei servizi a nostra disposizione, anche se il processo di normazione passa quasi sempre inavvertito. Le norme possono essere definite come forze invisibili che garantiscono che le cose funzionino correttamente (UE 2004, 7-9).

Vi sono organismi europei appositamente creati per la normazione63. La normazione appare un processo in continua espan-

63 Gli organismi di normazione europei sono, nel documento del 2004, tre: il CEN1 (Comitato europeo di normalizzazione), il CENELEC (Comitato europeo di normalizzazione elettrotecnica) e l’ETSI (Istituto europeo delle norme di tele-

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sione che assume forme da proliferazione batterica: «Le norme europee sono sempre più numerose» si enuncia con una certa soddisfazione in un documento, un «numero sempre più ampio di settori usa le norme europee […]. Un’adozione sempre più massiccia nella normativa europea» e «aumenta costantemente anche il numero delle norme che servono a gestire la fase ultima del ciclo di vita dei prodotti» (UE 2004, 7-9)64. Le norme devono sorgere dai diretti interessati e dai conoscitori della situazione da “normare”, quindi da gruppi di pressione, grandi imprese, organizzazioni private di ogni genere (e gli Stati e gli interessi pubblici possono partecipare al massimo come tutti gli altri). Quindi la normazione europea è vista come un processo volontario e portato avanti dai soggetti interessati: Le norme danno un contributo allo sviluppo socioeconomico, perché possono stabilire come un determinato prodotto viene costruito, utilizzato, sottoposto a manutenzione e trattato […]. Accanto agli obblighi definiti nelle regolamentazioni tecniche, che sono vincolanti, esistono migliaia di norme tecniche elaborate su base volontaria da imprese, strutture apposite come forum e consorzi oppure sotto l’egida di organismi ufficiali di normazione. I soggetti interessati coinvolti in questi processi hanno già investito e continueranno ad investire ingenti risorse in termini di tempo di esperti, know-how tecnico e costi (ad esempio per le riunioni). Le norme come strumento volontario sono un elemento determinante (UE 2004, 3).

comunicazione). La direttiva 98/34/CE2 riconosce la competenza di questi tre organismi per l’elaborazione di norme europee e definisce il concetto di norma europea. I principi che regolano i rapporti e la cooperazione tra CEN, CENELEC, ETSI e la Commissione europea e l’Associazione europea di libero scambio (EFTA) sono definiti in orientamenti generali, di cui è stata adottata una versione aggiornata il 28 marzo 2003 (GU C 91 del 16.4.2003) (UE 2004, 3). 64 «In primo luogo, il numero delle norme europee è aumentato sensibilmente: al momento della redazione del presente documento il CEN dispone di circa 7000 norme europee in un’ampia gamma di settori. In campo elettrotecnico esistono circa 3300 norme europee del CENELEC, la maggior parte delle quali si basa sulle norme internazionali della Commissione elettrotecnica internazionale (IEC). Nel settore delle telecomunicazioni l’ETSI ha prodotto circa 3200 documenti di normazione (norme EN ed ETS) per i propri utenti. Ogni anno questi tre organismi pubblicano circa 1200 norme europee (EN); nel 2003 le norme europee erano quasi 13500» (UE 2004, 7-8).

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La produzione di norme è quindi in principio un processo che si svolge “nei” mercati ed emerge “dai” mercati, è fatta “da” e “per” i soggetti del mercato65 (al massimo i “mercanti” sono tenuti a non dimenticare del tutto anche eventuali altre politiche pubbliche varate dai commissari europei), e i principi procedurali sono ‒ come se la produzione di norme non fosse una questione di legittima sovranità ma di contratto di compravendita ‒ l’apertura, la trasparenza e la consensualità: Essendo un processo volontario, i soggetti interessati nel settore della normazione devono mantenere il controllo delle proprie priorità di lavoro; non bisogna comunque dimenticare i settori e le tematiche di interesse pubblico attinenti alle politiche europee […]. Le norme europee sono documenti a carattere volontario elaborati secondo procedure aperte e trasparenti e gestiti dagli organismi di normazione europei o internazionali. L’attività di normazione è svolta da e per i soggetti interessati, in base al principio del consenso (UE 2004, 6).

Con la consensualità si richiede proprio l’unanimità delle opinioni dei soggetti partecipanti; il processo di normazione deve quindi precludere ed eludere il conflitto (che sarebbe invece centrale nel processo di formazione delle decisioni in una democrazia): «partecipare al processo di normazione e a formulare posizioni unanimi da presentare in sede europea nell’ambito del processo di normazione» (UE 2004, 20). Tuttavia, in realtà, appare palese che i produttori di norme non saranno gli atomizzati partecipanti al mercato (per cui la produzione delle norme sarebbe un ennesimo esempio delle proprietà ordinative della mano invisibile che opera nel mercato concorrenziale) ma saranno gruppi interessati, ovvero potentati economici, anche quando talvolta mascherati da altre forme (per esempio Ong, consorzi, enti no-profit ecc.). La Commissione incentiva la produzione di norme, che è su base privata e volontaria, per ogni ambito (ovviamente vigilando che siano rispettati i principi ispiratori, come la concorrenza).

65 Il sintagma “da” e “per” i soggetti interessati ricorda quello più noto “da” e “per” il popolo; in questo senso, in accordo con il pensiero neo-liberale della UE, il termine “soggetti interessati”, ovvero i “mercanti”, sostituisce quello di “popolo”.

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Nel campo della normazione i soggetti interessati mettono a disposizione il loro tempo e le loro competenze a titolo volontario; pertanto, se devono stanziare risorse per l’integrazione degli aspetti ambientali devono essere motivati a farlo. La presente comunicazione rappresenta un riconoscimento politico dell’impegno dei soggetti interessati a favore di un’integrazione più sistematica degli aspetti ambientali nelle norme. Molti strumenti già disponibili possono servire allo scopo; il vero obiettivo per il futuro è incentivarne l’uso sistematico (UE 2004, 18).

Inoltre la UE distingue la sua produzione di governo in due categorie giuridiche, la normazione e la normativa, utilizzabili sia alternativamente sia affinché l’una vada a rafforzare l’altra. La normativa viene usata per ottenere l’obiettivo voluto, la normativa per la soluzione di problemi tecnici complessi, la prima è cogente, la seconda è tendenzialmente applicabile volontariamente. Se l’uso di entrambi gli strumenti è adeguato in modo corretto agli scopi, il governo raggiunge uno stabile ordinamento normativo: La normazione e la normativa sono due strumenti diversi che, in alcuni casi, possono rappresentare due alternative distinte […] a volte invece sono complementari, nel senso che le norme rafforzano le normative applicabili. Le norme possono fornire una soluzione a problemi tecnici complessi e presentano dunque dei vantaggi. È possibile creare condizioni stabili all’interno del quadro normativo se la legislazione è costantemente orientata al raggiungimento degli obiettivi e i dettagli tecnici rientrano invece in norme volontarie (UE 2004, 6).

Uno degli strumenti per dirigere e regolare la normazione da parte della Commissione è il “mandato”. Il mandato permette di collegare l’attività di normazione, apparentemente tecnica, con gli obiettivi politici, ovvero con la libera circolazione delle merci e dei servizi: Tra gli strumenti che la Commissione può usare per determinare le priorità nel lavoro di normazione a livello europeo si può citare il mandato di normazione. I mandati sono strumenti che conferiscono l’incarico di iniziare attività europee di normazione in relazione agli obiettivi politici, in particolare per quanto riguarda le direttive di nuovo approccio riguardanti la libera circolazione delle merci e dei servizi nel mercato interno (UE 2004, 3).

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Le norme appaiono essere anche delle “tecnicalità” miranti a ridurre i costi di produzione (almeno per quanto riguarda le norme sui prodotti) e quindi (sottintendendo che vi faccia seguito una corrispondente riduzione dei prezzi, ovviamente non garantita) a favorire i consumatori: Le norme sono strumenti che contribuiscono a divulgare le conoscenze tecniche […] Le norme sui prodotti, cioè quelle che definiscono i requisiti dei prodotti, costituiscono la maggior parte delle 13500 norme europee oggi esistenti e fissano importanti criteri per i prodotti, quali la sicurezza integrata e le dimensioni che ne assicurino la compatibilità con altri componenti. In questo modo si evitano sprechi e l’incompatibilità tra componenti, e i benefici in termini di costi che se ne ricavano possono così essere trasferiti ai consumatori (UE 2004, 8).

Le pratiche istituite per il processo di formazione e di implementazione delle norme sono quelle tipiche del pastorato in senso foucaultiano: i soggetti interessati (che sono poi soltanto quelli ammessi a partecipare al processo di normazione, e non certo la cittadinanza) trasmettono idee e proposte: questo non tanto perché esse siano interessanti, utili o che debbano comunque essere tenute in considerazione, ma solo perché imbrigliano e sensibilizzano psicologicamente i soggetti. Tuttavia, ed ecco la seconda pratica, se la Commissione ritiene qualche proposta conforme con le sue preferenze e obiettivi (quindi preferenze ed obiettivi già precedenti la ipocrita fase di coinvolgimento) allora può scattare un sistema premiale per gli organismi di normazione che si sono mostrati conformi: Per il futuro la Commissione invita i soggetti interessati a trasmetterle idee e proposte al fine di coinvolgerli maggiormente nelle attività di sensibilizzazione e di formazione. La Commissione è disposta a stanziare risorse per gli organismi europei di normazione se le pervengono proposte adeguate […]. Gli Stati membri sono invitati a prevedere attività analoghe nei confronti degli organismi nazionali di normazione (UE 2004, 19, nell’originale il testo è interamente in corsivo).

Le pratiche proseguono ancora nel modo atteso: si richiedono dai soggetti rapporti su ciò che hanno fatto, si organizzano riunioni periodiche per far emergere le best practices, si attiva un controllo costante su ciò che è stato realizzato o meno, si individuano

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ed approvano indicatori per la valutazione di chi ha fatto o meno progressi, per sbandierare chi è più o meno conforme: Per il futuro la Commissione invita gli interessati a riferire sulle modalità di utilizzo dei vari strumenti a disposizione. L’organizzazione di riunioni periodiche finalizzate allo scambio di esperienze e all’approvazione di indicatori per valutare i progressi realizzati potrà servire a creare un numero sempre più elevato di norme europee a dimensione ambientale […]. Ci sarà un controllo costante delle attività realizzate e gli interessati saranno invitati a scambiarsi esperienze per individuare le buone pratiche in materia (UE 2004, 19, tutto il passo è in corsivo nell’originale).

Naturalmente, i Commissari dispongono, sotto la forma di una pratica che è denominata “invito”, che gli Stati democratici membri presenti e futuri della UE eseguano nel loro ambito territoriale ciò che è stato disposto a livello sovra-nazionale, pratiche di controllo e premi/punizioni comprese: Gli Stati membri sono invitati a prevedere attività analoghe nei confronti degli organismi nazionali di normazione […]. La Commissione invita gli Stati membri e i paesi in via di adesione a riferire periodicamente sui vari tipi di sostegno concesso e finalizzato a promuovere lo scambio di esperienze e di buone pratiche (UE 2004, 19-20).

Messe in evidenza le pratiche pastorali che devono condurre alla normazione, i commissari quindi esplicitano con una sinteticità ammirevole l’obiettivo intermedio e quello generale che si sono posti. L’obiettivo intermedio è ancora una volta quello tipico aziendale della individuazione e adozione della best practice: «La Commissione intende divulgare le buone prassi e sostenere gli strumenti che hanno già dato prova di efficacia» (UE 2004, 18). Per il raggiungimento di tale obiettivo la Commissione invita i soggetti del mercato a “confessarsi” e annuncia possibili incentivi allo scopo: «i soggetti interessati a presentare le proprie idee in merito agli incentivi in questo campo e ad avviare un dialogo sulle buone pratiche e sui risultati ottenuti» (UE 2004, 18). L’obiettivo più generale però riguarda non tanto una specifica pratica manageriale (come la best practice), quanto la più generale governance: favorire una proliferazione auto-poietica di norme, che è, da un lato, del tutto fine a se stessa (ovvero in realtà finalizza-

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ta all’occulto governo delle cose, come ammesso all’inizio della comunicazione), ma, dall’altro lato, anche a sostegno, a rafforzamento, a “strumento indiretto di enforcement” delle politiche e delle normative. Occorre mettere in atto l’uso sistematico di strumenti […] nella normazione […]. Un uso più intenso di questi strumenti amplierà le esperienze disponibili e aumenterà il numero di norme […]. A sua volta, ciò renderà sempre più interessanti le norme europee come strumento a sostegno delle politiche e delle normative (UE 2004, 20).

Anche se questo appena visto è solo un esempio illustrativo, l’analisi della governamentalità della UE a partire da tutte le sue procedure decisionali rivelerebbe la sorprendente novità di un potere sovra-nazionale tanto assoluto sugli Stati nazionali sovrani quanto prettamente gestionale-amministrativo, che sostituisce la rappresentanza democratica del popolo nello Stato con la gestione manageriale del sistema capitalistico sovra-statuale. Questi risultati sono ovviamente in linea con un più generale processo di sostituzione a livello di ogni istanza istituzionale (dallo Stato centrale al sistema sanitario od educativo) del modo di governo liberale con quello di governance aziendale. Una breve analisi di questo processo è presentata nella parte che segue.

Parte II La nuova governamentalità

Capitolo 5

LA GOVERNANCE NEO-LIBERALE

5.1. Dal government liberale alla governance Con il termine governance vengono descritti fenomeni molto differenti e ogni sua possibile definizione dipende in modo sensibile dai diversi contesti di riferimento1. Allora noi ci limiteremo a fornirne una lettura che sia coerente con i temi qui trattati, dalla teoria della governamentalità sviluppata da Foucault alla apparente crisi della democrazia liberale, dallo sviluppo di un paradigma di governo economico ai processi reali di globalizzazione economica e finanziaria con i connessi odierni fenomeni di ridislocazione e innovazione dei poteri politici a livello mondiale. Tutti temi che in qualche modo hanno a che fare con la governance come sistema politico. Possiamo considerare il concetto di governance come il recente risultato di quel continuo processo di trasformazione del governo inteso come governamentalità, cioè come una ulteriore forma di quella pletora di elementi – quali istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche – che hanno storicamente promosso un processo di radicale critica della sovranità a favore di una preminenza del governo, a partire dalla pastorale cristiana medievale (per passare nella prima età moderna alla ragion di Stato fino al liberalismo e quindi oggi al neoliberalismo). La salvezza dell’intero gregge e l’obbedienza della singola pecorella (cioè omnes et singulatim) è il metodo pastorale cristiano che da forma pre-mo-

1 «Infatti, sono così tante, e tanto variegate, le accezioni del termine governance che, probabilmente, non esistono elementi comuni a tutti i modelli impiegati in economia, politologia, scienze dell’amministrazione o del governo locale e urbano, teorie internazionalistiche e studi sul terzo settore» (Arienzo 2007, 253).

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derna ed extra-giuridica di regolamentazione sociale diventa, con le opportune traslazione di forme e significati, una governamentalità di tipo amministrativo, la quale esula dalla direzione politica e istituzionale dello Stato per specializzarsi in una prassi di governo volta a guidare le condotte di tutti e ciascuno, e di cui la governance – con le caratteristiche distintive rispetto anche alla governamentalità liberale di cui si è detto – è l’esito più recente. In questa chiave la storia della razionalità politica occidentale viene letta come un lungo processo di governamentalizzazione dello Stato: da una governamentalità di tipo amministrativo risalente alla formazione degli stati nazionali, passando per la governamentalità liberale classica ottocentesca e per quella welfarista del secondo dopoguerra, si giunge al contesto del neoliberalismo, entro cui la governance sembra qualificarsi come l’attuale sforzo di re-definizione dei rapporti tra stato, mercato e società. La governance appare quindi come il recente esito del lungo percorso della governamentalità politica moderna descritto da Foucault, cioè come il prodotto delle trasformazioni del paradigma liberale – sempre centrato comunque sul legame fra l’economia e il governo degli uomini – operate dal neo-liberalismo politico contemporaneo. Intanto, appare utile preliminarmente ricordare (vedi par. 1.1) come Foucault, nel suo corso del 1978, intenda col termine governamentalità quella forma specifica e complessa di potere (esercitato tramite istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche) «che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale». Nel 1979, nel corso dell’anno successivo, Foucault, propone anche un’altra formulazione del termine governamentalità che conferma solo alcuni dei contenuti presentati nel ’78: «Lo stesso termine potere non fa altro che designare un [campo] di relazioni interamente da analizzare, e ciò che ho potuto chiamare governamentalità, vale a dire il modo in cui si guida la condotta degli uomini, non è altro che la proposta di una griglia di analisi per queste relazioni di potere» (Foucault 2005, 154). Appare importante sottolineare ancora la profondità dell’intuizione di Foucault nel cogliere il peculiare aspetto del progetto neo-liberale in tema di libertà, cioè il governo usa le libertà non

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come posizionamento dei propri limiti ma come proprio strumento di regolazione e conduzione della vita degli uomini. Infatti, Foucault con il lemma governamentalità intendeva cogliere la dislocazione che sposta la funzione di governo dalla regolamentazione legislative parlamentare al terreno delle forme di regolazione, attraverso una progressiva de-sovranizzazione delle forme politiche istituzionali statali. La dinamica dell’esercizio del potere non risponde tanto a un modello coercitivo di limitazione delle libertà dei viventi, ma ad una meccanica fine in cui la libertà non costituisce il limite del governo ma, al contrario, viene giocata come sua condizione e materia prima (Luzzi 2009, 5).

La razionalità governamentale della governance si concretizza appunto nell’esercizio di un potere politico non statuale, relativamente diffuso fra una pluralità di agenti e con modalità di rete (ovvero in relazioni più orizzontali che verticali), prevalentemente centrato sui saperi esperti, sugli interessi organizzati di corpi economici, sulla presunta terzietà regolativa, la quale significa che chi regola debba essere estraneo o privo di interessi in comune rispetto a una delle due o più parti in causa (come, per esempio, nel caso del processo penale, dove tra accusa e difesa si situa il giudice in posizione di terzietà). Una serie di mutamenti introdotti dalla governance, il cui segno non può certo dirsi positivo, sono stati individuati [nell’]allargamento degli spazi decisionali ad attori sempre meno chiaramente identificabili, lo sbilanciarsi del processo di decisione politica e amministrativa a favore degli interessi strutturati, l’opacità dei percorsi e dei soggetti decisionali […] il persistente rischio di un’eccessiva opacità nei percorsi di presa della decisione e una scarsa accountability di attori e processi. Alla negoziazione diffusa ed informale si accompagna la normalità del segreto, e la richiesta di consenso può apparire come una strategia volta piuttosto a favorire l’uscita di quegli attori non disposti ad accettarne le premesse (Arienzo 2005, 456).

I nuovi attori che nella governance assumono struttura e potere – incentivati dal rapporto fiduciario e dalla segretezza oltreché dalla necessità di concentrare i propri interessi in uno spazio negoziale definito – sono i corpi collettivi prevalentemente organizzati intorno ad interessi di tipo particolaristico.

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Elemento cruciale, affinché il neoliberismo diventi una razionalità politica dominante, è la diffusione del concetto e della pratica della governance. Sebbene non sia menzionata esplicitamente dai padri fondatori, quali Friedman e Hayek, essa è diventata la forma amministrativa primaria del neoliberalismo; la governance è lo strumento politico che è componente della governamentalità, è la modalità politica tanto per creare realtà – e condurre gli individui – quanto per mettere in pratica l’approccio “economico” veicolato dall’imperialismo degli economisti neoliberali di Chicago a tutte le sfere della vita, per produrre vincoli e incentivi che conducano secondo la logica economica i soggetti: Il neoliberalismo contemporaneo è impensabile senza governance […] La governance non è solo o per sua natura neoliberale, ma il neoliberalismo ha mobilitato e saturato sempre più le sue formulazioni e il suo sviluppo (Brown 2015, 122).

La governance non cambia soltanto toni o accenti rispetto al government liberaldemocratico, ma cambia interamente il concetto di potere, di amministrazione, di relazione fra stato, mercato e cittadinanza, in altre parole muta il concetto della democrazia. Secondo Salamon (2000), la governance si caratterizza per i seguenti sette punti: 1) si concentra sugli strumenti o su strumenti per il raggiungimento dei fini, piuttosto che preoccuparsi di agenzie o programmi specifici attraverso i quali vengono perseguiti gli scopi; 2) sostituisce l’opposizione o la tensione tra il governo e il settore privato con la collaborazione e la complementarità; 3) sottolinea l’importanza che ogni settore faccia ciò che sa fare meglio e l’importanza dei partenariati attraverso queste differenze; 4) sostituisce i mandati gerarchici dall’alto verso il basso con reti orizzontali di stakeholder investiti che perseguono un fine comune; 5) sostituisce “comando e controllo” con “negoziazione e persuasione”; 6) produce incentivi per i risultati desiderati e negozia sugli obiettivi che anche il pubblico deve perseguire, indipendentemente che essi siano prescritti o meno dal quadro giuridico-politico; 7) sostituisce gli ordini con l’orchestrazione, l’enforcement con parametri di riferimento (benchmarks) e ispezione, e i mandati con la mobilitazione e l’attivazione.

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Per Rhodes (1997), la governance può essere intesa in almeno sei distinti modi, vale a dire come: i) stato minimo, ii) governo societario, iii) nuova gestione pubblica, iv) ‘buon governo’, v) sistema sociocibernetico, vi) reti auto-organizzate. Per Brown, le caratteristiche della governance da evidenziare sono principalmente: i) la sostituzione delle istituzioni e procedure dello stato di diritto con alcuni tipici strumenti di governance ‒ derivati dal managerialismo economico-aziendale ‒ come parametri di riferimento (benchmarks), linee guida (guidelines), acquisizione di consenso (buy-ins ) e migliori pratiche (best practices); ii) l’invasione del lessico economico in quello politico come mezzo di affermazione del pensiero neoliberale; iii) la diffusione di una antipatia del governo nei confronti della politica; iv) la sostituzione del tradizionale soggetto liberale portatore di interessi e libertà individuali con attori economici e azioni in cui prevalgano i ruoli del lavoro di squadra, della responsabilità dei singoli e del consenso degli stakeholder; v) l’integrazione, in un progetto sociale di miglioramento e crescita economica, degli individui considerati come capitale umano, che auto-investe ed è responsabilizzato; vi) combinazione di devoluzione dell’autorità e responsabilizzazione del soggetto, che rafforzano il paradosso generato dalla compresenza e dalla massificazione dei singoli, da un lato, e dell’isolamento dei singoli, dall’altro lato, in un certo senso in linea con l’effetto del potere “omnes et singulatim” ‒ tutti e ciascuno ‒ esercitato, secondo Foucault, già dal pastorato religioso. In sintesi, la governance segna un passaggio da un discorso liberale di soggetti liberi a un discorso caratterizzato da soggetti più esplicitamente governati, “responsabilizzati” e gestiti. Infatti la governance è anche vista come un modo specifico di governo che è focalizzato sui processi e non più sulle istituzioni, e quindi come un evidente veicolo della limitazione e tendenziale sparizione della sovranità statale (Lemke 2007). La governance è un modello anche per la sfera politica e pubblica che elimina completamente quello del government liberaldemocratico: la forte enfasi posta sul consenso, la esclusiva concentrazione sulla risoluzione dei problemi (problem solving), sull’attuazione del programma, sulla scelta di attori (casting) per le procedure decisionali presunte consensuali, eliminano la po-

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litica, la quale invece si dà nei conflitti, nelle lotte per il potere e nella deliberazione su valori o fini comuni, come sulla ricerca di visioni per il bene comune, sulla giustizia e su altri beni comuni, sulle condizioni sociali e sui possibili futuri politici. Come annota Brown (2015, 127), la vita politica viene svuotata di ciò che teorici come Machiavelli consideravano il suo cuore e l’indice della sua salute: robuste espressioni di diverse posizioni politiche e desideri. Per Machiavelli, tali espressioni erano l’essenza stessa della libertà politica e impedivano anche che le differenze e le energie insite nel corpo politico diventassero tossiche.

Allo stesso modo, la predilezione del governo per la devoluzione (devolution), il decentramento e le partnership pubblico-privato trasforma le lotte politiche sugli scopi e sulle risorse nazionali in pratiche amministrative locali, in cui sia i vincoli di risorse sia gli obiettivi vengono imposti dall’alto come dati del problema. Brown sintetizza in sette punti le peculiarità distintive della governance: 1) diffonde un’epistemologia, un’ontologia e un insieme di pratiche depoliticizzanti; 2) è morbida, inclusiva e di orientamento tecnico; 3) elimina le norme che potrebbero essere conflittuali e le differenze strutturali come le classi sociali; 4) integra tutti i soggetti coinvolti nell’organizzazione in senso lato (stakeholders) dirigendoli negli scopi della organizzazione ‒ stato, impresa, università o altro ente ‒ che li impiega; 5) nella vita pubblica, trasforma le preoccupazioni della giustizia democratica liberale in formulazioni tecniche di problemi, le questioni di diritto in questioni di efficienza, le questioni di legalità in quelle di efficacia; 6) sul posto di lavoro, elimina le solidarietà orizzontali tipiche dei sindacati, la coscienza di classe dei lavoratori e la politica di lotta sostituendole con “squadre” organizzate gerarchicamente (teams), cooperazione multi-parti, responsabilità individuale e ideologia antipolitica; 7) rappresenta il sistema efficace per la diffusione degli obiettivi di devoluzione e di responsabilizzazione, tipiche del governo neo-ordoliberale, governo in cui il potere e la conduzione degli individui si estrinsecano tramite specifiche tecniche quali le migliori pratiche (best practices) e il benchmarking. La governance predilige la responsabilizzazione degli individui tanto quanto il governo tradizionale prediligeva il comando

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e l’obbedienza dei medesimi: «mentre l’obbedienza era stata la chiave principale pratica delle burocrazie dall’alto verso il basso, la responsabilità è la chiave principale pratica della governance» (Shamir 2008, 4). La responsabilità è il correlato della concezione dell’individuo (lavoratore o disoccupato o studente o consumatore)2 inteso come capitale umano, che deve ‒ non solo per avere successo ma anche per sopravvivere ‒ fare impresa di sè stesso e auto-investire bene, pena la non sopravvivenza o almeno l’esclusione. Nel mondo economico-manageriale, per benchmarking si intende l’importazione ‒ in termini di studio, comprensione, adattamento e infine implementazione ‒ in una impresa delle pratiche di altre imprese di maggior successo, ad esempio i leader di settore. Questo significa che i) le pratiche del passato sono da eliminare e quindi la storia come forma di conoscenza non conta; ii) si ritiene che non esistano né specificità settoriali, né che l’efficacia delle pratiche in termini di maggior produttività, minori costi, maggior soddisfazione del cliente possa dipendere da ciò che viene prodotto e venduto. Questi due punti implicano un corollario conseguente e una proposizione conclusiva. Il corollario, che da essi ne consegue, è che le pratiche del settore privato sono intercambiabili e possono spostarsi facilmente nel settore pubblico, cosicché la scuola o la sanità si organizzano più efficacemente se considerate come una banca o un’impresa che produce cellulari. La proposizione è che ogni struttura, anche lo Stato o la scuola o la famiglia, è una organizzazione pari a quella di una impresa che ha un unico fine, che è poi anche un mezzo che è fine a se stesso: il vantaggio competitivo e il mezzo-fine della concorrenza. Questo è perfettamente in linea con il pensiero neo-ordoliberale. Il benchmarking implica una costante valutazione comparativa che attraverso una batteria di indicatori ‒ più o meno concordata fra gli attori partecipanti (dai governi nazionali alle agenzie

2 Ricordiamo che anche il consumatore, nella visione degli economisti neoliberali come Gary Becker, è una impresa che massimizza il suo guadagno in termini di soddisfazione combinando efficientemente fattori produttivi anche personali, che comprendono la sua educazione come anche il suo tempo da dedicare allo shopping.

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locali, dall’operaio al ricercatore universitario) ‒ costruisca inevitabilmente punteggi (spesso astrusi), graduatorie e classifiche, che a loro volta spingano gli attori a cercare e copiare tecniche organizzative e gestionali (le best practices), che, indipendentemente dai fini e dagli effetti collaterali, possano comunque migliorare il punteggio e la classifica. Le “migliori pratiche” non sono neutrali e oggettive, ma portano con sé, ovunque siano implementate, i fini e i valori con cui sono imbricate, ovvero quelli dell’impresa e del mercato. Per esempio, Brown riporta tre casi: 1) nelle università l’obiettivo di soddisfare la domanda degli investitori o dei consumatori va a sostituire quello di educare i cittadini e sviluppare gli esseri umani; 2) nelle agenzie municipali (ad esempio, comuni o strutture sanitarie) l’obiettivo di comprimere i costi va a sostituire quelli di vitalizzare la democrazia o garantire la salute dei cittadini indigenti; 3) gli obiettivi di ricostruzione dopo la fine di guerre, di garanzia della sostenibilità alimentare o nell’uso delle risorse o dell’accesso alle arti, vengono ad essere sostituiti da quelli del marketing per la creazione, la gestione e lo sviluppo della marca (brand) e del posizionamento competitivo per le organizzazioni non-profit e le ONG. Il ruolo della importazione delle best practices dal settore privato al quello pubblico è chiaro: importare la concorrenza come principio, secondo il pensiero neoliberale. L’adozione di best practices importate dalle imprese nelle istituzioni pubbliche e non-profit, dagli enti di beneficenza alle università, ha l’effetto di ricalibrare in modo dissimulato e surrettizio strutture, obiettivi e metodi lasciando tali istituzioni in una sorta di deriva della loro missione. Quindi in qualunque ambito siano applicate come tecniche di governo delle condotte dei soggetti, le “migliori pratiche” sono intese a sostituire e surrogare la politica. Ovviamente la narrativa ideologica della governance neoliberale rappresenta le best practices come comportamenti esemplari perché etici, legali, equi, replicabili e applicabili a chiunque all’interno di un’organizzazione. Quindi si introduce implicitamente un giudizio di valore pesante: non solo sono le migliori pratiche ma anche sono buone pratiche.

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In questo modo anche all’interno dell’ambito pubblico viene inoculato il paradigma del mercato onnisciente e salvifico, che sostituisce quei valori e obiettivi che non sono compatibili con quel paradigma. Se una “buona pratica” è qualcosa (una tecnica, un metodo, un processo, un’attività o un incentivo) che si è dimostrato più efficace per raggiungere un obiettivo, se è in grado di migliorare le prestazioni di un’organizzazione attraverso ulteriore responsabilità, conformità, trasparenza e controllo del rischio, perseguendo la legalità, la trasparenza, la responsabilità, l’etica e la competitività (tutte cose buone), allora non è certo possibile la contestazione delle “buone pratiche”, in quanto esse sono presentate come vincenti e neutrali, come foriere di concordia, rafforzamento comunitario, responsabilità, fiducia interpersonale, al contrario della politica che è ritenuta conflitto, discordia ecc. Se viste invece nella loro diffusione nell’ambito del privato, il loro ruolo è di dimostrare che è possibile, preferendo linee guida e standard appropriati e su misura rispetto a leggi e comandi generici, sostituire le “migliori pratiche” alla regolamentazione governativa convenzionale, ed essendo esse “buone pratiche” (etica, correttezza, legalità, efficienza e risultati ottimizzati in un ambiente competitivo) dimostrare anche che interventi (legali, politici o etici) pubblici non sono necessari. Una critica particolarmente severa nei confronti della governance riguarda la sua presunzione di favorire – attraverso l’inclusione di plurimi soggetti in reti orizzontali di contatti negoziali non gerarchici – la partecipazione democratica (in confronto al tradizionale government liberale): appare invece che il coinvolgimento attoriale plurimo in un contesto negoziale sia piuttosto uno strumento surrettizio per cercare di ottenere tanto la mancante legittimità democratica (la governance è autoreferente, autocratica e non democratica) quanto la sottomissione volontaria degli attori alle regole: «La governance opera quindi in orizzontale, sotto la forma di reti/networks di attori collettivi nelle quali i soggetti possono essere impegnati nei processi negoziali attraverso procedure di mediazione e di consenso tese a guadagnare legittimità e compliance più che partecipazione» (Arienzo 2005, 457).

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Non vi è dubbio che governance neo-ordo-liberale e government liberale attengono a due sistemi politici sempre più alternativi e incompatibili, anche se la narrazione apologetica dominante tende a rappresentare il primo come una soluzione al presunto dirigismo pesante della vita democratica del secondo: il government e la governance sono considerati sempre più spesso campi politici disgiuntivi. Il primo sarebbe l’espressione di un modello verticistico e dirigista di conduzione della vita democratica; il secondo, invece, rappresenterebbe l’orizzonte di possibilità di una presa di decisione politica orizzontale e inclusiva nella quale le pesantezze della politica lascerebbero spazio al confronto tra gli attori sulla base di interessi e di obiettivi, quando non condivisi, almeno negoziabili […]. Non è allora difficile comprendere perché la governance più che un discorso critico sul governo, costituisca una critica al modello del government statale. Essa definisce un modello alternativo di conduzione politica, centrato sulla negoziazione diffusa, sulla expertise e sulla terzietà regolativa che dà corpo, piuttosto, ad un “discorso critico di governo” (Arienzo 2007, 263).

La radice economica della governance emerge anche dalle sue prime definizioni, che sono riferite alle migliori o buone pratiche (best practices) da adottare da parte dei soggetti richiedenti debito alle istituzioni finanziarie sovra-nazionali, come il FMI e la Banca Mondiale. Le “buone pratiche” sponsorizzate dalla Banca Mondiale vanno a indebolire e a sostituire quelle tipiche della politica democratico-liberale, innanzitutto le categorie formali distintive della teoria politica moderna, quali i rapporti fra ambito pubblico e privato, fra Stato e società civile, fra esecutivo e apparato amministrativo. La tattica di aggiramento della politica democratico-rappresentativa – la quale ultima è caratterizzata dalla generalità della sua dimensione sia negli obiettivi di intervento che nel potenziale contenuto etico-giuridico (per esempio l’eguaglianza formale o la giustizia sociale) – consiste nel permeabilizzare sia i confini tradizionali, permettendo l’ingresso nel pubblico ad attori privati e processi privatistici, sia il contenuto stesso della politica pubblica, che non è più basata sui cittadini, sulle loro organizzazione politiche (i partiti) e sulle loro domande, ma diventa un insieme amministrativo di politiche (policies) specialistiche e tecniche,

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legittimate dal loro esito e caratterizzate da processi decisionali co-gestionali. La governance è un’arte del governo specifica che ha l’obiettivo di costituire un’autorità politica legittimata solo dai suoi risultati rispetto alla costruzione, al mantenimento e alla regolazione dell’efficienza del sistema economico, autorità che non solo sia non-statale ma che sia anche prevalentemente privata. Questo gioco di de-sovranizzazione politica e ri-legittimazione funzionale tecnocratica, che la governance realizza, era, per Foucault, già evidente in riferimento alla storia della Germania post-bellica: «l’economia, lo sviluppo e la crescita economica producono sovranità politica attraverso l’istituzione e il gioco istituzionale che fanno funzionare questa economia. L’economia produce legittimità per lo stato, che ne è il garante» (Foucault 2005, 81). La governance mette al centro della politica pubblica l’aspetto del policy-making, implementando politiche che evidenziano il passaggio da sistemi istituzionali di governo, prevalentemente fondati sulle istituzioni della rappresentanza (partiti e parlamenti) e orientati alla centralità delle funzioni di inputs, a sistemi di governo orientati alla rivalutazione di modalità d’azione più orientate all’efficienza e all’efficacia degli outputs (Giraudi e Righettini 2002, 202).

La sostituzione del government liberale legittimato democraticamente con le pratiche di governance trova una giustificazione in un nuovo concetto di legittimazione proposto da Scharpf (1997), il quale distingue fra i concetti di input legitimacy – la tradizionale legittimità del potere democratico liberale – e output legitimacy – che invece caratterizzerebbe l’odierna governance, la quale mette da parte secoli di filosofia politica e del diritto, per affermare che è legittimo “solo ciò che funziona in modo efficace e puntuale”, ciò che ottiene il risultato voluto (output legitimacy) indipendentemente da chi decide cosa e perché!3

3 «Questi sistemi stabiliscono un equilibrio politico che fonda la propria legittimità non su meccanismi elettivi e rappresentativi, ma su una legittimità d’esito (output legitimacy) di tipo funzionale ed esecutivo, legata ai momenti della formulazione ed attuazione delle policies, e che emerge dalla capacità degli attori di verificare tre diverse condizioni: a) prendere decisioni puntuali per aree di in-

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5.2. La narrazione della governance I cantori della governance sottolineano un carattere moderno ed efficiente che pare caratterizzarla, quello della dispersione del potere in opposizione alla tradizionale sovranità, in questo mostrando (ma in genere senza reclamarla) una certa vicinanza con le teorie della microfisica del potere, inteso come relazione fra soggetti, elaborate da Foucault. La narrativa ideologica neoliberale ovviamente sostiene che la governance fornisce maggiore democrazia; per esempio attraverso le pratiche di devoluzione e decentramento aumenta la partecipazione, le partnership e l’inclusione nei processi di soluzione dei problemi. Brown smonta facilmente tale narrativa, notando come l’inclusione o la partecipazione, se non sono accompagnate da un grado di controllo sulla scelta, da un lato, di parametri e vincoli, e, dall’altro lato, di valori, fini, direzioni e obiettivi fondamentali, restano significanti vuoti, e in tal caso «non si può dire che essi siano democratici più di quanto si possa dire che il fornire a un detenuto nel braccio della morte la scelta sul metodo di esecuzione offra libertà al detenuto» (Brown 2015, 128). Dobbiamo sottolineare come sarebbe erroneo credere alla narrativa dei teorici della governance per cui il potere e la responsabilità devoluti equivarrebbero al decentramento dei poteri e all’empowerment delle istanze locali e degli esclusi. Brown è piuttosto efficace nel raccontare come la devoluzione implichi che «problemi su larga scala, come recessioni, crisi del capitale finanziario, disoccupazione o problemi ambientali, nonché crisi fiscali dello Stato, vengono inviati lungo il gasdotto a unità piccole e deboli incapaci di affrontarli tecnicamente, politicamente o finanziariamente» e che attraverso questa procedura si persegue l’obiettivo di far introdurre volontariamente, mediante incentivi, “riforme” che non potrebbero essere fatte con altrettanto successo per via mandataria; basta, in un certo senso, fare

tervento determinate e chiaramente definite; b) fare sì che le decisioni prese siano implementate con efficacia; c) garantire che le misure adottate corrispondano positivamente al problema» (Arienzo 2007, 266).

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tagli ai finanziamenti statali all’istruzione o alla salute mentale, delegare la responsabilità degli interventi in questi comparti ad enti locali, che a loro volta le delegano a singole scuole o agenzie, che a loro volta le devolvono a singoli dipartimenti, che quindi vengono ad avere qualcosa che è chiamata “autorità decisionale”, naturalmente, senza che abbiano risorse per esercitare questa spettrale autonomia e sovranità (Brown 2015, 131-132)4.

Poiché la narrativa con cui viene accompagnata la governance è importante per simularne i pregi e dissimularne i difetti, una riflessione critica su di essa, in particolare una rivisitazione della spiegazione che tale narrativa fornisce tanto per l’origine quanto per la inderogabile necessità della governance, appare qui utile. Seguendo Walters (2004), osserviamo che la metanarrativa attribuisce l’inarrestabile ascesa della governance alla altrettanto inarrestabile crescita della “complessità”. Per esempio, per Kooiman (2000), i processi di sviluppo a lungo termine sarebbero alla origine della governance, che sarebbe quindi particolarmente attribuibile alla crescita o al cambiamento delle interdipendenze sociali, alle tendenze sociali a lungo termine come la differenziazione e l’integrazione, al conseguente allungamento delle catene di interdipendenza che moltiplicano gli attori partecipanti. Quindi, la governance, in breve, rappresenterebbe una risposta politica alla crescita della complessità sociale. La metanarrativa principale nel diciannovesimo secolo è stata basata sull’idea di “civiltà”, quella del ventesimo secolo sulle idee di “sviluppo” e “modernizzazione”, quella dell’inizio del

4 Sempre Brown fornisce un personale esempio di questo modo di operare: «diversi anni fa, il mio sistema universitario ha devoluto la responsabilità del pagamento dei benefici [assicurazione, pensione, assistenza, indennità etc.] per i dipendenti ai singoli dipartimenti accademici. Questo piccolo cambiamento ha determinato una trasformazione globale dell’università incentivando i dipartimenti ad assumere un numero sempre maggiore di personale accademico e d’ufficio part-time che, quando lavora meno del 50%, non raggiunge la soglia per ottenere i benefici. Così una forza lavoro flessibile, non protetta e scarsamente retribuita viene a sostituire una che gode di una modesta sicurezza del lavoro, insieme a disposizioni per la salute, la disabilità e la pensione. In nessun luogo questa intenzione è stata decretata o resa obbligatoria. Piuttosto […] la devoluzione dell’autorità a unità sempre più piccole e più deboli si combina con la semina della concorrenza tra di loro e mira a “imprenditorializzarle”» (Brown 2015, 132).

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ventunesimo secolo in cui si afferma la governance è basata principalmente sulla “complessità” (col suo nuovo correlato di ordine auto-organizzato), ovvero sul fatto che le società stanno diventando sempre più complesse e quindi i problemi sono sempre più difficili da trattare, e quindi sicuramente la governance ‒ vista come un insieme di alternative multilivello, collegate in rete, cooperative e intelligenti (smart) ‒ sarebbe la giusta risposta “non lineare” alle “non-linearità” della complessità, laddove, invece, le soluzioni “top-down” o “lineari” e le forme di governo stataliste sarebbero inidonee. Un effetto certo della narrativa della governance è quello di depotenziare il ruolo della politica e quindi di narrare eventi che sono chiaramente questioni di conflitti di potere come fossero questioni del tutto apolitiche e semmai solo tecniche e amministrative. Walters prende l’esempio dei programmi di privatizzazione, che riteniamo particolarmente importante per il caso italiano, in quanto tali programmi divennero il mantra dei governi di qualsiasi colore dopo la caduta della cosiddetta prima repubblica5. Le privatizzazioni di industrie nazionali e dei sistemi di fornitura pubblica sono risultate a partire dagli anni ‘80 un obiettivo di molti governi e agenzie internazionali, in cui la governance si è manifestata sotto forma di una proliferazione di partnership pubblico/privato, agenzie di regolamentazione e fornitori privati o parastatali di beni e servizi pubblici, un obiettivo prescritto dalle agenzie di sviluppo sotto la rubrica di “buon governo”. Ma può la governance delle privatizzazioni essere inserita nella metanarrativa della complessità? Evidentemente sì, ma solo se si voglia nascondere il suo evidente contenuto politico6. Ciò che viene fat-

5 È particolarmente illustrativo l’esempio della perorazione delle privatizzazioni fatta nel giugno del 1992 in un discorso su un insolito yacht dall’allora governatore della Banca d’Italia, riportato nel Fatto Quotidiano del 22 gennaio 2020 a p. 15. 6 «La privatizzazione si trova all’intersezione di una serie di motivazioni politiche, tra cui il controllo della spesa pubblica, la ricerca di nuovi sbocchi per il profitto e la divulgazione del capitalismo presso la pubblica opinione. Ma è anche determinato da ogni sorta di vili e ignobili ambizioni politiche: la tattica di tagliare e bruciare un governo in partenza, la volontà di vendicare le sconfitte del passato per mano di certi sindacati del settore pubblico, la necessità di tenere insieme una

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to di eminentemente politico, viene deformato e occultato attraverso il linguaggio narrativo della governance, che è diventata la nuova lingua franca delle istituzioni politiche e imprenditoriali, e rappresenta, insieme ad altri termini come globalizzazione, flessibilità o multiculturalismo, una “nuova vulgata planetaria” imperialista, come suggerito dal sociologo Bourdieau7. Un altro esempio, oltre le privatizzazioni, della narrativa della governance, che spinge a considerare buono e neutrale ciò che di essa si sostanzia, riguarda l’Unione europea; si tende infatti a raccontare la struttura di governo ‒ del tutto autocratica e autoreferenziale rispetto ai sistemi politici statuali liberaldemocratici ‒ della UE, al fine di metterla in una luce relativamente favorevole, come una applicazione della governance, come un sistema di governance reticolare e multilivello orientato al consenso, all’efficienza e alla soluzione dei problemi.

coalizione elettorale traballante, e la volontà di dimostrare le proprie credenziali neoliberiste agli occhi attenti dei mercati finanziari e delle agenzie di prestito. Alla governance manca la maggior parte di questo. La privatizzazione è una strategia altamente politica, ma il discorso sulla governance ci incoraggia quasi a considerarla come una risposta naturale e inevitabile alla crescente complessità» (Walters 2004, 41). 7 «Nel giro di pochi anni, in tutte le società avanzate, datori di lavoro, funzionari internazionali, funzionari di alto rango, intellettuali dei media e giornalisti di alto livello hanno tutti iniziato a dare voce a una strana neolingua. Il suo vocabolario, che sembra essere spuntato dal nulla, è ora sulla bocca di tutti: “globalizzazione” (globalization) e “flessibilità” (flexibility), “governo” (governance) e “occupabilità” (employability), “sottoclasse” (underclass) ed “esclusione” (exclusion), “nuova economia” e “tolleranza zero”, “comunitarismo” (communitarianism) e “multiculturalismo” (multiculturalism), per non parlare dei loro cosiddetti cugini post-moderni “minoranza” (minority), “etnicità” (ethnicity), “identità” (identity), “frammentazione” (fragmentation) e così via. La diffusione di questa nuova vulgata planetaria – da cui i termini ‘capitalismo’, ‘classe’, ‘sfruttamento’, ‘dominio’ e ‘ineguaglianza’ sono evidenti per la loro assenza, essendo stati perentoriamente respinti con il pretesto che sono obsoleti e non pertinenti – è il risultato di un nuovo tipo di imperialismo. I suoi effetti sono tanto più potenti e perniciosi in quanto è promosso non solo dai partigiani della rivoluzione neoliberale che, sotto la copertura della “modernizzazione”, intendono rifare il mondo spazzando via le conquiste sociali ed economiche di un secolo di lotte sociali, ormai descritte come tanti arcaismi e ostacoli al nuovo ordine emergente, ma anche da produttori culturali (ricercatori, scrittori e artisti) e attivisti di sinistra, la stragrande maggioranza dei quali ancora si considera progressista» (Bourdieau e Wacquant 2001, 2).

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Secondo Smouts (1998, 88), la governance tende a fornire non solo una rappresentazione neutrale della politica, ma, dietro all’esaltazione dell’efficacia dell’azione, della capacità risolutiva dei problemi, del coinvolgimento e del consenso degli attori sociali, rappresenta, piuttosto, una visione “irenica” e pacifista della vita sociale, anche a livello internazionale che «non tiene conto della lotta all’ultimo sangue, dei fenomeni di dominio totale e dei problemi che derivano dall’ingovernabilità di interi settori della società internazionale… Il criterio di fondo della governance globale è l’efficacia: che una questione sia gestita, un problema risolto; che ci sia una sistemazione degli interessi reciproci». Walters non crede alla narrativa secondo la quale la governance è una espansione della democrazia, come, per esempio recita la Commission for Global Governance (1995) (un think-tank di 28 leaders che, dopo la caduta del blocco sovietico, propone le linee-guida per un “new world”): «È necessaria una strategia multiforme per la governance globale […]. Promuoverà la cittadinanza globale e lavorerà per includervi segmenti più poveri, emarginati e alienati della società nazionale e internazionale». Piuttosto, egli crede che il discorso sulla governance miri a spostare la visione della politica intesa come conflitto per farla intendere invece come una politica senza nemici, una perfetta eco immediata dell’altra narrazione neoliberale apparsa subito dopo la caduta del blocco sovietico, vale a dire quella della “fine della storia” e della “fine delle classi e della loro lotta”8; in questo senso, la governance è narrata come una nuova politica di autogestione collettiva multi-

8 Per amor di precisione, annotiamo come D’Eramo (2020) segnali il fatto che Francis Fukuyama tenne la famosa lezione sulla “fine della storia” con l’appoggio dell’Olin Center for Inquiry into the Theory and Practice of Democracy codiretto da Allan Bloom all’Università di Chicago nel febbraio 1989 e in estate pubblicò l’articolo omonimo che quindi precedette di otto mesi la caduta del muro di Berlino. Sempre di passaggio, ricordiamo che D’Eramo ricostruisce l’impegno delle fondazioni di magnati americani nel finanziare “pensatoi” accademici di stampo neo-liberale come nel caso della Fondazione Olin e commenta causticamente: «“rudi e rozzi” miliardari del Midwest fabbricanti di soda caustica e fucili Winchester, che finanziano a colpi di decine di milioni di dollari un centro universitario in cui si tengono seminari su Rousseau e i viaggi di Gulliver, diretto da un classicista estetizzante [Bloom]».

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livello assimilatrice e integrativa degli esclusi, nascondendo ovviamente il fatto che gli esclusi siano in realtà esclusi in modo strutturale, perché i loro interessi sono fondamentalmente incompatibili o antagonisti all’attuale ordine di potere capitalistico. Walters nota, inoltre, una importante similitudine fra la narrativa della governance e alcuni sviluppi concettuali in altre aree delle scienze sociali, in particolare con la narrativa “comunitarista”, peraltro propria in Europa di un certo impegno socio-politico cristiano, che esprime nei confronti della politica non la palese ostilità mostrata dalla governance, ma comunque una certa ambivalenza e che al posto di una visione conflittuale della politica pone una visione di società e comunità unificate e coese (per esempio, Rose (1999a) chiama questa visione “etico-politica” (ethopolitics)), visione che include le teorie del capitale sociale (Foley e Edwards 1997), della società civile, della coesione sociale e di vari altri comunitarismi. Possiamo individuare nell’argomentazione di Walters sei punti di vicinanza fra la teoria della governance e quelle che riassumiamo sotto il termine di teorie “comunitariste”: i) lo scopo di superare la “vexata” dicotomia “stato versus mercato”, che è stata cruciale nella teoria politica a partire dal dopoguerra; ii) la pretesa post-ideologica di essere entrambe pragmatiche e orientate alle soluzioni; iii) la presunzione di una politica basata sul dialogo, l’inclusione e il consenso; iv) l’assenza di pretesa ideologica ‒ sebbene entrambe potrebbero essere considerate discorsi liberali ‒ nel senso forte del termine, poiché non rivendicano di essere considerate sistemi di idee in lotta per l’egemonia con sistemi rivali, come lo fu l’idea di democrazia liberale nei confronti dell’idea comunista o fascista; v) piuttosto i loro nemici sono fatti passare non come ideologie politiche rivali ma solo come “cattive” pratiche quali la corruzione, il disordine, la sfiducia, l’alienazione politica, il cattivo governo e così via; vi) l’ammantarsi, tramite la rivendicazione di indiscutibili valori sociali e culturali, di un presunto carattere etico ed a-politico, che è proprio ciò che conferisce loro un carattere politico vincente. Secondo alcuni (Dillon 2000, Walters 2004), mentre le scienze sociali hanno preso in prestito le loro metafore dalla fisica e dalla biologia, la governance sembra prendere il suo linguaggio e le sue immagini dalle scienze bio-informazionali, dalla cibernetica e dalla teoria della

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complessità, con la sua enfasi sui sistemi autoregolanti, sulla proliferazione e gestione delle reti, sul processo evolutivo tra ordine e disordine. Ovviamente la narrativa accademica e mediatica in ambito politico ed economico, al fine di spiegare e giustificare la diffusione della governance, mette in rilievo principalmente due elementi oggettivi e particolarmente critici che si sarebbero creati – ovviamente, secondo tale narrativa, in modo del tutto spontaneo – nella storia del mondo e che avrebbero perciò richiesto nuove risposte da nuovi assetti del potere. In primis, i processi di mondializzazione e di globalizzazione economica e finanziaria, i cui corrispondenti flussi economici assumono direttrici e traiettorie scarsamente controllabili dai poteri pubblici, spingerebbero “naturalmente” verso la costituzione di nuovi organismi regolativi, sia interni che internazionali, e di aggregati politici macro-regionali, data la inadeguatezza degli Stati-nazione e dei loro assetti politici democratico-liberali. In secundis, anche a livello interno la necessità di dotarsi di tecniche e di dispositivi di stabilizzazione e di conservazione politica centrati sul mercato, unitamente all’emergere di spinte politiche, economiche e sociali sempre più complesse e pressanti e non più mediate dalla tradizionale relazione fra Stato e società civile basata sui partiti e sulle ideologie, rivelerebbe una incapacità di offrire risposte efficaci da parte del tradizionale government. Insomma, la democrazia rappresentativa, le procedure democratiche elettive e maggioritarie si mostrerebbero incapaci di governare in modo “efficace” la crescente complessità economica, tecnologica e sociale. In conclusione, vogliamo riassumere, fra le molte sopra discusse, alcune peculiarità della governance in termini di strutture, azioni, obiettivi e contenuto politico. Innanzitutto, annotiamo, in linea con Borrelli (2010), che, sebbene si possano ascrivere alla riflessione neoliberale proposte politiche di nuove forme di democrazia9, quella di tipo governance, rimane la più importante del

9 Fra queste, si possono annotare quelle sviluppate, a partire dalle idee di Rawls, da Dworkin (2006), che partendo da due pilastri etici di base ‒ il valore intrinseco di ogni vita umana e il principio della responsabilità personale che impone a ciascun individuo di giudicare e scegliere il tipo di vita idoneo alla propria

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pensiero neoliberale contemporaneo. Borrelli ci fornisce una descrizione della sua struttura: una rete di autorità e agenzie non statuali, indipendenti, vengono attivate dai fuochi dei governi centrali al fine di offrire regolamentazione e produrre diffusi comportamenti di autodisciplina. Si tratta del complesso delle Autorità Amministrative Indipendenti, authorities e agencies poste in essere da organismi internazionali (FMI, ONU, UE, BCE, OCSE, ecc., fino alle reti delle NGOs/Non Governamental Organizations) che – a modo di vedere di Rosenau – avvolgono a rete il mondo (Borrelli 2010, 69).

Di queste strutture di governance, si possono ravvisare, in primo luogo, i processi “teleologici” in corso, vale a dire la loro pervasiva diffusione in ogni parte del globo per stabilire capillarmente a livello mondiale la nuova forma di governamentalità: bisogna dunque riferire questo complesso di pratiche e discorsi al tentativo di rendere ancora più attiva la governamentalità del neoliberalismo attraverso la reticolare diffusione di dispositivi/politiche di governance in ogni parte nel mondo (Borrelli 2010, 69-70).

In secondo luogo, si registra la radicale novità anti-democratica della governance, priva della legittimazione elettiva, della rappresentatività delle istanze dei singoli, della basilare separazione fra i poteri della classica tradizione liberale: Questi organismi si pongono al di fuori delle procedure della legittimazione rappresentativa, essendo non-rappresentativi e non-elettivi, e azzerano la separazione funzionale tra i poteri […] con sicura mortificazione di bisogni ed espressioni dei singoli (Borrelli 2010, 70).

In terzo luogo, le strutture di governance puntano all’obiettivo di una conduzione degli uomini aggiornata al presente, tramite la trasformazione dei soggetti da cittadini e attori politici a consumatori e imprese/capitale umano:

realizzazione ‒ cerca di offrire giustificazione teorica a un orizzonte di democrazia di tipo partecipativo, o, ad esempio fra vari altri, da Ackerman (2003) che perora la bontà della democrazia di tipo deliberativo, entrambe, secondo loro, preferibili e più legittime rispetto alla democrazia rappresentativa maggioritaria.

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L’obiettivo principale di questi organismi sarebbe quello di contribuire su piani diversi (multilevel) alla produzione di un efficace rapporto di comando/obbedienza attraverso l’attivazione di tecnologie particolarmente efficaci a fare di ciascun soggetto l’individuo per eccellenza consumatore. Nei contesti nazionali e sul piano mondiale, i dispositivi di governance contribuirebbero a incrementare il cosiddetto capitale umano, a rendere più funzionali corpi, energie e poteri dei singoli che si impegnano a fare di se stessi i veicoli di forme sempre più flessibili dell’impresa (Borrelli 2010, 71).

In definitiva, appare evidente che la produzione di consenso da parte dei soggetti, prevista con le procedure di governance, sia del tutto altra cosa dalla partecipazione da parte dei singoli cittadini, prevista dalla democrazia liberale. Ma quale segno ha questa differenza? Probabilmente di tipo conservatore e autoritario, al punto da ravvisare nelle pratiche di governance persino un arretramento del liberalismo rispetto alle sue aspirazioni di limitazione del potere statale e, paradossalmente, una similitudine con le pratiche della ragion di Stato. Infatti, Borrelli ritiene che l’obiettivo della governance, al contrario dei suoi apologeti che ne sottolineano l’aspetto di libero consenso, sia prevalentemente conservativo, individuandone una «piena convergenza regressiva con i dispositivi di governo che hanno preso a operare, fin dalla prima modernità, con il nome di ragion di Stato», e che pertanto vi siano ampi motivi per concludere, modificando l’aspetto di “dolce” condotta della governamentalità foucaultiana, che «la crisi delle politiche di tipo neoliberale apre – nei processi della globalizzazione economico-finanziaria – a forme diverse di governamentalità tendenzialmente autoritarie» (Borrelli 2010, 77). Espressa in sintesi, la ragion d’essere della governance è quella di fornire la più adatta formulazione politica alla fase odierna di dominio del capitalismo finanziario. Infine, rileviamo che un passaggio critico necessario per comprendere il presente riguarda l’uscita dalla narrativa della governance, introducendo un cuneo personale che la disattivi come forma di esistenza da accettare, secondo la visione neoliberale, come “la realtà di fatto”: «Si tratta di introdurre una sorta di “disadattamento” nel tessuto della propria esperienza, di interrompere la

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fluidità delle narrazioni che codificano quell’esperienza e di farle balbettare» (Rose 1999, 20).

5.3. Governance, democrazia e sovranità Sicuramente molti autori hanno sostenuto che la democrazia, con le sue istituzioni, garanzie, controlli, etc. è in crisi, se non è ormai esaurita. Per esempio Crouch (2003) ha introdotto la categoria di post-democrazia. Una post-democrazia è un sistema politico che, pur democratico nel suo aspetto formale, viene di fatto influenzato e governato da grandi poteri privati come le imprese multinazionali e quelle dei media; quindi ha perduto i propri caratteri costituenti a favore di nuove forme di esercizio del potere e di regime, di tipo oligarchico ed elitario. Quindi nella post-democrazia descritta da Crouch, il ruolo partecipativo dei cittadini si riduce progressivamente a favore di altre forme decisionali alle quale contribuiscono le burocrazie, i tecnocrati, gli organi intergovernativi, le lobby, le imprese economiche e i media. Anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici (Crouch 2003, 6).

Crouch sostiene che, come accade con i governi che privatizzano in una catena infinita e opaca di subappalti i servizi ex-pubbici, così accade anche alla partecipazione democratica. Mentre i cittadini, specie quelli delle classi meno privilegiate, si allontanano dalla politica in senso partecipativo, perdono effettivamente ogni possibilità di tradurre le loro richieste in azione politica. Le elezioni diventano gare attorno ai marchi, anziché opportunità per i cittadini di replicare ai politici sulla qualità dei servizi […] l’avvicinarsi del processo elettorale democratico, la massima espressione

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dei diritti del cittadino, a una campagna di marketing basata abbastanza apertamente sulle tecniche di manipolazione usate per vendere prodotti (Crouch 2003, 80).

Infatti, una caratteristica centrale della post-democrazia, secondo Crouch, è la trasformazione della comunicazione politica, soprattutto dopo l’introduzione dei monopoli od oligopoli delle televisioni private (p.e. Murdoch e Berlusconi)10. Un altro aspetto del degrado della comunicazione politica di massa è la crescente personalizzazione della politica elettorale. […] Campagne elettorali interamente basate sulla personalità dei candidati erano caratteristiche delle dittature. […] La promozione delle presunte qualità carismatiche del leader del partito, le foto e gli spot della sua persona in pose adeguate e convincenti prendono sempre più il posto del dibattito sulle questioni e gli interessi in conflitto. La politica italiana è stata a lungo immune da questo fenomeno, fino al 2001, quando Silvio Berlusconi ha organizzato l’intera campagna elettorale del centrodestra alle elezioni politiche attorno al suo personaggio, disseminando ovunque sue gigantografie opportunamente ringiovanite, in forte contrasto con lo stile assai più partitocentrico che l’Italia aveva adottato dopo la caduta di Mussolini. Invece di usare questo argomento per contrattaccare, l’unica risposta immediata del centrosinistra è stata identificare un individuo abbastanza fotogenico tra i suoi leader allo scopo di imitare il più possibile la campagna di Berlusconi (Crouch 2003, 24-25).

Come sottolinea anche Borrelli (2010), altri due fenomeni preminenti nell’odierno mondo neoliberale sono alla base della crisi democratica: 1) la dominanza della comunicazione, anche nell’ambito dell'economia; 2) la dominanza delle tecniche massmediali. Rispetto al primo punto, l’individuo alla base del

10 Secondo Borrelli, Crouch considera già in atto, prendendo a riferimento le situazioni inglese e italiana, la fuoriuscita di alcuni governi occidentali dal quadro delle democrazie procedurali rappresentative e sostiene che «seppure le forme della democrazia rimangano formalmente in vigore – la politica e il governo cedono progressivamente terreno alla supremazia di élites privilegiate che rendono la partecipazione dei cittadini passiva e rarefatta, snaturando dalle radici l’esercizio democratico: questo avverrebbe contestualmente all’estensione di tecnologie di manipolazione massmediatiche, di spettacolarizzazione dell’azione di governo, di privatizzazione/aziendalizzazione della sfera pubblico-politica» (Borrelli, 2010, 75).

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sistema democratico rappresentativo viene trasformato dalla comunicazione che esalta il lato della domanda e del consumo rispetto a quello della offerta e della produzione, consumo che viene personalizzato insieme ad una organizzazione della produzione e del lavoro che viene trasformata in direzione di produzioni polivalenti, ipermateriali, flessibili e rapporti lavori di lavoro frantumati, precari, individualizzati. Rispetto al secondo punto, il fenomeno della diffusione delle tecnologie massmediali accompagna una “mediatizzazione” della politica, che produce un effettivo consenso attraverso un “pubblico” televisivo e maggioranze virtuali, come già osservato nella sua descrizione della post-democrazia da Crouch (2003). Inoltre, la crisi della democrazia è stata interpretata da molti come un effetto collaterale inevitabile causato dall’espansione economica, dalla globalizzazione, ecc. Ovviamente, sostenere che «la crisi attuale della democrazia è […] una crisi di controllo e legittimità di fronte ai nuovi sviluppi economici e politici» (Dahrendorf 2001, 7) sarebbe solo una tautologica osservazione della realtà di fatto. Bisogna andare più in profondità e capire chi e cosa hanno creato la realtà di fatto. Allora è facile vedere come anche per noti pensatori “liberali” (e non “neo-liberali”) la realtà di fatto, che è artificiosamente creata, come ben sanno e propugnano i neo-ordoliberali, i quali, invece, poi altrettanto bene raccontano, almeno nella variante neo-austriaca di Hayek – che la realtà sia una creazione spontanea, tanto perfetta quanto irriproducibile dall’uomo, come quella che forma il “cristallo” – non sia poi così male, e la democrazia sia un ferro-vecchio come lo sono gli Stati nazionali. Che non sia un ferro-vecchio lo potrebbero credere solo quegli europeisti, diciamo così, di sinistra e democratici che vengono, come cani innocui, lasciati abbaiare alla luna mentre i ladri delle élites sovra-nazionali smantellano e depredano la casa democratica: non credo che essa [la democrazia] sia applicabile al di fuori dello Stato-Nazione, ai molti livelli internazionali o multinazionali in cui si forma oggi la decisione politica. Chi continua a proporre sempre nuove elezioni e nuovi mandati elettorali come soluzione al problema della democrazia in ambito internazionale, pensando a governi europei o addirittura mondiali, sta secondo me abbaiando alla luna (Dahrendorf 2001, 8).

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E che la realtà di crisi (per le popolazioni) del capitalismo odierno non violi i principi del liberalismo, anzi sia una buona occasione per riscriverne le regole (!), lo sostiene ancora Dahrendorf, il quale esclude «che alcuni eccessi del capitalismo di mercato siano un buon argomento contro i principi del liberalismo. Al massimo sono un buon argomento per riconsiderare le regole» (Dahrendorf 2001, 8-9). Quanto alle regole di democrazia formale liberale (elezioni, rappresentanza ecc.), che dovrebbero essere considerate liberali almeno nella misura in cui sono state il cavallo di battaglia ideologico di tutti i partiti liberali in opposizione a comunismo e fascismo, possono essere tranquillamente abbandonate, ovviamente sempre in nome della libertà: Ordine liberale, da un lato, e forte società civile con forte economia di mercato, dall’altro, restano per me gli obiettivi del liberalismo. Non vedo in questo nessuna particolare crisi. Ci può essere, anzi chiaramente c’è, una crisi dei partiti che si chiamano liberali, e in questo senso una crisi del liberalismo politico. Ma ciò non mi preoccupa molto, perché penso che dobbiamo essere molto più interessati alle sorti della libertà che a quelle dei partiti liberali (Dahrendorf 2001, 9).

Democrazia rappresentativa e libertà possono essere in antitesi per i teorici liberali. Se il rapporto tra politica e mercato è sbilanciato a favore del secondo, una prima conseguenza riguarda il lato della politica: infatti, in tale ambito emerge una crescente personalizzazione, mediatizzazione ed autonomizzazione delle élites politiche. Ma vale altrettanto il nesso causale inverso: è piuttosto l’azione delle élites politiche ed economiche ad aver creato una de-politicizzazione dell’ordinamento politico-giuridico e una sua economicizzazione (tramite varie strutture che vanno dagli organismi privati di indirizzo della politica occidentale ‒ p.e. la più teorica Mont-Pèlerin Society come la più operativa Commissione Trilaterale – alle élites che hanno progettato e attivato gli istituti sovra-nazionali europei). Insomma, questa odierna mondializzazione – narrata come un evento inarrestabile, senza alternative, e, al netto di qualche turbolenza, di natura certamente progressiva – avrebbe dimostrato che gli ordinamenti giuridico-politici della sovranità nel-

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la loro declinazione democratico-rappresentativa – che costituiscono il tradizionale government nazionale – sono insufficienti per ordinare il mutato quadro storico-economico. Il government democratico-liberale allora può bene essere sostituito dalla governance: certamente quest’ultima non ha alcuna legittimità politica democratica e neppure di altro tipo – sebbene di questo ovviamente non si faccia menzione nell’agone formativo e mediatico in cui ancora le parole libertà, democrazia, popolo ecc. ricorrono sempre quali legittimatori della decisionalità pubblica – ma è offerta come un prodotto flessibile, multilivello, globale, comunicativo, inclusivo di attori plurimi, e che soprattutto risponde efficacemente alle miriadi di invisibili pressanti problemi e rischi della permanente crisi e del permanente stato di emergenza (stato di cui è però è lasciata inspiegata la sua endogeneità all’odierno sistema socio-economico, e di cui è narrato solo mediaticamente – esempio di cause sono rintracciate dalla narrazione mediatica nel terrorismo, nella complessità tecnologica, nelle migrazioni incontrollabili, nel riscaldamento globale, ecc.). Tuttavia, le pervasive presenze dell’emergenza e della crisi – e la correlata richiesta che esse debbano sempre essere fronteggiate – sono una delle motivazioni per la preminenza della governance, in quanto ritenuta più efficace allo scopo di rispondere alle minacce, rispetto al tradizionale government. Tuttavia, l’agitazione dello spauracchio della crisi e della necessità di una risposta efficace non è solo un leitmotiv comunicazionale dei fautori della governance, in quanto tale modalità riguarda anche il tradizionale liberalesimo. Infatti, Foucault ci insegna brillantemente che il pericolo e, quindi, l’emergenza sono alla base del concetto liberale di libertà nel suo connubio indissolubile con quello di sicurezza, fin dall’apparizione del regime liberale alla fine del ’700. In effetti appare un paradosso che il regime politico creato dalla borghesia capitalista abbia come soggetto rappresentativo un essere umano che ‒ al contrario del borghese piuttosto “timoroso” divulgato dall’immaginario comune che lo contrappone al cavaliere feudale ‒ sia portato, come cantava Vasco Rossi, a voler vivere pericolosamente o, almeno, a credere di vivere perennemente esposto al pericolo; si può infatti dire

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che il motto del liberalismo è: “Vivi pericolosamente”. «“Vivere pericolosamente” significa che gli individui sono posti continuamente in condizione di pericolo, o piuttosto sono indotti a provare la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro futuro, come gravidi di pericolo (Foucault 2005, 68).

Possiamo addirittura affermare qualcosa di più: la cultura politica del liberalismo è il pericolo. Una cultura che suscita, inventa, sollecita, diffonde la paura: Ed è proprio questa sorta di stimolo del pericolo, io credo, a rappresentare una delle implicazioni più importanti del liberalismo. […] Pericoli continuamente suscitati, riattualizzati, messi in circolazione da quella che potrebbe essere chiamata la cultura politica del pericolo, propria del XIX secolo […]. Insomma, ovunque si può constatare la sollecitazione del timore del pericolo, che è in qualche modo la condizione, il correlato psicologico e culturale interno del liberalismo. Non c’è liberalismo senza una cultura del pericolo (Foucault 2005, 68-69).

Si tratta in particolare di suscitare la paura in riferimento a pericoli della vita quotidiana, in questo differenziandosi dalle grandi minacce apocalittiche di epoche precedenti quali l’arrivo di uno o più dei quattro cavalieri (basti pensare alla peste, alla carestia, alla fine dei tempi, ecc.): tutta un’educazione del pericolo, una cultura del pericolo che è molto diversa dai grandi sogni o dalle grandi minacce dell’Apocalisse – la peste, la morte e la guerra ecc. –, di cui si era alimenta l’immaginazione politica e cosmologica del Medioevo, e ancora del XVII secolo. Spariscono i cavalieri dell’Apocalisse, e al loro posto appaiono, entrano in scena, irrompono i pericoli quotidiani (Foucault 2005, 68).

Questa sollecitazione ha preso, dopo l’affermazione dei regimi liberali, la forma tanto di campagne di comunicazione quanto di orientamento culturale dell’opinione pubblica; fra le prime la campagna sul pericolo dei danni futuri causati dall’imprevidenza delle classi popolari ‒ pericolo rimediabile attraverso la creazione delle casse di risparmio (la prima delle quali apparve in Francia nel 1818) ‒ o quelle sulla malattia e l’igiene, in ispecie sessuale: la cultura politica del pericolo, propria del XIX secolo, […] si manifesta in molti modi […] ad esempio, la campagna sulle casse di risparmio all’i-

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nizio del XIX secolo; o l’affermarsi della letteratura poliziesca e dell’interesse giornalistico per il crimine a partire dalla metà del XIX secolo; o ancora, le campagne relative alla malattia e all’igiene, o tutto quello che accade intorno alla sessualità e alla paura della degenerazione: degenerazione dell’individuo, della famiglia, della razza e della specie umana (Foucault 2005, 68-69).

Va notato che il regime di governo liberale, per governare gli uomini, ha bisogno non di una libertà già data – magari la massima possibile – da rispettare, ma di una libertà indotta, suscitata, prodotta, organizzata, fabbricata artificialmente, perché solo in questo modo essa può essere giocata come meccanismo di regolazione insieme al suo contrappasso, la sicurezza (che notoriamente – basta appunto vedere le conseguenze degli odierni pericoli largamente evocati – richiede maggiore controllo e minore libertà). Detto con una certa approssimazione, la libertà del comportamento nel regime liberale, nell’arte liberale di governare, è suscitata e richiesta perché se ne ha bisogno, serve come elemento di regolazione, a condizione tuttavia di averla prodotta e organizzata. Dunque, nel regime del liberalismo la libertà non è un dato, un ambito già costituito che si tratterebbe semplicemente di rispettare; se lo è, lo è solo parzialmente […]. La libertà è qualcosa che si fabbrica in ogni istante. Il liberalismo, pertanto, non è di per sé accettazione della libertà, ma è ciò che si propone di fabbricare la libertà in ogni istante, suscitarla e produrla, con ovviamente [tutto l’insieme] di costrizioni, di problemi di costo che questa fabbricazione comporta (Foucault 2005, 67).

La governance nasce, ovviamente, dalla premessa che il mercato è il luogo di veridizione del governo. Se il mercato è la verità, allora anche la produzione normativa privata, extra-statuale, negoziale fra privato e pubblico, che alimenta e forma la governance, non può che diventare complementare e persino sostitutiva del government liberale democratico-rappresentativo (parlamento, amministrazione pubblica, e così via). Come rileva Chignola (2008), l’indagine sulla governance deve partire dall’assunzione che il governo abbia il mercato come unico luogo di veridizione, il mercato come autentico principio di realtà della sua azione. Non deve perciò stupire che la governance sia tanto produttrice di una legislazione su base privatistica e mercatistica, quanto sia essa stessa originata e regolata dalla pras-

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si giuridica dell’economia. È infatti il trasferimento della legittimità in un ambito efficientista e prestazionale, per il quale la società di mercato è criterio di regolazione universale e l’istituzione generale è l’impresa in cui viene “transustanziato” l’individuo, che permette e spiega come la governance globale sia realizzata in termini di lex mercatoria, negoziazione permanente tra soggetti pubblici e privati, law shopping, outsourcing del legislativo (a comitati di esperti e autorità amministrative indipendenti). Una definizione di governance in cui appaiono chiaramente le sue caratteristiche distintive rispetto al governo (government), sebbene in essa non vi sia approfondito il punto fondamentale consistente nella sua derivazione – nei metodi e negli obiettivi – dal paradigma economico di mercato, è la seguente: Governance non è sinonimo di governo. Entrambi [i concetti] rinviano a una condotta finalizzata, ad attività orientate verso obiettivi, a sistemi di norme; ma il governo implica azioni che sono sorrette da un’autorità formale, da forze di polizia che assicurino l’implementazione di politiche correttamente determinate, mentre la governance rinvia ad attività sorrette da obiettivi condivisi che derivano o meno da responsabilità giuridiche e formalmente prescritte, senza appoggiarsi necessariamente a forze di polizia per superare l’infedeltà o per conseguire l’obbedienza. In tal senso, governance è un fenomeno più ampio del governo, che abbraccia istituzioni governative, ma che sussume inoltre meccanismi informali e non governativi (Rosenau 1992, 4).

La centralità del mercato va di pari passo con la formazione di gruppi che rappresentano collettivamente i propri interessi e che assumono la forma di corpi politici d’interesse. Questo, a sua volta, va di pari passo con una neo-corporativizzazione e ri-feudalizzazione dell’assetto politico. Lo scambio politico tra autorità ed individui è superato da un sistema tanto flessibile quanto opaco ed ambiguo di negoziazione diffusa tra corpi d’interesse, comunque orchestrata da strutture istituzionali non-statali (ad esempio le varie istanze della UE), le quali ottengono più o meno il consenso tra le parti e poi danno luogo a procedure esecutive, che raramente, però, hanno la caratteristica dell’una tantum, ma invece sono generalmente caratterizzate dall’applicazione continuata nel tempo di accessori disciplinari, quali metodi di sorveglianza, rapporti, pareri, inviti, raccomandazioni, sentenze, incentivi e pu-

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nizioni; fra questi metodi assumono una intenzionale rilevanza i processi di valutazione – e di auto-valutazione – continua il cui obiettivo, tuttavia, è sia quello di promuovere auto-legittimazione e auto-rappresentazione, sia, nel caso di strutture di governo – sovra-nazionali o statali – rivolte ad ambiti specifici (p.e. sanità, formazione, ricerca, ecc.), quello di un controllo di tipo panopticon per mantenere i soggetti partecipanti (sia in orizzontale che in verticale) sempre conformi. L’obiettivo primario della governance è quello di eliminare la sovranità politica11. La percezione del pericolo rappresentato dalla Rivoluzione francese è evidentemente ancora vivo nei pensatori neo-liberali. La governance neoliberale è tanto sintomo quanto causa della crisi della democrazia rappresentativa. Sicuramente va notato che la eliminazione dei soggetti collettivi e delle aggregazioni – quella di classe, in primis, coi suoi elementi identitari, di appartenenza e di omogeneità sociale – che era obiettivo primario del pensiero neo-ordoliberale, costituisce di per sé un azzoppamento del sistema politico democratico-rappresentativo teorizzato da Sieyès e uscito dalla Rivoluzione francese, appunto rappresentativo nel sistema capitalistico della divisone del lavoro e delle classi. Al posto del politico schmittiano come della politica democratica, la governance rivendica la centralità di un governo inteso solo in termini di policy-making e di efficienza nell’attuazione e implementazione delle policies. Il ruolo delle rappresentanze parlamentari è allora fortemente depotenziato. Al fine di rendere operativo ed efficace tale metodo di governo diviene necessaria l’istituzione di un numero crescente di authorities e di autorità amministrative in genere: autorità amministrative indipendenti, agenzie, istituti pubblico-privati e partnership – ad esempio, agenzie politiche, economiche, tecnico-scientifiche, governative e non, che vanno dalle organizzazioni economiche mondiali ai comitati di esperti, dalle istituzioni politiche interstatali alle as-

11 «Quando la governance prende il posto del governo [government], veicola con sé un ben specifico modello di vita pubblica e di politica […]. La vita pubblica è ridotta a problem solving ed esecuzione dei programmi, una distribuzione delle parti che mette tra parentesi o elimina politica, conflitto, e deliberazione su fini e valori comuni» (Brown 2015 127).

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sociazioni di utenti e agli organismi di certificazione alle ONG, dai governi nazionali alle istituzioni locali e così via – vengono a giocare un ruolo di rilievo e costituiscono uno dei dispositivi maggiormente utilizzati nel quadro più ampio di ciò che è comunemente indicato con governance. I conflitti prodotti dalla dinamica degli interessi della società civile sono sottoposti dalla governance a una quadruplice azione: 1) vengono delocalizzati; 2) vengono scomposti in piccoli problemi; 3) vengono de-politicizzati, attraverso una ulteriore scomposizione e slittamento di focus, con una loro ridefinizione su piani a-politici, come sono quelli economici, tecnici e scientifici; 4) vengono portati verso una soluzione a-politica attraverso pratiche negoziali e consensuali. Il processo politico decisionale non è più quello prescritto dalle normative costituzionali, in cui i privati hanno al massimo un ruolo di pressione informale al momento in cui gli organi democratici (parlamenti nazionali, regionali etc.) stanno elaborando la decisione, ma diventa un processo in cui i privati, in partnership più o meno dominanti con il pubblico, prendono le decisioni pubbliche: il processo decisionale non è più visto come un processo nel quale l’attività privata si svolge intorno al momento della decisione governativa, o che cerca di influenzarla. Piuttosto, è la stessa distinzione tra ciò che è governativo e ciò che è «non governativo» che è divenuta opaca, poiché oggi l’effettivo processo di decisione coinvolge e combina continuamente attori pubblici e privati (Shapiro 2001, 369).

Naturalmente il ruolo politico-decisionale preponderante assunto dalle autorità amministrative appare come «il sintomo più tangibile della crisi del vecchio ordine costituzionale, in quanto ledono il principio base della relazione tra i poteri, quello della divisione» (Calise 2000, 140). Relegato ai margini o escluso dal processo politico-decisionale, il cittadino diviene soggetto a procedure di “addomesticamento”: il cittadino moderno – quell’individuo portatore di diritti intorno al quale ruota l’architettura giuridico-politica ed a cui è demandata in ultima istanza la legittimazione dei processi di decisione politica – rimane sullo sfondo, quando non scompare del tutto, a favore di corpi collettivi, di corpi di interessi che co-operano a rete. Egli diviene l’oggetto di proce-

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dure di domestication (Eriksen 2001): processi di inclusione/esclusione, individuazione, regolazione e disciplinamento (Arienzo 2005, 456).

Con gli strumenti della governance, le tradizionali strategie del potere politico statale vengono superate spostando in una sfera a-politica (cioè sottratta al controllo delle istituzioni democratiche elettive come i parlamenti) pratiche e funzioni di governo, che sono invece riattribuite a presunti tecnici (funzionari pubblici, burocrati europei, giuristi ed economisti). La sovranità statale viene neutralizzata e spolicitizzata trasferendo dal politico al tecnico-amministrativo i processi decisionali: ecco la ragione profonda della diffusione della governance. Lo slittamento semantico dei termini da government a governance appare in tutto il suo significato nella definizione di governance proposta dall’Organization for Economic Cooperation and Development (OECD) in un rapporto del 2001, dove il termine government viene considerato superato e messo da parte da un nuovo modo di organizzare ed amministrare lo spazio e gli uomini, la governance: “Governo” (government) non è più una definizione appropriata del modo in cui le popolazioni e i territori sono organizzati e amministrati. In un mondo in cui la partecipazione dei rappresentanti degli interessi economici e della società civile sta diventano la norma, il termine governance definisce meglio il processo attraverso cui collettivamente risolviamo i nostri problemi e rispondiamo ai bisogni della società, mentre governo indica piuttosto lo strumento che usiamo (OECD 2001).

Il governo e il controllo si riorganizzano in una rete informale e diffusa di agenzie ed autorità diverse da quelle dello Stato al fine di “governare a distanza” in senso tanto costituzionale quanto spaziale. La diffusione della governance in molteplici ambiti interni ed internazionali, congiuntamente a una complessiva redistribuzione dei poteri su scala mondiale, pone un interrogativo fondamentale: la politica moderna così come noi la conosciamo dalla fine delle Rivoluzioni americana e francese basata su un’idea di sovranità democratica (cittadinanza, elezioni, divisione e bilanciamento dei poteri, stato di diritto ecc.) è in grado di resistere alle scelte della nuova governamentalità neo-ordoliberale che appaiono con essa costitutivamente incompatibili? La costruzione di un aggregato sovra-nazionale come l’Unione Europea con

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la sua teoria e pratica istituzionale costituisce un banco di prova anche teorico per formulare una almeno parziale risposta in gran parte negativa (come vedremo nel caso illustrativo discusso nel paragrafo 5.10).

5.4. La “corporate governance” come matrice generale Data la provenienza del criterio di verità dal mercato, a cui la politica, ormai intesa solo nel senso di gestione, deve riferirsi in ogni suo atto, non desterà stupore che il più recente tentativo di governo a vari livelli spaziali, cioè la governance, trovi nel mercato o meglio nella istituzione gerarchica e artificiale che lo abita, cioè l’impresa, il suo modello di riferimento. Infatti, possiamo dire che la governance dell’impresa (corporate governance) è il modello concettuale ed operativo di ogni applicazione di governance politica: «In buona parte, i nuclei concettuali e le relazioni tra gli attori proposti nelle diverse applicazioni politiche sono spesso mutuate dalle modellizzazioni della corporate governance» (Arienzo 2005, 460). La governance politica ha infatti una radice economica che ne condiziona tanto la matrice teorica, quanto la sua traslazione dal mondo dell’organizzazione delle corporazioni a quello della politica internazionale e dell’amministrazione […] essa è il prodotto del bagaglio concettuale, gestionale e organizzativo delle corporazioni economiche: in esso la governance si configura come un complesso di strumenti finalizzati a garantire la governabilità dell’impresa, ma anche il rispetto dei diritti degli azionisti (o più in generale degli stakeholders) (Arienzo 2007, 264-265).

E non è a caso, quindi, che proprio da organismi di governo economico transnazionali e già al di là di ogni legittimazione democratica, come la Banca Mondiale, sia giunto l’impulso e l’indicazione alla implementazione di tecniche di corporate governance per gli Stati che ricorrono alla Banca. In altre parole, possiamo dire che è da parte di chi si è già sganciato – auto-legittimandosi in varie forme – dal government democratico, attraverso nuove architetture istituzionali sovranazionali, che proviene l’azione politica pressante per l’attacco al regime formale liberale e all’ideale

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democratico; in particolare l’attacco proviene dalle istituzioni del capitalismo finanziario internazionale insofferenti di ogni demos e di ogni politica. Infatti la corporate governance entra nel discorso politico quando la Banca Mondiale agli inizi degli anni ’90 decide di stabilire e codificare alcuni standards politici ed economici minimi per l’accesso ai suoi prestiti. Questi standards sono prevalentemente procedurali e definiscono quelle “buone pratiche” che costituiscono la garanzia del buon utilizzo dei contributi elargiti dalla banca (Arienzo 2007, 265).

Appare allora utile ricostruire brevemente le caratteristiche di questa matrice della nuova governamentalità neo-liberale, cioè la governance dell’impresa. Fin dagli albori del capitalismo la fondazione di un’impresa avviene per l’iniziativa di un imprenditore, che riunisce in sé stesso le funzioni di: i) proprietario, che partecipa con un interesse economico e un’assunzione del rischio, ii) controllante che detiene il potere o controllo sull’impresa, e iii) gestore che agisce nell’interesse dell’impresa, prendendo decisioni e coordinando i fattori produttivi (management). Le moderne corporations, al contrario del vecchio modello dell’impresa in cui proprietà, controllo e management erano associati, sono possedute da stockholders che non sono coinvolti nella sue attività di controllo e gestione12. Di conseguenza le corporations vengono considerate sempre più come 1) soggetti legali autonomi, 2) capaci di perseguire obiettivi, 3) capaci di assumere decisioni.

12 Già a partire dal 1932 Berle e Means sottolineano la caratteristica della separazione tra proprietà e controllo nelle corporations: «Poiché la direzione dell’attività di una società è esercitata a mezzo del Consiglio d’amministrazione […] il controllo è nelle mani di quella persona singola o di quel gruppo che ha il potere di scegliere il Consiglio d’amministrazione (o la sua maggioranza) […]. Talvolta un certo controllo è attuato non per mezzo della scelta degli amministratori, ma con l’imporre ad essi una linea di condotta, come avviene quando una banca determina le scelte e il comportamento di una società fortemente indebitata verso di essa. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, avendo individuato coloro che hanno il potere di scegliere gli amministratori, si può dire di aver identificato coloro che praticamente hanno il controllo» (Berle e Means 1966, 69).

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In generale, l’impresa può essere definita come un agente collettivo che mira al raggiungimento di determinati obiettivi operando in un ambiente mutevole e conflittuale sotto la conduzione manageriale (management), che, a sua volta, può avere obiettivi molteplici. Quindi, poiché nel caso di imprese sufficientemente grandi la dirigenza non coincide con la proprietà, gli interessi degli azionisti (shareholders) possono non concordare con quelli dei dirigenti (managers). In particolare nelle imprese a proprietà diffusa la separazione tra proprietà (azionisti) e controllo (dirigenza) è la regola. Poiché l’azionariato è altamente frazionato, è difficile identificare il soggetto economico proprietario dell’impresa. In questo caso la governance ha come obiettivo primario quello di allineare l’interesse degli azionisti, che è quello di massimizzare il profitto, e quello della dirigenza, che è invece rivolto a massimizzare (anche) altri obiettivi. La dirigenza, peraltro, deve talvolta anche rendere conto a quell’ampio e difficilmente definibile insieme costituito dagli stakeholders, che quindi devono essere considerati negli obiettivi di management. In altre parole, la corporate governance deve armonizzare un insieme variegato di agenti ed interessi – il management, la proprietà, gli azionisti, gli stakeholders13 – per garantire la governabilità dell’impresa, soddisfacendo i diritti ed il profitto degli azionisti, ma anche assicurare nei rapporti all’interno e talvolta all’esterno dell’azienda, cioè nei rapporti con gli stakeholders, il soddisfacimento di taluni criteri (p.e. la trasparenza). La corporate governance – o la governance d’impresa – può essere definita come quell’insieme di regole (leggi, regolamenti, pratiche informali ecc.) per la gestione ai vari livelli di un’azienda, in cui sono considerate, in modi variabili nei vari casi, le relazioni tra i vari agenti coinvolti e i vari obiettivi. Quindi, la corporate governance è un sistema di governo dell’impresa basato sulle relazioni tra i soggetti partecipanti dell’impresa (proprietari, managers, ecc.) e i diversi portatori di interessi (stakeholders) e mirante a bilanciare

13 Sono ritenuti stakeholders di una impresa tutti i soggetti – individui od organizzazioni – il cui interesse è negativamente o positivamente influenzato dall’attività dell’impresa, e che, a loro volta, influenzano negativamente o positivamente tale attività.

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gli interessi dei vari gruppi tenendo fermo quello della proprietà. Infatti, indipendentemente dalle tipologie organizzative, esse rimangono accomunate dall’idea che, comunque intesa, la governance deve comunque tutelare, innanzitutto, la proprietà dell’azienda. Inoltre, in tutti i diversi modelli di governance – descrivibili appunto a partire dalla natura, composizione e stabilità della loro proprietà – rimane comunque sempre prioritaria la garanzia della governabilità, ovvero della decisione efficace in ultima istanza. Considerando quindi i modelli di governance, possiamo distinguerli proprio anche per il ruolo diverso attribuito a stakeholders e shareholders. Secondo il loro grado di coinvolgimento (diretto o indiretto, legale o legittimo) nella vita dell’impresa si possono distinguere: stakeholders interni: azionisti (detti anche shareholders), interessi finanziari, interessi industriali, dipendenti, management; stakeholders esterni: imprese fornitrici, clienti, imprese concorrenti, soggetti finanziatori, istituzioni, associazioni di tutela di interessi. Quindi l’impresa, aldilà del quadro giuridico generale che la vincola, deve comunque dotarsi di codici e procedure di autoregolamentazione che ne stabiliscano almeno le relazioni tra dirigenza e proprietà. Se l’impresa è una società per azioni, i proprietari coincidono con gli azionisti, i quali, direttamente o attraverso loro mandatari, sceglieranno i managers per gestire in loro vece l’azienda. Poiché allora la dirigenza è separata dalla proprietà, l’obiettivo della governance non potrà che essere quello di allineare gli obiettivi di dirigenti e proprietari. Un altro aspetto di rilievo che emerge nell’analisi della governance delle imprese è quello della differenziazione tra azionisti (shareholders) e portatori di interessi (stakeholders) e delle diverse possibili definizioni di questo secondo termine. Rispetto a quest’ultimo punto, ci sembra necessario osservare che: 1) In primo luogo, secondo una concezione ristretta della governance d’impresa, sono esclusivamente da tutelare – per esempio attraverso processi di responsabilizzazione e di monitoraggio – gli interessi degli azionisti. 2) secondo una definizione più allargata della natura e composizione dell’impresa, invece, sono da considerare portatori di interessi non solo gli azionisti, ma anche tutti coloro i quali abbiano un interesse diretto e giuridicamente definito nell’impresa.

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3) infine due definizioni più ampie della figura di stakeholder comprendono: i) anche tutti coloro che abbiano un qualsiasi interesse legittimo, e non necessariamente legale, nelle attività dell’impresa, come per esempio associazioni di consumatori, attivisti ambientali, istituzioni locali, comitati di quartiere e chiunque altro possa esservi coinvolto; ii) anche tutti coloro che, interni o esterni all’impresa, sono in qualche modo corresponsabili (per esempio per il loro impegno creativo o lo sforzo cooperativo o la fedeltà) della prosperità, anche nel lungo periodo, dell’impresa, come per esempio finanziatori, dirigenti, collaboratori, impiegati e anche clienti consumatori, fornitori, dettaglianti. Quindi, per l’impresa, tutti i portatori di interesse – nelle varie accezioni di cui sopra – sono da coinvolgere – con modalità variabili e non codificate – nei processi di governance. Questo significa anche che la partecipazione ai processi di governance non riguarda solo i titolari di azioni e può persino riguardare attori che non abbiano ruoli giuridicamente definiti nell’azienda, ma appartenenti, in varie possibili tipologie, alla società civile. La tipologia di governance è preliminarmente decisa a priori attraverso la decisione su quali debbano essere gli agenti da coinvolgere e quindi gli interessi da rappresentare. La governance descrive i meccanismi di controllo e di decisione che sottendono all’organizzazione dell’impresa. Sebbene le tipologie di governance possono essere variabili a piacere, è comunque stato tentato – e ancora una volta da organismi sovra-nazionali economicamente orientati – di stabilire quali siano i principi di una «buona governance»; la determinazioni di tali principi è sta perseguita non secondo un approccio positivo al tema, ossia descrivendo le varie pratiche empiricamente riscontrabili nelle aziende, ma secondo un approccio normativo che prescriva quali siano i criteri (o standard) che devono caratterizzarne l’operato e l’organizzazione. Infatti, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (Ocse) nel 1999 ha redatto un documento (Principles of Corporate Governance) in cui sono prescritti standard minimi di qualità e di responsabilità nella gestione delle imprese. Lo scopo era quello di

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assicurare che le imprese utilizzino i loro capitali efficientemente […] assicurare che le imprese prendano in considerazione sia gli interessi di un ampio spettro di soggetti coinvolti [constituencies] sia delle comunità nelle quali operano, e che la dirigenza sia responsabilizzata verso l’impresa e gli azionisti […] assicurare che le imprese operino a beneficio della società nel suo complesso (Ocse 1999, 7).

Secondo l’Ocse, quindi, per accrescere la fiducia nell’impresa da parte dei capitalisti investitori a lungo termine, è necessario offrire un assetto efficiente, controllabile, stabile, trasparente e con responsabilità chiare, e questo richiede che l’assetto gestionale garantisca, da un lato, il capitalismo finanziario attraverso l’efficienza degli investimenti ed il controllo nell’operato da parte degli shareholders, e, dall’altro lato, un quadro generale, cioè economico, politico e sociale, favorevole (ossia il rispetto da parte dell’impresa degli interessi più complessivi di lungo periodo della società). L’Ocse, naturalmente, propone e non impone i suoi principi e standards; tuttavia la proposta viene caldeggiata in modo sostanzioso: «sebbene i Principi non siano vincolanti, però alla fine sia per le nazioni che per le imprese sarà nel proprio interesse sottoporre a valutazione i propri sistemi di governance d’impresa e prendere a cuore i Principi qui esposti» (OECD 1999, 8). Ecco quindi individuata, sebbene solo in modo sintetico, la genealogia della odierna governance politica. Tuttavia, la trasposizione della governance d’impresa in quella politica mette in evidenza alcuni punti critici: 1. La scelta degli attori coinvolti o coinvolgibili nel processo di policy-making, ovvero la determinazione dei criteri di inclusione/esclusione degli stakeholders, è il punto di partenza di ogni modello di governance: il che fa sorgere la criticità rispetto a chi siano i soggetti deputati a definire i criteri di scelta dei partecipanti alle procedure di governance. 2. La prassi della governance riguarda corpi collettivi portatori di interessi (shareholders, stakeholders) mentre esclude colui che è il cuore della democrazia e dello stato di diritto, ovvero il cittadino portatore non di interessi economici ma di diritti/doveri. 3. La negoziazione continua, che è alla base della governance nella forma di relazioni orizzontali informali caratterizzate da interdipendenze e rapporti fiduciari (considerata il fattore di suc-

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cesso che sarebbe impedito dai rapporti gerarchici e formalizzati del tradizionale government), quando è condotta da agenti dotati di risorse e capacità diverse conduce a posizioni altamente diseguali e discriminanti. 4. Sebbene, in apparenza, le decisioni dovrebbero essere sempre il risultato di queste forme procedurali di negoziazione orizzontale e informale, in realtà rimane impregiudicata la preminenza dell’esecutivo, che decide in caso di disaccordo o di una conflittualità tra le parti, dato l’obiettivo primario di una onnipresente governabilità (ovvero deve essere escluso ogni possibile vuoto di decisione). Tuttavia, notiamo che la prescrizione normativa dell’Ocse è un tentativo abbastanza recente di codificare la governance d’impresa in vista della sua applicabilità all’ambito politico pubblico. Infatti, un primo passaggio dalla corporate governance alla categoria politica di governance aveva già avuto luogo nel dibattito sulla gestione di aziende pubbliche locali già negli anni ’60. Infatti, la governance dell’impresa corporate inizia a diventare fonte d’ispirazione per il governo politico già a partire dall’amministrazione di aziende pubbliche locali fornitrici di servizi. Infatti, a partire dagli anni sessanta del ’900, negli Stati Uniti d’America emerge una tendenza politica e teorica a favore di un’organizzazione decentrata dei servizi ai cittadini, che spinge su processi di privatizzazione e di riduzione dell’intervento statale diretto e che propone – in alternativa alla tradizionale gestione centralizzata e verticale propria dell’amministrazione pubblica – un approccio alla gestione dei servizi pubblici basato su una governance in cui concorrano attori pubblici, privati e misti, definito anche come new public management (NPM). La teoria del NPM è un tipico esempio di prodotto della teoria della governance. Diffusasi negli anni ‘80 come una dottrina di riforma amministrativa messa in agenda in molti paesi OECD mirante a introdurre nello Stato e nei servizi pubblici i metodi di gestione del settore privato come l’incentivazione, l’imprenditorialità, l’outsourcing e la concorrenza, questa dottrina, secondo Hood (1991), che ha coniato il termine NPM, coniuga le teorie classiche dell’organizzazione (la tradizione del movimento internazionale del scientific management, Merkle 1980) con quelle economiche della cosiddetta New Insitutional

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Economics, vale a dire della public choice, dell’economia dei costi di transazione e della teoria principale-agente nate dai primi lavori di Arrow (1963) e dalla storica teoria della burocrazia di Niskanen (1971). Come rileva Ostrom (1974), la New Insitutional Economics si focalizza sulla introduzione di nuove idee neoliberali nella gestione della pubblica amministrazione-contendibilità, scelta dell’utente-consumatore, trasparenza, sistema di incentivi e punizioni spiazzando la tradizionale visione militare-burocratica della “buona amministrazione pubblica”, basata su gerarchie ordinate e l’assenza di duplicazioni o sovrapposizioni14. Sempre mutuando dalle modalità di governance dell’impresa privata, la gestione del settore pubblico secondo la NPM deve riorganizzarsi orientandosi al risultato e introdurre – superando il centralismo dirigista delle istituzioni pubbliche, ovvero l’espressione della sovranità politica – i meccanismi di regolazione e autoregolazione del mercato e i processi di concorrenza e competizione tra attori. L’approccio giuridico-organizzativo di tipo privatistico, implicato nella introduzione della governance nella gestione pubblica, va di pari passo con l’approccio teorico-economico relativo al mondo dell’amministrazione e della gestione dei servizi pubblici elaborato negli anni ’60 e ’70 (principalmente ad opera di Buchanan) e noto come “teoria della scelta pubblica”, o public choice, che impiega gli strumenti della economia neoclassica rispetto al comportamento degli agenti che operano nella scena politica, cioè assunti come razionali ovvero massimizzatori dell’utilità individuale. Volendo ricostruire più in specifico come il lessico e il contenuto della governance appaia nei nuovi modelli gestionali delle amministrazioni locali o delle municipalità cittadine ‒ modelli già interamente situati all’interno di una cornice teorica di scelte razionali da parte di un homo oeconomicus ‒ dobbiamo ricordare per primo la teoria proposta da Tiebout nel 1956,

14 Anche in Italia, la NPM è stata introdotta a partire dalla privatizzazione del pubblico impiego e le riforme Cassese e Bassanini con, per esempio, gli strumenti di orientamento ai risultati e di valutazione delle performances, con significativi cambi lessicali che hanno trasformato i cittadini utenti in «clienti», consumatori sovrani – si fa per dire – di scegliere fra fornitori diversi in concorrenza fra loro, e con la devoluzione.

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il quale – per screditare la scelta politica della produzione di livelli ottimali di beni pubblici e dimostrare che i governi pubblici locali non possano essere fornitori efficienti di tali beni – ipotizza una pluralità di offerte di beni e servizi pubblici da giurisdizioni in concorrenza fra loro, di fronte alla quale i cittadini individualmente, in base alle proprie preferenze e redditi, scelgono in quale comunità risiedere, e, ciò facendo, determinano di fatto i governi locali15: gli individui esprimono così le loro preferenze e scelgono così i governi spostandosi (voting with their feet, «votando con i loro piedi»). Un altro contributo pionieristico, ma tuttora importante, sulla governance (Ostrom et al. 1961) propone un modello di gestione dell’offerta di servizi locali in cui al centro, secondo l’approccio della public choice, sono il mercato e la società civile in un contesto concorrenziale, policentrico e pluralistico. L’obiettivo era la radicale ridefinizione della gestione delle risorse pubbliche, sottraendola così ai ben sottolineati rischi di inefficienza nella fornitura di servizi pubblici che si hanno quando a decidere sia un decisore politico, attraverso l’affidamento delle scelte pubbliche alle proprietà taumaturgiche sia del mercato concorrenziale che della libertà contrattuale di tutti gli individui razionali. Viene proposto un modello di governance basato su un sistema locale di poteri policentrici, costituiti da una molteplicità di agenti come istituzioni pubbliche, partnership pubblico/privato, soggetti privati, soggetti appartenenti al terzo settore, agenzie con funzioni specifiche, ecc., da cui emerge la scelta razionale del cittadino verso i servizi ritenuti più efficienti. “Policentrico” connota una molteplicità di centri di potere decisionale che siano formalmente indipendenti fra loro. […] Nella misura in cui essi entrano in contatto reciproco in un contesto competitivo, si impegnano in vari accordi negoziali e cooperativi oppure ricorrono a un arbitrato centralizzato per risolvere i casi di conflitto, le varie giurisdizioni politiche in un area metropolitana possono agire in modo coerente con modelli di comportamento interattivo consistenti e prevedibili (Ostrom et al. 1961, 831).

15 In equilibrio, nessun individuo è invogliato a cambiare residenza e il mercato è in condizioni di efficienza.

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Il riferimento alla molteplicità di poteri (che possono essere pubblici, privati o misti) – quindi non è più il potere pubblico che decide –, al contesto competitivo, alla rete di accordi più o meno consensuali e alla risoluzione dei conflitti di tipo giuridico-privatistico – cioè non politico –, offre un quadro istituzionale locale perfettamente coerente con le odierne definizioni di governance e di cui è sottolineato chiaramente dagli autori il risultato dell’ottenimento di un equilibrio efficiente in termini di consistenza e prevedibilità in un mercato “a rete”. Quanto all’autorità pubblica, essa non deve intervenire direttamente nella gestione dei servizi ma al massimo limitarsi a fissare standards, controllare gli attori ed esercitare un potere di coordinamento ed intervento residuale. Quindi concorrenza, policentrismo, diritto privato, assenza di potere politico sovrano. Ecco una ricetta di governance che mira ad evitare quelli che sono ritenuti gli inconvenienti di una decisione politica da parte del soggetto pubblico monopolistica in tema di offerta dei servizi. Infine, la privatizzazione del settore pubblico – non solo in termini di proprietà ma anche di pratiche gestionali – caldeggiata dalla new public economics può essere descritta anche in una chiave più sociologica e critica (e anche piuttosto sarcastica): Uno dei cambiamenti introdotti dalla cosiddetta “nuova gestione del settore pubblico” all’interno del contesto dell’egemonia neoliberale negli anni Ottanta è stato la ridefinizione del confine tra governo e interessi privati come semipermeabile: ciò vuol dire che gli affari possono interferire con il governo a loro piacimento, ma non viceversa. Coloro che contestano questo modello sono criticati come forzatamente “anti-economici”. Questa è un’esagerazione assolutamente unilaterale degli insegnamenti politici dell’economia classica, e rappresenta un adattamento senza scrupoli alle realtà del potere lobbistico negli affari. La razionalizzazione intellettuale di cui fa uso è la teoria neoliberista dell’intrinseca saggezza delle aziende e dell’intrinseca idiozia dei governi (Crouch 2003, 76).

Inoltre, un fenomeno connesso alla diffusione della governance economica e politica riguarda l’ampliamento dello spauracchio dell’emergenza al mercato del lavoro, già investito dalla trasformazione del lavoratore in capitale umano, responsabile di sé (la qualcosa significa che se è disoccupato si tratterebbe sempre di

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disoccupazione volontaria o di cattiva gestione del proprio capitale umano, mai di disoccupazione dovuta al normale andamento dell’economia capitalista, come avrebbe detto Keynes); questo ha condotto al fenomeno della precarizzazione: La ragione dell’affermarsi di questa accezione ampia del termine precariato è connesso all’ampliarsi di un mercato del lavoro altamente frammentato, flessibile, competitivo in un quadro di incertezza e crisi globale, che accentuano il passaggio da una condizione di precarietà (precariety) ad una più generale condizione di precarizzazione (precariousness) (Arienzo e Borrelli 2011, 155).

5.5. La governance neo-liberale e la creazione di un nuovo soggetto economico La governance è dunque un modello politico determinato, in cui una nuova governamentalità giustificata dalla razionalità del mercato ridefinisce i rapporti tra politica, diritto ed economia, all’insegna di un ritiro del pubblico e di una sua sostituzione col privato, insieme con una tendenziale eclisse della distinzione – giuridica, politica ed etica – tra pubblico e privato. La teoria antropologica appare, a prima vista, condivisa fra il liberalismo e il neo-liberalismo: l’uomo sarebbe per entrambi l’homo oeconomicus. Tuttavia la condivisione è solo un’apparenza. Infatti, se ci domandiamo dove stia la differenza nel background antropologico fra il liberalismo e il neo-liberalismo, scopriamo che essa sta nel fatto che il primo presuppone l’esistenza di un individuo astratto che possiede come sua natura quel fondamento economico di cui il potere politico deve rispettare le libere scelte, mentre il secondo è convinto che tale individuo non esista in astratto ma debba essere praticamente prodotto – e in ogni momento adattato e riconfermato – dal potere politico (qui ovviamente declinato in potere gestionale, amministrativo, governamentale). Secondo Arienzo e Borrelli (2011), un elemento-chiave del processo di soggettivazione operato dalla governance neo-liberale è rappresentato non solo dalla trasformazione dell’individuo-cittadino in un individuo-impresa e dalla tesi à la Becker sul consumo come produzione individuale – fenomeni già acutamente

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individuati da Foucault – ma anche dalla “precarizzazione” in generale – cioè lavorativa, ma non solo – dell’individuo, fenomeno che ha accompagnato le nuove pratiche di intervento sul sociale e sul lavoro, pratiche risultate vittoriose nei loro scopi di eliminazione della coscienza di classe e della rappresentanza tramite sindacati e partiti. Un diverso, utile, seppure parziale punto di indagine è quel complesso di temi e fenomeni differenti che chiamiamo precariato […] che accompagna, e non a caso, quella progressiva indistinzione tra pubblico/ privato che investe l’amministrazione, le procedure del governo e i piani della regolazione del lavoro e dello stato sociale. Trasformazioni in marcia ormai da decenni, che hanno scavato nel profondo delle società occidentali scomponendo, tanto da renderle quasi residuali, le forme di aggregazione politica di classe, e le modalità di relazione tra soggettivazione e rappresentazione politica centrate sul partito e sul sindacato di massa (Arienzo e Borrelli 2011, 152).

Inoltre, la precarizzazione svolge un ulteriore ruolo nel complesso processo di separazione fra democrazia politica e nuove forme di governance, che non consiste tanto nell’indebolimento della partecipazione dei cittadini “precarizzati” alle procedure formali del sistema politico democratico, quanto al fatto che la nuova soggettivazione ha introdotto un fattore esistenziale intrinsecamente anti-partecipativo: Nella relazione tra precarietà e democrazia, il punto di frizione non è costituito [… dal] “deficit democratico”: quei percorsi di svuotamento della partecipazione o di indebolimento della legittimazione ex ante del sistema politico. Il punto di rottura sembra piuttosto legato al fatto che […] queste singolarità non sembrano in alcun modo riconoscere […] quel mondo di mediazioni sociali e politiche come proprie e come significative (Arienzo e Borrelli 2011, 153).

La governance rivisita l’ideale di democrazia riconoscendo, se non addirittura creando appositamente, un ruolo per i corpi rappresentativi di comuni interessi privati o misti, e contemporaneamente rimuovendo i confini fra le sfere pubbliche e private, trasformando la forma legislativa da regolamentazione a regolazione, e, in via ultima, delegittimando e depauperando il potere dello Stato; la legittimità del potere passa dal fatto di essere

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costituito dalla rappresentanza politica democratica a quello di essere funzionale, efficace, risolutivo, consensuale fra gli agenti interessati coinvolti: Nel percorso di messa in discussione delle procedure del governo democratico-rappresentativo […] si è quindi aperta la strada ad un processo di revisione della natura della legittimità politica democratica, non più intesa come cessione di potere e autorità politica dagli individui al sovrano, ma come capacità funzionale, esecutiva di prendere decisioni, di implementarle con efficacia, di far sì che le scelte effettuate siano adeguate al problema. In altri termini, su una legittimità funzionale e di risultato fondata sul consenso delle parti (Arienzo e Borrelli 2011, 111-112).

Appare evidente che l’uso delle politiche di governance in ambito politico trae dalla governance dell’impresa le forme per poter riuscire a realizzare un obiettivo di dissoluzione delle importanti disposizioni formali attorno alle quali si è organizzata la politica democratico-liberale16. Esattamente come la governance delle grandi aziende ha come obiettivo quello di armonizzare gli interessi delle parti costituenti l’azienda medesima, così la governance politica integrerebbe nel processo decisionale le parti componenti la società civile, tanto da rappresentare un esempio di “società civile di mercato”17. Tuttavia vi sono elementi-base della governance dell’impresa che, quando trasposti sul piano della governance come sistema politico, ci forniscono una chiave di lettura della sostanziale anti-democraticità di tale sistema, nel senso di una preminenza di un forte esecutivo espresso opacamente da élites politico-economiche, che va aldilà persino delle interpretazioni neo-corporative – che richiederebbero comunque una consen-

16 «Da un lato vengono resi più incerti e nebulosi i confini della politica pubblica, resi permeabili a processi e attori differenziati, dall’altro lato diventano sempre meno riconoscibili i contenuti di una politica che abbandona il piano del confronto tra gruppi politici organizzati e si trasforma in amministrazione e co-gestione» (Arienzo e Borrelli 2011, 121). 17 Infatti, è stato osservato che la governance politica include ed esclude attori e gruppi sociali «sulla base di scelte funzionali prese in una rete informale che, quando trasposta sul piano politico, esprime una sorta di “società civile di mercato» (Arienzo e Borrelli 2011, 121).

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sualità da parte dei corpi – dei nuovi assetti politici di governance. L’elemento cruciale che spiega tale chiave di lettura è il fatto che la governance aziendale ha come iniziale base costitutiva l’analisi per stabilire quali agenti sia necessario coinvolgere, i loro obiettivi specifici, il loro peso, quindi soprattutto la scelta di “chi e cosa” includere oppure escludere nel sistema decisionale. Sebbene questa scelta preliminare della scelta degli interessi “legittimi” sia sempre mutevole e sostanzialmente informale, di fatto però lo stabilire il confine tra inclusione ed esclusione implica anche una sorta di pre-confezione dei risultati decisionali, in barba alla definizione della governance come un processo di continua negoziazione fra multipli soggetti equiproporzionali; le procedure di governance in tal modo finiscono per limitarsi a governare l’attuazione di politiche già pre-decise dall’esecutivo che gestisce la costituzione della governance medesima: I meccanismi differenziati di inclusione funzionale degli interessi che la compongono fanno sì che la soluzione “equa” e negoziata sia in buona parte già data in partenza, e quella consensualità e quella cooperazione che ne dovrebbero caratterizzare le procedure costituiscono, in realtà, gli strumenti di attuazione piuttosto che di deliberazione delle politiche (Arienzo e Borrelli 2011, 121).

In tal modo, essa si propone come il metodo di governo più adatto per una politica di crescita e di sviluppo economico e sociale che non sarà più semplicemente vincolata al problema dell’investimento materiale del capitale fisico, da un lato, e dal numero dei lavoratori [dall’altro], ma […] sarà incentrata su una delle cose che l’Occidente può modificare più facilmente, e che consisterà nel mutamento del livello e della forma dell’investimento in capitale umano. È in questa direzione, infatti, che vedremo orientarsi le politiche economiche, ma anche quelle sociali e culturali, come anche le politiche educative di tutti i paesi sviluppati (Foucault 2005, 192-193).

Governance e capitale umano sono il binomio che caratterizza l’accumulazione capitalista all’inizio del XXI secolo. Come Fumagalli (2007) afferma, si assiste sia al «diffondersi delle forme di controllo sociale per favorire la valorizzazione economica della

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vita stessa», che al «potere totalizzante e pervasivo dell’accumulazione capitalistica sulla vita degli esseri umani». In altri termini, la produzione economica – e la corrispondente formazione del profitto – non richiede più soltanto le forze fisiche dei produttori, le loro facoltà e attività intellettuali, la scienza e la tecnologia applicate e incorporate nelle forme funzionali di produzione – insomma gli input produttivi ben noti alla tradizionale “economia industriale” – ma anche le componenti biologiche, cognitive, affettive e relazionali degli individui a livello dello spazio globalizzato. Quindi, in questa nuova accezione, l’organizzazione generale della produzione economica – in questa nuova fase da taluni (p.e. Fumagalli) definita come «capitalismo cognitivo» – considera come ulteriori input il sapere, la cultura, il linguaggio, l’intrattenimento, lo shopping, le emozioni, le passioni e la versatilità delle relazioni umane, che sono attivati in senso economico dal dispositivo di governamentalità neo-liberale, e divengono quindi un nuovo fattore di creazione di profitto (potremmo dire un nuovo metodo di estrazione di plus-valore). Inoltre, appare importante chiarire la direzione del nesso causale che collega i fenomeni odierni della globalizzazione economica e finanziaria con la precarizzazione generale dell’individuo. In questo senso possiamo opporre i punti di vista di due scholars come il sociologo Beck (2000) e Foucault. Mentre il primo propone la classica lettura della precarizzazione fatta da un onesto liberal, ossia la precarizzazione vista come uno dei problemi che necessariamente la globalizzazione porterebbe con sé, il secondo ancora una volta indossa i panni dello smascheratore del liberalismo. Infatti, per il primo, la direzione causale va dalla globalizzazione alla precarizzazione, che appare quindi come effetto collaterale della prima, mentre per il secondo la precarizzazione (come peraltro anche la globalizzazione) è il risultato intenzionale delle politiche neoliberali finalizzate a trasformare radicalmente le forme di governo degli uomini ai fini del sostegno del capitalismo. In questo senso, la precarizzazione appare come il portato di nuove forme di accumulazione di risorse e ricchezze di tipo intellettuale e relazionale. Quindi riappare qui ancora quella chiave di volta ermeneutica sempre utile per leggere e smascherare ogni forma di governamentalità dell’età moderna caratterizzata dal capita-

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lismo; si tratta, come già sostenuto da Marx, di vedere in ogni forma di governo quel tipo di modalità operativa ritenuto più efficace per sostenere il profitto ovvero per sopperire alla caduta tendenziale del saggio di profitto18. Questa idea interpretativa degli obiettivi governamentali del neo-liberalismo è già peraltro presente in Foucault ‒ sebbene sia stata successivamente poco valorizzata dal successivo enorme lavoro esegetico ‒ e la si può leggere esplicitamente laddove, in riferimento alla produzione di capitale umano – salute, igiene, istruzione, migrazione – e alla innovazione di tipo schumpeteriano, egli afferma che i neo-liberali riprendono «esattamente questo problema dell’innovazione e dunque, in ultima analisi, della caduta tendenziale del saggio del profitto» (Foucault 2005, 192). Per i neo-liberali i processi di soggettivazione, grazie ai quali l’individuo si trasforma in una impresa e il salario dell’operaio in interessi generati dal capitale umano, hanno, nella nostra interpretazione, una ben precisa motivazione, radicata nell’analisi marxiana del meccanismo endogeno dell’accumulazione capita18 In breve ricordiamo che per Marx il saggio di profitto varia i) direttamente con il saggio di plusvalore (il saggio del plusvalore è il rapporto tra il plusvalore, ottenuto dal fatto che vi sono ore lavorative non retribuite al loro vero valore, e il capitale variabile, ovvero il costo effettivo dei salari degli operai basato sul lavoro necessario), e ii) inversamente con la “composizione organica del capitale” (che è data dal rapporto tra capitale costante e capitale variabile, dove il capitale costante viene generalmente inteso come il valore del capitale che è incorporato nel valore dei prodotti finiti utilizzati nel processo produttivo, e il capitale variabile, invece, è il valore del capitale utilizzato per la remunerazione della forza-lavoro; tale rapporto misura quindi il valore dei macchinari utilizzati rispetto al numero di operai che sono occupati nel processo produttivo, ad un dato tasso di salario). Allora nella misura in cui vi è, per esempio a causa dell’effetto congiunto dell’innovazione tecnologica e della pressione concorrenziale, un aumento progressivo degli investimenti in macchinari e sulle materie prime lavorate a scapito degli investimenti in salari, la composizione organica del capitale tende ad aumentare, e quindi il saggio di profitto tende a scendere. Marx considera la caduta tendenziale del saggio di profitto mantenendo l’ipotesi che il saggio di plusvalore sia costante, ma ovviamente è conscio della presenza di numerose forze che premono per un suo aumento; fra queste, le più ovvie e tradizionali sono la riduzione del salario o degli oneri sociali; l’intensificazione dello “sfruttamento” (p.e. utilizzo del lavoro nero); la maggiore intensità dei ritmi di lavoro; l’allungamento della giornata lavorativa; la massima flessibilità della manodopera; la crescita della disoccupazione per contenere i salari, ecc..

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listica: quella di “inventare”, rispetto ai due fattori ‒ plus-lavoro e composizione organica del capitale ‒ che influenzano il saggio di profitto, 1) una nuova forma di estrazione di plus-lavoro e 2) una nuova forma di capitale variabile, che possa contrastare la tendenza – ineluttabile secondo Marx – alla saturazione del capitale costante nella composizione organica del capitale. La prima “invenzione” consiste nel trasformare il tempo di vita, il tempo libero, il tempo relazionale, il tempo dello shopping, il tempo del divertimento (per esempio usando il cellulare) in tempo di lavoro. La seconda “invenzione” consiste nel trasformare la vita, il bios, un dato biologico e culturale, in capitale variabile, il “capitale umano”. Entrambe le “invenzioni”, a ragione degli ovvi effetti, hanno, secondo noi, il ruolo di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto.

5.6. La “buona" governance Ancora una volta, i pensatori neo-liberali si sono posti come problema centrale quello di ottemperare ad almeno quattro finalità: trovare le modalità per neutralizzare e superare la sovranità del politico, salvaguardare la società capitalista dal potenziale pericolo della democrazia, far apparire quest’ultima come autoritaria e inefficiente e suggerire nuove modalità di governo apparentemente più inclusive, partecipative, consensuali, efficienti. Per fare questo, anziché intervenire sulla relazione fra Stato e cittadino, fra potere decisionale e sovranità popolare, mantenendosi nei cardini del sistema politico democratico-liberale, appare più semplice, invece, nominare una governance priva di centro e orizzontale, entro la quale sciogliere i problemi posti dal «chi» governa «cosa» e «come». Quando si ricorre al lemma governance, nel dibattito pubblico, sembra quasi che si voglia che le cose si governino da sé, magari per favorire un processo di ritirata e di restringimento dello Stato e dell’autorità pubblica (Arienzo 2013, 10).

Qual è la conseguenza sul quadro politico-giuridico dell’assunzione filosofica dei pensatori neo-liberali che il mercato è il “luogo della verità”? Evidentemente, se tutto quanto riguarda i

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principi dell’economia di mercato capitalista è la verità e gode anche degli attributi divini di essere sommamente buono e giusto, allora la verità e la giustizia del mercato devono trovare un riconoscimento formale sui piani del diritto, della rappresentanza politica e di quella istituzionale. La governance sembra fornire una tale riconoscimento alla verità del mercato. La nuova governance dell’economia svolge un ruolo prima de-costruttivo, quindi ricostruttivo, per affermare un certo modello di società, un nuovo naturalismo di «mercato», un’innovativa antropologia economica: «l’economia è il metodo; l’obiettivo è cambiare il cuore e l’animo», come ebbe a dire nel 1981 l’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher (Arienzo 2013, 18).

La governance costituisce l’insieme di pratiche giuridiche, regolative, relazionali che sostanziano quella «dittatura commissaria di mercato»19 che è l’assetto istituzionale della Unione Europea. Questa definizione di origine schmittiana ha peraltro già trovato applicazione per interpretare la UE in Balibar (2011): l’assetto istituzionale europeo è stato ridefinito secondo stati d’eccezione che impongono una gestione dall’alto (basti pensare come recente esempio alla imposizione dei governi nazionali ‒ vedi Grecia ‒ dalla dittatura della cosiddetta troika). Ricordiamo che la definizione della governance è quantomai sfuggente e le sue accezioni estremamente ampie. Infatti

19 Come noto, Schmitt (1975) distingue i concetti di dittatura commissaria e dittatura sovrana. Il primo riprende dal concetto rousseauiano di dittatura che a sua volta ricalca lo stereotipo classico della dittatura romana: è un istituto previsto per lo stato d’eccezione, ricordato da Schmitt come lo Ausnahmezustand, che ricopre la dictatura rei gerendae e/o seditionis sedandae. «Se […] il pericolo è tale che l’apparato delle leggi ostacoli la difesa contro di esso, allora si nomina un capo supremo che faccia tacere tutte le leggi e sospenda momentaneamente l’autorità sovrana» (Rousseau 2010, 185). Mentre la dittatura commissaria sospende le leggi nella Ausnahmezustand, in base a un diritto previsto dall’ordinamento costituzionale vigente, la dittatura sovrana è una dittatura rivoluzionaria in quanto non si giustifica sulla base della costituzione vigente bensì alla luce di un nuovo ordine ancora da costituire. Il modello paradigmatico di dittatura sovrana si è realizzato secondo Schmitt in Francia, quando il 10 ottobre 1793 la Convenzione nazionale decise di sospendere la costituzione da poco approvata (24 giugno 1793).

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In italiano il lemma governance non esiste, non è traducibile con un unico termine. In lingue come l’inglese e il francese è presente, invece, una differenziazione di termini che restituisce la differenza semantica tra governance e government, tra gouvernance e gouvernement, e che rende più semplice comprendere perché sia possibile opporre la prima al secondo […] questo lemma non può essere tradotto con l’espressione «sistema di governo», che qualche documento europeo ha adottato (Arienzo 2013, 11-12).

La matrice di quella che la Banca mondiale chiama buona governance – un insieme di pratiche e principi di “buon governo” che qualsiasi comunità statale che voglia accedere al credito internazionale deve sottoscrivere e introdurre – è la governance delle imprese. La buona governance diventa una presenza pervasiva in tutte le modalità con cui si esprimono gli organismi sovra-nazionali (p.e., Onu, Fmi, UE). Più in generale, possiamo affermare che il discorso politico e istituzionale mutua, con gli opportuni adattamenti, le tematiche e i modelli organizzativi della corporate governance. La conseguenza politica della mutuazione è che i processi economici e sociali saranno allora guidati, indirizzati, regolati in modo amministrativo o persino attraverso deleghe a strutture private, esautorando così la politica democratica liberale. Quale relazione effettuale ha il concetto della buona governance, incorporato nelle teorie e nelle prassi riguardanti il governo in modo ormai pervasivo, con la concezione democratica liberale del medesimo, tipica dei paesi europei? A questo scopo, è sufficiente identificare i cardini di quest’ultima concezione ed effettuare un confronto con le modificazione presupposte dalla governance: la governance si inserisce in questo percorso di ridefinizione delle coordinate concettuali e istituzionali del mondo. I presupposti giuridici e istituzionali che erano alla base della democrazia rappresentativa europea possono rapidamente essere identificati in tre tratti essenziali: il primato della legislazione, la netta distinzione tra diritto pubblico e diritto privato e la divisione tra le varie forme di potere (Ferrarese 2010, 62-63).

Non è allora difficile osservare che i pilastri della democrazia rappresentativa europea sono minati alla base dai principi teorici e soprattutto dalle pratiche della buona governance, poiché i) la legislazione e la regolamentazione statale sono sostituite dalla

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regolazione di tipo amministrativo, ii) da un lato, la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato sfuma ed i confini del pubblico sono resi permeabili alla colonizzazione del privato, mentre, dall’altro lato, lo spazio privato prende il sopravvento su quello pubblico nell’ordinamento politico-giuridico, iii) la tradizionale tripartizione delle funzioni fondamentali dello Stato (legislativa, esecutiva, giudiziaria), che è uno dei principi cardine del costituzionalismo liberale e anche delle stesse democrazie costituzionali20, muta drasticamente come conseguenza della pletora di nuovi agenti, ruoli e funzioni presenti nelle nuove architetture della governance a tutti i suoi livelli, sia sovra-statali che sub-statali.

5.7. La governance come neo-corporativismo La governance, nella misura in cui si sviluppa attraverso reti plurali di gruppi d’interesse che acquisiscono le prerogative di ordini, sembra favorire l’emergenza di una organizzazione della società politica di tipo neo-corporativo. La diffusione della governance spinge talvolta gli scholars ad individuare delle analogie con categorie e processi politici pre-moderni21. Infatti, un importante effetto delle modalità con cui la governance va a sostituirsi al government tradizionale, sia sul piano 20 È sufficiente ricordare l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789, in cui è scritto che «ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è determinata non ha una costituzione», per capire l’indissolubile legame fra separazione dei poteri e costituzione liberale. 21 Appare in questo senso emblematica l’analisi previsionale del futuro dell’Europa svolta da Schmitter nel 1996, il quale riteneva improbabile un esito dell’impresa politica europea nelle forme di categorie moderne quali la federazione o la con-federazione di stati, optando invece per esiti tratti dalla distinzione tardo medievale tra condominio e consortio, in particolare: «Mentre sembra improbabile che qualcuno abbia deciso deliberatamente di creare un “condominio” – e non vengono in mente precedenti storici di lunga durata – si può immaginare uno scenario di interessi divergenti, attori distratti, misure improvvisate e soluzioni compromissorie in cui emerge solo faute de mieux e rapidamente si istituzionalizza come il risultato meno minaccioso. Secondo la mia lettura dichiaratamente distorta e speculativa del trattato di Maastricht, questa potrebbe persino essere la traiettoria più probabile per la CE/UE» (Schmitter 1996, 136).

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intra-statuale che inter-statale, è una riorganizzazione dei poteri da cui traspare per molti versi una trama di neo-feudalizzazione (Minc 1993). Concorrono a questa diagnosi effetti come l’accentramento decisionale da parte di élites transnazionali e la perdita del nomos della terra, il moltiplicarsi degli organismi regolativi e legiferativi e dei poteri internazionali, la strutturazione delle loro relazioni in reti, fitte e informali, opache e, spesso, incerte e variabili nell’ordine gerarchico, che fanno apparire molteplici relazioni incrociate di lealtà e di dipendenza. Appare pertanto utile ricordare brevemente il significato del corporativismo come sistema politico, anche per notarne la similitudine degli aspetti con l’odierna governance politica. Il corporativismo che si basa sulle corporazioni – intese come organizzazioni rappresentative di coloro che esercitano la medesima attività professionale o che producono il medesimo bene, caratterizzate da specifici statuti e dotate di privilegi monopolistici, le quali hanno origini antiche22 – può essere definito una dottrina politico-sociale che realizza il principio della collaborazione tra le classi e le categorie sociali, sulla base delle corporazioni, ed in quanto tale si presenta come un modello di rappresentanza basata sugli interessi e sulle categorie professionali differente dal modello della rappresentanza moderna, che, a partire dalla Rivoluzione francese, è di tipo politico-individualistico basata sulle scelte degli individui in quanto cittadini. Di tale dottrina, intesa sia come prassi politica sia come concetto teorico, sono state distinti due varianti: i) quella cattolica, che trovò la sua sistemazione dottrinaria nell’enciclica Rerum novarum (1892), nella quale Leone XIII sollecitò, in nome del solidarismo cristiano, la formazione di «corporazioni di arti e mestieri miste di operai e padroni» onde «unire le due classi tra loro»; ii) quella fascista, il cui manifesto programmatico e anche fonte legislativa primaria del diritto corporativo fu la Carta del lavoro (1927), secondo cui le corporazioni, legalmente riconosciute e

22 Infatti, le corporazioni (o collegia) esistevano già durante la Repubblica e l’Impero romani, e sebbene si ritenga non fossero importanti, ci devono pure essere stati motivi da giustificare una loro prima soppressione sotto il consolato di Cicerone e una seconda sotto Cesare.

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sottoposte al controllo dello Stato, negoziano fra loro e i risultati sono applicati per legge a tutti coloro che vi appartengono (lavoratori, aziende, enti ecc.). Tuttavia le distinzioni fra le due varianti sono discutibili, dato che nel 1931 l’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno manifestò l’approvazione da parte della Chiesa cattolica del corporativismo fascista23. Non è infatti un caso che il termine governance venga già utilizzato da Baudin nel 1942 in un testo sul corporativismo, sebbene per indicarne la già accennata molteplicità di significati ed usi: l’esercito dei teorici della governance è tanto disparato che si è spinti a pensare che la parola stessa, governance, sia come una etichetta piazzata su una intera serie di bottiglie che sono quindi distribuite a diversi produttori ognuno dei quali le riempie con una bevanda di sua scelta. Il consumatore deve fare estrema attenzione (Baudin 1942, 4-5, cit. in Arienzo 2013, 9).

Se questa sopra accennata è la manifestazione ante-guerra del corporativismo, va notato che recentemente tale dottrina, ripulita dal riferimento allo Stato centralizzatore fascista, è stata ripresa in chiave contemporanea. Una definizione del moderno corporativismo (o corporatismo) è la seguente: Un sistema di rappresentanza degli interessi nel quale le unità costitutive sono organizzate in un numero limitato di categorie singole, obbligatorie, non in competizione, ordinate gerarchicamente e differenziate nelle funzioni, riconosciute o autorizzate (se non create) dallo Stato, alle quali è assicurato un deliberato monopolio della rappresentanza […] in cambio dell’osservanza di alcuni controlli sulla propria selezione dei leaders e sulla formulazione delle richieste e degli aiuti (Schmitter 1974, 93-94).

Questa definizione del moderno corporativismo ci appare coerente con alcune caratteristiche che sono state individuate nelle 23 Tuttavia, taluno rileva che «La differenza tra le varianti del corporativismo cattolico e fascista, come precisato nelle sezioni 91-96 del Quadragesimo Anno, era essenzialmente fondata sul principio sociale cattolico di “sussidiarietà”, che un livello più alto di autorità, in questo caso lo Stato, non dovrebbe usurpare le funzioni delle istituzioni di livello inferiore nella società civile come la famiglia, la Chiesa, le autorità locali e i sindacati corporativi» (Pollard 2016, 247).

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definizioni della governance. Ricordiamo, quindi, che secondo alcuni studiosi (Calise 2000) una parte importante delle odierne teorie della governance fa riferimento all’ambito teorico del neo-corporativismo.

5.8. La Commissione Trilaterale e la governance Un momento cruciale nella teoria democratica – in cui sono segnate le indicazioni teoriche e operative per il superamento del tradizionale government liberale – è rappresentato dal documento della Commissione Trilaterale sulla governabilità democratica, pubblicato dalla NewYork University Press nel 1975 e presentato in Italia nel 197724. Già nel 1979 Foucault, inquadrando in generale le crisi del governo liberale come spesso motivate da un aumento del costo economico del mantenimento delle libertà, individuava nell’attività della Trilaterale la presa di coscienza che

24 D’Eramo (2020) fornisce alcune informazioni che riprendiamo ed estendiamo. La Trilateral Commission era un Gruppo di discussione fondato nel 1973 da David Rockefeller, il cui primo direttore fu Zbigniew Brzezinski, futuro consigliere per la sicurezza di Jimmy Carter: della Trilateral fecero parte anche Paul Volcker e Alan Greenspan, futuri presidenti della Federal Reserve, e Jean-Claude Trichet, futuro presidente della Banca centrale europea e attuale Presidente della sezione europea dal 2011, anno in cui sostituì Mario Monti, chiamato ad altro compito. Al 2018 i membri italiani sarebbero diciotto, fra cui, solo per citare nomi noti, Monica Maggioni, Enrico Letta e Marco Tronchetti Provera (http://www.trilaterale. it). Uno dei tre autori del Rapporto, in cui si attribuiva l’ingovernabilità dei paesi occidentali a un “eccesso di democrazia” e si delineavano le modalità di nuove forme di governo oggi affermatasi, era Samuel Huntington, docente di Harvard, che nell’amministrazione Carter fu coordinatore per la Casa Bianca del Security Planning per il National Security Council, poi all’inizio degli anni ottanta ricevette i primi contributi dalle fondazioni Smith, Richardson e Bradley per aprire quello che sarebbe diventato l’Olin Institute for Strategic Studies di Harvard, cui il magnate Olin avrebbe elargito nel corso degli anni 8,4 milioni di dollari. Nell’estate 1993, Huntington pubblicò sulla rivista “Foreign Affairs” il saggio Clash of Civilizations?, che sarebbe diventato tre anni dopo il noto libro (con il titolo che nel frattempo aveva perso il punto interrogativo), in cui si preannunciava, dopo il crollo del comunismo, il prossimo scontro fra civiltà definite non più in base all’ideologia o al tipo di sistema economico ma in base alle differenti identità di lingua e religione, tesi che sembrò trovare conferma dagli attentati dell’11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle a New York.

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la libertà politica liberal-democratica aveva un costo troppo alto: «Guardate ad esempio, nei testi degli ultimi anni della [Trilaterale], come si è cercato di proiettare sul piano economico del costo gli effetti della libertà politica» (Foucault 2005, 70). Quell’attività, vista ovviamente oltre quarant’anni dopo con la lente storica, non rappresentava solo una presa di coscienza del costo della democrazia in termini di contabilità costi-benefici, ma costituiva soprattutto una indicazione operativa per il superamento di tale sistema politico troppo costoso in termini di rischi per il sistema capitalistico. Come Agnelli ci ricorda nella introduzione all’edizione italiana del documento «la Commissione trilaterale è un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti, delle tre aree del mondo industrializzato […] che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse» (Crozier et al. 1977, 4). Agnelli ne sottolinea due termini qualificanti, quello di organismo “privato” e quello di “interessi comuni” ai paesi delle tre aree, ed infine estrae sinteticamente il succo del rapporto: «i responsabili del rapporto […] hanno parlato di crisi della democrazia in termini di “governabilità” del sistema democratico» (Crozier et al. 1977, 11). Altrettanto esplicitamente, nel documento viene posto l’obiettivo di introdurre – una volta individuate una serie di minacce25 per la “governabilità” attuata secondo le forme allora correnti – le “innovazioni” necessarie per l’avvenire, ovvero le nuove forme di “governabilità”: Uno degli obiettivi principali di questo rapporto è di individuare ed analizzare le minacce che si profilano per lo stato democratico nel mondo odierno […] e di proporre quelle innovazioni che possano apparire adatte a rendere più attuabile la democrazia in avvenire (Crozier et al. 1977, 19).

25 L’analisi del rapporto sembra condividere l’opinione scettica sul futuro della democrazia liberale in Europa occidentale rappresentata da un aneddoto di Brandt: «Prima di lasciare l’incarico, Willy Brandt si sarebbe dichiarato convinto che “all’Europa occidentale non rimangono che altri 20 o 30 anni di democrazia; dopo di che scivolerà nel mare circostante della dittatura, poco importando che la sua imposizione provenga da un politburo o da una giunta”» (Crozier et al. 1977, 18).

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Il rapporto rileva, con particolare riferimento all’Europa, quattro minacce alla democrazia: la prima è contingente quanto scontata, cioè il pericolo del comunismo, la seconda riguarda la tendenza edonistico-individualistica del post-sessantotto che conviverebbe con lo scetticismo verso la politica e il disimpegno sociale, ma di cui il rapporto osserva acutamente che si tratta sempre di valori privatistici (e quindi non pericolosi)26. La terza è costituita dagli intellettuali “critici” che, purtroppo, sono, per dirla con le parole di Schumpeter, irresponsabili verso le cose pratiche (cioè verso l’economia), al contrario invece di altri bravi intellettuali tecnocrati; gli intellettuali “critici” sono accusati, curiosamente ma non troppo, di essere per la democrazia più pericolosi persino dei movimenti comunisti27. È già qui delineata la necessità di intervenire strategicamente nel mondo culturale e universitario, che porterà pochi anni dopo ad una completa trasformazione dei sistemi educativi e di ricerca di tutto il mondo occidentale, specie europeo28, nella quale la governance giocherà

26 Le generazioni più giovani sembrano essere passate «dai valori materialistici, orientati dal lavoro, consci delle esigenze sociali, a quelli che pongono l’accento sulla soddisfazione individuale, sul tempo libero e sul bisogno di “realizzazione di sé sul piano affettivo, intellettuale ed estetico” […]. Spesso coesistono con il più grande scetticismo nei confronti dei leader e delle istituzioni politiche e con la massima estraniazione dai processi politici. Nella loro portata tendono ad essere privatistici» (Crozier et al. 1977, 22). 27 «Oggi, una minaccia rilevante proviene dagli intellettuali e gruppi collegati che asseriscono la loro avversione alla corruzione, al materialismo e all’inefficienza della democrazia, nonché alla subordinazione del sistema di governo democratico al “capitalismo monopolistico”. Lo sviluppo tra gli intellettuali di una “cultura antagonista” ha influenzato studenti, studiosi e mezzi di comunicazione. Gli intellettuali, come dice Schumpeter, sono “persone che esercitano il potere della parola e dello scritto, ed uno dei tratti che li distingue da altre persone che fanno le stesse cose è l’assenza di responsabilità diretta delle questioni pratiche”. In una certa misura, le società industriali avanzate hanno dato origine a uno strato di intellettuali orientati dai valori […] che contrasta con quello del novero pure crescente di intellettuali tecnocratici e orientati alla politica. In un’epoca di grande diffusione dell’istruzione secondaria e universitaria […] questo sviluppo rappresenta per il sistema democratico una minaccia altrettanto grave, almeno potenzialmente, di quelle poste in passato dai gruppi aristocratici, dai movimenti fascisti e dai partiti comunisti» (Crozier et al. 1977, 23). 28 È nel 1999 che 29 ministri dell’istruzione europei si incontreranno a Bologna ospiti del ministro Berlinguer per sottoscrivere un accordo noto come

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ancora una volta un ruolo centrale. Ma la minaccia più grave – e quella più rilevante per il tema qui trattato – è, secondo il rapporto, individuata all’interno della democrazia stessa, cioè nei suoi modi di funzionamento e nelle sue tecniche di governo: e aspetto forse più grave, ci sono le “minacce intrinseche” alla vitalità del sistema democratico che sgorgano direttamente dal funzionamento della democrazia. Il governo democratico non opera necessariamente secondo modi che regolino o mantengano automaticamente l’equilibrio. È possibile, invece, che funzioni in modo tale da dare vita a forze e tendenze le quali, se non controllate da qualche intervento esterno, finiscano col condurre all’indebolimento della democrazia. Fu questo, certamente, un tema centrale nei presentimenti di De Tocqueville sulla democrazia; esso riapparve negli scritti di Schumpeter e di Lippmann; esso è un elemento-chiave nell’attuale pessimismo riguardo al futuro della democrazia (Crozier et al. 1977, 23-24).

Il Rapporto, ovviamente, non si limita ad indicare le “colpe” della democrazia e i suoi aspetti più critici per la durata di un profittevole sistema capitalistico, ma raccomanda un dettagliato ricettario di interventi in cui l’inadeguato governo liberal-democratico sia modificato nello “spirito” della governance. In primo luogo, dovrebbero accelerare il distacco dal loro vecchio modello di frammentazione, stratificazione, segretezza e distanza, che produsse un ragionevole equilibrio tra processi democratici, autorità burocratica e una certa tradizione aristocratica, e sperimentare modelli più flessibili che potrebbero generare un controllo sociale maggiore con una pressione coercitiva minore. Tale sperimentazione, che nel lungo periodo è destinata al successo, appare pericolosa nell’attuale vulnerabile situazione, nella quale, finché non si è sicuri dei pregi dei nuovi mezzi di controllo sociale, si esita naturalmente a mettere a repentaglio ciò che rimane dei vecchi. L’innovazione sembra, nondimeno, assolutamente indispensabile. E deve trattarsi di un’innovazione accurata, che, del resto, è la sola risposta possibile al dilemma dell’Europa [corsivo nostro] (Crozier et al. 1977, 69).

la dichiarazione di Bologna, in cui è delineato il processo di riforma internazionale dei sistemi di istruzione superiore dell’Unione europea, da cui dovrà uscire l’Università conforme alla governamentalità neo-liberale.

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Il futuro politico è già perfettamente disegnato ‒ la «sperimentazione […] nel lungo periodo è destinata al successo» ‒ anche se l’inizio delle applicazioni delle ricette è posto sotto il segno della prudenza: non si può ancora essere sicuri ‒ «non si è sicuri dei pregi dei nuovi mezzi di controllo sociale» ‒ che la nuova governamentalità potrà condurre meglio il gregge di quanto abbia fatto la vecchia democrazia liberale pur spietatamente criticata ‒ «si esita naturalmente a mettere a repentaglio ciò che rimane dei vecchi». Il motivo è che, quando il rapporto esce, il sistema capitalistico è nel pieno dell’«attuale vulnerabile situazione», cioè i partiti comunisti e i sindacati europei non sono mai stati così forti e l’Unione sovietica appare ai massimi della potenza. Le raccomandazioni della Commissione Trilaterale possono essere lette come un vero e proprio programma operativo – inizialmente sperimentale ma profondo e accurato – per la sostituzione del modello tradizionale di government democratico-liberale con una nuova governance di ispirazione neo-liberale, di cui sono esemplificativi i termini utilizzati come flessibilità o innovazione; ma addirittura sorprendente appare il riferimento al “maggior controllo con più libertà” (nella frase «un controllo sociale maggiore con una pressione coercitiva minore» sembra di leggere Foucault, che avrebbe espresso proprio in questi termini la sua acuta interpretazione della ricetta governamentale neo-liberale solo tre anni dopo, nelle sue lezioni del 1978-79), come assai indicativi sembrano anche i riferimenti all’austriaco Schumpeter e all’organizzatore dei cosiddetti Colloqui Lippmann (entrambi numi tutelari, anche se per aspetti diversi e, nel caso di Schumpeter, non consapevoli di esserlo, del neo-ordoliberalismo, specialmente il protagonista dei Colloqui che portano il suo nome, tenutisi nel 1938 a Parigi, che sono alla base sia del pensiero teorico che del progetto politico neo-liberale, come raccontato in Conti e Fanti 2020, parte III). Infatti, la relazione fra gli obiettivi della Commissione Trilaterale espressi nel rapporto e la governance è già stata rilevata in questi termini: la governance è parte di un percorso di messa in discussione delle procedure del governo rappresentativo negli Stati democratici e parlamentari

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che ha visto come passaggio di rilievo la tematizzazione della categoria di «governabilità» fatta dalla cosiddetta Commissione trilaterale. Per prima, questa Commissione ha spostato gli accenti della politica democratica dagli istituti della rappresentanza – e quindi dalle forme tradizionali della legittimazione rappresentativa – verso processi di accentramento esecutivo e di un più ampio ricorso a politiche regolative, con il fine di garantire stabilità ed efficacia ai processi decisionali. A partire dalla governabilità si è pian piano indebolita l’idea del governo diretto della società da parte dello Stato, per valorizzare e ampliare gli spazi di auto-regolazione degli interessi e le dinamiche autonome della società capitalistica (Arienzo 2013, 23).

In conclusione, è possibile ascrivere alla discesa in campo – sotto la forma di un breve rapporto politologico – di un organismo privato, che raccoglieva le adesioni dei rappresentanti più significativi del capitalismo mondiale e dei loro think tank, l’avvio della implementazione di una nuova “governabilità” che, in qualche misura, doveva chiudere l’epocale storia iniziata dalle rivoluzioni moderne: quelle anglo-americane, da un lato, che avevano originato il mondo liberale e, a maggior ragione, quella francese, dall’altro lato, che aveva originato il mondo democratico della sovranità popolare dei cittadini29.

5.9. Governance e sicurezza L’osservazione delle prassi e delle organizzazioni della governance politica ed economica evidenzia la duplice strada scelta dai fautori della nuova governamentalità: da un lato, l’intervento regolativo sulla popolazione, dall’altro lato, le pratiche di una nuova soggettivizzazione degli individui che ‒ attraverso l’introiezione di logiche che riproducono quelle proprie del mercato, dell’impresa, della gestione del rischio ‒ li rende più liberi affinché siano più

29 Di passaggio, annotiamo che la Commissione Trilaterale non offre soltanto “rapporti” di ricerca critici della sovranità democratica degli Stati, ma in alcuni casi anche personale politico di governo: per esempio dal novembre 2011, nel giro di pochissimo tempo, i governi di due stati democraticamente eletti – l’Italia e la Grecia – furono sostituiti da governi “tecnici” guidati rispettivamente da Mario Monti – presidente del gruppo europeo della Trilaterale – e da Papademos – membro della medesima.

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obbedienti. In riferimento al primo lato, non va dimenticato che, soprattutto negli ultimi anni, si sono moltiplicati gli strumenti di sicurezza, operanti prevalentemente sulle popolazioni, giustificati dal loro merito funzionale, e rispondenti alle tensioni prodotte dal capitalismo contemporaneo. La sicurezza è un tema che può essere declinato secondo due accezioni, entrambe comprese nel significato attribuito a questo termine nella lingua italiana: i) la tutela di un ordine sia internamente che all’esterno (p.e. ambiti di polizia e di difesa); ii) la tutela della popolazione in termini di assistenza, prevenzione, assicurazione (p.e. welfare)30. Specie in seguito al crollo degli equilibri della Guerra fredda, prima, e all’11 settembre, poi, nonché dalle inattese crisi economiche e finanziarie internazionali, il tema della sicurezza inteso nelle sue duplici accezioni si è congiunto ai temi della crisi dello Stato-nazione e della democrazia liberale (Kaldor 2007). Peraltro, mentre la sicurezza nella prima accezione ha un’origine antica, nel senso che anche il sovrano esercitava una protezione dei sudditi verso l’interno e verso l’esterno31, nella seconda accezione è un portato specifico del liberalismo e della sua fabbricazione di supposti pericoli: Il liberalismo si impegna in un meccanismo in cui sarà tenuto, in ogni istante, ad arbitrare la libertà e la sicurezza degli individui attorno alla nozione di pericolo. Se in fondo, […] il liberalismo è un’arte di governo che manipola soprattutto gli interessi, non può – ed è questo il rovescio della medaglia – manipolare gli interessi senza al tempo stesso farsi carico dei pericoli e dei meccanismi di sicurezza/libertà, del rapporto sicurezza/libertà che deve assicurare, agli individui o alla collettività, che saranno esposti il meno possibile ai pericoli (Foucault 2005, 68).

30 Invece, la prima accezione è espressa in inglese col termine safety e in francese col termine sûreté, mentre la seconda accezione, in inglese, è anche espressa col termine security, e in francese col termine securité. 31 «In termini approssimativi si può dire questo: nel vecchio sistema politico della sovranità esisteva una serie di rapporti giuridici e di rapporti economici che impegnavano, e addirittura obbligavano il sovrano a proteggere il suddito. Ma, in un certo senso, era una protezione del tutto esteriore: il suddito poteva domandare al suo sovrano di essere protetto contro il nemico esterno, o contro il nemico interno» (Foucault 2005, 68).

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La sicurezza, e le politiche per assicurarla, sono quindi le indissolubili compagne delle politiche per creare artificialmente le libertà. Come ogni altro prodotto di fabbricazione, anche la produzione di interventi “liberogeni” ha un costo di produzione, che non è altro che il costo della sicurezza: Quale sarà allora, il criterio per calcolare il costo di produzione della libertà? Sarà, naturalmente, la cosiddetta sicurezza. […] In breve, a tutti questi imperativi che consistono nel vigilare affinché la meccanica degli interessi non sia fonte di pericoli, né per gli individui né per la collettività, devono corrispondere delle strategie di sicurezza che sono in un certo qual modo il rovescio e la condizione stessa del liberalismo. […] il rapporto fra libertà e sicurezza è il centro propulsore di questa nuova ragione di governo, […] sarà questo rapporto […] che chiamerei l’economia di potere specifica del liberalismo (Foucault 2005, 67-68).

Quindi, si creano delle libertà per poterle assicurare creando così ancora maggiori coercizioni. Questa fotografia dell’«economia di potere liberale» scattata da Foucault si è mantenuta particolarmente a fuoco, con gli opportuni aggiustamenti, anche nella fase odierna di neo-liberalismo, caratterizzata proprio dallo spostamento della coppia strategica libertà/sicurezza in un nuovo regime di governamentalità – la governance appunto – caratterizzato, a sua volta, da un incremento sia dell’intervento “liberogeno” sia dell’intervento di sicurezza, come testimoniato, da un lato, dalla imposizione a livelli sovra-nazionali – come anche ai subordinati livelli nazionali e locali ‒ della concorrenza tramite normativa, normazione e nuova soggettivazione e, dall’altro lato, dalla diffusione di nuovi pericoli, in primis il terrorismo islamico, e di corrispondenti nuove strategie di sicurezza. Va peraltro riconosciuto come già nel 1979 Foucault aveva individuato all’interno dell’economia di potere liberale l’apparire di questo meccanismo di endogena proliferazione e rafforzamento reciproco di meccanismi “liberogeni”, da un lato, e di meccanismi di controllo e sicurezza, dall’altro lato, denunciando la comparsa, in questa nuova arte di governo, di meccanismi che hanno la funzione di produrre, ispirare e accrescere le libertà, introducendo un sovrappiù di libertà mediante un sovrappiù di controllo e di intervento (Foucault 2005, 69).

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Le politiche di governance stanno quindi giocando anche un ruolo importante, sotto la spinta dei nuovi terrorismi e dei problemi posti dalle relazioni politiche ed economiche internazionali, nel cambiare sostanzialmente le concezioni e le pratiche della sicurezza internazionale. La Commissione sulla governance globale (Cgg) dell’Onu redige nel 1995 il rapporto On Our Global Neighborhood, in cui con il termine governance si definiscono, da un lato, i processi, formali e informali, coinvolgenti individui e istituzioni, pubbliche e private, finalizzati al raggiungimento di obiettivi condivisi, mentre, dall’altro lato, si definiscono i modi in cui i sopradetti agenti formeranno strutture organizzative e decisionali efficienti per l’ottenimento della compliance, ovvero (traducendo) di una conformità, un’acquiescenza, un allineamento, un’osservanza, una sottomissione, un adempimento di obblighi, insomma un’adesione volontaria a un comando. Nelle parole della Commissione con il termine governance si definisce32 la somma delle modalità molteplici attraverso cui individui e istituzioni, pubbliche e private, conducono i loro affari comuni. [La governance] è un processo continuo attraverso cui interessi diversi e confliggenti possono essere accordati e diviene possibile intraprendere azioni in modalità cooperativa. Essa include istituzioni formali e regimi dotati dell’autorità per imporre obbedienza [enforce compliance], così come accordi cui popoli e istituzioni aderiscono o ritengono essere nel loro interesse (Cgg 1995, 5).

Dal documento dei “pensatori” dell’Onu emerge che tanto imporre obbedienza oppure ottenere adesioni volontarie, quanto gestire affari comuni fra privati o fra privati e istituzioni pubbliche, sono le azioni al cuore della governance politica. Questo implica tanto la riduzione dell’area pubblica e della sovranità politica democratica, tradizionalmente basata sulla rappresentanza

32 Peraltro il contenuto del documento prodotto dai think thank dell’Onu «è stato fortemente contrastato tanto dai “sovranisti” – ossia dai fautori della centralità sul piano internazionale del ruolo sovrano degli Stati nazione – quanto dai “federalisti” (o globalisti), ossia dai propugnatori di un processo di federazione globale delle diverse realtà statali nell’alveo istituzionale e politico rappresentato dall’Onu» (Arienzo 2013, 86).

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di partiti organizzati, quanto la trasformazione dei caratteri e delle figure del governo: si passa dalla politica all’amministrazione (dalla politics alla policy), dalla regolamentazione legislativa alla regolazione, dalla legittimazione democratica alla giustificazione per risultati tecnici, dalla leadership politica alla tecnocrazia manageriale, e, in ultimo, si realizza la fine della democrazia liberale: Attraverso i concetti di compliance e di comune interesse, una simile definizione suggerisce le implicazioni di una ratio discorsiva che trasforma tanto i confini tradizionali della potenza pubblica ‒ rendendoli permeabili ad attori e processi differenziati ‒ quanto i contenuti di una politica che ormai abbandona il piano del confronto rappresentativo tra gruppi politici organizzati e si manifesta come amministrazione e co-gestione, seguendo in ciò le linee di una policing fortemente orientata all’esito e dai tratti fortemente tecnocratici. L’obiettivo è quello di incidere in un numero crescente di aree del mondo attraverso dispositivi nuovi, talvolta paralleli quando non addirittura alternativi alle procedure elettive-rappresentative: con esiti inquietanti sulla tenuta della categoria di “democrazia” (Luzzi 2009, 4).

Il documento Human Security Now redatto dalla Commission on Human Security (Chs) nel 2003 e ripreso dall’Onu, afferma due punti fondamentali e innovativi in tema di sicurezza, cioè che – in termini di soggettivazione – le persone non devono tanto essere protette, quanto devono essere rese responsabili e capaci di provvedere a sé stesse, e che – in termini di governance politica internazionale – lo Stato non deve essere più il protagonista della sicurezza, ma lo devono essere altri attori non-statali: «garantire la human security non include solo la protezione delle persone, ma anche renderle capaci di badare a loro stesse» (Chs 2003, 4) e, ancora, «lo spettro degli attori deve essere ampliato ben oltre il solo Stato» (Chs 2003, 52). Come si può quindi vedere, anche attraverso il recente e pervasivo tema della sicurezza, la governance tende a riproporre alcune linee guida del pensiero neo-liberale, quali il superamento della sovranità dello Stato e la regolazione-addestramento del soggetto volta ad ottenere compliance. Infine annotiamo che, come è evidente già a partire dalla seconda metà del XX secolo, attori nuovi, differenti dagli Stati-nazione territorialmente definiti, entrano in gioco ed in particolare attualmente assistiamo ad una pletora di agenzie indipendenti e/o regolative, corpora-

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zioni d’interessi, aggregati politici ed economici macroregionali, organismi internazionali, di cui l’Unione Europea è un esempio critico e macroscopico. Ne risulta che il modello vestfaliano dei rapporti inter-statali viene messo in crisi. La trasformazione dei confini tradizionalmente stabiliti tra politica interna e politica internazionale è un ulteriore grimaldello per modificare il significato politico dello spazio pubblico, cosicché possiamo anche individuare nei modelli di governance a livello globale sia una causa che un prodotto della crisi del modello vestfaliano: «Il sistema emergente di governance globale dipende da una trasformazione fondamentale delle nostre idee della sovranità e della statualità ereditate dalla tradizione Westfaliana» (Jayasuriya 1999, 1).

5.10. Cenni ad una tecnica di governance della Unione Europea Dobbiamo inoltre annotare la particolare importanza che rivestono le varie tecniche di governance presenti all’interno della UE. Fra queste sono particolarmente utili a scopo illustrativo quelle che riguardano la ricerca e l’apprendimento, rispetto a temi comuni che mirano a coinvolgere i vari Stati e a raggiungere risultati tecnici e scientifici condivisi e ritenuti efficienti. La metodologia con cui opera questa tecnica consiste in varie pratiche di controllo e implementazione (sorveglianza centralizzata e decentralizzata, rendicontazione in forma di continui rapporti, fissazione di benchmarks, indicazioni di cosa e come fare per essere conformi, etc.) con cui si ha l’obiettivo di ottenere una compliance, una adesione volontaria in assenza di un potere coercitivo. Una di queste tecniche, su cui ci soffermeremo, è denotata come Open Method of Coordination (OMC) o «metodo aperto di coordinamento» (MAC). Il MAC può essere descritto come uno strumento giuridico non vincolante, operante in ambiti di competenza della UE ma in cui la UE non ha il potere di enforcement legale nei confronti degli Stati nazionali, come, per esempio, gli ambiti della formazione, istruzione, cultura, occupazione, e così via33.

33 Descrizione, caratteristiche e obiettivi del MAC si possono leggere nel sito ufficiale della UE, per esempio nel caso riferito all’ambito della cultura (https://ec.eu-

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Il MAC, nato negli anni ’90 come parte della politica sull’occupazione, è stato definito come uno strumento della strategia di Lisbona nel 2000, quando l’integrazione economica dell’UE avanzava rapidamente, ma tra i paesi dell’UE c’era ancora qualche dubbio sul fatto di dare maggiori poteri alle istituzioni europee. Tale metodo mirava a far convergere le politiche nazionali verso alcuni obiettivi comuni, attraverso una nuova modalità di interazione tra i paesi dell’UE: cioè attraverso un metodo per il quale i paesi dell’UE si valutano reciprocamente fra loro. Esso viene utilizzato in settori che rientrano nella sfera di competenza dei paesi dell’UE, quali l’occupazione, la protezione sociale, l’istruzione, la gioventù e la formazione professionale, e si articola in tre punti: i) identificazione e definizione congiunta di obiettivi da raggiungere che vengono recepiti dal Consiglio; ii) approntamento di strumenti di misura definiti congiuntamente (statistiche, indicatori, orientamenti); iii) attività di benchmarking, vale a dire l’analisi comparativa dei risultati dei paesi dell’UE e lo scambio delle migliori pratiche, tutte procedure sorvegliate dalla Commissione

ropa.eu/culture/policy/strategic-framework/european-coop_it): «Gli Stati membri dell’UE hanno molto da guadagnare dallo scambio di esperienze in merito all’elaborazione delle politiche e al finanziamento di progetti. Questa forma di collaborazione si chiama “metodo aperto di coordinamento” e viene utilizzata in diversi ambiti politici. In pratica, esperti dei ministeri della Cultura e delle istituzioni culturali nazionali si incontrano da 5 a 6 volte nell’arco di 18 mesi per scambiarsi buone pratiche e produrre manuali strategici e materiale informativo da condividere a livello europeo […] Ogni quattro anni i paesi dell’UE concordano i temi da affrontare nel piano di lavoro per la cultura del Consiglio. Il metodo aperto di coordinamento è un sistema leggero, ma strutturato che consente agli Stati membri di collaborare a livello europeo nel campo della cultura. Il metodo crea una comprensione comune dei problemi e contribuisce a costruire il consenso sulle soluzioni e la relativa attuazione pratica. Con lo scambio di buone pratiche tra i paesi europei, contribuisce a migliorare l’elaborazione e attuazione delle politiche, in assenza di strumenti regolamentari. Finora i gruppi di lavoro hanno prodotto una serie di manuali di buona pratica. Nel 2013 una valutazione esterna ha concluso che il metodo funziona generalmente bene […]. Il suo valore aggiunto deriva soprattutto dall’apprendimento reciproco e dallo scambio delle migliori pratiche, mentre resta da migliorare l’impatto sulle politiche nazionali» [corsivo nostro]. La valutazione piuttosto esplicita della UE è che, in assenza della possibilità di coercizione legale, il metodo funziona bene proprio rispetto all’obiettivo implicito di far recepire volontariamente i risultati dagli Stati membri (anche se si potrebbe far meglio se anche in tali ambiti e su tali temi si potesse direttamente obbligare gli Stati nazionali).

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Europea con cui vengono appunto concordati benchmark e indicatori specifici per misurare le “migliori pratiche”34. L’attività di benchmarking deriva, come già abbiamo visto, dall’ambito dell’economia ed è una metodologia basata sul confronto sistematico che permette alle aziende che la applicano di mettersi in comparazione con le migliori aziende e sviluppare l’apprendimento da queste per migliorarsi. Come viene costruito il benchmark? Attraverso la scelta di un insieme di indicatori caratterizzati ciascuno dalla massima oggettività, comprensibilità, basso costo di misurazione e soprattutto rappresentatività di uno specifico processo critico. Una comune unità di misura (p.e., la percentuale, il numero puro, ecc.) per tutte le aziende oggetto del benchmark assicura la confrontabilità dei risultati, e i valori assunti dal benchmark in ciascuna impresa possono essere condivisi con le altre aziende incluse nell’attività di benchmarking. Naturalmente l’individuazione dei valori del benchmark può anche essere affidata alla expertise di soggetti terzi (p.e., società di ricerche di mercato, società di consulenza, esperti del settore). I valori degli indicatori sono revisionati con cadenze stabilite e il loro calcolo tende ad essere sempre sufficientemente semplice, per esempio utilizzando strumenti statistici elementari come media, moda, mediana35. Una successiva fase del processo di benchmarking è la revisione dei valori-obiettivo da raggiungere e l’individuazione delle best practices da apprendere e imitare. Il valore migliore per ciascun indicatore (costo, servizio, qualità ecc.) fra le aziende partecipanti al benchmarking diviene il target per tutte le altre. L’obiettivo della tecnica è quindi quello di imparare le best practices per poi implementarle in ciascuna azienda.

34 Tuttavia, notiamo che potrebbero esserci – rispetto ad alcuni elementi del metodo, quali, ad esempio, la periodicità della rendicontazione, la stesura delle linee guida a livello di UE oppure degli Stati membri, il maggior o minore rigore nei meccanismi di applicazione – differenze significative tra i vari MAC a seconda degli ambiti politici a cui è stato applicato. 35 Non sfuggirà la similitudine con la scelta degli strumenti statistici da parte dei valutatori per il reclutamento degli accademici italiani e per la consegna delle “pagelle” ai medesimi in varie fasi successive di sorveglianza del loro grado di “conformità”.

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La tecnica della migliore pratica (best practice) consiste nella individuazione dell’insieme delle attività (procedure, comportamenti, abitudini, esempi, ecc.) che, organizzate in modo sistematico, opportunamente formalizzati in regole o piani che possono essere seguiti e ripetuti, possono essere prese come riferimento per favorire il raggiungimento dei risultati migliori in un certo ambito di applicazione. Ovviamente tale tecnica ha origine nell’ambito del management aziendale, da cui è stata poi esportato in altri ambiti pubblici (e quindi aziendalizzati) come quelli sanitari, educativi, della ricerca, del governo e così via. Detto in soldoni, il meccanismo di mercato concorrenziale mette tutti contro tutti in termini di controllo reciproco, selezione, emulazione, reputazione, messa alla gogna, etc., così che poi da questo meccanismo si formano spontaneamente le informazioni per il perseguimento di ciò che è considerato l’ottimo. Basta sostituire in quanto detto appena sopra i termini ‘azienda’ e ‘mercato’ quelli di ‘sistema politico’ e di governance e si comprenderà facilmente il trasferimento e l’uso in ambito politico dei metodi manageriali di benchmarking e best pratice. Il MAC è un mezzo inter-statale relativamente nuovo di governance nell’Unione europea, basato sull’interazione volontaria dei suoi Stati membri. Il metodo aperto si basa su meccanismi di soft law – decisioni e regole non-vincolanti ma che possono agire efficacemente per adesione/obbedienza volontaria; tali meccanismi prevedono linee guida, indicatori, rapporti, analisi comparativa e condivisione delle migliori pratiche. Qual è il meccanismo endogeno di funzionamento per cui il MAC si può rivelare uno strumento efficace di governance? Sebbene non vi siano sanzioni ufficiali evidenti per i ritardatari nel conformarsi, tuttavia il metodo è efficace, perché si basa su una forma di “pressione tra pari” (peer pressing) e sul rischio di farsi una cattiva reputazione, una brutta nomea (naming) e di subire lo stigma della vergogna (shaming), insomma è efficace perché a nessuno Stato membro piacerebbe essere visto come quello peggiore in un determinato ambito politico. Sebbene il MAC abbia attirato una notevole, e spesso favorevole attenzione accademica fin dal 2000, sulla base della presunzione che l’apprendimento dalle migliori pratiche e una maggiore efficacia delle politiche siano il principale risultato del MAC, tut-

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tavia la sua legittimità democratica, intesa nel senso delle teorie liberali della democrazia ‒ sia quelle classiche che quelle deliberative ‒ potrebbe essere fortemente deficitaria. Infatti, a dispetto dell’apologetica e autoreferenziale affermazione che strumenti come il MAC sono potenzialmente in grado di ridurre il deficit democratico dell’UE in ragione sia della loro apertura teorica ed inclusività, sia del fatto che comunque sono strumenti non-vincolanti, la realtà effettiva è ben diversa. Intanto, annotiamo che anche strumenti non vincolanti come il MAC dovrebbero richiedere forti controlli democratici (come sottolineato da Borràs e Conzelmann 2007), poiché il loro obiettivo è diffondere idee attraverso processi di apprendimento e competizione discorsiva in una prospettiva da medio a lungo termine. Anche se è quasi impossibile ricondurre il cambiamento delle politiche a un particolare OMC, l’effetto condensato di tali processi di coordinamento può essere che le idee entrino gradualmente nei dibattiti nazionali e portino al riorientamento di una determinata politica. Possono quindi avere effetti a lungo termine che possono essere più importanti e più duraturi di quelli di un singolo atto legislativo (Kröger 2007, 568).

Infatti, se definiamo correttamente la democrazia politica in termini delle sue procedure e istituzioni ed escludiamo invece che possa essere definita in termini dei suoi risultati, le conclusioni sembrano quantomai negative: la tecnica di governance MAC non è compatibile con la democrazia liberale. Il cahier de doléance rispetto al MAC è piuttosto denso: i) la partecipazione degli agenti riconosciuti meritevoli avviene su un biglietto d’invito degli esecutivi UE e non su un mandato democratico, e inoltre anche gli attori che così vengono arbitrariamente accettati risultano poi spesso rappresentati in modo diseguale; ii) la rappresentanza è burocratica e non politica; iii) si tratta di un metodo irresponsabile, opaco, a porte chiuse, protetto da ogni intervento sia politico che giudiziario; iv) dipende dal consenso dei burocrati e la sua millantata apertura è assente sia proceduralmente che sostanzialmente. Infatti, Kröger (2007), valutando la legittimità democratica del MAC attraverso quattro dimensioni – partecipazione, rappresentanza, deliberazione e responsabilità – conclude che

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questo MAC chiaramente non è all’altezza delle esigenze della democrazia liberale. Non ci sono diritti formali di partecipazione; invece, l’accesso alla partecipazione è subordinato all’invito e non a mandati democraticamente fondati. Ciò implica che il riconoscimento (politico) di particolari attori da parte dei governi nazionali o degli organi dell’UE diventa un biglietto d’ingresso per la partecipazione. Per quanto riguarda la rappresentazione, è stato osservato che le forme burocratiche di rappresentanza chiaramente dominano sulla rappresentanza politica. La responsabilità è quasi inesistente a causa della mancanza di trasparenza. La discussione si svolge a porte chiuse, impedendo così un dibattito pubblico e liberando i principali rappresentanti dalla necessità di tenere conto del feedback critico. Questa logica è accentuata dalla mancanza di sanzioni politiche e controllo giudiziario […]. L’apertura del metodo non è stata garantita, né in termini procedurali né sostanziali (Kröger 2007, 578-579).

Inoltre è utile domandarsi quali siano i nodi cruciali della violazione della democrazia da parte di questa tecnica di governance di tipo soft-law non solo dal punto formale in relazione alla democrazia liberale, come visto sopra, ma piuttosto dal punto di vista sostanziale. Come sempre, l’obiettivo della tecnica è la sottrazione degli ambiti della vita sociale alla politica legittima, con la giustificazione che la tecnica mostra una razionalità scientifico-economica e una efficienza ottimizzante, mentre la politica, invece, sarebbe irrazionale, inefficiente e così via. In realtà, la politica viene delegittimata perché contiene dei rischi per il capitalismo connessi con la volontà popolare democratica. Il primo di questi nodi centrali riguarda l’efficacia del MAC nell’agire come regolatore attraverso il meccanismo di persuasione discorsiva nel lungo periodo: cioè il fatto che la UE, non avendo la potestas di regolamentare, si assume tuttavia subdolamente – facendo appello alla indiscutibile verità del mercato e della scienza economica, mostrando in pieno il meccanismo di governamentalità neo-liberale nelle accezioni di Foucault – la potestas indirecta di regolare nel medio-lungo periodo elementi decisivi della vita sociale, quali, in questo caso, la formazione, la ricerca, l’istruzione, la sanità, la previdenza e così via. Infatti è stato rilevato che anche se processi come l’inclusione del MAC non hanno alcun impatto diretto sul processo politico e sulle politiche pubbliche, i cambiamenti ri-

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guardanti i discorsi riguardanti le politiche sono intesi a lungo termine […] si può affermare con sicurezza che i cambiamenti ideazionali e discorsivi innescati dall’operato dei MAC sono lungi dall’essere soggetti al controllo parlamentare e alle forme stabilite di controllo (Kröger 2007, 578).

In secondo luogo, ci sono materie cruciali per la vita dei cittadini, quali la previdenza e la sanità, che sono palesemente di interesse pubblico e che pongono problematiche interamente politiche; invece, la governance della UE tende a ridurre i problemi politici a questioni tecniche e scientifiche e a ricondurre queste materie negli ambiti privatistici36. Questioni di interesse pubblico come la previdenza sociale e, più in generale, la separazione tra le responsabilità pubbliche e individuali non necessitano di minori garanzie istituzionalizzate – come suggerirebbe parte della letteratura sui MAC – ma invece di maggiori garanzie (Kohler-Koch e Rittberger 2007). In assenza di tali garanzie, le questioni eminentemente politiche tendono a trasformarsi in questioni puramente tecniche che possono essere facilmente dominate dalla burocrazia (Kröger 2007, 579).

In terzo luogo, la partecipazione su biglietto d’invito implica necessariamente che gli invitati siano graditi all’ospitante, nel senso che condividano con lui le impostazioni di fondo37. Questo significa l’esclusione e quindi la eliminazione di ogni spirito cri-

36 Peraltro dove la regolazione sovra-nazionale tramite strumenti come il MAC, e in generale tramite tecniche di soft-law, non dia risultati di compliance nei tempi e nelle misure previste, si ricorre a metodi di governance con potestas directa, come, ad esempio, l’imposizione dell’esecutivo ad uno Stato membro che sia stato ritenuto non ben conforme da parte della cosiddetta Troika. Anche in questo caso, nell’introdurre le nuove regole desiderate dai poteri sovra-nazionali viene comunque fatto appello ad una ricetta “medica” di inoppugnabile verità scientifica, alla quale non ci sarebbero alternative, sebbene il “medico” portatore della verità economica possa persino presentarsi ai mezzi di comunicazione con un cuore “pietoso”, come ci ricordano le lacrime istituzionali di un ministro-economista italiano costretto dalla scienza a mutare le regole della previdenza nonostante le sofferenze che così vengono inflitte ai lavoratori. 37 Questo ci ricorda il fatto (riportato in Conti e Fanti 2020, parte III) che anche Hayek e i neo-liberali scelsero fin da subito di invitare a confrontarsi nei loro convegni solo chi già condivideva con loro i presupposti teorici, essendo di certo una perdita di tempo se non di efficienza discutere con chi la pensa diversamente.

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tico contrario all’ospitante, il che non appare troppo conforme al pensiero costituzionale degli ultimi secoli. Già da come viene composto il tavolo delle procedure quali il MAC, si vede che non c’è neutralità né trasparenza: i poteri effettivamente decisori si occultano dietro l’irresponsabilità politica e l’illegittimità degli attori cooptati. Riportiamo, sul tema, le puntuali critiche rivolte da Andronico (2012, 27) alla governance, che apparentemente vuole essere solo una tecnica creativa di un ordine strutturalmente sia privo di un’origine sia privo di un soggetto che possa esserne considerato tanto l’autore quanto il responsabile, ma è facile nutrire il sospetto che questo sistema allargato di governo non abbia altro senso, in definitiva, se non quello di presentare come intrinseco un ordine destinato pur sempre a restare estrinseco. La struttura partecipativa rischia, infatti, di oscurare il modo in cui il potere continua ad essere esercitato e la capacità di un numero limitato di soggetti di orientarne le dinamiche. Per essere più chiari: il timore è che i “dirigenti” non siano scomparsi, ma si siano solo nascosti. E che si siano nascosti tra le pieghe di un processo che, presentandosi come puramente orizzontale e privo di una direzione dall’alto, consente appunto di eludere qualsiasi imputazione di responsabilità politica, così come qualunque questione di legittimazione degli attori in esso coinvolti. Del resto, è il caso di sottolinearlo: gli attori privati chiamati a partecipare sono tipicamente privi di qualsiasi legittimazione formale e democratica e il loro coinvolgimento non costituisce certo una risposta a questo problema. Si è parlato, a tal proposito, di deficit democratico. E non a torto. Ciò che si rischia di occultare, infatti, è proprio il momento della scelta degli attori da includere nelle dinamiche di governo. E di conseguenza il problema della loro legittimazione.

Osserva ancora Kröger: «se la partecipazione è accordata solo a coloro che condividono più o meno un’interpretazione comune del mondo, mentre l’accesso è negato a coloro che hanno visioni fondamentalmente divergenti, un probabile risultato è che le critiche non sono possibili all’interno del sistema dei MAC» (Kröger 2007, 579). Nel complesso, rispetto alla tecnica di governance dei MAC applicata ad ambiti sociali, potremmo condividere le seguenti conclusioni: «Anche in caso di miglioramento degli aspetti procedurali dei MAC sociali, è probabile che facciano più danni alla democrazia europea che offrire opportunità per migliorarla» (Kröger 2007, 579).

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