Cilento. Una guida emozionale da Paestum a Velia 9788820767310, 9788820767327

Una guida emozionale per chi vuole attraversare lentamente il Cilento, la sua natura ancora bellissima, le montagne aust

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Italian Pages 111 [116] Year 2018

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Ringraziamenti
Premessa
Un percorso emozionale:da turista a viaggiatore
DIETRO AL PAESAGGIO, DIETRO AL CILENTO di FRANCO ARMINIO
Appunti a margine
NEL CILENTO di DOMENICO REA
LE ABITAZIONI DEGLI DEI di GABRIEL ZUCHTRIEGEL
Da Paestum … a Pattano e Novi Velia
Da Vallo della Lucania a Ceraso e poi a Velia (Elea)
Un viaggio filosofico. Conversazione con Franco Rella
PRIMA DELLA SPA. LE TERME DI VELIA di TILDE FARIELLO
Verso Ascea, seguendo il confine con il mare
LA LUCERTOLA BLU di DOMENICO FULGIONE
Piccole deviazioni verso un’isola, un fiore, gli angeli
Le pietre
Una grande pietra: Il Gelbison
Le comunità vegetali, il paesaggio umano e la cultura materiale
Il Paesaggio
Il Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano e Alburni. La geografia delle emozioni
LE COMUNITÀ VEGETALI di LUIGI VICINANZA
CONSERVARE PER IL FUTURO di ASSUNTA NIGLIO
Gli orti e la cultura materiale
IL GUSTO ‘AMMACCATO’ E MAGNIFICO DEL TRICOLORE IN CILENTO di FRANCESCA ALLIATA BRONNER
Cilentane
Molto prima del B&B
Una storia, tante storie. Marietta: ricordi e presente
Nel 1950, il pranzo di N’giulina
Pamela. La politica per cambiare
CAMMINA CAMMINA di VIENNA CAMMAROTA
La cartolina di Virginia
Poi si va da un’altra parte
Le autrici e gli autori
Bibliografia
Per non smarrirsi
Quarta di copertina
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Cilento. Una guida emozionale da Paestum a Velia
 9788820767310, 9788820767327

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LUISA CAVALIERE

CILENTO Documento acquistato da () il 2023/04/27.

Una guida emozionale da Paestum a Velia

Liguori Editore

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Luisa Cavaliere

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CILENTO Una guida emozionale da Paestum a Velia

testi di

Francesca Alliata Bronner  •  Franco Arminio Vienna Cammarota  • Tilde Fariello Domenico Fulgione  • Assunta Niglio Domenico Rea  •  Franco Rella Luigi Vicinanza  •  Gabriel Zuchtriegel

Liguori Editore

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Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/ eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2018 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Marzo 2018 Referenze fotografiche: Franco Arminio p. 18; Azienda Santomiele p. 88; Valeria Canavesi pp. 62, 75; Marco Ciullo pp. 16, 17, 35a, 55b, 71, 79b, 113a, b, c, d, e; Dario Di Sessa pp. 41, 63, 92, 95, 104; Ornella Durazzo p. 96; Domenico Fulgione pp. 56, 59; Giulio Martino p. 65; Assunta Niglio p. 91; Giuseppe Palladino p. 69; Tenuta Vannulo p. 87; Luigi Vicinanza p. 70, 79a Cavaliere, Luisa : Cilento. Una guida emozionale da Paestum a Velia/Luisa Cavaliere Napoli : Liguori, 2018  

ISBN 978 – 88 – 207 – 6731 – 0 (a stampa) eISBN 978 – 88 – 207 – 6732 – 7 (eBook)

1. Turista e viaggiatore 1  2. Paesaggio e cultura materiale  I. Titolo II. Collana III. Serie Aggiornamenti: 24 23 22 21 20 19 18   10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice

8 Ringraziamenti 9 Premessa

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Un percorso emozionale: da turista a viaggiatore 18 Dietro al paesaggio, dietro al Cilento di Franco Arminio

20 Appunti a margine 26 Nel Cilento di Domenico Rea

33 Le abitazioni degli dei di Gabriel Zuchtriegel

36 Da Paestum … a Pattano e Novi Velia 39 Da Vallo della Lucania a Ceraso e poi a Velia (Elea) 43 Un viaggio filosofico. Conversazione con Franco Rella 49 Prima della spa. Le terme di Velia di Tilde Fariello

52 Verso Ascea, seguendo il confine con il mare 56 La lucertola blu di Domenico Fulgione

60 Piccole deviazioni verso un’isola, un fiore, gli angeli 66 Le pietre 68 Una grande pietra: il Gelbison

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Le comunità vegetali, il paesaggio umano e la cultura materiale 72 Il Paesaggio 74 Il Parco Nazionale del Cilento,Vallo di Diano e Alburni. La geografia delle emozioni 76 Le comunità vegetali di Luigi Vicinanza Documento acquistato da () il 2023/04/27.

83 Conservare per il futuro di Assunta Niglio

85 Gli orti e la cultura materiale 89 Il gusto ‘ammaccato’ e magnifico del tricolore in Cilento di Francesca Alliata Bronner

92 Cilentane 94 Molto prima del B&B 96 Una storia, tante storie. Marietta: ricordi e presente 98 Nel 1950, il pranzo di N’giulina 100 Pamela. La politica per cambiare 102 Cammina cammina di Vienna Cammarota

104 La cartolina di Virginia 105 Poi si va da un’altra parte 107 Le autrici e gli autori 110 Bibliografia 112 Per non smarrirsi

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“A mia madre, Elisa de Angelis, nipote di patrioti liberali, che votava Berlinguer”

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Ringraziamenti In genere nei ringraziamenti si mettono le mani avanti e si assumono tutte le responsabilità, liberandone le amiche e gli amici che hanno aiutato o sostenuto la scrittura. Io non lo faccio perché se c’è qualcosa di sensato o addirittura di interessante in questa “guidina” è dovuto alle relazioni con tante e tanti. Il pensiero e la parola, la tenerezza, i ricordi, le speranze e i sogni sono dentro lo sguardo delle persone che amiamo e che ci amano. Non posso ringraziare in maniera burocratica, per esempio, l’Ente Parco. Devo ringraziare il suo presidente,Tommaso Pellegrino, le chiacchierate e gli spunti di riflessione che mi ha fornito. Meno che mai formale è il ringraziamento a Corrado Matera, Assessore regionale al turismo. Sono anche grata ad Antonio Valiante, che del Cilento sa tutto forse anche la formula del suo “DNA” se mai ne avesse uno; a Pina Arcaro, che mi ha aiutato a non smarrirmi quando sono tornata a vivere a Castellabate; ad Angela Pace, profonda conoscitrice non solo di Paestum; a Domenico Nicoletti e Angelo De Vita che sono stati Direttori del Parco, gentili e competenti; a Teresa Giuliani, fornitrice di testi preziosi e a Carmela Baglivi, grande esperta di cultura materiale cilentana. Ringrazio anche Aniello Bellucci, “ragazzo” che non vuole andarsene dal Cilento, costi quel che costi, il preside, Francesco Fossanova, gli allievi e gli insegnanti del Liceo Parmenide di Vallo, che mi hanno mostrato un Cilento inedito, moderno e pieno di sapere. Un grazie ai due sindaci Pietro D’Angiolillo e Gennaro Maione, che lavorano per scongiurare il pericolo dell’isolamento della loro terra. Un ringraziamento va inoltre a Giovanna Di Paola che mi ha fatto scoprire Serramezzana; a Tonino Palmieri che, pioniere, ha spianato la strada al Cilento produttivo. Per ultima ma non certo ultima, Maria Liguori, la “mia editrice” che ha scommesso su questa “operetta” pur sapendo che mai sarebbe diventata un best seller internazionale e per il solo piacere di rendere omaggio ad una terra di cui è abitatrice innamorata e “severa”.Voglio infine ricordare che l’Associazione Festinalente, di cui faccio parte, è tra le principali sostenitrici di questo progetto.

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Premessa “Le bellezze visibili sono immagini della bellezza invisibile” (Pseudo Dionigi l’Areopagita da “De coelesti Hierarchia”, I,3)

Tutto è mio, niente mi appartiene, nessuna proprietà per la memoria, è mio finché guardo.

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(Wislawa Szymborska, Sale, a cura di Pietro Marchesani, 2005, Scheiwiller)

Un viaggio, qualsiasi viaggio, è fatto di mete, di percorsi, di differenti possibilità, di scelte emotive che seguono la seduzione di un panorama o la forza di un ricordo. Il Cilento è terra di mare, di pescatori, di villeggiature assolate, di passeggiate sulle spiagge, di nuotate verso l’orizzonte, di scogli ospitali, di campanili, di cieli blu. Il Cilento è anche una terra aspra di colline e montagne, piccoli paesi segnati da un passato che ha lasciato la sua storia nelle pietre, nelle chiese, nelle linee delle case, negli alberi rigogliosi, nei fiori rari e bellissimi. Accade, così, che per arrivare da Paestum a Velia si può scegliere di seguire la costa, che di tanto in tanto si allontana per ricomparire con la sua bellezza, o l’interno, dei monti, del silenzio, delle abitudini che si sedimentano in lunghi inverni e in primavere accecanti. Si può da Agropoli arrivare a Castellabate e a Punta Licosa; e poi, in una sequenza che regala forti emozioni estetiche, continuare verso Agnone, Acciaroli, Pollica, Casalvelino, seguire il mare e giungere a Velia. Oppure si può scegliere di andare verso il mare di Elea, lasciando la costa e seguendo il profilo delle colline: Torchiara, Castelnuovo Cilento, Pattano, Vallo della Lucania, Moio della Civitella, Novi Velia e Ceraso. L’altra faccia del Cilento, che aiuta a capire la prima, e a sentire l’armonia che rende i contrasti parti di uno stesso spartito,

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10 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

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inseparabili l’una dall’altra, per chi voglia cogliere i mille significati di questa terra. Sarebbe bello se si usasse questo piccolo collage di emozioni sul Cilento, come guida per un viaggio e per un incontro. Partire da un luogo e costruirsi un altro itinerario verso una spiaggia, un castello, una chiesa, la gola di un fiume o un fiore. Da soli, inseguendo una traccia o facendosi guidare dai suggerimenti che nella piazza di Ceraso o di Castellabate, davanti ad un buon caffè, i ragazzi e le ragazze del paese, orgogliosi, danno. Poi, al tramonto, mentre il sole e il mare giocano a nascondino con il cielo stellato, si prepara la scoperta dell’indomani. Il percorso che si dipanerà da una pietra votiva e seguirà il corso di un fiume o si perderà nel dedalo dei vicoletti silenziosi di un centro storico o esplorerà, rispettoso, un borgo abbandonato che racconta con il suo silenzio, il passato che ancora, quasi geloso, custodisce. Perdersi senza smarrirsi, guidati dal desiderio di attraversare consapevoli la storia di questi luoghi, la loro ricchissima cultura materiale. Le biografie di oggi e di ieri. I racconti catturati in una canzone dolente o nella musica monotona di un organetto che qualcuno, a primavera, suona dietro una finestra spalancata. Raccogliere un fascetto di fiori di campo decorandolo con le erbe selvatiche che con incredibile varietà si offrono a chi sceglie di camminare e non di guidare senza vedere. Se servisse anche solo a questo, anche solo ad accendere il desiderio di scoprire la storia di una comunità e di tornare per vedere o rivedere palazzi e insenature, tramonti e colture, abitudini e polittici, fiumi e pietre, isole e orchidee, sarebbe un libretto prezioso. La traccia che precede e accompagna un viaggio che non manda in vacanza il pensiero e che coltiva l’ardita ambizione di trasformare il turista in viaggiatore.

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PREMESSA | 11

Esistono molti modi di scrivere diari di viaggio. Comincio a diffidare delle descrizioni e anche, di quegli adattamenti spiritosi che trasformano l’avventura di un giorno in narrazione; mi piacerebbe scrivere non soltanto con l’occhio, ma con la mente; e scoprire la realtà delle cose al di là delle apparenze (Virginia Woolf, “Diari di viaggio in Italia, Grecia e Turchia”).

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Il filo conduttore Questa guida emotiva nasce dal desiderio di raccontare e far raccontare un luogo. Il Cilento. Raccontarlo con una narrazione piena di assonanze emotive ma giocata su tonalità e respiro diversi. Frammento di una trama tessuta con i sentimenti e le emozioni che legano fra loro quelli e quelle che, anche solo per un tramonto, per una festa o per un rito, si sono impigliati nella maglia seduttiva e fragile della bellezza del Cilento. Raccontare e far raccontare questa terra. Raccogliere i pensieri, le competenze, le passioni, i progetti di chi, anche insieme a me, ha conosciuto questo pezzetto di Mezzogiorno dimenticato, imparando ad amarlo e a guardarlo con uno sguardo che non censura abbandono, incuria e pigrizie dolose. Che non fa finta di non vedere le ferite alla bellezza che al Cilento sono state inflitte da una “cultura” violenta e stupida. Una cultura incurante delle radici e indifferente del futuro e di chi lo abiterà. Ho chiesto a chi ha scritto con me le pagine che seguono, di regalarmi un’emozione o un pezzetto del suo sapere. Di indicare un angolo inedito, di trovare le parole per dire un ricordo che questa terra ha lasciato nell’archivio dei suoi sentimenti. Conosco e temo il rischio di un reportage disordinato nei toni e nello stile. Pericolosamente altalenante. Un’insieme di voci destinate a non diventare mai coro. Costretto a difendersi da quel male insidioso che è la nostalgia, che a fatica tengo a bada ogni volta che cerco di leggere il presente e di coglierne le ragioni, almeno le più evidenti, nel

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12 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

suo passato. Adesso che ho concluso questo che è un primo giro, quasi un collaudo, che rimanda al prossimo che parlerà forse del mare, delle conchiglie che lascia misteriose sulla sabbia e delle stelle che illuminano le sere di primavera, mi piacerebbe che nella filigrana di queste voci si vedesse nitido il filo che le lega, il desiderio che le ha generate e le tiene insieme e che è, prima di tutto, vedere e far vedere la bellezza invisibile di cui ciò che guardiamo è solo l’immagine. Descrivere e regalare quella sensazione che si prova quando i luoghi colpiscono al cuore sì che, percorrendoli, sembra di tornare dove si è già stati, chissà quando. Raccontare quello che c’è nella memoria prima che si coaguli in ricordi, immagini e parole che la ordinano e, spesso, la sterilizzano. Cogliere i contrasti che compongono il presente nel quale si annidano insieme bellezza e degrado, modernità e passato.

Perché questi miei compagni di viaggio Così, in un inverno senza asprezze, mi ha descritto la sua piccola, intensa emozione il poeta Franco Arminio, che canta con le sue poesie, a tratti dolenti, l’Italia e il Sud che si sgretolano sotto i colpi di un mercato onnivoro, che azzera e desertifica ogni giorno abitudini e culture con la ruspa spietata della globalizzazione che appare come un destino ma poteva non esserlo. Come il racconto di Domenico Rea – che sua figlia Lucia generosamente ci ha consentito di riprodurre – che nel 1957 restituisce i sentimenti contrastanti e privi di qualsiasi retorica, di un viaggio “rischioso” oltre le colonne di Paestum. Quasi come “oltre” il mondo conosciuto. Un viaggio che cancella tutti gli stereotipi del grand tour che hanno segnato e nutrito poesie, racconti e canzoni dando vita a quell’originalissima fonte di ispirazione che è stato lo straordinario e fecondo legame tra la cultura materiale, le abitudini, il paesaggio,

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PREMESSA | 13

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la natura e l’arte del nostro Paese. Un legame che ha avuto come rovescio il nascere di non pochi pregiudizi e luoghi comuni, di tante semplificazioni e di tanti stereotipi che hanno colonizzato e, ancora colonizzano, anche la nostra idea di noi stessi. E del pathos del viaggio, delle sue tormentate tracce, degli orizzonti che può negare o aprire a chi sa affidarsi allo stupore che genera il pensiero, di Ulisse, della sua figura fondativa dei tanti Ulisse che popolano fino alla modernità la storia dell’Occidente, ho parlato con il filosofo Franco Rella. Un confronto che affonda le sue ragioni e i suoi modi negli anni della nostra contemporanea giovinezza e che mostra intatta un’amicizia fatta, com’è giusto che sia, più di differenze che di somiglianze e che si misura proprio sul crinale sottile e insidioso di una condivisione mai scontata. Passato e presente. Natura e cultura. Abitudini e biografie. Le terme che raccontano “la civiltà” antica di una città, Velia, che l’appassionata di archeologia Tilde Fariello narra indicando il perimetro di un’esperienza antenata dei moderni centri benessere che offrono la salute servendosi dell’acqua. Salus per aquam. Testimoni di una cultura dell’acqua che si è condensata in tante forme: dalla nevera,(1) ai mulini, alle sorgenti sotto la sabbia, ai pozzi che primeggiavano nei giardini vicino agli orti, alle vasche comunicanti che abbellivano con i loro profili le colline. Il paesaggio che Punta Licosa offre come scrigno di una natura generosa e cangiante abitata dalla lucertola blu

1 La nevera era una vasca di pietra nella quale si raccoglieva e si conservava la neve per l’estate, disponendola e costipandola in vari strati L’alternanza di livelli consentiva il taglio in blocchi che, protetti da una tela di iuta, venivano trasportati a valle con i muli. Il ghiaccio era utilizzato nel periodo estivo sia per refrigerio – si preparavano dei gustosi sorbetti con il vino cotto, una vera festa per i bambini ancora ignari dei cornetti – che per uso terapeutico.

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14 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

che Domenico Fulgione docente presso l’Università Federico II° di Napoli, studia e racconta. O la triglia rossa che Assunta Niglio, appassionata conoscitrice e promotrice di percorsi, saperi e storie del Cilento ha suggerito a Francesca Alliata Bronner, giornalista de “la Repubblica”, che racconta le tre ragioni (per questa amica di vecchia data del Cilento, di ragione ce ne è sempre un’altra dentro la prima in un susseguirsi infinito) per percorrere lentamente le vie del Parco. Guardare le colline, le piante, gli arbusti, i colori che cambiano continuamente e che Luigi Vicinanza, agronomo paziente, collezionista e sapiente osservatore, descrive enfatizzandone bellezza e originalità. E certamente belle sono le cilentane che si raccontano. Differenti generazioni come Marietta e N’giulina, Pamela, Vienna, che parlano della loro vita che può aiutare a comprendere ciò che senza il racconto delle donne, potrebbe altrimenti non vedersi. Anzi, è destinato proprio a non essere visto e ad essere divorato dalla dimenticanza. Non è cilentana Virginia (che porta nel nome la passione della madre per una scrittrice che pure ha raccontato il suo viaggio in Italia(2)) che narra il Cilento a ritroso, lasciandolo. Quasi per inseguire il desiderio impossibile di archiviare con ordine le emozioni differenti che ha provato andando da Paestum a Velia in una primavera luminosa di qualche anno fa. Emozioni raccolte in un biglietto di auguri per me che ha conservato intatti sentimenti e nostalgie. Sintesi efficace del viaggio come occasione di mutamento per chi arriva e per chi accoglie consapevole. Infine il direttore del Parco Archeologico di Paestum, Gabriel Zuktriegel, esempio di quanto la bellezza sia 2 Virginia Woolf, Diari di viaggio in Italia, Grecia, Turchia, Mattioli 1885, Fidenza 2011

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PREMESSA | 15

Paestum. Museo Nazionale - Tomba del tuffatore (particolare)

apolide e di quanto senza frontiere siano le emozioni che suscitano le sue epifanie. L’amore che questo “straniero” nutre per l’Italia e per Paestum produce affezione e una visita guidata da lui nelle sale del Museo o lungo il perimetro delle mura maestose dell’antica Poseidonia, che da poco ha reso adottabili(3), è una impareggiabile esperienza dello spirito. Anche il nuovo giardino in progettazione, tra esposizione di reperti archeologici e piante, offre al visitatore nuove scoperte, grazie al supporto di riferimenti geografici che rimandono alla pianta indicata nei percorsi naturali del Cilento o in contesti rurali nei quali essa è protagonista di trasformazioni agroalimentari di eccellenza. 3 La raccolta fondi per la manutenzione del circuito murario di Paestum prevede che con la somma di 50,00 euro annuali è possibile diventare “Cittadino di Paestum”, che vuol dire contribuire alla difesa del patrimonio, ma anche avere l’ingresso libero per un anno. “Lo scopo – come precisa Gabriel Zuktriegel – è quello di creare una comunità internazionale che aiuti a proteggere il sito in senso metaforico, ma anche concretamente”.

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Un percorso emozionale: da turista a viaggiatore

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18 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

 DIETRO AL PAESAGGIO, DIETRO AL CILENTO di FRANCO ARMINIO

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S

ono un principiante del Cilento. Ho cominciato da poco a sentirmi a mio agio e a capirne la bellezza. Perché il Cilento non è solo un posto bello, è anche un posto dove si sta bene. Ci sono nel mondo tanti posti belli dove non si sta bene. Io dunque non sono un esperto del Cilento. Mi pare di sentire che uno dei suoi segreti è l’adiacenza del mare, dunque un elemento epico, aperto, con l’atmosfera rurale delle sue colline, un elemento più domestico, più circoscritto.

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FRANCO ARMINIO  DIETRO AL PASSAGGIO, DIETRO AL CILENTO | 19

Una terra come il Cilento ovviamente non è tutta uguale, non è la stessa cosa la costa e non è la stessa cosa la vasta geografia dei suoi monti. A me sembra che forse un sapore comune è un senso di bontà che sembra prevalere nell’architettura morale degli abitanti. Una terra che svolge una serena obiezione alla globalizzazione e rimane con le sue movenze mai concitate, mai velleitarie. Dunque, stiamo parlando di un terra importante per l’Italia e per l’Europa: natura, paesi, persone, un bell’impasto: mi viene ora l’immagine di una forma di pane messa sulla tavola del mare: i fichi e le onde, il cibo e la luce. Sono cose già dette, io posso solo ripeterle con la mia lingua, posso solo esprimere una sicura simpatia per questa terra. Non ho mai pensato di lasciare l’Irpinia, ma se dovessi lasciarla penso che approderei volentieri in Cilento, magari in uno di quei paesi che hanno il mare davanti alle porte delle case di campagna: il mare e l’orto, uno spazio per allontanarsi pur restando dentro la penisola, coi sensi un poco più quieti. Il Cilento non ha altipiani, non ha immensi spazi vuoti, è una terra trapunta, fitta di presenze: strade, alberi, case, templi, un paesaggio né banale né anginoso, ancora una volta un luogo ideale non solo per passarci qualche ora, ma un luogo per giorni lunghi, un luogo per aprile e per luglio, per il mattino presto e la sera. Quando smetterò di andare in giro per l’Italia nell’illusione di fare della paesologia qualcosa di più di una personale mania, sarà il caso di trovarmi una piccola casa in Cilento. So bene che non ci sono paradisi da nessuna parte, so bene che da un certo punto in poi la nostra vita la portiamo in mano come una fiammella e che ogni spiffero può spegnerla. La vita a un certo punto si aggroviglia, il corpo non tiene, la società è diluita a dosi impercettibili, la politica non cerca il futuro e non lo trova. In queste condizioni non resta che andare dietro al paesaggio, dietro al Cilento.

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20 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

Appunti a margine Questa è la nostalgia: aver casa nell’onda e non aver patria nel tempo. Questi i desideri: ogni giorno, dialoghi sommessi con l’eternità. E questa è la vita: lasciando l’ieri, nasce l’ora più solitaria che altrimenti dalle altre sorelle sorride e resta in silenzio di fronte all’Eterno. Documento acquistato da () il 2023/04/27.

(Rainer Maria Rilke, da “Prime poesie”, 1897)

Il turista può trasformarsi in viaggiatore se avviene un virtuoso, doppio mutamento di chi ospita e di chi è ospitato. Una metamorfosi che può restituire al viaggio uno dei suoi più antichi significati con lo straniero che viene da un altro mondo o che un altro mondo abita. Altri paesaggi. Altre parole. Altri miti. Un’altra musica. Si può tessere la trama di una risonanza che lo stare l’uno di fronte all’altro genera. Si può definire il contorno di un incontro che non ha bisogno di un progetto, né di un domani. Questo certamente inattuale turismo, può donare la gioia profonda dell’ autentico senso delle cose, delle relazioni, del passato che sopravvive nel presente. Offre la “felicità” che si nutre del tempo vuoto, lento, destinato al libero fluire delle emozioni, dei ricordi, delle differenze e delle somiglianze. E, all’improvviso, della nostalgia. Una vacanza che contrasta il gioco e la cultura di chi offre o di chi chiede un tempo frenetico, scandito dai secondi, ai minuti, alle ore. Un tempo ossessivo, mercantile, che consuma i giorni e ne cancella, veloce, le monotone tracce senza spazio per quella trama di emozioni che sono i ricordi. Un tempo senza geografia che si snoda uguale sulle rive del Mar Rosso, a Tokio, a Baia Domizia o a Camerota.

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APPUNTI A MARGINE | 21

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Quasi come se la storia delle comunità, quella storia che ci ha messo secoli a plasmare la natura facendola diventare paesaggio, a disegnare consuetudini, a nominare le cose con parole che sono solo sue, si possa possedere con una fotografia. La partita fra il viaggio ridotto a “consumo” e il viaggio come occasione di esperienza di ciò che è altro, non è ancora chiusa, nonostante tutto. Quella partita si può continuare a giocare e a tentare di vincerla, con piccole mosse ardite. Basta darsi un tempo per ascoltare, per guardare, per mangiare cose vere, smettere di essere solo consumatori e provare ad essere soprattutto abitatori e abitatrici consapevoli di questa pietra che gira da sempre intorno al sole senza che mai qualcuno possa spiegare perché. Questo libretto che avete fra le mani, è uno dei tanti racconti su una terra antica, aspra, descritta da pochi, sconosciuta perfino a chi la abita e gioca un tempo di quella partita. Annota e racconta tenerezze, modi di essere. Indica luoghi, riti e comunità. Narra, in un gioco continuo e reciproco fra la prima persona del ricordo, manipolato dalle suggestioni e dall’affetto, e la terza persona. Quella dell’oggettività, della storia delle comunità o della natura. Non indica trattorie, botteghe, fiere o sagre. Non dà stelle seppure anche di stelle, a volte, vorrebbe parlare. Lascia aperta e possibile la strada per altre narrazioni.

Di Paestum o del tuffatore Parole semplici, note, accompagnano, con mano leggera, chi si ferma, per esempio, a Paestum in silenzio nella Basilica paleocristiana dedicata a Maria Santissima dell’Annunziata(4) o guarda incantato la Tomba del

4  La Chiesa della S.S.Annunziata è un’antichissima Basilica del V secolo d.C., successivamente ricostruita, che si trova all’interno del sito archeologico di Paestum, in prossimità del Museo Archeologico.

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22 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

Tuffatore e il Tempio di Nettuno e si immerge nel silenzio di chi abitò sontuosamente 2500 anni fa quella meravigliosa piana che neanche una parola ha lasciato al futuro. Tracce di una bellezza che si racconta con la forza delle immagini. La melagrana allusiva di una pienezza feconda. Il pianto mercenario delle prefiche. Le acconciature aggraziate e severe. L’antica differenza fra uomini e donne, che qui definiva il suo modo che tanto somiglia al presente, con il guerriero che lo sguardo immobile e insieme palpitante della sua compagna segue, mentre varca il confine domestico di cui lei, solo lei, è vestale. Gli oggetti votivi che fanno di un vaso lo scrigno di un’abitudine, segno del legame col sacro che i tre templi dorici, i più belli del Mediterraneo greco, esibiscono, eterni, di fronte al Museo. Un piatto o una coppa, traccia di un banchetto. Una biglia simbolo di un gioco(5) carico di erotismo omosessuale e pervaso dalla struggente malinconia della flautista che accompagna chi se ne va, tuffandosi per sempre verso una ignota riva. Essenziale immagine di un’antica, inquietante ed eterna alleanza fra eros e thanatos. Fra i corpi maschili che si toccano e confondono i loro confini e il mistero di un passaggio che è il segno primo, forse unico, dell’umano, del suo non senso eternamente indagato, addomesticato, ridotto in figure come quelle della tomba del tuffatore di Paestum, che lo raccontano al cuore senza che nessuno possa farne esperienza materiale, parola. Il suono di una musica, diffusa dal ramo bucato di un oleandro, accompagna il tramonto che illumina, come aveva fatto al trionfo dell’alba, le colonne dei templi che il travertino usato per erigerle,

5  Il kottabos o còttabo (in greco κότταβος) era un gioco diffuso nel mondo greco antico, uno degli intrattenimenti meno intellettuali del simposio. Lo scopo consisteva nel colpire un bersaglio, un piatto o un vaso, con il vino rimasto sul fondo della coppa. Generalmente il premio che spettava al vincitore erano una mela, o dei dolci, una coppa o il bacio della persona amata, cui era dedicato il lancio.

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APPUNTI A MARGINE | 23

diverso da quello delle basi, rende maestose e leggere, elastiche e per questo capaci di attenuare gli effetti altrimenti distruttivi di un terremoto. Capolavori di ingegneria. Testimoni di un legame tra natura e cultura che emoziona e commuove. Custodita da una palude che ha avuto la meglio su una città laboriosa e colta, costretta a fuggire sul Monte Calpazio che le sta alle spalle come un grembo di pietra, incalzata da nemici che le portava il mare, si snoda Paestum, che quei rabdomanti di bellezza e di passato che sono gli archeologi, ancora indagano e svelano nel perimetro della sua civiltà e che il Museo esibisce nelle sue sale. Colpiscono le pietre tombali: una straordinaria pinacoteca greca, lucana e romana. Tre storie che qui hanno celebrato fusioni armoniose nei colori, forse nelle parole e, certamente, nelle consuetudini. Solo la sala della collezione delle Madri Matute nel Museo campano di Capua(6) raggiunge la tensione emotiva che le pietre paestane regalano a chi le guarda. Pietre abitate un tempo da quella meraviglia botanica che è la rosa di Paestum ottenuta con un ardito innesto con i rovi e raccontata da Virgilio nelle Georgiche.(7) E, sui monti che sembrano ancora capaci di offrire riparo e accoglienza, torna un’altra Madonna, quella del Granato(8), erede, si dice, della pagana Hera. Venerata in una Chiesa edificata prima dell’anno mille, viene affidata alla meditazione di un custode che l’ordine car6  Nel Museo Campano di Capua (Caserta) la sala ospita una collezione di statue in tufo di diverse dimensioni, probabilmente oggetti votivi che accompagnavano la richiesta di fecondità. La divinità, infatti, proteggeva la nascita. Le madri sono datate dal VII secolo a.C. al III d.C. 7  “Se già non fossi al termine del mio lavoro canterei quale arte della coltivazione adorna i fertili giardini ed i rosai di Paestum che fioriscono due volte all’anno”(Virgilio, Georgiche IV, 116-124). 8  Il Santuario della Madonna del Granato sorge sul promontorio del Monte Calpazio che si affaccia sulla valle del fiume Sele nel Golfo di Salerno. Fu costruita dai Paestani oltre la metà del X secolo, dopo la distruzione della città di Paestum ad opera dei Saraceni. www.madonnadelgranato.com

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melitano destina a guardia di questo luogo, che pratica il culto del silenzio e che, nonostante la sua poca luce o, forse, per la sua poca luce, aiuta ad intuire l’infinito ripetersi del mondo. Rispettando il decalogo della sua regola: Sviluppare la dimensione contemplativa dell’essere umano aprendosi al dialogo con Dio Trattarsi come fratelli con piena carità Meditare giorno e notte la parola del Signore Pregare insieme o soli più volte al giorno Lavorare con le proprie mani come Paolo apostolo Purificarsi da ogni traccia di male Celebrare ogni giorno l’eucarestia Vivere da poveri mettendo in comune i pochi beni Amare la Chiesa e tutte le genti Conformare la propria volontà con quella di Dio ricercata nella fede con il dialogo e il discernimento

Un decalogo che dà per certo Dio e indica la strada per decifrarne la volontà. Per costruire con lui un dialogo gremito di domande. Per usarlo come spada efficace e potente contro il male. Per assumerlo come veicolo d’amore per tutte le genti e non solo per chi ci è contiguo e come “nulla” da contemplare con la preghiera che accompagna l’incedere eterno delle ore. Come ragione della povertà da praticare e da condividere liberi dall’inganno mortifero del possesso di cose e beni che impediscono la sintonia con la natura e ostacolano l’autentica felicità.

Il Cilento è il centro del Mediterraneo Quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranze (Giacomo Leopardi, “Zibaldone”)

Penso, percorrendo strade maestre e sentieri che sembrano perdere la loro direzione nella dolcezza di un altipiano, che anche da qui posso capire o riprendermi la

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APPUNTI A MARGINE | 25

memoria di questa riva di un mare pieno di contraddizioni, esposto ai rischi della retorica che avvolge il suo passato e le sue abitudini e minacciato da un presente che rende sempre più opaca la sua meravigliosa luce. Posso ascoltare e raccontare storie di donne e di uomini che l’hanno abitato e che la abitano, qualche volta immemori di quella trama di relazioni che ha prodotto canzoni bellissime e struggenti che parlano di emigrazione e solitudine, nostalgia e tenerezze, giochi pieni di erotismo coperto da un velo di pudore annidato nei licenziosi doppi sensi ai quali spesso indulgono i versi “popolari”. Posso viaggiare per strade conosciute o mille volte percorse, rivedere paesaggi, perdermi nel noto e scoprirne ogni volta sfumature e inedite suggestioni. Posso viaggiare con chi arriva nel Cilento, accompagnarne la scoperta, mostrarne le cose più belle. Posso raccontare le storie, i destini e le biografie anche rivoluzionarie – vero e proprio tratto distintivo di questa “terra dei tristi” ribelle all’oppressione borbonica – dei suoi patrioti, che si intrecciano e si sovrappongono alla “Storia”, che non sa tramandarli al futuro perché non può contenerne l’incandescenza, il dolore e l’allegria, la ricchezza e le passioni. Perché cos’altro è il viaggio se non un’antica, collaudata occasione per sollecitare la memoria, produrre immaginazione, creare bellezza? Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udirà con gli orecchi un suono di una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sarà tutto il bello e il piacevole delle cose. (Giacomo Leopardi, “Zibaldone”)

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26 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

 NEL CILENTO di DOMENICO REA(9)

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C

hi si reca in Calabria… Ma chi si reca in Calabria in automobile? I turisti non amano e non osano spingersi oltre i templi di Paestum. Ai piedi di quegli antichi monumenti sembra che l’Italia finisca. E di fatto comincia il cieco, il polveroso, roccioso Sud. Gli stessi abitanti del luogo, quelli che si trovano alle porte della Lucania e della Calabria, se debbono recarsi a Roma o a Firenze molte volte preferiscono andarvi in auto. Se invece debbono andare a Reggio di Calabria o a Cosenza, a Catanzaro o a Matera prendono il treno. Non vogliono noie lungo il tragitto. Hanno timore di restare in panne. Quelle di laggiù, secondo una vuota leggenda, sono strade che non aiutano l’automobilista a viaggiare. Molti, poi, credono che oltre Paestum non vi sia più nulla da vedere. Per un gran numero di persone monumenti e templi sono soltanto quelli eretti dagli uomini. Gli altri, i mille capolavori di madre natura, che è stata larga con la Calabria, non hanno valore. Ma tutto sommato è meglio che sia così. Chi si reca in Calabria, prova ancora il gusto di sentirsi un povero viandante, la soddisfazione del proprio lieve peso di creatura. E così se voi decidete di recarvi laggiù in automobile troverete sempre delle persone che vi raccomanderanno di far rivedere accuratamente tutti gli organi della vostra macchina; di munirvi di cinghie, di candele, di una scorta d’olio, di due, non di una sola ruota di ricambio; perché dopo “le colonne di Paestum” è il deserto e un’ingrata solitudine… e chi resta a terra corre il rischio di dover cercare un aiuto lontano, e a piedi,

9  Il testo è stato pubblicato per gentile concessione di Lucia Rea ed è uscito per la prima volta nella testata del Touring Club, Le Vie d’Italia, nell’aprile 1957.

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DOMENICO REA  NEL CILENTO | 27

con la sola compagnia delle montagne. Credendo a queste raccomandazioni le ho rispettate. Ho comprato cinghie, candele, olio, mi sono fatto prestare una ruota da aggiungere a quella che ho a bordo e sono partito come diretto nel Sahara e non verso un mondo civile e moderno, fornito di tutto. Io raccomando intanto di non fare siffatte spese. Partite come e quando vorrete. Arriverete alla meta vittoriosamente.

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Oltre “le colonne di Paestum” A Battipaglia ho fatto la prima sosta. È da qui che si deve scegliere la strada per andare in Calabria. Percorrendo la Eboli-Lagonegro si arriva prima. Percorrendo la Paestum-Vallo-Sapri il percorso si allunga e si rischia di finire agli Inferi. Così dicono, anche a Battipaglia. E se prendete la strada più lunga, la persona che vi ha consigliato di prendere la più breve vi guarda meravigliato. Crederà per sempre che voi eravate un poco di buono, uno scavezzacollo.Vero è che la fantasia degli uomini è più grande di quella dei poeti. Battipaglia, a una ventina di chilometri a sud di Salerno, dovrebbe essere l’ultimo posto, il luogo in cui i temerari possono ancora pentirsi e rinunciare al viaggio e ritornare verso le belle placide sicure fornite strade del Nord. Mentre mangio un dolce e bevo un ottimo caffè, guardo in piazza e mi accorgo di un miracolo. Nel 1943 Battipaglia fu semidistrutta dalla guerra. Si disse che sarebbe stato più vantaggioso volgere le sue rovine – come sovescio – in terreno e trasformarle in campagna. Ma simile a fenice rinata dalle sue ceneri con colori più freschi e sfavillanti, Battipaglia, solido centro agro-industriale, è risorta. Le sue linde casette ad un piano ricordano certi paesini americani dove la vita si svolge in un adorabile silenzio provinciale pregno di profonde e nascoste passioni. Osservo i numerosi posti di rifornimento di benzina, il piccolo albergo, una grande stazione di servizio e tanta abbondanza di “comforti” per viaggiatori in automobile mi fa sospettare che davvero di là non vi sia più nulla e che in

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quella zona è prudente avventurarsi forniti di quanto mai potrà occorrere durante un lungo viaggio. Con questo pensiero mi rimetto in cammino e percorrendo una strada, che è una pista perfetta coperta di chiome di alberi intrecciate a volta di grotta, giungo a Paestum. Nonostante resti indifferente ai monumenti non oso passare senza fermarmi. Scendo. Il cancello è chiuso. Il guardiano si starà svegliando. I templi sono soli. Poco più in là c’è il mare. Il sole da poco si è levato ed è incominciato a salire e sembra che goccioli acqua di mare. È questa l’ora per ammirare queste pietre agresti, austere e calde come un vecchio pastore selvatico che, a prima vista, fa paura e, poi, da vicino si rivela un personaggio da favola. Saluto così, dentro di me, le “illusioni pietrificate” erette dagli uomini e mi accorgo d’aver scelto una giornata fresca e pulita, senz’ombra di stanchezza, come un bambino che ha riposato a lungo e che si sveglia vivacissimo. Ecco Agropoli. Al ritorno mi ci fermerò. Mi hanno detto che qui si mangia la più gustosa zuppa di pesce del Mar Tirreno. Anzi mi hanno detto che il mare verde cupo di Agropoli – ora lo scorgo bene – ultima propaggine delle acque azzurrifere della Costiera Amalfitana è così pescoso che il pesce di Agropoli arriva fino a Roma e che la famosa “frittura del Golfo” di Napoli dovrebbe più onestamente prendere il titolo dal piccolo mare di Agropoli. All’improvviso dinanzi alla mia auto la campagna si allarga. E fin dove il mio sguardo spazia non vede che una sola, straordinaria, massiccia barriera, messa di traverso sulla strada. Ci sono. È la famosa montagna! La barriera di rocce che nasconde gli altri uomini, gli altri… italiani. Il luogo è di un’indifferenza agghiacciante. Hanno ragione quelle persone che preferiscono la Eboli-Lagonegro. Ma io sono venuto qui proprio per valicare il “triste passo” e continuo. Continuo è solo un modo di dire. Chi è andato in aereo e si avvia a salire in auto questo monte, che si leva immediatamente dritto dalla pianura, prova la stessa impressione del decollo da

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un aeroporto. La mia piccola auto, indifferente alla salita, si avvia come trascinata da una forza occulta nelle ripide curve; e ogni curva è di due o tre piani più alta della precedente. Dopo pochi minuti, come dall’oblò di un aereo, la pianura coi suoi seminati geometricamente squadrati, si mostra allo sguardo. Mai avevo, senza volare, provato una simile impressione; perché penso che in nessun altro luogo dalla pianura si passa alla montagna, come salendo da un piano terra con l’ascensore al quinto piano. Di conseguenza tutto si muta. La dolcezza della campagna della Piana di Salerno è per sempre lasciata indietro. La macchina gira, gira su se stessa, e sale, sale. L’aria si è fatta fredda. Apro la chiave del riscaldamento. Non incontro nessuno da mezz’ora. Sono davvero solo. Ci sono paesi? Ora sono sulla cima. Tra poco discenderò al piano e sarà come prima. Si tratta solo di un paravento minaccioso, non di una montagna. Nel vetro del parabrezza si offre una visione unica. Debbo trovarmi a sei-settecento metri di altezza. Non vedo che cime di altri monti e, lontano, tra profili di monti a me più vicini, autentiche barriere rocciose. Il Sud lo immaginiamo sempre tutto caldo, focoso, polveroso, una strada per il deserto di sabbia. Qui si sente invece odore di selve, suoni pastorali. Che fa su quella cima una casa di fango? Che vuole questo cane che abbaia alla mia macchina? Donde viene? Avrà un padrone? Eccolo mi sta dirimpetto e in alto. È un meraviglioso lupo e si sgola contro di me. La mia macchina gira intorno al cane e lui intorno alla mia macchina. Così è fatto questo viaggiare: sempre intorno a una roccia. Leggo una scritta: Palinuro. Guardo l’orologio e decido di fare un’altra sosta. A Policastro arriverò certamente prima di sera. Certo, non vorrei farmi cogliere dalla notte tra questi monti. Palinuro è un paese che va visto: non fosse altro che per il fascino del suo nome mitico. E poi quanti, a cominciare da Omero, sono stati i poeti che hanno cantato questo luogo? Giro a destra e vado a tutto gas verso Palinuro. Scendo praticamente la montagna da uno dei suoi lati, incontro al mare. Di-

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30 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

cono che è in progetto una strada litoranea da Salerno a Palinuro. Eccellente impresa per i turisti facili. Per me sarà la perdita di Palinuro. Altri però, e lo vedo, prima di me hanno scoperto Palinuro. I francesi hanno eretto qui uno dei loro grandi accampamenti. Il paese li attendeva. L’anno scorso è sorta la prima “boutique”. È in costruzione un albergo moderno. Alcuni napoletani, appassionati del luogo si lamentano per queste novità. Dicono che Palinuro avrà un grande avvenire, ma che diverrà mondana. L’albergatore che ci ascolta si frega le mani per la contentezza e dice: “Certo, a Palinuro possono fare i selvaggi”. I selvaggi.“Loro vogliono fare i selvaggi”, aggiunge una vecchia contadina che ha messo su una salumeria, “e noi vogliamo fare finalmente i civili. Loro vogliono andare con gli zoccoli e noi glieli venderemo perché desideriamo calzare le scarpe. Loro vogliono reti e ami, ne abbiamo in abbondanza. Noi vogliamo abiti e carne.Vengano a fare i selvaggi”. Scendo al mare lungo una deliziosa stradetta, e, a bordo di una barca da pesca, vado a vedere la grotta di Palinuro, la grotta verde. Ne ho viste di grotte. Questa di Palinuro è tanto bella che fa paura. Non è una cosa umana. Il mare è di una limpidezza di cristallo. Avvistiamo un enorme polipo. I nostri volti sono rispecchiati. Il risciacquio del remo risuona in eco. Le nostre voci si moltiplicano e formano un coro, un coro che intimidisce. Usciti al largo il cielo è così basso sul mare che sembra il suo specchio. Un gruppo di francesi “mitici” su una zattera fornita di una bandiera a straccio mi ricorda un celebre quadro di Delacroix. Poca gente a Palinuro, ottimo cibo, silenzio: monti e mare. Solitudine. È davvero una terra di poeti. Cosa capita a viaggiare nel sud. Mi rimetto sulla strada e risalgo la montagna. All’improvviso una fiammella rossa colpisce il mio sguardo. È partita non poteva capitarmi una disgrazia peggiore. Avrò si e no tempo per quattro o cinque ore di marcia. Mi passa la voglia di proseguire. Mai un guasto, mai un fastidio mi ha dato questa macchina. E ora. Avvisto una casa. Lascio la macchina sulla strada, salgo su una roccia e do la voce

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DOMENICO REA  NEL CILENTO | 31

a una donna che scompare subito nella casetta. Finalmente ai miei gridi compare un uomo e dietro di lui la donna che resta di sotto l’arco della porta. Deve essere uno di quegli uomini che non ama ridere. Chissà se ha mai visto un’automobile.Chiedo se può dirmi dove mi trovo e dove troverò un paese, un paese con un meccanico.Vuol sapere che cosa ha la mia macchina, e per cortesia, gli dico che si è guastata la dinamo. Si avvicina alla macchina, guarda, tocca per accertarsi se si tratta di un falso contatto. Poi mormora: “Non è niente. Sono le spazzole. Tra dieci chilometri troverete ***(10). E un guasto da niente. Queste macchine non si fermano per simili sciocchezze”. Meravigliato della sua scienza, ringrazio; riparto e trovo il paesino, uno dei più dimenticati del mondo. Non ricordo neanche il suo nome. Chiedo del meccanico e me lo indicano: una bottega misera all’insegna di una ruota di bicicletta. “Sto fresco”, penso. Ma il piccolo, torvo, giallognolo meccanico, che ha un vago sorriso di chi ringrazia Dio che gli ha mandato il pane quel giorno, si mette subito al lavoro. Non sono le spazzole. Si tratta dell’indotto, cioè della parte vitale della dinamo. Dice che è un guasto serio, ma non grave e che presto lo rimetterà a posto, e meglio di prima. E provo improvvisa in questo uomo una fiducia illimitata. Lavora, non fa chiacchiere. L’oggetto non gli appare nuovo. Dice che la mia è una buona macchina. Gli allievi guardano come il maestro lavora in questa sua grande giornata, mentre io mi avvio verso un’osteria. Si tratta di un tabaccaio alquanto burbero che fa anche da oste. Tutto è pulito qui: la tovaglia, i piatti, i bicchieri, le posate. Si mangia zuppa di lenticchie, poi salcicce con peperoni all’agro, un pezzo di formaggio, vino, frutta e pane grosso, quello contadino. Un pranzo da Abele pastore, frugale e saporito. Duecentocinquanta lire! E con che sguardo contento mi guardava il burbero oste-tabaccaio. Soddisfatto 10  Omissis nel testo originario (ndr).

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ritorno dal meccanico che mi fa trovare la macchina in perfetto ordine. Un lavoro di tremila a ***,(11) si paga 500 lire. Me ne aveva chiesto 450. E da allora la mia è la migliore dinamo di Napoli. Ecco che cosa capita a viaggiare nel Sud, nella montagna: i miracoli.

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Verso il mare Mi rimetto in marcia. Ritorno in solitudine: io, l’auto, le rocce, le precipitose discese, le ripide salite, l’aria tiepida delle valli, il freddo delle cime. Ora fitti boschi e fumate di carbonaie; ora gli “immani nudi sassi” e l’ombra cornuta delle capre invisibili. Un latrato come una bestia ferita. Un canto di contadino. Un casolare abbandonato. Un volo di uccello lento e navigatore. Un paese piccolo come un mucchio di noccioline in una mano. E poi uno sfondo di mare vasto e infinito quanto l’immaginazione. Questi sono i momenti vari e molteplici, possenti e irripetibili. Se non fosse per la miseria degli uomini che sono i maligni fantasmi della nostra coscienza, questo luogo potrebbe essere l’uscio del paradiso terrestre. Tale è la sua austera bellezza. Alla fine mi avvedo che le salite sono finite e che la macchina discende agevolmente al piano nell’aria misericordiosa del vespro. Lontano appare un paese, assai diverso dagli altri. Mi sembra di scorgere delle luci al neon. La strada, come al solito sempre di eccellente fondo, si fa più stretta. Si trasforma in un viale tra piante profumate e mi sembra di avviarmi verso un’altra città del sud: a Campinas, a cento chilometri da San Paolo del Brasile. Uguali gli odori, uguale il cielo (bleu), uguali le stelle, grandi come palle di alberi natalizie con i raggi visibili e tremolanti.Arrivo nel felice paese che si chiama Policastro: con i suoi ristoranti, la sua stazione di servizio, la sua passeggiata lungo il mare. Più tardi, dall’albergo guardo le lontane lampare dei pescatori di Sapri.

11  Omissis nel testo originario (ndr).

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GABRIEL ZUCHTRIEGEL  LE ABITAZIONI DEGLI DEI | 33

 LE ABITAZIONI DEGLI DEI di GABRIEL ZUCHTRIEGEL

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I

templi di Paestum 2.500 anni fa erano in buona compagnia. È questa la ragione per cui nessun testo classico pervenuto a noi li ritiene degni di nota. Tutta la Magna Grecia era piena di simili meraviglie dell’architettura dorica. Cuma, Velia, Reggio, Locri, Kaulonia, Crotone, Thurii, Eraclea, Metaponto, Taranto… Ciascuna città aveva i suoi santuari principali, distribuiti tra il centro abitato e il territorio. La parola greca per il tempio è naos, che vuol dire “abitazione”. I templi erano dunque le abitazioni degli dei. Non erano essenziali per lo svolgimento del culto, che trovava spazio intorno all’altare sacrificale all’aperto, di solito nel piazzale a Est del tempio. Tanto è vero che ci sono anche santuari senza templi, ma non senza altari. I templi rappresentavano un’aggiunta senza una funzione pratica e concreta, se non quella di servire da abitazione alle divinità che erano rappresentate dalle statue di culto collocate nella parte interna dell’edificio, nella cosiddetta cella. Un viaggio in Magna Grecia, all’epoca, somigliava a un pellegrinaggio tra templi e boschi sacri di Hera, Apollo, Athena, Aphrodite, Artemide, Demetra, Dioniso. I luoghi intitolati a loro non servivano solo per scopi religiosi, ma anche per feste comuni e incontri “internazionali”, come nel caso del santuario di Aphrodite a Paestum, immediatamente a Sud della città antica, dove sin dal momento della fondazione di Paestum intorno al 600 a.C. troviamo materiali dal Mediterraneo orientale che testimoniano contatti e scambi interregionali già in una fase precoce. Nei secoli dell’impero romano, ma soprattutto nel periodo che segue alla sua dissoluzione, il volto della Magna Grecia cambia. Mentre prima i templi greci

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34 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

erano sottoposti a restauri e riparazioni, ora vengono trasformati in chiese (è il caso del tempio di Athena a Paestum) o, il che è molto più frequente, abbandonati a sé stessi. Sotto i terremoti, gli incendi, gli attacchi e le guerre, uno dopo l’altro cade, per rimanere sdraiato per terra. Blocchi e tronchi di colonne vengono riutilizzati per altre costruzioni. Al tempo stesso, gli insediamenti si spostano verso le montagne interne. A Paestum, il centro della comunità viene trasferito sulla collina; nasce così Capaccio quale nuovo capoluogo dell’area, mentre la pianura bassa dove sorgeva Paestum diventa sempre più paludosa e malsana. Dove una volta si teneva il mercato e l’assemblea dei cittadini greci, ora pascolano bufale. Ma per un miracolo che dà ancora da fare alla scienza, i tre colossi dorici di Paestum, che erano i principali templi del centro abitato, rimangono in piedi. Sempre più soli, sempre più “stranieri” nel mondo che li circonda, sopravvivono ai lunghi secoli dell’oblio. Da più di un anno ho il privilegio di lavorare al Parco Archeologico di Paestum. Anche dopo questo periodo intenso, non mi ha lasciato quella sensazione di meraviglia e stupore che provo quando esco dopo una giornata di lavoro dall’ufficio e vedo i templi.“Ich befand mich in einer völlig fremden Welt” (mi trovai in un mondo del tutto strano/estraneo) scrisse Goethe nel “Viaggio in Italia”,(12) e chi vuole, oggi può provare lo stesso, recandosi in questo luogo che sembra tagliato fuori dallo spazio e dal tempo.

12  J.W.Goethe, “Viaggio in Italia” (1786-1788), Bur-Rizzoli, Milano, 1991

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Paestum. I templi (particolare)

Velia-Ascea. Panorama

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Da Paestum … a Pattano e Novi Velia Lasciando la Madonna, il Museo e i templi di Paestum, testimoni di una bellezza che diventa subito nostalgia e percorrendo la strada, spesso interrotta, che va verso Vallo della Lucania, si attraversa la rigogliosa solitudine di piccole pause pianeggianti qui e là coltivate, interrotte da casolari abbandonati, da binari che si spengono in un cespuglio; dalle tracce di un torrente che è ormai solo un piccolo sentiero d’acqua, dalla diga che frattura il corso del fiume Alento e dalla sua Oasi, dalla torre di Castelnuovo Cilento che il principe longobardo Gisulfo fondò e che sembra sfidare o forse solo dialogare con il monVallo della Lucania. Museo Diocesano. Madonna delle Grazie (XV sec)

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DA PAESTUM… A PATTANO E NOVI VELIA | 37

te Gelbison (sacro e profano in una gara di bellezza), che più avanti sovrasta il perimetro dell’Abbazia di Pattano. Uno scrigno di piccole emozioni, con gli affreschi che il tempo, irrispettoso di tanta bellezza, ha sbiadito, consentendone la lettura più con l’intuizione che non con lo sguardo. Traccia armoniosa di quei padri basiliani che, un po’ prima del mille, inseguiti dall’onda iconoclasta, portarono da Oriente e diffusero coltivazioni, stili di vita, preghiere e conventi, mulini ad acqua e farmaci, consuetudini e riti, strade e sentieri, parole e preghiere. Qualche volta, anche peccati. Suggestioni che impregnano le mura perimetrali di un tempio che pur mutilato del tetto, non scoraggia la preghiera, non allontana le domande. Anzi. Dopo Vallo della Lucania, centro amministrativo di tutta l’area, che consuma le sue contraddizioni in un’alternanza tra modernità e antiche armonie (un negozio dietro l’altro, uffici, il Tribunale nell’estrema periferia, l’Ospedale, i licei, i Palazzi nobiliari, i giardini) e non senza una sosta al suo bel Museo Diocesano(13) si incontra Novi Velia, con la sua chiesa dedicata ad un’altra Madonna, Santa Maria dei Longobardi. Nel suo nome si cela la traccia di guerrieri che furono conquistatori, generarono comunità, bellezza, fusione di riti, ibridazione feconda di lingue e dialetti, parole e devozioni. Nella cripta, l’affresco di una insolita natività che mostra la Madonna su un letto ordinato, con una coperta a fiori, san Giuseppe, forse dormiente, esiliato in un angolo e il bambino, già santo, cullato nella sua piccola mangiatoia dalla 13 Il Museo Diocesano di Vallo della Lucania è uno scrigno pieno di preziosi dipinti, oggetti sacri, sculture, raccontati, se si è fortunati nella scelta del giorno della visita, dallo zelo sapiente di un gruppo di ragazzi e ragazze del Liceo Parmenide, che alternano scuola e lavoro e imparano a conoscere e insieme, ad offrire, l’incanto cromatico della loro terra, la sua storia e gli affronti che ha subito.

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38 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

mano della madre e vegliato da un bue privo dell’asinello. Una cripta che sembra pensata per ospitare musica come unica ragione per interrompere il silenzio che l’avvolge. L’altare è invaso dalla bellezza tenue degli angeli oranti che il pittore napoletano Giovan Filippo Criscuolo ritrasse a metà del 1500, mentre sembravano sfidare il vento. Angeli, polittico e cripta valgono una sosta, guidata dalla lettura che ne ha fatto il professore Pierluigi Leone de Castris,(14) noto storico dell’arte, che racconta il tempo di quella bella esperienza che fu, nel 1500, la Scuola Salernitana diretta da Andrea Sabatini(15), certamente il più importante diffusore nella provincia di Salerno della maniera pittorica raffaellesca.

14  Pier Luigi Leone De Castris, Paola Giusti, Pittura del Cinquecento a Napoli, Electa, Napoli, 1988 15  Alla sua morte la sua bottega si divise in due sezioni. La prima, animata dal cognato, Severo Ierace; l’altra, da Giovanni Filippo Criscuolo, attivo per molti anni a Gaeta, presente in tanti Musei non solo italiani (Napoli, Varsavia, Berlino, Londra) e che, nella parte centrale della sua vita artistica, adottò forme vicine al linguaggio di Raffaello nella famosa “Madonna del pesce” che il grande urbinate aveva dipinto per la Cappella di Giovan Battista del Doce nella chiesa napoletana di S. Domenico Maggiore. Criscuolo espresse il richiamo a Raffaello proprio nel polittico che adorna l’altare di Novi Velia, dove i tratti sono segnati da questa ammirazione.

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DA VALLO DELLA LUCANIA A CERASO E POI A VELIA (ELEA) | 39

Da Vallo della Lucania a Ceraso e poi a Velia (Elea)

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Da Vallo della Lucania si può andare verso Moio della Civitella che gli abitanti di Velia fortificarono perché parte della Chora(16) della città, con mura costruite di pietre lavorate a scalpello e connesse senza cimento, che ancora sussistono. Inoltre la immensa quantità di rottami e di cocci che sono sparsi sul declivo di quel monte e i molti oggetti di metallo e di creta che vi sono rinvenuti e che vi si rinvengono sono un argomento luminoso dell’esistenza della città. I contadini difatti, lavorando, in quella località, vi hanno trovate statuette di Apollo, idoletti di creta, coltelli di pietra focaia, e un gran numero di monete e che di Velia era la “periferia agricola (la chora)”. (Monsignor Alario, XIX secolo)

Un’architettura militare difensiva composta di semicerchi che si stringevano intorno a Velia per proteggerne le spalle. Dopo Novi Velia, Ceraso. Stazione di un’antica Via del sale, che portava il prezioso minerale fino al Vallo di Diano, fino a Padula. E il sale per tanto tempo fu ragione di prosperità e di vita delle piccole comunità che costellavano le colline, definite massae dalla Chiesa Cattolica che, dal V secolo, le governò, regolandone usi e costumi e inaugurandone coltivazioni e riti. Rifugi ospitali per chi dalla costa doveva fuggire incalzato dalla natura, dalla palude che, lentamente, copriva tutto e dalle incursioni di nemici che venivano dai Balcani e dal mare. Ceraso, attraversata dal fiume Palisco, affluente 16  Chora indica sia il territorio della polis nel suo complesso, che la campagna. L’armonia fra queste due parti era una caratteristica della città greca.

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40 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

dell’Alento, dove si può gioire della Festa del pane, che apre case e palazzi sul finir dell’estate con un susseguirsi di bontà, testimoni di antiche, autentiche ricette di una cucina “austera” che aspetta e merita fecondi adeguamenti al presente.

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Ceraso, dove il medico Pietro Ebner(17) studioso, antropologo, numismatico e archeologo, intuì che a Elea ci fosse stata una scuola medica antesignana di quella più famosa di Salerno. Ceraso, con il suo centro storico abbellito da palazzi nobiliari, come Palazzo di Lorenzo, diventato patrimonio pubblico, ristrutturato con grande cura e stile, e che tuffa le linee delle sue colline, qua e là rigogliose, nel mare blu di Ascea che i greci chiamavano Elea, tagliando e recintando quartieri e mestieri e tracciando meravigliose architetture che la Porta Rosa, del IV secolo a.C. introduce. Elea fu terra di Parmenide e della sua scuola che nessuna esistenza riconobbe al divenire. E ad Elea Zenone, che di Parmenide fu allievo e amante, con un’ardita capriola dialettica fece vincere alla lentissima, quasi immobile, tartaruga, la gara con il fulmineo, velocissimo Achille, intuendo quelle infinite riduzioni a parti sempre più piccole della materia che la scienza contemporanea racconta. E ad Elea, che chiamarono Velia, i romani rispettosi di competenze, usi e parole, conquistatori conquistati, andavano in villeggiatura, inaugurando 17  Pietro Ebner nacque a Ceraso nel 1904. Di professione di medico, per tutta la vita fu appassionato e instancabile cultore degli studi storici, archeologici, numismatici ed epigrafici. Pubblicò molti testi ancora essenziali sul Cilento e intuì la presenza di una scuola medica nella Velia di Parmenide, antesignana di quella salernitana che fiorì nel dodicesimo secolo. L’importanza degli studi di Ebner fu sottolineata fin dal 1967 dallo storico Gabriele De Rosa che volle Ebner nel comitato scientifico del Centro Studi per la storia del Mezzogiorno all’Università di Salerno e come collaboratore della rivista “Ricerche di storia sociale e religiosa”. Per una biografia di Pietro Ebner si può consultare www.pietroebner.it.

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UN VIAGGIO FILOSOFICO. CONVERSAZIONE CON FRANCO RELLA | 41

Novi Velia. Chiesa di Santa Maria dei Longobardi-Cripta

una vocazione che il secolo scorso ha riscoperto e che sembra ignara di quell’antico splendore che pure resiste alle ingiurie e continua “con arroganza” ad esibirsi nel meraviglioso Parco Archeologico che sovrasta spiagge e pianure.

 Una volta, raggiunte le linee del Partenone, dopo aver attraversato la plaka e le sue botteghe, la signora che faceva da guida, fumando una sigaretta dopo l’altra, con non poca enfasi, esclamò:“Signori – le signore erano escluse dallo straordinario, convinto annuncio che stava per fare – qui è nato il pensiero occidentale!” Non sapeva di Elea? Non conosceva la scuola che in riva al mare del Cilento aveva assicurato pietre fondamentali all’edificio della filosofia e che con non poche semplificazioni che ne avviliscono la forza, si cita come presocratica? Ignorava l’ardire di un pensiero che aveva indagato le stelle e il divenire? Dimenticava, forse catturata dal suo “nazionalismo” ad effetto, che prima di Socrate, prima del suo pensiero seda-

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42 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

tivo (democratico, ottimista e decadente, lo definì Nietzsche), Parmenide, soprattutto Parmenide, aveva elaborato un pensiero tragico e, insieme, modernissimo sul mondo, arrivando a prevedere il superamento della metafisica e delle sue domande su Dio, sull’assoluto e sull’inganno del divenire? Lo ricordai, risentita, all’incauta guida e con grande e sorprendente orgoglio saccente, le dissi; “No, per quel pensiero è stata vitale la scuola che è nata nella mia terra!”. Avevo ristabilito la verità, dimostrato il mio sapere e “umiliato” la presunzione! La signora ateniese non era sola; le tenevano e le tengono compagnia i cilentani e le cilentane, incuranti di tanto passato, che chiamano Solone o Parmenide, pizzerie e pub.

Paestum. Museo Archeologico Nazionale -Tomba femminile (particolare)

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UN VIAGGIO FILOSOFICO. CONVERSAZIONE CON FRANCO RELLA | 43

Un viaggio filosofico. Conversazione con Franco Rella

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“Ma il vero viaggiatore è chi parte per partire, chi dice soltanto: “ Andiamo” e non sa perché come gli aerostati, a cuor leggero, senza mire, e accetta il sortilegio che incombe su di sé. Sono in forma di nuvole i suoi desideri, e tanto il soldato sogna il fucile come costui sogna ignoti e mutevoli piaceri voluttà di cui la mente non sa il nome. (Charles Baudelaire, “Il Viaggio” nella traduzione di Gianni Celati)

Leggere un suo saggio è come immergersi in un mare di bellezza: tumultuoso, a tratti oscuro e poi anche limpido e accogliente. Franco Rella, un filosofo che mai è diventato di moda per il suo originalissimo pensiero che indaga e racconta ciò che eccede il consueto. Supera il confine dei sentimenti noti e spinge le sue riflessioni, (a volte diventano lucide ossessioni), a spostarsi continuamente rompendo steccati, valicando confini. Indaga i molteplici transiti che legano la poesia alla filosofia, la letteratura alla storia, l’arte alla psicoanalisi. Procede con piccole soste, ritorni indietro, riscoperte e fulminanti intuizioni che illuminano percorsi pure già tante volte battuti, sentieri per i quali disegna impervie deviazioni. Instancabile viaggiatore, scruta la bellezza oltre la sua patina seducente. Ne coglie l’oscura, intrinseca ambiguità, trova le parole per dirla, si avvale del silenzio fecondo di pensiero. Con questo originale cercatore d’oro, che usa il viaggio intorno ad un quadro o a un sonetto di Leopardi, come condizione necessaria per cogliere, anche solo per un attimo, il senso di ciò che accade; con questo filosofo della bellezza che continua a misurarsi con l’oscuro limite che custodisce proprio l’enigma dell’umano,

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44 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

ho attraversato, tanti anni fa, la Galleria degli Uffizi di Firenze, unica meta del nostro viaggio. Una esperienza indimenticabile che torna e si propone come guida per una piccola conversazione che ha proprio il viaggio come parola da raccontare, emozione da descrivere, sentiero da abbandonare e ritrovare, esilio sofferto e necessario insieme, dalle scansioni delle nostre vite. Parliamo senza impedire al pensiero di perdere il filo, di allontanarsi e avvicinarsi alla parola che ci fa da pretesto. E, sapendo bene il sacrificio che impongo alla ricchezza di una riflessione che anche di recente si è condensata in un bellissimo libro “Il segreto di Manet” (Bompiani 2017) e che non tollera l’oltraggio dei “riassunti”, riporto grezzo il nostro scambio lasciandogli la provvisorietà di un appunto a margine, di un asterisco, di un promemoria, di una traccia da offrire per ciò che verrà dopo, sarà esso lettura, emozioni o ricordi. Saccheggio gli scritti più recenti di Franco, riportandone qua e là frammenti che possono sostenere e indirizzare i miei pensieri sul viaggio, sulle implicazioni emotive di un’esperienza umana che tocca il cuore delle domande più profonde che tutti e tutte ci poniamo. Le figure del viaggio, i nomi che lo evocano come avventura che dirotta lo sguardo verso ciò che non si è condensato in abitudine diventando paesaggio addomesticato, senza misteri, cominciano da Ulisse, dai suoi naufragi, dalle sue ambizioni, dal suo non aver paura dei limiti, dalle sue sfide alla ragione, dalla sua nostalgia, dalla sua incontenibile curiosità, dalle sue domande, dalla sua umanità. Attratto dall’ignoto, dal meraviglioso, dall’avventura, non dimentica mai la sua dimensione umana che sceglie anche quando Calipso gli offre l’immortalità che lo sottrarrebbe alle ingiurie del divenire e, insieme, al destino della finitezza. Il viaggio di Ulisse ha una meta che abiterà per poco spinto a lasciarla da quella libido sciendi che per Dante sarà ardore. Da un’avventura ad un’altra, da una scoperta

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UN VIAGGIO FILOSOFICO. CONVERSAZIONE CON FRANCO RELLA | 45

ad un mistero, si snoda l’itinerario di questo vagabondo che inaugura l’Occidente con le sue ombre e la sua meraviglia che sfugge a qualsiasi abitudine. Questo “inventore” di figure portanti dell’ “epica” maschile, il coraggio, l’abilità, la furbizia, la capacità seduttiva, l’insaziabile curiosità, è sempre estraneo, straniero. “Eroe dell’inquieto occidente” vive l’esperienza estrema del viaggio, ne fonda la figura come metafora dell’umana esperienza, cercando di renderlo, ciò che mai esso potrà essere per sua natura: totalmente comunicabile, attraversato dalla luce ambigua, prismatica della parola. Di Ulisse non c’è solo il racconto di Omero. Di Ulisse narrano in tanti. Narra Dante che ne fa specchio del suo stesso viaggio, controfigura “altro che gli è prossimo come nessun altro”, e disegna il desiderio insaziabile di oltrepassare ciò che si conosce, fino ad arrivare al nulla “di un mondo senza gente”dove la punizione divina affonda l’ardire dell’ “eroe”nel mare che lo copre, lo annienta e lo cancella. Quasi a punirne la sfida. Non c’è figura che abbia avuto una simile perdurante presenza lungo l’arco dei millenni. In filosofia da Platone a Boezio, da Hegel a Fondane fino ad Horkheimer e Adorno. In letteratura Pascoli, Canetti, Proust, Joyce, Eliot. E il poeta caraibico Walcott che scrive una sua Odissea nella quale Ulisse attraversa l’oceano ed entra nel nostro millennio.

E Ulisse è anche il K. del Castello kafkiano, straniero, col nome ridotto, condensato, in una lettera che lo fa prigioniero del suo destino di totale estraneità. “Nessuno”. Naufrago liquefatto nel desiderio di non avere passato. Presagio e, insieme, cifra della condizione dell’uomo contemporaneo che abita un cosmopolitismo in cui tutti perdono qualcosa, tutti diventano sempre più uguali fra loro. Immersi in un presente senza passato. Deliberatamente immemore di qualsiasi futuro. Ridotto a monotono susseguirsi di vite magmatiche

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46 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

che privano il viaggio di ogni racconto insieme alla sua ragione prima: la scoperta dell’altro come testimone di altre inquietudini, altre domande, altri riti. Partecipe di una umanità che sola potrebbe, se fosse custodita, alimentata, curata in tutte le sue manifestazioni, indicare un sentiero di salvezza, di riscatto, da quel destino che ci anestetizza riducendoci a pedine di un mercato planetario. Consumatori senza curiosità. Privi di indignazione anche di fronte alle immagini delle mille atrocità che il nostro presente genera sulla natura, sui bambini e le bambine, sugli ultimi. Attori privati sempre più della possibilità di tessere una propria, autonoma sceneggiatura da offrire come terreno di risonanza, di incontro autentico. E la retorica del viaggio che ha nutrito il racconto anche del ’900 (Joyce chiama Ulisse il suo protagonista che esaurisce in un giorno la sua erranza intorno a se stesso) subisce i colpi mortali che gli infligge la spietata luminosità dei barconi che attraversano gremiti di una umanità in fuga verso quell’occidente, omologante, distruttivo e autodistruttivo, che ha coperto di macerie con le sue parole piene di inganni, i loro Paesi di origine. Tanti “nessuno”. Una umanità dolente che mette in scena forse quello che è il vero, ultimo viaggio del nostro tempo. Un interminabile naufragio che in pochi anni ha trasformato il Mediterraneo, scena straordinaria per secoli di stupefacenti scoperte, sintesi feconda fra differenti culture, in un oscuro, terribile sudario dove tante speranze ogni giorno annegano senza neanche il conforto né della memoria che diventa racconto né del dolore. Tanti nessuno a cui è concessa solo la dimensione tragica che la sfida con il mare e con la morte gli impone. Eppure, forse “quei mendicanti che bussano alla porta, portano un messaggio o addirittura posseggono il siero che guarisce la peste”.

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UN VIAGGIO FILOSOFICO. CONVERSAZIONE CON FRANCO RELLA | 47

Nei paesi del Cilento costruiti sulle rive del mare, quando un peschereccio non si ritirava e si temeva la tragedia, il parroco suonava le campane. Tutti andavamo, guidati da quell’allarme che presagiva una ferita per la comunità e le chiedeva di accorrere solidale e compatta, sulla spiaggia o sugli scogli quasi a contrastare il destino scrutando l’orizzonte buio che negava spesso qualsiasi speranza. Ricordo il pianto di un bambino segno di un atroce presentimento infantile. Un pianto lacerante che ancora, dopo tanto tempo, mi riporta il suo dolore ogni volta che vedo e penso ai piccoli migranti affidati alla pietà di estranei da madri disperate che pur di tentare di salvarli, li abbandonano. Mentre i campanili “inondano” con il loro silenzio questa modernissima tragedia. Qualcuno ha scritto che dopo Auschwitz non è più possibile la poesia. Forse, dopo l’immagine di una bambina senza vita trascinata dalle onde, ridotta a relitto, scarto senza valore, nessun viaggio mediterraneo potrà essere narrato. Nessun Ulisse andrà verso Itaca. L’eroe vagabondo chiude tragicamente il suo errare, naufrago di tutte le illusioni, testimone di tutte le insensatezze che la sua stessa cultura ha generato. E… Ulisse nel suo nuovo viaggio attraverso la metropoli, dovrebbe sfidare la globalizzazione, riaffermando la necessità di riarticolare differenze, tensioni e conflitti, che non siano semplicemente la frontalità di noi e loro, gli occidentali e ‘gli altri’: due maschere che sembrano essere incise della stessa espressione. Due maschere, una espressione, un volto. Forse la metropoli post-coloniale non è New York o Parigi o Seul. La metropoli post coloniale è l’occidente nel suo complesso. E forse la Siria, la Libia, l’Isis non sono il suo altro, ma sono la sua banlieue – anch’esse occidente, dunque – in cui in frantumi convivono molti tempi, molte istanze, molte storie che non riescono ad aprire lo spazio in cui possa esprimersi differenza e conflitto dialettico.

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48 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

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Racconto. Frammenti che rifuggono frettolose sintesi e resistono a qualsiasi riduzione, a qualsiasi costrizione in falsi comun denominatori che negano la singolarità irriducibile delle vite, dei singoli pezzi. In Baudelaire i veri viaggiatori sono quelli che sono spinti dal desiderio, dalla curiosità che è ‘un angelo crudele che sferza anche gli astri’. La meta di questa curiosità può essere dappertutto, per l’uomo e per le sue insensate speranze. Ma amaro sapere si trae dai viaggi. Infatti per il viaggiatore Baudelaire il mondo è piccolo come lo era per l’Ulisse dantesco: il mondo non è che un’oasi d’orrore in un deserto di noia (F. Rella, Pathos. Itinerari del pensiero, Mimesis, 2016, p. 50)

Ma c’è un altro meraviglioso viaggio che non ha bisogno né di mete né di villaggi, di biglietti aerei o di guide: è il viaggio che racconta e offre la poesia di Emily Dickinson. Non esiste un vascello veloce come un libro per portarci in terre lontane né corsieri come una pagina di poesia che si impenna – questa traversata può farla anche il povero senza oppressione di pedaggio tanto è frugale il carro dell’anima. (Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Poesia 1263 p. 1271)

Lo vorrebbe raccontare ma si incaglia sulle parole che diventano imprendibili miraggi.

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TILDE FARIELLO  PRIMA DELLA SPA. LE TERME DI VELIA | 49

 PRIMA DELLA SPA. LE TERME DI VELIA di TILDE FARIELLO

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S

e il viaggiatore che visita l’antica città di Velia alza lo sguardo verso le rovine, sarà subito colpito dalla monumentalità di un edificio che sovrasta la zona meridionale: le terme di Porta Marina Sud. Una splendida costruzione edificata alla fine del I secolo dopo Cristo in un punto strategico della città dove si incrociano grandi e importanti assi stradali e prossimi alla porta di accesso. Non è solo la monumentalità che colpisce ma anche l’armonia e la complessità delle forme architettoniche: linee spezzate, segmenti rettilinei, curve, sinuosità che perimetrano i grandi bacini per i bagni freddi e per quelli caldi. Imboccata la strada per Porta Rosa ci si imbatte e, quasi, si inciampa, sui grandi e poderosi blocchi squadrati che ricoprono la canaletta di scarico delle acque reflue delle terme. La strada lastricata che portava alle terme era delimitata da colonne che segnavano la bellezza del suo snodarsi dalla base della collina fino a Porta Rosa. A pochi metri dall’inizio della salita, a sinistra, è posto l’ingresso, ora in crollo: un ampio accesso sovrastato da un timpano triangolare, che lo rendeva monumentale. Nel primo ambiente situato subito dopo la porta principale c’era il banchetto del capsarius lo schiavo che riscuoteva il denaro (le terme erano a pagamento), un asse per i maschi, mezzo asse per le donne. Era vietato a uomini e donne usare il bagno contemporaneamente: potevano entrare solo in fasce orarie diverse. Una regola ampiamente violata nella pratica quotidiana così come si apprende da molte testimonianze letterarie. A sinistra, era situato lo spogliatoio dove si lasciavano scarpe e vestiti, ma non oggetti

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50 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

di valore perché potevano scomparire, e si indossava il costume per il bagno. Da qui cominciava il percorso circolare. Attraverso un ingresso colonnato si entrava nel frigidarium, dove se non ci si sentiva completamente puliti, si poteva usare il labrum, un grande bacile ove zampillava acqua corrente, per la prima abluzione. La porta che si apriva immediatamente a destra consentiva l’accesso ad un piccolo corridoio fornito di scaffalature sulle quali erano custoditi oli ed unguenti per frizioni e massaggi. Si entrava quindi nel grande tepidarium, riscaldato, abbellito da quattro basi per statue, dove si poteva sostare per una chiacchiera con gli amici. Le terme erano, infatti, anche un collaudato e usatissimo luogo di relazioni sociali. Con il corpo ormai abituato a sostenere maggior calore si entrava nelle stanze più riscaldate: il percorso era doppio, si poteva scegliere tra un bagno di vapore, posto nell’ambiente a nord del tepidarium o andare ad immergersi nelle grandi piscine del caldarium, dove squadre attente di personale provvedevano a mantenere l’acqua ben calda tramite grandi forni continuamente alimentati a legna. Gli ambienti caldi erano provvisti di porte che si tenevano costantemente chiuse perché il caldo non si disperdesse. Infine, attraversato un ultimo piccolo corridoio, anch’esso riscaldato, si ritornava di nuovo nel frigidarium dove era previsto immergersi nelle piscine di acqua fredda e permettere al corpo attraverso uno sbalzo termico di ristorarsi e rinvigorirsi. Gli avventori erano sempre seguiti dal personale delle terme che provvedeva a fornire ciabatte asciugamani oli per frizionare i capelli o il corpo. Finito il percorso salute ci si poteva ancora rilassare in un altro ambiente forse adatto a svolgere giochi in cui ancora una volta l’acqua la faceva da padrona. Al centro di questo grande ambiente c’era un condotto per lo smaltimento dell’acqua e un piccolo ambiente, posto alle spalle della piscina fredda, che poteva essere riempito d’acqua fredda per circa 20 cm, fornito di una panca in muratura dove gli avventori potevano sedere e … forse tenere i piedi in ammollo.

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TILDE FARIELLO  PRIMA DELLA SPA. LE TERME DI VELIA | 51

A questo punto il percorso del bagno era finito ma niente vietava di poter ricominciare daccapo... tempo a disposizione permettendo. Le terme di Velia ebbero una lunga vita: costruite alla fine del primo secolo dopo Cristo, furono ristrutturate nel secondo secolo dall’imperatore Adriano, come è testimoniato da un’iscrizione trovata nella piscina del tepidarium. Dall’imperatore Adriano, in quell’occasione, furono rinnovati gli impianti di riscaldamento, ridotte le aperture delle finestre. Ma il grande rinnovamento fu operato nel V secolo dopo Cristo con la cristianizzazione del popolo velino. Sappiamo dalla letteratura che il nobile Gavino portò a Velia le spoglie dell’apostolo Matteo che furono sistemate in prossimità proprio delle terme. L’adozione di usi e abitudini imposti da una morale completamente diversa da quella del periodo greco, innescò un processo di sostanziali mutamenti nella vita quotidiana. Non ci si poteva immergere più in promiscuità e era vietata l’esposizione del corpo allo sguardo altrui. Si provvide quindi a riammodernare le terme secondo la nuova legge morale. La zona del calidarium venne completamente ristrutturata. Le due piscine furono chiuse per mezzo di muri, in esse furono impiantate vasche per il bagno singolo. I vecchi impianti per la circolazione dell’acqua e del riscaldamento furono sostituiti con altri più idonei ai tempi. Per quanto tempo ancora le terme rimasero in funzione non si sa. Anche quando aveva perso il suo più importante utilizzo nella piscina rettangolare fredda fu impiantata una carcara (fornace per la calce). Poi il silenzio fino agli anni ’60 quando l’archeologo Sestieri la portò alla luce.

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52 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

Verso Ascea, seguendo il confine con il mare

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La Costa da Paestum verso Palinuro. Agropoli, punta Tresino, Santa Maria, Castellabate, San Marco, punta Licosa, Ogliastro, Agnone, Acciaroli, Pioppi, Marina di Casal Velino, Ascea. La costa merita altri viaggi e altri racconti. Il mare, che pur confina il Cilento, non ne connota l’identità come, invece, fanno i suoi maestosi monti o i tanti fiumi lungo il cui perimetro vivono paesi, chiese, parole, dialetti feste e abitudini, lontre e farfalle, lupi e primule, ginestre e cinghiali, gole affascinanti e segrete dove la mano consapevole di un’artista solitario che non firma le sue opere ma le mostra, ha disegnato fluttuanti merletti d’acqua dolce, insenature che sembrano pensate per approdi dedicati al silenzio e alla bellezza. O ancora, il dedalo delle grotte, marine come quelle tra Palinuro e Camerota, o di terra come quelle di Castelcivita, che da sole potrebbero essere la ragione di un viaggio, di un percorso, di una scoperta. La costa è impervia e congiunge Agropoli alle spiagge del borgo medioevale di Castellabate, che guarda due delle sue frazioni, san Marco e santa Maria, regalando loro lo sfondo delle sue case, dei suoi giardini, del suo silenzio interrotto dalle campane, che invitano alla preghiera, della chiesa del XII secolo dedicata a santa Maria Assunta. Castellabate, divenuta famosa dopo il successo del film “Benvenuti al sud” girato nelle sue stradine, che fu fondata intorno all’anno mille dall’abate, di origine cilentana, Costabile Gentilcore, che poi ne diventò santo protettore. Sul filo dell’orizzonte si intravedono i profili della costiera amalfitana e quando il cielo è terso, di Capri. Vicini tanto da illudere di poterli toccare non solo con

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VERSO ASCEA, SEGUENDO IL CONFINE CON IL MARE | 53

lo sguardo. Poi, Ogliastro, Agnone, Mezzatorre, che è la marina di San Mauro Cilento, appollaiato sulla montagna. E ancora Acciaroli, Pioppi, Marina di Casal Velino e Ascea in un susseguirsi di piccole insenature, rifugi naturali, grotte inaccessibili, pinete che lambiscono il mare, campanili e torri di avvistamento, gozzi e gianciole che si allontanano verso l’orizzonte al tramonto per pescare con non poca crudeltà, le alici di menaica(18) in una rete che le dissangua per preservarne candore e sapore. E di Pollica, di cui Acciaroli e Pioppi sono frazioni, era sindaco Angelo Vassallo, assassinato, stando alle indagini, senza ‘un perché’. Angelo, che considerava la bellezza del mare e delle colline che lo guardavano, una ricchezza da conservare e non un bene da sprecare. La costa, piena di agavi che fioriscono ogni cento anni e poi, stremate da tanto generare, muoiono, si inerpica dopo Agnone, verso l’interno. Verso Serramezzana, uno dei comuni più piccoli del nostro Paese (326 abitanti) distribuiti nelle frazioni di San Teodoro, Capograssi e il capoluogo. Tracce bellissime di un antico abitare e di una moderna attenzione alla cultura e alla bellezza, con il sontuoso palazzo Materazzi, che è il gioiello di Serramezzana. Da qui parte l’esperienza del festival “Segreti d’autore” che Ruggero Cappuccio, insieme a Nadia Baldi, organizza da molti anni e che arriva fino a Sessa e Valle Cilento e che riempie l’estate di belle occasioni teatrali, musicali e di bien vivre. Gareggia con Serramezzana per dimensioni, anche se non è municipio autonomo, Catona, alle spalle di

18  La “menaica” è un’antichissima tecnica di pesca, un tempo diffusa su tutte le coste del Mediterraneo, che sopravvive in pochi luoghi in Italia. Uno di questi è il Cilento, in particolare a Marina di Pisciotta a metà strada tra Velia e Capo Palinuro. La rete lascia passare le più piccole e cattura quelle grandi, che restano impigliate e decapitate. Si puliscono immediatamente e si dispongono per il trasporto senza alcuna refrigerazione.

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54 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

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Ascea di cui è frazione, tra le colline. 181 registrati all’anagrafe dei quali molti meno i residenti. Quel che resta di una comunità testimoniata dalle tante case con le finestre chiuse dal silenzio dei suoi vicoli ormai quasi senza bambini, da una bella chiesa dedicata alla Madonna del Carmine che si festeggia a metà luglio, meta di pellegrinaggi devoti. Un’altra faccia speculare alla congestione della costa, che meriterebbe progetti di ripopolamento e di sviluppo.

 Angelo Vassallo. Una bella faccia intelligente, l’inflessione che ricordava l’antica lingua della sua terra, l’amore per la natura e la passione per la politica, l’amicizia praticata con generosità, il tono ironico di chi è bravissimo a non prendersi troppo sul serio e, soprattutto, a non pensare di avere sempre ragione. La “capa tosta” che nel Cilento fa parte del corredo genetico. Tutto questo era il sindaco Angelo Vassallo che nel settembre del 2011, dopo una giornata passata sulle montagne di Cuccaro Vetere col suo amico Antonio Valiante, in una bella e quieta sera d’estate, si fermò all’alt del suo assassino, consegnandogli la sua indifesa vita. Un delitto che mise a tacere quella voce che in pochi anni aveva reso Acciaroli un vero capolavoro. Meta e ospite di un turismo raffinato. Luogo di un’ospitalità attenta con un mare più volte bandiera blu. L’incontravo sul porto dove con sguardo acuto controllava, apostrofava i pescatori che si preparavano a salpare, gustava un aperitivo con i turisti che trattava come fossero suoi ospiti privati. Una biografia semplice, che aveva mostrato a tanti scettici, a tante dolose pigrizie che abitano il Cilento, che si può incentivare lo sviluppo economico di una comunità (il valore immobiliare di Acciaroli è considerevolmente aumentato) senza rinunciare all’etica ambientalista. Anzi. Lo “sviluppo” che immaginava e che faceva da sfondo essenziale alle sue scelte amministrative considerava la natura un bene produttivo e la sua salvaguardia un dovere verso il futuro.

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VERSO ASCEA, SEGUENDO IL CONFINE CON IL MARE | 55

Serramezzana. Palazzo Materazzi (Sec. XVIII)

Gozzo cilentano

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56 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

 LA LUCERTOLA BLU di DOMENICO FULGIONE

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I

l gommone dell’equipe di ricerca ha appena toccato i ciottoli della spiaggetta dell’isolotto di Licosa. Fa sempre lo stesso rumore. Ognuno sa cosa deve fare, nel tempo minore possibile. Io sono assorto nei miei pensieri, complice il silenzio dell’equipaggio in cui ognuno è concentrato. Non so se lo sussurro, oppure lo dico nella mente: un’isola è uno scrigno. Circoscritta, minuta, con tante ricchezze che aspettano di essere svelate. Così mi sono detto, approdando su un isolotto ad un tiro di schioppo dalla terraferma, così ha forse sussurrato Charles Robert Darwin quando il Beagle si avvicinava alle Galapagos, e così pensava James Cook guardando Tonga e Tahiti. Così è. Perché sulle isole, l’evoluzione gioca con gli organismi. La maestosa forza, che tutto plasma e tutto rende possibile, cavalca un cavallo cieco, il caso, e segue una fredda luce, la necessità. Gli organismi insulari sono a volte nani, altre volte giganti, e spesso sfoggiano colori improbabili. Così l’evoluzione che ha giocato con la comune lucertola campestre sull’isolotto di Licosa, blu come il mare più profondo. Un rettile generalmente anonimo, mimetico, verde come l’erba e silenzioso come una foglia. Sembra fatto per non essere notato, sebbene ricalchi il disegno dei rettili giurassici che hanno dominato la terra per milioni di anni. La lucertola blu sull'isolotto di Licosa

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DOMENICO FULGIONE  LA LUCERTOLA BLU | 57

Bizzarrie della natura, viene da pensare, quando le lucertole su Licosa si mostrano in tutta la loro bellezza di un indaco intenso. “Scherzi del mare” che tanto le somiglia in un cromatismo che non sembra avere alcun vantaggio per la sopravvivenza. Invece no, tutto trova un senso alla luce della selezione naturale, madre indiscussa della necessità. Le lucertoline blu dell’isolotto cilentano, tanto diverse dalle sorelle della terraferma, non più lontane di 350 metri, sono state capaci di spuntare le armi della selezione. Il blu è la traccia di questa soluzione. Ma andiamo per ordine, raduno i pensieri, mentre un gabbiano curiosa nel nostro equipaggiamento. Prima di tutto, cerchiamo di capire questa selezione naturale. Cosa c’è di tanto selettivo, tremendo, pericoloso? Cosa nasconde l’isola? E perché una popolazione qualunque di lucertole non potrebbe sopravvivere su Licosa? L’isola, dal punto di vista di una lucertola, è battuta dal vento e dalle onde, frequentata da gabbiani e falchi abili predatori, non ha sorgenti d’acqua e la popolazione di ratti trasferisce numerosi parassiti. Tutte queste condizioni rendono la vita difficile a qualsiasi piccolo sauro che non può volare, né nuotare via, quando le cose si mettono male. Va bene, si rischia di soccombere, ma io so bene che il fine di ogni essere vivente non è la sopravvivenza del singolo, bensì quella della popolazione. L’imperativo biologico è trasferire l’informazione del genoma alla generazione successiva, garantire la linea discendente, rinascere in un nuovo involucro, quello dei figli. E così, loro, proseguiranno una traccia in cui al centro c’è il DNA che veste sempre nuovi panni adattandosi alle mutate condizioni. In quest’ottica, le lucertole di Licosa hanno trovato la soluzione. Hanno attivato dei geni che cambiano totalmente il loro stile di vita. Maturano in pochissimo tempo, l’infanzia non serve! Sono aggressive e fameliche, le risorse possono finire! Sono molto attive

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58 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

sessualmente e investono la maggior parte dell’energia nella riproduzione. Una precisa strategia che garantisce un rapido trasferimento del DNA di una generazione, a quella successiva, e poi, poi, si può anche morire. L’eredità biologica è stata consegnata e le avverse condizioni ora fanno meno paura. Un’evidenza evolutiva che richiama foscoliani pensieri,“Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi?” Ma si sa, i geni sul DNA sono collegati e alcuni caratteri possono emergere indipendentemente dal loro oggettivo vantaggio. Così il blu, un processo di melanizzazione che non è più di un prodotto secondario. Il gene che controlla l’espressione del blu è strettamente collegato a quelli che regolano altri caratteri come, la famelicità, la sessualità, e quant’altro garantisce la sopravvivenza (discendenza) della popolazione. Blu per caso, o meglio, blu per necessità. Alla base di ogni mattoncino della biodiversità c’è una causalità evolutiva, una spiegazione affascinante che rende tutto chiaro, a volte basta spostare il punto di vista perché tutto si allinei. L’emozione del visitatore è amplificata ora, se camminando silenzioso tra la macchia mediterranea dell’isolotto di Licosa, scorge due esemplari che si azzuffano, o un maschio che morde una femmina al ventre per possederla violentemente. Quanto è gustosa la sensazione di capire, di indossare l’anello di Re Salomone, incasellare un evento in un quadro di tanti colori, in un disegno che si espande ad altre isole ad altri organismi. Alle popolazioni isolate della nostra specie, chissà se gli isolani sono aggressivi, taciturni, e famelici per una precisa strategia evolutiva. Torno ancora su Licosa perché ad ogni scoperta si aprono altre mille interessanti questioni. Adesso, per esempio, stiamo cercando di capire i tempi con cui queste popolazioni trovano la soluzione adattativa. L’isolotto di Licosa è vecchio solo 4000 anni, è giovanis-

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DOMENICO FULGIONE  LA LUCERTOLA BLU | 59

L'isolotto di Licosa

simo dovrei dire. Per l’evoluzione un battito di ciglia. Come hanno potuto evolvere questi caratteri in così poco tempo? Provando variazioni casuali? Sembrerebbe che, anche in questo caso, la soluzione non si trovi guardando alla velocità di evoluzione. Il genoma delle lucertole dell’isolotto è simile a quello della terraferma prospiciente! Le variazioni di cui vi ho detto si esplicano attraverso la modulazione dei geni, non il loro cambiamento, non ce ne sarebbe il tempo. Geni che si esprimono in modo differente danno caratteri diversi, il resto del DNA non varia. Una soluzione geniale, una mossa che ci spiazza, ma siamo abituati a sorprenderci, a lasciarci spiegare come le cose possono cambiare seguendo disegni imprevisti, secondo tempi e modi che non sono di umana materia. Ma il sole è quasi tramontato alle spalle di Capri, anche lì ci sono lucertole blu, è ora di rimettersi sul gommone e tornare alla base, i gabbiani devono venire a trascorrere la notte. Poche lucertole catturano gli ultimi raggi di sole. Licosa è silenziosa. L’evoluzione pure.

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Piccole deviazioni verso un’isola, un fiore, gli angeli L’isolotto di punta Licosa, dominato da un faro che segnalava ai naviganti il pericolo di un naufragio sulle “secche” che lo circondavano, è raggiungibile con un piccolo gozzo. Il fondale, nei giorni di mare calmo, è trasparente. L’acqua limpida, come solo nel Cilento sa essere. Il silenzio e i gabbiani completano l’emozione con i loro richiami. Da evitare nei giorni centrali dell’estate quando moltissime imbarcazioni popolano disordinatamente lo specchio d’acqua antistante l’isolotto. Motoscafi, gozzi e orrendi “ferri da stiro” approdati dopo viaggi brevissimi in questa piccola rada che diventa una vetrina delle vanità “nocchiere” di una piccola borghesia senza curiosità. I gabbiani e, con loro, il silenzio, si dileguano tra gli scogli aspettando settembre. Di fronte all’isolotto, un bel palazzo settecentesco con una chiesetta dove la domenica si può ascoltare la messa per poi riprendere la strada laica della contemplazione della bellissima natura popolata da pini marittimi piegati dal vento e dal tempo. Ridotti in forme che sembrano deliberate sculture. Lasciando il mare per addentrarsi sul sentiero che lo costeggia e, a tratti, lo lascia, San Marco o la punta di Ogliastro Marina con una passeggiata che rigenera e regala fiori e macchia mediterranea oltre che magnifici resti di casali abbandonati. Testimonianze di una bellezza che sembra sul procinto di allontanarsi per sempre.

In primavera. Sassano, il paese delle orchidee Nella seconda metà di maggio fioriscono le prime poi, col passare dei giorni quasi rispondendo ad un comando, secondo un ritmo “ignoto” e misterioso, compaiono più di 180 specie di orchidee. L’una meravigliosa-

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PICCOLE DEVIAZIONI VERSO UN’ISOLA, UN FIORE, GLI ANGELI | 61

mente diversa dall’altra. Tutte: un miracolo della natura. Una sinfonia di colori, grappoli, petali. La valle insiste nel Comune di Sassano che ogni anno a maggio dedica a quel fiore simbolo, dicono, di voluttà, eventi, concerti, passeggiate. Prossimo a Padula e a Teggiano, Sassano affonda le sue radici nel tempo dei padri Basiliani e molte testimonianze documentano la sua plurisecolare appartenenza al Vallo di Diano e alle sue vicende politiche. Il Cervati domina valli e cime. Quasi sempre innevato è certamente uno dei luoghi più belli e suggestivi di tutto il Parco Nazionale del Cilento del Vallo di Diano e Alburni. La Valle delle Orchidee, poco più di 40 chilometri di superficie, sembra un tempio dedicato dalla natura alla conservazione della sua bellezza. Un silenzio quasi gioioso la avvolge e nelle luminose primavere che la segnano con un’incredibile numero di varietà botaniche. Qui la strada per arrivare al cuore dell’esistenza sembra spianata. L’escursione non presenta difficoltà significative e vale la pena farsi accompagnare da guide del posto che consentono con la loro competenza di apprezzare le infinite sfumature del paesaggio. Il Cervati è celebrato con riti religiosi (la festa della Madonna della neve) e con presidi naturalistici come il rifugio che è una sosta particolarmente accogliente quando la neve non impedisce il cammino. A poco meno di 1600 metri appartiene al comune di Piaggine (località Chianolle), serviva come stazione della forestale e poi, come ricovero per pastori e tagliaboschi. Mestieri e abitudini ormai in via di estinzione così come tanti altri aspetti della cultura materiale di questi luoghi Il Museo delle antiche coltivazioni(19) conserva semi testimoni di colture destinate forse a scomparire e regala l’emozione di un ritorno indietro. Ferma il passare del 19  Il Museo Vivente della Valle delle Orchidee e delle Antiche coltivazioni di Sassano possiede una ricca germoteca con tantissime varietà di semi. www.valledelleorchidee.it

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Santuario della Madonna del Monte Sacro (o Gelbison)

tempo, contrasta l’incedere devastante di omologazioni e livellamenti, regala antiche abitudini. Sassano, il Cervati, la Valle delle Orchidee, la musica di devozione, i canti che accompagnano la Madonna che torna verso la sua Chiesa trasportata dagli uomini che percorrono le ripide salite quasi correndo, per offrire quella fatica in cambio di una protezione che la fede dà per certa.

 Un fine settimana con un piccolo gruppo di amici e amiche appassionati di botanica. Li seguivo docile mentre fotografavano, davano nomi, si scambiavano esclamazioni di gioia. Percorremmo un sentiero e tutto intorno neanche un filo elettrico, neanche una parola in lontananza. Inseguivamo pensieri ed emozioni. Arrivammo al rifugio, cellulari fuori uso. Una cena capolavoro assoluto di sobrietà e inediti profumi. Il vino generoso di una vigna lontana e l’antichissimo esercizio di quella meravigliosa pratica che è la chiacchiera. Riscaldati da un camino che irradiava luce e tepore. Se

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PICCOLE DEVIAZIONI VERSO UN’ISOLA, UN FIORE, GLI ANGELI | 63

qualcuno mi chiedesse se mai sono stata felice, sì risponderei. “Sì, sul Cervati”. La natura quando è così, quasi perfetta, somiglia alla musica, impegna corpo, pensieri, sentimenti e ricordi in una relazione “a due” che è insieme misteriosa e solare. Un corpo a corpo buio e luminosissimo. E che lascia tracce profonde sull’anima.

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Gli angeli del Cilento Dal Museo di Paestum fino a Laurino, appena sopra Vallo della Lucania, compare in diverse forme, con significati a volte misteriosi, la figura dell’angelo. Simbolo di mille cose spesso fra loro contrastanti. Resurrezione, estasi, annunciazioni, vendette, perdizione, gioia e malinconia, desiderio di trascendenza e consapevolezza del nulla. Evocati e raccontati soprattutto dalla poesia e dall’arte, gli angeli affascinano e segnano un bordo simbolico che si può varcare contemplandone le Novi Velia. Chiesa di Santa Maria dei Longobardi Polittico di Giovan Filippo Criscuolo (particolare)

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immagini e abbandonandosi alle loro potenti allusioni ne testimoniano il desiderio insopprimibile di spiritualità. Traghettatori verso l’oltre della morte. Si può costruire un piccolo itinerario intorno agli angeli. E di angeli è gremito anche il Museo di Paestum. Figure androgine con ampie ali circondano sullo sfondo di una rigogliosa natura, la dea Afrodite che come la primavera, si manifesta ciclicamente risvegliando eros, piante e fiori sulle pareti esterne di un vaso, o di un erote (fanciullo alato) di argilla, minuscola statuetta di straordinaria bellezza, o di un altro che sparge fiori su Afrodite che nasce dal mare. Piene di angeli sono anche le chiese del Cilento. Inquietante l’arcangelo Michele che, sulla navata destra della basilica di Castellabate, trafigge non Lucifero come di consueto, ma una donna dalle forme abbondanti e con piccolissime alette, forse di pipistrello, sulle spalle e la coda di una sirena (ispirata dalla vicinanza della sirena Leucosia), nuda. Simbolo dell’antica coincidenza del femminile con la lussuria, la tentazione. Una coincidenza fortemente simbolica tra il peccato, la perdizione e la donna, che abita le ancora diffusissime fantasie misogine maschili. Lontano e gremito di bellezza, il Vallo di Diano, con la Certosa di Padula piena di angeli. O Buonabitacolo e il meraviglioso angelo policromo che annuncia alla Madonna la scelta irrevocabile di Dio nella chiesa dell’Annunziata, angelo scolpito in legno dal maestro Giacomo Colombo (famoso intagliatore della fine del XVII secolo(20). Bellissima la Collegiata di Laurino, un paese dove si racconta nacque Sant’Elena che qui viene venerata con grande passione. Ma degli angeli degli Alburni e del Vallo di Diano e del Parco tutto, parleremo … un’altra volta.

20  Colombo era il titolare di una bottega scultorea tra le più rinomate nel Regno di Napoli a cavallo tra il Seicento e il primo Settecento. Le sue opere hanno avuto una straordinaria diffusione e fama non solo nell’Italia meridionale, ma anche in Spagna.

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PICCOLE DEVIAZIONI VERSO UN’ISOLA, UN FIORE, GLI ANGELI | 65

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Il giglio di mare Le spiagge del Cilento, prima delle perfide abitudini devastatrici della società dei consumi e del turismo irresponsabile, si coprivano di un tappeto di gigli di mare che indifferenti all’acqua e al sale o, forse, proprio perché nutriti dall’acqua e dal sale, crescevano rigogliosi quasi in riva al mare. Tra luglio ed ottobre il giglio di mare diffonde e segna con il suo profumo intenso le notti d’estate. I botanici assicurano essere di facile riproduzione anche se pochi sono i casi conosciuti di attecchimento fecondo in habitat domestici.

Cephalanthera rubra: una delle tante varietà di orchidee presenti nella Valle delle Orchidee (Sassano)

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Le pietre

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Italo Calvino in un testo scritto negli anni Ottanta per la mostra del pittore Alberto Magnelli, che dipingeva pietre, ha assunto il punto di vista della pietra. In un monologo in prima persona ci ricorda che le pietre, pur essendo segnate dal tempo, non lo conoscono davvero. Vivono in una dimensione di assoluta sospensione; e tuttavia nella loro superficie scavata,

Un esempio di Passolara (edificio rurale adibito all’essicazione dei fichi)

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LE PIETRE | 67

scheggiata e rotta recano addosso una storia: ‘tracce di eventi irrevocabili’ che non si situano in un quando e in un dove. Ogni volta che raccogliamo una pietra, ritorniamo un poco bambini. Un modo che abbiamo per uscire dal tempo, avendo in mano un oggetto che è frutto del lento scorrere del tempo.(21)

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Così il giornalista Marco Belpoliti, citando Calvino, introduce il tema delle pietre, pietre che del Cilento sembrano costituire l’essenza. Belle le pietre usate per innalzare templi e torri guardiane del mare, palazzi, rifugi e castelli ma, anche per celebrare riti, lasciare tracce di antiche sintonie con la natura e le sue eterne scansioni. Le pietre meravigliose di punta Licosa. Migliaia e una diversa dall’altra come se a disegnarle fossero stati gli artisti di una bottega e non il mare andando e venendo, piene di linee che le rendono preziosi pezzi di bellezza. Le più lisce e leggere con un antico, tenero gioco che misura abilità, si lanciano sulla superficie dell’acqua. Vince chi imprime loro più forza e più salti. Pietre votive sul monte Gelbison, sacre tracce di un desiderio di eternità. Calendari di equinozi e solstizi, piegate dal bisogno di trascendenza. Pietre che sul Monte Stella genius loci del Cilento, hanno assunto la forma di un piccolo edificio sacro ricavato da una enorme megalite, icona di culto d’ epoca preistorica, e di una piccola cappella, dedicata alla Madonna della Stella e destinata a riti antichissimi, ma che non riescono a raggiungere per intensità la pratica religiosa che si muove intorno all’altra grande “pietra” che è il Gelbison. Attraenti le falesie – costa rocciosa con pareti a picco – che a Palinuro vengono scalate con la guida di sapienti “alpini” che ne mostrano bellezza e difficoltà. 21  Da Marco Belpoliti, L’uomo che sussurrava alle pietre, “La repubblica”, 8 agosto 2016.

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Una grande pietra: Il Gelbison Un nome che in arabo significa Monte Sacro, Gebel-alsan. 1.705 metri sul livello del mare è il quarto monte più alto del Cilento dopo il Cervati, il Panormo, che è la cima più alta del gruppo degli Alburni, e il Faiatella. Situato al centro del Parco Nazionale del Cilento, confina ad est con le foreste di Pruno che dava agli eleati legno per le loro navi. La sua vetta appartiene al comune di Novi Velia e il suo corpo se lo dividono i Comuni di Cannalonga, Cuccaro Vetere, Ceraso, Futani, Montano Antilia e Rofrano. (manca Laurito e Vallo della Lucania) Quando diventa collina, sfocia a mare nella piana di Velia. Dai differenti versanti del Gelbison nascono fiumi e torrenti come il Badolato, il Palistro, il torrente Bruca, il Lambro e il Mingardo. Il santuario del Sacro Monte di Novi Velia si trova sulla cima del Gelbison, edificato dai Basiliani nella seconda metà del dodicesimo secolo su un antico insediamento sacro eretto probabilmente dagli Enotri in onore di Era. Nel Cilento c’è un vero e proprio culto delle Sette Madonne che affonda le sue origini in modelli pre-cristiani che consideravano il numero sette magico-simbolico. Tra le Madonne molto amata e venerata è proprio quella del Sacro Monte che la tradizione indica come “brutta”, perché ha la pelle scura o “schiavóna”, perché forestiera. Il santuario a lei dedicato è l’unico che resta aperto per oltre quattro mesi l’anno dall’ultima domenica di maggio alla prima di ottobre. I sentieri che portano i pellegrini alla vetta sono molti e non tutti agevoli. Pieno di suggestioni e, forse, il più interessante da tanti punti di vista è quello che parte dalla parrocchia di San Marco Evangelista a Futani, punto di ritrovo delle compagnìe (così si chiamano i gruppi di pellegrini). Ogni compagnia ha le sue cénte (una complicata composizione di candele bianche fiori e nastri) e lo stendardo della Madonna. Il cammino

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UNA GRANDE PIETRA: IL GELBISON | 69

è accompagnato dal suono di piccole “orchestre” che alternano le note monotone delle zampogne a quelle allegre degli organetti e coinvolgenti dei tamburelli. Dopo la parrocchia di san Marco, il sentiero si snoda nei pressi del monte Cornìa. Dappertutto siepi profumate di origano e di timo, il giallo delle ginestre e … i maestosi castagni secolari che regalano un percorso di rara bellezza segnato anche dal profilo semplice e, per questo, bellissimo dei caprarizzo, ripari per gli animali che si muovevano da un pascolo all’altro. Costruzioni, pezzi del paesaggio, che sembra averli generati tanto gli sono intime. Resistono e, qua e là, costellano colline e montagne. Hanno i muri a secco fatti di pietre trovate nel luogo in cui sono stati innalzati e sono coperti con una trama di travi di legno e di felci che accompagna la falda parallela al pendio. Simili ai caprarizzi, le passolare sono altrettanti pezzi di paesaggio, spesso trasformate in case. Adibite all’essicazione dei fichi, godevano di ampi spazi assolati per il giorno e stanze asciutte per la notte. Costruite con pietre locali tenute insieme da un millimetrico gioco di incastri. Il Monte Gelbison d'inverno

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Le comunità vegetali, il paesaggio umano e la cultura materiale

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72 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

Il Paesaggio

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Il paesaggio porta il segno prevalente del Medioevo con le case, i castelli, le torri, le mura di cinta che sembrano aderire a tutte le pieghe del territorio che le ospita. Quelle sue onde di pietra che rendono insieme impervio e ospitale, repulsivo e attraente il paesaggio cilentano. L’ulivo, il mandorlo, il gelso, la vigna, l’orto, i muretti di pietra che segnavano i confini e gratificavano lo sguardo con le loro rigorose geometrie e armonie cromatiche, erano il frutto di una strettissima connessione fra le culture delle comunità e il paesaggio. La rottura di questo legame ha impoverito individui, geografie, sentimenti. E il Parco Nazionale ha favorito la formazione di un senso di appartenenza e di orgoglio per sostenere e produrre un radicato processo identitario, che potrebbe funzionare più di ogni norma di tutela per la conservazione attiva di un meraviglioso patrimonio storico e ambientale. Lo spopolamento progressivo e inarrestabile e l’invecchiamento dei “superstiti” che hanno ferito il Cilento, soprattutto interno, lo hanno impoverito e lasciato all’incuria e all’abbandono, facendo dimenticare coltivazioni e abitudini, cancellando preziose memorie. Le case, i palazzi nobiliari, le passolare, i piccoli cascinali, le nevere di pietra che del paesaggio sono parte bella e significativa, esasperano il senso di solitudine, dando spazio a una triste dimensione estetica, con scale esterne dalle forme elicoidali, mansarde, giardini esotici, nanetti in cemento colorato. Non è difficile per chi attraversa i paesi vedere le tracce di un individualismo accattone che non considera il paesaggio come una ricchezza collettiva e che riconosce valore solo alla parte che ha recintato. Allo sconforto offre argine significativo la diffusione di una sensibilità impegnata a contrastare l’abbandono creando per le ragazze e i ragazzi occasioni per restare e per gli anziani luoghi di incontro e di valorizzazione del loro prezioso patrimonio di memoria, delle virtuose abilità,

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IL PAESAGGIO | 73

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della loro lingua, testimone di pratiche e di una straordinaria cultura materiale che nominava l’appartenenza e generava identità, colture, stili di vita. La guerra tra chi dissipa e chi, senza nostalgie regressive, conserva, è guerra aperta e incerti ne sono gli esiti offerti a chi attraversa questi luoghi ancora pieni di bellezza. Una guerra che tenta di vincere chi anima iniziative “lente” e rispettose interpreti del passato, reso dinamico da un uso che ne valorizza le tracce senza farlo divorare ed estinguere in una inutile sagra. E qui torna l’auspicio dell’incontro tra chi viaggia e chi abita, decisivo per le sorti dello scontro tra chi vuole e persegue comunità che ibridano il presente con il passato, la modernità con la tradizione, e chi cede acriticamente alla omologazione tagliando parole, e ricordi. Creando deserti. Realizzando, come in tutti, o quasi, i paesi del Cilento si è fatto, molti spazi destinati ai bambini e alle bambine con scivoli prefabbricati, senz’anima. Prigionieri di un’idea d’infanzia che toglie al gioco la fantasia, la scoperta, il rapporto con la natura, con gli animali. Andare in una piccola stalla di pietra riservata al riparo notturno delle galline e scorgere tra la paglia la macchia bianca di un uovo è un viaggio impagabile, probabilmente più intenso di qualsiasi Gardaland o della più moderna playstation. La natura e la cultura, i loro fortissimi reciproci rimandi, possono produrre relazioni inedite e moderne, efficaci forme di identità collettiva che le tracce della storia e la condivisione di abitudini generano. Uno dei modi per attraversare e assaporare con lentezza il Cilento è seguire in bicicletta “La Via Silente”, un percorso meraviglioso che, in poco meno di 600 km, suddivisi in 15 tappe, attraversa l’intero Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. Sulla Via Silente si pedala per gustare il tempo, per avvertire la realtà con tutti i sensi, per scoprire quel Silenzio che non è assenza di suoni ma qualità di ascolto. Le tappe disegnano un percorso che non lascia niente inesplorato. (www.laviasilente.it)

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Il Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano e Alburni. La geografia delle emozioni Nel 1995, per la straordinaria relazione presente sul territorio tra i beni culturali e i beni naturali e per la complessità e la grande varietà degli ambienti, si riconobbe gran parte del Cilento e del Vallo di Diano come Parco Nazionale. Poi, nella primavera del 1997, l’inserimento nella prestigiosa rete delle riserve della biosfera, sottolineò la originale feconda relazione creatasi nel tempo tra abitanti e ambiente. Non tutti furono felici. Opposizioni spesso legate ad interessi di parte e a paure per vincoli e impedimenti alla speculazione edilizia, animarono un dibattito che poi il tempo ha fortunatamente spento, contemporaneamente all’indebolimento delle idee che avevano “preteso” la definizione del Parco. Direzioni forti e significative si sono alternate con direzioni deboli, guidate da una pratica politica che assegna le cariche non per competenza ma per appartenenza. Ingenti risorse sono state utilizzate spesso senza un’idea di sistema capace di sfuggire alla logica del giorno per giorno. La riduzione drastica delle risorse sopravvenuta negli ultimi anni rende complicatissimo, se non impossibile, la fuoriuscita dalla logica del quotidiano e della sopravvivenza. Gli abitanti e le abitanti del Parco non svolgono, se non in rari casi, un ruolo attivo e propositivo e inseriscono il Parco nel loro orizzonte, solo se svolge l’antico collaudato compito di erogatore di sussidi. Le Comunità montane, tracce consistenti di un virtuoso decentramento amministrativo ora pervaso da una profonda crisi (e tante ne sono le ragioni), sono state identificate come destinatarie di importanti deleghe amministrative, presidi soprattutto della tutela del territorio.

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IL PARCO NAZIONALE DEL CILENTO VALLO DI DIANO E ALBURNI | 75

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Molte le contaminazioni, che fecero di questo che geograficamente è il centro del Mediterraneo, uno straordinario crocevia dove le civiltà si susseguivano e non c’è borgo che non sia costruito su precedenti e vitali insediamenti. Il Parco per estensione è il secondo d’Italia, con un’area di più di 180.000 ettari (quasi tutta la parte meridionale della provincia di Salerno), ricchissimo di specie vegetali, e ha come simbolo la primula palinuri vecchia di due milioni di anni, forse prima migrante, che vive su pareti rocciose apparentemente inospitali che le assicurano una vita rigogliosa.

Cilento: Capo Palinuro

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76 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

 LE COMUNITÀ VEGETALI di LUIGI VICINANZA

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A

ttraversare il Cilento è un’esperienza vivace. La monotonia è una sensazione sconosciuta. Il merito è di un paesaggio mutevole nello spazio di brevi tragitti, grazie a quell’incastro unico tra montagna e mare. È vero, il viaggiatore è quasi sempre rapito dagli scorci che gli si aprono davanti, dagli antichi centri abitati, dalla ritmica successione di campi, pascoli e natura selvaggia. In uno scorrere lento destinato a spegnersi felicemente nei rituali della convivialità locale. Ma la vegetazione, compagna fedele dei cammini cilentani, certamente ammirata e benvoluta è per gran parte delle persone solo un elegante sfondo al proprio passaggio giornaliero o vacanziero. È simile alla sensazione che si avverte nelle affollate strade delle metropoli: rassicurati dalla non-solitudine, si è invece immersi in una massa indistinta di umanità di cui non si conosce nulla della sua ricca diversità e delle sue singole storie. Leggere e comprendere la vegetazione cilentana significa invece scoprire un insieme di comunità vegetali. Distinte e dotate di una fisionomia unica quale espressione di un adattamento al suolo, al clima, all’acqua, ai declivi, alle rocce e forse ai capricci dell’ Uomo, con cui condivide (e si divide) da millenni questa terra del Mediterraneo. Tra avanzamenti, arretramenti e precarie alleanze. Le comunità vegetali più isolate e indisturbate sono certamente le praterie delle vette e le maestose Faggete che dominano i Monti Cervati ed Alburni. Faggi ordinati ed altissimi sotto i quali compaiano sporadici agrifogli e volatili fioriture primaverili. Si avanza poi verso le fitte boscaglie di latifoglie.Animate da Frassini, Aceri, Ontani, Biancospini scultorei e monumentali Peri selvatici. Scendendo di quota o in direzione di

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LUIGI VICINANZA  LE COMUNITÀ VEGETALI | 77

versanti man mano più caldi si riduce la presenza delle specie citate. E compaiono prepotenti le querce: l’aristocrazia della Flora. Tra i cui ranghi, a queste latitudini, troviamo l’ inossidabile Leccio, le discrete e numerose Roverelle, gli slanciati e solitari cerri. Circondati da biancospini, ligustri, sanguinelli, rose canine, alberi di Giuda, sorbi, prugnoli e molti altri arbusti, in un groviglio impenetrabile. Spesso avidamente soverchiati dal vorace Smilax, una liana detta in gergo stracciabrache, utile appellativo valido più come avvertimento che segno di identità. Nell’ avvicinarsi alla costa, i boschi misti iniziano a contrarsi. E si lasciano assediare dalle comunità di piante coltivate. L’ agricoltura chiede il suo tributo alla vegetazione spontanea sottraendole terreno in cambio le affianca la nobile compagnia degli oliveti. Ora ordinati e produttivi, ora monumentali, talvolta abbandonati e condannati ad un aspetto selvatico. Magari consociati ai mandorli o ai carrubi nelle zone più calde. Orgogliosi relitti di una ruralità arcaica. Alberi e arbusti sono tasselli fondamentali delle comunità vegetali ma il “popolo” più vario e numeroso sono le specie erbacee, la componente principale della ricchissima biodiversità vegetale del Cilento. È una trama verde molto articolata. Le piante sono lettere di un alfabeto, unità generative di molteplici linguaggi della natura. Chi vuole, ha l’occasione di una facile lettura. Grazie ad un agevole cammino che parte ai piedi di S. Severino di Centola, il paese fantasma. Ha una posizione strategica, perché è al centro di un lungo tracciato su cui si distendono gran parte delle comunità verdi del Cilento. È quasi come un asse espositivo della flora locale. Da qui muovendosi in direzione nord-est, su sentieri o su strada (non importa quale sia il mezzo e il tempo) si risale verso il Cervati. L’ incontro con le comunità vegetali descritte è immediato. E lo è anche con le comunità umane. Seppur ridotte, ormai annidate nei piccoli paesi lungo il tragitto, che dopo secoli, sembrano abdicare gli spazi a favore della flora spontanea.

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S. Severino è uno snodo. Alle spalle ci sono le infrastrutture verdi più familiari all’immaginario collettivo ma è davanti a se, in direzione di Palinuro, che la vegetazione muta le sue forme di aggregazione in una configurazione unica: la macchia mediterranea. È varia la macchia che ricopre i rilievi in direzione di Marina di Camerota, come quella che riveste il Monte della Molpa, padre dell’ Arco Naturale. È ancora multiforme lungo i pianori e i declivi che dal Monte di Luna portano a Baia Infreschi. Mentre lungo la strada che da Palinuro arriva a Ceraso è facile notare lungo pendii di colli un po’ più interni che guardano il mare, la coperta di macchia di erica. Spesso interrotta da monumentali esemplari di Sughera. La macchia è un intricata formazione arbustiva di specie sempreverdi. Copre soleggiate pareti rocciose di colline e monti costieri o di piccoli e medi rilievi ad essi retrostanti. Le macchie sono una degradazione della foresta mediterranea. Strutture ormai residuali in tutto il bacino del Mediterraneo, scomparse per fare spazio alle coltivazioni o per azione degli incendi. La natura ha ricolonizzato gli spazi perduti con piante pioniere forti e capaci di adattarsi ad un ambiente molto diverso da quello originario. Battuto da venti sferzanti, bruciato dal sole e con terreni impoveriti. A seconda del tipo di suolo e dell’esposizione, la macchia ha una composizione floristica molto variabile. Specie altrove arboree, qui assumono una conformazione arbustiva come accade soprattutto per il leccio. Eppure se lasciata crescere indisturbata, molto specie tenderanno a rialzarsi come accade al leccio stesso. Gli altri protagonisti della macchia sono i grassi cuscini di lentisco, gli aromatici cespugli di mirto, i rigorosi getti delle filliree, le cupe masse dell’alaterno, le palizzate di erica, i robusti olivastri, i colorati corbezzoli e il balsamico ginepro fenicio. Ognuna di queste specie può formare anche macchie più o meno pure, mostrandosi talvolta prevalente su altre specie o in combinazione tra loro, generando va-

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Baia di Porto Infreschi

Uno dei tanti rami dei fiumi cilentani

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80 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

riegate tavolozze di forme e colori. Molte delle specie citate non sono quasi mai confinate in una comunità piuttosto che in un’altra ma tendono a presentarsi con frequenza variabile in ognuna di esse. Come accade per esempio al lentisco, presente dalle boscaglie alle macchie. In un destino condiviso insieme ad altre specie, dal mirto alla fillirea. È la dimostrazione che non è la singola specie ma il modello di associazione e formazione tra le specie a rendere unica la Macchia sotto il profilo paesaggistico ed ecologico. A volte essa confina, con tentativi di reciproca incursione lungo i loro stessi margini, con altre comunità vegetali. Le Pinete, di origine sempre antropica ma perfettamente naturalizzate e le praterie di graminacee in cui domina incontrastato l’ ampelodesma. Più noto come spaccamani, per quell’ attitudine tagliente delle sue foglie lineari, quando improvvidamente le si lascia scivolare tra le mani. Eppure, questa pianta, dal ciuffo elegante e mai china ai cambi del vento è legata in maniera profonda ai popoli costieri del Mediterraneo. Materia prima per impagliare sedie, per fabbricare corde, per legare le viti. I vecchi, da questi parti, che conservano una memoria artigianale ne parlano con riverenza quasi religiosa. Una declinazione della macchia, quando è particolarmente degradata è la gariga. Occupa suoli ormai ridotti, ricchi di rocce affioranti. È un altra comunità vegetale, la più estrema e per certi versi la più sorprendente. Cespugli ancora più piccoli, tappezzanti, spinosi, adatti a condizioni difficilissime. Annovera tra le sue file il rosmarino strisciante, cisti, lavande, timi, salvie, elicrisi, camedri, ginestre spinose ed euforbie. Rispetto alla macchia c’è una maggiore disponibilità di spazi liberi tra i cespugli. Condizione che rende agevole l’occupazione di erbacee perenni o annuali dalle fioriture sorprendenti ed inaspettate come le orchidee o gli asfodeli. Per la biologia vegetale le macchie e le garighe, rappresentano come già detto una condizione di degrado della vegetazione. Spiegazione scientificamente

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LUIGI VICINANZA  LE COMUNITÀ VEGETALI | 81

corretta ma che imprime una aura di negatività agli ambienti descritti. Nella percezione reale è esattamente il contrario. L’ attesa immagine arsa e siccitosa dei paesaggi e degli ecosistemi mediterranei è solo un illusione. Una visione distorta. La quantità di colori, profumi, forme è pressoché indefinita. I colori in particolare non sono solo appannaggio delle fioriture, come banalmente si è portati a pensare. Tra l’altro sono molto abbondanti e varie, distribuite lungo le stagioni. Le successioni cromatiche si muovono fluide tra la vegetazione e gli ambienti senza soluzione di continuità. Forse è il caso di parlare di colore degli ecosistemi. Impossibile non rimanere stupiti dai colori delle roccaglie, degli arbusteti abbarbicati sulle falesie, degli oliveti su terre rosse, le radure e i ricoveri in pietra abbandonati, le garighe bruciate dal caldo estivo e lussureggianti in primavera, il giallo vario delle dune sabbiose, l’alternanza di chiaroscuri sulle scogliere per l’intermittenza delle onde marine. È un’ esplosione di vitalità e di variabilità che nasce dall’attitudine delle piante a gestire la disponibilità di acqua. Anzi è soprattutto la sua assenza ed occasionale presenza a generare questi scenari. Oltre le piante singole, oltre la botanica “semplice”, si scorge un ambiente modellato dall’acqua. In un lavoro di sottrazione e conservazione di se stessa scopriamo infinite tonalità in tutti gli elementi che lo compongono. È un mondo vario e vivace lontanissimo da un percezione di desolazione e deserto. Facile conclusione a cui si sarebbe portati a pensare dinanzi all’ esclamazione “Qui non c’è acqua!”. Leggere la macchia mediterranea ci porta a comprendere le trame con cui la natura le costruisce. Citando Fritjof Capra si tratta di un vero e proprio ecoalfabeto. Tra i numerosi linguaggi, ritroviamo il linguaggio dell’ adattamento che sa raccontare delle strategie di resistenza, tolleranza e cooperatività delle piante tra esse. Un lessico che fornisce utili indicazioni per la coltivazione sostenibile in agricoltura o del verde di città. Bagaglio utile a sviluppare efficaci tecniche di pianificazione e

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82 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

di gestione delle risorse naturali. Ma il linguaggio più importante della macchia è l’immaginazione. Immediatamente attivata quando la si attraversa. Provate a scendere verso Punta Iscolelli o verso la spiaggia del Marcellino. In un alternanza di macchia e gariga tra l’odore acre degli elicrisi, i tentati graffi delle ginestre spinose alle caviglie, le balsamiche fronde dei rosmarini. La mente andrà altrove, pensando ai mille usi di queste piante, al loro legame con la tradizione e magari ai vostri ricordi personali. Ed in maniera tentacolare crescerà una maglia di collegamenti con altre vicissitudini umane qui svoltesi. Comparirà il fortino militare, la torre di avvistamento, gli antichi terrazzamenti, i ricoveri dei pastori, le immagini della flotta di Enea, di mercantili romani, di pirati, di contadini, di immigrazione e fatica. Le piante della macchia sembrano quasi dei proiettori vivi di scene della storia degli uomini, che si attivano al nostro passaggio. Nell’era della realtà aumentata, totem della rivoluzione digitale in corso, la macchia sembra l’arcaico alter ego dei dispositivi che aumentano la nostra percezione della realtà raccontandoci più che di altre comunità vegetali le relazioni tra l’uomo e la biodiversità, fortissime nel Cilento, dove forse ad un certo punto della storia nessuna delle due parti poteva prescindere dall’altra e la macchia stessa è tale nel suo fascino e nella sua ecologia proprio per questo connubio. Lasciare indisturbata la macchia, proteggendola dagli incendiari e dagli speculatori, è un impegno fondamentale delle comunità locali e dei ricercatori. E anche degli artisti. Perché in fondo è come preservare la più rara delle cineteche.

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ASSUNTA NIGLIO  CONSERVARE PER IL FUTURO | 83

 CONSERVARE PER IL FUTURO di ASSUNTA NIGLIO

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U

n prodotto della terra che scompare è una perdita inestimabile per tutti noi, per tutta la Comunità umana. I fiori, i frutti e poi le abitudini, i riti sono sedimentazioni secolari, tappe del rapporto viventi-paesaggio-natura, che fanno sì che ogni area geografica abbia le sue specialità, il suo linguaggio. Il nostro Paese è certamente una delle riserve più importanti del mondo. Da tutti i punti di vista. A cominciare dal panorama monumentale, dalle città, per arrivare alla natura. In una sola regione si trovano specie differenti frutti di ambienti, temperature, legami che si sono generate nel tempo grazie a particolari congiunture. Così il bergamotto rigoglioso segna il profilo di aree della Calabria, il cappero orna i muri di tanta parte del Mezzogiorno e le orchidee crescono differenti e spontanee nella valle che prende il loro nome e che ne offre tantissime specie. Per questo è nato Il progetto “Terra Madre”. Una rete di agricoltori, allevatori, pescatori, trasformatori, cuochi che con la loro visione e i loro saperi lavorano per promuovere una nuova gastronomia, fondata sulla tutela della biodiversità, la protezione dell’ambiente e il rispetto delle culture e delle tradizioni locali. I nemici di Terra Madre sono tanti e soprattutto è diffusa la “cultura” che ritiene inesauribili le risorse naturali e considera la terra solo un oggetto di dominio e non una componente essenziale delle nostre vite. L’azione conservativa deve anche difendersi da un atteggiamento ideologico e regressivo. Rispetto, significa, infatti, tener conto di tutte le variabili che producono colture e culture, assecondarne le virtuose, e fare dell’ambiente naturale la scena delle nostre vite, l’interlocutore delle nostre azioni.

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84 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

La conoscenza dei cicli naturali e il rispetto del tempo sono altrettanto essenziali e la scuola può avere un ruolo fondamentale per diffondere l’amore per l’ambiente e la consapevolezza di quanto antiche siano le abitudini. Di quanto lontane nel tempo siano le ragioni di una specialità. Il Cilento e, più in generale, l’area del Parco Nazionale che include gli Alburni e il Vallo di Diano, da questo punto di vista sono un esempio straordinario e ricchissimo. Dalla costa all’interno è un susseguirsi di bellezza e rarità oltre che di abitudini che hanno anche nel linguaggio il loro riscontro. L’esempio dei pomodori è molto significativo. Molte le specie coltivate Tra queste una autoctona: il piennolo giallo. Un grappolo colorato e costruito con antica abilità che ornava balconi e verande. Una lunga maturazione, la buccia spessa e dura, il sapore intenso e aspro, ne provocavano un uso fuori stagione dentro piatti come l’acqua sale, l’insalata con le alici salate che, accompagnata col pane biscottato, è uno scrigno energetico. Mille sono i suoi possibili usi dalla pizza cotta nel forno a legna ad essenziali sughetti per condire la pasta o per insaporire, per esempio, il baccalà che è stato cibo povero fino a pochi anni fa. Fino a quando, la scoperta del suo sapore e delle sue qualità organolettiche, ne hanno fatto un prodotto dell’alta ristorazione facendone, ovviamente, lievitare, come spesso accade, il prezzo. Anche nell’area vesuviana c’è un prodotto simile e ormai conosciuto in tutto il mondo. Un prodotto invernale a lunga maturazione e dal sapore originale. Differisce la forma rispetto al cilentano che è rotondo e non a punta come, invece, è il vesuviano. La natura va rispettata e assecondata in un rapporto dinamico che ne accentui il ruolo essenziale che essa ha per noi abitanti spesso inconsapevoli di questa meravigliosa terra.

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GLI ORTI E LA CULTURA MATERIALE | 85

Gli orti e la cultura materiale “Se non hai un medico, la felicità, la quiete e la dieta siano i tuoi dottori”.

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(Trotula de Ruggiero – Scuola Medica Salernitana XI sec.)

Gli orti sono pezzi di terra fertile sottratti alle asprezze delle pietre e coltivati per rispondere alle esigenze della famiglia e a quella meravigliosa regola dell’autoconsumo che era un inno alla sobrietà e che spesso aveva, come rovescio della medaglia, una dignitosa povertà. Prima il semenzaio, poi le piantine e poi, a primavera inoltrata, la messa a dimora per un raccolto che segnava con i suoi ritmi l’estate. All’alba o al tramonto si arracquava (innaffiava), si puliva, si raccoglieva. Qualche volta arrivava, nefasta, una malattia, un perfido parassita che bruciava e distruggeva lavoro e fatica e la stagione finiva senza il conforto di quella necessaria riserva. Piatti semplici capaci di segnare la memoria con i loro profumi. Biscotti di pane trasformati in capone, acqua sale, pane cotto; erbe selvatiche animatrici di munestre (minestre) con persistenti, piacevolissime sfumature di amaro. E, prìncipi fra gli umili, i fichi, piante benedette che segnano insieme all’ulivo la storia e la civiltà del Cilento. Seccati al sole sui muretti delle antiche passolare, farciti con le mandorle e la buccia di limone, disposti con grande cura nelle teglie nerissime e sottili, messi nel forno a legna, sprigionavano un profumo intenso che accompagnava e distingueva il finir dell’estate. Impacchettati in piccoli fogli di cellophane decorati con una foglia di alloro che ne accentuava fragranza e colore. I fichi, serviti nei secoli per rispondere come naturale fonte energetica alla fame dei poveri, spesso costituivano e sostituivano un pasto. Oggi sono resi preziosi da una lavorazione moderna che accentua la duttilità e la bontà. Molti laboratori diffusi su tutto il territorio del Parco offrono originali e saporite versioni di questo frutto generosissimo. Svetta l’azienza Santomiele

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86 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

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che a Prignano sulle colline che guardano Agropoli e il mare, compone veri capolavori di gusto ed estetici. Tanto belli che quasi dispiace scomporli per mangiarli. Del maiale sacrificato tra dicembre e gennaio, si conservava tutto e per tutte le sue parti c’era una ricetta, un nome (l’intraducibile sfriuonzola, composta da piccoli pezzi di carne, residui del taglio per le salsicce e le soppressate, si cucinava il giorno della selvaggia straziante uccisione del maiale), una tecnica di conservazione sotto sale (la ncantarata – intraducibile), le braciole che servivano e servono per il ragù. Magnifiche le soppressate con il sale misurato con insolita precisione che trasgrediva la regola “a occhio” che, sovrana, governava la cucina, e il camino che ardeva per riscaldare e affumicarle un po’. Trionfi vegetariani erano la munestra sfritta e il susciello, leggero come un soffio e profumato di primavera. Del mare ogni dono si trasformava in sapore impegnativo: le alici salate, conservate in meravigliosi vasi di creta smaltata, gli scorfani, spinosa delizia essenziale per la zuppa, i calamari, da imbottire col formaggio di capra l’aglio e il prezzemolo. Le patelle, prima delle vongole, molto prima, profumavano spaghetti insieme al basilico o deliziavano con il loro sapore intenso, arricchito da una goccia di limone, seduti sugli scogli in riva al mare. Le pizze con il grano, dolci e salate, i panzerotti con la ricotta e la pancetta, le rospe (forse perché brutte), frittelle di pasta cresciuta con un cuore di alice salata, le sosciole (le chiacchiere), le polpette di patate, che a Carnevale riempivano di profumo vicoli e cortili. Il pan di Spagna con il naspro, le pastorelle con le castagne, gli scauratielli con il miele caldo e i confettini. Gli stufaturi, pentole per stufare gli alimenti, che l’uso aveva consumato, l’olio fritto conservato in piccoli contenitori di creta, le uova fresche che si portavano in dono all’avvocato o al parroco perché intercedessero con la giustizia o con Dio, a seconda di precise indiscutibili competenze.

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GLI ORTI E LA CULTURA MATERIALE | 87

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Norme, abitudini, condensati in proverbi, veri e propri trattati di morale. Tante abitudini che non hanno retto all’impatto della modernità che le ha travolte e omologate, diffondendo certamente benessere ma anche povertà culturale, dimenticanze che tolgono alle comunità radici e parole. E sul tema dell’importanza e della forza in questi territori della cultura materiale e della memoria del paesaggio, si muove il bel cortometraggio “Pastorale ciletana”, che il regista Mario Martone, cilentano di adozione, ha presentato all’EXPO milanese nel 2015, che sottolinea la presenza in questa terra di culture legate al mare che convivono con quelle generate dalle colline e dai monti. Usanze e cultura materiale. Stili di vita e abitudini compattate dal termine Dieta mediterranea, allusivo di un benessere che ha diffusa longevità. Con una piramide alimentare che fa riferimento ad un regime prevalentemente vegetariano. Un nome efficace divenuto quasi un marchio, conosciuto in tutto il mondo e che purtroppo non risarcisce – e come potrebbe – le mille perdite di usi e costumi che la modernità ha portato con sé. Una bufala della Tenuta Vannulo

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88 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

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Dieta che è insieme cibi, ricette e stili di vita, tempi e abitudini. E di questo Elisabetta Moro e Marino Niola raccontano nel bel libro “Andare per i luoghi della dieta mediterranea”, delineando un percorso che apre il cuore alla speranza del diffondersi di pratiche virtuosamente conservative. Opulenta e magnifica, la mozzarella di bufala che la piana di Paestum in uno spazio breve che è un vero e proprio chilometro della bellezza, generosa anche di altre eccellenze, produce una gara tra imprese, che vince la Tenuta agricola Vannulo, che trenta anni fa, mise tra le sue prime voci di bilancio la bellezza. Emozionano le bellissime cantine con le quali vignaioli colti e collaudati – Maffini, De Conciliis, San Salvatore, San Giovanni, Rotolo, Marino, Barberis, Magnoni – riprendono i vitigni imponendo il Cilento come terra anche di vini. Aglianico, greco, nomi antichi che si condensano in profumi e sfumature che competono e, qualche volta vincono, con storie e tradizioni di altre regioni italiane.

L’essicazione dei fichi nell’azienda Santomiele

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F. ALLIATA BRONNER  IL GUSTO ‘AMMACCATO’ E MAGNIFICO DEL TRICOLORE | 89

 IL GUSTO ‘AMMACCATO’ E MAGNIFICO DEL TRICOLORE IN CILENTO

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di FRANCESCA ALLIATA BRONNER

C

i sono almeno tre buone ragioni per un viaggio nel Cilento. In qualsiasi stagione dell’anno. Basta seguire il tricolore italiano che in questo spicchio magico di terra (e di mare) di Campania “sventola”, emanando al meglio profumi, sapori e saperi che ben rappresentano il Belpaese. Il Bianco della mozzarella di bufala qui considerata la migliore al mondo; il Rosso del sole, ma anche delle triglie di Punta Alicia, più brillanti che altrove; il Verde del mare che luccica ma anche (e soprattutto ora in grande voga) delle olive tipiche: il mare appunto e il clima della zona (siamo nel Parco Nazionale del Cilento,Vallo di Diano e Alburni) sono complici della produzione di olive speciali chiamate salelle (ne parleremo dopo). In questa area magnifica e protetta il Bianco attrae e conquista nella premiata (e protetta anch’essa) mozzarella un’esperienza che coinvolge il palato e prima ancora, con uguale intensità lo sguardo che si compiace della morbidezza delle linee e del candore dell’aversana o delle treccine o dei bocconcini. Se passa un giorno nutrono la sontuosa lasagna vegetale o i piccoli panini di mozzarella in carrozza. Il Rosso nel Cilento invade i tramonti, le albe, i grappoli d’uva. Ma anche i fondali del mare dove sguazza e sguizza la rossa di Punta Licosa, come la chiamano i pescatori locali: una triglia di scoglio prelibata e rara. Ha una caratteristica colorazione rosso vivo sul dorso, con bande gialle o arancioni lungo i fianchi. La colorazione, dopo la pesca, perde di intensità e può sfumare nel rosa intenso.Vive nello specchio d’acqua tra Oglia-

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stro Marina e Punta Licosa, nell’area marina protetta di Santa Maria di Castellabate, in un fondale ricco di Posidonia oceanica a circa 50 metri di profondità massima. Anticamente per la pesca alla triglia si accedeva in questo tratto di mare, in cui la presenza di scogli affioranti è notevole, col gozzo cilentano, a doppia prua e vela latina o remi: la rete utilizzata prima del tremaglio era quella a maglia larga, chiamata rallo, in cotone. Le reti venivano colorate dai pescatori utilizzando il tannino ricavato dalla corteccia dei pini per far si che si mimetizzassero. Una volta tirate con l’ausilio del manganieddo, oggi chiamato rullo, le reti venivano messe al sole ad asciugare. Le triglie venivano consumate fresche o conservate sotto sale, come le alici.Trattandosi di pesca sostenibile in un’area protetta, questa mitica Rossa di Licosa, è stata inserita nell’elenco dei PAT, Prodotti Agroalimentari Tradizionali, del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Ecco il Verde: “Ulivi, sempre ulivi! In mezzo sono ulivi, come pecore a frotta”, così scriveva nel 1933 il poeta friulano Giuseppe Ungaretti dopo una sua visita nel territorio del Cilento, completamente ricoperto ancora oggi da coltivazioni secolari di ulivi. Ci vuole la proverbiale pazienza dei contadini per fare di un’ottima oliva del Cilento, una stuzzicante oliva sfiziosa ormai divenuta una vera istituzione nella zona del Parco Nazionale del Cilento. Qui, complice un mare meraviglioso che mitiga il clima e crea condizioni ottimali per la coltura, nel corso del tempo si è sviluppata, come dicevamo sopra, una specie di olivo autoctona, conosciuta come salella, chiamata tra i locali anche lioi, licinella, montecidda o salentina. Gli alberi di questa specie sono caratterizzati da chiome folte, di un verde intenso e scuro e foglie lanceolate. Queste caratteristiche di solito sono rinvenibili nelle piante a scopo ornamentale, ma in realtà la salella produce olive carnose e buonissime che donano un olio gustoso con il giusto equilibrio tra note amare e piccanti e dai sentori erbacei e ammandorlati. Non tutte le olive della

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F. ALLIATA BRONNER  IL GUSTO ‘AMMACCATO’ E MAGNIFICO DEL TRICOLORE | 91

salella, però, diventano olio. Le migliori, infatti, le più polpose e succulente, vengono selezionate ad una ad una dagli agricoltori che le utilizzano per trasformarle in uno stuzzichino davvero unico che richiede tutta la perizia e la maestria dei produttori per prepararlo: le olive salelle ammaccate. Protetto nel Cilento anche l’ “oro verde”, l’extravergine d’oliva appunto, recentemente diventato a marchio Dop, che ha una tradizione antichissima. Le leggende narrano che le prime piante furono introdotte nel Cilento dai coloni Focesi, una popolazione di origine greca che su questo territorio stanziò per lungo tempo, anche se in realtà recenti ricerche archeobotaniche hanno documentato la presenza dell’olivo a partire dal IV sec. a.C.. Da allora fino ad oggi la produzione di olio ha continuato a caratterizzare le attività agricole e gastronomiche del Cilento. Nel segno del green e del benessere: nasce infatti sulla costa di Palinuro, che batte bandiera tricolore in excelsis, la vera dieta mediterranea. Perché in Cilento, c’è sempre una ragione in più. Il piennolo giallo cilentano

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92 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

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Cilentane Qui incontrai un gruppetto di donne che tornavano dal lavoro nei campi. Se si ritenevano modelli di bellezza della valle dell’Alento non potevano certo avanzare eccessive pretese. Alcune di loro erano ancora giovani ma l’esposizione costante al sole e il lavoro faticoso nei campi avevano solcato di rughe le loro facce e avevano provocato sui volti un’apparenza di vecchiaia non corrispondente alla loro età. Il clima d’Italia le fa maturare precocemente e a vent’anni hanno già perso quasi del tutto la freschezza della gioventù. Tra le classi più elevate il fascino personale della donna dura un poco più a lungo, ma anche queste ultime, dato che si muovono poco, tendono ad ingrassare e dopo qualche anno perdono l’elasticità e la vivacità della giovinezza. (Craufurd Tait Ramage, intellettuale scozzese, “Attraverso il Cilento.” 1828 – Tra Paestum e Policastro)

Cilentane

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CILENTANE | 93

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Si capisce poco di un luogo, di una comunità, di una cultura se non si ascolta il racconto di quelle che quel luogo hanno abitato, quella comunità segnato, quella cultura generato. I monumenti, le chiese, i templi, i mulini, le case, i fiumi, il mare, le montagne, gli orti portano impressi i segni di un susseguirsi di emozioni spesso mute nella lingua corrente, che si condensano in abitudini antiche ostili all’usura del tempo. Pronte a risorgere all’improvviso, in una parola, in un rito, in una consuetudine. Accade che un volto segnato dall’intreccio del passato e del presente di chi in esso, qualche volta a fatica, qualche altra con inquietudine, si riconosce e a cui affida la testimonianza della propria irripetibile vita, si sveli come la pagina di un racconto. Una storia “qualsiasi” che l’ affetto e la tenerezza dell’ascolto aiutano a diventare parola per dire di quella insensata meraviglia senza ragione che è la vita. Marietta e N’giulina sono certamente le coautrici di un pezzo di questo librino, due delle tante donne che ho incontrato e con le quali ho conversato a lungo, ricostruendo il loro percorso di vita, il ricordo intrecciato al presente, il senso della vita che con la forza di un destino gli si è imposta, consentendo solo alcune deviazioni dalle strade e dai sentimenti consueti, piccole ribellioni, i pochi “no” opposti all’abitudine dell’ubbidienza, alla morale che le escludeva dalla gioia e dalla consapevole partecipazione alla definizione della vita.

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94 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

Molto prima del B&B

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Ospitavano. Sapevano farlo senza che nessun master glielo avesse insegnato, le donne e gli uomini, i ragazzi e le ragazze e le bambine e i bambini che aprivano le loro case modeste e le affittavano alle famiglie di forestieri arrivate dalla città chiedendo altri ritmi, altri sapori, un altro tempo. Accadeva, così, che inondati dalla luce dell’estate che esibiva i fasti del tramonto, si mangiasse tutti insieme all’ombra di un pergolato di uva fragola o sotto la generosa protezione di un albero di noci. In una familiarità non mercantile, antica, spinta dal desiderio di conoscere e di conoscersi che genera anche il più domestico dei viaggi. Più e meglio di tutti, le donne, soprattutto quelle dei paesi sulla costa, sapevano definire un modello irripetibile di ospitalità che meriterebbe una riflessione e, perché no, un virtuoso e produttivo adattamento al presente. Preparavano e apparecchiavano la tavola lasciando sempre aperta la possibilità di condividere le loro spesso povere e poche cose, con un viandante che appariva sulla soglia e diventava ospite. Sapevano pulire e profumare con piccoli mazzetti di garofani giapponesi (una specie di miniatura del carnoso garofano, anticipo dei bonsai che verranno) le stanze delle loro case con i letti altissimi rassettati a prima mattina, con l’orto, “seconda, generosa dispensa” della casa, recintato da gigli colorati, bocche di leone e viole, con le galline loquaci, allegramente monotone e i pulcini che docili le seguivano per esplorare il cortile, imparare a mangiare, sfuggire all’agguato dei gatti e a quello feroce delle volpi. Sapevano con antica abilità fare la pasta di casa la domenica, disporre in perfetta armonia le alici nei vasetti di creta smaltati, conservare i pomodori a pezzi o passati, preparare la sugna, farcire i fichi che il sole asciugava e

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MOLTO PRIMA DEL B&B | 95

il forno dorava, mettere la data di “uscita” delle uova, bollire per un attimo nell’aceto le melanzane condite poi con origano aglio peperoncino e un’onda di “greve” olio di oliva inconsapevole dell’olio di semi che di lì a poco, avrebbe unto, insapore e incolore, fritture e insalate. Poi, preparare la cenere che, senza inquinare e niente corrodere, sbiancava lenzuola e tovaglie, accudire la mucca mentre dava alla luce un vitello grassottello e mansueto. Sapevano alzarsi quando ancora la notte nascondeva le cose, pulire il camino, mettere a cuocere i fagioli, stirare col ferro pieno di carboni ardenti, raccogliere la legna, comporre i sarcini legati con i fortissimi libbani (corde vegetali di notevole durezza). Doppio, triplo, continuo lavoro che toglieva forze e desideri e le faceva vestali di “una civiltà” tenuta insieme e resa possibile dalle loro fatiche e dai loro silenzi, dalle fiabe che raccontavano alle bambine e ai bambini. Dai sacrifici e dai dolori. Sempre ultime, affondate in una marginalità che negava la scuola, imponeva ignoranza, trasformava in destino la rassegnazione. Santa Maria di Castellabate. Le Luminarie per la festa della Madonna

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Una storia, tante storie. Marietta: ricordi e presente “Mettevo nella tasca del mandesino (grembiule), che era come una piccola borsa, qualche fico e un tozzo di pane. Arrivavo prima dell’alba e aspettavo seduta su un muretto che il sole si decidesse a fare giorno. Poi, prima di sera, tornavo a casa dove cominciava l’altro lavoro, i servizi. Tutto mi sembrava giusto perché tutto era stato sempre così e non sarei stata certo io a cambiare le regole. Ho rispettato mio marito. Il primo e il secondo e ho cresciuto insieme i figli dell’uno e dell’altro senza dispiacere, con l’affetto. Facevo l’orto e portavo le primizie alla signora del palazzo che contava la sera le mele sull’albero per vedere l’indomani se ne mancava qualcuna. Temeva che io o i bambini l’avessimo rubate. In paese ci conoscevamo tutti e ci aiutavamo. Certo non eravamo tutti buoni. La cattiveria l’ha inventata Dio e Moscetore cilentane

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UNA STORIA,TANTE STORIE. MARIETTA: RICORDI E PRESENTE | 97

sta dentro di noi, dobbiamo riconoscerla e cacciarla. Ma non tutti ci riescono. Io ero arrivata a poco più di 16 anni con la corriera dal mio paese per sposare uno di qua. Facemmo una festa piccolissima con i dolci e il rosolio. Qualcuno cantò una canzone antica. Senza riposo. Senza viaggi che non sapevamo che cosa fossero. C’erano alcune ragazze che andavano a lavorare nelle risaie in Piemonte. Raccontavano di paesi lontani. Di dormitori comuni. Di canzoni cantate per dimenticare nostalgia e fatica. Di padroni severi che le trattavano come cose senz’anima. In paese non c’erano botteghe. Facevamo tutto in casa o scambiavamo i nostri prodotti con quelli delle altre. L’acqua bisognava andarsela a prendere. Mi legavo una scolla in testa come un piccolo cuscino e ci appoggiavo la moscetora(22) che al ritorno traboccava ad ogni passo. Al fiume facevamo il bucato spesso tutte insieme. Nessuna era andata a scuola e io avevo imparato solo a fare la mia firma che mi sembrava non mia e che mi veniva sempre differente. Poi la mia pronipote dieci anni fa, tornando da scuola dove frequentava la quinta, mi ha detto: “adesso impari a scrivere bene” e tutti i pomeriggi facevamo questa lezione. Mi è piaciuto molto e ora se non avessi l’artrosi che mi tormenta le mani potrei firmare diritto. Non sono mai stata al mare, non l’ho mai visto. Solo una volta mi hanno detto che se guardavo bene, in fondo, avrei visto che luccicava. Ho detto di sì per farli contenti ma non lo vedevo. Ho avuto una figlia che è morta di parto. Il sangue usciva come un piccolo torrente e niente ho potuto fare. Non mi sono disperata. Non ne ho avuto il tempo perché aveva lasciato due bambini che ho dovuto crescere e che mi sono carissimi. La ferita del dolore però non si chiude mai e qualche volta ancora la sogno che mi chiama e mi chiede aiuto. Ho paura della morte? No. Mica posso stare sempre qua!”

22  La moscetora è un’anfora di terracotta. Ne esistevano di due tipi, una panciuta con la bocca larga e l’altra più affusolata, la mmommola, con la bocca larga poco più di una bottiglia d’acqua.

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Nel 1950, il pranzo di N’giulina È la festa della Madonna dell’Assunta. Ieri alla fiera ha comperato un maialino che crescerà fino a dopo Natale. Si è misurata un paio di scarpe. Le piacevano ma costavano troppo. Quelle che ha nascondono a stento i segni del consumo, le farà risuolare subito dopo la festa. In paese, la strada che porta alla chiesa è piena di luci. Le hanno montate con corde e scale. Sono fiori colorati che fanno sembrare belle la via e le case. Il parroco dice tre messe. L’ultima insieme all’abate che benedice tutto e tutti. Ha cantato durante la messa, prima della comunione che le fa venire sempre da piangere quando si sente il campanellino che il sagrestano agita per chiamare alla preghiera e al silenzio, “Bella tu sei qual sole, bianca più della luna e le stelle le più belle non son belle al par di te”. Chissà se la Madonna a sentire la sua voce si convince ad aiutarla e a farle la grazia che le chiede da tanto, dimenticando i peccati che pure ha commesso magari solo col pensiero. Tornando a casa, appena fuori dal paese, si è tolta le scarpe che, anche se sono vecchie, le fanno sempre un po’ male. Poi così le consuma di meno. Prima di andare alla messa aveva preparato tutto. A tavola ci saranno la madre del marito, che sta sempre con loro e che passa il tempo a giudicarla, la cognata e il cognato, che abitano nel paese vicino, e un lontano parente che è tornato dall’America e che si fermerà ancora qualche mese nella casa che si è costruito vicino all’orto. Non si siede quasi a tavola. Va avanti e indietro e subito, quando stanno ancora mangiando, lava i piatti, li asciuga e li rimette nella cristalliera. Ha fatto un pan di spagna con 10 uova. C’è sempre la porzione per mammarella, la nonna malata che non la riconosce e che le dice buon giorno e buona sera, con rispetto, come se fosse la maestra della scuola che ogni tanto viene a dire un

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NEL 1950, IL PRANZO DI N’GIULINA | 99

rosario con loro. Mammarella a un certo punto ha cominciato a non ricordare la strada di casa e più di una volta si è perduta in mezzo al grano. Il medico ha detto prima “che non era niente”, poi che doveva mangiare più carne. Intanto mammarella una mattina si è messa sotto le coperte nella sua stanza con il bambino dentro a una bolla di vetro sul comò. E non si è più alzata. Si lamenta. Poi sta zitta per un po’. Poi riprende a lamentarsi e, qualche volta, sembra che pianga. A lavarla si capisce che è dimagrita che non pesa proprio più. Nella stanza di mammarella ogni tanto entra una gatta, miagola e salta sul letto. Si accuccia per qualche minuto poi, al primo rumore, scappa in giardino e si nasconde chissà dove. Era la preferita di mammarella. La seguiva dappertutto e la mattina si metteva davanti alla porta e aspettava che mammarella si alzasse. Adesso sembra che venga solo a salutarla, ogni tanto. La sera, prima che si fa notte, senza mettere la tavola, prende un bicchiere di latte col pane duro o un poco di pane con due pomodori, l’olio e l’origano. A letto, prima di addormentarsi, recita qualche requiem aeterna per quelli che si sono avviati, poi pensa a tutto quello che domani dovrà fare. Più o meno le stesse cose di oggi. Solo che oggi ha fatto un pranzo più lungo. Prima ha tagliato una soppressata che aveva conservato dentro l’olio proprio per il giorno della festa della Madonna. Dopo la soppressata ha messo a tavola la piatta colorata con al centro disegnato un gallo con la cresta rossa. Dentro la piatta (grande piatto rotondo di creta, dipinto a colori vivaci, molto usato per asciugare, al sole dell’estate, la passata di pomodoro che diventa un concentrato profumatissimo) c’erano i fusilli pieni di salsa e, in un altro piatto, la carne del ragù e le patate. Infine il dolce. Tutti hanno mangiato tutto. E lei, forse, è felice.

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100 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

Pamela. La politica per cambiare

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“so nato a lu ciliento e me ne vanto” (Canzone popolare)

Ad andarsene dal Cilento non ci ha mai pensato, neanche quando si è iscritta alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Fisciano alle porte di Salerno. Ricorda lo smarrimento che ha provato nel diventare una delle tantissime che affollavano le aule. Le sembrava di non essere più lei. Di navigare senza punti di riferimento. Un po’ alla volta, ha capito che non se la sentiva di lasciare le certezze che l’appartenenza ad una comunità le garantiva e ha deciso che niente e nessuno l’avrebbe spinta ad andarsene. La laurea conseguita non era sufficiente per l’ingresso nel mondo del lavoro e soprattutto la concorrenza non le permetteva di aprire quello studio legale che è un obiettivo del suo presente. Intanto con mossa non certo consueta, seppur non rarissima, ha scelto l’impegno amministrativo. La politica come strumento per rendere più bella e più facile la vita ai cittadini e alle cittadine. Senza differenza di … classe, età, sesso e religione. Sostenuta da un largo consenso elettorale, è stata nominata vicesindaco di una giunta che, a cominciare dal sindaco, è giovane e profondamente rinnovatrice di metodi e di stili di governo. La mentalità oscilla fra arretratezze antiche e modernità senza incertezze. Si sente circondata di affetto ma, anche, sempre sottoposta al giudizio, qualche volta non in buona fede. L’essere giovane, carina e donna sono chance importanti, parti di un corredo che contiene anche desiderio di cambiare il mondo e di indicare una strada, quella della cittadinanza attiva, che sola può dare speranza al Sud. Un Sud che Pamela vede sempre più abbandonato dalle scelte nazionali, ma che ritiene si possa ancora “salvare” se esso stesso trova in sé, nella sua storia, nel suo desiderio di benessere, la forza per non farsi né omologare né schiacciare.

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PAMELA. LA POLITICA PER CAMBIARE | 101

Parla con le ragazze e i ragazzi che conosce da quando era bambina. Ne condivide ansie e desideri di fuga. Li ascolta e cerca sempre di aiutarli a non disperare e a partecipare alle scelte dell’amministrazione comunale.

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Il piccolo potere che gestisce, in parte la spaventa, e lo teme perché potrebbe alimentare la presunzione di una superiorità che la separerebbe dalla storia di tutti i giorni di Ceraso. Non ricorda di essere stata mai discriminata come donna e questo le fa pensare che tutto dipenda dalle storie individuali. Sa bene della violenza che subiscono le donne e quando – ascoltando il racconto di un’ultra novantenne, che ha raccolto insieme a tante altre del suo paese longevo – sente di maltrattamenti, soprusi e negazioni coniugali, quasi non ci crede, tanto sono lontani dalla sua vita. Il matrimonio non è delineato sul suo orizzonte che piuttosto è definito dal lavoro e dall’impegno sociale e politico.

 Le donne del Cilento sono piene, come piena ne è la terra che abitano, di contraddizioni. Moderne e antiche, contemporanee e insieme gremite di tradizioni e abitudini sedimentate. Esperienze contrastanti convivono con non poca armonia contribuendo al profilo di un volto pieno di chiaroscuri. Ricordo, come segno di una straordinaria capacità organizzativa e come esempio di sintonia con quanto nelle città più europee del nostro Paese accade, i due incontri delle femministe “radicali” a Paestum sul tema del “Primum vivere”. Tantissime furono le donne provenienti da tutta Italia ospitate con straordinaria efficienza dall’associazione di donne Artemide di Paestum. Le soprannominai “svizzere” tanto mi sorprese la perfetta macchina organizzativa che avevano predisposto e che fronteggiò anche il raddoppio del numero previsto delle partecipanti. Geniale il logo che la vignettista Pat Carra inventò, trasformando il profilo del tuffatore in quello di una tuffatrice.

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102 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

 CAMMINA CAMMINA di VIENNA CAMMAROTA

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L

a via della seta: da Venezia a Pechino. È la prossima scommessa. Il prossimo difficile cammino che mi immagino come un filo che serve per tessere una trama complicata e ricchissima. Le città, le piazze, i boschi e i giardini, i fiumi e i laghi; i bambini e le bambine che dal cortile di una scuola “straniera” mi salutano incuriositi e che, forse, vorrebbero seguirmi. Spesso mi domandano, soprattutto i giornalisti che annotano le mie imprese e le raccontano come si racconta una curiosità, qualcosa che esce dal consueto, che cosa ti spinge? Chi vuoi sfidare? Che cosa vuoi dimostrare? Sono domande che richiedono una risposta lenta. Un racconto che affonda le sue radici nell’infanzia. In quella prima volta che ricordo e che mi fece andar via di casa a sei anni per raggiungere una meta lontana. Ricordo la paura e la gioia. L’allegria della fuga e il desiderio forte che qualcuno mi riacciuffasse riportandomi a casa. Sono sentimenti che tornano ogni volta che mi cimento con un nuovo percorso. Ogni traversata è una traversata materiale e simbolica insieme. Sfido le abitudini, i luoghi comuni che soffocano le donne e che decidono che cosa è adatto a loro e che cosa assolutamente vietato dalla morale, dalle consuetudini e dal … destino. Io dedico quello che faccio proprio alle donne, ai loro desideri minacciati da chi li vede come un pericolo per l’ordine dato. Per gli assetti codificati. Quando sono partita da Karlovy Vary (Repubblica ceca) come fece Goethe tra il 1786 e il 1788, avevo con me il ricordo delle pagine del grande autore.Volevo ripercorrerne le emozioni. Seguirlo verso sud. Ottantadue giorni meravigliosi pieni di scoperte, di difficoltà. Il

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VIENNA CAMMAROTA  CAMMINA CAMMINA | 103

segno di un viaggio che è ascolto e, insieme, assenza di parole. Certo la sfida è molto forte soprattutto quella contro lo stereotipo dell’età. Io non sono una ragazzina e questo dovrebbe – secondo la cultura che ci vuole fragili e che interpreta l’avanzare degli anni come una malattia e non come un modo per cogliere l’intensa bellezza della vita in tutte le sue forme – moderare le mie ambizioni, spingermi a tornare a casa, vicino al focolare circondata da nipotini e acquietata. Non mi sento un’eroina. Indico la strada, una strada, per dare valore e alimentare i desideri che abbiamo senza preoccuparci troppo delle convenzioni che hanno dentro inesorabilmente anche una spinta conservatrice. Quando sono in difficoltà, quando incontro ostacoli improvvisi e inediti per i quali l’esperienza non è sufficiente, mi rivolgo alla Madre terra, alla Natura, e immancabilmente si prospetta la soluzione, si apre la possibilità del superamento. Ero già in Italia nei pressi dell’Aquila quando mi si è parato davanti un tunnel buio. Era l’unica possibilità per proseguire a meno di non scegliere di tornare indietro. Avevo paura, nessuna voce, nessun conforto. Tantissima incertezza. Tanta stanchezza. Ho trattenuto per un po’ il respiro e ho scelto di andare avanti, illuminando la strada con la luce del cellulare. Dopo, quando ho rivisto il sole, quando mi sono lasciata alle spalle quella galleria, ho provato una sottilissima, intensa, sensazione di felicità. Una sensazione che da sola potrebbe essere la ragione profonda dei miei viaggi. Viaggi che faccio anche dentro ciò che mi è più familiare, più noto: il Cilento. Una terra, la mia, che offre panorami mozzafiato. Mare e montagne. Parole e usi antichi. Sentieri impervi e assolate valli piene di fiori rari. Fiumi e gole. Bellezze che mi danno la gioia, ogni volta che le guardo e le attraverso, del nuovo che irrompe e meraviglia.

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104 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

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La cartolina di Virginia Non so spiegarti la ragione di un sentimento che mi accompagna ogni volta che penso al Cilento e alla mia vacanza a Castellabate. Un sentimento che si avvicina alla gratitudine e, insieme, alla malinconia. Grata per tutta la bellezza fatta di parole gentili, chiese solitarie, fiumi e insenature, stelle cadenti, cibi ancora pieni di profumi e sapori, serate nel cortile della casa di Cicerale con la musica della piccola fisarmonica che invitava al ballo e all’allegria. Amicizie che nascevano tra vecchi e giovani, tra chi stava e chi di lì a poco se ne sarebbe andato. Malinconia per la consapevolezza di un incanto che sento irripetibile e che faccio tanta fatica ad archiviare tra le cose belle perché vorrei trattenerne la forza e i pensieri che mi ha regalato. Il Cilento mi ha preso il cuore catturato dalla sua asprezza e dalla sua intatta, nascosta, capacità di accogliere. Non so se mai tornerò. Non so se vincerà il desiderio di vedere tutto quello che non ho fatto in tempo a vedere. So, però, che quando sono partita per tornare “a casa”, ho provato il dolore acuto del distacco da un approdo che non era stato una meta provvisoria. Grazie Virginia Un salotto cilentano

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POI SI VA DA UN’ALTRA PARTE | 105

Poi si va da un’altra parte

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Questo e tanto altro era il Cilento, che come tutto il Sud, era ed è impastato di bellezza e abbandono, ricchezza e abissali povertà non solo materiali. Ma anche questo è ancora il Cilento che attraversa chi va verso il mare, che sembra accontentarsi di una modernità priva di passato e di cercare, nello stesso tempo, strade inedite, sintesi tra passato e presente, modernità e tradizione. Rileggo come sempre si fa, collezionando incertezze e dubbi. Nessun compiacimento. La consapevolezza del limite che una lettura emozionale di un luogo ha sempre. Si enfatizza il passato allontanando le ombre che pure lo hanno abitato e si ci fa guidare dalla memoria assolutoria che dimentica solitudini, sfruttamento, discriminazioni. In quelle case di pietra tenute insieme da un cemento di sabbia che ne mostrava la fragilità senza mortificarne l’austera bellezza, abitava la povertà. Abitavano la fatica, gli stenti, il silenzio delle donne che, come in tutto il mondo, reggevano la piramide, tenevano il filo tra passato e presente, costruivano il futuro insegnando ai bambini la lingua e le parole per dire emozioni e competenze, saperi, gioie, e dolori. In quelle case spesso in silenzio, prigionieri della fame e della disperazione, si ripeteva il dramma dell’emigrazione (migliaia di cilentani hanno conosciuto la strada che li portava in America o nell’Europa del Nord). La malinconia di un distacco che sarebbe durato anni rendendo i figli e le figlie estranei ai padri edili che ricostruivano le città che la guerra aveva distrutto. Materia spesso “docile” per il miracolo economico. Un dramma, l’emigrazione, che ha segnato perfino il paesaggio trafiggendolo con la modernità di case costruite con le rimesse quasi a rappresentare il desiderio di tornare e di fermarsi.

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106 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

Una modernità avara di bellezza. Di quella bellezza che potrebbe accompagnare la speranza di un’inversione e di una “salvezza” che le moderne mansarde sembrano negare. Nella nostalgia di quel passato si può rimanere incagliati sfumandone le contraddizioni. Si può, e, spessissimo si fa, celebrare le abitudini come per esempio quelle alimentari, senza leggere le carenze, senza ricordare i desideri che reprimeva, i bisogni insoddisfatti, le differenze che creava. La cartella di cartone della mia vicina di banco alle elementari nascondeva un biscotto di pane che sedava la sua fame, mentre la figlia del dottore seduta al primo banco mangiava un “formaggino di cioccolata” che a nominarlo dopo tanti anni invade col suo profumo la mia memoria, tanto che se le emozioni si potessero disegnare, lo trasformerei in un acquerello. Il turismo deve sapere di quel passato. Al turista-viaggiatore va raccontato dov’è, perché solo con la memoria si può abitare il presente tenendo aperte e vitali le differenti storie. Ai ragazzi e alle ragazze del Cilento che sono i destinatari delle azioni di oggi, delle scelte, delle parole che usiamo, dobbiamo solo consegnare la capacità di uno sguardo critico e, perciò, fecondo di mutamenti profondi. Andando per paesi e per colline ci si imbatte in pochissime edicole e in nessuna libreria. Un deserto pericoloso che non può essere vinto con il pur utilissimo uso di Internet. La scelta del Parco di diffondere Le casette del libro con l’invito allo scambio (“Prendi un libro, porta un libro!”), sostenendo il progetto che l’associazione Festinalente(23), tra mille difficoltà, ha promosso, è un bell’esempio che apre il cuore alla speranza.

23  Festina lente, con questa esortazione l’imperatore Augusto avrebbe spronato i suoi comandanti. Efficaci, perché veloci e riflessivi insieme. Prudenti e fulminei. Questo è il nome che l’associazione di donne Festinalente, con sede nel Cilento, ha scelto, per valorizzare il paesaggio e la cultura materiale del territorio cilentano e campano.

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LE AUTRICI E GLI AUTORI | 107

Le autrici e gli autori

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Spesso le biografie sono aridi elenchi di date con a fianco gli eventi che le hanno segnate. Niente, o quasi, traspare dell’essenza delle persone. Sacrificata in due righe il senso di una vita, giovane o meno giovane che sia, si allontana. Per questo, dei miei compagni e delle mie compagne di questo piccolo viaggio mi limito a tentare di dare il senso della relazione affettiva che lega loro a me e me a loro. Francesca Alliata Bronner. La cercai a metà degli anni ’90 per ringraziarla di una noterella che invitava a venire nel Cilento. Poche righe piene di autentica ammirazione per una terra che ha imparato ad amare e a descrivere. Da allora non abbiamo mai smesso di sentirci. Conosciamo le pieghe amare e dolci che le nostre vite hanno avuto ed hanno. Scrive per la Repubblica, adora le mozzarelle di Vannulo, sa che cosa è il viaggio e ne è un’impareggiabile narratrice. Franco Arminio. Nostalgia e insieme, il grande desiderio di trovare le parole giuste in poesia o in prosa per raccontare e “salvare” l’Appennino partendo dall’Irpinia d’Oriente, la sua bella terra di cui è certamente il più bravo cantore. Lessi di lui tanti anni fa. Pensai che dovevo ascoltare la sua voce, sentire le sue profezie, sintonizzarmi con il senso che tentava di dare alla sua azione “politica”. Siamo diventati amici carissimi l’uno all’altra. Ci uniscono fulminee telefonate, molta ironia e una grande nostalgia per la bellezza. Vienna Cammarota. Per una come me che ha l’ossessione del tempo e delle tracce spietate che lascia sui volti, spesso senza risparmiare l’anima, questa specie di miracolo è quasi una provocazione. Ha più di sessant’anni, un fisico asciutto e anche le rare rughe che segnano il suo viso sembrano piacevoli decorazioni. Certo cammina, mangia con grande attenzione, sce-

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108 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

glie e cerca continue sintonie con la natura che l’aiutano ad arrivare all’essenziale delle cose, a non fermarsi all’apparenza. Parla poco ma ascoltare i suoi racconti di viaggio è una bella esperienza.

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Tilde Fariello. Un’insegnante con la passione per l’archeologia. Ha seguito l’amore della sua vita lasciando Monte Cicerale per Ascea ed ha partecipato a scavi, ricerche e pubblicazioni su Velia. Domenico Fulgione. È uno scienziato ma potrebbe essere un poeta e, a modo suo, lo è. Ha una prosa leggera senza il peso dell’ideologia e con il sapere raccontato come se fosse un’avventura. Per me è sempre un ragazzo con la sua r arrotolata, la sua passione per la squadra del Napoli, il suo modo unico di essere amico. Non sa dire banalità ma come tutti quelli che sanno cos’è la leggerezza, ne ha fatto una pratica di vita. Una bellissima abitudine che ormai fa parte di lui e della sua personalità senza artificio. Assunta Niglio. Tessitrice paziente di itinerari per promuovere la sua terra. Ammiro la sua passione per la cosa pubblica, per il rispetto della natura, per le cose belle che il Cilento continua ad offrire a chi lo abita. Seguo da lontano le cadenze dei suoi impegni politici e culturali. Ci sosteniamo a vicenda anche senza parlarci. Ci unisce la condivisione dello sguardo che riserviamo ai luoghi che il passato ci ha consegnato. Domenico Rea. Tra i racconti di viaggio che Domenico Rea scrisse non solo per “il Mattino”, questo restituisce emozioni che potrebbero in parte essere a noi contemporanee. Un grande scrittore che coglie anche l’anima delle pietre. Franco Rella. C’era la rivista delle donne comuniste “Donne e politica” che tentava, spesso con originalità ed efficacia, di tenere aperto il dialogo fra il grande

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LE AUTRICI E GLI AUTORI | 109

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monolite di quel partito e il femminismo della differenza. Mi commissionò un’inchiesta sul “Mosaico dell’identità” (il soggetto in quegli anni era terra di battaglia politica fra chi continuava a considerarlo un motore compatto e chi ne celebrava la scomparsa). Franco aveva pubblicato “Il mito dell’altro” con la Feltrinelli e iniziammo un dialogo e un’amicizia che ha resistito alla distanza geografica e alle differenti esperienze. Luigi Vicinanza. Dove io vedo erba, lui mi mostra pregevoli doti botaniche di un fiore giallo, che ho sempre considerato una “inutile” mostra di bellezza. Ha la perizia di un giardiniere e la passione di un botanico. Gabriel Zuchtriegel. Dall’autunno del 2015 dirige il Parco Archeologico di Paestum, ottenendo significativi risultati per un sito bellissimo.

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110 | CILENTO  UNA GUIDA EMOZIONALE DA PAESTUM A VELIA

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Bibliografia Francesco Abate, Storia dell’arte nell’Italia Meridionale, Donzelli, Roma, 2009 Franco Arminio, Cedi la strada agli alberi, Chiarelettere, Milano, 2017 Charles Baudelaire, I fiori del male, Garzanti, Milano, 2015 Marco Belpoliti, L’uomo che sussurrava alle pietre, “La repubblica”, 8/08/2016 Vittorio Bracco, Campania. Itinerari archeologici, Newton Compton, Roma, 1981 Campania. Le guide di Archeo, De Agostini, Milano, 2001 Valeria Canavesi, Nel Cilento, Campania. Ebook, Edizioni di Sofia, Milano, 2016 Piera Carlomagno, La provincia di Salerno, Edizioni dell’Ippogrifo, Sarno, 2004 Luisa Cavaliere, Sotto la giacaranda in fiore. Racconti fantasie e ricordi dal Cilento, Liguori editore, Napoli, 2014 Marina Cipriani, Angela Pontrandolfo, Agnès Rouveret, Le tombe dipinte di Paestum, Pandemos, Paestum, 2004 Carlo de Angelis, Memorie, a cura di Matteo Mazziotti, Biblioteca storica del risorgimento italiano: serie 5, 1908 Francesco De Sanctis, Un viaggio elettorale, edizioni Mephite, Napoli, 2007 Pietro Ebner, Economia e società del Cilento medioevale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1979 Thierry Fabre, Traversate, Mesogea edizioni, Messina, 2001 Wolfgang Goethe,Viaggio in Italia (1786-1788), Bur-Rizzoli, Milano, 1991 Guida del Museo diocesano di Vallo della Lucania, Vallo della Lucania, 2002 Giampiero Indelli, Fulco Pratesi, Cilento. Natura e paesaggi nel Parco, Cairo Publishing, Milano, 2008 Giuseppina Lasco, I santi monaci Basiliani in Lucania. La realizzazione dell’ideale monastico a Viggiano, Le Penseur Editore, Brienza, 2016

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BIBLIOGRAFIA | 111

Pier Luigi Leone De Castris, Paola Giusti, Pittura del Cinquecento a Napoli, Electa, Napoli, 1988 Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di Fabiana Cacciapuoti, Donzelli editore, Roma, 2014 Pasquale Maffeo, Cilento, Guida editore, Napoli, 2006 Elisabetta Moro, Marino Niola, Andare per i luoghi della dieta mediterranea, Il Mulino, Bologna, 2017 C.T. Ramage, Attraverso il Cilento, Edizioni dell’Ippogrifo, Sarno, 2016 Franco Rella, Figure del male, Feltrinelli, Milano, 2002 Franco Rella, Il segreto di Manet, Bompiani, Milano, 2017 Raffaele Riccio, Mangiar sano con la dieta mediterranea. La cucina del Cilento, Atesa editrice, Bologna, 2004 Platone, Parmenide, Laterza, Bari, 2003 Antonella Sparano, Agricoltura,Industria e Commercio in Salerno longobarda in “Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Napoli”, Istituto editoriale del Mezzogiorno,Vol X, 1962-1963 Wislawa Szymborska, Vista con granello di sabbia. Poesie (1957-1993), Adelphi, Milano, 2004 Francesco Volpe, Cultura e storia del Mezzogiorno tra ‘800 e ‘900, Marco Editore, Cosenza, 1998 Virginia Woolf, Diari di viaggio in Italia, Grecia,Turchia, Mattioli 1885, Fidenza, 2011 Gabriel Zuchtriegel, La tomba del tuffatore. Artigiani e iniziati nella Paestum di età greca, Arte’m, Napoli, 2016 Fonte generosa di una bibliografia dettagliata sui differenti aspetti del Parco Nazionale del Cilento Valle di Diano e Alburni, sono sicuramente tutte le pubblicazioni che l’Ente Parco ha direttamente curato. Ad esse si può ricorrere per approfondimenti e notizie. Consulta il sito www.cilentoediano.it

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Per non smarrirsi In auto: l’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria costeggia il perimetro del Parco a Nord e Oriente. Le uscite più convenienti sono Battipaglia per la costa da Agropoli a Palinuro (di qualche anno fa è l’apertura di una superstrada che arriva fino a Sapri e al golfo di Policastro), Campagna, Sicignano e Petina per i Monti Alburni, Sala Consilina e Padula per la valle del Cervati, o per la costa da Policastro a Camerota. Per chi va piano e guarda il paesaggio bellissimo senza aver fretta di arrivare, diverse sono le strade statali da percorrere piene di curve e di asprezze. Molte quelle realizzate senza rispetto per le aree più protette del Parco. Le segnalazioni nel Cilento sono poche e molte volte in contraddizione fra loro. Il conteggio dei chilometri si affida a misteriose unità di misura e spesso la stessa località è indicata in direzioni contrapposte. Meglio affidarsi a google map o ad una cartina. Fino al pomeriggio inoltrato in estate i paesi sono deserti ed è un’impresa ardua chiedere informazioni. In inverno, prima che vinca lo sconforto, vale la pena programmare nel dettaglio mete e strade per raggiungerle. Paestum è ben indicata tanto per chi viene da Nord che per chi viene da Sud. Il santuario della Madonna del Granato, invece, impone un po’ di attenzione. Si incontra sulla strada che porta a Capaccio, posto a 400 metri sul livello del mare, da non confondersi con Capaccio scalo. Paestum ha una stazione ferroviaria che quasi si confonde con le mura della città antica. Ad Agropoli fermano tutti i treni che vengono dal Nord. Anche gli intercity. La variante alla statale n. 18 accompagna la scelta delle strade interne e rende facilmente raggiungibili Pattano, Novi Velia, Vallo, Ceraso, Ascea, Catona e la più lontana Sassano. Serramezzana, invece, è nelle immediate vicinanze della costa che va da Agnone ad Acciaroli.

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CILENTO

Battipaglia

Una guida emozionale da Paestum a Velia

Paestum

Capaccio

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Agropoli Area Marina Protetta

Punta Tresino

Valle de e Orchidee

Torchiara

Sassano

Santa Maria di Castellabate San Marco

Punta Licosa Ogliastro Marina

Area Marina Protetta

Monte Cervati

Castellabate Moio della Civitella

Serramezzana Monte Stella

San Mauro Cilento

Agnone

Pioppi

Vallo della Lucania Novi Velia

Castelnuovo Cilento

Mezzatorre Pollica Acciaroli

Pattano

Ceraso Marina di Casal Velino

Velia

Monte Sacro o Gelbison

Catona

Ascea

Sapri Palinuro

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Una guida emozionale per chi vuole attraversare lentamente il Cilento, la sua natura ancora bellissima, le montagne austere e il mare blu. Comunità vegetali e paesaggi umani, usanze e cultura materiale, memorie e racconti del presente disegnano gli itinerari da Paestum a Velia

ASSESSORATO ALLO SVILUPPO

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