201 97 17MB
Italian Pages 484 Year 1999
Scipione Guarracino
Storia degli ultimi cinquant'anni Sistema internazionale e sviluppo economico dal 1945 a oggi
Bruno Mondadori
Testi e pretesti
Scipione Guarracino
Storia degli ultimi cinquant’anni Sistema internazionale e sviluppo economico dal 1945 a oggi
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Bruno Mondadori
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© Edizioni Bruno Mondadori Milano, 1999
© |
L'editore potrà concedere a pagamento l' a riprodurre una porzione non superiore
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Indice
XI
Premessa
1. La costruzione del nuovo sistema internazionale, 1945-1949 1. Un nuovo sistema monetario per la ricostruzione economica
2. Dal progetto di un nuovo ordine mondiale alla definizione delle zone di influenza 3. Riuscite e fallimenti nei trattati di pace 4. La dottrina Truman e il piano Marshall 5. La formazione dei due blocchi politici e militari 6. Le origini e le cause della guerra fredda
2. La prima fase della decolonizzazione,
DI 39
1945-1950 1. La crisi degli imperi coloniali alla fine della seconda guerra mondiale 2. L'indipendenza dell’India e la formazione del Pakistan 3. La vittoria dei comunisti in Cina 4.1 paesi arabi, lo stato d'Israele e la questione palestinese
3. Il consolidamento del bipolarismo asi M_ 1 I I
asimmetrico, 1949-1960 67 74
1. Le armi e le ideologie della guerra fredda 2. L'occupazione americana del Giappone e l'estensione all’Asia della guerra fredda
V
11 84 88 DD 100
3.1 conflitti armati indiretti: le guerre di Corea e d’Indocina 4. Gli Stati Uniti da Truman ad Eisenhower 5. L'Europa occidentale nel decennio postbellico 6. Nascita e riarmo della Repubblica federale tedesca 7.L’Urss e il blocco sovietico da Stalin a Chruséév
4. Terzo mondo e non-allineamento, D40, ino 120 125:
130
1950-1965 1. Le crisi del Medio Oriente: Iran ed Egitto 2. Il nazionalismo arabo e il movimento dei non-allineati 3. La seconda fase della decolonizzazione 4. Una indipendenza difficile: la Francia e l'Africa settentrionale 5. L'indipendenza dell’Africa subsahariana
5. Gli anni dello sviluppo economico, 1950-1973 135
1. I fattori della crescita nei paesi a economia capitalista
145 150
2. La società dei consumi e l’età dell’elettronica 3. L'Europa: relazioni politiche e comunità
155
economica 4. Tre miracoli economici: Germania, Italia e Giappone
163
5. I successi della pianificazione: l'Unione Sovietica e l'Europa orientale
6. Terzo mondo e sottosviluppo, 1945-1970 173 181
1. La scoperta del sottosviluppo 2. Le strategie dello sviluppo
VI
188
199
3. La Cina: il grande balzo in avanti e la rivoluzione culturale 4. L'Africa dopo l’indipendenza
7. Coesistenza e competizione, 1955-1965 207 213 222 22711 233
1. Una “nuova frontiera” per gli Stati Uniti 2. Coesistenza pacifica e gara atomica 3. La Chiesa cattolica nella guerra fredda, nella distensione e di fronte al Terzo mondo 4. L'Unione Sovietica e il blocco orientale da Chruséév a BreZnev 5. Il conflitto ideologico fra Cina e Unione Sovietica
8. Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare, 1965-1973 241 248
254 262
1. Crisi e guerre rivoluzionarie in Asia: le guerre del Vietnam e dei Sei giorni 2. L'America latina fra rivoluzioni e dittature militari 3.I movimenti di protesta negli Stati Uniti e in Europa 4. La politica della distensione e la strategia triangolare
9. Il sistema internazionale fra policentrismo e seconda guerra fredda, 1972-1984 275 284 289
1. Realismo contro ideologia 2. Compimento e declino della distensione 3. L'indipendenza del Bangladesh e le crisi del mondo islamico
296
4. La questione afghana, la ripresa dello scontro
bipolare e la svolta reaganiana degli Stati Uniti VII
304
5. L'Europa economica e gli incerti passi dell'Europa politica
10. Crisi dei modelli di sviluppo, 313 317 323 328 334 345
1970-1986 1. Il crollo del sistema monetario internazionale 2. Dalla crisi petrolifera alla crisi generale 3. Gli anni della stagflazione 4. Le strategie anticrisi e il rovesciamento delle politiche economiche
5. Le tendenze demografiche e i problemi dell’energia e dell'ambiente 6. L'Unione Sovietica e il blocco orientale negli anni di BreZnev
11. Il crollo dell'impero sovietico e le sue conseguenze mondiali, 3 364 372
380
1983-1991 1. L’ultimo tentativo di riformare il comunismo: la perestrojka di Gorbadév 2. 1989: la fine del blocco orientale 3. 1991: dalla rinuncia all’impero alla dissoluzione dell’Unione Sovietica 4. Le conseguenze del crollo sovietico sugli equilibri mondiali
12. Sistema internazionale e sviluppo economico: una nuova fase, 1980-1999 391
398 402
1. Disindustrializzazione, rivoluzione informatica e capitalismo globale 2. Occupazione e produttività nella società postindustriale 3. La sfida economica fra Stati Uniti, Giappone ed Europa pis
VII
412
4. I paesi di nuova industrializzazione e le nuove forme del sottosviluppo
419 429 437
5. Democrazia e sviluppo economico
6. La Cina e l’Asia orientale 7. Vecchie e nuove aree di tensione e instabilità dopo la guerra fredda
453
Sigle citate nel testo
455
Indice dei nomi
ho
Premessa
Sapendo già come le cose si sono effettivamente svolte riesce difficile pensare quanto la seconda guerra mondiale sia proceduta e finita in maniera diversa da come era cominciata: una vera guerra mondiale al posto di un conflitto strettamente europeo il cui 0g-
getto immediato era semplicemente Danzica. I suoi moventi più profondi non andavano comunque oltre gli esasperati nazionalismi europei e la sua portata stava nel mostrare il fallimento dell’ordine internazionale denominato negli ‘anni venti e trenta “sicurezza collettiva”, variante estrema e improbabile dei
precedenti sistemi del XVIII e XIX secolo che oggi diremmo “multipolari” e che nel loro tempo venivano denominati “equilibrio” e “concerto delle nazioni”. Il conflitto aperto nel 1939 si è invece rivelato così radicale che nel suo svolgimento ha prodotto una frattura realmente epocale, tanto che la storia del mondo posteriore al 1945 sembra fare epoca a sé rispetto alla prima parte del secolo. Dal punto di vista dell’astuzia della ragione, Danzica diventò prima di tutto il mezzo per realizzare la fine degli imperi coloniali e perciò la decolonizzazione sarà uno degli argomenti di questo libro. Ma il declino del primato europeo era in realtà in atto già prima del 1939 (anche se le grandi potenze europee se ne accorgeranno davvero solo negli anni cinquanta) e la decolonizzazione costituisce uno dei significati
st
XI
Storia degli ultimi cinquant'anni
del XX secolo visto nel suo complesso (degli altri significati complessivi del secolo mi sono occupato in un’altra occasione).' Peculiare del periodo che si aprì nel 1945 è piuttosto un sistema internazionale del tutto nuovo, caratterizzato da un bipolarismo che, se
pure non nacque subito come perfetto, sin dal principio possedeva una sua chiara tendenza di fondo. È notevole il fatto che il bipolarismo sia durato per tutto il tempo che la seconda guerra mondiale ha impiegato per concludersi totalmente: finita solo militarmente nel 1945, essa sembrò chiudersi con i trattati dell’Ostpolitik del 1970-73, ma si chiuse una terza e definitiva volta con la riunificazione tedesca del 1990, in coincidenza con il disfacimento di uno dei due poli. La scomparsa della Repubblica democratica tedesca assume inoltre un significato emblematico. L'epoca del bipolarismo è anche quella della messa in ombra dei nazionalismi e la Germania orientale era, per così dire, un tipo nuovo di stato, basato non sulla nazione ma su principi ideologici, uno stato di classe inserito in un blocco internazionalista. In prospettiva storica un sistema internazionale bi-
polare non era una novità assoluta e lo stesso si può dire per la guerra fredda che fu il suo portato immediato. Per fare un solo esempio, nei tempi antichi vi fu per diversi secoli un bipolarismo fra l'impero romano (e poi il solo impero d'Oriente) e l'impero per-
siano (prima partico e poi sasanide), con un alternarsi di guerra fredda e guerra combattuta e con la finale comune rovina di entrambi (definitiva per il secondo) di fronte alla comparsa di un terzo elemento, 1)
' Cfr. Il Novecento e le sue pre B. Mondadori, Milano L997:
DOG
XI
:
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Premessa
l'Islam. Il bipolarismo di cui parleremo in questo libro è nuovo nel senso che l'Europa moderna è nata nel XV secolo subito multipolare e lo è rimasta fino al 1939 e perché è rimasto sempre (forse a causa della presenza dell’arma assoluta) nei limiti della guerra fredda, tanto che a un certo punto sembrò essere diventato un sistema stabile capace di durare indefini-
tamente. Il secondo tema di questo libro è lo sviluppo economico, specifico per il periodo post-1945 perché mai in nessun’altra epoca storica sono stati raggiunti
tassi di aumento della produzione così elevati e probabilmente mai più lo saranno in futuro. Che cosa lega fra di loro i due temi: sistema internazionale e sviluppo economico? Il sistema internazionale trova-
va a suo modo una sua unità nel bipolarismo (era «un opposto concorde», per dirla con Eraclito, frammento 8). Lo sviluppo economico fu realizzato invece secondo due sistemi, il mercato (ovvero il capitalismo) e la pianificazione socialista, che ottennero notevoli successi fino alla seconda metà degli anni sessanta avendo scarsi rapporti fra di loro e proponendosi come modello per i paesi che intendevano uscire dal sottosviluppo. Le due storie (quella del bipolarismo e quella dello sviluppo economico) sono corse a lungo quasi come parallele, anche se non sono mancati momenti di interazione: la guerra fredda, se non altro attraverso le spese militari, influì sullo sviluppo economico e indusse a un certo punto i due sistemi economici a entrare in competizione, a impegnarsi, a mostrare quale dei due funzionasse meglio; d’altro canto i risultati concreti di questa competizione spinsero a rendere ora più rigido ora più diste-
so il sistema internazionale. Ciò non toglie che un
Storia degli ultimi cinquant'anni
certo parallelismo, con una marcata indipendenza fra le due storie, si sia mantenuto fino a che è resisti-
ta l’autarchia voluta dell’Urss con il rifiuto di entrare nel sistema di Bretton Woods e di usufruire del piano Marshall. La vera convergenza fra i due percorsi si ebbe dal principio degli anni settanta, quando da una parte si realizzò la distensione e dall’altra 'Urss dovette aprirsi alle relazioni economiche con l'esterno per riuscire a completare il passaggio dalla costruzione delle strutture industriali di base all'economia dei consumi. Ma nel corso di quel decennio l’Urss non riuscì a compiere il cruciale passaggio alla terza rivoluzione industriale; l'impossibilità di fare una fotocopia nei paesi del socialismo reale esprimeva bene l’intreccio perverso fra regime autoritario-burocratico e arretratezza tecnologica. Alla fine l’Urss dovette fare i conti con la mondializzazione e la sua potenza militare, che poggiava su una nullità economica, si rivelò un bluff. Il bipolarismo internazionale venne meno in pari tempo e come conseguenza del fallimento del sistema politico-economico della pianificazione socialista; nella disputa sul primato della politica internazionale o dell'economia ha vinto la seconda. Con il 1989-91 finiva un’epoca storica nei rapporti fra sistema internazionale e sviluppo economico, ma l’ultimo capitolo di questo libro tenta anche di entrare nell’epoca successiva, che, per quanto riguarda lo sviluppo economico, si era in effetti già aperta, con i suoi
nuovi problemi, negli anni ottanta. Monopolarismo politico e multipolarismo economico (Usa, Europa, Giappone e anche Cina) caratterizzano per ora que-
sta epoca, ma è su un altro suo aspetto che conviene
Premessa
concentrare l’attenzione, ricorrendo ancora una volta alla comparazione con eventi storici lontani.
Il sistema capitalismo-democrazia ha vinto la sua guerra, ma non ha saputo resistere alla tentazione di dirottare l’obiettivo della “crociata” opponendosi molto blandamente, se non provocandola direttamente, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, nonché della Jugoslavia, e non capendo bene la lezione circa i rischi che può ora correre la Russia stessa. Nel 1204 l'Europa occidentale cattolica “dirottò” su Costantinopoli la quarta crociata e nel ricondurre alla vera fede l'impero bizantino ortodosso non seppe resistere alla tentazione di distruggerlo e spartirlo. Nel 1529, sintetizzando un po’ il racconto, i turchi erano alle porte di Vienna. I “turchi” della nostra epoca si chiamano nazionalismo, pulizia etnica, guerre etni-
che e disordine internazionale.
Bibliografia Oltre alle opere citate nel testo, la bibliografia posta a conclustone di ogni capitolo include una selezione di titoli (abbondando un po’ solo per l’ultimo capitolo) particolarmente significativi come fonte di informazione e invito alla riflessione. Dopo le opere di carattere generale indicate qui di seguito, quelle che si riferiscono a più di un capitolo vengono ricordate solo alla loro prima occorrenza.
Opere generali Bairoch P., Victoires et débotres. Histoire économique et sociale du monde. III. Le XX siècle, Gallimard, Paris 1977 Benz W., Graml H., a c. di, Tensioni e conflitti nel mondo contemporaneo (1981), Feltrinelli, Milano 1983 Bonanate L., Armao F, Tuccari F,, Le relazioni internazionali.
| Mi
Cinque secoli di storia: 1521-1989, B. Mondadori, Milano 9537, cap. 5 /
XV
Storia degli ultimi cinquant'anni Bordino G., Martignotti G., Il 7zondo dal 1970 a oggi, Utet, Torino 1997 Caron EF, Les deux révolutions industrielles du XX siècle, A. Michel, Paris 1997
Crockatt R., Cinquant'anni di guerra fredda (1995), Salerno, Roma 1997 Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali,
1918-1992,
Laterza, Roma-Bari 1994
Duroselle J.-B., L'età contemporanea. Dalla guerra fredda alla coesistenza,
1945-1970, Utet, Torino 1971
Gaddis J., We now know. Rethinking cold war history, Clarendon Press, Oxford 1997 Galli Della Loggia E., Il 720ndo contemporaneo (1945-1980), il Mulino, Bologna 1982 Gauthier A., L'economia mondiale dal 1945 a oggi (1995), il Mulino, Bologna 1998 Hobsbawm E.J., I/ secolo breve (1994), Rizzoli, Milano 1995
Maddison A., L'économie mondiale au XX siècle, Ocde, Paris 1989
Pinzani C., Da Roosevelt a Gorbaciov. Storia delle relazioni fra Stati Uniti e Unione Sovietica nel dopoguerra, Ponte alle Grazie, Firenze 1992
Pinzani C., I/ secolo della paura, Editori Riuniti, Roma 1998
1. La costruzione del nuovo sistema internazionale, 1945-1949
1. Un nuovo sistema monetario per la ricostruzione economica
Alla mezzanotte dell’8 maggio 1945, dopo la serie delle capitolazioni incondizionate firmate dai generali tedeschi nei giorni precedenti, si concludeva la parte europea della seconda guerra mondiale; il 2 settembre seguirà la fine della guerra del Pacifico, con la resa formale da parte del Giappone. Il bilancio umano della guerra si chiudeva (anche se su queste cifre esistono più valutazioni, a volte molto divergenti) con almeno cinquantacinque milioni di vittime, per metà militari e per metà civili. Una parte notevole dei militari, in particolare fra i sovietici, era caduta non in azioni di guerra, ma sterminata nei
campi di prigionia. Fra i civili vi erano almeno cinque milioni di ebrei, le vittime di altri genocidi, minori per l’entità delle vittime ma non quanto alla loro natura (gli zingari, i serbi di Croazia e Bosnia), e quelle delle atrocità e dei massacri commessi dai giapponesi in Cina e dai tedeschi in Russia. Vi erano ancora i morti sotto i bombardamenti terroristici (in Polonia, Inghilterra, Germania, Giappone) e quelli registrati fra imolti milioni di profughi e deportati: i polacchi deportati dai tedeschi e dai russi nel 193940, i russi fuggiti di fronte all'avanzata tedesca nel 1941-42, i lavoratori stranieri deportati in Germania,
Storia degli ultimi cinquant'anni
i tedeschi fuggiti nel 1944-45 e quelli espulsi a guerra finita dall'Europa centro-orientale. Nel lungo elenco delle atrocità va infine inclusa l’uccisione da parte degli jugoslavi di alcune migliaia di italiani a Trieste e Gorizia e in Istria. Immense erano le devastazioni materiali, mentre i sistemi economici si trovavano distrutti o profonda-
mente dissestati. Soltanto gli Stati Uniti uscivano dal conflitto con limitati costi umani, avendo inoltre accumulato crediti per miliardi di dollari nei confronti dei loro alleati. Tutti i paesi europei, vinti e vincitori, avevano impegnato nella guerra risorse economiche
equivalenti all’intero reddito nazionale di parecchi anni dell’epoca prebellica, facendo ampio ricorso all’emissione di cartamoneta. Il grado di distruzione dei loro apparati produttivi era molto diverso, minore in Gran Bretagna e in Francia, catastrofico in Germania, ma in ogni caso il volume della produzione era nel 1945 assai più basso rispetto a quello del 1938 ol-
tre che impegnato in massima parte nelle esigenze belliche: in Francia e in Italia era ridotto a circa la metà, in Germania e in Polonia forse a un terzo; an-
cora più ridotti risultavano gli indici della produzione industriale, un terzo o un quarto dell’anteguerra nei paesi sconfitti e devastati; i bombardamenti sulle città e sulle infrastrutture economiche (ferrovie e porti) avevano provocato gravi distruzioni nel patrimonio immobiliare e nella rete dei trasporti. Tali condizioni materiali unitamente all'enorme quantità di cartamoneta in circolazione determinarono una inflazione che raggiunse una misura ben superiore a quanto era accaduto con la Grande guerra.
Seguendo ritmi diversi nei vari paesi, gliindici dei prezzi al consumo continuarono a crescere fino al 2
La costruzione del nuovo sistema internazionale
Tabella 1. Perdite umane nella seconda guerra mondiale (dati in milioni)* Totale
di cui civili
Urss**
18-20
8-10
Germania
DIO
5)
Polonia Jugoslavia Romania
5 1,6
4,5 12)
Francia
0,6
Grecia
0,5
Italia
0,45
0,65 0,4
°
0,15
Ungheria
0,45
Gran Bretagna
0,4
I 0,1
Cecoslovacchia
0,35
0,33
Austria
0,33
0,15
Olanda
0,23
0,23
Giappone
2,5
1
Crnarst
15-20
Usa
0,32
* Il totale stimato di oltre 55 milioni include gli altri paesi europei meno colpiti e altri paesi asiatici (Filippine, India, Birmania, Corea, Indonesia, Vietnam)
** Stima *** Stima, per il periodo 1937-45 Fonti: M. Macura, La popolazione europea, 1920-1970, in Storia eco-
nomica d'Europa, vol. VI, Utet, Torino 1980, pp. 8-9; Ho Pingtti,
La Cina. Lo sviluppo demografico (1959), Utet, Torino 1972, pp. 340-53; C. McEvedy, R. Jones, Atlas of World Population History, Penguin Books, Harmondsworth 1978.
|
1947-48, ritrovandosi alla fine moltiplicati (rispetto al 1938) per due in Inghilterra, per diciotto in Francia, per quarantacinque in Italia. Razionamenti alimentari, mercato nero, esposizione alla denutrizione e alle 3
Storia degli ultimi cinquant'anni
malattie infettive resero molto difficile se non disperata la vita quotidiana delle popolazioni civili. Il ricordo dei disordini economici del precedente dopoguerra, culminati nella crisi generale del 1929, spingeva molti esperti a previsioni assai pessimiste 0 almeno produceva la consapevolezza che la ricostruzione materiale dei paesi industrializzati dell’Occidente doveva avvenire in base a un ordine economico capace di favorire una stabile ripresa della produzione e della circolazione dei capitali e delle merci. La necessità di stabilire un nuovo sistema monetario, in grado di favorire gli scambi commerciali mondiali e dar loro certezza, si era perciò imposta ancora prima della fine della guerra. Il sistema della parità aurea o gold standard — basato sul principio del valore ufficiale in oro di valute convertibili e quindi sui cambi fissi fra queste — era crollato con la Grande guerra; la sua parziale restaurazione, che di fatto prevedeva la centralità della sterlina, era venuta meno durante la depressione degli anni trenta. Essendo esclusa la possibilità di un ritorno alla base aurea, dato che la quantità di oro estratto e tesaurizzato non era in grado di far da base alle accresciute masse di cartamoneta, sorgeva il problema della ricerca di un nuovo mezzo di pagamento internazionale. Il ruolo giocato nel passato dalla moneta bri-
tannica doveva ormai trasferirsi nelle mani degli Stati Uniti e nel dollaro. | Già nel periodo della neutralità il sistema produttivo americano si era rimesso a funzionare a pieno
ritmo per rispondere alla domanda di materiali industriali e bellici da parte della Gran Bretagna, cui si erano aggiunti successivamente gli altri mem-
bri della grande alleanza. Dall’applicazione della
b
CA
pr
La costruzione del nuovo sistema internazionale
legge “affitti e prestiti” firmata dal presidente Roosevelt nel marzo 1941 derivarono consistenti flussi d’oro verso i depositi degli Stati Uniti. Lo sviluppo produttivo si intensificò dopo il diretto ingresso nel conflitto degli Stati Uniti: al principio del 1945 l'indice della produzione industriale era più che raddoppiato rispetto a quello del 1937. Sulla base di un apparato produttivo in perfetta efficienza, di una inflazione contenuta (una media del 5,2% fra il 1940 e il 1945), di una disoccupa-
zione drasticamente ridotta (dal 19% nel 1938 a meno del 2% nel 1942-44) e di enormi riserve auree il dollaro si affermò come la più solida valuta in un quadro di monete erose dalle spinte inflazionistiche. Alla fine del 1945 gli Stati Uniti possedevano il 60 per cento delle riserve auree mondiali, ma in seguito ai bisogni che gli stati europei potevano soddisfare solo con acquisti compiuti oltreoceano, questa cifra crebbe ancora nei tre anni successivi,
arrivando a quasi il 75 per cento nel 1948, La rifondazione del sistema monetario fu l’oggetto della conferenza internazionale che si svolse nel luglio 1944 nella cittadina americana di Bretton Woods, nel New Hampshire. Ad essa parteciparono i rappresentanti di quarantacinque stati, compresa
l'Unione Sovietica (che però, quando venne meno il clima internazionale favorevole alla collaborazione,
non aderì alle istituzioni là create). Le decisioni fondamentali vennero prese soltanto dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna e dipesero dall'indirizzo dato alle discussioni da due uomini, il sottosegretario al | tesoro degli Stati Uniti Harry White e l'economista inglese John Maynard Keynes, che avevano preparato i progetti da cui derivò il testo finale. Con una
Storia degli ultimi cinquant'anni
piena intesa, limitata solo dall’aspirazione inglese a mantenere un’area della sterlina all’interno del Commonwealth, il dollaro assurse al rango di centro
reale del sistema monetario internazionale, da affiancare all'oro, che restava il centro teorico del nuovo
gold exchange standard, fondato sulla parità con una valuta convertibile in oro. L'aspetto principale degli accordi di Bretton Woods consisteva nel riportare in vita il regime dei cambi fissi (con un margine di fluttuazione limitato all’un per cento in più o in meno della parità ufficiale), sia delle diverse monete nazionali fra di loro, sia
di ciascuna moneta con l’oro. Scopo dell’impegno assunto dagli stati che vi aderivano era di evitare il ricorso alle svalutazioni della propria moneta per sostenere le esportazioni e ostacolare le importazioni, e
quindi alle guerre monetarie generalizzate con i conseguenti disordini economici internazionali. Tuttavia, soltanto gli Stati Uniti dichiaravano la loro moneta effettivamente convertibile in oro, con un rapporto fisso di 35 dollari per oncia di fino (ovvero un dollaro per 0,8886 grammi d’oro); per conseguenza solo attraverso il cambio con il dollaro le monete nazionali erano effettivamente agganciate all’oro. Questo fatto condusse automaticamente a fare del dollaro il mezzo di pagamento internazionale ela principale valuta di riserva. L'oro ricompariva a garantire l'ordine monetario mondiale solo perché gli Stati Uniti si impegnavano a convertire a vista la loro mo-
neta, sulla base del valore fissato, ogni qualvolta ne avesse fatto richiesta una banca centrale. In virtù di questi accordi si verificarono due feno-
meni significativi: da un lato il rafforzamento della divisa americana, man mano che la ricostruzione
s
USI
La costruzione del nuovo sistema internazionale
accelerava la crescita della domanda di mezzi di pagamento per far fronte all'aumento degli scambi internazionali; dall’altro una ancor più stretta integrazione dei sistemi economici capitalistici, nella forma di una subalternità nei confronti dell’economia statunitense. Gli accordi di Bretton Woods furono perfezionati nel marzo 1946 nella conferenza di Savannah, in Georgia (cui non partecipò più l'Unione Sovietica) e condussero alla creazione di due nuove istituzioni,
entrate in attività dal 1° gennaio 1947, il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (o Banca mondiale), entrambi con sede a Washington. Il Fondo doveva promuovere la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico e, più in particolare, mantenere stabili i rapporti fra le monete, concedendo prestiti a breve termine agli stati in momentanee difficoltà a causa di un deficit nella loro bilancia dei pagamenti ed evitando il ricorso alle svalutazioni; la Banca mondiale favoriva lo sviluppo economico, concedendo prestiti a lungo termine. I capitali di entrambe le istituzioni dovevano essere costituiti da oro, dollari e valute nazionali depositate da ogni paese aderente secondo quote differenziate, in rapporto alle quali i paesi membri detenevano i diritti di voto. Poiché il Fmi concedeva prestiti solo dietro l’obbligo di osservanza di precise direttive e vincoli e aveva il potere di autorizzare eccezionalmente il ricorso alla svalutazione, gli Stati Uniti, titolari della quota di capitale più elevata, pari al 28% dei diritti di voto, si
trovavano a possedere un fortissimo strumento di pressione nei confronti dei paesi economicamente più deboli collocati nell’“area del dollaro”.
Storia degli ultimi cinquant'anni
2. Dal progetto di un nuovo ordine mondiale alla definizione delle zone di influenza
Il ruolo centrale assunto dal dollaro era solo la registrazione di un dato di fatto, specie in un momento in cui tutti contavano sull’aiuto degli Stati Uniti per affrontare il difficile periodo della ricostruzione. Gli stati europei si trovavano nella necessità di acquistare beni di ogni genere negli Stati Uniti e, pur potendo contare su larghi prestiti da parte del governo americano, videro drasticamente ridursi le loro riser-
ve in oro e in dollari. Anche peggiore era la situazione dell’Unione Sovietica: nel 1945 questa si ritrovava nel ruolo di grande potenza mondiale, ma avendolo pagato con venti milioni di morti, con 1700 centri urbani grandi e piccoli e 70000 villaggi distrutti e con danni che secondo le cifre ufficiali ammontavano a cinque volte e mezzo il reddito nazionale del 1940. Il 21 agosto 1945 il presidente americano Truman aveva annunciato la definitiva cessazione di tutte le forniture concesse all'Unione Sovietica (e così pure agli altri alleati europei) come crediti di guerra in base alla legge “affitti e prestiti” del 1941; ma mentre gli stati dell'Europa occidentale ottennero altri prestiti a lungo termine e a basso tasso d’interesse, le assicurazioni più volte fatte all’Unione Sovietica restarono nel vago e, via via che nel corso del 1946 i rapporti fra i due grandi peggioravano, non ebbero seguito. Le istituzioni monetarie concordate a Bretton Woods erano espressione della volontà di Roosevelt di abbandonare l’isolazionismo politico praticato dagli Stati Uniti negli anni fra le due guerre e nascevano nel contesto delle Nazioni Unite, pensate dal 8
La costruzione del nuovo sistema internazionale
presidente americano come elemento centrale del nuovo ordinamento del sistema internazionale. Sia dal punto di vista economico che da quello politico questo sarebbe stato caratterizzato dalla moltiplicazione delle relazioni fra gli stati, dalla caduta delle barriere, dei sospetti, delle rivalità, della ricerca di
aree riservate di influenza. La disponibilità alla cooperazione nel campo monetario ed economico sarebbe stata una concreta arma contro ogni guerra futura. Alle chiusure protezioniste doveva subentrare un po’ per volta la libera circolazione delle merci. Nessuno stato doveva più pensare in termini particolaristici, ma proporsi la collaborazione entro un primo abbozzo di governo mondiale, nel quale le grandi potenze avrebbero avuto soltanto il maggior peso corrispondente alle loro maggiori responsabilità. L'obiettivo di una Organizzazione delle Nazioni Unite era stato proposto già nel gennaio del 1942 agli stati in guerra contro l'Asse nazifascista e l’assetto da dare a questo organismo era stato uno dei temi discussi da Roosevelt, Stalin e Churchill a Jalta, nel febbraio 1945. Il 25 aprile si aprì a San Francisco la conferenza destinata a concordare il trattato istitutivo dell'Onu, alla quale parteciparono 52 stati fondatori, tutti quelli che avevano dichiarato guerra alla Germania entro il precedente 28 febbraio. Tre erano gli organi principali delle Nazioni Unite, YAssemblea generale, il Consiglio di sicurezza e il Segretario generale. Nell’ Assemblea generale vigeva il principio ugualitario e ogni stato rappresentava un voto (Stalin aveva però ottenuto che Ucraina e Bielorussia fossero presenti autonomamente accanto all’Urss); essa prendeva deliberazioni a maggioranza, ma i suoi poteri non andavano oltre le raccomanda9
Storia degli ultimi cinquant'anni
zioni indirizzate al Consiglio di sicurezza. In questo secondo organo prevaleva invece il principio della maggiore responsabilità dei “grandi”. I “grandi” erano prima di tutto le tre potenze che avevano partecipato alla conferenza di Jalta. In quella occasione gli Stati Uniti avevano caldeggiato anche l’inserimento della Cina (rappresentata dal governo nazionalista di Chiang Kai-shek), che non era una grande potenza ma che il governo americano era convinto di veder schierata dalla sua parte. La quinta grande potenza era la Francia, benché Stalin e Roosevelt fossero al riguardo piuttosto scettici; era stata la Gran Bretagna ad appoggiare a sua volta la presenza della Francia nel gruppo ristretto, pensando che al momento opportuno i due paesi avrebbero potuto fare fronte comune nella difesa dei loro imperi coloniali. La guerra aveva infatti determinato sostanziali mutamenti negli equilibri geopolitici, peraltro già delineati nei decenni precedenti; il compiuto declino dell'Europa come continenteguida a livello planetario comportava in una prospettiva non troppo lontana la fine del colonialismo, e su questo punto esisteva un ampio accordo fra
Unione Sovietica e Stati Uniti. In base alla teoria marxista-leninista i primi vedevano nella caduta degli imperi coloniali un presupposto della sconfitta del capitalismo; i secondi sostenevano il libero accesso ai mercati e alle materie prime del mondo e quindi condannavano il colonialismo di tipo ottocentesco, convinti che avrebbero tratto solo vantaggio dalla sua scomparsa. I componenti di questo gruppo ristretto (Usa, Urss, Gran Bretagna, Cina e Francia) erano membri permanenti del Consiglio di sicurezza, del quale 10
La costruzione del nuovo sistema internazionale
facevano parte altri sei membri (nel 1965 diventeranno dieci) eletti per un biennio dall’ Assemblea generale. Le deliberazioni del Consiglio erano prese con la maggioranza di sette voti, ma fra questi dovevano esservi sempre quelli dei membri permanenti; ciascuno di essi aveva dunque un potere di veto e solo la loro unanimità consentiva all'Onu di adempiere alla sua funzione principale, il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, facendo
ricorso eventualmente anche alla forza. Solo quando uno dei membri del Corsiglio (permanente o non) era parte in causa di una controversia era prevista la
sua astensione dal voto. Fra le deliberazioni da prendere con l’unanimità dei membri permanenti vi erano in particolare quelle volte a eliminare le minacce alla pace e le raccomandazioni all’ Assemblea generale per l'ammissione di nuovi membri. Il Segretario generale, infine, veniva eletto dall’ Assemblea su proposta del Consiglio di sicurezza; la sua attività non aveva in linea di principio alcuna discrezionalità rispetto alle direttive dell’ Assemblea
e del Consiglio, ma, essendo l’unica fra quelle degli organi dell’Onu a svolgersi in maniera continuativa, poteva acquisire un certo margine di autonomia. Allo stesso spirito universalista con cui veniva
creato l'Onu corrispondeva la decisione presa dai vincitori di istituire un tribunale militare internazionale incaricato di giudicare tre ordini di crimini: quelli contro la pace commessi scatenando una guerra di aggressione in violazione di trattati, quelli di guerra commessi sulle popolazioni civili e i prigionieri in violazione di leggi e consuetudini internazionali, e quelli (per la prima volta espressamente defi-
niti) contro l'umanità, fra i quali rientrava il genoci11
Storia degli ultimi cinquant'anni
dio degli ebrei. Ventidue fra i maggiori capi del regime nazista furono così sottoposti al processo che si tenne a Norimberga fra l'ottobre 1945 e l’ottobre 1946 e dodici di loro vennero condannati a morte. In sintesi, ciò che Roosevelt e i suoi più stretti collaboratori avevano da proporre ai loro alleati era un assetto mondiale fondato sui due pilastri dell'Onu e di Bretton Woods, nel quale vi era coerenza fra il sistema dei rapporti politici e quello dei rapporti economici fra gli stati; benché gli Stati Uniti fossero di fatto la maggiore o senz'altro l’unica vera potenza mondiale, essi intendevano gestire l'ordine internazionale in accordo con i loro alleati, convinti che per questa via gli evidenti vantaggi politici ed economici che essi stessi avrebbero tratto sarebbero stati ancora più sicuri e si sarebbero anche risolti in vantaggi per tutti.
Questo nuovo ordine mondiale presupponeva che le grandi potenze fossero disposte a confrontarsi di fronte alla comunità internazionale, ma si sviluppava, dopo quello della superiorità statunitense, di fronte a un secondo dato di fatto: la dislocazione dei contingenti militari dei vincitori, che nelle ultime fasi
della guerra si erano preoccupati, oltre che di combattere il nemico comune, di assumere il controllo di intere aree del globo, in Europa e in Asia orientale,
precostituendo così i futuri assetti del mondo secondo la logica ben diversa delle aree esclusive di influenza.
A guerra
finita, nessuna
delle grandi
potenze vecchie e nuove era disponibile ad applicare in tali aree i principi della collsleminne e della responsabilità comune.
Questo valeva per il Pacifico rispetto dà Stati Uniti, che occupavano il Giappone e ne avevano affi12
La costruzione del nuovo sistema internazionale
dato il governo militare al generale Douglas Mac Arthur. L'Inghilterra faceva ancora valere un suo diritto di preminenza nel Mediterraneo: oltre a partecipare all’occupazione dell’Italia, dal settembre 1944 era presente in Grecia con un corpo militare
che si inseriva nel conflitto emergente fra le formazioni partigiane monarchiche e quelle comuniste dando il proprio appoggio alle prime. In entrambi i paesi l'Inghilterra considerava conforme ai propri interessi il mantenimento della monarchia, benché
quella italiana fosse pienamente corresponsabile degli atti del fascismo e quella greca avesse nel 1936 abbattuto le istituzioni democratiche. Va ricordato poi che mentre nei rapporti con Roosevelt Stalin prendeva in considerazione l’ipotesi del grande progetto di ordine mondiale, nei rapporti con Churchill restava legato al principio della spartizione. Nel faccia a faccia svoltosi a Mosca nell’ottobre 1944 i due leader avevano infatti concordato che l'influenza su Romania e Bulgaria sarebbe toccata all'Unione Sovietica e quella sulla Grecia alla Gran Bretagna, mentre in Ungheria e Jugoslavia doveva mantenersi una situazione di equilibrio fra l’Urss e gli occidentali. Che l'Urss dovesse tenersi fuori dall'Italia era ovvio, mentre il caso più difficile della Polonia non
era stato toccato. Questo era stato il primo paese nel quale aveva cominciato a penetrare l'Armata Rossa (ma le truppe sovietiche entrarono a Varsavia nel gennaio 1945); poi era venuta l'occupazione di Romania e Bulgaria (agosto e settembre 1944), seguite dall'Ungheria e per ultima dalla Cecoslovacchia (Praga fu liberata
|
solo negli ultimi giorni di guerra). Alla fine del 1945 e nei primi mesi del 1946 in questi cinque paesi esi13
Storia degli ultimi cinquant'anni
stevano governi fondati sulla coalizione fra i partiti comunisti e quelli di diverso orientamento (socialdemocratici, liberali, partiti dei contadini), cui gli Stati
Uniti si risolsero a dare il loro riconoscimento. Dei due elementi che in sostanza costituivano un regime comunista, la dittatura del proletariato e l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, le forze di occupazione sovietica favorirono soltanto il secondo, nazionalizzando le industrie e dividendo i latifondi fra i contadini (ma senza parlare di collettivizzazione). Elezioni relativamente libere si svolsero nel novembre 1945 in Bulgaria e, con risultati che davano i comunisti in netta minoranza, in Ungheria. In Cecoslovacchia la classe dirigente democratica del periodo prebellico, rappresentata dal presidente della repubblica Edvard Benes e dal ministro degli esteri Jan Masaryk, godeva di grande prestigio e credeva nella possibilità di una leale collaborazione con i comunisti; le elezioni del maggio 1946 stabilirono una situazione di equilibrio fra i comunisti e gli altri partiti di governo. Più nettamente filosovietico era il governo esistente in Romania dal febbraio 1945; qui
le elezioni del novembre 1946 furono pesantemente condizionate e certamente manipolate. In Polonia restava in carica il governo provvisorio di coalizione costituito nel giugno 1945, con netta prevalenza dei comunisti, e l'Unione Sovietica non aveva fretta ad applicare gli accordi di Jalta, che prevedevano elezioni realmente libere e pluraliste, cioè tali da segnare con tutta certezza la sconfitta dei comunisti. La Germania e l’Austria erano infine sottoposte al regime concordato nel luglio 1945 a Potsdam, all’ultima conferenza dei tre grandi, Stalin, Truman (che aveva
sostituito Roosevelt, morto
i
14
il 12 aprile) e
N
L
La costruzione del nuovo sistema internazionale
Churchill (che in seguito alla vittoria elettorale dei laburisti fu sostituito nel corso della conferenza stessa dal loro leader Clement Attlee, vedi p. 90): i due paesi erano divisi in quattro zone e assoggettati
all'occupazione e amministrazione militare da parte di Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia; a sua volta anche Berlino, che si trovava
nella zona sovietica, era divisa in quattro zone di occupazione.
3. Riuscite e fallimenti nei trattati di pace Fu in un contesto ancora relativamente favorevole che nel settembre 1945 si aprirono le laboriose trattative per stabilire i termini della pace con la Germania
e i suoi alleati. Cominciate
a Londra,
entrarono nella fase decisiva nell’aprile 1946, con la conferenza di Parigi fra i ministri degli esteri dei paesi vincitori. Il 10 febbraio 1947 furono firmati cinque
trattati,
con
Italia, Romania,
Ungheria e Bulgaria. Dalle conferenze di Teheran poi di Jalta e Potsdam fra i tre evidente che l'Unione Sovietica ciata al progetto di nuovo ordine
Finlandia,
(novembre 1943) e grandi era risultato poteva essere assomondiale solo se le
sue esigenze di sicurezza venivano rigorosamente rispettate. Per questo motivo in tutte e tre le occa-
sioni erano stati discussi e definiti (in attesa di essere consacrati nei trattati) i nuovi confini fra Polonia e Unione Sovietica e fra Germania e Polonia, ricono-
scendo all’Urss i territori polacchi già occupati nel 1939, trasferendole la regione ex-prussiana di Koenigsberg (ribattezzata Kaliningrad) e “spostando” verso occidente la Polonia: questa compensava 15
Storia degli ultimi cinquant'anni
con gli acquisti dalla Germania (i territori a oriente della linea segnata dai due fiumi Oder e Neisse) le cessioni all’Urss e doveva da quel momento contare sulla protezione sovietica di fronte a eventuali future rivendicazioni tedesche. Per lo stesso motivo il mantenimento da parte dell’Urss del possesso dei tre paesi baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia) era stato
considerato fuori Dai trattati di altri significativi Finlandia e della
discussione. Parigi l'Unione Sovietica ottenne vantaggi territoriali, a spese della Romania; poté inoltre annettere la Rutenia (o Ucraina) subcarpatica, una regione strategica che costituiva la parte orientale della Cecoslovacchia d’anteguerra e di cui nel 1938, dopo Monaco, si era impadronita l'Ungheria: cambiando nuovamente di mano, la Rutenia consentiva ora all’Urss
di avere un confine diretto con l’uno e l’altro di questi paesi, passati nella sua zona d’influenza. In complesso l’Urss aveva guadagnato circa 670000 kmq. Quanto all’Italia, essa perse tutte le colonie, mentre la definizione dei suoi confini con la Francia e l’Austria fu stabilita senza problemi, prevedendo nel primo caso piccole rettifiche e nel secondo il mantenimento dell'Alto Adige. Più complessa si presentò la sistemazione della frontiera con la Jugoslavia, che ottenne l’Istria e una parte della Venezia Giulia. Al territorio di Trieste fu attribuito lo statuto di territo-
rio libero sotto tutela delle Nazioni Unite e con la divisione in due zone denominate A e B, una, inclu-
dente la città, sotto amministrazione anglo-americana e l’altra sotto amministrazione jugoslava. Un successivo accordo, nel 1954, consentì la ricongiunzione
di Trieste all'Italia. Nessun accordo fu invece trovato per il trattato di 16 Pai
La costruzione del nuovo sistema internazionale
pace più importante, quello con la Germania (nonché quello, connesso, con l’Austria), perché i progetti dei vincitori sul suo futuro politico ed economico continuavano a essere molto distanti. A Vienna restarono ancora fino al 1955 le truppe delle quattro potenze vincitrici, ma queste avevano riconosciuto l’esistenza
della repubblica austriaca e preso atto delle elezioni del novembre 1945 nelle quali i socialisti ottennero la maggioranza e furono battuti i comunisti. In Germania rimase in vigore il regime di amministrazione militare in quattro zone,
stabilito a Potsdam.
La
Francia non aveva del tutto rinunciato all'idea di annettere la regione carbo-siderurgica della Saar (e aveva anzi compiuto concreti passi in questa direzio-
ne) e di altre parti della Renania. Le altre tre potenze restavano formalmente fedeli all'impegno preso a Potsdam di mantenere l’unità della Germania, ma gli Stati Uniti, e per conseguenza l'Unione Sovietica, non
ponevano più limiti di tempo alla presenza delle loro truppe, ormai non più destinate a tenere sotto con-
trollo il paese vinto ma a mantenere le posizioni di fronte all’evolvere della situazione. Le forze sovietiche di occupazione avevano subito introdotto nella propria zona riforme economiche conformi alle loro visuali, dividendo i latifondi e
nazionalizzando le banche e le industrie. Oltre ad avviare le consegne di materie prime e prodotti come riparazioni di guerra, avevano inoltre proceduto, in mancanza del prestito vagamente promesso dagli Stati Uniti, a smontare e trasferire in Urss gran parte . delle attrezzature industriali che si erano salvate dalle
distruzioni belliche. Gli anglo-americani avevano a
loro volta fuso dal dicembre 1946 in una “bizona” le loro zone di occupazione, cominciando a preoccuo
197)
Storia degli ultimi cinquant'anni
parsi di una ripresa della vita politica ed economica tedesca. I ministri degli esteri dei quattro grandi tornarono poi varie volte a incontrarsi e, in attesa
di un trattato di pace che non sarebbe venuto mai, le frontiere della Germania con la Polonia stabilite a Potsdam non furono tradotte in un atto formale e vincolante. Dopo il fallimento di Parigi e nonostante la ripresa della\conferenza di pace prima a Mosca (nel marzo 1947) e poi a Londra (in novembre), lo stallo sul trattato con la Germania fu il punto focale del progressivo deteriorarsi delle relazioni Usa-Urss. Il problema aveva una soluzione evidente: ricostituire uno stato tedesco unificato, neutralizzarlo e disar-
marlo e continuare a sottoporlo a un controllo internazionale per garantire la sua evoluzione democratica. Ma nessuna delle due potenze era disposta a ritirarsi lasciando il paese al rischio di cadere sotto l’influenza dell’altra. Perciò gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali presero a comportarsi come se la divisione fosse ormai definitiva e lasciarono ai sovietici la difesa, già divenuta soltanto un tema di propaganda, del diritto della Germania alla riunificazione. A ciò bisogna aggiungere la situazione della Polonia, dove nel gennaio 1947 si erano finalmente svolte elezioni del tutto prive di garanzie democratiche, ben carat| terizzate dall’arresto o dall’assassinio dei candidati del partito dei contadini, la cui presenza nella coalizione del giugno 1945 era stata a dimostrare la buona disposizione sovietica a rispettare gli accordi di Jalta; sicuramente
manipolate,
le elezioni dettero
una
schiacciante maggioranza al blocco costituito dai
comunisti e dai loro alleati minori. Il crescente clima di sospetto reciproco aveva po18
DE
La costruzione del nuovo sistema internazionale
tuto manifestarsi già dopo le prime fasi dei lavori dell'Onu, che (in attesa del trasferimento a New York) si erano svolte dal gennaio 1946 a Londra. Al Consiglio di sicurezza l'Unione Sovietica fece valere frequentemente il suo veto. Nel giugno dello stesso anno il rappresentante sovietico alla Commissione per l'energia atomica (che avrebbe dovuto trasferire all'Onu il controllo del suo uso pacifico) respinse il progetto americano, che prevedeva ispezioni da parte delle Nazioni Unite per garantire che le sperimentazioni già in atto in Urss non si sviluppassero in funzione dell’uso bellico; a ciò l'Unione Sovietica contrappose la proposta, ugualmente respinta dagli Usa, di cominciare con la distruzione di tutte le armi atomiche allora esistenti (che erano in effetti solo quelle americane). 4. La dottrina Truman e il piano Marshall
Una svolta più profonda si ebbe in seguito alla ripresa della guerra civile in Grecia, nell'autunno del 1946. La situazione di questo paese presentava alcu-
ne somiglianze con quella dell’Italia. Nei due casi vi era una monarchia screditata che godeva dell’appoggio delle forze più retrive e la presenza di un forte partito comunista che aveva svolto un ruolo essenziale nella resistenza contro l'occupazione nazista e godeva di ampi consensi popolari. In entrambi i paesi si svolse nel 1946 un plebiscito sulla forma istituzionale dello stato. In Italia, nel giugno, vinse la repubblica e si formò un governo del quale, accanto ai democratico-cristiani, facevano parte anche i comunisti e i socialisti. In Grecia, in settembre, vinse
la monarchia e il partito comunista tentò un’insurre19
Storia degli ultimi cinquant'anni
zione per imporre una democrazia popolare. Contro questa insurrezione,
che era riuscita a formare un
governo rivoluzionario in Epiro, intervennero le truppe inglesi che erano già presenti in Grecia, ma
nel febbraio 1947 il governo britannico dovette riconoscere con una dichiarazione ufficiale di non essere in grado di continuare ad aiutare la monarchia. Questo abbandono britannico del ruolo di autonoma forza egemone e di garante della stabilità politica nell’area mediterranea fece concretamente percepire che era stato compiuto un passo decisivo verso ciò che verrà chiamato “bipolarismo”. Il 12 marzo 1947 il presidente americano espose davanti al Congresso quella che assunse il nome di “dottrina Truman”; il suo duro e secco discorso, che occupò
poco più di un quarto d’ora, presentava la netta contrapposizione fra due “modi di vita alternativi”, uno fondato su libere istituzioni e caratterizzato dalle garanzie delle libertà umane e l’altro fondato sul totalitarismo (prima quello nazista, ora quello comunista), il terrore e l'oppressione, e chiamava gli Stati Uniti ad accogliere le richieste di aiuto che venivano “dai popoli liberi” del mondo minacciati dalla sovversione comunista. Adottando un argomento che per decenni verrà sollevato dai governi americani, Truman
aveva poi affermato che non era in gioco un conflitto con cause locali e che se la Grecia fosse caduta sotto il controllo delle bande armate, il disordine si
sarebbe esteso da una parte alla Turchia e al Medio Oriente, dall’altra all'Europa, e in ultima istanza al
mondo intero. Era questa dimensione globale della strategia americana, più che l'impegno ad aiutare la
Grecia contro una ribellione armata, a caratterizzare |
la dottrina Truman.
te 20
nt
La costruzione del nuovo sistema internazionale
La legge sugli aiuti in finanziamenti e armi alla Grecia (nonché alla Turchia, che si sentiva minaccia-
ta dall'Unione Sovietica) venne approvata dal Senato in maggio e, dopo una guerra sanguinosa durata fino all'ottobre 1949, consentì alla monarchia greca di sconfiggere l'opposizione comunista, che per la verità non ebbe aiuti da parte dell’Unione Sovietica, ma piuttosto dalla Jugoslavia. Nel frattempo era apparso evidente che da quelle vicende era emersa la necessità di un progetto globale che doveva coinvolgere l'Europa intera e che aveva allo stesso tempo implicazioni economiche, politiche e strategiche. Appena entrato in vigore, il nuovo sistema monetario internazionale era lontano dal poter raggiungere immediatamente i suoi scopi più importanti. L'attuazione del principio della piena convertibilità delle monete (che prevedeva per i detentori stranieri di valuta nazionale, ottenuta attraverso scambi com-
merciali, la possibilità di convertirla all’interno del paese stesso in qualsiasi altra valuta) venne rinviata a tempi migliori. Nel luglio 1947 la Gran Bretagna, in ottemperanza all'impegno preso in cambio di un prestito di 3,75 miliardi di dollari ottenuto in precedenza dagli Stati Uniti, aveva ripristinato la convertibilità della sterlina, ma vi rinunciò dopo appena trentasei giorni di fronte alla vera e propria corsa alle
sue riserve di dollari, moneta ritenuta ben più stabile di quella britannica. Gli stati europei mantennero le loro monete inconvertibili fino al 1958, quando si sentirono sicuri dell'andamento del commercio estero. D'altra parte la stabilizzazione dei cambi non poteva essere ottenuta di colpo e nel 1949-50 il Fondo monetario internazionale dovette concedere
sostanziose svalutazioni, che andavano assai al di là #05!
Storia degli ultimi cinquant'anni
del margine consentito, alla sterlina (il 30%), al fran-
co francese e alla lira italiana. Connesso a queste svalutazioni fu lo scarso ricorso al Fmi, nei primi anni del suo funzionamento, per mantenere i tassi di cambio definiti nel 1946. Nel 1947 il vero problema era che gli stati europei continuavano ad avere nei rapporti con gli Stati Uniti una bilancia commerciale nettamente deficitaria e, come già si è notato, vedevano sempre più assotti-
gliarsi le loro riserve in dollari e in oro. Il bisogno di dollari da parte dell'Europa costituiva però un problema anche per gli Stati Uniti. La macchina economica americana aveva girato a pieno ritmo negli anni
di guerra, ma dall’aprile del 1945 si era verificata l’attesa e inevitabile recessione. Questa toccò il suo culmine nel 1946, ma venne in parte superata quando i consumatori risvegliarono il mercato interno con i
risparmi forzati cui erano stati costretti per diversi anni, fintanto che l’industria aveva prodotto solo in funzione delle esigenze belliche. Nel 1946-47 (quando la produzione industriale americana rappresentava circa la metà di quella mondiale) la disoccupazione aveva fatto la sua ricomparsa ed era ormai essenziale per gli Stati Uniti poter ricominciare a esporta-
re verso l'Europa; ma questa non aveva dollari per acquistare ed era ben lontana dall’aver avviato la propria ricostruzione industriale. Già dagli ultimi mesi del 1945 gli Usa avevano rimpiazzato la scaduta legge “affitti e prestiti” con erogazioni di prestiti e di aiuti a fondo perduto, ma questi interventi di emergenza, che raggiungeranno nella
primavera del 1948 il valore di oltre 11 miliardi di dollari, non avevano risolto il problema. Il deficit commerciale dei paesi europei sarebbe arrivato a 8 22
La costruzione del nuovo sistema internazionale
miliardi di dollari nel 1947 e avrebbe aggravato una situazione già insostenibile. C'era da attendersi che il carovita e la disoccupazione facessero passare dagli scioperi e dalle agitazioni sociali a veri sommovimenti politici, specie in Francia e in Italia, dove i partiti comunisti avevano ottenuto buoni risultati elettorali nel 1946 e facevano parte dei governi di coalizione. Il 5 giugno 1947 il segretario di stato George Marshall annunciò un piano di aiuti economici non più di emergenza ma più profondamente orientato alla ricostruzione dell'Europa. Il discorso di Marshall ‘ebbe un tono ben diverso da quello di Truman di pochi mesi prima e si rivolse anche all'Unione Sovietica e all'Europa orientale, affermando che la politica americana non era diretta «contro alcun paese o dottrina, ma contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos». L'European recovery program (Erp), noto co-
munemente come “piano Marshall”, partiva dalla lezione degli anni trenta, quando i disordini economici avevano generato insicurezza, regimi politici autorita-
ri o fascisti e alla fine una seconda guerra mondiale; esso doveva giovare anche all'economia americana,
ma si poneva anche in continuità con i progetti di Roosevelt sul nuovo ordine mondiale e intendeva rafforzare la pace mondiale e le democrazie. Di fatto i ministri degli esteri francese e inglese cominciarono a discutere con quello sovietico Molotov i termini di attuazione del piano Marshall su scala continentale, ma l’Urss era disposta ad accettare solo rapporti bilaterali con gli Usa e rifiutò il principio . della gestione collettiva dei fondi Erp. La divisione politica dell'Europa si trovava nell'estate del 1947 a uno stadio troppo avanzato. Come era accaduto con il Fondo monetario internazionale, l'accettazione del 23
Storia degli ultimi cinquant'anni
piano avrebbe condizionato pesantemente il modello di politica economica proprio dell’Urss, obbligandolo ad aprirsi a intensi rapporti di scambio e collaborazione con stati capitalisti; più ancora, esso avrebbe
attratto verso l’area occidentale gli stati già entrati nell’area di influenza sovietica. Per conseguenza pae-
si come la Cecoslovacchia e la Polonia (nonché la Finlandia) dovettero ritrattare la loro iniziale disposizione ad accettare gli aiuti americani. Con tutta certezza il governo americano si aspetta-
va il rifiuto sovietico e anzi lo auspicava. Il piano Marshall coinvolse perciò i soli paesi dell'Europa occidentale, la Turchia e le zone di occupazione francese e anglo-americana della Germania; approvato dal Congresso nel maggio 1948, entro la fine del 1951 esso comportò l’erogazione (in massima parte a fondo perduto) di oltre 13,5 miliardi di dollari, sotto
forma di grano, carbone, petrolio, materie prime, attrezzature, il tutto gestito da appositi enti internazionali, l'Organizzazione europea per la cooperazione economica (Oece) e l’Economie Cooperation Administration. Alla stessa logica del Fondo monetario internazionale e dell’Erp, rafforzare le economie di mercato e il sistema del commercio internazionale, corrispose il General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt), il
trattato firmato a Ginevra nell’ottobre 1947 da trentatré paesi legati al blocco occidentale. Nella prospettiva di una non lontana instaurazione di un libero scambio generalizzato, esso prevedeva una graduale riduzione delle tariffe doganali in forma multilaterale, cioè senza che fossero ammessi accordi preferenziali e discriminazioni, e puntava all’obiettivo
ultimo del libero scambio. 24
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5. La formazione dei due blocchi politici e militari Il piano Marshall si era risolto in una operazione volta a consolidare i legami politici tra gli Usa e le democrazie dell'Europa occidentale e ad avviare la loro ripresa economica come miglior difesa di fronte alla penetrazione del comunismo. In maniera convergente con la dottrina Truman esso condusse alla fine all'esistenza di due blocchi politici e militari contrapposti. Dopo le incertezze e il crescere dei reciproci sospetti del 1945-46, il 1947 aveva visto la fine dell’originario disegno di Roosevelt con la divaricazione fra ordine economico e sistema internazionale: il pilastro di Bretton Woods, ora rafforzato dal
Gatt, avrebbe sorretto soltanto le economie capitaliste, mentre le economie socialiste, all’interno delle
quali la pianificazione aveva sostituito il mercato, decidevano di restare fuori dal mercato internazionale (scelta destinata a mantenersi fino agli anni settanta); l'Onu sarebbe diventato la sede delle denunce reciproche fra Usa e Urss. Già prima dell'annuncio del piano Marshall, nella primavera 1947 i primi ministri francese e belga, i socialisti Ramadier e Spaak, avevano estromesso dal governo i comunisti; lo stesso fece il presidente del consiglio italiano, il democristiano De Gasperi, che si liberò anche dei socialisti, stretti da un patto di alleanza con il partito comunista. Senza essere direttamente provocate dal governo americano, queste svolte politiche simultanee avevano con tutta evidenza lo scopo di andare incontro ai desideri degli Stati Uniti e di accrescere la sua buona disponibilità a | concedereaiutie prestiti. In corrispondenza (anche se ciò rispondeva a degli bi
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sviluppi autonomi) si verificava il pieno allineamento dei paesi “satelliti” dell’Unione Sovietica, dove la provvisoria permanenza di piccoli partiti con nessun peso politico fu soltanto una operazione di facciata. Quello della Polonia era avvenuto anche prima delle già ricordate elezioni truccate del gennaio 1947. In Bulgaria, dove un referendum aveva già istituito la repubblica, nell'agosto 1947 cominciò la liquidazione dei partiti rimasti al di fuori della coalizione di governo e poi l’assorbimento dei partiti che si erano alleati con i comunisti. In novembre anche in Romania vennero eliminati dal governo i ministri non comunisti e poco dopo il re lasciò il paese. In Ungheria, invece, i comunisti non riuscirono a vincere
neppure le elezioni non troppo regolari dell’agosto 1947, ma dopo che i socialdemocratici si furono fatti assorbire dai comunisti subito seguì lo scioglimento o l’epurazione degli altri partiti e le nuove elezioni del 1949 furono fatte su una lista unica presentata dal governo. Nel frattempo ultima a entrare totalmente nell’orbita sovietica era stata la Cecoslovacchia. Il 20 febbraio 1948 i ministri dei partiti moderati si dimisero, sperando di far nascere un nuovo governo senza i comunisti; ma il risultato di questa maldestra operazione fu il cosiddetto “colpo di Praga”: i comunisti, provocando manifestazioni di piazza in loro favore e mantenendo l’appoggio dei socialdemocratici, si impossessarono dell’intero governo. L’equidistanza della Cecoslovacchia era finita: Masaryk si suicidò (posto che non si trattasse di una messa in scena per coprire un delitto politico); segui-
rono elezioni su una lista unica e le dimissioni del presidente Beneî. La nascita ufficiale del “blocco sivienipt ‘era già 26
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avvenuta alla fine di settembre del 1947 con la costituzione del Cominform, che formalmente si presentava come un organismo di informazione e di coordinamento dei partiti comunisti europei, compresi quelli italiano e francese. L’impressione immediata in Occidente fu che era stata ricostituita la Terza internazionale (sciolta da Stalin nel marzo 1943 come gesto di buona volontà verso i suoi alleati) e che c’era quindi da temere una ripresa delle attività di sovversione comunista su scala mondiale. Di fatto la dichiarazione ufficiale della costituzione del Cominform (stesa dall’ideologo del Pcus Andrej Zdanov) riproponeva la dottrina della inevitabile contrapposizione frontale fra il campo imperialista e quello antimperialista, l'uno e l’altro orientati alla reciproca distruzione, dottrina che era già circolata nelle settimane e nei mesi precedenti fra gli esponenti teorici e politici del marxismo sovietico, accompagnata a volte dalla tesi che il capitalismo stava andando incontro a una crisi decisiva. Lo scopo del Cominform non era però quello di preparare la rivoluzione mondiale e di far avanzare con atti di forza la frontiera del mondo comunista,
ma quello di tenere sotto stretto controllo gli statisatellite dell'Europa orientale, nonché i partiti comunisti di quella occidentale. L'Unione Sovietica teneva prima di tutto al dominio politico di quest’area e solo in subordine alla diffusione in essa del comunismo; anche la riorganizzazione dei sistemi economici se-
condo il modello sovietico aveva soprattutto finalità politiche. La fase della riforma agraria, che fece scomparire la grande proprietà terriera, si accompa-
gnò alla lotta contro i partiti dei contadini e fu seguita dalla collettivizzazione (solo in Polonia questa fu 27
Storia degli ultimi cinquant'anni
più tardiva e solo parziale). Il primato attribuito all'industria pesante dette slancio ai settori della siderurgia e dell’elettricità, ma il sistema delle società miste a partecipazione sovietica e nazionale servì all’Urss per accedere a prezzi vantaggiosi alle materie prime dell'Europa orientale, come il carbone polacco o il petrolio rumeno. Ciò che l'Unione Sovietica si aspettava dai paesi “satelliti” dopo che la loro direzione era totalmente passata ai partiti comunisti era un pieno allineamento agli interessi della patria del socialismo. Anche gli Stati Uniti si aspettavano un appoggio totale da parte dei loro alleati dell'Europa occidentale, ma, essendo
in grado di offrire benessere e libertà, non avevano bisogno di trattarli apertamente da satelliti e di ricorrere alla coercizione. Al contrario l'Unione Sovietica stava appena uscendo, con le sue sole forze, dalle rovine della guerra ed era pronta a reagire con asprezza a ogni minaccia alla propria sicurezza. Ciò si vide con chiarezza quando cominciarono a manifestarsi le prime tensioni fra l'Unione Sovietica e la Jugoslavia, l’unico paese dove si era formato uno stato socialista in seguito alla lotta dei partigiani comunisti guidati da Tito, senza aiuto significativo da parte dell’Armata Rossa e perciò senza dover ospitare truppe sovietiche. La Jugoslavia di Tito si era manifestata in principio come il paese più attratto dalla dottrina della netta contrapposizione fra il campo socialista e quello capitalista e perciò la rottura con l'Unione Sovietica apparve a tutti come un evento imprevedibile. Allo stesso tempo, però, il partito comunista di Tito si era mostrato piuttosto restio ad accettarei consigli degli
| “esperti” sovietici presenti in Jugoslavia e aveva 28
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La costruzione del nuovo sistema internazionale
guardato con diffidenza alle società miste offerte dall’Urss, sviluppando inoltre proprie iniziative di politica estera: dall’aiuto offerto ai comunisti greci, alla sorta di protettorato esercitato sullo stato socialista sorto in Albania dopo la ritirata dell’esercito tedesco, ad alcune mosse per creare una propria area di influenza nei Balcani. Il 28 giugno 1948 il Cominform condannò come “nazionalista” la linea politica di Tito e invitò il partito comunista jugoslavo a sostituire i suoi dirigenti. Fallito questo tentativo, la Jugoslavia venne espulsa dal Cominform e, mentre Albania passava a far parte del blocco di Mosca, si trovò in completo isolamento e dovette anche temere un’aggressione militare sovietica.
Nel corso degli ultimi mesi era intanto proceduta la trasformazione delle provvisorie zone di occupazione tedesca in due veri stati separati. La conferenza dei ministri degli esteri dei quattro grandi tenuta a Londra nel novembre-dicembre 1947 fallì ancora nel tentativo di definire un trattato di pace, essendo evidente che gli anglo-americani volevano dare un governo provvisorio alla loro “bizona” e che stavano anzi costituendo una “trizona” assieme alla Francia. Nella Commissione di controllo che coordinava unitariamente l'occupazione tedesca i sovietici accusa-
rono gli altri tre stati di stare violando gli impegni di Potsdam; quella del 20 marzo 1948 fu comunque l’ultima riunione della Commissione. Contraria agli impegni di quattro anni prima era anche la creazione di un nuovo marco tedesco, avvenuta nel giugno . 1948, ormai un passo decisivo verso la creazione di
uno stato tedesco occidentale. Le autorità sovietiche procedettero allora alla riforma monetaria nella léro
zona di occupazione e inevitabilmente sorse la que29
Storia degli ultimi cinquant'anni
stione di quale moneta avrebbe dovuto circolare a Berlino. La dichiarazione alleata di voler estendere anche a Berlino Ovest il nuovo marco segnava anche la divisione dell’ex capitale. La reazione sovietica fu di chiudere tutte le vie di comunicazione terrestre fra Berlino e la Germania occidentale. Scopo del blocco, diventato rigidissimo alla fine di giugno, era di costringere gli occidentali a rinunciare ai loro propositi di rilancio economico della Germania Ovest, ma i sovietici non lo estesero anche ai “corridoi aerei” che erano stati concessi da precisi precedenti accordi, in parte per non aggravare la tensione, in parte perché sottovalutarono la potenza materiale degli Stati Uniti, consentendo loro di realizzare una grande dimostrazione di forza e una perfetta opera di propaganda. Per tutti gli undici mesi di durata del blocco centinaia di aerei atterrarono quotidianamente nell’aeroporto di Berlino Ovest (una media di circa 700 al giorno, con una punta di 1400 al giorno nell’aprile 1949, cioè uno al minuto), rifornendo i più di due milioni di abitanti di quella parte della città di combustibili, di prodotti alimentari e di ogni altro genere. Allo stesso tempo venivano trasferiti in Gran Bretagna bombardieri in grado di trasportare a grande distanza bombe atomiche. L’11 maggio 1949 l’Urss
dovette riconoscere la sua sconfitta politica e le strade e le ferrovie per Berlino furono riaperte. Fra il 1947 e il 1948, dunque, la diffidenza reci-
proca fra Usa e Urss era diventata una vero conflitto, anche se con il peculiare carattere di non sorpassare la linea che conduceva allo scontro armato diretto: una guerra “fredda”, come sempre più spesso si diceva, secondo l’espressione resa di uso comune dal
giornalista statunitense Walter Lippman con gliarti30
;
La costruzione del nuovo sistema internazionale
coli apparsi sul “New York Herald Tribune” già nell'estate 1947, al tempo del rifiuto sovietico del piano Marshall. Tutta una nuova terminologia strategica e propagandistica sorse per declinare il linguaggio della guerra fredda, a cominciare dall’idea, già lanciata
il 5 marzo 1946 da Winston Churchill in un discorso tenuto nella cittadina di Fulton nel Missouri, di una
“cortina di ferro” che i sovietici avevano steso da Stettino a Trieste ponendo nella loro sfera d’influenza tutte le storiche capitali dell'Europa centro-orientale: Varsavia,
Berlino,
Praga, Vienna,
Budapest,
Belgrado, Bucarest, Sofia. Conclusasi fra il 1945 e il 1946 la grande alleanza basata sul comune antifascismo, restava la divisione
fra democrazie “borghesi” e democrazie popolari, fra quelli che si autodenominavano “mondo libero” e “campo socialista”, accompagnata dalle accuse reciproche in termini di totalitarismo comunista e di progetto americano di dominio imperialista del mondo; e se gli occidentali parlavano della necessità di una politica di “contenimento” dell’espansionismo dell’Urss, questo rispondeva parlando di “accerchia-
mento capitalista”. La “Pravda” aveva parlato il 19 giugno 1947 di «cinismo della diplomazia deldollaro e della bomba atomica» e più tardi Andrej Zdanov, fornendo le basi teoriche al Cominform, aveva de-
nunciato «il desiderio degli imperialisti di scatenare una nuova guerra» (A. Werth, L'Unione Sovietica nel dopoguerra, 1971, pp. 260, 275); da parte americana George Kennan, il teorico della strategia del contenimento accolta nella “dottrina Truman”, poteva replicare che «l’importanza attribuita da Mosca alla minaccia che incombe sull’Urss... si fonda non sulla
| realtà di un antagonismo estero, ma sulla necessità di 31
Storia degli ultimi cinquant'anni
spiegare il mantenimento di un’autorità dittatoriale all’interno» (G. Kennan, Le origini della condotta sovietica, luglio 1947, p. 130).
Dall’una e dall’altra parte della “cortina di ferro” restava la convinzione che l'avversario intendeva estendere la propria area d’influenza, come mostravano da una parte le vicende della Grecia e della Cecoslovacchia, dall'altra il piano Marshall. Al pieno controllo politico e militare dell’Unione Sovietica nei paesi dell'Europa orientale corrispose così nell'aprile 1949 il Patto Atlantico, l’alleanza difensiva sottoscrit-
ta dagli Stati Uniti, dal Canada e da dieci paesi dell'Europa occidentale, «decisi a salvaguardare la libertà dei loro popoli, la loro eredità comune e la loro civiltà, fondate sui principî della democrazia, le
libertà individuali e il primato del diritto». L'anno dopo l'alleanza fece un ulteriore passo in avanti dandosi con la Nato (North Atlantic Treaty Organization) uno strumento militare d’intervento, con un coman-
do unificato e precise strutture operative. Dall’autunno del 1949 esistevano due Germanie, la Repubblica federale tedesca (Rft) e la Repubblica democratica tedesca (Rdt o Ddr): l’una, con capitale Bonn, governata dall'Unione cristiano-democratica (Cdu); l’altra, con capitale Pankow, un sobborgo di Berlino Est,
governata dai comunisti del Partito socialista unificato tedesco (Sed); la prima riconosciuta solo dal blocco occidentale e la seconda solo dal blocco orientale;
tutte e due non ammesse alle Nazioni Unite. 6. Le origini e le cause della guerra fredda
Se accettiamo la denominazione usuale di “guerra fredda” per descrivere i rapporti che per anni sareb32
La costruzione del nuovo sistema internazionale
bero intercorsi fra Usa e Urss, resta da chiedersi
quando questa guerra sia cominciata, cioè in quale momento esattamente vada collocata la svolta che fece precipitare dalla grande alleanza antinazista alla creazione di due blocchi politico-militari minacciosamente contrapposti e quali furono le sue cause di fondo. La fortuna ottenuta da una felice espressione giornalistica non dimostra ancora che siamo di fronte a un vero e proprio concetto, valido e utile per le scienze sociali; successivamente andrà perciò esami-
nata la questione decisiva dei caratteri e dell’originalità del sistema internazionale che corrispose al periodo della guerra fredda, mentre ci sarà modo di tornare più volte su un'ultima domanda: quando è finita la guerra fredda e quali diverse fasi ha attraversato, senza cambiare sostanzialmente di natura?
Alla prima domanda (l’inizio) si può ovviamente rispondere che la guerra fredda era in atto durante il blocco di Berlino, quando entrambe le parti svilupparono le ostilità reciproche lasciando capire che c’erano limiti che non avrebbero superato (forzare il
blocco terrestre o chiudere i corridoi aerei). Ma quanto indietro bisogna risalire per trovare il vero e proprio inizio? L'allarme lanciato a Fulton da Churchill (che in quel momento agiva da privato cittadino, non essendo più capo del governo) appare ex-post profetico, ma è in effetti troppo precoce: al principio del marzo 1946 molto restava ancora da decidere sul futuro dell'Europa e comunque non ci si era discostati in maniera drastica dagli accordi | presi a Mosca nell’ottobre del 1944 fra Churchill
| stesso e Stalin. Ancora più precoce sembra la data del 23 aprile 1945, quando, appena undici giorni dopo la morte di
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Storia degli ultimi cinquant'anni
Roosevelt, il ministro degli esteri sovietico Molotov fu ricevuto dal nuovo presidente Truman e trattato con modi incredibilmente villani e ingiuriosi per chi restava il rappresentante di una potenza alleata in un momento in cui la guerra non era ancora finita. È necessario soffermarsi un momento sulle ragioni della sfuriata. Secondo Truman i sovietici non stavano rispettando gli accordi di Jalta sulla Polonia e perciò gli Stati Uniti si sarebbero rifiutati di ammetterla alle Nazioni Unite. In realtà Truman sapeva di non avere del tutto ragione chiedendo la sostituzione del governo filosovietico allora esistente; la formulazione fati-
cosamente concordata a Jalta diceva che si doveva giungere alla costituzione di «un nuovo governo provvisorio polacco», ma precisava poi che questo
non comportava che il governo filosovietico dovesse essere sostituito, ma solo «riorganizzato su più ampie
basi democratiche
con l’aggiunta di personalità
democratiche nella Polonia stessa e di emigrati», cioè
inserendo alcuni rappresentanti di partiti non comunisti ed esponenti del secondo governo polacco allora esistente (quello che si era formato in esilio a Londra sin dall'inizio della guerra) e procedendo poi a libere elezioni. Pur convinto che Stalin non avesse alcuna intenzione di rispettare lo spirito dell'accordo, di fatto Truman lasciò ancora spazio alle trattative: gli Usa riconobbero il governo polacco (allargato dalla partecipazione del partito contadino, mentre il governo in esilio a Londra perse ogni appoggio) e votaro-
no a favore dell'ammissione della Polonia all'Onu. Per quanto riguarda la seconda questione (le cause), possiamo prima di tutto procedere per via empirica e ripercorrere gli eventi cercando di soppesare le | rispettive responsabilità, a cominciare da quelle qua34
La costruzione del nuovo sistema internazionale
si-dichiarazioni di guerra che furono nel 1947 da una parte la dottrina Truman (12 marzo) e dall’altra la dichiarazione di costituzione del Cominform (5 ottobre). Non c’è dubbio che nel 1946-48 gli Stati Uniti e i loro alleati violarono gli accordi di Potsdam sul mantenimento dell’unità tedesca, ma già nel 1946-47 l’Urss aveva violato gli accordi di Jalta sulle libere elezioni in Polonia. Ma prima ancora, nel 1944-45, non
era già accaduto che la Gran Bretagna trattasse come propria zona d'influenza la Grecia e anche l’Italia? Prevalendo ormai (come si è già notato) una logica | ben diversa da quella del nuovo ordine mondiale, a Stalin in fin dei conti importava ben poco dell’Italia e anche della Grecia, ma allora il dittatore sovietico
non poteva più ammettere che gli occidentali stabilissero condizioni sulla Polonia. Quanto al Giappone, a Jalta Roosevelt, prevedendo che la guerra del Pacifico sarebbe durata diversi mesi, aveva ancora bisogno dell’intervento sovietico
e perciò gli accordi allora stipulati stabilivano che questo sarebbe avvenuto entro due o tre mesi dalla resa della Germania. L’Urss dichiarò guerra 1 8 agosto 1945 attaccando le truppe giapponesi dislocate in Manciuria, ma Truman
aveva già optato per l’uso
della bomba atomica (il lancio su Hiroshima era avvenuto il 6 agosto e quello su Nagasaki fu effettuato il 9), anche allo scopo di chiudere subito la guerra e stabilire un pieno controllo sul Giappone prima che i sovietici ottenessero vantaggi significativi e quindi il diritto di far sentire la loro voce nell’area del Pa| cifico. Eppure Truman, così come aveva già fatto Roosevelt, chiedeva a Stalin di contentarsi di un governo amico in Polonia e non di farne una zona di
esclusiva influenza. 35
Storia degli ultimi cinquant'anni
Per questa via, ricercando un preciso evento allo stesso tempo inizio e causa e anche moltiplicando gli eventi e tenendo conto del clima di sospetto reciproco e dell'eventuale erronea valutazione delle intenzioni altrui, non si riuscirà ad arrivare a una conclu-
sione definitiva sulle origini della guerra fredda. Sorge allora, in alternativa, una risposta completamente diversa, cioè che vi era qualcosa di inevitabile nella fine dell’alleanza fra Usa e Urss, potenze portatrici di interessi strategici divergenti e di sistemi politici e modelli economici assai lontani fra di loro: il futuro economico del mondo stava per gli Stati Uniti nella crescita del commercio
internazionale, nella
libertà di accesso ai mercati e alle risorse degli altri paesi; il sistema sovietico della pianificazione rispondeva a una logica del tutto diversa e, dopo aver preso in considerazione per un breve momento sia Bretton
Woods che il piano Marshall, l'’Urss tornò alla sua visione dello sviluppo economico, sostanzialmente autarchica. A ciò occorre però aggiungere che le due potenze erano portatrici anche e soprattutto di visio-
ni del mondo universaliste contrapposte, che implicavano la volontà di applicare ovunque i rispettivi modelli e che conducevano a denominare “imperialismo” e “totalitarismo” il modello altrui. Pur essendo vero che i comportamenti effettivi degli attori della politica sono in parte determinati dalle ideologie, questa risposta dà l’impressione di sopravvalutare la loro importanza (e non riesce a distinguere fra ideologie e propaganda) e dovrebbe condurre a concludere, come diversi studiosi hanno
fatto, che la guerra fredda era cominciata molto prima: se non proprio dal 1917, almeno dal momento in cui si era concluso lo scontro diretto fra comu36
La costruzione del nuovo sistema internazionale
nismo e capitalismo, con il duplice fallimento della rivoluzione mondiale e della controrivoluzione bianca appoggiata dagli stati capitalisti. Se vogliamo cogliere l’originalità del fenomeno della guerra fredda — che non aveva in effetti alcun precedente nella storia del sistema internazionale degli ultimi secoli —, a fianco (e ovviamente non in sostituzione) degli interessi strategici e delle ideologie dobbiamo mettere altri fattori e diventa assai proficuo riflettere sul diverso concetto di bipolarismo, considerando la guerra fredda solo una sua conseguenza. È utile notare qui il doppio piano che orientò il discorso pronunciato da Stalin il 9 febbraio 1946. Da un lato il dittatore sovietico considerava, in
base alla teoria leninista della guerra, la seconda guerra mondiale, non diversamente dalla prima, con-
seguenza delle contraddizioni interne del sistema mondiale capitalistico e lasciava quindi intendere che finché esisteva il capitalismo restava alto il rischio di una nuova guerra: fin qui c’era l’ideologia dell’inevitabilità del conflitto. D’altro canto Stalin diceva anche che la seconda guerra mondiale era stata ben diversa dalla prima, perché aveva visto sorgere una coalizione antifascista e alla fine era stata vinta da «noi assieme ai nostri alleati». Le forze in gioco erano infatti state molteplici e ben distinte (l'Asse, la Gran Bretagna e la Francia con i loro imperi, gli Stati Uniti, l’Urss). Gli esiti della guerra avevano fatto degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica le due sole grandi potenze mondiali, ponendole a diretto con| tatto in Europa lungo la “cortina di ferro” e annientando o relegando in secondo piano le altre che esistevano in precedenza. —_ Nell’Europa del XVIII e XIX secolo e anche dei 37
Storia degli ultimi cinquant'anni
primi decenni del XX aveva dominato un sistema multipolare tendente all'equilibrio o al “concerto”, nel quale l’egemonismo di una delle potenze poteva essere compensato dal mutevole gioco delle alleanze e alla fine dal ricorso alla guerra. In un sistema del genere (a definirlo basta l’esistenza minima di tre membri, ma più ce ne sono e meglio funziona) i contrasti politici difficilmente assumevano una veste ideologica, perché continuamente avvenivano rimescolamenti nelle alleanze e le grandi potenze non mettevano in dubbio la loro appartenenza alla comune civiltà europea; è notevole il fatto che la Grande
guerra, con il suo iniziale gran dispiegarsi di motivazioni ideologiche, venne al seguito della semplificazione delle alleanze negli anni attorno al 1900 e del loro irrigidimento bipolare, con i due blocchi dell’Intesa e degli Imperi centrali. In un sistema ancor più bipolare o tendenzialmente tale (consacrato nel nostro caso dalla rinuncia della Gran Bretagna, nel febbraio 1947, a svolgere una parte autonoma nel Mediterraneo) il ruolo dei mutamenti liberi di alleanza da parte dei soggetti statali minori diventa poco rilevante. Le due grandi potenze si fronteggiano da sole e l'alternativa a una guerra apocalittica è la guerra fredda; questa è “inevitabile” in quanto conseguenza del bipolarismo. La guerra fredda inerente al bipolarismo resta un fenomeno ben diverso dalla formale cortesia diplomatica che in altre epoche aveva coperto i conflitti fra potenze e anche ben diversa dalle fasi di più gravi tensioni che di tanto in tanto si manifestavano re-
stando entro il gioco diplomatico o dalla stessa corsa
agli armamenti degli anni antecedenti al 1914. La guerra fredda è una vera guerra già in atto, orientata
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nl
La costruzione del nuovo sistema internazionale
ad annientare la potenza dell’avversario, con tutti i mezzi diretti e indiretti che stanno al di qua della soglia fatale. Prima di tutto i mezzi della guerra psicologica, quali la propaganda e le false notizie; ma la guerra fredda non fu solo una guerra di parole, perché comportò i tentativi di sovversione nel campo altrui e, come vedremo, tanto la strumentalizzazione
di ogni situazione di tensione mondiale, qualunque fosse la sua origine, quanto il ricorso al confronto bellico indiretto nelle molteplici occasioni di conflitti locali. Benché a rigore sarebbe ancora necessario stabilire se in genere il bipolarismo possa evolvere verso una “coesistenza pacifica”, resta vero che se il bipolarismo produce la guerra fredda, a maggior ragione questa avrà una forte valenza ideologica. Come ha scritto Richard Crockatt (Cinquant'anni di guerra fredda, 1995, p. 129), accentuando l’elemento
di paradosso inerente alla tesi “realista”, «il conflitto ideologico diede certamente alla guerra fredda la sua caratteristica intensità quasi religiosa, ma è difficile credere che la relazione fra Stati Uniti e Unione Sovietica sarebbe stata al riparo da conflitti, anche qualora entrambi avessero posseduto sistemi politici e valori sociali simili». Questo ci riconduce a considerare il significato della conferenza di Jalta. Nel febbraio 1945 P'Urss aveva già vinto la sua guerra. Gli accordi di Jalta prendevano atto di una divisione dell'Europa già avvenuta e non ne erano la causa diretta, ma allo stes-
so tempo cercavano di portare i “grandi” (tre, contando ancora la Gran Bretagna) a guardare da un punto di osservazione più alto delle loro zone d’influenza e ad associarsi in una gestione comune della pace e dell’ordine mondiale: «unità per la pace come DL)
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Storia degli ultimi cinquant'anni
per la guerra», si intitolava il capitolo IX della dichiarazione finale, mentre il capitolo V, la «Dichiarazione sull'Europa liberata», vedeva le tre potenze fiduciose nella possibilità di superare i problemi del dopoguerra garantendo ai popoli pace, libertà e democrazia. Che probabilità di successo aveva questo progetto, caldeggiato soprattutto da Roosevelt? Ciò che è veramente essenziale notare è che, tuttavia, nel 1945 come anche nel 1947 il bipolarismo era ancora imperfetto e limitato solo all'Europa. Accanto alla portata già realmente mondiale della supremazia degli Usa esisteva soltanto una Unione Sovietica gravemente colpita dalle distruzioni belliche e desiderosa di procurarsi una fascia di sicurezza in Europa orientale. La stessa espressione “bipolarismo” rischia di anticipare troppo i fatti e fa scivolare erroneamente verso l'epoca successiva, quella dell’equilibrio del terrore fondato sul possesso delle armi atomiche da parte di entrambe le potenze. Più che di bipolarismo puro e semplice sarebbe forse meglio parlare di bipolarismo asimmetrico, reso possibile da una particolare circostanza geopolitica. Usa e Urss
non avevano frontiere comuni e il loro punto di incontro e tensione si verificava in Europa: alla minaccia sempre più globale (e per diversi anni unilateralmente atomica) che gli Stati Uniti furono in grado di esercitare contro l’Urss, questa poteva rispondere, meglio che con la sovversione o le guerriglie in Asia e più tardi in Africa e in America Latina, con la sola minaccia nei confronti dell'Europa occidentale esercitata soprattutto con un esteso dispiegamento di truppe convenzionali, che manterrà la sua superiorità per quarant'anni. Se si mettono a parte il caso della Polottigi vittima
k
tal
La costruzione del nuovo sistema internazionale
prima di tutto della sua collocazione geopolitica, e quelli della Romania e della Bulgaria, meno contestati da Stati Uniti e Gran Bretagna, l’Urss mostrò però di credere ancora fino a buona parte del 1946 che la
sua sicurezza poteva essere compatibile con il progetto di ordine mondiale. La guerra comunista in Grecia fu poi interpretata dagli Stati Uniti come un tentativo direttamente provocato dall'Unione Sovietica di forzare gli equilibri quali si erano costituiti in Europa. È molto probabile che il discorso di Truman intendesse drammatizzare la situazione allo scopo di isolare con il tema dell’anticomunismo le tendenze isolazioniste;
queste erano tornate prevalenti nel Congresso dopo la vittoria repubblicana alle elezioni del novembre 1946 e potevano opporsi alla “dottrina” presidenziale, che comportava una netta fuoriuscita da quelle che erano considerate zone di interessi vitali per gli Stati Uniti (l'America centrale e meridionale, il Pacifico).
Mettere anche il Mediterraneo e l'Europa fra queste zone era veramente un fatto nuovo. Ma la Grecia fu in gran parte un pretesto: la dottrina Truman e il piano Marshall costituivano indubbiamente già atti di guerra fredda, una sfida lanciata all’altro elemento del bipolarismo europeo, che venne da questo immediatamente raccolta: conformemente alla sua natura di sistema monolitico e dispotico, ma anche in difesa dei propri interessi, l’Urss ridusse a vassalli e vittime senza voce i paesi europei sotto il suo controllo, compresa la Germania orientale. Ma non si può neppure attribuire alla dottrina Truman tutta la responsabilità di primo e unilaterale atto della guerra fredda e dare un ruolo determinante al passaggio da Roosevelt al suo successore. Essa fu piuttosto una nuova presa d’atto, certo meno lun-
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Storia degli ultimi cinquant'anni
gimirante e coraggiosa di quella che faceva da presupposto al grande disegno proposto da Roosevelt ai suoi interlocutori a Jalta (e che fu in seguito considerata un atto di ingenuità se non una resa): cioè che il nuovo sistema delle relazioni internazionali prodotto in Europa dalla guerra era e poteva essere solo un sistema bipolare. Questo era soltanto l’inizio della guerra fredda. Lanciata in Europa, la sfida del bipolarismo si sarebbe successivamente estesa al mondo intero, con tutti i confitti politici, sociali, ideali che si venivano manifestando in tutti i continenti, rafforzando le condi-
zioni che affidavano alla guerra fredda stessa il mantenimento dell’equilibrio.
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43
2. La prima fase della decolonizzazione, 1945-1950
1. La crisi degli imperi coloniali alla fine della seconda guerra mondiale Come già era accaduto alla fine della Grande guerra, il dominio dei paesi europei sui propri imperi coloniali si trovò nel 1945 assai indebolito, e questa volta in modo irrimediabile. Le spinte anticoloniali erano state accelerate dalla crisi degli anni trenta e, dall’Indonesia al Marocco, si erano tradotte nella
formazione di partiti e movimenti (riformisti, nazionalisti o comunisti) con venature anticapitalistiche più o meno accentuate. Pur nelle loro diverse forme, tali movimenti erano riconducibili a un unico elemento comune: il passaggio dalle ribellioni spontanee a un consapevole programma di indipendenza. L'inizio della guerra aveva accresciuto le pressioni delle grandi potenze sulle proprie colonie. Come e più che durante il primo conflitto mondiale, le potenze imperiali mobilitarono le risorse materiali delle colonie per i propri fini, mentre uomini di tutto il mondo, dall’India al Nordafrica, furono arruolati e mandati a combattere in Europa per cause a loro ignote. La guerra stessa, cominciata, ancor più di
. quella di venticinque anni prima, come puro conflitto europeo, aveva finito per coinvolgere regioni e na-
zioni di tutti i continenti del mondo. Il momento decisivo fu indubbiamente la rapida espansione giap45
Storia degli ultimi cinquant'anni
ponese nei mesi successivi all'attacco del 7 dicembre 1941 a Pearl Harbour. In tutta l’area del sudest asiatico — Filippine, Indonesia, Indocina, Malesia, Birmania — la dominazione coloniale europea crollò totalmente e l'eliminazione degli antichi poteri statunitensi, olandesi, francesi e inglesi fu compiuta con
senso politico e facendo uso di un’abile propaganda. I militari giapponesi potevano in effetti presentarsi
come forze asiatiche che venivano a liberare altri popoli asiatici dal dominio europeo e prospettare la costruzione di una grande zona di “prosperità comune”. In molti casi essi furono davvero accolti come liberatori e i movimenti nazionalisti si mostrarono a
un certo punto disponibili a collaborare con chi aveva dimostrato che era possibile battere e umiliare i vecchi padroni. Per un momento (1943-44) anche in India alcuni esponenti di prestigio del movimento nazionalista (Subhas Chandra Bose e i suoi seguaci) puntarono sulla vittoria del Giappone e stabilirono contatti anche con la Germania nazista, costituendo
un proprio esercito ufficialmente in guerra contro Stati Uniti e Gran Bretagna e prestando la loro collaborazione alla guerra condotta dai giapponesi in Birmania. La propaganda giapponese mostro però ben presto i suoi limiti e la sua vera natura e, ancor prima che le
sorti della guerra cominciassero a mutare, i movimenti anticoloniali si posero a combattere anche i nuovi padroni. Il caso più significativo è quello del Vietnam, dove le truppe giapponesi avevano formalmente lasciato in piedi il governo coloniale francese, in quanto emanazione del governo collaborazionista
di Vichy, ma avevano allo stesso tempo offerto il lor appoggio ai partiti e movimenti nazionalisti. Avev: dé
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‘
dé.
La prima fase della decolonizzazione
invece proclamato una duplice lotta — contro i francesi di Vichy e contro i giapponesi, che potevano essere qualificati entrambi come fascisti — il Viet-Minh, il Fronte per l’indipendenza del Vietnam, di orienta-
mento comunista e guidato dall’esperto dirigente Ho Chi Minh. Nel marzo 1945 i giapponesi decisero di utilizzare nuovamente l'arma anticoloniale ed eliminarono quel che restava dell’autorità francese in tutta l’Indocina. Con il loro consenso l’imperatore Bao Dai, che conservava un titolo semplicemente onorifico sulla parte centrale del Vietnam (l’Annam), pro| clamò l’indipendenza dell’intero paese, comprese le altre due province del Tonchino e della Cocincina; ma il Viet-Minh si tenne fuori da questa operazione e sei mesi dopo poté a sua volta, e con maggiore auto-
rità, proclamare la repubblica. Anche all'altra estremità degli imperi coloniali afro-asiatici, in Nordafrica, in Egitto e in Medio Oriente, le forze nazionaliste avevano dimostrato durante la guerra evidenti simpatie filonaziste, ben-
ché ciò non avesse particolari implicazioni ideologiche e fosse solo un modo per manifestare l'ostilità nei confronti dei francesi e degli inglesi. Ma alla fine del 1942 la minaccia tedesca era stata sventata e l’area dei paesi arabi tornava, almeno apparentemente, sotto il controllo delle potenze coloniali. Mentre la Francia si preparava a ristabilire il suo potere in Vietnam (vedi p. 82) fu in Indonesia che la . restaurazione degli imperi coloniali cominciò a . dimostrarsi impossibile. Il 17 agosto 1945 Ahmed — Sukarno, che dal 1927 era a capo del movimento na. zionalista antiolandese e che aveva accettato di colla|borare con i giapponesi per rafforzare la sua influenza, proclamò
l’indipendenza dell’Indonesia
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e ne
Storia degli ultimi cinquant'anni
divenne il primo presidente. Gli olandesi, come per lo più fecero le potenze coloniali, offrirono in principio al partito nazionalista di entrare a far parte di una unione olandese-indonesiana, una forma di associazione in qualche misura analoga a quella dei dorz:nions della corona d'Inghilterra, che prevedeva l’autonomia interna dell'Indonesia, ma con numerose li-
mitazioni alla sua sovranità. Allo stesso tempo l'Olanda non rinunciò all'uso della forza e giunse a inviare fino a 145 000 soldati a Giava e a Sumatra. Questo impegno militare e politico era però superiore alle possibilità concrete dell'Olanda e venne inoltre a rivelarsi incompatibile con il nuovo ordine internazionale. Anche se non solo per motivi ideali e altruistici, l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti erano favorevoli alla liquidazione degli imperi coloniali. Il governo americano aveva così proceduto alla riconquista delle Filippine con l’intendimento di dare subito l’indipendenza alla sua ex colonia, cosa che avvenne nel
luglio 1946 (ma gli Stati Uniti conservarono l’uso di basi militari). Nella stessa direzione andavano i principi ispiratori delle Nazioni Unite, che sollecitarono la fine reale dei vecchi “mandati” della Società delle Nazioni in Medio Oriente e il ritiro delle truppe francesi da Libano e Siria e istituirono amministrazioni fiduciarie sotto il loro diretto controllo e con scadenze brevi nelle ex colonie italiane in Africa. Il movimento anticoloniale indonesiano che faceva capo a Sukarno era strettamente nazionalista e non c’era pericolo che fosse inquinato da elementi comunisti; ma in Indonesia, come pure nelle Filippine e nelle colonie inglesi di Birmania e Malesia, esistevano anche movimenti comunisti pronti a scatenare la
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La prima fase della decolonizzazione
guerriglia, e c’era piuttosto da temere che la loro influenza crescesse se non venivano soddisfatte le aspirazioni all'indipendenza. Per conseguenza gli Stati Uniti si opposero risolutamente alla politica olandese
di riconquista,
condannata
anche
dal
Consiglio di sicurezza dell'Onu. Rimasta completamente
isolata, l’Olanda
dovette
riconoscere
nel
dicembre 1949 la sovranità del governo di Sukarno su Sumatra, Giava e le altre isole che avevano costi-
tuito le Indie olandesi. :2. L'indipendenza dell’India e la formazione del Pakistan
L'inizio della seconda guerra mondiale si verificò mentre in India era stata messa da poco alla prova la nuova costituzione del paese approvata dal parlamento inglese nel 1935 (Government India Act). Essa accresceva i poteri autonomi delle province indiane, le cui assemblee parlamentari sarebbero state elette da un corpo elettorale definito in base alla proprietà ma relativamente esteso. Il partito del Congresso, nel quale si esprimeva il movimento indipendentista indiano, aveva in principio rifiutato la riforma, ben lontana dalla richiesta di indipendenza totale, ma aveva poi valutato i vantaggi della partecipazione alle elezioni provinciali, che si svolsero nel 1937-38 confermando la crescente forza del partito nazionale di Gandhi. I limiti dell'autonomia concessa dalla Gran Bretagna si rivelarono il 3 settembre 1939, quando gli indiani furono informati che il loro paese era in guer-
‘ra con la Germania senza che il governo britannico avesse ritenuto opportuno guadagnarsi il consenso del partito del Congresso. Subito ripresero le satya49
Storia degli ultimi cinquant'anni
graha, le campagne di disobbedienza civile improntate al metodo della non violenza. La situazione precipitò quando nel dicembre 1941 l'India si ritrovò in guerra anche contro il Giappone, che tre mesi dopo occupava Singapore e poteva avanzare speditamente verso la Malesia e la Birmania. Se la Gran Bretagna non voleva veder minacciata la stessa India, era indispensabile ottene-
re la collaborazione del ceto politico indiano; ma gli esponenti del partito del Congresso rifiutarono ogni offerta che non contemplasse la piena e immediata indipendenza. Alla nuove manifestazioni di protesta condotte all’insegna della parola d’ordine “Via dall'India” e trasformatesi spesso in insurrezioni gli inglesi risposero operando migliaia di arresti e colpendo fra gli altri lo stesso Gandhi. Di fatto l’India fu costretta a partecipare al conflitto, soprattutto sul fronte birmano ma anche su altri più lontani, con due milioni di soldati e centomila caduti e venendo colpita nel 1943, in seguito alla disorganizzazione provocata dalla guerra, da una carestia che fece oltre un milione di vittime. L'Inghilterra si dimostrò tuttavia sempre meno in grado di resistere alle pressioni indipendentiste. Scarcerato Gandhi nel maggio 1944, ripresero le trattative per l'indipendenza tra il Congresso e il governo britannico, facendosi più intense dopo che le elezioni del luglio 1945 ebbero trasferito la maggioranza nel parlamento di Londra dal partito conservatore a quello
laburista. Dal marzo 1947 lord Mountbatten fu l’ultimo viceré inglese in India, incaricato di condurre rapidamente a termine l’operazione.
- Fra le ragioni che stavano portando l’India al ca e che spingevano ora il governo laburistaa liberars * 50
La prima fase della decolonizzazione
il più presto possibile da ogni responsabilità nel paese vi erano le crescenti ostilità fra gli induisti e la forte minoranza dei musulmani, eredità storica dei secoli di dominazione di arabi, turchi e imperatori
Moghul. Per lungo tempo gli inglesi avevano favorito la popolazione induista e le loro élite, utilizzando
il ricordo dell’oppressione dei Moghul e dell’anarchia che aveva accompagnato la loro decadenza; ma,
via via che negli anni venti e trenta era montato il movimento nazionalista del Congresso, essi avevano
cominciato a prestare maggiore ascolto alle ragioni dei musulmani. Gandhi era ben consapevole del fatto che l’India era una realtà fortemente composita, con una dozzina di lingue (contando solo quelle principali), molteplici gruppi etnici e diverse religioni (oltre ai due maggiori gruppi induisti e musulmani c'erano le consistenti minoranze di sikh, cristiani, buddisti, jainisti, parsi): o l'indipendenza avrebbe coinvolto l'India nel suo complesso o il paese si sarebbe avviato verso guerre religiose senza fine e verso la dissoluzione. In effetti ancora al principio degli anni trenta la maggioranza dei musulmani si sentiva rappresentata meglio dal partito del Congresso che dalla Lega Musulmana (costituita nel 1906). Uno degli stessi leader, della Lega, Ali Mohammad Jinnah, decise nel 1931 di lasciare la politica attiva e di trasferirsi a Londra. Fu a Londra che in questi anni cominciò a circolare fra gli studenti indo-musulmani il nome fino ad allora sconosciuto di Pakistan (“terra dei puri”),
| creato per indicare un paese dai confini vaghissimi ° perché non era mai esistito storicamente e, per il i‘momento, trovava sede soltanto nell’immaginazione
i dipochi intellettuali. Solo dal 1940 Jinnah, tornato 51
Storia degli ultimi cinquant'anni
intanto in India, e gli altri capi della Lega cominciarono a parlare non solo dei diritti dei musulmani ma della separazione di una “patria pakistana”. Nel 1947, mentre si moltiplicavano gli scontri armati fra induisti e musulmani, il maggior sostegno offerto durante la guerra dalla Lega alla politica inglese venne premiato. Il 15 luglio il parlamento britannico votò l’indipendenza dell’India, che sarebbe decorsa esattamente un mese dopo, facendo nascere due stati diversi, l’Unione indiana e il Pakistan (che
includeva anche, separato da mille e cinquecento chilometri, il Bengala orientale). Nelle ultime settimane che precedettero il 15 agosto fu il terrore di ritrovarsi in uno stato retto da una religione estranea a redistribuire la popolazione fra i due stati: una massa umana valutata fra i dieci e i diciassette milioni oltrepassò con tutti i mezzi in un senso e nell’altro le nuove frontiere prima che queste si chiudessero per sempre e in questo gigantesco esodo duecentomila di loro (ma secondo altre valutazioni cinquecentomila o anche più di un milione) trovarono la morte, vittime degli odi religiosi. Nonostante questi trasferimenti, le popolazioni dell'India e del Pakistan risultarono entrambe composte per circa il 10 per cento rispettivamente di musulmani e induisti. Gandhi, che aveva fatto di tutto per evitare la divisione, fu accusato dagli induisti di aver concesso troppo ai musulmani e cadde assassinato da un fanatico il 30 gennaio 1948. Questi conflitti religiosi avevano in parte radici lontane, ma in parte erano un prodotto di trasformazioni recenti: lo sviluppo di un’India più moderna,
che spingeva al superamento del vecchio ordine fon dato sulle gerarchie delle caste e sulla esistenza segre 52
La prima fase della decolonizzazione
gata di più religioni, etnie e gruppi linguistici, tendendo verso una società più semplice e omogenea e uno stato più forte. In India la fine del colonialismo si realizzò attraverso un movimento che, come quelli nazionalisti o di orientamento comunista di tutta l’Asia sud-orientale e orientale, doveva realizzare un programma di rapida modernizzazione economica e
sociale del paese riuscendo a combinare le due esigenze non agevolmente compatibili dell'identità e dello sviluppo. Da un lato occorreva infatti liberarsi da ogni eredità del dominio europeo affermando una propria autonoma individualità e valorizzando il proprio passato storico e la tradizione religiosa e culturale; dall’altro le élite intellettuali e politiche, promosse dalla stessa dominazione europea, sapevano che era inevitabile accettare non pochi elementi di origine occidentale: la scienza, la tecnica, l’organizzazione politica e amministrativa, taluni principi giuridici che finivano per toccare questioni essenziali come la rappresentanza politica, l’uguaglianza di fronte alla legge o la condizione della donna. Era un dilemma che toccava tutti gli stati di nuova indipendenza e che nel XIX secolo e al principio del XX aveva, una dopo l’altra, in vario modo coinvolto tutte
le vecchie società del Medio Oriente e dell'Asia: l'Egitto, l'impero turco, il Giappone della restaurazione Meiji, la Cina di Sun Yatsen. Gandhi (le cui dottrine non derivavano peraltro solo dall’induismo ma erano state influenzate anche dall’umanitarismo di Tolstoj) e Jawaharlal Nehru rap-
presentavano le due contrastanti anime dell’anticolo|nialismo. Divenuto primo ministro dell’Unione indiana, Nehru fece della modernizzazione l’obiettivo nediato della propria azione politica. La costitu53
Storia degli ultimi cinquant'anni
zione, elaborata da un'assemblea costituente nel 1949 ed entrata in vigore nel gennaio 1950 si poneva in
continuità con il costituzionalismo occidentale. L'India diventava uno stato federale e la più popolata democrazia parlamentare del mondo, con 360 milioni di abitanti e 173 milioni di potenziali elettori. Dopo l’indipendenza fu soppressa la condizione di intoccabile e sparì la poligamia, mentre la parità tra i sessi veniva promossa concedendo il diritto di voto alle donne, elevando l’età legale minima per il matrimonio, vietando la sottrazione dei diritti alle vedove.
Lo stato si fece promotore di industrializzazione e di ma i problemi da risolvere fabetismo (più dell’80 per
di un accelerato processo sviluppo dell’agricoltura, erano immensi, dall’analcento della popolazione)
alla scelta di una lingua ufficiale, dal ripresentarsi
delle carestie al superamento del sistema delle caste. La scarsa omogeneità dell’India fu all’origine di una lunga serie di altri problemi. Lo stato venne rafforzato abolendo gli oltre 500 principati indipendenti cui il governo inglese aveva concesso di sopravvivere; molti di questi erano
minuscoli, ma
altri,
come l’Hyderabad (che fu soppresso con la forza), avevano grandi dimensioni. Sparirono inoltre gli ultimi possessi coloniali francesi e portoghesi. Fra le questioni più complesse vanno ricordate quelle del Kashmir e del Punjab. Il maharaja del Kashmir, induista ma a capo di una popolazione in grandissima maggioranza musulmana, volle nel 1947 che il principato fosse annesso all'India; da ciò derivò nel. 1948 una guerra indo-pakistana che condusse alla divisione del paese, lasciando una linea di armistizi che, dopo che l’India ebbe annesso la sua zona c occupazione (nel 1957), non ha prodotto fino a 0g, 54
ia
La prima fase della decolonizzazione
una pace definitiva. Sin dal 1947 il Punjab venne diviso fra Pakistan e India e vide emigrare in India i sikh della parte pakistana. Nella parte indiana presto esplosero conflitti religiosi fra gli induisti e i sikh, che si ritenevano discriminati e che nel 1966 ottennero l'elevazione a stato della parte del Punjab dove costituivano la maggioranza. 3. La vittoria dei comunisti in Cina
| Tra le guerre di resistenza che si svolsero assieme alle vicende del secondo conflitto mondiale un posto del tutto particolare va dato, per le sue dimensioni e le sue conseguenze, a quella opposta dalla Cina all’invasione giapponese. Essa, si può dire, costituì una sorta di guerra nella guerra che anticipò l’inizio del conflitto generale, con l’invasione della Cina da parte dell’esercito giapponese nel luglio 1937, e si concluse nell'agosto del 1945, con la capitolazione del Giappone. Di fronte all'avanzata dei giapponesi, che occuparono la Cina settentrionale e presero nel novembre anche la capitale del Kuomintang, Nanchino, il governo nazionalista di Chiang Kai-shek fu costretto a trasferirsi nella provincia interna del Sechuan. Già qualche mese prima dell’invasione le pressioni esercitate dall'Unione Sovietica, che intendeva applicare anche in Cina la politica del fronte unitario antifascista, avevano condotto a un riavvicinamento fra il
Kuomintang e le forze comuniste di Mao Zedong, raccolte dopo la “lunga marcia” del 1934-35 nello Yenan. Il Kuomintang, che negli anni precedenti si era preoccupato più di combattere icomunisti e terrorizzare icontadini in rivolta che di opporsi ai giapponesi, dando loro l'opportunità di occupare nel 55
Storia degli ultimi cinquant'anni
1931 la Manciuria, era in gran parte responsabile del nuovo disastro. Ma il salto compiuto dalla minaccia giapponese, ormai impegnata a impadronirsi totalmente della Cina, persuase nazionalisti e comunisti,
che si erano combattuti aspramente nel decennio successivo al 1927, a unire le loro forze. Furono tuttavia i comunisti, forti della lunga esperienza di attività a diretto contatto con le masse contadine più povere, a combattere con maggiore efficacia l’esercito invasore, adottando la tecnica della guerriglia con il determinante supporto della popolazione dei villaggi. Mao Zedong seppe dare alla sua guerra il carattere di lotta nazionale, coinvolgendovi la grande maggioranza dei cinesi, mentre il Kuomintang si rivelò sempre più un regime autoritario e corrotto, incapace di procurarsi un sia pur minimo consenso po-
polare. Tanto per gli Stati Uniti che per l'Unione Sovietica era però Chiang Kai-shek a rappresentare la Cina e fu con il capo dei nazionalisti, considerato come il quarto “grande”, che Roosevelt si incontrò nel novembre del 1943 al Cairo per concordare le modalità della resa senza condizioni del Giappone. Più tardi a Jalta, nel febbraio del 1945, Stalin si fece garantire da Roosevelt, in cambio della dichiarazione di guerra al Giappone, una serie di clausole che entrarono a far parte degli accordi fra itre grandi; queste annullavano la vecchia sconfitta della Russia zarista da parte del Giappone e concedevano nuovamente all'Unione Sovietica le vantaggiose posizioni sulla Cina possedu-
te nel 1904 (Stalin ottenne anche che nel testo dell l'accordo entrasse la formula «gli antichi diritti d Russia violati dalla perfida aggressione giapponese» infatti, oltre al recupero della metà meridionale dell’ 56
La prima fase della decolonizzazione
sola di Sakhalin e all’annessione dell’arcipelago delle Curili, VUrss otteneva il condominio sulle ferrovie
della Manciuria e un ampio controllo rispettivamente militare e commerciale sui due porti cinesi di Port Arthur e Dairen (Luùshun e Dalian per i cinesi) posti in posizione strategica all'ingresso del mare di Bo Hai, di fronte alla regione di Pechino. Nei mesi successivi Stalin continuò a considerare il Kuomintang il vero governo legittimo della Cina e fu con Chiang Kai-shek che il 14 agosto 1945 l'Unione Sovietica firmò il trattato che dava attuazione agli accordi di : Jalta. Nel successivo mese di ottobre Mao e Chiang si incontrarono ancora per concordare il proseguimento della loro collaborazione. In realtà Chiang Kai-shek, godendo dell’appoggio degli americani e del riconoscimento sovietico, si sentiva abbastanza forte da rompere l’unità d’azione con i comunisti e riaprire la guerra civile. Nel dicembre 1945, affinché potesse riprendere la collaborazione fra il Kuomintang e il partito comunista cinese, il presidente americano Truman inviò in Cina il generale George Marshall; ma nel giro di pochi mesi questi si rese conto che la creazione di un governo di unità nazionale era impossibile e che i capi del Kuomintang non intendevano accettare alcun consiglio di moderazione, sicuri di poter contare fino alla vittoria dell’aiuto americano. Se si pensa ai futuri sviluppi della guerra fredda in Asia orientale, la situazione del 1945-46 presenta qualcosa di paradossale: gli Stati Uniti trovavano molto scomoda l’alleanza
. con il Kuomintang e si rendevano conto che questo
| non era né in grado di battere i comunisti né di governare la Cina senza la loro collaborazione; per contro Stalin non credeva nella vittoria dei comuni57
Storia degli ultimi cinquant'anni
sti e non sembrava considerarla nemmeno desiderabile, mantenendo tutta la sua diffidenza nei confron-
ti di Mao Zedong. Divenuto segretario di stato nel gennaio 1947, Marshall'escluse un coinvolgimento militare degli Stati Uniti a fianco del Kuomintang e si limitò a concedergli aiuti in armi, pur essendo sempre più consapevole che nessuno poteva salvarlo dalla sconfitta. Il governo nazionalista si preoccupava soltanto di mantenere il possesso delle grandi città, consentendo ai comunisti di condurre la guerra secondo le teorie di Mao Zedong: radicarsi profondamente nelle campagne così da apparire come l’unica vera forza nazionale, ottenere il consenso dei contadini e circondare
le città, lasciandole isolate e pronte a cadere al momento opportuno. Tra il 1946 e il 1949 i comunisti
avanzarono da nord-est e conquistarono una provincia dopo l’altra. L'amministrazione e l’esercito di Chiang erano in completo disfacimento: corruzione e inettitudine ne minavano le fondamenta e privavano il governo ufficiale di ogni sostegno popolare e di ogni prestigio. Interi reparti dell’esercito passavano nelle file comuniste, finché al principio del 1949 l'Armata popolare di liberazione entrò a Pechino, occupando quindi le altre grandi città e assumendo il controllo dell’intera Cina. A Pechino il 1° ottobre del
1949 venne ufficialmente proclamata la Repubblica popolare cinese: giungeva così a termine il lungo periodo di disfacimento del paese, cominciato alla fine del secolo precedente, e la Cina si trovava riuni-
ficata con l'eccezione dell’isola di Formosa (Taiwan per i cinesi), che i giapponesi avevano abbandonato nel 1945 dopo averla occupata per mezzo secolo.
Qui riuscì a rifugiarsi Chiang Kai-shek con i resti di 58
La prima fase della decolonizzazione
suo esercito, dando vita a uno stato autonomo, pro-
tetto dagli Stati Uniti, che affermava rappresentare l’intera Cina e si dichiarava pronto a intraprendere la liberazione del continente dai comunisti.
4. I paesi arabi, lo stato d'Israele e la questione palestinese Anche nel Medio Oriente erano comparsi negli anni venti e trenta riformatori isolati o primi nuclei di movimenti anticoloniali che si erano posti il problema di far convivere tradizione culturale e spinta alla modernizzazione; ma qui l’islamismo e l'identità musulmana giocavano maggiormente come fattori di chiusura nei confronti delle influenze occidentali. Nel mondo arabo non soltanto ideologie come il socialismo e il comunismo o il liberalismo e la democrazia erano avvertite come estranee; anche il nazionalismo trovava difficoltà ad affermarsi e rifluiva in un panislamismo più consono a chi poneva l’unità della comunità religiosa al di sopra dei confini tracciati dalla politica. D’altra parte i possessi coloniali che nel 1920 Francia e Inghilterra si erano ritagliati nel Medio Oriente nella forma di “mandati” (Siria, Libano, Transgiordania, Iraq, Palestina) non aveva-
no alcuna base come stati autonomi e meno ancora come entità nazionali. Essi erano il risultato della più complessa e inestricabile stratificazione storica, etnica, linguistica e religiosa del mondo intero, comprendendo accanto a una popolazione in maggioranza araba e musulmana, consistenti minoranze come
| quelle degli ebrei, dei kurdi o degli armeni e i fedeli delle antiche chiese cristiane orientali, sopravvissute ai secoli del dominio arabo e turco. 59
Storia degli ultimi cinquant'anni
Come nome e come confini, la Transgiordania era stata letteralmente inventata dagli inglesi nel 1920. Non erano una invenzione i nomi Libano e Palestina,
ma derivavano da un’epoca storica così lontana. che
non aveva alcun rapporto con il presente. In un Medio Oriente già a sufficienza complicato, il mandato francese del Libano era l’unico dove i cristiani non erano in minoranza, costituendo circa la metà della popolazione, ma divisa in quattro confessioni principali (prima fra tutte quella dei cristiani maroniti) e altre quattro minori; a loro volta fra i musulmani vi erano non soltanto i sunniti e gli sciiti, ma anche sette separate di sciiti, in particolare quella dei drusi. Un sistema istituzionale veramente unico garantiva la pace sociale e religiosa dividendo i poteri fra cristiani e musulmani in proporzione al loro peso demografico. Prima della Grande guerra il nazionalismo mediorientale si era manifestato piuttosto come panarabismo, in opposizione alla dominazione turca, e aveva
preso contorni più netti soltanto al di fuori dell’impero turco, in Egitto, il paese arabo che possedeva la più forte identità storica. Nel 1922 l'Egitto era stato il primo paese arabo a essere riconosciuto dall’Inghilterra come indipendente, anche se soggetto a forti condizionamenti
politici, nella forma di una
monarchia costituzionale. In quel periodo si realizzava poi la quasi completa unificazione della penisola araba sotto la dinastia creata da Ibn Saud, che nel 1932 si proclamò formalmente re dell'Arabia Saudita, e nello stesso anno la Gran Bretagna riconosceva l’indipendenza dell'Iraq.
Dalla fine della seconda guerra chili, nuova situazione determinata dall’influenza degli
60
-
Sui
La prima fase della decolonizzazione
Stati Uniti e dall’esistenza delle Nazioni Unite, otten-
nero l'indipendenza anche gli ex mandati francesi del Libano e della Siria e quello inglese della Transgiordania (ribattezzata Giordania), mentre la Gran Bretagna conservava il possesso dello Yemen del Sud (la regione di Aden), dell'Oman e di altri emirati
minori del Golfo persico. Nel 1945 gli stati indipendenti del Medio Oriente allora esistenti e già membri dell’Onu (i sei già detti: Arabia Saudita, Egitto, Iraq, Libano, Siria, Transgiordania, e lo Yemen del Nord)
dettero vita alla Lega araba, che avrebbe dovuto rafforzare il mondo arabo nel confronto con le grandi potenze dell’Occidente. Questa composita realtà geopolitica restava tuttavia profondamente divisa al suo interno, in parte per la divisione fra i musulmani sunniti e la minoranza sciita oltre che per l’esistenza di altre sette islamiche, in parte per le rivalità fra tribù e famiglie dominanti che attraversavano i confini degli stati e ne rendevano precari i rapporti. Da allora a oggi, chiunque abbia preso il potere, lo ha fatto non solo in rappresentanza dello stato o del partito di appartenenza, ma anche della setta di appartenenza e in rapporto agli interessi delle nutrite serie di fratelli, cugini e zii che costituivano i clan
familiari. i Su queste divisioni giocheranno negli anni a venire le ex potenze coloniali europee, l’Urss e gli Stati Uniti, tutti intenzionati a mantenere un proprio controllo su un’area decisiva. Nel 1938 la produzione petrolifera era abbastanza sviluppata in Iran (dove | era stata avviata per iniziativa inglese alla fine della prima guerra mondiale), mentre era ancora irrilevante nel Medio Oriente arabo. Ma erano soprattutto le | prospettive a contare, perché qui si trovavano le 61
Storia degli ultimi cinquant'anni
maggiori riserve conosciute di petrolio, destinate a sviluppare intense rivalità fra le grandi compagnie internazionali. Già alla fine degli anni venti le compagnie americane avevano cominciato a comparire in Iraq, mentre dopo il 1945 il consorzio di quattro compagnie americane si era assicurato una presenza
dominante in Arabia Saudita. Nel 1950 il Medio Oriente arabo e l'Iran rappresentavano il 16 per cento della produzione mondiale; nello stesso anno
dal petrolio derivava più di un quarto dell’energia indispensabile per lo sviluppo economico planetario. Tabella 2. Produzione di petrolio greggio nel 1938 e nel 1950 (in milioni di tonnellate) 1938
1950
Usa
170
62%
SA
Urss
30
11
38
2%
d
Venezuela
ital
40
18
(15
Iran
9,
3
32
6
M. Oriente arabo
3
1
dare
10.
Altri
Mondo
37
13
br
10
276
100
523.
100
Fonti: R. Sédillot, Storia del petrolio, Città Nuova, Roma 1975, cap. 11.
Un secondo elemento che contribuì a fare del Medio Oriente una zona di gravi tensioni fu il conflitto fra gli stati arabi e lo stato ebraico di Israele, sorto nel 1948 nella colonia inglese della Palestina.
Nel 1939 la popolazione di questa regione (25 500
Kmq), che contava un milione e mezzo di abitanti, era costituita per il 70 per cento da palestinesi e per il resto da ebrei, in massima parte immigrati
—
La prima fase della decolonizzazione
dall'Europa dopo il 1919 (e dalla Germania nazista dopo il 1933) conla speranza di costruire un proprio stato indipendente nella “terra promessa”. Questi arrivi erano stati accolti con crescente ostilità da parte della maggioranza araba e dal 1939 furono ostacolati anche dalle autorità inglesi. L'immigrazione riprese dopo il 1945, essendo in gran parte costituita da sopravvissuti ai campi di sterminio, e fu ancora impedita dagli inglesi, che desideravano mantenere una buona immagine fra gli arabi del Medio Oriente, dato il ruolo strategico che la regione avrebbe assunto negli anni seguenti. L'indipendenza della Palestina si intrecciò strettamente con la necessità di risolvere “la questione israeliana”, che gravava sulla coscienza degli stati europei. Nel novembre 1947 l'Assemblea generale dell’Onu approvò un progetto che prevedeva la creazione di due stati autonomi (con una spartizione piuttosto favorevole agli ebrei) e l’internazionalizzazione di Gerusalemme e che passò con il voto favorevole degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica e l’astensione della Gran Bretagna. Tutti e sette gli stati arabi già membri dell’Onu votarono contro. L’immi-
grazione ebraica recente e passata aveva alterato senza rimedio l'economia della popolazione locale, che considerava i nuovi venuti alla stregua di usurpatori; questi ultimi, senza tenere conto della situazione di fatto, rivendicavano diritti originari che il tempo aveva ormai cancellato, mentre gruppi estremisti compivano atti di terrorismo contro gli inglesi e atro|. cità contro i palestinesi e assumevano atteggiamenti tanto prevaricanti da accrescere il risentimento ara-
bo e innescare un conflitto insanabile. Alla fine dell’anno, dopo un mandato con gravi responsabilità rt
63
Storia degli ultimi cinquant'anni
per quanto andava maturando, la Gran Bretagna annunciò che il 14 maggio 1948 avrebbe abbandonato la Palestina. Lo stesso giorno gli ebrei si dettero un governo provvisorio guidato da David Ben Gurion e proclamarono lo stato di Israele. Egitto, Giordania, Iraq e Siria si affiancarono ai palestinesi nella guerra che subito seguì, resa impari dagli aiuti esterni di cui gli israeliani potevano disporre. La guerra fu fermata da una serie di armistizi imposti dall’Onu nel febbraio 1949, consentendo allo stato di Israele di estendere i propri confini anche al di là del progetto di spartizione, mentre l’Egitto e la Giordania, il cui intervento non era stato del tutto disinteressato, si facevano avanti per occupare rispettivamente la striscia di Gaza e la Cisgiordania,
con la parte orientale di Gerusalemme, che includeva la città vecchia e quindi i luoghi considerati santi da ebrei, cristiani e musulmani; Israele occupò Geru-
salemme ovest e la proclamò capitale, con un atto che non ebbe però il riconoscimento di nessun altro stato. Dai territori che formarono lo stato di Israele fuggirono (in massima parte verso la Cisgiordania e la Giordania) almeno 500 mila palestinesi, presi dal panico o rifiutando l'occupazione ebraica. Tra di loro vi erano gli strati più dinamici di una società tutt'altro che arretrata: da allora il ceto colto dei paesi arabi limitrofi fu in buona parte costituito dai palestinesi. Restarono circa 160 mila persone, i poveri contadini, confinati nelle terre meno fertili, con i gio-
vani che crebbero privi di prospettive per il futuro, anche se formalmente in possesso dei diritti civili e politici in una entità politica nata con un’ambiguità di fondo: a metà strada fra lo stato territoriale fatto | di cittadini e lo stato confessionale fatto solo per chi 64
. RA
La prima fase della decolonizzazione
professava la religione ebraica e considerando potenziali cittadini tutti gli ebrei sparsi nel mondo. In effetti nemmeno l’esistenza dello stato di Israele si rivelò agevole. La sua nascita comportò la scom-
parsa delle antiche comunità ebraiche dei paesi arabi mediterranei e mediorientali, costrette a emigrare in Israele o negli Stati Uniti. Immediatamente riconosciuto dall'Unione Sovietica e dagli Stati Uniti (ma da nessuno dei paesi arabi) e quindi ammesso all'Onu, lo stato ebraico doveva destinare gran parte delle proprie risorse a scopi militari e tenere un’elevata quota della popolazione attiva arruolata nell’esercito. Tuttavia esso poté contare sempre su ininterrotti e considerevoli flussi finanziari provenienti dalle comunità ebraiche degli Stati Uniti e del mondo, nonché sul diretto aiuto di Washington che, più tardi, fece di Israele un proprio punto di forza nello scacchiere mediorientale. Va inoltre considerato che a quelle sponde del Mediterraneo approdarono, dai paesi arabi e dall'Europa orientale, quasi settecentomila immigrati nel 1948-51, tutti di notevole esperienza culturale e professionale, di gran lunga superiore a quella posseduta dalla popolazione araba e palestinese. Israele si configurò come una potenza tecnologicamente ed economicamente avanzata all'interno di un contesto segnato dalle eredità coloniali e dal sottosviluppo.
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3. Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico, 1949-1960
1. Le armi e le ideologie della guerra fredda
Il passaggio della Cina al fronte comunista era un evento atteso dal governo americano. Questo sapeva bene che la guerra civile fra maoisti e nazionalisti rispondeva alle vicende interne cinesi ed era stata poco influenzata dall’Urss, che aveva anzi mantenu-
to il riconoscimento del governo del Kuomintang e aveva evitato di inserire il partito comunista cinese
ME xo
fra i membri del Cominform. Tuttavia, quando il Kuomintang crollò gli Stati Uniti rifiutarono di ammettere l’autonomia storica della rivoluzione cinese e la considerarono pienamente subordinata alle direttive di Mosca, una nuova prova dei piani di sovversione e dominio mondiale stabiliti da un’unica regia centrale. Va anzi espressamente segnalato che questo è il caso più macroscopico dell’interferenza fra il grande processo di storia mondiale costituito dalla decolonizzazione e il più ristretto fenomeno del bipolarismo Usa-Urss: di fatto per un trentennio quel processo fu costretto a svolgersi nel quadro del bipolarismo. Nell’agosto del 1949, pochi mesi dopo l’occupazione comunista di Pechino, giunse un nuovo ele-
mento di allarme, quando gli Stati Uniti ebbero la certezza che l'Unione Sovietica aveva sperimentato con successo, e con notevole anticipo sul previsto, la 67
Storia degli ultimi cinquant'anni
sua prima bomba atomica. Alcuni studiosi hanno
sostenuto che i due lanci di atomiche sulle città giapponesi erano anche indirettamente rivolti a intimidi-
re l’Unione Sovietica; Gar Alperowitz (Un asso nella manica. La diplomazia atomica americana: Potsdam e
Hiroshima, 1965) ha a suo tempo dimostrato molto bene che Truman e i suoi collaboratori erano certi di poter influire sull'Unione Sovietica ostentando il possesso della nuova arma, ma resta il fatto che Stalin non si intimidì affatto, non arretrò dalla linea delle occupazioni militari compiute nel 1944-55 e non apportò alcun mutamento all'evoluzione della sua politica in Europa orientale; d’altra parte non risulta che Truman abbia compiuto pressioni © minacce in base al monopolio americano della bomba atomica, Fino all'estate del 1949 non era stata elaborata una vera strategia atomica e le armi nucleari potevano valere come elemento della propaganda della guerra fredda. In questa propaganda rientrò in pieno l'affermazione che l'Unione Sovietica era d’improvviso diventata in grado di minacciare direttamente gli Stati Uniti, dato che essa non possedeva ancora bombardieri capaci di compiere lunghissimi tragitti con il loro carico, riuscendo a sfuggire ai radar e a compiere il viaggio di ritorno; ciò divenne possibile solo nel 1955, mentre già da anni gli Usa padroneggiavano la tecnica dei bombardieri riforniti in volo da aerei cisterna. Ad ogni modo la nuova situazione spinse il presidente americano ad autoriz-
zare le ricerche attorno alla bomba all'idrogeno, la cui possibilità teorica era già riconosciuta e che poteva raggiungere una potenza pari a ida ‘centinaia di bombe atomiche. To
All’interno della guerra fredda la corsa ag 68
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
menti avviata dalle due parti ebbe dunque una duplice funzione: in prospettiva, una di crescente minaccia reale; nell'immediato una indirizzata piuttosto all’immaginazione delle popolazioni, con lo scopo di tenerle in tensione perché fossero preparate ad accettare la politica di confronto attivo su scala mondiale fra le due “superpotenze”. L'opinione pubblica americana fu in complesso più ricettiva a questo aspetto propagandistico della guerra fredda, se non altro perché solo negli Stati Uniti il sistema e la logica dei mezzi di comunicazione di massa erano adeguatamente affermati. Giunta a saturazione l’età dei giornali, della radio e del cinematografo, qui dal 1946 era cominciata quella della televisione: nel 1951 un terzo delle famiglie americane possedeva un apparecchio televisivo dalle cui trasmissioni poteva essere potentemente influenzata; nel 1955 questa cifra
era arrivata a due quinti. Ad ogni modo questa opinione pubblica costituita dalle grandi masse dei ceti medi non aveva dovuto attendere gli avvenimenti del 1949 per sentire oggetto della sovversione comunista il “modo di vita americano” e già dal 1946 aveva abbandonato l’immagine dell’Urss come alleata. Poiché la Russia era lontana e poiché il seguito del partito comunista americano era del tutto trascurabile, ci si doveva attendere
che la cospirazione mondiale guidata dal Cremlino cercasse di attuarsi all’interno degli Usa attraverso le attività, ugualmente subdole e infiltrate ovunque, dello spionaggio e degli intellettuali traditori. Decine di indagini, di polizia o controspionaggio, politiche o amministrative, furono aperte dal 1946, coinvolgen-
do un gran numero di dipendenti statali, scrittori, giornalisti e uomini di spettacolo, mentre interroga69
Storia degli ultimi cinquant'anni
tori e indagini destinati a grande risonanza pubblica si svolsero di fronte alla Commissione per le attività antiamericane, che era stata istituita in origine (nel
1938) presso il Congresso per scovare i simpatizzanti nazisti.
Sul fronte dello spionaggio queste indagini coinvolsero l’intero personale degli uffici federali conducendo a centinaia di licenziamenti precauzionali e a migliaia di dimissioni imposte e fecero individuare alcuni casi sufficientemente provati da dar credito al panico collettivo attorno a quelli semplicemente immaginati. In particolare, nel gennaio 1950, in coincidenza con la decisione americana di costruire la bomba all’idrogeno, il fisico Klaus Fuchs, che dopo essere fuggito dalla Germania nazista aveva lavorato
a Los Alamos e si era poi trasferito in Inghilterra, confessò di essere stato comunista e di aver passato ai sovietici segreti nucleari. Le indagini che seguirono negli Stati Uniti portarono all’arresto dei coniugi Julius e Ethel Rosenberg, la cui origine ebraica rinfocolò le rudimentali speculazioni sui rapporti fra comunismo ed ebraismo; il caso di risonanza inter-
nazionale che sorse attorno al loro processo si concluse con una sentenza di colpevolezza non pienamente provata e con una condanna a morte pronunciata nell'aprile 1951 ed eseguita nel giugno 1953. Sul fronte degli intellettuali e in particolare nel mondo del cinema, le inchieste della Commissione per le attività antiamericane erano cominciate nel-
l'ottobre 1947 e avevano condotto a processi e condanne e alla compilazione di “liste nere” che mettevano al bando attori, sceneggiatori e registi che i loro
stessi colleghi erano costretti ad accusare se voleve sfuggire all’incriminazione per oltraggio
70
adi
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
gresso. La fase più acuta dell’isteria collettiva si ebbe da che il senatore repubblicano Joseph McCarthy si pose alla testa della crociata anticomunista, avviando
nel febbraio 1950 una vera “caccia alle streghe” con la sua denuncia, del tutto fantastica, dell’esistenza di
decine di comunisti ancora attivi presso il Dipartimento di stato. Roosevelt veniva accusato di aver ceduto a Jalta mezza Europa a Stalin e Truman di aver provocato la perdita della Cina; l’ex segretario di stato Marshall era presentato come un traditore e il fisico Robert Oppenheimer che aveva messo in guardia dai rischi della bomba H era senz'altro un comunista. Fu in questo clima che furono poste in vigore leggi restrittive dell’attività politica e sindacale. McCarthy era un mestatore e un falsario senza scrupoli, privo della dignità morale pur sempre necessaria a un anticomunismo che volesse restare nei limiti del sistema democratico. Il maccartismo,
che si rivolgeva a un pubblico dalle mediocri qualità intellettuali, poteva continuare fino a che fosse stata la proiezione delle paure dell’uomo medio americano. Secondo una parabola comune a molti fenomeni spontanei della società di massa, a un certo punto le
accuse del senatore cominciarono ad apparire meno credibili, coinvolgendo l’esercito e anche il presidente; nel corso del 1954 McCarthy fu via via ignorato dal suo stesso partito. Parallelamente, ma in rispondenza a situazioni ben | diverse, anche in Unione Sovietica e nei paesi europei al di là della “cortina di ferro” la guerra fredda . ebbe degli aspetti interni, manifestandosi con moda—. lità repressive assai più estese e sanguinose. I caratte-
ridi queste società si prestavano molto meno al sorgere di un'isteria collettiva come quella degli Stati 71
Storia degli ultimi cinquant'anni
Uniti e qui il clima della guerra fredda fu creato interamente dall’alto. Le epurazioni che nel 1948-49 caddero sui partiti comunisti di tutti i paesi “satelliti” e igrandi processi che nel 1949 e nel 1951-52 portarono alla condanna a morte dei maggiori dirigenti comunisti ungheresi e cecoslovacchi erano l’esatta replica dei processi contro i bolscevichi all’epoca del grande terrore staliniano. Le accuse erano infamanti ma del tutto irreali, le confessioni erano state estorte con la tortura e
allo stesso tempo facendo leva sulla fedeltà estrema al partito da parte degli accusati. L'intera operazione era cominciata dopo l’espulsione della Jugoslavia dal Comintern (nel giugno del 1948) e l’inizio della campagna contro il “titoismo”, contro il quale venivano rivolte accuse che quanto più erano stravaganti e assortite (la “cricca titoista” era allo stesso tempo fascista, trozkista, nazionalista, serva dell’imperialismo Usa) tanto più dovevano essere ripetute alla lettera da tutti i partiti membri del Comintern. Scopo dei processi imbastiti sotto la direzione di Lavrentij Berija, il capo della polizia segreta sovietica, era precisamente quello di distruggere, con le accuse di titoismo e di essere già da anni al servizio del nemico, proprio la classe politica comunista che nel 1946-48 aveva realizzato l'allineamento dei paesi dell'Europa orientale alla politica sovietica. Benché avesse dato le più ampie prove di fedeltà all’Unione Sovietica, questa derivava dalle forze interne che avevano promosso l’opposizione e la resistenza ai regimi collaborazionisti e godeva di grande prestigio, ma era perciò capace di manifestare un eccessivo spirito di autonomia nazionale. Nel periodo di logorante confronto con il campo avversaric 72
II consolidamento del bipolarismo asimmetrico
che si stava aprendo, possedere alleati su un piano di sia pur molto relativa parità non era una garanzia
sufficiente per lo stalinismo, che aveva bisogno di strumenti totalmente sottomessi. A questa categoria appartennero i nuovi dirigenti, costituiti da quei
comunisti che già prima della guerra si erano rifugiati a Mosca. Assai più precocemente era avvenuto il mutamento di clima all’interno della stessa Unione Sovietica,
dopo il relativo allentamento del regime poliziesco che si era verificato nel corso della guerra. Già dal 1945, per ragioni che sono rimaste sempre oscure,
gran parte dei soldati sovietici che tornavano dai campi di concentramento tedeschi fu trasferita in luoghi di esilio o perfino condannata ai campi di lavoro. Nel 1944, inoltre, i tatari di Crimea e le due piccole nazionalità caucasiche dei ceceni e degli ingusci furono accusati di aver collaborato con i tedeschi e deportati in Siberia. In un senso più specifico, la “guerra fredda” si manifestò in Urss con il rigido allineamento del mondo della cultura, dalla musica alla letteratura e al cinema (alla proibizione dell’ultimo film di Sergej Eizenstein corrispondono bene le accuse di comunismo rivolte a Charles Chaplin, costretto a trasferirsi in Inghilterra); in genere tutti
gli intellettuali furono soggetti a essere denigrati come formalisti quando uscivano dai binari del realismo socialista, e “cosmopoliti” quando dimostravano interesse per la cultura occidentale (l’accusa di cosmopolitismo colpì soprattutto gli intellettuali del| la minoranza ebraica e assunse una marcata connotazione antisemita); nello stesso senso agiva la ripropo-
| sizione in forme quanto mai grottesche dell’idea di | una “scienza proletaria” (soprattutto la biologia) e
ì
i
Storia degli ultimi cinquant'anni
fondata sul materialismo dialettico marxista-lenini-
sta, contrapposta a quella “borghese”. 2. L'occupazione americana del Giappone e l’estensione all’ Asia della guerra fredda Con la fine del blocco di Berlino e la costituzione delle due Germanie si stava avviando in Europa un equilibrio fondato, in mancanza di trattati di pace e di formali atti di riconoscimento, sulla tacita accetta-
zione delle zone di influenza, ma una nuova svolta fu segnata dalla rivoluzione comunista in Cina: questa ebbe una immediata risonanza sulle lotte anticoloniali in corso o prossime a esplodere e trasferì sulla più ampia sfera asiatica la logica della guerra fredda, a cominciare dalla questione del riconoscimento internazionale della nuova situazione cinese. Nel gennaio 1950 la Repubblica popolare cinese fu riconosciuta dall’Unione Sovietica e dai suoi satelliti europei (ma anche dall’India e dalla Gran Bretagna), mentre per gli Stati Uniti il governo del Kuomintang trasferito nell’isola di Taiwan continuava a restare l’unico legittimo rappresentante dell’intero paese; in conseguenza di ciò per gli Stati Uniti e i suoi alleati era il governo di Taiwan a mantenere il diritto a occupare il posto di membro permanente del consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite. Visti fallire i loro tentativi in appoggio alla Cina popolare, per protesta i sovietici abbandonarono dal gennaio 1950 le sedute dell'Onu. Nel dicembre 1949, intanto, Mao Zedong aveva compiuto un viaggio a Mosca e il 14 febbraio successivo, al termine del suo lungo soggiorno, era stato
firmato un trattato di alleanza difensiva e di coope-
7,
sa
.
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
razione fra Cina e Urss, che poneva fine alle ragioni
di diffidenza che esistevano fra il capo dei comunisti cinesi e Stalin: il primo sin dal 1927 aveva condotto una strategia rivoluzionaria che si muoveva in maniera del tutto opposta a quella consigliata o imposta dalla Terza internazionale; il secondo aveva conti-
nuato fino all’ultimo momento a puntare su Chiang Kai-shek, mantenendo ancora nel maggio 1949 rapporti diplomatici con il Kuomintang. Ad ogni modo, con il trattato Stalin concedeva alla Cina un prestito di non grande entità ma a condizioni molto favorevoli e rinunciava a tutto ciò che aveva ottenuto a Jalta e poi dal governo nazionalista (di fatto la presenza sovietica a Dairen e Port Arthur si protrasse fino al 1953) A loro volta gli Stati Uniti si apprestarono a mutare atteggiamento nei confronti del Giappone, che dal settembre 1945 era soggetto alla loro occupazione militare e a un vero protettorato politico e
aveva visto i suoi vecchi capi sfilare davanti a un tribunale per i crimini di guerra istituito sul modello di quello di Norimberga. Il generale Douglas Mac Arthur,
comandante
delle forze
americane
nel
Pacifico, fu posto a capo, con pieni poteri, delle forze di occupazione ed ebbe il compito di creare tutte le condizioni favorevoli a un Giappone democratizzato, eliminando la tradizione militarista e le
forze economiche e politiche che avevano voluto la guerra, cosa che venne fatta attraverso decine di migliaia di epurazioni. Nel maggio 1947 entrò in vigore la muova costituzione, nella cui redazione Mac Arthur aveva avuto una parte decisiva. Il Giappone diventava una monarchia parlamentare nella quale l’imperatore Hirohito, che aveva dovuto 75
Storia degli ultimi cinquant'anni
espressamente annunciare che non esisteva più il suo ruolo divino, restava simbolo dello stato, ma
derivando la sua funzione dalla sovranità popolare. Il Giappone dichiarava inoltre, attraverso l'articolo 9 della costituzione, di rinunciare alla guerra, alle
forze armate e quindi alle industrie belliche e si vedeva imporre da Mac Arthur una drastica riforma agraria che redistribuì fra i coltivatori le grandi proprietà e le terre date in affitto. Sin dal principio dell’occupazione militare il Giappone aveva avuto un trattamento diverso dalla Germania, perché la sua vita politica non era stata completamente azzerata; gli Stati Uniti avevano usato la bomba atomica per ottenerne la resa incondizionata, ma avevano subito giudicato improponibile l'abolizione della monarchia o soltanto l’estromissione di Hirohito. La rinascita della vita politica, con la comparsa di un gran numero di partiti (fra i quali anche un partito socialista e uno comunista) fu seguita già nell’aprile 1946 da elezioni politiche, ma fu molto difficile trovare un personale di governo non compromesso con il precedente regime. La libertà sindacale fu restaurata, ma lo sciopero generale, indubbiamente di carattere politico, che nel febbraio 1947 venne proclamato contro il leader del maggior partito di governo che avrebbe dovuto piuttosto trovarsi nella lista degli epurati, fu proibito dal generale Mac Arthur. > Fra le iniziative volte a democratizzare il paese vi era stato lo scioglimento degli za:batsu, le concentrazioni finanziarie che ponevano l’industria e il commercio sotto il dominio di poche famiglie e che ave-
vano avuto un ruolo primario nella politica imperialista giapponese. Ma fra il 1947 e il 1948, approssi-
76
È
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
mandosi la vittoria dei comunisti in Cina, gli Stati Uniti cominciarono ad adottare una strategia analo-
ga a quella del piano Marshall per l'Europa e a considerare primario l’obiettivo della stabilizzazione economica del Giappone, assumendo un atteggiamento più elastico nei confronti dell’organizzazione delle imprese e fornendo consistenti aiuti per la sua ricostruzione industriale. Il definitivo trattato di pace giunse (dopo gli avvenimenti che saranno oggetto del prossimo paragrafo) con la conferenza di San Francisco del settembre 1951. Dal contrasto su quale fosse il governo legittimo della Cina derivò che la principale vittima delle aggressioni giapponesi non fu rappresentata da nessuno alla conferenza. Il trattato venne firmato dagli Stati Uniti (e poi da Taiwan) e respinto non solo dall'Unione Sovietica ma anche dall'India e da diversi altri stati asiatici. Come in Europa centrale, anche in
Asia orientale si arrivò soltanto a una situazione di fatto. In più gli Stati Uniti firmarono con il Giappone un trattato di sicurezza che consentiva loro di mantenere basi militari a Okinawa; alla fine della loro occupazione militare, nell’aprile 1952, il veto so-
vietico continuò a mantenere il Giappone fuori dalle Nazioni Unite. 3.I conflitti armati indiretti: le guerre di Corea e d’Indocina
La guerra fredda ebbe una prima fase, che possiamo | collocare fra il 1947 e il 1950, nella quale fu la propaganda politica ad assumere la massima evidenza, demonizzando l’avversario come incarnazione stori— ca del male assoluto; allo stesso tempo polizie più o i
77
Storia degli ultimi cinquant'anni
meno segrete e servizi di informazione e controspionaggio erano in frenetica attività alla ricerca di ipotetici oppositori interni accusati di lavorare per il nemico, guastati nella mente o corrotti dal denaro. Non mancarono gravi momenti di tensione, in particolare durante il blocco di Berlino, ma anche questi
furono più occasione di intense dimostrazioni verbali che di irreparabili ostilità dirette. Con il 1950 si aprì una nuova fase, segnata dalla crescita della minaccia
atomica,
vera
o soltanto
proclamata,
e
soprattutto dalla comparsa di aree di conflitto armato, nelle quali Usa e Urss si affrontavano indiretta-
mente. Il primo di questi conflitti esplose in Corea. Dal 1910 possesso giapponese, il paese era stato occupa-
to nell'agosto 1945 dalle truppe sovietiche che provenivano dalla Manciuria e da quelle americane sbarcate a sud. In maniera molto simile a quanto avvenne in Germania il paese venne diviso, lungo una linea che corrispondeva al 38° parallelo, in due aree di influenza e poi in due stati. Ma, a differenza di quanto accadde
in Germania,
l'evoluzione
verso
una
Corea del Sud (proclamata nel maggio 1948 e retta da una dittatura appena coperta dalle forme esteriori della democrazia) e una Corea del Nord (sorta nel settembre 1948 come repubblica popolare comunista) avvenne senza grandi contrasti e fu tacitamente accettata da Usa e Urss; poco dopo le truppe delle due potenze si ritirarono dai due paesi, lasciandovi
solo un limitato numero di addestratori militari. Un documento ufficiale americano dell’aprile 1947 considerava l'Europa assai più importante dell'Asia per la sicurezza degli Stati Uniti e nello scacchiere orientale poneva il Giappone ben al di sopra della Corea. 78
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
La vittoria dei comunisti cinesi, il viaggio di Mao Zedong a Mosca e il possesso sovietico di armi nucleari avevano però dato vita a una nuova situazione. Nell’aprile 1950 il presidente Truman aveva ricevuto dal National Security Council un rapporto noto con la sigla NSC-68 che suggeriva di basare la politica verso l'Unione Sovietica, quella del “contenimento”,
su un vasto piano di riarmo, andando
quindi oltre il livello della guerra fredda fino ad allora contemplato. Fu mentre Truman stava riflettendo su questo documento che la guerra fredda mutò di tono. Il 25 giugno 1950, dopo mesi di reciproche dichiarazioni ostili e minacce, fra le due Coree cominciò una guerra aperta e non vi è alcun dubbio che l’attacco provenne da quella del Nord, nonostante le proclamazioni in contrario della propaganda comunista internazionale. Nel giro di tre mesi le truppe nordcoreane avevano occupato quasi per intero la Corea del Sud. Benché sia molto probabile che il conflitto fosse una faccenda interna alle due Coree, è difficile pensare che le iniziative nordcoreane potessero cominciare e ancor meno proseguire senza che Stalin ne fosse a conoscenza e avesse dato il suo assenso. L'attacco alla Corea del Sud poté far affermare con una qualche plausibilità agli Stati Uniti che era in atto una generale offensiva comunista contro l’intera Asia. Con assoluta tempestività il Consiglio di sicurezza dell'Onu, non ostacolato dal veto dell’Unione Sovietica che per le ragioni già dette aveva ritirato la sua delegazione, approvò il 27 giugno la formazione di un contingente militare internazionale incaricato di respingere l'aggressione. Posto sotto il comando del generale
Mac Arthur e sotto la bandiera dell'Onu ma formato 79
Storia degli ultimi cinquant'anni
sostanzialmente solo da truppe americane, questo fu in grado di intervenire da metà settembre, respingendo i nordcoreani al di là del 38° parallelo. La condotta che Mac Arthur impresse alla guerra, appoggiato dal presidente Truman e dall'Assemblea generale dell'Onu, creò una situazione di crisi interna-
zionale ancora più grave: la decisione americana di procedere alla riconquista della Corea del Nord comportava infatti il passaggio dalla politica del contenimento, ufficialmente definita dalla “dottrina Truman”, a quella detta del ro// back (ricacciare indietro il nemico). A ciò seguì l’invio da parte della Cina delle proprie truppe, anche se soltanto nella forma di “volontari”, mentre l’Urss si limitava a fornire aiuti economici
e armamenti: dalla parte del blocco comunista si intendeva restare quindi nei limiti della guerra fredda. Dopo alcuni mesi di scontri estremamente sanguinosi Mac Arthur si dichiarò pubblicamente pronto a invadere la Cina, ma questa volta il presidente non seguì il suo troppo intraprendente generale e nell’aprile 1951 lo rimosse dall'incarico, avviando poco dopo le trattative per un armistizio. In pieno maccartismo l’opinione pubblica americana si schierò in gran parte con Mac Arthur, accolto come un eroe al suo ritorno negli Stati Uniti. Dopo venti anni di dominio democratico, i repubblicani sentirono che stava tornando la loro ora e come candidato alle elezioni presidenziali del novembre 1952 scelsero un altro generale, Dwight Eisenhower, organizzatore dello sbarco in Normandia e poi comandante delle truppe Nato. Questi vinse con largo margine le elezioni e scelse come segretario di
stato John Foster Dulles, che nei suoi interventi pubblici sosteneva la politica del ro// back. Alla prova dei 80
4
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
fatti, però, Eisenhower si dimostrò assai più cauto di quanto il suo elettorato estremista immaginava. Le estenuanti trattative fra le parti in lotta in Corea venmero riprese e condussero (anche in seguito alla nuova minaccia americana di ricorrere alla bomba atomica) all’armistizio del luglio 1953, ancora sulla
linea del 38° parallelo. Le due Coree uscivano semidistrutte da una guerra che aveva fatto un milione di vittime (compresi i volontari cinesi) e che anche agli Stati Uniti era costata 35 000 morti e dispersi. | Anche se conclusa con il ritorno alle posizioni di partenza, la guerra di Corea ebbe conseguenze di vasta portata sulle strategie del confronto globale. Fu in questi anni, infatti, che la corsa agli armamenti subì una accelerazione. Nel novembre 1952 gli Stati Uniti
compirono
il primo
esperimento
con
una
bomba H e nell’agosto 1953 l'Unione Sovietica annunciò di essere in possesso di una simile arma; anche dopo il ristabilimento della pace, inoltre, i bilanci militari delle due superpotenze, cresciuti enormemente fra il 1950 e il 1953, non accennarono
a invertire la loro tendenza. La guerra di Corea fu soprattutto l’occasione subito colta dagli Stati Uniti per rendere ancor più asimmetrico il bipolarismo, costruendo un complesso sistema di alleanze antisovietiche e una barriera di basi militari attorno al blocco comunista, in alcuni casi molto vicine al territorio
sovietico (va ancora ricordato che l'Unione Sovietica non possedeva basi a ridosso degli Stati Uniti, ma solo dell'Europa occidentale). Sulla base del rapporto NSC-68 gli Usa offrirono la loro incondizionata
protezione militare al governo cinese nazionalista di
Taiwan e consentirono al Giappone, trasformato da ex-nemico in alleato, un limitato riarmo. Nel settem-
è.
È
81
Storia degli ultimi cinquant'anni
bre 1951 gli Stati Uniti costituirono un’alleanza con l'Australia e la Nuova Zelanda e nel settembre 1954 un vero omologo orientale della Nato, la Seato (South East Asia Treaty Organization), che includeva, oltre a Usa, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda, le Filippine, la Thailandia, il Pakistan e la Francia; nel 1955 l'accerchiamento da sud del-
l'Unione Sovietica venne completato con il patto di Baghdad, promosso dagli Usa, che però non ne furono parte contraente, e costituito da Gran Bretagna (elemento dominante e di raccordo con la Nato), Turchia, Iraq, Pakistan e Iran. Dal 1952, infine,
erano entrate nella Nato anche la Grecia e la Turchia, dove già esistevano basi militari americane. La presenza della Francia nella Seato si spiega con il fatto che la guerra di Corea era stata contemporanea al tentativo francese di riconquista dell'Indocina e che questo da guerra coloniale si era a un certo punto trasformato in un’altra guerra indiretta fra il blocco comunista e quello statunitense. Nel 1946, all’epoca in cui gli Stati Uniti erano contrari al proseguimento del dominio coloniale in Indocina e consideravano ancora Ho Chi Minh un possibile interlocutore, la Francia aveva avanzato la proposta di inserire il Vietnam come stato associato all’interno di una
Unione francese che doveva trasformare il suo sistema coloniale. In settembre Ho Chi Minh si recò in Francia e accettò la proposta, anche se comportava una ridotta sovranità del Vietnam. Ma le autorità francesi in Indocina furono le prime a violare i patti, cercando di separare la Cocincina, dove si trovavano i maggiori interessi economici coloniali, le piantagio ni di caucciù.
Alla fine dell’anno cominciò una vera guerra fra. 82
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
Francia, che aveva richiamato l’ex imperatore Bao Dai, e il Viet-minh, che controllava le regioni più settentrionali del Vietnam confinanti con la Cina. Gli Stati Uniti si erano mostrati inizialmente piuttosto sfavorevoli ai metodi con cui la Francia intendeva ristabilire il proprio dominio, ma la vittoria dei comunisti in Cina e la possibilità che ora si offriva al Viet-minh di ricevere aiuti dai maoisti cambiava completamente la situazione: anche il dominio coloniale francese in Vietnam diventava un baluardo della lotta del “mondo libero” controilcomunismo e perciò gli Stati Uniti, che già in Corea del Sud e a Taiwan davano pieno appoggio a regimi poco conformi ai loro principi dichiarati, divennero prodighi di aiuti in armi e finanziamenti alla Francia. Per più di tre anni lo scontro fra il Viet-minh e la Francia nel Vietnam settentrionale si svolse nella forma di operazioni di guerriglia e controguerriglia; nel novembre 1953 il comando francese decise di concentrare le proprie forze a Dien Bien Phu, dove venne creato un grande campo dal quale dovevano partire azioni volte a tagliare i collegamenti fra i guerriglieri e le frontiere con il Laos e la Cina. Toccò invece al campo di Dien Bien Phu di essere circondato
dalle forze del Viet-minh,
venendo
infine
costretto alla resa il 7 maggio 1954, dopo quasi due mesi di assedio. Il 26 aprile si era intanto aperta a Ginevra la conferenza internazionale convocata con lo scopo di trovare un accordo su entrambi i conflitti allora in corso. Per quanto riguarda la Corea, la conferenza non giunse ad alcun risultato, limitandosi a confermare l’armistizio fissato nell'estate precedente. Da quel momento la linea di cessate il fuoco sul 38° 83
Storia degli ultimi cinquant'anni
parallelo divenne una delle zone più “calde” del mondo, con una enorme concentrazione di uomini e
armi. La seconda parte della conferenza si sbloccò alla fine di giugno, quando fu entrato in carica il nuovo governo francese guidato dal radicale Pierre Mendès-France, che intendeva liquidare rapidamente l’intera eredità coloniale indocinese, dopo che Laos e Cambogia erano già stati riconosciuti indipendenti nel 1953. Il Vietnam venne diviso in due parti da una linea provvisoria fissata sul 17° parallelo; al ritiro di tutte le truppe straniere, la riunificazione e il futuro del paese sarebbero stati decisi entro due anni da libere elezioni. svolte sotto garanzie internazionali. L'accordo venne firmato fra gli altri anche dalla Cina popolare, ma non dagli Stati Uniti, che si limitarono a prenderne atto, affinché il loro impegno formale non implicasse anche un riconoscimento diplomatico del governo cinese. Di fatto gli Usa si apprestavano a subentrare alla Francia, ponendo sotto la propria protezione il Vietnam del sud, ormai trasferito dalla
logica della riconquista coloniale a quella della strategia mondiale anticomunista. Fra il 1950 e il 1954 alla cortina di ferro europea e all’esistenza di fatto di due Germanie si erano aggiunte altre tre linee asiatiche della guerra fredda che tagliavano altrettanti doppi stati, lo stretto fra Taiwan e la Cina e i paralleli 38° e 17° in Corea e in Vietnam. 4. Gli Stati Uniti da Truman ad Eisenhower
La guerra fredda ebbe notevoli conseguenze sull vita politica, sociale e culturale degli Stati Uniti
facendo passare dal diffuso anticomunismo che si e
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
manifestato già dal 1946 al clima di sospetto, delazione e angoscia paranoica che caratterizzò gli anni
del maccartismo. La fine del compatto appoggio che la società americana aveva dato alla politica di Roosevelt (il New Deal da una parte, la partecipazione alla guerra in nome di valori universalisti dall’altra) non dipese però soltanto dai riflessi interni della politica internazionale. A guerra finita due stati d'animo cominciarono a prevalere in un'opinione pubblica che si manifestava con idee semplici e molto nette: il timore che alla riconversione dell’industria dalla produzione bellica a quella civile si accompagnasse una grave crisi eco-
nomica; il desiderio di tirarsi fuori il più rapidamente possibile dalle vicende del mondo esterno europeo e asiatico. Per ciò che riguardava il ritorno alle loro famiglie dei soldati inviati sui vari fronti, il desiderio venne rapidamente accontentato: la smobilitazione cominciò già a metà 1945 e in meno di due anni ri-
guardò dieci milioni di uomini, i quattro quinti delle forze americane. Ma fu proprio questa smobilitazione ad accrescere l'aspettativa di un aumento della disoccupazione, anche se questo fenomeno si verificò in
misura assai minore del previsto e i reduci furono in massima parte riassorbiti nel sistema produttivo. Con le elezioni del novembre 1946, che contrapposero alla presidenza democratica un Congresso con una netta maggioranza repubblicana, una società di ceti medi divenuta più conservatrice chiese di potersi concentrare sui suoi problemi interni e di ‘tornare a ciò che era considerato il “modo di vita americano”, cominciando con la riduzione delle ‘spese pubbliche e la rimozione dei controlli sull’ecolia imposti dalle esigenze belliche. Ciò accadeva 85
Storia degli ultimi cinquant'anni
alla vigilia della “dottrina Truman”, che andava in direzione del tutto opposta all’isolazionismo, e se il presidente riuscì ad avere il consenso del Congresso usando
l’arma
della minaccia
comunista,
dovette
invece accettare la fine della disciplina statale dei prezzi. Subito l’inflazione si fece sentire, passando a 8,4% nel 1946 e a 14,5% nel 1947 e colpendo, dopo i miglioramenti degli anni di guerra, i salari reali. I conflitti sindacali e gli scioperi, che già erano aumentati nel 1945, crebbero ancora nei due anni successivi, inducendo nel 1947 la maggioranza repubblicana ad approvare una legge che indeboliva i sindacati annullando il principio che solo i loro iscritti potevano essere assunti dalle imprese, una garanzia contro il crumiraggio padronale ma anche una fonte di abusi; la legge trasformava inoltre in reati i picchettaggi e la promozione di scioperi che configuravano una rottura dei contratti e accresceva il controllo pubblico sull’organizzazione dei sindacati e sulla legittimità degli scioperi; infine richiedeva ai dirigenti sindacali il giuramento di non essere membri del partito comunista. Truman pose il suo veto a questa
legge, che venne però nuovamente approvata dal congresso, con il voto favorevole anche di una parte dei democratici. Lo spostamento a destra della società americana si arrestò per un momento con le elezioni presidenziali del 1948, che videro la riconferma di Truman; que-
sti ebbe il pieno appoggio dei ceti operai, dei sindacati, degli ebrei riconoscenti per l’aiuto dato allo stato d’Israele, della minoranza nera che riusciva a esercitare il diritto di voto, rassicurando i cedi medi
con il suo risoluto anticomunismo. Ma negli anni successivi Truman si scontrò ancora con l’opposizio
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ne del Congresso, e dei deputati del suo stesso partito, a gran parte del programma di riforme, presentato con il nome di Far Deal, che si può rendere con “riforme per la giustizia sociale”, e assai più moderato del Welfare State inglese (vedi il successivo $ 5). La legge sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie venne respinta, mentre il presidente non riuscì a
far abrogare la legge antisindacale e a far prevalere il suo veto contro un più drastico giro di vite anticomunista. | In particolare Truman non riuscì a far approvare
una legge sui diritti civili che avrebbe dovuto ostacolare la segregazione razziale. Mobilitando milioni di uomini, la guerra (oltre a creare le premesse per la rivoluzione femminile, accogliendo stabilmente nel lavoro produttivo le donne sposate e anche quelle appartenenti ai ceti medi) aveva in principio agito
contro la discriminazione dei neri, che furono ammessi nell’esercito e a lavorare nelle industrie di guerra. La mobilità della popolazione nera verso le regioni industriali ebbe comunque l’effetto di accrescere l’ostilità razziale nelle città dell'Est. Negli stati del Sud i neri restavano soggetti alle intimidazioni, alle violenze e ai linciaggi, mentre i loro diritti di voto erano ostacolati dalle norme sull’iscrizione alle liste elettorali, che prevedevano il pagamento di una tassa o il sostenimento di prove di alfabetizzazione che diventavano facilmente esami di cultura con intenti discriminatori. Le leggi segregazioniste escludevano la popolazione di colore dalle scuole, dagli ospedali, dai locali pubblici e dai posti degli autobus e dei treni riservati ai bianchi. L'amministrazione Truman, sempre più esposta
agli attacchi del maccartismo, finì per perdere anche 87
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il consenso dei democratici razzisti del sud e venne battuta dai repubblicani alle elezioni presidenziali del 1952. La questione dei diritti civili passò in eredità al nuovo presidente Eisenhower. La prima comparsa di un movimento dei neri per i diritti civili fu caratterizzata da azioni dimostrative come i 57477, cioè il rifiu-
to di lasciare il posto nei locali riservati ai bianchi, o il boicottaggio delle autolinee che praticavano la segregazione razziale; ciò avvenne simultaneamente
alla sentenza emanata nel maggio 1954 dalla Corte suprema, che annullava le leggi statali sulla separazione fra bianchi e neri nelle scuole. Durante il secondo mandato di Eisenhower le autorità federali furono costrette a intervenire e al principio dell’anno scolastico 1957-58 il presidente fece rispettare il suo ordine di ammettere i neri in tutte le scuole di Little Rock,
nell’Arkansas, inviando delle scorte formate da paracadutisti. Si trattava di un gesto ancora simbolico, non molto rinforzato dalle due leggi sui diritti civili approvate nel 1957 e nel 1960, che prevedevano solo lievi pene per i trasgressori.
5. L'Europa occidentale nel decennio postbellico
Anche se nel 1945 a un osservatore esterno sarebbe apparso evidente che la Gran Bretagna e la Francia uscivano assai ridimensionate dalla guerra, ci vollero diversi anni prima che queste si rendessero conto che all’interno del nuovo bipolarismo non potevano più agire come potenze mondiali. Entrambi i paesi facevano parte del gruppo dei “grandi” con potere di
veto all'Onu e mantenevano un elevato concetto di se stessi. È vero che la Gran Bretagna sistava apprestando a rinunciare al suo impero indiano ea ced
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agli Stati Uniti il compito di salvare la Grecia dal comunismo, ma restava alla testa del Commonwealth
e, oltre a posizioni strategiche in tutto il mondo; conservava le sue colonie africane e una vasta sfera d’influenza
nell’area
del Medio
Oriente,
dall'Egitto
all'Iran. Quanto alla Francia, per circa quindici anni essa compì un grande sforzo, costoso economica-
mente e più ancora politicamente ma del tutto vano, per mantenere in vita il suo impero coloniale in Indocina e in Africa settentrionale. Mentre si venivano delineando i due sistemi politico-militari costruiti attorno alle due superpotenze, il | grado e più ancora le forme dell’allineamento dei paesi dell'Europa occidentale al blocco Atlantico furono ben diversi da quello imposto con franca brutalità dall’Unione Sovietica ai propri stati-satellite. Ciò non vuol dire che non vi furono diretti condizionamenti degli Stati Uniti sui propri alleati europei: abbiamo già visto come le coalizioni politiche sorte alla fine del conflitto sulla base del principio dell’antifascismo si sfaldarono e vennero sostituite da governi
marcatamente
filoamericani,
fondati
sulla
esplicita rottura con i partiti comunisti. Tali condizionamenti, tuttavia, variarono molto da caso a caso
e per ciò che riguarda la Francia e ancor più la Gran Bretagna non ebbero occasione di manifestarsi con una visibile intromissione nella sovranità statale. Un evento di grande portata si era realizzato in Gran Bretagna con le elezioni politiche del luglio 1945. A questa data le preoccupazioni del paese si erano già concentrate sui problemi del dopoguerra: la disoccupazione, la sicurezza sociale, la ricostruzione materiale e industriale. Dopo aver dimostrato durante la guerra un totale consenso a Churchill e al
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suo governo di unità nazionale, l'elettorato dette una
netta maggioranza parlamentare ai laburisti, che, con il loro leader Clement Attlee si trovarono per la prima volta da soli alla guida del governo, in grado quindi di realizzare un programma coerente con il loro orientamento politico. Nella politica estera, mentre il governo laburista appoggiò pienamente gli Stati Uniti nella guerra fredda, fu una decisione di portata storica quella di concedere l’indipendenza all'India è al Pakistan, rinunciando a un impero il cui peso economico e politico era diventato del tutto insostenibile. Ancora più profonde furono le tracce lasciate dal laburismo nella politica interna, con l’attuazione del Welfare State o “stato del benessere”, il modello di intervento statale nelle questioni sociali che sarebbe stato adottato in tutte le nazioni industrializzate. In effetti il problema di un ampliamento dell’intervento statale nei servizi sociali era già stato avvertito durante la guerra e sin dal novembre del 1942 l’economista liberale William Beveridge aveva presentato al parlamento un progetto di radicali riforme in questo settore. I laburisti lo realizzarono concretamente,
edificando con una serie di provvedimenti a loro modo rivoluzionari una struttura di assistenza pubblica diretta a proteggere il cittadino “dalla culla alla tomba”, coprendo con un efficiente sistema di tassazione i costi dell'intera operazione. Il Welfare State,
che proseguiva una più antica tendenza alla legislazione sociale (come nel caso dell’assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro) e riprendeva le importanti
anticipazioni già realizzate in Svezia,
divenne da allora la meta ideale di tutti i partiti pro-
gressisti e socialisti d'Europa. Gratuità delle cure 90
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
mediche e ospedaliere, indennità di disoccupazione, un periodo di ferie pagate, introduzione del meccanismo di adeguamento dei salari ai prezzi detto “scala mobile”, elevamento ed estensione a tutte le cate-
gorie delle pensioni di vecchiaia, istruzione di base gratuita é pubblica, programmi di edilizia popolare e attenta programmazione urbanistica in modo tale da eliminare il peso della rendita terriera e garantire la massima razionalità all'espansione urbana: questi furono gli elementi più caratteristici del nuovo modello sociale. Il Welfare State non fece sparire i servizi sanitari privati e le scuole private (che per una bizzarria tutta inglese in Gran Bretagna si chiamano public schools) e meno ancora fece sparire la povertà; raggiunse però lo scopo di rendere meno radicali i conflitti sociali e di trasferire nell’ambito parlamentare la loro discussione e soluzione. Parallela alla creazione dello “stato sociale” fu la serie di nazionalizzazioni realizzata dal governo laburista nel settore dei servizi pubblici (trasporti ferroviari e aerei, gas, elettricità, telefoni) e anche in settori economici fondamentali (carbone, acciaio, alcune industrie automobilistiche, banche — a cominciare dalla
Banca d’Inghilterra). Le riforme laburiste, avversate dai conservatori, furono frenate dalla crescita delle
spese militari, creando motivi di insoddisfazione anche fra le classi popolari; ma quando le elezioni del 1951 riconsegnarono il governo a Churchill, i conservatori mantennero in vita tutte le riforme economiche e sociali adottate dai loro avversari. Mentre la Gran Bretagna aveva saputo affrontare con orgogliosa determinazione e con l’unità di tutte le sue forze politiche la grande prova della guerra, la 91
Storia degli ultimi cinquant'anni
Francia aveva dovuto subire il trauma del regime di Vichy e del collaborazionismo. Dopo alcuni processi politici contro i maggiori responsabili di quelle vicende, la Francia le coprì con uno spesso velo di oblio
(che sarebbe stato sollevato prima da studiosi stranieri che dagli stessi francesi) e le rimosse dalla coscienza senza accettare lo sgradevole fatto che avevano riguardato assai più che piccole minoranze antinazionali. Restava nondimeno la necessità di operare un taglio con il passato e ciò fu fatto attraverso una nuova costituzione e creando una quarta repubblica francese. Sottoposta a referendum e approvata con un ristretto margine da una Francia divisa e confusa, la
costituzione entrata in vigore nel dicembre 1946 arrivava fra le ultimein Europa a dare il voto alle donne e faceva dell'Assemblea nazionale il vero centro del sistema politico, in grado di far cadere in ogni momento i governi. Eletta con il sistema proporzionale, l'Assemblea sarebbe stata a sua volta dominata dai partiti, numerosi e soggetti a divisioni, e avrebbe visto solo maggioranze esili e instabili. Il generale Charles De Gaulle, che aveva guidato
dopo la liberazione i primi governi di unità nazionale, si rese conto sin dal gennaio 1946 che si stava
andando verso una Francia nella quale ci sarebbe stato poco posto per il ruolo di salvatore della patria al di sopra dei partiti che si era attribuito. Per conseguenza si dimise e creò un suo partito che andò ad aggiungersi agli altri già esistenti, comunisti, socialisti, radicali, democristiani (che in Francia costituivano il Movimento repubblicano popolare o MRP) e
diverse altre formazioni minori di centro e di destra. Nato contro il sistema dei partiti il movimento gollista, che aveva preso la denominazione al di sopra
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delle parti di Rasserzblement du Peuple Frangais (RPF), divenne
una
forza considerevole
ma
solo
come un partito fra gli altri che per di più raccoglieva solo i voti dell’estrema destra nazionalista e nel 1955 finì per perdere il diretto appoggio del suo stesso creatore, che si ritirò dalla vita politica. Dopo l’estromissione dei comunisti la Francia fu retta da governi di coalizione, prima di centro-sinistra e poi di centro o centro destra, che fra il 1947 e
il 1954 ebbero una durata media inferiore ai cinque mesi, nonostante le modifiche apportate alla legge elettorale proporzionale per accrescere la rappresentanza dei partiti di governo. La più autorevole coalizione fu quella guidata dal radicale Mendès-France, che seppe tirar fuori il paese dal vicolo cieco della guerra d’Indocina; ma anch'essa riuscì a durare solo sette mesi, dal giugno 1954 al gennaio 1955. Anche in Italia i governi di coalizione che esprimevano l’unità antifascista si esaurirono rapidamente, a cominciare da quello di diretta ispirazione resistenziale, presieduto dall’esponente del Partito d'Azione Ferruccio Parri, che si dimise nel dicembre
1945.
Dopo la consultazione del giugno 1946, nella quale, ammettendo per la prima volta al voto le donne, furono abbinati il referendum che istituì la repubblica e l’elezione dell’assemblea costituente, le grandi decisioni sul futuro del paese dipesero dalla capacità di compromesso e dal senso di responsabilità dei tre partiti che potevano vantare un seguito di massa e
che avevano raccolto da soli i tre quarti dei voti: il 35 per cento la Democrazia cristiana e rispettivamente
quasi il 21 e il 19 socialisti e comunisti, legati da un patto di unità d’azione. Nel maggio 1947 la loro estromissione dal governo, che era stata preceduta 93
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dalla scissione di un partito socialdemocratico, non interruppe la collaborazione attorno alla stesura della nuova costituzione repubblicana. Affinché il nuovo ordinamento fosse definitivamente accettato dai cattolici e soprattutto dalla Chiesa, il partito comunista si risolse a dare il proprio voto all'articolo che stabiliva l’immodificabilità del Concordato del 1929 salvo che con un nuovo accordo tra le parti; allo stesso tempo poté dare un contributo essenziale alle parti più innovative della costituzione, quelle che ponevano il lavoro come fondamento della repubblica e prospettavano una serie di riforme intese a eliminare le disparità sociali e a tutelare i diritti dei lavoratori. Approvata definitivamente la costituzione, le prime elezioni politiche ebbero luogo, nell'aprile 1948. La contrapposizione tra le forze governative e la sinistra poté ora manifestarsi nella forma più netta,
durante una campagna elettorale che, seguendo di poco il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia, venne presentata dalla Dc non solo come il momento di una drammatica scelta tra la libertà e il totalitarismo, ma come una vera e propria crociata contro il
comunismo ateo. Pur svolgendosi in piena libertà, le elezioni risultarono perciò condizionate dall’appoggio fornito alla Democrazia cristiana dagli Stati Uniti, che gettarono sulla bilancia il peso dei loro aiuti economici, e dal clero cattolico, che fece ricorso a suggestioni impressionanti, avvertendo che vota-
re contro il partito cattolico equivaleva a commettere un peccato mortale. A conti fatti la Dc ottenne il 48,5 per cento dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi; il fronte popolare dei socialisti e comunisti raggiunse solo il 35 per cento.
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Pur avendo la forza parlamentare per governare da solo, il leader democristiano De Gasperi preferì mantenere la precedente coalizione, che includeva i tre piccoli partiti (socialdemocratici, repubblicani e liberali) che nel gergo politico italiano erano detti “laici”. Questa decisione aprì la strada a un sistema politico unico in Europa, che sarebbe riuscito a durare più di quattro decenni. Anche quando il peso elettorale della Dc si ridusse (ciò che accadde già dalle successive elezioni, nel 1953), essa conservò la
forza e l'abilità per restare al centro del sistema; essendo la Dc stessa un partito molto composito con elementi conservatori se non reazionari ed elementi riformatori, poté adattarsi ai mutamenti della società e della politica italiana semplicemente mutando le alleanze, realizzate di volta in volta con partiti di destra o di sinistra moderata e sempre restando nei limiti dello schieramento filoamericano ribadito con l’adesione al Patto atlantico. Da questo schieramento derivò inoltre che per la parte dell'elettorato che votava i partiti di sinistra la democrazia si limitò al principio che “importante è partecipare”, perché non vi era alcun dubbio che una loro eventuale vittoria sarebbe stata cancellata con la forza. 6. Nascita e riarmo della Repubblica federale tedesca
Ancora più espliciti furono i condizionamenti esercitati dagli Stati Uniti sulla Germania occidentale. La stessa trasformazione della “trizona” soggetta a occupazione militare nel nuovo stato della Repubblica federale tedesca fu una decisione americana, presa assieme alla Gran Bretagna ma accolta in prin95
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cipio con qualche perplessità dai francesi, che non volevano la rinascita di una Germania potente, e dagli stessi tedeschi occidentali, che volevano sì riacquistare la sovranità ma non cancellando l’obiettivo della riunificazione con l'inevitabile formalizzazione dell’esistenza di due Germanie. Per lasciare qualche margine di incertezza, l’assemblea riunita a Francoforte il 1° settembre 1948 per decisione del governo militare alleato preferì denominarsi Consiglio parlamentare e non Costituente e il documento che venne approvato l’8 maggio 1949 fu chiamato “legge fondamentale” e non costituzione. Tale legge doveva d’altra parte essere a sua volta approvata dal governo militare, che si riservava il diritto di stabilire se era realmente democratica e che aveva comunque dato alcune direttive vincolanti sul suo contenuto. Per la nuova repubblica tedesco-occidentale veniva espressamente esclusa l’ipotesi di uno stato unitario e centralista, che sarebbe
potuto diventare troppo forte; essa nasceva come uno stato federale, rappresentato nel suo complesso dal Bundestag e composto di nove Lander che si vedevano attribuiti ampi poteri legislativi e che inviavano i loro rappresentanti alla seconda camera, il Consiglio federale (Burdesrat). La sovranità del nuovo stato era però ridotta, perché, oltre a essere ancora assoggettato a occupazione militare, gli era vietato possedere forze armate e fino al marzo 1951 non ebbe un ministero degli esteri. La Francia manteneva il controllo politico ed economico della Saar (che solo alla fine del 1956 diventò il decimo Land della Rft), mentre un’autorità internazionale, compo-
sta dalle tre potenze occupanti assieme al Belgio e ai Paesi Bassi, doveva garantire che le risorse di carbo96
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ne e acciaio della Ruhr fossero destinate a uso pacifico e in parte obbligatoriamente esportate verso gli altri paesi europei. La “rieducazione” democratica dei tedeschi era però considerata compiuta e la Rft segnava (con qualche anticipo rispetto a quanto accadrà anche al Giappone) il passaggio della Germania da ex nemica ad alleata. Allo stesso tempo anche l’opera di denazificazione ed epurazione, che nella trizona alleata era stata condotta in maniera più blanda che nella zona sovietica, si avviò al suo esaurimento. Già prima che nei limiti detti si formasse la Repubblica federa-
le tedesca nelle tre zone della Germania occidentale era stata consentita una ripresa della vita politica, con la ricostituzione dei partiti. La loro consistenza fu messa alla prova dalle prime elezioni, svoltesi nell'agosto 1949. L'Unione cristiano-democratica (CDU), che raccoglieva i voti di cattolici e protestanti, alleata con la bavarese Unione cristiano-sociale (CSU), più conservatrice e più spiccatamente cattolica, superò di poco il partito socialdemocratico (SPD). Il cristiano-democratico Konrad Adenauer fu il primo cancelliere della Germania occidentale e poté costituire un governo di coalizione con altri partiti minori. Questa rinascita della Germania non avveniva
senza rischi. Fino a che nel suo rifiuto di riconoscere la Germania orientale il nazionalismo tedesco restava indistinguibile dall’anticomunismo, gli Stati Uniti potevano considerarsi rassicurati. Ma i nove milioni
di profughi dalle ex province orientali che si trovavano nella repubblica di Bonn (oltre a quelli che arrivavano dalla Germania orientale) stavano a ricordare la distruzione della Prussia, le espulsioni dalle proDT
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vince annesse da Polonia e Urss, la fuga imposta alle minoranze tedesche della Cecoslovacchia e di altri paesi dell'Europa orientale e gli orrori, le vendette e gli eccidi cui questa massa umana era stata esposta durante la sua odissea. In che misura la Germania aveva davvero accettato le conseguenze della guerra, attribuendole alla smisurata follia del nazismo? E in che misura, invece, esisteva un puro spirito di rivin-
cita nazionalista? Nel quadro della guerra fredda, gli Stati Uniti puntarono tutto sulla capacità della CDU e di Adenauer di dominare i più pericolosi estremismi. Il complesso sistema elettorale tedesco includeva d’altra parte una clausola cautelativa che escludeva dalla riparti zione dei seggi chi non avesse raggiunto la soglia del 5 per cento dei voti, allo scopo di bloccare sul nascere eventuali movimenti nei quali si mascherasse la ricomparsa dell’estrema destra. Questo sbarramento doveva valere anche per il partito comunista. Esso riuscì a superarlo di poco nel 1949, ma le sue monotone ripetizioni di slogan anticapitalisti lo condannarono all’isolamento e alle elezioni del 1953 raccolse solo il 2 per cento dei voti. Ad ogni modo già due anni prima il governo federale aveva chiesto alla Corte costituzionale di esaminare la compatibilità del partito comunista con i principi democratici della repubblica; nel 1956, dopo una lunga vicenda giudiziaria e politica la Corte si dichiarò per l’interdizione dei comunisti. Già dal 1950 ciò che gli Stati Uniti ricavavano dalla loro convinzione che la nuova repubblica tedesca | sarebbe stata un baluardo della democrazia era la
necessità di riarmarla e inserirla nel blocco atlantico.
Occorreva però superare le resistenze della Francia, 98
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I
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poco disposta a far sparire sotto la più intensa luce ideologica dello scontro primario fra Occidente e comunismo il concreto pericolo di rinascita di una Germania animata da spirito di rivincita. Gli Stati Uniti lasciarono all'iniziativa dei paesi europei la soluzione del problema e questa sembrò essere offerta dal trattato dell’aprile 1951 che aveva istituito la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Su questa prima organizzazione europea torneremo nel capitolo seguente: ciò che è ora importante notare è
che la gestione comune delle risorse carbosiderurgiche poteva essere un buon modello per una istituzio! ne più apertamente politica, la Comunità europea di difesa (Ced), che avrebbe espresso il comando unificato di una fotza armata comune e autonomamente inserita nella Nato. Il punto essenziale era che la Germania non avrebbe avuto forze armate proprie, ma solo quelle della Ced. Dopo che la Germania fu autorizzata dalle tre potenze occupanti a farne parte, il progetto della Ced venne concretizzato nel maggio del 1952 dal trattato firmato
da sei stati europei
(Francia,
Germania,
Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) e portato quindi alla ratifica dei rispettivi parlamenti. Molti osservatori politici e studiosi hanno fatto notare allora e in seguito come con la Ced si fosse offerta l’occasione per una integrazione europea che avrebbe
avuto conseguenze politiche di enorme portata; ma la discussione su questo punto può restare soltanto ipotetica, perché nel parlamento francese, quando nell’agosto 1954 arrivò il momento cruciale, non si | costituì una maggioranza disposta a ratificare il trattato. I comunisti e anche la metà dei deputati socialisti lo rifiutarono perché riarmava la Germania; i
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gollisti e molti esponenti del centro e della destra vi videro in più una inaccettabile riduzione della sovranità della Francia a favore di un ente sovranazionale non ben definito. L'inevitabile alternativa fu che la Repubblica federale tedesca, recuperando la piena sovranità, ottenne il diritto autonomo a riarmarsi e fu
ammessa nella Nato, dopo essere passata attraverso l'ammissione nell'Unione dell'Europa Occidentale, costituita nell’ottobre 1954 per coordinare la politica difensiva dei suoi membri, i sei della defunta Ced e la Gran Bretagna. La risposta del blocco orientale venne nel maggio 1955, quando il patto firmato a Varsavia sostituì gli accordi bilaterali di difesa già esistenti fra l’Urss e le sette democrazie popolari con un comando militare integrato del tutto analogo a quello della Nato. 7.L'Urss e il blocco sovietico da Stalin a Chruséév
Gli ultimi anni della dittatura staliniana costituirono il periodo peggiore per l'Unione Sovietica, non soltanto perché il paese usciva distrutto dalla guerra mondiale ma anche per i riflessi interni della guerra fredda, con un combinarsi di due condizioni che
conducevano a sacrificare i bisogni materiali della popolazione a favore delle industrie pesanti e delle spese militari. La coercizione e il terrore furono i mezzi con cui Stalin si apprestò ad affrontare il dopoguerra e la ricostruzione. Fu in quegli anni che il sistema del lavoro forzato nei campi di concentramento raggiunse il suo massimo sviluppo organizzativo e quantitativo; il numero esatto delle persone coinvolte è ancora oggetto di congettura,ma deve essere stato certamente ben superiore ai cinque 100
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milioni, contando i detenuti veri e propri e gli inviati nelle “colonie speciali”. Oltre ai vecchi reclusi e agli ex prigionieri di guerra arrestati dopo il rientro in patria vi erano ora gli accusati di collaborazionismo con i nazisti e le nuove ondate di condannati per ragioni politiche. Ma la quota maggiore era costituita
da detenuti comuni, che l’apparato del Gulag intendeva sfruttare a pieno nell’opera di ricostruzione; fra di loro erano molto numerosi gli operai e i contadini vittime dei rigidi regolamenti delle fabbriche e dei kolchoz e condannati per indisciplina, furti e danneggiamenti nei confronti della proprietà statale. Un secondo motivo che contribuiva a rendere la vita dura e insicura era una conseguenza della insufficiente fedeltà dimostrata da alcune repubbliche e da varie nazionalità nei confronti dell’Unione Sovietica, cosa che indusse il potere centrale a una intensa politica di “russificazione”, con l’invio dal centro dei dirigenti periferici e l'imposizione della lingua russa, e l’accusa di nazionalismo rivolta a chi faceva resistenza. Con sempre maggior forza si cominciava intanto a
manifestare il problema della successione a Stalin, che stava allontanando molti degli esponenti del gruppo dirigente emerso dopo i grandi processi del 1936-38. Benché mai in passato l’esaltazione del ruolo di Stalin avesse raggiunto i livelli di grottesco servilismo toccati in quegli anni, bisogna tener presente che in ciò si realizzava anche una effettiva e aspra lotta per il potere. Questa venne alla luce solo in forma indiretta in occasione del XIX congresso del partito comunista sovietico tenuto nell’ottobre 1952 ed esplose più apertamente nel successivo gennaio in uno stile che preannunciava grandi sconvol-
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gimenti. Tutto cominciò con la denuncia di una congiura messa in opera da un gruppo di medici, accusati di essere al soldo di servizi segreti stranieri e di aver già cominciato ad attuare il piano di assassinare importanti dirigenti del partito e dell’esercito; poiché alcuni di questi medici erano ebrei, le denunce sul loro conto si vennero a collegare con le campagne antisemite in atto già da tempo nel paese. Messe nelle mani della polizia segreta le indagini avrebbero potuto portare a qualsiasi risultato, compreso un nuovo “grande terrore”, ma non sappiamo esattamente a quali fini l’intero affare venne costruito perché la morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, fece nettamente mutare il corso degli avvenimenti. Per il momento il gruppo dirigente del parti-
to si accordò per una gestione collegiale del potere, nella quale emersero in principio G. Malenkov, L. Berija e V. Molotov: il primo, divenuto capo del governo, era già considerato un possibile successore di Stalin, avendo avuto l’incarico di preparare la relazione generale al recente congresso; il secondo dirigeva da quindici anni la polizia segreta; il terzo era stato fino al 1949 ministro degli esteri, venendo poi posto in ombra dallo stesso Stalin. Torneremo più avanti sulle misure economiche prese in questo periodo, mentre vanno subito notate le decisioni orientate ad allentare la tensione interna. La pretesa congiura dei medici fu dichiarata ufficialmente una montatura poliziesca e gli accusati vennero liberati;
le agitazioni e le vere rivolte che si stavano verificando nei campi di lavoro e che richiesero l’intervento repressivo dell'esercito ebbero certo una qualche
parte nei primi decreti di amnistia, che riguardarono più i detenuti comuni che i politici. Allo stesso tem-
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po, sul fronte internazionale, la nuova dirigenza so-
vietica riprendeva i contatti con gli Stati Uniti per giungere a un armistizio nella guerra di Corea. Quella sistemazione del potere si rivelò soltanto provvisoria. Mentre cresceva d'importanza la figura di Nikita Chruséév, divenuto segretario del Pcus, nel luglio 1953 venne annunciato l’arresto di Berija, fatto
oggetto delle consuete accuse improbabili e malamente ammucchiate (compresa quella di essere stato sin dal 1918 al soldo dei servizi segreti inglesi) e subito processato e ucciso. Esplosa in tipico stile staliniano, la lotta per il potere proseguì ancora a lungo e nel gennaio 1955 con le dimissioni di Malenkov si risolse in favore di ChruSdév. La sconfitta di Malenkov, retrocesso a ministro e
sostituito dal maresciallo Bulganin, segnò una svolta anche perché fu il primo caso nella storia dell’Urss di rimozione di un dirigente avvenuta senza ricorrere alla sua uccisione in base ad accuse infamanti. Nella stessa direzione di un allontanamento dalla prassi staliniana andavano altri gesti compiuti da ChruSéév nella politica estera. Nel maggio 1955 ci fu il viaggio compiuto a Belgrado per giungere a una pubblica riconciliazione con Tito, accompagnata dalle ripetute dichiarazioni sulla possibilità e necessità di una coesistenza pacifica fra comunismo e capitalismo; nell’aprile del 1956 seguì lo scioglimento del Cominform, allo stesso tempo una soddisfazione dovuta a Tito e una prova data al blocco occidentale che l’Urss non credeva più nell’inevitabilità dello scontro e aveva rinunciato ai metodi rivoluzionari per far valere il suo modello di società. Assai più traumatica fu la svolta storica rappresen-
tata dal XX congresso. La notte fra il 24 e il 25 feb-
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braio 1956, al termine dei lavori ufficiali e in una
seduta segreta, Chruséév lesse un rapporto che denunciava senza mezzi termini gli errori e i crimini
commessi da Stalin. Questa denuncia presentava limiti non secondari, perché scaricava sul solo Stalin colpe che erano condivise da un intero gruppo dirigente (Chruséév compreso) ed erano espressione della natura stessa di un sistema politico; partiva solo dal 1934 (non toccando perciò gli errori e le atrocità compiute con la collettivizzazione delle campagne) e non riabilitava la memoria di vittime dello stalinismo come Bucharin. L'importanza della relazione fu nondimeno enorme, perché per la prima volta riconduceva l'Unione Sovietica alla realtà e faceva cadere il metodo delle falsificazioni da tutti risapute come tali ma erette a verità ufficiali. Alla destalinizzazione così annunciata seguì finalmente l’avvio di un più consistente svuotamento dei campi di lavoro (in particolare fu consentito ai ceceni e agli ingusci, ma non ai tatari di Crimea, di tornare alla loro terra), mentre il
clima culturale si faceva progressivamente più democratico e vivace.
Il rapporto segreto non divenne mai un testo ufficialmente riconosciuto, ma ebbe ugualmente in Urss
e nei paesi satelliti un’ampia circolazione, non limitata ai soli dirigenti e iscritti dei partiti comunisti. Attraverso canali riservati e con il consenso dello stesso Chrusèév esso giunse anche al Dipartimento di stato americano che il 4 giugno 1956 ne affidò una
diffusione su scala mondiale al “New York Times” (che già il 16 marzo aveva rivelato le sue linee essen-
ziali). Sarebbe azzardato affermare che lo sconcerto e la disperazione provocati dalla distruzione del mito di Stalin fra i militanti e, in diversa misura, fra idiri104
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genti dei partiti comunisti di tutto il mondo dessero un impulso davvero decisivo e irreversibile a ripensare la storia dell’Urss e il modo con cui il comuni-
smo era stato realmente realizzato. Ma, quasi senza soluzione di continuità, alle robuste resistenze opposte in Urss e altrove al processo revisionistico si ven-
nero ad aggiungere le conseguenze non volute che quel processo innescò nei paesi del blocco orientale, mettendo in difficoltà la posizione di Chruséév. Già dopo il marzo 1953 i primi segni di apertura pervenuti dall’Unione Sovietica avevano imposto ai governi dell'Ungheria e della Polonia di liberare alcuni dei dirigenti comunisti finiti in carcere negli anni precedenti. Ma l’evento più preoccupante erano
stati i gravissimi disordini scoppiati in giugno a Berlino Est e in altre città della Germania orientale. Qui
le devastazioni causate dalla guerra non erano le sole responsabili del disagio sociale e politico: l’imposizione di una ricostruzione fondata sul modello sovietico di industrializzazione forzata, con pesanti ritmi di lavoro e nessun riscontro sul tenore di vita, fece
esplodere proteste e scioperi operai, culminati nella dura repressione condotta dalle truppe sovietiche e costata decine di morti. Dal marzo 1956 la diffusione del rapporto
Chruséév autorizzò in Europa orientale un più libero manifestarsi di stati d'animo che potevano marsi antistaliniani e che, al loro crescere, non vano impedirsi di ricordare gli atti di violenza sovietizzazione e quindi di passare il confine
chiapotedella che li
conduceva a diventare antisovietici, nazionalisti e
anticomunisti. Il primo paese a lasciarsi tentare da questa spirale fu la Polonia, dove lo sciopero operaio di Poznàn si trasformò nell’arco di una sola giornata
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Storia degli ultimi cinquant'anni
(28 giugno) in un’aperta insurrezione, rapidamente
repressa. Dalla lotta politica che subito si aprì all’interno del partito comunista uscì vincitore Wladislaw Gomulka, uno dei dirigenti rimossi nel 1949 e più tardi imprigionato; a lui toccò il difficile compito di soddisfare tensioni ben più profonde di quelle che si esprimevano sul terreno economico e sindacale, evitando che venissero poste in dubbio la scelta comunista e i rapporti con l'Unione Sovietica. Nel mese di ottobre Gomulka si confrontò duramente con Chruséév, venuto a Varsavia con i massimi dirigenti
sovietici, e ottenne di poter realizzare una linea politica che comportava la fine del controllo sovietico sull’esercito polacco, lo smantellamento della collet-
tivizzazione agraria (185% della terra tornò nelle mani dei piccoli proprietari), il diritto dei polacchi a manifestare in piena libertà la fede cattolica, il rico-
noscimento di una posizione di prestigio al clero e alle organizzazioni ecclesiastiche. In Ungheria era cominciato già nel 1955 un com-
battuto tentativo di trasferire i poteri dal gruppo staliniano ai dirigenti comunisti che avevano difeso l'autonomia del paese ed erano riusciti a sopravvivere ai processi del 1949. M. Rakosy, il responsabile dell’eliminazione dei “titoisti”, fu rimosso nel luglio 1956 per diretto intervento di Chruséév; ma fu solo in seguito alle manifestazioni promosse dagli studenti di Budapest il 22 e 23 ottobre e divenute una insurrezione dalla forte coloritura nazionale (che si richiamava agli eroi della rivoluzione del 1848-49 repressa dalla Russia zarista) che avvennero cambiamenti più radicali: con il consenso sovietico Janos Kadar e Imre Nagy, due vittime dello stalinismo, divennero rispet-
tivamente segretario del partito e capo del governo.
die
i
Lal
Il consolidamento del bipolarismo asimmetrico
La situazione era comunque ormai sfuggita di mano
a entrambi ed erano in corso non soltanto furiosi combattimenti fra gli insorti e la polizia ma anche scontri che assumevano il carattere di una guerra civile che opponeva democratici e nazionalisti ai comunisti, così che il gruppo dirigente sovietico aveva già provveduto a inviare contingenti militari per riportare l’ordine. A fatica convinti da Nagy che il governo stava riprendendo il controllo della situazione, i sovietici cominciarono a ritirarsi il 29 ottobre, ma il 1° no-
vembre furono nuovamente rilevati movimenti di truppe dirette su Budapest. Subito Nagy proclamò l’uscita dell'Ungheria dal patto di Varsavia e la neutralità del paese, chiedendo l’aiuto dell'Onu. Dopo concitate riunioni e contatti internazionali (in parti-
colare con Tito e con Mao Zedong) i dirigenti sovietici sostennero che era in atto un tentativo di controrivoluzione e convinsero Kadar a fare appello a un nuovo € più massiccio intervento delle truppe del patto di Varsavia. È difficile dire quale esito avrebbe avuto il tentativo di liberazione del socialismo magiaro se fosse stato lasciato libero di svilupparsi, ma ancor più difficile è pensare che Chruséév potesse esporsi all’accusa di aver operato per la distruzione del blocco orientale. Per conseguenza la soppressione dei movimenti di resistenza fu sanguinosa e totale (ma sul numero delle vittime esistono ampie divergenze); arrestato dai sovietici, Nagy venne condannato a morte in un processo segreto e ucciso nel giugno 1958.
Come aveva potuto pensare Chruséév che alla sua dichiarazione che Stalin era stato un criminale non seguissero in qualcuno dei paesi satelliti sollevamen107
Storia degli ultimi cinquant'anni
ti popolari per distruggere le sue gigantesche statue (ovunque rimaste in piedi), come appunto accadde a Budapest il 23 ottobre? Inevitabilmente Chruséév vide crescere l'opposizione alla sua politica fra i vecchi dirigenti del partito. La battaglia decisiva si svolse al comitato centrale del giugno 1957, quando Chruséév riuscì a sconfiggere il gruppo costituito attorno a Molotov e Malenkov e retrocesse entrambi gli avversari a incarichi secondari. L’anno successivo la lotta politica giunse a formale compimento, con il cumulo nelle mani di Chruséév delle cariche di segretario del partito e di presidente del consiglio dei ministri.
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4. Terzo mondo e non-allineamento, 1950-1965
1. Le crisi del Medio Oriente: Iran ed Egitto La guerra fredda si era manifestata fra il 1946 e il 1947 e aveva avuto come primo terreno di scontro
| Europa, toccando un culmine di tensione al tempo del blocco di Berlino. Dal 1949-50 si trasferì in Asia orientale e produsse in Corea e in Vietnam due conflitti armati nei quali gli Stati Uniti e il blocco comunista sovietico-cinese (che agli americani sembrava perfettamente compatto) si fronteggiarono solo indirettamente. Più tardi la rivolta dell'Ungheria mostrò bene che entrambe le superpotenze consideravano ormai come intoccabile la linea divisoria dell’ Europa; gli appelli di Nagy all'Onu non ebbero alcun risultato pratico e le minacce di ro// back si confermarono come parte della propaganda verbale della guerra fredda più che come reale strategia. Ma anche in Corea e in Vietnam era stata la strategia statuni-
tense del contenimento e dell’accerchiamento a definire altre linee di frontiera fra i due blocchi. Nel corso degli anni cinquanta gli sviluppi della decolonizzazione fecero sì che molte altre aree del mondo venissero coinvolte nella guerra fredda, pro| ducendo situazioni nelle quali Usa e Urss si fronteggiarono per estendere la loro influenza. Ciò accadde prima di tutto nella regione medio-orientale; qui non
esistevano più formalmente domini coloniali (con l’ec111
Storia degli ultimi cinquant'anni
cezione dei protettorati inglesi nei margini sud-orientali della penisola araba), ma intorno al 1950 la
Francia e assai più l'Inghilterra possedevano ancora interessi abbastanza forti (il canale di Suez e il petrolio) da impegnarsi a difenderli mantenendo un dominio indiretto sugli stati della regione. In due di questi, Iran ed Egitto, si produssero avvenimenti che minacciavano la\posizione di predominio dell’Inghilterra. Nel maggio 1951 il leader del partito nazionalista iraniano Mohammed Mossadegh, divenuto da poco capo del governo, decretò la nazionalizzazione della Angloiranian Oil Company, che da diversi decenni garantiva gli interessi petroliferi inglesi nel paese. Il conflitto economico e politico fra Iran e Gran Bretagna si trascinò per più di due anni, provocando il boicottaggio britannico delle esportazioni iraniane di petrolio e la rottura delle relazioni fra i due paesi. Mossadegh era diventato solo una fonte di problemi interni ed esterni per lo scià Riza Pahlavi, che nell’agosto 1953 riuscì a
rovesciarlo con un colpo di stato militare organizzato con l’aiuto determinante dei servizi segreti degli Stati Uniti (la Cia, Central Intelligence Agency, istituita nel 1946 e utilizzata in seguito più volte in operazioni analoghe). Il risultato dell’operazione non fu però quello di ristabilire la situazione precedente, ma di produrre le condizioni perché gli Stati Uniti subentrassero alla Gran Bretagna come potenza egemone in Medio Oriente. In base al nuovo accordo del 1954 l'Iran conservava la proprietà delle risorse petrolifere e ne affi-
dava lo sfruttamento a un consorzio internazionale nel quale la Gran Bretagna era presente per il 40 per cento con la British Petroleum (BP); le società degli Stati
Uniti entravano con un altro 40 per cento, mentre il |
resto era olandese e francese; i profitti del petrolio 112
Terzo mondo e non-allineamento
sarebbero stati ripartiti fra il consorzio e lo stato iraniano secondo il principio fi/ty-fifty. La vicenda egiziana era intanto cominciata nell’estate del 1952, quando un gruppo di ufficiali fra i quali emerse presto il colonnello Gamal Nasser rovesciò l’ultimo esponente della dinastia protetta dagli inglesi e instaurò poco dopo (giugno 1953) la repubblica. Torneremo nel prossimo paragrafo sull’ideologia politico-sociale che prese il nome di nasserismo. Va osservato ora che con la rivoluzione dei militari si esprimeva uno spirito anticolonialista diretto essenzialmente contro la Gran Bretagna, che dovette infatti ritirare le sue truppe ancora presenti nella zona del canale; in un primo momento gli Usa mantennero invece una posizione di attesa nei confronti dell'Egitto e cercarono di battere sul tempo l'Unione Sovietica nell’instaurare ‘rapporti positivi con il nuovo regime. Nel 1955, mentre si stavano svolgen-
do le trattative per il patto di Baghdad (vedi p. 82), gli Stati Uniti entrarono in contatto anche con l’Egitto, che però rifiutò di entrare in un’alleanza che comprendeva anche la Gran Bretagna. Gli Usa promisero allora all'Egitto di fargli ottenere dalla Banca mondiale, partecipandovi anche in prima persona, il finanziamento necessario per la costruzione della grande diga di Assuan, destinata ad accrescere la superficie coltivabile del paese. Ma nel luglio 1956, vedendo che l’Egitto stava consolidando le sue relazio-
ni politiche anche con l'Unione Sovietica e il suo blocco, il governo americano congelò il prestito. L'immediata risposta di Nasser fu la nazionalizzazione della compagnia del canale di Suez, allo scopo di
| destinare i suoi proventi alla diga di Assuan. Poiché —
Nasser si impegnava a indennizzare gli azionisti stra113
Storia degli ultimi cinquant'anni
nieri, gli Stati Uniti giudicarono legittima l'iniziativa. Mentre l'Egitto otteneva così una certa rassicurazione,
inglesi e francesi si prepararono a difendere i loro interessi mettendo in piedi in settembre e ottobre un piano incredibilmente tortuoso e mal congegnato che prevedeva la partecipazione determinante di Israele. Gli israeliani avrebbero attaccato l'Egitto, occupando la striscia di.Gaza e il Sinai; la Francia e la Gran Bretagna
avrebbero allora imposto alle due parti in lotta di non compromettere la sicurezza del canale di Suez e sarebbero direttamente intervenute per proteggerne le attrezzature; il convenuto arresto dell’avanzata di Israele
avrebbe in pratica trasformato questo intervento in un'aggressione all'Egitto, con un’azione combinata di paracadutisti e truppe da sbarco. Il 29 ottobre si rea-
lizzò la prima fase del piano, ma l’attacco israeliano venne subito condannato dall’ Assemblea generale dell'Onu; il 5 novembre, in una successiva riunione svol-
tasi mentre i paracadutisti anglo-francesi stavano occupando il canale, Onu autorizzò la formazione di un
corpo di spedizione che doveva interporsi fra Egitto e Israele. Apertamente abbandonate dagli Stati Uniti e minacciate di rappresaglie militari estreme dall’Urss, le due potenze europee dovettero ritirarsi, mentre Israele lasciava il Sinai. I giorni cruciali della crisi di Suez e l’invasione sovietica dell'Ungheria erano venutia coinci-
dere, fornendo a ciascun blocco eccellenti argomenti di propaganda contro le iniziative imperialiste dell’altro. La crisi di Suez non restò priva di ulteriori conseguenze e distrusse quel che restava dell’influenza fran-| cese e inglese in Medio Oriente. Nel febbraio 1958 limo4
fluenza di Nasser si estese con la creazione della Repubblica araba unita (Rau), che avrebbe do durre alla totale fusione dell’Egitto e della Sir 114
Terzo mondo e non-allineamento
non durò oltre il 1961). L'iniziativa mise in agitazione gli altri paesi del Medio Oriente, ma toccò ormai agli Stati Uniti e non più alla Gran Bretagna impegnarsi a proteggere il regno di Giordania, che si trovava stretto fra l’ostilità israeliana e la minaccia del nasserismo. Nel luglio del 1958 una rivoluzione nazionalista abbatté la monarchia in Irag, l’ultimo stato arabo dove sussisteva una qualche influenza inglese, e instaurò una repubblica, che uscì dal patto filo occidentale di Baghdad (ridenominato con la sigla Cento, Central Treaty Organization) e fu attratta dall’alleanza con la Rau. Negli stessi giorni furono di nuovo gli Stati Uniti, e non la Francia,
a compiere un intervento militare diretto nell'ex mandato francese del Libano, in appoggio al presidente cristiano e filo occidentale che si sentiva minacciato dall'Egitto e dalle manifestazioni dei musulmani. 2.Il nazionalismo arabo e il movimento dei non-allineati
Gli stati che in quegli anni si liberarono dal dominio coloniale o da qualunque forma di tutela esterna non erano necessariamente destinati a entrare nell’uno o nell’altro dei blocchi politico-militari, le cui ideologie non sembravano quasi mai corrispondere ai problemi e alla cultura dei paesi asiatici e arabi, nonché di quelli africani che stavano anch'essi per ottenere l'indipendenza. Non lo era il comunismo, che insistendo sulla lotta di classe finiva per mettere in | primo piano l’elemento del conflitto in società che | avevano invece bisogno di insistere sulla concordia e
la collaborazione; e non lo erano il capitalismo e la liberaldemocrazia, che mettevano al primo posto un
‘altro fattore di disgregazione, quale l’individualismo 115
Storia degli ultimi cinquant'anni
economico e politico, e sembravano comunque adat-
tarsi poco a società arretrate e spesso afflitte da un diffuso analfabetismo. Il primo ed essenziale problema di questi nuovi stati era uscire dalla povertà; a questo scopo era assai più utile mantenere una posi-
zione di equidistanza e neutralità nei confronti dei due blocchi, cercando di ottenere aiuti da entrambi
ed evitando di fare scelte assolute che avrebbero comportato contrapposizioni e spese militari.
In concreto gli stati di nuova indipendenza avevano l'opportunità di muoversi in maniera eclettica e pragmatica. Così l'India di Nehru, che fu ininterrottamente primo ministro fino alla morte (avvenuta nel 1964), poté combinare un'assoluta fedeltà al sistema democratico e ai suoi metodi (il pluripartitismo e le libere e regolari elezioni) con l’adozione di alcuni criteri derivati dall'esperienza dei paesi socialisti, come un forte intervento statale nell'economia, l'adozione
di piani e la grande importanza data allo sviluppo dell’industria pesante, senza però far proprie le dottrine marxiste della lotta di classe. L'unione di motivi disparati si trova ancor più nei programmi politici che comparvero dalla fine degli anni quaranta nei paesi arabi, come quello sostenuto dal Baath ovvero partito della resurrezione araba, che
prese il potere in Siria nel 1963 e in Iraq ancora nel 1963 e stabilmente nel 1968, o quello che derivò il nome direttamente dal presidente egiziano Nasser e
che si trovò spesso in contrasto con il Baath, più per motivi di rivalità nel ruolo di promotore dell’unità araba che per vere divergenze ideologiche. L’uno e l’altro si impegnavano a lottare contro il colonialismo e l'imperialismo e si presentavano come fautori diun nazionalismo e di un socialismo arabo che è 116
Terzo mondo e non-allineamento
dovuto condurre a una rapida modernizzazione politica ed economica. Per il Baath e per il nasserismo l'opzione nazionalista comportava il panarabismo, cioè l'impegno a unificare i popoli arabi non unicamente in base al loro islamismo ma tenendo conto che fra gli arabi esistevano anche minoranze cristiane (uno dei primi fondatori del Baath, nel 1943, era stato un arabo cristiano di Damasco, Michel Aflag); la scelta socialista, che era tale più nel nome che nei fatti, com-
portava poi il principio di uno stato forte, in grado di compiere nazionalizzazioni e riforme agrarie e di controllare le risorse economiche, ma senza escludere le
iniziative delle élite economiche nazionali. Entrambi movimenti modernizzatori, il Baath e il nasserismo venivano a trovarsi in netta opposizione
agli altri programmi politici che esistevano nel mondo arabo e che furono messi al bando in Egitto: quello dei Fratelli musulmani, che intendeva far nascere il rinnovamento da un ritorno all’integrale applicazione del Corano in tutte le manifestazioni della vita pubblica e privata, e quello dei partiti socialisti e comunisti che professavano un rigoroso classismo. Fu da un gruppo di cinque stati asiatici variamente modernizzatori e nazionalisti che derivò una iniziativa volta a estendere il movimento della decolonizzazione e ad evitare il coinvolgimento degli stati ex coloniali nella contrapposizione fra i due grandi blocchi, la con-
ferenza tenuta a Bandung, nell’isola indonesiana di Giava, nell’aprile 1955. Il gruppo promotore includeva — l'India e il Pakistan, che pure avevano vari motivi di contrasto fra di loro, l'Indonesia e due ex colonie britanniche divenute indipendenti nel 1948, Ceylon (che
dal 1972 assumerà il nome di Srî Lanka) e la Birmania. Ila conferenza parteciparono in tutto ventinove stati 117
Storia degli ultimi cinquant'anni
asiatici e africani che proclamarono la loro neutralità nei confronti dei conflitti politici fra le due grandi potenze, benché fra i promotori ci fosse il Pakistan, che faceva parte della Seato e del patto di Baghdad, e fra i partecipanti vi fossero le Filippine e la Cina (rappre sentata dal primo ministro e ministro degli esteri Zhou Enlai), stati entrambi usciti da una soggezione imperialista ma anche inseriti nei due blocchi, essendo il primo membro della Seato e il secondo alleato dell’Urss. Pur con queste ambiguità, i paesi presenti a Bandung cercavano di costituire un insieme coerente che inten-
deva distinguersi dai due blocchi e si configurava perciò come un “terzo mondo”. Questa espressione, divenuta poi di uso universale, era già stata usata nel 1952, in un articolo intitolato Trozs 720ndes, un planète, dall'economista e demografo francese Alfred Sauvy, che (ricalcando le espressioni del famoso saggio Che cos'è 7/ terzo stato scritto dall'abate Sieyès alla vigilia della rivoluzione francese) aveva scritto: «Questo Terzo mondo, ignorato, sfruttato, disprezzato come il Terzo stato, vuole, anche lui, essere qualcosa». In uno dei contribu-
ti compresi nel volume Tiers Monde, curato dal sociologo africanista Georges Balandier e uscito nel 1956, lo stesso Balandier aveva scritto: «La conferenza di Bandung ha manifestato la comparsa sul primo piano della scena politica internazionale di quei popoli che costituiscono il Terzo mondo fra i due blocchi, secon-
do l’espressione di Alfred Sauvy». A Bandung era presente anche Nasser, che cercò successivamente assieme al primo ministro indiano
Nehru e al era
ba
118
Tito quitte nùi
Terzo mondo e non-allineamento
Belgrado nel settembre 1961, che dette al movimento il nome di “non allineati”. Per anni (come abbiamo in parte già visto e come vedremo ancora più avanti), nell’Indocina francese, in Medio Oriente e in Africa, il processo di decolonizzazione e di nascita di nuovi stati era stato costretto a svolgersi nel contesto del bipolarismo Usa-Urss. La nascita del movimento dei nonallineati costituì per la prima volta un tentativo di farlo
procedere autonomamente, e per conseguenza la conferenza di Belgrado fu limitata ai paesi che non erano legati da alcuna alleanza militare con l’una o l’altra delle due superpotenze: oltre ai tre promotori, ventidue paesi ex coloniali — sei asiatici, sette del Nordafrica e del Medio Oriente, sette africani, due latino-americani
— e rappresentanti dell'Algeria, ancora non formalmente indipendente. Il non-allineamento veniva presentato non come un semplice neutralismo, perché comportava un impegno attivo per la fine del colonialismo; se la dichiarazione finale condannava
tutti i
blocchi militari e gli interventi contro la libertà dei popoli, ugualmente condannava l'imperialismo politico ed economico, che riguardava le potenze occidentali. Si può dire che con la conferenza di Belgrado nascesse un terzo blocco e finisse il bipolarismo? Anche se il movimento dei non-allineati dimostrava che vi erano al mondo conflitti e situazioni non riducibili al confronto Usa-Urss, la risposta deve essere piuttosto negativa, perché un movimento che per scelta non voleva inserirsi né politicamente né militarmente nell’equilibrio | frai due blocchi aveva poche probabilità di cambiare il | sistema internazionale. D'altra parte il rifiuto di essere usati dai due grandi comportò spesso la libertà di trarre vantaggio dalla loro contrapposizione, schierandosi ora con l'uno ora con l’altro. Di fatto negli anni seguen119
Storia degli ultimi cinquant'anni
ti il Terzo mondo non riuscì a mantenere compattamente la propria originaria connotazione. 3. La seconda fase della decolonizzazione
La prima fase della decolonizzazione era avvenuta in diretta continuità con la seconda guerra mondiale e aveva riguardato esclusivamente il continente asiatico, conducendo entro il 1948 alla creazione di una decina di nuovi stati, cui si aggiunsero fra il 1954 e il 1957 quelli sorti nell'ex Indocina francese e la Malesia, in precedenza possesso britannico (e divenuta nel 1963 Malaysia, o grande Malesia, in seguito alla federazione
con altre ex colonie britanniche,
Singapore e i territori di Sarawak e Sabah nel Borneo settentrionale). Dal 1957 era stata avviata una nuova fase della liquidazione del colonialismo, che si distingue dalla precedente perché riguardò il continente africano ed ebbe caratteristiche in parte diverse. Vedremo nel prossimo paragrafo le principali vicende che
condussero
all'indipendenza
dell’Africa,
mentre esamineremo in questo alcuni problemi comuni a tutti i processi di decolonizzazione. Tre punti vanno notati in particolare. Il primo è che la grande maggioranza dei trentasette nuovi stati sorti
in Africa fra il 1956 e il 1966 ottenne l'indipendenza in maniera pacifica, pur essendo vero che non man-
carono le lotte armate e anche guerre di liberazione — particolarmente lunghe e sanguinose. Resta però il fatto che a un certo punto le due maggiori potenze coloniali, la Francia e l'Inghilterra, si convinsero che
la conservazione dei vecchi imperi era impossibile. In entrambi i paesi aveva cominciato a essereposto (
franchezza il problema della effettiva re 120
d
Terzo mondo e nen-allineamento
colonie ed erano in molti a far notare che i costi di mantenimento (l’amministrazione e il controllo militare, cui bisognava aggiungere le guerre di repressione dei movimenti indipendentisti) superavano i vantaggi economici. Nel vecchio imperialismo c’era una componente di vanagloria nazionalista e militarista che poteva anche andare contro gli interessi materiali di una potenza europea e che ne faceva uno strumento piuttosto primitivo ai fini del controllo economico delle colonie. Come stavano dimostrando gli ; Stati Uniti, l’accesso alle risorse e ai mercati dei paesi dipendenti, che non potevano quindi fare a meno dei rapporti commerciali con i paesi sviluppati, era meglio garantito sostituendo la penetrazione economica al dominio diretto, e riservando solo in casi estremi il
ricorso alla forza. D'altra parte il caso dei Paesi Bassi dimostrava a sua volta che si poteva perdere un impero coloniale divenuto antiquato senza affatto andare incontro a un disastro irrimediabile. L'importanza delle colonie africane per i loro prodotti di base era indiscutibile: alcune possedevano ingenti risorse minerarie, come il rame del Congo, lo stagno della Nigeria e la bauxite (il minerale grezzo dell’alluminio) della Guinea; altre offrivano prodotti agricoli come le banane, materie prime di origine vegetale come l’olio di arachide del Senegal e il cotone dell'Uganda oppure i prodotti delle piantagioni di caffè (Costa d'Avorio), tè (Kenya) e cacao (Ghana). Non sempre, tuttavia, queste risorse avevano un valore economico o strategico insostituibile. Come era accaduto sin dalle origini degli imperi coloniali, nello
sforzo di mantenerle a tutti i costi vi era anche un aspetto di prestigio politico che era diventato ora an-.
| cor più obsoleto e che purtuttavia spinse la Francia e 121
Storia degli ultimi cinquant'anni
ancor più il Portogallo ad affrontare il peso delle guerre coloniali. Gli imperi coloniali, al loro tempo, avevano avuto
comunque anche lo scopo di escludere le altre grandi potenze dallo sfruttamento delle loro risorse. La grande entità degli investimenti compiuti da Francia e Inghilterra nelle loro colonie africane dalla fine degli anni quaranta mostra che entrambi i paesi contavano di mantenervi a lungo il pieno controllo. Finita da un pezzo l'epoca dei conflitti fra potenze coloniali, era la forma e non la sostanza della dominazione coloniale a essere considerata come destinata all'estinzione. La Gran Bretagna si proponeva di creare forme di autogoverno locale e in un secondo tempo, ancora da definire, di associare al Commonwealth e all’area della ster-
lina veri stati autonomi. Allo scopo di conservare l’influenza politica ed economica sulle sue colonie la Francia aveva inserito sin dal 1946 nella costituzione della Quarta repubblica il complesso meccanismo istituzionale dell’Unione Francese (che era comunque fallito in Indocina). L'Unione era composta dalla Francia metropolitana e dalle colonie, che ora si chiamavano “popo-
li d'oltremare”; questi potevano in futuro decidere se diventare o veri e propri dipartimenti francesi o stati associati all'Unione. Anche se con gradi diversi, l’obiettivo era quello dell’“assimilazione” dei popoli d’oltremare, fino a farli diventare francesi a tutti gli effetti;
ma gli stati associati erano in realtà privi di una vera sovranità e restavano sottorappresentati nell’Assem- — blea elettiva dell’Unione. Il meccanismo venne revisionato nel 1956 e nel 1958, ma funzionò solo come fase.
di transizione verso la completa indipendenza. | Ilsecondo punto danotarea ilian i
122
Terzo mondo e non-allineamento
ticolare quelli della potenza dominante, esemplificato dalla tabella 3. Anche nelle colonie asiatiche dove era più elevata, come nelle Indie olandesi e in Indo-
cina, la presenza europea era numericamente irrilevante ed era costituita essenzialmente da funzionari e amministratori pubblici oltre che da impiegati delle agenzie commerciali. In Africa la situazione era piuttosto diversa: qui gli europei raggiungevano una
quota percentuale nettamente superiore e composta non solo di dipendenti statali ma anche e in misura | più significativa di individui che avevano interessi diretti nel dominio della colonia, in quanto proprietari delle fonti della ricchezza o esponenti dei ceti medi degli affari e delle professioni. Da questi residenti europei, che spesso erano nati nella colonia, c'era da
attendersi che avrebbero saputo condizionare le scelte dei governi e, al limite, che avrebbero difeso autonomamente e a tutti i costi il loro potere sulla colonia e sulla maggioranza africana della popolazione. Quanto al terzo punto, esso è costituito dal mutamento di strategia operato dall'Unione Sovietica, nel passaggio al regime post-stalinista, nei confronti dei movimenti indipendentisti. Non appena si era profilata la sconfitta del Giappone, nell’area dei paesi del sud-est asiatico avevano cominciato a operare partiti comunisti locali che eseguivano le direttive di Mosca e, pagando ciò con l’isolamento, erano rigidamente
classisti e rifiutavano ogni alleanza con le forze nazionaliste (parzialmente fuori da questo modello era soltanto il Viet-minh). La guerriglia condotta dai comu| nisti nelle Filippine e in Birmania dopo l’indipendenza o in Malesia (dove vi era una forte minoranza È:|cinese e il partito traeva ispirazione e direttive dalla Lina maoista) ebbe una sua efficacia, ma restò opera 123
Storia degli ultimi cinquant'anni Tabella 3. Popolazione della potenza coloniale e popolazione totale in alcune colonie asiatiche e africane prima dell’indipendenza (dati in migliaia)
Indonesia, 1938 Indocina, 1938 Algeria, 1954
pop. coloniale
pop. totale
%
250 35 1000
70000 25 000 8700
0,36 Ou 15:
Tunisia, 1938
200*
2700
4,1
Marocco, 1938
180
6500
2,8
50
6000
0,85
200 2000**
2700 10000.
Angola, 1938
58
3250
1,8
Mozambico, 1938
23
4250
0,55
Kenya, 1950
Sud Rodhesia, 1958 Sud Africa, 1938
vida, 20
* Francesi e italiani
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di gruppi minoritari e fu destinata in breve tempo alla sconfitta. Con l’avvio della destalinizzazione le cose cambiarono. Chrusèév si dimostrò assai interessato al movimento espresso dalla conferenza di Bandung e riconobbe la
funzione svolta nelle lotte anticoloniali da quelle che nel linguaggio ufficiale sovietico si chiamavano “bor-
ghesie nazionali”. Capitalismo e socialismo restavano due campi avversi senza che vi fosse spazio per una terza via, ma il neutralismo perseguito dai ghesi del Terzo mondo poteva essere cettato e promosso, se serviva a impedii 124
i bor-
Terzo mondo e non-allineamento
di nuove alleanze con gli Usa e la concessione di basi militari. Poco dopo la crisi di Suez fu l'Unione Sovietica a dare all’Egitto tutto l’aiuto finanziario e tecnico necessario per la costruzione della diga di Assuan, benché nel regime di Nasser il solo posto previsto per i comunisti fosse il carcere. Alla fine degli anni cinquanta, quando l’attenzione degli Stati Uniti per il continente africano era ancora scarsa, l'Unione Sovietica
aveva già valutato l’importanza della prossima moltiplicazione degli stati indipendenti.
4. Una indipendenza difficile: la Francia e l'Africa settentrionale
Al principio degli anni cinquanta il processo di decolonizzazione in Africa aveva riguardato soltanto l'ex possesso italiano della Libia, dichiarata indipendente dall'Onu nel 1951. Movimenti anticoloniali si venivano organizzando soltanto nei paesi arabi del Nordafrica, mentre
il mantenimento
del dominio
coloniale nell'intero continente africano era facilitato da diversi fattori: la scarsa coscienza politica esistente nei paesi subsahariani e il più debole interesse americano a sostituirsi alla presenza europea e a far valere qui, come invece accadeva nel Medio Oriente,
le sue strategie di controllo planetario. La Francia fu il paese che per primo si trovò a . misurarsi con fenomeni di ribellione nelle sue colonie, scegliendo sempre una linea di estrema durezza. Le manifestazioni indipendentiste che si verificarono nel maggio 1945 in diverse città algerine furono represse facendo ricorso anche a bombardamenti aerei e provocando migliaia di morti; ancora più violenta fu | nel 1947 la repressione della rivolta del Madagascar, 125
Storia degli ultimi cinquant'anni
dove le vittime si contarono a decine di migliaia. Negli anni successivi la Francia dovette affrontare le diffuse forze nazionaliste che esistevano in Tunisia e in Marocco e che respingevano l’ingresso dei loro paesi nell'Unione francese con una sovranità ridotta. Solo in seguito all’indebolimento della sua posizione internazionale provocato dalla sconfitta nella guerra d’Indocina.e alle pressioni esercitate dall'Onu il governo francese si risolse ad accettare le trattative e a concedere nel 1956 l'indipendenza ai due paesi. La disponibilità a cedere si rivelò una scelta saggia, perché sia con la repubblica tunisina che con il regno del Marocco la Francia riuscì a mantenere rapporti che consentivano una buona tutela degli interessi economici acquisiti durante l’epoca coloniale. Molto più complessa si presentava la situazione della terza e più antica colonia francese in Nordafrica, l’Algeria: qui la Francia non seppe risolversi alla soluzione più razionale, e non perché la colonia,
dove non ci si era ancora resi conto dell'enorme estensione delle risorse di petrolio e gas, avesse un'importanza economica decisiva. Perdere anche l'Algeria era considerato dalla destra nazionalista come un colpo insopportabile per il prestigio del paese; d’altra parte la storia e lo statuto coloniale dell’Algeria presentavano alcune particolarità destinate a pesare sulle decisioni del governo francese e sugli stati d’animo dell’opinione pubblica e delle forze politiche metropolitane, compresi i comunisti. Quattro
quinti dei francesi residenti erano nati in Algeria e la convinzione comune era che il paese fosse qualcosa
di più di una colonia, una vera parte integrante della. Francia. Se verso il 1950 più dell’11 per cento abitanti dell'Algeria erano francesi, questa prop 126
degli
Terzo mondo e non-allineamento
zione era ancora più alta (14 per cento) trent'anni
.
prima, quando era cominciata la rapida crescita della popolazione araba e berbera. L’Algeria era formalmente inserita nel territorio metropolitano, ma solo i francesi e un’esigua frazione dei musulmani godevano dei diritti politici e avevano potuto partecipare alle elezioni dell'assemblea costituente del 1946, inviando propri deputati; restando in ogni caso una minoranza, i francesi d’Algeria detenevano una larga quota della proprietà terriera e occupavano tutte le posizioni chiave del paese; Orano e in parte Algeri erano a tutti gli effetti delle città francesi. e in tutto il paese il francese era la lingua ufficiale. Già prima che i massacri del 1945 segnassero una frattura insanabile le forze politiche democraticonazionali della maggioranza musulmana avevano abbandonato l’obiettivo dell’assimilazione, con l’acquisizione della cittadinanza francese da parte degli algerini e la loro piena uguaglianza con i francesi. Nel 1947 un nuovo statuto coloniale aveva concesso all’Algeria una propria assemblea, eletta per metà dai francesi e per metà dai musulmani, ma queste modeste concessioni erano parse del tutto insufficienti, ed erano state respinte in maniera anche più netta dagli stessi coloni. Alla fine del 1954 venne costituito il Fronte di liberazione nazionale algerino che passò all’azione servendosi dell’arma del terrorismo, usata con crescente ferocia non solo contro il potere francese ma anche contro la popolazione civile, compresi gli arabi che non si schieravano per la linea dell’intransigenza. L’FLN riuscì tuttavia ad accrescere i propri consensi e la Francia rispose inviando ad Algeri forze | speciali che si impegnarono a reprimere con i mezzi
più efferati la ribellione. Questa era ormai diventata 127
Storia degli ultimi cinquant'anni
una vera e propria guerra che giunse a impegnare 400 000 militari, dividendo profondamente la Fran-
cia metropolitana e facendo dei francesi d’Algeria una forza politica di estrema destra capace di influenzare la politica nazionale. Con l’appoggio dei militari presenti ad Algeri, questi nel maggio 1958 istituirono un proprio governo apertamente in rivolta contro il governo centrale, che si dimise in un cli-
ma di latente guerra civile. L’unica via d’uscita sembrò quella di rivolgersi al generale De Gaulle, che diventava ancora una volta un salvatore della patria, assumendo di fatto le vesti del dittatore incaricato di formalizzare la fine della breve Quarta repubblica (1946-1958) e scrivendo personalmente la nuova costituzione che doveva far da base alla Quinta. La Francia diventava una repubblica presidenziale, nella quale il primo ministro dipendeva solo dalla nomina del presidente e a lui rimetteva le sue dimissioni, venendo sottratto alla subordinazione al parlamento. Il presidente stesso, in carica per sette anni,
presiedeva il consiglio dei ministri, poteva sciogliere in ogni momento l’Assemblea nazionale e assumeva i pieni poteri in caso di necessità. Il ritorno al sistema elettorale uninominale a due turni assicurò una consistente maggioranza al partito gollista, ma il presidente poteva scavalcare le elezioni parlamentari e rendere particolarmente drammatiche le decisioni fondamentali rivolgendosi direttamente alla nazione con un referendum, a cominciare da quello del set-
tembre del 1958, nel quale quasi l’80 per cento dei votanti approvò la nuova costituzione. vai
Quanto all’Algeria, De Gaulle cominciò dando ai | coloni la più ampia certezza che il suo carattere
cese non sarebbe mai stato messo in di 128
fran-
Terzo mondo e non-allineamento
Presto il generale si rese conto che le proposte di una piena integrazione di tutte le componenti dell’ Algeria alla Francia giungevano troppo tardi e non sarebbero state accolte dall’ FLN; nel corso del 1959
dovette cominciare a prendere in considerazione le ipotesi di un’ampia autonomia o di una indipendenza che salvaguardassero le posizioni dei coloni. Di fronte alla nuova ribellione di Algeri del gennaio 1960, De Gaulle decise di accelerare le trattative con
l’autoproclamatosi governo provvisorio algerino e | fece ricorso a un nuovo referendum per farsi dare la piena fiducia da parte della Francia. A ciò l’estrema destra dei coloni francesi e i capi militari presenti ad Algeri risposero nell'aprile 1961 con un fallito colpo di stato dagli intenti secessionisti. Nel marzo 1962 furono infine sottoscritti a Evian gli accordi che riconoscevano l’indipendenza dell’ Algeria. Già dal 1961, dopo il fallimento del colpo di stato dei generali, le organizzazioni estremiste dei coloni e dell’esercito avevano creato l’Oas, Organisation de l’armée secrète, dando vita a un sempre più sanguinoso e insensato contro-terrorismo destinato a colpire gli algerini, il governo francese e la stessa persona di De Gaulle, con il disegno ultimo di spingere la Francia verso una deriva apertamente fascista. Nei mesi che prece dettero e seguirono gli accordi di Evian l’Oas moltiplicò le sue stragi e la sistematica distruzione di edifici pubblici. Fra gli scopi dell’Oas vi era quello di influenzare i francesi chiamati a un nuovo referendum sugli accordi di Evian, ma questi furono approvati da una maggioranza che raggiunse il 90 per cento. L’Oas fallì ugualmente nel suo tentativo di coinvolgere i francesi d’Algeria in una estrema resi| stenza: in grandissima maggioranza questi riconob-
bb
129
Storia degli ultimi cinquant'anni
bero che la questione era ormai chiusa e abbandonarono il caos algerino.
5. L'indipendenza dell’Africa subsahariana Con la sua durata di quasi otto anni e la sua estrema barbarie, giunta da parte dei coloni alla vera e propria follia negli ultimi mesi, la guerra d’Algeria non ha l’uguale nelle vicende della decolonizzazione dell’ Africa. Con i suoi costi economici e militari e, ben di più, con i suoi costi politici che misero in forse più di una volta le stesse sorti della democrazia in Francia, essa funzionò certamente come esempio negativo capace di
accelerare il disimpegno delle potenze coloniali, la Gran Bretagna, la Francia e il Belgio. Nel 1945 il loro dominio sull’Africa a sud del Sahara doveva apparire ancora solido e promettente e dieci anni dopo nessuna colonia aveva ancora ricevuto l'indipendenza. Solo un valore formale aveva la partecipazione delle colonie francesi all'Unione francese del 1946 e solo di breve durata fu la Comunità francese ideata da De Gaulle nel 1958, che garantiva una loro maggiore autonomia. La Guinea richiese subito la piena indipendenza e venne ad aggiungersi all’ex colonia britannica del Ghana, che era diventata nel 1957 uno stato sovrano membro del Commonwealth. = Ad Accra, la capitale del Ghana, si era Gta poi, nel 1958, la prima conferenza degli stati africani già
indipendenti (fino a quel momento erano otto) e dei movimenti indipendentisti, che rivendicò la fine del
colonialismo. Nel corso del 1960 diciassette stati africani giunsero all’indipendenza: due di q
ex amministrazioni fiduciarie (l'ex Togo t Somalia), tredici ex colonie francesi; vieei 130
Terzo mondo e non-allineamento
britannica Nigeria e il Congo belga. In tutti questi casi (tranne che nell’ultimo, sul quale torneremo nel capitolo 6) il passaggio alla sovranità avvenne in maniera pacifica. Le dichiarazioni di indipendenza si moltiplicarono negli anni seguenti e nel 1968 le sole colonie importanti sopravvissute erano quelle portoghesi. Un discorso a parte tocca però ai due possessi britannici del Kenya e della Rhodesia e all'Unione sudafricana. In tutti questi casi ci troviamo in presenza di condi| zioni climatiche favorevoli all’adattamento di coloni bianchi, le cui iniziative si svolsero autonomamente
dalle decisioni del governo di Londra. In Kenya l’esigua minoranza bianca si era impossessata delle terre adibite alle colture da esportazione. Negli anni cinquanta l'opposizione della più forte etnia nera, i kikuyu, si espresse attraverso le azioni dei Mau mau, una società segreta basata su vincoli religiosi, che venne combattuta dagli inglesi con i campi di concentramento e migliaia di uccisioni. Scavalcando l'opposizione dei coloni, il governo centrale si risolse nel 1961 ad accettare l'indipendenza del Kenya, che divenne effettiva nel 1963. Più elevata era la minoranza bianca nella Rhodesia del sud (il 7 per cento degli abitanti), che controllava le ricchezze minerarie del paese. Nel 1953 le più limitate forze dei coloni britannici della Rhodesia del Nord (Zambia) e del Malawi avevano ottenuto la protezione della colonia maggiore, unendosi con la Rhodesia del Sud in una federazione. Nel 1963-64 la cre| scente opposizione della popolazione nativa indusse il governo inglese a sciogliere la federazione e a conce-
derel’indipendenza a Zambia e Malawi; poco dopo guì la risposta della minoranza bianca della Rhode131
Storia degli ultimi cinquant'anni
sia del Sud, che proclamò la propria indipendenza e instaurò nel paese un governo che allo sfruttamento economico aggiunse l'oppressione razziale. Il modello per questo esito razzista della Rhodesia era costituito già da anni dall'Unione sudafricana, che dal 1910 aveva ottenuto lo statuto di dorzizion e dal 1931 era divenuto stato membro del Commonwealth,
con un'autonomia limitata solo dal riconoscimento della sovranità della corona britannica. In Sudafrica la minoranza bianca aveva un peso pari al 20 per cento della composita popolazione totale, che accanto alle varie etnie bantu includeva anche un 12 per cento fra immigrati dall’India e meticci. Fra i bianchi il gruppo più influente e numeroso era quello che, vantando le proprie origini dai coloni boeri, aveva imposto come lingua ufficiale l’afrikaans (derivato dall’antico olandese e arricchito dai più diversi prestiti) e poteva affermare di essere originario africano e anzi il primo occupante della provincia del Capo. I nazionalisti afrikaaner erano al potere sin dal 1924 e avevano progressivamente aggravato le condizioni della maggioranza non bianca, riducendo i suoi diritti politici, civili ed economici. Una svolta ancora più drastica si ebbe dal 1948, quando gli afrikaaner cominciarono ad applicare il sistema della segregazione razziale detto apartheid, basato su una esplicita teoria-razzista e
consistente in una rigida regolamentazione dei rapporti fra bianchi, asiatici, meticci e negri che conduceva in sostanza a uno sfruttamento più o meno in-
tenso dei gruppi segregati da parte dei bianchi. Ammessa alle Nazioni Unite, l'Unione Sudafricana era stata più volte condannata per la sua politica ri nel 1961 uscì dal Commonwealth, proclamandos pubblica pienamente sovrana. 132
Terzo mondo e non-allineamento
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Milano 1998
133
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5. Gli anni dello sviluppo economico, 1950-1973
1. I fattori della crescita nei paesi a economia capitalista | Nei paesi che erano stati coinvolti dalle distruzioni belliche il prodotto interno lordo reale (misurato escludendo gli effetti dell’inflazione) raggiunse più rapidamente del previsto i livelli d’anteguerra: fra il 1949-50 (è il caso della Francia e dell’Italia) e il 1952 (è il caso del Giappone e della Germania occidentale) la ricostruzione poteva dirsi conclusa. Cominciava da questo momento una lunga fase di crescita che sarebbe proseguita, con tassi che non avevano precedenti, fino al 1973. Nei sedici maggiori paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, (Ocse, creata nel 1961) — dodici euro-
pei più Usa, Canada, Australia e Giappone — la cre-
scita media annua reale fra il 1950 e il 1973 fu del
4,9%, contro il 2,9 nel 1900-1913 e il 2,0 nel pertur-
bato periodo 1913-1950, segnato da due guerre mondiali e dalla recessione degli anni trenta. In alcuni casi particolari, in Giappone, Italia e Germania, questa crescita fu ancora più sostenuta, a tal punto
| che divenne di uso comune definirla con l’espressione “miracolo economico”. Nello stesso periodo anche il prodotto lordo proapite reale crebbe a ritmi assai sostenuti, il 3,8 per
ato annuo nel complesso dei sedici paesi conside135
Storia degli ultimi cinquant'anni
Tabella 4. Crescita del prodotto interno lordo nei maggiori paesi dell’Ocse, 1950-1973. Tasso annuo medio reale
1950-55 1955-60 1960-65 1965-70 1970-73 Stati Uniti
4,2
2,0
4,7
300
Germania
9,5
6,5
50
5,8
44
59
Francia
42
5,0
5,8
5,4
d,3
Regno Unito
2,9
3,6
3a
ZI
3,2
Italia Giappone Ocse*
6,0 8,7 DIO
DE 8,6 393
IZ 10,0 DE
6,4 TI2 4,7
#5) 6,8 44
* tutti i paesi membri Fonti: A. Maddison, L'économie mondiale au XX siècle, Ocde/ Oecd, Paris 1989, pp. 132-33.
rati (in Giappone, Italia e Germania rispettivamente 18, il 4,9 e il 4,8 per cento). Nel 1973 questo indice
aveva raggiunto un livello medio pari a 2,2 volte quello del 1950. Il più rapido sviluppo del Giappone e del complesso dei paesi dell'Europa occidentale ebbe inoltre l’effetto di annullare la posizione di assoluta preminenza economica che gli Stati Uniti si erano trovati a detenere alla fine della seconda guerra mondiale. Nel corso dell'intero trentennio 1945-1973 non mancarono i momenti di rallentamento o recessione,
termini che gli economisti preferivano a quelli di crisi o depressione, troppo tristemente associati agli
avvenimenti degli anni trenta. In effetti i sei o sette. casi registrati, con varia intensità negli Stati Uniti e
nell’insieme dei paesi industrializzati (1946, 19 1954, 1958, 1960, 1967, 1970) furono di
ta e non interruppero la tendenza di fonde
136
:
dur
Gli anni dello sviluppo economico Tabella 5. Il riaggancio economico degli Stati Uniti da parte dell'Europa e del Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Prodotto nazionale lordo in miliardi di dollari e a prezzi correnti
Stati Uniti Europa Occid. in% degli Usa Giappone Germania” Francia Gran Bretagna Italia Tot. dei 5 paesi in% degli Usa
1938 67
1948 223
1970 974
1974 1420
76 ip; 6 25,
134 60 11 15
714 ie 190 187
1323 93 451 386
11 D? 6 68
17 59 11 94
148 121 93 (6,
274 187 149 1447
101
42
76
102
* Dal 1948 solo la Repubblica federale tedesca Fonti: D. C. Lambert, Lo sviluppo economico, in Storia economica e sociale del mondo, diretta da P. Léon, vol. 6, Laterza, Roma-
Bari 1979, p. 8.
momenti culminanti delle recessioni, nel gruppo di paesi considerati la disoccupazione rimase al disotto del 3-5%, mentre i prezzi al consumo raramente
crebbero di oltre il 3-3,5% annuo, mostrando solo dopo il 1965 un più marcato carattere inflazionistico. A fare da traino a questa impressionante crescita economica fu l’industria, che accanto ai settori side-
rurgico e meccanico vide la comparsa di grandi innovazioni in quelli della chimica e dell’elettronica. Tut-
| tavia già nel corso degli anni sessanta cominciò a pro| filarsi una crescita ancora più rapida del composito | settore denominato “terziario”. L'agricoltura assunse
1ruolo sempre più marginale, sia in termini di quota 137
Storia degli ultimi cinquant'anni
del prodotto nazionale realizzato (peraltro in continua crescita in termini assoluti) sia in termini di numero di addetti sul totale delle forze di lavoro: nel 1970 meno nel 10 per cento nei paesi dell’Ocse, con livelli inferiori al 3 per cento negli Stati Uniti e in Gran Bre-
tagna. A questa riduzione degli addetti corrispose un grande aumento della produttività, dovuto alla diffusione della meccanizzazione del lavoro, dei concimi chimici e dei diserbanti e antiparassitari.
Diversi fattori possono essere richiamati per spiegare la crescita del 1950-73. Un ruolo di primaria importanza fu quello del mercato internazionale, in netta ripresa in seguito al buon funzionamento del sistema monetario istituito a Bretton Woods nel 1944 e alla sempre maggiore liberalizzazione degli scambi promossa nell’ambito del Gerera/ Agreement on Tariffs and Trade (Gatt). Venivano espressamente ripudiati i principi di politica economica che si erano imposti nell’Occidente capitalista negli anni trenta: il protezionismo doganale e il controllo statale sul commercio estero. Il protezionismo fu considerato in qualche modo corresponsabile della recente epoca di sciagure, quasi un sottoprodotto delle economie fasciste, anche se in realtà ogni stato vi aveva fatto ricorso; con le professioni di fede a favore del libero
scambio parve quasi che il mondo si volesse liberare di ogni ombra del recente passato. Dopo il primo trattato di Ginevra del 1947 (vedi p. 24) il Gatt divenne una sorta di organismo permanente, chiamato periodicamente a promuovere nuovi accordi interna- |
zionali di riduzione delle tariffe doganali: nel 1970 queste erano ridotte a un terzo o un questadellivello di partenza. vai
Il libero scambio era diventato ei; 138
Gli anni dello sviluppo economico
bligata per il rilancio di apparati produttivi che si erano sovradimensionati per poter rispondere alla colossale domanda bellica. Era questo il caso innanzitutto degli Stati Uniti, che attraverso il piano di aiuti agli stati europei e al Giappone poterono rilanciare un’economia altrimenti in serie difficoltà e che assunsero quindi il ruolo propulsivo mondiale, sia con i grandiosi investimenti all’estero, sia con una domanda di beni che sollecitava gli apparati produttivi dei maggiori paesi. Un rilevante contributo all’unificazione e allo sviluppo del mercato internazionale fu dato in questi anni dalle imprese multinazionali. Vengono così denominate le imprese che detengono centri di produzione in stati diversi da quello ufficiale di origine e che realizzano in questi centri una quota significativa del loro fatturato, superiore a un quarto o anche a un terzo. Le società multinazionali derivano dunque dagli investimenti compiuti all’estero e, anche se non appartengono necessariamente alla categoria delle imprese con enormi dimensioni di fatturato e dipendenti, sono un prodotto della tendenza evolutiva delle imprese a massimizzare i profitti con forme crescenti di integrazione. Ciò può essere realizzato in vari modi. Creare filiali all’estero consente di penetrare in altri mercati più efficacemente che esportando il prodotto dal paese della casa madre. In altri casi gli investimenti hanno per scopo di controllare all’origine le materie prime (come il petrolio) o i prodot| ti destinati all'industria agroalimentare. Gli investi“menti che danno vita alle multinazionali sono stati | costantemente indirizzati in massima parte verso i
paesi più sviluppati, ma una quota già notevole negli ini sessanta è andata anche verso quelli più arretra139
Storia degli ultimi cinquant'anni
ti, perché in questi le filiali traggono vantaggio dai più bassi costi della manodopera o si sottraggono al più pesante regime fiscale del paese d'origine. I diversi fattori fin qui ricordati condussero a risultati superiori a ogni aspettativa. Il volume del commercio mondiale aveva già superato nel 1950 i migliori livelli raggiunti nel 1929 (e perduti per quasi il 40 per cento durante la “grande depressione”); fra il 1950 e il 1973 esso realizzò una crescita di oltre cinque volte; quindi ben superiore a quella del prodotto mondiale, che si moltiplicò quasi per tre. Ma la liberalizzazione degli scambi internazionali non sarebbe sufficiente a spiegare la fase di crescita se non venisse abbinata a un altro fattore decisivo, la crescita del mercato interno. Questa fu correlata, fra l’al-
tro, alla notevole dinamica demografica che negli Stati Uniti e in misura minore anche negli altri paesi industrializzati si profilò già prima della fine del conflitto mondiale, proseguendo poi per circa un quindicennio. Questo rovesciamento delle tendenze degli anni trenta dipese più dalla forte ripresa della natalità che dal proseguire del declino della mortalità (così che si poté parlare di un 245y 20072) e fu a suo modo una manifestazione di fiducia nel domani. Il tasso di natalità americano, che era sceso al 18,4 per mille medio nel 1935-39, arrivò al 26,6 nel 1947; in
Francia dall’ancor più basso 14,8 per mille si passò al 21 del 1946-49. Questo fatto determinò nell’imme-
diato un incremento della domanda di beni da parte delle famiglie (e in prospettiva una crescita della disponibilità di forza-lavoro). Fra gli anni cinquanta e sessanta negli Stati Uniti e poi in Europa, in concomitanza con alcune profonde modificazioni del sistema socioculturale, le classi di età giovanili (i teen140
Gli anni dello sviluppo economico
agers) vennero a costituire una essenziale e autonoma componente del mercato di massa. La crescita del mercato interno non si esaurisce na-
turalmente nei fenomeni demografici. Essa dipese anche dalle politiche economiche degli stati che, pur all’interno di un quadro generale che favoriva la libertà di iniziativa delle imprese, furono in grado di influire sull'andamento del ciclo economico, mante-
nendolo costantemente positivo. Ciò avvenne in parte con i classici strumenti monetari (come la manovra
del tasso ufficiale di sconto) ma anche con una più diretta vigilanza sul sistema economico complessivo e con le istituzioni del Welfare State. Entrambe queste direttive di politica economica e sociale sono state esemplificate più indietro sul caso della Gran Bretagna (vedi pp. 90-92), ma esse furono fatte proprie lungo l'arco del periodo qui considerato da tutti i paesi sviluppati. Così, da una parte si ebbero le nazionalizzazioni delle industrie e dei servizi considerati di interesse pubblico e varie forme di controllo sulle industrie private; a ciò bisogna aggiungere gli interventi decisivi della spesa pubblica compiuti (seguendo la teoria del deficit spending elaborata dall’economista inglese J. M. Keynes in reazione alla gran-
de depressione degli anni trenta) anche creando un deficit di bilancio e indirizzati a creare posti di lavoro e una domanda aggiuntiva; in diversi stati, infine,
si pensò anche a più ambiziosi progetti di programmazione globale dello sviluppo. Dall'altra si ebbero le politiche di sicurezza e benessere sociale che agirono redistribuendo i redditi attraverso lo strumento fiscale, ottenendo i due effetti complementari di so-
stenere la domanda e di ridurre la conflittualità so-
ciale. V, 141
Storta degli ultimi cinquant'anni
Non va comunque dimenticata la fondamentale importanza che ebbe la possibilità di accedere a prezzi bassi alle materie prime e in particolare alle fonti di energia (la cui domanda crebbe di oltre il 5 per cento annuo nel 1950-73), in gran parte possedute dai paesi meno sviluppati, già indipendenti o ancora sotto soggezione coloniale. La più grande trasformazione di questo periodo riguardò le fonti di energia, con l'aumento dell’incidenza del petrolio e dei gas naturali. La produzione mondiale di petrolio, che era stata di 523 milioni di tonnellate nel 1950, passò a 1056 nel 1960 e a 2775 nel 1973. Ancora più significativi furono i mutamenti nella geografia della produzione. Mentre l’Unione Sovietica restava autosufficiente,
il peso degli Stati
Uniti nella produzione mondiale scese dal 52 a meno del 18 per cento; per contro il peso complessivo dei paesi islamici (Iran e Medio Oriente arabo, cui si erano aggiunti Libia e Algeria) passò dal 16 a più del 42 per cento; circa un quarto della produzione di greggio usciva dal golfo Persico, che vide perciò continuamente crescere il suo ruolo di zona strategica mondiale. Mentre gli Stati Uniti completavano i loro bisogni rivolgendosi al Venezuela e alla Nigeria, l'Europa occidentale e il Giappone restavano totalmente dipendenti dal Medio Quante e dal Nordafrica. : Il mercato mondiale del petrolio, dalla prospezione delle riserve e dall’estrazione del greggio fino alla raffinazione e ai diversi settori dell’industria petrolchimica, era dominato da sette grandi compagnie, cinque statunitensi (Esso — ridenominata dal 1972 Exxon -, Mobil, Texaco, Gulf, Standard Oil of California), una anglo-olandese (Shell) e una inglese Ct 142
Gli anni dello sviluppo economico Tabella 6. Consumi mondiali di energia, 1950-1973. In tonnellate di equivalente petrolio (Tep) i consumi procapite; in milioni di Tep i consumi totali consumo totale
1950 1960 1970 1973
pro-capite
valori percentuali di ciascuna fonte carbone
Meana 066),,.60;9.... RIS 0,90 499 28h 20001033 5. D132: 428,0...
petrolio
gas natur. elettricità*
27,2 10,2 33,3 15;1 44,0,..,,120,1 47,2; seg 21,0.
107, 2A 24 3,8
* elettricità primaria, prodotta da centrali idroelettriche e nucleari Fonti: A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 ad oggi, il Mulino, Bologna 1998, p. 167.
(BP); le cosiddette “sette sorelle” estraevano più del-
la metà del greggio mondiale (due terzi escludendo quello sovietico) e la quasi totalità di quello prodotto nei paesi petroliferi poco sviluppati. Nel corso degli anni cinquanta e sessanta la quota di partecipazione dei paesi produttori ai profitti era cresciuta, ma i prezzi del greggio avevano avuto una tendenza a scendere, essendosi sviluppata l'offerta anche più rapidamente della domanda. Intorno al 1970 il prezzo di mercato del barile di petrolio (42 galloni Usa, ovvero 159 litri) era di circa un dollaro. Il basso prezzo del petrolio condusse a ridimensionare il ruolo del carbone, la cui produzione mondiale crebbe debolmente fra il 1960 e il 1973, dimi-
|
muendo nettamente nei bacini europei che erano stati | alla base della prima rivoluzione industriale. Ugualmente il petrolio a buon mercato tolse ogni incentivo alla ricerca di altre fonti energetiche. Ciò vale in 143
Storia degli ultimi cinquant'anni
particolare per l'energia elettrica prodotta da reattori nucleari, secondo un uso pacifico dell’atomo cui
negli Stati Uniti si era pensato già dalla fine degli anni quaranta. Centrali elettronucleari comparvero nel 1954 in Unione Sovietica, nel 1957 negli Stati Uniti, nel 1961 in Germania. Ma intorno al 1970 l’e-
lettricità nucleare rappresentava meno dell’1% dell'energia mondiale prodotta e, se ci limitiamo alla sola energia elettrica, circa il 3% (con punte più alte in alcuni paesi europei come la Francia). Resta da esaminare per ultimo il ruolo giocato dalle spese militari nel favorire lo sviluppo. È fuori di dubbio che fu la partecipazione alla guerra mondiale che rimise in pieno movimento la macchina economica statunitense. Così pure è da tutti riconosciuto che la guerra di Corea creò una nuova forte spinta espansiva per l'economia degli Stati Uniti e accelerò la ripresa del Giappone e della Germania; per contro alla fine del conflitto coreano corrispose la recessione americana del 1953-54. Negli anni successivi potenti interessi industriali premettero affinché le spese militari del paese fossero incrementate e di
fatto restarono al 10 per cento del prodotto nazionale anche dopo la fine della guerra di Corea; nel 1960, alla scadenza del suo secondo mandato, lo stesso
presidente Eisenhower denunciò i pericoli che la società e l'economia americana correvano nel subordinarsi a quello che definiva il “complesso militareindustriale”. D'altra parte è anche vero che nei paesi del “miracolo economico”, Germania, Italia e Giap-
pone, che più ancora degli altri alleati degli Stati
Uniti delegavano al loro protettoreiMm per:sioni sa, l'incidenza delle spese militari sulpi. sr Izionale fu piuttosto bassa.
144
Gli anni dello sviluppo economico 2. La società dei consumi e l’età dell’elettronica
Per tutto il XIX secolo la quota maggiore dello sviluppo economico era dipesa più dalle grandi infrastrutture e dalle industrie pesanti (ferrovie, siderurgia) che dalla produzione di beni rivolti ai consumi privati. Il primato delle industrie di consumo risaliva negli Stati Uniti agli anni venti, ma fu soltanto dalla fine degli anni quaranta che, ancora a cominciare dagli Usa, quella che fu denominata “società dei consumi” si affermò per un ventennio come base del ‘sistema economico dei paesi sviluppati. Secondo la rappresentazione sintetica che ha dato Robert R. Reich (L'economza delle nazioni, 1991, p. 43), dopo la
fine della guerra «i militari smobilitati misero su famiglia, acquistarono case con prestiti statali agevo-
lati... e le riempirono con lavastoviglie, asciugatrici, pentole elettriche,
condizionatori
d’aria, lavatrici,
carrozzine per bambini, frigoriferi e televisori». Dai bassi costi del petrolio e dalla sua disponibilità senza limiti dipesero due fra i settori più dinamici delle industrie di consumo, quello dell’automobile,
l'emblema dei consumi di massa, e quello dei derivati del petrolio. Il parco mondiale delle autovetture, che non arrivava a 40 milioni nel 1948, era circa rad-
doppiato dieci anni dopo e aveva superato i 250 milioni nel 1971. Nel 1958 c’era un'automobile ogni tre americani (una ogni due alla metà degli anni settanta) e una quindicina d’anni dopo tutti i paesi industrializzati erano prossimi a raggiungere questo | indice di motorizzazione. Direttamente e attraverso le industrie e i servizi collegati (dagli pneumatici alle
| pompe di benzina, dagli accessori alle officine di riparazione) l'automobile era il primo motore dello 145
Storia degli ultimi cinquant'anni
sviluppo; in funzione dell'automobile vennero realizzate le reti autostradali e furono rimodellate le grandi città, con il trasferimento verso i nuovi quartieri esterni dei ceti medi e lo svuotamento degli antichi centri urbani. Quanto al petrolio, esso era elemento essenziale
dello sviluppo non solo in quanto fonte di energia, facendo funzionare la maggior parte delle centrali elettriche e fornendo diversi tipi di combustibile per il riscaldamento ’e per i motori dei mezzi di traspor-
to su strada, aria e acqua. Oltre a essere strettamente collegato allo sviluppo dell’automobile attraverso due dei suoi innumerevoli derivati, la benzina e la gomma sintetica, e ad aver rivoluzionato con le fibre
artificiali le industrie tessili, il petrolio dette vita a una industria completamente nuova, quella delle materie plastiche. La loro produzione era stata avviata su piccola scala fin dagli inizi del Novecento, con la preparazione della prima resina sintetica, la bachelite. Nel 1957 prese avvio, su scala industriale, la produzione del polipropilene. Questa resina termoplastica, insieme ad altre in seguito prodotte industrialmente, per la sua alta rigidità, il suo modestissimo peso, la sua notevole resistenza al calore, nonché i
suoi modesti costi di produzione si impose sul mercato, trovando applicazione nell'industria automobilistica e degli elettrodomestici, e dando vita a un nuovo settore dell'industria chimica per la produzione di oggetti casalinghi e d’arredamento. Nel giro di pochi anni la produzione di materie plastiche rag-
giunse milioni di tonnellate, riducendo gli spazi di mercato di altre materie tradizionali, comeil vetro o
i derivati dei metalli per gli usi domestici.
|
L'ambiente domestico divenne il terreno di un’al146
n
Gli anni dello sviluppo economico
tra significativa trasformazione dei consumi e degli stili di vita, con la diffusione del frigorifero elettrico,
che modificò radicalmente le abitudini alimentari dei cittadini attraverso la conservazione dei cibi, e della lavatrice, che consentì alle donne di ridurre notevol-
mente i tempi dedicati al ménage domestico, mentre allo stesso tempo esse accedevano al lavoro e ad altre attività professionali prima riservate quasi esclusivamente agli uomini. Ma fu indubbiamente nel campo dell’elettronica che l’integrazione tra scienza e produzione industria-
le determinò i maggiori risultati. Si aprirono qui campi di applicazione, impensabili fino a pochi anni prima, nei settori delle comunicazioni e della elabora-
zione e trasmissione delle informazioni. Con la costruzione nel 1948 e la commercializzazione nel 1951 del transistor, un dispositivo elettronico in grado di amplificare la potenza di un segnale elettrico, si apriva una vera e propria rivoluzione delle comunicazioni di massa. Sostituendo le valvole termoioniche, i
transistor consentirono di migliorare nettamente le prestazioni dei vari apparecchi di trasmissione e riproduzione del suono e dell'immagine, trasformando in bene di consumo di massa la televisione e diffondendo i registratori a nastro. Già cominciata nel 1946, l'era della televisione si affermava in tutta la sua potenza, con le radicali modificazioni apportate allo stile di vita e all’organizzazione del tempo libero delle famiglie a livello mondiale e con un'estensione del campo della comunicazione ben oltre i traguardi rag«giunti dal cinema e dalla radio. La televisione sarebbe ARTT entrata in ogni casa, facendo vedere a miliardi di uomini, con i sistemi di ritrasmissione satellitare dei
| segnali entrati in uso negli anni sessanta, il mondo e i 147
Storia degli ultimi cinquant'anni
suoi eventi, inventando nuove forme di produzione
artistica e di potenzialità espressive, creando nuovi miti e culture collettive. Con il transistor avvenne inoltre un passaggio decisivo nel settore dei calcolatori, che da strumenti rea-
lizzati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti già dal 1943 in esemplari unici a fini sperimentali o militari (come la decodifica dei messaggi segreti dell’esercito nazista) divennero veri prodotti commerciali. Grazie alla realizzazione di transistor sempre più piccoli, in grado di sostituire a costi irrisori i giganteschi apparati di valvole termoioniche (18.000 su una superficie di dodici metri per sei nel caso dell’Eniac — Electronic Numerical Integrator and Computer — realizzato nel 1946 nell’università di Pennsylvania) che animavano i primi elaboratori elettronici, si apriva la possibilità di uso delle macchine in tutte le operazioni di calcolo proprie di qualunque attività economica. Nel 1958 furono brevettati i circuiti integrati,
commercializzati negli anni sessanta e in grado di fornire ai calcolatori componenti elettroniche nell'ordine delle decine di migliaia racchiuse in spazi ristretti. Nel decennio successivo la quarta genera-
zione dei calcolatori fu basata sui microchip, le cui componenti passavano all’ordine delle migliaia di
unità per centimetro quadrato di superficie. A partire dalla fine degli anni cinquanta, banche, imprese, uffici fiscali, servizi statistici nazionali, aero-
porti, oltre ai centri militari e spaziali, si dotarono di calcolatori ed elaboratori e applicarono tecniche informatiche, che consentivano il trattamento automa-
tico delle informazioni, nella gestione della produzione, dei magazzini, della contabilità, deiservizi alla clientela, nell’elaborazione dei dati dei censimenti. |
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Gli anni dello sviluppo economico
numero dei calcolatori in esercizio negli Stati Uniti passò da 2000 nel 1959 a più di 20000 nel 1965 e a 87000 nel 1975 (circa la metà di quelli esistenti al mondo a quest’ultima data). Gli effetti sociali della rivoluzione tecnologica non riguardarono esclusivamente i consumi e i sistemi di comunicazione, ma ebbero diretti riflessi anche sul
modo di produrre e sull’organizzazione del lavoro, determinando negli anni sessanta e in maniera più netta nei settanta il passaggio dalla meccanizzazione all’automazione. Il successo dell’applicazione dell’auitomazione è dovuto essenzialmente al fatto che consente da un lato una drastica riduzione dei costi, dal-
l’altro un notevolissimo incremento della produttività: esso ha creato però problemi complessi nel mercato del lavoro, producendo il fenomeno della disoccupazione tecnologica, dovuta all’obsolescenza di interi campi di attività e di tradizionali profili professionali, mascherata nel ventennio di espansione soltanto dalla massiccia estensione della base produttiva. Lo scopo dell’automazione è infatti quello di sostituire la forza-lavoro umana con sistemi di macchine,
non solo nelle mere funzioni produttive, come era già accaduto con la meccanizzazione, ma anche nelle funzioni di servizio, comando e sorveglianza delle
macchine, come pure nella funzione del controllo dei prodotti. In un primo tempo l’automazione è avve-
nuta all’interno della stessa organizzazione del lavoro che reggeva la fabbrica taylorista-fordista, accelerando e razionalizzando ulteriormente la catena di | montaggio nelle produzioni standardizzate di massa ‘ che la caratterizzavano. Ma una svolta più radicale si ebbe con la prima comparsa di computer che erano n grado di istruire e comandare operai meccanici o SA
149
Storia degli ultimi cinquant'anni
robot su come conformare i pezzi e montarli. Questo risultato si è potuto realizzare attraverso l’integrazione sempre più spinta dei diversi segmenti del processo produttivo, fino alla creazione di un unico processo di produzione in grado di realizzare tutte le fasi costitutive di un prodotto, con la totale sostituzione dell’uomo con la macchina, resa “intelligente” dall'informatica. L'estrema specializzazione delle mansioni e la segmentazione dei processi produttivi cessò di essere realizzata in funzione dell’ottimizzazione del lavoro umano e venne ripensata in funzione dei flussi previsti nel sistema automatizzato, nei quali all’attività umana resta solo il compito di metterli in funzione e di ispezionarli. Cominciava a essere in atto il processo che dopo il 1970 (vedi cap. 12, $ 2) avrebbe ridotto a soglie minime il peso sociale del lavoro operaio e persino di quello impiegatizio, anch'esso interamente subordinato ai ritmi del calcolatore elettronico, spostando il potere decisionale alla gerarchia manageriale che detiene il controllo dell’organizzazione tecnica della produzione. 3. L'Europa: relazioni politiche e comunità economica
L'Europa del XIX secolo aveva oscillato fra due polarità contrastanti: da una parte vi erano state, ben visi- _ bili, le rivalità fra le grandi potenze e i contrapposti nazionalismi; dall’altro i richiami, retorici o volente-
rosi, a un patrimonio storico e culturale comune. Fra il 1914 e il 1945 prevalsero i motivi del conflitto, pro-
ducendo due guerre generali e regimi politici che
erano e si proclamavano la negazione dell’intera 150
Gli anni dello sviluppo economico
dizione umanistica e illuminista dell'Europa. Nella parte occidentale del continente, uscito smembrato e
sconvolto dalla seconda guerra mondiale, e in un quadro internazionale già fortemente condizionato dalla rigidità degli schieramenti della guerra fredda, cominciarono presto a farsi sentire le voci di intellettuali di prestigio e di uomini politici che, avanzando ragioni tanto ideali che pratiche, riproponevano i valori unificanti dell'esperienza storica europea. In questa direzione si muovevano le forze democratiche che intendevano superare l’ideologia nazionalista responsabile degli orrori della guerra e dei fascismi e promuovere il principio della fratellanza fra i popoli per evitare il pericolo di altri conflitti; ma ad esse si
veniva aggiungendo la necessità della collaborazione internazionale nello sviluppo scientifico, tecnologico ed economico, che richiedeva sforzi che i paesi singolarmente presi non erano in grado di affrontare. Inoltre solamente un'Europa unita poteva sperare di porsi in condizioni di parità nei confronti delle due nuove potenze mondiali, gli Usa e l’Urss. lL’europeismo si presentò sin dal principio impegnato in maniera ambivalente nella costituzione di una entità politica in grado di svolgere un proprio ruolo nel sistema internazionale, schierandosi all’in-
terno dell’alleanza atlantica ma evitando una totale subordinazione agli Usa, e nella creazione di un’area di libero mercato dotata di efficaci strumenti di cooperazione. Le proposte di una federazione europea e di un’assemblea costituente restarono per il momen"to sul fronte dei valori ideali e non andarono oltre la costituzione (nel 1949) di un Consiglio d'Europa, con sede a Strasburgo, che doveva promuovere la consultazione fra gli stati e gli scambi culturali. Più 151
Storia degli ultimi cinquant'anni
fruttuosa si dimostrò invece la convinzione che era preferibile cominciare dall’integrazione economica e attendere che quella politica sorgesse solo come conseguenza. Nel maggio 1950 (un anno dopo la nascita della Repubblica federale tedesca) il ministro degli esteri francese Robert Schuman, propose, come «prima tappa di una federazione europea» e allo scopo di favorire l'essenziale obiettivo della riconciliazione tra Francia e Germania, che i due paesi si impegnassero a mettere in comune le loro risorse di carbone e acciaio (che restavano i fondamenti dello sviluppo economico e industriale), invitando anche altri stati europei a partecipare al progetto. Abbandonata l’i-
dea di opporsi alla rinascita economica della Germania, la proposta di Schuman intendeva far sì che questa avvenisse senza più costituire una minaccia di rivincita.
Nell’aprile 1951 venne così firmato a Parigi il trattato che istituiva la Comunità europea del carbone e dell'acciaio
(Ceca),
cui aderirono
anche
Italia,
Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Si trattava di un organismo sovranazionale incaricato di controllare la produzione e la distribuzione delle risorse in settori chiave dello sviluppo economico e di attuare un mercato comune dei prodotti carbosiderurgici con la
graduale eliminazione dei dazi tra i paesi firmatari. Ma le istituzioni della Comunità segnavanoranche un primo importante tentativo di superare l’assoluta sovranità degli stati. Il suo vero organo di governo era costituito dall’ Alta Autorità, composta di nove mem-
bri; questa era nominata da un organo politico (il Consiglio dei ministri, che rappresentava gli stati membri) e doveva rispondere di fronte a una Assem-
blea, emanazione dei parlamenti nazionali; ma l'Alta 152
Gli anni dello sviluppo economico
Autorità decideva a maggioranza e non all’unanimità ed esercitava le sue funzioni in piena autonomia, controllando che gli stati membri non compissero atti che potevano favorire le imprese nazionali e prendendo decisioni in materia di prezzi e quantità prodotte. La creazione della Ceca ebbe fra l’altro l’effetto di far tornare la Ruhr sotto la sovranità tedesca e, con
grande soddisfazione di chi puntava a un’Europa federale, aprì la possibilità di passare rapidamente dall'ambito economico a quello politico; ma, come già si è visto (cap. 3, $ 6), al trattato del 1952 sulla
Comunità europea di difesa seguì il clamoroso fallimento del 1954, che rivelava il permanere di attriti e sospetti tra la Germania e la Francia. La costruzione dell'Europa riprese l’anno dopo sulla sola base economica e condusse a due nuovi trattati, firmati a Roma nel marzo 1957 ed entrati in
vigore il 1° gennaio 1958, che si venivano a fondere con quello del 1951 aggiungendo alla Ceca una Comunità economica europea (Cee) e una Comunità europea per l’energia atomica (Euratom). La Cee aveva la funzione di coordinare e promuovere le iniziative comuni fra gli stati membri, mirando a un’unione economica sempre più stretta e tendenzialmente irreversibile (il trattato era infatti di durata illimitata). La maggior realizzazione fu il Mercato comune europeo (Mec), che con la progressiva abolizione delle barriere doganali fra gli stati aderenti, l'adozione di tariffe comuni verso l'esterno e la definizione, ancora piuttosto sommaria, di una politica agricola comune (mentre la libera circolazione dei
lavoratori e dei capitali restava per il momento solo
una dichiarazione di principio) dette un contributo 55
Storia degli ultimi cinquant'anni
fondamentale allo sviluppo economico e sociale della Cee. Analogamente
alla Ceca, l’Euratom
istituiva
un’unione doganale a sé per i materiali destinati allo sviluppo delle industrie nucleari e favoriva l’attività di ricerca per l’uso pacifico dell’energia nucleare. Il nuovo trattato veniva coordinato con quello del 1951 confermando l’Assemblea e, come organo principale, il Consiglio dei ministri dei sei paesi, che prendeva decisioni all'unanimità nei tre settori della Ceca,
della Cee e dell’Euratom, anche se restava una più lontana prospettiva di votazioni a maggioranza. Ve-
nivano inoltre istituite due Commissioni per la Cee e l’Euratom, analoghe all’Alta Autorità della Ceca ma con minori poteri.
All'indomani della sua creazione la Cee si trovò ad affrontare due problemi. Il primo dipendeva dalla prevedibile ostilità della Gran Bretagna, che temeva di veder penalizzate le sue esportazioni verso “l’Europa dei Sei” e che nel 1959 costituì una rivale European Free Trade Association (Efta), anch'essa con sei membri, comprendendo i tre paesi scandinavi, 1’Au-
stria e la Svizzera. Il secondo era dato dal generale De Gaulle, che prima di diventare presidente aveva espresso ripetutamente la sua ostilità nei confronti dei progetti europei e più ancora di ogni prospettiva federalista. In concreto l’Efta dimostrò di non essere in grado di rallentare l'integrazione dell'Europa dei Sei e nell’agosto 1961 la Gran Bretagna chiese di aderire alla Cee. Dopo il 1958 De Gaulle dette una veste più complessa al suo nazionalismo. Il presidente francese continuava a opporsi agli sviluppi dell'Europa secondo il modello rappresentato dalla Ceca, nella quale gli stati cedevano parte della loro so-
vranità a tecnici e funzionari. Ciò che maggiormente 154
1
di
Gli anni dello sviluppo economico
gli interessava era invece la capacità dell'Europa di costituire un influente terzo polo politico nel sistema internazionale, capace di mantenere
un'autonomia
di scelte nei confronti degli Stati Uniti: in questa Europa che sarebbe sorta dagli stati e dalle nazioni e non contro di essi la Francia avrebbe giocato un ruolo primario, dopo essersi definitivamente riconciliata con la Germania. Nel gennaio 1963 De Gaulle rese pubblico il suo veto alla Gran Bretagna e, coerentemente con le sue idee, si oppose per tutto il tempo che restò al potere (fino al 1969) all’improvvisa e dubbia conversione della Gran Bretagna alEuropa, per i legami economici che questa aveva con il Commonwealth e ancor più per quelli politici con gli Stati Uniti; ammettendola come nuovo membro, l'Europa avrebbe rischiato di diventare soltanto un'appendice dell'Alleanza atlantica dominata dagli
Stati Uniti.
i
4. Tre miracoli economici: Germania, Italia e Giappone
Alcuni elementi accomunavano i tre paesi che registrarono fra il 1950 e il 1973 i più elevati tassi di crescita del prodotto nazionale lordo. Essi avevano formato la coalizione uscita sconfitta dalla guerra e si erano ritrovati con ingenti distruzioni (in Germania e Giappone assai più gravi che in Italia) negli apparati industriali e nelle strutture materiali (strade, fer-
rovie, porti, città). Avevano poi subito un periodo (meno prolungato e severo nel caso dell’Italia) di oc. cupazione militare, ma nel giro di pochi anni erano passati dallo stato di ex nemici degli Stati Uniti a quello di alleati, ottenendo notevoli aiuti economici
; 4
È
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Storia degli ultimi cinquant'anni
dal governo americano. Il Giappone e la Germania godettero inoltre di una lunga stabilità politica. L'inizio della guerra di Corea pose fine alla vivacità politica che aveva caratterizzato il Giappone dal 1946. Il partito comunista fu messo fuori legge, mentre iscritti e simpatizzanti venivano allontanati dagli uffici pubblici e sottoposti a gravi discriminazioni. Dalla fusione dei diversi partiti moderati che avevano fino ad allora governato in coalizione nacque il partito liberaldemocratico, il cui ruolo egemone nella politica giapponese fu incontestato per decenni e conobbe so-
lo alla metà degli anni settanta una fase di crisi dovuta alle lotte fra le sue correnti. Prima di allora la più grave crisi del Giappone era stata determinata, nel 1961, dal rinnovo dell’alleanza militare con gli Stati Uniti, cui si opposero vivacemente gli studenti, le sinistre e anche i nazionalisti perché faceva conservare agli americani le basi militari e il pieno controllo di Okinawa e delle altre isole Ryukyu (che verranno restituite alla piena sovranità giapponese solo nel 1972).
In Germania, anche come conseguenza della legge elettorale (vedi p. 98), il sistema politico andò restringendosi a quattro partiti: i due di orientamento democratico-cristiano (la Cdu e la bavarese Csu) raggiungevano insieme un’ampia maggioranza relativa;
con il più piccolo ma influente partito liberale costituirono un'alleanza di governo che fu retta dal 1949
al 1963 rezione quando seguito
da Adenauer e durò altri tre anni sotto la didi Ludwig Erhard. Alle elezioni del 1966, la Spd divenne il primo partito tedesco e in alla rottura fra democratici cristiani e libera-
li, venne costituito un nuovo governo detto di “gran-
de coalizione” perché basato sull’alleanza fra CduCsu e Spd, che resse la Germania fino al 1969. 156
sì
Gli anni dello sviluppo economico
In Italia fra il 1947 e il 1963 si succedettero sedici governi, undici dei quali durarono meno di sette mesi. L'alleanza di centro costituita nel 1948 da De Gasperi attorno alla Democrazia cristiana cercò di garantirsi la vittoria nel 1953 attraverso una legge elettorale che assegnava un premio di maggioranza; ma la coalizione non raggiunse l’obiettivo e già dal 1956 si aprì nel partito di maggioranza relativa un aspro confronto sulla ricerca di nuove alleanze che non mettessero in questione il suo ruolo di perno del sistema. L’instabilità politica, divenuta in alcuni momenti particolarmente acuta, ebbe però una scarsa influenza sulle vicende dello sviluppo economico. La fase più delicata della ricostruzione postbellica fu gestita da De Gasperi che, dopo l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo del maggio 1947, chiamò in agosto al ministero del bilancio il liberale Luigi Einaudi, ben visto dalla borghesia industriale e divenuto nel 1948 presidente della repubblica. Einaudi e De Gasperi vararono una drastica politica di risanamento economico, con l’obiettivo di fermare
l'inflazione galoppante e di arrestare la caduta della lira di fronte al dollaro, che rendeva sempre più care le importazioni. Elevato il costo del denaro attraverso l'innalzamento dei tassi di interesse e ristretta la massa monetaria circolante, i prezzi poterono essere messi sotto controllo. Le ripercussioni furono gravi sul terreno economico, non meno che su quello umano; il 1948 fu un anno di grave crisi e la disoccupazione, già pesante, si fece drammatica. Il passaggio al governo di centro comportò inoltre la liberalizzazio-
ne del mercato interno e l'abbandono dei razionamenti; caddero le ipotesi riformiste avanzate dai comunisti e dalle altre forze progressiste laiche e cat-
Storia degli ultimi cinquant'anni
toliche nell’immediato dopoguerra, che prevedevano un cambio della moneta orientato a colpire i patrimoni liquidi e gli speculatori degli anni di guerra e una riforma agraria che doveva rafforzare la piccola e media azienda coltivatrice a spese del latifondo improduttivo. La compressione dei salari divenne un fattore strategico dell’industria italiana, che privilegiò i settori produttivi a basso contenuto tecnologico e ad alto impiego di forza-lavoro, come il tessile e l’alimentare. I bassi prezzi dei prodotti erano così ottenuti grazie al modesto livello delle remunerazioni, che disin-
centivava l’introduzione di macchinari tecnologicamente più avanzati e consentiva un modesto sviluppo del mercato interno. Più rapida fu invece la crescita delle industrie indirizzate anche al mercato estero, alle quali la politica dei bassi salari consentiva di mantenere prezzi competitivi. Le imprese che si mossero in tale direzione, come quelle automobilistiche, dovettero razionalizzare i sistemi produttivi e
costituirono il polo d'avanguardia dell'economia nazionale. Lo sviluppo industriale riguardò comunque solo alcune aree dell’Italia settentrionale, mentre tutto il Mezzogiorno rimase confinato in un'economia
povera, prevalentemente agricola e priva di prospettive di sviluppo. Questo modello di sviluppo, fondato sul doppio dualismo fra industrie più avanzate e industrie tradizionali e fra Nord e Sud, cominciò a dare i suoi frut-
ti dalla metà degli anni cinquanta: il mercato interno divenne anch'esso un fattore essenziale per le industrie del primo tipo (fra il 1956 e il 1970 ilnumero di
automobili in circolazione decuplicò, passando da 1 a 10 milioni); il Sud fornì un flusso continuodi ma158
Gli anni dello sviluppo economico
nodopera a basso costo, come è documentato dai
due milioni di mutamenti di residenza verso il Nord (prevalentemente Lombardia e Piemonte) effettuati fra il 1955 e il 1970. Ma questo nuovo flusso migratorio non interruppe l'emigrazione dalle regioni meridionali e dal Veneto verso gli altri stati europei (Germania, Francia, Svizzera e Belgio) e oltreoceano,
che fra il 1946 e il 1970 coinvolse ancora rispettivamente quattro milioni e mezzo e oltre due milioni di individui. Le retribuzioni seguirono con ritardo e solo parzialmente la crescita della produttività del lavoro e del prodotto nazionale, registrando fra il 1953 il 1961 un aumento attorno al 30 per cento. Aumenti assai più consistenti si ebbero in seguito alle ondate di scioperi del 1961-64. Fu precisamente in questi anni che si realizzò, assai faticosamente, una importante svolta politica, con
il passaggio dai governi centristi a quelli di centro-sinistra, cui il partito socialista fornì il suo appoggio prima con l’astensione (1962-63) e poi con la partecipazione diretta. Questi governi realizzarono, con ritardo rispetto agli altri paesi europei, alcune riforme tipiche del Welfare State, a cominciare dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica, ma non misero in questione il ruolo egemone della Democrazia Cristiana. Separando i socialisti dai comunisti essi avevano come scopo di condurre all’isolamento politico questi ultimi. Anche se il Pci vide crescere i suoi consensi elettorali, lo scopo venne in parte raggiunto; l’isolamento del Pci era in gran parte il risultato inevitabile della guerra fredda e della collocazione inter-
nazionale dell’Italia, ma dipese anche da alcune sue scelte che seguirono il netto rifiuto del piano Marshall: l'opposizione assoluta alla politica europeista, 159
Storia degli ultimi cinquant'anni
l'approvazione dell’intervento sovietico in Ungheria (che accelerò la rottura con il Psi) e per ultima l’opposizione al programma del centrosinistra, non del tutto ingiustificata, visti gli obiettivi politici di questa coalizione di governo. In Germania, come in Italia, la stabilizzazione della moneta (il nuovo marco introdotto nel 1948), un ampio liberismo e il ruolo di forza propulsiva assegnato alle esportazioni fecero da base al miraco-
lo economico. Il ricordo della infausta grande inflazione del 1921-23 rese indiscutibile la prima di queste scelte; la seconda e più ancora la terza si ponevano in esplicita opposizione contro lo statalismo nazionalista e l’autarchia dell’epoca nazista e si inserivano nel quadro di apertura delle economie via via delineato dalla conferenza di Bretton Woods al piano Marshall. Ma la politica economica tedesca riuscì ad armonizzare assai meglio di quella italiana la notevole crescita delle esportazioni (+ 12,4 per cento medio annuo fra il 1950 e il 1973) con quella dei salari, del mercato interno e dello “stato sociale”.
Fino al 1955 la Germania non ebbe da sostenere spese militari; inoltre, a differenza della Gran Bre-
tagna e della Francia, non dovette distogliere risorse dagli investimenti nell’inutile difesa di un impero coloniale. Il paese non fu coinvolto nella recessione del 1954 e il suo tasso di disoccupazione continuò a scendere per tutti gli anni cinquanta, raggiungendo dal 1959 al 1974 indici così bassi, anche inferiori all’1
per cento, che equivalevano al pieno impiego. Non soltanto la Germania riuscì ad assorbire i nove milioni di profughi delle province orientali e gli altri tre
milioni che fra il 1949 e il 1961 fuggirono dalla Repubblica democratica tedesca, ma anche divenne 160
5
Gli anni dello sviluppo economico
meta di una consistente emigrazione dai paesi dell'Europa meridionale: nel 1971 il 6 per cento della popolazione residente in Germania (circa 3,6 milioni di persone) era costituita da immigrati, italiani, tur-
chi (e curdi), greci, iugoslavi, spagnoli. Ancora più di quello italiano e tedesco, il caso del Giappone merita il ricorso all’idea di miracolo economico, perché comportò i più elevati tassi di crescita del prodotto nazionale (vedi tabella 4) e del commercio estero e perché condusse ad aggirare quelli che per molti decenni erano stati i principali ostacoli al suo sviluppo: la forte pressione demografica in un paese piccolo, con una superficie coltivabile ristretta e insufficienti risorse nei settori decisivi dell'industria. Per più di quarant’anni il Giappone aveva sopperito a queste debolezze attraverso il militarismo e le conquiste; dopo il 1950 dovette invece riorganizzarsi per comprare all’estero ciò che gli mancava ed era indispensabile al suo sviluppo (carbone, petrolio, minerali ferrosi, ma anche frumento). Que-
ste importazioni, che fra l’altro fecero del Giappone il terzo produttore mondiale di energia elettrica e acciaio, furono finanziate attraverso le esportazioni,
cresciute a prezzi costanti a un ritmo del 15,4 per cento annuo fra il 1950 e il 1973: non più soltanto tessuti, ma acciaio, navi e in particolare petroliere,
prodotti dell'industria meccanica (automobili) ed elettrica (e poi anche elettronica). In principio il Giappone approfittò indubbiamente degli effetti di trascinamento della guerra di Corea, con le sue necessità di approvvigionamenti per l’armata americana; ma dal 1955 fu la generale situazione favorevole alla crescita degli scambi internazionali ad agire anche in Giappone. Va tuttavia notato che l'economia
a
161
Storia degli ultimi cinquant'anni
giapponese non dipese solo dal mercato estero: le esportazioni di merci, pur essendo passate nel 195073 dal 4,7 all’8,9 per cento del prodotto interno, mostravano un grado di estroversione superiore a quello degli Stati Uniti ma inferiore a quello di Germania e Italia, dove il medesimo rapporto era nel 1973 rispettivamente del 19,7 e del 12,5.
Praticamente libero da spese militari, che costituivano meno dell’1 per cento del prodotto interno, il Giappone poté indirizzare a qualunque altro genere di investimento industriale una quota crescente del suo prodotto interno. Allo stesso tempo venne fortemente ridotta la pressione demografica: il tasso di natalità si dimezzò nei venticinque anni successivi al 1947, passando dal 34 al 17 per mille ed evitando che la disponibilità per gli investimenti fosse ridotta dai costi di allevamento di una prole numerosa; per tutto questo periodo il mercato del lavoro, in espansione, non soffrì di contrazione nell'offerta e poté venire rifornito dalle precedenti numerose leve demografiche. Il modo con cui la società giapponese reagì positivamente alle campagne per il controllo delle nascite è solo un esempio dei rapporti di collaborazione che esistevano fra le sue diverse componenti, lo stato, le imprese e la società civile. Le seconde seguirono costantemente le indicazioni contenute nei piani di sviluppo elaborate dal ministero del commercio internazionale e dell’industria; i giapponesi accettarono la politica dei bassi salari e il livello piuttosto basso di We/fare State e trasferirono senza difficoltà la loro fedeltà e deferenza da un impero mili-
tare-industriale alle organizzazioni della produzione e degli affari e ai nuovi obiettivi comuni della crescita economica. latetle 162
Gli anni dello sviluppo economico
5. I successi della pianificazione: l'Unione Sovietica e l'Europa orientale Nel periodo 1950-73 il processo di crescita economica non riguardò soltanto i paesi capitalistici del blocco occidentale, ma toccò anche quelli del blocco comunista. Il confronto fra i dati dei due gruppi di paesi non è sempre facile, perché molto diversi erano i criteri seguiti nella contabilità nazionale, cioè nel calcolo del valore dei grandi aggregati; gli esperti occidentali delle economie comuniste erano inoltre piuttosto propensi a diffidare delle loro statistiche industriali, costruite in maniera da amplificare i risultati effettivi e poco in grado di tener conto della qualità spesso scadente dei prodotti. È perciò tanto più notevole che le diverse stime occidentali, anche se alquanto inferiori alle cifre ufficiali, mostrino tassi
più elevati di quelli raggiunti da molti dei paesi del blocco contrapposto, a cominciare dagli Stati Uniti (vedi tabella 4): fra il 1950 e il 1973 il prodotto interno sovietico registrò infatti una crescita annua del 5,2-6,2% (8,1 secondo i dati ufficiali), contro una media del 4,9 nei sedici paesi non comunisti più
industrializzati. Il quarto piano quinquennale, primo post-bellico (1946-1950), dette l’assoluta priorità alla ricostruzione delle infrastrutture e degli apparati produttivi e ricondusse già nel corso del 1948 la produzione industriale ai livelli del 1940. Il successivo piano (19511955) fu elaborato ancora nella più stretta ortodossia economica staliniana, puntando a grandiosi investi| menti e risultati nell'industria pesante, cioè nei settori del carbone, dell’acciaio, delle centrali idroelettri-
che. La crescita degli ultimi otto anni del periodo 163
Storia degli ultimi cinquant'anni Tabella 7. Lo sviluppo economico dell’Unione Sovietica, 1946-1970, tassi medi annui
1946-50
1951-55
1956-60
1961-65
1966-70
14,6
11,4
19,
6,7
JP
5,8-7,7
5,8-7,3
5-6
5,2-5,5
Redd. Nazion. 1
Da
8,9
peo
13/5
DAS
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10,6
4,1
Figari
1A)
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Industria 3x1 MBGINCS
10,2
8,6
8,5
6,9
6,8
5,8
2,4
4,2
44-99
2,6
4,7
TI311197PPT SIETE I
Agricoltura
* valutazione ufficiale sovietica ** valutazioni occidentali
Fonti: E. Zaleski, L'Unione Sovietica nel dopoguerra, in Storia economica e sociale del mondo, diretta da P. Léon, Laterza, Roma-Bari
1979, vol. 6, pp. 204-207.
staliniano avvenne non solo sacrificando nettamente la produzione di beni consumo, ma, come in passa-
to, puntando sulla combinazione della propaganda volontaristica che invitava a sfidare l’impossibile e la coercizione della forza-lavoro. ln Alla morte di Stalin nel nuovo gruppo “n | emersero orientamenti diversi, difesi in particolare dal capo del governo Malenkov e indirizzatiariequi-
librare lo sviluppo in favore dei consumi individuali, che avevano visto scarsi miglioramenti rispetto al 1946; ugualmente bisognoso era il struzione di abitazioni, che in seguito IR
Gli anni dello sviluppo economico
belliche e alla crescente urbanizzazione imponeva ancora alle famiglie disagevoli condizioni di coabitazione. Ma fra le critiche rivolte a Malenkov, quando fu costretto alle dimissioni nel gennaio 1955, vi fu anche quella di stare compromettendo gli interessi nazionali. I progetti di sviluppo elaborati negli anni di Chrusèev (il VI piano del 1956-60 e il VII piano settennale 1959-65, che sostituì il precedente prima del suo compimento) ebbero una maggiore elasticità rispetto ai piani staliniani e put tornando a mettere al | primo posto l’industria pesante assegnarono obiettivi molto rilevanti all'industria “leggera” dei beni di consumo e ancor più all’agricoltura. L'elemento più significativo è costituito dall’attenzione data ai nuovi settori della chimica e dell’elettronica e ai progressi della scienza e della tecnica e dall'abbandono della visione che identificava lo sviluppo con la crescita del volume della produzione in pochi settori chiave (acciaio, carbone, elettricità, cemento): da questa visione strettamente quantitativa nasceva una vera ossessione per le statistiche, rese pubbliche con orgogliosa e ossessiva solennità ma, nonostante fossero
dichiarate sempre in aumento, in palese contrasto con l'estrema modestia della vita quotidiana. L'annuncio che il 4 ottobre 1957 l'Unione Sovietica aveva lanciato il primo satellite artificiale, lo Sputnik 1, seguito un mese dopo da uno Sputnik 2 che era assai più pesante e recava a bordo una cagnetta, aveva ovviamente aspetti propagandistici, ma
era anche la prova di uno straordinario sviluppo rea| lizzato in pochissimi anni e che continuava a procedere più in fretta di quello degli Stati Uniti: nel 1959 l’Urss mise un satellite in orbita attorno alla Luna e 165
Storia degli ultimi cinquant'anni
nell’aprile 1961 lanciò un satellite che ospitava il primo cosmonauta. Questi furono gli anni nei quali l'aumento del prodotto interno sovietico lasciò maggiormente indietro quello americano (6-7% contro il 3-4) e i cittadini dell’Urss ebbero la giustificata impressione che le loro condizioni di vita stessero rapidamente migliorando. Chrustev poté allora rilanciare la corsa ai record, in maniera apparentemente meno ingenua che all’epoca dello stalinismo e dello stachanovismo, ma in effetti non meno azzardata. Si trattava ora di calcolare quanti anni occorrevano per raggiungere e supe-
rare gli Stati Uniti nella produzione globale e procapite. Tanto il piano lanciato nel 1959 che le dichiarazioni fatte da Chruséév nello stesso anno durante un viaggio diplomatico negli Usa profilavano come molto prossima questa prospettiva. Al XXII congresso del Pcus, tenuto nell’ottobre 1961, Chruséév
affermò che l’Urss era ormai entrata «nel periodo dell’edificazione su vasta scala del comunismo» e illustrò il programma che fissava in venti anni il raggiungimento finale dell’obiettivo, che sarebbe stato anche una società dalla disponibilità senza limiti di beni di consumo. Aldilà dell'entusiasmo retorico («già si vede la cima scintillante sulla quale in un futuro non lontano il popolo sovietico innalzerà la bandiera del comunismo»), ChruSéév era tuttavia ben
consapevole dei difetti di un sistema fondato solo sulle misure quantitative dei risultati e poco attento al calcolo dei costi e alla qualità del prodotto: le sue conseguenze erano la bassa produttività del lavoro, gli enormi sperperi di materie prime ed energia, la tendenza
a cominciare
progetti più mumerosi
di.
quanti venivano realmente compiuti, la subordina166
Gli anni dello sviluppo economico
zione della verità di fatto alla verità burocratica, che
nascondeva gli errori di pianificazione. Già nel maggio 1957 Chruséév aveva annunciato che nel giro di tre o quattro anni la produzione sovietica di carne, burro e latte avrebbe raggiunto quella americana, ma era proprio nel settore dell’allevamento e in genere dell'agricoltura che l'economia dell’Urss mostrava i suoi limiti. Mentre in quegli anni il Cremlino aveva ridotto la rigidità del sistema dei piani industriali avviando un relativo decentramento delle decisioni che dovevano attuarli, per ciò che riguardava l’agricoltura non venne mai meno il dog‘ ma della superiorità delle aziende collettive e si puntò ad accrescere le loro dimensioni fondendo i kolchoz e sostituendone un gran numero con grandi aziende non più cooperative ma direttamente statali, i sovchoz: e ciò benché fosse evidente che la produttività dei modesti appezzamenti privati lasciati ai contadini (meno dell’un per cento della superficie coltivata) fosse assai superiore a quella dell’agricoltura collettivizzata. Questa piccola agricoltura privata fu per qualche anno incoraggiata dalle autorità, ma dopo il 1960 fu guardata con maggiore ostilità e venne sottoposta a nuove limitazioni.
Convinto di avere una incomparabile competenza in questo ramo dell’economia, Chrustév affidò la crescita della produzione agricola assai più alla maggiore estensione dell’area coltivata che ai progressi dei rendimenti. Fu su sua iniziativa che dal 1954 venne avviato nel Kazakistan e nella Siberia occidentale il dissodamento delle terre ancora incolte, facen-
| do crescere entro il 1961 di 47 milioni di ettari la superficie coltivata (pari al 30 per cento di quella esistente all’inizio dell'operazione). Ciò avvenne però De.
167
Storia degli ultimi cinquant'anni
in aree che per ragioni climatiche non sembravano molto promettenti e che consentivano solo una coltivazione estensiva, con rendimenti per ettaro piuttosto bassi; per di più Chruséév dette una grande importanza alla coltivazione del mais (circa un quinto delle terre vergini), che sarebbe dovuto servire ad accrescere l'allevamento ma che era poco adatto come coltura di rotazione in terre dalla piovosità insufficiente. Quanto all’allevamento i risultati furono assai inferiori a quanto stabilivano i piani, ma in complesso per i primi anni il contributo delle terre vergini al raccolto cerealicolo fu considerevole, arrivando circa alla metà del totale nel 1956, 1959 e
1960: era però un successo non proprio indiscutibile, che dipendeva solo dal fatto che si trattava appunto di terre vergini e che dimostrava quanto (al di fuori di anni di raccolti assai positivi, come nel 1958
o nel 1962) fosse scarsa la produzione in tutte le altre terre. Negli anni successivi i rendimenti delle nuove terre cominciarono a essere meno spettacolari e al cattivo raccolto provocato in tutto il paese dal freddo inverno del 1962-63 si dovette rimediare ricorrendo alle importazioni. Anche nei paesi dell'Est comunista il ventennio 1950-1970 fu caratterizzato da un’intensa crescita economica, promossa dalla pianificazione centralizzata, condotta secondo il modello sovietico e orien-
tata a rafforzare l’industria pesante e a garantire l’autosufficienza al complesso dei paesi del blocco sovietico. Va comunque osservato che il Comecon, l’organizzazione di assistenza economica creata nel 1949 e includente l’Urss e sette paesi dell'Europa orientale e balcanica (Rdt, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria,
Romania, Bulgaria e Albania — quest’ultimane uscì 168
Gli anni dello sviluppo economico
nel 1961), cominciò solo dopo il 1955 a mostrare una qualche capacità di favorire la divisione del lavoro e gli scambi fra i paesi socialisti. Ma il sistema pianificato degli scambi funzionò assai meno bene della Cee e dalla fine degli anni sessanta gli scambi fra i singoli paesi socialisti e i paesi capitalisti crebbero assai più rapidamente di quelli interni al Comecon. Inoltre, come già mostra la tabella 7 relativa all'Unione Sovietica, anche nei paesi del Comecon si nota una tendenza al rallentamento dello sviluppo; in particolare il quinquennio 1961-65 dette risultati assai più bassi del previsto e gli anni 1962-64 furono segnati per la Cecoslovacchia da una effettiva recessione economica. Pur con questi limiti, va tuttavia rilevata l’importanza di un processo di sviluppo che non rimase circoscritto all'economia, ma investì in pieno società che, con l’esclusione della Rdt e della Cecoslovac-
chia, erano ancora prevalentemente agrarie e contadine, determinando la formazione di un moderno
proletariato industriale e una rapida urbanizzazione della popolazione. Verso la fine degli anni sessanta, confrontando i paesi del Comecon e quelli dell'Europa occidentale per il reddito pro-capite (espresso in dollari correnti) si poteva trovare che quello dei primi era mediamente pari a circa il 60-65 per cento di quello dei secondi (950 contro 1500). Un simile confronto nasconde naturalmente disparità individuali molto significative (fra la Repubblica democratica tedesca e la Bulgaria da una parte e la Svizzera e il Portogallo | dall’altra), ma va in ogni caso completato tenendo
conto di altri elementi. Nei paesi socialisti i servizi pubblici erano meno cari che in quelli capitalisti e 169
Storia degli ultimi cinquant'anni
Tabella 8. Indicatori socio-sanitari nei paesi del Comecon e in due paesi dell'Europa occidentale Mortalità infant.*
Vita. media**
Ospedali***
Urss
QI”
705
155
Rdt
1579
72,6%
11,4
Polonia Cecoslovacchia
DI 22
70,5 70
70
6,4 12 8,3
Ungheria »
34
Romania
49,4
69
Bulgaria Spagna Regno Unito
26 21 17
71,3 TEO 72
:
8,2
6,4 4,8 10
* Morti in età 0-1 anni per ogni mille nati vivi (1970) (Enciclopedia geografica, Garzanti, Milano 1995; per l’Urss e la Repubblica democratica tedesca, Etaf du monde 1984, La Découverte, Paris 1983)
** Speranza di vita alla nascita, in anni (1970) (idem) *** Numero posti letto d’ospedale per 1000 abitanti (1969) (Calendario Atlante 1972, De Agostini, Novara 1971) © Dati relativi al 1975
l'incidenza degli affitti sui redditi era piuttosto bassa (ma a questo fatto corrispondeva l’assai peggiore situazione degli alloggi nell'Europa orientale, con il frequente ricorso alla coabitazione). Nel confronto in fatto di consumismo (per esempio il possesso di automobili o televisioni) l'Europa orientale appariva ovviamente svantaggiata, ma occorreva tener conto del fatto che era partita assai in ritardo. Il confronto cui i paesi socialisti tenevano di più era quello dell’istruzione e dei servizi sociali,
l’assistenza sanitaria. Da questo Fac facile vedere che già prima del 1970 in
com
Gli anni dello sviluppo economico
totalmente eliminato l’analfabetismo e che gli indici di scolarizzazione media (nel gruppo di età 15-18 anni) erano del tutto paragonabili se non superiori a quelli dell’Europa occidentale. Il confronto per ciò che riguarda le condizioni sociosanitarie può essere agevolmente fatto limitandoci ai tre indici presenti nella tabella 8: essi mostrano bene che in fatto di mortalità infantile i paesi socialisti stavano per lo più peggio della Spagna, ma che l’assistenza ospedaliera (il rapporto fra medici e abitanti conferma quel dato) consentiva di raggiungere una vita media (peraltro determinata da molti altri fattori) dello stesso ordine di quella dell'Europa occidentale. Benché paesi come la Svezia o la Gran Bretagna raggiungessero in tutti i settori del We//are State ottimi risultati anche senza bisogno di un regime comunista, si poteva affermare che un simile regime poteva essere utile, in presenza di condizioni favorevoli, per avviare lo sviluppo economico e sociale.
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172
j
6. Terzo mondo e sottosviluppo, 1945-1970
1. La scoperta del sottosviluppo La distinzione fra paesi ricchi e paesi poveri è un dato di fatto che si impone da sé, ma fu solo dalla fine della seconda guerra mondiale che si cominciò a vederla come un problema con caratteri nuovi. La condizione della povertà poteva essere espressa e in parte spiegata ricorrendo al concetto di “arretratezza” (backwardness): alcuni paesi non erano riusciti a sorpassare la soglia dell’industrializzazione per ragioni che avevano a che fare con le resistenze opposte da strutture sociali arcaiche e con l’incapacità delle culture tradizionali di assimilare la scienza e la tecnica occidentali. Nello spirito delle Nazioni Unite e delle istituzioni create attorno a esse si impose una visione meno eurocentrica e anche meno razzista. I paesi poveri erano in grado
di trovare in se stessi le forze e le risorse necessarie per il progresso materiale e sociale, ma avevano bisogno prima di tutto di liberarsi dal dominio coloniale e di ottenere l’indipendenza, e successivamente di una fase di aiuti internazionali che doveva riguardare non solo gli investimenti industriali ma anche i settori dell’agricoltura, della cultura e della salute, cui furono prepo| ste rispettivamente la Food and agricolture organiza. tion (Fao), l'Organizzazione delle Nazioni Unite per — l'educazione, la scienza e la cultura (Unesco) e l’Orga| nizzazione mondiale della sanità (Oms). 173
Storia degli ultimi cinquant'anni
Per denominare l’insieme dei paesi a basso reddito individuale si affermò allora nelle pubblicazioni dell'Onu e fra gli economisti occidentali l’espressione “paesi sottosviluppati”, che intendeva indicare il fatto che essi erano sì insufficientemente sviluppati ma che stavano compiendo grandi sforzi per superare in tutti i campi il divario rispetto ai paesi più progrediti (l’aggettivo underdeveloped, riferito a “paesi” o “aree”, ha preceduto il sostantivo urderdevelopment e le sue più vecchie attestazioni non risalgono, a quanto pare, a
prima del 1949). Quando risultò chiaro che questi sforzi davano risultati assai inferiori al previsto l’idea di sottosviluppo finì per assumere una connotazione di disistima, venendo associata a una incapacità di fondo. Negli ambienti degli organismi dell'Onu (nei quali, va ricordato, dopo il 1960 gli stati di nuova indipendenza erano diventati la maggioranza) l’espressione ufficiale divenne allora quella più ottimista di “paesi in via di sviluppo”, che esprimeva meglio l’idea di una transizione invece che uno stato (su “arretratezza”, “sottosviluppo” e il successivo “florilegio di eufemismi”, G. Myrdal, Saggio sulla povertà di undici paesi astatici, 1968, vol. III, pp. 1875-78, “La diplomazia
per mezzo della terminologia”). Nella gara per lo sviluppo i paesi poveri non erano ancora tagliati fuori, ma erano già “in via di sviluppo”: si trattava ora di trovare e applicare le terapie adeguate. Col trascorrere degli anni i paesi appartenenti a questo gruppo riuscirono in effetti a realizzare tassi di crescita del prodotto interno tutt’altro che irrilevanti, in molti casi superiori a quelli dei paesi sviluppati. Ma esaminando l’andamento del reddito pro capite emer-
geva drammaticamente che il distacco fra ipoveri e ricchi non si stava colmando, ma anzi stava crescendc 174
RS
Terzo mondo e sottosviluppo assumendo, nonostante la loro imprecisione, i valori
delle grandi medie si trovava che il reddito pro capite nei paesi sviluppati era di cinque volte superiore a
quello dei paesi poveri negli anni quaranta e di setteotto volte negli anni sessanta; ma prendendo casi di ricchezza e povertà più estreme si era passati dal rapporto di 10-15 a 1 a quello di 25-30 a 1 (P. Bairoch, Victoires et déboires. Histoire économique et social du monde, 1997, vol. III, p. 1037). AI di là della compitezza formale dei linguaggi ufficiali, l’idea di sottosviluppo restò dunque associata intuitivamente con fenoi meni come quelli dell’insufficienza alimentare o dell’analfabetismo. In tutto equivalente divenne l’espressione Terzo mondo (vedi p. 118) entrata in uso per denominare i paesi “non allineati”, che ambivano, in quanto complesso più numeroso di stati, a costituire una forza a sé, che non faceva parte né dell’area capitalistica, né di quella socialista. In effetti il movimento dei non allineati incluse in principio i paesi di nuova indipendenza dell’Asia e dell’Africa e perciò lo stato di sottosviluppo rimandava, se collegato con l’idea di Terzo mondo, ai problemi specifici dei paesi che avevano avuto un passato di dominio coloniale. Ma nel senso che poi divenne prevalente, ilTerzo mondo, nel quale era concentrata la povertà del pianeta, includeva anche paesi che avevano mantenuto una piena indipendenza almeno sul piano formale: ciò valeva per quasi tutti quelli dell’ America latina, ma anche per diversi paesi dell'Asia, come l'Iran e . l'Afghanistan, nonché per la Turchia, che per di più - era stata per secoli il centro di un sistema imperiale. In senso ampio il Terzo mondo includeva anche paesi che avevano da poco affidato il loro sviluppo
175
Storia degli ultimi cinquant'anni
al socialismo, come la Cina, la Corea del Nord, il
Vietnam del Nord. Secondo il criterio che ha finito per affermarsi nelle statistiche mondiali, il “Terzo mondo”
era ciò che
restava dopo aver detratto i paesi che componevano gli altri due: da una parte i “paesi sviluppati a economia di mercato”, cioè Europa occidentale, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone; dall’al-
tra i “paesi sviluppati a economia pianificata”, cioè l'Unione Sovietica e l'Europa orientale (ma a rigor di termini verso il 1960 diversi paesi dell'Europa occidentale e orientale, come il Portogallo e l'Albania,
andavano collocati fra quelli sottosviluppati). Mentre le statistiche dell’Onu operavano l’ulteriore distinzione fra paesi a basso e medio reddito, diventa-
va di uso comune anche l’espressione “Sud del mondo”, nata per proporre una contrapposizione diversa da quella ideologico-politica di Est-Ovest e da usare con giudizio; se presa in termini non metaforici la con-
trapposizione Nord-Sud rischia infatti di suggerire una erronea relazione fra geografia oppure ambiente e sottosviluppo. Pur essendo vero che c’è una relativa coincidenza fra area del sottosviluppo e area intertropicale, il riferimento all’ambiente può al massimo far ricordare la situazione di maggiore fragilità dei sistemi agricoli dell’area intertropicale stessa e il motivo per cui queste regioni del mondo interessarono il colonialismo, cioè che erano adatte a ospitare le colture di piantagione. |
Da questi fatti sono derivate varie difficoltà a dare una definizione unitaria del fenomeno del sottosviluppo. Questo riguardava, e riguarda ancora, paesi che costituiscono un insieme estremamente eterogeneo | può essere caratterizzato attraverso una lista i 176
Terzo mondo e sottosviluppo
nabile di elementi, dove diventa spesso difficile capire cosa costituisca pura e semplice arretratezza (come è spesso il caso per le pratiche dell’agricoltura) e cosa è
più specifico del sottosviluppo, cosa sia causa e cosa effetto, cosa esprima il male e cosa soltanto i sintomi. Fra i molti fattori che sono stati di volta in volta indicati (quattordici in Y. Lacoste, Geografia del sottosviluppo, 1965, pp. 171-72), vanno ricordati i quattro
seguenti: 1. la condizione generalizzata di malnutrizione o di denutrizione; 2. il grado piuttosto elevato di alcuni indici come la mortalità infantile, la frequenza di malattie infettive e parassitarie allo stato endemico e cronico, l’analfabetismo; 3. il rapido incremento
della popolazione; 4. la dipendenza economica da altri paesi. Presi da soli, il primo e il secondo sembravano rimandare a situazioni di povertà antica o preindustriale, ma nel suo complesso la povertà tipica del sottosviluppo si presentava come un fenomeno relativamente recente. Questo poteva essere affermato con certezza per la crescita demografica, che per l’insieme dei paesi sottosviluppati era avvenuta lungo il XIX secolo a un tasso medio dello 0,4 per mille, la metà di quello complessivo dell'Europa e del Nordamerica. Nel trentennio 1920-1950 la popolazione mondiale passò circa da 1850 a 2500 milioni, con una crescita del 34
per cento e un tasso medio annuo attorno all’1 per cento: fu nel corso di questo periodo che il tasso di crescita dei paesi sottosviluppati raggiunse e superò quello dei paesi sviluppati. Tra il 1950 e il 1980 la | popolazione mondiale crebbe del 78 per cento, a un | tasso medio annuo dell’1,9 per cento (rispettivamente il 2,3 e l’1 per cento per i due gruppi di paesi) e un
culmine che per i paesi sottosviluppati si situò nel 177
Storia degli ultimi cinquant'anni
1965-70 con il 2,5 (2,9 per l'America latina e perfino il 3,2 per la sola America centrale). Questa crescita della popolazione, in atto dagli anni venti-trenta, ebbe un effetto dirompente sulle fragili strutture economiche del Terzo mondo. In quarant'anni la mortalità si ridusse alla metà e ciò con mezzi che non richiedevano una grande collaborazione da parte delle popolazioni coinvolte: i vaccini, gli antibiotici, il Ddt contro le zanzare della malaria, i metodi di
potabilizzazione dell’acqua per almeno una parte dei centri urbani. Poiché ciò era avvenuto inoltre molto prima che vi fossero le premesse per una parallela riduzione della natalità, i paesi del Terzo mondo
hanno dovuto far fronte a una pressione umana sulle risorse disponibili superiore a quanto era mai accaduto in passato a qualsiasi popolo della terra. La forte riduzione della mortalità infantile ebbe in particolare l’effetto di ridurre l'età media della popolazione, ovvero di far crescere la quota della popolazione in età giovanile: per conseguenza i tassi di nata-
lità invece che ridursi ebbero piuttosto la tendenza a crescere. Il fatto essenziale non è che i paesi sottosviluppati fossero afflitti da sovrappopolazione, cosa che per alcuni di essi era palesemente falso, senza contare la relatività di quello stesso concetto. Ben più significativo, e incontestabile nella sua gravità, era il ritmo
straordinariamente rapido della crescita. Al di là delle grandi differenze che si possono riscontrare fra paese e paese, questa eccezionale dinamica demografica rende conto almeno in parte dei fenomeni di sottonutrizione ed è responsabile del fatto (già poc'anzi messo
in rilievo) che la crescita dei redditi nazionaliein particolare della produzione di beni alimentari non si si 178
34,5
ricchi
65,5
poveri
—.
0,64
=
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poveri
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1940
1950
1960
1970
1980
1990
1998
2000
Découverte Fonti:
Tabella 9.
Storia degli ultimi cinquant'anni
tradotta in un miglioramento dei redditi pro capite ovvero delle condizioni individuali. Esistono però diversi altri aspetti del sottosviluppo che hanno anch'essi il carattere di fenomeni senza precedenti e che inducono a definire il fenomeno non semplicemente attraverso alcuni caratteri assoluti ma nei termini di una relazione, fra i paesi sottosviluppati e quelli sviluppati: si è con ciò rimandati alla condizione di dipendenza economica quale si è venuta creando dalla seconda metà del XIX secolo e che aveva riguardato anche i paesi formalmente indipendenti sul piano politico. Da questo punto di vista la decolonizzazione risultava in gran parte vanificata da ciò che veniva chiamato “neocolonialismo”.
Gli studiosi che insistevano su questo fattore potevano così far notare che nei paesi sottosviluppati non si dava una uniforme situazione di arretratezza, ma al
contrario la coesistenza o un vero dualismo fra una agricoltura di sussistenza, povera e a bassa produttività, e un settore più moderno e fortemente legato al Tabella 10. Produzione alimentare mondiale, 1951-1980.
Variazioni percentuali medie annue 1951-60
Totale Mondo Paesi Svil. PVSÌ
Africa
AA
sg B
Aa
21
1961-70
Totale
1971-80
itin Totale
ichn
Lal L744
Dt 24
0,8 1,4
DS 1,9
0,6 1,1
0}7
ridi
0,7
33
1,0
«02027
* Paesi in via di sviluppo
Fonti: D. Grigg, Alimentazione e sviluppo economico, 1950-1980. Fame e malnutrizione nel mondo (1985), Otium, Ancona 1989, p.
180
Terzo mondo e sottosviluppo
mercato internazionale, costituito da piantagioni e miniere e dai loro prodotti primari indirizzati all’esportazione (cacao, tè, caffè, banane, cotone, piante oleose
e gomma naturale da una parte, rame, stagno, alluminio e il caso particolare del petrolio dall’altra). Ma il settore moderno era dominato dalle compagnie straniere o multinazionali e il rapporto che per suo tramite i paesi poveri stabilivano con le economie sviluppate consisteva per lo più in una spoliazione delle loro risorse, con scarse possibilità di interagire con il settore tradizionale e arretrato, vitalizzare il mercato interno e
| mettere in moto meccanismi di accumulazione e crescita. La dipendenza conduceva invece a uno sviluppo unilaterale o “monocolturale”, particolarmente esposto alle fluttuazioni dei prezzi internazionali: nel suo studio del 1965 (op. cit., p. 70) Yves Lacoste poteva elencare trentatré paesi nei quali un solo prodotto copriva da un minimo del 45 per cento a un massimo dell’80-90 per cento delle esportazioni: una situazione letale specie per i paesi più piccoli, poco in grado di sottrarsi a quella condizione e di differenziare le proprie produzioni, ma destinata a distorcere anche le economie di paesi più grandi e con maggiore varietà di risorse.
2. Le strategie dello sviluppo
La fame era la forma più atroce nella quale si manifestava il dramma del sottosviluppo. Anche se non esiste un accordo preciso sul livello minimo della disponibilità di calorie e di proteine animali al di sotto del quale si deve parlare di denutrizione e malnutrizione, i dati elaborati dalla Fao lasciano scorgere una tenall'aumento da un decennio all’altro del nume181
Storia degli ultimi cinquant'anni
ro assoluto dei denutriti. Questo non vuol dire però che non vi sia stato alcun progresso nella produzione agricola, e in particolare in quella alimentare, dei paesi sottosviluppati; di fatto il rapporto fra la popolazione denutrita e la popolazione mondiale totale ha avuto, dopo i massimi scoperti dalla Fao verso il 1950, una significativa tendenza alla diminuzione. Sempre tenendo conto che i paesi sottosviluppati non costituivano negli anni cinquanta e sessanta un
blocco unitario soggetto alle medesime condizioni, possiamo distinguere quattro diverse questioni: la dinamica demografica, i bassi livelli della produttività, l’esistenza di superfici coltivabili, l’ineguale distribuzione della proprietà terriera. Le politiche agroalimentari potevano intervenire su uno o più di questi settori. L'insistenza con cui molti degli esperti occidentali segnalavano il rischio derivante dalla troppo rapida crescita demografica venne a lungo recepita con diffidenza dai governi dei paesi di nuova indipendenza. Una disponibilità a promuovere campagne di contenimento delle nascite si manifestò molto lentamente, a
partire dalla fine degli anni cinquanta, e solo negli anni settanta e ottanta si avrà la piena conversione a
una politica di controllo delle nascite. Molto significativo è l'esempio dell'India, dove si cominciò innalzando l'età minima per il matrimonio consentita alle donne e sviluppando programmi di educazione all’uso dei sistemi contraccettivi. Presto risultò che la contraccezione non riusciva a essere un punto di partenza, ma era invece un punto di arrivo,
conseguente al miglioramento delle condizioni eco nomiche generali e in particolare al decisivo muta-
mento della posizione socio-culturale delle donne Ciò rimandava a tempi troppo lontani il 182
Terzo mondo e sottosviluppo
mento di risultati significativi. Il tasso di analfabetismo fra le donne indiane (di più di sette anni) era sceso nel 1951-61 appena dal 91 all’85 per cento e al 78 per cento all’inizio del decennio successivo. In corrispondenza il tasso di fecondità era variato ben poco negli anni cinquanta e sessanta, passando da 5,95 a 5,75 nascite per donna.
Nel 1965 l’insufficienza delle piogge dovute al monsone estivo fece presagire una grave carestia per l’anno successivo, come poi realmente si verificò. Nel gennaio 1966 divenne primo ministro Indira Gandhi, la figlia di Nehru (non aveva rapporti di parentela con il
Mahatma Gandhi). Nella nuova politica di sviluppo, che doveva sia accelerare l’industrializzazione che prevenire nuove carestie, il controllo delle nascite assun-
se un peso più ampio che in passato e forme anche coercitive, prevedendo la sterilizzazione degli uomini che avevano già due o più figli. Questa era solo una delle manifestazioni dell’autoritarismo di Indira Gandhi, che non le venne perdonato quando nel 1974 l’India conobbe un altro anno di crisi alimentare e difficoltà economiche. Messa sotto accusa per brogli elettorali, nel giugno 1975 la Gandhi sospese la costituzione e neutralizzò le opposizioni; quando nel 1977 fece tornare alla normalità il paese e indisse nuove elezioni, il Partito del Congresso venne battuto dalla coalizione delle destre e dell’estrema sinistra, che nella
loro propaganda avevano dato ampia voce alla protesta dei ceti contadini umiliati e coartati dai programmi antinatalisti. Il controllo delle nascite fu però soltanto un aspetto ‘della politica di sviluppo perseguita dal Partito del Congresso. Con il 1966 Indira Gandhi intensificò il icorso alle pratiche agricole già note con la denomi183
Storia degli ultimi cinquant'anni
nazione di “rivoluzione verde”. Alle loro origini vi erano le sperimentazioni condotte negli anni cinquanta su varietà di cereali ad alta produttività e a crescita rapida, che consentivano un secondo raccolto: il mais e il frumento in Messico e il riso nelle Filippine. In entrambi i settori del riso e del frumento l’India fu uno dei paesi a elevate densità demografiche che passarono decisamente alla coltivazione delle nuove varietà,
traendone indubbi vantaggi quanto all'aumento della produzione globale. Ma la rivoluzione verde non era una soluzione miracolistica e priva di contraddizioni. Solo chi possedeva mezzi sufficienti per accedere ai necessari sistemi di irrigazione (con i loro effetti negativi sui sistemi ambientali tropicali) e per accrescere l’uso dei fertilizzanti poteva trarre vantaggio dai nuovi sistemi; le regioni più povere e i contadini meno abbienti furono tagliati fuori da questo tipo di progresso. Questo fatto dimostrava bene che un aumento della produzione globale cui non si accompagnava una redistribuzione del reddito non era sufficiente a risolvere il problema della fame. Ciò valeva in particolare per i paesi dell'America latina, dove il peso delle aziende latifondiste di centinaia o migliaia di ettari era assai forte (con una differenza assoluta rispetto alle condizioni dell’Africa e più ancora dell'India e dell'Asia orientale), riguardando anche oltre la metà della terra coltivata; conseguenza tipica di questo regime della proprietà era un’agricoltura estensiva, nella quale gran parte del suolo era sottoutilizzato. La riforma agraria, con la requisizione
delle terre e la creazione di una vasta categoria di piccoli proprietari coltivatori, era in questi casi la via ob bligata per ogni progresso economico; dove fu possi
bile, la riforma agraria consentì anche un considere 184
Terzo mondo e sottosviluppo
vole aumento della superficie effettivamente coltivata. Più difficile era la situazione dell’Africa, benché sol-
tanto alcune sue regioni potessero dirsi sovrappopolate. Il problema era qui costituito piuttosto dall’effettiva arretratezza delle tecniche e dalla difficoltà di estendere la superficie coltivata (abbattendo la foresta) senza danneggiare seriamente l’ambiente e producendo effetti contrari a quelli voluti; inoltre gli investimenti più consistenti erano assorbiti dalle colture da esportazione (si può osservare di passaggio che fra le definizioni di paese sottosviluppato merita molta at| tenzione quella proposta nel 1956 da Thomas Balogh, un paese «che attrae capitale solo per lo sfruttamento dei prodotti primari»). In tutti i paesi sottosviluppati si poneva con urgen-
za la necessità di una crescita industriale, perché in ogni caso la pressione demografica avrebbe frazionato eccessivamente i possessi terrieri e creato una forte di-
soccupazione rurale. La strategia di appoggio alle industrie che potessero sostituire le importazioni, perseguita già dagli anni quaranta in America latina unendo gli investimenti pubblici e il protezionismo doganale, dette risultati a prima vista apprezzabili, facendo quadruplicare nel 1950-70 il volume della produzione. Ma questo successo era facilitato dal fatto che gli indici di partenza erano molto bassi; inoltre la crescita si scontrò da una parte con l’alta natalità, dall’altra
con la ristrettezza del mercato interno dovuta ai bassi redditi medi e alle forti disuguaglianze, portando vantaggi solo a una parte della popolazione. La quota del Terzo mondo sulla produzione industriale mondiale restava nel 1973 inferiore al 9 per cento. A conti fatti nel periodo 1950-70 il settore terziario (pubblico im| piego e servizi commerciali) crebbe assai più in fretta 185
Storia degli ultimi cinquant'anni
di quello industriale, dando una grande forza espansiva all’urbanizzazione specie verso le città capitali, dalle quali furono inoltre attratte le quote di popolazione che non trovavano più posto nel settore agrico-
lo. Verso il 1970 in tutti i paesi del Terzo mondo vi erano capitali ipertrofiche, con diversi milioni di abitanti e con estese bidonville; in America latina in questi maggiori agglomerati si concentrava anche un terzo
della popolazione totale. Tali tendenze non avrebbero fatto altro che accentuarsi. Il settore a più rapida espansione restò quello delle esportazioni di prodotti agricoli e materie prime, specialmente nel settore minerario. Da questo punto di
vista il sottosviluppo può anche essere definito come la situazione svantaggiata di chi si procura prodotti industriali attraverso questo genere di esportazioni. Il fattore centrale è l'evoluzione delle ragioni di scambio fra i due gruppi di prodotti. Durante gli anni della grande depressione il crollo dei prezzi aveva colpito prodotti agricoli e materie prime più gravemente che i prodotti industriali, ma per tutto il periodo 19401955 la situazione si invertì e il movimento dei prezzi relativi risultò vantaggioso per i paesi sottosviluppati. Dalla metà degli anni cinquanta questi tornarono a essere penalizzati dalle oscillazioni dei prezzi, così che si giustificò la tesi dello “scambio ineguale” che aggravava il sottosviluppo. D'altra parte per i paesi industrializzati, la cui produzione di materie prime essenziali era inferiore ai loro consumi, era vitale mantenere il controllo sui paesi sottosviluppati produttori. Prendiamo il caso dell’alluminio, la cui domanda era cresciuta molto rapidamente negli ultimi venticin-
que anni e che veniva usato per produrre leghe resi stenti e leggere: verso il 1975 gli Stati Uniti 186
pesa
Terzo mondo e sottosviluppo Tabella 11. Distribuzione mondiale della produzione e del consumo dei sette principali metalli (alluminio, rame, stagno, ferro, nickel, piombo, zinco), 1950-78 1950
1968
1975
1978
Prod. Cons. Prod. Cons. Prod. Cons. Prod. Cons.
Petn® DEM 40 PEPPE IA 25 Pvs*** 30 FRROS) Totale 100 100 100
DID 425 7038. 1240 (25024 028. INS ZIF 601434 100 100 100 100
62 1529 9 100
* Paesi a economia di mercato ** Paesi a economia pianificata ! *** Paesi in via di sviluppo Fonti: U. Bilardo, G. Mureddu, P. Piga, Geopolitica delle materie prime mondiali, F. Angeli, Milano 1986, p. 91.
per il 35 per cento nei consumi mondiali, ma solo per il 2 per cento nella produzione. Un ultimo aspetto da prendere in considerazione è quello degli aiuti internazionali ai paesi del Terzo mondo. Fino al principio degli anni sessanta gli Stati Uniti indirizzarono i propri interventi a beneficio dei paesi asiatici che vedevano minacciati dal comunismo e si preoccuparono più di fornire armi che investimenti produttivi. Il mutamento di strategia dipese dalla necessità di fronteggiare la sfida lanciata dall'Unione Sovietica di Chruséév (vedi p. 125), che . aveva finanziato la diga di Assuan in Egitto e stava
offrendo assistenza economica e tecnica all’India e a diversi paesi africani nella costruzione di impianti
. industriali e centrali elettriche. Risale alla primavera del 1964 la prima conferenza internazionale per lo sviluppo del Terzo mondo, tenuta a Ginevra per iniziatidelle Nazioni Unite (United Nations Conference on 187
Storia degli ultimi cinquant'anni
Trade and Development, Unctad); ma fu più facile accordarsi sugli aiuti immediati che su più impegnativi programmi di sostegno ai prezzi internazionali dei prodotti agricoli e delle materie prime o di apertura dei paesi sviluppati alle esportazioni di manufatti del Terzo mondo. In complesso nel corso degli anni sessanta i paesi sviluppati non fornirono aiuti neppure in misura dello 0,5 per cento del prodotto annuo. 3. La Cina: il grande balzo in avanti e la rivoluzione culturale
La Cina faceva parte dei paesi sottosviluppati, ma occupava fra essi un ruolo particolare: oltre a essere il paese più popolato del mondo, stava anche perseguendo una strategia dello sviluppo fondata su una visione originale della via per il comunismo, naturale proseguimento del modo in cui si era realizzata la rivoluzione. Al contrario di quel che era accaduto in Russia nel 1917, in Cina il partito comunista era diventato una solida realtà nelle campagne e le città invece di essere i centri promotori del movimento rivoluzionario gli erano rimaste estranee. AI seguito della riforma agraria già effettuata nelle regioni settentrionali controllate dai comunisti prima della fine della guerra civile, una legge generale del 1950, oltre a cancellare tutti i debiti, redistribuì fra 65
e 70 milioni di famiglie di contadini poveri 46 milioni di ettari (poco meno della metà della superficie coltivata), cioè la terra confiscata ai medi e ai grandi proprietari, che nella realtà della Cina apparivano dei
latifondisti anche quando i loro possessi raggiungeva-
no solo i dieci ettari. La riforma agraria non ebbe soltanto aspetti economico-sociali, ma fu anche orientata 188
Terzo mondo e sottosviluppo
a obiettivi culturali e pedagogici: essa doveva infatti condurre a distruggere le basi della società tradizionale e in particolare il timore e la deferenza nei confronti delle famiglie preminenti nei villaggi e delle autorità di ogni tipo, sostituendovi l’unica supremazia del partito comunista. Perciò il partito esaltò il valore educativo e politico della lotta di classe ed esortò i contadini poveri a impadronirsi con la forza dei beni espropriati e a commettere atti di violenza (la cifra di due milioni di uccisi è accettata come un minimo da tutti gli studiosi della Cina postrivoluzionaria) contro gli antichi padroni. Vaste campagne di rieducazione furono condotte nei confronti di chi fra questi si dichiarava disposto ad accettare la nuova società, parallele a quelle di “rettifica del pensiero” indirizzate agli intellettuali delle città (la propaganda occidentale parlò meno eufemisticamente di “lavaggio del cervello”). Gli aspetti culturali della rivoluzione inclusero inoltre una massiccia opera di alfabetizzazione, una intensa lotta contro il flagello dell'oppio e un primo tentativo di riformare la famiglia e contestare l’asservimento delle donne, condannando l’infanticidio, la vendita delle figlie e la pratica della fasciatura dei piedi, istituendo il divorzio e innalzando l’età legale minima per il matrimonio.
La distribuzione ugualitaria della terra fu solo un passo provvisorio nella politica agraria del partito comunista cinese: alla fine della riforma agraria i possessi familiari si aggiravano mediamente su un ettaro, cioè una base inadatta per accrescere la produzione | agricola e per creare gli eccedenti necessari al sostentamento delle città. Perciò dal 1953 fu avviata la col-
lettivizzazione delle campagne. Fu in questo settore che si manifestò il carattere di via rurale al socialismo de”.
189
Storia degli ultimi cinquant'anni
che distingueva l’esperienza cinese da quella sovietica. La collettivizzazione avvenne infatti in maniera graduale, non ebbe il franco obiettivo di trasferire brutal-
mente risorse al settore industriale e cercò di ottenere il consenso dei diretti interessati: prima venne promossa la disponibilità a compiere in squadre collettive i grandi lavori agrari, poi l'adesione a cooperative che tendenzialmente mettevano in comune la terra, il lavo-
ro e gli attrezzi. Di fatto la Cina non conobbe nulla di simile alla “liquidazione dei kulaki” avvenuta nell'Unione Sovietica e la saggezza e la moderazione della politica agraria degli anni 1953-57, fu lodata fra gli altri da René Dumond (Revolution dans les campagnes chinoises, 1957), uno dei maggiori studiosi mondiali dei sistemi agricoli del Terzo mondo, che visitò a lungo la Cina in quel periodo. Questo non vuol dire però che la via cinese al socialismo sia stata sin dal principio del tutto diversa da quella sovietica. Il piano quinquennale di industrializzazione varato nel 1953 seguiva perfettamente il modello staliniano, indirizzando la quasi totalità degli investimenti alle miniere, alla siderurgia e all’elettricità,
privilegiando le imprese di dimensioni gigantesche, prevedendo una piena centralizzazione delle decisioni economiche. Stando alle valutazioni ufficiali gli obiet- _ tivi del piano vennero raggiunti e anche superati, men- _ tre la produzione agricola crebbe in misura soddisfacente.
In confronto all'Unione Sovietica del 1928 la Cina del 1953 partiva però da livelli di industrializzazione |
più bassi e il peso della popolazione contadina vi era assai maggiore; inoltre il paese doveva far fronte a una pressione demografica che superava il 2) annuo e che, come era stato rivelato dal ce 190
Terzo mondo e sottosviluppo
realizzato in quell’anno, era destinata a crescere ancora, trovando pochi sbocchi nel settore industriale. Anche se relativamente moderata, la collettivizzazione era stata accelerata alla fine del 1955, accrescendo la
necessità della coercizione e le reazioni del mondo contadino. La superficie coltivata (anche tenendo conto di quella irrigata e adibita a doppi raccolti) cresceva più lentamente della popolazione e il frazionamento dei possessi familiari rendeva molto difficile un maggiore accantonamento di surplus; non solo in funzione dei bisogni delle città e delle industrie, ma anche per non esporre il mondo contadino ai rischi di carestie diventava indispensabile accrescere la produzione e la produttività. La via alternativa di una politica di pianificazione familiare e contenimento delle nascite veniva respinta in parte per ragioni ideologiche (il “malthusianesimo” era da sempre uno degli obiettivi polemici di tutti i partiti di ispirazione marxista), in parte perché era troppo contraria ai costumi contadini e quindi concretamente poco praticabile in vista di
risultati immediati. Fra la metà del 1956 e i primi mesi del 1958 la Cina visse un periodo di intenso dibattito politico, che in principio il partito e Mao Zedong lasciarono svolgere con libertà (la cosiddetta campagna “dei cento fiori”, cioè il riconoscimento dell'utilità del confronto fra opinioni diverse), soffocandolo quando sembrò uscire dai limiti ammissibili. La svolta decisiva avvenne nel maggio 1958, quando Mao Zedong impose la politica detta del “grande balzo in avanti”, con l'ambizione di indicare una “via cinese” realmente diversa da quella | sovietica. Era questo uno degli aspetti del dissenso che allora si stava manifestando fra Cina e Urss sulla giusta strategia rivoluzionaria e che avrebbe condotto in 'd
191
Storia degli ultimi cinquant'anni
breve tempo alla rottura dell’alleanza fra i due paesi (vedi più avanti, cap. 7, $ 5). La “via cinese” era basa-
ta sul rifiuto dei vincoli economici e in genere materiali e su una smisurata fiducia nell’onnipotenza della volontà rivoluzionaria in grado di “smuovere le montagne”. Del dibattito degli anni precedenti Mao Zedong respinse ogni invito alla prudenza, prospettando invece la possibilità di raggiungere in una breve marcia forzata il comunismo (appena due o tre anni, mentre nel 1961 Chruséév avrebbe sostenuto che per l’Urss ce ne volevano ancora venti); allo stesso tempo dette il suo avallo a una esasperata contrapposizione fra “rosso” ed “esperto”, cioè al primato della politica, dell’ideologia e della lotta di classe sulla scienza e
sulla tecnica. Ciò è tanto più notevole se si pensa che la parola d’ordine “essere rossi ed esperti” era stata lanciata all’epoca dei cento fiori proprio all’interno della logica della moderazione e del pragmatismo che fino ad allora aveva prevalso. Si trattava ora di raddoppiare simultaneamente la produzione dei cereali e quella dell’acciaio; per far ciò era sufficiente il lavoro umano,
mobilitato da una
intensa propaganda politica e da alcuni slogan rivoluzionari. Lo sviluppo agricolo sarebbe stato assicurato dalla formazione delle “comuni popolari”: mentre le precedenti cooperative rurali avevano per quadro uno o pochi villaggi, le comuni, create di colpo, nel giro di poche settimane, ne integravano parecchie decine, arrivando a contare fra i 10 e i 50000 abitanti e facendo sparire ogni forma di possesso familiare, consentita invece fino ad allora per ciò che riguardava la casa, gli animali da cortile e un piccolo appezzamento di
terreno. Come sempre nella visione di Mao, l'aspetto della riforma politica e morale prevaleva su 192
È 9
Terzo mondo e sottosviluppo
economico;
le comuni
contadine,
oltre che essere
unità di produzione, dovevano realizzare la collettivizzazione della vita, con il primato delle attività collettive, non solo nel campo amministrativo, sanitario o
scolastico, ma al posto e contro la sfera della vita privata, fino al divieto di preparare e consumare i pasti nell’ambito familiare. Sulla base del principio “contare sulle proprie forze”, le comuni dovevano inoltre produrre da sé l’acciaio di cui avevano bisogno, installando piccole fornaci. La falsificazione delle cifre ufficiali sul raccolto del 1958 doveva dimostrare che il grande balzo in avanti era già partito ottimamente. Fra il 1958 e il 1959 la popolazione cinese venne stremata in lavori compiuti con scarsi mezzi materiali, larga mobilitazione ideologica e piena licenza di nuocere lasciata ai rossi inesperti: scavo di canali, innalzamento di argini, lavori agricoli condotti secondo nuovi e discutibili principi agronomici rivoluzionari. I risultati di tutta l'impresa furono un disastro. Il superlavoro delle comuni non riuscì a dividersi fra i campi, la risistemazione del territorio e degli impianti irrigui, la rudimentale siderurgia; il raccolto del 1959 fu insufficiente e venne seguito da due anni di carestia, aggravati ma non provocati dalle sole avversità climatiche
e resi tragici dal rifiuto di calcolare le consegne contadine di cereali sui raccolti effettivi invece che su quelli immaginari. Le nuove dighe fatte solo di terra battuta si sbriciolarono in una stagione; gli altiforni di campagna furono alimentati con rottami e con le . scarse suppellettili dei villaggi e, contro tutte le teorie della “via cinese”, l'aumento della produzione si-
derurgica, che pure vi fu (da 5,3 milioni di tonnella-
te nel 1957 a forse 8 nel 1960, contro le 13 dichiara193
Storia degli ultimi cinquant'anni
te e le 18 previste), dipese solo dai grandi impianti realizzati secondo la ricetta sovietica. Qualunque fosse la bontà delle motivazioni di Mao, l’intera impresa era una ‘utopia insensata che fra il 1959 e il 1962 fece raddoppiare o triplicare nelle varie province il tasso di mortalità, e costò alla Cina fra i
quindici e i venti milioni di morti, colpendo, al di là dell'ideologia del comunismo rurale, quasi esclusivamente le. campagne. Ancora più grave fu il fatto che Mao Zedong rifiutasse di riconoscere gli errori commessi, che screditavano completamente le sue teorie rivoluzionarie. Dopo averlo seguito con convinzione, gli altri dirigenti cinesi, come il presidente della repubblica Liu Shaogi (in favore del quale Mao aveva lasciato questa carica alla fine del 1958) e il viceprimo ministro Tabella 12. Produzione alimentare (riso, frumento, mais, cereali inferiori, soia, tuberi) e consegne obbligatorie allo
stato, 1949-1965. Milioni di tonnellate. Anno 1949 1952 1956 1957 1958* 1958”
Prod. 108 164 182 195 375 250
Cons.
Anno Prod. 1958*** a a200 1959 170 1960 144 39,8.10.31961 148 1962 160,4 & 1965 195
* Cifra ufficiale ** Cifra ammessa nel 1959
#** Cifra ammessa nel 1979 ® Dato relativo al 1966
Fonti: M. C. Bergère, La repubblica popoli ins logna 1994, pp. 144, 146.
194
Cons. dl. 55,9 42,8
32,1
Terzo mondo e sottosviluppo
Deng Xiaoping, cominciarono a dissociarsi dalla sua politica e dalla fine del 1960 posero termine agli irresponsabili esperimenti sociali del grande balzo in avanti. Le comuni popolari più grandi furono smantellate (il loro numero passò da 24 000 a 74 000) e furono nuovamente riconosciuti i piccoli campi privati e i mercati liberi (analogamente a quanto accadeva in Urss). Il ritorno al pragmatismo fu ben sintetizzato dall’affermazione attribuita nel 1962 a Deng Xiaoping: «Fino a che il settore privato contribuisce all’aumento della produzione agricola, deve essere autoriz' zato. Bianco o nero che sia, un gatto, finché prende i
topi è un buon gatto» (così la riferisce G. Etienne, La lunga marcia dell’economia cinese, 1974, p. 67). Anche se il ruolo preminente di Mao (che manteneva la presidenza del partito) restò incontestato, questi fu oggetto di critiche, sempre molto indirette e prudenti, da parte di Liu Shaogi e di altri dirigenti. Tutti i segni del culto della personalità del Grande timoniere restavano al loro posto, ma il fondatore della Cina comunista si trovava di fronte alla propria emarginazione di fatto; preparò allora la rivincita nei confronti degli avversari, appoggiandosi sul capo dell’Armata popolare di liberazione Lin Biao (da lui nominato nel 1959 in sostituzione di Peng Dehuai, che aveva criticato il grande balzo in avanti) e cominciando a coinvolgere nella critica del modello sovietico (“il rinnegato Chrusdév e la sua cricca”) la stessa conduzione degli affari cinesi. Obiettivo di questa fase del maoismo, improntato alla riaffermazione del primato della poli-
tica e del valore permanente della lotta di classe, fu la struzione dello stesso partito, che si stava burocrado, si allontanava sempre più dalle masse popo| preparandosi perfino a restaurare il capitalismo 195
Storia degli ultimi cinquant'anni
attraverso l'abolizione delle comuni, e riversava prevalentemente sulle città i progressi della Cina, sacrificando le campagne, vera base della rivoluzione. Fra il 1965 e il 1966 Mao fu in grado di uscire allo scoperto e di dar vita al movimento della Rivoluzione culturale che segnò drammaticamente la Cina nei successivi due anni e continuò a rendere instabile la vita politica del paese fino alla morte di Mao stesso, nel 1976. Il movimento era stato aperto spontaneamente nel maggio-giugno 1966 da gruppi di studenti universitari che protestavano contro i privilegi che si erano venuti rinforzando nella società cinese a favore delle famiglie dei funzionari del partito e dello stato. Esso fu subito appoggiato da Mao e dai suoi sostenitori, che lo radicalizzarono come strumento di pressione contro
l'opposizione interna:
“Fuoco
sul quartier
generale!” era il titolo del manifesto indirizzato il 5 agosto 1966 da Mao agli studenti, un invito a passare dalla protesta alla rivolta. Tornarono in auge le parole d’ordine più radicali dell’epoca del grande balzo in avanti, mentre i giovani e fanatici sostenitori del presidente Mao, denominati “guardie rosse”, sfilavano a milioni a Pechino nelle loro imponenti manifestazioni di piazza e davano vita a un culto della personalità di fronte al quale perfino il culto di Stalin appariva — sobrio; nel 1970 lo stesso Mao (non si sa con quanta sincerità) confessò al suo vecchio amico Edgar Snow, di esserne infastidito (Snow, La lunga rivoluzione,
1971, p. 8, 73). Due furono le principali categorie delle loro vittime sottoposte a umilianti processi pubblici, malmenate e frequentemente assassinate. Da una parte gli “esperti”, cioè gli insegnanti, gli intellet-
tuali (le scuole e le università vennero chiuse) e gli esponenti di quelle categorie che in qualche nmodo 196
Terzo mondo e sottosviluppo
erano in grado di distinguere fra il possibile e l’impossibile, tutti identificati con un riemergente ceto mandarinale e nel migliore dei casi mandati a svolgere lavori manuali nelle campagne. Dall'altra i dirigenti e i funzionari del partito: Liu Shaogi, destituito e arrestato come il “Chruséév cinese”, morirà in carcere per i maltrattamenti subiti; lo stesso accadde all’ex mini-
stro Peng Dehuai, accusato di aver voluto trasformare l'Armata popolare in un esercito professionista sul modello sovietico; Deng Xiaoping salvò la vita, ma uscì completamente dalla scena politica. Cosa significò esattamente la rivoluzione culturale? A differenza di molti intellettuali europei che la ammirarono senza riserve, il geografo francese Gilbert Etienne, che conosceva bene la Cina e che la visitò fra
l’altro nel 1965 e nel 1972 ammise di non avere una risposta: «La rivoluzione cinese è stata proprio così gra-
vemente minacciata dal revisionismo e dal ‘modello’ sovietico?... Si poteva veramente parlare di una ‘nuova classe’ alla russa? L'economicismo, gli incentivi materiali nelle imprese avevano veramente assunto pro-
porzioni tali da costituire una minaccia mortale per l’ideologia comunista? Fino a che punto erano arrivate le tendenze capitalistiche nelle campagne?... Possiamo dare una risposta affermativa alle domande che ci siamo testé posti? Confessiamo di trovarci nell’imbarazzo». (Etienne, La lunga marcia dell'economia cinese, cit., pp. 81-2). Ma anche il meno dubbioso Edgar Snow, che poté conversare a lungo con Mao nel 1965 e nel 1970, dovette concludere che non tutto era trasparente nella rivoluzione culturale (La lunga rivolu-
zione, p. 98). Quel che si può dire è che, al di là delle
esasperazioni volute da Mao e anche delle sue vendete personali, la lotta fra le “due linee” aveva precise A
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Storia degli ultimi cinquant'anni
implicazioni in fatto di visione del potere politico (meno in fatto di strategia dello sviluppo economico) ed è notevole il fatto che si presentasse comunque con caratteristiche molto diverse da quelle dello stalinismo e in genere della prassi sovietica. Stalin aveva distrutto i vertici del partito, ma non il partito, e si era servito di metodi segreti e non di manifestazioni di massa. La ri-
voluzione culturale puntò alla distruzione tanto dei vertici del partito quanto dei suoi quadri burocratici e si svolse con azioni che intendevano essere pubbliche e di massa e che solo accessoriamente colpivano singoli (ma, contrariamente a quanto si disse, anche molto numerosi) individui. Lotta di vertice per il potere e movimento di massa riuscirono perciò a convivere.
Ma ben presto le guardie rosse sfuggirono di mano a chi le aveva evocate e una ondata di follia anarchica scosse la Cina. Nell’estate 1967 e nei primi mesi del 1968 lo scontro sembrò raggiungere un tale grado di acutezza da preludere a una guerra civile. Intervenne allora l'Armata popolare di liberazione comandata da Lin Biao, una istituzione della Cina rivoluzionaria che con i suoi caratteri veramente unici (poco militarista, relativamente democratica, poco costosa, autosuffi-
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ciente) era riuscita a sfuggire al movimento iconocla- _ sta: numerosi dirigenti giovanili furono allontanati dalle città e inviati nelle zone rurali; le guardie rosse furono riassorbite e neutralizzate nei “comitati rivoluzionari”, che recuperarono i quadri dirigenti supersti-
ti e liquidarono le esperienze più radicali. Nell'aprile 1969 il IX congresso del partito comunista pose fine anche formalmente alla rivoluzione culturale, designando ufficialmente Lin Biao come re d Mao e Sinai il pre a un vo ito ;
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popolare. I risultati del congresso mostravano bene che interpretare la rivoluzione culturale solo come una ultrademocratica ribellione giovanile contro l’autorità era alquanto fuori della realtà: l'età media del nuovo Comitato centrale, rinnovato per quasi due terzi, restava un po’ superiore ai 61 anni.
4. L'Africa dopo l’indipendenza Mettendo a parte i cinque stati mediterranei, i due stati a governo razzista (Rhodesia e Sudafrica) e l’im| pero etiope, nel 1966 vi erano in Africa 33 stati indipendenti sorti dai processi di decolonizzazione. I loro confini coincidevano con quelli fissati dalle potenze coloniali sopra il mosaico delle centinaia di etnie e gruppi linguistici che esistevano verso il 1870 ed erano perciò arbitrari, nel senso che avevano alle spalle una storia troppo breve e imposta dall’esterno. Questo fatto comportava non pochi inconvenienti. Il primo era dato dal doppio livello in cui vivevano gli stati, quello dell’unità delle frontiere ufficiali e quello della grande eterogeneità interna, aggravata spesso dalle divisioni e competizioni religiose fra cristiani e musulmani. Il secondo era che la superficie dell’ Africa si trovava a essere mal distribuita. Per sedici di questi stati il territorio risultava (almeno rispetto all’estensione e alle caratteristiche ambientali del continente africano) di piccole dimensioni, con meno
di 300000
- kmq o anche meno di 150000; tutti erano afflitti da elevati tassi di crescita demografica eppure allo stesso | tempo sottopopolati, al di sotto dei 30 ab/kmq (real|mente sovrappopolati erano soltanto due degli stati
più piccoli, il Ruanda e il Burundi). Ad altri sei stati, quelli del sabe/, la regione stepposa a sud del Sahara, 199
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erano toccati territori immensi ma adatti soltanto a un popolamento umano rado (due-tre ab/kmq) e a una pastorizia povera che rendeva precari gli equilibri dell’ambiente; essi erano inoltre soggetti alla minaccia di lunghi periodi di siccità e privi di risorse in grado di sostenere una entità politica autonoma. Gli stati africani erano particolarmente numerosi
nella regione della Guinea, dal Senegal alla Nigeria. Qui la politica coloniale aveva provocato nell’organizzazione territoriale alcune distorsioni destinate a diventare una rigida limitazione per degli stati indipendenti. Tutta l'economia di sfruttamento era orientata verso l'esterno, cosa che comportava un’ulteriore divisione di interessi fra le regioni costiere e quelle interne. Le linee ferroviarie erano costruite per collegare le piantagioni del retroterra con il porto d’imbarco, che divenne la capitale e la città principale dei nuovi stati: nel corso degli anni sessanta e settanta queste città crebbero rapidamente, riempiendosi di bidonville (per esempio Lagos, capitale della Nigeria, aveva 300000 abitanti nel 1950, 600000 nel 1960, 2
milioni nel 1970). Non esistevano invece sistemi di comunicazione fra i diversi stati, che, se di piccole
dimensioni, erano costretti a dipendere largamente dalle esportazioni verso le ex potenze imperiali. Così, se l'instabilità dei prezzi internazionali dell’olio di arachide e del caffè mise spesso in difficoltà ilSenegal o l’Uganda (rappresentando rispettivamente il 60 e il 55 per cento delle loro esportazioni), la brusca caduta di quelli del cacao negli anni intorno al 1960 e nuovamente nei primi anni settanta fu per il Ghana (che vi contava per il 60 per cento delle esportazioni) un disastro. Gli unici stati africani che per la maggiore pol lazione ed estensione territoriale e per la varietà 200
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risorse potevano puntare a uno sviluppo più equilibrato e non dipendente solo da uno o pochi prodotti di esportazione erano la Nigeria (con un sesto dell’intera popolazione africana e ingenti riserve petrolifere), l’ex Congo belga (con grandi ricchezze minerarie) e la Tanzania, sorta nel 1964 dalla federazione del Tan-
ganika e di Zanzibar. Altri progetti di integrazione economico-politica attraverso la federazione fallirono. Poiché laddove i confini sono tutti artificiali toccarne uno vuol dire farli saltare tutti, l'Organizzazione delUnità Africana, creata nel 1963, dovette ripiegare, ‘tutto sommato saggiamente, sull’alternativa opposta, ribadendo continuamente il principio della intangibilità delle frontiere (anche se questo non servì a preservare l'Africa sub-sahariana da guerre di frontiera interne ed esterne). I nuovi stati africani possedevano una classe dirigente di alto livello culturale, che aveva condotto con senso politico la lotta di liberazione: Kwame Nkrumah, presidente del Ghana si era formato all’università di Londra; Jomo Kenyatta, il padre del Kenya indipendente, era un antropologo di fama mondiale; Léopold Senghor, presidente del Senegal, era un pregevole poeta e letterato e aveva compiuto una lunga carriera politica in Francia; Nnamdi Azikiwe, primo presidente della Nigeria, aveva studiato negli Stati Uniti. Tutti intendevano in vario modo trapiantare in Africa le istituzioni politiche occidentali e avviare la costruzione di uno stato-nazione, capace di rifondere le basi tribali delle nuove entità politiche; ma allo stesso tempo si facevano promotori di un orgoglioso nazionalismo africano. Così, il nuovo stato sorto dal-
l'unione delle due colonie britanniche della Costa ‘d’Oro e del Togo occidentale aveva assunto il nome 201
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di Ghana, intendendo riallacciarsi, seppure alquanto forzatamente, alla grande e originaria costruzione politica dell’Africa dell'XI secolo (non diversamente, in fondo, dalla Germania del tardo Medioevo, che si presentava come Sacro Romano Impero di nazione
tedesca); Senghor era uno dei maggiori esponenti del movimento politico-letterario della “negritudine”, che attraverso la rivista “Présence africaine” rivendicava la capacità dell’Africa di fornire un autonomo contributo storico e culturale alla civiltà occidentale. Ciò di cui l Africa indipendente aveva bisogno era un lungo periodo di stabilità politica, ma questo fu possibile solo in pochi casi, fra i quali il Senegal, dove Senghor mantenne la presidenza fino al 1980, e la Costa d'Avorio, dove Félix Houphouét-Boigny morì nel 1993 essendo ancora in carica come presidente. La lunga durata di questi capi di stato mostra che anche in questi casi il trapianto delle istituzioni occidentali (elezioni libere e pluripartitismo) non era riuscito. Lo strato colto rappresentato dai dirigenti del dopo-indipendenza era realmente troppo sottile e copriva una situazione di generale arretratezza poli-
tica e i gravi problemi costituiti dal sottosviluppo economico e dalle divisioni interne. L'evoluzione verso regimi monopartitici e anche autoritari fu inevitabile, avendo come alternativa solo l’intervento
dei militari e il continuo ripetersi di colpi di stato. Ovunque gli stati divennero apparati sovradimensionati, inefficienti e corrotti, con gruppi di potere che favorivano le proprie etnie e clan; in senso complementare agirono le ingerenze politiche delle vecchie potenze coloniali e i vincoli economici del neocolo-
nialismo. Demoralizzante fu nel 1971 e 1972 l’evoh zione da dittature militari a tirannidi fuit: | 202
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po crudeli e ridicole in Uganda a opera di Idi Amin e nella Repubblica. centroafricana di Jean-Bedel Bokassa, che nel 1976 si proclamò imperatore. Nella ricerca di una strategia dello sviluppo la maggioranza degli stati puntò sullo sviluppo delle tradizionali esportazioni, mantenendo rapporti privilegiati con le ex potenze coloniali. L'idea di un socialismo africano con caratteri originali o l'adesione al socialismo “scientifico” non restarono però fatti marginali. Nel Ghana Nkrumah ottenne aiuti dall’Unione Sovietica e dette vita a progetti troppo grandiosi e costosi per le dimensioni dello stato, facendo costruire una diga e una centrale idroelettrica sul fiume Volta. In seguito si propose come leader di un movimento panafricanista e si avvicinò anche alla Cina, venendo infine rovesciato nel 1966 da un colpo di stato militare. In Tanzania il presidente Julius Nyerere cercò dal 1967 di fondere il socialismo rurale cinese con una ideologia comunitarista che pretendeva di ridar vita alle antiche tradizioni del paese e assicurargli una austera autosufficienza, liberandolo dalla dipendenza dalle esportazioni; ma anche in questo caso l'esito fu una
costosa burocrazia statale che doveva controllare gli esperimenti solo parzialmente riusciti di collettivizzazione nei villaggi. Il caso più importante di fallimento dellindipendenza per l’azione congiunta delle ingerenze neocolo| nialiste e delle divisioni interne è rappresentato dal Congo belga. Al primo accenno di movimenti indipendentisti, primo fra tutti quello guidato da Patrice
Lumumba, il governo di Bruxelles decise di abbandoare immediatamente il paese, dove il 30 giugno 1960
ne proclamata la repubblica. Dalle elezioni che si ) tenute in maggio era uscito vincitore il partito di 203
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Lumumba, che divenne primo ministro con un difficile programma nazionalista e centralista per un paese con decine di gruppi etnici diversi, mentre il presidente della repubblica Joseph Kasavubu era a favore di un ordinamento federale. Il colonialismo belga si era limitato a proteggere le compagnie minerarie e a diffondere una rudimentale cristianizzazione, così che al momento dell’indipendenza il Congo si trovò in possesso di un gran numero di religiosi e suore di origine europea ma del tutto privo di una classe dirigente nazionale e di strutture amministrative. I belgi mantennero diverse posizioni chiave e in particolare tutti i posti di ufficiale nell’esercito. La crisi del Congo cominciò con la ribellione delle truppe contro i loro ufficiali belgi e proseguì con manifestazioni di feroce ostilità verso i circa centomila belgi ed europei rimasti nel paese. L’11 luglio 1960 la ricca regione mineraria del Katanga proclamò la secessione, ottenendo l'appoggio della compagnia belga Union Minière e di forze mercenarie e avventurieri delle più diverse provenienze, destinati a diventare per decenni una presenza costante nelle crisi attraversate dal continente. L'intervento delle forze delle Nazioni Unite si limitò a proteggere la vita dei residenti europei, ignorando le richieste di Lumumba di porre fine alla secessione del Katanga, che aveva innescato la ribellione di altre province e il disfacimento del Congo. Quando Lumumba si orientò a chiedere aiuto all'Unione Sovietica, un complotto organizzato contro di lui con la sicura connivenza di servizi segre- |
ti stranieri condusse al suo arresto e alla sua consegna
ai katanghesi, dai quali venne assassinato nel gennaio 1961. Per quattro anni il Congo visse nella più com-
pleta anarchia e solo nel 1965 il generale Mob 204
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giunto al potere con un colpo di stato militare, riuscì a porre fine alla guerra civile, garantendo gli interessi delle compagnie straniere che operavano nel paese (ribattezzato Zaire dal 1971). Una organizzazione federalista era stata adottata in Nigeria sin dal momento della sua indipendenza ed era stata dettata dal fatto che i tre stati membri della federazione avevano caratteri ben diversi. Al nord prevalevano gli haussa e fulbe, musulmani tradizionalisti, al sud-ovest gli yoruba, in maggioranza legati ai culti animisti, al sud-est gli ibo, cristianizzati. Gli ibo
erano inoltre il gruppo più occidentalizzato, che aveva fornito l’élite dell'’amministrazione locale in epoca coloniale, e nel loro territorio si trovavano le maggiori riserve petrolifere. I conflitti fra i gruppi maggioritari (non riducibili a conflitti “tribali” — come vennero letti in Europa — e religiosi, ma anche con connotati socia-
li, politici ed economici) furono all’origine nel 1966 di un colpo di stato e del tentativo egemonico degli ibo (che abolirono la struttura federale), quindi di un secondo contro-colpo di stato e dei massacri compiuti sugli ibo della regione settentrionale. Nel maggio 1967 la regione sud-orientale si proclamò indipendente con il nome di Biafra; la feroce guerra combattuta fra i secessionisti e il resto della Nigeria si concluse nel gennaio 1970 con la resa del Biafra.
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7. Coesistenza e competizione, 1955-1965
1. Una “nuova frontiera” per gli Stati Uniti
L'inizio delle imprese spaziali sovietiche venne recepito negli Stati Uniti più come una sconfitta che come iuna sfida. Il lancio degli Sputnik 1 e 2 nell’ottobrenovembre del 1957 aveva un aspetto militare, perché mostrava all’opinione pubblica americana che l’Unione Sovietica possedeva missili intercontinentali e che gli Stati Uniti, dopo aver avvolto l’intero territorio dell'avversario con la lunga catena dei trattati militari e delle basi logistiche, avevano cessato di essere invulnerabili. Ma soprattutto gli Sputnik dimostravano che le dichiarazioni di Chrusèév non erano solo vanterie;
forse davvero gli Stati Uniti stavano perdendo, oltre alla superiorità atomica, anche quella tecnico-scientifica. Né l’uno né l’altro allarme avevano gran fondamento nella realtà, ma la risposta operata sin dal gennaio 1958 dagli Stati Uniti nella “gara spaziale” non parve all’altezza della situazione perché spinse i russi a fare ancora di meglio (vedi pp. 165-166). Come c’era da attendersi, la battaglia per le elezioni presidenziali del novembre 1960 ebbe come tema centrale la capacità degli Stati Uniti di continuare a essere la maggiore potenza mondiale e il paese guida del “mondo libero”. I repubblicani candidarono il vicepresidente di Eisenhower, Richard Nixon, che doveva itire la continuità con la precedente amministra207
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zione; idemocratici scelsero John F Kennedy, figlio di una delle più ricche e influenti famiglie cattoliche del Massachusetts, che già durante la campagna per ottenere la rorzination del partito a candidato aveva trovato nell’idea di una “nuova frontiera” la formula giusta per un progetto politico che faceva appello agli aspetti della loro storia di cui gli americani erano più orgogliosi: andare avanti con coraggio e ottimismo verso terre lontane e inesplorate e verso il futuro. Accettando la candidatura del partito nel luglio 1960, Kennedy dichiarò «Ci troviamo oggi alle soglie di una nuova frontiera, la frontiera degli anni sessanta. Non è
una frontiera che assicuri promesse, ma soltanto sfide, ricca di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di
incompiute speranze e di minacce». «Vi chiedo di essere i nuovi pionieri di questa Nuova Frontiera», ripeté poi nei suoi discorsi elettorali.
Benché il fatto di essere cattolico gli precludesse il voto di una parte dello stesso elettorato democratico, Kennedy riuscì a utilizzare in pieno il nuovo strumento di propaganda costituito dalla televisione (utilizzato già nelle elezioni del 1956 ma in maniera ancora primitiva) e nei dibattiti diretti con il suo avversario Nixon apparve nettamente più brillante e convincente. Alle elezioni, che videro una partecipazione popolare piuttosto alta, risultò vincitore Kennedy, ma con
uno scarto di appena centoventimila voti. In parte per strategia elettorale, ma in parte anche per convinzione, Kennedy non aveva svolto il progetto della “nuova frontiera” in netta alternativa alla visione repubblica-
na della guerra fredda. In effetti nel suo discorso insediamento, nel gennaio 1961, il nuovo president fece prevalere itemi della politica estera e dichiarò «Che ogni nazione sappia che noi siamo pronti a p 208
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re qualsiasi prezzo, a sostenere qualunque peso, ad affrontare qualunque prova, ad appoggiare qualsiasi amico, a opporci a qualsiasi nemico, per assicurare il mantenimento e il trionfo della libertà». Fin qui si trattava solo di una efficace retorica. Più importante era ciò che Kennedy aveva da dire sui paesi che uscivano dall’epoca coloniale e su tutti coloro che «nelle capanne e nei villaggi di metà del mondo lottano per infrangere le catene della povertà». I repubblicani si erano limitati a distribuire armi a regimi tirannici di provata fede anticomunista e non avevano percepito l’elemento di forza presente nell’attivismo di Chruséév nei confronti del Terzo mondo, dall’ap-
poggio alla conferenza di Bandung all’aiuto, lungimirante e a breve termine disinteressato, prestato ai nuovi stati africani, fino alla disponibilità a proteggere il Congo di Lumumba. Pur dichiarandosi pronto a ricominciare daccapo a ricercare la pace e la collaborazione con i sovietici, Kennedy chiariva che non avrebbe permesso che il colonialismo scomparisse solo per lasciare il posto alla tirannide ancora peggiore del comunismo. Nella sua mente, tuttavia, si chiarì sem-
pre meglio che alla rude logica di Foster Dulles e della sua dottrina del ro// back occorreva sostituire quella che aveva retto il grande disegno di Roosevelt e il piano Marshall. Il modo più efficace per opporsi al comunismo era sconfiggere la povertà. Questo doveva valere prima di tutto per l'America
latina e in particolare per quella centrale, dove si trattava di rovesciare la prassi statunitense (che aveva poco a che fare con l’opposizione al comunismo, dato che le sue radici risalivano alla fine del XIX secolo) ben rappresentata dal modo con cui era stato trattato i Guatemala. Sin dal 1944 il spiega possedeva un )
E:
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governo progressista e dal 1952 il presidenteJ.Arbenz aveva avviato una politica di riforma agraria che intendeva redistribuire a favore dei contadini i latifondi;
fra i grandi proprietari colpiti vi era anche la United Fruit Company che controllava l’esportazione delle banane e possedeva 220000 ettari. Identificando gli interessi della multinazionale americana con la difesa del mondo libero, il governo americano aveva accusato Arbenz di essere comunista; la Cia, diretta allora da Allen Dulles, fratello del segretario di stato, aveva fat-
to ospitare dal confinante Honduras campi di addestramento per forze controrivoluzionarie e da qui era partito nel 1954 l'attacco che aveva rovesciato Arbenz e trasferito il potere ai militari. Un esempio ancor più significativo era offerto da Cuba. La sua lotta di liberazione contro la Spagna aveva avuto nel 1898 l’appoggio armato degli Stati Uniti ma aveva condotto il paese a diventare una loro semicolonia, controllata economicamente per le sue
esportazioni di zucchero e prediletta dal pacchiano turismo americano per i suoi locali notturni e sale da gioco, la sua musica e il suo colore locale, compresi gli esotici bordelli. Nel 1944 Fulgencio Batista, già da anni al potere come dittatore militare, aveva accettato il rischio di elezioni relativamente libere ma era stato battuto da una coalizione democratica; nel 1952 era tor-.
nato al potere per mezzo di un colpo di stato realizzato in accordo con l’amministrazione americana. Contro il ritorno della dittatura, che non turbava gli ideali politici degli Stati Uniti ed era basata semplice mente sulla brutalità, aveva preso corpo una opposi zione con largo seguito non solo tra icontadini pov
ma anche tra gli studenti che provenivano dalle fami glie benestanti delle città. A capo di essa sidistinse 210
Coesistenza e competizione
giovane avvocato Fidel Castro, che, dopo il fallito tentativo di insurrezione diretta del 1953, guidò una lunga guerriglia che ottenne l'appoggio crescente delle masse contadine e condusse il 1° gennaio 1959 al riuscito attacco finale all’Avana. Castro divenne primo ministro di un nuovo governo di coalizione nel quale erano rappresentate forze democratiche e liberali e che realizzò una completa riforma agraria. L'ostilità americana verso la rivoluzione cubana fu immediata e innescò una catena di provocazioni e boicottaggi economici da una parte e di atti via via più radicali dall'altra; alla fine Cuba aveva nazionalizzato tutte le proprietà americane e aveva dichiarato il carattere socialista del nuovo regime, mentre gli Stati Uniti avevano rotto le relazioni diplomatiche con il paese ormai nemico e lo avevano colpito con un totale embargo economico. La politica verso l'America latina annunciata da Kennedy sin dal discorso di insediamento con il nome di “Alleanza per il progresso” aveva evidentemente lo scopo di arrestare il contagio comunista, ma si presentava come un impegno non fittizio. Il presidente chiedeva al Congresso di approvare stanziamenti dell'ordine di quelli dell'originario piano Marshall e subordinava la loro erogazione alla disponibilità dei governi latino-americani a realizzare riforme agrarie e a consolidare la democrazia. A ciò va aggiunta la creazione del “Corpo della pace”, gruppi di volontari impegnati nella realizzazione di programmi di cooperazione tecnica, economica e sociale, che nel 1963 erano attivi in quarantasei paesi sottosviluppati di tutti i con-
tinenti. L'“Alleanza per il progresso” restò tuttavia solo una formula augurale, perché il Congresso degli Stati Uniti ridusse nettamente gli stanziamenti, mentre
e riforme proposte ai paesi latino-americani furono Zu
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percepite dai loro governi come ingerenze esterne e furono comunque impedite tanto dagli interessi americani che da quelli delle oligarchie locali. Lo stesso Kennedy aveva tolto di' credibilità ai suoi propositi autorizzando nell’aprile 1961 una operazione contro il governo cubano già predisposta dalla Cia sotto la precedente amministrazione e molto simile a quella del 1954 contro il Guatemala: lo sbarco di un corpo di spedizione composto da esponenti della borghesia parassita che prosperava a Cuba prima della rivoluzione e che si erano trasferiti. in Florida nel 1959. L'invasione si risolse in un completo fallimento, ma ancora più grave fu la perdita di prestigio subita dagli Stati Uniti. Il tema della “guerra alla povertà” fu anche al centro dei programmi interni di Kennedy, che seguendo esplicitamente la grande lezione di Roosevelt varò un vasto piano di assistenza sociale per sostenere i lavoratori e i ceti più disagiati e si impegnò nella politica di integrazione dei neri e nella difesa dei loro diritti civili. Dal tempo delle prime rivendicazioni il movimento dei neri americani si era esteso e organizzato: la grande marcia pacifica su Washington guidata il 23 agosto 1963 dal loro leader, il pastore Martin Luther King, vide la partecipazione di oltre duecentomila persone. I risultati. concreti della politica kennediana furono però molto. modesti: le leggi sociali furono respinte dal Congresso, mentre alla fine del 1963 quella sui diritti civili non era stata ancora discussa. Il 22 novembre di quell’anno Kepi venne assas-
sinato mentre era in visita nella città texana di Dallas Si trattava certamente di una congiura, eseguita da un inetto killer e liga nel suo carattere dallai
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strati a nascondere i suoi veri organizzatori; la loro ricerca poteva spaziare dagli esuli cubani, cui era stato negato un secondo tentativo di rovesciare Castro, ai
razzisti del sud e alle varie mafie del nord, in ogni caso sotto la protezione di una regia occulta, mentre le esat-
te modalità sono rimaste un enigma buono a produrre qualsiasi fantastica ricostruzione. Kennedy entrava nella leggenda prima di aver saputo dimostrare di essere davvero un grande statista. 2. Coesistenza pacifica e gara atomica
Le dichiarazioni di Chrusèév sulla evitabilità della guerra e sulla capacità del socialismo di vincere la competizione con il capitalismo in un contesto di coesistenza pacifica, formalmente ribadite al XX congresso ma espresse già nel 1954, erano una manifestazione della nuova politica estera sovietica. Un primo importante momento di ciò che venne chiamato “distensione” o “disgelo” fu costituito dalla riconsiderazione dei trattati di pace rimasti in sospeso da otto anni (cap. 1, $ 3). Nel maggio del 1955 venne posta fine all’occupazione quadripartita dell'Austria, riconosciuta con molta generosità vittima e non complice del nazismo e beneficiaria quindi di un trattato di stato che stabiliva
la sua neutralità. Stalin si era mosso malvolentieri da Mosca e negli ultimi anni aveva lasciato raramente il Cremlino;
Chruséév ai lunghi viaggi attraverso l'Unione Sovietica alternava i viaggi diplomatici, in Cina nel 1954, in igoslavia nel 1955 e nello stesso anno, come visibile n di interessamento alla conferenza di Bandung, i India, Birmania e Afghanistan, in Inghilterra nel
956, poco dopo il XX congresso. Di grande risonan213
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za, come messa alla prova della distensione, fu quello compiuto nel luglio 1955 a Ginevra, per prendere parte con Eisenhower, Anthony Eden e Edgar Faure alla prima conferenza fra i “quattro grandi” convocata dai tempi di Potsdam. Oggetto della conferenza furono il futuro della Germania, la pace e il disarmo; su tutte le questioni vennero avanzate proposte molto ragionevoli, ma con l’aggiunta di clausole che le rendevano inaccettabili all’altra parte. Alla fine non ci fu accordo su nessun punto ma i quattro premier si lasciarono in un’atmosfera molto cordiale. Un proseguimento di questa atmosfera fu, in settembre, il viaggio del cancelliere Adenauer a Mosca. Neppure in questo caso fu trovato un accordo sulla questione tedesca, perché per Adenauer la Rdt semplicemente non esisteva e la Rft rompeva immediatamente le relazioni diplomatiche con chiunque riconoscesse “l’altra Germania”; Adenauer fece però un’eccezione
per l’Urss e il viaggio ebbe almeno l’effetto di condurre al riconoscimento reciproco fra Bonn e Mosca. La serie di eventi distensivi del 1955 sbloccò anche l’ostruzionismo reciproco che da anni impediva nuove
ammissioni all'Onu: alla fine dell’anno entrarono così nelle Nazioni Unite l’Austria e altri quindici stati (con il cedimento da una parte sui satelliti europei dell’Urss non ancora ammessi, dall’altra sull'Italia e sulla Spagna e il Portogallo, retti ancora da regimi che derivavano direttamente dall'epoca delle dittature fasciste). Il 1955 era stato, per la verità, anche l’anno del riar-
mo della Germania e del patto di Varsavia (cap. 3, $ 6), ma questi fatti rientravano in gran parte nella logica dell’ormai riconosciuta divisione dell'Europa in
due sfere politiche e lo stesso si può dire per la repressione della rivolta ungherese, che produsse molta indi214
sù
Coesistenza e competizione
gnazione ma venne rapidamente dimenticata. Nel settembre 1959 il viaggio compiuto da Chrusèéév negli Stati Uniti, calorosamente accolto da Eisenhower e dal pubblico americano, mentre a New York e a Mo-
sca si svolgevano simultaneamente grandi mostre della realtà sovietica e statunitense, dava davvero l’impressione che la guerra fredda fosse finita. Se la fortunata denominazione veniva presa in senso stretto, come un conflitto che si precludeva soltanto lo scontro armato diretto fra i contendenti principali, ma non effettive guerre indirette, lunghe e sanguinose, ciò era realmente avvenuto nel 1954-55, con i ricordati
‘ avvenimenti di quegli anni e con l’avvento di un equilibrio riconosciuto; ciò dimostrava inoltre che la guerra fredda non scaturiva necessariamente da una situazione di bipolarismo. Ma quella conclusione appariva meno vera da altri punti di vista. La competizione pacifica era la nuova e rassicurante dimensione propagandistica di una guerra fredda che fra il 1955 e il 1961 proseguì con un continuo ricorso a minacciosi e
sempre più pubblicizzati esperimenti nucleari e che nel 1961 e 1962 vide due fra le più gravi crisi politiche di tutto il dopoguerra. Entrambe le superpotenze possedevano dal 1954 un primo arsenale di bombe all’idrogeno, con le quali l'armamento nucleare aveva fatto un impressionante salto di qualità. Il potere distruttivo delle bombe sganciate sul Giappone si misurava in qualche kiloton, ciascuno equivalente a mille tonnellate di tritolo; con le bombe H si passava invece all’ordine dei megaton, pari a mille kiloton, e si dava agli esperimenti con que| ste nuove armi, anche se compiuti in luoghi del tutto isolati, un imprevisto carattere autolesionista. Il 1° marzo 1954 una nave da pesca giapponese fu investi-
b: |
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ta dalla ricaduta (/a// out) delle particelle radioattive sollevate dall'esplosione sperimentale compiuta quel giorno dagli Stati Uniti nell’atollo di Bikini, in mezzo al Pacifico. I pescatori si trovavano a più di centotrenta chilometri da Bikini e restarono tutti contaminati. Benché le correnti d’alta quota potessero far verificare anche a grandi distanze il fenomeno del fa// out, fra
il 1954 e il 1958 ci furono circa 200 esperimenti nucleari, nel Pacifico e in Siberia. La consapevolezza dei pericoli si fece strada molto lentamente: gli esperimenti nell’atmosfera, sospesi alla fine del 1958, furo-
no ripresi nel 1960, con l'aggiunta di quelli francesi nel Sahara e fino all'esplosione sovietica, il 30 ottobre 1961, della più potente bomba mai realizzata, di 58 megaton (pari a circa 4000 atomiche di Hiroshima). Nel corso degli stessi anni Stati Uniti e Unione Sovietica disposero dell’intera gamma dei vettori di ordigni nucleari strategici: i bombardieri a lunga distanza, i
sottomarini a propulsione nucleare, i missili intercontinentali. Alla prima creazione di arsenali nucleari non aveva
corrisposto una chiara strategia sull’uso di queste armi, se si escludono le vaghe minacce lanciate dagli Stati Uniti in occasione delle maggiori crisi internazio-
nali degli anni 1949-54 e non prese molto sul serio dalle autorità sovietiche e cinesi. Ma già dal 1953 gli Stati Uniti avevano adottato ufficialmente la strategia detta della “rappresaglia massiccia”, che-implicava l'immediato ricorso al più alto livello della reazione atomica di fronte a qualsiasi aggressione compiuta da parte comunista; implicazioni di questa dottrina erano che l’avvertimento diventava ora esplicito e che gli investimenti nelle più potenti bombe possibili potevano diventare superiori a quelli negli armamenti con216
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venzionali (conducendo complessivamente a un risparmio nelle spese militari). Con l'avvento dell’amministrazione Kennedy la strategia atomica cominciò a farsi più sottile ma anche più insidiosa: la nuova dottrina era quella della “risposta flessibile”, che lasciava spazio alla scelta fra le diverse “opzioni militari”, procedendo a seconda della situazione dalle armi convenzionali all’apocalisse; era così ammessa l’eventualità di una guerra limitata, da combattersi anche con armi atomiche tattiche di limitato potenziale, e veniva teorizzata la pace retta sull’equilibrio del terrore ovvero sul principio della Mutual Assured Distruction: ben sintetizzato dall’acronimo Mad (“pazzo”), il principio in questione doveva togliere di significato all'idea di un successo ottenuto al prezzo di un danno superiore in maniera incommensurabile a qualsiasi vittoria.
Il principio della deterrenza (“sappi che se mi attaccherai sono in grado di distruggerti”) aveva fatto parte di qualsiasi precedente corsa agli armamenti, amplificandola attraverso la necessità che su tutti incombeva di parteciparvi. Ma da questo non si può concludere
che non c’era in fondo nulla di nuovo nella fase della guerra fredda che si svolse fra gli anni cinquanta e sessanta, sostenendo implicitamente che il principio che nessun arsenale militare viene accumulato senza che cresca la probabilità di un suo effettivo utilizzo non vale per le armi atomiche; l’idea che queste non erano costruite come vere armi ma solo nella logica della propaganda è vera solo in parte e in ogni caso non è molto razionale contare sulla razionalità degli esseri umani. Le superbombe (come quella sovietica del 1961, esibita con molto orgoglio da Chruséév che pure si mostrava ansioso per i rischi di guerra nucleare) erano in linea di principio solo strumenti terroristici e non era 217
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con quelle che si sarebbe vinta una guerra. Ma gli strateghi americani (di quello che realmente pensavano i loro omologhi sovietici sappiamo poco) stavano in quegli anni davvero ipotizzando scenari di guerre atomiche limitate, calcolando entro quale soglia di milioni di morti esse sarebbero state tollerabili. La guerra fredda viene a volte identificata dal senso comune con l’epoca dell'equilibrio del terrore atomico, ma questa visione è inesatta. Fino ai primi anni cinquanta solo gli Usa ebbero il monopolio dell’allusione alla minaccia atomica. Poi per diversi anni la paura delle conseguenze degli esperimenti nucleari (l’effetto Bikini) fu pari se non superiore a quella di una guerra effettiva.
Il timore per una vera guerra nucleare (specie se non voluta: una guerra per errore, il passaggio mal calcolato a fasi troppo alte dell’escalation) crebbe verso la fine del decennio. Antefatto delle due gravi crisi del 1961-62 fu il rapido deterioramento della distensione che si era profilata al momento della visita di Chruséév negli Stati Uniti e che doveva proseguire con la nuova conferenza al vertice prevista a Parigi per il 16 maggio 1960. Ma il 1° maggio un aereo americano che sorvolava il territo-
rio sovietico in missione di spionaggio venne abbattuto da un missile; quando Chrusèév giunse a Parigi rifiutò di incontrarsi con Eisenhower se questi non gli garantiva che episodi del genere non si sarebbero ripetuti e ciò fu sufficiente per far fallire la conferenza prima ancora del suo inizio. Alla fine di settembre ChruStév si recò ancora a New York, usufruendo questa volta del suo diritto a guidare la delegazione sovietica |i
alle Nazioni Unite. In diversi interventi poté allora attaccare vivacemente la politica degli Stati Uniti, quali-
ficata come banditismo, e il modo con cui ilsegretario 218
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generale dell'Onu aveva fino ad allora gestito la situazione nel Congo, sottolineando le sue tesi con espressive intemperanze colpite da 10000 dollari di ammenda. L'avvento della nuova amministrazione americana fu tutt'altro che favorevole a una ripresa del dialogo e fu seguito dopo pochi mesi da una nuova crisi di Berlino. Dal 1949 la situazione dell’ex capitale tedesca era congelata: da un lato restava formalmente in vigore l’amministrazione delle potenze vincitrici sulle quattro (in pratica due) parti della città; dall’altro queste erano di fatto integrate nelle due Germanie. Ma era evidente che la situazione più anomala era | quella di Berlino Ovest, Land tedesco secondo la costituzione della Repubblica federale, ma allo stesso tempo entità autonoma sotto occupazione militare; essa era inoltre continuo elemento di provocazione e sfida per la Repubblica democratica a causa della possibilità che offriva ai tedeschi orientali di fuggire in Occidente passando con assoluta libertà dall'una all'altra parte della città. La provocazione era accresciuta dal fatto che la Repubblica federale non riconosceva nemmeno di fatto i confini usciti dalla guerra mondiale e continuava a dichiarare di essere il solo stato di tutti i tedeschi. Definitivamente fallito ogni ragionevole tentativo di ricostituire una Germania unificata ma rigorosamente smilitarizzata e sottratta a ogni patto politico e militare, il governo sovietico aveva proposto una prima volta nel 1958 di risolvere la questione attraverso la stipulazione di un trattato di pace che stabilisse la definitiva separazione della Germania in due stati riconosciuti sul piano diplomatico e facesse di Berlino Ovest una città libera e smilitarizzata. Il rifiuto americano, provocato anche dalla necessità di non creare crisi nelUn:
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l'alleanza con la Repubblica federale, aveva contribuito a mantenere alta la tensione. Nel 1961 Chruséév tornò a presentare la stessa proposta, aggiungendo che in caso di nuovo rifiuto del blocco occidentale era ormai pronto a stipulare una pace separata con la Repubblica democratica tedesca e a dichiarare finita l’amministrazione alleata di Berlino, cedendola allo
stato sovrano della Germania orientale, con il quale avrebbe quindi dovuto essere trattato il nuovo status di Berlino Ovest. Dopo che gli Stati Uniti ebbero più volte dichiarato che avrebbero considerato un casus belli qualunque minaccia a Berlino Ovest, si venne profilando una soluzione di fatto della crisi. Di fronte alla continua emorragia di popolazione della Germania dell'Est (duecentomila profughi nel 1960 e altrettanti nei soli primi sette mesi del 1961, quindicimila nei primi dieci giorni di agosto e quattromila il 13 agosto), il governo di Pankow rispose con un atto di sfida, edificando a partire dalla mezzanotte dello stesso 13 agosto 1961 una serie di barriere lungo il confine interno della città. Queste vennero poi trasformate in un muro continuo
di cemento, presidiato costantemente da truppe armate. Il “muro” divenne rapidamente nella coscienza europea il simbolo dell’imbarbarimento della vita civile determinato dalla guerra fredda e un eloquente monumento del carattere di vera e propria prigione posseduto dai regimi comunisti. Gli Stati Uniti continuarono a non riconoscere questa ben visibile frontiera di
stato nel cuore di Berlino e se la crisi non degenerò in uno scontro più pesante fu solo perché Chrusèév non fece più parola dei propositi di pace separata. Il clima politico si fece ancor più teso l’anno successivo con la crisi esplosa a Cuba. Dopo l’aggressione 220
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dell’aprile 1961 il governo di Castro, pur prendendo parte in settembre alla conferenza dei non-allineati a Belgrado, non aveva potuto far altro che stringere i rapporti con l’Urss e accettare la sua protezione militare nel timore di altre iniziative ostili americane. Chruséév utilizzò quest'occasione per una prova di forza con gli Usa, non solo fornendo armamenti all’alleato ma anche installando sull’isola, nell’estate del 1962, missili a testata nucleare. A metà ottobre un
aereo-spia U-2 che sorvolava Cuba dette al presidente Kennedy, già da agosto informato dai servizi segreti, la prova definitiva di quanto stava accadendo. Il 22 otto: bre Kennedy rivelò in un discorso televisivo la minaccia che gravava sugli Stati Uniti, avvertendo che Cuba
era in stato di blocco e che tutte le navi sovietiche là dirette sarebbero state perquisite per verificare se portavano a bordo armi e in caso positivo respinte anche con la forza. Per alcuni giorni le due superpotenze tesero la corda fino al limite estremo per verificare chi per primo avrebbe ceduto, mentre tutte le loro forze armate erano poste in stato di allarme generale. Alla fine i due leader riuscirono a mantenere il controllo politico della crisi e a tenerne fuori i militari. Il 28 ottobre Chruséév annunciò il ritiro delle armi atomiche da Cuba, dietro la garanzia americana di rinunciare a ogni intervento nell'isola; rispondendo in modo riservato a un’altra condizione posta da Chruscév, Kennedy fece inoltre sapere che avrebbe ritirato i missili americani che già da anni si trovavano in Turchia puntati sull'Unione Sovietica. Lo scopo di rendere meno asimmetrico il bipolarismo, perseguito con i missili di Cuba, era stato ugualmente raggiunto, ma in | termini di propaganda era stato Kennedy a segnare un punto a suo favore. È r
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L'effetto immediato della crisi di Cuba fu quello di spingere entrambi i paesi a estendere spese militari e armamenti, ma allo stesso tempo a far sì che la guerra fredda non uscisse dai suoi limiti e venisse a coincidere con la coesistenza pacifica. Nel giugno 1963 venne messa in funzione la linea diretta di telescriventi fra Washington e Mosca o “linea calda”, con lo scopo di scambiare immediate informazioni fra i capi di stato ed evitare la “guerra per errore” dovuta a erronee interpretazioni delle intenzioni altrui. Con questo atto di reciproca fiducia Kennedy e Chruséév divennero i due supremi garanti della pace mondiale. Il 5 agosto 1963 venne stipulato a Mosca il trattato che proibiva nuovi esperimenti nucleari nell’atmosfera (restavano ammessi quelli sotterranei); oltre a Usa, Urss e Gran
Bretagna (che faceva parte del “club atomico” dal 1952) vi aderirono tutti i maggiori stati del mondo, tranne la Francia e la Cina (quest’ultima compì nel 1964 la sua prima esplosione sperimentale). 3. La Chiesa cattolica nella guerra fredda, nella distensione e di fronte al Terzo mondo
Le vicende della Chiesa cattolica costituiscono una storia a sé che va oltre i limiti delle analisi compiute in questo libro; esse vanno tuttavia richiamate almeno sommariamente perché ebbero un loro ruolo spesso determinante nelle diverse fasi fin qui esaminate, la guerra fredda e la distensione. Con gli anni della guerra fredda venne a coincidere la seconda parte del pontificato di Pio XII, fornendo un'immagine della Chiesa cattolica che nelle forme esteriori e nelle dichiarazioni ufficiali pareva trovare i
suoi migliori interlocutori nei modelli di società rap222
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presentati dalla Spagna di Franco e dal Portogallo di Salazar. Con i suoi tratti oscurantisti la Chiesa combatté una guerra fredda che non coincideva del tutto con quella che impegnava il sistema internazionale e che traeva le sue radici da una più antica diffidenza nei confronti del mondo contemporaneo. Di fronte alle trasformazioni che lo attraversavano essa appariva su posizioni arretrate e, ancor più, estranee, non scor-
gendo a pieno l’importanza anche per la vita religiosa di fenomeni quali la ricerca di una giustizia sociale fra le classi e i popoli, la fine degli imperi coloniali e l’emergere del problema del sottosviluppo. Nei paesi dell'Europa orientale la Chiesa veniva trattata in maniera piuttosto rude da parte dei regimi comunisti, ma nel denunciare le persecuzioni cui era soggetta questa non distingueva l’abolizione dei privilegi tradizionali di cui aveva sempre goduto in Polonia o in Ungheria dalla violazione dei diritti di libertà religiosa. L’intransigente rifiuto delle dottrine comuniste, in quanto atee e materialiste, da una parte non era nulla di veramente nuovo rispetto alle antiche condanne inflitte al mondo moderno e dall’altra finiva per subordinarsi alla logica (troppo contingente di fronte alla ben più ampia dimensione storica in cui la Chiesa si collocava) delle contrapposizioni internazionali. La scomunica comminata nel 1949 a chi aderiva ai partiti comunisti e socialisti fu molto gradita ai governi del blocco occidentale ma portò non meno danno alla Chiesa che all’avversario politico e ideologico, mettendo i militanti della sinistra che restavano cattolici in una difficile situazione di coscienza e dando loro l’impressione che la Chiesa stessa si schierasse dalla parte sbagliata in materia di giustizia sociale. Una svolta radicale si verificò nel 1958, quando il 223
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conclave riunito dopo la morte di Pio XTI elesse pontefice l'anziano cardinale Angelo Roncalli, che prese il nome di Giovanni XXIII. Rompendo nello stile e nei contenuti con la pratica delle scomuniche e con gli atteggiamenti di condanna senza appello, il suo breve pontificato (quattro anni e mezzo) si rivelò, oltre le stesse intenzioni del capo della Chiesa, come un’epoca di rapido e profondo rinnovamento. A distanza di soli tre mesi dall’elezione, nel gennaio 1959 Giovanni XXIII annunciò la convocazione di un nuovo concilio ecumenico, il primo che si teneva dopo il Vaticano I del 1870. La scelta di indire un concilio Vaticano II significava dare la parola ai vescovi di tutto il mondo, contro una tradizione di governo della Chiesa affidato a un collegio cardinalizio assai squilibrato in senso europeo e perfino solo italiano. La riunione del concilio, nell'ottobre 1962, venne seguita
dalla promulgazione dell’enciclica papale Pacerz i terris (aprile 1963), che era inviata non solo ai fedeli di
tutto il mondo ma «a tutti gli uomini di buona volontà». Essa riconosceva in tre fenomeni il manifestarsi dell’epoca moderna: l'ascesa delle classi lavoratrici, che non si limitavano più a rivendicare diritti economico-sociali ma entravano a pieno titolo nel mondo della politica e della cultura; la crescita della coscienza della propria dignità nella donna, che rifiutava di essere trattata come strumento nella vita domestica e faceva il suo ingresso nella vita pubblica; la liberazione dei popoli dal dominio coloniale, in base al principio “non più popoli dominatori e popoli dominati” ($ 20). Proponendo la distinzione fra l’errore e l’errante, Gio-
vanni XXIII invitava a considerare e trattare il secondo sempre in maniera conforme alla sua dignità umana e quindi a dialogare con lui, si trattasse di un «cri224
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stiano separato» dalla Chiesa cattolica o anche di «un essere umano non illuminato dalla fede in Gesù Cristo» ($ 59-60). Nel corso del 1963, nel clima di sollie-
vo e ottimismo seguito alla crisi dei missili e segnato dalla buona disposizione al dialogo, Giovanni XXIII finì per assumere accanto a Kennedy e ChruSéév, in un accostamento impensabile fino a poco tempo prima, il ruolo di difensore della pace universale e nel giugno la sua morte fu avvertita come una grave perdita non solo dal mondo cattolico. Giunto alla sua conclusione nel 1965, il Concilio permetteva alla Chiesa di liberarsi dall’atteggiamento di condanna nei confronti di tutto ciò che non accet‘ tava il suo primato. Il dialogo con le altre confessioni cristiane non cattoliche, accettate come interlocutrici
su un piano di parità, e anche con le fedi non cristiane e con gli stessi non credenti divenne uno dei capisaldi dell’azione postconciliare. Lo stesso piano semantico, con la sparizione di termini come scomunica ed eretico, rivelò la novità in atto. La riforma liturgica,
con l'abbandono del latino e l’introduzione delle lingue realmente parlate dai fedeli, fu il necessario corollario del diverso modo di intendere la presenza ecclesiale, già manifestato nello stemperarsi di talune rigidità gerarchiche e nella valorizzazione del laicato. Uno dei frutti più rilevanti del concilio fu perciò l’allentamento del rigido accentramento e il rapidissimo dischiudersi di nuovi spazi originali per le chiese e le comunità locali, dentro ma più ancora fuori i confini europei del mondo cattolico. Della crescente importanza acquisita dalla dimensione mondiale della Chiesa e dall’originalità delle chiese non europee si fece interprete Giovanni Battista Montini, succeduto a Giovanni XXIII col nome di
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Paolo VI. Mentre da lungo tempo i pontefici non si allontanavano più dai dintorni di Roma, Paolo VI compì diversi viaggi in paesi del Terzo mondo (a Bombay nel 1965, in Uganda nel 1969, nelle Filippine nel 1970), divenuto un privilegiato interlocutore della
Chiesa, e altri viaggi simbolici a Gerusalemme (1964) e nella sede delle Nazioni Unite (1965). L’enciclica del marzo 1967 Populorum progressio si presentò espressamente come un’analisi dei mali del sottosviluppo e un intervento a favore dei popoli «che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche» ($ 1). In maniera molto
significativa Paolo VI faceva propria la tesi che riconduceva il sottosviluppo alla tirannide della monocoltura, «i cui corsi sono soggetti a brusche variazioni»,
al neocolonialismo, allo «scambio ineguale» fra prodotti primari e prodotti industriali ($ 7, 8, 52, 57). Allo stesso modo condannava il capitalismo (come fenomeno
distinto da quello dall’industrializzazione), il
«nefasto sistema» economico fondato sul liberismo senza freni che considera «il profitto come motivo essenziale del progresso economico» e «la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti» ($ 26) e il principio che la legge del libero scambio può reggere da sola le relazioni internazionali ($ 58). Pur mettendo in guardia dalla tentazione del ricorso alla violenza, il pontefice avvertiva le nazioni ricche che la loro avarizia non avesse a suscitare «il giudizio di Dio e la collera dei poveri» ($ 30, 49). Infine Paolo VI condannava ogni intervento a favore della limitazione delle nascite e l’identificazione del sottosviluppo con | la sovranatalità ($ 37), trovandosi in piume d’accordo con la tradizione marxista. 226
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L'aggravamento dei problemi generali del sottosviluppo e la diffusione di regimi autoritari e oppressivi nel Terzo mondo e in particolare in America latina misero più tardi a dura prova la capacità della Chiesa di mantenere le posizioni espresse da Paolo VI nella Populorum progressio e allo stesso tempo la condanna della violenza rivoluzionaria. Distinto dal “terzomondismo” rivoluzionario (vedi il successivo $ 5) nasceva comunque un peculiare terzomondismo cattolico; connesso con la teologia della liberazione, una dottrina sorta alla fine degli anni sessanta in America latina e orientata a valorizzare i motivi di emancipazione politica e sociale presenti nel messaggio evangelico (e ripetutamente condannata dalla Chiesa), esso vide spesso i religiosi aderire, non solo idealmente, alle lotte di eman-
cipazione e contro l’oppressione e lo sfruttamento. 4. L'Unione Sovietica e il blocco orientale da Chruséév a Breznev
Nel periodo successivo al XX congresso le condizioni di vita in Unione Sovietica ebbero una chiara tendenza a migliorare, ma ancor più significativa va considerata la fine dell’apparato di costrizione e internamento costruito nell’epoca staliniana. Milioni di persone riottennero la libertà, mentre già da prima del 1956 erano state istituite commissioni di riabilitazione che per anni continuarono a produrre lunghi elenchi di nomi che non dovevano più essere considerati “nemici del popolo”. Come le denunce del rapporto segreto di Chruséév queste riabilitazioni furono lontane dall’essere complete, perché solo raramente riguardarono i dirigenti politici e i capi militari coinvolti nei grandi processi del 1936-38. Innegabilmente, tuttavia,
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Mr.
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esse consentirono l’affermarsi di un nuovo clima, nel
quale gli intellettuali e la gente comune potevano ricominciare a péfisare, liberi dalla morsa della paura, e non dovevano più vivere nell’incertezza e nel sospet-
toygspesso costretti a scegliere fra essere delatori o venire annientati.
Il titolo del romanzo di Il’ja Erenburg I/ disgelo, pubblicato nel 1954, divenne la migliore definizione di un’epoca, anche se, misurati con uno standard astratto di libertà creativa, i testi letterari e i film usci-
ti in quegli anni appaiono piuttosto allusivi. Il caso di Boris Pasternak invitava d’altra parte a procedere con
cautela: il suo romanzo I/ dottor Zivago, rifiutato dalla rivista “Novyi Mir”, non solo era stato pubblicato all’estero ma aveva procurato all’autore il premio Nobel del 1958, trasgressioni che lo esposero a sintomatici attacchi soprattutto da parte dei suoi colleghi scrittori e lo costrinsero a rinunciare a ritirare il premio. Se per qualche scrittore imprudente scattarono anche misure penali, divenne comunque lecito rileggere i racconti di Isaac Babel’, che era stato travolto nel 1937 dall’accu-
sa di trotzkismo, o vedere nel 1958 la seconda parte del film di Eizenstein Ivar :/ terribile, per la cui condanna si era mosso nel 1946 lo stesso Comitato centrale del partito. Il XXII congresso del Pcus, nel 1961, rappresentò una svolta meno traumatica ma più profonda del “rapporto segreto” del 1956. Nella sua relazione e nell’intervento conclusivo Chruséév tornò con maggiori particolari sui crimini di Stalin e fece votare lo spostamento della tomba del tiranno dal posto d’onore che occupava nelle mura del Cremlino; in breve tempo seguì l'abbattimento degli innumerevoli e invadenti } monumenti di Stalin mentre Stalingrado venne ride228
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nominata Volgograd. Nel 1962 lo stesso Chruséév autorizzò la pubblicazione su “Novyi Mir” del racconto Una giornata di Ivan Denisovié nel quale l’ex internato Aleksandr SolZenicyn cominciava a rendere giustizia alla memoria offesa delle vittime dello stalinismo; una maggiore tolleranza fu inoltre riservata alla circolazione in forma di dattiloscritto di opere ben più sconvolgenti, come I/ viaggio nella vertigine di Evgenija Ginzburg. All’epoca di Chru$éév pose fine improvvisamente il 13 ottobre 1964 la riunione del comitato centrale del Pcus, che costrinse il segretario e primo ministro a dichiararsi dimissionario. Per certi aspetti si era trattato
di una vera congiura, preparata mentre ChruSéév era in vacanza in Crimea dopo un intenso periodo di viaggi diplomatici all’estero; la rimozione del segretario da parte degli organi dirigenti del Pcus avveniva però rispettando le forme e non era paragonabile ai traumatici colpi di mano che avevano segnato tutta la storia dell’Unione Sovietica, risolvendosi nel mandare in pensione Chruséév, più o meno come questi aveva di
solito fatto con i suoi avversari politici. Nella lunga lista di accuse illustrata da Michail Suslov c’erano molte esagerazioni ma anche qualcosa o molto di vero. La conduzione del potere da parte di ChruStév era diventata troppo personalista, orientata da decisioni affrettate e imprudenti, improvvisazioni e continui cambiamenti di rotta nei progetti di riforma economica e istituzionale. La politica agricola si era conclusa con il pessimo raccolto del 1963 e con la necessità di ricorrere per la prima volta a importazioni dall’estero, per 10 milioni di tonnellate di cereali (per ironia della | sorte il raccolto del 1964 stava invece procedendo piuttosto bene). Anche se non era detto espressamenEA
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te, è probabile che pesasse quella che era parsa una sconfitta nell’affare dei missili di Cuba; è invece certo
che la burocrazia di partito aveva accolto con forti ostilità la modifica allo statuto approvata al XX congresso che prevedeva la rotazione di tutte le cariche e impediva quindi di pensare a una sistemazione a vita, con i privilegi che ciò comportava. Il punto essenziale era che, eliminando gli aspetti più discutibili della conduzione di Chru$èév, il comitato centrale del 13 ottobre 1964 sembrava voler compiere un passo importante nel fare dell’Urss un “paese normale”. Andavano in questa direzione l’affermazione del principio della collegialità del potere e la separazione fra le cariche di segretario del partito e di presidente del consiglio dei ministri. La prima fu affidata a Leonid BreZnev, che aveva compiuto tutta la sua carriera politica sotto la protezione di ChruSséév, la seconda ad Aleksej Kosygin, da quattro anni viceprimo ministro. La nuova dirigenza fu completata con Nikolaj Podgornij, capo dello stato in quanto presidente del Soviet Supremo dell’Urss, e con Suslov, responsabile della linea ideologica nel comitato centrale. La normalizzazione perseguita da BreZnev e dai suoi colleghi si manifestò in uno stile più sobrio di quello di Chruséév ma comportò fra i suoi primi atti quello di cancellare la riforma del partito; assunse quindi il suo pieno significato dal settembre 1965, in occasione dell’arresto degli scrittori Jurij Daniele Andrej Sinjavskij. Entrambi erano accusati di aver pubblicato all’estero sotto pseudonimo alcuni loro racconti, circolati poi in Unione Sovietica nelle edizioni straniere. Il loro processo si svolse pubblicamente e si concluse
con una condanna a cinque e sette anni di campi di
lavoro comminata sulla base dell’articolo 70 del codi-
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ce penale in vigore dall'epoca chruscioviana, che introduceva i reati di “agitazione o propaganda con lo scopo di minare o indebolire il potere sovietico” e di “asserzioni calunniose che denigrano lo stato e la società”. Ripetutamente applicato, tale articolo giustificò l'affermazione ufficiale che in Urss non esistevano prigionieri politici ma soltanto persone che avevano violato la legge ed erano state soggette a un regolare processo. Dove non si riusciva ad arrivare con il codice penale si fece ricorso anche ad altri mezzi, come l’internamento in reclusori psichiatrici. L'atto che con maggior franchezza espresse la natura del sistema brezneviano fu la soppressione dell’originale esperimento di comunismo democratico che si stava affermando in Cecoslovacchia. Mentre il trauma del 1956 aveva procurato (in maniera piuttosto paradossale) alla Polonia e all’Ungheria i governi relativamente liberali di Gomulka e Kadar, in Cecoslovacchia
il gruppo dirigente staliniano era riuscito a mantenersi fino al 1967. Nel gennaio 1968, attraverso un mutamento degli equilibri interni, divenne segretario del partito comunista Aleksandr Dubéek che, in quella che fu chiamata la “primavera di Praga”, cercò di realizzare una duplice riforma: da un lato una ristrutturazione complessiva dell'economia verso un decentramento ben più sostanzioso di quello tentato in Urss negli anni di Chrusèév; dall’altro una trasformazione in senso liberal-democratico delle istituzioni statali,
con la rivendicazione del principio della libera elezione alle cariche del partito e dello stato e l’abolizione del rigido controllo politico-ideologico sulla stampa e | sulla televisione. La soppressione della censura ebbe l’effetto di ridar vita al dibattito politico e fece comparire gruppi di intellettuali che spingevano Dubéek a
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procedere a fondo nella via intrapresa. La situazione era in ogni caso ben diversa da quella dell’Ungheria di dodici anni prima, perché non vi erano segnali di controrivoluzione violenta e Dubéek non intendeva cambiare di campo sul piano internazionale e far venir meno il ruolo di guida del partito comunista. Ma le sue assicurazioni non convinsero BreZnev che, a suo modo coerentemente, non vedeva compatibilità alcu-
na fra comunismo e libertà e temeva che l’esempio potesse diventare contagioso: ricorrendo secondo la prassi sovietica alla forza, la notte fra il 20 e il 21 ago-
sto 1968 fece invadere il paese e occupare Praga dalle truppe del patto di Varsavia (tranne quelle della Romania, che rifiutò di partecipare all’operazione). L'intervento militare si differenziò da quello del 1956 perché incontrò solo una resistenza passiva e perciò quasi non provocò vittime; i tempi consentiva-
no esiti meno tragici e Dubéek venne soltanto allontanato dalla vita politica, salvando la propria vita. La “Pravda”, il quotidiano ufficiale del Pcus, illustrò
poco dopo i principi dell’intervento, affermando che la fratellanza fra i paesi socialisti implicava la rinuncia alla propria sovranità quando questa poteva ledere gli interessi dell’intera comunità socialista. L'invasione,
che rientrava nei limiti della divisione dell'Europa, suscitò ordinarie condanne diplomatiche nei governi occidentali, ma, segno assai più importante, spinse alcuni partiti comunisti a dichiarare la loro riprovazione. All’interno dell’Unione Sovietica provocò inoltre numerose manifestazioni di protesta e, nonostante gli arresti e le condanne, fece venire per la prima volta alla luce qualcosa che somigliava a un movimento di
opposizione che non si poteva schiacciare totalmente. Fra i suoi leader vi era SolZenicyn, che dopo aver vinto 232
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il premio Nobel del 1970 per le sue opere più importanti, tutte pubblicate all’estero, fu emarginato e nel 1974 espulso dall’Unione Sovietica; e vi era il fisico
Andrej Sacharov, che da creatore dell’arsenale nucleare sovietico divenne il maggior esponente di una opposizione di ispirazione liberale, venendo ugualmente emarginato e assoggettato a uno stretto controllo di polizia.
5. Il conflitto ideologico fra Cina e Unione Sovietica Il primo viaggio diplomatico all’estero di Chrusèév fu, nel settembre del 1954, quello presso i dirigenti del partito comunista cinese, con i quali strinse importanti accordi economici e tecnici, anche nel settore nuclea-
re. Ma nessuno dei gesti politici compiuti da ChruSéév nei mesi e negli anni successivi fu accolto con favore a Pechino, dalla riammissione della Jugoslavia nel campo socialista al rapporto segreto al XX congresso, dalla dottrina della coesistenza pacifica alle affermazioni sulle possibilità di un passaggio ugualmente pacifico al socialismo. Le critiche portate dalla stampa cinese alle posizioni sovietiche erano una rivendicazione del diritto a un giudizio autonomo da parte di ciascun partito comunista, ma esprimevano anche una divergenza di fondo sui principi della strategia rivoluzionaria e sugli stessi obiettivi del socialismo. L'esempio più significativo in proposito è offerto dai commenti cinesi alla denuncia del culto della personalità. Essi avevano in primo luogo una dimensione pragmatica: nonostante gli effettivi errori compiuti da Stalin, il rapporto di Chrusdév era affrettato e sempli| cistico e in più rischiava di produrre una gravissima crisi nel movimento socialista mondiale, come appun9
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to accadde poco dopo con le vicende polacche e ungheresi. Ma la difesa di Stalin, piuttosto generosa se si pensa quanto a lungo il dittatore sovietico aveva mantenuto il suo appoggio al Kuomintang (vedi pp.
56-57), voleva soprattutto riaffermare una linea rivoluzionaria basata sul carattere assolutamente antagonista fra comunismo e capitalismo ed escludere qualsiasi possibilità di compromesso. Una grande occasione perché Mao Zedong potesse esprimere il suo punto di vista fu offerta nel novembre 1957 dalla conferenza mondiale dei partiti comunisti tenuta a Mosca per celebrare i quarant'anni della rivoluzione bolscevica. Fu allora che Mao rilasciò alcune dichiarazioni sulla guerra, sostenendo che il campo socialista non doveva lasciarsi intimorire dalle minacce nucleari dell’imperialismo; il socialismo era per la pace, ma non doveva rinunciare per quelle minacce ad essere pronto a sostenere una guerra rivoluzionaria.
Minimizzando l’importanza delle armi atomiche e negando che avessero cambiato la sostanza stessa della guerra, Mao Zedong si metteva fuori della logica stessa della guerra fredda intesa come deterrenza reciproca e si mostrava scettico (come anche Stalin lo era stato) sul fatto che non vi fossero gradini intermedi fra il disarmo rivoluzionario e la catastrofe universale. Tuttavia, la sua affermazione che «se anche fosse suc-
cesso il peggio e fosse perita mezza umanità, l’altra
metà sarebbe rimasta, mentre l'imperialismo sarebbe stato raso al suolo e il mondo intero sarebbe diventato socialista» non poteva che essere avvertita come irresponsabile e preoccupante. In Chru$éév erano invece presenti due diverse posizioni, entrambe strettamente legate all'idea della guerra fredda; da un lato il timore che si potesse davvero arrivare a una guerta 234
dl
Coesistenza e competizione
nucleare, dall’altro la convinzione che la coesistenza
pacifica avrebbe giocato a favore della causa del socialismo. Anche Chrus&év era convinto che il pericolo di guerra veniva dal campo imperialista, ma ora quello socialista era politicamente e militarmente abbastanza forte da imporre all’avversario la pace; non potendo più l'imperialismo far ricorso a suo piacere alle armi, nella competizione pacifica il socialismo avrebbe dimostrato la sua superiorità, esercitando una irresisti-
bile attrazione sui paesi del Terzo mondo e anche sulle masse popolari dei paesi capitalisti. È evidente che in questa prospettiva Chru$èév pote| va guardare solo con disappunto a iniziative cinesi che rischiavano di turbare l’ordine internazionale. Nell’estate del 1958 la Cina sottomise a più riprese a bombardamenti le isole di Quemoy e Matsu, situate in prossimità della sua costa ma occupate dal governo di Taiwan e possibile punto di partenza delle minacce di attacco militare contro il continente lanciate da Chiang Kai-shek. Usa e Urss si scambiarono allora avvertimenti di rappresaglia nucleare, ma di fatto operarono una efficace azione di freno sui loro alleati. A questo mancato appoggio sovietico la Cina comunista
dovette aggiungere nella primavera del 1959 un affronto ancora più grave, quando, dopo aver occupato il Tibet, si trovò a sostenere con l’India un conflitto
armato sulla frontiera tibetana: invece di far prevalere la ‘solidarietà fra paesi socialisti, ChruSéév si pose come mediatore fra i due stati, considerandoli come
alleati di pari grado per l'Unione Sovietica. Alle parole del novembre 1957 Mao Zedong aveva dunque fatto seguire i fatti, affrontando avventure militari destabilizzanti. A sua volta Chruséév cominciò a vedere i pericoli nascosti nell’aiuto tecnico con-
È
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Storia degli ultimi cinquant'anni
cesso alla Cina in materia di armamenti nucleari. Il viaggio compiuto a Pechino nel settembre del 1959 non servì molto a ristabilire la fiducia fra i due leader del comunismo mondiale: Chruséév era appena tornato dal trionfale viaggio negli Stati Uniti, cosa che agli occhi di Mao poteva apparire soltanto riprovevole; per Chrusdév,
invece, Mao
stava raccogliendo,
dopo il fallimento del grande balzo in avanti, le conseguenze dell’abbandono della giusta linea dello sviluppo economico. La collaborazione nucleare venne interrottà (ma nel 1964 la Cina arrivò lo stesso a costruire da sé la sua bomba atomica) e nei mesi successivi la polemica ideologica condotta soprattutto da parte cinese fece un salto di grado. Fino ad allora la stampa cinese aveva rivolto i propri attacchi contro il “revisionismo” riferendosi solo alla Jugoslavia, ma ora toccava alle tesi sovietiche sulla coesistenza pacifica e sulla transizione pacifica al socialismo di essere qualificate espressamente come contrarie al marxismo-leninismo. Nel luglio 1960 la decisione di Chruséév di richiamare i circa mille e seicento tecnici sovietici che allora si trovavano in Cina fu un ulteriore passo in avanti del dissidio, che non poteva più essere tenuto nascosto. Ciò non comportò ancora la rottura fra i due stati e neppure fra i due partiti. La Cina fu presente alla conferenza mondiale dei partiti comunisti tenuta a Mosca nel novembre 1960. Non vi partecipò invece la Lega dei comunisti jugoslava, che in varie occasioni aveva voluto rimarcare la sua autonomia rispetto all’Urss,
facendo tornare freddi i rapporti con il Pcus; sovietici e cinesi poterono così trovarsi d'accordo almeno nel
lanciare frecciate contro gli jugoslavi. È possibile, d’altra parte, che nel maggio 1960 Chrusdév avesse fatto 236
Coesistenza e competizione
fallire la conferenza di Parigi proprio per dimostrare che la coesistenza pacifica non possedeva le implicazioni rinunciatarie che i cinesi denunciavano. Le occasioni di incontro fra dirigenti sovietici e cinesi non mancarono, ma produssero gesti ostentati di divergenza, come quando il primo ministro Zhou Enlai abbandonò il XXII congresso del Pcus (ottobre 1961) prima della sua conclusione. Certamente l’immagine del socialismo presentata allora da Chruséév era ben diversa da quella cinese: per il leader sovietico il socialismo era l’ormai prossimo regno della produzione su vasta scala e il trionfo della scienza e della tecnica. Mentre si avvicinava la fine della divisione fra città e campagna, gli operai e i contadini, che il progresso tecnico stava liberando dai lavori pesanti, sarebbero stati sempre più indistinguibili dagli ingegneri e dagli agronomi; il tipo dell’uomo nuovo sovietico era rappresentato, più che dal lavoratore manuale, dall’eroe spaziale Jurij Gagarin. Il modello cinese fondato sull'uguaglianza nell’austerità e sulla superiorità dei “rossi” sugli “esperti” apparteneva a un orizzonte mentale del tutto diverso. Fra le accuse rivolte a Chruséév al momento della sua destituzione vi era stata anche quella di aver reso più difficili, con la sua mancanza di tatto, i rapporti con la Cina, ma la polemica del partito comunista cinese aveva raggiunto nel 1963 un tono molto elevato su questioni decisive, come il trattato contro gli esperimenti nucleari nell'atmosfera, giudicato da Pechino alla stregua di un tradimento. Fra il 1964 e il 1965 la Cina cominciò a parlare dell’Urss e dei suoi dirigenti in termini sempre più duri (“il rinnegato
. Chruséev e la sua cricca”), che divennero poi abitualmente quelli di “socialimperialismo” e “nuovi zar”. Ai 237
Storia degli ultimi cinquant'anni
primi passi verso la rivoluzione culturale si accompagnò poi un accresciuto orgoglio della superiorità della “via cinese” e una teorizzazione della rivoluzione mondiale che si opponeva nettamente a quella sovietica e leggeva in termini del tutto nuovi la nozione di “Terzo mondo”. In occasione del congresso dei partiti comunisti del novembre 1957 Mao aveva presentato la seducente parola d’ordine “il vento dell’est prevale sul vento dell’ovest”, in un contesto costituito dal compiacimento per il riuscito lancio degli Sputnik. Qualche anno dopo “il vento dell’est” era diventato il simbolo della rivoluzione mondiale condotta secondo il pensiero di Mao Zedong. Nel settembre 1965 la dottrina “terzomondista” fu compiutamente esposta dal ministro della difesa e capo dell’Armata popolare di liberazione Lin Biao. In Cina il comunismo aveva vinto prima nelle campagne e poi procedendo ad “accerchiare le città”; il comunismo doveva ora contare non sul blocco socialista dominato dall'Unione Sovietica ma sulle lotte antimperialiste in corso nelle “campagne del mondo”, Asia, Africa e America latina, dalle quali stava partendo l’accerchiamento delle “città”, cioè i paesi capitalisti sviluppati. È notevole che, mentre come insieme dei paesi non-allineati il Terzo mondo non era in grado di costituire realmente un terzo polo, ben diversamente andavano le cose in base alla dottrina cinese: la rivoluzione del Terzo mondo costituiva una reale alternativa all’equilibrio o allo stallo cui in sostanza era pervenuto il bipolarismo Usa-Urss, pro-
ducendo anzi il tradimento sovietico e la tendenza alla collusione fra le due superpotenze ai danni del Terzo. mondo stesso.
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Coesistenza e competizione
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8. Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare, 1965-1973
1. Crisi e guerre rivoluzionarie in Asia: le guerre del Vietnam e dei Sei giorni Come il partito comunista cinese accusava l’Urss di aver tradito il marxismo-leninismo, così anche la sua
dottrina della rivoluzione sembrava allontanarsi considerevolmente dall’ortodossia: da un lato essa trasferiva dalla classe operaia dei paesi industrializzati ai contadini del Terzo mondo il ruolo di autentica forza rivoluzionaria, dall’altro rifiutava di considerare ancora l'Unione Sovietica come il centro del campo socialista e la rivoluzione cinese come un seguito di quella sovietica e proponeva una teoria del tutto nuova per la prossima fase. Un’importante conseguenza del contrasto ideologico era il diverso atteggiamento che Unione Sovietica e Cina assunsero nei confronti dei governi esistenti nei paesi di nuova indipendenza. Per i dirigenti sovietici quei governi, come in Egitto, Algeria, India o Indonesia, avevano una natura borghese, ma continuando a battersi contro il colonialismo e l'imperialismo e cercando l'appoggio delle masse popolari assumevano una dimensione nazionale, democratica e progressista che li collocava dalla parte giusta negli schieramenti internazionali. Al contrario per i dirigenti cinesi le borghesie nazionali erano or| mai diventate un ostacolo alle lotte rivoluzionarie di
emancipazione dei popoli. In particolare cambiava 241
Storia degli ultimi cinquant'anni
nettamente il loro giudizio sul leader indiano Nehru, naturalmente anche in seguito al conflitto armato del 1959, che avrebbe avuto un seguito nell’ottobre 1962. All’aggravarsi del contrasto russo-cinese non seguì una rottura del fronte socialista internazionale; le tesi
cinesi non ebbero alcun seguito fra i partiti comunisti dei paesi occidentali, mentre fra quelli al potere furono accolte pienamente solo dall’Albania; i partiti di Romania, Corea del Nord e Vietnam del Nord vollero
mantenere un'autonomia di giudizio, ma non fecero proprie le condanne pronunciate dalla Cina. La convinzione cinese che dal principio degli anni sessanta stesse prendendo forma dai paesi del Terzo mondo una rivoluzione mondiale non era priva di riscontri, ma era esposta ai rischi delle peggiori avventure. Fu quanto accadde in Indonesia, il cui presidente Sukarno era stato uno dei promotori del movimento dei non-allineati e aveva forzato le sue posizioni antimperialiste fino a far uscire nel 1963 il suo paese dalle Nazioni Unite. Allo stesso tempo Sukarno accettava pienamente l’appoggio del forte partito comunista, che stava facendo proprie le tesi cinesi. Il 30 settembre 1965 i comunisti indonesiani cercarono di impadronirsi del potere, ma alla mal preparata insurrezione (forse una vera trappola tesa dai militari che avevano garantito il loro appoggio) seguì il vero colpo di stato organizzato dal generale Suharto. Sukarno venne esautorato e in seguito deposto, mentre una repressione con i caratteri di un genocidio selettivo, portò alla distruzione del partito comunista e all’uccisione di un numero di persone valutato fino a cinquecentomila, venendo seguita dal passaggio dell’Indonesia nel fron-
te occidentale. Un focolaio rivoluzionario con maggiori prospettive 242
Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare
di successo si era aperto già da anni in Vietnam. Qui, dopo che nel 1954 gli Usa avevano rifiutato il loro consenso formale agli accordi di Ginevra (p. 84), inve-
ce delle elezioni che dovevano ricostituire l’unità del paese si era avuto il consolidamento di due entità territoriali separate a nord e a sud: ad Hanoi una repubblica popolare retta da Ho Chi Minh; a Saigon uno stato protetto dagli Usa, che dettero il loro appoggio al governo dittatoriale di Ngo Dinh Diem, giudicato idoneo a opporsi alla minaccia comunista. Il regime di Diem si dimostrò ben presto corrotto e incapace, creandosi due forme di decisa opposizione: la maggioranza buddista che resisteva al suo tentativo di estendere l’influenza della minoranza cattolica e la guerriglia rivoluzionaria organizzata dai comunisti del sud (i vietcong) e sostenuta dal Vietnam del Nord. Crebbe in conseguenza l'impegno degli Stati Uniti, che dapprima inviarono a Saigon dei consiglieri militari, cresciuti fino a 16000, facendone nel 1962 un
effettivo comando militare. Quando la guerriglia si trasformò in una vera guerra civile, Kennedy decise di liberarsi di Diem facendolo eliminare fisicamente nell’ottobre 1963 da un colpo di stato organizzato dai servizi segreti americani. Per il nuovo presidente Lyndon Johnson, entrato in
carica dopo l’assassinio di Kennedy, il Vietnam divenne elemento centrale di una vasta strategia asiatica: il regime militare insediato a Saigon andava difeso a ogni costo, perché perdere nel Vietnam del Sud avrebbe comportato che, uno per uno, sarebbero caduti
sotto il controllo comunista gli altri stati della penisola indocinese e anche la Malaysia, l'Indonesia e le | Filippine. Tale strategia vedeva ancora un indifferena ziato blocco comunista e non teneva conto delle gravi
E;
243
Storia degli ultimi cinquant'anni
divergenze esistenti fra Urss e Cina; inoltre era fondata sulla convinzione che i vietcong non avessero radice alcuna nel sud e che si trattasse in massima parte solo di infiltrati dal nord. Per conseguenza dall'estate 1964 le forze americane cominciarono a compiere incursioni aeree contro il Vietnam del Nord, obbligando i due maggiori stati comunisti a mettere da
parte il loro conflitto ideologico di fronte alla necessità di fornire appoggio politico e aiuti economici e militari al governo di Hanoi. La realizzazione della strategia asiatica costrinse gli Usa
a sobbarcarsi
imprevedibili
costi economici,
umani e militari e a fronteggiare la crescente opposizione dell’opinione pubblica interna e internazionale. Nell’escalation contro il Vietnam del Nord furono impiegate tutte le armi più moderne e micidiali, dai defolianti che dovevano far sparire le foreste usate dai vietcong per i loro movimenti alle bombe ad altissimo potenziale distruttivo, ma il Fronte nazionale di libe-
razione del Vietnam del Sud (Fnl) e i nordvietnamiti resistettero, e nella primavera del 1968 ottennero anche dei successi militari, provvisori ma di grande impatto psicologico. Prospettando la vittoria definitiva sempre a portata di mano, il comando militare americano aveva richiesto un numero sempre più alto di uomini, giunti a 543 000 nel 1968. Ma di fronte a quella che si stava trasformando in una gigantesca trappola, Johnson rifiutò di concedere le ulteriori truppe richieste e nel marzo 1968 ordinò la cessazione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord, accettando di
partecipare alla conferenza di pace che si aprì a Parigi in maggio e che vide la presenza non solo dei due Vietnam ma anche del Fronte di liberazione. Con la nuova amministrazione repubblicana del presidente -
244
: è.
MI,
%
Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare
Richard Nixon, uscito vincitore dalle elezioni del no-
vembre 1968, la strategia degli Stati Uniti divenne quella della “vietnamizzazione” del conflitto attraverso il progressivo ritiro delle proprie forze e una migliore organizzazione dell’esercito sudvietnamita, al quale veniva affidato il contenimento dei vietcong fino a che non si fosse arrivati alla pace. Le trattative per porre fine al conflitto si protrassero per più di quattro anni (in un contesto internazio-
nale che stava però profondamente mutando: vedi $ 4), mentre il fronte dei combattimenti si estendeva in effetti all'intera Indocina in seguito al coinvolgimento del Laos e della Cambogia, da dove passavano i rifornimenti militari del Vietnam del Nord ai vietcong. In Laos gli Stati Uniti appoggiarono il governo nella sua lotta contro i guerriglieri comunisti del Pathet-Lao; in Cambogia accusarono il principe Sihanouk di mettere la formale neutralità del suo paese al servizio del Vietnam ‘del Nord e nel 1970 lo fecero rovesciare da un colpo di stato militare che dette vita a un governo filoamericano. Allo stesso tempo riprendevano i bombardamenti sul territorio di Hanoi. L’armistizio firmato a Parigi solo nel gennaio 1973 prevedeva il ritiro delle forze degli Stati Uniti dal sud e di quelle del Vietnam del Nord dal Laos e dalla Cambogia e lasciava ai due Vietnam il compito della definitiva pacificazione. Tranne la prima, tali clausole restarono solo sulla carta: al totale disimpegno degli Stati Uniti seguì la ripresa degli scontri nel Vietnam del Sud, che condussero nell’aprile 1975 alla caduta del governo di Saigon e alla riunificazione di tutto il Vietnam sotto il governo comunista di Hanoi. Il movimento rivoluzionario mondiale degli anni | sessanta trovò un’altra causa antimperialista all'altra 245
Storia degli ultimi cinquant'anni
estremità dell’Asia, con il riesplodere della questione palestinese. Dopo gli eventi del 1956 era rimasto latente il conflitto fra gli stati arabi e Israele, che si sentiva continuamente minacciato e insicuro. Il governo
israeliano volle cancellare questo stato di cose nel 1967 con quella che è conosciuta come la “guerra dei Sei giorni”, essendosi svolta fra il 5 e il 10 giugno. L’attacco israeliano a Egitto, Siria e Giordania fu presentato come guerra difensiva preventiva, e venne in ef-
fetti dopo che il presidente egiziano Nasser aveva chiesto il ritiro dei contingenti delle Nazioni Unite dalla frontiera del Sinai e proceduto a bloccare il golfo di Aqaba sul mar Rosso, sul quale si trovava il porto israeliano di Elat. D’altra parte Israele, passando alla guerra aperta, sapeva anche di godere di una netta superiorità militare. La sua azione, attentamente preparata, condusse a risultati devastanti: l’esercito israe-
liano annientò tutte le forze nemiche e occupò i territori egiziani di Gaza e del Sinai, fino a Suez, le alture
siriane del Golan, sopra il lago giordania con la parte orientale La questione palestinese, che lembo di terra del Mediterraneo tava acutissima in rapporto alla
di Tiberiade, e la Cisdi Gerusalemme. riguardava un piccolo orientale e che divenmodesta estensione di
Gerusalemme est, aveva una complessità storica e sim-
bolica di fronte alla quale la guerra fredda era poco più che un evento della cronaca. In ogni caso essa era direttamente legata agli assetti bipolari del mondo; ma, essendo geograficamente collocata in una regione di importanza strategica essenziale, lo divenne ancor
più di prima allorché la guerra indusse le due superpotenze a schierarsi: l'Unione Sovietica appoggiò gli stati arabi e la causa palestinese e gli Stati Uniti (che nel 1956 avevano condannato l’azione franco-inglese) 246
Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare
fecero altrettanto con Israele. La guerra del 1967 ebbe conseguenze ancora più radicali delle due precedenti. Gli stati arabi, con l'esclusione dell'Arabia Saudita,
divennero fortemente antiamericani e (con l'Arabia stessa in primo piano) accentuarono il loro odio verso il “sionismo” rendendolo sempre più indistinguibile dall’antisemitismo. Se il sionismo prendeva un po’ troppo alla lettera i più generosi confini fissati da Dio alla Terra promessa (Esodo, 23, 31), il fatto che nei paesi arabi continuassero a circolare e a essere prese sul serio le edizioni dei Protocolli dei Savi di Sion, met-
teva in grave imbarazzo la coscienza degli europei, che nel 1967 portarono a un massimo che non fu più raggiunto il loro schieramento filoisraeliano, trasferendo poi negli anni settanta e ottanta sul fronte opposto le loro simpatie. Con la guerra dei Sei giorni la situazione dei palestinesi si trasformò in una fonte continua di crisi internazionali. L'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), già sorta nel 1964 come organismo politico, divenne, attraverso i diversi gruppi armati che vi confluirono e sotto la presidenza di Yassir Arafat, una forza di battaglia aperta e orientata alla distruzione dello stato di Israele. Per imporre la questione palestinese all'opinione pubblica mondiale, i combattenti dell’Olp dettero vita a un'attività terrorista che colpiva Israele nelle persone e negli interessi in qualunque parte del mondo; considerando tutti gli stati occidentali come complici di Israele, questo terrorismo non conobbe alcun limite e si manifestò in particolare con dirottamenti aerei che per giorni occu| pavano i giornali e le televisioni e con sanguinosi attentati ad aeroporti e ancora ad aerei che avevano fra i loro passeggeri dei cittadini israeliani. è
i
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Storia degli ultimi cinquant'anni
2. L'America latina fra rivoluzioni e dittature militari
Dal principio del XX secolo la geografia politica dell’America latina comprendeva venti stati indipendenti, dei quali gli ultimi due erano sorti per iniziativa degli Stati Uniti: Cuba dalla guerra ispano-americana del 1898 (p. 210) e Panama da una scissione provocata nel 1903 nella Colombia con lo scopo di creare nella zona del canale uno stato piccolo e più facilmente controllabile. All’interno di questi stati (fra il 1962 e il 1983, in seguito ai processi di decolonizzazione, se ne sarebbero aggiunti altri tredici, per lo più di piccole dimensioni), è opportuno tuttavia distinguere da una parte i nove dell'America centrale (compreso Panama) e dell’area caraibica, dall’altra il Messico e i dieci
dell'America meridionale. I primi erano soggetti a una influenza alquanto umiliante da parte degli Stati Uniti, che si comportavano nei loro confronti come se questi fossero incapaci di possedere una vera sovranità e che già dai primi decenni del Novecento intervennero spesso con la forza per porre fine a disordini politici e sociali e per difendere i propri interessi economici. Esemplare ed esplicito è l'emendamento inserito nella costituzione cubana del 1901 (e abrogato nel 1934) che prende nome dal senatore statunitense H. Platt che ne fu il promotore: «il governo di Cuba consente che gli Stati Uniti esercitino il diritto di intervenire per conservare l'indipendenza di Cuba e mantenere un governo capace di assicurare il rispetto delle vite, dei beni, delle
libertà, delle obbligazioni internazionali». Da qui deriva l’idea di “repubblica delle banane” (ma anche del caffè o dello zucchero), affidate di preferenza al governo di dittatori, protetti o tollerati dagli Stati Uniti, che 248
Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare
imponevano soprattutto la loro vocazione alle ruberie e crearono a volte durevoli tirannidi familiari. A_questo modello appartenevano la Cuba di Batista, la Re-
pubblica Dominicana di Rafael Trujillo (1930-61), lo stato di Haiti dei Duvalier padre e figlio (1957-83), il Nicaragua di A. Somoza (1936-56) e poi dei suoi figli, mentre in Guatemala, Salvador e Honduras le dittature militari degli anni quaranta e cinquanta non assunsero un carattere personale. Solo nel Costa Rica si mantennero presidenti costituzionalmente eletti, mentre a Panama si rivelò un imprevisto nazionalismo antiamericano che costrinse gli Usa a intervenire contro i presidenti che volevano restituire al paese la sovrai nità sul canale. Non era però solo per la vicinanza agli Stati Uniti che la vita politica degli stati latino-americani era eccezionalmente conflittuale e instabile, provocando scontri aperti fra partiti e fazioni e rendendo in certo modo inevitabile l'intervento dei militari, i colpi di stato e gli esiti dittatoriali. Nel secondo dei gruppi prima ricordati la possibilità di interventi così diretti degli Stati Uniti era comunque più limitata. In Messico i presidenti che si succedettero dopo la rivoluzione del 1911-17, e in particolare Lazaro Cardenas (1934-40), furono abbastanza forti da avviare una efficace procedura di redistribuzione delle terre e da nazionalizzare le risorse petrolifere e le compagnie statunitensi. Negli altri due maggiori paesi, il Brasile e l'Argentina, si affermarono regimi presidenziali, spesso accomunati sotto la denominazione di “populismo”, sorti attraverso una elezione e poi evoluti verso forme autoritarie. Entrambi fondati su un potere carismatico personale, rispettivamente quello di Getulio Vargas (1930-45 e 1950-54) e quello diJuan Perén (1946-55),
9
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Storia degli ultimi cinquant'anni
presentano elementi di somiglianza con il fascismo italiano e una forte carica demagogica, ma sono stati anche giudicati capaci di suscitare processi di modernizzazione sociale ed economica e hanno saputo fare buon uso di motivi nazionalisti antibritannici e antistatunitensi.
La capacità degli Stati Uniti di imporre la loro influenza si vide negli anni successivi al 1941, quando i paesi dell'America meridionale furono indotti a entrare in guerra contro le forze dell'Asse, compresa l'Argentina, che aveva le più spiccate simpatie filofasciste e che-si decise solo in extremis, nel 1945, allo
scopo di non perdere l'indispensabile biglietto d’ingresso alle Nazioni Unite. Di fatto, fra i 52 membri originari dell’Onu ci furono nel 1945 tutti e venti gli stati indipendenti dell'America centro-meridionale.
L'egemonia degli Stati Uniti venne poco dopo confermata con l’istituzione dell’Organizzazione degli stati americani (Osa), sorta a Bogotà nel 1948. Scopo dell’Osa era di promuovere la soluzione pacifica dei conflitti fra gli stati membri, ma soprattutto quello di impegnare i suoi membri a difendere la sicurezza collettiva del continente americano nell’eventualità di attacchi dall’esterno. Con l’aggravarsi della guerra fredda tale eventualità finì per riferirsi in pratica alla minaccia comunista, anche se nel 1954 per rovesciare
il governo del Guatemala gli Stati Uniti non cercarono alcuna legittimazione da parte dell’Osa.
Negli anni successivi la situazione politica dell’America meridionale parve avviarsi a una qualche normalità, nel senso che i militari e i regimi autoritari lasciarono il posto a presidenti civili investiti da una libera elezione. Unica eccezione era il Paraguay, soggetto dal 1954 alla dittatura di Alfredo Stroessner, un militar 250
Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare
con simpatie naziste che per trent'anni si fece rieleggere presidente con elezioni truccate. Ma una nuova
fase si aprì nel 1960-61, quando la rivoluzione cubana assunse un orientamento socialista. Nel gennaio 1962
l'Osa deliberò l'espulsione di Cuba, ma con un voto determinato soprattutto dalle pressioni americane sugli stati più deboli e non unanime, per l’astensione dei quattro maggiori stati meridionali (Argentina, Brasile, Cile, Messico) e anche della Bolivia e del-
l’Ecuador. L'irrigidimento del potere delle oligarchie, il fallimento delle riforme agrarie, la crisi economica, l’e-
splodere della pressione demografica stavano conducendo in quegli anni l’intera area latino-americana verso una fase di accesa turbolenza sociale. A questi dati di fatto si aggiunse indubbiamente l'esempio fornito da Cuba. Divenuto pienamente operante l’embargo degli Usa e fallito il tentativo di liberarsi dalla monocoltura zuccheriera, Cuba dipese sempre più dagli acquisti di zucchero e dagli aiuti dell’Unione Sovietica; allo stesso tempo il governo di Castro realizzava alcune esemplari riforme economiche e sociali e poté presentarsi, nell’assunzione rivoluzionaria del potere e nella costruzione del socialismo, come un
vero e proprio modello. Non fu per caso che ciò venisse a coincidere con gli scarsi risultati ottenuti dal programma di Kennedy “Alleanza per il progresso”. Ugualmente è difficile considerare casuale la ripresa dei colpi di stato militari: nel 1962 il primo governo a essere rovesciato dai militari fu quello dell’ Argentina, che già era e sarebbe poi rimasto il paese più instabile e difficile da reggere. Nel giro di tre anni la stessa sorte ‘toccò ad altri sette paesi, fra i quali, nel 1964, il Brasile;
‘molto eloquente fu nel 1965 l'intervento militare degli
4
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Storia degli ultimi cinquant'anni
Stati Uniti nella Repubblica Dominicana, contro il presidente eletto che stava cercando di ritogliere il potere ai militari golpisti. Erano questi gli anni in cui si stavano diffondendo le dottrine cinesi del terzomondismo e della rivoluzione promossa a partire dalle campagne, mentre in America latina anche una parte minoritaria ma significativa del mondo cattolico proponeva una sua idea rivoluzionaria del Terzo mondo e del riscatto degli oppressi. Delusa dal fatto che Chru$éév aveva ritirato nel 1962 i suoi missili senza nemmeno
consultarla,
Cuba si orientò ad assumere il ruolo di forza rivoluzionaria continentale. Ma i movimenti di guerriglia che si aprirono in diversi stati latino-americani, come in Colombia, Venezuela e Uruguay, mostrarono facilmente i loro limiti: la guerriglia urbana sconfinava in un terrorismo controproducente, quella rurale assumeva i contorni dell’improvvisazione e della testimonianza individuale; entrambe erano rette da una visione — il fascino delle armi, la ricerca di risultati immediati - che aveva poco in comune con la pazienza, la
disciplina e i tempi lunghi della Cina della “lunga marcia”. Ernesto Guevara rappresentò il perfetto rivoluzionario cosmopolita: argentino di origine, combatté con Castro contro la dittatura di Batista, passò
nel 1965 ad aiutare i ribelli congolesi contro Mobutu e tornò a promuovere focolai di guerriglia in America meridionale, trovando la morte in Bolivia nell'ottobre
1967 e passando alla leggenda come esempio di ideale eroico vissuto in assoluto rigore. Gli interventi dei militari nella vita politica del Sudamerica non furono tutti necessariamente di diretta ispirazione statunitense e neppure ebbero tutti un uni
co carattere repressivo. La giunta militare che prese i
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n
Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare
potere in Perù nel 1968 promosse un vasto program-
ma di riforma agraria e nazionalizzò diverse imprese minerarie e banche straniere, procurandosi l’ostilità degli Stati Uniti. Per contro la via delle elezioni si dimostrò efficace in Cile, dando nel 1970 la vittoria al
composito schieramento di Unidad popular, che comprendeva socialisti, comunisti, radicali e democraticocristiani. Il leader della coalizione, il socialista Salva-
dor Allende, divenne presidente, anche se sulla base di un’esile maggioranza, e avviò il consueto pacchetto di riforme, nella proprietà terriera, nelle banche, nelle
miniere. Fra i primi quattro produttori mondiali di rame, il Cile basava per oltre l’80 per cento su questo ; metallo le sue esportazioni e aveva negli Stati Uniti il suo maggiore cliente. Di fronte al loro boicottaggio economico e al radicalismo crescente del governo, i democratico-cristiani
abbandonarono
la coalizione,
che si illuse di poter contare sul maggior successo elettorale ottenuto al principio del 1973. L'azione destabilizzante compiuta dalle forze di opposizione nonché dalla società multinazionale ITT (International Telephone and Telegraph) e dai servizi segreti americani portarono il paese verso il disastro economico (scioperi, inflazione, crollo delle esportazioni) e infine al colpo di stato militare del settembre 1973, che provocò l’uccisione di tremila persone (fra le quali il presidente Allende). Tre anni dopo fu la volta dell'Argentina. Qui il secondo esperimento di governo di Juan Peròn, richiamato nel 1973 dal suo esilio spagnolo ed eletto trionfalmente, si era concluso l’anno dopo in seguito alla morte del presidente lasciando il paese esposto a . una crescente guerriglia urbana e all’inettitudine del | partito peronista. Nel marzo 1976 una giunta militare È
200. -
Storia degli ultimi cinquant'anni
si impadronì del potere, distruggendo assieme alle organizzazioni sovversive anche le istituzioni democratiche. A questa data, dopo che anche in Perù il potere era passato a militari di destra, in America meridionale soltanto in Venezuela restava un governo civile eletto. I governi militari esistenti in tutti gli altri paesi furono abitualmente qualificati come fascisti, ma se essi seppero soddisfare le esigenze di ordine dei ceti medio-alti, furono del tutto privi della capacità essenziale di mobilitare demagogicamente le masse. Si trattava in effetti di puri regimi del terrore, fondati sugli arresti arbitrari e sulla tortura, ben rappresentati dalle migliaia di persone assassinate o fatte scomparire dagli “squadroni della morte” argentini. 3.I movimenti di protesta negli Stati Uniti e in Europa
L'impegno a garantire il pieno esercizio dei diritti civili alla popolazione di colore era stato un elemento essenziale del programma di politica interna di Kennedy (cap. 7, $ 1). Il suo successore Johnson lo assolse in una maniera che segnava una netta rottura
con il passato. Nel luglio 1964 il presidente firmò il Civil Rights Act, che non solo vietava le pratiche segregazioniste nei luoghi pubblici e nelle scuole, ma anche, per la prima volta, attribuiva agli organi federali efficaci poteri repressivi nei confronti dei trasgressori. Nello stesso anno il XXV emendamento alla costituzione abolì ogni tassa sull’iscrizione alle liste elettorali, mentre nell’agosto 1965 il Voting Right Act aggirava le altre restrizioni escogitate dagli stati del sud, affidando direttamente a organi federali l’iscri-
zione degli elettori neri. Anche se in Alabama o nel Mississippi la polizia continuava a intervenire con la
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i ana.
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forza contro le manifestazioni dei neri e a tollerare le violenze e le intimidazioni dei bianchi, il razzismo di stato era destinato sempre più a estinguersi. Già negli anni settanta la stessa parola rzgger, tarata di disprezzo razzista, sarebbe stata usata da non pochi bianchi con crescente imbarazzo o del tutto cancellata dal vocabolario, per essere sostituita da black (solo apparentemente un sinonimo) o da afroamericano. La nuova legislazione giungeva però fuori tempo massimo. Gli obiettivi perseguiti dal movimento paci-
fista di Martin Luther King (che ottenne nel 1964 il premio Nobel per la pace) non corrispondevano più alla situazione di fatto. Negli ultimi venticinque anni l'intensa emigrazione dei neri verso le città industriali nel Nord e verso la California aveva fatto sì che la questione razziale non potesse esaurirsi solo nei diritti civili conculcati. L'integrazione nella società civile era una importante ambizione per quella parte della minoranza nera che possedeva una buona istruzione e che per le sue condizioni economiche si trovava a un passo dai ceti medi bianchi. Le leggi recenti, anche se applicate in pieno, non erano invece in grado di risolvere i problemi più diffusi della popolazione nera che viveva fuori dal Sud: essa era intensamente esposta alla disoccupazione prodotta dall'evoluzione tecnologica, che colpiva i gruppi sociali meno qualificati; essa subiva inoltre il diverso tipo di razzismo che la isolava in quartieri poveri, veri ghetti degradati e ignorati dai servizi sociali. L’amministrazione del presidente Johnson stava indirizzando stanziamenti notevoli ai piani di riaddestramento professionale e di recupero dei disoccupati, ma l’integrazione non era più consi-
derata la massima ambizione per le generazioni più | giovani e per quei nuovi movimenti che rivendicavano
Ciobo
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invece con orgoglio il valore dell'identità culturale e anche razziale dei neri. L'idea (il “sogno”, nel linguaggio di Martin Luther King) di una collaborazione fra neri e bianchi veniva ormai respinta da gruppi radicali come i Black Muslims, che affermavano la superiorità razziale dei neri, proponevano una propria varian-
te dell’islamismo e indicavano il cristianesimo come una delle forme dell’asservimento mentale della popolazione nera. Il carattere esplosivo che avevano assunto le tensioni razziali al di fuori delle aree tradizionali del razzismo si rivelò nell'agosto del 1965 con la rivolta del ghetto di Watts, un quartiere di Los Angeles abitato al 90 per cento da neri. Alla scintilla costituita da un atto di prevaricazione della polizia seguì una vera battaglia, con 34 morti e un migliaio di feriti. Nei tre anni successivi manifestazioni e scontri si ebbero in decine di altre città, in particolare a
Newark e Detroit nell’esta-
te del 1967, con morti, feriti e prigionieri che si contavano a cifre così elevate da far quasi pensare a una guerra in atto. La fine violenta di Martin Luther King, assassinato a Memphis nell’aprile 1968, dette il via a un'ultima serie di rivolte urbane e spense quel poco che del “sogno” era rimasto. Ma già prima di allora l'egemonia del movimento di emancipazione era passata ai sostenitori del Black Power e al partito delle Black Panthers, che facevano propria la dottrina della rivoluzione armata e inserivano le battaglie dei neri americani nel contesto dell’unica grande guerra rivoluzionaria contro l'imperialismo in atto dall’ America latina all’Asia sudorientale. Anche se ora rifiutava di contare sull'appoggio dei bianchi progressisti, il movimento dei neri venne perciò a convergere con la crescente opposizione all’im256
Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare
pegno militare statunitense nel Vietnam. Tale opposizione si rese visibile dapprima nell’ambiente universitario, che già dal 1964 gli studenti avevano voluto aprire al dibattito politico, con manifestazioni e dibattiti su temi scottanti, come l’integrazione razziale o i
rapporti poco limpidi che legavano l’università e la ricerca alle industrie militari e all’esercito. Alla metà degli anni sessanta la frequenza universitaria costituiva già un fenomeno di massa considerevole, ma quel fronte di protesta si allargò rapidamente all’intero mondo giovanile quando, nel 1966, esso venne coinvolto nella guerra del Vietnam dal rischio di ricevere la cartolina di leva. Il rifiuto di prestare servizio militare non aveva necessariamente motivazioni ideologiche coscienti, ma finì per diventare direttamente un fatto politico, ostentato quando si bruciavano pubblicamente le cartoline-precetto o sottinteso quando si ricorreva alla fuga all’estero o alla corruzione o alle amicizie negli uffici di leva. Ciò che della guerra si poteva sapere o a volte vedere con i propri occhi nei servizi televisivi difficilmente convalidava la tesi ufficiale che gli Stati Uniti combattevano in nome della libertà e della democrazia; i costi
economici e umani della guerra (alla fine ci saranno 58 000 fra morti e dispersi e più di duecentomila feriti, assai più che nella guerra di Corea) rendevano inoltre sempre più dura da accettare anche l’idea che in Vietnam si trovassero interessi vitali per gli Stati Uniti. La contestazione più radicale della guerra venne perciò compiuta come una battaglia antimperialista, basata sulla convinzione che a cominciare da una sconfitta
americana nel Vietnam sarebbe venuta la rivoluzione mondiale (“creiamo molti Vietnam” era in sintesi la strategia del “Che” Guevara). Ma non meno corrosiva
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era la sensazione che solo il timore del governo e dei militari di perdere la faccia impediva di venir fuori da quella che in molti denominavano la “sporca guerra”. Il culmine della crisi venne raggiunto nella primavera e nell'estate del 1968; mentre le occupazioni delle università e le manifestazioni per la pace si moltiplicavano e gli interventi repressivi della polizia si facevano più pesanti, il presidente Johnson si riconobbe sconfitto annunciando che non si sarebbe ricandidato per le elezioni di novembre; in agosto, la Convenzione del
partito democratico che doveva designare un candidato sostitutivo si svolse sotto un assedio fra il simbolico e il reale dei manifestanti pacifisti, radicali e neri, a loro volta sottoposti alla violenza solo reale della polizia. Il “Sessantotto” — la protesta aperta contro il potere e a volte il passaggio a un attacco frontale — non fu soltanto un fenomeno statunitense, ma coinvolse i più lontani e diversi paesi, dal Giappone al Messico e all'Europa (non solo quella occidentale), e venne inoltre a coincidere con la fase più convulsa della rivoluzione culturale cinese. In Messico gli studenti manifestarono per mesi contro le drammatiche contraddizioni sociali di un paese in rapido sviluppo e governato da decenni, senza opposizione, da un inamovibile pattito che si denominava “rivoluzionario istituzionale”; il 2 ottobre, pochi giorni prima dell’apertura dei giochi olimpici, caddero a centinaia in un vero massacro,
sotto il fuoco dell’esercito. Quanto all'Europa, mentre in Germania Pondata di
rivolta fu prevalentemente giovanile e studentesca, in Francia coinvolse anche la classe operaia e i sindacati, producendo nel mese di maggio non soltanto l’occupazione delle università ma anche i più estesi scioperi
di tutto il dopoguerra e l'occupazione delle fabbriche.
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ha.
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Dal terzomondismo rivoluzionario alla strategia triangolare
Nel giro di pochi giorni il movimento assunse la portata politica di un attacco diretto contro la Quinta repubblica gollista, che aveva appena compiuto un decennio di vita. Il Sessantotto italiano, infine, fu il più
intenso e ampio fra tutti quelli dell'Europa occidentale, estendendosi nel 1969 anche alle fabbriche e ai sindacati; gli scioperi di quell'anno superarono di gran
lunga i più alti livelli del 1962 e portarono la conflittualità dal campo salariale a quello più scottante del controllo dei processi di produzione. Se il Sessantotto divenne un fenomeno di portata mondiale ciò dipese certo dal fattore diffusione o imitazione a partire dagli Stati Uniti (che fu altissimo proprio in una fase di intenso antiamericanismo), ma ugualmente si deve riconoscere che con relativa simultaneità cause simili produssero effetti simili. Il fatto ge-
nerazionale ebbe la sua parte: il movimento coinvolse i figli del “baby boom” (p. 140), che si trovavano allora attorno ai vent'anni. Ma il motivo della ribellione dei figli contro i padri, rischia di essere una generica petizione di principio. Bisogna allora aggiungere che, mentre era già più volte accaduto nel XIX e nel XX secolo che momenti di rivolta (anche di destra) partissero dagli studenti universitari, mai l'istruzione aveva coinvolto un numero così alto di persone, inserendo l’univer-
sità fra le istituzioni di massa. I giovani ribelli derivavano da una istruzione superiore che non era ancora asetticamente tecnico-scientifica, che produceva soggetti con un alto grado di coscienza intellettuale e capacità critiche ma anche mostrava i limiti di una tradi-
zione di studi strettamente culturali o “liberali”. Ritardando l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, la scolarizzazione di massa dimostrò che la cultura po-
teva produrre insofferenza e spirito eversivo non meno
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dello sfruttamento economico o dell’oppressione politica. Perciò la contestazione riguardò in principio i contenuti arretrati dell’istruzione, estendendosi poi alla richiesta di un più generalizzato diritto allo studio e al rifiuto di meccanismi selettivi (voti, esami, costo dello studio) che pretendevano di essere oggettivi e che funzionavano invece in senso classista; più oltre vi era il rifiuto del principio di autorità nella scuola, in ogni istituzione e nella stessa società politica.
La simultaneità dei diversi movimenti sviluppatisi durante il 1968 è spesso solo apparente o fortuita. Così, se l’orizzonte mentale degli studenti di Varsavia che protestavano contro la censura era vicino a quello degli studenti di altri paesi, la “primavera di Praga” partì da un processo
interno al partito comunista
cecoslovacco; ‘ugualmente la rivoluzione culturale cinese, che pure trascinò le grandi masse studentesche, vedeva la propria spontaneità in parte limitata dal suo collegamento con le lotte interne al partito comunista. Queste constatazioni più realiste vanno però
commisurate con il fatto che il Sessantotto degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale sviluppò, a torto o a ragione e con la forza dei vari miti del guerrigliero guevarista o vietcong, un’acuta coscienza del proprio
inserimento in processi rivoluzionari di portata mondiale e giunti a una svolta decisiva. La rivoluzione mondiale, comunque, non vi fu e i maggiori movimenti di contestazione finirono sconfitti prima della fine dello stesso anno 1968. In Francia il generale De Gaulle chiamò a raccolta l'opinione pubblica moderata, che aveva appreso a far uso delle grandi manifestazioni di piazza; alle elezioni di fine giugno il partito gollista ottenne una netta vittoria sui partiti della sinistra tradizionale. Negli Stati Uniti irepubbli260 a
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cani candidarono alla presidenza il vecchio avversario di Kennedy, Richard Nixon, che chiese alla “maggioranza silenziosa” di dimostrare tutto il proprio peso e batté solo con un piccolo margine i democratici unicamente perché l’elettorato conservatore degli stati del sud preferì il programma esplicitamente razzista di un terzo candidato. Nel giro di due o tre anni la carica eversiva dei movimenti andò esaurendosi. Il loro investimento di intelligenza e creatività era stato così massiccio e dispendioso da non poter evitare di essere anche eterogeneo,
confuso e contraddittorio. Il pacifismo, la critica della società dei consumi, la passione per la democrazia ugualitaria e diretta(contrapposta a quella rappresentativa), le interminabili discussioni nelle assemblee, la rivoluzione sessuale, il femminismo e un anarchismo
pre-ideologico si erano variamente mescolati con il maoismo, le teorie della rivoluzione terzomondista, gli aspetti più settari della militanza leninista, il fascino per la violenza e le armi. Alla lunga la divisione fra queste tendenze divenne inevitabile. Da una parte il Sessantotto fu organicamente incapace di progettare
qualsiasi nuovo modello politico: i seguaci del movimento si volsero a spettacolari ma innocui raduni musicali di massa; al posto della rivoluzione politica si contentarono della rivoluzione sessuale e non riuscendo a far scomparire l'imperialismo fecero sparire la propria coscienza nelle ideologie hippy e nell’uso della droga. Dall’altra si moltiplicarono i “gruppuscoli” di
varia osservanza marxista-leninista, che polemizzavano aspramente fra di loro, mentre l'ora della rivoluzione, se mai vi era stata, si allontanava sempre più.
Da un settore minoritario del Sessantotto uscì una tendenza al terrorismo, che proseguì per tutti gli anni
Mic fici
e
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settanta in Germania e ancora più a lungo in Italia (afflitta per di più da un oscuro terrorismo di estrema destra), con attentati e uccisioni che si volevano esem-
plari, capaci di scuotere le classi lavoratrici o almeno di costringere il potere a una repressione così dura che avrebbe costretto le masse ad affrontare l’estrema battaglia. Questa strategia si dimostrò del tutto inefficace, provocando una pietà per le vittime superiore alla paura che la reazione degli apparati statali potesse diventare eversiva. L'eredità più autentica del movimento consisté piuttosto nel suo porsi del tutto al di fuori dell’immobilismo legato alla contrapposizione fra i due grandi blocchi (rifiutando perciò anche di farsi assorbire dai partiti storici della sinistra) e nella critica dell'ideologia dello sviluppo come valore fine a se stesso e autosufficiente. 4. La politica della distensione e la strategia triangolare La guerra americana nel Vietnam aveva ufficialmente lo scopo di arrestare l'avanzata del comunismo nel Sud-est asiatico. Ma gli sviluppi delle divergenze fra Urss e Cina avevano chiarito che non esisteva più una minaccia comunista globale, mentre gli Stati Uniti non
ponevano fra i loro obiettivi quello di abbattere la repubblica democratica di Hanoi. Per conseguenza la guerra non pose fine al “disgelo”. Mentre l’Urss e la Cina erano costrette a convergere nei loro aiuti al Vietnam e mentre il conflitto armato in corso forniva a Urss e Usa molteplici argomenti per la loro battaglia propagandistica, gli sforzi cominciati nel 1963 per limitare i rischi derivanti dagli arsenali nucleari poterono avere importanti sviluppi. | 262
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Nel luglio 1968, nell’ambito di una trattativa multilaterale che era avvenuta in gran parte nell’ambito delle Nazioni Unite, venne firmato il trattato cosiddetto di non proliferazione (TNP), che aveva lo scopo
di impedire l’ingresso di altri stati nel “club nucleare”, impegnando le potenze già nucleari a non trasferire ad altri questo genere di armamenti e gli stati non nucleari a rinunciare ad averne. Promotori e primi firmatari
erano gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica e la Gran Bretagna. Mettendo a parte quest’ultima, che da tempo non aveva più una politica estera diversa da quella degli Usa e della Nato, il trattato era un invito a tutti gli stati a riconoscere l'egemonia delle due superpo‘tenze e il loro ruolo di garanti dell'ordine mondiale e, in una interessante prospettiva, dimostrava che nel bipolarismo poteva forse realizzarsi un sistema in equilibrio invece di una tendenza alla guerra fredda. Il TNP fu firmato dalla Germania occidentale e dal Giappone e in genere da tutti gli stati che restavano solidamente inseriti nell’uno o nell’altro blocco e anche da gran parte dei non-allineati. Ma molti dei firmatari non si sentirono di accettare la sottintesa filosofia del trattato e precisarono che lo interpretavano come un impegno delle superpotenze a porre fine a qualunque tipo di esperimento e alla corsa agli armamenti. La Cina, che dall’ottobre 1964 era entrata nel club nucleare, rifiutò di firmare il trattato e lo consi-
derò un’altra prova dell’imperialismo dell’Urss e della sua collusione con gli Stati Uniti. Ugualmente non vollero firmare, o perché aspiravano a un proprio armamento nucleare o per affermare la propria autonomia, India, Pakistan, Brasile, Egitto e Israele. L'ultima fir| ma mancante era quella della Francia di De Gaulle, che proseguiva con coerenza nella politica di opposi-
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i
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zione ai blocchi: dopo essersi dotata, a partire dal primo esperimento atomico del 1960, di un’autonoma force de frappe nucleare, nel 1964 aveva preso l’iniziativa di stabilire relazioni diplomatiche con la Cina, aveva criticato la presenza americana in Vietnam e
infine nel 1966 era uscita dalla Nato in quanto organizzazione militare integrata, pur mantenendo l’adesione al Patto Atlantico come trattato politico. L'invasione sovietica della Cecoslovacchia aveva interrotto temporaneamente i colloqui sovietico-ameri-
cani, che ripresero nel novembre 1969 sotto la sigla Salt, cioè Strategic Arms Limitation Talks. Nel frattempo Nixon era diventato presidente e aveva posto nella carica di consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger (che nel 1973 diventerà segretario di stato). Nixon era stato per anni un campione dell’anticomunismo, ma la sua nomina si indirizzava su un
politologo ammiratore di Metternich e della politica dell'equilibrio che era piuttosto propenso a dare scarsa importanza agli aspetti ideologici della guerra fredda, considerandola come un normale conflitto fra grandi potenze da gestire con i metodi della diplomazia classica e tenendo in piedi una negoziazione globale che doveva essere disposta anche a utili concessioni reciproche. Nell’introduzione al suo apprezzato studio sulla Diplomazia della Restaurazione (1957, p. 5) Kissinger aveva scritto: «È naturale che un’epoca minacciata dalla distruzione atomica guardi con nostalgia ai periodi in cui la diplomazia comportava rischi meno gravi, in cui le guerre erano limitate e una catastrofe quasi inimmaginabile», presentando Metternich, «l’ultimo diplomatico legato alla grande tradizione settecentesca», come «uno ‘scienziato’ della politica, che tesseva la sua tela con freddezza e senza 264
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concedere nulla al sentimento, in un’epoca sempre più incline a far politica in nome di qualche ‘causa’» (p. 343). Gli Stati Uniti volevano uscire con onore dal Vietnam e avrebbero apprezzato le pressioni esercita-
te dai sovietici sui loro alleati e protetti per far concludere rapidamente le trattative pubbliche di pace in corso a Parigi (e quelle che segretamente stava conducendo Kissinger). L'Unione Sovietica era interessata a un accordo che, come il trattato di non proliferazione, consacrasse il bipolarismo definendo esattamente il giusto equilibrio negli armamenti strategici. Nel corso dei colloqui Salt, che si protrassero per due anni e imezzo simultaneamente alle trattative di Parigi, l’amministrazione Nixon si sentì libera di portare la guerra in Indocina a un grado più alto di quello raggiunto in precedenza (vedi p. 245); nel 1972 si spinse anche a ciò che Johnson non aveva mai osato, ordinando bombardamenti sulla città di Hanoi che provocarono proteste soltanto formali da parte dell’Unione Sovietica. Nel maggio 1972, nel corso di una visita ufficiale del presidente Nixon a Mosca, si arrivò alla firma degli accordi Salt, che toccavano due distinte questioni. La prima (meglio precisata dall'accordo aggiuntivo stipulato nel 1974 a Vladivostock) riguardava i missili antimissile o antibalistici (ABM), una innovazione strategica che correva il rischio di rompere l’equilibrio del terrore, l’unico fino a quel momento concretamente raggiungibile: le due parti si impegnavano a ridurre al minimo gli ABM e a difendere, oltre alle rispettive capitali, soltanto una delle loro aree di installazioni missilistiche a terra, allo scopo di rendere possibile il “secondo colpo” — dal quale dipendeva l’efficacia della dottrina della distruzione reciproca assicurata (MAD); ù
Mes
>.
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per conseguenza il sistema antimissile non veniva esteso alla protezione delle città, perché se queste diventavano sicure si riduceva assai il principio della deterrenza e cresceva invece la tentazione di essere i primi ad attaccare. Il secondo campo di applicazione degli accordi riguardava il complicato conteggio dei vari tipi di vettori per armi nucleari posseduti dalle due parti (missili con base a terra, missili su sottomarini nucleari, bombardieri a lunga autonomia), allo scopo di stabilire un equilibrio accettabile. In ultima analisi, nonostante la sua indubbia importanza, il trattato Salt non
avviava il disarmo ma stabiliva dei limiti invalicabili alla corsa agli armamenti; gli Stati Uniti avevano fatto apparentemente le maggiori concessioni, ma in effetti erano per il momento gli unici in grado di installare i missili a testata multipla denominati MIRV. Le trattative sul cessate il fuoco nel Vietnam e sull'equilibrio strategico si vennero a intrecciare con altre due importanti svolte nel sistema internazionale: la sistemazione delle frontiere nell'Europa orientale e la nuova politica estera cinese. Dopo i tre anni della “grande coalizione” fra democristiani e socialdemocratici (vedi p. 156), le elezioni tedesche del 1969 videro una netta vittoria della SPD e condussero alla formazione del governo presieduto da Willy Brandt (già in precedenza ministro degli esteri) e appoggiato dai
liberali. Per quasi due decenni la politica estera della Repubblica federale tedesca si era basata sul rifiuto di riconoscere l’esistenza di una seconda Germania e di avere relazioni diplomatiche con chi la riconosceva (con l’unica eccezione dell’Unione Sovietica). Questo
atteggiamento aveva reso impossibile alla Rft chiudere con formali trattati di pace la seconda guerra mondia-
le e aveva limitato fortemente il suo ruolo internazio266 o
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nale, costringendola a far parte in maniera piuttosto passiva del blocco occidentale. Come ministro degli esteri Brandt aveva già mostrato di voler intrattenere normali relazioni politiche ed economiche con alcuni stati dell'Europa orientale; la crisi cecoslovacca del
1968, giustificata dai sovietici anche con l’argomento che i riformatori avrebbero fatto cadere il paese sotto l’influenza tedesca, convinse Brandt ad accelerare i
tempi di una complessiva ostpolitik che fra il 1970 e il 1973 si articolò in quattro trattati. Per primo (agosto 1970) venne quello di amicizia e non aggressione fra Rft e Unione Sovietica, con il quale le due parti affermavano inoltre l’inviolabilità delle frontiere esistenti in Europa; poi (dicembre 1970) quello, con i medesimi contenuti, fra Rft e Po-
lonia, che formalizzava dunque il trasferimento delle province tedesche orientali. Il terzo trattato, fra Rft e Rdt (dicembre 1972), fu preceduto nel settembre
1971 dagli accordi su Berlino fra quelle che (secondo gli statuti provvisori del dopoguerra) restavano le autorità di diritto, le quattro potenze occupanti: lo status della città venne formalmente confermato (sorvolando sulla sua effettiva condizione determinata dall’esistenza del muro) e il transito fra le due parti reso più facile. Si poté così pervenire al reciproco riconoscimento fra le due Germanie, cui seguì l'ammissione
di entrambe alle Nazioni Unite. Per ultimo (settembre 1973) venne il trattato fra Rft e Cecoslovacchia, con il
quale veniva finalmente dichiarata la nullità del vecchio patto di Monaco del 1938. Oltre alla loro dimensione politica, tutti e quattro i trattati ebbero l’effetto di aprire le relazioni economiche fra la Germania occi. dentaleei suoi vicini. — È molto importante notare che questa fase della 267
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“distensione” in Europa, molto più solida di quelle tentate negli anni cinquanta e sessanta, era avvenuta
per iniziativa della Germania occidentale e aveva visto il suo ritorno fra gli attori della politica internaziona‘le, creando una sorta di infrazione alla logica del bipolarismo. Si trattava di una politica formalmente non incompatibile con lo schieramento atlantico della Rft, ma, anche se come si è visto era subito proseguita in un dialogo nel quale la simultanea presenza di Urss e Usa restava essenziale, veniva a configurare un percorso strategico nel quale gli Stati Uniti non avevano il ruolo centrale. Un ulteriore passo di questo percorso fu costituito dalla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea, aperta a Helsinki nel novembre 1972. In questo caso gli Stati Uniti, che non gradivano del tutto una distensione europea realizzata in tempi e modi indipendenti dalla propria strategia, vollero essere presenti direttamente (unitamente al Canada) alla Conferenza, che vide la presenza dell'Unione Sovietica e di tutti gli stati europei, compresa la Città del Vaticano ed esclusa l'Albania. L’Atto finale di Helsinki, firmato nell’agosto 1975, comprese tre diversi gruppi di impegni: il rispetto della sovranità e dell’uguaglianza di tutti gli stati firmatari; la cooperazione economica,
scientifica e tecnica; l'apertura
reciproca nei rapporti culturali e il rispetto dei diritti umani come la libertà di manifestazione del pensiero. Soddisfazioni assai maggiori furono tratte dalla diplomazia americana dai mutamenti che si stavano profilando nella politica estera della Cina. Dalla metà degli anni sessanta questa aveva precisato una sua vi-
sione della contraddizione principale che attraversava il mondo ben diversa da quella che aveva fatto da
sfondo alla guerra fredda: al posto dell’opposizione
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fra i due campi, capitalista e socialista, sorgeva quella fra l’imperialismo (compreso il socialimperialismo sovietico, confermato dall’aggressione alla Cecoslovacchia) e l'insieme costituito dalla Cina e dai popoli oppressi dell'Asia, Africa e America latina. Ma nello stes-
so periodo la rivoluzione nelle “campagne” del mondo non aveva subito che sconfitte, mentre il tentativo
cinese di favorire scissioni all’interno dei paesi di osservanza sovietica e dei partiti comunisti ufficiali dei paesi occidentali non era andato molto al di là dell'Albania e di qualche piccolo, settario e ottuso partito marxista-leninista filocinese. D'altra parte la Cina aveva cominciato a inserire fra le sue rimostranze antisovietiche anche le rivendicazioni sui territori estremo-orientali (fra il Pacifico e i fiumi Amur e Ussuri) annessi a metà Ottocento dalla Russia. Fu lungo la frontiera dell’Ussuri che, nel marzo 1969, una avven-
tata sfida cinese provocò uno scontro con le truppe sovietiche di frontiera e, alcuni giorni dopo, un’azione di ritorsione che assunse i caratteri di una battaglia con alcune centinaia di morti. D’improvviso la Cina si rese conto di trovarsi di fronte alla potenza militare russa in condizioni di totale isolamento internazionale. Unendo la purezza rivoluzionaria a una poco abile difesa dei propri interessi nazionali, aveva finito per perdere i contatti con i paesi non-allineati, spingendo sempre più l’India dalla parte dell’Urss e riuscendo a conservare buoni rapporti con il Pakistan solo perché anche questo paese aveva vecchie controversie di frontiera con l'India. La sua dottrina in bianco e nero della divisione del mondo pre-
sentava una bilancia sui cui piatti vi erano forze troppo disuguali. Non conveniva pensare a un sistema di rapporti più complesso, con tre (o forse anche più) 269
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attori principali, e premunirsi di fronte all’avversario più temibile cercando alleanze tattiche? Un modo di ragionare convergente si stava intanto imponendo an-
che al presidente Nixon e al suo consigliere Kissinger, che poco prima delle elezioni del 1968 aveva formulato una vera strategia nel saggio Problemi centrali di politica estera americana. Una volta ammesso che si potevano trarre maggiori
vantaggi dalla negoziazione politica “classica” (definita nel 1957 «l’arte di vincolare gli stati con l'accordo, non con la forza», op. cit., p. 350) che dalla rischiosa
contrapposizione militare, Kissinger doveva anche concludere che la prima si adattava meglio a un mondo tripolare o anche multipolare, tendenzialmente portato alla ricerca pragmatica dell'equilibrio, che a uno bipolare, portato invece a radicalizzarsi nella contrapposizione ideologica. Così, mentre la Cina era costretta dal settembre 1969 a intavolare con l’Urss trattative sulle frontiere, trovandosi in una situazione di netta inferiorità, il
primo ministro Zhou Enlai (che rappresentava la continuità della politica cinese e si era tenuto fuori dalle lotte della rivoluzione culturale) preparava attentamente e senza dubbio in accordo con Mao Zedong il nuovo orientamento dei rapporti con gli Stati Uniti. Preceduto dal simbolico invito a Pechino di una squadra statunitense di ping-pong, nell’aprile 1971, questo ebbe il suo momento decisivo nel luglio successivo con la visita di Kissinger presso i dirigenti cinesi, resa pubblica solo a cose fatte. Il 25 ottobre un voto a larga maggioranza ammise la Cina all'Onu, a occupare al posto di Taiwan il seggio di membro permanente del
consiglio di sicurezza con diritto di veto. Nel febbraio 1972 fu lo stesso presidente Nixon a recarsi aPechino
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in una visita ufficiale che si concluse con la dichiarazione congiunta che Taiwan era parte della Cina, il che comportava che gli Stati Uniti non si sarebbero opposti a una riunificazione basata su accordi ed escludendo ogni uso della forza. L'Unione Sovietica incassò il colpo e affrettò il vertice con gli Stati Uniti che, in maggio, condusse alla firma del Salt. A sua volta la Cina dimostrò di non gradire né quel trattato né l’apertura della Conferenza di Helsinki, ma anch'essa dovette prendere atto della nuova realtà e non elevò particolari proteste di fronte agli ultimi bombardamenti americani in Vietnam. La politica di Kissinger basata su un tripolarismo (e non sul vecchio principio del divide et impera, visto che gli Stati Uniti approfittavano del contrasto Urss-Cina senza averlo creato) stava funzionando; nel febbraio 1973 il consigliere di Nixon fu invitato nuovamente in Cina per approfondire il riavvicinamento fra i due paesi. Abbiamo visto più indietro (cap. 4, $ 2) che il Terzo mondo era poco in grado di contribuire al superamento del bipolarismo; teoricamente il ruolo dell’ Europa associata nella Cee avrebbe potuto essere molto maggiore, ma in complesso fu piuttosto limitato, certo inferiore alle iniziative tedesche di ostpolitik. Il rifiuto di De Gaulle di ammettere la Gran Bretagna, nel 1963, aveva costituito una netta battuta d’arresto nel
processo di integrazione europea (senza peraltro lasciare molto spazio alla visione dell'autonomia europea elaborata dallo stesso De Gaulle) ed era stato seguito nel 1967 da un nuovo veto alla seconda domanda di adesione britannica. D'altra parte De Gaulle si era opposto risolutamente a qualsiasi proposta di au| tonomia, sia pur minima, delle istituzioni comunitarie
nei confronti degli stati membri, giungendo nel 1965 271
Storia degli ultimi cinquant'anni
a ritirare i rappresentanti della Francia dalla Commissione della Cee. Ma nell’aprile 1969 De Gaulle, dopo che una sua proposta di riforma costituzionale di non grande rilievo politico venne respinta da un referendum, dette le dimissioni e si ritirò dalla vita politica. Le elezioni presidenziali tenute in giugno dettero la vittoria all'ex primo ministro Georges Pompidou, che, benché fosse stato uno dei delfini del ge-
nerale, mutò nettamente l’atteggiamento francese nei confronti della politica europea. Nel febbraio 1972 il governo conservatore fece aderire la Gran Bretagna alla Comunità economica europea, dopo un negoziato piuttosto complesso sui suoi rapporti con il Com-
monwealth e sulla sua apertura ai prodotti agricoli degli altri stati membri; nella stessa occasione aderirono alla comunità anche l'Irlanda e la Danimarca, trasfor-
mando “l'Europa dei Sei” nell’“Europa dei Nove”.
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9. Il sistema internazionale fra policentrismo e seconda guerra fredda, 1972-1984
1. Realismo contro ideologia Fra il 1971 e il 1973 la diplomazia triangolare aveva prodotto alcuni risultati di grande rilievo, che andavano tutti nella medesima direzione: la sostituzione di un abbozzo di sistema triangolare al bipolarismo della Realpolitik e del pragmatismo alle contrapposizioni ideologiche. L'ingresso nell’Onu della Cina popolare toglieva agli Usa e all’Urss il privilegio di dominare da soli la logica dei veti incrociati; la ripresa delle relazio-
ni amichevoli Usa-Cina e la firma dei trattati Salt si intrecciavano con la disposizione della Cina e dell’Urss a considerare chiuso il capitolo Vietnam e a spingere la repubblica di Hanoi ad accettare le condizioni di cessate il fuoco. L’attenuarsi della guerra fredda mostrava dunque che c’era davvero qualche rapporto fra essa e il bipolarismo. È opportuno riconoscere che la nuova politica internazionale triangolare non aveva lo stesso significato per i suoi tre vertici. L'Unione Sovietica continuava a
preferire il bipolarismo, nel quale vi erano solo satelliti e non alleati e non si correva il rischio di loro iniziative autonome. È vero che nell’agosto 1971 l’Urss aveva stipulato con l'India di Indira Gandhi un trattato di pace, amicizia e cooperazione, che prevedeva la
loro collaborazione per neutralizzare eventuali minacce contro uno dei firmatari e che era evidentemente 275
Storia degli ultimi cinquant'anni
indirizzato contro la Cina; ma il tipo di alleanza che l’Urss prediligeva era quello che serviva a rafforzare quel che i cinesi chiamavano il suo “egemonismo” e che in Asia si stava realizzando nei rapporti con il Vietnam del Nord. Agli Usa il triangolarismo serviva essenzialmente per giocare la carta cinese contro lUrss da una posizione di forza; la Cina era invece costretta ad appoggiarsi agli Stati Uniti in condizione di debolezza ed era perciò propensa ad allargare il sistema verso un più ampio multipolarismo, purché rendesse più facile isolare l'Unione Sovietica. Va ricordato a questo punto che al principio della “diplomazia del ping-pong” la battaglia politica nel partito comunista cinese era tutt'altro che chiusa e che i suoi sviluppi condizionavano oltre alla politica economica del paese (vedi cap. 12, $ 4) anche la sua politica estera, perché l’antisovietismo, comune agli ultrasinistri e ai pragmatici, non comportava le stes-
se valutazioni strategiche. Benché la concatenazione degli avvenimenti non sia perfettamente chiara, è notevole che nel settembre 1971 il maresciallo Lin Biao (che aveva organizzato e poi posto sotto controllo la rivoluzione culturale e che nel 1969, al IX
congresso del partito, era stato nominato successore di Mao Zedong) sparisse dalla circolazione venendo dato per morto in un incidente aereo e poi sottoposto a critiche e anche ad accuse poco credibili, in perfetto stile comunista: Lin Biao era un “destro travestito da sinistro”, aveva cercato di eliminare Mao e
stava fuggendo in Unione Sovietica. La strategia di Zhou Enlai poté così proseguire nel febbraio 1972 con la visita, già ricordata, di Nixon a Pechino e nel
successivo settembre con quella del premier giapponese Tanaka, che non solo compì il riconoscimento .
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de", a
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
reciproco con la Cina popolare ma anche dichiarò Taiwan parte integrante della Cina; contemporaneamente a quanto stava accadendo in Europa, anche in Asia orientale la seconda guerra mondiale poteva dirsi ufficialmente finita. Nell'agosto del 1973 il X congresso stabilì un equilibrio provvisorio fra le ali del partito comunista e segnò il ritorno alla vita politica di Deng Xiaoping, che divenne il principale collaboratore di Zhou Enlai e nel 1975 assunse formalmente il titolo di viceprimo ministro. Ma nello stesso periodo il gruppo dei radicali, fra i quali teneva un ruolo di primo piano Jiang Qing, la moglie di Mao, riprendeva a far sentire la propria voce con campagne ideologiche che facevano pensare a un tentativo di dar vita a una seconda rivoluzione culturale, ugualmente fanatica nei toni ma aperta più agli intrighi politici che alle manifestazioni di massa. Bersaglio sottinteso di queste campagne era Zhou Enlai, la cui morte, nel gennaio 1976, sembrò aprire
una nuova fase. Gli equilibri fra le fazioni fecero sì che il moderato Hua Guofeng diventasse primo ministro e numero due nel partito dopo Mao, ma assai più significativo fu il fatto che Deng Xiaoping venisse destituito, scomparendo ancora una volta dalla vita politica. La morte di Mao Zedong, il 9 settembre 1976, doveva costituire la premessa per la piena presa del potere da parte dei radicali, ma di fatto le cose andarono al contrario: dopo qualche settimana di incertezza il lungo periodo di lotta si concluse con l’ordine di Hua Guofeng di procedere all’arresto dei capi dell’ultrasinistra, denominati la “banda dei quattro”, a cominciare da Jiang Qing. Il relativo stallo dell’attività diplomatica attorno alla Cina fra il 1973 e il 1976 non dipese soltanto dalle
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Storia degli ultimi cinquant'anni
vicende fin qui ricordate. Un secondo motivo era dato dalla gravissima crisi attraversata negli Stati Uniti dall’amministrazione repubblicana. Nel novembre 1972 Richard Nixon era stato rieletto presidente con una maggioranza assai più netta di quella del 1968; soltanto pochi mesi dopo si era però imbattuto in un grave scandalo politico, venendone alla fine travolto. Du-
rante la campagna elettorale era stato scoperto all’interno dei palazzi del Watergate, quartier generale dei democratici, un apparato di spionaggio elettronico e col proseguire delle indagini, dopo le elezioni, Nixon era riuscito» sempre
meno
a dimostrare la propria
estraneità ai fatti, che la stampa presentava come un vero e proprio attacco alle istituzioni americane, e sempre più a turbare e indisporre l'opinione pubblica con le sue evidenti menzogne. Per sfuggire alla procedura di messa in stato d’accusa di fronte al Congresso, nell’agosto 1973 il presidente dovette dimettersi; il
vicepresidente Gerald Ford che subito gli succedette nominò Kissinger segretario di stato, rafforzando così la continuità della politica estera, ma l’“affare Watergate” aveva ugualmente provocato la perdita di quasi un anno.
Bisogna infine tener conto del fatto che la Cina non era soddisfatta dei risultati ottenuti fino ad allora dal nuovo corso dei rapporti con gli Stati Uniti e il Giappone, dai quali intendeva ottenere una totale rottura con Taiwan e maggiori garanzie nei confronti
dell’Unione Sovietica. I governanti cinesi avevano in particolare mostrato il loro disappunto per l’incontro di Vladivostock tra Ford e BreZnev, nel novembre 1974, che avviava una seconda serie di colloqui Salt
con l'ambizioso obiettivo di ridurre realmente i missili che le due potenze si puntavano l’un l’altrae lascia-
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e
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
va quindi libera l’Urss di accrescere la sua pressione militare sulla Cina; lo stesso fu per l’atto finale della conferenza di Helsinki, dato che ogni passo in avanti nella distensione a Occidente accresceva la forza dell’Urss a Oriente. Il viaggio di Ford a Pechino, nel dicembre 1975, non sbloccò la situazione e solo nel
1977. ci fu una significativa ripresa delle iniziative diplomatiche. Nel frattempo Deng Xiaoping era tornato sulla scena e il democratico Jimmy Carter aveva battuto Ford alle elezioni presidenziali. Negli ultimi mesi del 1978 si poté infine arrivare al compimento della svolta avviata sette anni prima. In agosto Cina e Giappone stipularono un trattato di | pace e amicizia che dava piena soddisfazione ai cinesi includendo la speciale clausola, diretta contro l’Unione Sovietica, che condannava ogni politica di “egemonismo” in Asia. In dicembre Cina e Stati Uniti si scambiarono gli ambasciatori e trovarono un accordo su Taiwan: il governo americano ruppe le relazioni diplomatiche con quella che solo per la sua protezione aveva potuto continuare a chiamarsi Repubblica della Cina nazionale e dichiarò decaduto il patto militare che risaliva al 1954; l’accordo includeva inoltre la clausola
“antiegemonica” richiesta dal governo cinese. Gli Stati Uniti conservavano però rapporti culturali ed economici non ufficiali con Taiwan e, attraverso una riso-
luzione del Congresso, auspicarono una soluzione pacifica del problema, chiarendo che la Cina non doveva far uso della forza. Questa decisione, presa un mese dopo il trionfale viaggio di Deng Xiaoping negli Stati Uniti nel febbraio 1979, costituì in parte una delusione per il governo cinese; non impedì però che le relazioni economiche con gli Usa, come pure quelle col Giappone, diventassero più intense, consentendo alla 279
Storia degli ultimi cinquant'anni
Cina di accrescere le sue esportazioni in cambio delle tecnologie necessarie al suo sviluppo. Con Deng Xiaoping la Cina ammetteva francamente (accentuando le affermazioni che venivano fatte spesso negli anni 1972-74, quando era prevalsa la linea di Zhou Enlai) che la propria condizione di paese del Terzo mondo era un prodotto di una reale arretratezza economica e che questa andava superata puntando su vigorose politiche di sviluppo e modernizzazione, sulla scienza e sulla tecnica. Il “terzomondismo” degli anni sessanta veniva così assai modificato
se non
anche abbandonato e nel 1974 era stato proprio Deng Xiaoping a illustrare alle Nazioni Unite una nuova teoria dei Tre mondi, che faceva da base a un sistema
internazionale con quattro o cinque poli. Stati Uniti e Unione Sovietica (e fra i due ’Urss rappresentava al momento la minaccia più preoccupante) costituivano
il primo mondo, in quanto superpotenze che intendevano imporre a tutti la loro egemonia, definita quasi più come oppressione che come sfruttamento; il terzo
mondo includeva i paesi che dovevano allo stesso tempo liberarsi dai mali del sottosviluppo e dalle aggressioni imperialiste, e fra questi si collocava la Cina; il secondo mondo, infine, era composto da quei paesi sviluppati (in primo luogo l'Europa e il Giappone) che da un lato partecipavano al saccheggio del terzo mondo, dall’altro erano soggetti a pesanti condizionamenti da parte del primo. Mentre non esisteva più il “campo socialista”, la Cina e il Terzo mondo dovevano sviluppare le contraddizioni fra Usa e Urss e guardare con favore alla crescente autonomia del secondo, cosa che indeboliva gli Stati Uniti, ma anche metterlo in guardia di fronte all’espansionismo sovietico. La Comunità eu280
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
ropea appariva ora un fenomeno da incoraggiare, anche se era necessario opporsi alla sua politica della distensione verso l’Urss. Contrariamente a quel che pensava Kissinger («l’interesse non è necessariamente qualcosa di amorale: anzi da atti interessati possono derivare conseguenze morali», Problemi centrali,
cit., p. 117) il realismo e il pragmatismo potevano anche condurre facilmente al cinismo. Così, quando Pechino ebbe stabilito normali relazioni diplomatiche con gli stati dell’ America latina, l'Unione Sovietica ebbe l'opportunità di denunciare il fatto che il gruppo dirigente cinese continuava a mantenerle con
il Cile e con l'Argentina anche dopo i colpi di stato che avevano consegnato questi paesi a feroci dittature militari. Fin qui si trattava forse solo del ricorso all'arma della propaganda, ma altrove il nuovo corso della politica cinese si venne a collegare in maniera assai più sciagurata con una immane tragedia.
Nel 1973 la Cina aveva approvato gli accordi di Parigi che mantenevano l’esistenza di due Vietnam ed evitavano che la vittoria totale di Hanoi si risolvesse nell’egemonia sovietica su tutta l’Indocina (in forma poco diversa questa era stata pochi anni prima anche la convinzione degli Stati Uniti). Così, il governo cinese accolse con poco entusiasmo la notizia che il 30 aprile 1975 Saigon era stata conquistata dai nordvietnamiti. Pochi giorni prima erano finiti anche gli scontri fra il governo filo americano giunto al potere nel 1970 (vedi p. 245) e i guerriglieri comunisti cambogiani organizzati in quegli anni dal loro capo Pol Pot. Gli “khmer rossi” occuparono Phnom Penh e ordinarono una immediata evacuazione della enorme popo-
lazione che vi si era accumulata durante la presenza americana.
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Storia degli ultimi cinquant'anni
Quel che poteva sembrare una drastica soluzione d’emergenza fu invece il primo atto di una coerente e sanguinaria strategia di comunismo contadino, che poteva richiamarsi al maoismo più radicale che con la “banda dei quattro” stava in quel momento tentando in Cina di riprendere il potere. Conducendo l’ideologia maoista fino a un’assurdità autodistruttiva il regime di Pol Pot si inserì fra i totalitarismi con vocazione genocidaria del XX secolo, proponendosi di cancellare le città e di ristabilire l'originaria purezza della società khmer, fondata quasi solo sulla coltivazione del riso e su lavori agrari collettivi che assomigliavano molto ai lavori forzati. Stermini di vaste proporzioni furono compiuti contro tutti gli oppositori potenziali, individuati, oltre che nella minoranza vietnamita e nei
monaci buddisti, in chiunque poteva essere portatore di una influenza dall’esterno, appartenendo anche solo marginalmente all’élite colta, conoscendo una lingua straniera o apparendo politicamente corrotto dalla presenza americana. In poco più di tre anni le uccisioni dirette, il lavoro coatto, le carestie e le epidemie
provocarono la morte di forse due milioni di persone, un quarto e più della popolazione del paese. Alla fine del dicembre 1978, di fronte alle masse di
profughi che fuggivano il terrore khmer, il Vietnam decise di invadere la Cambogia, con cui aveva già rotto ogni rapporto l’anno precedente, e di installare un governo amico al posto di quello di Pol Pot. Può darsi che le ragioni umanitarie fossero solo un pretesto, ma
l’azione vietnamita ebbe almeno l’effetto dî porre fine
ai massacri, rivelandone, con la scoperta delle enormi fosse comuni, le mostruose proporzioni. Le conse-
guenze internazionali dell’intetvento vietnamita presentarono allora aspetti che èpoco definire parados282
Il sistema internazionale fra policentrismo e Il guerra fredda
sali, perché condussero a una ibrida alleanza fra la diplomazia del realismo, sorta per spegnere i conflitti ideologici, e il fanatismo del regime degli khmer. Dopo che nel Laos si erano affermate le forze comuniste filovietnamite, l'invasione della Cambogia faceva del Vietnam la potenza dominante in Indocina; ma nel
1978 il Vietnam era entrato nel Comecon e aveva stretto i rapporti politici e militari con l'Unione Sovietica, concretizzando così i timori della Cina e degli Stati Uniti. Nel 1970 la Cina aveva accolto il principe Sihanouk, considerandolo l’unico rappresentante legittimo della Cambogia e nel 1975 lo aveva fatto tornare in patria, dove venne subito messo da parte dai ;comunisti. Pur essendo arrivati al potere eliminando la banda dei quattro, i pragmatici di Deng Xiaoping si orientarono ad appoggiare il regime di Pol Pot e nel febbraio 1979 compirono un’azione dimostrativa facendo penetrare le truppe cinesi in territorio vietnamita. Il rischio di una reazione sovietica era grande e i cinesi si ritirarono dopo poche settimane, ma il confronto si trasferì allora all'Onu, dove l’azione con-
giunta della Cina e degli Stati Uniti condusse a riconoscere gli inviati degli khmer rossi come i legittimi rappresentanti della Cambogia. L’intero affare cambogiano vibrò un colpo mortale e definitivo al prestigio morale e politico del comunismo. Al tempo degli scontri sull’Ussuri si poteva ancora pensare, sia pur ingenuamente, che dall’una e dall’altra parte del fiume si fronteggiavano due effettivi modelli di comunismo rivoluzionario con qual-
che buona ragione dalla propria parte; dieci anni dopo l’uso strumentale sovietico e la negazione cinese della tragedia cambogianai ingeneravano soltanto repulsione. i
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Storia degli ultimi cinquant'anni
2. Compimento e declino della distensione Mentre fra il 1975 e il 1979 riprendeva e portava a compimento la “strategia cinese”, la diplomazia americana proseguiva assieme a quella sovietica nella politica della distensione; il passaggio dalla presidenza repubblicana a quella democratica guidata da Jimmy Carter non sembrò produrre grandi mutamenti in questo settore, e lo stesso si può dire per il ruolo preminente assunto nella politica estera, al posto di Kissinger, dal nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, il politologo di origine polacca Zbignew Brzezinski. I colloqui denominati Salt 2, avviati a Vladivostock nel
1974 e proseguiti con molte difficoltà, ripresero così nel 1977 dal punto in cui erano stati lasciati dall’amministrazione Ford. Diversi accordi collaterali furono subito stipulati, e in particolare quello che metteva al bando le armi chimiche, ma sugli armamenti strategici (cioè sui sistemi in grado di portare testate nucleari in un raggio intercontinentale, oltre i 5500 km) le trattative si protrassero per oltre due anni, giungendo alla conclusione con il vertice fra Carter e Breznev svoltosi a Vienna il 18 giugno 1979 e la firma del complesso dei documenti che costituirono il Salt 2. La ragione di queste lungaggini stava nel fatto che nel corso degli anni settanta e anche durante le stesse trattative per il Salt 2 si erano verificati decisivi progressi tecnologici negli armamenti nucleari, rendendo più difficili e fonte di reciproci sospetti i conteggi per stabilire la parità strategica e realizzare anche il nuovo obiettivo della effettiva riduzione, a un livello più basso di quello del 1972. Un primo problema riguardava i missili Mirv a testata
multipla (vedi p. 266), di cui ormai disponevano sia gli 284
i
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
Stati Uniti che l'Unione Sovietica, e il modo di con-
teggiarli; vi era poi la questione, diventata più difficile che in passato, della distinzione fra vettori con raggio intercontinentale e vettori a media gittata, che poteva far cambiare molto i conteggi finali; ancora più grave era il fatto che i nuovi missili erano diventati così potenti e precisi da essere in grado di colpire gli arsenali del nemico nonostante le difese antimissile, vani-
ficando quindi il secondo colpo e facendo saltare la strategia “Mad” ovvero l’equilibrio del terrore, cosa che accresceva i rischi di una guerra nucleare. L’accordo alla fine raggiunto comportava l'impegno a distruggere una parte piccola ma di grande valore simbolico delle proprie testate; tale obbligo gravava più sull’Urss che sugli Usa, anche se molti esperti americani erano convinti che il Salt 2 faceva restare in vita una significativa superiorità sovietica.
La firma del trattato veniva comunque quando numerose ragioni di attrito si erano venute cumulando nei rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Allontanandosi dalla logica realista della distensione, Carter inserì nei rapporti fra le due potenze un tema piuttosto estraneo alla mentalità di Nixon e Kissinger, quello del rispetto dei diritti umani. Il presidente americano poteva appellarsi al terzo degli impegni assunti dai firmatari dell’atto finale della conferenza di Helsinki (vedi p. 268) e chiedere che ai dissidenti sovietici, ridotti al silenzio dalla minaccia di lunghe condanne, venisse garantita la libertà di espressione; Breznev replicava considerando questi interventi co-
me tentativi di destabilizzazione dell’Urss e ricordando il primo gruppo di accordi di Helsinki, che affermavano la non-ingerenza negli affari interni di un altro paese. In secondo luogo, mentre la Cina si sforza285
Storia degli ultimi cinquant'anni
va di rendere policentrico il sistema, l'Unione Sovietica interpretava la distensione come una migliore definizione del condominio mondiale fra due sole superpotenze e intendeva consolidare con i fatti la raggiunta piena parità con gli Stati Uniti; d’altra parte questi ultimi, dopo la scottante lezione del Vietnam erano restii a farsi coinvolgere in nuove avventure. Il terreno del nuovo interventismo sovietico fu in principio quello dell’Africa e delle lotte di decolonizzazione che là erano in corso. Dopo il 1965 il Portogallo era rimasto in pratica l’ultima potenza coloniale europea. Il regime politico creato nel 1932 da Antonio Salazar e il franchismo spagnolo rappresentavano inoltre i soli casi di dittatura di tipo fascista sopravvissuti in Europa (favoriti dalla loro formaclerico-fascista e più ancora dal fatto di essere rimasti estranei alla seconda guerra mondiale). Il salazarismo proseguì anche oltre il ritiro del suo fondatore dalla vita politica (nel 1968) e impegnò le scarse risorse di un paese che aveva tutti i titoli per essere inserito fra quelli sottosviluppati nell’estrema difesa di un impero coloniale costituito da Guinea Bissau, Angola e Mozambico (oltre che dai due gruppi di isole Capo Verde e Saò Tomé e Principe) e da anni soggetto alla guerriglia dei movimenti indipendentisti. L'importanza economica di queste colonie era assai inferiore al valore sentimentale, osti-
natamente riaffermato in nome di una identità storica e nazionale ormai consunta; l’unico appoggio al Portogallo veniva dal governo razzista del Sudafrica,
che aveva un concreto interesse a non avere come vicini in Angola e Mozambico dei governi rivoluzionari. Il 25 aprile 1974 una ribellione militare rovesciò in maniera pacifica il potere del successore di Salazar, 286
o.
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
realizzando quella che fu definita la “rivoluzione dei garofani”. Il nuovo governo di coalizione fra i partiti di sinistra pose fine nel giro di un anno alle logoranti guerre africane e riconobbe l'indipendenza di tutte le colonie. Fu a questo punto che entrò in scena l'Unione Sovietica. In tutte e tre le maggiori colonie le forze indipendentiste che stavano per dar vita ai nuovi stati si dichiaravano socialiste ed erano pronte a instaurare rapporti di amicizia e collaborazione con l’Urss. Ma in Angola le cose si rivelarono subito più complesse, perché alla fine della guerra di decolonizzazione seguì la guerra civile fra il Movimento popolare per l’indipendenza dell'Angola, di tendenza filosovietica, e altri due raggruppamenti rivali: un Fronte nazionale che si dichiarava filo-occidentale e che ebbe appoggi politici e militari dalla Cina (con grande sconcerto delle sinistre europee) e una Unione Nazionale che dipendeva dagli aiuti del Sudafrica. Solo il sostegno dell’Urss e la diretta presenza di numerose forze militari cubane consentì al Movimento popolare di ottenere fra il 1975 e il 1976 una prima provvisoria vittoria. Nello stesso 1975 era intanto precipitata la situazione in un’altra regione dell’Africa, in Etiopia, dove alla deposizione del vecchio imperatore Hailé Selassié da parte dell'esercito era seguita la proclamazione della repubblica. Le simpatie socialiste del nuovo regime militare
furono forzate in senso decisamente filosovietico e comunista dal nuovo colpo di stato del 1977, che portò al potere il colonnello Hailé Menghistu. Si apriva
così un altro teatro di presenza sovietica (e cubana) e l'Urss si trovava a prendere posizione a favore del| l'Etiopia quando questa corse il rischio di disgregarsi in seguito al crescere della guerra indipendentista delle
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Storia degli ultimi cinquant'anni
l’Eritrea e all'aggressione della Somalia alla regione etiope dell’Ogaden. Mentre l’altra avventura politico-militare dell’Unione Sovietica che si svolse in Afghanistan può essere meglio trattata nel contesto del successivo $ 4, resta da parlare di un ultimo problema che rischiava di rendere precaria la distensione; esso si era imposto già durante i colloqui Salt 2, ma, riguardando il piano di rinnovamento avviato nel 1976 dai sovietici per i loro missili a media gittata, aveva interferito marginalmen-
te con le trattative che riguardavano solo i sistemi di lunga gittata. Quello che secondo l’Urss era solo un normale ammodernamento si sostanziava nella sosti-
tuzione dei missili già puntati sull'Europa (e sulla Cina) con quelli denominati $S-20, troppo più veloci e precisi per non essere considerati come armi del tutto nuove. Anche gli Stati Uniti avevano pronta una nuova generazione di missili di teatro ovvero di media gittata, con un raggio di azione inferiore ai tremila km. I Pershing-2 erano paragonabili agli $S-20, ma erano ancora più veloci (4-6 minuti per colpire i bersagli nell'Unione Sovietica occidentale); i Cruise, temutissimi dai sovietici, erano a loro volta una pericolosa nuova arma, capace di correre a breve distanza dal suolo e seguendone le pieghe, invisibili ai sistemi radar. Gli Stati Uniti erano inoltre pronti a sperimentare un ulteriore terrificante tipo di arma, la cosiddetta bomba N
o al neutrone, che uccideva gli esseri viventi con le radiazioni ma risparmiava edifici e attrezzature essendo capace di ridotti effetti termici. Il presidente Carter rinunciò alla bomba N, ma fece intendere ai sovietici
che essi si trovavano di fronte alla netta alternativa: o il ritiro degli S$S-20 o l’installazione dei Pershing-2 e dei Cruise. Il 14 dicembre 1979 il Consiglio della Nato 288
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
decise di installare entro il 1983 i nuovi missili, ma allo
stesso tempo si dichiarò disposto ad avviare trattative con i sovietici riguardo all'insieme degli “euromissili”.
3. L'indipendenza del Bangladesh e le crisi del mondo islamico
Nel corso degli anni cinquanta e sessanta la guerra fredda fra “mondo libero” e “campo socialista” (adottando le autodenominazioni propagandistiche delle parti in lotta) ovvero fra Stati Uniti e Unione Sovietica (se ci atteniamo a una visione “realista” della contesa,
come quella di Kissinger), era stata il contesto primario di tutte le crisi internazionali. Sarebbe certamente eccessivo e anche fuorviante sostenere che tutte le crisi siano state un portato della guerra fredda, perché molte avevano cause del tutto autonome;
in maniera
altrettanto
eccessiva
ma
in
fondo liberatoria gli storici americani Joyce e Gabriel Kolko hanno potuto sostenere nel 1972 (I liziti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal 1945 al 1954, p. 9) che le cose stavano esattamente al contrario, perché il vero contesto era quello dell’opposizione fra rivoluzione mondiale e controrivoluzione (in particolare l'emergenza del Terzo mondo e il disegno imperialistico globale degli Stati Uniti) e in tale contesto vanno collocati i rapporti di tensione ed equilibrio fra Usa e Urss. Resta in ogni caso il fatto che raramente le situazioni di crisi riuscivano a manifestarsi e svolgersi indipendentemente dal quadro dei rapporti fra le grandi potenze, e anzi diventavano quasi delle guerre per | procura, i punti caldi della guerra fredda. Ancora al principio degli anni settanta, nella nuova situazione È
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Storia degli ultimi cinquant'anni
del nascente tripolarismo, un esempio di ciò è rappresentato dalla guerra (la terza dal 1948) che nel novembre-dicembre 1971 oppose l'India al Pakistan. Alle origini del conflitto vi era il sollevamento secessionista del Bangladesh, che nel 1947 si era trovato unito in maniera piuttosto forzata al Pakistan (vedi cap. 2, $ 2); l’India trovò conveniente che il suo principale avversario uscisse indebolito e intervenne militarmente a favore del Bangladesh, aiutandolo a diventare uno stato indipendente. Ma accanto a questo conflitto vi erano gli schieramenti internazionali che vedevano l’India alleata dell’Urss e il Pakistan alleato degli Usa e anche della Cina. Gli Stati Uniti continuarono a fornire armi al Pakistan, ma in complesso Kissinger preferì tenersi fuori dall’affare; la Cina invece impedì con il suo veto l'ingresso del Bangladesh nell’Onu (cosa che poté avvenire solo nel 1974). Per il contesto internazionale le sanguinose repressioni compiute dai pakistani in Bangladesh nei mesi della rivolta passarono all’ultimo posto e a conti fatti da tutta la questione derivò soltanto la sensazione diffusa che l'Unione Sovietica aveva ottenuto una importante vittoria politica. Benché fra gli anni cinquanta e sessanta un paese
come l’Egitto avesse compiuto i suoi sforzi di modernizzazione all'insegna del “socialismo arabo” e fosse apparso sempre più un elemento essenziale del sistema di alleanze sovietico e benché dopo il 1967 la resistenza dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina all’espansione di Israele venisse spesso inserita nella rivoluzione terzomondista, il mondo islamico mediorientale in genere rappresentava un’area
piuttosto irriducibile alla logica dell'opposizione fra
imperialismo e comunismo. Le numerose crisi che il Medio Oriente attraversò negli anni settanta furono 290
Vr, ST
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
tuttavia fortemente condizionate dal confronto che restava in atto fra le superpotenze. Questo vale in primo luogo per gli sviluppi della questione palestinese dopo la guerra dei Sei giorni. La Giordania aveva fortemente sofferto della sconfitta, perdendo la Cisgiordania e dovendo accogliere un’altra forte quantità di profughi palestinesi da questa regione. Divenuta sede principale dell’Olp, la Giordania dovette inoltre subire le pressioni dei combattenti palestinesi e anche i loro tentativi di contestare la monarchia e di impadronirsi del potere, fino a che nel settembre 1970 il re Hussein non reagì facendo ricorso all'esercito, disarmando con la forza i guerriglieri ed espellendo quelli che non caddero nella repressione. Le varie organizzazioni legate all’Olp dovettero trasferirsi nel Libano e da quel momento il terrorismo palestinese divenne ancora
più intenso,
facendo scuola nelle tecniche di esecuzione ai terroristi dell’estrema sinistra tedescae italiana e insistendo nella ricerca della risonanza massmediatica, come nel-
l'attacco compiuto nel settembre 1972 contro le squadre israeliane alle olimpiadi di Monaco. Nella complicatissima situazione politica, etnica e più ancora reli-
giosa del Libano (vedi p. 60), con una decina di diverse confessioni musulmane e cristiane garantite da un delicato sistema istituzionale, la presenza dei palestinesi ebbe effetti ancor più dirompenti di quelli che re Hussein aveva evitato in Giordania. Nel 1975-76 agli scontri fra palestinesi ed esercito libanese seguirono una vera guerra civile fra musulmani e cristiani e an‘che conflitti fra i diversi gruppi musulmani; negli anni successivi lo stato libanese distinto dalle fazioni sembrò dissolversi e il paese si trovò esposto agli interven-
ti della Siriae di Israele e al fiorire di gruppi terroristi Bi
291
Storia degli ultimi cinquant'anni
di ogni genere che con la loro predilezione per l’uso spettacolare degli esplosivi portarono Beirut alla semidistruzione. Nonostante il carattere spesso incomprensibile di questi conflitti, Stati Uniti
e Unione Sovietica erano
tenuti a non trascurare il peso che potevano avere negli equilibri politici di una regione strategica, dove gli Usa dovevano mantenere il loro ruolo di protettori dello stato di Israele ma dove entrambi avevano e cercavano alleati fra gli stati arabi. Ciò si vide bene quando nel 1974 Arafat, riconosciuto dai paesi arabi come rappresentante
dei palestinesi, poté essere invitato
all’Onu a esporre la causa del suo popolo e a operare appassionate distinzioni a proposito del terrorismo. E
si era visto ancora meglio al momento della nuova (la quarta) guerra che nell'ottobre 1973 oppose due stati arabi, Egitto e Siria, a Israele. La guerra si manifestò con un attacco a sorpresa degli egiziani nel Sinai e dei siriani nel Golan, cui Israele non fu sul momento in grado di resistere; la travolgente controffensiva israe-
liana costrinse Usa e Urss a far sentire il loro peso e a mettere in moto le Nazioni Unite. L'Urss non poteva giocarsi il prestigio fra gli stati arabi permettendo una vittoria da parte di Israele; ma anche gli Stati Uniti, il cui schieramento a fianco di Israele era fuori questio-
ne, propendevano per una soluzione equilibrata, anche perché erano certamente rimasti colpiti dalla decisione presa nel 1972 dal nuovo presidente egiziano Sadat di cominciare ad allontanare dall'Egitto i numerosi tecnici e consiglieri sovietici. Mentre i paesi arabi — produttori di petrolio annunciavano il blocco delle forniture a chi aiutava Israele (vedi più avanti cap. 10, $ 2), per convincere Israele a deporre le armi si dovette passare attraverso alcuni giorni di tensione altissima 292
ii
#
PATA
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda fra le superpotenze (22-24 ottobre), con la minaccia
sovietica di un intervento diretto e la dichiarazione americana dello stato di allerta mondiale, comprese (per la prima volta dai tempi della crisi cubana) le forze atomiche. Raggiunto un accordo di armistizio e ristabilita la presenza di forze dell'Onu sulla riva orientale del canale di Suez, l’effetto principale della guerra fu quello di portare Sadat ad accentuare il distacco dall’Urss e a passare, con un completo rovesciamento di fronte, a rapporti politico-economici privilegiati con gli Stati Uniti. A ciò il presidente egiziano fece seguire nel 1977 una iniziativa che appariva rivoluzionaria anche solo per il fatto che invitava le parti in causa a parlar‘si direttamente: recandosi di persona a Gerusalemme, Sadat offrì in sostanza la pace in cambio del Sinai, fiducioso che ciò avrebbe favorito la soluzione della questione palestinese e soprattutto fatto uscire l'Egitto dal costoso stato di guerra continua. Gli accordi si precisarono durante i colloqui fra Sadat e il primo ministro israeliano avvenuti nel 1978 con la mediazione del presidente americano Carter nella sua residenza di Camp David e furono consacrati dal trattato del marzo 1979. Di fatto il trattato (che non andava oltre vaghe promesse di autonomia per il territorio di Gaza e la Cisgiordania, sempre sotto occupazione israeliana) suonò come una pace separata o un vero tradimento, non venne riconosciuto dagli altri stati arabi e lasciò l'Egitto in pieno isolamento, costringendolo a dipendere solo dai rapporti con gli Stati Uniti. È importante notare che la quarta guerra araboisraeliana e i suoi sviluppi diplomatici si erano svolti senza avere rapporti con la distensione fra Usa e Urss; il cambio di alleanza operato dall'Egitto rientrava nei 293
Storia degli ultimi cinquant'anni
colpi di scena della guerra fredda e l’Urss era stata considerata da Carter estranea alla questione mediorientale, non venendo consultata in rapporto alle trattative di Camp David. L'opinione sovietica che per quella via non si sarebbe arrivati ad alcuna pace duratura venne confermata da quanto accadde negli anni successivi, Nel 1981 Sadat cadde vittima di una congiura al Cairo, mentre assisteva a una parata militare. Nel giugno 1982 Israele scatenò una nuova guerra,
invadendo il sud del Libano con lo scopo dichiarato di distruggere la resistenza palestinese che là continuava ad operate e tentando anche, con l’aiuto delle forze cristiano-libanesi, di occupare Beirut, Fino alla guerra del 1973 la questione palestinese si era svolta essenzialmente come un incrocio fra un problema di nazionalità negata e risvolti internazionali legati agli equilibri fra le grandi potenze. Ma nel corso degli anni settanta alcuni decisivi mutamenti si erano rivelati nel mondo islamico. Tutte le grandi rivoluzioni dell’area mediorientale, nell’Egitto nasseriano, nella Siria e nell’Iraq baathiste (vedi cap. 4, $ 2), in Algeria, erano avvenute in nome del nazionalismo arabo o anche del socialismo arabo, senza particolari riferimenti alla religione islamica; i gruppi e i partiti di
ispirazione islamica, come i Fratelli musulmani (che ispireranno nel 1981 l'assassinio di Sadat) erano isolati e soggetti a misure repressive. Era piuttosto un pae-
se filoamericano come l'Arabia Saudita ad adottare nella vita civile la “legge islamica” (shar*a, cioè le norme ricavate dal Corano seguendo le varie scuole giuridiche e i pareri degli w/2774, gli studiosi di teologia e scienze islamiche), mentre, per fare l'esempio più
significativo, in Egitto o in Algeria le donne avevano il diritto di voto e veniva affermata almeno formalmen-.
294
(È
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te la parità giuridica fra uomini e donne. Al modello del nazionalismo arabo si conformò anche il colpo di stato militare che nel 1969 rovesciò in Libia la monarchia e portò al potere il colonnello Muammar Gheddafi. Ma pochi anni dopo fu proprio la Libia di Gheddafi la prima repubblica araba a far propri elementi dell'ideologia islamica, accogliendo in parte la shar'ia e parlando di una specifica giustizia sociale islamica. Fra gli stati del Medio Oriente che cercavano di realizzare una modernizzazione economica e sociale in-
differente ai valori propri dell’islam vi era anche V'Iran, retto dal 1941 dallo scià Riza Pahlavi e legato politicamente e militarmente agli Stati Uniti. Con un’im‘pressionante cerimonia propagandistica lo scià aveva esaltato nel 1975 il nazionalismo iraniano, celebrando
i 2500 anni dell’impero persiano ed esibendo un simbolo sfarzoso ma piuttosto pagano quale il trono del pavone. A quella data lo scià era costretto da tempo a far ricorso alle armi della repressione contro l’opposizione dei partiti riformatori e marxisti-leninisti e degli esponenti religiosi dell'islam sciita, abituato a essere la religione di stato. A cominciare dal 4 settembre 1978 una serie di manifestazioni sempre più affollate, che la brutale reazione della polizia non riuscì a interrompere, chiese la fine del regime dello scià, che nel gennaio 1979 decise di lasciare il paese. Poche settimane dopo rientrava invece in Iran da Parigi, dove aveva vissuto
l’ultima parte del lungo esilio cominciato nel 1965, la più prestigiosa autotità religiosa sciita, Ruhollah Khomeini. Mentre si insediava un governo repubblicano presieduto da un esponente dei gruppi riformatori, il carattere decisamente antiamericano delle manifestazioni dei mesi precedenti aveva dato per un momento
a tutti gli osservatori dei fatti internazionali l’impresi,
— 295
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sione che il rovesciamento dello scià preludesse a una rivoluzione nel senso più tradizionale della parola. Ma le cose non stavano così. Per i seguaci di Khomeini il marxismo e il comunismo non erano da combattersi in quanto sovversione sociale ma, come per i seguaci dei partiti islamici, in quanto dottrine atee. Nel giro di
pochi mesi la rivoluzione iraniana produsse attraverso un referendum una repubblica islamica fondata sulla shar'ia, dove le autorità civili erano tenute a rispondere dei loro atti a quelle religiose e dove tribunali rivoluzionati distribuivano con grande larghezza condanne a morte; applicando una giustizia oscurantista contro le sinistre e i democratici occidentalizzanti.
4. La questione afghana, la ripresa dello scontro bipolare e la svolta reaganiana degli Stati Uniti La nuova realtà iraniana non solo era congiuntamente antiamericana
e anticomunista
ma
anche, cosa che
non si era mai vista, non aveva alcun interesse a trarre
profitto dal bipolarismo (come abitualmente avevano fatto i paesi non-allineati) e a cercare buoni rapporti con l'Unione Sovietica; al contrario, le dichiarazioni
dei religiosi sciiti facevano pensare a una estensione a tutto il mondo musulmano, e quindi anche alle repubbliche sovietiche centroasiatiche, del tipo di rivoluzione che aveva trionfato in Iran. Sono i possibili timori di un contagio da parte della confinante repubblica khomeinista che spiegano, almeno in parte, la fatale decisione presa dalle autorità sovietiche di procedere il 24 dicembre 1979 all’invasione dell’ Afghanistan. Nel 1973 anche in questo paese si era verificato un
colpo di stato che aveva rovesciato la monarchia e instaurato un regime repubblicano-nazionalista conin-
a
296
me atea
|
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tenti modernizzatori; ma le fasi successive della rivo-
luzione avevano allontanato l’Afghanistan dal vecchio modello egiziano o da quello più recente libico. Un nuovo colpo di stato, nel 1978, aveva portato al
potere esponenti dell’esercito e il Partito democratico del popolo, che perseguiva un programma di riforme sempre più orientato in senso socialista: non solo una profonda riforma agraria ma anche un attacco diretto al tradizionalismo islamico, con la fine
della segregazione delle donne e un piano di istruzione improntato alla cultura dello sviluppo economico e del materialismo marxista. Rompendo con la tradizione neutralista del paese, che era stata mantenuta dopo il 1973, il Partito democratico del popolo consolidò i rapporti con l'Unione Sovietica ma fu presto diviso dalle lotte fra le sue fazioni, nelle quali si riflettevano divergenze politiche e ideologiche e la composita realtà etnica e sociale del paese. Nel corso del 1979 prevalsero le forze di sinistra più radicali, che fecero crescere la protesta dei gruppi islamici ma anche cercarono di liberarsi dall’abbraccio un po’ troppo stretto della tutela sovietica. Ciò accadeva esattamente nel periodo in cui da una parte si stavano consolidando i rapporti fra Cina e Stati Uniti, dall’altra il mondo islamico percepiva il messaggio della rivoluzione khomeinista. Intervenendo con la forza e rimettendo al potere la fazione filosovietica, l’Urss
aveva valutato l'Afghanistan (che confinava anche con il Pakistan alleato degli Stati Uniti e della Cina) come un elemento decisivo della sua politica asiatica, più importante delle inevitabili reazioni internazionali che il suo gesto avrebbe provocato e che potevano forse essere assorbite nella diplomazia della di| stensione. Quello che sicuramente non faceva parte 297
Storia degli ultimi cinquant'anni
delle aspettative dell’Urss, condizionate dal ricordo delle facili esperienze di repressione in Europa orientale, era l'immediata nascita di una guerriglia afghana ispirata da motivi islamici e nazionalistici. L’operazione Afghanistan fece inoltre perdere all’Unione Sovietica tutto il prestigio acquistato nei confronti dei paesi arabi, che, per non trovarsi in difficoltà di fronte al khomeinismo montante, dovettero tutti farsi campioni della incompatibilità fra comunismo e islam. Appoggiata direttamente dal Pakistan, acclamata dai cinesi e finanziata dagli Stati Uniti, la guerriglia afghana dimostrò infine che i carri armati sovietici potevano fare ben poco in un territorio montagnoso, compartimentato e inaccessibile. Per decenni l'Unione Sovietica aveva presentato, per convinzione o solo per propaganda, ogni mossa
internazionale degli Stati Uniti come sintomo di una
strategia globale di dominio del mondo, mentre la sua insufficiente forza non le consentiva di avere un peso davvero determinante al di fuori di alcune ben precise aree regionali. Toccava ora all’Urss essere soggetta allo stesso trattamento. Gli strateghi statunitensi collegarono subito l’intervento in Afghanistan con la presenza sovietica e cubana in Etiopia e
anche con lo schieramento filosovietico dello Yemen del Sud (ex colonia britannica, indipendente dal 1967) e supposero l’esistenza di un piano generale di destabilizzazione che avrebbe coinvolto anche l’Iran e posto sotto controllo sovietico l’intera regione fra il Corno d'Africa e il golfo Persico, esponendo il campo occidentale (l'Europa e il Giappone) al ricatto del petrolio: negli anni settanta proveniva dal golfo circa
il 40 per cento della produzione mondiale di petrolio (non contando quella degli Stati Uniti e dell’U298
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nione Sovietica). Quanto era giustificata questa interpretazione americana della politica estera sovietica? Escluso che l’Urss non si rendesse conto della concatenazione che poteva essere scorta nei suoi atti, si può solo scegliere fra una di queste alternative: la guerra fredda non era affatto finita con la distensione e l’Urss approfittava di una fase di debolezza dei suoi avversari, ovvero l’Urss continuava a pensare in termini bipolari e metteva in pratica il raggiunto principio della parità strategica e politica rendendo effettivo il bipolarismo stesso. La reazione del presidente Carter riguardò prima di tutto il Salt 2, che non aveva ancora presentato alla ratifica del Senato, sapendo che difficilmente avrebbe ottenuto una maggioranza favorevole; la ratifica venne ora definitivamente rinviata (anche se le due parti continuarono ad osservare di fatto il trattato) e in più
venne posto in bilancio un aumento delle spese militari, che lo stesso Carter aveva ridotto nel 1978-79 al
più basso livello toccato dal 1949. Gli Stati Uniti sospendevano inoltre le vendite di grano all’Unione Sovietica e, con un gesto cui Carter attribuiva una
grande importanza morale e che era in ogni caso di grande efficacia propagandistica, annunciavano che non avrebbero preso parte alle olimpiadi in programma a Mosca per il 1980. Mentre l'Unione Sovietica si veniva a trovare invischiata in una guerra interminabile che gli americani potevano con compiacimento considerare una ven-
detta storica per il loro Vietnam, anche gli Stati Uniti
stavano facendo i conti con la nuova e difficile realtà dell’integralismo islamico. Nel novembre 1979 l’ambasciata americana a Teheran, dopo essere stata per mesi (assieme ad altre ambasciate in paesi islamici) l’o299
Storia degli ultimi cinquant'anni
biettivo di grandi manifestazioni popolari, venne invasa da studenti islamici che presero in ostaggio il suo intero personale e richiesero la consegna dello scià Riza Pahlavi. La “crisi degli ostaggi” tenne sotto tensione l’opinione pubblica statunitense per tutto il 1980, l’anno delle elezioni presidenziali. Fece parte
della campagna elettorale di Carter il tentativo compiuto in aprile di liberare i prigionieri per mezzo di un blitz contro la sede dell'ambasciata, ma l’operazione
fallì completamente (gli ostaggi saranno rilasciati soltanto nel gennaio 1981). Nel novembre successivo la grande vittoria del candidato repubblicano Ronald Reagan dipese in buona parte da ragioni di politica interna (vedi più avanti cap. 10, $ 4) ma lo scacco di Carter a Teheran
e in genere il percorso della sua politica estera giocarono anch'essi la loro parte. Benché la visione diplomatica della distensione fosse stata elaborata proprio da un presidente repubblicano e benché dal gennaio 1980 Carter avesse invece operato un completo rovesciamento di linea, Reagan poté accusare il suo av-
versario di aver disarmato militarmente e politicamente gli Stati Uniti. Oltre ad aver firmato il Salt 2, questi aveva cominciato a chiedere anche ai governi
degli stati latino-americani soggetti a dittature il rispetto dei diritti umani e aveva fatto aprire delle inchieste sull’operato della Cia in questi paesi; infine, cosa del tutto inaudita, nel luglio 1979 Carter aveva
consentito ai guerriglieri sandinisti (che prendevano il loro nome da un capo rivoluzionario attivo in Nicaragua negli anni venti) di portare a termine la loro lotta contro la famiglia Somoza, cacciando l’ultimo esponente di una tirannide che alle ruberie aveva ag-
giunto sanguinose repressioni. Le lineedi politica 300
“
mini,
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estera della nuova amministrazione repubblicana erano ben chiare: la strategia della distensione fondata sulla parità strategica fra le due grandi potenze doveva considerarsi chiusa. Gli Stati Uniti intendevano riprendere la posizione di primato politico e militare nel mondo e opporsi risolutamente al minaccioso piano rivelato dalle mosse sovietiche degli ultimi anni, in Africa, in Asia e ora anche in America Centrale, con quella replica di Cuba che era costitui-
ta dal governo sandinista del Nicaragua. Con la fine della distensione passò in second’ordine anche la diplomazia triangolare; dopo che Carter aveva inserito anche materiali convertibili ad uso militare fra le esportazioni verso la Cina, i rapporti fra Washington e Pechino si arenarono di fronte alla dichiarata volontà di Reagan di non togliere la protezione americana su Taiwan e di non cessare completamente di rifornirla di armi. Era il confronto diretto fra Stati Uniti e Unione Sovietica a tornare in primo piano, così da suggerire l’idea che era in atto una seconda guerra fredda e che il mondo doveva riadattarsi a un bipolarismo conflittuale al posto dell’equilibrato condominio, anche se non poteva più tornare
l’epoca in cui qualsiasi altro conflitto doveva ruotare attorno al rapporto fra le superpotenze. Ciò vale in particolare per la guerra che nel settembre 1980 venne scatenata dall’attacco dell’Iraq all'Iran. Prima del 1978 l'Iran aveva posseduto il maggiore potenziale bellico del Medio Oriente, ma in seguito alla rivoluzione khomeinista la sua organizzazione militare si era disfatta. L'Iraq poteva così approfittare della situazione, tentando di impossessarsi delle riserve petrolifere nella regione di confluenza del Tigri e dell'Eufrate e più ancora assu301
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mendo il controllo delle rotte del petrolio; con una forte presenza di sciiti, concentrati nelle province meridionali, e con un governo baathista “laico” (retto dal 1979 da Saddam Hussein) l'Iraq era inoltre esposto alla destabilizzazione rivoluzionaria khomeinista e vedeva nella guerra la possibilità di infliggere un colpo mortale alla vicina repubblica islamica. Questo conflitto sanguinoso, che fece centinaia di migliaia di vittime, non solo restò del tutto estraneo alla seconda guerra fredda (a differenza degli altri conflitti allora esistenti in Afghanistan, Cambogia o Angola) ma vide anzi una spontanea convergenza di Usa e Urss nell’auspicare la sconfitta dell'Iran. La scelta di Reagan di enfatizzare il confronto diretto fra le due grandi potenze ebbe l’effetto di ridare tutto il loro peso agli originari aspetti ideologici della guerra fredda, divenuti irrilevanti negli anni di
Kissinger e ripresi da Carter con il linguaggio eticoreligioso dei diritti umani: in un discorso pubblico del marzo 1983 il presidente americano fece un uso eccellente della sua lunga frequentazione del mondo dello spettacolo applicando all'Unione Sovietica la definizione di “impero del male”, che era mancata a John Foster Dulles o al Nixon degli anni cinquanta. Accanto alla guerra delle parole correva la nuova corsa agli armamenti, cui Reagan dette un nuovo im-
pulso portando le spese militari statunitensi dal 5,9 per cento del prodotto interno lordo nel 1979 al 7,1 nel 1983 (l’embargo sulle esportazioni di grano venne invece considerato poco efficace e fusubito abbandonato). | Dal novembre 1981 venivano inoltre avviate specifiche trattative sugli euromissili, rese però difficili dalla. condizione posta dal presidente Reagan, lacosiddetta
302
ba
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“opzione zero”: gli Stati Uniti non avrebbero collocato i nuovi euromissili se ’Unione Sovietica avesse ritirato i suoi SS-20 e qualunque altro missile puntato sull'Europa; a loro volta i sovietici ponevano la condizione di conteggiare in ogni caso anche i missili francesi e inglesi fra le forze nucleari occidentali. Nel novembre
1983, non appena i primi Pershing-2 e
Cruise furono giunti in Europa, i sovietici abbandonarono il tavolo dei negoziati. Contemporaneamente venivano sospese le trattative cominciate nel 1982 per una nuova riduzione delle armi strategiche, denominate questa volta con l’augurale sigla START (inizio), STrategic Arms Reduction Talks. Nel marzo 1983 Reagan aveva annunciato per la prima volta il nuovo piano militare su cui continuò a insistere negli anni seguenti. Denominato ufficialmente Strategic Defense Initiative, esso si proponeva di dar vita alla più perfetta e definitiva difesa antimissile, che avrebbe dovuto evitare il rischio della distruzione degli arsenali Usa e dell’impossibilità del “secondo colpo” e che sarebbe stato affidato a una barriera di satelliti. Il tutto veniva presentato con la descrizione di apparati così fantastici da rendere di uso comune le espressioni di “scudo spaziale” o “guerre stellari” e da far sorgere in seguito il dubbio che si trattasse di un 4/u/f propagandistico. Il costo del sistema era comunque insostenibile e la sua efficacia totale restava indimostrata; gli si poteva inoltre contestare che, una volta abbandonata la fredda logica che aveva condotto nel 1972 a ridurre al minimo i missili antimissile, si faceva risorgere la tentazione del ricorso al risolutivo “primo colpo”. Complementare all’irrigidimento nei confronti dell’Unione Sovietica fu la ricerca da parte di Reagan di occasioni per dimostrare il suo impegno antico303
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munista e, secondo la sua colorita espressione, far mostrare i muscoli agli Stati Uniti. Rientrano in questa linea di condotta gli aiuti dati (anche contro il parere del Congresso) alla controguerriglia svolta in Nicaragua dagli oppositori del governo sandinista; la spedizione militare contro il governo rivoluzionario sorto nell’isoletta di Grenada (80.000 abitanti) e l’appoggio al governo del Salvador, dove una sanguinosa guerra civile opponeva i guerriglieri di sinistra all’esercito e alle bande irregolari che impedivano con le loro stragi di contadini l’attuazione di una modesta riforma agraria. Vi rientrano anche le iniziative prese nel Medio Oriente, come il tentativo di pacificare il Libano con l’invio nel 1982-83 di una forza multinazionale, ibombardamenti del 1986 sulla Libia, accusata di proteggere il terrorismo internazionale, la
spedizione navale nel golfo persico del 1987, con lo scopo di proteggere le rotte del petrolio minacciate dal protrarsi della guerra fra Iraq e Iran. 5. L'Europa economica e gli incerti passi
dell'Europa politica Nel 1972 il passaggio da sei a nove membri, in particolare con l’adesione della Gran Bretagna, aveva accresciuto le possibilità della Comunità economica europea di svolgere una sua parte in un sistema internazionale che stava diventando multipolare. I problemi economici continuarono tuttavia a costituire il centro della vita della Cee e, verso la metà degli anni settanta,
fu piuttosto da paesi dell’area mediterranea fino a quel momento rimasti soggetti a sistemi politici autoritari
che vennero importanti novità politiche. I paesi in questione sono il Portogallo e la Spagna, 304
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dove continuavano a esistere i regimi fascisti istituiti
negli anni trenta, e la Grecia, dove l’azione della monarchia aveva reso sempre piuttosto precario lo svi-
luppo della vita democratica, fino a che nell’aprile del 1967 il re stesso era stato scavalcato da un colpo di stato militare e aveva dovuto lasciare il paese. Quello che venne denominato il “regime dei colonnelli” cercò di giustificare il proprio operato (abolizione dei partiti, arresti arbitrari, clima di terrore vicino allo stile lati-
noamericano) facendo ricorso al linguaggio ormai invecchiato della difesa dell'Occidente dal comunismo e diventò un elemento piuttosto imbarazzante per l'Europa democratica, dato che la Grecia, espulsa
dal Consiglio d'Europa, continuava a far parte della Nato. Per procurarsi una qualche forma di legittimità all’interno del paese i colonnelli instaurarono attraverso un referendum la repubblica e si volsero a una demagogica destabilizzazione di Cipro. Dopo più di ottant'anni di dominio britannico, l’isola era diventata
nel 1960 uno stato indipendente che affidava al precario equilibrio di un governo unitario le tensioni esistenti fra la comunità greca e quella turca. Il colpo di stato compiuto nel luglio 1974 dai greco-ciprioti e concordato con il regime dei colonnelli doveva preludere a qualche più grave iniziativa nazionalista, ma lo sbarco delle truppe turche portò, oltre che a una divisione di fatto di Cipro, alla caduta della dittatura e al ritorno dei partiti. Della rivoluzione portoghese dei garofani, nell’aprile 1974, già si è detto (vedi p. 287). In Spagna l’uscita dal franchismo si avviò subito dopo la morte del generale Franco, nel novembre 1975, ma era già stata preparata da tempo. La Spagna restava formalmente una monarchia e lo stesso Franco aveva riconosciuto come
attà
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legittimo futuro sovrano Juan Carlos di Borbone, nipote dell'ultimo re spodestato nel 1931. La Chiesa aveva condannato gli interventi repressivi contro gli oppositori, mentre Juan Carlos sembrava orientato a
dar vita a una monarchia costituzionale. In tutti e tre i paesi il pieno ritorno alla democrazia fu preceduto da un difficile trapasso. In Grecia il governo conservatore che garantì il pieno ritorno alla democrazia dette un seguito all’affare cipriota e ruppe la convivenza nella Nato con la Turchia decidendo di uscire dall’alleanza militare (vi rientrerà nel 1980). In Portogallo fra i capi militari che avevano realizzato la rivoluzione pacifica si rivelarono inaspettate tendenze radicali che incoraggiarono il partito comunista e i piccoli e rumorosi gruppi dell’estrema sinistra a forzare la situazione; d’improvviso il piccolo paese atlantico, membro della Nato, balzò al centro dell’attenzione mondiale come candidato a rilanciare in Europa un'idea preoccupante quanto vaga di vera rivoluzione e magari a sollecitare l’interessamento dell’Unione Sovietica. Al crescere delle tensioni sociali l’ipotesi più probabile restava però che i militari ponessero fine ai primi tentativi di vita democratica. Pur restando politicamente piuttosto instabile, il Portogallo fece pro-
prie le regole del gioco, si abituò alle frequenti elezioni anticipate e all’alternanza fra governi di centro e governi socialisti e vide scomparire i rischi più estremi. In Spagna, infine, il passaggio alla monarchia costituzionale, con la legalizzazione di tutti i partiti compreso quello comunista, avvenne mentre raggiungeva il culmine la protesta nazionalista e separatista dei catalani e più ancora dei baschi, esprimendosi anche nella forma del terrorismo. La costituzione del 1978 e l'ulteriore riforma del 1983 crearono un sistema di 306
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ampie autonomie provinciali e regionali e dettero un pieno riconoscimento alle particolarità storiche dei Paesi Baschi (le cui organizzazioni terroristiche continuarono però a restare attive, anche se sempre più iso-
late) e della Catalogna, nonché della Galizia e dell’Andalusia. Nel 1982 la Spagna aveva riacquistato il suo posto nella comunità internazionale, sostituendo la piena adesione alla Nato al sotterfugio escogitato a suo tempo dagli Stati Uniti per aggirare la repulsione degli stati europei, la partecipazione esterna attraverso un trattato bilaterale. L'ammissione dei tre paesi alla Comunità economica europea fu il naturale sviluppo della stabilizzazione democratica: la Grecia aderì al trattato della Cee nel 1979, dopo quattro anni di negoziati; la Spagna e il Portogallo, che avevano avanzato la loro candidatura già nel 1977, seguirono nel 1985. Le sole ragioni del ritardo erano di carattere strettamente economico, essendo costituite dai timori italiani e francesi per la concorrenza che i nuovi stati membri avrebbero esercitato nelle produzioni agricole. Queste lungaggini rappresentavano bene la tendenza della Cee a restare limitata all'ambito economico e a restare bloccata ogni volta che gli stati membri avvertivano che loro specifici interessi potevano essere lesi, superando gli stalli solo attraverso accordi di enorme complessità tecnica; il loro significato europeistico, anche nel senso più modesto della parola, restava piuttosto dubbio. Di significato appena simbolico era stata nel 1979 la prima elezione a suffragio diretto del Parlamento europeo (decisa già nel 1975 con scadenze quinquennali, in sostituzione dell’ Assemblea della Cee nominata dai parlamenti nazionali), dato che i poteri di quest’organo restavano molto limitati e che per gli elettori dei 307
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singoli stati non esistevano tematiche propriamente
europee capaci di orientare il loro voto. Il futuro della Comunità europea restava d’altra parte legato alle scelte politiche dei governi in carica nei maggiori paesi. Nel 1982 si registrarono due pas-
saggi di consegne. In Germania l'uscita dei liberali dalla coalizione con i socialdemocratici condusse a una nuova coalizione fra i due partiti democraticocristiani e i liberali, guidata dal leader della CDU Helmut Kohl e confermata dal successo elettorale dell’anno successivo. In Francia (dove nel 1974 il liberale V. Giscard d’Estaing era succeduto al gollista Pompidou) le nuove elezioni presidenziali furono vinte dal socialista Francois Mitterand. Se nessuno dei due apportò significativi mutamenti alla politica estera dei predecessori, lo stesso non si può dire per un terzo mutamento di governo, che si era registrato in Inghilterra già nel 1979 con l'avvento del governo conservatore guidato da Margaret Thatcher. Già i governi a guida laburista in carica dal 1974 si erano dimostrati scarsamente convinti della partecipazione del loro paese alla costruzione comunitaria, ma con la Thatcher si rivelò ancora più nettamente la resistenza britannica all'integrazione europea. Dapprima la signora Thatcher ottenne una sostanziale (e in gran parte giustificata) riduzione della partecipazione britannica alle spese comunitarie, successivamente oppose più volte il voto negativo del suo paese alle proposte di dare nuovi obiettivi politici alla Comunità economica. Una importante premessa in questa direzione (ma rimasta per anni senza seguito) si era avuta nel 1974,
quando accanto al principale organo della Cee (il consiglio dei ministri incaricati degli affari comunita308
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
| ri) erano state poste le periodiche riunioni del Consiglio europeo, formato dai capi di stato o di governo dei paesi membri. La svolta più profonda si ebbe solo nel 1985, quando Jacques Delors, appena nominato presidente dell’organo esecutivo della Cee, la Commissione (vedi p. 154), si fece assertore di un complesso progetto di ridefinizione della strategia comunitaria. Dopo il completamento dell’unione doganale, avvenuto già dal 1° luglio 1968 (nessuna barriera tariffaria fra ipaesi membri e le stesse tariffe nei confronti dell’esterno), le proposte di Delors toccavano altri obiettivi economici sui quali torneremo più avanti (vedi cap. 10, $ 3); ma la discussione si era
ormai estesa anche a obiettivi del tutto nuovi, in particolare la ricerca di una politica estera comune. Battendo con un voto a maggioranza (7 contro 3) l’opposizione dell'Inghilterra (e anche della Danimarca e della Grecia), il Consiglio europeo decise nel giugno 1985 di convocare una conferenza incaricata di stendere un progetto di riforma dei vecchi trattati che erano alla base della Cee. La conferenza si svolse a Lussemburgo e produsse in dicembre un documento denominato Atto Unico che ebbe nel febbraio 1986 le firme dei governi europei, nel frattempo passati a dodici, ed entrò in vigore l’anno successivo. L’Atto Unico deludeva in parte gli europeisti più convinti, dando al Parlamento minori poteri di quanto essi speravano e ampliando ma non rendendo regola fissa i casi di ricorso al voto a maggioranza qualificata in luogo dell’unanimità nel Consiglio europeo. L’unanimità valeva in particolare nel campo della cooperazione in politica estera, ma era ‘un'innovazione decisiva che le riunioni dei ministri ‘ degli esteri dei paesi membri diventassero una regola
È.
309
Storia degli ultimi cinquant'anni
statutaria; lo stesso valeva per la dichiarazione, seppure assai indefinita, circa la sicurezza collettiva, che,
dopo i tempi della CED (vedi p. 99), per la prima volta si riferiva a una politica di difesa distinta da quella condotta all’interno della Nato. Sul finire degli anni settanta si erano in effetti manifestate in entrambi i settori significative divergenze fra l'Europa e gli Stati Uniti. Gli stati europei, che già avevano manifestato scarso entusiasmo per l’impegno americano in Indocina, consideravano, a cominciare \dalla Germania, la distensione in funzione di
più intense relazioni economiche con i paesi del blocco orientale ed erano convinti che da tale intensificarsi sarebbero derivati ulteriori stimoli alla distensione; perciò avevano giudicata come impolitica la questione dei diritti umani sollevata da Carter sin dal principio del suo mandato (e nel 1980 non lo avevano seguito nel boicottaggio delle olimpiadi di Mosca). A maggior ragione aveva ingenerato dubbi lo stile di politica estera praticato da Reagan, non solo verso l'Unione Sovietica. Anche se in diversa misura, gli europei avevano condannato l’aggressione israeliana al Libano e vedevano crescere il peso delle ragioni dei palestinesi; ugualmente intendevano mantenere buoni rapporti con i paesi del Medio Oriente e cercare di riallacciarli anche con l’Iran e pensavano che atti come l’attacco americano alla Libia del 1986 non erano il modo migliore per opporsi al terrorismo internazionale. La seconda questione, quella della difesa, restava un punto cruciale. Fra gli elementi di asimmetria del sistema bipolare vi era stato sin dal principio il fatto che, mentre le minacce dirette fra Usa e Urss anda-
vano commisurate alla distanza che esisteva fra i du 310
Il sistema internazionale fra policentrismo e II guerra fredda
‘paesi, l'Europa occidentale si trovava a portata di mano
dell’Unione Sovietica; con la Nato gli Stati
Uniti ponevano la difesa dell'Europa fra i loro interessi vitali, assumendosene il grosso delle spese, e in
cambio chiedevano l’allineamento europeo alle loro scelte politiche. L’immagine che gli stati europei (con l'eccezione della Francia, fiduciosa nella sua force de frappe) avevano dell’equilibrio strategico non era cambiata nel corso degli anni: la Nato proteggeva l'Europa con un “ombrello nucleare” e finché il principio della deterrenza restava efficace non c’era nulla da temere, a maggior ragione dopo i risultati della Ostpolitik. Così gli stati europei (tranne la Gran Bretagna) si dimostrarono piuttosto restii ad accrescere le loro spese militari: in termini di percentuale sul prodotto interno queste erano nel 1982 in Germania meno della metà di quelle statunitensi e in Italia un po’ più di un terzo. Ma con l’aggravarsi della questione degli euromissili questa percezione cambiava e comparivano le contraddizioni di fondo della politica europea (alleanza con gli Usa ma con ridotti costi, buoni affari con l'Unione Sovietica), risolvibili solo se fosse esi-
stita anche un’autonoma politica di difesa. È vero che i Pershing-2 e i Cruise erano installati per difendere l'Europa, ma col crescere delle tensioni fra Usa e Urss ci si rendeva conto d’improvviso che crescevano anche i rischi che la prossima guerra venisse combattuta soprattutto in Europa nella forma di una guerra nucleare limitata. Ciò spiega perché i governi europei non condannarono come asservite alla propaganda sovietica le grandi manifestazioni pacifiste del 1982-83 (a differenza di quanto era accaduto per quelle del 1949-50). Ancora maggiore fu la preoccu-
È
311
Storia degli ultimi cinquant'anni
pazione ingenerata dal progetto di “scudo spaziale”, con il quale gli Stati Uniti avrebbero attuato una difesa totale del loro territorio venendo tentati di diminuire il loro interesse per gli affari europei. Alla fine gli stati europei (tranne la Francia) non poterono far altro che accettare l’installazione degli euromissili. Alla resa dei conti l'Europa aveva dovuto, anche se malvolentieri, riallinearsi nella logica del bipolarismo.
Bibliografia Choueiri Y.,.I{ fondamentalismo islamico (1990), il Mulino, Bologna 1993 Dassù M., a c. di, La frontiera difficile. Evoluzione e prospettive delle relazioni fra Urss e Cina, Editori Riuniti, Roma 1986 Kissinger H., Anni di crisi (1982), SugarCo, Milano 1982 Mammarella G., L'America di Reagan, Laterza, Roma-Bari 1988
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312
10. Crisi dei modelli di sviluppo, 1970-1986
1. Il crollo del sistema monetario internazionale
Tra i fattori che avevano favorito lo sviluppo economico degli anni cinquanta e sessanta, eccezionale per continuità e intensità, vi era stato il sistema monetario internazionale istituito nel 1944 a Bretton Woods e basato sui due principi di stabilità costituiti dai cambi fissi fra le monete e dal ruolo centrale del dollaro. Il primo di questi principi era stato violato nel 1967, quando il governo britannico si era reso conto di non essere più in grado di garantire il tasso di cambio con il dollaro e, anche allo scopo di stimolare le esportazioni, aveva svalutato la sterlina del 14,3 per cento, in una misura ben superiore all’aggiustamento dell’1 per
cento consentito dagli accordi di Bretton Woods. L'efficacia del secondo era dipesa a sua volta dalla forza dell'economia statunitense, che aveva mostrato col
procedere degli anni sessanta di non essere più incontestata. Questa fatto aveva due cause distinte: da un
lato il peso delle spese militari degli Usa, dall’altro la maggiore vivacità delle due economie rivali, quella del Giappone e quella della Cee. Sotto il primo aspetto è sufficiente ricordare che ne«gli anni cinquanta truppe e basi statunitensi si trovavano in un gran numero di paesi europei e asiatici e che dal 1964 si erano aggiunti i costi crescenti della
. guerra in Vietnam. Sotto il secondo aspetto alcuni dati D13
Storia degli ultimi cinquant'anni
significativi ci dicono che la quota degli Stati Uniti nelle esportazioni mondiali di manufatti, pari nel 1948 al 34 per cento, era scesa nel 1960 al 25 per cento e nel 1970 al 19,6. Prendendo solo un settore strategico
come quello delle esportazioni di veicoli a motore, le esportazioni Usa erano scese fra il 1962 e il 1970 dal 22,6 per cento del totale mondiale al 17,5. Nel 1973 il valore delle esportazioni di manufatti della Cee (considerando solo i sei membri originari) era circa il triplo di quello degli Usa; la Germania occupava il primo posto nella graduatoria mondiale e dopo gli Usa al terzo posto veniva il Giappone. Gli Stati Uniti conservavano il primo posto nelle esportazioni totali solo perché erano di gran lunga i primi esportatori mondiali di grano. Restava ancora indiscusso il primato tecnologico degli Stati Uniti e quello che gli derivava dalla presenza in Europa e nel mondo delle sue società multinazionali e degli investimenti variamente distribuiti nei settori dell’industria, del commercio, del petrolio,
dei prodotti minerari di base. Ma era stata proprio
questa forte presenza mondiale a provocare e a rendere ben visibili dalla metà degli anni sessanta alcuni squilibri destinati a influire sul sistema monetario internazionale. Già dal 1958 i molteplici impegni esterni degli Stati Uniti (prestiti e aiuti ai paesi amici, investimenti, basi militari) avevano portato in deficit la
loro bilancia complessiva dei pagamenti. Dopo il 1965 si era poi progressivamente ridotto l’attivo della bilancia commerciale (relativa all’import-export di merci), fino a che negli ultimi mesi del 1971 non si era registrato un consistente deficit, che negli anni suc-
cessivi diventerà un elemento strutturaleeimmodifi-
cabile dell'economia statunitense. Ma glieffetti della
314
de
|
Crisi dei modelli di sviluppo
situazione descritta si erano fatti sentire già da prima sul sistema monetario. Fra i principi basilari del sistema di Bretton Woods vi era l'obbligo per gli Stati Uniti di convertire in oro i dollari secondo il rapporto un’oncia d’oro per 35 dollari (vedi p. 6) e il presupposto che il dollaro si mantenesse stabile rispetto all’oro. Dalla fine degli anni quaranta la distribuzione nel mondo dei dollari attraverso i canali dei prestiti, investimenti e spese militari all’estero era stata un motore dello sviluppo economico mondiale, favorendo le industrie statunitensi di esportazione e consentendo la ricostruzione industriale nei paesi beneficiari; ma nel corso degli anni sessanta la massa dei dollari collocati fuori degli Usa e in particolare quella dei cosiddetti eurodollari crebbe fino al punto di essere parecchie volte superiore al totale delle riserve d’oro dei paesi che aderivano al Fondo monetario internazionale e di rendere impensabile che se ne potesse chiedere la conversione a vista. Già alla fine del 1961 era chiaro che le richieste di conversione facevano andare il valore di mercato dell’oro al di sopra della quotazione ufficiale di 35 dollari l’oncia. Le maggiori banche centrali (quelle degli Stati Uniti e di sette paesi europei) dovettero allora concordare una politica comune di sostegno del rapporto dollaro/oro, realizzata attraverso opportuni acquisti e vendite di oro o valute, che per-alcuni anni sembrò raggiungere l’obiettivo principale. Il “pool dell’oro” non riuscì però a impedire l’ulteriore crescita della massa degli eurodollari e la riduzione delle riserve auree degli Stati Uniti; dal 1965, inoltre, il dollaro fu soggetto a un tasso di deprezzamento più elevato di quello delle monete europee e gli eurodollari
trasferirono in Europa queste tensioni inflazionisti-
,
315
Storia degli ultimi cinquant'anni
che, accrescendo la propensione a convertire in oro la moneta statunitense. Questo fu in particolare l’orientamento della Francia (coerente con l’indirizzo di politica estera e di difesa autonomo dagli Usa), che nel 1967 uscì del tutto dal “pool dell’oro”. L'anno successivo il consorzio stesso dovette rinunciare ad accettare
dollari da chiunque al corso di un’oncia d’oro per 35 dollari (invece dei più realistici 37 o 38) e conservò il corso ufficiale solo nei rapporti fra banche centrali, mentre venivano affidate alle fluttuazioni del mercato le operazioni compiute dai privati. Questa situazione di doppio mercato non poteva che essere provvisoria. Gli stati europei avevano smesso di farsi carico del mancato mutamento della politica economica statunitense, dovuto in particolare al
protrarsi della guerra d’Indocina, ma dal punto di vista di Washington erano piuttosto gli Stati Uniti che si facevano carico della difesa del mondo libero dal comunismo. Restava un’altra via, quella annunciata il
15 agosto 1971 dal presidente Nixon: gli Stati Uniti, rompendo gli accordi di Bretton Woods, sospendevano la convertibilità del dollaro; inoltre, per fronteggiaTabella 13. Riserve ufficiali di oro (in miliardi di dollari) e ripartizione fra i paesi aderenti al Fondo monetario internazionale, 1948-1970
riserve Totale
1948 33.1 195838 14970) "13:4.2
. Usa
ripartizione percentuale Usa
DA ue US 20,6. 54,2 1i:1i 208
Cee
G. Bretagna
4,3 17,8 36,7
4,9 7A 3,6
Fonti: G. Stammati, I/ sistema monetario internazionale, Borin-
ghieri, Torino 1973, cap. 1.
316
Crisi dei modelli di sviluppo
re il deficit della bilancia commerciale che si stava profilando, veniva introdotta una tassa del 10 per cento sulle merci importate. Nel dicembre dello stesso anno le autorità monetarie dei maggiori paesi accettarono la proposta statunitense di svalutare il dollaro del18,57% rispetto all’oro (1 oncia = 38 dollari) e in una misura compresa fra il 16,9 (per lo yen) e il 7,5 (per la lira italiana) rispetto alle valute estere. Restava l’inconvertibilità del dollaro, ma in cambio veniva ritirata
la misura protezionistica. Questo nuovo accordo fu però di breve durata; nel febbraio 1973 seguì una nuova svalutazione del dollaro, che fece passare l’oncia d’oro a 42,22 dollari (e che stimolò le esportazioni
Usa riportando per quell’anno in pareggio la bilancia commerciale). Di fatto stava per venir meno ogni riferimento all’oro e i rapporti di cambio fra le monete sarebbero stati presto lasciati fluttuare liberamente.
2. Dalla crisi petrolifera alla ‘crisi generale Accanto al sistema di Bretton Woods un secondo pilastro dello sviluppo economico era stata l’illimitata disponibilità a basso prezzo del petrolio, che nel 1970 (mettendo da parte il suo ruolo di primo piano nell'industria petrolchimica) era diventato la più importante fonte di energia, in forma diretta, come carbu-
rante per i motoveicoli, o indiretta, per produrre energia elettrica. Anche in seguito all’accresciuta produzione di gas naturali, la posizione del carbone si era via via ridimensionata (vedi cap. 5, $ 1, tabella 6) lascian-
do i paesi industriali in una situazione di potenziale dipendenza dai paesi produttori di petrolio. A differenza di quelle del carbone, le risorse di petrolio erano distribuite in maniera assai disuguale nel mondo: con 317
Storia degli ultimi cinquant'anni
l'eccezione degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica (che doveva però andare a cercarle sempre più lontano dai luoghi di dislocazione delle industrie), i paesi industrializzati ne erano del tutto privi, mentre abbon-
davano in diversi paesi del Terzo mondo, a volte sottopopolati come l’Arabia Saudita, a volte con una popolazione in rapida crescita come l'Iran. Anche gli Stati Uniti, che un tempo erano stati i maggiori espor-
tatori del mondo, avevano comunque perduto la loro autosufficienza energetica. I bassi costi del petrolio avevano fatto ridurre la produzione di carbone, che nel 1973 rappresentava il 19 per cento dei loro consumi energetici (contro il 51 per cento del 1951); nello stesso anno il 36 per cento dei consumi di petrolio era soddisfatto tramite l'importazione da paesi del Terzo mondo (Venezuela, Iran, paesi arabi). Dalla fine degli anni cinquanta si erano verificati diversi cambiamenti nel mercato mondiale del petrolio. Nel 1960 si era costituita, con lo scopo essenziale
di condurre una politica di sostegno dei prezzi, l'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec, secondo la sigla inglese), che arrivò alla fine a contare tredici membri: i sei paesi del golfo Persico (Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Iran), Algeria, Libia, Nigeria, Gabon, Indonesia, Ve-
nezuela, Ecuador. Se l'Opec non era riuscito a spuntarla contro le grandi compagnie, i nuovi numerosi produttori indipendenti (come la compagnia statunitense di Paul Getty o l'italiana Eni) avevano cominciato a cambiare le regole offrendo ai produttori più del consueto 50 per cento dei profitti e conquistando una parte del mercato del greggio. Gli stati produtto-
ri avevano così imparato a sfruttare megliola loro ricchezza, in parte aumentando attraverso una più alta 318
Crisi dei modelli di sviluppo
imposizione fiscale la quota di loro spettanza e anche basando l’imposizione su prezzi ufficiali più elevati di quelli di mercato, in parte nazionalizzando le attività delle compagnie (come accadde fra il 1966 e il 1971 in Indonesia, Algeria e Libia). L'Europa che (assieme al Giappone) dipendeva totalmente dalle importazioni dai paesi arabi e in particolare dal golfo Persico dovette rendersi conto della precarietà della sua situazione al tempo della guerra dei Sei giorni nel 1967, quando l'Egitto, come ritorsione contro chi appoggiava Israele, bloccò il canale di Suez. L'aumento nei costi di trasporto (conseguente alla necessità di sostituire la più lunga rotta del Capo a quella mediterranea) fu rapidamente assorbito dal ricorso alle superpetroliere, che già un anno dopo superavano la stazza di 300000 t e nel 1973 avrebbero superato le 500000. La prima occasione in cui si
vide la forza dell’Opec fu nel gennaio 1972, quando l’organizzazione impose alle compagnie di adeguare il prezzo del greggio alla svalutazione del dollaro decretata due mesi prima. Ugualmente alla seconda svalutazione del dollaro seguì nel giugno 1973 un nuovo adeguamento del prezzo. Con il dollaro in fluttuazione libera e soggetto a un tasso di inflazione superiore al 5 per cento, l'Opec chiese alle compagnie di ridiscutere nuovamente i prezzi. Il 6 ottobre 1973, alla vigilia dei colloqui di Vienna, la sede dell’organizzazione, scoppiava la quarta guerra arabo-israeliana (vedi cap. 8, $ 1). Si vennero a questo punto a intrecciare due distinte vicende. Mentre l'Opec chiedeva una sostanziale revisione dei prezzi, i paesi arabi intendevano usare l'arma del petrolio contro Israele e i suoi alleati. Conclusosi con una rottura l’incontro di Vienna, i soli membri arabi
319
Storia degli ultimi cinquant'anni
dell’Opec tornarono a riunirsi nel Kuwait, annunciando simultaneamente un aumento del 70 per cento del prezzo del greggio e la progressiva riduzione della produzione, fino a che Israele non avesse abbandona-
to i territori occupati nel 1967; l’Arabia Saudita andò ancora più lontano e, mettendo da parte il suo principale rapporto d’alleanza, pose l'embargo totale nei confronti degli Stati Uniti e anche dell'Olanda. Due mesi più tardi i paesi del golfo si incontrarono nuovamente a Teheran e, nonostante l'opposizione del rappresentante dello scià e le perplessità del ministro del petrolio saudita, stabilirono un raddoppio netto del prezzo, cui si adeguarono tutti i paesi produttori.
L’embargo nei confronti degli Stati Uniti durò solo sei mesi, dato che il petrolio dei paesi arabi rappresentava solo il 6-7 per cento dei loro consumi e poteva essere sostituito da maggiori importazioni dal Venezuela. Assieme all'aumento del prezzo del greggio l'embargo era stato comunque sufficiente a far scarseggiare la benzina, ma ben più gravi furono le conseguenze del blocco solo parziale esercitato sull'Europa e il Giappone. Dato il ruolo strategico del petrolio, tutti i prezzi furono sollecitati dal suo rincaTabella 14. Prezzo ufficiale del petrolio greggio arabo, 1970-1980. Dollari per barile (159 litri)
1970 Febbr. 1971
1,7 2,1
23 dic. 1973 1978
11,65 14,5-15
Genn. 1972
24
Giu, 1979
18
Giu. 1973 16 ott. 1973
3,0 5,12
Dic. 1979. Dic. 1980
24 32,5
Fonti: A. Sampson, Le Sette sorelle (1975), A. Mondadori, Milano 1976.
;
320
Crisi dei modelli di sviluppo
ro, mettendo in particolar modo in difficoltà un’indu-
stria come quella automobilistica, che aveva tratto vantaggio dagli anni della benzina a buon mercato. Più in generale le decisioni dell’Opec avevano l'effetto di trasferire di colpo un enorme potere d’acquisto dai paesi sviluppati ai paesi esportatori di petrolio. Nei primi la riduzione dei redditi reali e quindi delle risorse disponibili per la domanda provocò nel 1974 e ancor più nel 1975 una forte riduzione nella produzione industriale (gli indici generali del prodotto interno sono meno sfavorevoli, includendo anche il settore agricolo e il terziario). I petrodollari di cui vennero a disporre i secondi non crearono invece una domanda supplementare di beni capace di compensare la caduta di quella dei paesi sviluppati; fecero invece comparire considerevoli flussi finanziari dai paesi petroliferi a quelli industriali, con investimenti nei più diversi settori della produzione e dei servizi. Ovunque si ebbe sul momento l’impressione di essere giunti alla fine di un’epoca e Tabella 15. Produzione manifatturiera nel 1974-75 e 198082 nei maggiori paesi industriali. Variazioni percentuali a prezzi costanti, rispetto all'anno precedente 9741975: Usa
1980.1981
‘1982
0
-10,6
-45
+24
=
+38
+14
0
—1,7
—6
Giappone
-3,1
-113
REFT
-2,6
-59
Francia
+23
—-88
0
Italia
+39
—-7,6
+56
G. Bretagna
=27
55
7 —3;8
0 . -2,6
+1,8
-23
-23
7
+1,1
Fonti: ISTAT, Compendio Statistico Italiano, Roma 1977, p. 396;
1983, p. 385; 1984, p. 401.
20
Storia degli ultimi cinquant'anni
le autorità politiche dovettero pensare a ridurre i consumi di energia, limitando la circolazione dei veicoli e introducendo sovrattasse sulla benzina. Ancora per un momento la battaglia vinta dall'Opec sembrò dimostrare che la prosperità dei paesi ricchi era dipesa dallo sfruttamento delle risorse del Terzo mondo e preludere a un’analoga ribellione dei paesi produttori di beni primari e in particolare di materie prime minerali. Ma le cose non andarono così perché la possibilità di formare un cartello come quello dell’Opec non esisteva al di fuori del petrolio. I prezzi reali dei minerali, che già dalla fine degli anni sessanta avevano avuto una tendenza all’aumento, conobbero effettivamente un nuovo rialzo nel 1974;
ma dall’anno successivo anche le materie prime furono coinvolte nella crisi dei paesi industrializzati e i loro prezzi entrarono in una fase di discesa che non si
è più arrestata. D'altra parte tutti i paesi del Terzo mondo che non possedevano petrolio e neppure minerali strategici (per i quali si cominciò ad adottare spesso la denominazione di “quarto mondo”) furono a maggior ragione coinvolti dal rincaro del petrolio e videro frustrati gli sforzi di sviluppo compiuti nel decennio precedente. Dopo i rincari del 1973 per circa cinque anni i paesi dell’Opec si limitarono ad adeguare i prezzi del petrolio al potere d’acquisto del dollaro e nel 1978 i prezzi reali risultavano anzi discesi di circa 1’11 percento. Ma la rivoluzione iraniana, cominciata nel settembre di
quell’anno, ebbe l’effetto di interrompere uno dei più importanti flussi di esportazioni e di ridurre l’offerta internazionale, dando ai paesi produttori l’occasione per una serie di nuovi aumenti che entro la fine del 1980 fecero raggiungere al petrolio il più alto prezzo 322
-
Crisi dei modelli di sviluppo
reale e innescarono nel 1980-82 una nuova crisi eco-
nomica con caratteri simili a quella del 1974-75. 3. Gli anni della stagflazione Nel complesso dei paesi dell’Ocse il periodo 19501973 aveva visto una crescita media annua reale del prodotto interno lordo del 4,9 per cento. Nel successivo periodo 1974-1982 la crescita media si ridusse al 2,2 e vi furono due anni su nove di grave crisi e altri tre di recessione, così che nel complesso si può parlare di una prolungata stagnazione. Ma, a differenza di quanto era accaduto in passato durante altre fasi di forte rallentamento nella crescita, alla contrazione della produzione,
degli investimenti e dell'occupazione non corrispose una tendenza al raffreddamento dei prezzi e alla deflazione. Al contrario, in questi anni l'aumento dei prezzi al consumo dei paesi dell’Ocse fu mediamente di oltre il 10 per cento e superò il 13 per cento nel 1974 e nel 1980; se, dopo il trauma iniziale, la Germania e (con
minor successo) il Giappone fecero di tutto per contenerla, altri paesi come la Gran Bretagna e l’Italia superarono anche il 19 o 20 per cento. Ancora più forti
furono gli aumenti nei più sensibili prezzi all'ingrosso, che avevano reagito immediatamente al rincaro del petrolio facendo più che triplicare già negli ultimi tre mesi del 1973 il tasso di inflazione (da una media Ocse di circa il 4 per cento al 14-15 per cento) e crescendo anche del 30 o 40 per cento nel 1974. Stagnazione e inflazione, dunque, invece di risultare incompatibili, procedettero di pari passo, creando uno stato di cose che la teoria economica non aveva ‘ preso in considerazione e che dovette essere denominato con il nuovo termine di “stagflazione”.
è
323
Storia degli ultimi cinquant'anni
Tabella 16. Aumento dei prezzi al consumo nei maggiori paesi dell’Ocse, 1961-1982
1961-65 1,6 Dal DS)
1967-73 4,6 6,4 DIS
1974 11,0 2531 7,0
1974-82 9,0 84 5,0
Francia
4,2
5,4
197
TLO
Italia G. Bretagna
DZ 3,6
4,5 6,4
19,4 24535
17,0 14,7
Ocse
2,6
5,0
15.a
10,1
Usa Giappone RET
* Dato relativo al 1975 Fonti: A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, il Mulino,
Bologna 1998, pp. 77 e 110; ISTAT, Compendio Statistico Italiano, Roma, anni vari.
Fra gli economisti esisteva pieno accordo sul fatto che l’inflazione incontrollata fosse in ogni caso un male, perché accresceva la conflittualità sociale, de-
motivava il risparmio e andava contro gli investimenti, favoriva la speculazione a danno della crescita reale. Tuttavia, la dottrina prevalente, fondata sul prestigio di Keynes e divenuta parte del buon senso, suggeriva che un moderato aumento dei prezzi, dell’1 o 2 per cento annuo o anche un po’ di più, evitava che si mantenessero risorse non utilizzate ed era favorevole agli investimenti e quindi all'espansione. Negli anni cinquanta e sessanta tutti i paesi sviluppati (compresa la Germania, che più di ogni altro teneva alla stabilità della propria moneta) avevano fatto ricorso a politiche economiche fondate anche sul deficit della spesa pubblica (vedi p. 141); ciò aveva fatto sì che i tassi di cre-
scita del prodotto fossero costantemente più alti di quelli dell’inflazione. 324
Crisi dei modelli di sviluppo
È fuori questione che alla base della stagflazione vi furono le impennate dei prezzi del petrolio. Va osservato però che gli aumenti stabiliti dall’Opec nel 197173 erano venuti dopo che si era già verificata una tendenza all’inflazione, divenuta via via più intensa fra il 1967 e il 1973. Negli stessi anni rallentavano significativamente i tassi di sviluppo nei paesi industrializzati, salvo che in Giappone e in Germania. Questo rallentamento era particolarmente evidente negli Stati Uniti (+ 4,9 per cento medio annuo nel 1960-66 e +3,1 nel
1967-73) e si manifestava assieme all'aumento del tasso di inflazione. Il 1970, quando la recessione del 0,3 per cento si era combinata con l’inflazione del 5,8, era
già a pieno titolo un anno di stagflazione. Fu a questo punto, dunque prima della crisi petrolifera e mentre si preparava la fine del sistema di Bretton Woods, che il nuovo termine entrò nell’uso, negli Stati Uniti e in Furopa (ma la sua coniazione era ancora anteriore, dato che l’Oxford English Dictionary, vol. XVI, 1989,
oltre alle attestazioni per il 1971, è riuscito a trovarne una che risale al 1965). Il decennio della stagflazione sottopose a erosione con l'inflazione tutti i redditi fissi e con le sue due crisi economiche maggiori provocò una forte impennata della disoccupazione, che venne solo in parte riassorbita fra il 1975 e il 1978, nell’intervallo fra una crisi e
l’altra. Con ciò vennero meno altri due elementi essenziali del precedente sviluppo ventennale, il pieno impiego e la pace sociale. Se la moltiplicazione degli scioperi ebbe scarsa influenza sulle tendenze di fondo dell’occupazione, la forza dei sindacati fu in grado di salvare sostanzialmente i salari, che poterono usufruire a fondo dei sistemi protettivi istituiti negli anni del Welfare State, l'indicizzazione dei salari e le indennità 325
Storia degli ultimi cinquant'anni
di disoccupazione. Questi sistemi, che avevano svolto le loro funzioni di fronte a tassi di inflazione limitati e alle variazioni congiunturali dell'occupazione, divennero negli anni settanta un fattore autonomo di inflazione, accrescendone continuamente la spirale. Nello stesso senso giocarono gli ordinari comportamenti suscitati dall’inflazione (liberarsi del denaro che si svaluta, contrarre debiti, dato che l’inflazione gioca sem-
pre a favore dei debitori) e ogni altra propensione a difendersi ricorrendo all’indicizzazione (dei tassi di interesse o ‘dei canoni di affitto). Nessuno degli stati che aderivano al Gatt, anch'esso un pilastro dell’epoca dello sviluppo, si orientò a difendere il proprio mercato rimettendo in vita tariffe protezionistiche e anzi nel 1979 vennero firmati nuovi accordi sulla riduzione dei dazi. Ma, accanto alla politica di svalutazione monetaria conseguente alla fine di Bretton Woods e in grado di dare momentanei sollievi alla bilancia commerciale, divenne sempre più frequente il ricorso alle restrizioni non tariffarie sulle importazioni. Accanto alla legislazione che imponeva determinate caratteristiche ai prodotti, come garanzia alla salute del consumatore o in difesa dell'ambiente, si diffusero gli accordi cosiddetti volontari di limitazione delle esportazioni imposti ai paesi più deboli e gli accordi di compensazione, che ammettevano i prodotti di un altro paese solo se questo a sua volta era disposto ad accrescere le sue importazioni.
Gli stessi provvedimenti anticrisi adottati in principio dai governi non riuscirono a percepire la profondità della svolta in atto e aggravarono la situazione. Un esempio di ciò è offerto dagli Stati Uniti, dove l’amministrazione repubblicana guidata da Gerald Ford
non si sentì di alleggerire la bilancia dei pagamenti 326
Crisi dei modelli di sviluppo
disincentivando con sovrattasse i consumi di benzina e cercando di ridurre le importazioni petrolifere. La benzina a buon mercato e lo sperpero di energia attraverso l’uso universale di automobili di grossa cilindrata erano troppo radicati nell’ Arzerican Way of Life perché un presidente osasse sfidarli. Vi era poi il rischio di aggravare la crisi del settore automobilistico, che oltre agli addetti diretti dava lavoro a diversi milioni di persone nell'indotto e aveva un ruolo primario nel sostenere i settori della metallurgia e della gomma sintetica per gli pneumatici. Per conseguenza, passata la grave crisi del 1974-75, il settore degli autoveicoli ebbe una rapida ripresa e conobbe anzi nel 1977 il record di tutti i tempi, con la produzione di 11 milioni di autovetture e più di 4 milioni di veicoli industriali e commerciali. Crebbero però le importazioni di petrolio e la bilancia commerciale tornò in forte passivo nel 1976; il nuovo presidente Carter si risolse allora ad aumentare il prezzo della benzina e a colpire i profitti delle compagnie Tabella 17. Andamento dell’occupazione nell’industria automobilistica Usa, 1966-1982. In migliaia di unità
1966 1973 1975 1978 1980 1981 1982
Totale
Michigan
861,6 976,5 7924 1004,9 788,8 783,9 704,8
381,9 399 3249 409,6 3320 319,6 287
Detroit 236 248 199 252 192 i 178 167
Fonti: J. Agnew, Gli Stati Uniti nell'economia mondiale (1987), E. Angeli, Milano 1989, p. 214.
327
Storia degli ultimi cinquant'anni
petrolifere. Cadde allora nuovamente la produzione di autoveicoli, precipitando con l’arrivo della nuova crisi generale del 1980. 4. Le strategie anticrisi e il rovesciamento delle politiche economiche
Gli insuccessi nella politica estera (aumento della potenza sovietica, perdita dell'influenza in Iran, crisi de-
gli ostaggi di Teheran) e ancor più la crisi economica determinarono una netta sconfitta dei democratici alle elezioni del novembre 1980. La delusione e il disorientamento del loro elettorato portò l'astensionismo elettorale a livelli patologici e dette la vittoria al repubblicano Ronald Reagan, la cui amministrazione impresse alla politica economica un rovesciamento non meno netto che alla politica estera. Gli economisti che, come Friedrich Hayek e Milton Friedman (insi-
gniti del premio Nobel nel 1974 e 1976), avevano continuato ad avversare le dottrine di Keynes e Beveridge per tutti gli anni del trionfo del deficit spending e del Welfare State, avevano finalmente trovato un presi-
dente disposto a seguirli. Gli effetti perversi dell’inflazione venivano denunciati con forza e a essa si opponeva la terapia monetarista, consistente nel rendere il
denaro più caro elevando i tassi di interesse; le cause di fondo del fenomeno, al di là delle impennate del petrolio, venivano rintracciate nella rigidità dei salari,
nello strapotere dei sindacati e nell’eccesso della spesa pubblica. Le prime due di queste cause venivano già aggirate, dalla fine degli anni sessanta, trasferendo le
produzioni ad alta intensità di lavoro negli stati americani del Sud, dove i costi del lavoro erano più bassi, o
(aggravando la disoccupazione interna) in qualche
328
“a
Crisi dei modelli di sviluppo
paese del Terzo mondo, dove non esistevano organizzazioni sindacali. Più in generale i ceti medi che votarono per i repubblicani chiedevano meno tasse e meno inflazione, “meno stato e più mercato”, secon-
do una convinzione ben radicata e molto ben espressa già da uno dei passeggeri della diligenza di Orzbre rosse (il film di John Ford del 1939), il banchiere che così si esprimeva: «Noi paghiamo le tasse al governo, e cosa abbiamo in cambio?... Invece di proteggere gli uomini d’affari, caccia il naso nei loro affari... Il governo non deve immischiarsi negli affari, ma ridurre le
tasse. Il debito pubblico ha raggiunto l'apice ormai». La tesi di fondo di quella che venne denominata “reaganomics” era che per risolvere la crisi economica si doveva cominciare con l’eliminare il deficit del bilancio federale. La riduzione delle imposte sui redditi medio-alti, accompagnata dalla deregulation (V'eliminazione delle troppe regole che intralciavano le libere iniziative degli imprenditori e dei finanzieri), avrebbe infatti solo per un momento aggravato il deficit, consentendo poi una moltiplicazione dei risparmi e degli investimenti e un allargamento della base produttiva. A ciò doveva corrispondere, con un valore simbolico non meno significativo di quello finanziario, la riduzione della spesa federale nel Welfare State, che peraltro negli Stati Uniti copriva solo in parte i settori sanitario e pensionistico. I costi della difesa dei gruppi sociali più deboli (indennità di disoccupazione e aiuti alle famiglie povere) furono tagliati, con motivazioni ideologiche oltre che economiche: il We/fare State abituava alla dipendenza dallo Stato e andava contro la tradizione individualistica americana. La lotta contro l’inflazione, che era stata avviata già
nel 1980 dal governatore della Federal Reserve, la 329.
Storia degli ultimi cinquant'anni
banca centrale americana, invertì un altro indirizzo
della politica economica di Carter (che aveva creato non poche tensioni con gli stati europei), quello di favorire gli investimenti tenendo bassi i tassi di interesse e di far leva sul deprezzamento del dollaro rispetto alle altre valute per stimolare le esportazioni e alleggerire il deficit della bilancia commerciale. Il rapporto fra dollaro e marco, che era di 3,66 secondo Bretton Woods, era sceso a circa 2,5 nei primi mesi del 1976 e continuò a scendere fino a un minimo di 1,72
nel gennaio 1980. Gli innalzamenti di sconto della Federal Reserve, che per cento nel 1981, ebbero l’effetto più caro il dollaro, fino al massimo
del tasso ufficiale lo portarono al 15 di rendere sempre del febbraio 1985,
quando furono necessari 3,3 o anche 3,4 marchi per
avere un dollaro (fenomeno che si può leggere anche all’inverso, dicendo che per gli americani le valute straniere erano diventate più a buon mercato). L'inflazione fu battuta (13,5 per cento nel 1980 e 3,7 nel
1983-85), anche se l'operazione provocò o comunque aggravò la crisi del 1982. Ma nel quadriennio successivo, 1983-1986, che fu un periodo di considerevole ripresa per tutte le economie industriali, i tassi di crescita del prodotto interno degli Stati Uniti furono i più
alti fra quelli dei paesi dell’Ocse (4 per cento annuo, contro
la media
Ocse
del 3,3). Prevedibilmente
Reagan venne rieletto presidente nel 1984, con una maggioranza assai più ampia di quella del 1980. La reaganomics si era dunque rivelata un successo? Questa impressione va fortemente corretta, non soltanto tenendo conto della creazione di una fascia di povertà molto estesa e dell’aggravamento delle differenze fra i gruppi di reddito superiori e inferiori (questione che verrà ripresa nel cap. 12, $ 2) ma anche esa330
Crisi dei modelli di sviluppo
minando più da vicino i conti dell'economia degli Stati Uniti. Contrariamente alle aspettative, il maggiore potere di spesa dei ceti medio-alti liberato dalla politica fiscale non si tradusse in un aumento dei risparmi e degli investimenti, ma in un sostegno alla domanda, una corsa ai consumi o, se vogliamo, un pa-
radossale keynesismo in favore degli abbienti. La domanda di tali ceti si indirizzò in larga misura su prodotti di importazione (fenomeno ulteriormente favorito dal deprezzamento rispetto al dollaro delle valute e quindi dei prodotti
esteri), facendo
innalzare
in
maniera preoccupante il deficit della bilancia commerciale; la reaganorzios agì così anche da locomotiva per le economie estere e dette vita non solo negli Stati Uniti a un decennio di nuovo e pretenzioso consumismo degli abbienti che, a differenza del consumismo
“democratico” degli anni 1950-60, convisse con un allargamento delle sfere di povertà. Ugualmente fallì l’obiettivo di portare in pareggio il bilancio federale, che andò anzi sempre più in rosso per la crescita della spesa militare. Dalla corsa ai missili e dai fantastici progetti di guerre spaziali venne uno stimolo alla ricerca tecnologica e una sua ricaduta sulle industrie civili, ma anche una ingente sottrazione di risorse al sistema economico. Sia nella politica dei consumi, sia nella politica internazionale gli Stati Uniti stavano vivendo al di sopra dei loro mezzi. Crebbero perciò assieme l'indebitamento delle imprese e delle famiglie e il debito pubblico federale. Degli alti tassi di interesse praticati dalla banca centrale e da tutto il sistema finanziario si deve allora tener presente non solo la funzione anti-inflazione ma anche quella di attrazione dei capitali esteri; questi capitali sorressero i due deficit, del bilancio pubblico e di quello commerciale, facendo 331
Storia degli ultimi cinquant'anni
però passare gli Stati Uniti da una posizione di creditore a una di debitore netto verso l’estero. La politica economica avviata nel 1981 da Ronald Reagan aveva un precedente in quella condotta in Gran Bretagna dal partito conservatore, che vinse le elezioni generali del 1979 con il suo leader Margaret Thatcher. Confermata a larghissima maggioranza dagli elettori nel 1983 e ancora, ma meno trionfalmente, nel 1987, la Thatcher si pose i medesimi obiettivi neoliberisti e monetaristi del suo collega d’oltreatlantico: lotta all’inflazione, liberazione delle energie economi-
che attraverso la riduzione della spesa pubblica e una politica fiscale ancor più nettamente a favore dei ceti abbienti e delle imprese. Le differenze principali fra le due strategie dipesero dal fatto che in Gran Bretagna i sindacati si erano mantenuti più combattivi che negli Stati Uniti e che il Welfare State e la partecipazione statale all'economia erano realtà assai più radicate, un
sistema di valori sociali e morali per trentacinque anni mai rimesso in discussione, neppure dai conservatori. Per questo motivo il “metodo Thatcher” si presentò con un aspetto di durezza e autentica spietatezza punitiva che non si ritrova negli ottimistici richiami del reaganismo alla tradizione americana dell’iniziativa individuale. Allorché il governo si decise ad abbandonare un settore a suo tempo nazionalizzato e in perdita come quello del carbone, assunse un grande valore simbolico lo scontro che nel 1984 lo oppose ai minatori e che dopo un lunghissimo sciopero si concluse con la sconfitta del sindacato. Se nel settore del servizio sanitario
la Thatcher non ebbe il coraggio di intervenire in
maniera drastica e si limitò a contenerne i costi (una parziale privatizzazione del servizio sanitario fu avvia332
Crisi dei modelli di sviluppo
ta solo dopo il 1990), molte altre spese sociali (pensioni, indennità di disoccupazione, assegni familiari, sus-
sidi di povertà) furono colpite con severità. Nel caso delle industrie statali l’azione poté essere priva di remore: la produzione siderurgica subì tagli drammatici e due terzi degli addetti vennero licenziati. Più tardi il settore dell’acciaio venne privatizzato, assieme ad altri settori industriali e a diversi servizi pubblici, comprese le ferrovie. Le scelte compiute in Gran Bretagna non sono però rappresentative delle strategie adottate in Europa occidentale. In Germania, in Francia e in Italia nessun go-
verno si sentì di provocare volontariamente la rottura della pace sociale e di infrangere totalmente il tacito patto che faceva da fondamento al Welfare State. Anzi, in Italia nel dicembre 1978 (nel corso del triennio 1976-79, caratterizzato dall’appoggio esterno fornito al governo dal partito comunista) venne varata una legge di riordino del sistema sanitario nazionale che comportò una estensione dei servizi forniti dallo stato e una notevole crescita delle spese. In Francia le elezioni presidenziali dell'aprile 1981 videro la vittoria del socialista Frangois Mitterand e le successive elezioni politiche portarono alla formazione di un governo socialista sorretto anche dalla partecipazione dei comunisti; nella nuova situazione politica si poté allora assistere a una strategia economica del tutto controcorrente, con nuove nazionalizzazioni di industrie e banche e un rafforzamento della spesa pubblica sociale. Ma di fronte al ritorno dell'inflazione e all’aggravar-
si della crisi economica del 1982 si pose con urgenza la necessità di passare a una politica di controllo della spesa pubblica; nel 1983 il governo francese cominciò a eliminare l’indicizzazione dei salari (perdendo poco 333
Storia degli ultimi cinquant'anni
dopo l'appoggio dei comunisti); in forma più limitata un analogo provvedimento venne preso nel 1984 in Italia. In nessuno dei due paesi, tuttavia, l’avanzare
delle esigenze del rigore finanziario e dell’austerità economica o il riconoscere pragmaticamente l’impossibilità di mantenere imprese nazionalizzate entrate in deficit cronico e di offrire servizi pubblici sottocosto comportò la cancellazione dello spirito del Welfare State. La richiesta di una risposta adeguata alla crisi del 1982 fu anche alle origini dell’uscita dei liberali dal governo tedesco a guida socialdemocratica. Anche in questo caso l’avvento della coalizione presieduta da Helmut Kohl non rappresentò una svolta senza ritorno. Oltre ad accrescere l’attenzione sulla stabilità del marco, il governo ha sì avviato un vasto piano di privatizzazioni e di riduzione della spesa pubblica, ma si è ben guardato dall’abbandonare i disoccupati a se stessi o dal provocare con indifferenza la nascita di una nuova povertà.
5. Le tendenze demografiche e i problemi dell’energia e dell'ambiente La crisi energetica del dicembre 1973 provocò nei paesi industrializzati una sensazione di insicurezza e vulnerabilità. Mostrò prima di tutto che il benessere di
cui essi avevano goduto fino ad allora era così fragile da poter essere compromesso dalle decisioni prese dai rappresentanti di alcuni paesi arabi del tutto marginali, come il Kuwait (600 000 abitanti). In secondo luogo ebbe l’effetto di portare all’attenzione del pubblico un dibattito scientifico che si stava svolgendo da un anno e mezzo in termini piuttosto tecnici: in che misura lo
sviluppo economico degli ultimi venticinque anni era. 334
Crisi dei modelli di sviluppo
un fatto eccezionale e irripetibile e quanto ancora poteva proseguire prima di incontrare dei limiti strutturali? Il fatto che il volume I lirzzzti dello sviluppo, fir-
mato da un gruppo di studiosi del Massachusetts Institute of Technology (Mit), fosse stato pubblicato nel 1972, alla vigilia della crisi petrolifera, era puramente contingente ma (essendo stato preceduto nel 1971 dall’ancor più tecnico Dirazziche mondiali, di J. W. Forrester) le tesi che avanzava tiravano le fila di sintomi premonitori che già da diversi anni erano avvertibili. Attraverso simulazioni del futuro condotte in base a modelli matematici verificati con potenti computer il libro mostrava che il collasso dell'intero sistema mondiale socio-tecnico-naturale si sarebbe prodotto a una data sicuramente anteriore al 2050 per la combinazione di tre diversi fattori: lo sviluppo incontrollato della popolazione e la crescente difficoltà della produzione di alimenti a tenergli dietro, l'esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili (petrolio e metalli), l'inquinamento ambientale. Le conclusioni cui giunsero gli autori dei Lirziti dello sviluppo e inumerosi altri che si posero sulle loro tracce si sono rivelate col tempo più o meno erronee, ma tutti e tre questi fattori hanno giocato un ruolo di primo piano nel modo con cui è stata percepita e affrontata la crisi degli anni settanta. Le proiezioni demografiche fornite dall'Onu nell’anno 1974 (quasi 6,5 miliardi di abitanti nel 2000 e 11,2 nel 2050) sembrarono confermare il timore per la “bomba demografica” e l’incombente carestia mondiale, avanzato già sul finire degli anni sessanta da diversi studiosi. In effetti con il passare degli anni esse furono via via cora "pù
rette, per lo più al ribasso, tenendo conto dell’andamento calante dei tassi di natalità e fra tutte quelle for-
a
ì
335
Storia degli ultimi cinquant'anni
Tabella 18. La popolazione mondiale (in milioni) secondo le successive proiezioni medie dell'Onu Proiez.
2000
1958 1974 1983
6280 6494 6119
2050
11200
Proiez.
2000
2050
1988 1994 1996
6250 6158 6127
9823 9400
Fonti: J. Vallin, La popolazione mondiale, il Mulino, Bologna 1994,
p. 82; La population du monde, a c. di J. Cl. Chastelland e J. CI. Chesnais, Ined-Puf 1997, p. 13, innota.
nite in trent'anni la proiezione del 1974 si è rivelata la meno esatta; Con un ritardo sulle previsioni di quattro o cinque anni (in prospettiva non irrilevante) i sei
miliardi verranno raggiunti nel corso del 1999. Che una previsione venga smentita può dipendere anche dal fatto stesso che è stata resa pubblica e avvertita come non desiderabile e in questo caso si è allora rimandati alle ragioni che hanno determinato l’abbassamento dei tassi di natalità dopo che quelli di accrescimento naturale avevano raggiunto il loro massimo appunto verso il 1970 (vedi cap. 6, $ 1). I dati demografici mondiali non costituiscono però un insieme omogeneo e, accanto al riconoscimento che il collasso
generale in quanto conseguenza delle carestie non si è verificato, occorre scomporli in almeno due distinti insiemi, relativi ai paesi ricchi e ai paesi poveri. Sui .
secondi e sulle loro politiche demografiche (oltre che sul loro contributo ai consumi di risorse non rinnova-
bili e all'inquinamento ambientale) torneremo più avanti. Per quanto riguarda i primi va invece osservato che dal 1965 si veniva nettamente esaurendo il baby boom che nel ventennio precedente in Usae (in forma
meno spettacolare) in Europa occidentale aveva
336
i ad
Crisi dei modelli di sviluppo
accompagnato e indubbiamente anche determinato lo sviluppo economico. Nel 1960 il tasso di natalità americano era ancora vicino al 24 per mille, ma dieci anni dopo era sceso al 18,3. Ecco cosa mostrano i dati sul
più raffinato indice di fecondità relativo ai paesi sviluppati. Tabella 19. Indice di fecondità (numero figli per donna) nei paesi sviluppati, 1950-1995
America Sett.
Europa Occ. Paesi Svil.* Mondo
1950-55 3,9 2,4 2,8 5
1965-70. LIO) DS 24 4,9
1985-90 1,9 1,6 105) 3,5
1990-95 2 1,4 187 SIA
* secondo la definizione standard includono: Usa, Canada, intera
Europa, ex-Urss, Australia, Nuova Zelanda, Giappone Fonti: J. Vallin, La popolazione mondiale, il Mulino, Bologna 1994,
p. 88; M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione mondiale, il ‘ Mulino, Bologna 1998, p. 190; M. Livi Bacci, La popolazione nella storia europea, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 233.
La caduta della natalità e della fecondità negli anni settanta è stata dapprima una reazione di breve periodo alla grave crisi economica, ma poiché, dopo un inizio ben anteriore al 1974, è proseguita senza alcuna inversione di tendenza anche dopo il 1982, non può essere considerata congiunturale e forse neanche il naturale proseguimento della cosiddetta transizione demografica, cioè la riduzione della fecondità che nor. malmente segue quella della mortalità (e che si èmani| festata nei paesi meno sviluppati con la caduta da 6,2
a 3,5 figli per donna nel 1950-1995). La riduzione . della fecondità al di sotto di 2 figli per donna, cioè al
à
disotto del limite del rimpiazzo generazionale, con337
Storia degli ultimi cinquant'anni
duce rapidamente alla diminuzione assoluta della popolazione, cosa che sta già avvenendo da diversi anni nell’ex-Unione Sovietica e che fra due o tre coinvolgerà anche l'Europa. Negli Stati Uniti il peso crescente della popolazione nera e di quella ispano-americana, a più alta fecondità, agirà invece da freno; ma va riconosciuto che negli anni novanta, contro le previsioni non vi è stato un ulteriore calo nella fecondità della popolazione “bianca non-ispanica”. Il caso della Russia, in crescente marasma dagli anni ottanta e con una speranza di vita alla nascita da dieci anni in continua diminuzione, è però ben diverso da
quello degli Stati Uniti e, in misura ben maggiore, dell'Europa occidentale e anche orientale. Le spiegazioni avanzate per la diminuzione della fecondità (in alcuni casi, Spagna e Italia, fino al valore patologico di 1,2 figli per donna) si muovono fra la tesi un po’ troppo sintetica dell’edonismo, abitualmente avanzata dal
papa Giovanni Paolo II, e il ruolo di fattori socio-economici come l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. A questi ne vanno aggiunti parecchi altri di ordine socio-culturale e forse più convincenti, sui quali non è il caso di soffermarsi qui. Più importante è osservare che mentre la dinamica demografica ha agito come fattore aggiuntivo di sviluppo negli anni cinquanta e sessanta, attraverso i consumi derivati dalla formazione di nuove famiglie numerose, negli anni ottanta e novanta viene paventato un fenomeno
opposto, quello del peso sempre maggiore dei servizi pensionistici sul reddito nazionale e sui bilanci statali. Prendendo il caso dell’Italia, troviamo che nel 1961 la popolazione sotto i 15 anni rappresentava il 24,5 per cento del totale e quella sopra i 65 il 9,6; trentacinque anni dopo si avvicinavano entrambe al 15,5 per cento. 338
l abbia
e
lil
Crisi dei modelli di sviluppo
Nello stesso periodo ancora più rapida (dal 3,3 al 5,7 della popolazione totale) è stata la crescita relativa dei soli ultrasettantacinquenni, bisognosi di cure e di assistenza e ancor più percepiti come un fardello economico. La prospettiva futura del peso economico di due genitori anziani su poco più di un figlio adulto (contro due genitori su quasi tre figli del passato) simboleggia bene una situazione sociale complessiva insostenibile; essa spiega inoltre perché la preoccupazione di ridurre la crescita automatica del futuro costo delle pensioni sia diventata acuta anche negli stati dell’Europa continentale nei quali, a differenza degli Usa e della Gran Bretagna, le ideologie neo liberiste si sono affermate con minore impeto. Nel corso degli anni ottanta, una ventina d’anni dopo l'esaurimento del 245y b0077, i paesi sviluppati si sono imbattuti nel rallentamento del tasso di crescita della popolazione attiva e devono ora aspettarsi come vicino un tasso negativo. Il progressivo invecchiamento della popolazione (cioè l’innalzamento della sua età media) e la contrazione del rapporto fra popolazione attiva e popolazione inattiva, con la prospettiva di un continuo peggioramento, devono indurre a non con-. tare troppo sulle possibilità che la generazione dei figli conservi un tenore di vita adeguato alla generazione dei genitori attraverso il meccanismo delle pensioni quale finora ha funzionato; la generazione attualmente in attività deve perciò pensare ad assicurarsi la vecchiaia attraverso risparmi specificamente destinati alla costituzione di fondi di pensione privati. Alla tendenza alla stagnazione della popolazione attiva sono collegati in maniera complessa i movimenti migratori dal “Sud del mondo” (equivalente sintetico dei paesi sottosviluppati) verso l'Europa occidentale e gli Stati
339
Storia degli ultimi cinquant'anni
Uniti, divenuti negli anni ottanta e novanta un conti-
nuo tema di discussione. È dubbio se i paesi più sviluppati sarebbero in grado di chiudere totalmente le loro frontiere alle spinte che provengono dal Sud del mondo; ma a questo va aggiunto che essi stessi potrebbero sempre meno
rinunciare agli immigrati come
manodopera per le attività di più bassa qualificazione e retribuzione che non costituiscono più una vera offerta di lavoro per la popolazione attiva nazionale. La presenza più o meno forte, accanto ai lavoratori stra-
nieri, di irregolari e clandestini (fonte di periodici momenti di panico e tensione nei paesi di accoglienza) e la concessione della nazionalità a precedenti immigrati rendono difficili i calcoli e i confronti. Resta però significativo che la percentuale di tutti gli stranieri residenti (compresi quelli provenienti da paesi sviluppati) sulla popolazione tedesca da circa il 6 per cento che era nel 1971 (sola Germania occidentale) si sia approssimata al 9 per cento del 1996 (Germania unificata); anche in paesi di tradizionale emigrazione come l’Italia e la Spagna sono comparse quote significative di immigrati, attorno al 2 per cento della popolazione. Le vicende delle risorse non rinnovabili e in particolare delle fonti di energia sono andate anch'esse negli ultimi due decenni nella direzione del rallentamento e non in quella del raggiungimento del limite e quindi del collasso mondiale, anche se rimane da decidere quanto abbiano giocato la reazione al senso di allarme e l’effettivo raggiungimento di una saturazione dello sviluppo. Un critico ottimista delle tesi del | Mit, il sovietico (georgiano) E. A. Arab-Ogly, osservò che «man mano che il consumo di metallosiavvicina ai 500 chili pro capite l'ulteriore fabbisogno si riduce rapidamente e la sua produzione uri: scooo 340
Crisi dei modelli di sviluppo
crescita esponenziale, una tendenza a trasformarsi in una curva logistica, con tassi di incremento annuo gradatamente decrescenti. Contemporaneamente a questa saturazione del fabbisogno di metalli, una quota sempre maggiore verrà fornita dalla fusione non del minerale, ma della materia prima secondaria o riciclata» (Identikit del 2000, 1980). Questo tipo di previsione si è rivelato finora più valido del tipo catastrofista, anche se, ovviamente, non afferma che non esiste un problema della riduzione delle risorse, specie di quelle che non sono riciclabili. Prendiamo il caso esemplare costituito dalle fonti di energia e dal petrolio, la cui crisi aveva a suo tempo giocato in favore delle profezie più temibili e che è stata posta (finora) sotto controllo dalla combinazione di tre fattori: ricerca di fonti alternative, piani di risparmio, tendenza alla saturazione dei consumi. Dal
primo punto di vista si può ricordare che di fronte ai costi crescenti del petrolio tornò a essere conveniente l'estrazione di carbone (che riprese a crescere fino al 1981), mentre
si procedeva
allo sfruttamento
del
petrolio del mare del Nord e veniva intensificata la produzione di elettricità di origine nucleare. Le centrali nucleari esistenti al mondo crebbero da circa 130 nel 1973 a 423 nel 1990 e 437 nel 1996; il loro contri-
buto alla produzione totale di energia passò nello stesso periodo dall’1 al 5 per cento e dal 3 al 17 per cento per la sola energia elettrica. Ma ancor più significativa è l'incidenza dei risparmi. Fra il 1950 e il 1973 i consumi mondiali pro-capite di energia erano cresciuti mediamente del 3 per cento | annuo, mentre dopo questa data non hanno mostrato | una tendenza significativa alla crescita, il che vuol dire che i consumi mondiali di energia hanno più o meno 341
Storia degli ultimi cinquant'anni Tabella 20. Consumi mondiali di energia, 1973-1997. In tonnellate di equivalente petrolio (Tep) i consumi pro-capite; in milioni di Tep i consumi totali
consumo totale
1973 1980 1993 1997
pro-capite
valori perc. di ciascuna fonte carbone
petrolio
gas natur. elettricità*
ao 2005 4TZTZA BINAAE Aereo 43,4 18,9 TSOS" er, 3I AZ 24 8437 144 269 40 22,6
3,8 8,8 9,6 10,5
* elettricità primaria, prodotta da centrali idroelettriche e nucleari
Fonti: A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 ad oggi, il Mulino, Bologna 1998, p. 181; L’Etat du monde, La découverte, Paris 1998, p. 96.
soltanto seguito la crescita della popolazione. Ancora più netta appare la stabilità dei consumi pro-capite negli Stati Uniti, a quota 7,9 Tep sia nel 1973 che nel 1996. È vero che gli Stati Uniti continuano a essere i più grandi divoratori e sperperatori di energia, con il 25 per cento dei consumi e il 4,7 per cento della popolazione del mondo, ma nel 1970 la loro quota sui consumi mondiali era del 32 per cento. Quel che si dice per il complesso dei consumi energetici vale ancor più per il solo petrolio, la cui produzione totale era cresciuta di oltre il 7 per cento annuo fra il 1950 e il 1973 ed è oggi di poco superiore a quella del 1979 e anzi in eccesso rispetto alla domanda. Questa profonda svolta nel mercato del petrolio si è verificata dopo che i prezzi del greggio avevano raggiunto nel 1981 la punta massima di 41 dollari al bari-
le, per le difficoltà di accedere al golfo Persico provocate dalla guerra fra Iraq e Iran (vedi pp. 301-302). Fra il 1983 e il 1986 si verificò una discesa piuttost 342
Crisi dei modelli di sviluppo
rapida, da 30 a 14 dollari, seguita da dieci anni di
oscillazioni fra 16 e 20 (con una punta eccezionale nei primi mesi del 1990, sulle cui ragioni torneremo più avanti); infine nel corso del 1998 seguì un vero e proprio crollo, che portò il greggio alla media annuale di 13,5 dollari, con il minimo di 10 dollari al barile toc-
cato verso la fine dell’anno. Se il tutto viene tradotto in dollari dal potere di acquisto costante, troviamo che
alla fine del 1998 i prezzi erano tornati quelli anteriori al rincaro dell'ottobre 1973. L'incapacità dell’Opec di metter fine all’eccedenza dell’offerta dipende d’altra parte anche da un rallentamento da saturazione di alcuni settori della domanida. Questo è evidentemente vero per il mercato dell'automobile. Negli Stati Uniti non solo i consumatori hanno accettato modelli con più bassi consumi, ma si è anche raggiunto un tetto invalicabile di densità di automobili: 266 per mille abitanti nel 1950, 436 nel 1970, 560 nel 1987 (139 milioni di auto), ma 506 nel 1997, con 135 milioni di auto.
Dove il pessimismo del rapporto sui Lirzit dello sviluppo continua a essere più giustificato anche a breve termine è nel settore dell’inquinamento. Lo smog (smzoke più fog, fumo più nebbia) era stato uno sgradevole compagno delle prime fasi dell’industrializzazione (e lo è ancora nei paesi nei quali il carbone ha ancora una grande incidenza fra i combustibili energetici), provocando nei mesi più freddi un forte aumento della mortalità per patologie dell'apparato respiratorio. L'inquinamento che si rivelò durante lo straordi| nario sviluppo degli anni 1950-1975 aveva però caratteri del tutto nuovi, facendo comparire sostanze inqui— nanti dell’acqua, dell’aria e del suolo prima sconosciu‘ te e facendo oltrepassare ad altre di per sé non inqui-
ì È)
i
Storia degli ultimi cinquant'anni
nanti la soglia di concentrazione che le rende pericolose (come è il caso dell’anidride carbonica e del metano, cause dell’effetto-serra e del mutamento climatico
prodotto dall’innalzamento della temperatura dell’atmosfera). Alcuni degli agenti inquinanti erano connessi con i simboli stessi dello sviluppo (gli scarichi degli autoveicoli) o erano in principio apparsi come fattori di progresso: il Ddt contro la malaria, i detersivi di fronte alle fatiche domestiche o le sostanze plastiche come materiali leggeri, resistenti e a basso costo ma fin troppo durevoli, anzi indistruttibili. Simboli del nuovo inquinamento, al posto di Londra colpita ancora nel dicembre 1952 da una sovramortalità da smog, divennero Minamata in Giappone (1956-1970), Seveso in Italia (1976), Bhopal in India (1984), colpi-
te rispettivamente dal mercurio, dalla diossina e dall’isocianato di metile; a ciò bisogna aggiungere ancora la costa della Cornovaglia, teatro nel 1967 del primo naufragio di una superpetroliera, Chernobyl in Ucraina (1986), dove si verificò l'incidente a una centrale elettronucleare che più di ogni altro fece scoprire i rischi insiti in questa fonte di energia, e le stazioni antar-
tiche dove fra il 1979 e il 1982 furono rilevati per la prima volta i “buchi” nello strato di ozono prodotti dai CFC (clorofluorocarburi). La preoccupazione per l’ambiente, al centro dell’opera di sensibilizzazione e dell’azione politica dei movimenti dei “verdi”, ha inevitabilmente influito sulle forme dello sviluppo economico. Da un lato venne meno l’illimitata fiducia nello sviluppo stesso, dall’altro i governi dovettero prima o poi intervenire (anche se in maniera sempre inferiore al bisogno) imponendo alle imprese e ai consumatori tecnologie di protezione |
dell'ambiente che riducevano i profitti e frenavano i 344
de.
Crisi dei modelli di sviluppo
consumi. Al disastro di Chernobyl è così seguito un rallentamento nella costruzione di centrali nucleari e,
in concomitanza con il crollo del prezzo del petrolio, la constatazione del loro costo eccessivo e la rinuncia a sostituirle via via che vengono dismesse (con l’80 per cento dell’energia elettrica prodotta di origine nucleare la Francia resterà un’eccezione). La produzione dei CFC è stata oggetto di conferenze internazionali che l'hanno progressivamente posta al bando; ma non altrettanto facile si rivela la difesa delle foreste amazzoniche, il cui abbattimento fa parte dei progetti di sviluppo del Brasile, e la riduzione degli scarichi di anidride carbonica, che dà luogo a un continuo rimpallo fra le esigenze di industrializzazione dei paesi del Terzo mondo e le abitudini di consumo pur sempre sperperatrici dei paesi sviluppati, a cominciare dagli Stati Uniti. 6. L'Unione Sovietica e il blocco orientale
negli anni di BreZnev
Dopo l'avvento, nell’ottobre 1964, del gruppo dirigente costituito da BreZnev, Kosygin, Podgornij e Suslov, la repressione esercitata nei confronti dei dissidenti e l'invasione della Cecoslovacchia dovettero far pensare a una pesante involuzione in atto nell'Unione Sovietica. L'esordio della nuova direzione del partito e dello stato era tuttavia stato segnato piuttosto dalla volontà di realizzare una riforma del sistema economico più coerente di quella già tentata da Chruséév e meno soggetta ai suoi scarti di umore. Il dibattito sollevato già da diversi anni dagli economisti e destinato a proseguire con ampia libertà ancora per tutto il decennio stava offrendo seri elementi di critica alla
È
345
Storia degli ultimi cinquant'anni
funzionalità del sistema della pianificazione. Ciò è tanto più notevole se si pensa che in quegli stessi anni fra gli economisti occidentali esisteva un dibattito in certo modo inverso, orientato ad affiancare al Welfare State assistenziale più decisi interventi pubblici di programmazione con lo scopo di correggere i difetti del sistema capitalista (le crisi periodiche, l'allocazione delle risorse fatta in funzione del profitto dell’impresa invece che di obiettivi di crescita equilibrata). Dagli.anni attorno al 1960 i tassi di crescita sovietici avevano cominciato a rallentare (vedi cap. 5, $ 5,
tabella 7), anche se restavano superiori a quelli dei paesi capitalisti più sviluppati (il gruppo dell’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico); ma assai più preoccupante era l'andamento di altri indicatori più raffinati, come la produttività del lavoro industriale (la cui crescita media annua era stata nei tre quinquenni fra il 1951 e il 1965 del 7,6 per cento, del 6,3 e del 4,8) e la produttività del capitale, anch'essa in netto calo (M. Lewin, Ecormomzia e politica nella società sovietica, 1974, p. 128).
Diventava allora necessario chiedersi da dove derivasse questa perdita di slancio e se eventualmente non vi erano stati degli elementi di debolezza nascosti nel modo stesso con cui erano stati raggiunti i pur lusinghieri risultati del 1946-1960. Apparve allora che, in maniera sostanzialmente non diversa da quanto era accaduto durante i piani del periodo staliniano, lo sviluppo dell’Unione Sovietica restava di tipo estensivo,
fondato cioè sulla disponibilità illimitata di forza lavoro e di risorse naturali e su massicci investimenti, e non di tipo intensivo, fondato sull’aumento della pro-
duttività e sull'innovazione tecnica e industriale. I calcoli compiuti da Angus Maddison (L'econorzie mon346
r
Crisi dei modelli di sviluppo
diale au XX siècle, 1989, pp. 39, 94, 95) mostrano che
se nell’intero periodo 1950-73 la crescita annua del prodotto interno è stata in Urss superiore a quella dei paesi capitalisti, la produttività totale (produzione per ora di lavoro) restava nel 1973 assai più bassa: un po’ più di un terzo di quella degli Stati Uniti e un po’ più della metà di quella dell'Europa occidentale (la differenza era assai più marcata nel solo settore agricolo). Nel periodo considerato la crescita della produttività totale sovietica era stata del 3,6 per cento medio annuo (contro il 4,5 nei paesi capitalisti) e appariva in via di rallentamento. Lo sviluppo sovietico avveniva dunque secondo un cattivo uso e anche un effettivo spreco delle risorse, invece che attraverso la capacità di valorizzare un loro impiego più razionale. Ciò che aveva forse avuto un senso negli anni trenta (costruire con un drammatico e rapido sforzo le basi industriali badando al volume della produzione e non alla produttività) non ne aveva più alcuno negli anni sessanta. Il dibattito di questi anni mise sotto accusa lo stesso sistema della pianificazione — decisa dai massimi organi centrali del partito e dello Stato e attuata senza che vi fosse possibilità di introdurre modifiche attraverso una rigida catena burocratica che andava dal Gosplan (la commissione per il piano) alle singole unità produttive — e mise in rilievo tre punti principali, che tutti venivano a convergere sulla necessità di combinare i principi del piano con un più ampio spazio lasciato al mercato. Il primo punto riguardava la propensione del piano (la cui originaria logica, va ancora ricordato, era solo
quella di accrescere la produzione industriale di base) a realizzare soltanto indici quantitativi, misurati in quantità fisiche, senza tener conto dei consumatori e È
347
Storia degli ultimi cinquant'anni
dei loro gusti. Il risultato era che il piano includeva uno squilibrio di fondo fra offerta e domanda, producendo beni non richiesti e ignorando quelli richiesti, dando luogo a immense quantità di merci invendute o invendibili perché rifiutate dai consumatori e abitualmente di scarsa qualità. Il primato attribuito alla produzione fisica metteva poi in second’ordine il settore dei servizi e del piccolo artigianato e rendeva in particolare assai problematico al comune cittadino far riparare prodotti durevoli e impianti domestici con l’irresistibile vocazione a guastarsi; il medesimo fenomeno, aggravato dalla predilezione per le imprese di enormi dimensioni, andava a svantaggio della distribuzione, irregolare, intempestiva e fonte di altri sprechi. Va osservato poi che i medesimi inconvenienti si manifestavano non solo nel rapporto fra produzione e consumo finale ma anche nel rapporto fra i settori della produzione, fra le imprese che producevano beni intermedi e le imprese loro clienti. Il secondo punto riguardava l’inesistenza di strumenti che consentissero di correggere rapidamente gli errori: i prezzi dei singoli prodotti erano decisi dal centro in rapporto alla coerenza del piano e non tenendo conto dei costi effettivi; non esisteva alcun
meccanismo che penalizzasse i pianificatori e le imprese per eventuali errori e sprechi commessi. Un simile perverso sistema agiva a lungo termine e in maniera
poco visibile, con lo sperpero delle risorse,lanecessità di procurarsele con sforzi maggiori e a costi crescenti in Asia centrale e in Siberia e quindi la difficoltà di mantenere gli investimenti necessari. Come ha scritto
il sovietologo Moshe Lewin nel suo studio dedicato alla riforma economica, «gli intrepidi industrializzatori» stavano diventando «cattivi proprietari»: «La ten348
sei. “
T
Crisi dei modelli di sviluppo
denza verso il massimo sfruttamento delle risorse, che
aveva funzionato finché erano state disponibili risorse per uso estensivo, ebbe effetti deleteri sul sistema. Se lo stato era in grado di esercitare pesanti pressioni per ottenere le risorse necessarie, non era altrettanto capace di utilizzarle in modo razionale ed efficiente» (Economzia e politica, cit., pp. 131-132). Il terzo punto riguardava la caratteristica tendenza del sistema a mettere in conflitto gli interessi dei pianificatori e delle imprese (indipendentemente dalle qualità delle persone) con quelli della collettività. Il primato attribuito alle quantità fisiche, per esempio le Tabella 21. Lo sviluppo economico dell’Unione Sovietica, 1971-1982, tassi percentuali medi annui 1971-75
1976-80
1981-84
Reddito nazion. pe
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Prod. industriale
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Prod. agricola
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Produttività ind.
6
32
DI
* secondo il piano ** risultati effettivi ufficiali *** risultati effettivi secondo le stime medie della Central Intelligence Agency degli Stati Uniti * dato relativo al 1981-82 Le ultime quattro righe si riferiscono ai risultati effettivi secondo le statistiche ufficiali sovietiche Fonti: D. Di Gaetano, L'economia sovietica: uno sguardo dall'inter-
no, E Angeli, Milano 1984, p. 25; A. Guaire, L'economia mondiale dal 1945 a oggi, il Mulino, Bologna 1998, p. 390; N. Werth, Storz dell’Unione Sovietica, il Mulino, Bologna 1993, p. 535.
349.
Storia degli ultimi cinquant'anni
tonnellate per la produzione di acciaio, comportava che non sarebbe mai stato adottato un metodo industriale che desse un prodotto inferiore in peso ma superiore in qualità, penalizzando però l'impresa e i suoi addetti, che non erano stati capaci di realizzare il piano (ciò spiega perché gli economisti occidentali non facevano pieno affidamento delle statistiche sovietiche, che sommavano risultati gonfiati da un sovraimpiego di risorse). L'esempio della produzione di lampadine offerto dall'ingegnere sovietico Oleg Antonov e basato come i molti altri del suo libro sui difetti del sistema segnalati dalle lettere spedite ai giornali (La pianificazione sovietica, 1965, p. 45) illustra molto bene il problema: se il piano affidato ai produttori è espresso in potenza complessiva, questi si indirizzeranno alle lampadine di grande potenza e tralasceranno quelle da 25 watt; se l’indice viene espresso in pezzi, si avrà l’effetto opposto, perché il piano sarà eseguito meglio producendo quattro lampadine da 25 watt che una da 100. In mancanza di meccanismi di mercato (il valore della produzione invenduta sarà ridotto dalla caduta dei prezzi), non vi è modo per penalizzare le imprese che sbagliano i loro calcoli. L'interesse dell’impresa e dei suoi addetti (realizzare il piano ottenendo premi di produzione, prestigio, avanzamenti di carriera) è in netto contrasto con gli interessi dei consumatori. Di
più: è anche in contrasto con l’interesse della società, perché il sistema non incentiva la riduzione dei costi e l'aumento della produttività e (mettendo a parte i soli settori militare e spaziale) frena le innovazioni tecniche che consentono di produrre acciai più leggeri o lampadine che consumano meno elettricità. I decreti approvati dal partito e dal governo nell’ottobre del 1965 raccolsero in effetti le indicazioni che 350
Crisi dei modelli di sviluppo
erano state offerte dagli economisti riformatori, intro-
ducendo il nuovo indice della produzione venduta accanto a quello della produzione globale e consentendo alle imprese di trattenere una maggior quota di profitti da utilizzare per investimenti e come fondo di incentivazione della produttività. I migliori risultati ottenuti nel 1965-70 rispetto al quinquennio precedente furono incoraggianti, ma in realtà la riforma era fallita. L'indice della produzione venduta dette buoni risultati nelle imprese in cui era stato introdotto a titolo sperimentale come indice prevalente, ma dopo pochi anni cominciò a essere messo da parte perché, applicato alla generalità delle imprese, era stato al di sotto delle aspettative. L’autonomia delle imprese continuava a essere soffocata dalla pianificazione centralizzata, mentre gli economisti conservatori restavano
convinti che i problemi del piano sarebbero stati risolti meglio affidandone la gestione ai calcolatori (ma proprio nel settore dell’elettronica l’Urss era assai indietro rispetto ai paesi capitalisti) che con aperture al mercato; si può anzi dire che dall’esempio dell’ancor più riformatrice “primavera di Praga”, interrotta con la forza nell’agosto 1968, sia stata tratta la conclusione che era meglio non insistere su una strada che riportava al capitalismo. Ma più mercato significava anche meno potere per la “nomenklatura”, la numerosa burocrazia degli uffici'di pianificazione, del partito e dello Stato, che riuscì a svuotare di contenuto la riforma. Più mercato e maggiore attenzione ai costi significava d’altra parte rinunciare alla rassicurante fissità dei prezzi. Ma ogni idea in proposito doveva fare i conti con l'esempio di quel che accadde in Polonia nel dicembre 1970 in
seguito al tentativo di adeguare i prezzi alle difficoltà
ì-
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Storia degli ultimi cinquant'anni
economiche: in diverse città si ebbero scontri sanguinosi fra i manifestanti e la polizia, che ebbero come contraccolpo le dimissioni di Gomulka e il ritiro dei suoi provvedimenti. Anche i fondi di incentivazione risultarono poco efficaci,e questo fatto apre un altro capitolo molto delicato nella storia dello sviluppo sovietico. Finché il sistema produttivo fosse stato congegnato in modo da offrire pochi prodotti di consumo e di cattiva qualità, non c’era ragione di rispondere agli incentivi economici lavorando di più e meglio, perché non c’era modo di spendere in maniera soddisfacente i guadagni supplementari. Era di gran lunga preferibile attenersi al tacito patto che da allora fece da fondamento all’Urss di BreZnev e al “socialismo reale” e che era ben reso dalla battuta «noi fingiamo di lavorare, loro fingono di pagarci». Nell’Unione Sovietica stabilizzata e conservatrice degli anni settanta, che non somigliava più in nessun modo a quella staliniana e che dava al contrario al comune cittadino una sensazione di benessere elargito dall’alto ma sicuro, ai molteplici privilegi della nomenklatura, odiosi anche quando piccoli, corrispose un’ampia tolleranza di piccole ma preoccupanti illegalità e fenomeni di corruzione nel sistema produttivo: ciò che l'economia ufficiale non riusciva a rendere disponibile si poteva ottenere nell’economia parallela del mercato nero, nei
servizi resi usando sottobanco i beni dello Stato, negli empori dove si pagava in dollari e che erano per lo più riservati ai membri della nomenklatura. Su questa situazione di immobilità interna venne a cadere la distensione che nel 1971-75 si stava realizzando in Europa e fra Urss e Usa. Dopo il rifiuto sovietico di Bretton Woods e del piano Marshall, per
venticinque anni i due sistemi economici capitalistae 352
Crisi dei modelli di sviluppo
socialista si erano sviluppati senza quasi nessuna interazione fra di loro e (se si escludono le spese militari che crescevano nei momenti di tensione) senza essere molto influenzati dalle vicende del sistema internazionale; ma con la nuova configurazione di quest’ultimo si venne realizzando una maggiore apertura dei paesi del blocco orientale nei confronti dei prodotti e dei capitali di provenienza occidentale, oltre che una maggiore facilità per i cittadini del blocco orientale di andare all’estero come turisti e mettere a confronto il socialismo reale e il capitalismo reale. La distensione significò per l'Unione Sovietica rinunciare a modernizzare la sua agricoltura ricorrendo sempre più alle
‘ importazioni granarie (in primo luogo dagli Stati Uniti, e da altri fornitori durante l'embargo imposto da Carter), che nel 1979-84 giunsero a rappresentare più del 20 per cento della produzione interna. Per contro, in un momento in cui le fonti di energia erano diventate particolarmente care, l’Urss poteva rifornire i paesi dell'Europa occidentale di petrolio e gas naturale, scambiandoli con attrezzature industriali e tecnologie avanzate secondo un rapporto commerciale che, in aggiunta alla dipendenza granaria, metteva l'Unione Sovietica nella situazione di un paese sottosviluppato. Le prospettive della distensione spinsero l’Urss ancora più lontano, inducendola ad accettare ingenti crediti da parte dei paesi capitalisti, con i quali finanziare altri acquisti di tecnologie: il gasdotto che portava in Europa occidentale il gas della Siberia fu così costruito con l'indispensabile aiuto tecnico e finanziario dell’Europa occidentale.
i
Anche negli altri paesi del patto di Varsavia la di-
| stensione, culminata con la conferenza di Helsinki . (vedi cap. 8, $ 4), ebbe importanti conseguenze eco-
ù, er
353
Storia degli ultimi cinquant'anni
nomiche; secondo le previsioni e i desideri della Germania e degli altri paesi occidentali, i governi dell'Europa orientale (nonché quello jugoslavo) aprirono le loro frontiere alle importazioni di attrezzature e tecnologie e ai prestiti necessari per finanziarle, trovandosi nel 1981 ancora più indebitati di quello sovietico (il debito estero della Polonia era quasi il doppio di quello dell’Urss) e soggetti a un carico di interessi e rimborsi che incidevano sul tenore di vita. Inoltre anche i paesi europei del socialismo reale dovettero fare i conti con l'inflazione provocata dalla crisi petrolifera, anche se-il loro principale fornitore, l'Unione Sovietica, li favorì a lungo mantenendo i suoi prezzi al di sotto di quelli internazionali. Ma ancora più importanti furono gli effetti politici di Helsinki. L’atto finale della conferenza, con il richiamo al rispetto dei diritti umani, era stato sottoscritto anche dall’ Unione Sovietica e dai paesi dell’Europa orientale e costituiva ora un punto di riferimento essenziale per i vari gruppi di opposizione: i governi comunisti erano costretti a pagare il costo della distensione e il loro bisogno di capitali e tecnologie occidentali esitando a passare il confine fra gli atti duri ma occasionali di intimidazione e repressione del dissenso e il vero sforzo di annientarlo. In Urss Andrej Sacharov, che già dal 1970 aveva
creato un comitato per la difesa dei diritti civili e ottenuto nel 1975 il premio Nobel per la pace, fu confina- to lontano da Mosca (a Gorkij, che oggi si chiama | nuovamente Nizni Novgorod) per impedirgli ogni contatto con giornalisti stranieri, mentre il “gruppo di vigilanza sull’applicazione degli accordi di Helsinki”
venne disperso con gli arresti e i processi. Ma in Urss il dissenso costituiva un fenomeno minoritario. Appe354
È
Crisi dei modelli di sviluppo
na maggiore fu la risonanza al di fuori del solo mondo degli intellettuali dei movimenti di opposizione che si manifestarono in Ungheria e, con il movimento “Charta 77”, in Cecoslovacchia; solo in Polonia riuscì a costituirsi una opposizione con un vero carattere
politico, capace di entrare in contatto anche con il mondo operaio. E fu ancora in Polonia che nell’estate 1980 si produsse una drammatica accelerazione, con
una protesta operaia che non si limitava a esprimere il disagio di fronte all’aggravarsi della crisi economica e agli aumenti dei prezzi decisi dal governo ma chiedeva il riconoscimento ufficiale di un sindacato libero. Dietro l’audacia di una simile richiesta vi era in parte l'elezione (nell’ottobre 1978) del pontefice Giovanni Paolo II, il cardinale polacco Karol Wojtyla, che aveva compiuto un trionfale viaggio nel proprio paese nel giugno 1979 (vi tornerà in momenti cruciali nel 1983 e 1987). Il movimento sindacale Solidarno$6, sorto nel 1980, assunse così una spiccata caratterizzazione cattolica, raccogliendo dieci milioni di adesioni,
anche di chi si limitava a porsi sotto l’indiretta protezione della Chiesa e del papa; cattolico era il presidente del sindacato, Lech Walesa, un operaio dei can-
tieri di Danzica (dove più forte era stata la protesta operaia), che trattò col governo la legalizzazione di Solidarno$€é. La situazione di tregua in presenza di un doppio potere si protrasse per gran parte del 1981: da una parte il sindacato e Walesa, dall’altra il generale Jaruzelski, che cumulò le funzioni di comandante dell’esercito, primo ministro e segretario del partito. Costretto a nuovi aumenti di prezzi, che provocarono nuovi scioperi, e ammonito dal patto di Varsavia a non perdere il controllo della situazione, il 13 dicembre
Jaruzelski si risolse a decretare lo stato di emergenza, 333
Storia degli ultimi cinquant'anni
cui seguì l'arresto di Walesa e di migliaia di esponenti del sindacato libero. Benché in questo caso non vi fosse stato un diretto intervento militare sovietico, l’e-
vento venne subito ricollegato ai precedenti di Berlino, Budapest e Praga del 1953, 1956 e 1968 e dette
un duro colpo al prestigio dell’Urss, inducendo il più autorevole partito comunista occidentale, quello italiano, a una condanna che aveva tutto l'aspetto di una
rottura.
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11. Il crollo dell’impero sovietico e le sue conseguenze mondiali, 1983-1991
1. L’ultimo tentativo di riformare il comunismo:
la perestrojka di Gorbadév
Il novembre 1982 la morte di Leonid BreZnev chiuse un'epoca nella storia dell’Urss ma fu un evento assai , meno memorabile della morte di Stalin. È vero che con il trascorrere degli anni il principio della direzione collegiale, a suo tempo affermato contro gli eccessi di personalismo di Chruséév, aveva nuovamente lasciato il posto a un netto primato personale; la concentrazione formale del potere nelle mani di BreZnev era avvenuta solo nel 1977, quando questi aveva aggiunto alle funzioni di segretario del partito quelle di presidente del Soviet supremo e quindi capo dello Stato e assunto il prestigioso titolo di maresciallo dell’Unione Sovietica, ma il ruolo dei suoi colleghi Kosygin e Podgornij si era già assai ridotto nel 1968. Fu nella seconda metà degli anni settanta che si parlò spesso di riabilitare Stalin e che si affermò in favore di Breznev una replica del culto della personalità, ma in questo caso il capo del partito, dello Stato e dell’esercito contava più come vertice di una nomenklatura immobilista e impegnata a mantenere i propri privilegi che come capo carismatico capace di imporre dinamismo e devozione alle masse. Del resto, negli ultimi due o tre anni di vita BreZnev, visibilmente malato e | intorpidito nei riflessi, aveva sempre più dato l’im-
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Storia degli ultimi cinquant'anni
pressione di essere costretto a sopravvivere come sem-
plice fattore di continuità nei ritualismi (parate pubbliche, riunioni del comitato centrale del partito) che stavano alla base del potere sovietico. In appena due giorni il gruppo di ultrasettantenni per lo più in cattive condizioni di salute che costituiva il comitato centrale — una gerontocrazia incapace di rinnovarsi altro che per cooptazione burocratica — nominò alla carica di segretario Jurij Andropov, ex direttore del KGB (i servizi segreti) e personalità di maggiore spicco fra i dirigenti del partito. La principale incombenza che attendeva Andropov era quella di portare a buon termine le trattative sugli euromissili, riuscendo a combinare fermezza e concessioni. In realtà il 1983 divenne rapidamente l’anno nel quale le tensioni fra le due grandi potenze raggiunsero il grado più alto dal 1962, se non anche, come pensavano alcuni osservatori politici, dal 1950. Come si è visto più indietro (cap. 9, $ 4), in marzo Reagan annunciò il
piano di “guerre stellari”, in novembre l’Urss si ritirò dalle trattative. Fra i due eventi si situò in settembre l'abbattimento da parte di un caccia sovietico di un aereo di linea sudcoreano, con la morte dei 269 passeggeri; secondo il vecchio stile dapprima l’Urss negò il fatto e poi arrivò a giustificarlo come una legittima reazione a un preteso sconfinamento a scopo spioni-
stico. In una vera frenesia autolesionista l’Urss stava
facendo di tutto per dimostrare di essere davvero l’impero del male. Alcune voci su una grave malattia di Andropov erano già circolate nel 1983, ma la sua morte nel febbraio 1984 giunse ugualmente inaspettata. A sostituirlo fu nominato un tipico uomo d’apparato, K. Cernenko, anziano e malato, che soprineriani fino al
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Il crollo dell'impero sovietico
marzo 1985; la principale iniziativa assunta dall’Unione Sovietica nel 1984 fu quella di boicottare assieme ai propri alleati, per ritorsione a quanto avevano
fatto gli Usa quattro anni prima, le olimpiadi che dovevano svolgersi a Los Angeles. La nomina
nel nuovo
segretario
del Pcus, 111
marzo 1985, seguì di un solo giorno la morte di Cernenko, andandosi a indirizzare su Michail Gorbatév, esponente dell’ala riformista del Pcus;
essendo nato nel 1931 questi faceva emergere una generazione del tutto nuova di politici, amministratori e dirigenti industriali e interrompeva definitivamente la continuità con l'epoca staliniana e i suoi uomini, formati all’epoca dell’industrializzazione forzata e della guerra mondiale. La scelta in favore di Gorbaéév non era stata fatta senza ponderatezza, derivando sicuramente da indicazioni di Andropov e di A. Gromyko (ministro degli esteri dal 1957); essa mostrava che nel Pcus si poteva formare una nuova maggioranza, favorevole a una soluzione della difficile situazione internazionale in cui l’Urss si era venuta a trovare e a un nuovo tentativo di riforma del comunismo, il
terzo dopo quelli compiuti da Chruséév e nei primi anni della direzione congiunta Breznev-Kosygin ed entrambi falliti. È stata spesso attribuita a Reagan l'intenzione di piegare l'Unione Sovietica costringendola a una corsa agli armamenti così costosa da minarne la stabilità economica. In ogni caso non si sarebbe trattato di una impresa semplice; secondo gli osservatori occidentali
l’Urss ereditata da Gorbalév stava sì attraversando una fase di transizione e forse di crisi a livello della direzione politica, ma era ancora una potenza militare temibile e non pareva in alcun modo prossima al tra-
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Storia degli ultimi cinquant'anni
collo economico visto che per il 1983 le stime più alte della Cia le attribuivano una crescita globale del 3,3 per cento. È notevole il fatto che Gorbadév fosse ancor meno disposto della Cia a giudicare attendibili le statistiche sovietiche. I suoi primi interventi pubblici riguardarono infatti la situazione economica, giudi-
cata disastrosa: al rallentamento della crescita degli anni settanta era seguito un periodo di stagnazione e
poi di effettiva crescita zero. La necessità di accrescere la produttività del lavoro era più impellente che mai e comportava far uscire la società sovietica dal torpore e da una fatalistica rassegnazione. Per raggiungere questi obiettivi interni era necessario cominciare con il rovesciare la politica estera imperniata sulla competi-
zione militare con l'Occidente e ritirarsi dalla guerra in Afghanistan, che era stata duramente pagata in termini di perdita di prestigio internazionale e di costi economici e umani (alla fine l’Urss conterà 50 000 fra morti e feriti, mentre l'Afghanistan ebbe un numero di vittime e profughi imprecisato ma certamente molto alto, secondo alcune stime contato a milioni). Nel
secondo caso si trattava solo di ammettere una sconfitta, ma nel primo caso per Gorbatév e il nuovo ministro degli esteri Eduard Shevardnadze era ancora possibile lanciare una politica di disarmo in grado di procurare consensi all’Urss e rovesciare su Reagan la responsabilità di voler proseguire nella corsa agli armamenti.
Nei primi due vertici fra i capi di Stato delle grandi potenze, tenuti a Ginevra nel novembre 1985 e a
Reykjavik (in Islanda) nell’ottobre 1986 Gorbatév si mostrò disponibile ad accettare l’opzione zero proposta da Reagan già nel 1981, ma il presidente america-
no rifiutò ogni contropartita e in particolarela rinun-
Il crollo dell'impero sovietico
cia al piano di Strategic Defense Initiative (SDI) o “scudo spaziale”. L'accordo, particolarmente gradito agli stati europei, venne nel terzo vertice, tenuto nel dicembre 1987 a Washington: per la prima volta le due grandi potenze stabilivano di ridurre gli arsenali militari, invece che limitarsi a non accrescerli, comin-
ciando con la distruzione degli “euromissili”, i missili a corto e medio raggio. Gorbadév accettava di non conteggiare quelli francesi e inglesi e non insisteva sullo SDI (che l’amministrazione repubblicana fece tacitamente cadere dopo che nel 1989 George Bush ebbe sostituito Reagan alla presidenza). Nel maggio 1986 era cominciato di fatto il disimpe‘ gno militare sovietico in Afghanistan, con i primi ritiri di truppe; nel febbraio 1988 venne l'annuncio ufficiale che l’Urss avrebbe ritirato entro un anno la totalità delle sue forze (pur continuando a fornire al governo di Kabul sostegno politico e aiuti militari contro i guerriglieri islamici, a loro volta appoggiati dagli Usa). A ciò seguì in dicembre la dichiarazione fatta da Gorbatév alle Nazioni Unite che l'Unione Sovietica si apprestava a ridurre unilateralmente di circa il dieci per cento gli effettivi dell’Armata Rossa. Erano intanto ripresi i colloqui START per la riduzione dei missili strategici, ovvero a lunga gittata, che avrebbero fatto un passo decisivo nel vertice di Reykjavik (con l'impegno a ridurli alla metà) e sarebbero stati firmati nel 1991 da Gorbaéév e Bush. Mentre in un momento di particolare ottimismo si poteva affermare che alla guerra fredda subentrava un ordine internazionale fondato sulla cooperazione fra le grandi potenze, Gorbatév doveva affrontare il pro| blema della riforma economica e istituzionale interna, ovvero della “ristrutturazione” o perestrojka, secondo 361
Storia degli ultimi cinquant'anni
il termine russo che il segretario del Pcus rese di uso comune in tutto il mondo. Lo sforzo in questa direzione sembrava più facile in un contesto internazionale pacificato, che consentiva all’Urss di ridurre l’in-
gombrante peso delle spese militari e più ancora di entrare nei circuiti del commercio internazionale. e di garantire l’afflusso di capitali e di tecnologie occidentali, indispensabili per il rilancio dell'economia. Il complesso delle riforme economiche introdotte nel corso del XII piano quinquennale 1986-90 cercava di realizzare più concretamente di quanto si fosse fatto nel 1965 la combinazione di piano e mercato, riducendo le pretese totalizzanti del piano e il suo carattere burocratico. Ciò venne ottenuto dando una crescente autonomia alle imprese, che dovevano autofinanziarsi, tener conto della domanda e risultare redditizie, ammettendo imprese straniere o miste, sviluppando l'affitto terriero al posto della partecipazione obbligatoria ai kolkhoz e ai sovkhoz, consentendo la nascita di attività private nei settori della piccola produzione e dei servizi. Ciò che non si era avuto il coraggio di fare venti anni prima risultò ora inevitabile: se non si arrivò ancora alla completa liberalizzazione dei prezzi, al posto della loro artificiosa stabilità e di un pieno impiego fittizio che nascondevano sprechi e perdite dovevano subentrare due fenomeni di cui i sovietici avevano scarsa esperienza, l’inflazione e i licenziamenti. Questa
riorganizzazione
del sistema
economico,
accompagnata dalla promessa che alle prime inevitabili difficoltà sarebbe seguito un progressivo miglioramento delle condizioni di vita, fu strettamente legata a una profonda trasformazione del sistema politico, che
doveva mettere in discussione il potere della burocra362
dà
à
Il crollo dell'impero sovietico
zia statale e il controllo capillare del partito sulla società civile: occorreva da un lato limitare il partito alla direzione politica generale e smantellare la sua sovrapposizione sullo Stato, dando a quest’ultimo l’autonomia indispensabile a svolgere il ruolo di regolatore della vita pubblica; dall’altro dare pieno spazio alle libertà individuali, le libertà “liberali” che il potere sovietico aveva fino ad allora sempre etichettato come “borghesi”. In entrambe le direzioni diventava necessario porre fine al sistema delle verità ufficiali, delle menzogne di partito che coprivano, essendo sempre meno credute e ingenerando un’ipocrisia generale, la verità storica e la realtà del presente. Il programma ‘della glasnost’ (trasparenza) lanciato sin dall’inizio da Gorbaéév, andando ben più a fondo di quel che aveva fatto a suo tempo Chrusèév, aboliva ogni censura, la-
sciava piena libertà al dibattito politico e culturale e invitava a ridiscutere a fondo la realtà passata e presente del comunismo sovietico: le verità di partito non esistevano più e il partito stesso cessava di essere la fonte della verità, l’unica autorizzata. Nell’ottobre del 1988 il Pcus poté arrivare all’approvazione di un progetto di riforma costituzionale, dopo che nell’ufficio politico gli uomini disposti ad appoggiare il segretario erano stati progressivamente sostituiti ai dirigenti più anziani e prevedibilmente più conservatori, compreso Gromyko. La riforma prevedeva l’elezione popolare di un folto Congresso dei deputati del popolo che aveva l’ultima parola sulle grandi riforme ed eleggeva a sua volta un Soviet supremo titolare delle funzioni legislative e il presidente dell’Unione Sovietica, una figura profondamente rin| novata rispetto al passato, con poteri che volevano | essere simili a quelli previsti dalle repubbliche presi363
Storia degli ultimi cinquant'anni
denziali occidentali. Ma il passaggio alla democrazia fu estremamente lento e cauto. Alle elezioni del Congresso del marzo 1989 era ammesso solo il partito comunista e un terzo dei deputati erano designati direttamente dal partito e da altri organismi ufficiali, mentre l'elezione degli altri, che ammetteva candidature
anche contrapposte, avvenne con insufficienti garanzie. Nel marzo del 1990 Gorbaéév venne eletto presidente da questo congresso dalla rappresentatività dubbia. 2. 1989; la fine del blocco orientale
Con lo stato di emergenza imposto dal generale Jaruzelski il 13 dicembre 1981 la Polonia era tornata ad allinearsi con gli altri paesi dell'Europa orientale nell’escludere la legalizzazione della dialettica politica e di ogni forma di opposizione. Ma meno di un anno dopo la morte di Breznev apriva proprio ai vertici dell’Unione Sovietica un processo di rinnovamento che inevitabilmente avrebbe posto dei problemi ai dirigenti del blocco orientale. Con le sue dichiarazioni e i suoi atti Gorbatév mostrò di non voler interferire nei loro sviluppi interni, convinto tuttavia che anch'essi attraverso scelte autonome avrebbero prima o poi seguito la via intrapresa in Urss: i partiti comunisti dovevano conservare il monopolio del potere, ma rinunciando alla loro infallibilità, accettando il rischio di sottoporsi alla “trasparenza” e alla critica dell’opinione pubblica e, per cominciare, compiendo visibili mutamenti nei gruppi dirigenti. La strategia internazionale messa in atto da Gorbadév nel 1986-87 prevedeva infatti allo stesso tempo sia il mantenimento del blocco orientale con una più autorevole guida sovieti-
ui
i (E
Il crollo dell’impero sovietico
ca, sia una maggiore autonomia da parte dei sei paesi europei membri del Comecon e del patto di Varsavia. L'immagine data da un rinnovamento che coinvolgeva l’intero blocco Urss-Europa orientale avrebbe consentito di migliorare e intensificare i suoi rapporti con l'Europa occidentale, rafforzando anche in questa direzione il nuovo processo di distensione e riducendo progressivamente il significato antisovietico dell’alleanza atlantica che avrebbe continuato a legare l'Europa agli Stati Uniti. Il concetto di “casa comune europea”, sviluppato nel libro di Gorbadév Perestrojka (che fu un best seller mondiale nel 1987) sintetizzava bene la strategia del leader sovietico: «sviluppando la metafora si può dire: la casa è in comune, certo, ma ogni famiglia ha il suo appartamento e vi sono diversi ingressi. Tuttavia soltanto insieme, collettivamente,
seguendo le norme sensate della coesistenza, gli europei possono salvare la loro casa, proteggerla da una ‘ conflagrazione e da altre calamità, renderla più sicura, migliorarla e mantenerla in ordine» (p. 261). Dunque, un'Europa unica per tradizione storica (della quale faceva parte a pieno titolo anche l’Urss), ma sistemi sociali diversi e diverse alleanze politico-militari. Gorbatév poté elogiare i passi compiuti sulla strada della perestrojka politica in Ungheria e ancor più nella Polonia di Jaruzelski, dove lo stato di emergenza era stato abolito e le attività di Solidarno$6, di fatto rico-
stituita sotto la direzione di Lech Walesa (insignito del premio Nobel per la pace nel 1983), erano controllate ma per lo più tollerate. Ma con gli altri quattro paesi (Cecoslovacchia,
Repubblica
democratica
tedesca,
Bulgaria e Romania) le cose andavano meno bene, perché essi invocavano ora la propria autonomia pre|cisamente per escludere ogni mutamento politico. 365
Storia degli ultimi cinquant'anni
Accanto alle discrete pressioni di Gorbadév, due altri fattori stavano in vario modo agendo per avviare questo mutamento. Il primo coinvolgeva i paesi a maggioranza cattolica, la Polonia e anche l'Ungheria e la Cecoslovacchia, ed era costituito dalla Ostpolizik vaticana svolta dal pontefice Giovanni Paolo Il e dal segretario di stato Agostino Casaroli. Il papa da una parte e i dirigenti delle Chiese nazionali dall’altra seppero in questi anni porsi alla testa dei movimenti di rinnovamento, combinando con convinzione e come
entrambi universali i temi dei diritti dell’uomo e quelli propri del cristianesimo e ottenendo consensi anche da parte di forze liberali e democratiche culturalmente “laiche”; allo stesso tempo la Chiesa cattolica si pose come forza di ragionevole mediazione fra i governi e le opposizioni. Un vero risveglio religioso si notò negli anni ottanta in tutto il blocco orientale e coinvolse anche lUrss: qui nel 1986 fu posto fine all’ateismo di Stato e i mille anni dalla nascita della Chiesa ortodossa ebbero adeguate celebrazioni pubbliche. Intanto il cardinale Casaroli preparava a Mosca l’incontro fra Gorbatév e Giovanni Paolo II che costituì un’importante tappa nei viaggi europei del 1989 del premier sovietico. Il secondo fattore era costituito dall’aggravarsi della crisi economica: in tutti i paesi dell'Europa orientale crescevano il debito estero (39 miliardi di dollari nella sola Polonia) e la dipendenza dall’Occidente per ottenere nuovi prestiti e rinegoziare i vecchi, ma cresceva anche il peso del servizio degli interessi provocando spinte inflazionistiche e obbligando ad accrescere le esportazioni in una misura che colpiva pesantemente le condizioni di vita popolari. Diven-
tava sempre più difficile che le forze al potere riuscissero a proporre nuovi sacrifici senza il consenso delle 366
Il crollo dell'impero sovietico
popolazioni e senza accettare la collaborazione dell'opposizione. Come già nel 1980, anche in questo caso fu la Po-
lonia a rivelarsi un laboratorio politico per tutti i paesi dell'Est. Nel 1987 e 1988, mentre si moltiplicavano gli
scioperi, l'opposizione cominciò a sfidare apertamente il governo comunista, sempre meno propenso a difendersi e ben consapevole che occorreva accettare la trattativa. Nel febbraio-aprile del 1989 i rappresentanti di Solidarnosé e quelli del potere ufficiale (il governo e il partito) concordarono in una “tavola rotonda”, svoltasi con la mediazione della Chiesa polacca, una serie di riforme politiche ed economiche e stabilirono di eleggere un nuovo parlamento bicamerale. Si trattava ancora di una scelta di transizione, perché mentre le candidature al senato erano tutte libere, il 65 per cento dei seggi della camera erano assegnati in
anticipo ai comunisti e ai loro alleati minori. Ma dalle elezioni del 4 giugno 1989, data resa storica dal fatto che erano le prime a svolgersi liberamente in Europa orientale dal 1945, emerse lo scarsissimo consenso di
cui godeva il regime: tutti i senatori meno uno e tutti i membri della dieta realmente derivati dal giudizio degli elettori appartenevano all'opposizione. Il generale Jaruzelski conservò in base all'elezione da parte del parlamento le funzioni di presidente della repubblica e, dopo che due esponenti comunisti ebbero fallito nel tentativo di costituire una maggioranza, alla fine di agosto dovette affidare l’incarico di formare un nuovo governo di coalizione a un politico non comu‘ nista, il cattolico Tadeusz Mazowiecki. Esito ultimo di queste trasformazioni fu la disintegrazione del partito
comunista (che venne rifondato con il nome di Alleanza della sinistra democratica) e nel dicembre 1990 l’e367
Storia degli ultimi cinquant'anni
lezione a suffragio diretto di un nuovo presidente della repubblica, che vide il prevedibile trionfo di Lech Walesa. In Ungheria le pressioni sul regime di Kadar perché ammettesse il pluralismo politico erano venute crescendo dal 1985 e avevano condotto nel 1988 alle dimissioni del vecchio leader, rimasto ininterrottamente al potere dal 1956, e all'avvento di una nuova
direzione comunista che non pose ostacoli alla nascita ufficiale di un primo partito di opposizione centrista, il Forum democratico formato da forze nazionali-cristiane, cui tennero dietro diverse altre formazioni. La riabilitazione dei protagonisti della rivolta del 1956 era già da anni al centro delle richieste delle opposizioni e venne soddisfatta nel giugno 1989 dall’ultimo governo comunista, che dette una forma pubblica ai funerali organizzati per celebrare le memoria di Imre Nagy. L’affollata cerimonia si trasformò in una dichiarazione di morte del regime. In ottobre il parlamento proclamò il pluripartitismo e il partito comunista si sciolse rifondandosi con il nome di partito socialista. Le elezioni del marzo 1990 videro una netta vittoria del Forum democratico, mentre, posto di fronte a una elezione, libera l’ex partito comunista si fermò all’8,5
per cento dei voti. Alla Polonia e all’Ungheria seguì nell'autunno 1989 _ la Cecoslovacchia,
dove Dubéek e i suoi seguaci
potevano dire di aver anticipato con la «primavera»
di Praga molti temi della politica gorbacioviana. Qui nel 1987 era ripresa la lotta dell’opposizione liberaldemocratica che si ispirava al movimento per i diritti civili promosso dieci anni prima con il nome di
“Charta 77” e represso dal regime. Alla fine dell’an no erano venute le dimissioni da segretario delparti
seg. © N
Il crollo dell'impero sovietico
to di Gustav Husak, l’uomo che aveva gestito la normalizzazione del paese dopo l’invasione sovietica del 1968. Si trattava però ancora di un mutamento di facciata, perché Husak restava presidente della repubbli-
ca e il regime continuava a essere repressivo, come dimostrò nel gennaio 1989 la condanna a nove mesi di prigione dello scrittore Vaclav Havel, il maggior esponente di “Charta 77”. Dall’agosto all’ottobre le manifestazioni contro il governo e il partito comunista divennero sempre più frequenti, venendo a incrociarsi in novembre con quanto stava accadendo nella Germania orientale. Dal 17 novembre manifestazioni divenute ormai plebiscitarie si susseguirono quasi ogni giorno, portando il 29 novembre 1989 al cedimento totale il governo, con l'ammissione del pluripartitismo e la cessione del potere all'opposizione democratica. Husak lasciò la presidenza della repubblica e al suo posto venne insediato Havel, mentre con l'elezione a presidente del parlamento tornava alla vita politica anche Aleksander Dubéek. La svolta cecoslovacca, denominata “rivoluzione di
velluto” perché sostanzialmente pacifica, era stata a un certo punto concordata col vecchio regime, come già quella polacca e ungherese. Cera invece da attendersi poca disponibilità all’autodissoluzione da parte del regime comunista della Germania orientale, guidato dal 1971 da Erich Honecker, totalmente restio
alle sollecitazioni gorbacioviane e considerato capace di una indubbia efficienza amministrativa nella gestione dell'economia oltre che nel controllo delle opposi-
zioni attraverso la polizia politica e uno smisurato apparato di spionaggio interno. Il fattore scatenante fu | quicostituito il 2maggio 1989 dalla decisione dell’Un-
gheria di demolire i 350 km di filo spinato e posti di 369
Storia degli ultimi cinquant'anni
controllo che rendevano impenetrabile la sua frontiera con l’Austria. Potendo entrare come turisti in Cecoslovacchia e quindi passare dall'Ungheria all'Austria e alla Germania occidentale, i tedeschi orientali furono
così in grado di usare questa rottura della “cortina di ferro” e di aggirare quella fra le due Germanie e il muro di Berlino: mentre dopo il 1961 non più di 1015 000 persone all’anno erano riuscite a passare in Occidente, nel 1989 in pochi mesi furono circa 320000 a
lasciare il loro paese, mentre le ambasciate occidentali di Berlino Est, Praga e Budapest si riempivano di altri tedeschi che chiedevano asilo politico. Ma dai primi giorni di ottobre chi si opponeva alla soluzione della fuga cominciò a organizzare nelle maggiori città una serie continua di manifestazioni popolari, culminate il 9 novembre con la distruzione del muro di Berlino, il simbolo stesso della guerra fredda e della cortina di ferro. Honecker fu deposto e l’intero gruppo dirigente del partito si dichiarò dimissionario. Si aprì così un processo indirizzato alla costituzione di un governo formato dalle forze dell'opposizione, mentre all’idea della conservazione di uno stato tedesco-orientale si sostituiva rapidamente quella della riunificazione fra le due Germanie. Nel marzo 1990 le prime elezioni libere tenute nella Germania orientale videro una vittoria schiacciante del partito cristiano-
democratico, subito costituitosi per trattareipassi dell'unificazione con la Repubblica federale. Il cancelliere Helmut Kohl riuscì a vincere i molti dubbi ed esitazioni che sorgevano di fronte all'immagine di una Germania
con
80 milioni
di abitanti, non
solo
nell'Unione Sovietica e in stati come la Polonia e la Cecoslovacchia, che avevano avuto in passato il dub-
bio privilegio di essere suoi vicini diretti ad oriente, 370
Il crollo dell'impero sovietico
ma anche nella stessa Comunità europea e negli Stati Uniti. In settembre i rappresentanti delle ex potenze occupanti, Usa, Germania, Francia e Urss, si riuniro-
no a Mosca per dichiarare esaurito l'assetto tedesco stabilito a Potsdam nel 1945. Ogni ipotesi gradualistica era stata respinta da Kohl, che aveva compiuto l’atto decisivo di introdurre nella ex Rdt il marco federale e di sospendere il tradizionale rigore monetario della Rft, accettando il cambio alla pari con il marco orientale, prima anticipazione dei costi che sarebbero derivati dalla riunificazione, proclamata formalmente il 3 ottobre 1990 e riconosciuta da tutti gli stati in parallelo al riconoscimento da parte della Rft dei confini con la Polonia e con l’Urss. Alle prime elezioni pantedesche del dicembre 1990 Kohl ottenne uno scontato largo successo. Gorbatév, convinto dalle promesse di aiuti finanziari e di investimenti da parte della Germania, aveva dovuto rinunciare all'idea di un
nuovo stato neutrale e accettare una unificazione che aveva tutta l’aria di un’annessione e il conseguente ingresso della ex Rdt nel patto Atlantico. Se in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria e Germa-
nia orientale le grandi manifestazioni di massa e la crisi dei gruppi dirigenti comunisti condussero a un’evoluzione essenzialmente politica e incruenta, in Bulgaria il vecchio partito comunista ridenominatosi socialista fu meglio in grado di controllare la situazione, ammettendo il pluripartitismo ma risultando poi vincitore nelle elezioni del giugno 1990. Solo in Romania la caduta del regime avvenne in forma violenta. Qui Nicolae Ceausescu, al potere dal 1965, aveva finito per costruire una dittatura personale e familiare, godendo paradossalmente del maggior favore in Occidente per aver manifestato in più occasioni la propria autonomia 371
Storia degli ultimi cinquant'anni
da Mosca (nel 1968, la Romania si rifiutò di partecipare all'invasione della Cecoslovacchia). In seguito alla decisione di estinguere a qualsiasi costo i debiti con l'Occidente, l’ultima fase del potere di Ceausescu vide un crescente degrado dell'economia e delle condizioni di vita della popolazione, accompagnato da manifestazioni di megalomania e di populismo nazionalista, con grandiosi progetti architettonici, e dalle persecuzioni contro la consistente minoranza magiara del paese. Alle. manifestazioni antigovernative del dicembre 1989 Ceausescu rispose con le durissime e sanguinose repressioni attuate dalla polizia politica, la Securitate, ottenendo solo di trasformarle in una rivoluzione, resa
però non del tutto limpida dal tentativo del vecchio apparato di mantenersi al potere dopo essersi liberato della persona del dittatore Ceausescu. Questi fu arrestato e giustiziato con la moglie Elena e la guida del paese, in un clima di grande incertezza politica, fu assunta dal Fronte di salvezza nazionale, il cui principale ispiratore, Ion Iliescu, venne eletto presidente della repubblica.
3. 1991: dalla rinuncia all'impero alla dissoluzione dell’Unione Sovietica
L'impero sovietico era costituito. da quattro anelli. Quello più periferico comprendeva i paesi del Terzo mondo che negli anni settanta l’Urss aveva fatto entrare nel proprio blocco militare. C'erano poi i paesi dell'Europa orientale, che nel 1956 e nel 1968 aveva-
no dovuto apprendere che la loro sovranità era tata”. Veniva quindi l’Urss, formalmente uno federale composto di quindici repubbliche, ma risultato della lunga storia di espansionismo 372 >
“limistato anche della
Il crollo dell'impero sovietico
Russia zarista e poi di quella comunista: accanto alla Russia vi erano la Bielorussia, l'Ucraina e la Moldavia,
l'Armenia, la Georgia e l’Azerbaigian, le cinque repubbliche centroasiatiche — Kazakistan, Kirghisistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan — e le tre repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania. Ma anche la Russia era una federazione (Repubblica socialista federativa sovietica russa), composta dal nucleo
centrale delle province propriamente russe, dalle province siberiane e dall’ultimo anello, quello costituito dalle varie entità — territori, province e repubbliche — dotate di un certo grado di autonomia. Ritirandosi dall’ Afghanistan l’Urss di Gorbaéév ave| va dimostrato che intendeva rinunciare all’anello più esterno; e infatti fra il 1988 e il 1990 l'Unione Sovietica,
oltre a ridurre gli aiuti a Cuba, tolse il suo appoggio militare all’Etiopia e si adoperò per una soluzione politica dei conflitti ancora in atto in Angola e in Cambogia. Contemporaneamente nel secondo anello si verificava il passaggio da un troppo tardivo tentativo di liberalizzazione dei regimi comunisti a un vero e proprio crol-
lo dell'intero blocco. Dapprima fu concordato il ritiro delle truppe sovietiche dai singoli paesi aderenti al patto di Varsavia, poi a partire dal 1° luglio 1991 il patto stesso fu dichiarato estinto, dopo che analoga sorte era toccata al Comecon. Ben diverso e assai ambizioso era stato il progetto di Gorbaéév, che comportava una resa in rapporto alla sfida lanciata dal gruppo dirigente brezneviano ma non una rotta: convincere gli Stati Uniti, anche a costo di grandi concessioni, a invertire la logica della corsa agli armamenti, portandone drasticamente la soglia a un livello più basso e ugualmente in grado di mantenere l’equilibrio; rinunciare alle ambizioni di superamento strategico degli Usa o anche solo 373
Storia degli ultimi cinquant'anni
di parità totale coltivate dal precedente gruppo dirigente sovietico; valorizzare la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazionein Europa di Helsinki (Csce) sulla base dell'idea di “casa comune europea” e rinunciando a contrapporre l'Europa occidentale agli Stati Uniti; tentare di combinare un equilibrio duale, del tutto liberato dalla prospettiva della guerra fredda, fra le maggiori potenze militari e il quadro di effettivo policentrismo caratterizzato, oltre che dal ruolo dell’Europa, dai buoni rapporti fra Urss e Usa e fra Urss e Cina (in quest’ultima direzione andava la ripresa dei colloqui per la definizione dei confini fra i due paesi e il viaggio di Gorbaéév a Pechino del maggio 1989). Si trattava di un progetto che nasceva certamente in
chiave difensiva e di parziale ritirata, ma contava sulla capacità dei partiti comunisti orientali di riconquistare il consenso e sulla convinzione che le riforme economiche avrebbero rapidamente dato dei risultati. Nulla di tutto questo era accaduto e al crollo del blocco orientale si accompagnava la fine della crescita del prodotto interno dell’Urss: dopo i risultati incoraggianti del 1986-88, questa fu praticamente nulla nel 1989 e negativa nel 1990 (-2 per cento) e 1991 (-12 per cento). La parziale liberalizzazione dell'economia e la maggiore apertura verso l’esterno, provocata dalla necessità di procurarsi valuta per pagare gli interessi sul debito estero, ebbero conseguenze pesanti in termini di disoccupazione e inflazione: le imprese che in
precedenza potevano mascherare le proprie perdite dovettero chiudere; anche se ufficialmente inconvertibile, il rublo dovette essere svalutato, rendendo più
care le importazioni agricole e manifatturiere. Gorbaéév continuava a godere di un grande presti- | gio internazionale e i suoi numerosi viaggi all’estero 374 Ue, .
Il crollo dell'impero sovietico
davano l’impressione che l'Unione Sovietica avesse riconquistato un posto di primo piano nel sistema delle grandi potenze. Nel luglio 1991 il presidente sovietico riuscì anche a partecipare come osservatore
alla riunione di Londra del cosiddetto G 7, il gruppo dei sette paesi più industrializzati. Quest’uso propagandistico della politica estera aveva uno scopo primario, ottenere aiuti finanziari dall’Occidente; ma per risanare l'economia sovietica Gorbaéév chiedeva cifre enormi, senza poter offrire alcuna garanzia di possedere in Urss una forza politica sufficiente a raggiungere lo scopo. AI contrario, la sua popolarità all’interno del paese era in netto calo. Da una parte doveva fronteggiare gli scioperi (in particolare quelli dei minatori nel 1989 e 1990), cui si poteva ora ricorrere liberamente per ottenere miglioramenti salariali; dall’altra vi era l’opposizione delle forze conservatrici che continuavano a esistere nell’apparato del partito, dello Stato e del sistema industriale e che, trovando il loro referente nel
vicesegretario del partito Egor Ligatév, potevano far pesare i numerosi insuccessi interni ed esterni della perestrojka. Nel 1990 Gorbaéév si trovava a pagare il più grave errore commesso negli anni precedenti: non
aver cercato l'investitura a presidente in una elezione popolare diretta invece che nel tortuoso sistema creato con la riforma costituzionale dell'ottobre 1988. Per evitare lo scontro frontale e mantenere una posizione “centrista” Gorbatév aveva finito per rompere con molti dei suoi collaboratori riformisti, a cominciare da
Boris Eltsin, che divenne già dal 1988 un suo nemico personale, e da Eduard Shevardnadze, che nel dicem. bre 1990 si dimise da ministro degli esteri. Per settant'anni l'Unione Sovietica era stata gover%
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Storia degli ultimi cinquant'anni
nata dal potere assoluto del partito comunista, che a sua volta si era organizzato come una rigida gerarchia nella quale non c’era spazio per le esitazioni e le lentezze tipiche della democrazia. Di fatto questo sistema era diventato come una seconda natura, indispensabile per far funzionare, anche al peggio, l'economia e la società e per tenere insieme una composita realtà costi-
tuita da una ventina di nazionalità maggiori e da un centinaio e più di nazionalità minori, spesso frazionate e incastrate le une nelle altre come province autonome all’interno delle singole repubbliche. Ma nel giro di pochi anni all'immagine di un sistema politico-economico fondato sull’intreccio e sulla connivenza fra inefficienza e corruzione si era aggiunta quella di un partito diviso e indebolito, che aveva perso la sua infallibilità e ammetteva una lista interminabile di colpe, a cominciare dalle deportazioni delle minoranze nazionali compiute negli anni quaranta, senza separare il partito stesso dai singoli individui, come era invece riuscito a fare ChruSèév; da questo punto di vista si può dire che fu più la g/asrost che la perestrojka a provocare la rovina dell’Urss (ma prima ancora vi era stato il fallimento della riforma economica del 1965, che
aveva costretto l’Urss alla scelta rovinosa di accettare il confronto con le economie occidentali). La decisione presa dal Soviet supremo nel marzo 1990 di cancellare l'articolo 6 della Costituzione e il principio del partito-guida suprema fu l'autorizzazione ultima alla comparsa di tensioni nazionaliste fino a quel momento sempre attentamente soffocate. Per prima era venuta già dal febbraio 1988 la richie-
sta degli armeni del Nagorno-Karabah, provincia collocata all’interno dell’Azerbaigian, di essere unificati
con la repubblica di Armenia; alle prime manifesta376
Il crollo dell'impero sovietico
zioni separatiste seguirono scontri e veri e propri mas-
sacri compiuti dagli azeri sulla minoranza armena (quattrocentomila persone, per metà collocate nel Nagorno-Karabah). Gorbadév dovette inviare l’esercito a dividere i contendenti, senza dimostrarsi molto capace di proteggere gli armeni. A questa prima situazione difficile si aggiunsero il conflitto fra la minoranza russa e la maggioranza rumena della Moldavia e gli aperti movimenti indipendentisti comparsi in Georgia e nelle repubbliche di Estonia, Lituania e Lettonia. Il loro caso era particolarmente imbarazzante, perché i tre stati baltici erano stati occupati dall’Urss durante il secondo conflitto mondiale in virtù degli accordi segreti tra Mosca e Berlino del 1939; in seguito in essi era stata favorita una intensa emigrazione russa, che in
Estonia e Lettonia mutò profondamente la composizione della popolazione, complicando i movimenti indipendentisti con delicate questioni nazionali. Nel luglio 1990 si riunì il XXVIII congresso del Pcus (che sarebbe stato anche l’ultimo), dopo che in marzo e in maggio i parlamenti delle repubbliche baltiche avevano dichiarato la propria indipendenza. Gorbaéév accrebbe il suo controllo sull'apparato del partito, ma il congresso era stato preceduto da un evento decisivo, la nascita di un partito comunista russo distinto da quello sovietico e la proclamazione della propria sovranità da parte della Repubblica federativa russa, che, pur restando parte dell’Unione Sovietica, elesse un suo congresso. Boris Eltsin, dimostrando notevoli doti demagogiche e populiste, si dimise allora dal Pcus e in qualità di presidente del congresso della
Federazione russa eletto nel marzo 1990 divenne uno - dei più accesi assertori del nuovo nazionalismo della — Russia e del suo diritto a gestire la propria economia ì
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Storia degli ultimi cinquant'anni
indipendentemente dalle direttive dell’Unione Sovietica. L’analoga dichiarazione di sovranità da parte dell'Ucraina segnò un nuovo passo verso la dissoluzione dell’Urss, compiuto ancora più nettamente con la separazione totale da parte della Georgia. La strategia estrema di Gorbatév consisté allora nel combinare il ricorso alla forza con una nuova proposta di riforma costituzionale. Nel gennaio 1991 il presidente sovietico ordinò l'intervento di truppe speciali contro i manifestanti lituani di Vilnius e lettoni di Riga; poco dopo offrì alle repubbliche un patto di unione che doveva riconoscere la loro sovranità e trasformare l’Unione Sovietica in una vera federazione. Il referendum organizzato in primavera per misurare l'appoggio popolare al progetto dette risultati poco soddisfacenti. Sei delle quindici repubbliche (Estonia, Lettonia, Lituania, Armenia, Geor-
gia, Moldavia) lo utilizzarono per dare forma definitiva alla loro indipendenza; in Russia il vero oggetto del referendum fu la proposta di istituire una presidenza della repubblica eletta a suffragio diretto. Rispondere alle secessioni, se pure era ancora possibile, ricorrendo ancora all'esercito significava perdere l'appoggio internazionale e abbandonarsi completamente alle forze interne conservatrici. D'altra parte stava crescendo la contrapposizione fra l’evanescente Urss e la Russia: nel giugno 1991 Eltsin venne trionfalmente eletto presidente della Russia e si procurò in tal modo un titolo di legittimità ben più solido di quello di Gorbatév.
È molto dubbio che il trattato dell’unione sarebbe stato giudicato soddisfacente dalle altre nove repubbliche sovietiche (Russia compresa) che avevano continuato i colloqui con il presidente dell’Urss mentre la 378
Il crollo dell'impero sovietico
situazione economica precipitava con una inflazione
al 300 per cento e gli scioperi si moltiplicavano. Il 19 agosto 1991 l'operazione di riforma costituzionale fu bloccata dall’iniziativa di un gruppo di alti funzionari dello stato, fra cui quattro ministri (non — va osservato — gli elementi conservatori del partito seguaci di Ligatév, ma uomini di fiducia di Gorbaéév), che si
autoproclamarono Comitato governativo per lo stato di emergenza. Si trattava di un colpo di stato, ma assai maldestramente preparato, perché non ebbe l’appoggio delle forze armate. L'opposizione popolare, che a Mosca trovò immediatamente in Eltsin il suo riferimento politico, il rifiuto di Gorbadév, sequestrato per alcuni giorni mentre si trovava in vacanza in Crimea,
di scendere a patti con il gruppo dei golpisti e l’opposizione internazionale determinarono in tre giorni il fallimento del tentativo. Gli effetti però furono dirompenti. Mentre tutte le repubbliche sovietiche si affrettavano a dichiarare la propria indipendenza, Eltsin si riunì in dicembre con i presidenti dell’Ucraina e della Bielorussia e dichiarò sciolta l'Unione Sovietica. Al suo posto fu costituita una Comunità di stati indipendenti, cioè una confederazione, che esisteva però solo sulla carta non avendo né organi né poteri, e alla quale non aderirono la Georgia e le repubbliche baltiche. Già prima dell’Urss aveva cessato di vivere il Pcus: il partito si era autosciolto dopo che Eltsin aveva soppresso il partito comunista della Federazione russa. A Gorbatév non restò altro che dimettersi dalla carica di presidente di una Unione Sovietica che non esisteva più. Lo stesso giorno, il 25 dicembre
1991, la bandiera rossa fu
ammainata dal Cremlino e sostituita dalla nuova bandiera della Federazione russa. 379
Storia degli ultimi cinquant'anni
4. Le conseguenze del crollo sovietico sugli equilibri mondiali Nel 1980 l'Unione Sovietica appariva il secondo polo di un ordine mondiale la cui natura bipolare era destinata a mantenersi ancora a lungo, visto che l'Europa era ancora incapace di far valere un suo autonomo peso politico e che la Cina era occupata a risolvere i suoi problemi interni dopo le lunghe lotte di potere aperte ‘dalla rivoluzione culturale. Inoltre il bipolarismo sembrava dover evolvere nuovamente verso una dinamica conflittuale, visto che l'Unione Sovietica,
avendo conseguito la parità o perfino la superiorità militare, appariva impegnata in «un vasto piano di dominazione mondiale sapientemente orchestrato» (J. Levesque, 1989. La fin d’un empire, 1995, p. 25), mentre gli Stati Uniti stavano appena uscendo da una fase di ritirata con qualche carattere isolazionista. Un possibile crollo dell’Urss era stato ipotizzato negli anni precedenti da due diversi punti di vista; il dissidente sovietico Andrej Amalrik aveva pensato alle conseguenze della sclerosi che inevitabilmente colpisce i regimi totalitario-burocratici («si logorano fino all'estinzione senza accorgersene», Riuscirà l'Unione Sovietica e sopravvivere fino al 1984?, p. 59), mentre la
sovietologa Hélène Carrère d’Encausse (L'erzpire eclaté. La révolte des nations en Urss, 1978) aveva eviden-
ziato l’azione disgregatrice prodotta dal risveglio dei particolarismi nazionali e religiosi. La tesi dell’implosione si rivelò più esatta di quella dell’esplosione, perché la fuga verso l'indipendenza delle repubbliche sovietiche venne dopo il crollo del potere centrale, ed è notevole il fatto che siano state le cinque repubbliche centroasiatiche a maggioranza musulmana (prime
380
O
.
AS
Il crollo dell'impero sovietico
candidate a uscire dalla “prigione dei popoli” secondo le tesi dell’Eyzpire eclaté) quelle che aspettarono l’ultimo momento per dichiararsi indipendenti. In ogni caso ancora nel 1985-86 era difficilmente prevedibile un così rapido crollo dell’impero sovietico, perché era difficile rintracciare precedenti storici di un crollo imperiale senza una guerra esterna perduta o senza drammatici sollevamenti interni armati. Gli eventi del 1989 culminati nella simbolica distruzione del muro di Berlino furono percepiti in gran parte del mondo sotto una intensa luce di ottimismo. La riunificazione della Germania stava per avvenire in forma non traumatica e lo stesso accadeva per la dissoluzione del patto di Varsavia; con la fine della guer-
ra fredda la democrazia e l'economia di mercato si imponevano pacificamente in Europa orientale, mentre si poteva anticipare nell’immaginazione un eccel-
lente futuro nel quale in Unione Sovietica sarebbero proseguite le riforme di Gorbatév e nel mondo intero le due grandi potenze, avviato il disarmo, si sarebbero poste come garanti di un nuovo sistema internaziona-
le fondato sulla cooperazione. Con la fine dell’Unione Sovietica, sopravvenuta nel corso degli ultimi mesi del 1991, il superamento dell'ordine mondiale fondato sul bipolarismo andava però oltre ciò che potevano desiderare gli ottimisti: l’eventuale compiacimento per la sconfitta del comunismo doveva temperarsi di fronte all’aprirsi di uno scenario del tutto imprevisto nel quale rischiavano di emergere nuovi squilibri e tensioni, perfino più difficili da gestire dei vari momenti di braccio di ferro che si erano succeduti nel tempo fra le due “superpotenze”. Abbiamo osservato più volte che molti dei conflitti che si erano verificati nel mondo dalla fine degli anni cin381
Storia degli ultimi cinquant'anni
quanta non avevano niente a che fare con la guerra fredda; e tuttavia non pochi di essi erano stati subor-
dinati alla logica del bipolarismo perché le due grandi potenze avevano ritenuto di trarre importanti vantag-
gi strategici schierandosi a favore di questo o quello dei contendenti; il senso di quei conflitti era stato abitualmente snaturato e anche esasperato, ma per altri aspetti si poteva dire che essi erano stati tenuti sotto controllo, perché le stesse grandi potenze potevano talora trovare conveniente spegnere il conflitto ritirando il loro appoggio alla parte protetta o obbligandola a scendere a patti con l’altra; d’altra parte le tensioni
fra due stati potevano attenuarsi di fronte alla convenienza di stare dentro lo stesso blocco. Così i contrasti fra due stati del peso dell’India e del Pakistan non erano andati oltre le guerre locali e di breve durata,
mentre quelli fra Grecia e Turchia (membri della Nato) oppure fra Ungheria e Romania (membri del patto di Varsavia), a causa della forte minoranza dei magiari della Transilvania, erano stati più o meno con-
tenuti. Venuto meno il bipolarismo, c’era da attendersi che le ragioni di disordine internazionale si sarebbero moltiplicate, e ciò lungo due linee principali (che potevano peraltro intrecciarsi fra di loro): conflitti economico-politici fra stati soprattutto del Terzo mondo e conflitti etnici o religiosi all’interno di una delle molte realtà statuali multinazionali esistenti al mondo.
È inutile precisare che la capacità di egemonizzare i conflitti da parte delle grandi potenze si era già ridotta negli anni settanta. Va in particolare ricordato che, dopo la rivoluzione khomeinista, la lunga guerra che oppose fra il 1980 e il 1988 Iraq e Iran non poté essere inquadrata nella ripresa della guerra fredda, perché il khomeinismo spaventava sia gli Usa che l’Urss. Fini- | 382
Il crollo dell'impero sovietico
ta quella guerra, una prima gravissima crisi internazio-
nale da “dopo-guerra fredda” era già scoppiata il 2 agosto del 1990, quando il dittatore dell'Iraq Saddam Hussein aveva proceduto all'invasione dell’emirato del Kuwait, proclamandone l’annessione. Questa nuova crisi era probabilmente prodotta dalla convinzione del leader iracheno di poter impunemente pagarsi il conto del servizio prestato a mezzo mondo fiaccando l’Tran khomeinista e mostrava che alla fine del bipolarismo — capace a suo modo di costituire un ordine internazionale, seppure fondato sull'equilibrio del terrore — rischiava di sostituirsi un’anarchia caratterizzata da atti di banditismo internazionale. Tale appariva l’aggressione al Kuwait, anche se ovviamente ciò dipendeva dal fatto che nel 1990 l’emirato produceva il 10% del petrolio greggio del Medio Oriente, trovandosi al quarto posto della graduatoria mondiale delle riserve. Considerato la maggiore potenza militare dell’area, Iraq poteva inoltre diventare una minaccia per altri paesi del golfo Persico. Un intervento militare contro l’Iraq veniva così a trovarsi giustificato sul piano formale e sostanziale e poté essere realizzato nel gennaio-febbraio 1991 (provocando una fiammata del prezzo del petrolio, che tornò per un momento a 40 dollari al barile) da una coalizione internazionale che portava la bandiera dell'Onu e che vide la partecipazione simbolica di una trentina di paesi, compresi diversi stati arabi (fra i quali Arabia Saudita, Egitto e Siria). Le azione militari, alle quali l’Urss di Gorbatév dette o dovette dare il proprio assenso, furono condotte in pratica solo dagli Stati Uniti: nella “guerra del golfo” questi misero alla prova una strategia che arrischiava appena le loro
forze umane ed era invece fondata sui bombardamen383
v
Storia degli ultimi cinquant'anni
ti aerei, su un’alta tecnologia bellica e sulle prestazioni di piloti dall’elevato profilo professionale (l’idea che questo tipo di guerra potesse coinvolgere solo attrez-
zature strategiche e risparmiare la popolazione civile si dimostrò peraltro pura propaganda). Una nuova crisi internazionale esplose dal giugno 1991; il suo teatro geopolitico fu costituito dalla federazione jugoslava e dal suo disfacimento, ma questa appariva solo il primo e concreto manifestarsi di molte altre analoghe situazioni esplosive, corrispondenti alla seconda delle tipologie più indietro indicate (i conflitti etnici). Per quattro decenni la contrapposizione e il continuo conflitto potenziale fra i due blocchi politici e ideologici aveva nascosto o fatto passare in secondo
piano più antiche ragioni di conflitto, quelle derivanti dall'esistenza di molteplici aree di contrapposizione etnica o religiosa. Tali situazioni erano state compresse dal patto militare in cui erano inserite e dal timore che
anche gli stati multietnici avevano di cadere sotto il dominio del blocco contrapposto. Movimenti di subnazionalità che si consideravano oppresse dallo stato centrale esistevano ovunque. Basta pensare al separatismo dei sikh dello stato indiano del Punjab o a quello dei tamil dello Sri Lanka, che condussero rispettiva-
mente all’assassinio di Indira Gandhi nel 1984 e di suo figlio Rajiv Gandhi nel 1991. L'Europa occidentale offre numerosi casi con l'Irlanda del Nord, i Paesi
baschi, la Catalogna o la Corsica; in gran parte di quella centro-orientale gli enormi spostamenti di popolazione realizzati fra il 1939 e il 1946 avevano accresciuto l'’omogeneità nazionale degli stati dell'Europa centrale, ma non cancellato il passato o, nell'Europa balcano-danubiana, risolto le sue estese sopravvivenze.
Nella prima di queste due aree geopolitiche si manife384
:
Il crollo dell'impero sovietico
stò il contrasto fra le due componenti della Cecoslovacchia, divenuta, dopo l’elezione a presidente di V. Havel, repubblica federale ceco-slovacca. Le elezioni del 1992 videro la vittoria di due partiti che si identificavano con i cechi e gli slovacchi: in Slovacchia, economicamente più debole e politicamente subalterna a Praga, si affermò un partito di orientamento socialista e nazionalista che in parte raccoglieva la vecchia guardia comunista e che attraverso un referendum dette voce alla volontà di costituire uno stato indipendente; i capi politici cechi, prevalentemente di orientamento liberaldemocratico moderato, non si opposero a questo disegno e dal 1° gennaio 1993 la Cecoslovacchia ‘sparì pacificamente dalla carta geografica, sostituita dalle due repubbliche ceca e slovacca. Assai più tesa era invece la situazione in tutta l’area balcanica e nell’Unione Sovietica. Contro gli atteggiamenti ottimisti suscitati dall’esaltante 1989 stava la convinzione di molti osservatori politici che alla fine del blocco sovietico sarebbero seguite gravi crisi nazionali. Molto ragionevolmente, al primo manifestarsi
della questione del Nagorno-Karabah, Gorbatév aveva ammonito sulla impossibilità pratica di istituire ovunque una separazione in territori distinti di popolazioni diverse per origini etniche, lingua e religione senza aprire una reazione a catena di intolleranza, risentimenti, violenze. È questo che accadde in Jugoslavia, con l’esplodere della guerra civile in Croazia e poi fra Serbia e Croazia, esito della lunga agonia della federazione cominciata già nel 1980, alla morte del maresciallo Tito. Era allora risultato evidente che la
riforma costituzionale del 1974 (che creava un collegio di presidenza presieduto a rotazione annuale da una delle sei repubbliche — Serbia, Croazia, Slovenia,
È
385
Storia degli & ultimi cinquant'anni q
Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia — e ac-
cresceva l’autonomia delle due regioni serbe del Kosovo e della Vojvodina) non sarebbe stata in grado di impedire l’esplodere dei conflitti politici, etnici e religiosi: il tutto aggravato dal precipitare della situazione economica, con un debito estero secondo solo a quel-
lo della Polonia e un tasso di inflazione che raggiunse livelli vertiginosi nel 1988-89. Era di ordine essenzialmente politico-economico il potenziale separatismo delle due repubbliche più sviluppate e più “europee”, la Slovenia e la Croazia, che giudicavano i loro interessi sacrificati a quelli delle altre repubbliche. Ben più complessi erano i problemi di ordine etnico e religioso. In effetti la Jugoslavia, con i suoi ventitré milioni di abitanti del 1990, era un crogiuolo di popoli, culture, religioni, un paese dalla etnografia e dalla demografia ingarbugliatissime sorto in un’area che le vicende storiche avevano posto all’incrocio di tre civiltà, quella asburgico-cattolica, quella ortodossa e quella turco-musulmana, fra le quali si era suddivisa la popolazione in grandissima maggioranza di origine slava. Al censimento del 1981, dopo sei decenni di storia
unitaria e trentasei anni di repubblica socialista, solo una piccola minoranza (il 5,4 per cento) si autodesignava come “jugoslava”, mentre tutti gli altri dichiaravano la loro appartenenza a una delle sette nazionalità principali o a una delle venti minori (bulgari, cechi, slovacchi, turchi, rumeni, ruteni, zingari, ebrei, tedeschi, italiani e altri ancora). Solo in Slovenia vi era una
maggiore omogeneità nazionale, con il 90 per cento degli abitanti che si dichiaravano sloveni. Mentre lo sloveno viene classificato come una lingua slava a sé, il
serbo e il croato, anch'essi appartenenti al gruppo 386
Il crollo dell'impero sovietico slavo, presentano differenze minime e sono considera-
te come varianti regionali dell’unica lingua serbo-croata, quella che era parlata da più della metà degli jugoslavi. Ma in questo caso contavano di più le differenze storiche e culturali: i croati (come gli sloveni) sono cattolici e scrivono con i caratteri latini, i serbi sono
ortodossi e usano i caratteri cirillici. A queste differenze si aggiungeva il ricordo dei contrasti che avevano condotto durante la seconda guerra mondiale a una traumatica dissoluzione della Jugoslavia. La Croazia aveva una forte minoranza serba di quasi 700 000 persone (il 12 per cento della popolazione), le cui origini irisalivano a migrazioni avvenute diversi secoli prima, al tempo delle invasioni turche; in Serbia i due terzi della popolazione erano serbi, ma le due province serbe autonome della Vojvodina e del Kosovo presenta-
vano una situazione assai particolare: nella prima gli ungheresi costituivano più di un quarto della popolazione; nella seconda gli albanesi, in massima parte di
religione musulmana, raggiungevano il novanta per cento. Le migrazioni e i differenti tassi di natalità hanno modificato anche la composizione etnica della Macedonia, dove gli albanesi arrivano al 20 per cento della popolazione, mentre i montenegrini rappresentano la quasi totalità della popolazione del Montenegro (essendo molto numerosi anche in Serbia). Una “Jugoslavia in piccolo” era la Bosnia-Erzegovina dove tre erano le componenti principali: quella maggioritaria, circa il 40 per cento nel 1981, che nei censimenti si autodefiniva come musulmana, cioè secondo un criterio
religioso e non etnico (si tratta di serbi e croati convertiti all’islamismo al tempo del dominio turco); quindi i serbi con il 30 per cento e i croati con il 17 per cento.
La crisi della Jugoslavia si manifestò già nel 1981 387
Storia degli ultimi cinquant'anni
con le agitazioni degli albanesi del Kosovo e si aggravò con il crescere del separatismo croato; a ciò la Serbia rispose, dal 1985-86, con un’ondata di nazionalismo
che riportava alla memoria sia le antiche guerre contro i turchi sia le più recenti vicende del tentato genocidio compiuto durante la seconda guerra mondiale dal governo fascista croato contro la minoranza serba; allo stesso tempo si intensificarono gli atti che dimostravano una volontà egemone della Serbia sul resto della federazione, a cominciare dall’abolizione dell’autonomia del Kosovo, nel 1989. Nello stesso anno, mentre la crisi economica diventava pesantissima e si accompagnava a una inflazione annua a tre cifre, il crollo del comunismo nell'Europa
dell'Est rese sempre più esplosiva la situazione e indusse il governo federale a compiere il passo fatale di indire per il 1990 libere elezioni, cui furono ammes-
si tutti i partiti. Neutrale ma pericolosamente collocata in mezzo all’est e all’ovest della guerra fredda, la Jugoslavia aveva visto prevalere le forze di coesione fra i suoi elementi eterogenei; cambiato il contesto inter-
nazionale, le sue componenti riaffermarono la loro originalità. In Serbia vinse la formazione, erede del partito comunista e rappresentante del nazionalismo grande-serbo, guidata dal presidente Slobodan Milosevic, mentre nelle altre si affermarono quelli che face-
vano propri i programmi separatisti delle maggioranze nazionali. La disgregazione della Jugoslavia cominciò a fine giugno del 1991 con la dichiarazione di indipendenza della Slovenia, cui la Serbia oppose una resistenza solo formale, e proseguì pochi giorni dopo con l'indipendenza della Croazia. Entrambi i nuovi stati furono riconosciuti dalla Comunità europea,ma nel secondo caso ciò non bastò a impedire la guerra: i 388
Il crollo dell'impero sovietico
serbi di Croazia presero le armi e in loro aiuto intervenne l’esercito serbo; al principio del 1992 le truppe dell'Onu, i “caschi blu”, furono inviate a vigilare sul cessate il fuoco, ma intanto, dopo sanguinosi scontri,
circa un quarto del territorio croato era passato sotto il controllo dei serbi di Croazia, che proclamarono
una repubblica indipendente. Nel settembre 1991 anche la Macedonia proclamò la sua indipendenza,
senza incontrare
reazioni da
parte della Serbia; per ultima, nel marzo 1992 seguì la Bosnia-Erzegovina. Questa repubblica era stata presentata sovente come un caso straordinario di pacifica ‘convivenza fra religioni e culture diverse e le sue città principali, Sarajevo e Mostar, apparivano centri di una vivace cultura cosmopolita che traeva le sue radici dall'epoca degli imperi multinazionali. Fu qui che la guerra civile raggiunse il massimo grado di efferatezza (vedi cap. 12, $ 7), apparendo come un modello per le altre possibili guerre civili che incombevano in molte parti del mondo, a cominciare dai Balcani e dall'ex impero sovietico.
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È
389
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390
12. Sistema internazionale e sviluppo economico: una nuova fase, 1980-1999
1. Disindustrializzazione, rivoluzione informatica
e capitalismo globale In corrispondenza all'equilibrio fra le due grandi potenze fondato sulla particolare posizione geopolitica dell’Europa (vedi cap. 1, $ 6), negli anni attorno al 1960 fra i sistemi economici del capitalismo e della pianificazione centralizzata si era stabilita una intensa competizione ed entrambi si erano proposti come modelli di sviluppo per i paesi del Terzo mondo. La capacità di porsi come modelli economici, sociali e politici era divenuta in parte un presupposto della stabilità dello stesso bipolarismo, sebbene questo poggiasse soprattutto sulla loro forza all’interno del sistema internazionale e sulla loro potenza militare; come ha osservato R. Crockatt, l'equilibrio (alla lunga apparente) dipese molto dal fatto che «le armi nucleari sembrarono congelare la relazione in una virtuale immobilità» (Cinquant'anni di guerra fredda, 1995, p. 506 — ma si veda tutto lo sviluppo concettuale delle pp. 505-509). Negli anni settanta nessuno dei due sistemi appariva più in perfetta buona salute e a uno sguardo avventato la crisi che il capitalismo stava attraversando poteva apparire anche più grave del lento declino dei tassi di crescita nei paesi del socialismo reale. In realtà quel lento declino era solo il principio di una corsa precipitosa verso la rovina. Al contrario per il capitalismo 391
Storia degli ultimi cinquant'anni
la crisi degli anni settanta fu l’occasione per accelerare processi già in corso verso una nuova fase di sviluppo, con caratteristiche assai diverse dalla precedente,
dato che (come si è visto) stavano venendo meno uno per uno tutti imeccanismi che nel 1950-73 l'avevano generata e sostenuta: fra questi è opportuno ricordare ancora il rallentamento della domanda (dovuto alla ridotta efficacia di fattori come la formazione di nuove famiglie e la crescita demografica e alla saturazione dei mercati) e la riduzione dei profitti (dovuta alla crisi energetica e ai crescenti costi supplementari
di difesa dell'ambiente imposti dalla nuova sensibilità ecologica). La grande trasformazione che si è delineata negli anni settanta ha assunto da un lato una dimensione difensiva e dall’altro una realmente innovativa, conver-
genti però nel determinare processi che hanno trovato nell’idea di “disindustrializzazione” una denominazione efficace e impressionante. La tesi della transizione dalla società industriale a una società postindustriale era stata per la verità avanzata già alla fine degli anni sessanta dai sociologi ed economisti che avevano indagato l’intensa dinamica di “terziarizzazione” allora in atto. Mettendo da parte la burocrazia statale e le attività commerciali tradizionali, la struttura dell’oc-
cupazione stava vedendo una più rapida crescita dei , “colletti bianchi” addetti ai servizi di distribuzione, comunicazione, informazione, cultura, tempo libero, salute, gestione aziendale e finanziaria rispetto alle “tute blu” addette alla produzione di beni materiali. Il peso relativo crescente dei servizi nel sistema econo-. mico convalidava le analisi circa le conseguenze dell'aumento dei redditi, che, dopo la caduta dell’utilità
marginale dei beni di prima necessità, facevano preve392
Sistema internazionale e sviluppo economico
dere analoga sorte per i beni industriali e lo spostamento dei redditi supplementari dai beni ai servizi. La strategia anticrisi degli anni attorno al 1980 determinò in più una effettiva caduta assoluta del settore secondario nei paesi sviluppati, o trasferendo le attività produttive a basso contenuto tecnologico e alta intensità di lavoro in paesi asiatici o latino-americani, dove i costi del lavoro erano inferiori, o abbandonando quei settori le cui perdite erano spesso sostenute soltanto dagli interventi statali. È il caso, già ricordato più indietro (cap. 10, $ 4), delle miniere di carbone, che, non contando il breve ritorno di competiti-
vità dovuto alla crisi petrolifera, furono progressivamente disattivate: in Belgio la produzione è cessata negli anni novanta, fra il 1974 e il 1995 si è ridotta del 40 per cento in Germania e si è più che dimezzata in Gran Bretagna. Analoga fu la sorte di svariate industrie tradizionali, non solo nel settore tessile ma anche
in quello siderurgico e meccanico, la cui chiusura dette un’aria di abbandono e decadenza, in maniera
più vistosa in Gran Bretagna e negli Usa, alle aree del
loro insediamento. In altri casi nella ristrutturazione ha giocato un ruolo determinante l'innovazione tecnologica, così che accanto alle nozioni di “postindustriale” e “disindustrializzazione” conviene porre quella di “terza rivoluzione industriale”, diventata di uso comune seb-
bene, per i motivi che vedremo più avanti, presenti qualche aspetto problematico. Un buon esempio si può trovare esaminando le vicende della siderurgia, che danno inoltre opportunità per una significativa comparazione fra l'economia capitalista e quella socia-
lista. Il 1971 fu in certo modo un anno memorabile
|perché fu allora che l’Urss raggiunse l’obiettivo di ragÈ
393
Storia degli ultimi cinquant'anni
giungere e superare gli Usa nella produzione di acciaio. Venne poi la crisi generale prodotta dalle vicende del petrolio, che portò l’Urss anche davanti all’ Europa occidentale. Con l’arrivo della presidenza Reagan la politica di disindustrializzazione colpì inesorabilmente la siderurgia, che neppure nel corso dei positivi anni 1983-89 tornò ai livelli del decennio precedente; lo stesso accadde in Gran Bretagna con il governo Thatcher, mentre l’Europa continentale cercò
di difendere più a lungo il settore. Il punto essenziale è che nel corso degli anni ottanta la sua situazione era completamente mutata e il confronto con la produzione sovietica imponente e di scarsa qualità aveva perso ogni valore. Nei paesi capitalisti la produzione in eccesso rispetto alla domanda fu lasciata cadere, l’ac-
ciaio fu sostituito da nuovi materiali (le resine termoplastiche e i cosiddetti materiali ceramici), la produzione siderurgica si indirizzò sempre più su acciai per usi specifici, più leggeri e resistenti. Tabella 22. Produzione di acciaio in Urss, Usa ed Europa nel 1968-1990 (milioni di tonnellate)
1968 1972 1975 1978 1982 1990
Urss 106,5 125,6 141 147 147 154,4
Usa 119,3 120,9 105,8 12359 66,1 89,7
Europa” 124,9 138,4 124,9 191,7 110,2 119,7
* “Europa dei sei” (Benelux, Italia, Francia, Germania) e Gran Bretagna Fonti: Calendario Atlante, De Agostini, Novara, anni vari.
394
Sistema internazionale e sviluppo economico
Il problema dei paesi industrializzati era diventato quello di passare da una crescita estensiva, con crescenti volumi fisici nella produzione e nei consumi di materie prime ed energia, a uno sviluppo intensivo (M. Revelli, Econorzia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, 1995, p. 169), compatibile con la saturazione dei mercati e con un'epoca di bassi
indici di incremento: 2,8 per cento medio annuo nel 1973-89 e 2,0 nel 1989-97 (contro il 4,9 del 1950-73). Ciò ha comportato prendere atto della fine di un modello, quello delia produzione standardizzata di massa e a bassi prezzi connessa con l’impresa fordistataylorista che poteva servire il mercato di massa fon‘dandosi da una parte sulle grandi dimensioni e le economie di scala e dall'altra sull’estrema divisione del lavoro e la sua organizzazione secondo precise gerarchie di comando. L'indifferenziato mercato di massa dei beni di consumo durevoli (del mercato dell’auto si è già parlato più sopra) cessava di essere un referente unico, anche se era stato periodicamente rivitalizzato con i metodi dell’obsolescenza programmata delle tecniche e dei modelli e con l'introduzione di nuovi prodotti, i surgelatori, le televisioni a colori, i vari apparecchi per la riproduzione e registrazione del suono e dell'immagine. Il nuovo modello di sviluppo si è venuto realizzando sia attraverso la creazione di nuovi settori industriali, sia attraverso una profonda trasformazione delle imprese, del mercato e dei loro rapporti. Microelettronica, software e computer, telecomunicazioni, macchine utensili e robot industriali, biotecnologie, scienza dei materiali, aviazione civile sono, secondo la classificazione di Lester Thurow, i nuovi settori
trainanti (Testa a testa. Le battaglie per la supremazia
”
395
Storia degli ultimi cinquant'anni
economica nel mondo, 1992). Tutti e sette hanno in
comune (con la parziale eccezione dell’aviazione civile) i risparmi di energia e di materie prime e le tecnologie leggere (in confronto all’industria pesante tradizionale); sono inoltre fondati più che sui processi di produzione materiale sull’innovazione e la progettazione, la conoscenza e la ricerca scientifica — che nel
loro complesso diventano un fattore della produzione assai più decisivo che in passato; inoltre almeno quattro su sette sono collegati con la produzione di informazioni, cosa che conferma la spiccata tendenza alla “smaterializzazione” dell'economia insita nel nuovo modello. Per questo motivo l’espressione “rivoluzione informatica o telematica” appare a volte più caratterizzante di “terza rivoluzione industriale” (terza dopo quella del carbone e del vapore e quella dell’elettricità e dell’acciaio) e si parla nuovamente di società postindustriale. Non si tratta di una rivoluzione improvvisamente avvenuta negli anni settanta, perché tutti i settori hanno antecedenti facilmente rintracciabili, ma è difficile negare che nel loro insieme costituiscono un
sistema diverso dal precedente (anche se non è e non sarà in grado di far scomparire né le automobili e l’inquinamento prodotto dagli ingorghi del traffico cittadino né oggetti come le superpetroliere da 500 000 t). Il personal computer, che dalla fine degli anni settanta si è imposto per la sua versatilità sui precedenti tipi di calcolatori, è il miglior simbolo di questa rivoluzione, specie da quando è cominciata la sua fusione in un’u-
nica rete informatica con il telefono e la televisione. Esso è un nuovo bene di consumo, per certi aspetti ancora collocato nel mercato di massa; ma allo stesso
tempo è anche un nuovo modo per organizzare la pro396
Sistema internazionale e sviluppo economico
duzione, contribuendo in tutti i settori a una spinta verso l'automazione ben più radicale di quella teorizzata negli anni cinquanta ed effettivamente realizzata nei due decenni successivi; esso è infine il creatore del-
l'informazione, il massimo bene immateriale sempre disponibile nel mondo a sé che è la rete internet, e lo strumento capace di convertire in segnale informatico non solo qualsiasi tipo di conoscenza ma anche, dando loro una forma immateriale, prodotti come i supporti della parola scritta, del suono e dell'immagine, molti servizi (acquisti telematici) e diverse prestazioni lavorative (telelavoro), per non parlare dei flussi finanziari. Le possibilità offerte dalle reti telematiche mondiali, assieme all’eliminazione dei vincoli alle attività finanziarie (uno degli aspetti più significativi della deregulation degli anni ottanta, vedi cap. 10, $ 4), hanno con-
sentito un grado senza precedenti di globalizzazione dei mercati finanziari; i movimenti speculativi sui cambi valutari (flessibili dal 1971-73) e sulle piazze borsistiche di tutto il mondo coinvolgono centinaia di miliardi di dollari al giorno e non hanno alcun rapporto con l’andamento dell’economia reale, il cui valore
monetario è assai inferiore (di alcune decine di volte). Dal punto di vista del mercato la terza rivoluzione industriale ha comportato il passaggio dalla produzione in milioni di esemplari e con pochi modelli a produzioni diversificate e su scala ridotta indirizzate a soddisfare richieste specifiche (basta pensare ai programmi di software, alle prestazioni dei telefoni cellulari e in genere alla tendenza alla personalizzazione dei servizi offerti), ovvero dalla quantità alla “qualità totale”, una sorta di nuovo artigianato ad alta tecnologia. Le imprese hanno dovuto rinunciare ai profitti derivanti dalle economie di scala e dai bassi costi medi e 397
Storia degli ultimi cinquant'anni
puntare invece a individuare tutti i costi eliminabili, sulla base dei principi espressi con le formule lean production e just in time (produzione snella, flessibile, senza tempi morti) coerenti con la propensione alla
qualità totale: depennare le spese generali, ridurre drasticamente i magazzini e le scorte, affidare a imprese esterne, spesso collocate nel Terzo mondo, tutto ciò
che non fa parte della prevalente attività di progettazione e innovazione, a cominciare dalla produzione di componenti e da diverse fasi del montaggio (il tutto reso possibile dalla continua riduzione dei costi di trasporto). I reticoli di aziende medie e piccole, collegate fra loro in modo assai elastico e disseminate nei più diversi paesi, hanno finito per sostituirsi alle imprese di enormi dimensioni. Anche nei settori occupati nei decenni precedenti dalle società multinazionali, l’importanza di un'impresa sta meno nelle sue dimensioni che nel fatto di essere un cervello centrale di progettazione e di controllo, mentre l’effettiva produzione può essere massimamente decentrata. Questa nuova distribuzione su scala mondiale delle diverse fasi e aspetti della produzione, con il grande peso assunto dalle componenti elettroniche o meccaniche (al posto dei prodotto finiti) nel commercio internazionale, spiega perché sia diventato un luogo comune parlare di globalizzazione non solo della finanza ma anche dell’economia reale, con un ritmo di crescita del commercio
estero superiore a quello della produzione mondiale.
2. Occupazione e produttività nella società postindustriale Tutto ciò può essere riscontrato in maniera molto
significativa nei mutamenti intervenuti nella struttura 398
Sistema internazionale e sviluppo economico
del prodotto interno lordo e dell’occupazione. Negli anni cinquanta il grado di sviluppo di un paese si rifletteva nel fatto che la quota del Pil e della popolazione attiva occupata nell’agricoltura tendeva a scendere sotto il 10 per cento (e sotto il 5 negli anni settanta). In corrispondenza alla crescita del terziario, anche il settore secondario (manifatture ed edilizia) ha visto negli anni sessanta e settanta una riduzione del suo peso relativo, al di sotto del 40 per cento; ma è stato nei due decenni successivi che questa riduzione si è ancora accelerata, portando al di sotto della soglia
del 30 per cento nel Pil e del 25 per cento nell’occupazione e facendo intravedere un destino simile a quello del settore primario. In realtà gli stessi criteri di classificazione non rispecchiano più la realtà: il terziario “avanzato” costituito da ricerca, progettazione ed elaborazione dell’informazione presenta un forte grado di connessione con il secondario; questo vede a sua volta crescere la differenziazione fra la classe operaia tradizionale (in netto calo sia in termini relativi che assoluti e soggetta a una crisi sociale e politica di cui è indice il suo progressivo distacco dalle organizzazioni sindacali) e i tecnici specializzati, che spesso sarebbero meglio collocati nel terziario avanzato. Più drasticamente Robert Reich (L'econorzia delle nazioni, 1991, cap. 14) ha perciò concluso che la vec-
chia divisione dei grandi comparti dell'occupazione va abbandonata e ne ha proposto un’altra che, accanto agli agricoltori ed estrattori di risorse e ai dipendenti pubblici (in totale il 25 per cento degli occupati negli Stati Uniti), pone le tre seguenti categorie, che rappresentano rispettivamente il 25, il 30 e il 20 per cento della popolazione attiva: «servizi ripetitivi legati alla produzione», «servizi interpersonali diretti» e «anali 399
Storia degli ultimi cinquant'anni
sti simbolici». La prima include le “tute blu” e i “colletti bianchi” di vecchio tipo, entrambi in calo numerico. Sempre secondo Reich (p. 93) nel 1990 fra i 400000 dipendenti della Ibm solo 20000 erano classificati come operai addetti alle attività di fabbricazione in senso stretto (e solo il 10 per cento del prezzo di un personal computer Ibm serviva a coprire la fabbricazione). La seconda categoria, in continua espansione, include una variegata serie di mansioni, dalla vendita
al pubblico ai servizi alberghieri e di ristorazione, dall'assistenza ai malati e agli anziani ai servizi di custodia e pulizia, dai trasporti ai servizi di segreteria. La terza vede, accanto alle figure dei professionisti (medici, avvocati, professori universitari, intellettuali) e degli
attivi nello spettacolo, il settore in netta espansione degli specialisti propriamente connessi con la società postindustriale (attraverso la tabella offerta da Reich si possono costruire le loro denominazioni, come “progettista delle ricerche sul prodotto”,
“coordinatore
nella strategia dei sistemi” o “consulente nella politica delle risorse”). In questa struttura dell'occupazione si rispecchia la tendenza alla polarizzazione dei redditi emersa negli anni ottanta. Negli Stati Uniti (che si presentavano come una società dove prevalevano i ceti medi) e in Gran Bretagna questa è stata in parte determinata
dalle politiche fiscali adottate in favore dei redditi più alti e dalla riduzione delle spese del Welfare State. Ma più importanti sono le tendenze di fondo delle opportunità offerte in qualunque paese sviluppato dalla società postindustriale. Chi appartiene alla prima delle tre categorie di Reich è costretto ad accettare salari più bassi se non vuole veder trasferite all’estero le proprie mansioni, mentre la maggior parte dei nuovi posti di 400
Sistema internazionale e sviluppo economico
lavoro creati come “servizi interpersonali diretti” non richiede particolari qualificazioni e offre bassi salari. D'altra parte solo chi possiede una buona preparazione tecnico-scientifica e culturale può aspirare alle posizioni meglio retribuite delle prime due categorie e solo chi ne raggiunge una molto alta ha speranze di entrare nella terza. Lo stesso ridimensionamento del sistema fordista-taylorista e del Welfare State e il declino dei sindacati comportano inoltre una minore importanza della politica degli alti salari (nel 1975-95 i salari reali sono scesi del 15 per cento) e una minore preoccupazione per la conflittualità sociale. i La disponibilità ad accettare salari più bassi è dipesa anche dai più elevati tassi di disoccupazione, provocati dalla riduzione di alcune attività industriali, dal trasferimento di altre all’estero e soprattutto dalla diffusione dell’automazione: si è già visto come le macchine utensili automatiche e i robot industriali a controllo digitale, dotati non solo di forza ma anche di programmi intelligenti, rappresentano uno dei settori di punta della terza rivoluzione industriale, cosicché si
sono potute riprendere, anche se con enfasi eccessiva, tesi sulla “fine del lavoro” che risalgono ad alcuni decenni fa (il libro di Friedrich Pollock Automazione è del 1956 mentre “Verso le fabbriche senza uomini” si intitolava un capitolo di una introduzione alla cibernetica ancora anteriore, Pierre de Latil, I/ pensiero artificiale, 1953). In effetti i tassi di disoccupazione dei paesi sviluppati restarono fino al 1972 mediamente al di sotto del 4 per cento (un po’ più alti in Usa e più bassi in Giappone); essi registrarono degli aumenti in corrispondenza con le crisi del 1974-75 e 1980-82, ma ‘la cosa più notevole è che pur scendendo nei due successivi periodi di ripresa sono rimasti (con l’eccezione i]
È
*
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Storia degli ultimi cinquant'anni ai
del Giappone) attorno al 6-10 per cento, a livelli assai più elevati di quelli anteriori al 1973. La natura tecnologica della crescita della disoccupazione negli anni ottanta contrasta in effetti con una evidente tendenza alla riduzione dei tassi di crescita della produttività (prodotto per ora lavorata) nei paesi sviluppati, sia quella generale, sia quella industriale. Questo fatto si spiega pensando alla grande crescita del terziario a produttività medio-bassa che allora si è prodotta, all'esistenza di settori manifatturieri poco toccati dalle innovazioni e alla lentezza maggiore di quanto si potrebbe pensare con cui queste si sono diffuse negli altri settori. In ogni caso dalla fine degli anni ottanta la crescita della produttività si è imposta in maniera più netta nel settore industriale e anche in diversi comparti del terziario, a cominciare dai lavori d’ufficio, riproponendo la questione della sua incidenza sull'andamento della disoccupazione, tema su cui torneremo nel prossimo paragrafo.
3. La sfida economica fra Stati Uniti, Giappone ed Europa
Gran parte dei prodotti-simbolo della terza rivoluzione industriale, dal personal computer alla videocamera, dal telefax a internet, sono stati ideati negli Stati
Uniti. Eppure dalla metà degli anni ottanta molti studiosi, anche se con diagnosi diverse, si dimostrarono
convinti che il primato economico e tecnologico americano fosse venuto meno e lo rimasero anche dopo che il crollo del comunismo aveva dimostrato che restava fuori questione il primato politico e militare; la sola differenza era fra quelli che davano come irrever-
sibile il declino degli Usa e quelli che consideravano. 402 Pd
Sistema internazionale e sviluppo economico
ancora per qualche tempo aperta la partita con i suoi unici rivali, l'Europa e il Giappone. Il declino degli Stati Uniti poteva essere affermato sul lungo periodo (vedi anche cap. 10, $ 1), mostran-
do la costante riduzione nel tempo dei tassi di crescita del prodotto interno lordo e della produttività (quest'ultima era discesa dal +3,3 per cento del 1947-67 al +1,2 del 1980-90) e la riduzione della sua quota sul commercio mondiale e sul prodotto mondiale: quest'ultima, stimata al 50 per cento nel 1945, era scesa
secondo uno dei calcoli prospettati al 30 nel 1970, al 23 nel 1990 e al 20,8 nel 1996. Un’accentuazione del
declino veniva constatata limitandosi agli ultimi due decenni e in particolare alle conseguenze della politica economica del periodo reaganiano. Per mostrare che era in corso una vera involuzione nel carattere dell'economia americana l’attenzione veniva concentrata su due punti in particolare. In
primo luogo nelle famiglie americane vi era una netta caduta nella propensione al risparmio: calcolato sul reddito disponibile, il tasso di risparmio Usa era oscil-
lato negli anni settanta fra l°8 e il 9 per cento, ma nel decennio successivo era sceso sotto il 6 (precipitando verso lo zero negli anni novanta), mentre in Giappone restava superiore al 15 e in Germania al 12. Conseguentemente aumentava l’indebitamento delle fami-
glie (per i pagamenti differiti nel tempo) ed erano destinati a cadere i tassi d’investimento, che avevano tratto sostegno unicamente dai consistenti apporti di capitale estero, per i quali gli Stati Uniti erano passati in pochi anni dalla posizione di creditore a quella di forte debitore. In secondo luogo vi era la progressiva
| conquista del mercato americano da parte di prodotti d’importazione: questi costituivano il 6,5 per cento ì
i
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della produzione interna nel 1974, il 9 nel 1986 el 11 nel 1996. Ma era guardando ad alcuni singoli settori che questi dati diventavano più preoccupanti: al principio degli anni novanta radio, televisioni e videoregistratori erano per la quasi totalità d'importazione, le automobili straniere o prodotte da ditte straniere installate in Usa occupavano un terzo del mercato e anche nel caso dei computer gli Usa cominciavano a subire l'assalto dei produttori stranieri. La combinazione del debito estero crescente e dell’elevato deficit della bilancia dei pagamenti faceva presagire un futuro insostenibile. Il grande sviluppo delle importazioni Usa era stato stimolato in principio dalla politica degli alti tassi di interesse e del dollaro forte perseguita dall’amministrazione repubblicana e dalla Federal Reserve (vedi cap. 10, $ 4),ma nel 1985 la sopravvalutazione del
dollaro era parsa non più accettabile agli Stati Uniti perché danneggiava le loro esportazioni e anche al Giappone e all’Europa (peraltro avvantaggiate nelle esportazioni) perché rendeva troppo cari gli acquisti di petrolio e materie prime quotati in dollari. Dopo che i primi aggiustamenti dei tassi avevano avviato la discesa del dollaro (il cambio con il marco era già sceso dal record di 3,4 del febbraio a meno di 3), in settembre si addivenne perciò a un accordo fra le banche centrali
di Usa, Germania,
Gran
Bretagna,
Francia e Giappone per manovrare l'ulteriore discesa del dollaro (che passò nel 1987 a 1,8 marchi). La cosa
notevole è però che nonostante il dollaro debole la bilancia commerciale Usa non mostrò alcuna tendenza a un sostanziale miglioramento e di non grande aiuto furono le misure di protezionismo mascherato, come la definizione piuttosto ampia di dumping (la_
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de
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vendita sottocosto per conquistare un mercato straniero) adottata per colpire alcune esportazioni giapponesi. All’immagine della perdita di competitività si aggiunse quella di un pubblico attratto più dalla speculazione in borsa che dagli investimenti produttivi e duramente colpito dal crollo di Wall Street del 19 ottobre 1987 (-22,6 per cento in un solo giorno, peggiore di quello del “lunedì nero” del 28 ottobre 1929). Accanto agli aspetti economici dell’asserito declino americano ve ne erano altri di natura sociale. L'attacco al Welfare State condotto durante la presidenza Reagan e i già segnalati fenomeni occupazionali indotti dalla terza rivoluzione industriale avevano avuto l’effetto di accrescere notevolmente la quota della popolazione considerata al di sotto della soglia della povertà e di spingere verso fasce di reddito più basso molti di coloro che dovevano sostituire il lavoro perduto a causa del progresso tecnologico, non riuscendo a riqualificarsi e subendo inoltre la concorrenza degli immigrati ispano-americani o asiatici. Vanamente con-
trastata da leggi restrittive, la nuova ondata migratoria degli anni ottanta creò nuovi ghetti e alimentò tensioni fra i vari gruppi non anglosassoni, mettendo in dubbio la capacità della società americana di assimilare e mescolare gli immigrati. Il colpo più duro fu subito dalla popolazione dei ghetti neri, ben lontana dai tempi del ritrovato orgoglio razziale e trascinata dall'ondata di demoralizzazione verso gli abissi della droga e della criminalità. Nei venti anni successivi al 1975 la popolazione carceraria degli Stati Uniti è cresciuta di sei volte, raggiungendo nel 1998 la quota di 1,8 milioni, oltre il 6,5 per mille della popolazione (ma
il 7 per cento se ci si limita ai maschi neri adulti). L’incapacità dei disgregati ceti travolti dalla ristrut405
Storia degli ultimi cinquant'anni
turazione economica di diventare una forza politica si vide alle elezioni presidenziali del 1988, che, nono-
stante il bilancio non esaltante della seconda amministrazione Reagan, dettero una schiacciante maggioranza al candidato repubblicano George Bush. Il ritorno al potere dei democratici con Bill Clinton, eletto nel 1992 e confermato nel 1996, non ha costituito una vera inversione di tendenza, perché i repubblicani, dal 1994 in maggioranza nei due rami del Congresso, hanno potuto bloccare il progetto di estensione dell’assistenza sanitaria; l’indebolimento del Welfare State è in effetti proseguito nel corso degli ultimi anni. In ogni caso negli anni attorno al 1990 le maggiori preoccupazioni dell'opinione pubblica moderata americana sono andate non al deterioramento della situazione sociale, ma alla penetrazione giapponese nell'economia del paese. Ogni installazione di filiali e ogni acquisto di imprese americane da parte di imprese giapponesi ha generato momenti di panico e rafforzato le analisi pessimiste. Per lungo tempo, invece, i vecchi pregiudizi sul Giappone erano rimasti in vigore e la crescita della sua economia aveva avuto scarsa risonanza. Negli anni sessanta l’immagine corrente era stata quella di un paese le cui esportazioni riguardavano settori come il tessile, abbandonati dall’indu-
stria nazionale; poi era prevalsa la convinzione che i successi giapponesi dipendevano dalla capacità di copiare i brevetti altrui e dai bassi salari. Ma alla fine si era imposta l’evidenza ben espressa dal titolo del libro del sociologo inglese Ronald Dore Bzsogna prendere il Giappone sul serio (1987) e si erano dovuti esaminare più attentamente i punti di forza del concor-
rente asiatico, che configuravano un modello molto diverso da quello americano e anche più di questo 406
Sistema internazionale e sviluppo economico
impegnato a promuovere e fronteggiare la terza rivo-
luzione industriale. Tre apparivano i principali punti di forza del modello giapponese, tutti più di natura culturale che strettamente economica. Il primo era la netta superiorità a
tutti i livelli dell’istruzione tecnico-scientifica, che produceva in quantità il tipo d'uomo capace di sfruttare a pieno caratteri e potenzialità della nuova rivoluzione industriale. Il secondo era la piena disponibilità dei giapponesi a contenere i loro consumi e a tenere alto il livello degli investimenti (con una bassa pressione fiscale) soprattutto nel settore decisivo della ricerca e dello sviluppo; i tassi di crescita del Pil e le elevate esportazioni di beni (una esportazione pro-capite superiore del 40 per cento a quella degli Stati Uniti, ma sempre inferiore a quella tedesca) non dipendevano più dai bassi salari ma dai bassissimi tassi di interesse, dall'elevata produttività del lavoro e dalla superiorità della qualità tecnologica dei prodotti. Il terzo punto di forza era dato dai rapporti di lavoro esistenti all’interno delle grandi imprese, per i quali è stata coniata la denominazione di “toyotismo”, assumendo come modello la Toyota, terza azienda automobilistica mondiale. Lean production e just in time sono due dei principi elaborati alla Toyota negli anni settanta ed entrati a far parte della buona gestione aziendale dell'epoca post-fordista. Ma accanto a questi ne andava rilevato un terzo, più difficile a trasferire dal Giappone nei sistemi economici dominati dall’ideologia neoliberista e dalla “flessibilità del lavoro” ovvero la libertà di licenziare (ovvero, anche, il principio del just in time applicato al mercato del lavoro). Si trattava di uno sviluppo del principio del “lavoro a vita” in cambio della piena dedizione agli interessi 407
Storia degli ultimi cinquant'anni
dell'impresa (l’opposto dell’abitudine a considerare normale il cambiare più volte occupazione nel corso della propria vita, per quanto ciò possa essere fonte di ansia). Il coinvolgimento nella vita dell'impresa diventava ancora più intenso e significava che i dipendenti, in massima parte di alta qualificazione tecnica, non erano più esecutori passivi legati ai momenti estrema-
mente parcellizzati del lavoro taylorista ma al contrario potevano e dovevano fare proposte innovative e intervenire in maniera creativa nei processi produttivi;
le lunghe catene di montaggio venivano sostituite da aree di lavoro costituite su gruppi più piccoli che si occupano dell’intero ciclo del prodotto e in particolare del controllo della qualità, ristabilendo, ma a un
alto livello tecnologico, una sorta di spirito artigianale. Questo aspetto del toyotismo, cui guardavano con interesse le imprese europee e americane ad altissimo tasso tecnologico e progettuale, era però legato ad alcune peculiarità dell'economia giapponese che potevano trasformarsi in un limite. Pur essendo basata su un mercato interno di ampie dimensioni (125 milioni
di abitanti, contro gli 82 della Germania dopo l’unificazione) questa era e restava orientata alla conquista di mercati esteri senza essere molto disponibile alla contropartita dell’apertura nei loro confronti. Gli investimenti di capitale estero non sono bene accetti e i consumatori obbediscono volentieri all'invito a scegliere i prodotti nazionali (le importazioni di manufatti ammontano a circa un terzo delle esportazioni). Inoltre le frontiere giapponesi sono chiuse all’immigrazione e questo fatto, assieme alla caduta del tasso di natalità, spiega perché il paese possegga alla metà degli anni novanta 387 000 robot industriali (il 60 per cento dei 650000 robot esistenti al mondo), che lavo408
Sistema internazionale e sviluppo economico
rando a ciclo continuo o quasi sostituiscono 800000 operai nelle attività ripetitive. Per quanto riguarda la Comunità europea, essa costituiva già con i dodici paesi membri del 1986 e dopo l'Atto Unico dell’anno successivo il più vasto e integrato mercato del mondo e il più grande esportatore di beni (anche mettendo da parte il commercio all’interno della comunità stessa). Accanto alla libera circolazione delle merci, entro la fine del 1992 venne
realizzata anche quella dei servizi e dei capitali, seguita nel 1994 dall’abolizione dei controlli sulle persone alle frontiere. Nel frattempo la Comunità era passata ' da 12 a 15 membri, con l’adesione di Austria, Finlandia e Svezia, ma soprattutto, il 7 febbraio 1992, era
stato firmato a Maastricht il trattato che rifondava la Comunità ridenominandola Unione Europea e avviando le procedure per la creazione di un’unione monetaria europea, che doveva sostituire lo Sme, cioè
il sistema monetario istituito nel 1979 e fondato sull'obbligo per gli stati aderenti di mantenere il cambio della loro moneta con le altre entro una ristretta fascia di oscillazione. Nel maggio 1998 la riunione dei capi di Stato e di governo che costituiscono il Consiglio europeo ha constatato che undici stati su quindici (per motivi diversi restano fuori dall'Unione monetaria Grecia, Danimarca, Svezia e Gran Bretagna) avevano
soddisfatto i “parametri” fissati a Maastricht, in particolare un drastico contenimento del tasso d’inflazione e del rapporto fra deficit di bilancio e prodotto interno. Il 31 dicembre 1998 è stata fissata la parità definitiva fra le monete interessate e fra esse e la nuova valuta denominata euro, che per il momento è usata prevalentemente come moneta di conto e farà sparire del tutto le monete nazionali entro il giugno 2002. 409
Storia degli ultimi cinquant'anni Con 369 milioni di abitanti, l'Unione Europea ha un
prodotto interno lordo superiore, oltre che a quello del Giappone, anche a quello degli Stati Uniti (è un po’ inferiore se ci limitiamo ai 286 milioni di abitanti dell’Unione monetaria). La prospettiva di una ulteriore apertura verso alcuni dei paesi dell’ex area socialista rende ancora più forte la candidatura dell’UE a maggiore potenza economica mondiale. Tuttavia, se i dati sulla crescita del prodotto interno lordo: davano gli Stati Uniti al di sotto delGiappone e dell'Europa occidentale fino al 1991, dopo quella data il cambio di leadership economica mondiale è parso via via non più tanto imminente. Dopo la crisi del 1990-91 gli Stati Uniti sono entrati in una fase di sviluppo che non si è ancora conclusa; il Giappone, dopo alcuni anni di stagnazione, è stato invece coinvolto pesantemente dalla crisi delle economie asiatiche su Tabella 23. Tasso di crescita reale del Pil nei paesi industrializzati, 1977-1998
1977-86 251 4,0 19
1987-89 DIZ 5,0 257
Francia
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1990-92 1,0 3,4 4,3
1993-96 1997-98 259 pg 1,4 —l 13: vi)
* Fino al 1990 solo Germania occidentale
Fonti: A. Gauthier, L'economia mondiale dal 1945 ad oggi, il Muli
no, Bologna 1998, p. 99; Stato del mondo, il Saggiatore, Milano, anni vari; Etat du monde 1999, La Découverte, Paris 1998, p. 74
410
Sistema internazionale e sviluppo economico
cui torneremo nel paragrafo successivo; la crescita dell'Europa è rallentata (in Germania anche in seguito ai costi della riunificazione), con l'eccezione della
Gran Bretagna. A spiegazione di questi fatti si è sostenuto che gli Stati Uniti, una volta migliorati i conti pubblici, hanno saputo approfittare, rispetto al Giappone, della loro maggiore apertura sul mercato mondiale, e, rispetto all'Europa, della loro disposizione ad alleggerire il Welfare State e a realizzare fino in fondo il principio della “flessibilità del lavoro”. Per la verità ciò che al tempo di Reagan e della Thatcher appariva come una vera controrivoluzione ha finito per essere considerato — tolta l’originaria aggressività ideologica — come una sfida ineludibile. Nell’Unione Europea tredici paesi su quindici sono retti da governi di sinistra o centrosinistra (in Italia da una coalizione divenuta ancora più ibrida di quanto lo era alla nascita, nel 1996, in. Gran
Bretagna e in
Germania dai laburisti e dai socialdemocratici in seguito alle elezioni del 1997 e 1998). In tutti questi paesi si cerca di congegnare un nuovo We/fare che difenda i ceti più deboli ma non agisca contro lo sviluppo economico. Viene fatto osservare a questo proposito che la Gran Bretagna laburista, che più si muove al seguito degli Stati Uniti, è anche il paese europeo che ha registrato i migliori risultati negli ultimi anni. I persistenti elevati tassi di disoccupazione negli altri (11-12 per cento) sono la prova di un fallimento di fronte alla discesa di quelli americani dal 7 per cento del 1993 a un po’ più del 4 alla fine del 1998. Ma i dati Usa sulla disoccupazione sono dubbi o ‘comunque non confrontabili con quelli europei, perché considerano come occupati anche i numerosi parttimers a basso orario settimanale e i percettori di salaì
411
Storia degli ultimi cinquant'anni
ri infimi (accettare un qualunque lavoro è un presupposto per mantenere le varie forme di previdenza sociale e la situazione di disoccupato assistito viene combattuta in tutti i modi), mentre la grande schiera dei carcerati non è considerata come composta in
massima parte da persone espulse dal mercato del lavoro. Se l’allarme sulla “fine del lavoro” suona troppo drastico, è ancora da dimostrare che siamo di fronte a una fase solo congiunturale di disoccupazione e che restà in ogni caso valida la tesi che in un regime liberista lo sviluppo tecnologico crea più posti di lavoro di quanti ne distrugga: ciò che era vero nell’epoca del mercato di massa in continuo allargamento, non è più vero oggi.
4.I paesi di nuova industrializzazione e le nuove forme del sottosviluppo
Con la fine del comunismo sovietico e quindi del “secondo mondo” l’espressione Terzo mondo era destinata a rigor di termini a perdere di valore in entrambi i suoi significati: sia come insieme dei paesi non-allineati (ma l’importanza di questa concertazione priva di vere e proprie strutture era già venuta meno negli anni settanta), sia come paesi “in via di
sviluppo” che potevano teoricamente scegliere fra due diversi modelli (ma l’attrattiva di quello socialista si era fortemente ridotta negli anni ottanta). Mettendo a parte il caso più complesso della Cina, dopo il 1989-91 i soli paesi che restano fedeli all’esperienza comunista, pur trovandosi in pieno isolamento internazionale e in gravissime difficoltà econo-
miche, sono attualmente Cuba e la Corea del Nord (ammessa all'Onu nel 1991, simultaneamente alla 412
Sistema internazionale e sviluppo economico
Corea del Sud). La semplice contrapposizione fra Nord e Sud del mondo ha perciò finito per prendere il posto, anche nei comuni usi linguistici, di quella fra Est e Ovest. Benché si continui per inerzia a parlare di paesi del Terzo mondo per intendere quelli sottosviluppati, vi è un’altra ragione che dovrebbe indurre ad abbandonare questa espressione e cioè il fatto che all’interno di questo gruppo di paesi sono apparse differenziazioni divenute ormai sostanziali. Ciò si vede mettendo a confronto le grandi aree del Terzo mondo per ciò che riguarda il comportamento demografico: le differenze ancora non molto rilevanti nel 1970-75 sono diventate nettissime venti anni dopo e devono far contrapporre Asia orientale e America latina da un lato a Africa e Asia meridionale dall’altro; è in paesi come il Bangladesh e quasi tutti quelli dell’Africa subsahariana (per di più afflitta dall’endemia dell'Aids) che si concentrano i casi più gravi di povertà e sottoalimenTabella 24. Variazioni negli indicatori demografici del Terzo mondo, 1975-1995 Indice di fecondità
Tasso % di crescita annua
1970-75 6,6
1990-95 5,8
1970-75 2,7
Asia
dl
3,0
246]
Asia Orient.
5,8
24
D:2
1,2
Asia Merid. Amer, latina
5,4 5,0
4,1 Sail
2,3 25
Qd 1,8
Africa
1990-95 2,8 j9ih6
Fonti: Stato del mondo 1 997, il Saggiatore, Milano 1996, pp. 688689; M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione mondiale, il Mulino, Bologna 1998, p. 190.
413
Storia degli ultimi cinquant'anni
tazione. Dal 1990 le Nazioni Unite pubblicano una distribuzione degli stati mondiali basata sull’indice di sviluppo umano, che tiene conto non solo del reddito pro-capite ma anche degli indicatori sociali costituiti dalla vita media e dai tassi di alfabetizzazione e scolarizzazione. Il gruppo a più debole sviluppo umano include 44 stati; di questi uno (Haiti) si trova nei Caraibi, nove, fra i quali Pakistan, India e Bangladesh,
in Asia e trentaquattro nell'Africa subsahariana. In corrispondenza vanno tenute presenti le diverse evoluzioni dei sistemi economici. Già dopo il 1973 era diventato necessario fare una categoria a sé dei paesi (specie quelli relativamente poco popolati) che potevano godere di una rendita petrolifera, così che per gli altri si era parlato a volte di “quarto mondo”. Ancor più decisivo era stato l'emergere dalla fine degli anni sessanta dei “paesi di nuova industrializzazione”. All'origine di questo fenomeno (come già si è osservato) vi era stato in principio il trasferimento in alcune aree del Terzo mondo di attività industriali ad alto contenuto di lavoro, come la produzione tessile 0
semplicemente quella di giocattoli; successivamente si era aggiunta la produzione di componenti per l’industria meccanica e anche quella, tecnicamente più complessa, di semiconduttori e microchip per l’industria elettronica. Al principio degli anni ottanta quattro di questi paesi, le cosiddette tigri (o dragoni) asiatiche: Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan si erano lasciati del tutto alle spalle il ruolo di mercati del lavoro poco costosi e stavano diventando paesi sviluppati con attività molto diversificate: in tutti e quattro i computer e l’elettronica più avanzata, in Corea del
Sud le automobili, a Hong Kong e Singaporelabanca,
414
La
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Sistema internazionale e sviluppo economico
la borsa e la finanza. Dieci anni dopo le “tigri asiatiche” si trovavano tutte nel gruppo dei trenta paesi primi per il reddito pro-capite. Le ragioni del loro successo stavano senza dubbio, oltre che nella precoce politica di contenimento delle nascite, nell’apertura al mercato internazionale, nell'aver cioè abbandonato il
tipo di sviluppo orientato a sostituire le importazioni con la produzione interna protetta (ovunque fallito per la debolezza del mercato interno) puntando invece, con un adattamento dell’esperienza giapponese, a conquistare i mercati esteri e a far sviluppare di conseguenza quello interno. Hong Kong e Singapore dif'ficilmente potevano valere come modelli per i vasti e popolati paesi sottosviluppati, essendo due città-stato (la seconda era divenuta autonoma nel 1965, uscendo dalla federazione della Malaysia o grande Malesia) con caratteri irripetibili; ma Taiwan e più ancora la Corea del Sud erano paesi relativamente estesi (36000 e 99000 kmq) e popolati. Nel corso degli anni ottanta anche le quattro tigri presero a esportare il loro modello di sviluppo, trasferendo in altri paesi asiatici attività che apparivano meno redditizie: Malaysia e Thailandia sono così diventati a loro volta paesi di nuova industrializzazione, affiancando alle attività tradizionali (la gomma e il
riso) la produzione tessile e siderurgica e la raffinazione del petrolio e accogliendo gli investimenti del Giappone e delle prime tigri; una terza fase ha poi riguardato Indonesia, Vietnam e, in minor misura, Filippine. Quasi tutti questi paesi, nonché la Cina, sono figurati negli anni ottanta e novanta fra quelli con i più alti tassi di crescita del Pil. Situazioni di significativo sviluppo si sono riscontra-
te anche al di fuori dell’area dell'Asia orientale fin qui 415
Storia degli ultimi cinquant'anni
considerata, ma si sono in vario modo incrociate con un problema destinato a incidere sempre più negativamente, quello dell’indebitamento estero. Tutti i paesi sottosviluppati non petroliferi (nonché quelli dell’Eu-
ropa orientale) avevano risentito degli aumenti del prezzo del petrolio nel 1973 e 1979-80 e per sostenere i loro programmi di sviluppo avevano fatto ampio ricorso ai prestiti esteri, forniti in massima parte da isti-
tuti bancari in sostituzione degli esigui aiuti internazionali. Questi prestiti erano stati visti dai governi come un onere accettabile perché si poteva supporre che l’inflazione crescente avrebbe giocato a favore dei debitori. Ma la politica del dollaro forte, inaugurata nel 1980 e sempre più rafforzata sotto la presidenza Reagan, mise rapidamente in un vicolo cieco i paesi che si erano indebitati, tanto più se si tiene conto che
quelli che puntavano sulle esportazioni di prodotti primari furono colpiti anche dalla caduta dei loro corsi. Si può affermare che precisamente le scelte di politica monetaria che consentirono alle economie sviluppate di fronteggiare la crisi (attraendo capitali negli Usa e facendo delle sue importazioni la “locomotiva” per la ripresa europea) segnarono il colpo di grazia per i paesi sottosviluppati: per far fronte agli alti tassi d’interesse internazionali e per procurarsi i dollari necessari per pagare il servizio del debito questi dovettero accresce- | re le proprie esportazioni e rinunciare a importazioni
vitali. Fra il 1980 e il 1985-87 (quando i tassi e le quotazioni del dollaro tornarono a livelli più accettabili) — l'ammontare globale del debito del Terzo mondo crebbe di oltre due volte e il pagamento degli interessi arrivò a rappresentare circa un quarto delle sue espor-
tazioni. Con la caduta dei prezzi del petrolio lacrisi del debito cominciò a pesare anche sui paesi dell’Opec EI x
416
È
.
Sistema internazionale e sviluppo economico
Come sempre, valori aggregati e medie nascondono la varietà delle situazioni. I paesi che si stavano rapidamente industrializzando risentirono meno della crisi del debito, mentre per quelli che avevano cercato di finanziare l'allargamento delle esportazioni di prodotti primari la situazione si fece più difficile. Essi dovettero contrarre nuovi debiti per far fronte al carico crescente degli interessi; per molti paesi africani l'ammontare del debito superò anche di due o tre volte il prodotto interno lordo e, come accadde anche ai più indebitati
paesi latino-americani
(Messico,
Brasile, Argentina), comportò che un terzo o la metà del ricavato delle loro esportazioni fosse devoluto alle banche creditrici. I nuovi prestiti al Terzo mondo diventavano inferiori a ciò che esso pagava in interessi e restituzioni, diventando piuttosto paradossalmen-
te un esportatore di capitali; i nuovi prestiti, indirizzati non a favorire gli investimenti ma a pagare gli interessi o a fronteggiare situazioni di urgenza, si configu-
ravano come puri abusi usurai. Escluso l’annullamento unilaterale del debito, che avrebbe provocato azioni di rivalsa e tolto la possibilità di altri prestiti, non
restava che rivolgersi alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale per ottenere rifinanziamenti
d'emergenza del debito. Ma le istituzioni finanziarie internazionali hanno abitualmente subordinato il loro intervento all’accettazione di drastiche misure di ristrutturazione in senso neoliberista: riduzione della spesa pubblica e degli apparati statali (in effetti per lo più pletorici, inefficienti e corrotti), vendita a privati (in grande misura stranieri) delle imprese e delle risor| se nazionalizzate nei decenni precedenti, smantellamento delle barriere protezioniste, aumento dei tassi d’interesse interni così da non far fuggire gli investito-
È
417
Storia degli ultimi cinquant'anni ri stranieri, ma penalizzando le iniziative economiche interne.
La necessità di giungere a una cancellazione di una parte dei debiti attraverso l’iniziativa dei paesi creditori è stata più volte sollevata, ma non ha fin qui avuto seguito. D'altra parte anche fra i paesi debitori esistono situazioni molto diverse. I paesi più poveri e periferici, spesso esposti al rischio dell’anarchia e delle guerre civili, hanno perduto ogni interesse per il “Nord del mondo”, perché anche come fornitori di prodotti minerari subiscono la concorrenza da parte di paesi come l’Australia e il Canada. Ma quando premono alle porte del mondo sviluppato attraverso l'emigrazione clandestina, come è il caso del Nordafrica per l'Europa e del Messico per gli Stati Uniti, obbligano a una maggiore attenzione. Così, già nel 1982 gli Stati Uniti intervennero per salvare il Messico dalla bancarotta e ancora più massiccio è stato l’aiuto prestato assieme al Fondo monetario internazionale per fronteggiare la nuova crisi finanziaria del dicembre 1994. All’inizio del 1994 era intanto entrato in vigore il North American Free Trade Agreement (Nafta) che compiva i primi passi verso una vasta zona di libero scambio fra Stati Uniti, Canada e Messico, con lo scopo di dare a quest’ulti-
mo prospettive di sviluppo che frenino l'emigrazione verso il Nord. L'ottimismo sulla possibilità di sostenere i processi di industralizzazione che si stavano verificando in varie parti dell’ex-Terzo mondo è stato bruscamente frenato dalla crisi finanziaria che si è aperta nel luglio 1997 in Thailandia. Essa ha rivelato che nello sviluppo delle varie tigri asiatiche si era inserito un elemen-
to di pura speculazione che aveva affidato progetti 418
Sistema internazionale e sviluppo economico
sempre più grandiosi al credito bancario a breve scadenza, in buona parte proveniente dal Giappone ed erogato nel clima di deregulation che ha caratterizzato la tendenza alla globalizzazione del capitalismo finanziario. Al primo inciampo la Thailandia ha fatto cadere la sua moneta; a ciò è seguito un generale crollo nelle borse asiatiche, a cominciare da quelle di Hong Kong e Singapore, aggravato dal crollo dei cambi con il dollaro, che doveva favorire le esportazioni ma rendeva anche più cara la moneta necessaria per pagare gli interessi sui debiti. La crisi si è estesa a quasi tutti i paesi dell'Asia orientale - Corea del Sud, Malaysia,
Indonesia, Filippine —, risparmiando Singapore e Taiwan ma coinvolgendo anche il Giappone. Mentre gli effetti del crollo asiatico dell’estate del 1997 si facevano ancora sentire, nell'agosto 1998 è esplosa in Russia una seconda crisi finanziaria che ha mostrato il fallimento di tutti i tentativi di rilanciare l'economia dell’ex-paese comunista e che ha avuto un contraccolpo mondiale: il panico ha indotto gli speculatori “globali” a ritirare i loro capitali da altri paesi che d’improvviso apparivano deboli e ha aggiunto il Brasile (con il più alto debito estero del mondo) alla lista di quelli che devono chiedere aiuto al Fondo monetario
internazionale. 5. Democrazia e sviluppo economico
Fra sistema politico democratico e sviluppo economico esistono relazioni molto complesse e controverse. In linea di principio si può dire che la mancanza di istituzioni democratiche (elezioni libere, esistenza di una opposizione, libertà di stampa) favorisce nei paesi del Terzo mondo la formazione di regimi corrotti e 419
Storia degli ultimi cinquant'anni
inefficienti poco adatti a sostenere politiche di sviluppo. D'altra parte le trasformazioni socio-culturali indotte dallo sviluppo economico (maggiore apertura verso l'esterno, ascesa di nuovi ceti produttivi, superamento del ruolo decisivo dei militari) sono tutte condizioni favorevoli allo stabilimento di istituzioni democratiche. Di fatto negli settanta-ottanta lo sviluppo economico delle “tigri asiatiche” è avvenuto (con l’eccezione della colonia britannica di Hong Kong) in presenza di regimi autoritari che derivavano direttamente da quelli sorti, con un netto orientamento anticomunista e
godendo dell’appoggio americano, durante la guerra fredda (già dal 1948-50 in Thailandia, Taiwan e Corea del Sud e nel 1965 in Indonesia e nelle Filippine). È interessante osservare che con l’allentarsi della guerra fredda molti di questi regimi hanno motivato la loro natura autoritaria facendo appello a presunti “valori asiatici” (in Occidente denominati piuttosto “dispotismo orientale”) o anche a un modello di “capitalismo confuciano” che, in opposizione all’individualismo occidentale, consentiva di progettare uno sviluppo economico basato sul primato della collettività, sulla disciplina e la dedizione allo Stato, sulla disponibilità
a lavorare senza avanzare pretese o protestare (va osservato di passaggio che la crisi del 1997-98 ha mostrato che il capitalismo confuciano era legato in molto paesi asiatici a una buona dose di avventurismo e anche di corruzione). Di simili idee si è fatto in particolare portavoce Lee Kuan Yew, presidente di Singapore dal 1959 al 1990, l’anno del suo ritiro. Con il suo carattere piuttosto eccezionale, Singapore ha
potuto basarsi più sul paternalismo che sul dispotismo, più sul potere dei manager che su quello della 420
Sistema internazionale e sviluppo economico
polizia, permettendo l’esistenza di partiti di opposizione senza alcun peso reale. Mentre Singapore ha conservato le sue istituzioni, in
altri casi si sono verificate trasformazioni significative. In Corea del Sud i militari hanno ammesso lentamente il pluripartitismo e nel 1987 hanno consegnato il potere ai civili. A Taiwan il partito nazionalista (Kuomintang), prima con Chiang Kai-shek (morto nel 1975) e poi con suo figlio, mantenne il paese sotto la legge marziale, considertandosi sempre in stato di guerra con la Cina popolare. La situazione piuttosto anomala di uno stato governato dai sopravvissuti fra i capi militari che nel 1949 avevano abbandonato il continente cominciò a venir meno nel 1987: il Kuomintang cessò di essere un partito unico e milita-
rista, l’opposizione fu legalizzata, l’originaria popolazione taiwanese poté esprimersi maggiormente nella
vita politica. Nel 1996 il partito nazionalista ha ottenuto ancora la presidenza, ma sulla base di un’elezione popolare diretta, preceduta nel 1995 da elezioni politiche pluripartiche che hanno dato una forte rappresentanza alle opposizioni. Nelle Filippine la dittatura di Ferdinand Marcos è durata dal 1965 al 1986, venendo seguita da una difficile transizione alla demo-
crazia. In Indonesia il regime di Suharto, sorto in seguito al colpo di stato del 1965, è stato travolto nel 1998 dai disordini provocati dal tracollo economico, ma i militari hanno mantenuto il potere. Il ritorno alla democrazia che si è verificato quasi ovunque nell’ America latina degli anni ottanta, con l'eliminazione delle ultime dittature personali (ad Haiti o nel Paraguay) e con il passaggio del potere dai militari ai civili, va particolarmente rimarcato perché è avvenuto nel decennio di gravi difficoltà economiche 421
Storia degli ultimi cinquant'anni
provocate dal crescente peso del debito estero. Dopo il lungo periodo dei movimenti di guerriglia e dei regimi militari che si erano resi colpevoli di pesanti atrocità, il mutamento del quadro politico poteva innescare una catena di vendette che lo avrebbe reso poco stabile. In effetti la transizione fu gestita con saggezza e moderazione, anche per l’influenza del pontefice Giovanni Paolo II, che nei suoi numerosi viaggi nel continente continuò a condannare la violenza rivoluzionaria ma contribuì a isolare i tiranni con le sue denunce dell’ingiustizia e dell’oppressione. Per contro, movimenti di guerriglia sono rimasti con scarso seguito in Perù e Venezuela e con maggiori capacità di sconvolgere la vita politica in Colombia, tutti segnati dalla tendenza a ridursi a gruppi criminali, spesso legati al traffico della droga. In Argentina i generali golpisti per conquistare il consenso popolare ricorsero a una demagogica avventura, occupando nel 1982 le isole Malvine o Falklands,
da un secolo e mezzo sede di un allevamento di pecore installato e gestito da pastori scozzesi e inglesi. La risposta del premier britannico M. Thatcher fu l’invio di una flotta che riprese possesso dell’arcipelago; effetto della guerra, proclamata dalla Gran Bretagna con un rumore nazionalista fuori misura, fu comun-
que quello di screditare i militari, che dovettero accettare le libere elezioni del 1983. In Brasile il ritiro dei militari dal potere si completò nel 1985; in Cile nel 1988 il generale Pinochet si sentì abbastanza sicuro da lasciare a un’elezione popolare la sua conferma a presidente, ma venne battuto e dovette trattare con il
potere civile il compromesso che gli faceva mantenere il comando delle forze armate. Il periodo di sviluppo economico chesi èaperto alla 422
Sistema internazionale e sviluppo economico
fine degli anni ottanta dovrebbe consentire la stabilizzazione della svolta democratica. In effetti le economie dell’ America meridionale si sono diversificate e la loro dipendenza da una sola o poche esportazioni si è attenuata (assume un carattere simbolico di buon auspicio che in venti anni il peso del rame sulle esportazioni cilene sia sceso dall’80 al 35 per cento), mentre il recente tentativo (dal 1991) di creare un’ampia zona di libero scambio con il Mercosur (Mercato comune del cono sud) potrebbe dare qualche buon risultato. Negli anni di Reagan gli Usa non si intromisero nei mutamenti in atto nell’America meridionale, ma con-
tinuarono a interferire nella vita dell'America centrale, considerata soggetta all’incombente minaccia comunista di Cuba, del Nicaragua e della guerriglia del Salvador. Per abbattere il governo del Nicaragua, il presidente americano mise in piedi un incredibile imbroglio, scavalcando il divieto del Congresso di finanziare gli oppositori dei sandinisti attraverso vendite clandestine di armi all’Iran e trasferendone i proventi ai “Contras”, cosa che nel 1987 dette un grave colpo alla sua popolarità. Il più cauto atteggiamento degli Usa rese allora possibile nel 1990 concretizzare il piano di pace per il Salvador e portare il governo sandinista a sottoporsi al giudizio elettorale e ad accettare la sconfitta. Al principio degli anni novanta l’ondata favorevole alla democratizzazione ha coinvolto anche il Sudafrica. Qui il governo razzista aveva accresciuto il suo apparato di repressione dopo il crollo del colonialismo portoghese e dopo che nel 1980 la maggioranza nera aveva assunto il potere nella vicina Rhodesia (ridenominata Zimbabwe); finanziando i gruppi controrivoluzionari in Angola e Mozambico aveva creato 423
Storia degli ultimi cinquant'anni
‘una situazione d’instabilità nell’area regionale ed esasperando i rapporti fra i vari gruppi etnici sudafricani aveva condotto il paese molto vicino a una guerra civile. Una svolta radicale si verificò fra il 1990 e il 1992,
quando la gran parte della minoranza bianca si convinse che l’era dell’apartheid era finita. Il maggior partito di opposizione, l African National Congress, venne legalizzato e il suo leader Nelson Mandela, in carcere dal 1962, venne liberato; l’apartheid venne
soppresso e il diritto di voto riconosciuto a tutti i gruppi etnici. Al di là di ogni ottimistica previsione, la transizione alla democrazia
si-compì senza traumi;
dalle elezioni del 1994 uscì una assemblea con una netta maggioranza dell’Anc, che a sua volta elesse Mandela presidente della repubblica. È innegabile che in molti casi l'affermazione della democrazia sia stata favorita dalla fine della guerra fredda e del bipolarismo e dal disfacimento del blocco sovietico. Per conseguenza un’area del mondo dove la messa alla prova della democrazia assunse un significato massimamente cruciale fu quella dell'Europa orientale e dell’ex-Urss. Ciò dipese anche dal fatto che il passaggio al multipartitismo avveniva contemporaneamente allo smantellamento dell’economia pianificata e, in sostanza, all’instaurazione del capitalismo, con la privatizzazione delle imprese, l’ammissione di imprenditori stranieri, la liberalizzazione dei
cambi e dei prezzi. Di fronte alla scelta fra una trasformazione a tempi rapidissimi e una a tappe, i nuovi
governi dell'Europa orientale optarono per lo più in favore della prima, contando sull’aiuto dell'Occidente
per far fronte ai suoi costi economici e sociali. Questi sarebbero stati in ogni caso molto alti, più ancora di quanto si stava verificando in Germania orientale. Le
424
|
i
Sistema internazionale e sviluppo economico
imprese tecnicamente antiquate e in perdita che prima del 1990 davano un contributo soltanto fittizio al prodotto interno lordo andavano chiuse. Ciò avrebbe comportato una netta caduta del Pil e un forte elevamento della disoccupazione, mentre i prezzi sarebbero cresciuti e il peggioramento del cambio con il dollaro avrebbe aggravato il peso del debito estero. Seguirono perciò prevedibilmente tre o quattro anni di gravi difficoltà, resi più difficili anche dalla riduzione o eliminazione dei servizi sociali erogati fino ad allora dagli stati socialisti. Solo dal 1993 o 1994 le riforme cominciarono a dare buoni risultati, soprat‘tutto in Polonia e nella Repubblica slovacca, con tassi
di crescita del 5,5-6 per cento. Ancora più significative sono state le vicende della vita politica. Ovunque le elezioni che si sono tenute a partire dal 1990 hanno visto una moltiplicazione abnorme dei partiti (più di venti in Polonia) e la formazione di governi liberaldemocratici
di centro
o centro-destra.
Poi, anche
come reazione all’ardua transizione economica, nel 1993-94 in Polonia, Ungheria e Bulgaria i favori dell'elettorato sono tornati ai partiti socialisti sorti dalla dissoluzione dei vecchi partiti comunisti; nel 1995 le elezioni presidenziali polacche hanno visto la sconfitta di Walesa di fronte al candidato socialista. Con le elezioni del 1997 e 1998 si è avuto un nuovo rovesciamento di fronte, del tutto fisiologico per un sistema democratico, con la vittoria di una coalizione cattoli-
co-liberale in Polonia e di centro-destra in Ungheria. Nessuno di questi cambiamenti ha però influito sulle grandi scelte istituzionali ed economiche fatte dopo il 1989. L'ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica ceca nella Nato (1999) e il prossimo allargamento dell’Unione europea a questi tre paesi nonché alla 425
Storia degli ultimi cinquant'anni
Slovenia e all’Estonia mostrano che tutti questi paesi sono in qualche modo diventati “normali”. Questo fortunato esito sembra invece piuttosto allontanarsi per le repubbliche ex-sovietiche, a cominciare dalla Federazione russa. La prima evidenza è quella che riguarda il fallimento delle riforme economiche. La caduta del prodotto interno era già cominciata in seguito alle riforme gorbacioviane, ma nel 1992-94 era proseguita nella Russia di Eltsin in forma patologica, nonostante gli aiuti che gli organismi internazionali concessero con generosità assai maggiore di quella dimostrata a Gorbatév. Alle ragioni già viste parlando dell'Europa orientale ne vanno aggiunte alcune peculiari alla Russia. L’ex-Unione Sovietica aveva cercato di creare una rete di integrazione fra le varie repubbliche accentuando oltre ogni limite la loro specializzazione economica (le industrie in Russia, la cerealicoltura in Ucraina e Kazakistan, la coltivazione del co-
tone in Uzbekistan e così via). L’indebolimento dello Tabella 25. Il tracollo economico della Russia, 1992-1997
1992
Variazioni del Pil -19%
Debito estero* 87
Tasso di inflazione 2500%
1993
—12
80
940
1994
—15
120
200
1995
Aq
120
_ 130
1996 1997
5 +0,4
124,8
48 15
* Miliardi di dollari
Fonti: Stato del mondo, il Saggiatore, Milano, anni vari; The Economist. Il mondo in cifre, Internazione, Roma 1996-1998. —
426 n.
uu
Sistema internazionale e sviluppo economico
stato e la perdita di fiducia nella moneta avevano ridotto i rapporti commerciali fra le repubbliche già prima del 1991 e il disfacimento dell’Urss le lasciò tutte con sistemi economici distorti e unilaterali. Ciò che si può dire per il disastro economico della Russia vale perciò in misura ancora maggiore per le altre ex re-
pubbliche sovietiche. Ma anche all’interno della Russia e di ciascuna altra repubblica i rapporti di scambio fra campagna e città e fra i diversi settori dell’economia hanno ricevuto un colpo mortale. Negli ultimi decenni dell’epoca comunista si era potuto assistere all’incredibile fenomeno di un mercato agricolo sorretto per un quarto e più dagli appezzamenti privati dei contadini collettivizzati, pari al 2,7
per cento della superficie coltivata. Già dal 1991-92 la de-collettivizzazione dell’agricoltura è stata portata assai più avanti di quanto prevedevano le riforme delle fattorie cooperative e statali introdotte nel 1986-89, ma la mancanza di certezza economica ha motivato poco i contadini ad affrontare pienamente la logica del mercato e, in ogni caso, li ha spinti ad approfittare dell’inflazione chiedendo prezzi (in natura) sempre più elevati, e venendo ripagati con il blocco delle forniture industriali. La privatizzazione delle industrie ha a sua volta preso tutta l’aria di essere condotta in favore della vecchia romenklatura, che ha colto nell’ope-
razione soltanto gli aspetti puramente speculativi, e degli investitori stranieri, che sono venuti in Russia solo per compiere rapidi ed enormi guadagni. Il crollo della borsa e dei cambi nell’agosto 1998 ha smentito la parvenza di ritorno alla normalità che si era delineata durante l’anno precedente. Due fenomeni sono apparsi particolarmente impressionanti: l'incapacità dello Stato di farsi pagare le im427
Storia degli ultimi cinquant'anni
poste e la moltiplicazione attorno alla liquidazione delle proprietà pubbliche di organizzazioni criminali che non hanno esitato a uccidere giornalisti o parlamentari troppo curiosi. Le città russe si sono riempite di una
vita che è la caricatura volgare e chiassosa di quella occidentale, mentre l'inflazione e i lunghi arretrati nei pagamenti degli stipendi pubblici facevano precipitare nella miseria i pensionati e i dipendenti statali, rischiando di demoralizzare e spingere all’illegalità anche le forze armate, l’unico settore che aveva mante-
nuto nel periodo brezneviano un alto livello di efficienza tecnica e operativa. Nulla dimostra lo sfacelo della società russa meglio del crollo della natalità e della riduzione della vita media, con una diminuzione as-
soluta della popolazione anche se variamente valutata. La società russa si è trovata nettamente impreparata
sia di fronte all'economia di mercato che al sistema politico fondato sulle elezioni e sul pluripartitismo. Dopo la dissoluzione dell’Urss per più di un anno e mezzo si sono fronteggiati con tutti i mezzi il presidente Eltsin, eletto a suffragio popolare nel giugno 1991, e un Congresso di cui Eltsin stesso contestava la
rappresentatività e che con la sua maggioranza di esponenti del vecchio regime faceva di tutto per frenare le riforme economiche. Nel settembre 1993 Eltsin sciolse il Congresso, che rispose destituendo il presidente e occupando la Casa bianca, sede dell’assem-
blea, e cercando di sollevare la popolazione di Mosca. 11 4 ottobre Eltsin si risolse all’uso della forza, facendo
riconquistare dall’esercito la Casa bianca in un'azione il cui sanguinoso bilancio è rimasto indefinito. Eltsin ha quindi preparato subito un progetto di costituzione presidenzialista che è stato approvato per
referendum. Con le sue successive scelte l’elettorato 428 = »_ *
Sistema internazionale e sviluppo economico
russo ha per così dire istituzionalizzato il contrasto fra un presidente dotato di poteri fortissimi (nomina il presidente del consiglio dei ministri anche contro il voto negativo del parlamento e lo depone) e un’Assemblea federale bicamerale (con una Duma e un Consiglio che rappresenta i singoli soggetti della federazione) organicamente portata ad atteggiamenti puramente negativi e irresponsabili. Le elezioni del dicembre 1993 videro infatti una dispersione dei voti su un gran numero di partiti, fra i quali spiccava con il 23 per cento quello “liberaldemocratico” di nome ma in realtà di orientamento nazionalista grande-russo,
‘antisemita e fascista. La nuova Duma eletta nel dicembre 1995 ha visto invece un grande balzo in avanti, con più di un terzo dei deputati, del nuovo partito comunista e la dispersione degli altri seggi su una ventina di partiti. Ma nel giugno del 1996 Eltsin è stato nuovamente eletto, al secondo turno, presidente con
una larga maggioranza (al primo turno Gorbaéév non ha raggiunto neanche l°1 per cento dei voti). La stabilità della Russia ha finito per incentrarsi sulla persona di Eltsin, le cui condizioni di salute non hanno fatto che peggiorare e che dal 1996 ha passato sempre più tempo in ospedale, manifestando il suo enorme potere e le sue oscillazioni politiche in un continuo mutare dei primi ministri e dei ministri. Le prossime elezioni presidenziali difficilmente si svolgeranno come un normale evento della vita politica.
6. La Cina e l'Asia orientale Dopo la sconfitta dei maoisti radicali (ottobre 1976), dall’estate del 1977 Deng Xiaoping, il pragmatico teorizzatore dell’indifferenza del colore del gatto rispetto 429
Storia degli ultimi cinquant'anni
alla sua capacità di prendere i topi, acquistò il primato nel partito comunista, pur senza rivestire nessuna
della cariche principali; nel 1980-81 Hua Guofeng dovette comunque lasciare le cariche di primo ministro e presidente del partito a due seguaci di Deng. Lo sviluppo economico e la modernizzazione della Cina divennero la preoccupazione principale del nuovo gruppo dirigente. Fra i casi di rapido sviluppo che si sono realizzati in Asia dalla fine degli anni settanta e che devono servire a mettere alla prova il modello
basato sulla fine del protezionismo o dell’autarchia e sull’apertura commerciale e finanziaria al mercato internazionale quello della Cina è certamente il più significativo, se non altro perché essa rappresenta un quinto della popolazione mondiale. Dopo gli anni di gravi difficoltà legati al fallimento del grande balzo in avanti, nel periodo 1962-1977 la Cina aveva conseguito una crescita media annua reale del prodotto interno pari a circa il 5 per cento; il tasso di crescita è stato invece del 10 per cento annuo nel 1980-96 (superiore anche a quello delle “tigri”), seguito da una flessione relativamente contenuta nei due anni successivi a causa della crisi delle economie asiatiche. Nel valutare questi dati va inoltre tenuto presente che negli anni sessanta la rapida crescita demografica
rese piuttosto contenuto l'aumento del reddito procapite. Ma con il 1971-72 la politica demografica cinese, come aveva fatto in alcuni periodi precedenti, tor-
nava a favorire il contenimento delle nascite, soprattutto attraverso il matrimonio tardivo; dal 1978-79 l’orientamento antinatalista è stato ancora più drastico,
con l'imposizione del figlio unico nelle cittàedi due figli nelle campagne eil ricorso, per motiareda piro lazione a seguire le indicazioni del governo, 430
Sistema internazionale e sviluppo economico
penalità economiche e sociali (compresa, fra le seconde, la coercizione). Gli indici di fecondità sono discesi negli anni settanta, secondo i dati forniti dai servizi
statistici cinesi, da 5 a 2,5 figli per donna. Per quanto più rigida, la politica posteriore al 1979 ha ottenuto risultati inferiori allo sperato, ma la discesa della fecondità è ripresa verso il 1990, portando la Cina al di sotto di 2, la soglia del rimpiazzo generazionale. La crescita annuale è già sotto l 1 per cento annuo, ma la Cina sembra avviata alla crescita zero e prossima a
imbattersi nei problemi legati all’invecchiamento della popolazione che i paesi sviluppati stanno già sperimentando. Va inoltre osservato che il limite di 1-2 figli, la preferenza per i figli maschi e la possibilità di ricorrere agli esami ecografici inducono a impedire con l’aborto le previste nascite femminili provocando un’accentuata distorsione nel rapporto fra i due sessi. Il confronto con il secondo gigante dell'Asia, lIndia, è rivelatore. Il tasso medio di crescita del Pil, anche se notevole, è rimasto nel 1980-96 attorno al 5,5
per cento annuo, venendo decurtato in termini procapite da un tasso di crescita annua della popolazione che solo di recente è sceso al di sotto del 2 per cento (con più di 3,5 figli per donna) e che prima del 2050 farà dell’India il paese più popolato del mondo. Fra i fattori che hanno portato in venti anni la Cina a un reddito pro-capite doppio di quello dell’India, oltre al diverso andamento della demografia vi è certo una migliore propensione agli affari dimostrata dai cinesi (che sono stati aiutati dalla numerosa diaspora dei loro connazionali esistente in Asia orientale), ma anche il maggiore egualitarismo esistente nella Cina degli anni settanta e la più efficiente direzione politico-economica, che hanno insieme consentito una più alta pro431
Storia degli ultimi cinquant'anni
pensione alla formazione di capitale. Forzando un po le cose talune analisi sostengono che in India la congiunzione di civiltà induista, democrazia e capitalismo liberale ha funzionato meno bene del “capitalismo confuciano” della Cina, fondato sull’indiscussa auto-
rità di un partito comunista cinese che prendeva l’eredità dell’antico ceto mandarinale. Il confronto con l’ex-Urss mostra ugualmente che la riforma economica è riuscita incomparabilmente meglio dove è stata condotta da un partito che, dopo aspre lotte, ha conservato la sua unità e mantenuto saldamente il potere. La svolta modernizzatrice cinese è stata di una eccezionale rapidità: senza bisogno di alcuna demaoizzazione, pochi anni dopo la morte del “grande timoniere” (i cui grandi ritratti continuano a campeggiare nella Cina ufficiale) il mondo di Mao Zedong sembrava ormai appartenere a un lontano passato. Già alla fine del 1978 il Comitato centrale aveva deciso di avviare lo smantellamento delle comuni agricole, conservando però le squadre di lavoro cooperativo che coinvolgevano una ventina di famiglie; ma la spinta che venne dal basso andò anche oltre le direttive politiche e di fatto dopo il 1980 le campagne cinesi tornarono alla piccola conduzione familiare, che ebbe la pronta approvazione delle autorità. La terra restava di proprietà pubblica ma i contadini erano incentivati ad accrescere la produzione potendo trattenere per la vendita ai prezzi di mercato la parte eccedente la quota prefissata per la consegna allo Stato a prezzi controllati, secondo contratti che si configuravano come un affitto, ancora di breve durata ma facilmente rinnovabile. Il nuovo sistema funzionò e consentì una crescita della produzione cerealicola più rapida di quella che si era registrata negli anni settanta. 432
Sistema internazionale e sviluppo economico
Negli ultimi quindici-venti anni i progressi più imponenti si sono verificati nella produzione industriale e nel commercio estero; quest’ultimo è cresciu-
to di oltre dieci volte fra il 1980 e il 1997, partendo sì da livelli molto bassi ma riuscendo a triplicare nel solo periodo 1990-97. La Cina ha ammesso con larghezza gli investitori stranieri (filiali di imprese straniere e imprese miste) e ha fatto ricorso al mercato internazionale dei capitali per sostenere i propri investimenti; il debito assoluto è uno dei più alti del mondo, ma
l'incidenza del suo servizio (interessi e quote di rimborso) sulle esportazioni si aggira sul 10 per cento ed è assai più contenuta di quella dei paesi realmente soffocati dall’indebitamento. L'esperimento di sviluppo era stato avviato con realismo, senza contraddire il principio con cui la Cina maoista (quando non si era fatta travolgere dal radicalismo ideologico) aveva inteso differenziarsi dall’Urss stalinista, “camminare sulle due gambe”, cioè dando
la stessa importanza all’agricoltura e all’industria, all'industria pesante e a quella leggera. La combinazione di controllo statale e libertà di mercato poteva appartenere alla stessa logica. La Cina restava in sostanza un'economia rurale ad alta intensità di lavoro, con
dimensioni assai ridotte dell’azienda agricola (due terzi di ettaro per famiglia) e con la necessità di svilupparsi come agricoltura intensiva (irrigazioni, doppi e
tripli raccolti, accuratezza dei lavori manuali). Negli anni novanta ha però dovuto fare un ampio ricorso alle importazioni granarie, potendovi destinare una parte dei consistenti avanzi della bilancia commerciale. Un futuro aumento della produttività agricola, con il passaggio a un grado un po’ più alto di meccanizzazione, sosterrà la produzione ma farà avvertire la so433
Storia degli ultimi cinquant'anni
vrappopolazione delle campagne; la liberalizzazione dei mercati locali, con lo sviluppo della piccola industria e dell'artigianato, è perciò stata un elemento indispensabile dell’intera strategia delle riforme. Questa ebbe tuttavia anche effetti non voluti. L'apertura internazionale produsse una maggiore circolazione delle idee e fra il 1986 e il 1987 fece moltiplicare le manifestazioni studentesche in favore di una riforma in senso liberal-democratico della vita politica. Nell'aprile 1989 i funerali di Hu Yaobang (prima stretto collaboratore di Deng Xiaoping ma costretto nel 1987 a dimettersi da presidente del partito per le sue idee troppo liberali) furono una grande occasione perché gli studenti tornassero a far sentire la loro voce. Il mese successivo la visita di Gorbadév a Pechino offrì un preciso modello di riferimento per le richieste di riforma (elezioni e libertà di espressione del pensiero). Dopo il 17 maggio, le centinaia di migliaia di persone scese nelle strade e nelle piazze per acclamare il presidente sovietico non vollero più disperdersi e alla proclamazione della legge marziale risposero occupando la grande piazza Tien-an Men. Il dibattito apertosi nel partito vide la netta sconfitta dell’ala disposta ad accogliere alcune delle richieste; negli ultimi giorni di maggio l’occupazione si stava radicalizzando e otteneva un crescente consenso non solo da parte della popolazione di Pechino ma anche delle truppe mandate a farla cessare. La notte fra il 3 e il 4 giugno l’esercito ricevette l'ordine di sgomberare la piazza e al suo sanguinoso adempimento seguì nei giorni successivi una più sistematica repressione del movimento di contestazione del partito. Deng Xiaoping scontò i negativi effetti
che la repressione avrebbe avuto sull'immagine della Cina, ma questi furono di breve durata e non impedi-
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Sistema internazionale e sviluppo economico
rono il proseguimento dei rapporti finanziari e commerciali con il mondo occidentale. Prima Deng Xiaoping (che morì nel febbraio 1997) poi i suoi successori hanno ribadito che in Cina non c'è alcuno spazio per i valori occidentali della democrazia e dei diritti umani.
Molti altri sono stati gli effetti indesiderabili del nuovo corso di Deng Xiaoping: l'inflazione, la disoccupazione (in seguito alla chiusura di imprese statali in perdita), consistenti movimenti di inurbamento, l’aumento dell’insicurezza e della criminalità, una forte
differenziazione regionale quanto ai redditi e al teno‘re di vita (con uno sviluppo assai maggiore delle regioni costiere, specie di quelle centromeridionali), la fine dell’egualitarismo con una più forte polarizzazione fra città e campagna e l'emergenza di un ceto imprenditoriale moderno ma più legato al capitalismo mondiale che al retroterra contadino del paese. È innegabile però che le condizioni di vita sono venute migliorando ovunque. Una segnalazione particolare tocca allo sviluppo dell’inquinamento all’interno del territorio nazionale e al contributo cinese a quello su scala mondiale. La parte della Cina nei consumi energetici mondiali è passata nel 1980-1996 dal 5,8 a più del 10 per cento e ciò soprattutto in seguito all’ampio ricorso alla maggiore risorsa cinese, il carbone, la cui produzione è più che raddoppiata nello stesso periodo. Lo sviluppo cinese, assieme a quello degli altri paesi asiatici, è stato così posto sotto osservazione come responsabile dell’aggravamento dell’“effetto-serra” e in occasione delle conferenze mondiali in difesa del clima ha rivelato contrasti difficilmente sanabili fra le esigenze economiche della Cina e quelle ambientali e fra le proposte cinesi e quelle dei paesi già sviluppati. 435
Storia degli ultimi cinquant'anni
Novantunesima nella graduatoria degli stati quanto al prodotto pro-capite, la Cina è invece settima come Pil totale ed è diventata perciò, nonostante i suoi squilibri interni, una potenza economica mondiale (con un prestigio rafforzato dal rifiuto di ricorrere alla svalutazione della moneta di fronte alla crisi asiatica del 1997-98). Ciò ha inevitabili conseguenze sul ruolo che la Cina, restando ufficialmente fedele all'importanza del policentrismo e contraria agli egemonismi, intende giocare nel sistema politico internazionale e in particolare nell’area estremo-orientale. Composte le controversie di frontiera con la Russia e compiuto nel 1997 il ritorno sotto la sovranità cinese di Hong Kong, resta la questione di Taiwan, con la quale la Cina intrattiene intensi rapporti economici e anche culturali, che non hanno però finora condotto ad avviare trattative per la riunificazione. Gli Stati Uniti hanno ammesso da tempo di considerare Taiwan una provincia cinese, ma escludono la riconquista con la forza da parte di Pechino. La Cina, a sua volta, ha disapprovato le elezioni del 1995-96 e altre iniziative internazionali prese da Taiwan, considerandole come tentativi
da parte di una provincia ribelle di far valere la sua indipendenza e reagendo con dimostrazioni di forza. I rapporti più complessi sono quelli esistenti fra la Cina e il Giappone, che hanno numerose ragioni di rivalità economica e politica in tutta l’area dell’Asean (Associazione delle nazioni dell’ Asia del sud-est), che
è formata attualmente da dieci membri. Il trattato di pace fra i due paesi risale al 1978 (i pochi giorni di guerra fra Giappone e l’ex-Urss, nell'agosto 1945, non hanno invece ancora condotto a una pace formale, per il rifiuto giapponese di riconoscere l'occupazione russa delle isole Curili), ma la Cina gradirebbe in più 436
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un’ammissione di colpevolezza da parte del Giappone. A Okinawa e in altre basi esiste ancora una notevole presenza militare americana, ma il fatto nuovo è rappresentato dalla continua crescita del potenziale militare autonomo del Giappone: in termini relativi 11% del Pil di Tokyo pare un valore minimo, ma in termini assoluti è tutt'altro che trascurabile. Prendendo occasione dal lancio provocatorio in mare aperto di missili (disarmati) da parte della Corea del Nord, il governo giapponese non esclude più un ricorso difensivo alla forza, contro l’articolo 9 della co-
stituzione del 1947. 7. Vecchie e nuove aree di tensione e instabilità dopo la guerra fredda L'ultimo paragrafo di questo libro sarà dedicato al riassestamento del sistema internazionale nel corso degli ultimi sette-otto anni, cioè a partire da quando, nel corso del 1991 e comunque prima del dicembre, si venne delineando il disfacimento dell’Unione Sovietica. Seguire gli sviluppi di tale riassestamento secondo la cronologia degli avvenimenti che si sono succeduti in un periodo abbastanza breve rischia di far perdere il loro senso complessivo. Conviene partire da alcune questioni generali e richiamare in funzione di queste gli eventi più significativi. Una prima questione riguarda il rapido succedersi di tre diversi stati d'animo (vedi cap. 11, $ 4) di fronte a ciò che fra il 1989 e il 1991 accadde nell’estrema fase della vita del blocco orientale. Nell’Ottantanove avevano vinto in maniera pacifica i valori politici dell'Occidente, cioè la sconfitta di qualcuno era valutabi-
le con un certo ottimismo come la vittoria di tutti. Nel 437
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Novantuno la fine dell’Urss aveva segnato la fine di una guerra dei “quarantacinque anni”, la guerra fredda — sulla cui natura di vera guerra, anche se con intermittenze di fasi acute e distensioni, è un po’ troppo facile sollevare dubbi guardando le cose da contesti così mutati da quelli originali. In questo caso nella distinzione fra chi aveva vinto e chi aveva perso per i secondi non c’era grande possibilità di riscatto. Ma accanto alla guerra fredda fra capitalismo e comunismo, o addirittura con priorità logica, c’era stato il sistema internazionale fondato sul bipolarismo che, per ragioni complesse e controverse, aveva assicurato un lungo periodo senza guerre aperte fra le maggiori potenze statali (da questo punto di vista, perciò, una pace dei “quarantacinque anni”) e che, secondo molti analisti, aveva contenuto i conflitti locali. Venuto meno quell'ordine, che cosa sarebbe accaduto nelle vecchie aree
di conflitto e quali nuove aree di instabilità si sarebbero manifestate? Chi e come sarebbe stato in grado di assicurare un nuovo accettabile ordine? Come primo candidato si offriva certamente l’Onu. Furono le risoluzioni dell'Onu del novembre 1990 che legittimarono il successivo attacco di una forza multinazionale all'Iraq. Erano inoltre i caschi blu dell'Onu che in diverse situazioni critiche si interponevano fra le parti in lotta e contribuivano a ricreare condizioni di pace. È questo in particolare il caso della Cambogia, dove al ritiro delle truppe vietnamite è seguito un lungo e difficile processo di pacificazione
che ha condotto nel 1998 alla definitiva scomparsa delle ultime bande di khmer rossi, all'accordo tra le
fazioni in lotta per creare un governo di coalizione e
riconoscere Sihanouk come monarca costituzionale In altri casi le cose sono andate assai meno bene. D 438
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Sistema internazionale e sviluppo economico
1990-91 la Somalia vide il completo disfacimento delle strutture statali e si trovò in piena anarchia; alla fine del 1992 l'Onu decise di inviare nel paese una missione umanitaria (denominata Restore Hope), un corpo di spedizione incaricato di soccorrere la popolazione civile coinvolta nei combattimenti fra le varie fazioni armate. L'operazione, cominciata come modello del nuovo ordine mondiale retto dall'Onu, è fallita totalmente; gli Stati Uniti, che avevano inviato il contin-
gente più numeroso, si sono ritirati dall'impresa alla fine del 1993 ed entro il febbraio 1995 hanno fatto altrettanto tutti gli altri stati coinvolti nella missione. i Ancora più grave è stato lo scacco dell'Onu in Bosnia, che si era autoproclamata repubblica indipendente nel marzo 1992, ottenendo immediati riconosci-
menti internazionali (compresa l'ammissione all'Onu) ma dividendosi subito in tre regioni dominate da musulmani, serbi e croati. Sottoposta alla doppia pressione militare dei serbo-bosniaci e croato-bosniaci, la
popolazione musulmana vide restringersi il proprio territorio e in una situazione di guerra civile di eccezionale ferocia si trovò esposta alle peggiori violenze. Con il diffondersi delle notizie sui massacri di musulmani (confermate poi dalla scoperta di decine di fosse comuni) e su campi di prigionia che stavano diventando campi di sterminio, dal maggio 1993 l'Onu fu costretta a intervenire per portare aiuti umanitari alla popolazione di Sarajevo assediata e per garantire l’incolumità alla popolazione delle zone dichiarate “di sicurezza”, perché maggiormente minacciate dalla guerra. Di fatto la presenza dei caschi blu non fu in grado d’impedire che proseguisse l'assedio a Sarajevo ‘e che le artiglierie serbo-bosniache che dalle colline tenevano sotto tiro la città compissero uno stillicidio 3
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di uccisioni e veri massacri. L'intervento diplomatico degli Stati Uniti spinse nel marzo 1994 la Croazia a garantire un primo cessate il fuoco fra croato-bosniaci e musulmani, ma la guerra sull’altro fronte continuò fino alla strage della popolazione musulmana di Srebrenica, nel luglio 1995, e al nuovo massacro di Sarajevo, in agosto.
Fu solo a questo punto che si realizzò un vero intervento militare in difesa dei musulmani; l’iniziativa
venne però non dall'Onu, ma dal presidente degli Stati Uniti Clinton che a nome della Nato fece bombardare le postazioni serbe attorno a Sarajevo. Fu ancora Clinton a costringere tutte le parti in causa a trovarsi in novembre nella base militare di Dayton (nell’Ohio) per raggiungere gli accordi poi sottoscritti a Parigi. Tali accordi lasciavano sussistere sulla carta una repubblica di Bosnia unica, ma in attesa di tempi
migliori la dividevano di fatto in due entità separate, una federazione croato-musulmana e una repubblica | serbo-bosniaca. La vicenda bosniaca e in genere quella della dissoluzione della Jugoslavia non ha solo segnato il fallimento dell'Onu, ma ha anche dimostra-
to la nullità politica dell’Unione europea, che ha assi- _ stito per più di quattro anni a un succedersi di guerre _ feroci (che interrompeva la lunga pace goduta dall'Europa dopo il 1945) dimostrandosi impotente a far valere il suo peso diplomatico in mancanza di un suo peso militare. Erano gli Stati Uniti, da soli o come forza motrice
della Nato, che potevano definire le regole del nuovo ordine internazionale e assumere il ruolo di “poliziotti del mondo”, come era già accaduto con la guerra del Golfo. Il dualismo fra Onu e Nato è perciò diven-. tato sempre più evidente. I limiti dell'Onu eranoi
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limiti stessi di un'istituzione creata in rapporto alla conclusione della seconda guerra mondiale, con il ruolo determinante di Usa e Urss. L'ingresso della Cina popolare e più tardi il subentrare della Russia all’Urss hanno creato i primi cambiamenti nell’assetto del 1945, ma la composizione del consiglio di sicurez-
za non rappresenta più gli equilibri mondiali. Il monopolarismo di fatto degli Usa non ha più niente a che fare con lo spirito originario delle Nazioni Unite. L'allargamento del gruppo dei membri permanenti (prima di tutto alla Germania e al Giappone) non sarebbe però di per sé sufficiente a dare all'Onu il potere e il prestigio di fatto posseduti dai soli Stati Uniti. In vista dell’estensione ad alcuni paesi dell'Europa orientale (formalizzata nel febbraio 1999, come si è visto al $ 5), la Nato ha tenuto a chiarire che non era un’al-
leanza antirussa e si è proposta come base di una partnership per la pace aperta (diversa dalla sottoscrizione dell'alleanza), cui nel 1997 ha in effetti aderito la stessa Russia. Nemici della Nato (organizzazione armata) sono dunque tutti coloro che compiono atti contro la pace e nella veste di custode dell’ordine internazionale la Nato è più volte intervenuta (come vedremo subito), scavalcando l’Onu, organizzazione in pratica disarmata. Ancor meno paragonabile al ruolo della Nato e della sua leadership statunitense è quello dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), sorta nel 1994 come istituzione permanente al posto delle conferenze europee succedutesi dopo quella di Helsinki. Gli Usa non sono ovviamente onnipotenti, ma si sono dimostrati capaci di sbloccare la questione palesti| nese che dal 1947 aveva provocato cinque guerre,
| compresa l’invasione israeliana del Libano nel 1982. A
È
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questa era seguito un nuovo imperversare di gruppi
terroristi palestinesi, che potevano godere dell’appoggio dell’Iran e della Libia. La promessa fatta nel 1991 dal presidente americano Bush di intervenire concretamente per dare una giusta pace al Medio Oriente, una volta finita la guerra con l'Iraq, è stata raccolta dal suo successore Clinton. Nel settembre 1993 Arafat e il capo del nuovo governo laburista israeliano Yitzhak Rabin hanno proclamato il reciproco riconoscimento fra l’Olp e lo stato d’Israele; l’incontro fra i due leader avvenuto a Washington sotto la garanzia del presidente Clinton ha avviato la costituzione di un’autonoma “autorità palestinese” sul territorio di Gaza e a Gerico, estendibile ad altre parti della Cisgiordania, dove do-
vranno cessare gli insediamenti di coloni ebrei. A ciò è seguita nell’ottobre 1994, sempre alla presenza di Clinton, la firma della pace fra Israele e Giordania, che
chiudeva formalmente e sostanzialmente il conflitto del 1967, associando il re giordano Hussein al processo di pacificazione relativo alla questione palestinese. Nel quadro di un prevalente anche se non assoluto “monopolarismo”, quali erano dunque dopo il 1991 le forze che potevano rendere difficile stabilire un nuovo equilibrio internazionale al posto di quello appena venuto a mancare? Tre scenari venivano a proporsi in
risposta a questa domanda. Il primo si esprimeva nella sostituzione alla contrapposizione Est-Ovest di quella Nord-Sud, intesa in questo caso non come fondamento dell’obbligazione morale e politica del “Nord” di _ cooperare allo sviluppo del “Sud”, ma come percezione di una minaccia (P. Lellouche, I/ nuovo rondo. Dall'ordine di Yalta al disordine delle nazioni, 1992, capp. VII e IX). Il Sud povero e sovrappopolato premeva con le invasioni dei suoi emigrati, generando 442
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esplosioni di xenofobia e autentico razzismo. Dal Sud, in America e in Asia, muoveva l'attacco dei narcotraf-
ficanti. Nel Sud del mondo si trovavano le maggiori basi del terrorismo internazionale e da qui veniva il pericolo di devastanti guerre fra poveri, stati o fazioni delle guerre civili: lAfrica possiede il maggior numero di conflitti di questo genere, dalla Somalia alla Liberia, all’Angola e alla Sierra Leone, dal Ruanda e dal Congo alla frontiera fra Etiopia e Somalia. Ma le ottocentomila vittime del genocidio dei tutsi compiuto in Ruanda nell’aprile-maggio 1994 dalle bande di assassini hutu hanno provocato nel mondo una commozione piuttosto astratta e irreale. Generava maggiore impressione sapere che nei regimi retti da despoti irresponsabili si stavano moltiplicando le capacità di dotarsi di armi atomiche o delle più economiche ma, altrettanto micidiali, armi chimiche e batteriologiche. L’aggressione dell’Iraq al Kuwait andava considerata un modello del banditismo internazionale che avrebbe messo in pericolo il mondo e ciò valeva ancor più per i missili scagliati da Saddam Hussein su Israele durante la guerra del Golfo, nel tentativo di provocare una risposta israeliana e di accendere una guerra generale. Infine nel Sud del mondo si trovavano situazioni talmente ingarbugliate da risultare incurabili sia con la guerra che con la diplomazia. Gli apocalittici bombardamenti sull’Iraq nel 1991 costrinsero Saddam Hussein ad accettare un armistizio pesante, ma è notevole il fatto che gli Usa abbiano rinunciato
a una
Eliminare del tutto ti comportato come smembramento del attratto dall’Iran e
vittoria
ancora
più completa.
il regime iracheno avrebbe infatgrave conseguenza non voluta lo paese: il Sud sciita sarebbe stato il Nord curdo avrebbe cercato
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l'indipendenza, estendendo l’incendio anche al Kurdistan turco, cioè in un paese membro della Nato. Dopo il 1991 l'Iraq è stato comunque posto sotto stretta sorveglianza (e la sua popolazione civile prostrata da un rigido embargo), perché sospettato di possedere ancora armi chimiche. La lunga crisi del 1998 è stata infine molto significativa. Gli Usa hanno considerato le risoluzioni dell’Onu del novembre 1990 una base giuridica sufficiente per minacciare altri bombardamenti sull’Irag, mentre il segretario generale Kofi Annan ha cercato di restituire all'Onu le sue prerogative di mediazione e intervento; ciò nonostante gli Stati Uniti hanno proceduto in dicembre a una nuova serie di bombardamenti. Un secondo scenario è quello prospettato in un articolo del 1993 e poi in un libro dal politologo Samuel Huntington (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, 1997). Venuta meno la necessità di allinearsi all'uno o all’altro blocco, le società tendono a stabilire i loro rapporti di affinità e conflittualità sulla base delle identità più profonde e durature, quelle delle culture e delle civiltà. Nonostante la vaghezza di questi concetti e non poche forzature nel generalizzare l’idea di scontro, resta però vero che nei pochi anni successivi al 1989-91 «la parola “genocidio” è stata pronunciata molto più spesso che in tutti i lustri della guerra fredda» (p. 30). Fra le manifestazioni dello “scontro di civiltà” vi è certamente la deriva delle grandi religioni verso l’integralismo o fondamentalismo, che non coinvolge solo il
mondo islamico. Nel novembre 1995 il primo ministro israeliano Rabin è stato assassinato da un ebreo
fanatico e questo fatto non è rimasto un fenomeno abnorme. Alle elezioni del 1996 si è verificato non solo
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un relativo successo del partito nazionalista Likud, ma una netta avanzata dei partiti religiosi integralisti. Da quel momento il processo di pace in Medio Oriente si è arenato. Il prevalere degli estremismi ebraici e musulmani con la vocazione alla violenza e alla strage non è un fatto nuovo, ma va rimarcato che esso si è
verificato in una fase in cui anche un paese considerato un modello positivo come l'India vedeva l’avanzata del fondamentalismo religioso. Nel dicembre 1992 la distruzione della moschea di Ayodhya nell’Uttar Pradesh ha gettato una luce alquanto sinistra sull’estremismo indu. Alle elezioni del 1996 il partito nazionalista induista Bharatiya Janata ha battuto il partito del Congresso. Nel maggio 1998 i due esperimenti nucleari indiani hanno suonato come una minaccia al Pakistan, che ha risposto a distanza di pochi giorni con altri due esperimenti. Nello scenario dello “scontro di civiltà” il ruolo più aggressivo è di solito quello attribuito al fondamentalismo islamico, i cui partiti e movimenti politici (come il “partito di Dio” o Hezbollah) appaiono all'Occidente allo stesso tempo incomprensibili e minacciosi. Negli ultimi anni le condizioni delle minoranze non musulmane nei paesi islamici (a cominciare dal Pakistan) sono certamente peggiorate ed è cresciuta la xenofobia. Ma il pericolo che deriva dai gruppi fondamentalisti incombe più che sui paesi dell'Occidente infedele sugli stessi paesi islamici e su chi in essi è orientato a una qualche modernizzazione della società. A distanza di vent'anni dall’instaurazione della repubblica islamica, l’Iran cerca di darsi un'immagine internazionale meno intransigente di quella ben rappresentata dall’ingiunzione rivolta nel 1988 da Khomeini a ogni musulmano di uccidere lo scrittore indiano Salman Rushdie, accusato di blasfe-
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mia. In questo paese, dove peraltro le donne votano e possono presentarsi candidate a qualsiasi carica, le elezioni presidenziali del 1997 hanno visto la netta vittoria del moderato Mohammad Khatami; ma l’estremi-
smo religioso continua a esprimersi attraverso l’assassinio di intellettuali giudicati troppo liberali. Ben più arcaica suona la vittoria riportata nel 1996 in Afghanistan dai taliban, assertori della legge coranica, che si è rivolta soprattutto contro le donne afghane, ricondotte a una totale segregazione. In Algeria sono le popolazioni civili e in primo luogo ancora le donne (più che le forze del governo militare che si è imposto con la forza nel 1992) a essere le vittime delle bande di fanatici assassini che terrorizzano il paese e che con le loro atroci stragi hanno colpito molte migliaia di persone. Il terzo scenario, presentato con buoni argomenti
come il più incombente e funesto e solo in parte coincidente con i due precedenti, era quello dell’esplosione dei nazionalismi. Rivendicazioni autonomiste o separatiste esistono in diversi stati del mondo, compresi
quelli dell'Europa occidentale. Ma il contrasto fra una parte e un tutto è meno esplosivo di quello che può essere espresso con uno schema molto semplice, adatto a un'infinità di casi, e che ripropone tipiche situazioni esplosive del principio del XX secolo: la subnazionalità C, incastrata nella nazionalità B, è disposta a fre-
nare le sue rivendicazioni solo finché tanto C che B sono inseriti nello stato o nel blocco multinazionale A. Non appena A si dissolve sorge la questione: che ne sarà della minoranza etnica e religiosa C, dopo che B ha ottenuta la propria indipendenza? Il dissolversi dell'Unione Sovietica e della Jugoslavia, ma anche del blocco sovietico nell’area balcano-danubiana, ha fatto sorgere un gran numero di nuovi “stati B” e unnume-
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dai pesca
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ro ancora più grande di “casi C” che costituiscono sia problemi in sé che occasione di conflitti fra i nuovi stati B. È possibile risolvere tali problemi facendo dei “casi C” altrettanti nuovi stati? La risposta è no, perché per ragioni storiche, che sono ormai dati di fatto irreversibili, la situazione di queste aree è tale che all'interno dei nuovi “stati C” si presenterebbero subito analoghi “casi D”. O per meglio dire, la risposta può essere sì, se si è disposti a rimescolare completamente il rapporto fra popolazioni e territori, spostando milioni e milioni di persone. Non è necessario andare a cercare tanto lontano, cinque, dieci o più secoli fa, le radici dell’odio e della violenza che si scatenano al dissolversi degli stati multinazionali: l’uso strumentale dei nazionalismi, del contrasto religioso, della storia inventata, l’agitazione degli animi riproponendo vecchi o antichissimi torti subiti, la paura del proprio destino, tutti fatti del presente, sono più che sufficienti. Queste situazioni sono ideali per consegnare la parola e l’azione agli uomini peggiori, ma se pure la predisposizione alla violenza è generale, certamente vi sono alcune re-
sponsabilità più nette e crimini peggiori degli altri. Così per il complesso dei duecentomila morti e tre milioni di profughi provocati dalle guerre nella ex Jugoslavia la responsabilità del nazionalismo serbo è evidente. Ma è un peccato che, dopo l’indubbiamente affrettato riconoscimento europeo della fine della Jugoslavia nel 1992, la ragion di Stato abbia creato una commozione più grande per i massacri compiuti dai serbi che per quelli compiuti dai croati sia sui musulmani bosniaci, sia sulle minoranze serbe *di Croazia (in gran parte espulse definitivamente) durante la riconquista dei territori persi nel 1992. È inutile verificare su tutti i casi concreti il modello
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proposto. Estonia e Lettonia cancellano un antico tor-
to rivendicando l'indipendenza, ma nel 1992 i partiti nazionalisti minacciano di togliere cittadinanza e diritti politici ai russi, che sono un terzo della popolazione, e dimenticano che gli estoni sono meno di due terzi della popolazione dell'Estonia e i lettoni un po’ più della metà di quella della Lettonia. Gli oltre ventisei milioni di russi che nel 1991 vivevano nelle quattordici repubbliche non russe dell'ex Urss non erano cancellabili.da un momento all’altro. Le guerre e le guerre civili nell'ex Urss sono state finora sanguinose (Tagikistan e area del Caucaso) ma. meno numerose del previsto. Non si è verificato lo scontro peggiore, quello che poteva essere determinato da tre solide ragioni fra Russia e Ucraina: la questione della Crimea, dal 1954 repubblica autonoma entro l'Ucraina ma con una popolazione per due terzi russa (gli ucraini sono anche meno numerosi dei tatari); quella dei criteri di divisione della flotta del mar Nero; quella del controllo degli armamenti nucleari presenti in Ucraina (va ricordato che dopo la sua adesione, nel 1994, al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, è potuto entrare realmente in vigore il trattato Start,
mentre il più impegnativo Start 2, firmato nel gennaio 1993 da Bush e Eltsin attende ancora di essere ratificato dal Congresso americano e dalla Duma russa). Resta azzardato fare altre previsioni, di fronte all’eventualità che la Russia stessa sia soggetta a movimenti di dissoluzione più ampi della secessione della Cecenia, la cui sanguinosa repressione da parte di Eltsin (nel dicembre 1994)-ha avuto scarsi effetti pra-
tici. E va ancora tenuto presente che, stando alla valutazione di Paul Garde (I Balcani, 1994, p. 78), delle ventitré frontiere dell’area balcanico-danubiana
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diciannove presentano potenzialità conflittuali. Emblematico è il caso della provincia serba del Kosovo. Dentro la Jugoslavia di Tito gli albanesi, che erano il 7 per cento della popolazione totale e per complesse ragioni storiche il 90 per cento di quella del Kosovo, potevano sentirsi abbastanza tutelati. Già nel 1989 (in seguito all’abolizione della sua autonomia) non era più così, e a maggior ragione nel
1991-92, dopo la dissoluzione del contesto jugoslavo e la deriva nazionalista della Serbia di Milosevic. L'Europa, che a suo tempo aveva seguito la Germania nel riconoscere la nascita dei nuovi stati sovrani, di
fronte alla nascita di un movimento indipendentista armato degli albanesi del Kosovo si è dimostrata assai più cauta e non ha offerto nessun appoggio al più radicale obiettivo separatista. In un Kosovo indipendente, del resto, si ripresenterebbe immediatamente
la questione delle sorti di una nuova minoranza, il dieci per cento serbo della popolazione. Il confine fra una questione pur sempre interna, anche se soggetta a straordinarie misure di repressione, e una catastro-
fe umanitaria incombente è stato raggiunto durante il 1998. Alla fine degli inutili negoziati di Rambovuillet promossi dai mediatori europei, gli Stati Uniti e la Nato, scavalcando l'Onu (oltre che l’Osce) in maniera assai più netta che in passato, hanno attuato i loro avvertimenti ricorrendo ai bombardamenti aerei cominciati il 24 marzo 1999. In termini strettamente formali non si tratta di una guerra alla Serbia, che sarebbe illegittima sulla base degli scopi dichiarati del Patto Atlantico e della sua | sfera geopolitica di applicazione; d’altra parte, l’obiettivo dell’operazione militare non era quello di distrug-
gere la Serbia ma di costringerla ad accettare un ac-
9
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cordo che salvasse allo stesso tempo la sua sovranità e integrità e l'incolumità degli albanesi, essendo basato sull’autonomia (e non l’indipendenza) del Kosovo, tutelata dalla presenza di forze di interposizione della Nato. In concreto, tuttavia, l'intervento della Nato
non poteva essere una replica di quello compiuto in Bosnia nel 1995, perché trovava nella Serbia uno sta-
to pronto a raccogliere la sfida. Immediatamente il Kosovo è stato invaso dall’esercito serbo che, in ag-
giunta alle fughe determinate dalla paura, ha intrapreso una operazione di totale “pulizia etnica” (questa espressione è entrata nell’uso dal tempo della guerra bosniaca), espellendo o organizzando la deportazione della popolazione albanese verso l'Albania e la Macedonia: quasi un terzo di questa, seicentomila persone, era già stata espulsa o si trovava in movimento alla data del 6 aprile. La catastrofe umanitaria era perciò seguita precisamente agli atti che tentavano di impedirla: è certo un abuso dire che è stata causata da quegli atti, perché restava strettamente una scelta del nazionalismo serbo, le cui responsabilità non venivano af-
fatto sminuite. In una prospettiva non limitata alle dispute contingenti provocate dall’intervento della Nato, sorgono alcune questioni di importanza essenziale, a comincia-
re dal futuro ruolo dell'Onu. Ridefinendosi in maniera unilaterale come forza di polizia internazionale, la Nato e gli Stati Uniti come sua componente egemone,
obbligano l'Unione Europea a decidere se intende davvero essere posta al margine dalle questioni strategiche europee, continuando a dimostrarsi impotente sul piano diplomatico e pronta a delegare ad altri su quello militare. In secondo luogo, l’impressionante manifestazione di forza e tecnologia militare dispiega450
i
Sistema internazionale e sviluppo economico
ta dagli Stati Uniti in questa occasione, deve indurre a chiedersi se un sistema internazionale divenuto politicamente e militarmente monopolare (le proteste verbali della Russia e la sua uscita dalla partrership per la pace con la Nato non cambiano le cose) può mantenere a lungo la sua stabilità. In un sistema di equilibrio multipolare è più facile continuare a usare con saggezza e moderazione della propria potenza.
Bibliografia Africa, “Limes. Rivista Italiana di geopolitica”, Roma 1997, n. 3
Agnew J., Gl Stati Uniti nell'economia mondiale (1987), E. Angeli, Milano 1988 Asta Mator, “Limes. Rivista Italiana di geopolitica”, Roma 1999 nil
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|
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— ma 1995 Huntington S.P., La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo (1991), il Mulino, Bologna 1995
L
451
Storia degli ultimi cinquant'anni Huntington S.P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), Garzanti, Milano 1996 Kennedy P., Ascesa e declino delle grandi potenze (1989), Garzanti, Milano 1989 Kennedy P., Verso 7 XXI secolo (1993), Garzanti, Milano 1993 Krugman P., L'incanto del benessere. Politica ed econonita negli ultimi vent'anni (1994), Garzanti, Milano 1995 Morishima M., Cultura e tecnologia nel “successo” giapponese (1982), il Mulino, Bologna 1984 Nugent N., Governo e politiche dell'Unione europea. (1994), il Mulino, Bologna 1995
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giatore, Milano 1994
Di -
Ò
Sigle citate nel testo
Asean: Association of South East Asian Nations.
Ceca: Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Ced: Comunità europea di difesa. Cee: Comunità economica europea. Cento: Central Treaty Organization. Cia: Central Intelligence Agency. Comecon: Consiglio di mutua assistenza economica. Csce: Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Efta: European Free Trade Association. Erp: European Recovery Program (piano Marshall). Euratom: Comunità europea dell'energia atomica.
Fao: Food and Agricolture Organization. Fmi: Fondo monetario internazionale.
Gatt: General Agreement on Tariffs and Trade. Mad: Mutual Assured Distruction. Mec: Mercato comune europeo. Mercosur: Mercato comune del Cono sud.
Nafta: North American Free Trade Agreement. Nato: North Atlantic Treaty Organization.
Ocse: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Oece: Organizzazione europea per la cooperazione economica.
Oms: Organizzazione mondiale della sanità. Onu: Organizzazione delle Nazioni Unite.
È
453
Storia degli ultimi cinquant'anni Opec: Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Osa: Organizzazione degli stati americani. Osce: Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
Salt: Strategic Arms Limitation Talks. Sdi: Strategic Defense Initiative (scudo spaziale). Seato: South East Asia Treaty Organization. Sme: Sistema monetario europeo. Start: Strategic Arms Reduction Talks.
Tnp: Trattatodi non proliferazione nucleare.
Unctad: United Nations Conference on Trade and Development. Unesco: Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura.
454
Adenauer, K. 97-98, 156, 214
Carrère d’Encausse, H. 380
Aflaq, M. 117
Carter, J.E. 279, 284-285,
Allende, S. 253
Alperowitz, G. 68 Amalrik, A. 380 Amin, I. 203
Andropov,J.358-359 Annan, K. 444 Antonov, O. 350
Arab-Ogly, E.A. 340 Arafat, Y. 247, 292, 442
Arbenz, J. 210 Attlee, C. 15, 90
Azikiwe, B.N. 201
288, 293-294, 299-302,
3:10, 327,1330;.353
Casaroli, A. 366 Castro; 211-213, 221, 251-252 Ceausescu, E. 372 Ceausescu, N. 371-372
Cernenko, K. 358-359 Chaplin, Ch. 73 Chiang Kai-shek, 10, 55-58, 75, 235, 421
Chruséev, N. 100, 103, 104-108, 124, 165-168,
Babel’, I. 228
Bairoch, P. 175 Balandier, G. 118
Balogh, Th. 185 Bao Dai 47,83 Batista, F 210, 249, 252 Ben Gurion, D. 64 Beneò, E. 14, 26 Berija, L..72; 102, 103
Beveridge, W. 90, 328 Bokassa, J.-B. 203 Bose, S. Ch. 46 Brandt, W. 266-267 BreZnev, L. 227, 230, 232, 278, 284-285, 345, 352,
357, 359, 364 Brzezinski, Z. 284 Bucharin, N. 104 Bulganin, N. 103 Bush, G.H.W. 361, 406, 442, 448 Cardenas, L. 249
187, 192, 195.1207209; 213, 215, 217-218, 220-222 225 0220-2515
233-237% 2524 349 39) 3993638706
Churchill, W. 9, 13, 15, 31, 33,10991
Clinton, W.J. (Bill) 406, 440, 442
Crockatt, R. 39, 391 Daniel, J. 230 De Gasperi, A. 25, 95, 157
De Gaulle, Ch. 92, 128-130, 154-155, 260, 263, 271-272
Delors, J. 309 Deng Xiaoping 195, 197, 277, 279-280, 283, 429-430, 434-435 Dore, R.406 Dubéek, A. 231-232,
368-369
Storia degli ultimi cinquant'anni Dulles, A. 210
Giovanni XXIII (Angelo
Dulles, J.F 80, 209, 302
Roncalli) 224-225 Giscard d’Estaing, V. 308
Dumond, R. 190 Duvalier, FE 249 Duvalier J.C. 249
Gomul'ka, W. 106, 231, 352 Gorbatév, M. 357, 359-361, 363-366, 371, 373-375,
Eden, A. 214 Einaudi, L. 157
377-379,381,383, 385, 426, 429, 434
Gromyko, A. 359, 363 Guevara, E. “Che” 252, 257
Eisenhower, D.D. 80-81, 84, 88, 144, 207, 214-215,
DADA
FizenStein, S.. 73, 228
Hailé Selassié 287
Eltsin, B. 375, 377-379, 426,
Havel, V. 369, 385 Hayek, F 328
428-429, 448
Erenburg, I. 228
Hirohito 75-76
Erhard, L. 156 Etienne, G. 195, 197
Ho Chi Minh 47, 82, 243
Honecker, E. 369-370
Houphouét-Boigny, F 202 Hu Yaobang 434 Hua Guofeng 277, 430 Huntington, S. 444 Husak, G. 369
Faure, E. 214 Ford, G.R. 278-279, 284, 326
Ford, J. 329
Forrester, J.W. 335 Franco Bahamonde, F 223,
Hussein 291
305 Friedman, M. 328 Fuchs, K. 70
Ibn Saud 60 Iliescu, I. 372
Gagarin,J.237 Gandhi, I. 183, 275, 384
Jaruzelski, W. 355, 364-365,
Gandhi, M.K. 49-52, 53, 183
Jiang Qing 277 Jinnah, A.M.51 | Johnson, L.B. 243-244, 254-
367
Gandhi, R. 384 Garde, P. 448 Getty, P. 318
255, 258, 265
Juan Carlos di Borbone 306
Gheddafi, M., 295 Ginzburg, E. 229 Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla) 338, 355, 366,
Kadar, J. 106-107, 231, 368 Kasavubu, J. 204 Kennan, G. 31-32 an
422
458
Indice dei nomi
Kennedy, J.FE 208-209,
Marcos, F. 421 Marshall, G. 23, 57-58, 71 Masaryk, J. 14, 26
211218 #217022]=222;
225, 243, 251, 254, 261
Kenyatta, J. 201 Keynes, J.M. 5, 141, 324, 328 Khatami, M. 446 Khomeini, R. 295-296, 445
Mazowiecki, T. 367 McCarthy, J. 71 Mendès-France, P. 84, 93 Menghistu, H. 287 Metternich, K.W.L. von 264 Milosevic, S. 388, 449 Mitterand, F. 308, 333
King, M.L. 212, 255-256
Kissinger, H. 264-265, 270-271, 278, 281, 284-285, 289-290, 302 Kohl, H. 308, 334, 370-371
Mobutu, J.D. 204, 252
Kolko, G. e J. 289
Molotov, V. 23, 34, 102, 108 Mossadegh, M. 112
Kosygin, A. 230, 345, 357, 359
Mountbatten, L.F. 50 Myrdal, G. 174
Lacoste, Y. 177, 181
Nagy, I. 106-107, 111, 368
Latil, P. de 401 Lee Kuan Yew 420 Lellouche, P. 442
Nasser, G. 113-114, 116, 118, 125, 246
Nehru,J.53, 116, 118, 183, 242
Levesque, J. 380
Ngo Dinh Diem 243
Lewin, M. 346, 348 Ligacév, E. 375, 379 Lin Bia, 195, 198, 238, 276
Lippman, W. 30
Nixon, R.M. 207-208, 245, 261, 264-265, 270-271, 276, 278, 285, 302,316
Liu Shaogi 194-195, 197 Lumumba, P. 203-204, 209
Nkrumah, K. 201, 203 Nyerere, J. 203
Mac Arthur, D. 13, 75-76,
Oppenheimer, R. 71
1 79, 80
Pahlavi, R. 112, 295, 300 Paolo VI (Giovanni Battista Montini) 225-227
Maddison, A. 346 Malenkov, G. 102-103, 108, 164-165
Mandela, N. 424 Mao Zedong 55-58, 74, 79,
Parri, FE 93
Pasternak, B. 228 Peng Dehuai 195, 197 Perén, J.D. 249, 253 Pinochet, A. 422
107, 191-192, 194-198, 234-236, 238, 270, 276-277, 432
459
Storia degli ultimi cinquant'anni Pio XII (Eugenio Pacelli)
SolZenicyn, A. 229, 232
Somoza, famiglia 300
222, 224
Somoza, A. 249 Spaak, PH. 25
Platt, H. 248 Podgornij, N. 230, 345, 357 Pol Pot 281-283 Pollock, F. 401 Pompidou, G. 272, 308
Stalin (IV. DugasSvili) 9-10, 13-14, 2733-35, 57, 56-57, 68, 71, 75, 79, 100-102, 104, 107, 164, 196, 198, 213, 228, 233-234, 357
Rabin, Y. 442, 444
Rakosy, M. 106 Ramadiery P. 25
Stroessner, A. 250 Suharto, M. 242, 421 Sukarno, A. 47-49, 242 Suslov, M. 229-230, 345 Sun Yatsen 53
Reagan, R.W. 300-303, 310, 328, 330, 332, 358-361, 394, 405-406, 411, 416, 423 Reich, R.R. 145, 399-400 Revelli, M. 395
Tanaka, K. 276 Thatcher, M. 308, 332, 394,
Roosevelt, ED. 5, 8-10,
411, 422
12-14, 23, 25, 34-35, 40-42, 56, 71, 85, 209, 212
Thurow, L. 395
Tito (J. Broz) 28-29, 103,
Rosenberg, E. 70 Rosenberg, J.70
107, 118, 385, 449 Tolstoj, L. 53 Trujillo, R. 249
Rushdie, S. 445
Truman, H.S. 8, 14, 20, 23, 34-35, 41, 57, 68, 71,
Sacharov, A. 233, 354 Sadat, A. 292-294
Saddam Hussein 302, 383,
79-80, 84, 86-87
443
Vargas, G. 249
Salazar de Oliveira, A. 223, 286
Wal'esa, L. 355-356; 365,
Sauvy, A. 118 Schuman, R. 152 Senghor, L. 201-202 Shevardnadze, E. 360, 375 Sieyès, E.J. 118
368, 425 Werth, A. 31
White, H. 5
Zdanov, A. 27,31 Zhou Enlai 118, 237, 270,
Sihanouk, N. 245, 283, 438
Sinjavskij, A. 230 Snow, E. 196-197
276-277,
460
280
î
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è
pei
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"paia ARA
lara
ii
ì
giri
Guarracino, Scipione,
Storia degli ultimi cinquant'anni: Sistema internazionale e sviluppo economi.
co dal 1945 a oggi / Scipione Guarracino, + [Milano] : Bruno Mondadori, [1999]
480 p,; 17 cm, — (Testi e pretesti), ISBN 88-424-9481-X
; L. 18.000,
1. Politica economica internazionalé -1945-1999 2, Storia moderna e \contemporanea - 1945-1999, 338,91 Scheda catalografica a cura di CAeB, Milano.
Ristampa
012345
Due elementi sono peculiari del periodo che si aprì con il 1945: il sistema internazionale fondato sul bipolarismo e la guerra fredda e lo sviluppo economico realizzato fino al 1970 dai sistemi del capitalismo e del socialismo. Le loro storie sono corse a lungo parallele, fino a che è resistita l’autarchia voluta dall’Urss con il rifiuto di entrare nel sistema di Bretton Woods. La convergenza
cominciò al principio degli anni settanta,
quando si realizzò la distensione e l'Urss dovette aprirsi alle relazioni economiche con il mondo capitalista. Ma nel corso di quel decennio l’Urss non riuscì a compiere il cruciale passaggio alla terza rivoluzione industriale, dovette fare i conti con la mondializzazione e la sua sola potenza militare si rilevò una carta di basso valore. Finiva un'epoca storica dei rapporti fra sistema internazionale e sviluppo economico, segnata dalla stabilità. L'epoca successiva è quella del capitalismo globale e della rivoluzione telematica, con il multipolarismo delle potenze economiche (Stati Uniti, Europa, Giappone e anche Cina). Ed è anche quella di un sistema internazionale segnato dal monopolarismo
politico e militare degli Stati Uniti, ma reso
fortemente instabile dal moltiplicarsi dei conflitti nazionali.
Scipione Guarracino è condirettore della rivista “I viaggi di Erodoto”. Oltre alle parti medievali e moderne di alcuni manuali per le scuole secondarie superiori ha, tra l'altro, scritto:
Storiografia e didattica della storia (Editori Riuniti, Roma 1983): La realtà del passato (Bruno Mondadori, Milano 1987): Storia: i discorsi sul metodo (La Nuova Italia, Firenze 1990). Per la Bruno Mondadori ha coordinato, con A. De Bernardi. il Dizionario di storia (1995), il Dizionariodi storio-
grafia (1996) e Il fascismo (1998). In questa collanaha pub- _ blicato, nel 1997, // Novecento e le sue storie.
Lire 22.000