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Italian Pages 262 Year 1998
Cristiano
Castelfranchi .
Che figura Emozioni e immagine sociale
il Mulino
alla compagna della mia vita e ai dolci ruoli di donna con cui mi ha amato e sostenuto
Cristiano Castelfranchi
Che figura Emozioni e immagine sociale
Società editrice il Mulino
INDICE
Premessa
I.
«Homo aestimans»: l'attività valutativa nell'uomo e l'immagine
Il valore dell'uomo: immagine e adozione
37
1.
37 41
Perché siamo esseri sociali
ni dell'immagine
La piramide umana: immagini e gerarchie sociali 1.
Il rango simbolico
2. I diversi componenti del rango simbolico 3. La posizione gerarchica come acquisto di «po-
45
63 63 64
4. L'elaborazione del rango 5. Rango: immagine o autoimmagine?
69 70 73
«Una faccia da ... »: ruoli e immagini
79
1.
79 81 82 84
tere di»
IV.
21 21 30
Valutare per agire
2. Adozione ed evoluzione biologica 3. A che serve una «faccia»: sovrascopi e funzio-
III.
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2. Gli scopi «valutativi»
1.
II.
p.
2. 3. 4. 5. 6.
Tre immagini diverse Immagine del ruolo Immagine nel ruolo Immagine per il ruolo Quali ruoli prescrivono lo scopo dell'immagine per il ruolo? Confronti critici
89 94
5
Indice
V.
In difesa dell' «amor proprio»: le funzioni dell' autoimmagine 1. 2. 3. 4. 5. 6.
VI.
VII.
L'autovalutazione e l'autostima Autovalutazione e valutazione degli altri Lo scopo della buona autoimmagine: in difesa dell' «amor proprio» Influenza dell'immagine sull'autoimmagine Influenza dell'autoimmagine sull'immagine Osservazioni conclusive
101 103 104 118 119 121
Invidia
127
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.
127 131 133 136 138 140 142 143 148 151
Cos'è l'invidia? Cosa si invidia? Invidia, immagine e autoimmagine Perché nell'invidia si prova malanimo Chi si invidia? Il comportamento dell'invidioso Le mosse dell'invidiato Invidia e affini L'ignobiltà dell'invidia Serve a qualcosa l'invidia?
Vergogna
161
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
161 164 169 181 183 194 200
Che cos'è la vergogna Di che cosa ci si vergogna Di fronte a chi ci si vergogna Chi può provare vergogna e chi no I segnali della vergogna Vergognarsi di vergognarsi Conclusioni
VIII. Derisione 1.
2. 3. 4.
6
p. 101
Un tipo fondamentale di «moralistic aggression» La derisione come valutazione negativa di «inadeguatezza» Si deride il ridicolo Il deridere è un «ridere , e tende a tranquilizzare sulla cosa inadeguata e contraria alle aspettative e prescrizioni del gruppo. Il messaggio inoltre è una sollecitazione: esso tende a coinvolgere gli altri, a renderli complici della derisione, a farli ridere con A di B (per vari scopi che vedremo più avanti). Il messaggio verso il deriso tende, come abbiamo detto, a significargli: non vali; sei inferiore; non sei minaccioso/temibile. Con varie utilità che esamineremo a proposito degli «usi» della derisione.
3.2. Gli effetti del «ridere di» Si può «ridere di» qualcuno senza per questo «deriderlo». Ad esempio si può ridere di un bambino piccolo che fa cose goffe o indecenti, ma non lo si deride. Però, anche se non si sta deridendo, il ridere avrà come effetti, tra i ridenti, il sentire la superiorità, il comunicarsi che la «mancanza» di X non è preoccupante, né per noi, né per X, (non è da prendere «sul serio»). Se non si tratta di un «ridere di» affettuoso, bonario (e spesso anche se lo è) gli effetti psicologici su colui di cui si ride saranno di farlo sentire umiliato, inferiore o comunque non preso sul serio, in considerazione. E vi sarà comunque anche un effetto sul suo status, indipendente dal suo sentire, cioè il fatto che egli viene mantenuto o collocato in uno status di inferiorità o almeno di immaturità. Naturalmente le cose sono più complicate di cosl, giacché vi possono essere anche dei vantaggi nella condizione di chi fa ridere. Primo fra tutti l'avere attirato e mantenuto l'attenzione su di sé. Il bambino piccolo può ricercare, ad esempio per ragioni di attaccamento, l'attenzione di genitori e parenti, può voler essere al centro dell'attenzione. Inoltre nel suo caso vi sono altri due vantaggi. I difetti e le mancanze non preoccupanti, e che sono solo un indizio e una conferma del suo essere cucciolo, sembrano far parte della babyishness,
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e come tali suscitare sentimenti di tenerezza («quant'è carino, quant'è buffo, quant'è simpatico!») e di protezione; le sue «presunzioni», in quanto tentativi di crescita, sia pure goffi, suscitano approvazione, incoraggiamento. Inoltre il bambino può avere uno scopo di restare «carino», piccolo e coccolato 11 • Per questi vari motivi egli potrà non solo non essere danneggiato o comunque non soffrire del fatto di far ridere, ma potrà anzi, per una fase più o meno lunga, farlo apposta: fare il buffone. Vi sono motivi per intraprendere il ruolo del «buffone» anche tra coetanei e tra adulti. Infatti, paradossalmente, siccome il ridere.. è una esperienza assai piacevole (sollievo, superiorità, partecipazione) chi fa ridere può essere apprezzato rispetto a questo nuovo scopo: ha il potere di far divertire. Già di per sé certi difetti ridicoli ( se non ci danneggiano neppure indirettamente, cfr. il paragrafo 6) possono suscitare simpatia per il loro carattere innocuo, divertente e di sollievo (per la nostra superiorità), nonché per una contemporanea venatura di commiserazione (cfr. il capitolo nono). Così le persone colla testa tra le nuvole, le persone goffe, quelle molto timide, i ciccioni, i balbuzienti, gli strabici, ecc., possono suscitare per questi loro difetti simpatia. Ma il ruolo del buffone va molto al di là di questo: esso porta a fare apposta cose da ridere e ad accentuare o simulare difetti. Il buffone non solo gode dell'attenzione, o dell'essere pregiato e ricercato perché fa divertire, ma riceve anche la «gratitudine» del gruppo per questa sua capacità. E soprattutto, si consideri che più il suo far ridere è fatto apposta, più sono artefatti gli errori e i difetti, più il ridere non lo svaluta in quanto egli non manca realmente di quei poteri. Anzi ha in più l'abilità di simulare e contraffare.
3.3. Ridere di se stessi Una particolare attenzione meriterebbe il ridere di sé. Esso può essere un'abile mossa preventiva o di contropiede. In un certo senso falsa, cambia le regole del gioco: tu ridendo di te, pur rimanendo vittima (dovresti quindi essere diverso, inferiore, escluso da noi), contemporaneamente aggiri le posizioni e ti metti dalla nostra parte, sei come noi, curiosa 216
mente «superiore a te stesso»! In primo luogo, infatti, se vedi e critichi la tua inadeguatezza, sei già meno inadeguato (analogamente al riconoscimento della propria inadeguatezza implicato dalla vergogna). Secondo, se ne ridi sei abbastanza forte e tranquillo, sicuro di te (altrimenti non potresti divertirti), e sicuro della tua immagine e autoimmagine, sicuro del nostro giudizio o non troppo dipendente da esso. Terzo, condividi i nostri valori, li riaffermi e riaffermi di essere e sentirti parte del gruppo (anche questo è simile alla vergogna, mentre crucialmente diverso è il secondo punto, che si ricollega a quanto detto a proposito della censura sociale del vergognarsi). Quarto, ridendo anche tu, in realtà non si ride più «di te» ma della tua mancanza/difetto, e inoltre cosl facendo in realtà tu la minimizzi, dici che non è cosa grave, seria (non è più di te ma del tuo difetto che «non c'è da preoccuparsi»). Infine, mostri di non offenderti e questo né per indifferenza e sfida verso il gruppo e i suoi valori, né per completa nullità e avvilimento. Da un lato mostri di accettare senza rancore o senza timore eccessivo il giudizio e le sanzioni del gruppo, senza sentirti inferiore; dall'altro mostri di saper vedere criticamente te stesso (figurarsi gli altri!), capacità ritenuta rara e preziosa. 4. Il deridere è un «ridere di» i cui effetti sono lo scopo princi-
pale dell'atto Dei complessi effetti del «ridere di», la derisione conserva e specializza solo una parte: la derisione è necessariamente aggressiva e malevola, anche se non necessariamente tale malevolenza è poi il fine ultimo, ma può essere inserita in comportamenti amicali, tutori*, educativi. E soprattutto può essere finta, per scherzo. I possibili danni arrecati dal «ridere di», gli effetti negativi per l'oggetto del riso, di cui abbiamo parlato, sono appunto solo degli «effetti», o al più sono una funzione biologica del ridere: ma non sono una sua funzione sociale del ridere, o tantomeno la volontà di chi ride. Quando tali effetti diventano uno scopo del «ridere di», e questo è quindi rivolto contro il deriso, si passa allora alla derisione e ridicolizzazione. Si consideri ancora il caso del bambino, questa volta un 217
po' più cresciuto, il quale fa cose ancora «da piccolo» (ad esempio, si bagna o sbaglia a parlare). A questo punto egli non fa più ridere, «non c'è niente da ridere». Può diventare invece oggetto, da parte delle stesse persone che prima ne ridevano benevolmente, di sgridate, punizioni ecc., o anche di derisione. Cosa è cambiato? In primo luogo la sua inadeguatezza contrasta questa volta con quello che ci si attende da lui per la sua classe di età, e per la pazienza ed educazione che già gli è stata dedicata. Contrasta con lo scopo posto su di lui che sia normale o bravo. Questa «delusione» (nonché l'impazienza per le cure che il bambino ancora richiede) può determinare vari tipi di aggressione tra cui la ridicolizzazione. Se si considerano le «prese in giro» dei coetanei, 1a reazione di ridicolizzazione non è frutto né di delusione, né di impazienza, né di rabbia, ma solo della constatazione di inferiorità ed improprietà. Ciò che qui è rilevante è che si passi dal ridicolo (ridere di) al ridicolizzare cioè all'avere Io scopo (sia esso consapevole o no) di provocare gli effetti, le conseguenze nocive del «ridere di». Cosa danneggia esattamente il «ridere di», e cosa vuole danneggiare il deridere? Perché è un atto aggressivo?
4.1. La derisione è una aggressione all'immagine e autoimmagine della persona Un danno a B è 1a compromissione di uno scopo di B; un atto aggressivo* è un atto che ha lo scopo di danneggiare B, cioè di comprometterne uno scopo 12 • La derisione è un particolare atto aggressivo. Essa appartiene a quella famiglia di atti aggressivi che servono a danneggiare dei beni affatto particolari di B: l'immagine e l' autoimmagine. Ricordiamo infatti che deridendo B si ha lo scopo di comunicare (a B e ad eventuali altri) che l'immagine di B presso di noi è compromessa, al sovrascopo di danneggiare l'immagine di B, presso gli altri (o per compromettere la sua autoimmagine). Altri atti della stessa famiglia sono lo sparlare, l'insulta218
re, il mostrare disprezzo, il mettere in ridicolo (anche senza ridere di), ecc. Ricordiamoci che lo scopo dell'immagine non è solo uno scopo strumentale, calcolato da B in vista di un sovrascopo (ad esempio, vestirsi bene per fare «bella figura» o «una buona impressione» nel chiedere un impiego}, ma in molti settori si tratta di uno scopo terminale (fine a se stesso), molto importante per l'individuo, fonte, qualora compromesso, di sofferenza psichica, e legato ad una serie di emozioni e stati d'animo (sicurezza, orgoglio, umiliazione, vergogna, depressione, ecc.}. Ora, la derisione è la comunicazione di una valutazione negativa, e più esattamente di una svalutazione, allo scopo di diminuire l'immagine e l' autoimmagine (ed in particolare la buona immagine e l'autostima di B): a) essa comunica a B la bassa stima del derisore e quindi compromette lo scopo della buona immagine di B presso di lui; b) se è di fronte ad altri, serve a invitare gli altri (ammiccamento) a condividere tale svalutazione e abbassamento dell'immagine di B; e) dato il legame che sussiste tra buona immagine ed autostima, essa porta a colpire anche l'autostima di B 13 • In particolare la derisione colpisce la persona sul piano «gerarchico», in quanto da un lato non semplicemente lo svaluta, ma lo proclama inferiore al suo status, o pretese, o alle aspettative di ruolo, e dall'altro proclama il sentirsi superiori da parte degli altri (derisori) e la superiorità dei non derisi (adeguati al proprio ruolo o status). Questa analisi prevede che la derisione non sia sempre efficace. Ad esempio, deridere un «barbone», può essere funzionale per i derisori, ma come sanzione non funziona sul deriso. Il «barbone» infatti è indifferente: non ha scopi della buona immagine presso di noi, o scopi di status sociale. Il deriso deve avere lo scopo della buona immagine e deve volere appartenere a «noi» (cfr. il paragrafo 7). È invece dubbio che vi debba essere condivisione di valori e criteri, come nella vergogna (anche se la derisione spesso vuole suscitare o di fatto suscita vergogna). Si può essere sensibili alla derisione (ed esserne oggetto} anche su valori che non si condividono; certo se vi è condivisione dei criteri di valore l'effetto è maggiore.
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5. Derisione e insulto Castelfranchi e Parisi 14 scrivono sull'insulto: Un tipico atto indiretto è l'insulto. Questo vale almeno per l'insulto in senso stretto: in senso lato si può dire in italiano che A insulta B anche quando non solo 1' atto di A non ha il sovrascopo comunicativo di offendere, ma non ne ha neppure, comunque, il sovrascopo. In senso stretto, tuttavia, una frase è un insulto quando: a) il parlante comunica direttamente o indirettamente una valutazione negativa su una persona; b) con il sovrascopo di offendere; e) tale sovrascopo è comunicativo (il parlante vuole che l'ascoltatore capisca il sovrascopo). Che la condizione a benché necessaria non sia sufficiente perché si abbia insulto, è mostrato dal fatto che si possono esprimere valutazioni negative su una persona, anche alla persona stessa, con altri scopi; ad esempio, criticare, accusare, additare come esempio negativo, ecc. La valutazione negativa può essere diretta (ad esempio: Sei un cretino!, Sgualdrina!, Fascisti.0, ma può essere anche indiretta, cioè mediante un sovrascopo comunicativo (ad esempio: I meridionali sono tutti terroni!, per dire all'ascoltatore, che è meridionale, che è un terrone), oppure mediante l'ironia (ad esempio: Sei veramente un genio!). Una particolare forma di indirettezza è quella in cui la valutazione negativa non viene data sulla persona, ma su una azione, cosa o altra persona che siano con la prima in un legame tale che la valutazione negativa si ripercuota (cioè, giunga tramite una inferenza) su di essa. Ad esempio, posso valutare negativamente un prodotto della persona, o un posto da lui scelto o consigliato, o una persona a lui legata da vincoli di parentela, di amicizia, di connazionalità, ecc. La condizione b è essenziale perché si possa parlare di insulto. L'insulto è un atto aggressivo, cioè un atto che ha lo scopo di danneggiare la persona insultata. Il danno che è scopo dell'insulto è di natura particolare: non è fisico né riguarda ciò che l'altro possiede, ma è un danno «morale», e per l'esattezza un danneggiamento Jell'immagine e/o autoimmagine della persona insultata, cioè una «offesa». Il sovrascopo implicato nell'insulto è dunque l'offesa.
Abbiamo detto che nell'insulto il danneggiamento dell'immagine (o dell'auto-immagine) è volontario, e questo è molto importante. Infatti l'esibita volontarietà dell'atto aggressivo rende più grave il colpo inferto all'immagine, in quanto significa, agli occhi degli altri o dell'insultato stesso, che l'aggressore non lo teme, non lo rispetta e non lo ama. Questi rappresentano danni ulteriori al-
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l'immagine della persona insultata. In effetti, ciò che più offende nell'insulto sembra essere la volontà di offendere piuttosto che la valutazione negativa che viene espressa. Ciò è dimostrato dal fatto che spesso non ha importanza la particolare valutazione negativa espressa dal parlante, e che spesso essa è chiaramente falsa o non creduta dal parlante stesso: figlio di puttana!, figlio di cane!, deficiente!, stronzo! Essa serve solo ad esprimere il generico disprezzo del parlante, e deriva spesso dal paragone con qualcosa di disprezzato o repellente (escrementi, organi genitali, lavori o condizioni sociali infime, ecc.). Qui va cercata la spiegazione della terza condizione e dell'insulto, cioè del fatto che il sovrascopo di offendere è un sovrascopo comunicativo. L'insultante vuol far sapere che ha tale sovrascopo e inoltre lo vuole fare sapere per raggiungerlo. Infatti far sapere che si vuole offendere è il mezzo principale per offendere. Una situazione analoga si riscontra per la derisione e lo scherno. Ciò che colpisce l'immagine (offende e umilia) non è solo la valutazione negativa comunicata, ma il fatto stesso che venga comunicata, cioè che qualcuno abbia pubblicamente, e si senta di perseguire, lo scopo di ferire l'immagine. La derisione, come l'insulto, è doppiamente svalutativa. Quattro sono gli aspetti fondamentali che differenziano però la derisione dall'insulto, e tutti aggravano il carattere svalutativo della derisione. a) La derisione, come abbiamo detto, riguarda sempre una valutazione negativa di «inadeguatezza» e non di «pericolositàcattiveria». Mentre si può insultare B tanto dicendogli che è una nullità, che è un incapace (scemo, impotente, ecc.), tanto dicendogli che è un «danneggiatore» (delinquente, canaglia, fascista, prepotente, ecc.), possiamo deriderlo solo con la prima classe di valutazioni negative 15 : con il suo non potere, ed essere meno di quanto dovrebbe. b) In secondo luogo, mentre nell'insulto non è necessariamente vera (creduta) la valutazione negativa letteralmente comunicata (vale il semplice atto), nella derisione la valutazione negativa è reale (o almeno ha un appiglio col reale). Se si prende in giro uno dicendo che è una «femminuccia», si deve alludere al fatto che ha paura, o piagnucola facilmente, o gioca colle femmine, o ha i capelli troppo lunghi, ecc. Ciò è rilevante, come vedremo, per le finalità «correttivo-educative» della derisione o per quelle di «esclusione-iniziazione».
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e) In terzo luogo, la derisione comunica la superiorità di chi deride, non solo come svalutazione, nel senso già detto (noi siamo adeguati e tu no, dunque noi siamo superiori), ma anche attraverso il ridere e divertirsi: tu non sei da temere, non ci preoccupi, non hai poteri su* di noi (X ha potere su Y, se ha il potere di compromettere uno scopo di Y). · d) Infine, ancor più importante, la derisione non comunica rabbia, coinvolgimento, bensì distacco. Esaminiamo bene questo aspetto che riguarda anche il punto precedente. Quando rido di una cosa, abbiamo detto, vuol dire che non c'è da preoccuparsene, non c'è pericolo, è innocua, è una «cosa da nulla», non è «una cosa seria», grave, non è da prendere «sul serio» o in considerazione. Basta l'analisi semantica delle espressioni italiane, per rendersi conto di questi significati. Questo vogliono dire parole come risibile, irrisorio, ridicolo. Ad esempio, l'espressione «è un prezzo ridicolo» significa «da non prendersi sul serio», o troppo elevato (da non prendere neppure in considerazione), o troppo basso e quindi non preoccupante affatto; in entrambi i casi, anche «sorprendente» perché fuori della norma. Si considerino poi frasi (o quasi locuzioni) del tipo «anziché ridere di questo dovremmo essere preoccupati». Ora, nel semplice ridere questo «mancato pericolo», successivo all'allarme o sorpresa frutto del contrasto colle aspettative o norme, viene comunicato inconsapevolmente (anzi non è proprio uno scopo interno*); nella derisione invece si vuole proprio comunicare: «sei una cosa da nulla, sei 'daridere', da non prendere sul serio, non mi preoccupi». Non solo dico che non hai potere rispetto allo scopo S, e che sei inferiore (alle necessità e attese, e a noi), ma mostro anche che non mi fai arrabbiare, non provochi rabbia, non mi hai danneggiato né minacciato, non ti prendo neppure in considerazione, non sono coinvolto, sto bene, mi diverto, non mi hai fatto nulla, o, come si dice, «mi fai un baffo». Al contrario, il cattivo almeno è «temibile» (circa il suo «potere cattivo»), anche se lo si insulta si è stati feriti, colpiti, spaventati, si è coinvolti. Ha una forma ben chiara di potere su, di «superiorità» su di noi.
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5 .1. Riso e derisione «a denti stretti» Questo elemento del «non sono coinvolto - non mi fai niente», è cosl importante (ed evidentemente efficace) che talvolta è finto. Cioè, in realtà, il derisore è stato danneggiato o ferito da B, o si sente minacciato, e quindi è alquanto «arrabbiato» e non gli viene affatto «da ridere»; tuttavia può scegliere la strada di ridere di ciò che B gli fa, o anche del deriderlo, anziché la strada dell'insulto (o dello sfogo, o dell'aggressione fisica, o della fuga, della richiesta di pietà, ecc.): ciò proprio allo scopo di non manifestare e ammettere il suo coinvolgimento, di essere stato colpito da B. Vuole mostrarsi distaccato, superiore e intatto. Se riesce a fare tutto ciò con l'ironia 16 , che implica anche un acuto gioco intellettuale e linguistico (e quindi presuppone «freddezza» e non urgenza della passione e della rabbia) la dimostrazione di distacco e superiorità è perfetta.
6. Quali comportamenti e caratteristiche meritano la derisione? Abbiamo detto che vi sono due tipi di caratteristiche negative (valutate negativamente): le mancanze di potere, e i poteri negativi. Abbiamo detto che vengono derise le prime, mentre le seconde sono preferibilmente oggetto di altre forme di aggressione, in genere implicanti e comunicanti rabbia, come l'insulto. I poteri negativi inoltre sono di vari tipi: una cosa o persona può essere pericolosa a causa dei suoi scopi (cattivo, aggressivo, delinquente, ecc.) o a causa di altre caratteristiche (ad esempio, la punta di un coltello; la forza e/o stupidità di una persona: si pensi ad esempio al personaggio di Lennie in Uomini e topi). Tuttavia la distinzione tra due tipi di valutazioni negative (che è poi del senso comune e della lingua) non è cosl assoluta ed intrinseca alle cose. Vi è una buona dose di soggettività. In sostanza la distinzione rappresenta due modi in cui è possibile «concettualizzare» un certo fatto, sia individualmente che culturalmente. In effetti sul piano logico l'una cosa, benché distinta può implicare l'altra: se valuto un coltello «pericoloso» perché è
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troppo affilato o ha una brutta punta, ciò mi impedisce anche di usarlo (o di usarlo tranquillamente), può renderlo quindi anche «inadeguato» rispetto agli scopi che io pongo su di esso. D'altro canto, se il coltello non taglia bene, è «inadatto>> o «inadeguato», non semplicemente è inutile, ma potrà anche essere «pericoloso» (se ad esempio nell'usarlo devo fare dei movimenti o sforzi particolari). O, comunque, posso porre la mia attenzione sul fatto che mi danneggia già perché il suo essere inadeguato mi impedisce di raggiungere gli scopi per i quali l'ho preso in esame (ad esempio, tagliare), e ancor più se considero che ho investito in esso, delle risorse (soldi, tempo, ricerca, ecc.), che vanno perdute. Il medesimo ragionamento vale nel valutare le persone. Anzi qui si aggiunge il fatto che una persona con «poteri negativi» (pericolosa), dato che ha scopi interni e agisce autonomamente, mi fa già il danno di spaventarmi o preoccuparmi, oltre a quello di non potervi ricorrere o di dovere spendere risorse per tutelarmi 17 • Se è inadeguata, mi può danneggiare anche come membro del mio stesso gruppo: o perché diminuisce i poteri del gruppo, o perché potrei essere assimilato a lei o contagiato dalla sua svalutazione. In conclusione, se l'inadeguatezza può essere vista come un potere negativo, e un potere negativo può tradursi in inadeguatezza, vi sarà una certa libertà per la cultura e per il singolo, di categorizzare in un modo o nell'altro un dato comportamento o tratto. A ciò si aggiunge la scelta di manifestare o meno il danno e la rabbia, e di orientarsi quindi verso la derisione o verso l'insulto o altro. Così è possibile che uno insulti un altro perché questi è «inadeguato» 18 • La moglie può insultare il marito perché è impotente o si fa superare da tutti nella carriera (e lo può insultare anche esprimendo proprio queste valutazioni negative). Ma ciò esprime il fatto che tali inadeguatezze di B sono per l'insultante nocive, fonte di danno 19 • Analogamente, noi possiamo al limite prendere in giro anche dei «poteri negativi» di B, possiamo canzonarlo dicendo che è un fascista o un ladro. Ma a ben vedere, quello che stiamo canzonando in tal caso sono quelle inadeguatezze, incapacità, che sono presupposto o conseguenza di tali «poteri negativi». L'aspetto più interessante di questo problema è tuttavia 224
la categorizzazione culturale, cioè quali tipi di caratteri sono considerati «da schernire» e quali «da biasimare»,