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Italian Pages 200 Year 2023
Giovanni Zagni, giornalista, è direttore di Pagella Politica dal 2017. Fa parte del comitato esecutivo dell’European Digital Media Observatory (EDMO) e del gruppo di esperti sull’integrità dell’informazione online (MSIINF) del Consiglio d’Europa.
Bugie al potere
Carlo Canepa è responsabile editoriale di Pagella Politica dal 2021. Ha collaborato con «Internazionale», «Valigia Blu» e «Good Morning Italia». Come co-autore ha scritto un libro sulla divulgazione scientifica e il calcio e una raccolta di racconti illustrati per bambini.
Davvero l’Italia cresce più di tutti in Europa e gli sbarchi di migranti stanno calando? È vero che i ghiacciai si sciolgono per cause naturali? Dai rave party al ponte sullo Stretto, tutte le volte che il governo Meloni non l’ha raccontata giusta.
Bugie al potere Il fact-checking del governo Meloni
ISBN 979-12-2230-303-1 Mimesis Edizioni www.mimesisedizioni.it
16,00 euro
9 791222 303031
MIMESIS
Dal 2012 Pagella Politica è il principale sito di fact-checking politico in Italia. La sua missione è controllare se i politici dicono la verità e aiutare i lettori a comprendere che cosa muove le dinamiche della politica, basandosi su fatti e numeri. Bugie e promesse non mantenute hanno toccato da vicino il governo Meloni, di cui il 22 ottobre 2023 ricorre il primo anniversario dell’insediamento. Che bilancio possiamo trarre da questi dodici mesi? I proclami della campagna elettorale sono stati effettivamente realizzati? Qualche membro del governo ha mentito? I provvedimenti promossi si basano su dati e informazioni veritieri? Dall’esperienza di Pagella Politica nasce Bugie al potere, un saggio che valuta l’operato del governo analizzandone oltre 50 dichiarazioni tra le più controverse. Economia, immigrazione, lavoro, cambiamenti climatici, Unione europea e Pnrr: per ognuno di questi temi il libro spiega gli errori del governo – senza risparmiare i partiti di opposizione – mostrando come spesso il dibattito politico italiano poggi su falsi miti e luoghi comuni.
Carlo Canepa, Giovanni Zagni
Bugie al potere Il fact-checking del governo Meloni
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Isbn: 9791222303031 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 21100089
INDICE
Introduzione. Che cos’è il fact-checking7 1.
«Blocco navale subito!» Le bugie sull’immigrazione
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2.
Ponti sullo Stretto e redditi di cittadinanza Le bugie sul lavoro e sui sussidi
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3.
«Abbiamo completamente invertito la tendenza» Le bugie sull’economia
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4.
Mes, euro e Pnrr Le bugie sull’Europa
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5.
Rave party, Ucraina e CO2 Le bugie su tutto il resto
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6.
Ce n’è anche per gli altri Le bugie dell’opposizione
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Conclusione. Il senso del fact-checking195
Introduzione Che cos’è il fact-checking
S
i può dire la verità, mentendo? Il 5 marzo 2018, quando era chiaro da poche ore il risultato storico del Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche del giorno precedente – sì, sembra un secolo fa – Luigi Di Maio tenne la conferenza stampa della vittoria. In un breve messaggio davanti a una selva di telecamere, l’esponente più in vista del M5S disse che il movimento aveva ottenuto una «vittoria assoluta», ringraziò gli elettori per la fiducia, ricordò i fondatori Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Poi passò alle cifre del successo: «Un grazie e un in bocca al lupo vanno ai nuovi eletti, perché il Movimento 5 Stelle triplica il numero dei parlamentari nelle due camere. E questo è un grandissimo risultato – continuò Di Maio – che tra l’altro avevamo anche annunciato durante la campagna: che avremmo almeno triplicato il numero dei parlamentari». Il successo nei seggi era la conseguenza di un clamoroso risultato elettorale: «Ci sono intere regioni dove ci ha votato oltre il 50 per cento dei cittadini – disse subito dopo Di Maio –, più di un cittadino su due, in intere regioni di questo Paese, ha votato per il movimento». In quella conferenza stampa, al massimo dell’attenzione post-voto, furono consegnati ai giornalisti e al pubblico due dati: i deputati e senatori del M5S erano triplicati, e regioni intere avevano dato al movimento la maggioranza assoluta.
Si trattava però di due dati sbagliati, due errori tanto più notevoli perché molto facili da controllare. Alle elezioni politiche del 2013, il M5S – al suo primo appuntamento con le urne – portò in Parlamento 108 deputati e 54 senatori, per un totale di 162 parlamentari. Cinque anni più tardi, il movimento aggiunse oltre due milioni di voti al risultato precedente, passando da 8,7 milioni di voti (alla Camera) a 10,7 milioni. Gli eletti pentastellati furono 227 alla Camera e 112 al Senato, per un totale di 339. Per quanto si tratti senz’altro di un guadagno notevole, il numero dei parlamentari è poco più che raddoppiato, e non triplicato come dichiarò Di Maio. Anche la frase sui risultati regionali era falsa. Soltanto in una delle circoscrizioni elettorali in cui era divisa l’Italia, se guardiamo ai risultati dei collegi uninominali e della Camera – dove il Movimento 5 Stelle andò leggermente meglio – il M5S superò il 50 per cento dei voti. Era la circoscrizione Campania 1, che corrisponde alla città metropolitana (ex provincia) di Napoli. Aggregando però i voti ottenuti dal M5S nelle due circoscrizioni campane, la percentuale regionale scendeva al 47,85 per cento. In altre parole: in nessuna regione italiana, nonostante quanto dichiarato da Di Maio, il M5S aveva avuto più della metà dei voti espressi. E questo anche senza considerare che l’affluenza delle elezioni politiche del 2018 è stata del 73 per cento: dunque «più di un cittadino su due» trasmette un’idea ancora più distorta. Eppure, in qualche modo Di Maio aveva ragione. Non tanto sulla definizione numerica del risultato del Movimento – come abbiamo visto, parecchio fuori scala – ma nell’affermazione che esso fosse uscito vincitore, oltre le aspettative, nelle consultazioni del 4 marzo 2018. Viene quindi da chiedersi: perché, nel momento 8
Che cos’è il fact-checking
del trionfo, Luigi Di Maio trovò necessario usare dei numeri (sbagliati) per esprimere un concetto giusto? Di Maio, peraltro, era ed è in ottima compagnia. Il discorso della classe politica italiana si è riempito negli ultimi anni di cifre, dati, statistiche. In un qualsiasi talk show serale, gli ospiti politici di ogni schieramento sostengono le loro posizioni facendo ricorso ai numeri. Le guerre politiche di questi mesi sono anche guerre di cifre. Sull’immigrazione, per esempio: chi è favorevole a un approccio più rigido ricorda il totale degli sbarchi o le spese sostenute per l’accoglienza; chi sostiene una politica di apertura si basa sulla riduzione degli arrivi dopo i provvedimenti presi con Marco Minniti ministro dell’Interno o l’apporto dell’immigrazione all’economia e al sistema previdenziale italiano. In un dibattito politico pieno di numeri, diventa importante scoprire se quei numeri sono corretti o meno. La missione di Pagella Politica, progetto nato alla fine del 2012, è analizzare la veridicità delle dichiarazioni politiche. Ogni giorno monitoriamo i social network, le trasmissioni televisive, le interviste radiofoniche o sui giornali, cartacei e online, e selezioniamo le dichiarazioni verificabili. Non tutte le dichiarazioni possono essere verificate. Se un politico fa una previsione per il futuro, non è possibile dire se si realizzerà, vista l’impossibilità dei viaggi nel tempo; se si esprime in modo troppo vago o generico, per esempio dicendo che il suo governo «è il migliore degli ultimi trent’anni», la verifica è altrettanto impossibile. Per valutare la qualità generale di un governo, infatti, ci sono troppi parametri possibili e inevitabilmente il giudizio di valore dipenderà dalle preferenze politiche di ciascuno. Le dichiarazioni verificabili più semplici, e nelle prossime pagine ne troverete molti esempi, sono quelle in cui si fa riferimento a numeri o fatti precisi: come per esempio quanto è cre-
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sciuto il Prodotto interno lordo o il prezzo della benzina, quanti migranti sono arrivati in Italia in un certo periodo di tempo, quali Paesi in Europa hanno il salario minimo. In questi e in molti altri casi, ci sono fonti affidabili e ragionevolmente sicure che permettono di fare un controllo. Un altro genere di dichiarazione politica particolarmente diffuso e in generale verificabile è quello delle classifiche internazionali, in cui un politico confronta l’Italia con i Paesi europei o del resto del mondo per segnalare primati nazionali da rivendicare o ultime posizioni da correggere. Anche in questo ambito, per fortuna, le classifiche sono spesso pubblicamente disponibili e la verifica ne è facilitata. Ma i politici non si limitano a citare dati e fatti. Il loro fine dopotutto non è tanto informare quanto convincere l’elettorato a sostenerli. Molte dichiarazioni quindi partono magari da un dato o da un fatto per creare collegamenti, individuare cause, giustificare scelte. Se l’economia cresce è sempre merito del governo in carica, anche se ha vinto le elezioni solo tre mesi prima, e se la disoccupazione cala è merito di una misura recente, anche se molti altri fattori potrebbero aver avuto un ruolo. Quando si affronta questo tipo di dichiarazioni, allora, il lavoro di verifica diventa quello di approfondire se, per esempio, i meriti di quel successo economico si possano stabilire con certezza o i collegamenti tra una certa legge e una conseguenza nella vita dei cittadini abbiano solide basi anche in ricerche indipendenti. In poche parole: fornire contesto, dare al pubblico informazioni aggiuntive su un tema di attualità nel dibattito politico. Questo tipo di lavoro di informazione ha preso il nome di fact-checking o “verifica dei fatti”. Sotto questa etichetta si sono chiamati una serie di progetti nati negli Stati Uniti nei primi anni Duemila, il più famoso dei quali è forse PolitiFact, vincitore di un premio Pulitzer 10
Che cos’è il fact-checking
nel 2009 per la sua copertura della prima campagna elettorale di Barack Obama nelle elezioni presidenziali dell’anno precedente. Il tratto comune di questi progetti è appunto quello di dedicare il cuore della propria produzione editoriale alla verifica delle dichiarazioni pubbliche degli esponenti politici. Dopo i primi esempi statunitensi, molti altri progetti simili sono nati negli anni successivi con la stessa missione un po’ in tutto il mondo, spesso mutuando da PolitiFact l’intuizione di assegnare un “verdetto” sintetico di veridicità al termine dell’analisi (vero, falso, nì…). In realtà, nel mondo giornalistico statunitense factchecking ha sempre avuto anche un altro significato. Nelle redazioni dei periodici di informazione, celeberrime testate settimanali o mensili come l’«Atlantic», il «New Yorker», «TIME» e così via, furono stabiliti intorno agli anni Venti del Novecento (su intuizione di Henry Luce, fondatore di «TIME») gruppi di redattori, di solito giovani, donne e al primo impiego, che avevano il compito di controllare tutti i fatti verificabili negli articoli destinati alla pubblicazione. In concreto, questi redattori ricevevano le bozze dagli autori, non di rado chiedevano anche tutti i materiali preparatori (inclusi block notes, appunti presi duranti le interviste, ritagli di giornale e così via) e poi passavano in rassegna con pazienza i numeri o i fatti contenuti nella bozza dell’articolo, spuntando quelli corretti con un tratto di penna a margine. Un lavoro piuttosto ingrato e non riconosciuto, ma che per decenni ha caratterizzato le pubblicazioni ritenute più autorevoli nel mercato dei periodici statunitensi. La crisi dei periodici sul finire del secolo scorso ha portato alla chiusura di molte di queste sezioni di verifica interna: «Newsweek», per esempio, l’ha eliminata nel 1996, causando un certo scandalo tra gli addetti ai lavori quando, diversi anni dopo, un suo portavoce dichiarò
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che la pubblicazione si basava solo sul lavoro degli autori stessi per fornire «materiale fattualmente accurato». Diversi notarono che la scelta era uno dei sintomi di un giornalismo in crisi di qualità. Altri periodici hanno invece mantenuto robusti dipartimenti interni di factchecking, il più celebre del quale è il settimanale «The New Yorker». Ma il fact-checking redazionale, o interno, è un procedimento abbastanza differente dal lavoro di PolitiFact: nel primo caso si tratta di una verifica generalizzata di tutti i dati e i fatti contenuti in materiale non ancora pubblicato, mentre nel secondo ci si concentra su informazioni già disponibili. Il primo è un controllo ex ante, il secondo una verifica ex post. Quando l’esperto giornalista di una grande testata dice che «il fact-checking si è sempre fatto», o «il fact-checking è la base del lavoro giornalistico», confonde un processo redazionale specifico, particolarmente formalizzato nelle redazioni degli Stati Uniti per gran parte del secolo scorso, con un genere giornalistico piuttosto recente. Un genere che ha avuto un discreto successo iniziale, come testimoniano i prestigiosi riconoscimenti di PolitiFact, ma che sarebbe forse rimasto a vivacchiare ai margini del mondo dei media se non avesse avuto la fortuna inaspettata di incrociare uno dei temi del dibattito globale più rilevanti degli ultimi anni, giunto agli onori delle cronache in modo del tutto indipendente: quello sulla disinformazione. C’è una vera e propria data di nascita per l’interesse di massa verso il fenomeno delle bufale e della disinformazione: l’8 novembre 2016. Quel giorno Donald J. Trump fu eletto presidente degli Stati Uniti e molti si concentrarono, nelle spiegazioni per quel risultato fuori dall’ordinario, sulla diffusione di notizie inventate tramite i social network e sulla tendenza del neoeletto a fare dichiarazioni 12
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Che cos’è il fact-checking
dal grado di verosimiglianza discutibile, a esser generosi. Gli elettori, però, sembravano non farci caso più di tanto: segno di una profonda divisione tra chi – in primo luogo gli avversari politici e la stampa – si affannava a considerare quelle di Trump sparate improbabili e implausibili, e chi invece vi leggeva un messaggio politico radicale e in definitiva seducente. Nella fortunata formulazione di un articolo pubblicato dal settimanale «The Atlantic» poco più di un mese prima delle elezioni americane, «la stampa prende [Trump] alla lettera, ma non sul serio; i suoi sostenitori lo prendono sul serio, ma non alla lettera»1. Trump portava l’uso creativo della verità, per così dire, a nuovi livelli, tanto da segnare secondo molti commentatori un nuovo modo di rapportarsi con gli elettori: a settembre del 2016 una copertina del prestigioso «The Economist» recitava Art of the Lie. Post-truth politics in the age of social media2, e due giorni dopo l’elezione di Trump Oxford Dictionaries, una divisione della Oxford University Press, scelse proprio post-truth come parola dell’anno. Non era solo una questione che riguardava la comunicazione politica dei candidati: durante l’estate che precedette il voto erano apparse le prime inchieste su alcuni intraprendenti ragazzi in diversi luoghi del mondo – dal Canada al paesino di Veles, in Macedonia – che avevano sfruttato la produzione di notizie false e la capacità di farle diventare virali sui social network, in particolare Facebook, per guadagnare soldi che a volte equivalevano a un decoroso stipendio. Tra 2016 e 2017 sono entrate nel dibattito pubblico globale diverse nuove espressioni, fino ad allora destinate ai dibattiti tra specialisti o alle trovate verbali degli opinionisti più fantasiosi. Una di queste, fake news, ha S. Zito, Taking Trump Seriously, Not Literally, in «The Atlantic», 23 settembre 2016. «The Economist», 10 settembre 2016.
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avuto un successo rapidissimo e duraturo, mentre altre, come “post-verità”, solo qualche mese di gloria prima di scomparire. Sembra straordinario, ma parliamo di “fake news” da appena sette anni, e il termine è stato poi usato così spesso a sproposito e in contesti così diversi che gli esperti consigliano ormai di non usarlo più, tanto il suo significato è stato distorto e decontestualizzato. Anche in Italia abbiamo visto esponenti politici (e non solo) usare fake news come sinonimo di argomento o idea con cui erano in disaccordo, dimenticando che perché qualcosa si possa chiamare “notizia falsa” dovrebbe essere in primo luogo… una notizia, e non un’opinione, una previsione o un punto di vista. Nonostante sia ormai stata screditata da un uso vago e strumentale da parte di politici, opinionisti e, ahinoi, anche giornalisti, fake news – letteralmente “notizie contraffatte”, per mantenere quell’aspetto di imitazione del reale che si perde con l’espressione “notizie false” – è in realtà un’espressione utile per descrivere con precisione un fenomeno proprio di questi tempi. Un esempio aiuterà a chiarire quale. Nel novembre 2016, un oscuro sito chiamato «Italiani Informati» pubblicò un articolo con un titolo che, con tutta la baldanza delle sue maiuscole, recitava: «NOTIZIA SHOCK! Referendum: trovate 500.000 schede già segnate col “SÌ”. CONDIVIDETE!». Il riferimento era al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, allora distante poche settimane. L’articolo diceva che in un inesistente paesino italiano era stato scoperto mezzo milione di schede contraffatte, con l’esito che avrebbe favorito il governo e l’assenso alle modifiche costituzionali proposte dal governo Renzi. Nonostante la fonte sconosciuta e la presunta notizia altamente improbabile, quel singolo articolo suscitò centinaia di migliaia di reazioni – condivisio14
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Che cos’è il fact-checking
ni, “mi piace” e commenti – sui principali social network: circa 230 mila, secondo uno strumento di analisi molto utilizzato nel campo3. Ma c’è di più: tra ottobre e novembre del 2016 era stato il singolo articolo più commentato e condiviso sui social network in italiano tra tutti quelli che avevano “referendum” nel titolo. Al secondo posto di questa particolare classifica c’era una notizia vera (una richiesta di rinvio della consultazione), mentre al terzo posto c’era un articolo secondo cui la popolare comica Luciana Littizzetto avrebbe annunciato il ritiro in caso di vittoria del no. Sia questa che il ritrovamento delle schede già votate erano, naturalmente, notizie del tutto inventate. Ma erano state create con attenzione, in modo da sembrare verosimili, almeno a una parte del pubblico: nel caso di Littizzetto, la vittima era un personaggio famosissimo e dalle note idee progressiste. Nel caso delle schede già votate, si faceva leva sulla totale sfiducia nel governo e nelle istituzioni, aggiungendo un invito all’azione (come la condivisione) e puntando all’immediata reazione sdegnata dei lettori. L’obiettivo erano utenti dei social network meno esperti, lasciando sul sito solo tenui indizi – al di là dell’improbabilità della notizia in sé – che non si trattasse di un vero portale di informazione4. E infatti moltissimi utenti le avevano prese sul serio. Sul profilo Facebook di Luciana Littizzetto, diverse persone lasciarono commenti chiedendo conto del presunto annuncio del ritiro, a cui dovette rispondere la stessa Pagella Politica, La notizia più condivisa sul referendum? È una bufala, 2 dicembre 2016. Su «Italiani Informati» c’era una nota in fondo alla pagina principale, assai poco visibile, che chiariva si trattasse di «un sito satirico» e che quindi «alcuni articoli» lì pubblicati «non corrispondono alla veridicità dei fatti». Il sito oggi non è più accessibile.
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comica definendo «follia» la circolazione di quelle voci. I due episodi sono esempi perfetti di fake news, che potremmo definire così: informazioni del tutto inventate, prodotte in malafede con l’intento di ottenere massima diffusione. Non sfuggirà che le due notizie false di cui sopra non erano state pronunciate da politici, anche se toccavano un tema politico (il referendum costituzionale). Il rapporto tra il fenomeno contemporaneo della disinformazione e la politica infatti è piuttosto complicato e può dare adito a fraintendimenti. È vero che alcuni esponenti politici, tra cui Donald Trump (ma abbiamo anche esempi nostrani), hanno fatto da grancassa a contenuti di disinformazione. Ed è vero che, visto il grande seguito di cui dispongono sia tramite i loro profili sui social network sia tramite l’attenzione che possono ottenere dai media tradizionali, una storia falsa proposta da politici molto seguiti è in grado di raggiungere con rapidità moltissime persone. È però altrettanto vero che, in generale e limitandosi al nostro Paese, nel normale dibattito politico non si discute delle questioni del giorno a colpi di notizie del tutto inventate, campate in aria, in una parola false. Gran parte dei casi più evidenti di disinformazione si diffondono per lo più online e rimangono confinati magari in gruppi chiusi sulle applicazioni di messaggistica, oppure su qualche pagina dei social network, o in luoghi virtuali molto lontani sia dai media più diffusi che dalle dichiarazioni dei rappresentanti eletti o dei candidati. È in questi margini – rispetto al discorso portato avanti sui grandi media – che circola la grande maggioranza dei contenuti di disinformazione: come foto fuori contesto, scattate magari anni fa e spacciate per recenti; oppure video manipolati; o ancora teorie del complotto strampalate e senza un grande collegamento con la realtà. 16
Che cos’è il fact-checking
Quando i due mondi del discorso mainstream e della disinformazione si toccano, i risultati sono spesso stranianti. Nel maggio 2020, l’allora deputata del Gruppo Misto Sara Cunial pronunciò alla Camera un discorso che conteneva una vera e propria rassegna delle teorie del complotto con protagonista Bill Gates e con oggetto i vaccini, parlando di «milioni di donne sterilizzate in Africa», di «tattoo quantici», di «500 mila bambini paralizzati» dai vaccini in India. Nessuno di questi dati, anche senza arrivare ai tattoo quantici, resisteva a una ricerca attenta, ma il discorso di Cunial era particolarmente significativo e venne notato da molte persone perché costituiva, tutto sommato, un’eccezione piuttosto vistosa nel panorama dei discorsi parlamentari. Quando, nel 2016 e 2017, il tema della disinformazione è arrivato sulle prime pagine di tutti i giornali, il lavoro di chi si occupava di verificare le dichiarazioni politiche ha acquistato nuova rilevanza. Da un lato, i progetti di fact-checking discendenti di PolitiFact hanno allargato il loro campo di indagine fino a includere anche i casi di disinformazione che non avevano a che fare strettamente con la politica. Dall’altro, sono stati inclusi nel mondo del fact-checking anche altri progetti, in alcuni casi già esistenti, in altri nati proprio sull’onda di quel dibattito globale, che non avevano al centro della loro attività quella di verificare quanto dichiarato da candidati o rappresentanti eletti. Un ottimo esempio è Snopes, sito statunitense fondato all’inizio degli anni Novanta e a lungo specializzato in leggende metropolitane. Il sito perfetto, per intendersi, su cui trovare la risposta alla domanda se nelle fogne di New York ci siano davvero i coccodrilli (in breve: non c’è nessuna colonia, anche se qualcuno negli anni c’è finito). Per anni Snopes è stato un sito piuttosto conosciuto negli Stati Uniti, anche se nessuno lo considerava o lo avrebbe defi-
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nito in primo luogo un sito di fact-checking. Quando il tema della disinformazione è finito al centro dell’attenzione a livello globale, però, il lavoro di Snopes è stato incluso senza troppi scossoni nel movimento del fact-checking globale, che oggi, secondo il censimento curato dal Reporters’ Lab dell’Università Duke, conta oltre 400 progetti attivi (da appena undici nel 2008) in oltre cento Paesi e in una settantina di lingue. L’etichetta di “fact-checking”, insomma, per qualche tempo utilizzata soltanto per i progetti di informazione dedicati alla veridicità delle dichiarazioni politiche, è stata applicata dopo il 2016 anche a chi si occupava di bufale o leggende metropolitane o teorie del complotto, un lavoro piuttosto diverso per pubblico, finalità e strumenti (tanto da essere chiamato a volte con un nome diverso, debunking) ma accomunato dalla valutazione di veridicità di un contenuto disponibile pubblicamente. Oggi Pagella Politica si occupa soltanto di fact-checking e informazione politica, mentre il progetto parallelo Facta.news, lanciato nell’aprile 2020, si concentra sul debunking. Da una parte la verifica delle dichiarazioni politiche, dall’altra l’analisi delle bufale online, visto che si tratta in larga parte, come abbiamo visto, di fenomeni separati. Nonostante si occupi solo di politica, il fine del lavoro di Pagella Politica non è convincere nessuno a votare per questo o quel partito, né fare una classifica di chi faccia più errori o dica più bugie. Lo strumento utilizzato è quello di analizzare le dichiarazioni e assegnare persino giudizi riassuntivi chiamati “verdetti”, ma la missione di Pagella Politica è prima di tutto quella di informare: dare cioè al pubblico uno strumento in più con cui analizzare la realtà che lo circonda e con cui approfondire i temi del dibattito politico. Come sarà chiaro nelle pagine che seguono, i politici italiani 18
Che cos’è il fact-checking
fanno ampio uso di numeri e dati per sostenere le loro convinzioni, difendere le misure che propongono, attaccare gli avversari: è normale che cerchino di fornire l’interpretazione a loro più favorevole e che scelgano i numeri che fanno loro più comodo. Quello che fa un progetto di fact-checking come Pagella Politica è andare a vedere in primo luogo se i numeri sono giusti, ma più in generale se ci sono altre interpretazioni possibili, se la versione dei fatti proposta è davvero la più solida o la più probabile. Naturalmente chi fa questo lavoro ha le proprie convinzioni sulla politica, la società e il mondo che lo circonda, ma lo sforzo costante della redazione è quello di mettere da parte i propri pregiudizi, o di tenerli in considerazione con onestà per provare a eliminarli dal quadro, per dare uno sguardo il più possibile onesto e obiettivo sui temi di cui si occupa. In molti casi è possibile identificare errori incontrovertibili: se un esponente politico dice che l’Italia cresce più di tutti in Europa, quando guardando alla classifica è più o meno a metà, non c’è molto spazio per interpretazioni alternative. Altre volte il fact-checking è uno strumento utile a capire quali sono le strategie retoriche, gli schemi narrativi, i luoghi comuni che informano il dibattito politico. In generale i mezzi di informazione, ma anche gli stessi politici, sembrano apprezzare sempre di più questo lavoro: secondo una ricerca di Cattaneo Zanetto & Co. e YouTrend/Quorum pubblicata a fine marzo 2023, il 38 per cento dei parlamentari dell’attuale legislatura hanno dichiarato di consultare Pagella Politica almeno una volta alla settimana, con percentuali equamente distribuite tra membri della maggioranza (39 per cento) e dell’opposizione (37 per cento). Nei sei capitoli che seguono abbiamo fatto una rassegna degli errori e delle omissioni, delle distorsioni e
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delle esagerazioni fatte da esponenti del governo nel suo primo anno di vita. Non abbiamo risparmiato neppure l’opposizione, a cui abbiamo dedicato un capitolo finale. Il governo guidato da Giorgia Meloni è entrato in carica il 22 ottobre 2022, dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni politiche del 25 settembre. Formato da una coalizione con Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati, è stato descritto, anche dalla stampa estera, come il governo più a destra dalla Seconda guerra mondiale. Pagella Politica ha ripreso a fare quanto ha sempre fatto durante tutti i governi precedenti da oltre dieci anni, cioè verificare quanto detto dai politici italiani. In un anno, dal giorno delle elezioni al 13 settembre 2023, abbiamo verificato quasi 200 dichiarazioni della nuova presidente del Consiglio, trovandone 80 attendibili, 49 imprecise e 58 poco o per nulla attendibili. La stessa Giorgia Meloni ha dimostrato di conoscere il nostro lavoro, dedicandoci un siparietto piuttosto divertente, per quanto critico, durante un comizio ad Ancona all’inizio di maggio del 2023, nel corso del quale ci ha definito «quelli che ti devono contestare per forza». Per motivi comprensibili, lo strumento del fact-checking, che vuole controllare e dare contesto alle dichiarazioni politiche, ottiene piuttosto di rado le lodi di chi ne è oggetto. Ma noi speriamo che sia uno strumento utile per cittadini un po’ più informati e magari anche per un dibattito politico migliore.
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Che cos’è il fact-checking
Il contenuto di questo libro è basato sugli articoli di factchecking pubblicati sul sito di Pagella Politica nel corso degli ultimi mesi. I testi originali sono stati editati, riadattati e aggiornati, ma la loro versione iniziale – con i link alle fonti consultate – si può leggere all’indirizzo www. pagellapolitica.it. Gli autori desiderano ringraziare i collaboratori di Pagella Politica Laura Loguercio e Massimo Taddei, oltre a Federico Gonzato e Davide Leo, che con il loro lavoro quotidiano di giornalisti di Pagella Politica hanno dato un contributo fondamentale a questo libro e continuano a darlo al progetto. Ogni errore o imprecisione (speriamo non troppe!) sono di responsabilità degli autori.
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Le bugie sull’immigrazione
«Blocco navale subito!»
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26 «Un evento senza precedenti» 27 «Gli sbarchi aumentano… ma calano» 28 «Con la sinistra ne sono arrivati un milione» 30 «Quando c’ero io al Viminale…» 33 «Che li portassero in Norvegia» 36 «Le Ong attirano i migranti» 39 «I pullman sono costosi, ma…» 40 «C’è stato un cambio di approccio dell’Ue» 43 «La protezione speciale? Colpa degli altri» 46 «Ce l’abbiamo solo noi» 47 «Nove migranti su dieci sono spinti da ragioni economiche» 51
«Non bisogna arrendersi alla sostituzione etnica»
«
L’unica svolta seria sarebbe quella di fermare l’invasione attraverso un blocco navale al largo delle coste libiche». Così scriveva il 31 dicembre 2016 la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, in un post sulla sua pagina Facebook. All’epoca Pagella Politica curava la sezione di fact-checking del sito dell’agenzia di stampa Agi e decidemmo di occuparci di quella dichiarazione con un articolo pubblicato online il 4 gennaio 2017. Lì spiegavamo perché era impossibile impedire l’arrivo dei migranti con un blocco navale, o meglio che ciò sarebbe stato possibile soltanto dichiarando guerra alla Libia, in quei mesi nel mezzo del caos della guerra civile. Questo perché il blocco navale è una misura militare con cui si impedisce con la forza a qualsiasi nave di uscire dai porti di una certa zona di un altro Paese, con limitatissime eccezioni. È disciplinato dal diritto bellico marittimo ed è a tutti gli effetti un’azione di guerra. «Non sono d’accordo: ribadisco che il blocco navale si può fare e che è l’unica strada percorribile per fermare l’esodo biblico che sta investendo l’Italia», aveva risposto Meloni al nostro fact-checking, ripetendo che secondo lei il blocco navale era un «atto di legittima difesa e quindi consentito anche dal diritto internazionale». Per anni Fratelli d’Italia ha difeso la proposta del blocco navale, ma con l’avvicinarsi delle elezioni politiche del 25 settembre 2022, alle quali Fratelli d’Italia 24
Le bugie sull’immigrazione
arrivava in testa a tutti i sondaggi, le cose iniziarono a cambiare. A pochi giorni dal voto il responsabile del programma di Fratelli d’Italia Giovanbattista Fazzolari disse in un’intervista con «Il Foglio» che il blocco navale era una «scorciatoia semantica». Insomma, quello che di lì a poco sarebbe diventato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri lasciava intendere che uno dei cavalli di battaglia del suo partito non andasse preso davvero alla lettera. Secondo Fazzolari, con “blocco navale” Fratelli d’Italia non faceva riferimento a quella misura contemplata dal diritto bellico marittimo con cui si impedisce l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di un Paese in guerra. La proposta era invece quella di creare una «missione militare europea, realizzata in accordo con le autorità libiche, per impedire ai barconi di immigrati di partire in direzione dell’Italia». Fattibilità o meno del blocco navale, i numeri mostrano un quadro incontestabile per quanto riguarda i primi mesi in cui il governo guidato da Fratelli d’Italia – vincitore delle elezioni del 25 settembre 2022 – è stato in carica. Secondo i dati del ministero dell’Interno, nei primi otto mesi del 2023 sono sbarcati sulle coste italiane circa 110 mila migranti: quasi il triplo di quelli arrivati nello stesso periodo del 2021 e il doppio degli sbarchi registrati tra gennaio e agosto 2022. Se si aggiungono gli oltre 23 mila sbarchi avvenuti tra il 22 ottobre 2022 – giorno dell’insediamento del governo di Giorgia Meloni – e il 31 dicembre 2022, gli sbarchi sotto l’attuale governo di destra superano la quota di 130 mila.
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Gli sbarchi di migranti in Italia Numero di arrivi tra il 1° gennaio e il 29 agosto 120.000
100.000
80.000
60.000
40.000
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Fonte: Ministero dell’Interno
«Un evento senza precedenti» Di fronte al continuo aumento degli sbarchi e archiviata la “scorciatoia semantica” del blocco navale, vari esponenti del governo hanno iniziato a ripetere che la responsabilità della crescita degli arrivi non fosse dell’esecutivo e che poco si potesse fare per rallentare gli arrivi, nonostante anni di promesse in direzione opposta. Questo cambio di rotta si vede bene nelle stesse dichiarazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. A marzo 2023 la leader di Fratelli d’Italia ha ripetuto in diverse occasioni che alla frontiera marittima meridionale dell’Europa si stava assistendo a una «pressione migratoria senza precedenti». In realtà i precedenti ci sono. Nei primi tre mesi del 2023 gli arrivi di migranti sulle coste italiane sono stati più di 20 mila: dati ben più alti di quelli registrati negli anni precedenti, è vero, ma nello stesso periodo del 2017 e del 2016 i numeri erano stati simili 26
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se non maggiori. Alla fine del 2016 erano sbarcati in Italia oltre 180 mila migranti nel corso dell’anno, il numero più alto di sempre, mentre nel 2017 gli arrivi annuali furono circa 118 mila, con un calo dovuto in larga parte, con ogni probabilità, ai criticati accordi sottoscritti dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti (Partito Democratico) con alcune fazioni libiche. Nel solo mese di ottobre 2016 gli sbarchi furono oltre 27 mila: più di tutti quelli registrati nei primi tre mesi del 2023. «Gli sbarchi aumentano… ma calano» Passati alcuni mesi di governo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (indipendente, ma considerato vicino alla Lega) ha cercato di dare una lettura diversa sui dati degli sbarchi: dall’implicita dichiarazione di impotenza per un fenomeno senza precedenti (che però c’erano) all’annuncio che gli arrivi via mare fossero in calo. A gennaio 2023, ospite a L’aria che tira su La7, Piantedosi ha difeso l’operato dell’esecutivo dicendo che nei primi due mesi di azione del governo Meloni c’era stata una «flessione della curva di crescita» degli sbarchi dei migranti in Italia «rispetto all’anno precedente». In pratica il ministro non smentiva che gli sbarchi fossero in aumento, anche perché i dati erano inequivocabili. Ma comunque sosteneva che un calo c’era, o meglio: che gli sbarchi stavano aumentando meno rispetto al passato. I numeri però gli davano torto. Tra il 22 ottobre e il 22 dicembre 2022, ossia nei primi due mesi del governo Meloni, sono sbarcati sulle coste italiane più di 23 mila migranti. Nello stesso periodo del 2021, durante il governo di Mario Draghi, gli sbarchi erano
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stati circa 12 mila. Nell’intervallo di tempo indicato da Piantedosi c’è stato dunque un aumento degli sbarchi dell’86 per cento. La percentuale di crescita raggiunge quasi il 100 per cento se si guarda il periodo tra il 22 ottobre 2022 e il 10 gennaio 2023, il giorno dell’intervista del ministro. In quei quasi tre mesi gli sbarchi in Italia sono di fatto raddoppiati rispetto allo stesso periodo a cavallo tra il 2021 e il 2022. Le cose non cambiano se si guarda a dati ancora precedenti. Tra il 22 ottobre 2020 e il 22 dicembre 2020, durante il secondo governo di Giuseppe Conte, gli sbarchi erano stati poco più di 7 mila, mentre nello stesso periodo del 2021 erano stati più di 12 mila. Dunque alla fine del 2021 c’era stato un aumento dell’80 per cento rispetto al 2020, una percentuale di crescita inferiore rispetto all’86 per cento registrato durante i primi due mesi del governo Meloni. Ricordiamo comunque che è un ragionamento troppo semplicistico imputare i numeri degli sbarchi soltanto alle politiche dei governi di turno. Molti fattori contribuiscono alla crescita delle partenze dal Nord Africa, e tra questi un ruolo preminente, dicono gli esperti, è svolto dall’instabilità politica dell’area e dalle condizioni meteorologiche. ● «Con la sinistra ne sono arrivati un milione» Nei primi giorni di governo un’altra strategia comunicativa è stata quella di mettere, in un certo senso, le mani avanti. In un’intervista con «Libero» pubblicata il 6 novembre 2022, per esempio, il sottosegretario al ministero dell’Interno Nicola Molteni (Lega) ha det28
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to che quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno sbarcarono in Italia appena cinquemila migranti, mentre dal 2017 in poi, «tolta la parentesi della Lega al Viminale», con la «sinistra» al governo ne sono sbarcati «quasi un milione». Questi dati erano parecchio esagerati. Come prima cosa, nei quindici mesi in cui Salvini è stato ministro dell’Interno, ossia dal 1° giugno 2018 al 5 settembre 2019, sono sbarcati in Italia oltre quindicimila migranti, più del triplo dei cinquemila indicati da Molteni. L’esponente della Lega ha poi esagerato anche il dato degli sbarchi avvenuti dal 2017 nei periodi in cui il suo partito non era al governo. Tra l’inizio del 2017 – quando al governo c’era Paolo Gentiloni (Partito Democratico), con Marco Minniti (PD) ministro dell’Interno – e maggio 2018, prima che la Lega salisse al governo, gli sbarchi erano stati quasi 133 mila. Tra settembre 2019 – quando è entrato in carica il secondo secondo governo Conte, sostenuto da PD e Movimento 5 Stelle e con Luciana Lamorgese ministra dell’Interno – e ottobre 2022, prima che entrasse in carica il governo Meloni, gli arrivi sono stati quasi 190 mila. Nel complesso stiamo parlando di circa 330 mila sbarchi e non di «quasi un milione». Tra l’altro oltre 150 mila sbarchi avvennero durante il governo Draghi, entrato in carica a febbraio 2021, di cui lo stesso Molteni faceva parte come sottosegretario dell’Interno, incarico ricoperto nel governo Meloni e in passato anche nel primo governo Conte.
Quando Salvini era ministro dell’Interno il numero dei morti in mare è sceso in valore assoluto, ma è aumentato in rapporto al numero delle partenze. 29
«Quando c’ero io al Viminale…» Il genere di dichiarazioni sulle responsabilità passate della Lega si è intrecciato con il tragico evento del naufragio al largo delle coste calabresi avvenuto a inizio 2023. Il 26 febbraio, al largo di Cutro in Calabria, 94 migranti sono morti nel naufragio di un barcone. Nelle settimane successive alla tragedia il governo Meloni e le autorità sono state criticate per i ritardi nei soccorsi e i continui rimpalli di responsabilità. In quei giorni Salvini ha rispolverato un suo vecchio cavallo di battaglia: quello secondo cui il 2019, quando lo stesso Salvini era ministro dell’Interno ed «erano in vigore i decreti “Sicurezza”», è stato l’anno con meno morti nel Mar Mediterraneo tra gli ultimi dieci. In un’occasione, ospite in radio su Rtl 102.5, Salvini ha chiesto di essere «smentito» da un eventuale factchecking. E noi abbiamo accettato il suo invito. Secondo i dati dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), nel 2019 sono morti o andati dispersi nel Mar Mediterraneo 1.335 migranti, di cui 754 nella rotta del Mar Mediterraneo centrale, quella tra il Nord Africa e l’Italia. Entrambi i numeri sono in effetti i più bassi registrati dall’Onu dal 2013 in poi, come ricorda Salvini. Le statistiche dell’Unhcr sono un po’ diverse da quelle raccolte dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), un’organizzazione intergovernativa anch’essa collegata alle Nazioni Unite. Secondo l’Oim, dal 2013 in poi l’anno con meno morti e dispersi nel Mar Mediterraneo è stato il 2020 (1.449), davanti al 2019 (1.885). Nel Mar Mediterraneo centrale nel 2020 ci sarebbero stati mille tra morti e dispersi, il numero più basso degli ultimi dieci anni davanti ai 1.262 del 2019. Secondo quest’altra serie di dati, insomma, Salvini sarebbe impreciso, perché il 2019 è al penultimo posto per numero di morti in mare e non all’ultimo. 30
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Le differenze nei numeri tra Unhcr e Oim sono spiegate dalla diversa metodologia di raccolta dei dati e dalle fonti consultate, che vanno dalle autorità nazionali alle Ong, passando per le fonti stampa e i sopravvissuti. La raccolta dei dati in questo ambito non è semplice per una serie di motivi: alcune morti avvengono in mare senza che se ne sappia nulla e spesso i cadaveri vengono ritrovati dopo diverso tempo senza essere segnalati alle autorità. Quando si parla di naufragi subentra poi la frequente impossibilità di recuperare i corpi dei migranti, così come l’estrema difficoltà di conoscere il numero esatto delle persone presenti su un’imbarcazione prima di un naufragio. I dati di Unhcr e Oim restano dunque stime: secondo entrambe il numero di persone morte o disperse nel Mediterraneo dal 2013 in poi sono circa 26 mila, con l’Oim che fornisce un numero leggermente più alto. Con il leader della Lega al ministero dell’Interno, i numeri dei morti nel Mediterraneo sono stati in ogni caso più bassi degli altri anni. Ma il punto cruciale della sua dichiarazione è un altro: qual è stato il suo contributo in questa dinamica? Secondo questa logica, politiche restrittive sull’immigrazione avrebbero un buon effetto anche dal punto di vista umanitario, riducendo il numero di partenze e dunque indirettamente anche delle vittime in mare. E durante il suo mandato Salvini si è intestato l’approvazione di due decreti legge, ribattezzati “decreti Sicurezza”, che contenevano nuove norme sull’immigrazione, generalmente più rigide. Il primo decreto “Sicurezza” è stato approvato a ottobre 2018 e convertito in legge dal Parlamento a dicembre 2018. Il secondo decreto “Sicurezza” è stato approvato a giugno 2019 e convertito ad agosto 2019, pochi giorni prima della caduta del primo governo Conte. Il primo decreto, tra le altre cose, aveva cancellato il permesso di soggiorno per motivi umanita-
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ri, mentre il secondo aveva introdotto multe per le navi Ong che facevano operazioni di salvataggio nel Mediterraneo. Entrambi i decreti “Sicurezza” sono poi stati modificati a ottobre 2020 dal secondo governo Conte, sostenuto da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico, Italia Viva e Liberi e Uguali. Visti i numeri citati in precedenza, è corretto dire, come fa Salvini, che grazie ai decreti “Sicurezza” sono diminuiti i morti nel Mediterraneo? Per prima cosa, secondo i dati dell’Unhcr, mentre Salvini era al ministero dell’Interno gli sbarchi in Italia sono stati nel complesso piuttosto bassi. Il 2018 e il 2019 sono stati i due anni, tra gli ultimi dieci, con il minor numero di arrivi sulle coste italiane: rispettivamente quasi 23 mila e oltre 11 mila. È sbagliato però attribuire un rapporto di causa ed effetto tra l’approvazione dei decreti “Sicurezza” e la riduzione degli sbarchi, con il conseguente calo dei morti in mare. Il crollo degli sbarchi in Italia, tornati a crescere negli ultimi anni, ha fatto seguito ai criticati accordi presi nell’estate del 2017 dall’allora ministro dell’Interno Minniti con alcune fazioni libiche. Si può dire che Salvini ha proseguito nel solco di quanto fatto dal suo predecessore e abbia ridotto ulteriormente l’immigrazione irregolare via mare, senza mai estinguerla del tutto. Uno studio pubblicato nel 2020, realizzato da Eugenio Cusumano, ricercatore in Relazioni internazionali dell’Università di Leiden, nei Paesi Bassi, e da Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), ha calcolato che quando Salvini era ministro dell’Interno il numero dei morti e dei dispersi nel Mediterraneo centrale è sceso in valore assoluto, ma è aumentato in rapporto al numero delle partenze dalla Libia. In concreto «il rischio di attraversare il Mediterraneo è triplicato», hanno scritto i due 32
I morti nel Mar Mediterraneo centrale Numero di morti o dispersi dal 2014 al 2023. I dati del 2023 sono aggiornati al 29 agosto
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ricercatori, basandosi su dati dell’Unhcr e dell’Oim. Tra giugno e dicembre 2018 è morto o è risultato disperso il 5,7 per cento dei migranti che sono partiti dalla Libia, tra gennaio e agosto 2019 il 6,7 per cento. Tra gennaio 2016 e maggio 2018 la percentuale era del 2 per cento circa.
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Fonte: Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM)
●● «Che li portassero in Norvegia» Ma oltre alle rivendicazioni sul passato e alle dichiarazioni di parziale impotenza, il governo ha anche provato a dare un’interpretazione nuova delle norme sul diritto di asilo. Appena si è insediato il governo Meloni, vari suoi esponenti hanno riproposto una tesi difesa per anni dai partiti di destra all’opposizione. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre 2022 il ministero dell’Interno ha negato l’avvicinamento alle coste ita33
liane di tre navi gestite da Ong e battenti bandiera norvegese e tedesca, con a bordo quasi mille migranti. La logica è stata spiegata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi il 2 novembre 2022, in un’intervista con il «Corriere della Sera». Piantedosi ha dichiarato che i Paesi di cui battono bandiera le navi Ong dovrebbero «farsi carico dell’accoglienza» dei migranti soccorsi, poiché questi ultimi hanno «messo piede per la prima volta» proprio in quei Paesi nel momento in cui sono saliti sulle navi. La posizione di Piantedosi è stata difesa anche da Salvini, che il 3 novembre ha scritto su Twitter: «Dove dovrebbe andare una nave norvegese? Semplice, in Norvegia». Questa proposta si basa però su un’interpretazione errata delle norme attualmente in vigore a livello internazionale per l’immigrazione e il salvataggio delle persone in mare. È vero che le navi rappresentano un’estensione territoriale dei rispettivi Stati di bandiera: di conseguenza una nave che batte bandiera tedesca è considerabile come parte del territorio tedesco. Questo principio è stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, secondo cui «le navi battono la bandiera di un solo Stato» e in mare «sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva», salvo casi eccezionali. Per quanto riguarda le leggi sull’immigrazione, nell’Unione europea i criteri che stabiliscono quale Stato membro debba farsi carico di esaminare le do-
Solo in seguito allo sbarco entrano in vigore le disposizioni del Regolamento di Dublino e quindi l’Italia, in quanto primo Paese di arrivo, dovrà farsi carico dell’accoglienza e dell’esame delle domande di asilo presentate sul proprio territorio. 34
Le bugie sull’immigrazione
mande di protezione internazionale presentate dai migranti sono stabiliti dal cosiddetto “Regolamento di Dublino”. Questo prevede che, se «il richiedente asilo ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro», allora è quello Stato a essere «competente per l’esame della domanda di protezione internazionale». Se si considera una nave come un vero e proprio pezzo di territorio di un determinato Stato, allora sembrerebbe compito di quello Stato esaminare le domande di protezione internazionale avanzate. In altre parole i migranti a bordo di una nave Ong battente bandiera tedesca si troverebbero in territorio tedesco: sarebbe quindi la Germania a doverli accogliere e occuparsi delle loro richieste. A prima vista questo ragionamento può sembrare corretto, ma è in realtà fuorviante. In un’audizione parlamentare del 2017 l’allora contrammiraglio della Guardia costiera italiana Nicola Carlone ha spiegato che il Regolamento di Dublino «non è applicabile a bordo delle navi», ma entra in vigore solo nel momento in cui i migranti arrivano sulla terraferma. Paradossalmente, seguendo il ragionamento presentato dai ministri del governo Meloni, se i migranti dovessero essere salvati nei pressi della Libia da un’imbarcazione battente bandiera australiana, dovrebbero aspettare di arrivare in Australia per ricevere soccorsi. L’impossibilità di esaminare la situazione dei migranti a bordo delle navi, e quindi prima dello sbarco, è stata confermata anche dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in merito al caso Hirsi, che nel 2012 ha condannato l’Italia per la politica dei respingimenti in mare voluta dall’ultimo governo Berlusconi. Altre norme sul soccorso marittimo, come la Convenzione di Amburgo del 1979, prevedono che gli sbarchi
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debbano avvenire nel primo “porto sicuro” disponibile sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani sia per prossimità geografica alla località di salvataggio. «Il capitano della nave ha il compito di indicare il porto sicuro più vicino dove far sbarcare i soggetti a bordo, senza esporli a pericoli ulteriori per la loro incolumità», ha spiegato a Pagella Politica Luca Masera, docente di Diritto penale all’Università di Brescia e membro del Consiglio direttivo dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Per esempio nel caso di una nave battente bandiera norvegese «il capitano potrebbe valutare di portare i passeggere in Norvegia, ma in concreto, nella situazione reale del Mar Mediterraneo, questo è impraticabile e l’argomento perde qualsiasi rilevanza». Dato che la Libia e gli Stati del Nord Africa non possono essere considerati “porti sicuri”, a causa della situazione di instabilità politica e in molti casi del mancato rispetto dei diritti umani, generalmente i porti disponibili più vicini per i migranti soccorsi nel Mar Mediterraneo sono quelli presenti sul territorio italiano. Solo in seguito allo sbarco entrano in vigore le disposizioni del Regolamento di Dublino e quindi l’Italia, in quanto primo Paese di arrivo, dovrà farsi carico dell’accoglienza e dell’esame delle domande di asilo presentate sul proprio territorio. La bandiera della nave che soccorre i migranti è irrilevante per quanto riguarda il porto in cui questi devono sbarcare. ●●● «Le Ong attirano i migranti» Trasferte in Norvegia a parte, il tema più dibattuto riguardo alla presenza delle navi operate da Ong nel Mediterraneo è probabilmente quello che riguarda il cosid36
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detto pull factor. Lo stesso ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha dichiarato che le navi delle Ong «sono un fattore di attrazione per i migranti». Questa è la teoria del pull factor (in italiano “fattore di attrazione”), secondo cui i migranti sarebbero spinti a partire dalle coste del Nord Africa sapendo che ci sono navi pronte a salvarli e a portarli in Italia. Da anni questa teoria è sostenuta dai partiti di destra, in particolare dalla Lega, ma in passato è stata rilanciata anche da altri politici. Ad agosto 2017, in un’intervista con il «Corriere della Sera», Luigi Di Maio, non ancora capo politico del Movimento 5 Stelle, aveva addirittura definito le navi Ong «taxi del mare». Numeri alla mano, la tesi del pull factor è però ancora non dimostrata: al momento infatti non esistono studi che supportino la teoria secondo cui le navi Ong attirano le partenze dei migranti. La letteratura scientifica sul tema è scarna, ma esistono alcuni indizi in base ai quali si può ipotizzare che la presenza delle organizzazioni umanitarie non porti a un aumento degli arrivi dei migranti. Nella già citata ricerca del 2020 i ricercatori Cusumano e Villa si sono chiesti anche quanto fosse solida la teoria del pull factor. Per rispondere a questa domanda hanno analizzato i dati delle partenze dei migranti dalle coste della Libia avvenute tra gennaio 2014 e l’inizio di gennaio 2020. Le fonti dei dati sono la Guardia costiera italiana, l’Oim e l’Unhcr. Secondo lo studio gli unici fattori che nell’arco di tempo analizzato hanno avuto un impatto nell’aumento del numero delle partenze sono stati il livello di instabilità politica (calcolato indirettamente usando l’andamento della produzione di petrolio in Libia) e le condizioni meteo (quelle favorevoli incentivano le traversate in mare). A conclusioni simili è giunto uno studio pubblicato ad agosto 2023 sulla rivista scientifica Scientific Reports.
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Il ruolo delle Ong nei salvataggi in mare Migranti salvati tra il 1° gennaio e il 31 luglio in operazioni di Search and Rescue (Sar) dopo le segnalazioni di un naufragio. Migranti soccorsi in eventi Sar
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«Per essere sicuri è necessario condurre più ricerche su questo tema», hanno comunque sottolineato i due ricercatori nelle conclusioni del loro studio. «In ogni caso le nostre evidenze suggeriscono che la tesi del pull factor, sebbene sia molto diffusa e abbia avuto un ruolo chiave nel delegittimare le Ong, non è supportata dai dati». È importante sottolineare che i migranti che sbarcano in Italia non arrivano tutti su navi Ong, anzi. Secondo i dati del ministero dell’Interno, tra gennaio e agosto 2023 le Ong hanno effettuato il 5 per cento dei soccorsi in mare, mentre nello stesso periodo del 2022 la percentuale era stata del 15 per cento. A oggi non ci sono poi sentenze definitive della magistratura italiana che hanno condannato organizzazioni umanitarie per aver incentivato con le loro navi l’immigrazione irregolare. Nonostante questo, il primo provvedimento in tema di immigrazione approvato dal governo Meloni è stato il decreto “Ong”, convertito in legge dal Parlamento a febbraio 2023. Tra le altre cose questo decreto ha stabilito alcune condizioni che le navi Ong devono seguire 38
«I pullman sono costosi, ma…» Restando in tema Ong, una delle strategie adottate dal governo Meloni è stata quella di indicare come porto di sbarco alle navi delle organizzazioni non governative quelli del Centro e del Nord, come Ancona, Ravenna e La Spezia. In passato i migranti salvati dalle organizzazioni umanitarie sbarcavano per lo più in Sicilia, Puglia e Calabria. La strategia decisa dal governo ha avuto esiti paradossali. All’inizio di febbraio 2023 fece discutere la notizia secondo cui alcuni dei migranti sbarcati pochi giorni prima a La Spezia, in Liguria, dopo essere stati salvati nel Mar Mediterraneo dalla nave Ong Geo Barents, vennero trasportati in pullman a Foggia, in Puglia. Il viaggio a ritroso verso il Sud riguardava una parte dei settantaquattro minori non accompagnati sbarcati senza genitori nel porto ligure. Pochi giorni prima il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva però smentito che la strategia adottata dal governo fosse quella di far sbarcare i migranti nel Nord Italia per poi rimandarli al Sud. A gennaio 2023, ospite a Piazza Pulita su La7, Piantedosi aveva dichiarato: «Noi vogliamo fare in modo che si decongestioni il più possibile l’approdo nei porti di Calabria e Sicilia». Il conduttore Corrado Formigli lo aveva interrotto dicendogli: «Guardi che esistono i pullman», suggerendo di far sbarcare lo stesso i migranti nelle regioni del Sud per poi trasportarli al Nord. «Ci
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per evitare di ricevere un divieto di transito o sosta nelle acque territoriali italiane. Secondo i partiti dell’opposizione lo scopo di questo provvedimento è stato quello di ostacolare i soccorsi in mare delle navi delle organizzazioni non governative.
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Numeri alla mano, la tesi del pull factor è però ancora non dimostrata: al momento infatti non esistono studi che supportino la teoria secondo cui le navi Ong attirano le partenze dei migranti. sono delle procedure allo sbarco che vanno fatte sul posto, che impegnano le persone lì per qualche giorno», aveva replicato Piantedosi, aggiungendo che «i pullman sono costosi…». ●●●● «C’è stato un cambio di approccio dell’Ue» La questione migratoria però non è soltanto una questione italiana. Da subito la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha cercato di intestarsi un cambio di rotta da parte dell’Unione europea sulla gestione dei flussi migratori. In una conferenza stampa al termine del Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles il 9 e 10 febbraio 2023, Meloni si è detta particolarmente «soddisfatta» del vertice, attribuendo meriti al suo governo (il ruolo principale del Consiglio europeo è quello di orientare l’agenda politica dell’Ue). Secondo la leader di Fratelli d’Italia, le conclusioni del Consiglio europeo dimostravano un cambio di approccio dell’Ue verso i migranti che dal Nord Africa cercano di raggiungere le coste europee, in particolare quelle italiane. Quanto era fondato questo ottimismo? In breva la risposta è: poco. Partiamo dalle cosiddette “conclusioni” del Consiglio europeo. Queste sono contenute in un testo che viene pubblicato al termine di ogni vertice per fissare 40
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le questioni di maggiore interesse per i capi di Stato e di governo dell’Ue e per individuare gli obiettivi da raggiungere. Secondo Meloni le conclusioni del Consiglio europeo del 9 e 10 febbraio hanno dimostrato che l’approccio dei Paesi membri era «molto diverso da quello che noi abbiamo visto negli ultimi anni». «L’approccio che il Consiglio europeo mette nero su bianco nella giornata di ieri parte da una frase che non si era mai riusciti a mettere su un documento di questo tipo: “L’immigrazione è un problema europeo e ha bisogno di una risposta europea”», ha dichiarato la presidente del Consiglio in conferenza stampa. In effetti nelle conclusioni del vertice del 9 e 10 febbraio la sezione dedicata alla “Migrazione” si apre con questa frase: «Il Consiglio europeo ha discusso della situazione migratoria, una sfida europea che richiede una risposta europea». Su questo punto gli Stati membri hanno concordato sulla necessità di introdurre misure per rafforzare i controlli dei confini esterni dell’Ue, tra cui quelli nel Mar Mediterraneo, e per potenziare gli accordi di cooperazione e di rimpatrio con i Paesi da dove provengono i migranti. A differenza di quanto sostenuto da Meloni, però, in passato anche altre conclusioni del Consiglio europeo avevano usato l’espressione “risposta europea” parlando di immigrazione. «Per prevenire e contrastare efficacemente l’immigrazione irregolare alle frontiere marittime meridionali dell’Ue, evitando così future tragedie umane, è essenziale una risposta europea determinata, ispirata ai principi di fermezza, solidarietà e responsabilità condivisa», si legge nelle conclusioni di un Consiglio europeo tenutosi addirittura quattordici anni fa, a giugno 2009. «Il Consiglio europeo conferma la propria strategia globale intesa ad affrontare la crisi migratoria. Diversi elementi della nostra risposta
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europea comune sono ormai istituiti e stanno dando i loro frutti», recitano invece le conclusioni di un vertice di marzo 2016. Due anni dopo, a giugno 2018, gli Stati membri scrivevano che la gestione dell’immigrazione «è una sfida, non solo per il singolo Stato membro, ma per l’Europa tutta». Dunque il riferimento alla necessità di trovare una «risposta europea» all’immigrazione, vista come un problema comune dei ventisette Stati Ue, non era certo una novità. Così come non lo era il riferimento alla «protezione delle frontiere esterne», un altro elemento che secondo Meloni avrebbe dimostrato il cambio di approccio dell’Ue verso i migranti. Per fare un esempio, nelle conclusioni di un Consiglio europeo di ottobre 2016 una sezione era intitolata: «Prevenire l’immigrazione illegale lungo la rotta del Mediterraneo centrale». In quell’occasione si ribadiva la necessità di stringere legami più forti con i Paesi di partenza e di «affrontare le cause profonde della migrazione». Nelle già citate conclusioni del vertice di giugno 2018, quando c’era il primo governo di Giuseppe Conte, si leggono le seguenti parole: «Per quanto riguarda la rotta del Mediterraneo centrale, dovrebbero essere maggiormente intensificati gli sforzi per porre fine alle attività dei trafficanti dalla Libia o da altri Paesi. L’Ue resterà al fianco dell’Italia e degli altri Stati membri in prima linea a tale riguardo». Nel testo c’era anche un riferimento alla questione delle navi Ong. «Tutte le navi operanti nel Mediterraneo devono rispettare le leggi applicabili e non interferire con le operazioni della Guardia costiera libica», dichiaravano congiuntamente gli Stati membri oltre quattro anni fa. Durante la conferenza stampa al termine del vertice del 9-10 febbraio, in risposta a una domanda del giornalista di Radio Radicale David Carretta, Meloni ha 42
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ulteriormente difeso la sua posizione, dicendo che in più, rispetto alle conclusioni del passato, esisteva ora un piano d’azione della Commissione europea sull’immigrazione. Il riferimento era alle venti misure proposte alla fine di novembre 2022 dalla Commissione europea per ridurre l’immigrazione irregolare in Europa, organizzate lungo tre direttrici: collaborare con Paesi come la Tunisia, la Libia e l’Egitto per controllare di più le partenze dei migranti; promuovere una strategia «più coordinata» in materia di ricerca e soccorso nel Mediterraneo; e rafforzare l’attuazione del meccanismo volontario di redistribuzione dei migranti introdotto a giugno 2022, che però fino a oggi non ha portato a grandi risultati. Vari osservatori hanno sottolineato come le proposte della Commissione Ue fossero parecchio generiche e già sentite in passato. Presentare questa iniziativa come una novità era quindi esagerato. Tra l’altro a settembre 2020 la Commissione europea aveva già presentato un “Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo”, una serie di proposte normative e iniziative per la gestione dei flussi migratori. Tra le varie misure si proponeva di rafforzare i controlli alle frontiere, migliorare le procedure di ricollocamento dei migranti e le procedure di salvataggio in mare. «La protezione speciale? Colpa degli altri» Con il decreto “Cutro”, approvato dal governo pochi giorni dopo il naufragio al largo delle coste della Calabria, l’esecutivo ha di fatto eliminato la protezione speciale, una delle tre forme di protezione che poteva essere concessa fino a quel momento a uno straniero in Italia. Ad aprile 2023 il leader della Lega Matteo Salvini ha difeso la scelta, dicendo che la protezione speciale
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«è stata portata in Italia» nel 2020 dal secondo governo Conte, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Partito Democratico. Salvini aveva però la memoria corta. Il permesso di soggiorno ottenuto con la protezione speciale è stato introdotto nel 2018 e i presupposti per il suo rilascio sono stati poi ampliati nel 2020. La legge del 2018 era la conversione in legge del primo decreto “Sicurezza”, approvato a ottobre di quell’anno dal primo governo Conte, con i voti del Movimento 5 Stelle e… della Lega. Tra le altre cose il primo decreto “Sicurezza”, fortemente voluto dall’allora ministro dell’Interno Salvini, cancellava la protezione umanitaria, la terza forma di protezione che l’Italia concedeva a uno straniero accanto alle due forme di protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria). Il primo decreto “Sicurezza” abrogava il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ma introduceva anche una serie di permessi di soggiorno «speciali», per esempio per migranti che necessitano di cure mediche, per le «vittime di violenza», per «situazioni di contingente ed eccezionale calamità» o per «atti di particolare valore civile». Questi permessi di soggiorno speciali colmavano in parte il vuoto lasciato dall’eliminazione della protezione umanitaria. Il primo decreto “Sicurezza” modificava poi un decreto legislativo del 2008 che attuava la direttiva dell’Unione europea sulle procedure per riconoscere lo status di rifugiato negli Stati membri. Con le modifiche introdotte dal primo governo Conte, lo straniero che non riceveva né lo status di rifugiato né la protezione sussidiaria poteva vedersi riconoscere comunque un particolare permesso di soggiorno, chiamato «protezione speciale», nel caso in cui valessero i presupposti stabiliti dall’articolo 19 del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello stranie44
ro. Nella versione dell’articolo 19 in vigore alla fine del 2018 si leggeva: «Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani». Chi rientrava in questa categoria, dunque, poteva ricevere la «protezione speciale» introdotta dal primo decreto “Sicurezza”. A dimostrazione di questo, nei dati del 2019 del Ministero dell’Interno sugli esiti delle richieste d’asilo è comparsa la protezione speciale, non presente nel 2018 e negli anni precedenti. Sulla questione è poi intervenuto il secondo governo Conte, che a ottobre 2020 ha mantenuto in parte la promessa di modificare i due decreti “Sicurezza”. Tra le altre cose il secondo governo Conte ha esteso l’ambito di applicazione della protezione speciale introdotta dal primo governo Conte, ampliando l’articolo 19 della legge del 1998. Qui era stato aggiunto il divieto di respingimento o espulsione per gli stranieri nel caso in cui ci fossero «fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare» o «trattamenti inumani o degradanti». Il decreto “Cutro” del governo Meloni è intervenuto proprio su questo punto, eliminando le novità introdotte dal secondo governo Conte nella concessione della protezione speciale.
Le bugie sull’immigrazione
Secondo Meloni, le conclusioni del Consiglio europeo dimostravano un cambio di approccio dell’Ue verso i migranti. Quanto era fondato questo ottimismo? In breve la risposta è: poco.
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«Ce l’abbiamo solo noi» Per difendere la scelta di eliminare la protezione speciale Meloni ha in più occasioni dichiarato che questa era una «protezione ulteriore rispetto a quello che accade nel resto d’Europa». Le cose però non stanno così: vari Paesi dell’Unione europea offrono ai migranti una forma di protezione in più rispetto a quella internazionale. Prima dell’abolizione della protezione speciale, in Italia la richiesta di asilo di un migrante poteva ricevere quattro risposte. La domanda poteva essere respinta oppure al richiedente asilo poteva essere riconosciuta una tra tre forme di protezione: lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, che sono entrambe una protezione internazionale, valida in tutti i Paesi dell’Unione europea, e la protezione speciale. Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue, raccoglie periodicamente i dati sugli esiti delle richieste d’asilo nei ventisette Stati membri. Secondo i dati più aggiornati, nel 2022 almeno undici Paesi dell’Ue, tra cui Germania e Spagna, hanno riconosciuto una forma di protezione per «motivi umanitari», in aggiunta allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria. È in questa categoria che rientrano i dati delle protezioni speciali assegnate dall’Italia, che fino al 2018 concedeva la protezione umanitaria, poi sostituita da quella speciale. Curiosità: anche all’epoca vari esponenti del governo e la stessa Meloni, che era all’opposizione, avevano difeso l’eliminazione della protezione umanitaria dicendo che esisteva solo in Italia. Ma non era vero. ●●●●●
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Anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non ha rinunciato, in alcune occasioni, a dare un’immagine distorta del sistema di accoglienza italiano. Alla fine di agosto 2023, pur ammettendo l’aumento degli sbarchi registrato sotto il governo Meloni, Piantedosi ha detto che «a meno del dieci per cento di coloro che arrivano in Italia viene riconosciuto lo status di rifugiato» e che «oltre il 90 per cento è spinto solo da ragioni economiche». I numeri però gli davano torto. Secondo Eurostat, nel 2022 l’Italia ha preso una decisione su circa 53 mila richieste d’asilo presentate per la prima volta da migranti arrivati nel nostro Paese. In oltre il 14 per cento dei casi è stato riconosciuto al richiedente lo status di rifugiato. Questa forma di protezione internazionale, spiega il Ministero dell’Interno, viene riconosciuta se c’è il timore che un migrante, ritornando nel suo Paese d’origine, possa «essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica». Dunque, la percentuale del 14 per cento è più alta del «meno del dieci per cento» indicato da Piantedosi. Il ministro dell’Interno aveva poi commesso un altro errore: sulla base dei dati appena visti, è scorretto sostenere che oltre l’85 per cento dei richiedenti a cui non è stato riconosciuto lo status di rifugiato è arrivato in Italia «spinto solo da ragioni economiche». Nel 2022, infatti, in un altro 14 per cento delle decisioni prese sulle richieste d’asilo è stata riconosciuta la seconda forma di protezione internazionale, la cosiddetta “protezione sussidiaria”. Questa protezione può essere concessa a chi, pur non avendo i requisiti per ottenere lo status di rifugiato,
Le bugie sull’immigrazione
«Nove migranti su dieci sono spinti da ragioni economiche»
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Per difendere la scelta di eliminare la protezione speciale Meloni ha in più occasioni dichiarato che questa era una «protezione ulteriore rispetto a quello che accade nel resto d’Europa». Le cose però non stanno così. «correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno» tornando nel proprio Paese d’origine. Più del 20 per cento dei richiedenti ha invece ottenuto la protezione per «ragioni umanitarie», ossia la cosiddetta “protezione speciale” che il governo Meloni ha eliminato con il decreto-legge sull’immigrazione approvato dopo il naufragio di Cutro. In base alle norme precedenti, la protezione speciale poteva essere concessa a un migrante se c’erano «fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale» comportasse «una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare». In entrambi casi stiamo quindi parlando di persone che non hanno chiesto aiuto per ragioni economiche, o almeno non solo per quello. Ricapitolando: circa il 52 per cento delle domande d’asilo ha ricevuto una risposta negativa ed è stato respinto. Tra questi possono esserci persone che sono arrivate in Italia solo per ragioni economiche. Spesso, per questo motivo, viene utilizzata l’espressione “migrante economico” per questa fascia di richiedenti asilo, espressione però di cui manca una definizione legale. Eurostat fornisce anche i dati sulle decisioni dei tribunali per gli appelli dei migranti sulla base della risposta ricevuta alla prima richiesta d’asilo. Nel 2022 l’Italia ha preso una decisione definitiva su oltre 19 mila richieste d’appello: in quasi il 28 per cento dei casi le domande d’asilo sono state definitivamente respinte. Nel restante 72 per cento è stata concessa una qualche forma di protezione. 48
Primi cinque Paesi per numero di protezioni umanitarie riconosciute nel 2022
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Le bugie sull’immigrazione
I permessi per protezione umanitaria nell’Unione europea
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Fonte: Eurostat
Caccia agli scafisti Restando sul decreto “Cutro” e il grande dibattito che si sviluppò in quelle settimane di inizio 2023 sulle politiche dell’immigrazione, ci furono dichiarazioni assai bellicose a proposito dei presunti responsabili del fenomeno dell’immigrazione irregolare, a cui si è accompagnata anche l’introduzione di un nuovo reato. «Noi siamo abituati a un’Italia che si occupa soprattutto di andare a cercare i migranti attraverso tutto il Mediterraneo. Quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo»: così disse la presidente del Consiglio all’inizio di marzo 2023, alcune delle parole più discusse nei primi mesi del governo Meloni. Con il decreto “Cutro” l’esecutivo creava infatti un nuovo reato, punendo chi causa la «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di 49
immigrazione clandestina». Le pene per i cosiddetti “scafisti” arrivano fino a trent’anni di detenzione. Molti politici, tra cui vari esponenti del governo Meloni, continuano oggi a usare come sinonimi i termini “scafisti” e “trafficanti” per indicare le persone che organizzano e guidano i viaggi dei migranti nel Mediterraneo, grazie anche a legami con la criminalità organizzata. In realtà i due termini non sono sempre sovrapponibili. I trafficanti, che nel caso dell’immigrazione irregolare sono definiti “trafficanti di esseri umani”, sono le persone che organizzano i viaggi in mare e si fanno pagare dai migranti per avere un posto sulle imbarcazioni che cercano di raggiungere l’Italia. I trafficanti di solito rimangono a terra e non partecipano alla traversata del Mediterraneo: per questo individuarli è molto difficile. Al contrario gli scafisti sono le persone che materialmente guidano le barche o i gommoni che affrontano la traversata verso le coste italiane. Sono quindi molto più facili da arrestare. Esistono diversi tipi di scafisti: chi guida l’imbarcazione è spesso uno degli stessi migranti, spinto dai trafficanti a pilotare il barcone con la violenza o con uno sconto sul costo della tratta, oppure può essere uno dei passeggeri subentrato al timoniere originale in seguito a un imprevisto. In tutti questi casi lo scafista non è un membro dell’organizzazione criminale responsabile della tratta di esseri umani, ma una vittima della stessa tratta. In altri casi lo scafista è integrato nell’organizzazione della traversata, nel senso che ha un interesse economico nel suo successo e in quello degli altri viaggi che saranno organizzati dallo stesso gruppo di persone. L’esempio tipico di questa categoria sono i cosiddetti “timonieri libici”, che accompagnano le barche piene di migranti per qualche ora, per poi abbandonarle in mare, prima che avvenga un soccorso. 50
Oltre a dati, numeri e fatti concreti c’è anche la prospettiva culturale e ideologica che sta alla base dell’azione di governo e delle dichiarazioni dei suoi esponenti. Alcuni politici dell’attuale esecutivo hanno mostrato vicinanza con note teorie del complotto che riguardano il tema dell’immigrazione e l’esempio più estremo è la frase, criticatissima, pronunciata ad aprile 2023 dal ministro dell‘Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia), durante il congresso del sindacato Cisal. «Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: “Vabbè gli italiani fanno meno figli, sostituiamoli con qualcun altro”. Non è quella la strada», ha detto Lollobrigida in quell’occasione, parlando della crisi demografica italiana. L’espressione “sostituzione etnica” fa riferimento a una teoria, diffusasi negli ultimi anni tra i politici di estrema destra e tra i sostenitori delle teorie del complotto, secondo cui esisterebbe un piano per soppiantare i cittadini europei (in questo caso gli italiani) con gli immigrati stranieri. Questa teoria sarebbe anche alla base del cosiddetto “Piano Kalergi”, dal nobile austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, morto nel 1972. L’obiettivo di questo piano sarebbe quello di creare un «meticciato» debole e manipolabile dalle élite economiche e politiche dell’Europa. In realtà le idee di Kalergi sono state completamente travisate dai suoi detrattori. Ciò non ha impedito che negli scorsi anni, in più occasioni, sia Meloni sia Salvini hanno parlato di “sostituzione etnica”. Se si fa una ricerca sulle pagine social della leader di Fratelli d’Italia e del leader della Lega, o anche solo su YouTube, si scoprono varie occasioni in cui entrambi hanno citato la sostitu-
Le bugie sull’immigrazione
«Non bisogna arrendersi alla sostituzione etnica»
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Lo stesso anno la leader di Fratelli d’Italia aveva parlato in un comizio dei migranti come “manovalanza a basso costo, schiavi da consegnare ai poteri forti”. “Si chiama ʽsostituzione etnicaʼ e noi non la consentiremo”, aveva aggiunto Meloni. zione etnica parlando di migranti. Per esempio tra il 2016 e il 2018 Meloni ha parlato almeno tre volte su Twitter di sostituzione etnica, accusando il finanziere George Soros, spesso al centro di teorie del complotto, di sostenere «in tutto il mondo l’immigrazione di massa e il disegno di sostituzione etnica». «L’Ue è complice dell’immigrazione incontrollata, dell’invasione dell’Europa e del progetto di sostituzione etnica dei cittadini europei voluti dal grande capitale e dagli speculatori internazionali», scriveva Meloni nel 2017 su Facebook. Lo stesso anno la leader di Fratelli d’Italia aveva parlato in un comizio dei migranti come «manovalanza a basso costo, schiavi da consegnare ai poteri forti». «Si chiama “sostituzione etnica” e noi non la consentiremo», aveva aggiunto Meloni. Dal 2015 in poi anche Salvini ha citato esplicitamente almeno quattro volte su Twitter la sostituzione etnica. «O fermiamo, andando al governo, il tentativo di sostituzione etnica voluto dalla sinistra, o presto i profughi saremo noi!», scriveva nel 2015 il leader della Lega. Non mancano poi le dichiarazioni pubbliche dell’attuale ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, che per esempio nel 2017 diceva, dopo una visita a un centro di accoglienza a Milano: «Questo è l’ennesimo caso di tentativo di sostituzione etnica in corso. Mentre escono i dati che vedono gli italiani fare 52
Le bugie sull’immigrazione
sempre meno figli, si offre di tutto e di più, colazione, pranzo e cena, computer, telefono e partita di pallone che è attualmente in corso, a persone che non scappano dalla guerra».
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Le bugie sul lavoro e sui sussidi
Ponti sullo Stretto e redditi di cittadinanza
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57 «Il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni» 60 «Abbiamo messo 100 euro in più in busta paga» 62 «Ci sono 2 milioni di posti di lavoro disponibili» 68 «Il reddito di cittadinanza solo agli italiani» 72 «Pil e occupati crescono grazie all’abolizione del reddito di cittadinanza» 76
«I percettori del reddito di cittadinanza sono 3,5 milioni»
78 «Oltre il 50 per cento dei percettori del reddito non si è neanche presentato ai centri per l’impiego» 81
«Il ponte sullo Stretto costa un anno di reddito di cittadinanza»
84 «I percettori del reddito non devono stare in Italia»
«
Taglio del cuneo fiscale in favore di imprese e lavoratori» e «sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza con misure di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Queste erano due delle promesse principali contenute nel programma elettorale della coalizione di centrodestra dedicate all’occupazione e al contrasto della povertà, in vista delle elezioni del settembre 2022. Ed entrambe le promesse, bisogna dirlo, sono state centrate. Con la sua prima legge di Bilancio, quella per il 2023, il governo Meloni ha infatti aumentato, seppur temporaneamente, il netto in busta paga dei lavoratori con redditi più bassi, tagliando i contributi previdenziali. In più ha stabilito l’eliminazione a partire dal 2024 del reddito di cittadinanza, introducendo alcune limitazioni già per il 2023. Con un decreto approvato il 1° maggio – scelta del giorno non casuale, criticata dai partiti all’opposizione – il governo ha poi ampliato il taglio del cosiddetto “cuneo fiscale”, ossia della differenza tra il lordo e il netto in busta paga, e ha stabilito i dettagli delle due misure che sostituiranno il reddito di cittadinanza: l’assegno per l’inclusione sociale e il supporto per la formazione e il lavoro. Il tempo dirà se queste due misure saranno state più efficaci del reddito di cittadinanza nel contrastare la povertà e incentivare l’occupazione. Quello che è certo, però, è che nel loro primo anno di governo vari esponenti dei partiti di centrodestra non si sono fatti mancare dichiara56
«Il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni» Presentando il ribattezzato decreto “Lavoro”, approvato il 1° maggio 2023, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha descritto il taglio del cuneo fiscale contenuto nel provvedimento come «il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». A formare il cuneo fiscale, infatti, sono le imposte e i contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori (a essere precisi parlare di «tasse» è scorretto, ma sorvoliamo). Nonostante l’entusiasmo di Meloni, la sua dichiarazione era falsa. Con il decreto “Lavoro” il governo Meloni ha aumentato temporaneamente di 4 punti percentuali, per i mesi tra luglio e dicembre del 2023, il taglio dei contributi previdenziali già stabilito con la legge di Bilancio per il 2023. Per parte sua, quest’ultima ha rifinanziato per il 2023 il taglio del 2 per cento del cuneo fiscale introdotto temporaneamente nel 2022 dal governo Draghi per i redditi fino a 35 mila euro, alzando al 3 per cento il taglio per chi guadagna fino a 25 mila euro l’anno. Nella seconda metà del 2023, dunque, grazie al decreto “Lavoro” il taglio del cuneo fiscale per queste due fasce di reddito è salito fino a raggiungere il 6 per cento (per i redditi fino a 35 mila euro) e il 7 per cento (per quelli fino a 25 mila euro: sull’impatto concreto nella buste paga torneremo meglio più avanti).
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
zioni non supportate dai fatti e dai numeri, fuorvianti e lacunose, proprio a proposito dei provvedimenti sul lavoro. E rispetto al reddito di cittadinanza, il nuovo sussidio approvato dal centrodestra è perfino più generoso con gli stranieri, nonostante i proclami passati.
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Per finanziare il taglio del cuneo fiscale contenuto nel decreto “Lavoro” il governo Meloni ha usato oltre 3 miliardi di euro di debito ottenuti con uno scostamento di bilancio, approvato dal Parlamento alla fine di aprile. La presidente del Consiglio ha spesso parlato di questa cifra usando l’espressione «tesoretto»: grazie a una crescita del Pil nel 2023 migliore delle aspettative, il governo ha deciso di mantenere invariato il rapporto tra il deficit e il Pil stabilito in precedenza, dedicando le risorse in più a debito proprio al taglio del cuneo fiscale. Dunque sempre di debito pubblico in più stiamo parlando, non di un vero e proprio risparmio come l’espressione «tesoretto» lascerebbe pensare. Ma veniamo al punto: numeri alla mano, gli oltre 3 miliardi di euro destinati dal governo Meloni al taglio del cuneo fiscale con il decreto “Lavoro” non sono il «più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». Altri governi hanno infatti stanziato risorse più alte per questo obiettivo. Per esempio il governo Draghi, con la legge di Bilancio per il 2022, aveva stanziato circa 7 miliardi di euro per la riduzione dell’Irpef, ossia l’imposta sul reddito delle persone fisiche (quella a carico dei lavoratori). Il governo Draghi aveva anche ridotto di circa un miliardo di euro l’Irap, un’imposta pagata da alcune categorie di imprese e dai lavoratori autonomi. Nella stessa legge di Bilancio c’erano poi 1,8 miliardi di euro per ridurre di 0,8 punti percentuali i contributi previdenziali per i redditi fino a 35 mila euro per tutto il 2022. Ad agosto 2022 il decreto “Aiuti-bis”
Nel decreto “Lavoro” non c’è il «più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». Altri governi hanno infatti stanziato risorse più alte per questo obiettivo. 58
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
aveva aumentato questo taglio di ulteriori 1,2 punti percentuali, con un costo per lo Stato di oltre un miliardo di euro, portando il taglio al 2 per cento (quello confermato dal governo Meloni con la legge di Bilancio per il 2023). Questo primo confronto dà dunque già torto a Meloni: senza andare troppo indietro nel tempo, nel 2022 c’era stato un taglio del cuneo fiscale superiore a quello introdotto dal decreto “Lavoro”. Si potrebbe obiettare che la presidente del Consiglio, nel rivendicare il primato del suo governo, abbia fatto riferimento non solo a quel decreto ma anche a quanto c’era nella sua prima legge di Bilancio, quella per il 2023 con il rinnovo del taglio deciso da Draghi. Nel complesso le risorse destinate al taglio del cuneo fiscale arriverebbero così tra gli 8 e i 9 miliardi di euro. Ma come abbiamo visto le risorse stanziate dal governo Draghi, se si sommano tra loro, sono comunque superiori. Andando più indietro nel tempo, si può fare un confronto con il cosiddetto “bonus 80 euro”, introdotto nel 2014 dal governo di Matteo Renzi. Questa misura consisteva in una detrazione di 960 euro l’anno per i lavoratori dipendenti, che di fatto si ritrovavano in busta paga 80 euro in più ogni mese. La detrazione era fissa fino ai 24 mila euro di reddito e calava fino ad azzerarsi una volta arrivati ai 26 mila. Il costo del bonus 80 euro era di oltre 9 miliardi di euro l’anno, secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, un organismo indipendente che vigila sui conti dello Stato. Anche in questo caso le risorse destinate al “bonus 80 euro” erano superiori a quelle previste dal taglio temporaneo del governo Meloni con il decreto “Lavoro”. Nel 2020 il secondo governo di Giuseppe Conte aveva deciso di aumentare il bonus da 80 euro a 100 euro mensili per i redditi da lavoro dipendente fino a 26.600
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euro lordi. Il bonus da 100 euro era stato concesso anche ai redditi fino a 28 mila euro, prima esclusi, ed era stato esteso ai redditi fino a 40 mila euro, ma con un valore decrescente. All’inizio l’estensione della platea valeva solo per la seconda metà del 2020 ed è stata poi stabilizzata con la legge di Bilancio per il 2021. Per finanziare l’ampliamento del bonus, oltre a utilizzare le risorse destinate già all’epoca al bonus, con la legge di Bilancio per il 2020 il secondo governo Conte aveva stanziato 3 miliardi di euro per il 2020 e 5 miliardi di euro per il 2021. Se in futuro il governo Meloni decidesse di rifinanziare per tutto il 2024 il taglio dei contributi previdenziali introdotto per il 2023 con la legge di Bilancio e ampliato con il decreto “Lavoro” per la seconda metà dell’anno, dovrà trovare risorse per oltre 10 miliardi di euro. ● «Abbiamo messo 100 euro in più in busta paga» Record rivendicati che non erano record, ma anche benefici del taglio del cuneo fiscale gonfiati. Questa volta la protagonista è la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali Marina Elvira Calderone, che a maggio 2023, in un’intervista con il «Quotidiano Nazionale», ha annunciato che il taglio del cuneo fiscale contenuto nel decreto “Lavoro” avrebbe portato «un incremento medio di 100 euro in busta paga fino a fine anno». Una dichiarazione parecchio esagerata. In quei giorni erano già disponibili varie simulazioni sui benefici dei provvedimenti del governo, che dimostravano come l’affermazione della ministra Calderone non fosse supportata dai numeri. 60
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
Per esempio a inizio maggio «Il Sole 24 Ore» aveva pubblicato un articolo, intitolato Gli aumenti complessivi in busta paga compresi tra 257 a 561 euro in sei mesi, basato sulle simulazioni realizzate per il giornale da uno studio di consulenza. Secondo «Il Sole 24 Ore», per i lavoratori con una retribuzione lorda annua di 10 mila euro il decreto “Lavoro” avrebbe portato circa 24 euro in più in busta paga al mese, tra luglio e dicembre 2023, mentre chi aveva una retribuzione di 35 mila euro avrebbe visto aumentare il netto di oltre 60 euro. Prendendo gli estremi delle fasce di reddito interessate dal nuovo provvedimento del governo Meloni, eravamo dunque lontani dall’«incremento medio di 100 euro in busta paga fino a fine anno» rivendicato da Calderone. Molto probabilmente, però, la ministra del Lavoro aveva voluto fare riferimento alla somma tra i benefici del decreto “Lavoro” e quelli del taglio del cuneo fiscale già contenuto nella legge di Bilancio per il 2023. Sommando i due provvedimenti si andava da un beneficio di quasi 43 euro in più in busta paga per chi aveva uno stipendio di 10 mila euro a oltre 93 euro per chi aveva uno stipendio di 35 mila euro. Moltiplicando questi numeri per i sei mesi in cui sarà in vigore il nuovo taglio temporaneo, si ottenevano benefici in busta paga tra i 257 euro e i 561 euro circa, le due cifre che comparivano nel titolo dell’articolo del «Sole 24 Ore». Ricapitolando: ai «100 euro» in più in busta paga di cui parlava la ministra Calderone si arrivava al massimo – e non in media – per chi aveva la retribuzione più alta a cui si applicava il taglio del cuneo fiscale del decreto “Lavoro”, sommato però a quello già contenuto nell’ultima legge di Bilancio. Se si prendeva solo il taglio del cuneo fiscale del decreto “Lavoro”, in media il beneficio mensile era di circa 42 euro, la metà di quanto rivendicato da Calderone.
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«Ci sono 2 milioni di posti di lavoro disponibili» Oggi, a sentire molti politici, l’Italia sarebbe piena di posti di lavoro liberi, pronti a essere riempiti, se non fosse che mancano le competenze per poterli occupare tutti. Intendiamoci: la mancata corrispondenza tra le capacità richieste dalle aziende che offrono lavoro e quelle di chi cerca lavoro è un problema serio, che non riguarda solo il nostro Paese. È il problema del cosiddetto skill mismatch, l’espressione inglese più utilizzata tra gli addetti ai lavori, un fenomeno che però va affrontato con numeri corretti, non gonfiati. Prendiamo un esempio concreto. A inizio luglio, partecipando all’Assemblea generale di Assolombarda, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha parlato del «forte disequilibrio tra domanda e offerta di lavoro» in Italia. Secondo Meloni in Italia, a metà del 2023, c’erano «2 milioni di posti di lavoro» che a causa dell’assenza di profili adeguati il mercato non era in grado di soddisfare. Era davvero così? I numeri dicevano di no. Nel suo discorso Meloni non aveva citato da dove venisse il dato dei «2 milioni» di posti di lavoro disponibili. Siamo quindi andati a vedere che cosa dicevano i dati Istat più aggiornati in quel momento. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, nei primi tre mesi del 2023 il tasso di posti vacanti in Italia era pari al 2,1 per cento. Questo indicatore è definito come il rapporto percentuale tra i posti di lavoro vacanti e la somma tra i posti di lavoro e le posizioni lavorative occupate nell’ultimo giorno del trimestre analizzato, in questo caso il primo del 2023. «Questo indicatore, misurando la quota di posti di lavoro per i quali le imprese cercano lavoratori idonei, corrisponde alla parte di domanda di lavoro non soddisfatta», spiega Istat. «Esso presenta una diretta analogia con il tasso di disoccupazione, che misura la quota di 62
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
forze di lavoro in cerca di un’occupazione e rappresenta, quindi, la parte di offerta non impiegata». Su circa 23,5 milioni di occupati a livello nazionale, si stava dunque parlando di quasi 500 mila posti vacanti, un quarto dei «2 milioni» indicati da Meloni. Non tutti i posti di lavoro vacanti lo sono per carenza di profili adeguati – potrebbero influire anche le retribuzioni offerte, le condizioni particolari di quel lavoro e così via –, ma su questo punto Istat non fornisce stime. Una fonte citata spesso sul tema è il Sistema informativo Excelsior, curato dall’Agenzia nazionale politiche attive lavoro (Anpal) e dall’Unione italiana delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura (Unioncamere). Sulla base di interviste fatte a quasi 110 mila imprese con dipendenti, rappresentative del settore dell’industria e dei servizi, il bollettino del Sistema informativo Excelsior calcola periodicamente quali sono le intenzioni delle aziende per quanto riguarda le assunzioni di nuovi lavoratori. Secondo le rilevazioni più aggiornate al momento della dichiarazione di Meloni, le assunzioni previste nel mese di giugno 2023 erano quasi 568 mila, numero che saliva a oltre un milione e 373 mila considerando il periodo tra giugno e agosto. Secondo le imprese intervistate, il 46 per cento delle assunzioni previste per il mese di giugno era di “difficile reperimento”. In questa espressione rientrano la mancanza di candidati, la preparazione inadeguata o altri motivi: non tutti sono quindi collegati all’assenza di capacità. Anche questi numeri erano più bassi dei «2 milioni» citati dalla presidente del Consiglio. I dati del Sistema informativo Excelsior, bisogna sottolinearlo, fotografano solo le intenzioni delle imprese, non i posti di lavoro effettivamente disponibili: tra le altre cose non è detto che le imprese abbiano poi in concreto la disponibilità economica per assumere tutti i lavoratori che
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indicano. Con tutta probabilità i «2 milioni» di cui parlava Meloni provenivano da un altro rapporto del Sistema informativo Excelsior, intitolato La domanda di professioni e di formazione delle imprese italiane nel 2022. Nel testo si legge che nel 2022 sono state stimate oltre 2 milioni di assunzioni di “difficile reperimento”, un dato in crescita rispetto alle circa 1,2 milioni del 2019. Quel dato però non significava che nel 2023 ci fossero 2 milioni di posti di lavoro disponibili per la carenza di profili adeguati. Da un lato quel numero faceva riferimento a tutto il 2022 ed era dunque un dato complessivo relativo solo a quell’anno. Dall’altro lato tra le assunzioni di “difficile reperimento” ce n’erano anche per altri motivi, non solo per l’assenza di competenze. Sempre più lavoratori e meno pensionati? In altre occasioni la presidente del Consiglio ha accostato il numero dei lavoratori con quello dei pensionati, dimostrando però di non conoscere bene i dati. Ad aprile 2023, in visita al Salone del Mobile a Milano, Meloni ha parlato della crisi demografica che colpisce l’Italia da anni, dicendo che il Paese ha un «problema di tenuta» del «sistema economico e sociale». Secondo la presidente del Consiglio in Italia ci sono infatti «sempre più persone da mantenere e sempre meno persone che lavorano». Ma è vero che in Italia il numero dei pensionati continua ad aumentare in rapporto al numero dei lavoratori? Per quanto possa stupire, in realtà la risposta è no. Ciò comunque non significa che nel medio e lungo periodo il sistema previdenziale italiano non rischi di avere problemi. Secondo i dati più aggiornati di Istat, nel 2021 in Italia c’erano 717 beneficiari di pensioni ogni mille occupati. Nel 2000, 64
Numero di beneficiari di pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti ogni mille occupati 700
650 Beneficiari Ivs/Occupati 600
550
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Rapporto tra pensionati e lavoratori
Fonte: Istat
20 20
20 18
20 16
20 14
20 12
20 10
20 08
20 06
20 04
20 02
20 00
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il primo anno per cui sono a disposizione i dati, i beneficiari erano 757. In oltre vent’anni un calo c’è dunque stato: il numero di pensionati rispetto al numero dei lavoratori è calato e non aumentato come ha sostenuto Meloni, con alcune eccezioni in singoli anni. Un calo c’è anche considerando solo i beneficiari delle cosiddette “pensioni Ivs”, ossia le pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti (quest’ultime sono le pensioni riconosciute solitamente al coniuge in caso di morte di un pensionato). Nel 2021 i beneficiari di pensioni Ivs erano 624 ogni mille occupati, nel 2000 erano 683. Due fattori spiegano perché negli anni sia calato il rapporto tra numero di pensionati e occupati. Da un lato alcune riforme hanno contribuito a contenere l’uscita dal mercato del lavoro, ad esempio alzando l’età pensionabile, come si vede dal 2013 in poi per effetto della cosiddetta “legge Fornero”, entrata in vigore l’anno prima. Dall’altro lato, escludendo la 65
parentesi del 2020 con la pandemia di Covid-19, il numero di occupati in Italia è aumentato, anche per effetto della crescita degli occupati nelle fasce più anziane di popolazione, la cui pensione è stata posticipata. All’inizio del 2023 gli occupati nel nostro Paese erano più di 23 milioni, il numero più alto mai registrato da Istat. C’è anche un altro indicatore a mostrare perché non è vero che in Italia ci siano sempre meno lavoratori rispetto al numero dei pensionati (nel 2021 i beneficiari di pensioni di anzianità e vecchiaia erano 11,3 milioni, nel 2012 11,4 milioni). Secondo i dati più aggiornati elaborati da Itinerari previdenziali, un ente indipendente che si occupa di previdenza sociale, nel 2021 in Italia c’erano 1,42 occupati per ogni pensionato. Nel 2000 erano 1,29, mentre il valore più alto si è toccato nel 2019, prima della pandemia, con 1,44. Numeri alla mano, quindi, negli ultimi dieci anni è aumentato il peso di chi versa i contributi previdenziali rispetto a chi percepisce la pensione. Come anticipato, ci sono anche numeri meno incoraggianti. Partiamo dalla spesa per le pensioni. Secondo Istat la spesa pensionistica in Italia ha raggiunto nel 2021 un valore pari al 17,6 per cento del Pil: nel 2000 era pari al 14 per cento. Il Documento di economia e finanza (Def), pubblicato ad aprile 2023 dal governo Meloni, ha previsto che la spesa pubblica in pensioni in rapporto al Pil continuerà ad aumentare almeno fino al 2042. Il Def utilizza un metodo di calcolo diverso rispetto all’Istat e fonda i suoi calcoli, tra le altre cose, su previsioni piuttosto ottimistiche sulla crescita dell’economia italiana. La spesa in pensioni aumenterà e bisogna chiedersi se le risorse riusciranno a stare dietro a questa crescita. Secondo le elaborazioni di Itinerari previden66
ziali, dal 2000 in avanti è peggiorato il saldo tra il valore delle prestazioni pensionistiche erogate e il valore dei contributi previdenziali incassati. Detto altrimenti, con gli anni si è allargata la distanza tra uscite ed entrate: nel 2000 era di circa 7 miliardi di euro, nel 2021 era di circa 31 miliardi. Il calo della natalità e l’invecchiamento della popolazione sta portando poi al continuo peggioramento di un altro indicatore, il cosiddetto “tasso standardizzato di pensionamento”. Secondo Istat nel 2018 c’erano 259 pensionati ogni mille abitanti in Italia: nel 2019 erano 260, nel 2020 263 e nel 2021 267. Se si guarda alla popolazione nel suo complesso e non ai soli occupati, quindi, ci sono sempre più pensionati. E in base alle previsioni le cose sono destinate a peggiorare nel medio e lungo termine. Nel 2019 l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha infatti pubblicato uno studio, intitolato Working better with age, dove ha calcolato che nel 2050 l’Italia rischia di avere più persone con almeno cinquantʼanni di età che non lavorano rispetto a persone occupate: la situazione peggiore tra gli oltre quaranta Paesi presi in considerazione. Ricordiamo che a oggi il tasso di occupazione dell’Italia è il più basso tra i ventisette Paesi membri dell’Unione europea, insieme a quello della Grecia. Secondo Meloni il «problema di tenuta» del «sistema economico e sociale» non si risolve con l’immigrazione. Al di là della legittima posizione politica, è interessante notare che il primo Def approvato
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
La spesa in pensioni aumenterà e bisogna chiedersi se le risorse riusciranno a stare dietro a questa crescita.
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dal suo stesso governo contiene una previsione che sembra andare in una direzione opposta a questa dichiarazione. Più nello specifico il Def presenta quello che in gergo tecnico è chiamato “esercizio di sensitività”. In parole semplici il documento si chiede che cosa succederebbe entro il 2070 alla sostenibilità del debito pubblico se l’immigrazione netta, ossia la differenza tra il numero degli immigrati e quello degli emigrati, dovesse aumentare o calare. Le elaborazioni del ministero dell’Economia e delle Finanze dicono che, rispetto a uno scenario base, un calo di un terzo dell’immigrazione netta porterebbe a un aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil, mentre una crescita dell’immigrazione a un calo sul lungo periodo. Grafici simili erano presenti anche nei Def approvati dai precedenti governi e per questo motivo, quando erano all’opposizione, vari esponenti di Fratelli d’Italia hanno accusato i governi di turno di volere più sbarchi di migranti per far crescere l’economia. Come abbiamo visto, però, si tratta di previsioni e non di obiettivi economici stabiliti dai governi. Valeva per quelli del passato, vale anche per quello guidato da Meloni. ●● «Il reddito di cittadinanza solo agli italiani» E veniamo adesso al reddito di cittadinanza, la misura di contrasto alla povertà e di politica attiva per il lavoro introdotta nel 2019 dal primo governo Conte, forse la misura più dibattuta e criticata degli ultimi sei anni della politica italiana. Con il decreto “Lavoro” approvato il 1° maggio, il governo Meloni ha introdotto le 68
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
due misure che sostituiranno il reddito di cittadinanza. Dal 1° gennaio 2024 entrerà in vigore il cosiddetto “assegno per l’inclusione sociale”, un sussidio economico che integra il reddito delle famiglie in cui è presente almeno un minore o una persona con più di sessant’anni di età o un disabile. Dal 1° settembre 2023, invece, è diventato attivo il cosiddetto “supporto per la formazione e il lavoro”: è destinato alle persone tra i diciotto e i cinquantanove anni di età che non hanno i requisiti per accedere all’assegno di inclusione sociale. Tra le novità introdotte dal governo Meloni ce n’è una che va contro quanto ha promesso in passato il leader della Lega Matteo Salvini, che dell’attuale governo è ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e vicepresidente del Consiglio. Grazie alla revisione del reddito di cittadinanza voluta dal governo Meloni, nel 2024 circa cinquantamila famiglie composte da stranieri, oggi escluse dal sussidio, potranno ricevere il nuovo assegno d’inclusione contro la povertà. Per richiedere questo assegno, infatti, non servirà più avere dieci anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi due consecutivi, ma cinque. Secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, i nuclei stranieri che beneficeranno di questa modifica corrispondono a quasi 150 mila individui, per una spesa annuale aggiuntiva di 360 milioni di euro. Il “Contratto di governo”, firmato a maggio 2018 da Lega e Movimento 5 Stelle per formare il primo governo Conte, aveva promesso di introdurre il reddito di cittadinanza, una misura «rivolta ai cittadini italiani», con l’esclusione degli stranieri. Nei mesi precedenti l’approvazione del decreto-legge che che a gennaio 2019 ha introdotto il reddito di cittadinanza si è discusso molto all’interno del primo governo Conte su come strutturare il sussidio contro la povertà e la
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platea dei beneficiari. Per esempio a settembre 2018, durante un question time in Senato, il senatore di Fratelli d’Italia Luca Ciriani (ministro per i Rapporti con il Parlamento nel governo Meloni) aveva chiesto all’allora ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria alcuni chiarimenti sul futuro reddito di cittadinanza. Tra le altre cose Ciriani aveva detto che Fratelli d’Italia era contraria al sussidio, ma favorevole in ogni caso a restringerlo solo agli italiani. «Noi condividiamo tale principio, perché lo consideriamo corretto. Io e il partito che rappresento, Fratelli d’Italia, non riteniamo che tutti abbiano diritto a tutto e che esista una priorità di buon senso per i cittadini italiani, per le famiglie italiane che per venti, trenta o quarant’anni hanno contribuito a creare ricchezza e magari si trovano ora in una situazione di difficoltà economica, e non possono essere messe sullo stesso livello di chi in questo Paese è giunto dall’estero due anni fa o addirittura soltanto due giorni fa», aveva detto Ciriani, aggiungendo: «Il governo è in grado di garantire che questa misura riguarderà soltanto i cittadini italiani e non anche gli stranieri?». Nella sua risposta Tria aveva aperto alla possibilità che il sussidio potesse essere erogato anche agli stranieri, sollevando le critiche dell’allora ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini e dell’altro vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio, leader del Movimento 5 Stelle. «Noi abbiamo chiesto i voti come Lega per prima gli italiani. Che il reddito di cittadinanza sia limitato ai cittadini italiani è una precisazione che come Lega abbiamo accolto con grande piacere perché di regalare altri soldi agli immigrati che vagano per l’Italia non avevamo voglia», aveva dichiarato Salvini alcuni giorni dopo il question time di Tria, commentando la smentita fatta da Di Maio alle paro70
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
le del suo ministro dell’Economia. In un fact-checking scritto per l’agenzia stampa Agi, all’epoca avevamo spiegato che il governo non avrebbe potuto escludere gli stranieri dal reddito di cittadinanza senza violare il diritto dell’Unione europea e la Costituzione. Cinque mesi dopo, il decreto-legge che ha istituito il reddito di cittadinanza ha stabilito che gli stranieri potessero accedere al sussidio, a patto che fossero residenti in Italia da dieci anni, di cui gli ultimi due consecutivi. Nel corso degli anni Salvini ha più volte criticato il reddito di cittadinanza, in particolare dopo la caduta del primo governo Conte, rilanciando sui social network notizie, non sempre accurate, sulle truffe del sussidio che riguardavano i cittadini stranieri. Sul tema il leader della Lega è tornato durante la campagna elettorale in vista delle elezioni politiche del 25 settembre 2022. Ad agosto di quell’anno Salvini ha infatti accusato il Partito Democratico guidato dal segretario Enrico Letta di voler «regalare il reddito di cittadinanza agli immigrati». Il motivo era che nel suo programma elettorale il PD aveva proposto di ridurre (ma non di eliminare) il requisito dei dieci anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi due consecutivi, per poter accedere al reddito di cittadinanza. Secondo il PD il sussidio andava «opportunamente ricalibrato secondo le indicazioni» elaborate dal Comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza, istituito a marzo 2021 dal ministero del Lavoro e guidato dalla sociologa Chiara Saraceno. A novembre 2021 il comitato ha pubblicato dieci proposte per modificare il reddito di cittadinanza, dove tra le altre cose si chiedeva di portare il requisito della residenza minima da dieci a cinque anni. Meno di nove mesi dopo, con il decreto “Lavoro” il governo Meloni è intervenuto, come detto, proprio su questo requisito: l’assegno per l’inclusione sociale, che
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sarà attivo a partire dal 1° gennaio 2024, potrà essere richiesto dagli stranieri che vivono in famiglie con almeno un minore, con almeno una persona con più di sessant’anni di età o con un disabile, e che rispettano una serie di requisiti economici. Rispetto al reddito di cittadinanza, il nuovo sussidio approvato anche dalla Lega è dunque più generoso con gli stranieri. ●●● «Pil e occupati crescono grazie all’abolizione del reddito di cittadinanza» C’è poi chi nel governo Meloni si è spinto a fare collegamenti parecchio traballanti, per non dire del tutto infondati, sugli effetti del solo annuncio della revisione del reddito di cittadinanza. Alla fine di giugno 2023, durante un convegno della Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori (Confsal), il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso (Fratelli d’Italia) ha fatto alcune dichiarazioni piuttosto discutibili, fatti e numeri alla mano, sui risultati raggiunti dal governo Meloni in ambito economico. Secondo Urso nel 2022 in Italia c’erano «3 milioni di giovani Neet», un acronimo dall’inglese Neither in employment or in education or training, che indica chi non ha un lavoro e non è iscritto a un corso di studi o di formazione professionale. Questo dato, a detta del ministro, dimostrava che «il reddito di cittadinanza ha diffuso la cultura che non era necessario lavorare». Urso ha poi detto che il governo ha approvato una «revisione del reddito di cittadinanza», il cui «risultato è chiaro a tutti»: «Siamo cresciuti di più, siamo cresciuti meglio, perché appunto, avendo abolito il reddito di 72
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cittadinanza, nella prima parte di quest’anno sono stati creati oltre mezzo milione di nuovi posti di lavoro in tre mesi». Punto per punto, vediamo che cosa non torna in queste dichiarazioni del ministro delle Imprese e del Made in Italy. Partiamo dal numero dei giovani Neet in Italia. Secondo Eurostat negli ultimi tre mesi del 2022 i Neet nella fascia di età tra i quindici e i ventnove anni erano poco più di 1,5 milioni nel nostro Paese: la metà rispetto ai «3 milioni» citati da Urso. Il numero dei Neet in Italia è in costante calo dall’inizio del 2021 e nei primi tre mesi del 2023 è sceso ulteriormente di circa 80 mila unità. Al di là delle legittime posizioni politiche di Urso sul reddito di cittadinanza, è vero che il numero di Neet dimostra che il sussidio ha disincentivato i giovani a cercare lavoro? Torneremo a breve sul punto, ma un dato mostra subito perché il ragionamento del ministro è poco solido. Negli ultimi tre mesi del 2018, ossia prima che venisse introdotto il reddito di cittadinanza a gennaio 2019, i Neet tra i quindici e i ventinove anni erano circa 2,1 milioni, un dato più alto di quello del 2022. Andando ancora a ritroso nel tempo, tra il 2013 e il 2014, più di cinque anni prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza, il numero dei Neet aveva superato la quota di 2,4 milioni, quasi un milione in più rispetto a quello registrato alla fine del 2022. Anche guardando alle percentuali il risultato non cambia. Secondo i dati Eurostat più aggiornati, in Italia il 16,6 per cento delle persone nella fascia di età tra i quindici e i ventinove anni non ha un lavoro e non lo cerca, la percentuale di Neet più alta tra i ventisette Paesi dell’Unione europea. Tra il 2013 e il 2018 questa percentuale era compresa però tra il 26 e il 23 per cento, ben più alta dunque prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza.
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Negli ultimi anni un aumento dei Neet, sia in valori assoluti che percentuali, è stato registrato solo nel 2020, durante la pandemia di Covid-19, seguito come detto poi da un calo. Ma una dinamica simile è stata registrata in altri Paesi europei, come Spagna e Grecia, segno dell’impatto che la crisi economica dovuta alla pandemia ha avuto sul mercato del lavoro europeo. Veniamo al secondo punto: l’impatto del reddito di cittadinanza sull’occupazione. Negli anni molti politici hanno accusato il reddito di cittadinanza di incentivare i percettori a non voler lavorare, spesso con argomenti fuorvianti e dati ingannevoli. Tra i politici critici del reddito di cittadinanza c’è anche il ministro Urso, che come abbiamo visto sostiene che grazie all’abolizione del sussidio l’occupazione sarebbe aumentata in Italia. Questa teoria ha però bisogno di numeri e di studi per poter essere ritenuta fondata. Quando si parla di politiche come il reddito di cittadinanza non basta, per individuare un rapporto di causa-effetto, notare che in contemporanea alla revisione del sussidio c’è stato un aumento degli occupati. Per individuare nessi causali è necessario stimare, con studi scientifici, la differenza tra l’andamento dell’occupazione senza la riforma del reddito di cittadinanza da parte del governo Meloni e l’andamento con la riforma. Ovviamente nel 2023 abbiamo assistito soltanto alla situazione in cui il reddito di cittadinanza è stato riformato, non abolito.
Per individuare nessi causali è necessario stimare, con studi scientifici, la differenza tra l’andamento dell’occupazione senza la riforma del reddito di cittadinanza da parte del governo Meloni e l’andamento con la riforma. 74
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Proprio per questo motivo servono studi con metodi statistici rigorosi: senza un’analisi attenta si rischia di avere stime troppo grossolane. Per esempio l’aumento degli occupati potrebbe essere dipeso da molte cause diverse tra loro e non da una sola, come la revisione del reddito di cittadinanza. Due osservazioni mostrano perché la teoria del ministro Urso non sta comunque molto in piedi, alla luce dei numeri e dei fatti. Prima osservazione: non è chiaro come un aumento dell’occupazione potesse essere causato da un provvedimento, la revisione del reddito di cittadinanza, che al momento delle dichiarazioni di Urso non era ancora diventato effettivo. Durante l’estate del 2023 il reddito di cittadinanza c’era ancora e, con tutta probabilità, la sua revisione mostrerà effetti concreti semmai nel 2024, quando diventerà operativa. Seconda osservazione: l’aumento degli occupati di cui parlava Urso c’è stato davvero? La risposta è sì. Secondo Istat, nei primi tre mesi del 2023 gli occupati in Italia sono aumentati di 513 mila unità rispetto allo stesso periodo del 2022, l’«oltre mezzo milione» di cui ha parlato il ministro al convegno della Confsal. La stessa Istat spiega che è stato «l’ottavo trimestre consecutivo» in cui si è osservato un aumento tendenziale dell’occupazione (ossia anno su anno): dunque al momento della dichiarazione di Urso gli occupati crescevano già da oltre due anni, un periodo che coincideva con la fine della fase più dura della crisi economica causata dalla pandemia di Covid-19. Anche qui assegnare il merito dell’aumento al solo annuncio della revisione del reddito di cittadinanza non ha senso (tra l’altro le nuove misure che avrebbero sostituito il sussidio erano state presentate a inizio maggio, quindi in un periodo non coperto dai dati Istat più aggiornati quando Urso ha fatto la sua dichiarazione).
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Lo stesso discorso vale per il Pil. Secondo i dati Istat all’epoca più aggiornati nel primo trimestre del 2023 il Pil italiano è cresciuto dello 0,6 per cento rispetto ai tre mesi precedenti, una percentuale più alta delle attese. Fatta eccezione per l’ultimo trimestre del 2022, il Pil italiano è comunque sempre cresciuto di tre mesi in tre mesi da gennaio 2021 in poi, e si è poi contratto nel secondo trimestre del 2023. Ricapitolando: è vero che il Pil e gli occupati continuavano a crescere da mesi quando alla fine di giugno il ministro Urso ha fatto la sua dichiarazione, ma non c’erano – e non ci sono – prove per dire che quella dinamica era merito anche dell’annunciata revisione del reddito di cittadinanza. ●●●● «I percettori del reddito di cittadinanza sono 3,5 milioni» Negli anni i critici del reddito di cittadinanza hanno spesso esagerato il numero dei beneficiari del sussidio. A maggio 2023 è cascato in questo tipo di errore il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari che, ospite a #cartabianca su Rai 3, ha detto che all’epoca i percettori del reddito di cittadinanza erano «3 milioni e mezzo». Un numero sbagliato, e non di poco. Secondo i dati più aggiornati dell’Inps a disposizione in quel periodo, i nuclei familiari percettori del reddito di cittadinanza erano poco più di 900 mila. Il numero di percettori superava il milione se si consideravano anche gli oltre 103 mila nuclei che in quel periodo percepivano la cosiddetta “pensione di cittadi76
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nanza”, ossia il reddito di cittadinanza per le famiglie composte solo da uno o più membri con almeno sessantasette anni di età. Il numero di persone coinvolte dal reddito e dalla pensione di cittadinanza, ossia la somma tra i percettori e i membri della famiglia che ne beneficiano, era pari a circa 2,1 milioni di persone. I beneficiari del reddito di cittadinanza erano circa 2 milioni, mentre quelli della pensione di cittadinanza meno di 120 mila. Dunque sia il dato sui percettori del sussidio sia il dato sui beneficiari erano molto più bassi dei «3 milioni e mezzo» di cui ha parlato Molinari in televisione. A marzo 2023 l’importo medio dell’assegno mensile del reddito di cittadinanza era pari a circa 604 euro, mentre quello della pensione di cittadinanza a circa 572 euro. In 310 mila nuclei percettori del sussidio era presente almeno un minore, mentre in quasi 200 mila c’era almeno un disabile. Percettori di almeno una mensilità di reddito di cittadinanza I dati del 2023 sono aggiornati al mese di giugno
2.600.000 2.400.000 2.200.000 2.000.000 1.800.000 1.600.000
Sud e Isole
1.400.000 1.200.000 1.000.000 800.000
Nord
600.000 400.000 200.000
Centro
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22 20
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Fonte: Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM)
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«Oltre il 50 per cento dei percettori del reddito non si è neanche presentato ai centri per l’impiego» Il reddito di cittadinanza ha avuto i suoi maggiori limiti nell’implementazione delle misure per aiutare i disoccupati a trovare un lavoro. Complice la struttura del sussidio, le caratteristiche dei percettori, il caotico sistema dei centri dell’impiego, i risultati del reddito di cittadinanza per quanto riguarda il mondo del lavoro sono stati deludenti (e dal 2020 in poi c’è stata anche la pandemia di Covid-19 a complicare un quadro occupazionale già di per sé difficile). Su questi limiti del reddito di cittadinanza vari esponenti della maggioranza di governo si sono concentrati sin da subito dopo le elezioni di settembre 2022, in alcuni casi commettendo errori o facendo dichiarazioni, a essere generosi, fuori fuoco. A novembre 2022, ospite della trasmissione Non è l’Arena su La7, il deputato e responsabile economico della Lega Alberto Bagnai ha per esempio dichiarato che all’epoca, secondo i dati dell’Anpal, su «660 mila persone occupabili» tra i percettori del reddito, il 57 per cento non si era neanche «presentato al centro per l’impiego» e non aveva fatto «neanche il primo passo verso l’inserimento nel mondo del lavoro». I «dati dell’Anpal» visionati da Bagnai erano con tutta probabilità quelli diffusi nella nota periodica dell’Agenzia pubblicata a ottobre di quell’anno, contenente i dati relativi ai beneficiari del reddito di cittadinanza che, al 30 giugno 2022, erano stati «indirizzati ai servizi per il lavoro». Secondo il documento, in quella data la platea di cittadini che percepivano il reddito di cittadinanza ed erano abili al lavoro era di circa 920 mila individui. Tra questi c’erano persone già occupate in attività lavorative, persone esonerate o rinviate ai servizi socia78
li. Di fatto i percettori del reddito realmente collocabili sul mercato del lavoro, e quindi «occupabili», erano circa 660 mila. Questi individui, il cui numero è stato correttamente citato dal deputato leghista, erano tenuti a sottoscrivere il cosiddetto “Patto per il lavoro”, ossia un percorso di accompagnamento al lavoro che obbligava i percettori del sussidio a seguire corsi di formazione, orientamento e riqualificazione professionale nei centri per l’impiego presenti su tutto il territorio italiano, pena «la decadenza o l’annullamento» del sostegno. La nota di Anpal specificava che dei 660 mila beneficiari “idonei” alla stipula di questo patto, al 30 giugno «la quota di utenti presi in carico», ossia quelli che avevano sottoscritto un Patto per il lavoro o erano impegnati in esperienze di tirocinio extracurriculare, ammontavano «a più di 280 mila». Secondo Bagnai, dunque, sottraendo dai 660 mila occupabili questi 280 mila, si otteneva un «57 per cento» circa di beneficiari (più o meno 380 mila) che non si era «neanche presentato al centro per l’impiego», dando quindi per assodato che quelle persone che non avevano sottoscritto il Patto per il lavoro e non avevano ancora iniziato nessun percorso di reinserimento lo avessero fatto volontariamente. Le cose però non stavano così. In realtà il «57 per cento» considerato da Bagnai rappresentava un campione di individui molto variegato e che non poteva essere raggruppato sotto l’insieme di chi non si era «neanche presentato al centro per l’impiego». In mol-
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Anche dopo essere stati formalmente convocati, però, non è detto che i beneficiari fossero effettivamente a conoscenza del percorso che dovevano intraprendere.
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ti casi, infatti, il motivo per cui questi quasi 400 mila beneficiari non avevano ancora sottoscritto il Patto per il lavoro prescindeva dalla loro volontà o meno di iniziare un percorso di reinserimento nel mondo del lavoro. «Nella percentuale di persone che non ha ancora sottoscritto il Patto per il lavoro e non è impegnata in tirocini extracurriculari ci sono tante situazioni diverse», aveva spiegato a Pagella Politica Marco Benadusi, capo ufficio stampa di Anpal. «È vero che i beneficiari occupabili sono tenuti a presentarsi ai centri per l’impiego, ma prima di tutto devono essere convocati: la stesura del Patto per il lavoro non è semplice, vanno fatte interviste, verifiche e una serie di procedure per le quali serve del tempo e spesso i centri per l’impiego non riescono a prendere in carico tutte le pratiche perché sono troppe». Anche dopo essere stati formalmente convocati, però, non è detto che i beneficiari fossero effettivamente a conoscenza del percorso che dovevano intraprendere. «Una delle difficoltà maggiori è proprio quella di riuscire a contattare queste persone: a volte sono sbagliati gli indirizzi, i numeri di telefono o l’email e per rintracciarli ci vogliono mesi», aveva sottolineato Benadusi. Come specificato dalla nota Anpal, infatti, andava tenuto presente che proprio a causa della lontananza dal mondo del lavoro questi individui esprimevano «alcune fragilità» rispetto al bagaglio di competenze necessarie per risultare pienamente occupabili, e che nel 71 per cento dei casi avevano conseguito «al massimo il titolo della scuola secondaria inferiore». In ogni caso, se una persona è stata più volte contattata da un centro per l’impiego ed è stata appurata la sua volontà di non sottoscrivere nessun Patto per il lavoro, questa è stata esclusa dalla misura, perdendo quindi il reddito di cittadinanza. 80
Il reddito di cittadinanza è stato in molte occasioni preso come pietra di paragone dai politici per dare un’ordine di grandezza per la spesa di altri provvedimenti. Anche qui, sulla precisione dei confronti c’è spesso qualcosa da ridire. Un esempio concreto: alla fine di marzo 2023, inaugurando la nuova edizione della Scuola di formazione della Lega, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini ha dichiarato che il ponte sullo Stretto di Messina costa come «un anno di reddito di cittadinanza». «Penso che i soldi sia meglio usarli per qualcosa che rimane nel nostro Paese, che crea mobilità, che crea velocità», aveva aggiunto Salvini, criticando la misura di contrasto alla povertà introdotta nel 2019 proprio con la Lega al governo, insieme al Movimento 5 Stelle. Ma è vero che la spesa per realizzare il ponte sullo Stretto (a cui in passato lo stesso Salvini, peraltro, era contrario) sarebbe pari a quella che ogni anno è stata destinata al reddito di cittadinanza? In breve: al momento è impossibile sapere quanto costerà la costruzione del ponte visto che manca ancora il progetto esecutivo, ma si può dire con certezza che il confronto fatto dal leader della Lega è sbagliato. Il decreto-legge che all’inizio del 2019 ha introdotto il reddito di cittadinanza ha stanziato 5,9 miliardi di euro per il 2019, 7,2 miliardi per il 2020 e 7,4 miliardi per il 2021, stabilendo un limite di spesa di 7,3 miliardi annui a partire dal 2022. Successivamente il governo Draghi, con la legge di Bilancio per il 2022, ha aumentato il livello di spesa fino a quasi 8,8 miliardi di euro. Il governo Meloni ha invece ridotto i soldi destinati
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«Il ponte sullo Stretto costa un anno di reddito di cittadinanza»
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al reddito di cittadinanza: nel 2023 le modifiche introdotte con la legge di Bilancio hanno portato a un risparmio di oltre 740 milioni di euro. Spesa dello Stato per reddito di cittadinanza e nuove misure di sostegno del governo Meloni In miliardi di euro 8
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Fonte: Rielaborazione Pagella Politica su informazioni contenute in dossier del Parlamento Il dato del 2024 fa riferimento alla somma della spesa per l’assegno di inclusione sociale e il supporto per la formazione e il lavoro
Nel frattempo, a marzo 2023 il governo Meloni ha approvato un decreto-legge con alcune misure per la realizzazione del ponte sullo Stretto. I principali interventi del decreto hanno riguardato la riattivazione della società concessionaria dei lavori, la Stretto di Messina S.p.A., il riavvio delle attività di programmazione e progettazione dell’opera e l’introduzione di un servizio di monitoraggio ambientale per valutarne l’impatto. Secondo quanto dichiarato più volte da Salvini, il governo vorrebbe ripartire dal progetto di ponte approvato nel 2012, che prevedeva la costruzione di un ponte a campata unica, ossia un ponte sospeso tra due soli piloni, uno in Sicilia e uno in Calabria, lungo oltre 3 chilometri. Questo progetto, approvato undici anni 82
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
fa dall’ultimo governo Berlusconi, fu bloccato poco prima che partissero davvero i lavori dal governo tecnico guidato da Mario Monti. «Entro l’estate 2024 ho l’intenzione di far approvare il progetto esecutivo e far partire i lavori», ha dichiarato più volte Salvini. Il decreto ha anche recuperato i contratti con le aziende incaricate della costruzione del ponte cancellati dal governo Monti, a partire da quello con Eurolink, un gruppo di aziende guidate dalla multinazionale italiana delle costruzioni Salini-Impregilo, oggi rinominata Webuild. Proprio sul sito ufficiale di Webuild è presente una stima di quanto potrebbe costare la realizzazione dell’infrastruttura. «Il progetto del ponte sullo Stretto da solo vale 2,9 miliardi di euro, valore che sale a 7,1 miliardi a costi aggiornati considerando il progetto complessivo con tutte le opere connesse nelle aree interessate, con la metro di Messina, opere di sistemazione idrogeologica per le montagne circostanti, strade di accesso, strutture per far passare treno e macchine», spiega Webuild. «Si tratta quindi di un progetto che si potrebbe realizzare anche per fasi successive». In realtà le cifre corrette sono ben più alte, per stessa ammissione del governo Meloni. E sono ancora tutte da trovare. Nel Documento di economia e finanza di aprile 2023 l’esecutivo ha infatti stimato in 13,5 miliardi di euro il costo aggiornato del ponte sullo Stretto di Messina. «A oggi non esistono coperture finanziarie disponibili a legislazione vigente», si legge nel Def. «Pertanto, queste dovranno essere individuate in sede di definizione del disegno di legge di Bilancio» per il 2024 o per gli anni futuri. ●●●●●
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«I percettori del reddito non devono stare in Italia» Nel primo anno di governo Meloni, dopo cinque anni dall’introduzione del reddito di cittadinanza, non sono mancate dichiarazioni di politici che hanno mostrato di conoscere ancora poco il sussidio. Tra questi politici c’è la stessa Meloni, che a dicembre 2022, nella sua prima intervista a Porta a Porta da presidente del Consiglio, ha chiesto in tono retorico al conduttore Bruno Vespa: «Ma le pare che chi prende il reddito di cittadinanza non ha neanche il vincolo di stare sul territorio nazionale?». In quella data per richiedere il reddito di cittadinanza era necessario essere residenti in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo. Questo non voleva dire che bastava avere la residenza in Italia, ma vivere altrove, per ricevere il sussidio. Una circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, inviata ad aprile 2020, ha infatti chiarito che il requisito della residenza «protratta per dieci anni debba intendersi riferito alla effettiva presenza del richiedente sul territorio italiano e non alla iscrizione anagrafica, consentendo all’interessato di fornire prova della sua presenza anche in assenza di iscrizione». Per attestare la regolare presenza sul territorio italiano potevano essere usati, per esempio, un contratto di lavoro, l’estratto conto contributivo dell’Inps, documenti medici e scolastici o contratti di affitto. Si può obiettare che, una volta ricevuto il sussidio, un beneficiario poteva liberamente andare a vivere all’estero. In realtà esistevano alcuni vincoli che, se non rispettati, portavano alla perdita del reddito di cittadinanza, difficilmente compatibili con vivere fuori dall’Italia. Per esempio bisognava dare la disponibili84
Le bugie sul lavoro e sui sussidi
tà immediata al lavoro, rispondere alle chiamate dei centri per l’impiego o partecipare ai progetti utili alla collettività organizzati dal comune di residenza. Era vero comunque che i requisiti di residenza e soggiorno valevano solo per chi faceva richiesta del reddito di cittadinanza, ma non dovevano necessariamente essere soddisfatti da tutti i membri del nucleo familiare.
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Le bugie sull’economia
«Abbiamo completamente invertito la tendenza»
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90 «Abbiamo completamente invertito la tendenza in economia» 92 «L’inflazione scende grazie a noi» 100 «L’evasione fiscale è sempre rimasta invariata» 103 «La vera evasione è quella delle big company e delle banche» 105 «Tassi più alti sui mutui, ma non per i risparmiatori» 107 «Nella legge di Bilancio non c’è nessun condono» 109 «Il tetto al contante non limita l’evasione» 113 «Gli stranieri preferiscono usare il contante altrove» 114 «La flat tax si paga da sola» 116 «L’automotive rappresenta circa il 20 per cento del Pil italiano»
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’è una costante che accomuna tutti i governi italiani susseguitisi negli ultimi anni. Se in economia e nel mondo del lavoro le cose vanno bene, il merito è di chi sta a Palazzo Chigi. Se le cose invece vanno male la responsabilità è quasi sempre degli altri, per esempio dei governi che c’erano prima, delle dinamiche internazionali e così via. Anche il governo guidato da Giorgia Meloni, nel suo primo anno di attività, ha seguito la strategia tradizionale e un esempio mostra bene perché, troppo spesso, chi guida il Paese si prende meriti che non ha. A maggio 2023 Fratelli d’Italia ha pubblicato sulle pagine ufficiali di Facebook, Twitter e Instagram una grafica con la scritta: «L’Italia cresce più di tutti in Europa». «Le previsioni sull’economia italiana sono state riviste al rialzo anche dall’Unione europea: la nostra nazione fa meglio e più delle altre», aveva aggiunto il partito di Meloni, sottolineando che questi dati erano «l’ennesima dimostrazione del lavoro serio e concreto portato avanti dal governo Meloni». Numeri alla mano, quello che scriveva Fratelli d’Italia non tornava: non era vero, insomma, che secondo le nuove stime della Commissione europea l’economia italiana fosse quella che sarebbe cresciuta di più nel 2023 tra tutte quelle dei ventisette Stati membri. Il 15 maggio la Commissione europea ha presentato le previsioni economiche di primavera 88
Le bugie sull’economia
con le stime sulla crescita del Prodotto interno lordo (Pil) dei Paesi dell’Ue. Secondo quelle previsioni, che in quanto tali avevano comunque un margine di incertezza, nel 2023 il Pil italiano sarebbe cresciuto dell’1,2 per cento rispetto al 2022, anno in cui il Pil era cresciuto del 3,7 per cento rispetto al 2021. Una cosa era vera: il +1,2 per cento stimato dalla Commissione Ue era più alto del +0,8 per cento stimato in precedenza per l’Italia nelle previsioni di inverno, pubblicate a febbraio 2023. Ma era falso dire, come fatto da Fratelli d’Italia, che il +1,2 per cento italiano fosse la percentuale di crescita più alta prevista nel 2023 per uno Stato membro. Secondo la Commissione Ue, infatti, nel 2023 il Pil di tredici Paesi Ue sarebbe cresciuto più di quello italiano: Irlanda (+5,5 per cento), Malta (+3,9 per cento), Romania (+3,2 per cento), Grecia (+2,4 per cento), Portogallo (+2,4 per cento), Cipro (+2,3 per cento), Spagna (+1,9 per cento), Paesi Bassi (+1,8 per cento), Slovacchia (+1,7 per cento), Lussemburgo (+1,6 per cento), Croazia (+1,6 per cento), Bulgaria (+1,5 per cento) e Lettonia (+1,4 per cento). La Commissione Ue prevedeva che anche il Pil di Belgio e Slovenia sarebbe cresciuto nel 2023 del +1,2 per cento, come quello italiano. La crescita prevista per il Pil italiano era comunque più alta di quella prevista per il Pil di Francia (+0,7 per cento) e per il Pil della Germania (+0,2 per cento), e della crescita media dei venti Paesi che adottano l’euro (+1,1 per cento). Il partito di Meloni ometteva poi un altro dettaglio importante. A maggio 2023 la Commissione Ue ha previsto che nel 2024 il Pil italiano sarebbe cresciuto dell’1,1 per cento rispetto al 2023. La percentuale di crescita più bassa stimata per tutti e ventisette i Paesi Ue, insieme al +1,1 per cento della Svezia.
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L’andamento del Pil italiano Variazione percentuale del Pil dal 2012 al 2022 10
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Fonte: Eurostat
● «Abbiamo completamente invertito la tendenza in economia» L’obiettivo del nostro lavoro non è quello di convincere i nostri lettori e le nostre lettrici a votare un partito piuttosto che un altro. Lo scopo del fact-checking è quello di fare informazione: a Pagella Politica non commentiamo le dichiarazioni dei politici dando giudizi di valore, ma analizzando quali fatti e numeri – se ci sono – stanno alla base delle affermazioni dei politici. Certo, speriamo di raggiungere il maggior numero possibile di persone con i nostri articoli e, perché no, anche il maggior numero di politici e parlamentari, per convincerli a correggere eventuali loro errori. La critica di Meloni travisava però in vari punti il contenuto del nostro articolo. Il fact-checking che ave90
vamo pubblicato pochi giorni prima del comizio della presidente del Consiglio riguardava una dichiarazione del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri Giovanbattista Fazzolari (Fratelli d’Italia) e non di Meloni. In un’intervista con «Libero» Fazzolari aveva dichiarato: «Con il governo Meloni abbiamo completamente invertito la tendenza: l’economia italiana cresce più della media Ue, abbiamo raggiunto il più alto tasso di occupazione mai registrato in Italia e il maggior numero di contratti stabili». Nel nostro factchecking spiegavamo che sì, era vero che il Pil italiano secondo i dati all’epoca più aggiornati stava crescendo più della media dell’Unione europea; che sì, a marzo 2023 il tasso di occupazione in Italia era il più alto da quando esistono i dati confrontabili tra loro (60,9 per cento); e che sì, a marzo 2023 il numero dei contratti a tempo indeterminato (quasi 15,4 milioni) era il più alto mai registrato. Sorvoliamo su quanto questi risultati fossero effettivamente merito o meno delle politiche del governo Meloni, in carica da circa cinque mesi (durante il comizio ad Ancona la stessa presidente del Consiglio aveva detto: «Non è merito mio, è merito vostro, di un popolo che ha fiducia nel futuro», rivolgendosi al pubblico). L’errore di Meloni e Fazzolari non era quello di rivendicare primati che non esistevano: come abbiamo visto, i «record» erano supportati dai fatti. L’errore stava nell’usare questi numeri per dire che c’era stata una – usando le parole del sottosegretario – «completa
Le bugie sull’economia
In molte occasioni abbiamo pubblicato factchecking in cui abbiamo analizzato dichiarazioni corrette fatte dalla stessa Meloni, da esponenti del suo partito e del suo governo.
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inversione di tendenza» rispetto al passato. Numeri alla mano, infatti, anche durante il governo di Mario Draghi il Pil italiano era cresciuto più della media Ue e in vari mesi si erano registrati record nel tasso di occupazione e nel numero di contratti stabili. Di fatto durante i primi mesi di attività del governo Meloni l’economia ha proseguito la strada iniziata nei mesi precedenti l’insediamento dell’esecutivo di centrodestra. Infine c’è un’ultima precisazione da fare. Durante il comizio elettorale la presidente del Consiglio ha detto che il nostro factchecking era «la lettura di quelli che ti devono contestare per forza perché sono numeri e i numeri non mentono». Come può controllare chiunque sul nostro sito, in molte occasioni abbiamo pubblicato fact-checking in cui abbiamo analizzato dichiarazioni corrette fatte dalla stessa Meloni, da esponenti del suo partito e del suo governo. Ricordiamo: il nostro intento – e quello in generale del fact-checking – non è quello di «contestare per forza» il governo di turno, ma di verificare le dichiarazioni dei politici di tutti i partiti usando sempre lo stesso metro di giudizio. E il nostro lavoro dimostra che non è vero che «i numeri non mentono»: spesso i politici usano numeri corretti, ma fuori dal contesto che permetta agli elettori di valutare quanto stia in piedi il ragionamento in cui sono inseriti. «L’inflazione scende grazie a noi» Durante il suo primo anno di governo l’esecutivo di centrodestra non si è preso solo meriti che non aveva sulla crescita dell’economia e dell’occupazione, ma anche sull’andamento dell’inflazione. Dal 2021 i prezzi per beni e servizi sono costantemente aumentati, non solo in Italia ma anche in Europa e in altri Paesi del mon92
Le bugie sull’economia
do, rallentando progressivamente a partire da metà del 2023. Proprio a luglio di quest’anno Fratelli d’Italia ha scritto sulle sue pagine social ufficiali che in Italia l’inflazione stava calando a dimostrazione che «le misure varate dal governo Meloni danno i loro frutti». «Questi numeri sono l’ennesima conferma che siamo sulla strada giusta», secondo la comunicazione del partito guidato dalla presidente del Consiglio. Le cose però non stavano così, o meglio: era vero che la crescita dell’inflazione stava rallentando, ma darne il merito al governo era scorretto. Il giorno della dichiarazione di Fratelli d’Italia l’Istat aveva pubblicato le stime più aggiornate sull’andamento dei prezzi nel nostro Paese. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, a giugno 2023 l’inflazione in Italia è aumentata del 6,4 per cento rispetto allo stesso mese del 2022, una crescita meno marcata rispetto al +7,6 per cento registrato a maggio. Per capire il motivo del calo dell’inflazione è utile analizzare nello specifico quali erano i beni e i servizi i cui prezzi sono scesi di più a giugno. Presentando le sue stime Istat aveva specificato che il rallentamento dell’inflazione si doveva «ancora, in prima battuta, al rallentamento su base tendenziale dei prezzi dei beni energetici non regolamentati». Il prezzo di questi beni, tra cui rientrano i carburanti per i veicoli e il gas e l’elettricità per uso domestico nel mercato libero, era aumentato a giugno dell’8,4 per cento rispetto a un anno prima, mentre a maggio la crescita era stata del 20,3 per cento. Il fattore principale che stava determinando il rallentamento dell’inflazione era dunque il calo del costo dell’energia, in discesa ormai da mesi, calo che è stato la causa più significativa alla base della crescita dell’inflazione in Europa nel 2022 (già nel 2021 si erano registrati i primi aumenti a causa, tra le altre cose, della riduzione dell’offerta da parte della Russia).
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Il tasso di inflazione nei Paesi dell’Area Euro Variazione del tasso di inflazione da gennaio 2021 a luglio 2023
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Fonte: Eurostat
Come abbiamo spiegato in vari fact-checking, il calo del costo dell’energia non era riconducibile a misure adottate dal governo Meloni, ma a dinamiche internazionali, tra cui l’aumento degli stoccaggi di gas in Europa, la riduzione della domanda di gas delle industrie e l’aumento della produzione di energie rinnovabili. Un’altra categoria che stava trainando la riduzione dei prezzi, seppur in maniera minore, era quella dei beni alimentari non lavorati, come la carne e la frutta. Nonostante il rallentamento, durante l’estate del 2023 l’inflazione restava alta in Italia, non solo per colpa dell’energia. Lo shock iniziale sui prezzi si era trasmesso al resto dell’economia, con le imprese che hanno aumentato i prezzi per mantenere intatti i margini di profitto e i lavoratori che hanno richiesto aumenti di salario per proteggere il loro potere d’acquisto. Questi aumenti hanno portato a una crescita dei prezzi anche in settori non particolarmente dipendenti dal costo 94
Le bugie sull’economia
dell’energia, come quello dei servizi alla persona. Per questo motivo bisognava guardare non solo all’inflazione in generale, ma anche alla cosiddetta “inflazione di fondo”, cioè al netto di beni energetici e alimentari. Questa misura permette di separare i fattori legati alle materie prime (come energia e alimenti), che causano l’inflazione, da quelli più strettamente collegati alla rincorsa di profitti e salari per compensare gli aumenti dei prezzi. L’andamento dell’inflazione di fondo a giugno confermava che era soprattutto il calo dei beni energetici a pesare sulla riduzione dell’inflazione. Seppur in discesa, in quel mese l’inflazione di fondo era infatti rimasta relativamente stabile, passando dal +6 per cento di maggio al +5,6 per cento. Un altro modo per capire se il rallentamento dell’inflazione fosse merito del governo Meloni, e non di fattori esterni, era guardare che cosa stava succedendo negli altri Paesi che adottano l’euro. Secondo Eurostat, a giugno l’inflazione nell’area euro era aumentata del 5,5 per cento rispetto a giugno 2022, contro il +6,1 per cento di maggio. Per l’Italia, invece, si era passati dal +8 per cento al +6,7 per cento (le percentuali di Eurostat sono diverse da quelle di Istat perché a livello europeo si utilizza un indice leggermente diverso per fare confronti tra i Paesi, ma l’andamento dei dati resta comunque paragonabile). A giugno un calo dell’aumento dei prezzi era stato registrato in tutta l’area euro, anche se in Italia in maniera un po’ più marcata.
Questo non significa che le banconote in euro siano le uniche a costituire moneta, come lasciato intendere da Meloni. Per esempio anche il saldo di un conto corrente bancario è moneta. 95
Pure in questo caso, se si osservano le varie componenti dell’indice dell’inflazione usato da Eurostat, si scopre che gli elementi non strettamente legati all’energia non avevano registrato riduzioni significativamente diverse rispetto al resto dell’area euro. Per esempio i prezzi dei beni industriali non energetici erano calati di 0,2 punti percentuali in Italia e di 0,3 nell’area euro. Un’altra ragione del calo dell’inflazione stava nella politica monetaria adottata dalla Banca centrale europea (Bce), che dal 2022 in poi ha alzato varie volte i tassi di interesse (una scelta tra l’altro criticata da vari membri del governo Meloni). L’aumento dei tassi di interesse ha portato a un rallentamento dell’attività economica e soprattutto dei prezzi. In genere, tassi di interesse più alti significano costi dei prestiti più alti e quindi minore spinta all’investimento per gli individui e le imprese. Più che all’azione del governo, dunque, il calo dell’inflazione in Italia era legato al contesto macroeconomico internazionale e in particolare all’aumento dei tassi di interesse della Bce e al rallentamento dell’economia europea e mondiale dovuto proprio alla crisi inflattiva. ●● La moneta elettronica è una moneta privata? Nei quasi dieci anni che Fratelli d’Italia è stato all’opposizione una delle battaglie principali che ha condotto in ambito economico ha riguardato l’uso del contante e dei pagamenti elettronici. In diverse occasioni esponenti del partito della futura presidente del Consiglio hanno dichiarato che «la moneta elettronica è una moneta privata». Questa 96
Le bugie sull’economia
frase è stata ripetuta varie volte dalla stessa Meloni nell’autunno del 2022, durante le settimane di dibattito sull’approvazione della legge di Bilancio. Tra le altre cose il governo aveva proposto di eliminare parte delle sanzioni per chi non accettava pagamenti elettronici, inserendo una soglia di 30 euro oltre la quale rimanevano in vigore. Dopo le critiche della Commissione europea il governo ha fatto un passo indietro, lasciando in vigore le sanzioni. «In Italia l’unica moneta a corso legale è il denaro contante stampato dalla Banca centrale europea. Significa che l’unica moneta con la quale tu non puoi rifiutare di farti pagare è l’euro stampato dalla Bce. La moneta elettronica è una moneta privata: è una moneta legale, chiaramente, ma privata, gestita dalle banche. Non è a corso legale», ha dichiarato Meloni il 26 ottobre 2022, durante il discorso in Senato per ottenere la fiducia. Il tema è piuttosto tecnico, ma il messaggio secondo cui esisterebbe una moneta “vera” e pubblica, ossia il denaro contante, contrapposta a una moneta privata, quella dei pagamenti elettronici, con costi aggiuntivi, è fuorviante e rischia di creare confusione nel dibattito politico. Prima di addentrarci nella tesi secondo cui la moneta elettronica è privata, facciamo un breve ripasso su che cos’è la moneta. La moneta è uno strumento che svolge tre funzioni: è un mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi, è un’unità di conto per attribuire un prezzo ai beni e servizi ed è una riserva di valore per il risparmio. Semplificando un po’, in passato, quando la moneta è nata, aveva la forma di “moneta merce”, ossia era rappresentata da un bene che aveva un proprio valore intrinseco, come le monete fatte con materiali preziosi. Nel tempo la moneta ha poi assunto la forma di “moneta rappresentativa”,
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per esempio attraverso le banconote, che potevano essere scambiate con un certo quantitativo di materiali preziosi, come l’oro o l’argento. Oggi nelle economie moderne, come quelle europee, la moneta ha la forma di “moneta fiduciaria”. Questa non ha un valore intrinseco: la carta utilizzata per le banconote è in sostanza priva di valore, ma è accettata in cambio di beni e servizi perché chi la usa ha fiducia che la banca centrale manterrà il valore della moneta stabile nel tempo. La moneta fiduciaria è detta anche “a corso legale” perché è quella considerata da uno Stato come lo strumento valido di pagamento. In quanto tale non può essere rifiutata quando si accetta un pagamento di un bene o di un servizio (a meno che compratore e venditore non abbiano concordato un mezzo di pagamento alternativo). Nei venti Paesi dell’area euro, tra cui l’Italia, l’unica moneta a corso legale è l’euro. Questo non significa però che le banconote in euro siano le uniche a costituire moneta, come lasciato intendere da Meloni. Per esempio anche il saldo di un conto corrente bancario, ossia la differenza tra quanto è depositato su un conto in banca e quanto viene speso con quel conto, è moneta. Ed è qui che entra in gioco il dibattito sulla moneta elettronica, nel quale ha un ruolo importante il sistema bancario e chi in Europa ne sta al vertice, cioè la Banca centrale europea). La Bce può essere descritta (anche) come la banca delle banche commerciali private nell’area euro. Per esempio le banche commerciali possono rivolgersi alla Bce per richiedere prestiti, finanziarsi e alimentare a loro volta le economie nazionali, erogando credito alle imprese e ai cittadini. Tutto questo non avviene esclusivamente con la stampa di banconote in euro: la moneta è accreditata 98
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elettronicamente presso le banche private e i singoli cittadini o imprese possono a loro volta depositare contanti presso le banche, che saranno elettronicamente conteggiati nei loro saldi di conto corrente. Non è vero che questa moneta, che possiamo definire “elettronica”, non abbia corso legale. «La moneta elettronica a corso legale esiste ed è quella che le banche si scambiano, tra le altre cose, per regolare i nostri pagamenti», ha spiegato a Pagella Politica Andrea Terzi, professore di Economia e finanza alla Franklin University di Lugano, in Svizzera, e docente di Economia monetaria all’Università Cattolica di Milano. «Quando eseguo un pagamento a beneficio di un’altra persona, che ha un conto corrente in un’altra banca, la mia banca deve sostanzialmente spostare banconote elettroniche dal suo conto a quello presso la banca del beneficiario», ha sottolineato Terzi. «È vero che avere un saldo di conto corrente è un credito nei confronti della nostra banca, e non nei confronti della banca centrale. In questo senso il saldo di conto corrente può essere considerato una sorta di moneta privata, o meglio: un credito verso un’istituzione privata, ossia una banca, che tuttavia svolge la funzione di agente intermediario dello Stato. Ma nel momento in cui io faccio un pagamento, quindi uso il saldo di conto corrente, e il pagamento va a buon fine, a quel punto il pagamento ricevuto ha valore di corso legale. Nessun giudice annullerebbe l’acquisto di un immobile, per esempio, perché è stato fatto con un conto corrente, e non in contanti». Questo non vuol dire che non ci siano differenze tra la moneta elettronica e quella rappresentata dalle banconote. «Se ho un conto corrente presso una banca e quest’ultima fallisse, posso rischiare di perdere una parte dei miei soldi, ma solo quelli al di sopra del limite dell’assicu-
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razione dei depositi, oggi fissato a 100 mila euro», ha sottolineato Terzi. «Ma questo non intacca il discorso sul corso legale: un pagamento è regolato in maniera definitiva se il beneficiario riceve fondi in euro. E i fondi in euro puoi riceverli benissimo in banconote o con un saldo bancario». Ricapitolando: quando parla di moneta elettronica «privata» e corso legale, Meloni fa confusione tra la natura della moneta bancaria, intesa come valore depositato presso una banca, e il regolamento del pagamento. È vero che la moneta bancaria può essere trasferita con strumenti di pagamento privati, come Satispay o Paypal o i circuiti delle carte di credito, ma questo non vuol dire che nell’effettuare un pagamento il saldo di conto corrente sia, per così dire, meno legale rispetto al denaro contante. ●●● «L’evasione fiscale è sempre rimasta invariata» Strettamente legato al tema dell’uso dei pagamenti elettronici c’è quello dell’evasione fiscale, su cui la presidente del Consiglio Meloni ha fatto nel suo primo anno di governo alcune dichiarazioni nei fatti scorrette e imprecise. Vediamo insieme quali sono state le due più discusse. In varie occasioni Meloni ha criticato le misure, a detta sua, «poco efficaci» dei governi precedenti contro l’evasione fiscale. Secondo la leader di Fratelli d’Italia questo sarebbe dimostrato dal fatto che negli anni il livello dell’evasione fiscale «è sempre rimasto invariato», ma i numeri le danno torto. Le stime più affidabili sul valore dell’evasione fiscale in Italia sono contenute nell’aggiornamento alla Relazione sull’economia non osser100
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vata e sull’evasione fiscale e contributiva, pubblicato alla fine del 2022 dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Questo rapporto è realizzato da una commissione composta da esperti di economia e finanza, statistica, fisco, lavoro e diritto. Per quantificare il fenomeno dell’evasione è utilizzato il cosiddetto tax gap, un indicatore che rappresenta la differenza tra quanto lo Stato stima di dover ricevere con le tasse e quanto riesce effettivamente a raccogliere. Nel 2020 l’evasione delle entrate tributarie ha raggiunto un valore pari a quasi 79 miliardi di euro, in calo rispetto ai circa 87 miliardi di euro del 2019. Allargando il confronto, la differenza tra l’evasione stimata nel 2020 e quella nel 2015 arriva a circa 16 miliardi di euro. Se si tiene conto anche del mancato pagamento dei contributi previdenziali, nel 2020 l’evasione sale a 90 miliardi di euro, comunque in calo di oltre 16 miliardi rispetto al 2015. Si potrebbe obiettare che il 2020 è stato un anno anomalo dal punto di vista delle tasse, visto che è stato fortemente influenzato dalla crisi economica causata dalla pandemia di Covid-19. Ma anche se si guardano i dati fino al 2019, si scopre che negli ultimi anni l’evasione in Italia è calata. La differenza tra l’evasione delle imposte tributarie registrata nel 2019 e quella nel 2015, ad esempio, è stata pari a quasi 9 miliardi di euro. Considerando anche i contributi previdenziali, il calo è stato di 7 miliardi euro. Come sottolinea la relazione del ministero dell’Economia e delle Finanze, «il tax gap è una grandezza espressa in termini monetari e risente pertanto sia delle dinamiche inflazionistiche sia dell’andamento del ciclo economico». Questo indicatore resta in calo pure se si guarda il suo valore in rapporto al Pil: era al 4,1 per cento nel 2019, mentre nel 2015 era intorno al 5 per cento.
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L’incidenza del tax gap In rapporto al Pil (%), dal 2001 al 2020 6
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Fonte: Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva 2022, Ministero dell’Economia e delle Finanze
Secondo il ministero negli ultimi anni le politiche di contrasto all’evasione «più efficaci» sono state la fatturazione elettronica obbligatoria e lo split payment, una forma di liquidazione Iva che prevede che nei rapporti tra aziende e professionisti da un lato e la pubblica amministrazione dall’altro sia quest’ultima a contribuire l’imposta relativa alla transazione. Curiosità: in passato, quando erano all’opposizione, in varie occasioni Meloni e Fratelli d’Italia si erano detti contrari sia alla fatturazione obbligatoria, considerata troppo gravosa per i commercianti, sia allo split payment. Nonostante i miglioramenti nella riduzione dell’evasione fiscale, «l’evasione tributaria resta comunque elevata nel confronto europeo», ha sottolineato il ministero nella sua relazione. Secondo le stime della Commissione europea, l’Italia ha l’evasione dell’Iva più alta tra tutti gli Stati membri dell’Unione europea, con un valore pari a 26 miliardi di euro, rispetto ai 14 miliardi della Francia e agli 11 miliardi della Germania. 102
Una seconda – e criticatissima – dichiarazione fatta da Meloni a proposito dell’evasione fiscale è stata quella pronunciata dalla presidente del Consiglio a fine maggio 2023, durante un comizio elettorale a Catania. «La lotta all’evasione fiscale si fa dove sta davvero l’evasione fiscale: le big company, le banche, le frodi sull’Iva, non il piccolo commerciante al quale vai a chiedere il “pizzo di Stato”», ha detto Meloni in quell’occasione, aggiungendo che il suo governo voleva «ridisegnare completamente il rapporto tra lo Stato e il contribuente». I dati ufficiali del ministero dell’Economia e delle Finanze smentivano però quanto sostenuto dalla leader di Fratelli d’Italia: la maggior parte dell’evasione fiscale in Italia, infatti, non è commessa dalle grandi aziende, ma da quelle più piccole. Vediamo che cosa dicono più nel dettaglio i già citati dati del ministero dell’Economia e delle Finanze, relativi al 2019 (tralasciamo i dati del 2020 che, come detto, sono stati influenzati dalla pandemia di Covid-19). Ogni forma di evasione è censurabile e da contrastare, ma chi sono i contribuenti che evadono di più in Italia? Secondo Meloni sono le grandi imprese (chiamate in inglese big company) e le banche, ossia le organizzazioni con una dimensione aziendale piuttosto grande. Queste sono le imprese soggette all’Ires, l’imposta sul reddito delle società, pagata soprattutto dalle società di capitali. Nel 2019 sono stati evasi quasi 9 miliardi di euro tramite la mancata dichiarazione o il mancato versamento dell’Ires. Se si considera il gettito potenziale dell’Ires, ossia tutte le entrate fiscali che si otterrebbero se tutti pagassero questa imposta,
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«La vera evasione è quella delle big company e delle banche»
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circa un quarto viene evaso (il 23 per cento). Circa un quinto dell’Iva potenziale viene evasa (il 20 per cento), per un totale di quasi 32 miliardi di euro. Buona parte dell’evasione dell’Iva però deriva dalle piccole transazioni, come quelle del commercio al dettaglio, che sono semplici da non dichiarare al fisco: basta per esempio non emettere lo scontrino fiscale per un acquisto. Per un’impresa di medie e grandi dimensioni, che compie soprattutto transazioni con altre imprese, sottrarre le fatture all’occhio del fisco è invece molto più complicato. Va poi considerata l’ultima voce più rilevante tra quelle relative alle transazioni in nero: l’evasione dell’Irpef da parte dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese. Nel 2019 sono stati evasi oltre 32 miliardi di euro di Irpef da lavoro autonomo e di impresa. Questa è la voce più rilevante dell’evasione fiscale sia in termini assoluti che in termini relativi: i lavoratori autonomi e le piccole imprese, infatti, non pagano in media il 69 per cento delle imposte sul reddito che dovrebbero pagare allo Stato ogni anno (una percentuale che nel 2015 era pari al 65 per cento). Molto probabilmente nel suo intervento Meloni voleva fare riferimento alla cosiddetta “elusione fiscale”, fenomeno che per esempio indica la decisione di alcune grandi aziende di spostare i profitti o presentare in un certo modo i propri ricavi per pagare meno tasse (come trasferire la sede legale all’estero). Nel suo discorso, però, la presidente del Consiglio aveva fatto esplicitamente riferimento all’evasione fiscale, che è una cosa ben diversa e su cui abbiamo a disposizione dati affidabili che smentiscono la sua posizione.
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Le bugie sull’economia
L’evasione fiscale in Italia Per imposte (%), anno 2019
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Fonte: Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva 2022, Ministero dell’Economia e delle Finanze I dati più aggiornati sono relativi all’anno 2020, ma non sono stati considerati per gli effetti della pandemia da Covid-19
«Tassi più alti sui mutui, ma non per i risparmiatori» Giorgia Meloni non ha solo accusato le banche di evadere il fisco, ma ha anche difeso la tassa introdotta ad agosto 2023 sui cosiddetti “extraprofitti” degli istituti finanziari accusandoli di aver aumentato i tassi di interesse sui mutui, lasciando «invariati» i tassi «riconosciuti ai risparmiatori». Ma davvero le banche hanno sfruttato solo i lati positivi (per loro) dell’aumento dei tassi deciso dalla Bce, senza condividerlo con i clienti? Oppure è vero il contrario? Prima di tutto bisogna capire quali sono i benefici di un aumento dei tassi d’interesse per le banche e i suoi clienti. Tra luglio 2022 e agosto 2023 la Bce ha alzato nove volte i tassi d’interesse sul denaro che presta alle banche private dei Paesi membri dell’area euro, che a loro volta erogano prestiti e mutui ai cittadini e alle imprese. In un anno i tassi sono passati dallo 0,25 per cento al 4,5 per cento. Per le banche un tasso di interesse più alto significa, per 105
esempio, maggiori ricavi dai mutui a tasso variabile, oltre che dai nuovi mutui sottoscritti a tasso fisso. In teoria questo effetto positivo per le banche si dovrebbe registrare anche per i clienti che prestano loro risorse, per esempio aprendo conti deposito o comprando altri strumenti finanziari. Secondo un rapporto mensile pubblicato a luglio 2023 dall’Associazione bancaria italiana (Abi), che raggruppa e rappresenta gli istituti finanziari del nostro Paese, tra giugno 2022 e giugno 2023 il tasso di interesse applicato dalle banche alle famiglie per l’acquisto di abitazioni è cresciuto dal 2,05 per cento al 4,25 per cento. Nello stesso periodo di tempo sono aumentati anche gli interessi riconosciuti sui nuovi conti deposito, dove le cifre depositate sono vincolate con una durata prestabilita, passati dallo 0,29 per cento al 3,20 per cento. Dunque sui tassi riconosciuti dai nuovi conti deposito c’è stato addirittura un aumento più forte rispetto a quanto avvenuto per i mutui, una dinamica che smentisce quanto dichiarato dalla presidente del Consiglio. Lo stesso discorso non vale per gli interessi riconosciuti sui conti deposito aperti prima dell’aumento dei tassi e sui conti corrente, rimasti di fatto invariati, mentre i mutui a tasso variabile sono sì aumentati, e di molto, come abbiamo visto. C’è poi un altro fattore da tenere in considerazione. In un’analisi pubblicata a luglio 2023 il «Financial Times» ha calcolato che i benefici degli aumenti dei tassi sono stati trasferiti dalle banche italiane ai propri clienti meno rispetto a quanto avvenuto in altri Paesi europei. Per esempio le banche francesi hanno trasferito il 35 per cento dell’aumento dei tassi a beneficio dei depositi dei clienti, mentre le banche italiane solo l’11 per cento. Sembra quindi che nella dichiarazione di Meloni un fondo di verità ci sia. Il fatto che i margini di interesse delle banche siano cresciuti in un periodo di aumento 106
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dei tassi è comunque normale, soprattutto dopo un periodo di tassi vicino allo zero come è stato quello negli ultimi quindici anni nell’Unione europea. Il periodo positivo per le banche è arrivato dopo anni di condizioni di mercato poco favorevoli per gli istituti di credito e molto a vantaggio dei clienti, per cui non è necessariamente fuori dall’ordinario che i profitti delle banche siano cresciuti così tanto nel 2023, anche se è difficile valutare quanto profitto in più sia “giusto” e quanto invece sia “extra”. Va infine ricordato che le banche italiane hanno un maggiore potere di mercato nella contrattazione rispetto ai clienti. Una delle ragioni risiede nella minore concorrenza: le prime cinque banche italiane coprono infatti il 50 per cento del mercato interno. ●●●● «Nella legge di Bilancio non c’è nessun condono» Il programma elettorale della coalizione di centrodestra ha promesso vari provvedimenti in materia di fisco, per creare un rapporto «più equo» tra i contribuenti e l’erario. Tra le misure promesse c’era anche la cosiddetta “pace fiscale”, un’espressione cara alla Lega, già messa in campo durante il primo governo Conte, sostenuto insieme al Movimento 5 Stelle. Una parte di queste misure è stata in effetti introdotta con l’approvazione della legge di Bilancio per il 2023, che il governo Meloni ha presentato il 22 novembre 2022, prima dell’inizio del suo percorso di approvazione in Parlamento. All’epoca, presentando il testo nel corso di una conferenza stampa, Meloni aveva dichiarato che nella legge di Bilancio non c’era nessun condono, ma una «tregua fiscale».
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Le cose però non stavano così: nella legge di Bilancio un condono fiscale c’era eccome. Per il 2023 il governo aveva deciso di annullare le cartelle esattoriali con un valore inferiore ai mille euro, inviate ai contribuenti entro il 2015, quindi vecchie di oltre sette anni. In più per tutti gli altri debiti con il fisco «si dovrà pagare il dovuto – aveva specificato Meloni in conferenza stampa – con una maggiorazione unica del 3 per cento e con una possibilità di rateizzazione», senza gli oneri di riscossione e altre maggiorazioni. Secondo il vocabolario Treccani, un condono fiscale è un «provvedimento legislativo che prevede un’amnistia fiscale e ha lo scopo di agevolare i contribuenti che vogliano risolvere pendenze in materia tributaria». Nella letteratura scientifica internazionale il “condono” (in inglese tax amnesty) è definito come «l’opportunità data ai contribuenti di saldare un debito con il fisco, inclusi gli interessi e le more, pagandone solo una parte». Le misure approvate dal governo Meloni rientravano a tutti gli effetti in questa categoria, perché da un lato hanno cancellato automaticamente i debiti di alcuni contribuenti con il fisco, dall’altro hanno fatto sì pagare il dovuto, ma con uno sconto sulle maggiorazioni. A marzo 2021 una misura simile è stata adottata dal governo guidato da Mario Draghi. Il decreto “Sostegni” aveva infatti stabilito l’annullamento delle cartelle esattoriali fino a 5 mila euro, arrivate tra il 2000 e il 2010, per tutti i contribuenti che nel 2019 avevano di-
Paesi con il limite al contante possono avere un’evasione fiscale superiore a quelli senza un limite. Stabilire in questo modo l’efficacia o meno del tetto al contante contro l’evasione non è però corretto. 108
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chiarato un reddito entro i 30 mila euro. «Questo in effetti è un condono», aveva ammesso Draghi, presentando il provvedimento in una conferenza stampa. «È chiaro che in questo caso lo Stato non ha funzionato», aveva aggiunto l’allora presidente del Consiglio, criticando l’accumulo di cartelle che il fisco non era riuscito a riscuotere. Anche il primo governo Conte aveva introdotto a ottobre 2018, nel decreto “Fiscale”, la cancellazione automatica dei debiti per le cartelle esattoriali relative al periodo tra il 2000 e il 2010, con un importo fino ai mille euro. Il decreto conteneva altre misure per agevolare i contribuenti che avevano debiti con il fisco, raccolte sotto il nome di “pace fiscale”. «Possiamo chiamarlo condono?», aveva chiesto un giornalista a Conte, durante la conferenza stampa di presentazione del decreto, ricevendo questa risposta dall’allora presidente del Consiglio: «Lei lo chiami come vuole: noi lo chiamiamo definizione agevolata, pacificazione, eccetera. Poi siccome il lessico è nelle sue facoltà, lei domani scriva quello che vuole». In passato il leader della Lega Matteo Salvini, oggi ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha ammesso che l’espressione “pace fiscale” era un sinonimo di «condono». «Il tetto al contante non limita l’evasione» Un altro contestato provvedimento contenuto nella legge di Bilancio per il 2023 è stato l’aumento del tetto all’uso del contante. Fino alla fine del 2022 in Italia erano consentiti pagamenti in contanti per un valore entro i 2 mila euro. Il governo Meloni, mantenendo una promessa fatta nel programma elettorale, ha alzato la soglia a 5 mila euro, dicendo che questa scelta
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avrebbe incentivato i consumi e non contrastato la lotta all’evasione fiscale. Il 26 ottobre 2022, replicando in Senato agli interventi dei parlamentari prima di ricevere la fiducia, Meloni ha dichiarato che non esiste una «correlazione tra intensità del limite del contante e diffusione dell’economia sommersa». Detto altrimenti, la presidente del Consiglio dava per certo che l’evasione fiscale non sarebbe aumentata se si fosse alzato il limite dell’uso del contante, più difficile da tracciare rispetto ai pagamenti elettronici. In realtà le cose erano, e sono ancora oggi, meno nette rispetto al quadro dipinto da Meloni. Nel suo discorso in Senato la presidente del Consiglio ha evidenziato che nell’Ue ci sono Paesi senza il tetto al contante e con un’evasione fiscale «bassissima». Questa argomentazione era stata usata anche alla fine del 2015 dall’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, come ricordato da Meloni in aula, quando il governo guidato da Matteo Renzi aveva deciso di alzare il tetto al contante a tremila euro con la legge di Stabilità per il 2016 (nel 2019 lo stesso Padoan ha ammesso che l’aumento del tetto fu un «errore», aggiungendo che lui era «contrario»). Nella relazione illustrativa della legge di Stabilità l’aumento del tetto al contante era motivato così dal governo Renzi: «L’innalzamento della soglia, a fronte di studi che escludono un indice di correlazione diretta tra utilizzo del contante ed evasione fiscale, assolve all’esigenza di garantire maggior fluidità nelle transazioni effettuate quotidianamente per il soddisfacimento di bisogni di stretto consumo, oltre che per allineare la soglia prevista dall’ordinamento italiano alle scelte degli altri Stati membri, diretti competitor dell’Italia, tendenzialmente attestati su politiche meno restrittive». Tradotto in parole semplici, già nel 2015 il governo di turno so110
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steneva che non c’erano prove consistenti di un legame tra evasione fiscale e uso del contante e che vari Paesi europei non avevano un limite. A oggi, secondo i dati raccolti dall’European consumer centres network, creato nel 2005 dalla Commissione europea e dagli Stati membri per fornire assistenza ai consumatori, tra i 27 Paesi dell’Ue ce ne sono almeno dieci, tra cui Austria, Danimarca, Finlandia, Germania e Paesi Bassi, che non hanno un vero e proprio tetto al contante. In effetti, se si incrociano i dati degli Stati con e senza il tetto al contante e i livelli di evasione fiscale, non sembra esserci una relazione diretta tra le due cose. Paesi con il limite al contante possono avere un’evasione fiscale superiore a quelli senza un limite: questo è l’esempio dell’Italia, dove l’evasione delle imposte supera gli 80 miliardi di euro l’anno, nel confronto con la Germania. Stabilire in questo modo l’efficacia o meno del tetto al contante contro l’evasione non è però corretto. Il livello di evasione fiscale in un Paese è determinato da vari fattori: per questo motivo alcuni economisti si sono preoccupati di quantificare in maniera scientificamente più rigorosa se in effetti l’assenza o la presenza di un tetto al contante influenzi i comportamenti dei contribuenti. Nella letteratura scientifica non ci sono comunque molti studi sull’impatto del limite dell’uso del contante e l’evasione fiscale: questa osservazione è contenuta in una ricerca, pubblicata nel 2021 dalla Banca d’Italia, che si è posta proprio l’obiettivo di indagare il rapporto tra tetto al contante ed economia sommersa viste le lacune nella letteratura. I ricercatori della banca centrale italiana si sono concentrati sull’aumento del tetto al contante a tremila euro introdotto proprio nel 2015 dal governo Renzi per incentivare i consumi. Semplificando un po’, la ricerca si basa su alcuni dati relativi
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alle province italiane provenienti da diverse fonti nel periodo tra il 2015 e il 2017. Una di queste fonti sono le cosiddette “segnalazioni antiriciclaggio aggregate” della Banca d’Italia, che sono condotte sulle operazioni in contante presso gli sportelli bancari. Gli autori hanno poi preso in considerazione le stime dell’Istat sull’economia sommersa, guardando alle dichiarazioni dei fatturati delle imprese. Con due modelli econometrici, quelli usati dagli economisti per isolare effetti causali di provvedimenti economici, i ricercatori della Banca d’Italia hanno provato a quantificare se con un aumento del tetto al contante è aumentato anche il valore dell’economia sommersa. In breve la risposta è sì: un aumento dell’1 per cento delle transazioni in contanti si è tradotto, a parità di condizioni, in un aumento tra lo 0,8 per cento e l’1,8 per cento dell’economia sommersa. Secondo la ricerca l’aumento del tetto al contante da mille euro a tremila euro avrebbe contribuito a far crescere le transazioni sconosciute al fisco. «Sebbene siamo consapevoli che le nostre stime hanno dei limiti, in particolare nel controllare tutti i fattori che influenzano la propensione a evadere il fisco, le evidenze raccolte indicano che vincoli più stringenti all’uso del contante possono essere uno strumento efficace per contrastare l’evasione fiscale», hanno scritto nelle conclusioni del loro studio i ricercatori della Banca d’Italia. Anche un working paper pubblicato nel 2020 è arrivato a conclusioni simili, sostenendo che la riduzione al tetto del contante introdotto nel 2011 ha ridotto la circolazione delle banconote e aumentato le entrate per il fisco. L’effetto è stato però piuttosto limitato e secondo l’autore della ricerca va soppesato con i costi della misura. Un tetto al contante, infatti, rischia per esempio di penalizzare le persone più anziane, meno pratiche con i pagamenti elettronici, e di limitare la privacy dei consumatori. 112
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Un’osservazione simile era stata fatta all’Italia all’inizio del 2020 anche dalla Banca centrale europea. Tra le altre cose la Bce aveva ritenuto, in una serie di valutazioni non vincolanti, troppo bassi i limiti al contante in vigore in Grecia (500 euro) e in Spagna (mille euro). Ma ancora sul fronte europeo nel 2019 l’Ue aveva raccomandato all’Italia di potenziare i «pagamenti elettronici obbligatori anche mediante un abbassamento dei limiti legali per i pagamenti in contanti». ●●●●● «Gli stranieri preferiscono usare il contante altrove» Nelle settimane precedenti l’approvazione della legge di Bilancio, a fine 2022, uno degli argomenti più utilizzati dal governo per difendere l’aumento del limite all’uso del contante a cinquemila euro è stato il seguente: visto che alcuni Paesi europei, come Germania e Austria, non hanno un tetto al contante, i turisti che vogliono pagare in contanti preferirebbero andare lì e non in Italia. A inizio dicembre 2022, in un video pubblicato sui social, la presidente Meloni ha per esempio dichiarato che «chi ha contanti da spendere, magari stranieri, preferisce andare a farlo in altre nazioni perché in Italia non si può fare». Anche il ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani ha risposto alle critiche della Banca d’Italia, secondo cui l’aumento del tetto al contante sfavorisce la lotta all’evasione, dicendo che un tetto troppo basso blocca «gli acquisti da tanti stranieri che sono abituati a utilizzare il contante». Queste dichiarazioni ignoravano un fatto non da poco: nel 2022 in Italia, infatti, era già in vigore una deroga che permetteva agli stranieri di fare acquisti fino a 15 mila euro usando i contanti. In base a una norma
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contenuta in un decreto-legge del 2012, modificata l’ultima volta con la legge di Bilancio per il 2019 e tutt’oggi in vigore, per le persone che hanno una «cittadinanza diversa da quella italiana» e che sono residenti fuori dall’Italia il tetto al contante è elevato a «15 mila euro» per l’acquisto di beni e servizi legati al turismo. Tra le attività commerciali interessate ci sono, per esempio, i commercianti al dettaglio e gli alberghi, nonché le agenzie di viaggio e di turismo. Per usufruire del tetto al contante a 15 mila euro devono essere comunque rispettati due vincoli, oltre a quello della cittadinanza dell’acquirente. Da un lato il venditore, al momento della vendita, deve fare una fotocopia del passaporto dell’acquirente e ottenere un’autocertificazione dove quest’ultimo attesti che non è cittadino italiano e che ha la residenza fuori dall’Italia. Dall’altro lato, nel primo giorno feriale successivo a quello della vendita, il commerciante deve versare il denaro contante incassato in un conto corrente a lui intestato, per permettere la comunicazione dell’operazione all’Agenzia delle entrate. «La flat tax si paga da sola» Da quasi trent’anni il centrodestra in Italia promette di introdurre la cosiddetta “flat tax” (“tassa piatta” in italiano), ossia un sistema di tassazione dei redditi composto solo da un’unica aliquota, uguale per tutti. Già nel 1994 il programma elettorale di Forza Italia prometteva di introdurre un’unica aliquota Irpef al 30 per cento per tutti. Nonostante i quattro governi guidati da Silvio Berlusconi che si sono succeduti fino al 2011, la flat tax nel nostro Paese non è mai stata introdotta. E il motivo principale sono le coperture economiche: se lo Stato decidesse di colpo di introdurre una sola aliquota Irpef, 114
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tagliando di fatto le tasse a tantissimi contribuenti, dovrebbe rinunciare a decine di miliardi di euro, con le stime della perdita di gettito che cambiano a seconda dell’aliquota esatta scelta per la flat tax. Il sogno della tassa piatta è stato rilanciato negli ultimi anni dalla Lega di Matteo Salvini, che ha basato buona parte della campagna elettorale dell’estate 2022 proprio promettendo questa misura. I favorevoli alla flat tax l’hanno però spesso difesa con argomenti non supportati dai fatti. L’idea che la tassa piatta contrasti l’evasione fiscale, ad esempio, non è basata su studi scientifici: è più una suggestione che non trova conferma nei numeri. L’idea è semplice: se si riducono le tasse, i contribuenti saranno più invogliati a pagarle, e così il gettito per lo Stato sale, superando le perdite dovute ai tagli. Questa linea di pensiero è stata ripetuta per settimane in campagna elettorale da Salvini, che però una volta ritornato al governo è stato subito smentito dai provvedimenti del suo esecutivo. Una delle misure contenute nel disegno di legge di Bilancio per il 2023 è stata l’estensione del regime forfetario per le partite Iva, quello che da anni la Lega chiama impropriamente flat tax. Fino al 2022 i lavoratori autonomi con ricavi fino a 65 mila euro potevano decidere di pagare in imposte una percentuale fissa del 15 per cento. Il governo Meloni ha deciso di alzare questa soglia nel 2023 a 85 mila euro, avvicinandola ai 100 mila euro promessi in campagna elettorale dal programma della coalizione di centrodestra. Durante le prime settimane di governo le dichiarazioni di Salvini sulla convenienza della flat tax per i conti pubblici sono state prontamente smentite dal viceministro dell’Economia e delle Finanze Maurizio Leo (Fratelli d’Italia), e poi dai conti sui costi dei provvedimenti in legge di Bilancio. Alla fine un miliardo e 75 milioni di
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euro è il costo, previsto tra il 2023 e il 2025 in termini di minori entrate per lo Stato, dell’estensione del regime forfettario al 15 per cento per le partite Iva con ricavi fino a 85 mila euro. Non è vero che la flat tax si ripaga da sola: la pagano tutti. «L’automotive rappresenta circa il 20 per cento del Pil italiano» Prima di concludere questo capitolo è utile dare un’occhiata a un tipo di errore che politici di tutti gli schieramenti, da sinistra a destra, prima o poi commettono durante la loro carriera. Quando un politico italiano vuole sottolineare l’importanza di un settore per l’economia del Paese, spesso ricorre a una strategia molto semplice: dice agli elettori quanto pesa quel settore sul Pil prodotto in Italia. O, detto altrimenti, sottolinea quanta ricchezza viene prodotta ogni anno in Italia grazie a quel settore. Gli elettori devono però stare attenti quando sentono frasi di questo tipo: spesso i politici tendono a esagerare le stime, facendo risultare alcuni settori più importanti per l’economia italiana rispetto a quanto lo sono davvero. Prendiamo un esempio proprio dal governo Meloni. A febbraio 2023 il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha criticato il Parlamento europeo per aver approvato il divieto di vendere auto a benzina e diesel nell’Unione europea a partire dal 2035. Secondo Urso questa norma danneggia l’Italia: a sostegno della sua posizione il ministro ha dichiarato che l’automotive «rappresenta circa il 20 per cento del Pil italiano». A grandi linee il Pil italiano vale intorno ai 1.800 miliardi di euro: se la dichiarazione di Urso fosse corretta, vorrebbe dire che circa 360 miliardi di euro sarebbero 116
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generati grazie all’industria e al commercio di automobili e affini. Le cose non stanno così: secondo le stime più affidabili, il settore in Italia genera poco meno del 5 per cento del Pil. Nel complesso l’intera filiera produce un fatturato annuale di oltre 90 miliardi di euro. Se si prendono gli occupati, l’automotive pesa per il 7 per cento su tutti gli occupati del settore manifatturiero italiano. Sono numeri significativi, ma lontani dal 20 per cento indicato da Urso. Per avere un ordine di paragone, secondo i dati Istat ci sono altre industrie che hanno numeri simili: le industrie alimentari hanno un fatturato di oltre 120 miliardi di euro, la fabbricazione di prodotti chimici di oltre 70 miliardi, quella di prodotti in metallo di quasi 90 miliardi di euro e così via. Calcolare quanto ogni singolo settore pesa sul Pil non è comunque semplice: servono stime e calcoli specifici. Ma questi numeri danno comunque l’idea di quanto impattano altri settori sull’economia italiana. In questo ambito, una percentuale che spesso è stata ripetuta dai politici negli ultimi anni, anche dall’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, riguarda poi il turismo. Secondo molti questo settore genererebbe tra il 13 e il 15 per cento del Pil italiano. Non è vero: secondo Istat le attività turistiche contribuiscono a generare circa il 6 per cento del Pil del nostro Paese. Se si considerano tutte le attività connesse, questa percentuale sale in effetti al 13 per cento. Ma in questo numero rientra un po’ di tutto, come per esempio l’intero contributo di settori economici come la ristorazione e i trasporti: i quali non producono certo beni e servizi solo per i turisti. Il fatto che l’Italia sia un luogo di grande richiamo turistico deve aver aiutato a spingere in alto i numeri nelle dichiarazioni politiche: e così avviene anche per un’altra istituzione nazionale, il calcio.
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Durante la prima ondata della pandemia di Covid-19, nella primavera del 2020, alcuni politici hanno infatti rilanciato un dato del tutto implausibile sul contributo dato dal settore calcistico all’economia italiana. Tra questi c’era l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Simone Valente (Movimento 5 Stelle), secondo cui «il calcio professionistico è un’industria che vale il 7 per cento del Pil italiano». Anche qui siamo di fronte a un dato parecchio gonfiato: a essere generosi, il contributo può al massimo arrivare all’1 per cento, tenendo però dentro una parte della ristorazione e dei trasporti coinvolti dagli eventi sportivi. Se si considerano solo le società professionistiche, il giro di affari è intorno allo 0,2 per cento del Pil. Passando a numeri più sostanziosi, un errore commesso da diversi politici riguarda invece le esportazioni, e più nello specifico confondere il loro valore con il contributo che danno al Pil. Negli ultimi anni l’ex capo politico del Movimento 5 Stelle ed ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha più volte ripetuto che più del 30 per cento del Pil italiano è prodotto dal settore dell’export. È vero che il valore delle esportazioni italiane, nel loro complesso, equivale più o meno a un terzo del valore del Pil italiano, ma questo non significa che il nostro Pil sia composto per un terzo dalle esportazioni. Nel calcolo del prodotto interno lordo rientrano infatti solo le “esportazioni nette”, ossia le esportazioni al netto delle importazioni. Infine ci sono i teatri, i cinema e i concerti, che secondo Lucia Borgonzoni (Lega), oggi sottosegretaria alla Cultura, a ottobre 2020 generavano il 17 per cento del Pil italiano. È falso: secondo i dati più affidabili, i teatri e i concerti valgono circa l’1 per cento del Pil. A essere generosi si arriva al 6 per cento del Pil se si considera il totale delle attività culturali: cinema, radio, tv, 118
Le bugie sull’economia
editoria, stampa, musica, patrimonio storico-artistico, arti performative, architettura e design, nonché il lavoro dei creativi impiegati in settori non strettamente legati alla filiera. Fossero vere le dichiarazioni viste finora dei politici, vorrebbe dire che quasi il 90 per cento del Pil italiano è prodotto solo da cinque settori: dalle auto, dal calcio, dal turismo, dall’export e da teatri, cinema e concerti. Come è evidente, non è così.
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Mes, euro e Pnrr
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123 «Sul Pnrr non ci sono ritardi» 126 «Siamo davanti agli altri Paesi» 128 «Sui controlli stiamo facendo come il governo Draghi» 130 «Meloni non ha mai detto di voler uscire dall’euro» 133 «Siamo tra i Paesi con il giudizio migliore della Commissione Ue» 135 «Chi finora ha utilizzato il Mes ne è uscito massacrato» 141 «Siamo l’unica nazione nell’Ue dentro alla Via della Seta»
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lla fine di gennaio 2023 la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato sulle sue pagine social ufficiali alcune slide con i cento risultati che sarebbero stati ottenuti dal suo governo nei suoi primi «100 giorni trascorsi a lavorare intensamente nell’interesse dell’Italia». Tra questi ce n’era uno molto atteso: «È stata raggiunta un’intesa con la Commissione europea, così come previsto dai regolamenti europei, per la revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)», recitava una slide. «Un importante successo che permetterà una gestione più efficiente dei fondi del Pnrr, per far fronte alle nuove necessità e priorità scaturite in seguito ai recenti eventi internazionali, come la guerra in Ucraina e il caro energia». La revisione del Pnrr è stata una delle promesse più significative fatte in campagna elettorale dalla coalizione di centrodestra. La grafica pubblicata da Meloni, però, diceva il falso: non era vero che alla fine di gennaio il suo governo aveva raggiunto un accordo con le autorità europee per cambiare il Pnrr. E quella dichiarazione sarebbe rimasta falsa almeno per i sette mesi successivi, vista la difficoltà del governo nel presentare all’Unione europea una proposta ufficiale di modifica del piano. Questa non è stata l’unica bugia diffusa dal governo sul Pnrr: nel suo primo anno a Palazzo Chigi in varie occasioni la stessa Meloni e il ministro per 122
gli Affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e il Pnrr Raffaele Fitto (Fratelli d’Italia) hanno fatto affermazioni fuorvianti o prive di fondamento sull’andamento del piano. Come vedremo meglio nel corso di questo capitolo, oltre al Pnrr abbiamo trovato errori degli esponenti al governo anche in altri temi in ambito europeo.
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Meloni ha smentito che all’epoca ci fossero «ritardi» nell’attuazione del Pnrr. In realtà, al di là delle responsabilità, i ritardi del Pnrr già allora c’erano eccome.
«Sul Pnrr non ci sono ritardi» A giugno 2023, nella replica in Senato dopo le sue comunicazioni in vista di un Consiglio europeo, Meloni ha smentito che all’epoca ci fossero «ritardi» nell’attuazione del Pnrr. «Non ci sono ritardi, ma c’è semplicemente un lavoro serio che stiamo cercando di fare», aveva dichiarato Meloni in quell’occasione, aggiungendo: «Lo dico senza fare polemica, colleghi. Avremmo potuto fare polemica, invece non abbiamo fatto polemiche». In realtà, al di là delle responsabilità, i ritardi del Pnrr già allora c’erano eccome. Partiamo dall’erogazione della terza rata. Il Pnrr può contare su 191,5 miliardi di euro, che possono essere richiesti dall’Italia all’Unione europea ogni sei mesi, ma solo se sono state rispettate determinate scadenze. In totale le rate del piano sono dieci entro i primi sei mesi del 2026, a cui si aggiunge il prefinanziamento da circa 25 miliardi di euro erogato ad agosto 2021. 123
I fondi europei destinati all’Italia con il Pnrr Suddivisi tra prestiti e sovvenzioni a fondo perduto (in miliardi di euro)
Sovvenzioni Sovvenzioni a fondo perduto a fondo68,9 perduto 68,9
Prestiti Prestiti 122,6 122,6
Fonte: Commissione europea
Alla fine di dicembre 2022 il governo Meloni aveva inviato alla Commissione europea la richiesta per ricevere i 19 miliardi di euro della terza rata, dicendo di aver centrato gli impegni fissati per il secondo semestre del 2022, in parte già raggiunti dal precedente governo Draghi. Nel giorno in cui Meloni ha tenuto il suo discorso in Senato, a giugno, i soldi della terza rata non erano ancora stati erogati nonostante fossero passati sei mesi dall’invio della richiesta (per la prima e la seconda rata la conferma dell’erogazione era avvenuta circa quattro mesi dopo la richiesta fatta da parte del governo Draghi). Tra le altre cose, la Commissione europea stava contestando il finanziamento con il Pnrr – stabilito prima dell’insediamento del nuovo governo – degli interventi del Bosco dello Sport di Venezia e dello stadio Franchi di Firenze, interventi poi esclusi. I ritardi comunque non hanno riguardato solo la terza rata, ma anche la quarta. L’Italia aveva concordato con l’Ue il raggiungimento entro il 30 giugno 2023 di 124
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ventisette tra traguardi (milestone) e obiettivi (target): i primi fanno riferimento al raggiungimento di risultati qualitativi, per esempio l’approvazione di riforme o singoli provvedimenti normativi, mentre i secondi a risultati quantitativi, per esempio l’assunzione di un determinato numero di personale in un settore specifico. Al raggiungimento di questi obiettivi era legata la possibilità di richiedere i 16 miliardi di euro della quarta rata. Ma alla fine di giugno non tutte le scadenze erano state rispettate dal governo Meloni. In particolare i ritardi principali riguardavano l’aggiudicazione di tutte le gare di appalto dei lavori per gli interventi relativi agli asili nido e alle scuole della prima infanzia. Infine, alla metà del 2023, c’erano forti ritardi per quanto riguarda la spesa delle risorse ricevute fino a quel momento. A ottobre 2022, pochi giorni dopo le elezioni, la stessa Meloni aveva accusato il governo Draghi di aver lasciato «ritardi evidenti e difficili da recuperare» sul Pnrr. L’accusa era fondata proprio se si guardava ai livelli di spesa effettuata rispetto alle previsioni iniziali. All’epoca si sapeva già che entro la fine del 2022 la spesa effettiva delle risorse ricevute per il Pnrr si sarebbe fermata sotto al 50 per cento rispetto alle previsioni iniziali. L’impiego dei soldi erogati era poi aumentato nei mesi successivi, soprattutto grazie a quelli usati per i bonus edilizi e gli incentivi per l’innovazione digitale nelle aziende, ma era rimasto ancora indietro rispetto alla tabella di marcia. Alla fine di febbraio 2023 risultavano spesi circa 26 miliardi di euro sui quasi 67 miliardi di euro ricevuti finora, con alcuni ministeri più avanti e altri più indietro. ●
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«Siamo davanti agli altri Paesi» Il ministro Fitto ha invece adottato un’altra strategia per negare che ci siano stati ritardi nell’attuazione del Pnrr. All’inizio di luglio, durante una conferenza stampa in cui annunciava un accordo con l’Ue per modificare alcuni obiettivi della quarta rata, Fitto ha detto che al momento solo tre Paesi avevano chiesto il pagamento della terza rata per il finanziamento dei loro piani nazionali: l’Italia, la Spagna e la Grecia. «Nessun Paese ha chiesto il pagamento della quarta rata», aveva aggiunto Fitto. Questa affermazione conteneva sì una verità, ma anche alcune omissioni che devono mettere in guardia dai confronti troppo semplicistici tra il Pnrr italiano e quello degli altri Stati membri. Iniziamo dalla verità detta dal ministro Fitto. A metà luglio in effetti solo Italia, Spagna e Grecia avevano chiesto alla Commissione europea l’erogazione della terza rata. La richiesta dell’Italia era stata fatta a fine dicembre 2022, quella della Spagna a novembre 2022, quella della Grecia a maggio 2023. Nonostante fossero passati ormai quasi sette mesi, il nostro Paese non aveva ancora ricevuto i 19 miliardi di euro della terza rata, quelli che certificavano il raggiungimento dei 55 tra traguardi e obiettivi fissati per gli ultimi sei mesi del 2022. La Spagna, cosa che Fitto aveva omesso di dire nella conferenza stampa, aveva invece ricevuto la terza rata a marzo 2023. Se si guardava la situazione in altri Paesi, si scopriva che alcuni non avevano ancora ricevuto neppure una rata dall’Ue: tra questi c’erano la Germania, i Paesi Bassi e l’Irlanda. Sulla base di questa constatazione veniva spontaneo dire che l’Italia non era in effetti messa male. In realtà le omissioni di Fitto mostravano che le cose non stavano proprio così. Prima omissione del ministro: non tutti gli Stati membri hanno piani nazionali di ripresa finanziati attraverso l’erogazione di dieci rate entro il 2026, 126
Le bugie sull’Europa
come concordato dall’Italia con l’Ue. Per esempio la Spagna, che riceverà dall’Ue quasi 70 miliardi di euro (la cifra più alta in valore assoluto dietro a quella dell’Italia), ha concordato con l’Ue l’erogazione di otto rate. Dunque a luglio 2023 il fatto che la Spagna avesse ricevuto tre rate su otto la metteva in una posizione decisamente migliore rispetto alle due su dieci ricevute fino a quel momento dall’Italia. Germania e Francia, per citare gli altri due grandi Paesi europei, hanno concordato l’erogazione di cinque rate. Seconda omissione di Fitto: nei primi sette mesi del 2023 l’Italia aveva raggiunto il 18 per cento degli oltre 500 traguardi e obiettivi concordati con l’Ue entro il 2026. Tra gli altri Paesi Ue c’era chi era più avanti di noi, nonostante fosse più “indietro” con le rate. Nell’estate 2023 l’Austria era al 26 per cento degli obiettivi raggiunti, la Danimarca al 32 per cento, il Lussemburgo al 43 per cento, la Francia al 22 per cento, la già citata Spagna al 29 per cento. Altri Paesi erano su percentuali simili a quella italiana: la Croazia era al 16 per cento, la Repubblica Ceca al 15 per cento, la Lituania al 16 per cento, il Portogallo al 17 per cento. I punti da tenere a mente erano però sempre gli stessi: l’Italia ha più traguardi e obiettivi da raggiungere rispetto agli altri e i 191,5 miliardi di euro del Pnrr sono di gran lunga la cifra più alta in valore assoluto. E in rapporto al Pil italiano stiamo parlando di una cifra che si aggira intorno all’11 per cento, dietro solo al 16,7 per cento della Grecia e al 12 per cento della Romania. Quello della Germania, per capirci, ha un valore pari allo 0,7 per cento, quello della Francia pari all’1,6 per cento. È come se il nostro Paese facesse un campionato a parte. Terza omissione di Fitto che pesa sul confronto internazionale: a metà luglio alcuni Stati membri avevano già presentato la proposta ufficiale all’Ue del loro piano nazionale modificato, con all’interno i progetti finanziati dal
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programma REPowerEU, ideato per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia. Il governo italiano aveva detto che avrebbe presentato la sua proposta entro il 31 agosto, la scadenza fissata dalle autorità europee, ma intanto c’erano Paesi che su quel fronte erano più avanti di noi. Insomma, fare un confronto con gli altri Paesi per dire che l’Italia non era in ritardo con il Pnrr rischiava di essere controproducente. E non aiutava neppure dire, sempre come aveva fatto Fitto, che la scadenza del 30 giugno per il raggiungimento delle scadenze della quarta rata era «indicativa» e non tassativa. È vero: se i traguardi e gli obiettivi fissati per un semestre non sono centrati, non si perde la possibilità di ottenere i soldi della rata a essi collegata. Si può sempre chiederla dopo, ma c’è un però non di poco conto: raggiungere le scadenze concordate con l’Ue è importante per evitare l’accumularsi di ritardi nell’attuazione del piano. Più si sposta in là il raggiungimento delle scadenze fissate di sei mesi in sei mesi, più si posticipa la possibilità di chiedere i soldi alla Commissione Ue, che poi deve attivare i processi di verifica per controllare che traguardi e obiettivi siano stati raggiunti. Questo processo rischia a sua volta di posticipare l’erogazione dei fondi, su cui lo Stato italiano fa affidamento anche per sostenere la ripresa economica. ●● «Sui controlli stiamo facendo come il governo Draghi» L’attuazione del Pnrr ha portato il governo Meloni a scontrarsi con la Corte dei Conti, un organismo indipendente di rilievo costituzionale. In base all’articolo 100 della Costituzione, infatti, la Corte dei Conti svolge tre 128
Le bugie sull’Europa
funzioni: «esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo», esercita il controllo «successivo sulla gestione del bilancio dello Stato» e partecipa al controllo sulla gestione finanziaria di enti come le regioni e i comuni. Nel decreto “Pubblica amministrazione”, convertito in legge dal Parlamento a giugno 2023, è stato inserito un emendamento per escludere il Pnrr dal cosiddetto “controllo concomitante” della Corte dei Conti. Come suggerisce il nome, questo controllo veniva fatto sui progetti del Pnrr in corso di svolgimento, e non al loro compimento. Fitto e Meloni hanno difeso la scelta di togliere il Pnrr dal controllo concomitante ripetendo in varie occasioni una cosa falsa, ossia che il governo Meloni si è limitato a seguire la strada tracciata dal precedente governo di Mario Draghi. Ma, appunto, non era vero. Il controllo concomitante è stato introdotto per la prima volta nel 2009, ma è rimasto inattuato fino al 2020, quando il secondo governo Conte lo ha richiamato in un decreto-legge di luglio 2020, chiedendo che fosse applicato sui «principali piani, programmi e progetti relativi agli interventi di sostegno e di rilancio dell’economia nazionale». All’epoca il Pnrr ancora non esisteva, ma a novembre 2021 la Corte dei Conti ha istituito un apposito collegio per condurre il controllo concomitante anche sul Pnrr, visto che rientrava nella definizione di cui sopra. Da otto mesi era in carica il governo Draghi, che non ha mai messo mano al controllo concomitante durante il suo mandato, a differenza di quanto detto da Meloni e Fitto. A maggio 2021 il governo Draghi aveva approvato un decreto-legge in cui stabiliva che una delle funzioni della Corte dei Conti fosse quella di realizzare «valutazioni di economicità, efficienza ed efficacia circa l’acquisizione e l’impiego delle risorse finanziarie provenienti dai fondi» del Pnrr, non eliminando però il controllo concomitante sul piano. Con un emendamento al decreto “Pubblica amministrazione” il governo Meloni
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ha anche prorogato fino al 30 giugno 2024 il cosiddetto “scudo erariale”, introdotto dal già citato decreto del 2020 dal secondo governo Conte fino al 31 dicembre 2021 per limitare la responsabilità erariale dei dirigenti della pubblica amministrazione solo ai danni compiuti con dolo. Con il decreto di maggio 2021 questo scudo era stato prorogato dal governo Draghi fino al 30 giugno 2023, e il governo Meloni l’ha poi prorogato di un altro anno. Al di là della legittima scelta del governo, contestata però dalla Corte dei Conti, ci sono almeno due omissioni nella linea difensiva all’epoca adottata dal governo Meloni. La prima omissione: la scelta del governo Draghi era stata fatta in un contesto diverso rispetto a quella fatta dal governo Meloni nella primavera del 2023, ossia in piena pandemia di Covid-19 (e anche a maggio 2021 il Pnrr non era ancora stato approvato definitivamente dall’Ue). La seconda omissione: come ha sottolineato il presidente della Corte dei Conti Guido Carlino in un’audizione alla Camera, il controllo concomitante era stato previsto nel 2020 proprio come una sorta di «compensazione» per l’introduzione dello scudo erariale. Il governo Meloni ha tolto il primo, lasciando in vigore il secondo. «Meloni non ha mai detto di voler uscire dall’euro» Non è un segreto che i due partiti principali che sostengono il governo Meloni hanno costruito una parte importante del loro successo elettorale negli anni passati con le loro posizioni fortemente scettiche nei confronti dell’Unione europea e dell’euro, specie durante le fasi più gravi della crisi dei debiti sovrani. Lega e Fratelli d’Italia infatti hanno spesso dipinto l’Ue in passato – e lo fanno, seppur più raramente, ancora oggi – come un’autorità esterna invadente, il cui obiettivo principale è quello di limitare la sovranità italiana. 130
Le bugie sull’Europa
A pochi giorni dalla vittoria delle elezioni alcuni esponenti della maggioranza di governo hanno subito cercato di minimizzare le posizioni passate di Fratelli d’Italia e Lega sull’Ue, in certi casi addirittura negandole. È questo il caso di Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia ed ex vicepresidente della Camera, che all’inizio di ottobre 2022 ha dichiarato, ospite a un evento organizzato dall’«HuffPost», che «Giorgia Meloni non ha mai detto di voler uscire dall’euro». Un’affermazione completamente priva di fondamento. Fratelli d’Italia è un partito nato alla fine del 2012, che si è presentato per la prima volta alle elezioni politiche nel 2013. A novembre di quell’anno, in un’intervista con il quotidiano «Libero», Meloni aveva ribadito che Fratelli d’Italia era «un movimento eurocritico, contrario a questa Europa che ci mette in croce». «O si rinegoziano i patti – aveva dichiarato la fondatrice di Fratelli d’Italia – o non stiamo nell’euro a costo di uccidere l’Italia». L’anno successivo, a maggio 2014, si sono poi tenute le elezioni europee, le prime a cui ha partecipato Fratelli d’Italia. Il programma elettorale del partito di Meloni proponeva, come primo punto, lo «scioglimento concordato dell’eurozona», ossia dell’insieme dei Paesi che utilizzano l’euro come moneta unica. «L’euro e le sue regole si sono purtroppo rivelati un fattore di disgregazione dell’unità europea, anziché un elemento di rafforzamento della solidarietà tra i popoli d’Europa. Per queste ragioni, Fratelli d’Italia si impegna a farsi promotore nel prossimo Parlamento europeo di una risoluzione
Il programma elettorale del partito di Meloni proponeva, come primo punto, lo «scioglimento concordato dell’eurozona», ossia dell’insieme dei Paesi che utilizzano l’euro come moneta unica. 131
comune a tutti i gruppi “eurocritici”, per spingere la Commissione europea a procedere allo scioglimento concordato e controllato dell’eurozona», si legge nel programma per le europee del 2014. «In questo modo il processo di integrazione europea potrà procedere senza traumi e senza che sorgano nuove tensioni all’interno della Ue. Nel caso questa strada non fosse perseguita dalle istituzioni e dalle cancellerie europee e venisse confermata l’indisponibilità a un cambio di rotta radicale, l’Italia deve avviare una procedura di recesso unilaterale dall’eurozona». A marzo 2014, un paio di mesi prima delle elezioni europee, durante un comizio Meloni aveva dichiarato che l’Italia doveva dire «chiaramente» all’Europa: «Noi vogliamo uscire dall’euro: e se pensate che questo sia un problema per l’euro, allora convinceteci a rimanere». In quel periodo Meloni ha poi pubblicato diversi messaggi social contro l’euro. «Marine Le Pen contro l’euro? Ha ragione», scriveva la presidente di Fratelli d’Italia su Twitter il 14 maggio 2014, riferendosi alla leader del partito francese di destra Rassemblement National. «Sull’euro abbiamo detto cento volte che siamo per uscire», 24 aprile 2014. «Io non so come altro dirlo che siamo per uscire dall’euro», 24 aprile 2014. «Il 13 dicembre in piazza contro l’euro», 9 novembre 2014. «Alla Commissione Ue che dice che l’appartenenza all’euro è irrevocabile dico: niente è irrevocabile in democrazia. Soprattutto la schiavitù», 5 gennaio 2015. «Cos’altro dobbiamo aspettare? Liberiamoci dalla zavorra dell’euro e vediamo come se la cavano i tedeschi a competere con le imprese italiane ad armi pari», 9 settembre 2016. «L’euro è una moneta sbagliata destinata a implodere. Vogliamo lo scioglimento concordato e controllato dell’eurozona», 25 marzo 2017. In vista delle elezioni europee del 2019 la proposta di sciogliere l’euro era stata sostituita nel programma elet132
«Siamo tra i Paesi con il giudizio migliore della Commissione Ue»
Le bugie sull’Europa
torale di Fratelli d’Italia con la richiesta di «misure compensative» per i Paesi svantaggiati dall’introduzione della moneta unica.
Una volta arrivata al governo, Meloni ha decisamente ammorbidito le sue posizioni nei confronti dell’Unione europea. E quando ha avuto l’occasione, ha cercato di usare la stessa Ue per elogiare il suo lavoro alla guida dell’Italia. Per esempio a dicembre 2022, durante un punto stampa all’arrivo a Bruxelles per partecipare al Consiglio, Meloni aveva commentato il parere della Commissione europea sulla legge di Bilancio italiana per il 2023. Secondo la presidente del Consiglio l’Italia era «tra le nazioni che hanno avuto il giudizio migliore» da parte della Commissione Ue. Ma era davvero così? La risposta era no: altri Paesi avevano ricevuto giudizi simili a quello italiano, altri peggiori, altri migliori. Nelle conclusioni del suo parere sulla legge di Bilancio italiana, la Commissione Ue aveva scritto che il testo presentato dal governo Meloni era «in linea con gli orientamenti di bilancio» contenuti in una raccomandazione fatta dal Consiglio dell’Unione europea a luglio 2022. Tra questi orientamenti il Consiglio dell’Ue aveva raccomandato al nostro Paese di aumentare gli investimenti pubblici per le transizioni verde e digitale, e per la sicurezza energetica, e di contenere la crescita della cosiddetta “spesa primaria corrente”, ossia la spesa dello Stato che ricorre ogni anno per pagare servizi pubblici, pensioni e stipendi dei dipendenti pubblici. Secondo la Commissione l’Italia non aveva però «ancora compiuto progressi sul fronte della parte strutturale delle raccomandazioni di bilancio». Rientrava qui per esempio 133
la richiesta di approvare la riforma del fisco (bloccata in Parlamento nella precedente legislatura da Lega e Forza Italia, che sostenevano il governo Draghi) e di perseguire un maggiore contrasto all’evasione fiscale. Più nello specifico, secondo la Commissione almeno quattro misure contenute nel disegno di legge di Bilancio non rispettavano alcune raccomandazioni fatte in passato. Si parlava in particolare della proposta di alzare il tetto al contante a 5 mila euro; di eliminare le sanzioni per i commercianti che non accettavano i pagamenti elettronici sotto i 60 euro (proposta poi rimossa dalla legge approvata dal Parlamento); di cancellare automaticamente le cartelle esattoriali con un valore di mille euro, relative al periodo tra il 2000 e il 2015; e di permettere di andare in pensione anticipata con almeno 62 anni di età e 41 anni di contributi. La Commissione Ue aveva quindi promosso la legge di Bilancio, seppure con alcune critiche. Anche gli altri Paesi membri dell’Ue avevano ricevuto il parere della Commissione Ue sui provvedimenti economici che avrebbero adottato nei mesi successivi. Ogni Paese Ue ha una storia a sé e non era stato semplice fare una classifica dei giudizi. In ogni caso, in base alle nostre verifiche, era emerso che alcuni Paesi avevano ricevuto un parere più severo di quello ricevuto dall’Italia, mentre per altri la Commissione aveva espresso un parere migliore di quello italiano, a differenza quindi di quanto dichiarato da Meloni. Pareri simili a quello per l’Italia erano stati fatti dalla Commissione Ue per Francia, Finlandia e Irlanda, che però non avevano ricevuto critiche specifiche a singoli provvedimenti. Secondo la Commissione la Grecia, così come la Lettonia, erano sì in linea con gli orientamenti di bilancio indicati a luglio, ma a differenza dei Paesi già citati, avevano compiuto anche alcuni progressi «sul fronte della parte strutturale delle raccomandazioni di bilancio». 134
Le bugie sull’Europa
L’Austria era solo «in parte in linea» con gli orientamenti di bilancio delle raccomandazioni europee di luglio, mentre aveva compiuto alcuni progressi, di nuovo, «sul fronte della parte strutturale delle raccomandazioni di bilancio». Discorso analogo valeva per il Belgio, l’Estonia, la Germania, la Lituania, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, il Portogallo e la Slovenia. La Slovacchia era «in parte in linea» con le raccomandazioni europee di luglio sul bilancio, mentre non aveva compiuto progressi «sul fronte della parte strutturale delle raccomandazioni di bilancio». La Croazia era invece «in linea» con le raccomandazioni di luglio, così come Cipro, Malta e Spagna. ●●● «Chi finora ha utilizzato il Mes ne è uscito massacrato» A livello europeo un’altra questione spinosa su cui si è dovuto cimentare il governo Meloni è stata la ratifica della riforma del trattato che ha istituito il Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Questa riforma è stata approvata dai Paesi membri del Mes a gennaio 2021, durante il secondo governo Conte, ma per entrare in vigore sarebbe dovuta essere approvata da tutti i Parlamenti nazionali. Durante l’estate 2023 l’Italia è rimasta l’unica a non aver ratificato la riforma e all’inizio di luglio il Parlamento ha deciso di sospendere per quattro mesi l’esame del disegno di legge per la ratifica, cercando di posticipare una decisione che comunque, prima o poi, dovrà essere presa. Negli anni passati Lega e Fratelli d’Italia sono sempre stati molto critici nei confronti del Mes, una posizione giustificata anche dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che a fine giugno ha dichiarato in un’intervista: «Chi finora
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ha utilizzato il Mes ne è uscito massacrato». Un’affermazione parecchio esagerata. Per capire il perché è necessario fare un salto indietro nel tempo. All’inizio del 2010 alcuni Paesi europei, in particolare la Grecia, sono stati colpiti da una forte crisi economica. Per fare fronte all’emergenza, a maggio 2010 l’Ecofin, un organismo composto dai ministri dell’Economia di tutti i Paesi Ue, ha deciso di creare due strumenti temporanei di assistenza per gli Stati in condizioni finanziarie critiche: il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (l’European financial stabilisation mechanism, o Efsm) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (l’European financial stability facility, o Efsf). A ottobre 2010 il Consiglio europeo ha accolto con favore l’idea di sostituire i due strumenti d’aiuto temporanei con un meccanismo permanente (il futuro Mes) per garantire la stabilità dell’area euro. A ottobre 2012 è stato istituito ufficialmente il Mes, che ha una natura permanente e può aiutare gli Stati dell’area euro in caso di difficoltà economica. Per farlo può utilizzare una serie di strumenti: prestiti economici dati in cambio dell’accettazione da parte del Paese aiutato di un programma di riforme concordato; acquisti di titoli di Stato sul mercato primario e secondario; linee di credito precauzionali; prestiti per la ricapitalizzazione indiretta delle banche; e ricapitalizzazioni dirette. La riforma del Mes, di cui in Italia si torna periodicamente a discutere almeno da novembre 2019, prevede una serie di modifiche a queste forme di sostegno. Fino a oggi i Paesi che hanno ricevuto assistenza dall’Efsf e dal Mes sono stati cinque. Tra il 2010 e il 2013 l’Irlanda ha ricevuto quasi 18 miliardi di euro di prestiti dall’Efsf, mentre tra il 2011 e il 2014 il Portogallo ha ricevuto 26 miliardi. Tra il 2012 e il 2013 il Mes ha erogato oltre 41 miliardi di euro alla Spagna per la ricapitalizza136
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zione indiretta delle sue banche in difficoltà, uno strumento diverso rispetto a quello richiesto dal Portogallo e da Cipro, che tra il 2013 e il 2016 ha ottenuto più di 6 miliardi di euro di prestiti dal Mes. Il caso più famoso e più discusso di supporto a un Paese europeo è però quello della Grecia, che in tre programmi di aiuto diversi ha ricevuto tra il 2010 e il 2018 quasi 142 miliardi di euro dall’Efsf e circa 62 miliardi di euro dal Mes. Nessun Paese ha invece chiesto aiuto al Pandemic crisis support. Questa era la speciale linea di credito del Mes creata a maggio 2020 per sostenere le spese in sanità durante la pandemia di Covid-19. Lo strumento è rimasto disponibile fino alla fine del 2022 e consentiva a uno Stato membro dell’area euro di chiedere prestiti per un valore massimo pari al 2 per cento del proprio Pil del 2019. Per l’Italia stiamo parlando di una cifra intorno ai 37 miliardi di euro. Proviamo a capire quindi se il sostegno del Mes abbia avuto un effetto negativo sui Paesi che ne hanno fatto richiesta, lasciando per un attimo da parte la Grecia, su cui ci concentreremo meglio più avanti.
I Paesi che hanno ricevuto prestiti dal Mes o dal Efsf Totale prestiti dal 2010 (in miliardi di euro), dati aggiornati a giugno 2023 200
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Fonte: Meccanismo europeo di stabilità (Mes)
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Partiamo dal primo caso, quello dell’Irlanda, che a suo modo ha alcune caratteristiche peculiari. Nei primi anni Duemila il Paese, come la maggior parte dei Piigs (acronimo dai toni dispregiativi che sta per Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) ha basato la propria crescita sui bassi tassi d’interesse offerti dall’euro, in particolare nel mercato immobiliare. L’appartenenza alla moneta unica aveva contribuito a considerare questi Paesi come affidabili dagli investitori internazionali, sia perché ci si aspettava che il progresso dell’area euro rendesse sempre più mature queste economie, sia perché si sapeva che l’unione monetaria era sostenuta da Paesi più stabili finanziariamente, come la Germania. Tra i Piigs, però, solo l’Italia poteva considerarsi davvero un’economia matura, con un sistema produttivo sviluppato, in particolare quello manifatturiero, nonostante tutti i limiti che la facevano ancora rientrare tra i Paesi meno stabili dell’Unione europea. Anziché approfittare dell’integrazione europea per sviluppare le proprie economie, la maggior parte dei Piigs ha sfruttato i bassi tassi di interesse per investimenti poco produttivi, come, appunto, quelli immobiliari. Così avvenne in Irlanda, che dopo lo scoppio della crisi economica del 2008 si ritrovò improvvisamente in grave difficoltà. La maggior parte delle banche aveva puntato soprattutto su mutui e altre forme di investimento immobiliare, ma i prezzi delle case crollarono e le banche subirono perdite gravi. Per far fronte a questa situazione il governo ricevette aiuto dall’Efsf, il fondo poi sostituito dal Mes. Come negli altri casi in cui il Mes è stato utilizzato, gli accordi di prestito prevedevano alcune condizionalità, ossia regole e risultati che si sarebbero dovuti rispettare utilizzando i fondi. In particolare le condizionalità prevedevano una riforma del sistema finanziario che riducesse il rischio, ma anche la potenziale redditività, 138
Le bugie sull’Europa
delle banche, una stretta fiscale, ossia una riduzione della spesa pubblica o un aumento delle tasse, e una serie di riforme per aumentare la crescita e la produttività dell’economia, in particolare facendo crescere i posti di lavoro. Nel caso dell’Irlanda, il sostegno dell’Efsf non sembra aver avuto un impatto negativo sull’economia. Con la creazione di un sistema fiscale vantaggioso per le grandi imprese, l’Irlanda ha sfruttato una delle sue peculiarità, ossia il fatto di avere una forza lavoro piuttosto scolarizzata, che parla inglese come prima lingua, con un costo relativamente basso. Le politiche di aggiustamento fiscale hanno avuto effetti dolorosi sulla popolazione, ma non sembrano aver creato disastri nel mediolungo termine. Anzi, l’Irlanda è uno dei Paesi che da anni cresce più velocemente nell’Ue e ha anche uno dei tassi di disoccupazione tra i più bassi. Senza spingersi a sostenere che questa crescita sia stata favorita dall’Efsf, di certo non si può dire che il Paese sia stato «massacrato» come ha detto Crosetto. Un discorso simile vale per la Spagna e per il Portogallo, che si sono trovati in grave difficoltà con la crisi del 2008 e con la successiva crisi del 2011-2013 legata ai debiti sovrani, che hanno fatto ricorso al Mes soprattutto per sostenere il proprio sistema bancario. Senza un’immediata iniezione di liquidità nel capitale delle banche, infatti, l’intero sistema finanziario rischiava di collassare. Anche nel loro caso, seppur non eclatante come quello irlandese, il Mes non sembra aver causato disastri. Lo si capisce guardando alcuni indicatori fondamentali, come il Pil pro capite, ossia il Pil rapportato alla popolazione.
L’Irlanda è uno dei Paesi che da anni cresce più velocemente nell’Ue e ha anche uno dei tassi di disoccupazione tra i più bassi. 139
Dalle parole di Crosetto sembra che non utilizzare il Mes abbia salvato l’Italia dal “massacro”, ma in realtà tutti i Paesi che hanno utilizzato i fondi messi a disposizione dall’Efsf e dal Mes hanno registrato una crescita del Pil reale pro capite più alta rispetto all’Italia. Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), un’indicazione simile è data dal rapporto tra il debito pubblico e il Pil, che è aumentato per quasi tutti i Paesi aiutati dal Mes tranne l’Irlanda, che come abbiamo visto è un caso un po’ speciale. Per alcuni Paesi il debito è cresciuto di più rispetto a quello italiano, ma mai in una misura che verrebbe da definire disastrosa rispetto a quella del nostro Paese. Certo questi dati non dimostrano un nesso di causalità: non è detto che il Pil pro capite dei Paesi che hanno usato il Mes sia cresciuto più di quello italiano proprio perché hanno utilizzato il Mes. I dati però non mostrano, come ha sostenuto il ministro della Difesa, che la situazione economica e di stabilità dei conti siano peggiorate in maniera disastrosa negli anni successivi all’utilizzo del Mes. Anzi, in alcuni casi sono migliorate. Quando si fa riferimento ai presunti effetti negativi del Mes, di solito si pensa alla Grecia, ossia al Paese che ha sofferto di più la crisi dei debiti sovrani e che è uscito in brutte condizioni dai vari salvataggi subiti. Come indicato in un rapporto di valutazione indipendente sull’effetto del Mes, commissionato dallo stesso Mes e pubblicato nel 2020, la Grecia ha subito effetti negativi dal programma di salvataggio. In particolare i tagli alla spesa imposti come condizionalità hanno avuto pesanti conseguenze sull’accesso ai servizi pubblici per i greci e ne hanno ridotto il benessere sociale. Il rapporto critica il Mes e gli altri organismi internazionali coinvolti nel salvataggio del Paese per come hanno agito. Secondo il rapporto, le organizzazioni internazionali hanno spinto 140
Le bugie sull’Europa
per i tagli alla spesa sociale senza insistere abbastanza sulle riforme del mercato del lavoro e della concorrenza, che nel breve periodo avrebbero avuto un impatto meno invasivo sulla popolazione, mentre nel medio periodo avrebbero avuto effetti positivi più rilevanti. Le richieste del Mes nascevano da una situazione di emergenza e, con il senno di poi, hanno in parte inasprito la sofferenza della crisi da parte della popolazione greca. Lo stesso rapporto indipendente, però, sottolinea che il Mes ha riconosciuto i propri errori e che negli anni successivi ai primi interventi ha tenuto di più in considerazione il benessere sociale della popolazione. Ma perché il Mes e le altre organizzazioni internazionali che hanno prestato soldi alla Grecia non hanno pensato all’impatto sociale delle misure fin dall’inizio? Qui c’entra il peso della politica. Secondo il già citato rapporto, l’equilibrio raggiunto con i salvataggi ha portato alla creazione di prospettive di bassa crescita perché, per esempio, la mancata riforma della concorrenza, evitata per proteggere «interessi corporativistici», ha ridotto il potenziale di crescita del Paese. La protezione di questi interessi si può difficilmente ricondurre all’Ue, quanto invece al governo nazionale che, per ragioni politiche, poteva accettare più facilmente la via dell’austerità piuttosto che quella del danneggiamento di categorie protette. ●●●● «Siamo l’unica nazione nell’Ue dentro alla Via della Seta» Come abbiamo visto per i ritardi del Pnrr, per giustificare e difendere il suo operato spesso il governo Meloni ha cercato di fare un confronto con gli altri Paesi europei.
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Una strategia simile è stata adottata per quanto riguarda la cosiddetta “nuova Via della Seta”, la Belt and Road Iniziative (Bri), un gigantesco progetto infrastrutturale annunciato nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping. L’obiettivo di questo progetto, in realtà dai contorni piuttosto vasti e vaghi, è la realizzazione di una rete infrastrutturale, via terra e via mare, per favorire l’espansione dell’economia cinese verso altri Paesi dell’Asia, del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Europa. A marzo 2019 il primo governo guidato da Giuseppe Conte, sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, ha firmato un memorandum of understanding con la Cina proprio sul tema della Via della Seta. In concreto questo è stato il primo passo per fornire ai due Paesi un quadro comune in cui inserire altre separate intese, istituzionali e commerciali, nei settori del commercio, dell’energia, dell’industria, delle infrastrutture e della finanza. All’epoca la firma del memorandum of understanding fu criticata ed emersero preoccupazioni da parte dell’Unione europea e degli Stati Uniti per la scelta del governo italiano. Ue e Usa vedevano il rischio che con il suo progetto la Cina potesse aumentare le sue influenze in maniera eccessiva in Italia e nel continente europeo. Nel corso degli anni questo accordo ha portato a risultati piuttosto limitati. Il governo Meloni si è trovato a decidere se rinnovare o meno l’accordo con la Cina. Alla fine di giugno 2023 la presidente del Consiglio ha detto in Senato che le valutazioni su un eventuale rinnovo erano «in corso», aggiungendo però che l’Italia era l’unico Paese in Europa «all’interno della Via della Seta». Le cose però non stavano così: altri Stati membri dell’Ue hanno siglato memorandum of understanding con la Cina per il progetto infrastrutturale. In base alle nostre verifiche almeno diciassette Paesi Ue hanno siglato accordi con la Cina per la Via della Seta. 142
Informazioni aggiornate a marzo 2022
Le bugie sull’Europa
I Paesi europei che hanno siglato un memorandum con la Cina
Fonte: Green Finance & Development Center, Fudan University di Shang -
Questi sono: Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Grecia, Ungheria, Italia, Malta, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia e Slovenia. Se per Europa non si considera solo l’Ue, allora il numero di Paesi sale ancora: tra questi ci sono per esempio gli Stati dei Balcani (come Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Albania, Montenegro e Macedonia), la Turchia e l’Ucraina. L’Italia è invece l’unico Paese membro del G7 ad aver siglato un memorandum of understanding sulla Via della Seta: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Germania e Giappone non l’hanno fatto.
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Le bugie su tutto il resto
Rave party, Ucraina e CO2
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146 «Lo scioglimento dei ghiacciai è ciclico» 152 «Cina e India sono gli Stati più responsabili dell’emissione di gas serra» 155 «Il ponte sullo Stretto taglierà 140 mila tonnellate di CO2» 158 «Sui rave party ci allineiamo agli altri» 160 «Messina Denaro è al carcere duro grazie al nostro governo» 163 «In un anno sono stati sequestrati 50 milioni di tonnellate di cocaina» 164 «La guerra è colpa dell’Ucraina» 167 «Non spendiamo soldi per mandare armi agli ucraini» 169 «Nessuno ha mai riconosciuto la Crimea come parte della Russia» 171 «In via Rasella furono uccisi i membri di una banda musicale» 175 «Un po’di vino fa bene, troppa acqua fa male»
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el primo anno del governo Meloni abbiamo passato sotto la lente del nostro fact-checking centinaia e centinaia di dichiarazioni di membri dell’esecutivo. L’immigrazione, l’economia, il lavoro, l’Europa e il Pnrr sono stati tra i temi più discussi dai partiti al governo, nonché quelli dove sono circolate – come abbiamo visto nei capitoli precedenti – molte affermazioni scorrette, fuorvianti, che non trovano riscontro nei fatti e nei numeri. Ma questi non sono stati gli unici temi di cui ci siamo occupati. Dalla giustizia all’ambiente, dalla guerra in Ucraina alla sovranità alimentare, a cui il governo Meloni ha dedicato un ministero, ci sarebbe ancora molto da scrivere per raccontare gli altri errori commessi dalla presidente del Consiglio e dai suoi ministri negli scorsi mesi. In questo capitolo abbiamo raccolto alcuni fact-checking su altri temi che abbiamo ritenuto significativi e che hanno attirato di più l’attenzione dei nostri lettori e delle nostre lettrici – cosa che faremo anche nel prossimo capitolo, dedicato ai partiti che in Parlamento sono all’opposizione. «Lo scioglimento dei ghiacciai è ciclico» «Rispettare e aggiornare gli impegni internazionali assunti dall’Italia per contrastare i cambiamenti clima146
Le bugie su tutto il resto
tici»: questa è una delle promesse contenute nel programma elettorale della coalizione di centrodestra, nella sezione intitolata “L’Ambiente, una priorità” (che però è la dodicesima delle quindici sezioni che compongono il programma). Nel primo anno del governo Meloni il leader della Lega Matteo Salvini ha tuttavia dimostrato di non conoscere bene come funzionano i cambiamenti climatici. A fine luglio 2023, durante la festa estiva del suo partito in Emilia-Romagna, Salvini ha dichiarato che i ghiacciai sulle montagne, come quello sull’Adamello, «si ritirano anno dopo anno» non a causa delle emissioni delle attività umane, per esempio quelle generate dai trasporti, ma perché ci sono «cicli» storici. Basta studiare «un pochino di storia», ha detto Salvini, per arrivare a questa conclusione. In realtà l’affermazione del segretario della Lega è smentita dalla letteratura scientifica sul tema e da vari esperti di ghiacciai contattati da Pagella Politica. La velocità e la portata dello scioglimento dei ghiacciai che si sta registrando negli ultimi decenni è qualcosa di eccezionale: questo fenomeno è spinto in particolare dall’aumento medio delle temperature, causato dalle attività umane. Prima di tutto è necessaria una precisazione: al posto di “scioglimento” dei ghiacciai sarebbe più corretto usare il termine “fusione”. Lo scioglimento è infatti un fenomeno chimico che implica la presenza di due sostanze distinte, mentre la fusione descrive il cambiamento di stato da solido a liquido di una singola sostanza, come avviene appunto nel caso dei ghiacciai. Detto questo, da tempo ormai la letteratura scientifica è concorde nel dire che la maggior parte dei ghiacciai in tutto il mondo si sta ritirando a causa dell’aumento medio delle temperature. E la crescita della massa di ghiaccio persa si è intensificata negli ultimi decenni. Questa
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dinamica è ben sintetizzata nel rapporto speciale, dedicato anche ai ghiacciai, pubblicato nel 2019 dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite che periodicamente realizza i report considerati tra i più autorevoli a livello internazionale sui cambiamenti climatici e i loro effetti. È vero che in passato la Terra ha attraversato nel corso di decine di millenni varie fasi di glaciazione, con periodi in cui i ghiacciai sulla crosta terrestre erano più diffusi, e in altri meno. Ma il riscaldamento globale causato dalle attività umane sta accelerando la fusione dei ghiacci. Per esempio uno studio pubblicato a gennaio 2023 su «Science», una delle più prestigiose riviste scientifiche al mondo, ha stimato che se entro il 2100 le temperature medie della Terra saranno più alte tra gli 1.5°C e i 4°C rispetto al periodo pre-industriale (prima metà dell’Ottocento), rischierà di scomparire tra un quarto e la metà di tutti i ghiacciai presenti sul pianeta. Al momento la traiettoria di crescita delle temperature medie è già vicina agli 1.5°C. «Questa dei cicli naturali non è altro che una balla: chiederei ai nostri politici di fare un giro con gli scienziati su questi ghiacciai», ha detto a Pagella Politica Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di scienze polari (Isp) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e professore di Scienza e gestione dei cambiamenti climatici all’Università Ca’ Foscari di Venezia. «Oggi non ci sono più dubbi: l’effetto degli esseri umani sul riscaldamento globale è indiscutibile», così come le conseguenze sui ghiacciai. La stessa posizione è condivisa da Francesca Pellicciotti, professoressa di Criosfera e idrosfera montana all’Institute of Science and Technology Austria (Ista) di Klosterneuburg. «Ci possono essere fluttuazioni naturali, ma è inequivoco che il riscaldamento globale sia causato da attività umane. Basti pensare che gli attuali li148
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velli di anidride carbonica nell’aria sono i più alti degli ultimi due milioni di anni. C’è una relazione molto forte tra le attività umane, il riscaldamento globale e la fusione dei ghiacciai», ha sottolineato Pellicciotti. «I ghiacciai che si trovano nel nostro sistema climatico sono piuttosto sensibili ai cambiamenti quindi rispondono in modo evidente rispetto ad altri indicatori più difficili da osservare. Chi va in montagna si accorge a occhio nudo di come i nostri ghiacciai siano cambiati e si siano ridotti negli ultimi anni», ha spiegato Valter Maggi, professore di Geografia fisica e geomorfologia dell’Università Bicocca di Milano, presidente del Comitato glaciologico italiano. «Le Alpi si trovano in una delle aree più industrializzate del mondo, quindi i ghiacciai alpini sono delle importantissime sentinelle dell’impatto ambientale». Il governo e il riscaldamento globale Come se la sono cavata i membri del governo e dei partiti della maggioranza per quanto riguarda le dichiarazioni sul contrasto al riscaldamento globale? In breve, si può dire che ognuno nel governo la pensa a modo suo sull’argomento. Da una parte, durante l’estate 2023, con il Sud Italia colpito da numerosi incendi e il Nord dal maltempo, il ministro per la Protezione civile e per le Politiche del mare Nello Musumeci ha in più occasioni ribadito l’urgenza di affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici, di cui peraltro si deve occupare costantemente nella sua azione di governo. La stessa Giorgia Meloni ha fatto dichiarazioni che sembrano riconoscere la realtà del cambiamento climatico, ma i toni utilizzati sono sempre stati piuttosto cauti. Per esempio a marzo 2023, durante un
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question time alla Camera, la presidente del Consiglio ha dichiarato che «gli italiani non hanno scelto un governo composto da pericolosi negazionisti climatici», aggiungendo che l’approccio del governo è «pragmatico e non ideologico». In realtà tra le fila della maggioranza ci sono alcuni esponenti che mettono parecchio in dubbio le responsabilità delle attività umane sul riscaldamento globale. L’esponente più noto è forse Lucio Malan, il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato. A gennaio 2023 Malan ha scritto su Twitter una frase molto criticata sui cambiamenti climatici. «Ragusa sotto la neve. Temperature rigide e fiocchi che imbiancano la città. Il riscaldamento globale non perdona!», recitava il tweet del senatore di Fratelli d’Italia, che con sarcasmo commentava la notizia delle nevicate sulla città siciliana. In molti hanno fatto notare a Malan l’errore di confondere il meteo, di cui si occupa la meteorologia, e il clima, dominio della climatologia. La prima riguarda l’atmosfera terrestre e i suoi parametri, come la temperatura, l’umidità, il vento e la nuvolosità, su scala locale e nel breve periodo. La seconda invece ha a che fare con questi parametri in un’altra prospettiva, concentrandosi su intervalli di tempo più lunghi, decenni o secoli o millenni, per descrivere su scala globale il clima del passato e prevedere quale sarà il suo sviluppo futuro. Usare qualche giorno di freddo per mettere in dubbio gli effetti dei cambiamenti climatici è dunque sbagliato. Rispondendo ai commenti, Malan aveva subito ribattuto di non essere un «negazionista» del riscaldamento globale: per lui l’aumento delle temperature dal 1880 in poi è un «fatto», ma «il punto è come analizzarlo e come reagire». In realtà per essere considerati un “negazionista climatico” non è necessario negare del tutto l’esistenza dei cambiamenti clima150
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tici, anzi. Una delle forme più diffuse oggi di negazionismo climatico è proprio quella che ammette la realtà dell’aumento medio delle temperature globali, ma mette in dubbio che questo sia causato dalle attività umane. Basta fare una rapida ricerca sui profili pubblici di Malan sui social network per avere conferma delle sue posizioni negazioniste sui cambiamenti climatici. Per esempio a luglio del 2022, a poche settimane dalle elezioni, Malan aveva scritto su Twitter che «chi ha studiato sa che i cambiamenti climatici ci sono da sempre», per sminuire il contributo del riscaldamento globale al crollo di una parte del ghiacciaio della Marmolada, che aveva causato undici morti. È vero che i cambiamenti climatici «ci sono da sempre», ma Malan ometteva di dire che l’aumento delle temperature registrato negli ultimi 150 anni, ossia dall’inizio della seconda rivoluzione industriale, è qualcosa di eccezionale per il nostro pianeta in termini di velocità e portata. La comunità scientifica internazionale, salvo rari casi isolati, è unanime nel dire che la causa principale dei cambiamenti climatici sono le attività degli esseri umani e nello specifico l’emissione di gas a effetto serra. A ottobre del 2021, poco dopo essere passato da Forza Italia a Fratelli d’Italia, Malan aveva scritto su Twitter: «Il riscaldamento-globale-causato-dall’uomo (ridenominato “cambiamento climatico” per poter comprendere qualunque cosa) è una balla colossale. Inquietante che qualcuno voglia farne un’emergenza per schiacciare individui e nazioni». In precedenza, nel 2016 e 2017, Malan aveva definito il riscaldamento globale una «truffa del pensiero unico», un «dogma», mettendo varie volte in dubbio il collegamento tra l’aumento degli eventi meteorologici estremi nel mondo con l’aumento medio delle temperature.
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Nonostante Malan neghi l’origine antropica dei cambiamenti climatici, si può obiettare che il senatore di Fratelli d’Italia non ricopre incarichi di governo. Malan è però il capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia, il partito più numeroso in Parlamento e il principale della maggioranza di governo: il senatore svolge dunque un ruolo di primo piano nell’organizzazione dei lavori parlamentari. Per esempio, i capigruppo partecipano alle riunioni per votare il calendario dei lavori del Senato e spesso hanno il compito di fare le dichiarazioni di voto in aula. ● «Cina e India sono gli Stati più responsabili dell’emissione di gas serra» Una volta al governo Meloni ha continuato a trattare il tema del riscaldamento globale usando una strategia ben precisa e già seguita in passato, ossia quella di criticare Paesi come Cina e India, a detta sua i veri responsabili delle emissioni che causano i cambiamenti climatici. A novembre 2022, da pochi giorni presidente del Consiglio, Meloni ha partecipato a Sharm el-Sheik, in Egitto, al vertice dei capi di Stato e di governo della Cop27, la conferenza annuale delle Nazioni Unite sul clima. «Siamo tutti chiamati a compiere sforzi più profondi e più rapidi per proteggere il nostro pianeta, la nostra casa comune», ha scritto Meloni su Facebook in quell’occasione, aggiungendo che «nessuno può tirarsi fuori da una sfida che è globale. Soprattutto le nazioni maggiormente responsabili dell’emissione di gas serra, le quali, non a caso, hanno disertato questa Cop27». Il riferimento della presidente del Consiglio era, tra gli altri, proprio a Cina e India, i cui due presidenti, Xi Jinping e Narendra Modi, avevano deciso di non partecipare al vertice sul clima in Egitto. 152
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Ma davvero questi due Paesi, già criticati in passato da Meloni sul tema dell’ambiente, sono tra i maggiori «responsabili» delle emissioni che hanno causato e stanno causando i cambiamenti climatici? La risposta non è così scontata come si potrebbe pensare. Secondo i dati all’epoca più aggiornati di Our World in Data, un progetto a cui contribuiscono ricercatori basati all’Università di Oxford, nel 2019 – dunque prima della pandemia di Covid-19 – la Cina ha emesso nell’atmosfera oltre 12 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente (unità di misura usata per considerare insieme tutti i gas serra che contribuiscono con un peso diverso al riscaldamento globale). Nel 2019 circa il 24 per cento di tutte le emissioni di CO2 equivalente prodotte nel mondo veniva dalla Cina, al primo posto, seguita da Stati Uniti (5,8 miliardi di tonnellate, l’11,6 per cento di quelle mondiali) e India (3,4 miliardi di tonnellate, il 6,8 per cento), che da sola aveva emesso più di tutti e ventisette i Paesi dell’Unione europea messi insieme (3,1 miliardi di tonnellate). Per avere un ordine di grandezza, nel 2019 l’Italia era ventiquattresima in classifica, con quasi 380 milioni di tonnellate di CO2 equivalente emesse. Questi numeri sembrano dimostrare che Meloni ha ragione e che Cina e India sono effettivamente tra gli Stati «maggiormente responsabili dell’emissione di gas serra» in tutto il mondo. Va inoltre sottolineato che le emissioni di CO2 di questi due Paesi crescono in modo rapido e costante da tempo.
Una delle forme più diffuse oggi di negazionismo climatico è proprio quella che ammette la realtà dell’aumento medio delle temperature globali, ma mette in dubbio che questo sia causato dalle attività umane. 153
Le emissioni di CO2 equivalente In miliardi di tonnellate, anno 2019 12
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Fonte: Our world in data
Ma i dati sulle emissioni complessive di gas serra in un anno danno solo un quadro parziale della situazione. Le classifiche cambiano infatti se si guarda il fenomeno da prospettive diverse. Se si rapportano le emissioni di CO2 equivalente prodotte dai Paesi con la loro popolazione, si scopre che nel 2019 la Cina era cinquantaduesima in classifica, con 8,4 tonnellate emesse ogni suo abitante, e l’India addirittura centocinquantunesima, con 2,5 tonnellate per abitante. Tra i Paesi principali nelle posizioni più alte della classifica, escludendo le nazioni più piccole, troviamo per esempio l’Australia (24,1 tonnellate per abitante), l’Arabia Saudita (21,1 tonnellate), il Canada (20,7 tonnellate) e gli Stati Uniti (17,5 tonnellate). L’Italia, con 6,2 tonnellate per abitante, era ottantunesima. I dati che abbiamo visto finora sono poi limitati alle sole emissioni prodotte in un singolo anno. Quando si parla di attività umane, di emissioni di gas serra e di cambiamenti climatici, è però fondamentale tenere in considerazio154
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ne quanto successo nei decenni scorsi. Esiste infatti una relazione diretta e lineare tra le emissioni totali rilasciate nell’atmosfera e l’aumento medio delle temperature sulla superficie terrestre. E le emissioni di gas serra prodotte secoli o decenni fa, con l’utilizzo dei combustibili fossili e il consumo delle foreste e del suolo, continuano a contribuire ancora oggi al riscaldamento del pianeta. Secondo le stime di Carbon Brief, un sito specializzato nella divulgazione sui cambiamenti climatici, dall’inizio della rivoluzione industriale in poi le attività umane hanno prodotto l’emissione di circa 2.500 miliardi di tonnellate di CO2. Tra il 1850 e il 2021 gli Stati Uniti sono stati il principale Paese responsabile per la quantità di emissioni rilasciate nell’atmosfera, circa 510 miliardi di tonnellate (il 20,4 per cento sul totale), seguite dalla Cina, con circa 285 miliardi (11,4 per cento). L’India è settima, con quasi 86 miliardi di tonnellate (3,4 per cento). I quattro grandi Paesi europei – Germania, Francia, Regno Unito e Italia – hanno contribuito complessivamente per quasi 230 miliardi di tonnellate, il 9,2 per cento circa. Se si prende un intervallo temporale più ampio, quindi, come quello in cui si sono accumulate le emissioni di CO2 prodotte dagli esseri umani che stanno causando il cambiamento climatico, il contributo di Cina e India sul totale delle emissioni umane è più basso di quello registrato nei singoli anni più recenti. ●● «Il ponte sullo Stretto taglierà 140 mila tonnellate di CO2» Come abbiamo visto nel capitolo sul lavoro e i sussidi, una delle battaglie portate avanti con più decisione
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dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini da quando è in carica il governo Meloni è quella per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina (e non, come più volte ripetuto dallo stesso Salvini, sul Canale di Sicilia, che separa invece l’isola dal Nord Africa). A difesa del ponte il vicepresidente del Consiglio ha dichiarato in varie occasioni che l’opera sarà «green», ossia ecologica e sostenibile, dal momento che taglierà ogni anno «140 mila tonnellate di CO2 dall’atmosfera». Incuriositi da questo numero, abbiamo cercato di capire da dove venisse e quanto fosse affidabile. Partiamo dalla fonte del dato: la stima è contenuta in un documento realizzato nel 2020 da due ingegneri siciliani favorevoli alla realizzazione del ponte. Non si tratta dunque di uno studio scientifico o di un rapporto commissionato dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e, come spiegano gli stessi autori, «non ha pretesa di scientificità», ma di «sano buon senso». L’idea dietro ai calcoli dei due ingegneri è semplice: gli autori del documento hanno provato a quantificare quante sono le emissioni di CO2 prodotte ogni anno dai traghetti che trasportano auto e passeggeri dalle coste della Calabria a quelle della Sicilia e viceversa. Per calcolare questo dato hanno considerato due fattori: le ore di navigazione dei traghetti in un anno e la potenza dei loro motori. Secondo i due ingegneri, le emissioni annuali di CO2 attribuibili ai traghetti nello Stretto di Messina si aggirano intorno alle 150 mila tonnellate. Le emissioni annue di CO2 delle auto che attraverseranno il ponte, una volta costruito, saranno invece pari a circa 10 mila tonnellate. La differenza tra 150 mila tonnellate e 10 mila tonnellate di CO2 dà come risultato le 140 mila tonnellate che si eliminerebbero in un anno dall’aria grazie al ponte, 156
Le bugie su tutto il resto
il dato citato da Salvini e da altri esponenti del suo partito. Questa stima è plausibile: per verificarla abbiamo controllato i numeri di un database che mette a disposizione i dati sulle emissioni di alcuni traghetti che transitano nello Stretto e parlato con un esperto di emissioni navali. La stima delle 140 mila tonnellate di CO2 “eliminate” grazie al ponte sullo Stretto è però parziale per almeno due motivi. Il primo motivo: la Lega non prende in considerazione le emissioni di CO2 che sarebbero prodotte con la costruzione del ponte sullo Stretto. Secondo i nostri calcoli, considerando il cemento e l’acciaio necessari per la realizzazione dell’opera, i lavori dell’infrastruttura produrrebbero a grandi linee emissioni pari a 1,5 milioni di tonnellate di CO2. Per quantificare l’impatto complessivo del ponte sullo Stretto in termini di emissioni servirebbe dunque una “valutazione dell’impatto del ciclo di vita” (in inglese life cycle assessment, Lca) dell’infrastruttura, che tenga conto sia delle emissioni prodotte dal ponte per la sua costruzione sia di quelle eliminate, per esempio a causa di unʼeventuale modifica dei mezzi di trasporto usati per attraversare lo Stretto. Ma al momento uno studio di questo tipo non esiste. Il secondo motivo per cui la stima della Lega è parziale riguarda le ipotesi fatte nel documento già citato in cui si calcolano le 140 mila tonnellate di CO2 tolte dall’aria. Per esempio il testo basa i propri calcoli sullo scenario, come abbiamo visto, in cui l’intero traffico sui traghetti di auto e passeggeri sarà sostituito dal traffico sul nuovo ponte. Ma questo non è per nulla scontato: quando l’opera sarà effettivamente costruita, alcuni viaggiatori potranno comunque continuare a preferire i traghetti se considerati più convenienti, per esempio in termini di tragitto da percorrere.
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«Sui rave party ci allineiamo agli altri» Nel suo primo decreto-legge, approvato alla fine di ottobre 2022, il governo ha deciso di inasprire le regole contro chi organizza rave party. Prima del nuovo decreto, in Italia non c’era una legge specifica per contrastare l’organizzazione di queste feste illegali. Questo però non vuol dire che contro questi raduni non si potesse intervenire, come ha dimostrato anche il caso del famoso rave di Modena, sgomberato poche ore prima dell’approvazione del primo decreto del governo Meloni in base alle norme già vigenti. Agli organizzatori di questi eventi, per esempio, erano spesso imputati reati come la violazione di proprietà privata o l’invasione di terreni o edifici. Il nuovo decreto del governo ha introdotto nel codice penale l’articolo 434-bis, intitolato: “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. «Chiunque organizza o promuove l’invasione», che deve essere commessa da più di cinquanta persone, «è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro mille a euro 10 mila», stabiliva il testo. La pena è diminuita per chi partecipa all’«invasione» e le autorità sono autorizzate a sequestrare l’eventuale strumentazione utilizzata da chi commette il reato. Vista l’ambiguità della norma, considerata troppo vaga da molti critici, in Parlamento il decreto è stato poi modificato prima di essere convertito in legge. Ora il codice penale, all’articolo 633-bis, punisce con le stesse pene viste sopra chiunque «organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati» per «realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento», se dall’invasione «deriva un concreto pericolo per la salute pubblica o per l’incolumità pub158
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blica a causa dell’inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti». Per difendere l’introduzione del nuovo reato, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi disse all’epoca che l’obiettivo del governo era quello di «allineare» l’Italia «alla legislazione degli altri Paesi europei». Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano si era addirittura spinto a dire che l’Italia era «il Bengodi dove vengono a fare i rave da tutta Europa». Entrambe queste due affermazioni erano parecchio esagerate. In Francia sono in vigore alcune leggi specifiche per i «raduni esclusivamente festivi a carattere musicale». Nel caso in cui manchino le necessarie autorizzazioni per organizzare la festa, gli assembramenti possono essere sgomberati dopo aver informato i partecipanti della necessità di allontanarsi per almeno due volte, senza successo, e le autorità possono fare uso della forza se sono vittime di violenze oppure se «non possono difendere in altro modo il terreno occupato». Le autorità sono anche autorizzate a confiscare il materiale utilizzato nel rave. Il codice penale francese sancisce che gli organizzatori di eventi su suolo pubblico che non hanno presentato la necessaria documentazione possono essere puniti con una multa da 7.500 euro e sei mesi di carcere, pene dunque inferiori rispetto a quelle previste dal decreto del governo Meloni. Nel Regno Unito i rave party sono normati dal Criminal Justice and Public Order Act, una legge del 1994 approvata in seguito a un rave tenutosi due anni prima a Castlemorton Common, nella contea di Worcestershire, a cui parteciparono 20 mila persone. Il testo menziona esplicitamente i rave party, descritti come «raduni all’aperto di venti o più persone», che stiano o meno invadendo una proprietà privata, nei quali durante la notte viene riprodotta musica caratterizzata da «beat
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ripetitivi», con un volume o per una durata tali da causare disagi ai residenti. I partecipanti ai rave possono essere puniti con una multa e con l’incarcerazione fino a tre mesi. In Germania e in Spagna non esistono invece leggi nazionali specifiche per contrastare i rave party. Ma in questi due Paesi gli organizzatori e i partecipanti ai raduni illegali possono però essere accusati di varie fattispecie di reato secondo le disposizioni regionali, come l’occupazione illecita del suolo pubblico. A differenza di quanto dichiarato da Sangiuliano, poi, è scorretto dire che prima dell’intervento del governo Meloni l’Italia fosse l’unico Paese dove si tenevano i rave, vista l’assenza di leggi specifiche. Basta fare una breve ricerca online per trovare molte notizie di grossi raduni illegali organizzati in questi ultimi anni in vari Stati europei, dalla Francia alla Germania, dalla Spagna alla Repubblica Ceca passando per i Paesi Bassi. «Messina Denaro è al carcere duro grazie al nostro governo» Il decreto-legge che ha creato il nuovo reato contro chi organizza i rave party è intervenuto anche sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, su cui la presidente Meloni ha fatto però un po’ di confusione nei mesi successivi. A gennaio 2023, ospite di Quarta Repubblica su Rete 4, la leader di Fratelli d’Italia ha infatti commentato l’arresto del boss Matteo Messina Denaro dicendo che il principale latitante italiano «andrà al “carcere duro”», un regime che «esiste ancora» solo grazie all’attuale governo. Le cose però non stavano così. Con l’espressione “carcere duro” si fa generalmente riferimento a quanto previsto dall’articolo 41-bis della 160
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legge sull’ordinamento penitenziario. Questo articolo fu modificato nel 1992 per introdurre un regime detentivo speciale che riguardasse in particolare i detenuti per reati legati alla mafia. All’inizio la norma sul “carcere duro” fu introdotta solo in via temporanea, ma negli anni successivi fu prorogata e modificata varie volte, diventando poi parte stabile dell’ordinamento penitenziario. In breve i detenuti che sono sottoposti all’articolo 41-bis sono soggetti a restrizioni più severe rispetto agli altri detenuti. Per esempio un detenuto sotto il “carcere duro” deve stare da solo in una cella, isolato da tutti gli altri detenuti, e non ha la possibilità di accedere a spazi comuni. Al massimo si possono trascorrere due ore al giorno negli spazi all’aperto dell’istituto penitenziario (la cosiddetta “ora d’aria”). Esistono limitazioni anche per i colloqui: ne è concesso uno al mese a persona e solo con i familiari, senza la possibilità di passarsi oggetti, mentre per via telefonica si può fare al massimo una chiamata di dieci minuti al mese, registrata. Parlando di Matteo Messina Denaro in tv, Meloni ha fatto più volte riferimento a qualcosa di differente, al cosiddetto “ergastolo ostativo”: ossia il regime carcerario che esclude gli autori di alcuni reati particolarmente gravi, tra cui quelli di stampo terroristico o mafioso, da possibili benefici penitenziari, a meno che questi non decidano di collaborare con la giustizia. L’ergastolo ostativo è regolato dall’articolo 4-bis della già citata legge sull’ordinamento penitenziario, che è stato modificato a fine ottobre 2022 dal governo Meloni con il suo primo decreto-legge. Il governo è intervenuto con urgenza sul tema perché nel 2021 la Corte costituzionale aveva dichiarato incompatibile con la Costituzione il regime dell’ergastolo ostativo, invitando il Parlamento a intervenire prima di un nuovo giudizio sul tema, previsto inizialmente per novembre 2022.
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Nel suo primo decreto-legge il governo Meloni ha così riproposto alcune modifiche al regime dell’ergastolo ostativo contenute in una proposta di legge approvata dalla Camera a marzo 2022, ma non dal Senato, vista la fine anticipata della scorsa legislatura (curiosità: all’epoca i deputati di Fratelli d’Italia si erano astenuti nel voto alla Camera). Tra le altre cose, il decreto ha stabilito che i condannati per reati connessi all’associazione di tipo mafioso potranno accedere ai benefici penitenziari anche senza aver collaborato con la giustizia, a patto che sia rispettata una serie di condizioni. Per esempio dovrà essere esclusa la presenza di legami attuali con la criminalità organizzata, il condannato dovrà aver adempiuto a tutte le obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, e il giudice dovrà valutare la presenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime. Potranno poi essere ammessi alla libertà condizionale solo i detenuti che hanno scontato almeno due terzi della pena oppure, in caso di condanna all’ergastolo, almeno trent’anni di pena. I detenuti sottoposti al regime del 41-bis e condannati all’ergastolo ostativo possono accedere ai nuovi benefici disposti dal decreto solo nel caso in cui sia loro revocato il “carcere duro”. Al di là del caso specifico di Matteo Messina Denaro, che negli anni è stato condannato più volte all’ergastolo nonostante la latitanza, Meloni ha sbagliato nel ripetere che il regime del “carcere duro” «esiste ancora» grazie al suo governo. Come abbiamo visto, il “carcere duro” è regolato dall’articolo 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario: non necessariamente riguarda detenuti condannati all’ergastolo e non è stato modificato dal governo Meloni. L’esecutivo è invece intervenuto sull’ergastolo ostativo, regolato dall’articolo 4-bis, per evitare un nuovo giudizio della Corte costituzionale. ●●● 162
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non si è distinto soltanto per gli errori sui rave party e sull’immigrazione, come abbiamo visto nel capitolo dedicato al tema. Nel suo primo anno di mandato al Viminale, Piantedosi ha avuto un rapporto difficile con i numeri corretti anche in altri ambiti, come riassume bene una dichiarazione fatta a gennaio 2023, ospite a Piazzapulita su La7. In quell’occasione il ministro disse che le organizzazioni mafiose commerciano un’«ingente quantità di droga» in Italia, come dimostrava il fatto che nel 2022 la Guardia di finanza avesse sequestrato complessivamente «50 milioni di tonnellate di cocaina». Non era chiaro quale fosse la fonte del dato citato da Piantedosi, ma il numero citato in tv era enormemente esagerato. All’epoca i dati più aggiornati erano quelli della Direzione centrale per i servizi antidroga, che fa parte del ministero dell’Interno. Secondo questo dipartimento, tra gennaio e settembre 2022 in Italia erano state sequestrate dalle forze dell’ordine quasi 60 tonnellate di droga, di cui 28 tonnellate di cocaina. Secondo la relazione annuale della Direzione centrale per i servizi antidroga, pubblicata a giugno 2022, nel 2021 furono sequestrate oltre 90 tonnellate di droga, di cui quasi 70 tonnellate relative alla cannabis e 20 tonnellate alla cocaina. Dal 2012 in poi la quantità complessiva di droga sequestrata più alta è stata raggiunta nel 2014, con oltre 150 tonnellate. Cifre lontanissime dalle «50 milioni di tonnellate» citate da Piantedosi. L’implausibilità del numero indicato dal ministro era dimostrata anche dalle statistiche a livello internazionale. Secondo i dati in quel momento più aggiornati raccolti dall’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine (Unodc), nel 2020 erano state sequestrate in tutto il mon-
Le bugie su tutto il resto
«In un anno sono stati sequestrati 50 milioni di tonnellate di cocaina»
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do oltre 29 mila tonnellate di droga, un numero con cinque zeri in meno rispetto ai «50 milioni» indicati da Piantedosi, tra l’altro solo per l’Italia e solo per la cocaina. «La guerra è colpa dell’Ucraina» Sin dal primo giorno del suo insediamento, il governo Meloni ha mostrato un pieno e forte sostegno all’Ucraina, che alla fine di febbraio 2022 è stata aggredita e invasa dalla Russia. Salvo qualche dichiarazione isolata di alcuni suoi esponenti, la maggioranza è stata compatta nel rispettare gli «impegni assunti» dalla Nato, promessa fatta dalla coalizione di centrodestra nel suo programma elettorale. Tra le varie voci dissonanti, però, c’è stata quella di Silvio Berlusconi, il leader di Forza Italia morto il 12 giugno 2023. Durante le prime settimane di governo sono circolate alcune dichiarazioni fatte dall’ex presidente del Consiglio durante un’assemblea del suo partito, nel complesso poco credibili o non verificabili sulle cause della guerra in Ucraina. Per esempio Berlusconi ha detto che il presidente russo Vladimir Putin è stato sostanzialmente costretto a fare una guerra che lui non voleva, per instaurare «un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso». Se questa dichiarazione è così vaga da renderla quasi inverificabile, altre invece lo erano eccome: vediamone due tra le principali, smentite dai fatti. L’ex presidente del Consiglio ha dichiarato che nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, è stato firmato un accordo tra l’Ucraina e le due neocostituite repubbliche del Donbass «per un accordo di pace, senza che nessuno attaccasse l’altro». «L’Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere 164
delle due repubbliche», ha sostenuto Berlusconi. Una ricostruzione, però, falsa. Un primo accordo di cessate il fuoco è stato firmato a Minsk, in Bielorussia, a settembre 2014, per fermare le violenze scoppiate nell’aprile dello stesso anno nella regione ucraina del Donbass, dopo l’assalto alle sedi istituzionali da parte dei separatisti filorussi in alcune aree delle regioni di Donetsk e Luhansk. La tregua non era durata e gli scontri e le violenze, da ambo le parti, erano ricominciati poco dopo. Dopo altri mesi di violenze, un secondo accordo di cessate il fuoco era stato raggiunto di nuovo a Minsk, a febbraio 2015. Qui, tra le altre cose, Russia e Ucraina avevano stabilito che le regioni separatiste sarebbero tornate sotto il pieno controllo ucraino e che l’Ucraina avrebbe approvato una riforma costituzionale per garantire loro uno statuto speciale. Queste due condizioni non si sono mai verificate. In generale è falso, a differenza di quanto detto da Berlusconi, che questo «accordo di pace» sia stato violato dalla decisione dell’Ucraina di attaccare le frontiere delle due autoproclamate repubbliche separatiste. Vari rapporti di organizzazioni indipendenti hanno mostrato che gli accordi presi a Minsk nel 2015 hanno portato a una generale riduzione delle ostilità e delle violenze, anche se sono state registrate frequenti violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti. Secondo le Nazioni Unite, le morti tra i civili sono passate dalle 2.084 del 2014 alle 955 del 2015 e alle 112 del 2016. Tra il 2014 e il 2015, secondo i dati dell’Upssala Conflict Data Program, curato dall’università
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Berlusconi ha sostenuto che con Volodymyr Zelensky presidente sono «triplicati» gli attacchi dell’Ucraina alle due repubbliche separatiste. Questa accusa è priva di fondamento.
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dell’omonima città svedese, era calato anche il numero dei morti in battaglia, militari e civili, così come era avvenuto tra il 2015 e il 2016. Successivamente, fino al 2022, il livello dello scontro armato nel Donbass è rimasto su un’intensità minore. Quando si parla del mancato rispetto degli accordi di Minsk, generalmente si intende, da un lato, la mancata approvazione di una riforma costituzionale da parte dell’Ucraina per garantire una forte autonomia alle regioni separatiste e, dall’altro lato, la mancata restituzione da parte della Russia del controllo sui territori separatisti al governo di Kiev. A differenza di quanto dichiarato da Berlusconi, che ha parlato di un attacco ucraino alle frontiere, possiamo dire che a livello generale la tregua ha sostanzialmente retto, con un drastico calo delle violenze e dei morti tra il 2015 e il 2022, anche se è vero che ci sono state violazioni del cessate il fuoco da ambo le parti. L’ex presidente del Consiglio ha anche sostenuto che con Volodymyr Zelensky presidente sono «triplicati» gli attacchi dell’Ucraina alle due repubbliche separatiste. Questa accusa è priva di fondamento. Zelensky è stato eletto presidente dell’Ucraina a maggio 2019 e fin dall’inizio del suo mandato ha cercato di negoziare con la Russia una soluzione diplomatica per il Donbass. Per porre fine alle violenze, la strategia prevedeva elezioni locali nelle regioni occupate del Donbass e il riconoscimento della loro autonomia speciale. Mentre questi tentativi negoziali procedevano, non è vero che gli attacchi ucraini alle autoproclamate repubbliche di Luhansk e Donetsk, che fanno parte della regione del Donbass, fossero triplicati. I dati sulle morti, già citati sopra, indicano che da maggio 2019 a febbraio 2022 – mese in cui è iniziata l’invasione russa – non c’è stato un aumento degli attacchi, come dimostra il calo registrato rispetto agli anni precedenti. Secondo 166
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l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), la più grande organizzazione intergovernativa di sicurezza regionale per la promozione della pace, nel 2019 le violazioni del cessate il fuoco e le violenze in generale sono diminuite rispetto al 2018. L’Osce ha registrato un calo delle violazioni e delle violenze anche nel 2020 e nel 2021. Numero di violazioni al cessate il fuoco nel Donbass Dati aggiornati al 2021
2017 2016 2018 2019 2020
0 00 0. 45
0 00 0. 40
0 00 0. 35
0 00 0. 30
0 00 0. 25
0 00 0. 20
0 00 0. 15
0 00 0. 10
00 50
.0
0
2021
Fonte: Osce-Special monitoring mission to Ukraine, 2021 Trends and observations
●●●● «Non spendiamo soldi per mandare armi agli ucraini» Durante tutti i vertici internazionali a cui ha partecipato nel suo primo anno a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha sempre ribadito la volontà del suo governo di aiutare l’Ucraina contro l’aggressione russa, continuando la strada tracciata dal precedente governo di Mario Draghi. E come il precedente esecutivo anche 167
quello della leader di Fratelli d’Italia ha continuato a inviare armi all’esercito ucraino, nonostante le critiche del Movimento 5 Stelle e i dubbi di alcuni esponenti della Lega. Per difendere tale scelta e rispondere ai critici, a febbraio 2023 Meloni ha detto che l’Italia non spende soldi «per comprare armi che mandiamo agli ucraini». «Noi abbiamo delle armi che riteniamo oggi fortunatamente di non dover utilizzare e quindi non c’è niente che stiamo togliendo agli italiani», aveva aggiunto la presidente del Consiglio. Questa dichiarazione era però parziale e fuorviante. All’epoca l’Italia aveva già mandato sei pacchetti di aiuti militari all’Ucraina, di cui non era e non è possibile conoscere né il valore né il contenuto specifico. Le liste delle armi sono infatti secretate per ragioni di sicurezza. In ogni caso era vero che l’Italia non stava comprando armamenti nuovi da mandare all’Ucraina: si trattava di mezzi, munizioni, armi e strumenti già a disposizione delle forze armate italiane. Qui però si apriva una prima questione legata ai costi di quella operazione: le armi e i mezzi che a inizio 2023 stavamo inviando all’Ucraina sarebbero dovuti poi essere ricomprati? In base alle leggi, la risposta era no: l’Italia non era obbligata ad acquistare di nuovo le armi che stava regalando. Ma nei giorni precedenti alla dichiarazione di Meloni, il ministro della Difesa Guido Crosetto era intervenuto sul tema dicendo esplicitamente che l’Italia avrebbe dovuto ripristinare gli arsenali in parte svuotati per i contributi all’Ucraina. Alla fine di gennaio 2023, durante un’audizione di fronte alle commissioni Difesa di Camera e Senato, Crosetto aveva infatti dichiarato: «L’aiuto che abbiamo dato in questi mesi all’Ucraina è un aiuto che in qualche modo ci impone di ripristinare le scorte che servono per la difesa nazionale». Dunque, a differenza 168
Le bugie su tutto il resto
di quanto lasciato intendere da Meloni, un costo per l’invio delle armi all’Ucraina sembrava esserci, sebbene spostato nel futuro. C’era poi una seconda questione che mostrava come la presidente del Consiglio non la raccontasse tutta sui costi dell’invio delle armi all’Ucraina. A marzo 2021 l’Unione europea ha istituito lo “Strumento europeo per la pace” (Epf, dall’inglese European Peace Facility). Questo è un fondo esterno al bilancio comunitario dell’Ue che ha l’obiettivo di finanziare una serie di azioni nel settore militare e della difesa. Fino all’inizio del 2023 l’Ue aveva stanziato 3,6 miliardi di euro per la fornitura all’Ucraina di attrezzatura militare attraverso sette pacchetti di aiuti. Tra le altre cose l’Epf ha l’obiettivo di rimborsare anche una parte del valore delle armi inviate dai Paesi Ue all’Ucraina. E il fondo è finanziato dagli Stati membri in modo proporzionale alla quota del loro Reddito nazionale lordo (Rnl), che si ottiene sommando o sottraendo al Prodotto interno lordo (Pil) i redditi guadagnati da o pagati a persone o aziende estere (anche i contributi alla Nato funzionano in un modo simile). L’Italia contribuisce al fondo Epf per circa il 13 per cento dei suoi finanziamenti. Dunque un costo c’è, a differenza di quanto detto da Meloni. «Nessuno ha mai riconosciuto la Crimea come parte della Russia» Al di là del solido sostegno di oggi, in passato i principali esponenti della maggioranza di governo non avevano posizioni così decise di condanna nei confronti della Russia. Ne sono un esempio le dichiarazioni fatte negli anni scorsi sull’annessione della Crimea. E su questo punto il ministro degli Esteri Antonio Tajani (Forza
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Italia) ha dimostrato almeno in un’occasione di avere la memoria corta. Alla fine di giugno 2023 Tajani ha infatti detto in un’intervista con «Il Messaggero» che «nessuno ha mai riconosciuto la Crimea come parte della Federazione russa». Ma non è così. Da marzo 2014 la Crimea, che faceva parte dell’Ucraina, è stata di fatto annessa alla Russia dopo un referendum non riconosciuto dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale. All’epoca l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva approvato una risoluzione per condannare l’annessione con cento voti favorevoli, cinquantotto astensioni e dieci Paesi contrari, oltre la Russia (Armenia, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Nicaragua, Corea del Nord, Sudan, Siria, Venezuela e Zimbabwe). In realtà, e Tajani sembra essersene dimenticato, in passato vari esponenti del centrodestra italiano avevano difeso il referendum in Crimea e l’annessione alla Russia. Tra questi c’erano il leader della Lega Matteo Salvini, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi (morto il 12 giugno), e la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. «Viva il referendum della Crimea, viva la libertà di scelta dei cittadini», aveva dichiarato a marzo 2014 Salvini durante una conferenza stampa. «Quando la gente si esprime è sempre una buona notizia, a prescindere dalla latitudine e dall’ideologia. Chi non riconosce legalità al voto della Crimea va contro anche ai trattati internazionali perché il principio di autodeterminazione non lo decidono né la Merkel né Obama né Barroso», aveva
La Russa ha detto che nell’attentato partigiano di via Rasella non furono uccisi «biechi nazisti delle SS», ma i membri di «una banda di semipensionati, una banda musicale». Il dato storico è totalmente falso. 170
Le bugie su tutto il resto
aggiunto il leader della Lega, facendo riferimento alla cancelliera tedesca, al presidente degli Stati Uniti e al presidente della Commissione europea. Basta poi una rapida ricerca sui profili pubblici di Matteo Salvini per trovare vari altri messaggi a favore dell’annessione della Crimea alla Russia. Il 1° marzo 2014 anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni si era espressa su Twitter sulla questione scrivendo: «Ucraina: giusto che sul futuro della Crimea si esprima il popolo con un referendum». Per parte sua, Silvio Berlusconi in passato aveva fatto una serie di dichiarazioni da cui si capiva che non fosse contrario all’annessione della Crimea alla Russia. «Io sono stato con Putin otto giorni in Crimea subito dopo queste decisioni – ha dichiarato nel 2019 Berlusconi, parlando del referendum – uscivamo la sera, sul lungo mare di Jalta, Putin è stato circondato dalla gente, ho visto un signore piangergli addosso e un traduttore mi diceva: “Dicono grazie Vladimir, ci hai riportato a casa, meno male, finalmente”». «In via Rasella furono uccisi i membri di una banda musicale» Politica estera a parte, fin dal suo insediamento il governo guidato da Giorgia Meloni ha dovuto fare i conti con la pesante eredità politica che viene a Fratelli d’Italia dall’essere un partito erede (più o meno lontano, a seconda delle opinioni) della destra neofascista italiana, in cui hanno militato molti suoi esponenti di spicco nei decenni passati. Se si dovessero riassumere in un’unica dichiarazione le polemiche sui rapporti tra Fratelli d’Italia, il Movimento Sociale Italiano e il fascismo, forse la più adatta nel primo
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anno di governo Meloni è stata quella pronunciata a fine marzo 2023 dal presidente del Senato Ignazio La Russa, cofondatore del partito guidato dalla presidente del Consiglio. Partecipando a un videopodcast del quotidiano «Libero», La Russa ha detto che nell’attentato partigiano di via Rasella, non furono uccisi «biechi nazisti delle SS», ma i membri di «una banda di semipensionati, una banda musicale». Il dato storico, però, è totalmente falso. Il 23 marzo 1944 diciassette partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (Gap) delle Brigate Garibaldi, composto per lo più da giovani studenti legati al Partito Comunista allora clandestino, colpirono una colonna militare tedesca di circa centocinquanta uomini in transito in via Rasella una strada nell’attuale centro di Roma, a poca distanza dal palazzo del Quirinale. Nell’attentato, che avvenne circa sei mesi dopo l’inizio dell’occupazione tedesca di Roma nel corso della Seconda guerra mondiale, vennero uccisi trentatré militari del Polizeiregiment “Bozen”. Questo era un reparto militare creato in Alto Adige nell’autunno 1943, durante l’occupazione tedesca, e impiegato con compiti di guardia e sorveglianza nella Roma occupata. Come ha spiegato a Pagella Politica Andrea Di Michele, storico e professore della Libera università di Bolzano, si trattava di «militari arruolati nella zona di Bolzano dopo il settembre del 1943 per creare una zona d’operazioni delle Prealpi, chiamata Operationszone Alpenvorland, praticamente una zona occupata e non annessa formalmente al Reich tedesco, ma di fatto sotto completo controllo nazista». Di Michele ha aggiunto che non si trattava di volontari, né di soldati della SS – cioè delle SchutzStaffeln, milizia speciale tedesca destinata a compiti militari e di polizia durante il regime nazionalsocialista – ma di soldati «irregimentati nell’esercito nazista, e il 172
Le bugie su tutto il resto
fatto che si trattasse di una banda musicale è un’informazione infondata». Secondo Di Michele, i soldati coinvolti nell’attentato di via Rasella facevano parte di un reggimento che si componeva di tre battaglioni: «Un battaglione era quello che si trovava a Roma, mentre altri due erano attivi in altre zone del Nord Italia e partecipavano ad azioni di rastrellamento antipartigiane, di guerra anche contro i civili; erano reparti operativi». Di Michele ha precisato anche che «il battaglione di Roma era usato soprattutto con finalità di guardia a determinati edifici pubblici e all’addestramento militare, e coloro che sono rimasti in vita dopo l’attentato di via Rasella sono stati nuovamente impiegati nel Nord Italia in azioni antipartigiane. Si trattava di un battaglione militare attivo, non di certo di vecchietti musicisti». Anche Marco Cuzzi, professore associato di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, ha confermato a Pagella Politica che si trattava di un reggimento di polizia composto da soldati dell’esercito nazista. Il reggimento «aveva compiuto operazioni antipartigiane anche piuttosto violente, e quello che mi sento di escludere è che si trattasse di una banda musicale». Come riportato da Cuzzi l’attentato ha avuto un significato simbolico, un’azione di guerra che rappresentava la lotta contro il regime nazista e fascista, perché una guerra di liberazione viene condotta anche con strumenti di terrorismo, «un termine che porta il significato di “spaventare il nemico”». Le autorità naziste – con la complicità di quelle fasciste – ordinarono ed eseguirono poco dopo una rappresaglia. Il 24 marzo furono assassinati alle Fosse ardeatine 335 tra prigionieri politici italiani, ebrei, prigionieri comuni e semplici cittadini. La descrizione di La Russa del Battaglione Bozen come «banda musicale» era apparsa piuttosto inedita,
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tanto nella storiografia ufficiale sul tema quanto nei tentativi di revisionismo storico che si sono succeduti nel tempo. L’unica spiegazione plausibile per l’origine di questa caratterizzazione va rintracciata in un particolare dell’evento, ricostruito per esempio dallo storico Robert Katz nel volume Roma città aperta. Settembre 1943-Giugno 1944. Secondo Katz, infatti, al momento dell’attacco il reparto tedesco marciava in colonna, con fucili in spalla e bombe a mano alla cintola, intonando la marcia tedesca Hupf, mein Mädel (in italiano: “Salta, ragazza mia”). Nessuna ricostruzione storica ha però mai parlato delle vittime dell’azione partigiana come di una «banda musicale» e gli storici concordano nel riferirsi all’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment “Bozen” come a un reparto impiegato con compiti di guardia e sorveglianza nella Roma occupata. Un altro riferimento presente nella dichiarazione del presidente del Senato affondava le radici in una narrazione piuttosto cara agli ambienti dell’estrema destra italiana. La Russa ha riportato infatti in auge la notizia falsa secondo cui i soldati morti in via Rasella erano un gruppo di «semipensionati». Già nel 1996, per esempio, «il Giornale» scrisse una serie di articoli descrivendo la colonna militare come composta da persone anziane e poco o nulla armate: proprio su quella vicenda la magistratura italiana condannò la testata per diffamazione, in una causa intentata dai partigiani sopravvissuti. La stessa sentenza descriveva i militari come di nazionalità tedesca (benché nati in Alto Adige avevano optato per quella cittadinanza), non particolarmente anziani e bene armati. Anche grazie a quella sentenza oggi sappiamo che il più anziano dei trentatré morti era Jakob Erlacher, classe 1901 (43 anni), mentre il più giovane era Franz Niederstaetter, che di anni ne aveva al tempo ventisette. 174
Le bugie su tutto il resto
La questione riguardante la presunta anzianità dei soldati tedeschi colpiti durante l’azione si collega a doppio filo con una più ampia narrazione che mira a descrivere via Rasella come un’azione sconsiderata e immorale da parte dei partigiani. Che, nel tempo, ha chiamato in causa anche la morte accidentale di civili durante l’azione e la volontà dei gappisti di non consegnarsi ai nazisti dopo l’azione, di fatto, secondo le accuse, causando indirettamente la successiva strage delle Fosse ardeatine. ●●●●● «Un po’ di vino fa bene, troppa acqua fa male» Nel primo anno di governo Meloni, uno dei ministri più attivi con le sue interviste sui giornali e in televisione è stato Francesco Lollobrigida, alla guida del ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste. Uno dei compiti principali di Lollobrigida è stato quello di esaltare i prodotti alimentari italiani e, nell’ottica dell’esecutivo, di “difenderli” da presunte minacce estere. Tra le altre cose Lollobrigida – che, ricordiamo, è cognato di Meloni: prima volta nella storia della Repubblica italiana in cui due parenti sono al governo insieme – ha difeso il vino, elogiandone i benefici per la salute. «Non bisogna ricorrere ai consigli delle nonne per sapere che un po’ di vino può fare bene, mentre gli eccessi fanno male sempre, di qualsiasi prodotto», ha per esempio dichiarato Lollobrigida a gennaio 2023, ospite a Controcorrente su Rete 4. «Persino l’acqua, bevuta in quantità eccessive, può danneggiare l’organismo. E a chi verrebbe in mente di scrivere: “Nuoce gravemente alla salute”?».
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Ma il confronto fatto da Lollobrigida non ha senso da un punto di vista scientifico. Quando si parla del consumo di vino e alcolici, spiega il sito ufficiale del ministero della Salute, oggi la comunità scientifica non usa «più termini come “consumo moderato”, “consumo consapevole” o simili, che potrebbero indurre il consumatore in una certa indulgenza nel bere alcolici». «Non è possibile infatti identificare livelli di consumo che non comportino alcun rischio per la salute», sottolinea il ministero, citando le Linee guida per una sana alimentazione, realizzate dal Crea, un centro di ricerca che fa parte proprio del ministero dell’Agricoltura. Esiste comunque un consumo di alcol a basso rischio, che per una persona sana, che segue un’alimentazione completa e ha un peso normale, corrisponde al massimo a uno o due bicchieri di vino al giorno. L’alcol è una sostanza tossica e cancerogena, che può favorire lo sviluppo di malattie come i tumori. Il vino contiene infatti l’etanolo, un composto chimico che può essere tossico per l’organismo. «Sia per la quantità che per la concomitante presenza di un tossico, non possiamo considerare le bevande alcoliche come una fonte di sostanze protettive per la salute», ha inoltre sottolineato il Crea, commentando gli studi che hanno evidenziato effetti benefici di alcune sostanze contenute nei prodotti alcolici come il vino. Discorso completamente diverso vale per l’acqua, la cui composizione non è tossica per gli esseri umani. Questo non vuol dire però che il nostro organismo non abbia dei limiti quando si parla di consumo di acqua. Ogni corpo reagisce in maniera diversa se ingerisce grandi quantità di acqua: di norma i reni di una persona sana riescono a filtrare circa un litro di acqua all’ora. Se si esagera, la conseguenza più probabile è che si debba urinare con più frequenza. In casi molto rari si 176
Le bugie su tutto il resto
possono rischiare conseguenze peggiori, con giramenti di testa e disorientamento, o addirittura la morte. Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss), ogni giorno in Italia muoiono in media quarantotto persone per patologie legate al consumo di alcol, oltre 17 mila in un anno.
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Le bug ie de ll’o pp o siz io ne
Ce n’è anche per gli altri
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180 Superbonus e promesse non mantenute 184 Elezioni e tagli alla sanità 188 Meno accise, meno patrimoniali 192 Laghi vuoti e contratti di un giorno
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a quando è nata, ossia da ottobre 2012, Pagella Politica ha fatto il fact-checking di oltre cinquemila dichiarazioni. In questi undici anni si sono succeduti alla guida dell’Italia otto governi e sette presidenti del Consiglio, sostenuti da maggioranze diverse. Non ci siamo mai limitati a verificare le dichiarazioni degli esponenti del governo, ma ci siamo occupati anche dei politici che di volta in volta sono finiti all’opposizione in Parlamento. E con il governo Meloni non abbiamo fatto eccezioni. Durante il primo anno del nuovo esecutivo abbiamo fatto il fact-checking di molte dichiarazioni provenienti dai partiti che hanno criticato l’operato del governo, alla Camera e al Senato oppure fuori dalle aule parlamentari. In questo capitolo finale abbiamo raccolto alcune delle dichiarazioni scorrette, false o fuorvianti fatte da membri del Partito Democratico, del Movimento 5 Stelle, di Azione, di Italia Viva e di Alleanza Verdi-Sinistra, composta da Europa Verde e da Sinistra Italiana. Superbonus e promesse non mantenute Tornato all’opposizione dopo cinque anni di governo, il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte ha seguito una strategia principale nel criticare Meloni e i partiti di maggioranza: sottolineare quanto di buono fatto dal Movimento 5 Stelle quando è stato alla guida del Paese, marcando 180
Le bugie dell’opposizione
così la differenza con il nuovo esecutivo. Il problema è che in varie dichiarazioni Conte e i suoi compagni di partito hanno detto cose non supportate dai fatti e dai numeri. Prendiamo una delle affermazioni preferite e più ripetute negli scorsi mesi dall’ex presidente del Consiglio. Secondo Conte il Movimento 5 Stelle «ha realizzato l’80 per cento degli impegni presi nel 2018 con gli elettori». Non è vero. Alle elezioni politiche del 2018 il Movimento 5 Stelle si era presentato con un programma diviso in ventiquattro capitoli, con decine di promesse. Le proposte principali erano però state riassunte dal Movimento in venti punti. Abbiamo verificato quanti di questi sono stati realizzati dal 2018 in poi e, tenendo comunque conto dell’impatto della pandemia di Covid-19 a partire dal 2020, la risposta è una percentuale molto lontana dall’«80 per cento» rivendicato da Conte. Soltanto due promesse su venti si possono considerare completamente portate a termine, altre dieci sono state realizzate solo in parte, e otto non sono state realizzate. Le due promesse mantenute sono quelle sull’introduzione del reddito di cittadinanza e sulla lotta alla corruzione, concretizzatasi soprattutto con l’approvazione nel 2019 del decreto cosiddetto “Spazzacorrotti”. Tra le promesse parzialmente realizzate ci sono quelle che riguardano gli investimenti nella sanità, gli aiuti alle famiglie e il superamento della cosiddetta “legge Fornero” sulle pensioni (che in realtà non è stata abolita dai due governi Conte). Il blocco degli sbarchi dei migranti e l’aumento dei rimpatri, la creazione di una banca pubblica per gli investimenti e il superamento della riforma della “Buona Scuola” sono invece tre esempi di promesse non realizzate. Conte e il Movimento 5 Stelle hanno poi tentato di difendere a tutto campo il Superbonus 110 per cento, un incentivo fiscale introdotto nel 2020 dal secondo governo Conte con cui lo Stato ha rimborsato integralmente la spesa per l’efficientamento energetico delle abitazioni private,
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aggiungendo un bonus del 10 per cento. Con il Superbonus è stata introdotta anche la possibilità di cedere i crediti d’imposta con il valore corrispettivo ai lavori effettuati con i bonus edilizi o di ricevere direttamente uno sconto in fattura da parte delle imprese edili. I costi legati a questi provvedimenti, arrivati a oltre cento miliardi di euro in due anni, hanno spinto il governo Draghi prima, e quello Meloni poi, a mettere mano al sistema dei bonus, fermando la cessione del credito e riducendo l’importo dell’incentivo. Conte e il Movimento 5 Stelle hanno criticato queste scelte, ripetendo che la crescita dell’economia italiana nel 2021 e nel 2022 è stata generata per lo più proprio grazie al Superbonus. Ma l’affermazione è parecchio esagerata. Secondo le nostre stime, che corrispondono anche a quelle fatte da organismi indipendenti come la Banca d’Italia, nel 2021 il contributo del Superbonus alla crescita è stato al massimo di un +0,5 per cento, su un rimbalzo del +6,6 per cento rispetto all’anno precedente. Il contributo alla crescita del Superbonus nel 2022 è stato invece pari al massimo a un +0,9 per cento, su una variazione del Pil totale del 3,9 per cento. Edifici coinvolti nel Superbonus 110 per cento Dati aggiornati al 31 luglio 2023 300.000
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Fonte: Enea-Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Oltre a questi edifici sono stati coinvolti nel Superbonus anche 6 castelli: uno in Basilicata, uno nel Lazio, uno in Lombardia e tre in Piemonte
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Le bugie dell’opposizione
A sostegno delle proprie tesi il Movimento 5 Stelle ha usato come fonte alcune analisi pubblicate da organizzazioni e istituti che però hanno potenziali conflitti di interesse con il Superbonus. Vediamo qualche esempio. Il Censis, un istituto di ricerca socioeconomica che si occupa anche di consulenza e assistenza tecnica, ha pubblicato varie stime piuttosto generose nei confronti dell’impatto del Superbonus. Queste stime sono state realizzate in collaborazione con Harley&Dikkinson e la «filiera delle costruzioni», ossia associazioni che rappresentano le imprese attive nel campo dell’edilizia. Per queste ultime il potenziale conflitto di interessi è evidente, dato che i bonus edilizi, tra cui il Superbonus, hanno dato una forte spinta al settore delle costruzioni. Harley&Dikkinson Consulting è invece una società attiva nel settore dell’efficientamento energetico degli edifici. Sul suo sito ufficiale si trovano annunci di lavoro per la ricerca di figure professionali nel settore della cessione dei crediti di imposta, ossia quegli strumenti con cui lo Stato rimborsa i cittadini o le imprese che hanno eseguito lavori di efficientamento. Discorso analogo vale anche per Nomisma, una società che realizza consulenze e ricerche di mercato per imprese, associazioni e istituzioni pubbliche. A febbraio 2023 molte testate e alcuni politici, tra cui lo stesso Conte, hanno rilanciato le stime aggiornate di Nomisma sugli impatti economici del Superbonus, che sarebbero molto vantaggiosi, per esempio sulla riduzione del costo delle bollette, rispetto alla grande quantità di risorse spese. I dati non erano contenuti in uno studio vero e proprio, ma in un comunicato stampa. L’analisi era stata realizzata dal 110 per cento Monitor, uno degli osservatori di Nomisma nato nel 2021 per valutare le operazioni di riqualificazione energetica e sismica soggette al Superbonus. Sul suo sito ufficiale si scopre però che anche Nomisma ha
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un potenziale conflitto di interessi con i bonus edilizi. Tra i servizi offerti dalla società di consulenza c’è Nomisma Opera, «una realtà nata per affiancare le imprese e coordinare nell’interesse degli attori coinvolti (condomini, tecnici, banche) tutte le procedure relative all’erogazione del Superbonus 110 per cento per gli interventi di riqualificazione energetica e sismica degli immobili». ● Elezioni e tagli alla sanità Dopo la sconfitta alle elezioni politiche di settembre 2022 il Partito Democratico ha visto un importante cambio di guida al vertice, con l’elezione a segretaria di Elly Schlein. Nelle primarie di febbraio 2023 Schlein ha infatti sconfitto a sorpresa il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, sostituendo Enrico Letta alla guida della segreteria del partito. Con Schlein segretaria, il Partito Democratico ha scelto due strade per consolidare il consenso tra i suoi elettori e criticare il governo Meloni. Da un lato ha accusato l’esecutivo di aver approvato provvedimenti con conseguenze negative per i cittadini, interpretando però a volte i fatti a proprio favore; dall’altro lato, in maniera analoga, ha esagerato i risultati ottenuti alle elezioni locali, che di fatto hanno visto vincere la coalizione di centrodestra sia in Lombardia e Lazio a febbraio 2023, sia alle elezioni comunali di maggio 2023. Partiamo dal primo gruppo di errori e da una dichiarazione dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza, eletto deputato in questa legislatura nelle liste del PD. A giugno, in un’intervista con «la Repubblica», Speranza ha dichiarato che con lui al governo la spesa in sanità 184
aveva superato il 7 per cento in rapporto al Pil, mentre «la legge di bilancio del governo Meloni ci fa intanto andare sotto già adesso, cioè al 6,7 per cento. E in prospettiva, come recita il Documento di economia e finanza (Def), si arriverà al 6,3 per cento già nel 2024». L’ex ministro aveva aggiunto: «Sotto il 7 per cento si mette a rischio l’universalità del servizio sanitario nazionale e del diritto alla salute. Non c’è tanto da girarci attorno». I numeri citati erano corretti, ma Speranza aveva dimostrato di avere la memoria corta. Anche lui, da ministro della Salute, aveva infatti previsto che la spesa in sanità tornasse sotto al 7 per cento del Pil. Nel primo Def del governo Meloni, approvato ad aprile 2023, si legge che la spesa sanitaria, dopo aver raggiunto un valore pari al 7,4 per cento del Pil nel 2020 e al 7,1 per cento nel 2021, sarebbe scesa al 6,7 per cento nel 2023, al 6,3 per cento nel 2024, e al 6,2 per cento nel 2025 e nel 2026. In valore assoluto la spesa sanitaria sarebbe comunque aumentata dai 127,4 miliardi di euro del 2021 e dai 131,1 miliardi del 2022 ai 136 miliardi del 2023, ai 132,7 miliardi del 2024, ai 135 miliardi del 2025 e ai 138,4 miliardi nel 2026. Ora, se si recupera il Def di aprile 2022, approvato dal governo di Mario Draghi con Speranza ministro della Salute, si leggono percentuali identiche a quelle viste poco sopra. Nella primavera del 2022 il governo Draghi aveva previsto una spesa sanitaria pari al 6,6 per cento del Pil nel 2023, al 6,3 per cento nel 2024 e al 6,2 per cento nel 2025. Si può ancora andare indietro nel
Le bugie dell’opposizione
Speranza aveva dimostrato di avere la memoria corta. Anche lui, da ministro della Salute, aveva infatti previsto che la spesa in sanità tornasse sotto al 7 per cento del Pil.
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tempo e vedere che cosa diceva il Def di aprile 2021, il primo approvato dal governo Draghi quando era in carica da un paio di mesi, con Speranza già ministro della Salute. Quel documento prevedeva che la spesa sanitaria sarebbe passata dal 7,3 per cento in rapporto al Pil nel 2021 al 6,7 per cento nel 2022, al 6,6 per cento nel 2023 e al 6,3 per cento nel 2024. Ancora un volta, percentuali inferiori al 7 per cento del Pil, cosa che Speranza ha poi rinfacciato al governo Meloni. La spesa sanitaria italiana in rapporto al Pil In percentuale, dal 2012 al 2021 10
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Fonte: Eurostat
Anche la segretaria Schlein ha accusato l’esecutivo a proposito di un provvedimento sulle politiche abitative con una dichiarazione fuorviante, omettendo alcuni dettagli importanti. In più occasioni Schlein ha ripetuto che la coalizione di centrodestra «ha cancellato i 330 milioni di euro di supporto per gli affitti». In effetti con la legge di Bilancio per il 2023 il governo Meloni non ha rifinanziato il fondo che aiuta a pagare le spese per 186
Le bugie dell’opposizione
l’affitto previsto da una legge del 1998, e che nel 2022 poteva contare su oltre 300 milioni di euro. Questo non vuol dire però che il fondo sia stato cancellato dal governo. Il mancato rifinanziamento del fondo rientrava nelle previsioni sia del secondo governo Conte sia del governo Draghi e già in passato, in almeno cinque casi, non era stato rifinanziato. Restando in tema di tagli, pure l’ex ministro della Giustizia e del Lavoro Andrea Orlando ha accusato a torto il governo Meloni di aver finanziato il taglio del cuneo fiscale «in larga parte con la riduzione degli stanziamenti per il reddito di cittadinanza». Come abbiamo visto nel capitolo dedicato al lavoro e ai sussidi, il taglio temporaneo del cuneo fiscale, costato circa 4 miliardi di euro, è stato finanziato con uno scostamento di bilancio, e quindi con nuovo debito pubblico, approvato alla fine di aprile 2023 da Camera e Senato. Il secondo gruppo di errori commesso da esponenti del Partito Democratico riguarda le analisi dei risultati delle elezioni comunali. Alla fine di maggio 2023, commentando la vittoria del centrodestra in nove capoluoghi di provincia sui tredici al voto, il capogruppo del Partito Democratico al Senato Francesco Boccia ha dichiarato che da quei risultati sarebbe stato sbagliato «dedurne un’analisi politica che porta all’autoesaltazione della destra». A sostegno di questa tesi l’ex ministro del PD aveva detto che alle elezioni comunali di giugno 2022 il suo partito vinse «ovunque», per poi perdere a settembre di quell’anno le elezioni politiche. I numeri però danno torto a Boccia. A giugno 2022 si votò in ventisei capoluoghi di provincia, tra cui quattro di regione. Al primo turno la coalizione di centrodestra vinse in otto capoluoghi e ai ballottaggi in quattro. Quella di centrosinistra, invece, rispettivamente in tre e in sette. Nei restanti quattro capoluoghi al voto vinsero candidati non sostenuti dalle due coalizioni.
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Anche Schlein, commentando i risultati del primo turno delle elezioni comunali di maggio 2023, ha esagerato i risultati del suo partito. Secondo la segretaria, nella prima parte di quella tornata elettorale il Partito Democratico era stato «il primo partito in quasi tutti i capoluoghi dove si è votato». Un’affermazione piuttosto esagerata: al primo turno delle comunali del 2023 le liste del Partito Democratico sono state le più votate in nove città capoluogo su tredici, se non si considerano le liste civiche a supporto dei candidati sindaco. Se si considerano le liste civiche, la lista del Partito Democatico è stata la più votata in sei capoluoghi su tredici: meno della metà. ●● Meno accise, meno patrimoniali Alle elezioni del 25 settembre 2022 Italia Viva di Matteo Renzi e Azione di Carlo Calenda si sono presentati uniti, ottenendo poco meno dell’8 per cento dei voti. Nonostante i dissidi passati tra i due leader, entrambi i partiti avevano promesso che avrebbero iniziato un percorso per creare un partito unico. Un impegno poi non mantenuto, dopo che ad aprile 2023 si è consumata la definitiva rottura tra Renzi e Calenda. In Parlamento i deputati e i senatori di Azione e Italia Viva hanno comunque costituito un unico gruppo parlamentare, non votando però sempre allo stesso modo e schierandosi spesso su posizioni diverse. I due leader hanno anche adottato strategie diverse per criticare il governo e gli altri partiti all’opposizione. E come i loro colleghi, commettendo qualche errore nelle loro dichiarazioni. Partiamo da Renzi, con un paio di dichiarazioni che ben rappresentano come si è comportato durante il pri188
Le bugie dell’opposizione
mo anno di governo Meloni. Da un lato l’ex presidente del Consiglio ha criticato l’esecutivo, per esempio accusandolo ripetutamente di aver aumentato le accise sui carburanti (le accise sono imposte fisse che paghiamo ogni volta che facciamo benzina o gasolio al distributore). Non è vero però che il governo ne ha aumentato il valore. L’esecutivo ha deciso piuttosto di non stanziare nuove risorse per finanziare il taglio temporaneo delle accise introdotto dal governo Draghi: insomma, di non proseguire con uno sconto. Secondo Meloni, il taglio delle accise costava troppo (in base ai nostri calcoli, circa 750 milioni di euro al mese) e avvantaggiava indiscriminatamente tutti i cittadini. Il taglio delle accise sui carburanti è stato introdotto per la prima volta a marzo 2022. In quell’occasione il governo Draghi aveva ridotto, inizialmente solo dal 22 marzo al 21 aprile, l’accisa sulla benzina da 73 centesimi di euro al litro a 48 centesimi e quella sul gasolio da 62 centesimi a 37 centesimi al litro. In concreto, un taglio di 25 centesimi al litro. Questo taglio è stato poi ripetutamente confermato dal governo Draghi fino al 18 novembre 2022, attraverso sette decreti legge o decreti del ministero dell’Economia e delle Finanze. In seguito il governo Meloni ha prima confermato il taglio fino al termine dell’anno, salvo poi ridurlo pochi giorni dopo a 15 centesimi per il solo mese di dicembre. Dal 1° gennaio 2023 il valore delle accise su benzina e gasolio è tornato al livello precedente a quello del taglio.
Non è vero che il governo Meloni ha aumentato il valore delle accise. L’esecutivo ha deciso piuttosto di non stanziare nuove risorse per finanziare il taglio temporaneo introdotto dal governo Draghi. 189
Curiosità: lo stesso Renzi in passato aveva promesso, quando era al governo, che avrebbe di fatto eliminato le accise sui carburanti. A maggio 2014, dopo un paio di mesi dalla sua nomina a presidente del Consiglio, ospite a Porta a Porta su Rai 1 Renzi aveva dichiarato: «Io qui prendo l’impegno: entro l’anno noi andiamo a razionalizzare, che vuol dire pulire, decurtare, eliminare, tutte queste voci ridicole», facendo riferimento alla tesi scorretta, una vera e propria leggenda metropolitana, secondo cui con le accise gli italiani starebbero ancora pagando tutta una serie di misure del tutto anacronistiche o assurde, come la guerra d’Etiopia (in realtà l’accisa è unica, cioè non distingue né motiva tra varie voci, da decenni). La promessa non era stata mantenuta o, a essere generosi, lo era stata solo in parte. Il 1° marzo 2014, durante il governo Renzi, l’accisa sui carburanti era stata temporaneamente aumentata come conseguenza del cosiddetto “decreto del Fare”, approvato dal precedente governo guidato da Enrico Letta (Partito Democratico). Il governo Renzi ha poi deciso di non prorogare l’aumento in questione, che quindi è decaduto il 1° gennaio 2015. Sull’altro fronte, Renzi non ha risparmiato accuse molto forti anche agli altri partiti dell’opposizione, in primo luogo al Movimento 5 Stelle. A novembre 2022, criticando la posizione pacifista di Conte sulla guerra in Ucraina, Renzi ha per esempio dichiarato che Conte è stato il presidente del Consiglio che «più ha aumentato la vendita di armi» dell’Italia. Abbiamo verificato e non è vero: dal 1991 al 2021 il valore più alto delle autorizzazioni per l’esportazione di armamenti dall’Italia all’estero è stato raggiunto nel 2016, con oltre 14,6 miliardi di euro, quando proprio Renzi era presidente del Consiglio. Nel 2018, 2019 e 2020, con Conte presidente del Consiglio, la cifra è scesa da 4,8 miliardi di euro a 3,9 miliardi. 190
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Calenda, come Renzi, ha cercato di posizionarsi fuori dallo schema “governo-opposizione”, presentando il suo partito come alternativo al centrosinistra e al centrodestra. Nel farlo, però, ha commesso a volte errori con le sue dichiarazioni e i suoi commenti. Per esempio a marzo 2023, ospite al Congresso nazionale della Cgil a Rimini insieme ai leader degli altri partiti dell’opposizione, Calenda ha criticato la proposta di introdurre un’imposta patrimoniale sulla ricchezza dei cittadini. Secondo il leader di Azione, l’esempio della Francia dimostrerebbe l’inefficacia di un’imposta simile dal momento che «la patrimoniale sui grandi patrimoni ha dato in Francia solo 400 milioni di euro» di gettito. Le cose però non stanno così. Nei dieci anni prima del 2018, anno in cui il presidente francese Emmanuel Macron ha deciso di eliminarla, l’Impôt de solidarité sur la fortune francese, che riguardava la ricchezza netta dei contribuenti, generava in media un gettito di circa 4,6 miliardi di euro l’anno. I 400 milioni di euro di cui parlava Calenda fanno rife191
rimento al gettito raccolto in due anni da un’imposta, poi eliminata, introdotta da un altro presidente francese, François Hollande, sui redditi – e non i patrimoni – oltre un milione di euro. Il leader di Azione ha portato avanti anche la sua campagna per rifinanziare la produzione di energia nucleare in Italia. Nei suoi vari interventi sul tema Calenda ha fatto alcune dichiarazioni corrette, altre meno. Per esempio alla fine di marzo 2023 il leader di Azione ha detto in tv che «l’energia nucleare non ha emissioni, cioè non emette CO2: zero, niente». Questa affermazione è però parziale e fuorviante. È vero che, in senso stretto, la produzione di energia in una centrale nucleare in funzione non ha emissioni dirette di CO2. Ma bisogna prendere in considerazione tutto il ciclo di vita di questa fonte di energia: altrimenti è come dire che il consumo di carne non ha conseguenze sull’ambiente, perché sedersi a tavola a mangiare una bistecca non causa alcuna emissione. Vari studi hanno mostrato che anche l’energia nucleare emette CO2 e altri gas serra, tenendo conto per esempio dell’estrazione dell’uranio, del suo arricchimento e trasporto, della costruzione e dello smaltimento delle centrali nucleari. Le stime variano a seconda degli studi, così come quelle che confrontano le emissioni del nucleare con altre fonti di energia. ●●● Laghi vuoti e contratti di un giorno Chiudiamo la nostra carrellata di fact-checking sull’opposizione con Alleanza Verdi-Sinistra, che si è presentata alle elezioni di settembre 2022 con un’unica lista, formata da 192
Le bugie dell’opposizione
esponenti di Europa Verde e di Sinistra Italiana, sotto la guida di tre figure: il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni e i due co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli ed Eleonora Evi, tutti e tre poi eletti deputati. Anche da parte loro non sono mancate affermazioni discutibili, imprecise ed esagerate. Due esempi. A marzo 2023, durante un question time alla Camera, Bonelli ha chiesto alla presidente Meloni quale fosse la strategia del governo contro i cambiamenti climatici e contro la siccità che da mesi stava colpendo il Nord Italia. Tra le altre cose, Bonelli aveva dichiarato in aula che all’epoca il lago di Garda era «pieno di acqua solo al 25 per cento» e il lago di Como «solo al 17 per cento». Non era vero: il co-portavoce di Europa Verde aveva letto i dati in modo sbagliato. All’inizio di marzo le cosiddette “percentuali di riempimento” del lago di Garda e del lago di Como erano pari rispettivamente al 25 per cento e al 18 per cento, poi salite nelle settimane successive rispettivamente al 39 per cento e al 21 per cento. Queste cifre non volevano dire che in quel periodo entrambi i laghi fossero per lo più privi d’acqua. Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, la percentuale di riempimento di un lago non si calcola su tutta l’acqua presente nel lago, ma in base al cosiddetto “valore massimo di invaso”. Questo valore è compreso tra il limite minimo e il limite massimo dell’attività di regolazione delle acque del lago, quella su cui agiscono gli esseri umani con gli sbarramenti che regolano l’acqua in ingresso. Il volume su cui possono influire gli sbarramenti corrisponde a una parte minima di tutta l’acqua presente nei laghi di Como e di Garda, che all’epoca erano infatti pieni d’acqua più o meno come sempre. In parole semplici, le percentuali di riempimento non indicano quanto è pieno un lago, ma quanta acqua vi entra: più basse sono queste percentuali, più indicano situazioni di difficoltà idrica.
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Alla fine di gennaio 2023, Nicola Fratoianni ha invece criticato le politiche del governo per incentivare l’occupazione, dicendo che l’Italia «è un Paese nel quale un contratto su dieci dura un giorno». Ma è davvero così? La risposta è no, o meglio: è sì, ma solo se si guarda a un dato molto specifico. Secondo i dati Istat all’epoca più aggiornati, gli occupati in Italia erano più di 23 milioni, di cui oltre 18 milioni dipendenti e 5 milioni autonomi. Tra gli occupati dipendenti, più di 15 milioni avevano un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (l’83 per cento), mentre poco più di 3 milioni a tempo determinato (il 17 per cento). Dunque la stragrande maggioranza della popolazione aveva un contratto senza un limite temporale. Con tutta probabilità Fratoianni faceva riferimento però a un’altra statistica. Tra luglio e settembre 2022 erano stati attivati in Italia 2,7 milioni di contratti di lavoro, di cui circa l’80 per cento a tempo determinato. Tra i nuovi contratti attivati a tempo determinato, oltre l’11 per cento – dunque circa uno su dieci – prevedeva proprio una durata di un solo giorno, mentre quasi il 32 per cento delle nuove posizioni prevedeva una durata lavorativa fino a un mese. Questo non significava però – è bene ribadirlo – che un decimo di tutte le posizioni lavorative attive in quel momento in Italia durava soltanto un giorno, come lasciato intendere dal segretario di Sinistra Italiana, ma che tra le attivazioni di nuovi contratti circa il dieci per cento è giornaliero.
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Conclusione Il senso del fact-checking
Al termine di questo percorso, tu, cara lettrice o caro lettore, potresti provare una certa delusione. Se sostieni il governo – e saresti in buona compagnia: alle elezioni del 2022 la coalizione di centrodestra ha raccolto oltre dodici milioni di voti – avrai trovato molte giustificazioni per quelli che ti sono stati presentati, nelle pagine precedenti, come errori: forse avrai pensato che sono accettabili esagerazioni retoriche da parte di questo o quel ministro, forse che la sostanza era corretta al di là delle pignolerie sui numeri esatti, forse che chi parla in occasioni pubbliche, spesso senza leggere appunti già preparati, farà inevitabilmente errori, forse infine che i numeri avevano un’altra interpretazione, migliore di quella che ti è stata proposta nella nostra verifica. Ma proprio nel tuo caso, lettrice o lettore scettici, possiamo dire che il fact-checking abbia funzionato a meraviglia. Ti ha spinto infatti a interrogarti sui numeri e sul senso delle dichiarazioni politiche, a non limitarti a registrare senza domande qualcuna delle tante cifre che compaiono nel dibattito pubblico, ad analizzare le strategie retoriche utilizzate dai rappresentanti politici. In altre parole, anche se il fact-checking delle dichiarazioni dei politici ti sarà sembrato un esercizio pedante, non ti avrà lasciato indifferente. E magari, tramite l’analisi di qualche dichiarazione, sarai venuto a conoscenza di un dibattito tra gli studiosi su una questione di finanza pubblica o di un database che potrà tornarti utile in futuro. Il fact-checking, al di là del tuo accordo o meno con il suo risultato finale, è stato insomma un modo efficace per informarti sulla politica italiana. Un modo che,
se non altro, si basa sulla contrapposizione di dati e sul ragionamento analitico, in un panorama informativo in cui se ne sente a volte la mancanza. A te, lettrice o lettore scettici, potrebbe essere anche venuto il sospetto che chi si dedica al fact-checking sia in realtà un attore di parte. Che segua cioè qualche agenda politica, portando avanti chissà quali oscuri disegni. Non possiamo parlare a nome di tutti, ma per quanto ci riguarda potremmo segnalare le nostre biografie, che non ci hanno mai visto impegnati in politica in prima persona, o il fatto che Pagella Politica sia un progetto indipendente, interamente autofinanziato e senza collegamento con grandi gruppi editoriali. Potremmo anche aggiungere che di certo abbiamo le nostre idee politiche, ma proprio per bilanciare punti di vista differenti una parte del nostro lavoro di redazione è proprio il rigoroso controllo incrociato su ogni articolo, fatto da altre due persone oltre l’autore, per individuare problemi nel ragionamento di verifica, fonti poco convincenti, aspetti da approfondire. In realtà non possiamo convincere il nostro pubblico in altro modo che con i nostri risultati: senza editori alle spalle, il nostro successo è legato in parte rilevante alla nostra capacità di risultare davvero imparziali. Se invece ti identifichi nell’opposizione, forse hai trovato questo libro molto soddisfacente: ha rafforzato magari le tue convinzioni che lo schieramento al governo sia costituito da una banda di mentitori seriali. Per te abbiamo voluto aggiungere l’ultimo capitolo, in cui abbiamo mostrato come non ci sia una parte politica con il monopolio della verità o che le dica tutte giuste. Negli anni abbiamo analizzato diverse migliaia di dichiarazioni politiche, cercando di non guardare solo al partito di appartenenza o allo schieramento, e ci siamo dedicati tanto alla destra quanto alla sinistra, tanto ai tecnici al governo quanto ai 196
Il senso del fact-checking
cosiddetti populisti. Certo, non possiamo analizzare tutte le dichiarazioni fatte ogni giorno da tutti i politici nazionali, per mere ragioni di quantità. Ogni giorno scegliamo quindi quanto attira la nostra attenzione perché tocca un tema particolarmente rilevante o discusso, ma la scelta alla fin fine è comunque una scelta editoriale, e in quanto tale sempre parziale e discutibile. E infine, inutile nascondersi dietro a un dito: ci sono politici che hanno un’abilità maggiore di indirizzare il dibattito politico, che fanno più spesso dichiarazioni degne di nota e si concedono con più generosità a trasmissioni televisive o interviste con i quotidiani. Parte del successo politico viene anche dall’abilità comunicativa. E non si può verificare un politico che rimane sempre zitto, o si limita sempre a innocue banalità. Non è detto che le sue capacità siano per forza inferiori: più semplicemente, non possiamo occuparcene con il fact-checking. Mentre questo libro va in stampa, a settembre 2023, il dibattito politico si sta concentrando sulla legge di Bilancio, il provvedimento legislativo più importante dell’anno, con cui si decidono nuove entrate e nuove spese dello Stato per i dodici mesi successivi. La legge di Bilancio deve essere approvata dal Parlamento entro il 31 dicembre e, negli ultimi anni, viene di solito votata a ridosso della scadenza. Intorno alle misure principali proposte ogni anno si sviluppano invariabilmente alcune delle discussioni pubbliche più accese: quanto costa il reddito di cittadinanza? I celebri ottanta euro si possono considerare un taglio delle tasse? Che cos’è esattamente la flat tax? Siamo certi che anche la prossima legge di Bilancio non farà eccezione – a volte presentati con ottimismo per mostrare la bontà di una proposta, a volte branditi come clave per litigare con gli avversari politici – verranno presentati molti numeri e fatti. Noi pensiamo che sia meglio se qualcuno là fuori continui a controllarli.
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2023 da Digital Team – Fano (PU)