Casta diva & co. Percorsi nel cinema italiano fra le due guerre 8886091974, 9788886091978

Fra i titoli che contano nella produzione degli anni '30, il film di Carmine Gallone "Casta Diva" testimo

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Italian Pages 127 [162] Year 2004

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Casta diva & co. Percorsi nel cinema italiano fra le due guerre
 8886091974, 9788886091978

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Biblioteca 2 serie storica

Francesco Bono

Casta Diva & Co.

Percorsi nel cinema italiano fra le due guerre

SETTE CITTÀ

Prima edizione: giugno 2004 Redazione: Bruno Cenciarini, Emanuele Paris ISBN: 88-86091-97-4 Edizioni SETTE CITTÀ di Fernandez Margarita Via Mazzini 87 01100 Viterbo tel 0761 303020 fax 0761 304967 redazione largo dell’Università snc 01100 Viterbo tel 0761 354620 fax 0761 270939 [email protected] www.settecitta.it

Questo libro è stampato con il contributo dell’Università della Tuscia - Viterbo

INDICE

p. 9 15 39 65 87 99 123 143 153

Premessa Italiener a Berlino Augusto Genina e la Nero-Film Indagine su una formula Casta Diva e il Musikfilm d’oltralpe Occhi casti, che incantate… Carmine Gallone e Marta Eggerth Nel nome di Maddalena Confrontando Casta Diva e The Divine Spark Extase al Lido Cronaca di uno scandalo Storia di una ballerina Gustav Machatý in Italia Bibliografia Indice dei nomi e dei film

a Maria Vittoria

PREMESSA

Fitto è l’intreccio che, negli anni fra le due guerre, lega il cinema italiano all’Europa centrale, in particolare di lingua tedesca e si riflette in molteplici percorsi che si snodano fra Berlino, Roma e Vienna, talvolta diramandosi verso Budapest e Praga. Vi sono i registi, gli attori, i tecnici che, lasciando l’Italia, si trasferiscono in Germania negli anni ‘20, fra cui si annoverano molti fra i protagonisti del cinema d’anteguerra. Una migrazione che s’intreccia strettamente con la crisi che si abbatte sul cinema italiano all’indomani del conflitto, quando la produzione si contrae a pochi titoli all’anno, al tempo stesso inserendosi nella mobilità che contrassegna significativamente il cinema in Europa durante gli anni ‘20. Con il sonoro il fenomeno si esaurisce e si assiste al rientro della maggior parte in Italia, in connessione con il rilancio della produzione. Una eccezione sono Carmine Gallone e Augusto Genina, che proseguono l’attività all’estero lungo gli anni ‘30, muovendosi con successo fra Parigi e Berlino, Londra e Vienna. Lungo il percorso Gallone intreccia una collaborazione con Marta Eggerth, una cantante d’operetta ungherese, e il tenore Jan Kiepura, 9

polacco, che abbraccia un ventennio e il film Casta Diva. Questo incarna esemplarmente l’influenza del Musikfilm d’oltralpe sulla produzione in Italia. La storiografia si è solitamente interessata a Casta Diva in quanto tiene a battesimo il filone operistico e scorge nel film, per la sua qualità, una prova dello sviluppo che il cinema italiano conosce a metà del decennio. Si è a lungo trascurato l’apporto al film di esponenti di primo piano del cinema di lingua tedesca, dalla sceneggiatura, che reca la firma di Walter Reisch, alla musica, alla produzione. La realizzazione di Casta Diva si colloca in un periodo in cui, nel cinema italiano, l’obiettivo di sprovincializzare la produzione, di accrescere la qualità e l’appeal in Europa, spinge ad aprirsi all’apporto di registi d’oltralpe, in parte profittando della difficoltà in cui alcuni si trovano a proseguire l’attività fra Berlino e Vienna dopo l’avvento del nazionalsocialismo. L’elenco va da Max Ophüls e Walter Ruttmann a Pierre Chenal, Jean Epstein, Abel Gance, Kurt Gerron, che lavorano in Italia fra 1934 e 1936, e include Gustav Machatý, fra i protagonisti della storia del cinema ceco, che dopo il successo di Extase e lo scandalo che suscita al festival di Venezia nel 1934, è ingaggiato in Italia per girare Ballerine. Se i percorsi che si snodano fra il cinema italiano e l’Europa centrale fra gli anni ‘20 e la guerra sono numerosi, la storiografia se ne è generalmente interessata poco. Alla disattenzione concorre l’impostazione con cui si è a lungo guardato alla storia del cinema, privilegiando un approccio per nazione e ciò si riflette nella esiguità della letteratura sull’argomento. I lavori che qui si raccolgono rappresentano il frutto parziale di una ricerca che impegna l’autore dalla metà degli anni ’90 e un ringraziamento va ad Adriano Aprà, Anto10

nio Bertini, Gian Piero Brunetta, Orio Caldiron, Francesco Casetti, Giorgio De Vincenti, Leonardo Quaresima, Giovanni Spagnoletti, Vito Zagarrio per l’attenzione riguardo al mio lavoro, insieme a un pensiero di riconoscenza alla memoria di Lino Miccichè. Sull’argomento l’autore ha spesso avuto l’occasione di pubblicare all’estero e in Italia. Sui registi e i film a cui il lavoro in particolare volge l’attenzione si segnalano i contributi per i volumi di CineGraph - Hamburgisches Centrum für Filmforschung Als die Filme singen lernten. Innovation und Tradition im Musikfilim 1928-1938 (Monaco 1999) e M wie Nebenzahl. Nero - Filmproduktion zwischen Europa und Hollywood (Monaco 2002) e del Filmarchiv Austria Extase (Vienna 2001) e Zauber der Boheme. Marta Eggerth, Jan Kiepura und der deutschsprachige Musikfilm (Vienna 2002). Il capitolo sulla versione in lingua inglese di Casta Diva, The Divine Spark è stato anticipato in Cinema & Cie. International Film Studies Journal, n. 4, 2004; quello sul film di Machatý Ballerine è parte di una monografia sul regista in corso di pubblicazione a Vienna. Si ringraziano gli editori e i curatori per averne consentito l’utilizzazione. I lavori si presentano in gran parte riscritti e si è spesso proceduto, con riguardo al lettore italiano, a integrazioni o alla soppressione di parti superflue. Un ringraziamento va alle istituzioni e ai molti colleghi che fra Austria, Germania e Italia mi hanno sostenuto in questi anni nella ricerca, in particolare CineGraph - Hamburgisches Centrum für Filmforschung (Amburgo), Cineteca del Comune di Bologna, Deutsches Filminstitut (Francoforte), Deutsches Filmmuseum (Francoforte), Filmarchiv Austria (Vienna), Filmmuseum Berlin - ����� Deutsche������������������������������������������������� Kinemathek, Scuola Nazionale di Cinema - Cineteca Nazionale (Roma), Synema - Gesellschaft für Film und 11

Medien (Vienna) e Rolf Aurich, Hans-Michael Bock, Paolo Caneppele, Christian Cargnelli, Horst Claus, Gian Luca Farinelli, Malte Hagener, Jürgen Kasten, Martin Koerber, Günter Krenn, Armin Loacker, Martin Loiperdinger, Vittorio Martinelli, Brigitte Mayr, Pierluigi Raffaelli, Daniela Sannwald, Erika Wottrich. Sono riconoscente, per aver benevolmente accolto il lavoro in una collana della Università della Tuscia (Viterbo), al preside della Facoltà di Lingue e letterature straniere moderne, Gaetano Platania, e al coordinatore del corso di laurea in Lettere moderne, Francesca Petrocchi. Infine il volume deve molto all’affetto di mia moglie, Maria Vittoria e all’insegnamento di mio padre. f.b.

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CASTA DIVA & CO. PERCORSI NEL CINEMA ITALIANO FRA LE DUE GUERRE

ITALIENER A BERLINO AUGUSTO GENINA E LA NERO-FILM

“Dopo i russi gli italiani rappresentano la colonia cinematografica più forte di Berlino”, scrive Ferruccio Biancini su Kines alla fine degli anni ‘20.1 Qualche mese prima Raoul Quattrocchi osserva che “i buoni film attualmente prodotti in Germania sono il 95% dovuti a régisseurs italiani”.2 È evidente l’esagerazione e si coglie nell’osservazione un sottotono nazionalista, in cui è avvertibile un riflesso del dibattito che si svolge animoso all’epoca, riguardo alla rinascita del cinema italiano, che in molti invocano di fronte alla crisi in cui questo precipita all’inizio degli anni ‘20. Al tempo stesso l’affermazione rinvia a un episodio nella vicenda del cinema italiano fra le due guerre, di cui la ricerca si è poco interessata finora. Negli anni ‘20 sono numerosi i registi, gli attori e i tecnici che, lasciando l’Italia, si trasferiscono in Germania.3 L’elenco è vasto e comprende molti fra i principali esponenti della produzione d’anteguerra. Fra i registi si contano Guido Brignone, Carmine Gallone, a cui si deve il primo film sonoro che si produce in Germania, Das Land ohne Frauen (Terra senza donne, 1929), Nunzio Malasomma, Guido Parish e Gennaro Righelli, che s’impone fra 15

tutti per l’intensità con cui lavora a Berlino, dove firma la regia di 15 film dal 1923 al 1929. L’elenco abbraccia anche un gran numero di star accanto ad attori di secondo rango. Tralasciando Francesca Bertini, che partecipa a un film in Germania nel 1927, Mein Leben für das Deine (Odette), fra le dive che godono di maggior successo di là dalle Alpi si ricordano Diana Karenne, Marcella Albani e Maria Jacobini. Inoltre risultano attivi a Berlino alcuni fra i più importanti operatori (Vittorio Armenise, Gaetano Ventimiglia, Giuseppe Vitrotti) che lavorano nel cinema d’anteguerra. Fra i registi che s’impegnano nella produzione d’oltralpe si contano anche Mario Bonnard, Augusto Genina e Amleto Palermi. Tutti e tre lavorano fra 1926 e 1928 per la Nero-Film, tra le principali case di produzione tedesche del periodo, di proprietà di Heinrich e Seymour Nebenzahl.4 La si ricorda in particolare per la collaborazione con G.W. Pabst all’inizio degli anni ‘30, a partire da Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora, 1929), e per i film di Fritz Lang M (M. Il mostro di Düsseldorf, 1930) e Das Testament des Dr. Mabuse (Il testamento del dottor Mabuse, 1933). La collaborazione che la Nero-Film intreccia con Bonnard, Genina e Palermi si estende a cinque film, che costituiscono l’oggetto di questo capitolo, con il proposito di contribuire alla ricerca sugli Italiener nella produzione d’oltralpe; un campo che si presenta in gran parte da esplorare, costituendo una lacuna nella storiografia sul cinema della repubblica di Weimar. All’origine della migrazione verso la Germania sta la crisi in cui versa il cinema italiano al termine della guerra, dopo il prestigio internazionale di cui gode negli anni ‘10. In breve tempo la produzione si riduce a pochi titoli all’anno. Fallisce il progetto dell’Unione Cinematografica 16

Italiana, il consorzio in cui si uniscono gran parte delle case di produzione nel 1919, e al cinema italiano non riesce di riconquistare la posizione d’un tempo in Europa. Un declino in cui si riscontra l’effetto di molteplici fattori, che s’influenzano reciprocamente5, dalla mancanza di organizzazione industriale che contrassegna negativamente il settore dopo la guerra, all’aumento dei costi di produzione, al venir meno del mercato estero e alla crescente concorrenza di Hollywood e del cinema d’oltralpe (fra 1920 e 1921 il numero di film tedeschi che giunge in Italia cresce da 44 a 270),6 con cui s’intrecciano una involuzione tecnica ed espressiva e l’incapacità di conformarsi all’evoluzione del pubblico. Di fronte alla crisi in molti prendono la strada per l’estero. All’inizio degli anni ‘20 si trasferiscono a Berlino alcuni fra gli eroi del filone atletico e acrobatico, Luciano Albertini, Carlo Aldini, Bartolomeo Pagano, che godono di grande popolarità all’epoca. Seguono la Albani insieme a Parish, che lavora con la diva dagli anni ‘10, e Righelli e la Jacobini, che debuttano a Berlino con Bohème (La Boheme, 1923), un adattamento del romanzo di Henri Murger. E il fenomeno assume presto il contorno di una diaspora. Ricordando il periodo, Genina si esprime con ammirazione sulla produzione d’oltralpe, di cui attribuisce il successo alla capacità di rinnovarsi al termine della guerra, diversamente da ciò che accade in Italia: “I film tedeschi, realizzati in un clima di disfacimento, si staccavano nettamente dal conformismo di un cinema ormai superato”.7 In Germania, è il ricordo di Genina, il cinema “costituisce una delle più grandi industrie nazionali, la settima industria, altrettanto in considerazione quanto quella dell’acciaio”,8 e Berlino gli appare come un Eldorado cinematografico, 17

dove “il cinema rappresentava un’oasi di ricchezza, di euforia e di mondanità”. La grande cinematografia tedesca […] dominava in quel momento con la sua originalità, i suoi mezzi, i suoi ottimi interpreti e i grossi complessi industriali. […] A me, che venivo da un paese dove gli stabilimenti erano ormai ridotti a magazzini di materiale in disuso, sembrò di passare dalla morte alla vita.9

Con un occhio al Kunstfilm e al cinema di cassetta La cooperazione della Nero-Film con gli Italiener inizia nel 1926 con il film di Palermi Die Flucht in die Nacht, una trasposizione del testo di Luigi Pirandello Enrico IV, che è anche il titolo del film in Italia. Prima di lasciare l’Italia il regista gira, insieme a Gallone, un rifacimento de Gli ultimi giorni di Pompei, per produrre il quale Gallone e Palermi costituiscono la S.A. Grandi Film, reperendo una parte del budget fra Berlino e Vienna. Ciò si riflette nella composizione del cast, in cui compaiono Maria Korda, Mihály Várkonyi (che assume il nome di Victor Varconi a Hollywood) e Bernhard Goetzke, fra i nomi di spicco nel cinema di lingua tedesca degli anni ‘20.10 In precedenza, per il rifacimento di Quo vadis?, anche l’Uci prova la strada di una cooperazione con la Germania, affiancando il regista Georg Jacoby a Gabriellino D’Annunzio e ingaggiando Emil Jannings per la parte di Nerone. Anche il film L’uomo più allegro di Vienna, in cui compaiono di nuovo la Korda e Várkonyi, precedente al suo trasferimento a Berlino, è girato in collaborazione con la Germania e l’esperienza, insieme al contatto che intreccia per Gli ultimi giorni di 18

Pompei, probabilmente apre la strada alla cooperazione fra Palermi e la Nero-Film. Riguardo a Die Flucht in die Nacht la stampa si esprime con freddezza. Osserva Der Bildwart che “il film nell’insieme – purtroppo – non è riuscito”,11 e la Deutsche Filmwoche lo giudica un insuccesso,12 formulando una valutazione su cui, visionando il film, è possibile concordare. Al tempo stesso la critica evidenzia l’interpretazione di Conrad Veidt nel ruolo del nobiluomo che perde la ragione e si crede Enrico IV. Die Filmwoche lo giudica “un diabolico cavallo di battaglia” per l’attore,13 il quale “deve interpretare un pazzo e deve poi esser qualcuno che si finge pazzo”.14 “Si dovrebbe estrapolare dal film tutta una serie di scene in cui si deve riconoscere una prova magistrale di Veidt”, scrive Der Bildwart.15 Una valutazione che il Reichsfilmblatt condivide: “Si mostra un grandissimo artista. Con capacità straordinaria disegna la parabola di una vita in preda ai demoni”.16 Si apprezza specialmente la scena in cui il protagonista si risveglia dalla follia. La macchina da presa indugia sul volto di Veidt, uno spasmo lo altera, il protagonista si guarda intorno e non riconosce il luogo. Poi ricorda e in sovrimpressione appare la gita durante la quale cade da cavallo, perdendo la ragione. Ora si alza, strappa un tendaggio (in cui è facile cogliere una allusione al velo che offusca la sua mente), dietro al quale c’è uno specchio. Osserva il suo riflesso (che rinvia al suo doppio) e riconosce la verità. Veidt rende abilmente lo stato d’animo che s’impadronisce del personaggio. Oggi si avverte una maniera nel modo in cui, spiegando le mani, stendendo le braccia, simili a rami spogli, Veidt si protende verso chi gli è intorno, quasi volesse metterlo in ombra, nell’ipnotismo del suo sguardo, dove si coglie evidente una eco 19

dell’espressionismo; ma la stampa esalta all’epoca l’interpretazione. Davanti allo specchio interpreta il suo io in primo piano per alcuni coinvolgenti secondi, in cui un folle, i capelli grigi, si accorge d’esser diventato un vecchio, che è rinsavito.17

A confronto con l’interpretazione di Veidt il film impallidisce nel giudizio della stampa, che rimprovera a Palermi, al quale si deve anche la sceneggiatura, l’approccio illustrativo con cui traspone il dramma sullo schermo. “Un tema virtuosamente inteso, d’impostazione romantica, […] virtuosamente interpretato da Veidt”, è il giudizio del Kinematograph;18 “soltanto non è sentito virtuosamente e in modo cinematografico dal regista”. Si coglie nel rimprovero una diffidenza per l’adattamento di opere letterarie per lo schermo, che si ritrova nel giudizio sul film in Italia,19 in un periodo in cui, richiamandosi all’esperienza dell’espressionismo e al Kammerspielfilm, il cinema reclama in Germania la sua autonomia rispetto alla letteratura. Si disapprova la letterarietà che appesantisce Die Flucht in die Nacht, le “palesi scene di dialogo, ideate cinematograficamente senza consapevolezza”.20 “Invece di creare un film, il regista offre un monologo d’attore, illustrato elegantemente”, osserva il Film-Kurier.21 In parte si ascrive il fallimento alla difficoltà che pone il testo. “Il tema di fondo è una faccenda psicologica piuttosto elucubrata, […] una rappresentazione convincente sembra impossibile al cinema”, concede Der Bildwart.22 Ma la responsabilità per l’insuccesso è ascritta in primo luogo a Palermi, stigmatizzando l’arretratezza con la quale inscena la vicenda. La macchina da presa perlopiù riprende la scena in posizione frontale, in una alternanza fra quadri d’insieme e in primo piano e, ad eccezione di pochi casi, 20

si mantiene ferma. Se si muove, lo fa soltanto per seguire i personaggi. Coglie nel segno il Kinematograph osservando che Palermi cerca “con la tecnica di ripresa del 1910 di conquistare il mondo del 1926”.23 Tuttavia si apprezza il film come un tentativo “di non procedere per i sentieri continuamente percorsi”, scrive il Kinematograph; “e un tale tentativo è sempre da salutare con favore”.24 Per il Reichsfilmblatt si tratta di un esperimento che, pur fallendo in parte, appare “comunque la manifestazione di una seria volontà artistica” e “degno d’approvazione”.25 Si consiglia il film “per palati fini, intenditori e chi gusta l’arte”. “Una opera d’alta qualità per un pubblico maturo”, lo giudica la Paimann’s Filmlisten.26 Una valutazione che suggerisce l’obiettivo che la NeroFilm plausibilmente persegue con Die Flucht in die Nacht. Per la società, che opera da un anno e per la quale rappresenta la terza produzione, dopo il debutto con Dürfen wir schweigen? di Richard Oswald e una commedia con Harry Liedkte, Die Welt will belogen sein, Die Flucht in die Nacht costituisce esplicitamente il tentativo di nobilitare la produzione. Attraverso un Kunstfilm, un film d’arte, la NeroFilm si prefigge di marcare il distacco dalla produzione d’intrattenimento in cui Heinrich Nebenzahl s’impegna all’inizio degli anni ‘20. Un obiettivo a cui rispondono sinergicamente la scelta del soggetto, del regista e dell’interprete principale. Si affianca a Veidt, un divo e una icona del cinema espressionista, che è anche il protagonista di Dürfen wir schweigen?, il testo di uno scrittore, Pirandello, che gode di prestigio internazionale, garantendo per l’artisticità del progetto, e s’ingaggia un regista, Palermi, che lavora negli anni ‘10 con star del calibro di Lyda Borelli, Soava Gallone, Leda Gys. 21

Ma il modello a cui la Nero-Film guarda per Die Flucht in die Nacht, assumendo a riferimento il filone del Literaturfilm, della trasposizione di capolavori della letteratura sullo schermo, in voga durante gli anni ‘10 e l’esperienza dell’espressionismo, risulta vecchio a metà degli anni ‘20, in un periodo in cui il cinema si volge in Germania verso il realismo, e ciò spiega la freddezza con cui è accolto il film. Al tempo stesso Die Flucht in die Nacht prefigura la strategia della Nero-Film (e ciò costituisce il suo interesse) d’impegnarsi in una produzione d’autore, a cui la società si dedica con successo alla fine degli anni ‘20, collaborando con Pabst e Lang. La cooperazione della Nero-Film con gli Italiener termina con Das letzte Souper (La tragedia dell’Opera, 1928) di Bonnard, per il quale la società si associa con Jakob Karol, a cui si deve il passaggio in Germania di Luciano Albertini e di Bartolomeo Pagano all’inizio degli anni ‘20. Fra i divi del cinema d’anteguerra, in cui brilla nel ruolo del dandy, Bonnard passa alla regia nel 1917 e nel 1925 si reca in Germania, dove è artefice di una decina di film, prima di rientrare nel 1931 in Italia. Oltralpe s’impegna con scioltezza in generi differenti, alternandosi fra drammi d’amore, commedie e film d’avventura. Das letzte Souper si colloca nel genere poliziesco ed è ambientato nel mondo dell’opera. Il plot s’incentra sull’assassinio di un compositore, che “odia le donne e le manda in rovina”, lo presenta il Film-Kurier, “finché deve pagare con la vita per la sua passione”.27 Per l’omicidio si sospettano una diva, un baritono e l’amante. Ad impersonare la diva è la Albani, che gode di considerevole popolarità in Germania, dove partecipa a 25 film, fra l’altro lavorando con Joe May, Wilhelm Dieterle, 22

Aleksandr Volkov. Nella pubblicità per Das letzte Souper il nome dell’Albani campeggia per primo e in grassetto28 e si apprezza la sua interpretazione. “La Albani, che suscita grazie al suo aspetto una buona impressione, [...] tratteggia Viola con grande efficacia”, si legge su Kinematograph.29 Ma la critica è favorevolmente colpita in primo luogo dall’interpretazione che Heinrich George offre del compositore. Scrive la Filmtechnick che il film è sorretto dalla personalità di George, la cui naturalezza, vitalità e potenza creano di fronte a noi, con pienezza e sicurezza di tratto, un uomo vivo, tridimensionale.30

Si loda in particolare la scena che avvia il plot, in cui si compie l’omicidio del compositore nel mezzo di un’opera. Ma il film non riesce nel prosieguo a mantenere il livello. Osserva la Filmtechnik: Carica di suspense – pur se non nuova nell’impiego – è la scena dell’attentato sul palcoscenico, che causa sul serio la morte del compositore. In confronto all’impeto di queste immagini le successive dell’inchiesta di polizia risultano inferiori, in particolare per la loro prolissità.31

In generale la stampa si esprime con riserva, constatando che Das letzte Souper promette più di quel che mantiene. Ma apprezza la capacità con cui Bonnard conduce l’azione, bilanciando la sceneggiatura, che si giudica debole. “Gli è riuscito di avvincere grazie al ritmo e alla composizione dell’immagine”, si commenta sulla Neue Berliner32 e gli si riconosce una padronanza della tecnica e del montaggio e “un buon occhio per il dettaglio”, valutando Das letzte Souper “un film di cassetta di discreta fattura”.33 23

Sotto il segno della commedia Fra i titoli che la Nero-Film produce con gli Italiener spiccano le commedie Der Sprung ins Glück (La storia di una piccola parigina), Das Mädchen der Strasse (Scampolo) e Liebeskarneval (Carnevale d’amore), che Genina gira per la società fra 1927 e 1928. Un protagonista della storia del cinema in Italia, che percorre con successo dal muto (esordisce nel 1914 con La moglie di Sua Eccellenza) all’inizio degli anni ‘50, anche Genina si trasferisce in Germania nel 1926, quando la débâcle nel cinema italiano raggiunge il culmine, per proseguire l’attività all’estero. In precedenza, di fronte alla crisi in cui precipita il settore, il regista s’impegna anche nella produzione. Nel 1921 costituisce la Films Genina con cui, a partire da Debito d’odio, gira gran parte dei film nel prosieguo del decennio, in parte finanziandosi con la vendita all’estero. Una politica di cui si scorge il riflesso nella presenza di Walter Slezak, un nome di primo piano nel cinema di lingua tedesca tra le due guerre, fra gli interpreti dell’ultimo film che Genina dirige in Italia, Addio giovinezza! (1927) e che lo porta in contatto con la Germania. In quella tragica situazione restava una sola cosa da fare: produrre film per conto proprio. Così fecero molti. E lo feci anch’io. Le case di noleggio mi aiutavano, comprando in anticipo i miei film. Ed io guadagnavo, vendendoli soprattutto all’estero. […] Poi quando la situazione in Italia divenne più difficile, mi recai in Germania per vendere le pellicole da me.34

Nell’esperienza è possibile scorgere una premessa per il suo passaggio a Berlino, per il quale probabilmente fa 24

da tramite la Westi-Film. Questa è costituita a Berlino alla fine del 1923 per iniziativa di un magnate dell’industria, Hugo Stinnes, e di un produttore russo, Vladimir Vengerov, attivo in Germania dall’inizio degli anni ‘20, e si evolve rapidamente in un consorzio che abbraccia mezza Europa.35 Dispone anche di una filiale a Roma, la Westi-Film S.A. Italiana, che si occupa in primo luogo della distribuzione del cinema d’oltralpe in Italia. Ma sostiene anche la produzione del film di Gallone La cavalcata ardente, in collaborazione con la Società Anonima per le Industrie e il Commercio Cinematografico, nel quadro di una strategia che si prefigge lo sviluppo di una cooperazione fra Roma e Berlino. Al contatto con la Westi-Film accenna Genina ripercorrendo l’attività in Germania. Appena giunto a Berlino, mi presentai a una delle massime società di allora, la Westi-Film, fondata da Wengeroff [sic] e Stinnes. […] Una collaborazione potentissima, che vendeva film in ogni parte del mondo. Io conoscevo Wengeroff ed ero sicuro che mi avrebbe aiutato.36

Dalla commercializzazione al di là delle Alpi dei film che gira in Italia all’inizio degli anni ‘20, Genina passa al lavoro a Berlino. Gli fa da biglietto da visita il film Il focolare spento (1925), “una smagliante gemma del cinema italiano” lo giudica Il Tevere,37 che ottiene un notevole successo in Germania, dove la pellicola s’intitola Mutter, verzeih mir!. Durante l’estate 1927 Genina gira il primo film a Berlino, Die weisse Sklavin (La schiava bianca), una coproduzione fra Germania e Francia, alla quale partecipa la Société des Films Artistiques (Sofar). Questa coproduce anche Der Sprung ins Glück, che segna l’inizio della collaborazione fra Genina e la Nero-Film. L’interesse della so25

cietà per cooperare con la Francia (fra 1924 e 1925 questa produce un paio di titoli della serie con Harry Piel insieme alla Gaumont), che s’incrocia con la ricerca di Genina per un produttore in Germania, spiegherebbe l’incontro con la Nero-Film. La collaborazione probabilmente lo coinvolge anche sul piano della produzione. È indicativo che Der Sprung ins Glück appare in Italia con il marchio della Films Genina,38 suggerendo che il regista detiene la commercializzazione in Italia dei film che gira a Berlino, invertendo il percorso che lo vede, in precedenza, vendere all’estero i film di cui è artefice in Italia. Mentre lavora a Berlino, Genina partecipa anche alla creazione di una casa di produzione in Italia, l’Adia. Questa produce un film, La grazia (1929), in collaborazione con la Sofar e la tedesca Orplid-Film, con la quale Genina gira Quartier Latin (1929) al termine della collaborazione con la Nero-Film. È significativa anche la partecipazione della Nero-Film a fianco dell’italiana Sacia nella produzione di Rotaie (1929) di Mario Camerini, in cui è ugualmente coinvolta l’Adia, essendosi questa consociata con la Sacia nel 1929.39 Nell’intreccio si scorge la conferma dell’estendersi dell’attività di Genina al di là delle Alpi all’ambito della produzione. Un campo in cui agiscono, fra gli esponenti del cinema italiano che lavorano in Germania negli anni ‘20, anche Carlo Aldini, Parish e Righelli, costituendo delle case di produzione a Berlino. Ed è probabile anche la partecipazione di Palermi alla produzione di Die Flucht in die Nacht, che risulta in parte girato in Italia e figura di produzione italiana. Recensendolo, La Rivista Cinematografica scrive: “Finalmente abbiamo assistito alla visione di un italianissimo film”40 e la Rassegna del Teatro e del 26

Cinematografo lo giudica “indubbiamente fra i migliori della produzione italiana più recente, benché recitato in gran parte da artisti stranieri”.41 Proseguendo in una strategia che coltiva da metà degli anni ‘20, attraverso la collaborazione con gli Italiener la Nero-Film si prefigge una internazionalizzazione della produzione. Una politica che culmina all’inizio degli anni ‘30 con i film di Pabst Die 3-Groschen Oper (L’opera da tre soldi), Kameradschaft (La tragedia della miniera), Die Herrin von Atlantis (Atlantide) e Das Testament des Dr. Mabuse di Lang, che coproduce con la Francia e appronta in doppia versione. Al tempo stesso la Nero-Film punta ad aprirsi una strada in un importante mercato, qual è l’Italia a metà degli anni ‘20, dove la sua presenza risulta sporadica; soltanto alcuni fra i titoli con Harry Piel che produce all’inizio del decennio giungono di là dalle Alpi.42 Il valore del box office quasi raddoppia in Italia fra 1924 e 1927, al punto che “gli incassi degli spettacoli cinematografici”, informa Gian Piero Brunetta,43 nel 1927 “costituiscono il 50% di tutte le altre forme di spettacolo (dalla prosa alla lirica allo sport).” E il dato sintetizza efficacemente l’appetibilità dell’Italia per il cinema d’oltralpe, che contende a Hollywood il predominio sulla penisola. Insieme a Genina giunge a Berlino l’attrice Carmen Boni, che in Germania partecipa a una dozzina di film nel giro di tre anni, divenendo una star. Oltre alle commedie di Genina per la Nero-Film, per la quale interpreta anche Die Gefangene von Shanghai (La prigioniera di Shanghai, 1928) di Géza von Bolvary, l’attrice compare in film di Richard Oswald, Franz Seitz, Robert Land e Karl Grune. Dopo l’esordio nel 1919 in un film di Mario Corsi, La scimitarra, la Boni comincia presto la collaborazione con 27

Genina che, a partire da La moglie bella (1925), passando per il successo de L’ultimo Lord e di Addio giovinezza!, si estende fra Berlino e Parigi fino all’inizio degli anni ‘30, quando il sonoro spezza bruscamente la sua carriera. Insieme alla Boni, Genina gira quattro dei cinque film di cui è artefice a Berlino (oltre alle tre commedie per la NeroFilm, la Boni è anche la protagonista di Quartier Latin, con cui si conclude l’attività della coppia in Germania), ai quali la diva deve in primo luogo il suo successo al di là delle Alpi e in cui trova l’occasione per mettere a frutto il suo temperamento, caratterizzandosi nel cinema d’oltralpe, come osserva Vittorio Martinelli,44 come il pendant del tipo della flapper che trionfa a Hollywood all’epoca. Non era bellissima, ma rappresentava un tipo nuovo per il cinema di allora: alta, magra, con la pelle scura e i grandi occhi neri. Insomma, il tipo garçonne con abbondante sex appeal.45

Così la ricorda Genina e le commedie in cui dirige l’attrice per la Nero-Film le sono tagliate su misura. Che si tratti di Der Sprung ins Glück o di Das Mädchen der Strasse, invariabilmente è una ragazza dal cuore semplice (lavora in un caso come manicure, nell’altro è una lavandaia), che s’innamora di un uomo e questi soggiace al suo charme; tuttavia qualcosa si mette di traverso (in un film è il padre, un milionario, desideroso che il figlio sposi una ereditiera, nell’altro sono l’amante, il lavoro e alcuni equivoci), finché l’happy end non trionfa. Pur rimproverandole l’affettazione, la stampa riconosce che l’attrice possiede dello charme e della grazia,46 complessivamente apprezzandola. A proposito di Das Mädchen der Strasse, un adattamento della commedia di Dario Niccodemi Scampolo, si osser28

va: “la Boni scarabocchia un grazioso Scampolo di fronte alla macchina da presa”,47 mentre il Film-Kurier scrive: “la Boni ha appagato col film tutte le speranze. Non è mai stata così brava dal suo esordio. […] È subito in contatto col pubblico”.48 Spesso la Boni porta i capelli in disordine e un boccolo le cade ribelle sul viso. Il modo di fare è da monello e si veste alla buona. Per far visita a un barone si abbiglia da signora, ma si siede sul bracciolo della poltrona come un ragazzetto, giocando con le gambe, al tempo stesso attirando il barone e tenendolo a distanza. La descrive il Film-Kurier: “Ha il coraggio della ineleganza e, con ciò, della caratterizzazione. Non è ‘dolce’ come la Pickford, invece è più gamin”.49 Talvolta s’infila in abiti da uomo, che indossa con nonchalance, per fingersi un nipote che non esiste, imbrogliando il nonno e conquistando un principe (il riferimento è a L’ultimo Lord), o per conquistare il giovanotto che le piace, togliendo di mezzo la concorrenza, come accade in Liebeskarneval, dove s’ innamora di uno scrittore e mette fuori gioco la sua amante a questo modo: le si avvicina in abiti maschili e ottiene al primo colpo successi di cui Casanova la invidierebbe.50

Se la fabula di cui le commedie dipanano l’intreccio è convenzionale, l’attrattiva è nel modo in cui Genina inscena la vicenda. La critica si esprime positivamente, riconoscendo al regista una sensibilità per il genere. “Una commedia che si distingue per comicità della situazione e molti colpi di scena da farsa”, è la valutazione del Film-Kurier riguardo Der Sprung ins Glück.51 A colpire favorevolmente è la capacità di Genina di tradurre il plot in film. “In questo film ci si è tenuti... al film”, si constata a proposito di Das Mädchen 29

der Strasse,52 sottolineando l’autonomia con cui il regista opera rispetto al testo d’origine. In proposito la Filmwoche annota che “la pièce ha ceduto soltanto l’involucro, mentre tutto l’altro è frutto proprio del film”.53 Valga da esempio il duello che il milionario ingaggia con il colletto della camicia, per abbottonarlo, vincendo infine l’opposizione del collo, dopo lo sforzo vano del maggiordomo per riuscirci. Al tempo stesso Genina inserisce nelle commedie delle parentesi sentimentali, dove l’umorismo si fa da parte, lasciando il campo a un momento di commozione o di malinconia, come osserva Raoul Quattrocchi su Kines, recensendo Der Sprung ins Glück;54 tuttavia si mostra attento di fronte al rischio del sentimentalismo. Un esempio è la scena in cui René, il figlio del milionario, si dichiara alla manicure e le chiede di sposarlo. Nel cuore della ragazza la felicità si mescola tumultuosamente a un timore, che il film condensa in una domanda, che ella gli rivolge: Mais vous m’aimerez un peu?55 Contemporaneamente si accenna sulla stampa a un confronto fra Genina e la commedia che si pratica in Germania alla fine degli anni ‘20. Il paragone risulta a vantaggio del regista, il quale “è riuscito a staccarsi dallo schema fisso della commedia tedesca”.56 A fare la differenza nel giudizio della stampa, più dei soggetti, è in primo luogo il modo in cui Genina plasma il materiale, orchestrando il racconto sullo schermo. In proposito commenta il Film-Kurier: “Non è importante il soggetto di per sé, […] bensì l’idea filmica e la sua visualizzazione ottico-tecnica nel film”.57 Talvolta si esprime una riserva riguardo alla consistenza del plot. “Un secondo sceneggiatore […] non avrebbe nociuto”, si osserva a proposito di Der Sprung ins Glück.58 Al tempo stesso si rimprovera a Liebeskarneval che 30

“l’azione a tratti passa sopra ad inezie quali la credibilità e la verosimiglianza alquanto con noncuranza”.59 Però la stampa gli riconosce la capacità di raccontare una storia cinematograficamente. Valga da esempio Das Mädchen der Strasse. La contentezza che s’impadronisce di Scampolo, quando l’amante dell’ingegnere, in casa del quale è a servizio e che ama segretamente, posticipa il ritorno, è visivamente espressa con una danza selvaggia, mentre un litigio con Scampolo termina con l’altra che batte il pugno sulla toeletta, colpisce la cipria e genera una nuvola bianca in cui scompare! “Una commedia in cui l’azione è resa con il film e non nelle didascalie, ciò dovrebbe dire molto per la mentalità media della commedia tedesca”.60 Un confronto che si ripropone per Liebeskarneval, in cui Genina “profitta a fondo delle possibilità del soggetto, [ma] mantiene sempre la linea del buon gusto”.61 E la critica gli riconosce una sensibilità “che purtroppo non possiedono molti registi tedeschi”,62 collocando i suoi film a pari livello con la commedia di Hollywood. La comparazione suscita un interrogativo, che si profila centrale in una ricerca sull’attività degli Italiener. In cosa si differenziano i loro film rispetto alla produzione tedesca? Se una differenza sussiste, come si manifesta? S’imporrebbe una ricognizione, per rispondere, sull’intera produzione a firma di registi italiani al di là delle Alpi. Esercitano una influenza, lasciando una traccia nel cinema della repubblica di Weimar? Se lo fanno, in cosa consiste? Una domanda a cui l’attuale stato della ricerca non consente di rispondere; ma restringendo il campo alla collaborazione di Bonnard, Genina e Palermi con la Nero-Film, è possibile una considerazione. 31

Attraverso la cooperazione con gli Italiener la NeroFilm mira probabilmente alla realizzazione di un prodotto dal flair mediterraneo, che si distingua per un tocco esotico rispetto alla corrente produzione in Germania. La strategia non è circoscritta all’ingaggio del regista, ma si riflette sulle scelte riguardo al cast, al soggetto, all’ambientazione, riverberandosi complessivamente sul carattere della produzione. È significativo che, oltre alla Boni e la Albani, che compaiono in quattro dei cinque film che Bonnard, Genina e Palermi dirigono per la Nero-Film, sia cospicua nel cast la presenza di attori italiani, da Oreste Bilancia ad Angelo Ferrari, a Raimondo van Riel, estendendosi anche a ruoli di secondo piano. Inoltre si segnala la partecipazione di Livio Pavanelli a fianco della Boni in Das Mädchen der Strasse. Oltre al soggetto, per il quale Die Flucht in die Nacht e Das Mädchen der Strasse attingono a pièces italiane, anche l’ambientazione spesso è italiana. Die Flucht in die Nacht, informa La Rivista Cinematografica,63 è girato in una villa a Fiesole; un parco con colonne e cipressi, che si stagliano contro il cielo, fa da sfondo al dramma. Liebeskarneval si svolge in parte sul Lago Maggiore,64 la storia di Scampolo ha Roma per quinta e Genina punteggia il corso dell’azione con scorci della capitale, dalla scalinata di piazza di Spagna, dove si trova il chiosco del fioraio in cui dorme Scampolo, a piazza del Popolo, su cui si affaccia la stanza dove abita l’ingegnere, alla basilica di S. Pietro, il cui profilo si erge sulla città. “La Città Eterna per sfondo. L’occhio si apre al cielo. […] Una conquista cinematografica”, scrive il Film-Kurier.65 Al tempo stesso il ricorso a pièces e a una ambientazione italiana, insieme all’ingaggio di Italiener per la 32

regia e fra gli interpreti, forse risponde allo scopo di facilitare la commercializzazione in Italia, rafforzando l’ipotesi di un coinvolgimento di Genina e di Palermi nella produzione. L’interrogativo sulla differenza fra i film degli Italiener e la produzione tedesca pone anche il problema dell’influenza che questa esercita su loro. In cosa si differenziano i film che girano a Berlino da quelli che precedono la trasferta? Con l’avvento del sonoro in gran parte rientrano in patria. L’esperienza nel cinema d’oltralpe si riflette nei film di cui sono artefici all’inizio degli anni ‘30 in Italia, contribuendo alla rinascita della produzione? Con una punta d’orgoglio si osserva riguardo a Das Mädchen der Strasse che “fra i realizzatori italiani emigrati all’estero, Genina è il solo che nulla abbia perduto o acquistato”, constatando con soddisfazione che “il suo stile e il suo linguaggio visivo schiettamente umani e quindi latini, […] non sono stati sopraffatti né imbastarditi”.66 Al tempo stesso la stampa riconosce la qualità e la differenza rispetto alla produzione nazionale. A proposito di Der Sprung ins Glück osserva La Rivista Cinematografica: È un film che, oltre a recare l’inconfondibile impronta geniniana, si distacca assolutamente da quanto è stato fatto sinora in Italia. Lo stesso Genina ha superato se stesso.67

È difficile sottoporre a verifica il giudizio, determinando l’influenza del cinema d’oltralpe sui registi che lavorano in Germania. In gran parte i film non risultano visionabili. Tuttavia, considerando il fenomeno in generale, l’esperienza gioca un importante ruolo nel rilancio della produzione in Italia all’inizio del sonoro, gettando un ponte fra la crisi in cui slitta dopo la guerra e la ri33

presa; “la parentesi di lavoro all’estero, […] ha consentito un indubbio mantenimento di livello professionale”68 e si deve ai registi che operano fra Berlino e Parigi negli anni ‘20 se il cinema italiano è in grado di “ridurre rapidamente, dall’invenzione del sonoro, il gap stilistico e produttivo rispetto al contemporaneo cinema europeo e americano”,69 scuotendosi dal torpore.

Ferruccio Biancini, “I misteri della Friedrichstrasse”, in Kines, n. 26, 7 luglio 1929; cit. in Mino Argentieri, L’asse cinematografico Roma – Berlino, Napoli 1986, pag. 85. 2 Raul Quattrocchi, “La tragedia dell’Opera di Mario Bonnard”, in Kines, n. 12, 21 marzo 1929; cit. in Mino Argentieri, op. cit., pag. 85. 3 Per un panorama si vedano di Vittorio Martinelli, “I gastarbeiter fra le due guerre”, in Bianco e Nero, n. 3, 1978, pp. 3-93 e “Cineasti italiani in Germania tra le due guerre”, in Vittorio Martinelli (a cura di), Cinema italiano in Europa 1907-1929, Roma 1992, pp. 131-159. 4 Sulla Nero-Film si segnala Erika Wottrich (a cura di), M wie Nebenzahl. Nero – Filmproduktion zwischen Europa und Hollywood, Monaco 2002. 5 A riguardo si legga Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 1, Il cinema muto 1895-1929, Roma 1993, pag. 245 e passim. 6 Mino Argentieri, op. cit., pag. 88. 7 Augusto Genina, “Ora so che il cinema era il mio mondo”, in Sergio Grmek Germani, Vittorio Martinelli, Il cinema di Augusto Genina, Pordenone 1989, pag. 61. 8 Ivi, pag. 187. 9 Ivi, pag. 61. 10 Vittorio Martinelli, “Cineasti italiani in Germania tra le due guerre”, cit., pag. 146. 1

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“Die Flucht in die Nacht”, in Der Bildwart, n. 2, febbraio 1927, pag. 110. 12 Horst Halle, “Die Flucht in die Nacht”, in Deutsche Filmwoche, n. 52, 1926, pag. 11. 13 “Flucht in die Nacht”, in Die Filmwoche, n. 53, 29 dicembre 1926, pag. 1260. 14 Horst Halle, “Die Flucht in die Nacht”, cit. 15 In Der Bildwart, cit. 16 F. H–t., “Die Flucht in die Nacht”, in Reichsfilmblatt, n. 51, 1926, pag. 66. 17 –a–, “Die Flucht in die Nacht”, in Film-Kurier, n. 292, 14 dicembre 1926. 18 “Flucht in die Nacht”, in Kinematograph, n. 1035, 19 dicembre 1926, pag. 18. 19 Ad esempio si veda la recensione in Rassegna del Teatro e del Cinematografo, n. 4, aprile 1927, pag. 59, in cui si legge: “Che quest’opera […] abbia guadagnato passando dalla scena al cinematografo, saremmo senz’altro portati ad escludere”. 20 F. H–t., “Die Flucht in die Nacht”, cit. 21 –a–, “Die Flucht in die Nacht”, cit. 22 In Der Bildwart, cit. 23 “Flucht in die Nacht”, in Kinematograph, cit. 24 Ibidem. 25 F. H–t., “Die Flucht in die Nacht”, cit. 26 “Die lebende Maske”, in Paimann’s Filmlisten, n. 559, 24 dicembre 1926, pag. 210; Die lebende Maske è il titolo che il film assume in Austria. 27 Georg Herzberg, “Das letzte Souper”, in Film-Kurier, n. 265, 6 novembre 1928. 28 Valga da esempio il flano in Kinematograph, n. 1176, 1 novembre 1928, pag. 4. 29 “Das letzte Souper”, in Kinematograph, n. 1179, 8 novembre 1928, pag. 3. 30 “Das letzte Souper”, in Filmtechnik, n. 24, 24 novembre 1928, pag. 472. 11

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Ibidem. lnz., “Der Schuß in der großen Oper“, in Neue Berliner (12 Uhr Mittags), 4 novembre 1928. 33 Georg Herzberg, “Das letzte Souper”, cit. 34 Augusto Genina, “Ora so che il cinema era il mio mondo”, cit., pag. 61. 35 Sulla Westi-Film si segnala Daniel Otto, “Die Filmindustrie Europas retten! Wengeroff, Stinnes und das “Europäische Filmsyndicat”, in Jörg Schöning (a cura di), Fantaisies russes. Russische Filmemacher in Berlin und Paris 1920-1930, Monaco 1995, pp. 59-82. 36 Augusto Genina, “Ora so che il cinema era il mio mondo”, cit., pag. 62. 37 In Il Tevere, 10 marzo 1925; cit. in Riccardo Redi, Ti parlerò… d’amor. Cinema italiano fra muto e sonoro, Torino 1986, pag. 36. 38 “La storia di una piccola parigina”, in La rivista cinematografica, n. 7, 15 aprile 1928, pag. 15. 39 Sergio Grmek Germani, Vittorio Martinelli, op. cit., pag. 186; si veda anche Riccardo Redi, Cinema muto italiano (18961930), Roma 1999, pag. 201. 40 “Enrico IV”, in La Rivista Cinematografica, n. 20, 30 ottobre 1927, pag. 35. 41 “Enrico IV”, in Rassegna del teatro e del cinematografo, n. 4, aprile 1927, pag. 59. 42 Per un elenco si veda Vittorio Martinelli, Dal dott. Calligari a Lola-Lola. Il cinema tedesco degli anni Venti e la critica italiana, Gemona 2001. 43 Gian Piero Brunetta, op. cit., pag. 260. 44 Vittorio Martinelli, “Cineasti italiani in Germania tra le due guerre”, cit., pag. 143. 45 Augusto Genina, “Ora so che il cinema era il mio mondo”, cit., pag. 62. 46 Per esempio si veda Ernst Jäger, “Der Sprung ins Glück“, in Film-Kurier, n. 24, 27 gennaio 1928. 31 32

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“Das Mädchen der Strasse”, in Filmtechnik, n. 10, 12 maggio 1928, pag. 191. 48 Ernst Jäger, “Das Mädchen der Strasse”, in Film-Kurier, n. 92, 18 aprile 1928. 49 Ibidem. 50 Georg Herzberg, “Liebeskarneval”, in Film-Kurier, n. 176, 25 luglio 1928. 51 Ernst Jäger, “Der Sprung ins Glück“, cit. 52 Ernst Jäger, “Das Mädchen der Strasse”, cit. 53 –net., “Das Mädchen der Strasse”, in Die Filmwoche, n. 18, 2 maggio 1928, pag. 491. 54 Raul Quattrocchi, “La storia di una piccola parigina”, in Kines, n. 12, 25 marzo 1928, pag. 4. 55 Si cita la didascalia dalla versione in lingua francese, Totte et sa chance. 56 Ernst Jäger, “Das Mädchen der Strasse”, cit. 57 Ibidem. 58 Ernst Jäger, “Der Sprung ins Glück“, cit. 59 Georg Herzberg, “Liebeskarneval“, cit. 60 Ernst Jäger, “Das Mädchen der Strasse”, cit. 61 Georg Herzberg, “Liebeskarneval“, cit. 62 Ibidem. 63 “Enrico IV”, in La Rivista Cinematografica, cit. 64 Si veda la scheda sul film in Gerhard Lamprecht, Deutsche Stummfilme, vol. 9, 1927 – 1931, Berlino 1967, pag. 379. 65 Ernst Jäger, “Das Mädchen der Strasse”, cit. 66 Raul Quattrocchi, “La storia di una piccola parigina”, cit. 67 “La storia di una piccola parigina”, in La Rivista Cinematografica, cit. 68 Gian Piero Brunetta, op. cit., pag. 237. 69 Ivi, pag. 236. 47

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INDAGINE SU UNA FORMULA CASTA DIVA E IL MUSIKFILM D’OLTRALPE

Marta Eggerth, una star del film musicale di lingua tedesca negli anni ‘30, lo sceneggiatore Walter Reisch, che contribuisce significativamente allo sviluppo del Musikfilm d’oltralpe, il direttore della fotografia Franz Planer, lo scenografo Werner Schlichting e Willy Schmidt-Gentner, un compositore di successo di musiche per film, attivo fra Vienna e Berlino dagli anni ‘30 al dopoguerra, cosa hanno a vedere con Casta Diva, un film di produzione italiana, del 1935, di cui Carmine Gallone è il regista e in cui si narra un episodio della vita di Vincenzo Bellini? Casta Diva rappresenta uno degli apici del film opera, fiorente in Italia per un ventennio e che vede in Gallone il maggior artefice; come si giunge alla partecipazione di esponenti di primo piano del cinema d’oltralpe al film? Cercando una risposta, Casta Diva getta una luce sull’intreccio che, a vario livello, intercorre fra il cinema italiano e di lingua tedesca durante gli anni ‘30, dalle commedie nel segno dell’operetta che affollano l’inizio del decennio al filone operistico, spingendo ad interrogarsi sull’influenza che il Musikfilm d’oltralpe esercita sulla produzione in Italia. 39

Fra film in più versioni e rifacimenti L’indagine parte da La canzone dell’amore, con cui si avvia la produzione di film sonori in Italia, del quale la Cines appronta anche una versione tedesca (Liebeslied), per cui si ingaggiano Renate Müller e Gustav Fröhlich, accanto a una francese (La dernière berceuse). La regia è di Gennaro Righelli che, per la versione in lingua tedesca, coprodotta dalla Cines con la berlinese Atlas-Film,1 è affiancato da Constantin J. David. In collaborazione con la Germania la Cines produce anche il film di Nunzio Malasomma La cantante dell’opera ed effettua la sonorizzazione di una pellicola del 1927, Napoli che canta.2 Inoltre appronta in doppia versione il poliziesco L’uomo dall’artiglio e Terra madre di Alessandro Blasetti, di cui Hans Steinhoff e Constantin J. David firmano le versioni in lingua tedesca, che s’intitolano Die Pranke e Kennst du das Land. Quest’ultimo è prodotto dalla Cines “con l’aiuto di un consorzio di distributori tedeschi”.3 La produzione di film in doppia versione che la Cines avvia con La canzone dell’amore è indicativa dell’interesse con cui la casa di produzione guarda all’inizio del decennio verso la Germania, in cui si cerca un partner per rilanciare la produzione dopo la paralisi durante gli anni ‘20. Alla strategia non si direbbe estraneo il coinvolgimento della Banca Commerciale Italiana nella Cines, considerando che l’istituto conta tradizionalmente su legami con la Germania. Fra i fondatori della Banca Commerciale Italiana c’è Giuseppe Toeplitz, di origine tedesca e, dopo la morte di Stefano Pittaluga nel 1931, la direzione della Cines è assunta dal figlio Ludovico. La connessione fra la Banca Commerciale Italiana e la Germania plausibilmente gioca a fa40

vore della Cines nello sviluppo di una cooperazione con il cinema d’oltralpe.4 Nel momento in cui riprende la produzione in Italia, La canzone dell’amore rappresenta il tentativo di realizzare un prodotto in grado di piacere all’estero, con un occhio di riguardo per la Germania. Lo confermano la scelta riguardo al soggetto, un racconto di Luigi Pirandello, lo scrittore che gode di maggior fama fuori d’Italia a cavallo del decennio, a cui il cinema attinge anche in Germania, Francia ed a Hollywood, come l’affidamento del progetto a un regista che lavora con successo a Berlino durante gli anni ‘20. Tuttavia l’ambizione che la Cines coltiva inizialmente, di partecipare da protagonista alla rivoluzione del sonoro, con la realizzazione di film in più versioni per l’estero, fallisce. Presto l’esperienza si esaurisce e subentra una fase in cui, con l’eccezione di un paio di film di Mario Bonnard, dei quali è approntata anche una versione in lingua francese, ci si limita a una produzione per il mercato interno. Nel ripiegamento si rispecchia la debolezza del cinema italiano all’inizio del decennio, incapace di concorrere con l’estero, a causa di una produzione che si connota per provincialismo e non risponde al gusto del pubblico in Europa. Segue un periodo in cui nel cinema italiano si guarda all’estero, di frequente prendendo il cinema d’oltralpe a modello. La Germania fa di nuovo da principale riferimento, segnatamente nel campo della commedia e del Musikfilm, e si registra un cospicuo numero di rifacimenti o di versioni di pellicole tedesche, che caratterizzano peculiarmente la produzione fra 1931 e 1933. Tre commedie, La segretaria privata, La telefonista e Due cuori felici, si collocano esemplarmente in questa fase, 41

in cui il tentativo di realizzare un prodotto per l’esportazione cede il passo all’assunzione dell’estero a punto di riferimento. Tutti e tre i film, prodotti dalla Cines fra 1931 e 1932 e che la storiografia include fra i titoli di maggior interesse del periodo, sono il remake di pellicole tedesche. La segretaria privata è un adattamento della commedia di Wilhelm Thiele Die Privatsekretärin, con Elsa Merlini al posto di Renate Müller, La telefonista e Due cuori felici si rifanno a Fräulein, falsch verbunden di E.W. Emo e al film di Max Neufeld Ein bisschen Liebe für Dich, con un giovane Vittorio De Sica che sostituisce Hermann Thimig e “prestante e spontaneo”, lo descrive Filippo Sacchi, “canta con la solita grazia”.5 Riguardo a La segretaria privata Goffredo Alessandrini, di cui il film costituisce l’esordio nella regia, dopo una collaborazione con Blasetti e una esperienza a Hollywood, ricorda come il progetto gli è affidato dalla Cines per verificare la sua capacità, al tempo stesso riducendo l’alea di un insuccesso. Racconta il regista che il produttore Angelo Besozzi, per darmi fiducia, mi disse: guarda, ormai credo che sei maturo, hai fatto l’assistente due volte, […] ti affido un film. Per non darti troppa responsabilità, c’è l’occasione eccezionale di rifare un film tedesco.6

La considerazione è estensibile idealmente all’insieme del cinema italiano all’inizio degli anni ‘30, in cui il rifacimento di pellicole d’oltralpe, per dire così, funge da scuola, nel momento in cui la produzione si riavvia dopo la crisi. Quasi che si colga l’opportunità di fare dell’esercizio e di familiarizzarsi con la novità che il sonoro rappresenta inizialmente, grazie alla pratica del rifacimento, mentre 42

si minimizza il rischio per la produzione. Come ricorda Alessandrini riguardo a La segretaria privata, Questo film è stato girato in 21 giorni, cosa possibile solo perché c’era già un piano fatto, c’era già un altro film, e quindi […] era facile organizzare tutto. Si sapeva già dove si andava, no?, con i rifacimenti.7

Un confronto con il film di Thiele non è possibile che in parte, poiché di Die Privatsekretärin si è conservato soltanto un frammento. Pur trattandosi di un rifacimento, prodotto dalla Cines a un anno di distanza, non di una versione che si gira insieme all’originale a Berlino, la parte di cui si dispone mostra che La segretaria privata segue fedelmente Die Privatsekretärin, come conferma Alessandrini. Besozzi m’ha messo a disposizione la versione tedesca […] e quindi io avevo tutta la possibilità di rivedermela in proiezione o alla moviola. […] Penso di avere copiato più esattamente che potevo.8

Si tratta più di una traduzione che di un rifacimento, con l’eccezione della sequenza nel night, dove il direttore invita la segretaria a una cena a lume di candela. Distaccandosi parzialmente dall’originale, la sequenza acquista in durata e, ampliandola, Alessandrini offre l’occasione a Sergio Tofano, nella parte del portiere, di mettere in luce il suo estro. Visto l’effetto di quella scena lì, […] l’ho prolungato, […] rendendo la scenografia più grande e più ampia, così ho dato modo a Tofano, […] di sfogarsi come voleva.9

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Il successo di cui gode La segretaria privata è all’origine di una serie di rifacimenti di commedie d’oltralpe fra 1931 e 1933. Dopo La telefonista, una variazione sul tema della ragazza che conosce il marito sul posto di lavoro si ritrova nella commedia di Blasetti L’impiegata di papà, che ha per modello Heimkehr ins Glück di Carl Boese. Amleto Palermi ricava Non c’è bisogno di denaro dal film di Boese Wir brauchen kein Geld e Carlo Ludovico Bragaglia si rifà a Csibi, der Fratz di Neufeld con Frutto acerbo, in cui Lotte Menas sostituisce Franziska Gaal. Melodramma, che Robert Land dirige insieme a Giorgio C. Simonelli, è il rifacimento di Der träumende Mund di Paul Czinner, con la Merlini al posto di Elisabeth Bergner. A proposito di La segretaria privata Gian Piero Brunetta richiama l’attenzione sul “tentativo di modernizzazione dei soggetti”,10 che caratterizza significativamente parte della produzione italiana all’esordio del decennio. Ed evidenzia il debito che il film di Alessandrini ha con il cinema di Hollywood,11 dal ricorso al tema di Cenerentola, che sottende alla commedia, percorrendo in filigrana la parabola della segretaria che sposa il direttore, alle scene che rinviano al film di King Vidor The Crowd (La folla, 1928) o City Lights (Luci della città, 1930) di Charlie Chaplin, rispettivamente per la caratterizzazione dell’ufficio, con i tavoli a schiera, e il comportamento del direttore che, alzando il gomito, sollecita il portiere a dargli del tu, ma dimentica tutto al mattino. Se il debito con Hollywood è incontrovertibile, al tempo stesso La segretaria privata è il rifacimento di un film tedesco, che ricalca fedelmente, e l’elemento si rivela importante per valutare pienamente la novità che presenta, insieme a La telefonista ed a Due cuori felici, riguardo al contenuto 44

e nello stile. Come è stato osservato, nelle tre commedie si avverte “la capacità di sintonizzarsi con la corsa verso la modernità” e si apprezza “l’intelligenza con cui vengono colti e rappresentati i nuovi ritmi della modernizzazione”.12 È notevole che ciò avvenga per il tramite del cinema tedesco. Lo sguardo che La segretaria privata, La telefonista, Due cuori felici rivolgono all’Italia all’inizio degli anni ‘30 non è diretto, ma passa per le commedie d’oltralpe di cui si servono da modello, quasi che il cinema italiano non possieda ancora la capacità di confrontarsi autonomamente con la realtà del paese, trovando nel cinema della nazione, la Germania, che incarna la modernità in Europa fra la fine della guerra e gli anni ‘30, le immagini per parlare dell’Italia, sintonizzandosi con il paese. Accanto ai remake di film tedeschi che si girano in Italia, si colloca una serie di versioni in lingua italiana di commedie d’oltralpe, che vedono la luce a Berlino fra 1932 e 1934. Dopo il tentativo di realizzare in Italia un prodotto per il mercato d’oltralpe, la serie rinvia a un altro aspetto del rapporto che s’intreccia all’inizio degli anni ‘30 fra il cinema italiano e di lingua tedesca. La serie inizia con Marion, das gehört sich nicht, di cui Emo dirige anche la versione italiana, Cercasi modella, mentre Ferruccio Biancini provvede a quella della commedia di Emo Kleine Mädeln, grosses Glück, con il titolo Una notte con te. Ad entrambe le versioni in lingua italiana partecipa la Merlini, sostituendo rispettivamente Magda Schneider e Dolly Haas. L’attrice, che nasce a Trieste, ma si forma a Vienna, “parla benissimo il tedesco”, informa il Film-Kurier.13 Inoltre Emo dirige La ragazza dal livido azzurro, la versione in lingua italiana della sua commedia Und wer küsst mich?, e la Merlini impersona di nuovo la 45

protagonista nelle versioni delle commedie di Boese Paprika e Das Blumenmädchen vom Grand Hotel; rispettivamente s’intitolano come l’originale e Lisetta e le dirigono lo stesso Boese e Biancini. A quest’ultimo si deve anche la versione di Die Unschuld vom Lande di Boese, La provincialina. Anche del film di Neufeld Das Lied der Sonne è girata una versione in lingua italiana; il titolo è La canzone del sole e la regia è dello stesso Neufeld. Artefice di queste pellicole è la Itala-Film, attiva a Berlino dall’inizio degli anni ‘30 e alla guida della quale si trova l’italiano Alberto Giacalone. Qualitativamente la serie appare trascurabile, tuttavia rappresenta l’avvio di una coproduzione fra Roma e Berlino (sul Film-Kurier si presenta Giacalone come “un pioniere della collaborazione tedesco-italiana”),14 a cui la Itala-Film contribuisce significativamente nel prosieguo del decennio. Gran parte dei film è realizzata dalla Itala-Film insieme all’italiana S.A. Produzione Films (Sapf), che stipula un accordo con la Pittaluga per la distribuzione.15 Insieme al produttore Liborio Capitani, attivo fra l’inizio degli anni ‘30 e la fine della guerra, alla direzione della Sapf si trova Angelo Besozzi. Nell’estate 1933 nasce un consorzio, che prende il nome di Italfonosapf, al quale si associa anche la FonoRoma; l’intesa punta a un ampliamento della cooperazione con la Germania.16 Il successo si rivela breve e la serie di versioni in lingua italiana di film d’oltralpe termina nel 1934, quando la produzione si limita a una pellicola, La provincialina, e un progetto dell’Itala-Film sulla vita di Napoleone Bonaparte, in coproduzione fra Italia e Germania, che la società annuncia nel 1933, non si realizza.17 Fallisce la strategia della società di rifornire il mercato italiano con film a basso co46

sto dalla Germania, profittando della debolezza della produzione in Italia. Il tempo del rifacimento e delle versioni di film d’oltralpe si esaurisce fra 1933 e 1934. Una ragione, insieme al rafforzarsi della produzione nazionale, è da cercarsi nella storia della musica, come si evolve in Italia, differenziandosi dalla Germania e dall’Austria, segnatamente per ciò che riguarda lo sviluppo dell’operetta. Questa gode di grande popolarità fra Vienna e Berlino fra la fine dell’800 e l’inizio del secolo, plasmando il carattere del Musikfilm d’oltralpe, mentre si colloca in secondo piano in Italia, rispetto al favore che si tributa al melodramma. Come osserva Ernesto G. Oppicelli, in Italia l’operetta ha trovato […] forze decisamente contrarie ad una sua affermazione. […] L’ostacolo del favorito, Sua Eccellenza il Melodramma, ha contribuito non poco a far camminare a passo di lumaca la fortuna dell’operetta in Italia.18

Le commedie che la Itala-Film appronta a Berlino s’ispirano in buona parte alla tradizione dell’operetta e ciò le rende distanti dal gusto del pubblico, come lamenta Enrico Roma a proposito di Una notte con te. I tedeschi si sono da qualche tempo immersi fino al collo nell’operetta (o Lubitsch di quanto male non fosti causa!) [...] Fossero almeno divertenti, intelligenti, ricchi di originali trovate! Macché. La minestra è sempre quella, con tendenza fatale a peggiorare.19

Contemporaneamente il rimprovero, che echeggia da un periodico all’altro, si colora di un tono nazionalista. Sul47

la stampa si stigmatizza “l’assurdità del sistema sul quale i nostri produttori insistono”; presentando La ragazza dal livido azzurro, Cinema Illustrazione si chiede: “Come si fa ad illudersi che una commedia concepita, realizzata, recitata da gente di un altro paese, […] possa raggiungere i medesimi effetti?”.20 Mentre si invoca una produzione che restituisca all’Italia il prestigio di un tempo, si diffonde fra la critica l’insofferenza per la pratica di produrre delle versioni in lingua italiana di commedie d’oltralpe. Ironicamente Mario Gromo osserva riguardo a Paprika: Prima, si cercava d’imitarle o di ricalcarle, qui, nei nostri teatri di posa; [...] ora si spinge lo scrupolo fino ad andare direttamente a Berlino; ed in un teatro di posa tedesco, con apparecchi tedeschi, con un direttore tedesco che sorveglia un soggetto tedesco, si fa il film italiano.21

Gli ingredienti di Casta Diva Risalendo il corso degli anni ‘30, sulla traccia dell’influenza del cinema di lingua tedesca in Italia, l’indagine approda a Casta Diva. Un film che si colloca al centro del decennio, cronologicamente, giacché è girato nel 1935 e, idealmente, in quanto separa il tempo dei remake e dei film in doppia versione dal filone operistico che fiorisce alla fine degli anni ‘30. Non appartiene a un campo né all’altro, ma funge da congiunzione. Incarna esemplarmente l’influenza del cinema d’oltralpe sul film musicale in Italia, pur non trattandosi di una coproduzione. Tiene a battesimo il filone del film opera, tuttavia è in debito con Leise flehen meine Lieder (Angeli senza paradiso, 1933) l’esordio di un maestro dell’Operettenfilm, Willi Forst. 48

Sulla stampa, quando è presentato al festival di Venezia nell’agosto 1935, Casta Diva è salutato come un segno della ripresa in atto nel cinema italiano, una prova che questo è all’altezza della produzione estera. “Italianissimo è il film”, si legge su Il Popolo d’Italia,22 che sottolinea “la sua italianità di concezione ed esecuzione”, e si ascrive il successo all’azione della Direzione Generale per la Cinematografia, appena costituita dal regime per “regolare, ispirare, dirigere, controllare” il cinema in Italia.23 Una valutazione che la storiografia sostanzialmente fa propria, generalmente trascurando l’apporto che proviene dal Musikfilm d’oltralpe alla genesi del film opera. Valga da esempio la scheda su Casta Diva nel Dizionario universale del cinema, dove si legge: Casta Diva testimonia dello sforzo attuato dalla cinematografia italiana per risollevarsi dalla mediocrità produttiva, […] per darsi un nuovo e più dignitoso aspetto, che le consentisse anche l’accesso ai mercati internazionali. […] Il merito di questa azione promozionale va ascritto a Luigi Freddi. […] Si inaugurava così un nuovo genere, il film musicale all’italiana.24

Si tace all’epoca, come si ricava da uno sguardo alla stampa, e si dimentica successivamente che la protagonista, lo sceneggiatore, il compositore, il direttore della fotografia e lo scenografo di Casta Diva sono figure di primo piano del cinema di lingua tedesca. Una connection con il Musikfilm d’oltralpe che si palesa pienamente se si considera la società, l’Alleanza Cinematografica Italiana, costituita all’inizio del 1935 per produrre Casta Diva, dietro la quale si scorge la presenza della Cine-Allianz, fra le case di produzione tedesche di maggior successo 49

all’epoca, di proprietà di Grigorij Rabinovič e Arnold Pressburger. Entrambi partecipano, pur non risultando fra i proprietari dell’Alleanza Cinematografica Italiana, alla produzione di Casta Diva, insieme a Wilhelm Szekely, come conferma Freddi nelle memorie che pubblica dopo la guerra. Prima grande realizzazione cinematografica che fu effettuata dopo la costituzione della Direzione generale, […] per questo film era piombato a Roma lo stato maggiore della produzione europea: da Arnold Pressburger e Gregor Rabinovitch [sic] a Szekely.25

Prima di associarsi nella Cine-Allianz, Rabinovič e Pressburger, rispettivamente di origine russa e ungherese, sono attivi fra Parigi, Berlino e Vienna. Come molti fra i suoi connazionali, Rabinovič giunge in Francia all’indomani della rivoluzione d’Ottobre. Qui lavora all’inizio degli anni ‘20, impegnandosi in coproduzioni fra Parigi e Berlino, mentre Pressburger è a Vienna nel dopoguerra (fra l’altro partecipa alla Sascha-Film), prima di trasferirsi in Germania. All’avvento del sonoro Rabinovič e Pressburger s’impegnano nella produzione di film in più versioni e nel genere musicale, profilandosi fra i produttori di maggior successo nel cinema d’oltralpe.26 Come si giunge al loro coinvolgimento nella produzione di Casta Diva? Una risposta è da cercarsi nella situazione in Germania dopo l’avvento al potere di Adolf Hitler, che costringe centinaia d’esponenti del cinema di lingua tedesca, per ragioni razziali o politiche, a lasciare il paese. È anche il caso di Pressburger e di Rabinovič, che inizialmente spostano l’attività a Vienna, dove la Cine-Allianz produce il film di Forst Leise flehen meine Lieder, poi Pressburger si stabilisce a 50

Londra, mentre la costituzione dell’Alleanza Cinematografica Italiana e la partecipazione alla realizzazione di Casta Diva testimoniano del tentativo di avviare una collaborazione con l’Italia, coltivando l’ambizione dopo l’abbandono di Berlino d’intrecciare una cooperazione fra Roma, Londra e Vienna. Qui si stabilisce Szekely, mentre Pressburger costituisce una società di produzione a Londra, la British Cine Alliance, puntando a una cooperazione con Hollywood. Nella strategia si situa esemplarmente la produzione di Casta Diva, di cui si appronta anche una versione in lingua inglese, The Divine Spark. Al tempo stesso la realizzazione di Casta Diva si colloca in un “contesto di apertura internazionale, di permeabilità e di scambio di esperienze”,27 che si afferma nel cinema italiano a metà degli anni ‘30 e lo contrassegna significativamente. Con l’obiettivo di sprovincializzare la produzione, di accrescere la qualità e l’appeal in Europa, si diffonde l’ingaggio di registi d’oltralpe, in parte profittando della difficoltà in cui alcuni si trovano a proseguire l’attività fra Berlino e Vienna. E si moltiplicano le case di produzione che affidano un film ad esponenti di spicco del cinema d’oltralpe. L’elenco va da Max Ophüls a Pierre Chenal, Jean Epstein, Abel Gance, Kurt Gerron e Gustav Machatý, dei quali si registra l’attività in Italia fra 1934 e 1936. Tutti i registi, dai più legati a un solo genere [...] a quelli già accreditati sul piano internazionale [...] sono assunti nella speranza che, dal loro esempio, dalla loro azione fecondante, nascano nuovi germi e vengano additate nuove prospettive al nostro cinema.28

È il contesto in cui s’inserisce il tentativo di Pressburger e di Rabinovič, a fronte della situazione in Germania, 51

di proseguire l’attività in Europa, intrecciando una collaborazione con l’Italia, che s’incontra con lo sforzo di Luigi Freddi, appena nominato alla guida della Direzione Generale per la Cinematografia, per elevare il livello della produzione in Italia. Dall’incontro nasce il progetto di Casta Diva, interpretabile come il frutto di un accordo fra Rabinovič, Pressburger e la Direzione Generale per la Cinematografia. Questa appoggia i produttori nel tentativo di operare in Italia ed essi garantiscono in cambio una produzione d’appeal europeo. Come conferma una nota dell’Ambasciata tedesca a Roma, la produzione di Casta Diva si colloca sotto l’egida della Direzione29 e questa plausibilmente favorisce la creazione dell’Alleanza Cinematografica Italiana, a cui partecipa anche un figlio del duce, Vittorio Mussolini.30 È indicativa anche la scelta riguardo al regista. L’affidamento del progetto a Gallone, che costituisce verosimilmente un tassello dell’accordo fra Rabinovič, Pressburger e la Direzione Generale per la Cinematografia, risponde al tempo stesso al disegno di una produzione con appeal internazionale e soddisfa l’esigenza, che sta a cuore al regime, di un film che abbia marcatamente un carattere italiano, a partire dal soggetto, con cui si celebra un maestro del melodramma, Bellini, esplicitamente collegandosi alla storia e alla cultura del paese. All’epoca Gallone è fra i registi italiani con maggior esperienza in Europa. Dalla metà degli anni ‘20 lavora con successo fra Berlino, Parigi e Londra e la sua strada si incrocia spesso con il Musikfilm d’oltralpe.31 Nel 1930 gira Die singende Stadt (La città canora), di cui è prodotta anche una versione inglese, City of Song. Fra i produttori c’è Pressburger, che Gallone conosce nel 1929 sul set di 52

Das Land ohne Frauen, di cui Pressburger dirige la produzione per la F.P.S. e la Tobis.32 Successivamente il regista gira Mein Herz ruft nach Dir (E lucean le stelle) per la CineAllianz, a cui partecipano la Eggerth e Jan Kiepura, che la casa di produzione ha sotto contratto all’inizio degli anni ‘30. Forte di una esperienza in Europa e per la sua collocazione a cavallo fra Italia e Germania, Gallone assolve in Casta Diva una funzione di trait d’union con la produzione d’oltralpe, in grado di fornire un prodotto di respiro europeo, al tempo stesso garantendo il carattere nazionale. Per la sua dualità, di regista europeo e italiano, risponde alla doppia natura di un progetto che si vuole italiano, per considerazioni d’ordine politico, e internazionale, come è auspicabile commercialmente. Qual è il rapporto fra Leise flehen meine Lieder e Casta Diva? Fra il titolo che segna un vertice nella storia dell’Operettenfilm d’oltralpe e la pellicola che tiene a battesimo il filone operistico in Italia? L’interrogativo s’impone se si considera che Reisch, la Eggerth e Planer, Schlichting, Schmidt-Gentner, Rabinovič e Pressburger sono ugualmente lo sceneggiatore, la protagonista, il direttore della fotografia, lo scenografo, il compositore e i produttori del film d’esordio di Forst. Casta Diva è forse un rifacimento di Leise flehen meine Lieder? Non si tratta di questo, giacché il soggetto è diverso, tuttavia Casta Diva si configura come una filiazione del film di Forst e si avverte una affinità fra Leise flehen meine Lieder e il film di Gallone, una somiglianza, a cui la critica accenna all’epoca. Recensendo Casta Diva, Gromo lo include fra “i film che hanno per capostipite L’Incompiuta” (fra i titoli con cui Leise flehen meine Lieder è noto in Italia) e l’osservazione torna sulla stampa all’estero.33 La pubblicistica successivamente tra53

scura l’elemento, con l’eccezione di Ricardo Blasco che, in un saggio su Cinema, richiama l’attenzione sul debito di Casta Diva verso Leise flehen meine Lieder, che funge da modello e con cui Gallone “basandosi sulla vita di Bellini, procura, sia pure dignitosamente, di ripetere la formula della pellicola di Forst.”34 Confrontando i film, si riscontra di primo acchito una somiglianza riguardo alla vicenda e ai personaggi. Alcune situazioni ritornano fra Leise flehen meine Lieder e Casta Diva. La ragazza (si chiama Emmi nel film di Forst ed è la figlia del gestore di un monte di pietà, il suo nome è Maddalena in Casta Diva e il padre è un notabile) che s’impegna affinché il musicista che ama, si tratti di Franz Schubert o di Bellini, abbia una occasione per esibirsi in pubblico; la canzone, Leise flehen meine Lieder e Casta Diva, che il musicista le dedica e dà il titolo al film; la primadonna (è Karoline, una contessa in Leise flehen meine Lieder, diviene una cantante d’opera nel film di Gallone) che lo ammalia. Anche i protagonisti si somigliano. Uguale è l’aria trasognante con cui Schubert e Bellini passeggiano, uno per la campagna, l’altro in riva al mare, componendo della musica. Ed i monelli che attorniano Bellini al porto ricordano gli scolari a cui Schubert spiega malinconicamente la matematica, mentre la figura di Maddalena rinvia al tempo stesso a Emmi e Karoline. Inizialmente ricorda Emmi, la ragazza del popolo, per incarnare a poco a poco la contessa. Come accade a Karoline, Maddalena è promessa a un uomo che non ama e il dolore consuma ambedue. Lo si intuisce riguardo a Karoline, di cui si sente soltanto il grido e si vede lo svenimento, mentre la morte è esplicita nel caso di Maddalena, ma il loro destino è identico. 54

Casta Diva pare anche mutare in parte lo stile da Leise flehen meine Lieder e una scena o un passaggio o un particolare talvolta hanno il carattere di una citazione dal film di Forst. È il caso della scena in cui Bellini improvvisa al pianoforte, contemplando un ritratto di Maddalena. Una sovrimpressione congiunge il musicista e Maddalena, di cui Gallone moltiplica il volto, ricolmando l’inquadratura. Analogamente procede Forst per esprimere in immagine il sentimento che unisce Schubert con Karoline, l’artista alla sua musa. Gli occhi di Maddalena, che Bellini schizza su un foglio e che si trasformano nelle note di Casta Diva, rinviano ai numeri che Schubert scarabocchia sulla lavagna, che divengono la musica di un Lied. Il dettaglio di due colombe in gabbia, su cui la macchina da presa indugia quando Bellini si dichiara a Maddalena, suggerendo al tempo stesso il sentimento che li unisce e il destino che li attende, deve qualcosa all’immagine del metronomo con cui Forst traduce visivamente l’indecisione di Schubert fra Emmi e Karoline. Si riconosce la mano di Reisch nell’umorismo a cui talvolta si ricorre per smorzare il pathos che prende il sopravvento, come accade quando Bellini compone e il volto di Maddalena appare in cielo, ma si tratta soltanto del suo ritratto che un maggiordomo spolvera solertemente; oppure è il gargarismo in cui è intenta la primadonna, lamentando un male alla gola, a fare da contrappunto alla discussione che oppone l’impresario e il compositore dopo il fiasco della Norma. Rafforza l’impressione di una consonanza la Stimmung che permea la storia d’amore e di dolore in entrambi i film. La condensa esemplarmente l’avverbio nel titolo del film di Forst, Leise flehen meine Lieder. Giacché leise, sommessa 55

è la passione che unisce Schubert e la contessa. Come il dolore che celano nel profondo. Lo sospirano (è il significato di flehen), non lo gridano. L’osservazione vale anche per l’amore fra Bellini e Maddalena, che soffre e muore in silenzio. Casta Diva condivide con Leise flehen meine Lieder il tono che lo percorre. Entrambi mancano dell’happy end (l’amore non si realizza, la donna si ammala e muore, il musicista è solo), tuttavia il finale non è triste, la rassegnazione con cui i protagonisti accettano il destino addolcisce il dramma. Resta una malinconia che avvolge tutto, prende al tempo stesso i personaggi e lo spettatore e lenisce il dolore, accomunando Leise flehen meine Lieder e Casta Diva. Non sorprende che, riconsiderando nel dopoguerra lo sviluppo del film musicale, Gallone osservi: “Sono moltissimi i titoli che potrei citare di film del genere, [...] ma mi limiterò a uno solo”, ricordando Leise flehen meine Lieder.35

Un prodotto d’esportazione Casta Diva contrassegna nel cinema italiano uno spartiacque, marcando l’inizio del filone operistico, pur non trattandosi del primo film opera in Italia. Tralasciando gli adattamenti di opere liriche durante il muto, all’inizio del sonoro si contano due produzioni della Cines per la regia di Guido Brignone, La Wally (1931) e Pergolesi (1932), rispettivamente un adattamento dell’opera di Alfredo Catalani e la storia d’un amore che liberamente si attribuisce a Giovan Battista Pergolesi per una fanciulla di Napoli, ai quali si aggiunge nel 1934 la trasposizione di un’opera del compositore, La serva padrona. 56

Il fatto che Casta Diva contrassegni l’inizio del filone si deve al suo successo, con cui si esplicita l’appeal che il film opera esercita fuori d’Italia, indirizzando l’attenzione verso un elemento che contribuisce considerevolmente allo sviluppo del filone; la sua commerciabilità all’estero fa sì che il film opera divenga il genere a cui si ricorre di preferenza al termine degli anni ‘30 per coproduzioni con la Germania. Con ciò non si dimentica il legame che s’intreccia a doppio filo fra il film opera e il melodramma, una espressione della cultura e della storia d’Italia. Né l’influenza che, travalicando il filone, questo esercita sul cinema italiano, in cui è riscontrabile, dalla gestualità delle dive negli anni ‘10 all’opera di Luchino Visconti, una “esthétique de l’opéra”.36 Tuttavia, ciò non dà conto interamente della natura del film opera, in cui si riscontra una doppia anima, contemporaneamente presentandosi come l’espressione genuina di un paese ed offrendo qualcosa che si apprezza internazionalmente, una musica che si conosce ovunque e si vende proficuamente. Un materiale che si confà all’esportazione e che rende il film opera il genere di maggior appeal all’estero di cui si disponga nel cinema italiano degli anni ‘30. Di nuovo è centrale il ruolo di Giacalone, al quale si deve la maggior parte delle coproduzioni con la Germania nel campo del film musicale che si girano in Italia da metà degli anni ‘30. All’inizio della serie si collocano i film Non ti scordar di me e Ave Maria, che il produttore realizza nel 1935 in collaborazione con l’Astra Film.37 Questi hanno ancora per modello le pellicole che la ItalaFilm mette in cantiere all’inizio degli anni ‘30 a Berlino. In entrambi i casi si tratta di produzioni in doppia ver57

sione, girate in Germania, dove rispettivamente s’intitolano Vergiss mein nicht! e Ave Maria. Tuttavia si tiene in considerazione anche la formula di Casta Diva e si affida Non ti scordar di me a un regista italiano di esperienza internazionale, Augusto Genina, approntando al tempo stesso una versione in lingua inglese, Forget Me Not, con la partecipazione della London Film; la dirigono Zoltan Korda e Stanley Irving. Successivamente Giacalone sposta l’attività a Roma, dove costituisce nel 1937 la S.A. Itala Film,38 con cui produce a cavallo del decennio alcuni fra i titoli di maggior rilievo del filone. La serie inizia con Solo per te (1938), di cui si appronta anche una versione tedesca, Mutterlied. È l’avvio di una collaborazione con Gallone, che prosegue con Giuseppe Verdi, una produzione ad alto budget, a cui partecipa la tedesca Tobis,39 e con un melodramma in doppia versione, Marionette, che assume in Germania il titolo di Dir gehört mein Herz. Giacolone produce in versioni italiane e tedesche anche Casa lontana (1939) di Johannes Meyer e Traummusik (1940) di Géza von Bolvary. Quest’ultimo è girato a Berlino e la versione in lingua italiana (Ritorno) è coprodotta insieme alla Scalera Film. Seguono i melodrammi Mamma (1941) e Vertigine (1942), dei quali si propone ugualmente una versione tedesca (rispettivamente s’intitolano Mutter e Tragödie einer Liebe), affidando la regia a Brignone, del quale si ricorda l’esperienza in Germania negli anni ‘20. L’esito della guerra, con l’occupazione dell’Italia da parte degli Alleati, spinge nel 1943 Giacalone a spostare di nuovo l’attività a Berlino, dove produce ancora un film in doppia versione, Lache, Bajazzo, per la regia di Leopold Hainisch e Giuseppe Faticati; si tratta di un adattamento 58

dell’opera di Ruggero Leoncavallo I pagliacci, che è anche il titolo del film in Italia. Se si considerano nel quadro dei rapporti fra Roma e Berlino nel campo del film musicale, di cui mettono in luce un nuovo aspetto, i titoli di cui è artefice in Italia alla fine degli anni ‘30 appaiono in opposizione con le pellicole che la Itala-Film gira a Berlino all’inizio del decennio. Quelli esprimono il tentativo di confezionare all’estero una mercanzia per l’Italia, questi rappresentano un prodotto che vede la luce in Italia per l’estero. Con i titoli che gira a Cinecittà, Giacolone idealmente si collega a La canzone dell’amore e all’ambizione della Cines di produrre in Italia dei film per il mercato d’oltralpe. Il progetto, se fallisce all’inizio del sonoro, si compie al termine degli anni ‘30 nel segno del film opera. Numerosi elementi richiamano la connessione del filone con la Germania. È indicativa la partecipazione di case di produzione tedesche, con la Tobis che, accanto a Giuseppe Verdi, interviene nella realizzazione di Solo per te e I pagliacci.40 Un indizio l’offrono anche le date d’uscita in Germania, talvolta precedenti quelle in Italia. La prima di Marionette, che esce in Germania nel novembre 1938, ha luogo in Italia nel gennaio seguente.41 Ma l’orientamento verso il mercato d’oltralpe si riflette in primo luogo sulla composizione del cast. È significativo che parte degli interpreti sia di lingua tedesca; la presenza non è circoscritta alla versioni per la Germania, spesso comparendo anche in quelle italiane, per le quali si procede al doppiaggio. Ad esempio, in Solo per te recitano Peter Bosse, Hans Moser e Hilde Hildebrand; per Marionette s’ingaggiano Carla Rust, Lucie Englisch, Paul Kemp e Theo Lingen; Kirsten Heilberg è la protagonista di Casa lontana; Ruth Hellberg, Herbert 59

Wilk e Camilla Horn partecipano a Vertigine. E il numero degli esponenti di lingua tedesca è considerevole anche fra i tecnici. Agli ingredienti che costituiscono la formula del film opera si aggiunge il tenore che invariabilmente è italiano ed impersona il protagonista. Quale sia la parte, un padre che perde la figlia (Vertigine), un cantante che si finge contadino (Marionette), un assassino che dimostra la sua innocenza (Casa lontana), Beniamino Gigli, con cui la Itala-Film avvia la collaborazione nel 1935 con Vergiss mein nicht, incarna la tradizione del bel canto e funge d’attrazione per il pubblico. Insieme al regista, come insegna Casta Diva, il tenore si fa garante della genuinità del prodotto, contribuendo al richiamo sul mercato d’oltralpe, giacché il melodramma e il film opera, che gli si ispira e lo divulga sullo schermo, appartengono alla quintessenza dell’immagine dell’Italia all’estero. Un elemento completa la formula. Spesso lo sceneggiatore è tedesco o austriaco e l’elenco va da Max W. Kimmich e L.A.C. Müller, che rispettivamente firmano il soggetto e la sceneggiatura di Casa lontana, a Richard Billinger e Georg C. Klaren (a cui si deve anche Ave Maria) che scrivono Ritorno, mentre Harald Bratt contribuisce alla sceneggiatura de I pagliacci. La collaborazione palesemente risponde allo scopo di conformare la produzione al gusto d’oltralpe, ma (e ciò è interessante) non è circoscritta ai film in doppia versione, abbracciando l’insieme del filone. Dopo Solo per te, che scrive insieme a Bernd Hofmann, Thea von Harbou è fra gli sceneggiatori di Maria Malibran, una biografia della cantante d’opera d’inizio dell’800, che Brignone gira nel 1943; a Kurt Alexander, che all’inizio degli anni ‘30 collabora con Max Ophüls, si deve il soggetto per I due barbieri.42 60

In particolare, fra gli sceneggiatori che contribuiscono al filone spicca Ernst Marischka, per l’estensione e l’esito della partecipazione. Fra i protagonisti del cinema d’oltralpe fra il muto e gli anni ‘50, scrive Vergiss mein nicht e intreccia una collaborazione con Gallone che si estende a cinque film fra gli anni ‘30 e la guerra (a cui si aggiunge nel 1947 Addio Mimì!), da Mein Herz ruft nach Dir a Melodie eterne (1940), una biografia di Wolfgang Amadeus Mozart, includendo Marionette, Il sogno di Butterfly (1939), del quale è prodotta anche una versione in lingua tedesca (Premiere der Butterfly), e un film che Gallone dirige nel 1939 a Monaco, Das Abenteuer geht weiter (L’allegro cantante). Una collaborazione fra il regista a cui si deve la fioritura del film opera e un esponente di spicco dell’Operettenfilm sulla riva del Danubio, che ripropone prepotentemente l’interrogativo sul rapporto fra Musikfilm d’oltralpe e il genere in Italia.

Ne informa una nota dell’Ambasciata tedesca a Roma, del 30 aprile 1931; Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes (Berlino), Botschaft Rom/Quirinal, Paket 821/b, Band 3. 2 Mino Argentieri, L’asse cinematografico Roma – Berlino, Napoli 1986, pag. 103. 3 Dalla nota dell’Ambasciata tedesca a Roma, del 30 aprile 1931; Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes (Berlino), Botschaft Rom/Quirinal, Paket 821/b, Band 3. 4 Ettore M. Margadonna ricorda che “Raffaele Mattioli, il rappresentante generale dell’Ufa in Italia era il fratello del rappresentante generale della Banca Commerciale a Berlino”; Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta, Roma 1979, pag. 716. 5 Filippo Sacchi, “Due cuori felici – La segretaria per tutti”, in Corriere della Sera, 11 settembre 1932, pag. 5. 1

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Francesco Savio, op. cit., pag. 12. Ibidem. Ivi, pp. 12 e 13. Ivi, pag. 13. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 2, Il cinema del regime 1929-1945, Roma 1993, pag. 235. Ivi, pag. 236. Ivi, pag. 242. “Giacalones Rom-Abschlüsse”, in Film-Kurier, n. 87, 11 aprile 1933. “Die römische Premiere vom Lied der Sonne”, in Film-Kurier, n. 260, 4 novembre 1933. “S.A.P.F. und Pittaluga”, in Film-Kurier, n. 133, 9 giugno 1933. “Bedeutsame Zusammenarbeit”, in Film-Kurier, n. 130, 6 giugno 1933. Ibidem e “Giacalones Programm”, in Film-Kurier, n. 158, 8 luglio 1933. Il film è prodotto nel 1935 col titolo Campo di maggio dal Consorzio Vis, in coproduzione con la Germania e in doppia versione. Titolo della versione in lingua tedesca è Hundert Tage. Ernesto G. Oppicelli, L’operetta, Roma 1989, pag. 177. Enrico Roma, “I nuovi film”, in Cinema Illustrazione, n. 7, 15 febbraio 1933, pag. 12. Enrico Roma, “I nuovi film”, in Cinema Illustrazione, n. 52, 27 dicembre 1933, pag. 14. Mario Gromo, “Sullo schermo: Paprika, di C. Boese”, in La Stampa, 22 novembre 1933, pag. 2. “S.E. Galeazzo Ciano, alla presenza del Duca di Genova, inaugura in Venezia la terza Mostra d’arte cinematografica”, in Il Popolo d’Italia, 11 agosto 1935. Luigi Freddi, Il cinema, Roma 1949, pag. 85. Alfredo Baldi, “Casta Diva”, in Fernaldo Di Giammatteo (a cura di), Dizionario Universale del Cinema, vol. 1, I film, Roma 1984, pag. 184.

Luigi Freddi, op. cit., pag. 383. Si segnalano a riguardo Michael Töteberg, “Geschäftsgeheimnisse. Gregor Rabinowitsch und die Ufa-Russen-Allianz“, in Jörg Schöning (a cura di), Fantaisies russes. Russische Filmmemacher in Berlin und Paris 1920-1930, Monaco 1995, pp. 83-93; Michael Esser, “Produzent. Producteur, Producer: Arnold Pressburgers internationale Karriere”, in Sibylle M. Sturm, Arthur Wohlgemuth (a cura di), Hallo? Berlin? Ici Paris! Deutsch-französische Filmbeziehungen 1918-1939, Monaco 1996, pp. 101-110. 27 Gian Piero Brunetta, op. cit., pag. 19. 28 Ivi, pag. 245. 29 ����������������������������������������������������������� La nota è del 7 giugno 1935; Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes (Berlino), Botschaft Rom/Quirinal, Paket 822, Band 4. 30 Aldo Bernardini (a cura di), Cinema italiano 1930-1995. Le imprese di produzione, Roma 2000, pag. 4. 31 Si segnalano sul regista Alberto Farassino, Carmine Gallone, Roma 1994 e Pasquale Iaccio (a cura di), Non solo Scipione. Il cinema di Carmine Gallone, Napoli 2003. 32 Si veda la scheda sul film in Gero Gandert (a cura di), Der Film der Weimarer Republik 1929. Ein Handbuch der zeitgenössischen Kritik, Berlino 1993, pag. 367. 33 Per esempio si legga Emile Vuillermoz, “Casta Diva”, in Le Temps, 4 maggio 1935, che scrive: “il est bien évident que le succès magnifique de la Symphonie inachevée l’a guidé dans cette voie”. 34 Ricardo Blasco, “Quando Vienna rideva”, in Cinema, n. 107, aprile 1953, pag. 204. 35 Carmine Gallone,“Il valore della musica nel film e l’evoluzione dello spettacolo lirico sullo schermo”, in S.G. Biamonte (a cura di), Musica e film, Roma 1959, pag. 204. 36 È il titolo di un saggio di Marcel Oms, in Cahiers de la Cinémathèque, n. 26/27, 1978 sulla influenza dell’opera nel cinema degli anni ‘10. 25 26

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“Deutsch-italienische Zusammenarbeit”, in Film-Kurier, n. 120, 25 maggio 1936. 38 “Ausserordentliche G.-V. der Soc. An. Itala-Film”, in FilmKurier, n. 252, 27 ottobre 1938. 39 Hermann Hacker, “Verdi in der Cinecittà”, in Film-Kurier, n. 127, 2 giugno 1938. 40 “Gustav Berloger in Rom”, in Film-Kurier, n. 257, 4 novembre 1937 e Aldo Bernardini (a cura di), Archivio del cinema italiano. Il cinema sonoro 1930-1969, Roma 1992, pag. 62. 41 Ivi, pag. 30. 42 Sul progetto, che non si realizza, si veda Gianfranco Casadio, Opera e cinema. La musica lirica nel cinema italiano dall’avvento del sonoro ad oggi, Ravenna 1995, pp. 230-232. 37

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OCCHI CASTI, CHE INCANTATE… CARMINE GALLONE E MARTA EGGERTH

Nel corso della loro carriera, che abbraccia tre decenni, dagli inizi del sonoro fino agli anni ‘50, e si svolge fra Germania, Italia, Austria e Hollywood, le strade di Marta Eggerth e di Jan Kiepura, una coppia di successo nel film musicale di lingua tedesca,1 s’incrociano più volte con Carmine Gallone, fra i protagonisti del cinema italiano. Tra i film che la Eggerth, una cantante d’operetta ungherese, e il tenore Kiepura, polacco, interpretano con Gallone, in coppia o singolarmente, si contano alcuni fra i migliori nella loro filmografia; e Gallone, insieme all’ungherese Géza von Bolvary, è probabilmente il regista che più influisce sulla loro carriera. In tutto Gallone gira sei film con la Eggerth e Kiepura nell’arco di un ventennio. Si va dall’esordio di Kiepura Die singende Stadt, agli inizi del sonoro, al primo film in cui la coppia appare insieme (Mein Herz ruft nach Dir), fino alla loro rentrée in Europa, due anni dopo la fine della guerra, con una versione dell’opera Bohème. Insieme ad alcuni progetti a metà degli anni ‘30 in Italia, che rimangono sulla carta, la collaborazione costituisce l’oggetto di questo capitolo, in cui si procede sulle tracce del sodalizio fra 65

Gallone, la Eggerth e Kiepura, con il proposito di comporre i tasselli di un puzzle disperso fra Berlino, Roma e Vienna.

Cantatrice, danzatrice e attrice abilissima Nella primavera 1934 la Eggerth e Kiepura sono in visita in Italia. Un servizio su Cinema Illustrazione ritrae la coppia a passeggio per Milano.2 La Eggerth indossa un abito a righe, un cappello alla moda ed è a braccetto di Kiepura. Una fotografia la mostra mentre rilascia un autografo; in un’altra la coppia è al ristorante, la Eggerth si rivolge all’obiettivo e sorride. Maliziosamente il periodico si domanda, intitolando l’articolo, “Viaggio d’amore?”. La Eggerth, che non è mai stata in Italia, dichiara di sentirsi “un po’ confusa, smarrita, disorientata” ed esprime la sensazione con un paragone: “Se questo mio viaggio fosse un film potrebbe portare la firma di Mamoulian”.3 L’articolo valga da indizio per la popolarità di cui la Eggerth e Kiepura godono in Italia all’inizio degli anni ‘30. Per la Eggerth la fama giunge di colpo con un film. In Italia la si è già vista in alcune commedie, ma non si fa caso all’attrice fino all’opera d’esordio di Willi Forst Leise flehen meine Lieder, in cui la Eggerth è la contessa che s’innamora di Franz Schubert. Il film esce all’inizio del 1934 in Italia con il titolo Angeli senza paradiso e fa della Eggerth una star. Come riporta il Film-Kurier, “dopo il gigantesco successo del film Leise flehen meine Lieder, oggi è fra le interpreti cinematografiche più amate in Italia”.4 Leise flehen meine Lieder è accolto con favore dalla stampa. “Il film è molto bello, parla al cuore e alla fantasia, suggerisce stati d’animo ineffabili, conquista, commuove”, 66

scrive Enrico Roma.5 Si apprezza il modo in cui Forst si serve della musica, intrecciandola alla fabula. “Per la prima volta forse, immagini e canto sono integrati perfettamente e la materia musicale distribuita con pari spontaneità nella trama cinematografica”.6 Ma si loda in particolare la Eggerth. “Tra gli attori emerge la biondissima Eggerth, una ungherese che in altro film era passata inosservata e ora si colloca in primo piano”.7 Si apprezza la sua interpretazione, “che appaga l’occhio e muove tutte le facoltà dell’anima e della mente”,8 e la stampa si mostra sorpresa di fronte alla capacità con cui la Eggerth tratteggia il personaggio della contessa; appare “insospettata in considerazione della sua precedente carriera teatrale”, osserva Cinema Illustrazione, scorgendo in Leise flehen meine Lieder un punto di svolta nell’attività della Eggerth.9 “Cantatrice, danzatrice e attrice abilissima, è riuscita a far convergere l’attenzione degli spettatori sulla sua svelta persona”, è il giudizio di Enrico Roma, che ne abbozza il ritratto in pochi aggettivi: “sincera, spontanea, espressiva, autorevole, non è proprio bella ma affascinante”.10 Un fascino che si attribuisce al suo viso, di cui si sottolinea la espressività. “Sulle sue labbra, [...] vibra la voce del cuore”, scrive Alberto Morandi; “tanto spontanei sono gli accenti di voluttuosa malizia e l’esuberanza della passione”.11 E il volto della Eggerth gli ricorda un dipinto di Leonardo da Vinci. Non già che essa rappresenti il tipo di donna ideale di Leonardo, dal sorriso ineffabile e dallo sguardo ridente e dolce, ma piuttosto per quella punta di preziosità sentimentale, per quella ricchezza psicologica, tanto ricercata da Leonardo.12

Il successo procura alla Eggerth un ingaggio in Italia, dove le è affidato il ruolo di Maddalena nel film su Vincen67

zo Bellini Casta Diva, che Gallone dirige in occasione del centenario della morte del compositore. La preparazione comincia nell’autunno 1934. In ottobre Cinema Illustrazione informa che “Gallone è arrivato in questi giorni a Roma per portare a buon fine gli accordi per la realizzazione di Casta Diva”.13 Sulla stampa si pone in risalto la partecipazione della Eggerth, intorno alla quale probabilmente il progetto prende forma. Si evidenzia che l’attrice ha studiato canto in Italia e conosce la lingua; “non solo, ma da qualche tempo ha scritturato una nobile signora italiana allo scopo di tenersi sempre in esercizio”.14 Per Gallone Casta Diva rappresenta un ritorno in Italia, dopo aver lavorato da metà degli anni ‘20 fra Berlino, Londra e Parigi. In Germania ha inizio anche la collaborazione con la Eggerth e Kiepura, con il quale gira nel 1930 Die singende Stadt. Insieme a Hans Szekely è autore della sceneggiatura, in cui si racconta di una nobildonna in vacanza a Napoli, che s’innamora del suo cicerone, il cui bel canto la induce a portarlo con sé a Vienna per fare di lui una star dell’opera, ma l’aitante tenore preferisce tornare a Napoli e dalla sua Carmela. Il plot è semplice e offre materia dagli anni ‘30 al dopoguerra per dozzine di film musicali, ma Gallone si serve con destrezza della novità che il suono rappresenta nel cinema e fa uso di Napoli, del Vesuvio e di Capri per conferire un tocco d’esotismo alla favola, immergendola nella luce del sud. Nella rigidità che contrassegna Die singende Stadt, dall’impiego della macchina da presa al montaggio, si scorge il riflesso del passaggio dal muto al sonoro, fra cui il film dà l’impressione talvolta di restare in sospeso. Per un verso, i primi piani di Brigitte Helm (che interpreta la nobildonna), mentre ascolta ammirata Kiepura cantare a Pompei, con il 68

vento nei capelli, si radicano nell’estetica degli anni ‘20, dall’altro Gallone si mostra attento alle potenzialità del sonoro, per esempio aprendo il film con uno sciuscià che passa in scioltezza dall’italiano al tedesco, all’inglese, per offrire la mercanzia nella lingua del turista che di volta in volta capita a tiro. Superiore alla media della produzione all’inizio del sonoro, Die singende Stadt si guadagna l’apprezzamento della critica. La collaborazione fra regia, fotografia e registrazione del suono giunge in questo film a effetti straordinari. L’immagine è scevra da rigidezza. Vi sono riprese, inquadrature e dissolvenze magnifiche, in cui il suono è sempre in accordo con le favolose immagini.15

Il film è prodotto da Arnold Pressburger, il quale avvia con Die singende Stadt una collaborazione con Kiepura che prosegue fino a metà degli anni ‘30, quando il produttore si trasferisce a Londra, prima di emigrare a Hollywood. Rispetto ad altri cantanti d’opera, Joseph Schmidt, Beniamino Gigli o Richard Trauber, che s’impegnano nel cinema agli inizi del sonoro, Kiepura si mostra duttile al nuovo medium,16 rivelandosi un attore discreto, come constata il Kinematograph a proposito di Die singende Stadt. Che Jan Kiepura canti meravigliosamente c’era da aspettarselo. Però che sia eccezionale anche come attore è una sorpresa. È naturale in ogni scena, semplice e simpatico, senza tutte le fastidiose arie da tenore.17

Dopo il successo di Die singende Stadt, Kiepura è protagonista della commedia di Anatole Litvak Das Lied einer Nacht (Questa notte o mai più) e di Ein Lied für Dich 69

(Aspetto una signora) di Joe May, prima d’incontrarsi di nuovo con Gallone nel 1934 sul set di Mein Herz ruft nach Dir, di cui si approntano anche una versione in inglese (My Heart Is Calling) e in francese (Mon coeur t’appelle). Il film è prodotto dalla Cine-Allianz, la società di Pressburger e del russo Grigorij Rabinovič. Nel film la Eggerth appare per la prima volta a fianco di Kiepura, che sposa di lì a poco, e Mein Herz ruft nach Dir tiene a battesimo la coppia, nel cinema e nella vita, in una sovrapposizione fra la biografia della Eggerth e di Kiepura e la finzione, la storia d’amore in musica fra il tenore, Mario, e la ragazza che viaggia a sbafo sul transatlantico, di cui narra Mein Herz ruft nach Dir. Un parallelo fra ciò che accade sullo schermo e al di fuori, che la Eggerth accredita, riferendo come l’amore con Kiepura nasca sul set di Mein Herz ruft nach Dir,18 e che il film evoca giocosamente, quando uno spettatore, davanti all’opera di Monte Carlo, introduce l’happy end con un cartello, “Inserto dalla vita privata” e il montaggio stacca sulla coppia che si bacia, sovrapponendo l’abbraccio a una panoramica sul pubblico che applaude sullo sfondo. Al tempo stesso Mein Herz ruft nach Dir segna l’inizio della collaborazione fra la Eggerth e Gallone, un regista, ricorda l’attrice, che ha “influito molto sulla formazione della mia personalità artistica”.19 A fianco di Kiepura Mein Herz ruft nach Dir le offre scarse occasioni per mettersi in mostra, la Eggerth accenna appena una canzone una volta, e una analisi di Mein Herz ruft nach Dir nel segno della feminist film theory argomenterebbe a ragione come il potere, che si esercita in un film musicale attraverso il canto, appartenga all’uomo, che se ne serve per imporsi di fronte alla donna e all’avversario. 70

Tuttavia, alla subordinazione nella colonna sonora si contrappone un’accentuata presenza della Eggerth nell’immagine. Mentre la macchina da presa si mantiene a distanza da Kiepura, alla Eggerth è spesso dedicato un primo piano e il suo atout, il volto (come la stampa evidenzia in occasione di Leise flehen meine Lieder) è valorizzato da Gallone con inventiva. In viaggio dal Sud America a Monte Carlo, il tenore ha appena chiuso la porta, quando la ragazza fa capolino da una tenda. Per sfuggire al capitano si è nascosta nella sua cabina. La macchina da presa si avvicina e la mostra in primo piano. Ha grandi occhi neri e capelli biondi, che soffia via sbarazzina quando una ciocca le cade sul viso. Poi è il cappotto di Mario, nel quale si nasconde mentre la cabina è ispezionata, o sono le lenzuola in cui s’infila quando Mario la saluta per la notte, cavallerescamente lasciando la cabina, gli espedienti per evidenziare il viso. Oppure è la porta dietro a cui si trova, che lo mette in rilievo, mentre la ragazza ascolta Mario esibirsi al cospetto del direttore dell’opera. Secondo lo schema d’innumerevoli film musicali, in parallelo con la storia d’amore si svolge quella della compagnia che spera in un ingaggio all’opera di Monte Carlo. Alla fine Mario, come si conviene, otterrà l’amore e il successo, riportando la vittoria sull’avversario grazie al suo canto, al cospetto del pubblico che affolla la prima. L’opera che va in scena è la Tosca, a cui Gallone attinge più volte negli anni seguenti, con la particolarità che nel finale di Mein Herz ruft nach Dir la rappresentazione si fa doppia. Mentre è in corso la prima, Mario e i colleghi improvvisano una esecuzione della Tosca all’esterno dell’opera, richiamando un po’ alla volta tutto il pubblico in sala, finché la platea, a parte uno spettatore appisolato, si svuota. Il finale piace 71

alla stampa, “il doppio spettacolo di Tosca in teatro e all’aperto è una idea che fa scintille”,20 e si loda l’inventiva della sceneggiatura e della regia, che controbilancia l’ingenuità della fabula. Nella sceneggiatura, a firma di Ernst Marischka (che inizia con Mein Herz ruft nach Dir una collaborazione con Gallone che prosegue fino al dopoguerra), si coglie una miscela “di gusto latino ed austriaco”,21 in cui il melodramma s’intreccia ad un umorismo da farsa (valga da esempio la scena in cui il corpulento baritono divide un letto a castello con il direttore della compagnia, inarcando la rete e minacciando di soffocarlo) e da pochade d’oltralpe, con cui sono in debito le figure dello sciocco direttore dell’opera e del suo segretario. I duetti fra Paul Hörbiger e Theo Lingen che rispettivamente li impersonano sono un pezzo forte di Mein Herz ruft nach Dir. Il montaggio è preciso e scorrevole. Spesso un dettaglio fa da trait d’union fra una scena, concludendola, e l’altra di cui segna l’inizio (come il secchiello del ghiaccio che si riempie di denaro, conducendo dalla esibizione del tenore all’acquisto del biglietto per la ragazza), oppure a congiungere due scene è la ripetizione di una frase, di cui però s’inverte il senso, producendo un effetto umoristico. “Non importa”, ribatte Mario alla ragazza che si preoccupa che l’abito da sera per la première costi troppo. Con uno stacco si passa al segretario dell’opera. “Non importa”, questi consola il direttore della compagnia, informandolo che l’ingaggio non ci sarà. “Non importa?”, si chiede il direttore in ambasce poiché rischia la bancarotta. Al tempo stesso Gallone alleggerisce la rigidità delle scene in cui Kiepura si esibisce nelle arie d’obbligo, impegnando la macchina da presa in eleganti movimenti, lungo 72

i corridoi del transatlantico o al fianco dei marinai che si arrampicano sull’albero maestro. La stampa lo apprezza, “il regista si è sforzato di porre l’accento ampiamente sull’elemento filmico”,22 e sottolinea il delicato ritmo della macchina da presa, che non è fine a sé, ma si fa poesia filmica, superando il kitsch, dissolvendo ogni banalità che ancora sia presente in sceneggiatura.23

La magia di uno sguardo Fra i titoli che contano nel cinema italiano degli anni ‘30, Casta Diva è giudicato spesso il miglior film della Eggerth.24 Allontanandosi dal ruolo della ragazza che, ingenua e intraprendente, s’innamora dell’eroe, di cui invariabilmente conquista il cuore, che le è proprio all’inizio degli anni ‘30, Casta Diva interviene sull’immagine della Eggerth, modificandola. Non è la ragazza che spasima per un ufficiale (Kaiserwalzer/Melodie imperiali), che si nasconde nella cabina di un tenore (Mein Herz ruft nach Dir), che lavora nella metropolitana e s’innamora di un pilota (Das Blaue vom Himmel/Nell’azzurro del cielo), o che salva il figlio di un banchiere dalla bancarotta (Es war einmal ein Walzer/Quattro cuori e una ragazza), che appare di fronte al musicista quando, con il pretesto di aver dimenticato lo spartito, Bellini torna in casa del giudice, per far visita a Maddalena. Mentre il maggiordomo lo accompagna alla porta, in cima alle scale compare Maddalena e gli si fa incontro. Il suo aspetto già annuncia la trasformazione. Dove sono le ciocche che, ribelli, una volta le incorniciavano il volto? Ora l’acconciatura è severa e i capelli biondi, lucenti aderiscono al profilo del viso, con l’effetto di evi73

denziare i suoi occhi, mentre un’aria malinconica adombra il sorriso. In parte Maddalena ricorda la contessa che la Eggerth recita nel film di Forst Leise flehen meine Lieder, ma non è la copia, piuttosto costituisce uno sviluppo. Il fare da ragazza, sbarazzino, che caratterizza Karoline, le è estraneo. Maddalena ci guarda dall’alto quando Bellini scorge il suo ritratto in casa del giudice, secondo una prospettiva che è riproposta quando Maddalena appare in cima alle scale. La posizione da cui la macchina da presa la inquadra, rinvia alla sua lontananza. Maddalena non appartiene a questo mondo (quando il padre la chiama in tavola, insieme agli ospiti, si nega), non è una donna che è possibile a un uomo possedere. Veste semplicemente, in bianco e l’abito le lascia libere le spalle. Né nastri od orpelli l’adornano. Maddalena non è la ragazza di cui un artista s’innamora, ma la musa che lo ispira e gli addita la via per l’arte. È il suo ritratto che lo spinge a comporre la canzone Casta Diva al ritorno in collegio. Ugualmente è Maddalena che porta Norma al successo, recando lo spartito di Casta Diva a Milano. Piccola, bionda, con i suoi grandi occhi trasognati, la sua pelle perlacea splendente come un’albicocca, e quel sorriso […] che a tratti s’imbruna come per un profondo pensiero improvviso.25

Così un giornalista descrive la Eggerth, cogliendo l’essenza del suo fascino; sono gli occhi, che allo stesso tempo incantano il giovane Bellini e lo spettatore. Una magia, alla quale soggiacciono entrambi, a cui rinvia il titolo Bezaubernde Augen, “Occhi che incantano”, che Casta Diva assume in Austria e al quale lo Illustrierter Film-Kurier associa un ritratto della Eggerth che, con sguardo malinconico, sul 74

quale si disegna al contempo una espressione di piacere e di sofferenza, interpella lo spettatore.26 Un incantesimo che i suoi occhi esercitano sul protagonista e sul pubblico, in cui si scorge il nucleo di Casta Diva. Dalla prima inquadratura che Casta Diva dedica a Maddalena, al finale, i suoi occhi predominano nell’immagine. È indicativo il momento in cui Bellini scorge il ritratto. Lentamente la macchina da presa avanza verso il dipinto, che gradualmente colma il campo; la cornice scompare, il ritratto coincide con l’inquadratura. E i ruoli s’invertono, non la macchina da presa mostra Maddalena, ma Maddalena ci guarda. Il ritratto diviene una visione, mentre gli occhi di Maddalena si amalgamano, in sovrimpressione, con un primo piano di Bellini, nel crescendo della musica. Nella scena seguente, quando Bellini racconta di Maddalena ai compagni, il dialogo espone i sentimenti che lo spettatore condivide col protagonista. Quando gli chiedono qual è il suo aspetto, se Maddalena sia bionda o bruna, il musicista risponde: “Ho visto soltanto i suoi occhi”. Riconoscendo l’impossibilità di renderli a parole, prende un foglio e prova a disegnarli. Ma gli occhi si trasformano in note e si forma una melodia. “Occhi puri, occhi casti, che incantate”, così recitano i versi che l’accompagnano e diventano la chiave per leggere Casta Diva. In analogia con il tentativo del protagonista di conferirgli una espressione in musica, Casta Diva si configura come la traduzione dell’incantesimo in immagine. Curandosi appena d’intrecciare una storia intorno alla canzone, Casta Diva inscena la magia di uno sguardo che s’incarna in una donna (Maddalena, ovvero la Eggerth che la interpreta), ma la cui essenza è immateriale, come suggerisce la scena in cui Maddalena muore. L’ambiente è avvol75

to in una luce lattea, mentre la macchina da presa, a un lato del letto, indugia sul volto di Maddalena. Poi l’immagine si fa sfocata e la macchina da presa indietreggia un poco. Maddalena muore, ma il suo sguardo vive e i suoi occhi colmano l’inquadratura con cui di lì a poco termina Casta Diva. In un processo che il ritratto anticipa, il suo sguardo si scioglie dal corpo e il film, sostituendosi alla tela, lo conserva e lo rende immortale. Al festival di Venezia Casta Diva è premiato con la Coppa Mussolini e la stampa si entusiasma. “Opera superba, che veramente dice a quale saggio di arte e di tecnica è giunta la cinematografia italiana”,27 scrive Il Popolo d’Italia, scorgendo in Casta Diva un segno della ripresa della produzione nazionale e Mino Doletti constata che nel film “c’è molto, moltissimo di bene e di bello: cura, misura, fervida vena, commozione”.28 Si apprezzano la regia, “molto sicura e aderente al soggetto e sia nelle scene corali come in quelle drammatiche toccò in più d’un punto effetti vigorosi”, come la recitazione della Eggerth, che “dette della figura di Maddalena una delle sue abituali interpretazioni, piene di emozione e di poesia, raggiungendo, specie nella scena della morte, accenti bellissimi”, annota Filippo Sacchi, sottolineando “quegli argentei primi piani” in cui i suoi occhi appaiono “paradisiaci e immacolati”.29 Con Casta Diva la Eggerth raggiunge il culmine della popolarità in Italia e Marco Ramperti le dedica un ritratto in un volume sul divismo fra muto e sonoro in cui, con un stile che fa la piacevolezza del libro, prova a catturare il suo fascino. Canta. E mi turba. Guarda. E mi turba. [...] Ella canta con la voce che hanno le donne quando sono spogliate. Ella guarda 76

cogli occhi che hanno le donne quando si concedono. Perché vi sono anche gli sguardi ignudi. Vi sono occhi che si velano, che si vestono, che si parano, che si mascherano. Altri invece che respingono, che stracciano ogni involucro, volendo mostrarsi quali sono. […] Gli occhi di Marta Eggerth cercano i nostri occhi. Gli occhi di Marta Eggerth baciano i nostri occhi. […] Ogni suo sguardo appare una promessa.30

Fra Vienna, Roma e Hollywood Un anno è trascorso da Casta Diva, è la primavera 1936, quando Gallone e Kiepura s’incontrano di nuovo in un teatro di posa. Il luogo è Vienna, dove il 21 marzo iniziano le riprese di Opernring (Al sole). Il film è girato negli studios della Tobis-Sascha sul Rosenhügel ed è anche noto con il titolo Im Sonnenschein, da una canzone che Kiepura, un tassista con la passione per l’opera, canta nel film. Dopo Ich liebe alle Frauen (Amo tutte le donne), il suo ultimo film in Germania, il tenore è stato a Hollywood per interpretare Give Us This Night. Con “il fresco, salutare riflesso del sole californiano” in volto, informa Mein Film,31 Kiepura riferisce con entusiasmo del soggiorno in America, tuttavia Give Us This Night non è un successo e resta l’unico film del tenore a Hollywood. Anche la Eggerth si accinge a debuttare in America nell’estate 1935, dove ha un contratto con la Universal per un film operetta, The Song of Love,32 ma il progetto non si realizza e il tentativo della coppia di stabilirsi a Hollywood fallisce. Invece la Eggerth e Kiepura, a cui è interdetto di lavorare nel Terzo Reich, dal 1936 al 1938 sono attivi fra Vienna e Budapest, prima di emigrare in America nella primavera 1939. Una linea congiunge Casta Diva ad Opernring, gettando una luce sulla cooperazione che si sviluppa a metà degli 77

anni ‘30 fra Italia e Austria in campo cinematografico; si tratta di un episodio poco considerato dalla storiografia. A produrre Opernring è Wilhelm Szekely, che lavora a Berlino con la Cine-Allianz all’inizio del decennio. Quando Pressburger e Rabinovič abbandonano la Germania, Szekely si trasferisce a Vienna, dove fonda la Gloria-Film e una casa di distribuzione, la Rex-Film. Insieme a Rabinovič e Pressburger, Szekely partecipa alla produzione di Casta Diva che fa da battistrada grazie al suo successo ad alcune coproduzioni fra Italia e Austria. In quegli anni i due paesi sono vicini sul piano politico e lo Ständestaat in cui evolve l’Austria dopo l’assassinio del cancelliere Engelbert Dollfuss, in un tentativo di putsch nell’estate 1934, assume il regime fascista a modello. Nell’anno in cui vede la luce Casta Diva, il produttore Eduard Albert Kraus si associa con l’italiana Astra Film, insieme alla quale realizza Das Tagebuch der Geliebten e Die weisse Frau des Maharadscha,33 di cui si gira anche una versione in lingua italiana (s’intitolano Una donna fra due mondi e Diario di una donna amata). Ne firmano la regia rispettivamente Hermann Kosterlitz e Arthur Maria Rabenalt insieme a Goffredo Alessandrini. L’anno seguente Kraus partecipa con la Horus-Film alla produzione di Opernring, segnando il prosieguo della collaborazione fra Roma e Vienna, prima che l’alleanza fra Italia e Germania e l’Anschluss dell’Austria al Reich nel marzo 1938 pongano fine alla cooperazione. La prima ha luogo nel giugno 1936 e Opernring è accolto con favore dalla stampa. “Rispetto a tutti i cantanti che siano mai comparsi davanti alla macchina da presa Jan Kiepura ha molto in più, […] sa muoversi, è capace di recitare”.34 La critica lo definisce un “Hans Albers che canta, sincero e 78

bonario, [...] triste e allegro, divertente e innamorato”.35 Al festival di Venezia Opernring rappresenta l’Austria accanto a film di Werner Hochbaum, Max Neufeld, Walter Reisch e Filippo Sacchi lo giudica “molto svelto e grazioso, di una comicità saporita, con tipi e attori scelti benissimo. [...] L’atmosfera popolare viennese è ben resa”.36 Si apprezza la regia, che interviene con sapide notazioni a commento della vicenda, come il particolare della ragazza, Mizzi che, amando il tassista, strapazza la borsetta per l’imbarazzo di fronte alla signora che ne fa il suo protegé; oppure il paffuto pargolo su cui indugia la macchina da presa mentre il tassista canta in piazza per un obolo; il particolare smorza il pathos che la musica imprime alla scena. Un contrappunto a cui, similmente, Gallone fa ricorso in Mein Herz ruft nach Dir, giustapponendo al trionfo del tenore il particolare di due monelli che, approfittando del momento, sottraggono un paio di coni al gelataio. La macchina da presa si muove con eleganza. Risalta in particolare il travelling che, procedendo dal palco dell’opera, dove il tenore festeggia il debutto, glissa di fronte al pubblico che colma il teatro, giungendo in galleria. Qui la macchina da presa scopre Mizzi che, in un angolo, ascolta con le lacrime agli occhi. Un movimento di macchina che, funzionale per la descrizione del successo che il tenore coglie, traduce anche la distanza che lo separa al momento da Mizzi, al tempo stesso suggerendo il legame che intimamente li congiunge e trionfa di lì a poco nell’happy end. Dopo Opernring la Eggerth e Kiepura risultano in predicato per una produzione in Italia. All’inizio del 1938 l’austriaca Projektograph, che ha appena prodotto un film con 79

la Eggerth, Immer wenn ich glücklich bin (Sangue d’artista), annuncia la trasposizione dell’operetta di Johann Strauss Karneval in Rom;37 la Eggerth e Kiepura impersonerebbero i protagonisti, una donna e un pittore, di cui questa s’innamora e va alla ricerca a Roma, mascherandosi da ragazzo, fino al ricongiungimento della coppia nel vortice del carnevale. È incerto se Karneval in Rom sia progettato fin dall’inizio in collaborazione con la Era Film, ma questa risulta in trattativa con la tedesca Terra-Film nella primavera 1938 per realizzarlo.38 Probabilmente la Projektograph abbandona il progetto dopo l’Anschluss. Sulla scia del successo di Casta Diva la Era Film è stata costituita due anni prima dal figlio del duce, Vittorio Mussolini, che partecipa anche alla produzione di Casta Diva,39 col proposito di realizzare una serie di film opera per il mercato d’oltreoceano.40 Tuttavia una collaborazione con Hollywood appare inopportuna al regime e la Era Film si orienta verso la Germania. Nell’aprile 1938 Karneval in Rom è prossimo al via, poi il progetto abortisce. Invece la società progetta insieme alla Terra-Film una trasposizione della Tosca, per la quale s’ingaggiano la Eggert e Kiepura. Nell’estate 1938 il figlio del duce e il tenore s’incontrano a Berlino e il Film-Kurier riferisce di “una piena concordanza di tutti i partecipanti riguardo a questo grande film”.41 Le riprese sono in programma per la fine d’ottobre42 e annunciando il ritorno della Eggerth in Italia, Cinema Illustrazione le dedica la copertina.43 La regia è affidata a Mario Soldati e Géza von Bolvary;44 evidentemente si pensa di girare il film in versione italiana e tedesca. Poi il progetto è bloccato. In novembre giunge l’ordine da Berlino che “riguardo al film Tosca la situazione [è] del tutto cambiata, [...] il progetto Tosca non deve più esser sostenu80

to da parte tedesca, in quanto i protagonisti [sono] ebrei”.45 Due anni dopo la Era Film produce una versione della Tosca, di cui firma la regia Karl Koch, dopo l’abbandono di Jean Renoir a causa della guerra. All’epoca la Eggerth e Kiepura si trovano in America. La coppia lavora un’ultima volta con Gallone nel 1947. Si rincontrano a Roma. Il paese è malconcio dopo la guerra, ma il cinema italiano rinasce a nuova vita. Mentre fiorisce il neorealismo, parte della produzione prosegue nel solco degli anni ‘30. Nell’anno in cui si gira Sciuscià si producono una biografia di Gaetano Donizetti (Il cavaliere del sogno) e un melodramma con il tenore Tito Gobbi (O sole mio), che risultano fra i film di maggior successo, segnando la ripresa del filone operistico. Nell’arco di un decennio, dal 1946 al 1956, si girano una ventina di film opera in Italia, di cui sette per mano di Gallone, ingenerando una identificazione fra il genere e il regista. A Roma Gallone si rincontra con Rabinovič, di ritorno in Europa dopo la guerra, in Italia per produrre per l’americana Columbia dei film musicali per il mercato d’oltreoceano.46 Insieme a Gallone ed a Szekely, stabilitosi in Italia alla fine del conflitto, Rabinovič costituisce la Cine Opera,47 che produce tre film fra 1947 e 1948, dei quali Gallone firma la regia. Sono La signora dalle camelie, un adattamento della Traviata, La leggenda di Faust, che s’ispira liberamente all’opera di Charles Gounod e al dramma Mefistofele di Arrigo Boito, e Addio Mimì!, per il quale fa da soggetto la Bohème, in cui la Eggerth e Kiepura tornano in coppia sullo schermo dopo un decennio. Per la rentrée la scelta s’indirizza sull’ultimo film che la Eggerth e Kiepura interpretano in Austria prima di emigrare negli Stati Uniti, il melodramma di von Bolvary Zauber 81

der Boheme (Fascino di Boheme), di cui Szekely è il produttore. Addio Mimì! è il rifacimento, nel quale la Eggerth e Kiepura impersonano di nuovo una ragazza con talento per il canto e un tenore al verde che si amano, ma la ragazza si ammala e muore fra le braccia del tenore, condividendo il destino di Mimì e Rodolfo nella Bohème, mentre la coppia li interpreta sul palcoscenico. Il film segue fedelmente l’impianto di Zauber der Boheme, in una combinazione fra personaggi ed episodi del romanzo di Henri Murger e dell’opera, procedendo appena ad aggiornare la vicenda al dopoguerra. Ernst Marischka, che scrive Zauber der Boheme, è accreditato per il soggetto, la sceneggiatura è di Rowland Leight e Hamilton Benz. Addio Mimì! è girato in inglese e insieme alla Eggerth e Kiepura l’intero cast è straniero. La preparazione comincia nell’estate 1947. La Eggerth e Kiepura giungono a Roma in agosto. Una fotografia li mostra su Hollywood con il figlio in braccio. “Anche se molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere”, si commenta, “Jean [sic] e Marta sono sempre giovani o per lo meno giovanili: la loro esotica eleganza riesce a far sorvolare su qualche ruga”.48 Presumibilmente le riprese hanno luogo in autunno e la coppia risiede a Roma a lungo, riferisce Hollywood in margine a una fotografia che li ritrae a una festa al Grand Hotel.49 Ma Addio Mimì! giunge in sala soltanto tre anni dopo. Nella primavera 1949 il film ottiene il visto di censura e la prima risulta aver luogo il 28 aprile,50 ma è distribuito solamente in primavera o nell’estate 1950, come si apprende dall’Eco del Cinema e dello Spettacolo, dove è menzionato fra i film in distribuzione prima dell’autunno.51 Diversamente dal pubblico che si entusiasma per il film opera, decretando il suo successo lungo un decennio, 82

la stampa in generale si esprime con riserva. Anche Addio Mimì! è accolto con freddezza. Annunciando il progetto, Hollywood osserva con ironia: “I produttori cinematografici hanno poche idee, ma in compenso le hanno fisse. […] Una è quella del film musicale col celebre tenore”.52 Perlopiù Addio Mimì! è giudicato in poche righe; “diretto con il solito dignitoso mestiere da Gallone, il film si presta a una buona messe di sorrisi e lacrime”.53 E gli si rimproverano “dialoghi deboli, lungaggini e idee poco originali” e una “storia impolverata”54. È impossibile verificare se il giudizio risponda al film, con il quale termina la collaborazione fra Gallone e la coppia (che interpreta ancora un paio di pellicole in Germania, ma si ritira presto dal cinema), giacché Addio Mimì! non è visionabile. Del film, a lungo considerato perduto, è stata rintracciata una copia alla Cineteca Italiana nel corso della ricerca, ma lo stato di conservazione non permette la visione e l’indagine sulla collaborazione fra Gallone, la Eggerth e Kiepura si chiude con un interrogativo.

Sul lavoro di Marta Eggerth e Jan Kiepura nel cinema si segnala Günter Krenn, Armin Loacker (a cura di), Zauber der Boheme. Marta Eggerth, Jan Kiepura und der deutschsprachige Musikfilm, Vienna 2002. 2 “Viaggio d’amore? Martha Eggerth e Jan Kiepura a Milano”, in Cinema Illustrazione, n. 19, 9 maggio 1934, pp. 8-9. 3 Ivi, pag. 8. 4 “Martha Eggerth in Rom“, in Film-Kurier, n. 18, 22 gennaio 1935. 5 Enrico Roma, “Angeli senza paradiso”, in Cinema Illustrazione, n. 10, 7 marzo 1934, pag. 15. 6 Alberto Morandi, Piera Regni, “Martha Eggerth. Attraverso 1

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un film... e la moda”, in Cinema Illustrazione, n. 29, 19 luglio 1934, pag. 11. Enrico Roma, “Angeli senza paradiso”, cit. Alberto Morandi, Piera Regni, “Martha Eggerth. Attraverso un film e la moda”, cit. Ibidem. Enrico Roma, “Angeli senza paradiso”, cit. Alberto Morandi, Piera Regni, “Martha Eggerth. Attraverso un film e la moda”, cit. Ibidem. Romanus, “Corriere romano”, in Cinema Illustrazione, n. 42, 17 ottobre 1934, pag. 15. Ibidem. “Die singende Stadt. Jan Kiepuras und Brigitte Helms erster Tonfilm”, in Kinematograph, n. 254, 30 ottobre 1930, pag. 1. A riguardo si veda Ursula Vossen, “Die grosse Attraktion. Opern- und Operettensänger im deutschsprachigen Tonfilm”, in Katja Uhlenbrock (a cura di), MusikSpektakelFilm. Musiktheater und Tanzkultur im deutschen Film 1922-1937, Monaco 1998, pp. 105-122. “Die singende Stadt. Jan Kiepuras und Brigitte Helms erster Tonfilm”, cit. Per esempio si veda Caf, “Martha Eggerth a Roma”, in Cinema Illustrazione, n. 4, 23 gennaio 1935, pag. 11. Ibidem. -r, “Mein Herz ruft nach Dir“, in Film-Kurier, 24 marzo 1934. Ibidem. Il ritaglio, con la data del 25 marzo 1934, è privo d’indicazione della fonte; Filmmuseum Berlin, busta Mein Herz ruft nach Dir. -r, “Mein Herz ruft nach Dir”, cit. Si veda Herbert Holba, Marta Eggerth, in Herbert Holba, Günter Knorr, Peter Spiegel (a cura di), Reclams deutsches Filmlexikon, Stoccarda 1984, pag. 76. Caf, “Martha Eggerth a Roma”, cit.

Illustrierter Film-Kurier, n. 1292; il fascicolo è privo d’indicazione della data. 27 “S.E. Galeazzo Ciano, alla presenza del Duca di Genova, inaugura in Venezia la terza Mostra d’arte cinematografica”, in Il Popolo d’Italia, 11 agosto 1935. 28 Mino Doletti, “S.E. Galeazzo Ciano inaugura a Venezia la III Mostra internazionale d’arte cinematografica”, in Resto del Carlino, 11 agosto 1935. 29 Filippo Sacchi, “Il ministro Galeazzo Ciano ha inaugurato ieri a Venezia la terza Mostra internazionale d’arte cinematografica”, in Corriere della Sera, 11 agosto 1935. 30 Marco Ramperti, L’alfabeto delle stelle, Palermo 1981, pag. 61 (ed. orig. Milano 1936). 31 K.W., “Jan Kiepura filmt erstmal in Wien”, in Mein Film, n. 533, 1936, pag. 3. 32 “Martha Eggerth in Rom”, cit. 33 Si veda Armin Loacker, Unerwünschtes Kino. Der deutschsprachige Emigrantenfilm 1934-1937, Vienna 2000, pp. 32-33 e 57. 34 E.Kr., “Kiepura im Film und im Garten”, in Gross-Berliner Ost-Zeitung, 18 giugno 1936. 35 Ibidem. 36 Filippo Sacchi, “La Mostra del Cinema”, in Corriere della Sera, 30 agosto 1936, pag. 5. 37 Armin Loacker, Anschluss im 3/4 Takt. Filmproduktion und Filmpolitik in Österreich 1930-1938, Trier 1999, pag. 225. 38 “Neues aus Rom”, in Film-Kurier, 25 aprile 1938. 39 Aldo Bernardini (a cura di), Cinema italiano 1930-1995. Le imprese di produzione, Roma 2000, pag. 4. 40 “Mussolinis Sohn gründet Produktion“, in Film-Kurier, 22 settembre 1937. 41 “Begegnung Vittorio Mussolini – Jan Kiepura in Berlin”, in Film-Kurier, 3 agosto 1938. 42 “Aus der italienischen Produktion“, in Film-Kurier, 4 ottobre 1938. 43 In Cinema Illustrazione, n. 38, 21 settembre 1938. 26

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“Ritorno di Tosca”, in Cinema Illustrazione, n. 41, 12 ottobre 1938, pag. 5. 45 La comunicazione è del 17 novembre 1938; Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes (Berlino), Aktengruppe Ha Pol IV/b, Zeichen R 112284. 46 Si veda C.C. Schulte, “Faust-Aufnahmen in Rom“, in Mein Film, n. 34, 20 agosto 1948. 47 Aldo Bernardini, op. cit., pag. 86. 48 Gustavo Marchetti, “Jean Kiepura e Marta Eggert in Italia”, in Hollywood, n. 34, 23 agosto 1947, pag. 4. 49 Doriana Danton, “Cinema in festa al Grand Hotel”, in Hollywood, n. 124, 31 gennaio 1948, pag. 5. 50 Aldo Bernardini (a cura di), Il cinema sonoro 1930-1969, Roma 1992, pag. 91. 51 In Eco del Cinema e dello Spettacolo, n. 1, 30 gennaio 1951, pag. 27. 52 Gustavo Marchetti, “Jean Kiepura e Marta Eggert in Italia”, cit. 53 F. Gabella, in Intermezzo, 31 maggio 1951; si trova in Roberto Chiti, Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. I film, vol. 2, Dal 1945 al 1949, Roma 1991, pag. 19. 54 Il ritaglio, con la data del 5 dicembre 1949, manca d’indicazione della fonte; Filmmuseum Berlin, busta Ihre wunderbare Lüge. È il titolo di Addio Mimì! in Germania. 44

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NEL NOME DI MADDALENA CONFRONTANDO CASTA DIVA E THE DIVINE SPARK

Il film e la versione Fra l’autunno 1934 e la primavera 1935, nello stabilimento della Cines in via Veio a Roma, Carmine Gallone gira del film Casta Diva anche una versione in lingua inglese. S’intitola The Divine Spark e il particolare fa di Casta Diva una eccezione fra i film in più versioni che si girano in Italia durante gli anni ‘30, quando la maggior parte delle coproduzioni avvengono con Francia e Germania. Insieme a Tredici uomini e un cannone (1936) di Giovacchino Forzano e al film di Raffaello Matarazzo Kiki (1934), Casta Diva è l’unica produzione di cui è approntata una versione in lingua inglese nel corso degli anni ‘301 e, in alternativa a Parigi e Berlino, riflette il proposito di avviare un rapporto con il mercato d’oltre Manica. La versione è prodotta insieme con la Gaumont British, che distribuisce The Divine Spark in Gran Bretagna. In precedenza Arnold Pressburger e Grigorij Rabinovič collaborano con la Gaumont British per My Heart Is Calling, la versione in lingua inglese di Mein Herz ruft nach Dir, e la Gaumont British partecipa al rifacimento per il 87

mercato d’oltre Manica del film di Willi Forst Leise flehen meine Lieder, che il regista gira a Vienna nel 1934 con l’assistenza di Anthony Asquith e s’intitola The Unfinished Symphony. Inoltre si deve alla Gaumont British la produzione di Two Hearts in a Waltz Time (1934), con cui Gallone rifà in lingua inglese il film di Géza von Bolvary Zwei Herzen im 3/4 Takt (Due cuori a tempo di valzer, 1930). Un intreccio che costituisce la premessa per la coproduzione di Casta Diva. Avviando un raffronto fra Casta Diva e The Divine Spark, è opportuna una avvertenza. Non è possibile nell’economia del lavoro considerare tutti gli ambiti in cui intervenga una differenza. Per esempio, non si affronta l’ambito della recitazione e l’apporto che viene dall’interprete (in Casta Diva è Sandro Palmieri, in The Divine Spark Phillips Holmes) alla caratterizzazione del personaggio di Vincenzo Bellini. In una parola, cosa differenzia il compositore fra una versione e l’altra, per il fatto che l’interprete è diverso? La domanda palesa l’interesse che i film in più versioni assumono per gli studi sull’attore, rappresentando un terreno privilegiato per una riflessione sulla performance e sul contributo dell’interprete al personaggio. Per inciso si segnala che il cast cambia interamente fra Casta Diva e The Divine Spark, ad eccezione di Marta Eggerth nella parte di Maddalena; l’attrice non è doppiata e recita con la sua voce in entrambe le versioni. Ugualmente si tralascia di discutere le differenze che è possibile riscontrare nei dialoghi. Nel caso di Casta Diva, questi sono di Corrado Alvaro, mentre Emlyn Williams e Richard Benson effettuano l’adattamento per The Divine Spark. Per esempio, è interessante il cambiamento che concerne il riferimento alla madre nel dialogo fra Bellini 88

e Maddalena in giardino e, successivamente, nel palco all’opera. In Casta Diva il compositore menziona la madre, insieme agli amici in Sicilia e una bella donna, fra le ragioni che lo spingono a comporre della musica. Nel palco il riferimento alla madre si colloca nel contesto della dichiarazione del musicista a Maddalena, con l’invito a sposarlo. È certo che la madre accoglierà Maddalena con affetto. In The Divine Spark il riferimento è assente in tutti e due i passaggi ed è possibile spiegare la modifica come un adeguamento alla sensibilità del pubblico d’oltre Manica. Indirettamente il dialogo diviene la spia di una società e di una cultura. Al tempo stesso la riflessione riguardo ai dialoghi non si esaurisce in un confronto a due, ma chiama in causa la sceneggiatura di Walter Reisch che serve da base per entrambe le versioni. È scritta in tedesco e di fronte al dialogo che ascoltiamo in Casta Diva o The Divine Spark si pone la domanda sul rapporto con l’originale; il confronto si allarga a un triangolo, di cui la sceneggiatura, Casta Diva e The Divine Spark costituiscono i vertici, ma la questione esorbita dal campo d’indagine.

A proposito dell’incipit S’incentra la comparazione fra Casta Diva e The Divine Spark sulle scene o i segmenti (spesso si tratta soltanto di una inquadratura) in cui è riscontrabile una differenza o che sono mancanti in una o nell’altra versione. I tagli concernono in gran parte quella in lingua inglese. È raro che si riscontri l’inverso, che un segmento sia presente in The Divine Spark, mancando in Casta Diva. 89

Accade per l’incontro fra Bellini e Maddalena di fronte ad una chiesa. In Casta Diva la scena termina con Maddalena che si accomiata e sale in carrozza, mentre prosegue in The Divine Spark. Uno stacco porta a un piano di Maddalena in procinto di ordinare al cocchiere di andare, ma Bellini le si avvicina. Maddalena lo esorta a diventare famoso, se la vuole felice. Ora la carrozza parte e la macchina da presa si sofferma sul compositore, che inclina la testa e riflette sull’esortazione di Maddalena. In proposito si osserva come il gesto e la inquadratura si presentino analoghi nel rifacimento di Casta Diva che Gallone gira dopo la guerra, nel 1954, con il quale The Divine Spark presenta più di un tratto in comune. Complessivamente la lunghezza di The Divine Spark (il confronto è stato condotto sulla copia che si conserva al National Film Archive a Londra) è inferiore all’incirca di dieci minuti rispetto a Casta Diva. Probabilmente la riduzione è dovuta alla esigenza di conformare la durata alla programmazione in Gran Bretagna, dove è usuale la pratica del double bill, del doppio spettacolo negli anni ‘30, con l’offerta di due film al prezzo di un biglietto.2 Ciò esigeva di contenere la lunghezza fra 70 e 80 minuti. È probabile che la riduzione sia stata effettuata per mano di Pressburger, successivamente al completamento del film. Lo suggerisce l’accreditamento del montaggio di The Divine Spark al figlio del produttore, Fritz Pressburger; invece Casta Diva è montato da Fernando Tropea. Gli interventi abbracciano l’intero film. I tagli sono continui e riguardano quasi la totalità delle scene. In gran parte risultano di entità modesta e intervengono soltanto ad abbreviare una scena, senza modificare lo svolgimento. Nella sequenza con gli allievi del conservatorio a pranzo da 90

personalità del luogo, come vuole la tradizione, il montaggio conduce da un pranzo all’altro, soffermandosi su quello di Bellini in casa del giudice. Qui è abbreviato il dialogo fra Bellini e il giudice sull’importanza della musica (che il giudice nega recisamente), insieme all’esecuzione di Bellini al pianoforte. Mentre la macchina da presa si sofferma in Casta Diva sulla compagnia che si divaga dopo il pranzo, The Divine Spark conduce subito al momento nel quale Bellini, improvvisando al pianoforte, scorge il ritratto di Maddalena sulla parete. È diverso anche il modo con cui si aprono Casta Diva e The Divine Spark e il cambiamento nell’incipit è considerevole. In The Divine Spark risulta mancante tutta la scena, con cui comincia Casta Diva, che mostra il concerto di Niccolò Paganini e, a seguire, l’incontro fra Bellini e il maestro. Si tratta del taglio di maggior entità fra le due versioni. The Divine Spark si apre con il direttore del conservatorio che convoca gli allievi per informarli della casa in cui saranno a pranzo. La scena è preceduta da una didascalia che informa sul luogo e la data. Si è a Napoli nel 1827. L’alterazione dell’incipit incide in profondità sul racconto, modificando l’equilibrio fra Bellini e Maddalena e, conseguentemente, fra gli interpreti che ricoprono i ruoli. In Casta Diva l’incipit assolve al compito di presentare Bellini come si conviene a un protagonista, individuandolo, poi isolandolo fra il pubblico al concerto con un movimento in avanti della macchina da presa, che termina in un primo piano che il montaggio alterna con il volto di Paganini, istituendo un rapporto fra il giovane, che lo spettatore non conosce ancora, e il maestro. Sopprimendo la scena, che si configura come un prologo, The Divine Spark comincia in media res e l’introduzione del protagonista è 91

diretta. Quando il direttore pronuncia il nome, uno stacco mostra il musicista. Invece The Divine Spark non interviene sulla presentazione di Maddalena, che la sceneggiatura articola in crescendo. Prima il padre la convoca a tavola (ma la figlia resta in camera), poi ci è mostrata in effige (il ritratto), infine la scorgiamo in stanza, ma una tenda la nasconde parzialmente. Perché il film la presenti in primo piano è necessario attendere che Bellini si rechi di nuovo in casa del giudice, per regalarle la romanza che Maddalena gli ha ispirato. La conseguenza è una alterazione del peso fra Maddalena e Bellini all’interno del racconto, in favore della figura di Maddalena che, in The Divine Spark, diviene il perno. Mentre Casta Diva s’incentra sulla coppia, elevando entrambi i personaggi a protagonista, in The Divine Spark l’accento si sposta su Maddalena, di cui si decreta la centralità. Di riflesso è modificata la rilevanza degli interpreti che, rispettivamente, impersonano Maddalena e il musicista. Mentre Casta Diva tratta Palmieri, all’inizio della carriera, e la Eggerth pariteticamente, in The Divine Spark l’attrice è dominante. Insieme alla presentazione di Bellini, al prologo è affidato il compito d’introdurre un tema, nella conversazione fra il protagonista e Paganini, che percorre Casta Diva in filigrana, per culminare nell’incontro fra Bellini e il violinista a Milano dopo l’insuccesso della Norma. Mentre Paganini dichiara il bisogno del successo, del plauso del pubblico, Bellini spiega di non desiderarlo (e lo ripete al segretario del re di Napoli, quando riceve l’incarico di comporre una cantata per il genetliaco del sovrano). Di fronte al fiasco della Norma, invece Bellini invoca il successo e lo avrà, ma il prezzo è la morte di Maddalena. In un saggio su Casta 92

Diva Guglielmo Pescatore scorge un riflesso di Faust, che vende l’anima al diavolo per il successo.3 In Casta Diva lo incarnerebbe Paganini, come vuole una tradizione a cui s’ispira la sua presentazione nell’incipit. A introdurre il violinista è una ombra sulla parete, che deforma e ingigantisce la figura. Veste di nero, il suo sguardo è torvo e contrasta con la solarità che contrassegna Bellini. L’eliminazione del prologo e del riferimento al rapporto dell’artista con il pubblico nel dialogo fra Bellini e Maddalena in giardino, ha per conseguenza l’attenuazione del tema di Faust in The Divine Spark. Questo è interessante se si considera che, ugualmente, il motivo scompare nel remake. Qui l’incipit è mantenuto, modellandosi sulla versione degli anni ‘30, pur variando la messinscena, ma è eliminato l’incontro a Milano. Nell’assenza del tema di Faust, che fa da cornice alla storia d’amore in Casta Diva, si riscontra un punto in comune fra la versione in lingua inglese e il rifacimento.4 Analogamente, nel rifacimento è assente il soggettivismo che permea fortemente Casta Diva e lo contraddistingue, a partire dalla scena in cui il musicista scorge il ritratto di Maddalena, subendo il fascino del suo sguardo, che non dimentica più. Ma l’annotazione coinvolge anche The Divine Spark, in cui si osserva un ridimensionamento del soggettivismo che, in Casta Diva, permea la relazione fra Bellini e Maddalena. Fra il remake e The Divine Spark si constatano degli elementi in comune che, contemporaneamente, li differenziano da Casta Diva e sorge la domanda se, in una comparazione, non si debba anche considerare la versione in lingua inglese. In un raffronto fra Casta Diva e il rifacimento un posto spetta a The Divine Spark. Da una partita a due si passa a un confronto a tre. 93

La diva e Maddalena Il soggettivismo di cui è soffuso il rapporto fra il compositore e Maddalena rappresenta una differenza di rilievo fra Casta Diva e The Divine Spark. Insieme all’incipit l’unica scena che risulta soppressa per intero in The Divine Spark, è la passeggiata di Bellini dal collegio al mare, durante la quale compone della musica. La scena procede in crescendo, terminando con una inquadratura del cielo, in controluce, che si congiunge con il mare all’orizzonte. Fra le nubi si fa largo il sole. In sovrimpressione s’intravede il volto di Maddalena e sembra che appaia in cielo, emergendo dalla luce, simile a un angelo. Una dea che ispira il musicista e che, al contempo, la musica evoca. È un attimo, ma la soppressione non è indifferente per una valutazione del modo in cui si connota la figura di Maddalena. A riguardo è centrale la scena in cui Bellini scorge il ritratto di Maddalena. In apertura, ad un primo piano del compositore segue uno scorcio del salone. Al centro spicca il ritratto. La macchina da presa torna sull’uomo, poi mostra il ritratto da vicino. In Casta Diva l’inquadratura è in movimento. Con una angolazione dal basso verso l’alto la macchina da presa si avvicina al ritratto, assumendo il punto di vista di Bellini al pianoforte. Progressivamente l’inquadratura coincide con il ritratto, quasi scompare la cornice che lo circoscrive. Invece l’immagine è fissa in The Divine Spark e mostra il ritratto a distanza. Il taglio è di qualche secondo, ma incide sulla scena. Il movimento della macchina da presa traduce la cancellazione della distanza fra il musicista e Maddalena che, diversamente, The Divine Spark mantiene, giustapponendo uno sguardo all’altro, sopprimendo il movimento in cui si compenetra94

no. In Casta Diva il volto di Maddalena si stacca dalla tela, si fa immateriale, permea lo spazio e, mentre The Divine Spark lo mostra oggettivamente, Casta Diva lo caratterizza soggettivamente. La prova è nell’inquadratura del ritratto che, in entrambe le versioni, è alternato a un primo piano di Bellini. In The Divine Spark l’immagine è neutra. Invece il ritratto si trasforma in Casta Diva. Una luce avvolge il volto, esaltando lo sguardo. Gli occhi brillano. Il ritratto si caratterizza come una visione, che si produce nell’animo di Bellini. L’immagine è interiore. La scena segna l’avvio di un processo che, attuandosi nel corso di Casta Diva, investe la figura di Maddalena e la trasforma. Gradualmente si caratterizza come un fantasma. È indicativo che il film la introduca in effige e, letteralmente, Maddalena è privata del corpo con la morte. Diviene una immagine che Bellini porta in sé. Sono le sue parole, quando le consegna la romanza, “il suo ritratto in musica”, come spiega. Un’aura avvolge Maddalena e la sua natura è incorporea. Invece The Divine Spark attenua il tratto, quasi lo cancella. Accade nella scena in casa del giudice e il processo culmina in quella in cui Maddalena muore dopo il viaggio a Milano. Al termine della scena, in The Divine Spark Maddalena è inquadrata in mezza figura, che giace nel letto e parla al fiancé, credendolo Bellini. Quando muore, l’inquadratura non cambia, soltanto la macchina da presa indietreggia un poco. L’accadimento ci è mostrato oggettivamente. Invece Casta Diva stacca dalla mezza figura, passando per una inquadratura del fiancé in soggettiva, su un primo piano di Maddalena, isolando la figura dall’ambiente. Scompaiono il letto, la tenda, il baldacchino e una luce inonda l’immagine, alterando la percezione. 95

Ora il volto di Maddalena dissolve, perdendosi nella luce. L’inquadratura sancisce la trasfigurazione di Maddalena, che lascia il mondo e assurge in cielo, dove è già apparsa, e diviene la diva di cui canta l’aria nella Norma. La dea che ispira il compositore, come proclama il finale, quando il volto di Maddalena si sovrappone alla fiamma che arde in un braciere, nel crescendo della musica. Mentre Casta Diva insiste sul volto, prolungando la sovrapposizione, The Divine Spark abbrevia l’inquadratura, sebbene sia soltanto un cenno. In Casta Diva il finale suggella la trasfigurazione, mentre la versione in lingua inglese l’attenua, confermando come Casta Diva e The Divine Spark si differenzino in rapporto a Maddalena. Una differenza che si riflette nel titolo. Mentre Casta Diva evoca Maddalena, suggellando la trasfigurazione, in The Divine Spark scompare il riferimento, parallelamente al ridimensionamento che si compie della trasformazione di Maddalena in dea. Qui il titolo si riferisce alla qualità che inizialmente manca alla Norma e la scintilla, the spark è la romanza. La diversità emerge di nuovo nel testo della canzone. In un caso Maddalena è chiamata per nome. “Maddalena / Maddalena / Maddalena / cast your wondrous smile upon me”, si canta in The Divine Spark e, per inciso, si osserva la divergenza fra il riferimento al sorriso di Maddalena e il film che, a partire dal ritratto, pone l’accento sullo sguardo e gli occhi. È significativo il riferimento alla donna per nome, assente nella canzone in Casta Diva. Perché Casta Diva proclama il fascino di uno sguardo che distaccandosi dal corpo a cui appartiene, da una donna che ha un nome, vive a Napoli e muore, si fa divino. “Occhi casti / Occhi casti / che incantate / Occhi puri”, canta la romanza, che non parla di Maddalena, ma 96

di una dea, di cui il protagonista esperisce l’incantesimo. La differenza fra The Divine Spark e Casta Diva è nel nome di Maddalena. Per un elenco dei film in più versioni che si producono in Italia negli anni ‘30 si veda Aldo Bernardini, “Le collaborazioni internazionali nel cinema europeo”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. 1, L’Europa. Miti, luoghi, divi, Torino 1999, pag. 1027. 2 Si ringrazia Pierre Sorlin per l’indicazione. 3 Guglielmo Pescatore, “La musica negli occhi”, in Leonardo Quaresima (a cura di), Il cinema e le altre arti, Venezia 1996, pag. 398. 4 Si ringrazia Francesco Pitassio per la possibilità di visionare il film. 1

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EXTASE AL LIDO CRONACA DI UNO SCANDALO

Una sera a Venezia È la sera del 7 agosto 1934 quando il film di Gustav Machatý Extase è presentato al Lido nell’ambito della seconda Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica, secondo la dizione che il festival di Venezia assume durante gli anni ‘30. Dopo il successo di Erotikon (Seduzione, 1929) il regista, fra i protagonisti della storia del cinema ceco, gode di un considerevole prestigio in Europa ed Extase, che Machaty gira durante l’estate 1932 fra Praga e Vienna ed a cui il suo nome resta inscindibilmente legato nella storia del cinema,1 figura “tra i titoli più attesi” al Lido, si legge su Il Lavoro Fascista.2 Nel 1932 la Biennale ospita per la prima volta il cinema fra i suoi programmi e l’Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica festeggia nell’agosto 1934 il secondo compleanno.3 Non si tratta del primo festival nella storia del cinema, tuttavia è la prima volta che una istituzione in campo culturale del rango della Biennale si apre al nuovo medium; Francesco Pasinetti osserva che

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il festival del cinema, per il solo fatto di essere nella stessa organizzazione della Biennale d’arti figurative, risulta d’ufficio la più importante manifestazione nel campo cinematografico.4

È difficile stabilire a chi si debba l’idea di un festival cinematografico al Lido, a fianco delle esposizioni d’arte che la Biennale organizza dalla fine del secolo precedente, se al conte Giuseppe Volpi di Misurata, una figura di spicco nell’Italia all’inizio del ‘900, industriale, governatore della Tripolitania, ministro delle Finanze, che dal 1930 è alla presidenza della Biennale; ad Antonio Maraini, uno scultore di una certa fama negli anni ‘20, che ricopre all’ente l’incarico di segretario generale; oppure a Luciano De Feo, un esponente di rilievo del cinema del Ventennio, fra i fondatori dell’Istituto Luce e alla guida dal 1927 dell’Istituto Internazionale per la Cinematografia Educativa, che figura insieme alla Biennale fra gli organizzatori del festival. È impossibile accertare la paternità, si conosce soltanto la data di nascita. È il 6 agosto 1932, un sabato, quando le luci si spengono e una sequela d’ombre in bianco e nero (per l’inaugurazione è scelto il film di Rouben Mamoulian Dr Jekyll and Mr Hyde/Il dottor Jekyll) s’impossessa dello schermo sulla terrazza dell’Hotel Excelsior. Il festival incontra subito il successo e la Biennale decide d’inserirlo stabilmente fra i suoi programmi. La seconda Esposizione ha inizio il 1° agosto 1934, terminando dopo 28 giorni con la presentazione del film di Mamoulian Queen Christina (La regina Cristina) con Greta Garbo e il festival, rispetto al 1932, cresce in importanza. I paesi salgono da sette a 17 e il programma si compone di 44 film, a cui si aggiungono 41 cortometraggi.5 Accanto a Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Unione Sovieti100

ca, Polonia e Italia, nel 1934 aderiscono per la prima volta Austria, Danimarca, India, Olanda, Spagna, Svezia, Turchia e Ungheria. La Cecoslovacchia, presente nel 1932 soltanto con un cortometraggio, partecipa alla seconda Esposizione con quattro film. Oltre ad Extase, sono Řeka (L’amore giovane) di Josef Rovenský e i documentari Zem spieva di Karel Plicka e Bouře nad Tatrami di Tomáš Trnka. Dapprima la Biennale pensa al film di Machatý Nocturno, che il regista è intento a girare nell’estate 1934 a Vienna, ma non risultando pronto, si opta per Extase.6 Il festival manca ancora di una sede al Lido (la costruzione del Palazzo del Cinema avviene nel 1937) e la seconda Esposizione si svolge nel giardino dell’Hotel Excelsior, a un capo del quale si erge lo schermo, essendo la terrazza dell’albergo insufficiente per accogliere il pubblico. La stampa che partecipa numerosa al festival descrive vividamente la scena. In mancanza di un catalogo, il pubblico è informato per altoparlante sul contenuto del film, sul regista e gli interpreti,7 mentre nel cielo terso che fa da sfondo, si accende, ogni tanto, una stella cadente. Si accende, si spicca, cade silenziosamente col moto soffice e uguale della luce e della lacrima: sparisce bevuta dalla notte.8

Una staccionata circonda il giardino, delimitando il “sacro recinto tutelato dallo schermo, […] altissimo per ogni dove”;9 tuttavia una feritoia consente d’intravedere lo schermo dal di fuori e accade che il pubblico talvolta s’infittisca al punto da ostacolare la circolazione per la via che lo costeggia. Se succede anche la sera in cui si proietta Extase, non è noto, ma è facile immaginare che il personale d’albergo abbia talvolta gettato un occhio sullo schermo. 101

Nel buio, alzando lo sguardo, se si incontra un terrazzino, puoi essere sicuro di scorgervi qualche signore in marsina con la cravatta nera e sul braccio un tovagliolo. Nel vano di una finestra si incornicia una dama gentile, che ha appena finito di rimboccare un lenzuolo.10

Il film di cui si parla Extase è accolto al Lido entusiasticamente. Il pubblico assiste al film “senza fiatare”, si legge sul Corriere della Sera; anche “la terribile scena d’amore [...] passò in uno stupefatto silenzio, in un silenzio di tomba”.11 Finché “il pubblico, alla fine, è scattato in un’entusiastica ovazione, con dei ‘bravo!’ insistenti rivolti allo schermo”.12 Per Gastone Toschi si tratta dell’applauso più lungo al festival,13 al critico del Popolo di Trieste, Lello Molossi, pare il più spontaneo,14 e il giorno dopo non si parla che di Extase al Lido. A due, a tre, a crocchi si parlavano rapidamente, animatamente, con una foga, un’attenzione, un calore, come giurerei di non avere mai veduto. E di che cosa parlavano? Ma naturalmente parlavano di Estasi. – Finalmente – dicevano tutti, incontrandosi – ieri abbiamo veduto un bel film.15

Stando al giudizio sulla stampa, è il film che piace di più dall’inizio del festival. Rispetto a Flüchtlinge (Fuggiaschi) di Gustav Ucicky, “magnifico”, ma che “per il suo carattere mancava di attrattiva per il pubblico femminile”, al film di James Whale The Invisible Man (L’uomo invisibile) che “insisteva un po’ troppo sopra una nota sola”, od a Reifende Jugend (Giovinezza) di Carl Froelich, “pieno di cose belle”, ma che appare “troppo specificamente tedesco di mentalità 102

e di atmosfera”, Extase conquista il pubblico. “Come tutte le opere un po’ fuor dalle vie battute, Estasi provoca molte discussioni”, constata Filippo Sacchi e, in una cronaca dal Lido che significativamente s’intitola “Il film di cui si parla”, raccoglie anche l’opinione fra il pubblico.16 Questo si divide sul finale. Una ragazza, “non è bionda e non è snella, occhi chiari caldi, [...] gentilezza provocante, vent’anni”, disapprova la decisione di Eva di lasciare Adam. Perché lasciarsi fermare dalla tragica morte del marito? Non era il suo destino seguire l’uomo che amava, e di cui portava la creatura? – Che idea! Come se il marito non fosse già morto, per lei.

Mentre c’è chi comprende Eva, giustificando che “in un primo impulso, fuggisse dal giovane ingegnere per orrore di quel sangue”, ma ritiene che “appena certa del figlio, ella avrebbe dovuto subito tornare”, fra le spettatrici sono in molte ad addossare la colpa all’amante. “Non sa che le donne fuggono perché l’uomo le insegua?”. “Ma la parola definitiva”, che suggella il resoconto sul Corriere della Sera, “l’ho sentita da una vecchia spiritosa signora”. “Quel giovanotto se l’è meritato – osservò la ilare dama, […] l’uomo non deve mai addormentarsi prima della donna!”. La sensazione che Extase suscita al Lido trasforma la protagonista in una star nello spazio di una notte. Si chiama Hedwig Kiesler, è austriaca e il suo nome è ignoto in Italia all’inizio degli anni ‘30, ma con Extase conquista immediatamente un posto nell’immaginario del pubblico.17 La stampa la colloca alla pari con le dive d’oltreoceano che si vedono al Lido nel 1934, da Marion Davis, “bionda, come nei suoi film, forse un po’ meno”,18 ad Eleanor Boardman, 103

“viso schietto e un po’ freddo”,19 a Kay Francis, “destinata a essere un po’ sempre sulle orme di una Stanwyck, senza però poterla raggiungere mai”.20 Come si conviene alla diva che la Kiesler, con il nome di Hedy Lamarr, diverrà a Hollywood, intorno al suo soggiorno al Lido fiorisce l’aneddotica. Secondo Flavia Paulon l’attrice giunge al Lido con “l’ardente amico [...], geloso da morire”, Ferdinand von Starhenberg,21 un esponente di spicco della Destra austriaca, di cui si registra la presenza in Italia all’inizio di agosto per un incontro con Benito Mussolini, per discutere la situazione in Austria dopo l’assassinio del cancelliere Engelbert Dollfuss. Invece c’è chi la intravede a passeggio con il marito, Friedrich Mandl, un magnate dell’industria bellica, che l’attrice sposa nell’estate 1933.22 In compagnia dell’amante la Kiesler partecipa alla proiezione di Extase secondo De Feo, “trionfante di bellezza, in un affascinante abito da sera, […] dinanzi a un pubblico enorme”.23 Al contrario, si legge su La Stampa che l’attrice giunge al Lido il giorno seguente24 e Ubaldo Magnaghi crede di riconoscerla in una donna che “a notte […] gettate le vesti, fa un tuffo in mare e nuota a lungo, da sola”.25 Mario Gromo la descrive “sdegnosa, insofferente d’ogni pubblicità”,26 Sacchi pone l’accento sul volto e il suo portamento. Dritta, vestita di nero, camminava con quel passo portato e deciso con cui l’abbiamo veduta, quella notte della sua folle avventura, camminare nel vento. [...] Presso l’ascensore si fermò un istante e mostrò il profilo, quell’inconfondibile profilo così stranamente duro e voluttuoso.27

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Un poema cinematografico dell’amore La critica saluta con favore la presentazione del film di Machatý al festival. Eugenio Giovannetti lo giudica “un grande film [...], perfettamente solitario e irriproducibile”, presentando Extase come “la grande sorpresa della Biennale cinematografica”.28 È “un film assai bello”, scrive Il Messaggero, che lo apprezza per “le sue qualità drammatiche ed estetiche”.29 Anche Il Lavoro Fascista valuta Extase “una opera grande e bella”, scorgendo in Machatý “un lirico del cinematografo”, che dimostra “luminosamente come il cinematografo possa elevarsi davvero ad opera d’arte”.30 “Il film che non si dimentica più è Extase”, scrive Cinesorpresa31 e Gromo lo giudica un’opera, questa, che ha pagine d’autentica bellezza, d’un’audacia sicura, d’una rara potenza, [...] uno dei film più audaci e sconcertanti che possano essere offerti da uno schermo.32

L’attenzione si rivolge al linguaggio di Extase e si apprezza l’abilità con cui Machatý traspone il soggetto in immagine, plasmandolo sullo schermo. Ricorrendo, come si osserva su Cinesorpresa,33 a “parallelismi, similitudini e simboli”, Machatý si serve efficacemente dell’immagine per comunicare i pensieri, i sentimenti che animano i personaggi, secondo una ricerca che percorre significativamente l’opera del regista, raggiungendo l’apice con Erotikon ed Extase, come la storiografia rileva concorde. Se il soggetto non è originale, come rimarca Il Lavoro,34 si apprezzano lo stile e la capacità di Machatý d’impiegare creativamente l’immagine e il suono, e Pasinetti giudica Extase 105

un film dove immagine, suono, narrazione si fondono mirabilmente nella più composta armonia cinematografica, cui contribuisce in particolar modo lo studio accurato dei particolari, la sintetica descrizione degli ambienti, mentre l’atmosfera vive intorno ai personaggi in intima fusione con essi.35

Si riscontra in Extase un’abilità di fare a meno della parola, che spesso monopolizza il cinema all’inizio del sonoro, retrocedendo il nuovo medium ad ancella del teatro; un tratto che suscita l’ammirazione fra la critica. “Tutta la prima parte del film supera difficoltà d’ogni genere, senza far pronunciare agli attori una sola parola”, si evidenzia su La Stampa. “Stanchezze e languori, ritegni e abbandoni, sono delineati in tocchi rapidi e precisi” e il dialogo è sostituito con “simboli chiari ed evidenti, allusioni velate”. 36 Si coglie in Extase una musicalità che scaturisce dall’inquadratura e dal montaggio. La potenza di uno sguardo, di una mano che s’increspa o si schiude, d’un desiderio che è terrore e speranza, anelito e respiro; il profumo greve dei campi in fiore che giunge recato dal vento, e il sole che inturgidisce la spiga, e l’ampio stormire dei boschi, diventano note musicali e parole concrete, creano stati d’animo.37

Nella storiografia è ricorrente il riferimento al debito che Machatý mostra con i filoni espressionista e del Kammerspielfilm che fioriscono in Germania all’inizio degli anni ‘20 e con il cinema d’avanguardia sovietico. Appariscente in Extase, la stampa accenna al debito in occasione della presentazione al Lido, riscontrandolo in primo luogo nel trattamento a cui Machatý sottopone gli oggetti. Li dispone intorno alle figure, con il compito di parlare di loro e 106

sbalzando un oggetto rispetto all’ambiente, lo evidenzia e, spesso contrapponendolo ad altri nel montaggio, lo eleva a simbolo. “Il racconto egli lo svolge alla maniera dei russi”, constata Mario Labroca. Ecco le panoramiche, le inquadrature che hanno una loro speciale significazione, ecco quella speciale maniera di presentare gli oggetti, ecco il montaggio che sa dare la sensazione del nascere di uno stato d’animo.38

Si apprezza anche la mobilità che dispiega in Extase la macchina da presa, della quale Machatý si serve capacemente per esprimere gli stati d’animo, i desideri che struggono i personaggi, con riguardo alla figura di Eva,39 al tempo stesso valorizzando il paesaggio che agisce da cassa di risonanza per la passione fra Adam ed Eva e suggerendo una intimità fra la donna e la natura. A riguardo Corrado Pavolini scrive che “mirabile è nel film la panica fusione raggiunta tra il nudo della donna, il prato, gli alberi, le nubi”, in cui non si scorge “un attimo di esitazione o di compiacimento”.40 L’obiettivo procede con un movimento quasi a spirale, partendo dalla terra per salire sulle vette più alte degli alberi, su verso il cielo, verso le nubi. Poi, ridiscende, si sofferma su qualche particolare, [...] retrocede, allarga il campo di presa sino all’infinito per poi avvicinarsi di nuovo.41

È possibile individuare in Extase più di una suggestione che proviene dalla letteratura e dalla pittura. Per esempio Labroca scorge “lo stesso senso di castità che è nell’Amante di Lady Chatterly”,42 formulando un parallelo con D.H. Lawrence, cui Henry Miller dedica un saggio, 107

dove indaga l’affinità fra lo scrittore e il regista, scorgendola non nel soggetto di Extase, quanto in una visione del mondo e in un modo di esprimerla, che li accomunerebbe significativamente.43 Si richiama anche l’attenzione su elementi per i quali Machatý pare in debito con la pittura italiana fra Quattro e Cinquecento. Nel modo in cui rappresenta il corpo di Eva e inscena il rapporto d’amore con Adam, Giovannetti avverte una reminiscenza di opere del Giorgione e del Correggio. Segnatamente una Venere di quest’ultimo, che si conserva al Kunsthistorisches Museum a Vienna, ispirerebbe la posa di Eva nel letto dell’amante e si dovrebbe al dipinto del Giorgione Io e Giove l’intuizione d’illuminare “il solo corpo della donna e lasciando il maschio nell’ombra, come una forza anonima della natura”, mentre “la bella donna biancheggia abbandonandosi alla nube adorante”.44 Inoltre Giovannetti pone a confronto il gruppo di Apollo e Dafne di Lorenzo Bernini, “in cui lo spasimo della voluttà era detto soltanto dal divaricare […] del dito esterno di un piede”, con il modo in cui Machatý, guidando la macchina da presa verso la bocca, legge sulle labbra di Eva l’estasi che la percorre. Se si considera che, in ultimo, il film conquista prepotentemente un posto nella storia del cinema per la carica d’erotismo che permea il soggetto ed è noto generalmente per lo scandalo che suscita all’epoca, sorprende che l’audacia di Extase rispetto al canone di ciò che è rappresentabile al cinema negli anni ‘30, al contrario disturba poco gran parte della stampa al Lido, passando in subordine rispetto all’apprezzamento per la regia. Giovannetti concede che il film “è, non si deve negarlo, eccitante pei nervi degli uomini”, ma invita a considerarlo “un poema cinematografi108

co dell’amore”;45 e si sottolinea la destrezza di Machatý, in grado di sottrarsi alla banalità del soggetto. Date questo tema a un mestierante, e ne nasce il film scurrile o banale; datelo a Machatý, e ne nasce ciò che a buon diritto deve chiamarsi un’opera d’arte.46

È concorde Il Messaggero47 e Pavolini giudica Extase “un saggio torbido e pur limpidissimo, [...] in qualche modo, un’opera documentaria”, in cui la passione al centro della vicenda è “come osservata in un grande specchio”.48 “L’arte dell’immagine comincia, in Estasi, proprio al momento in cui suole finire nel cinema ordinario”, rileva Giovannetti, soffermando l’attenzione sull’accortezza con cui il regista, ricorrendo a una ellissi, rappresenta la notte d’amore fra Eva e Adam. In simili momenti ogni esibizione di membra sarebbe un’insopportabile volgarità; ed è la sola testa ormai quella che descrive l’estasi, la testa scossa da brividi fuggitivi, con la bocca semiaperta anelante. [...] Non occorre di più all’artista cinematografico: non altro moto che questo quasi impercettibile, non altra nudità che questa di due labbra.49

Moralmente arrischiata e dialetticamente discutibile Non tutta la stampa condivide l’entusiasmo; una parte si esprime sul film con riserva. Per esempio, Sacchi si mostra sorpreso per il successo di Extase, constatando che “non è un film gaio, [...] nemmeno un film facile”. Tuttavia riconosce che “afferra il pubblico per questo, per la forza, la sincerità, il disinteresse con cui sente l’umanità del suo 109

tema, e risolutamente la esprime”.50 Pur apprezzandolo per l’eleganza del racconto, “pieno di scorci simbolici, di ritorni tematici, d’insistenze visive”, il critico del Corriere della Sera prende le distanze dal contenuto di Extase, di cui sottolinea la particolarità. Estasi è un’opera d’un genere che senza dubbio non è il caso d’imitare e di generalizzare, un’opera moralmente arrischiata e dialetticamente discutibile.

L’attacco contro Extase giunge da L’Osservatore Romano, che ha per la prima volta un corrispondente al Lido, Mario Meneghini. La presenza del quotidiano del Vaticano al festival s’inserisce nel quadro di una crescente attenzione che la Chiesa italiana manifesta riguardo al cinema all’inizio degli anni ‘30. L’Osservatore Romano si lamenta ripetutamente riguardo al programma, condannando Amok di Fëdor Ozep per l’erotismo e “il delitto contro la maternità”,51 mentre Wonder Bar di Lloyd Bacon irrita a causa della rappresentazione di San Pietro, “mascherato da negro, con gli attributi divini fissati alla cintola, con un nembo novecentesco sospeso sul capo”.52 Dispiacciono anche l’olandese Puberteit, “altra sconcezza, in effetti, mancata per la tenebrosa sua realizzazione tecnica” e l’americano Loth in Sodom, “caotica allucinazione di due dilettanti e indecorosa per giunta”.53 Ad irritare è soprattutto Extase, contro il quale L’Osservatore Romano protesta con veemenza, attaccando la Biennale per averlo accolto al festival. “La pellicola Estasi viene definita dai compilatori del programma film artistico: noi la definiremmo, invece, pellicola pornografica”, è il giudizio di Meneghini, che stigmatizza “le nudità assolute” e “le situazioni scabrose”, “i paralleli umilianti 110

per la stessa dignità umana”, che ricorrerebbero nel film, in particolare il parallelo stesso, offerto alternativamente, con l’allettamento di buone panoramiche, fra l’irresistibile appello dell’animalità di due quadrupedi e quello degli umani, quasi che tutta l’operosità e i sacrifici della religione e della civiltà avessero fallito il loro scopo.54

Nel giudizio de L’Osservatore Romano il film, contro cui s’invoca l’intervento dell’autorità, presenta “una concezione della vita e dei doveri ad essa inerenti, d’una amoralità senza precedenti” e la polemica intorno ad Extase divampa rapida. Per la Rivista del Cinematografo è “una mostruosità”, in cui “la vicenda già bacata moralmente viene condotta e presentata figurativamente nei suoi aspetti più brutalmente veristici”, e l’organo del Consorzio Cinematografia Educativa, l’associazione degli esercenti cattolici, gli nega “coscienza artistica”.55 Marco Ramperti ironizza sulle “innovazioni tecniche, che dovrebbero imporsi in questo film, [...] le acutezze, le audacie, le scoperte psicologiche”, che tanto entusiasmano al Lido. Il regista del film di cui si parla, per farci capire che il marito è un uomo rozzo, gli fa schiacciare un’ape, che forse è una vespa, venutagli a ronzare sul viso in cerca d’una dolcezza che non c’è; mentre poi, per dimostrarci che l’amante è un uomo fino, ci fa vedere che le api, lui, le prende tra due dita, rimettendole nei calici dei fiori!56

Invano parte della critica si leva in difesa del film. Il Popolo di Trieste giustifica la decisione della Biennale di presentare Extase, “perché, opera squisitamente artistica, al111

tamente significativa, s’inquadra a perfezione negli intenti e nelle finalità […] di questa internazionale rassegna”, respingendo l’accusa che si tratti di “un film ‘spinto’ né tanto meno immorale”.57 Una accusa che meraviglia anche Cinesorpresa. “Esaltazione dei sensi? [...] Immorale?”, si chiede il periodico; “No, veridico, sincero, spontaneo”.58 La visione d’un bel corpo ignudo abbandonato al gelo di un’acqua di cristallo, e la corsa della naiade senza veli per i campi, divenuta ninfa inseguita dai raggi del sole, hanno la castità d’una favola fluviale e boschereccia.59

Ettore M. Margadonna polemizza contro la stampa che giudica Extase “dalle gambe o dagli occhi della Kieslerowa [sic]”. “Il problema della critica non sta nella carne in sé, pertinente ai teologi e agli psichiatri, ma nel modo in cui l’artista la celebra o l’umilia”,60 argomenta Margadonna e difende l’autonomia della critica, che scorge alla prova. Perché un critico, e il riferimento sembra a L’Osservatore Romano, “non può minoicamente attorcere la coda e mandare all’inferno un film”. In gioco è la rispettabilità della critica, a cui Margadonna chiede di valutare il film di per sé, non fermandosi “all’intenzione, al contenuto, alla favola, all’aneddoto, e quel che è peggio, al fatto personale”, se ambisce ad assolvere il suo compito. Contro il film protesterebbe anche il papa61 e l’attacco del Vaticano investe il regime. Mussolini, al quale preme l’appoggio della Chiesa, con cui ha da poco firmato il Concordato, disporrebbe una proiezione del film. “Questo scrupolo di avocare a sé il giudizio finale”, maligna Sandro De Feo, sarebbe “una scusa per gustarsi anche lui quella scena d’amore”.62 Riferisce l’episodio la Paulon, che collabora all’epoca con la Biennale ed a cui si deve una storia del festival. 112

Persino Mussolini volle sapere cosa stava succedendo al Lido e chiamò a rapporto De Feo che prese un aereo e portò a Roma il film. […] Mussolini era arrabbiatissimo. Entrò infatti nella saletta d’umore assai nero. Non disse nulla fino alla scena che aveva provocato lo scandalo e a quel punto anche lui rimase disarmato da tutta quell’estasi. Disse con voce un po’ innervosita: “Però è una gran bella donna!” e De Feo poté tornarsene tranquillamente a Venezia.63

È impossibile stabilire se l’episodio sia veritiero o, piuttosto, appartenga all’aneddotica che nel corso del tempo fiorisce intorno ad Extase, fino a formare un corpus che ne rinnova di continuo la leggenda. Vi appartiene anche l’episodio del marito che geloso cerca d’acquistare tutte le copie del film, per distruggerle.64 Un’aneddotica che, se è improbabile che risponda a verità, è parte della storia di Extase, testimoniando del rilievo che il film acquista nell’immaginario del pubblico. Lo scandalo induce il regime a vietare il film in Italia e la decisione si ripercuote al Lido, influendo sull’assegnazione dei premi che si svolge nel 1934 per la prima volta. Manca una giuria e ad attribuire i premi sono la Biennale e l’Istituto Internazionale per la Cinematografia Educativa, “sentiti gli esperti dei vari paesi”.65 Il risultato riflette un compromesso, in cui sul merito prevalgono le considerazioni d’ordine politico e si bada a non scontentare nessuno. “Per la maggior presentazione industriale”, come recita la motivazione, si assegna una coppa alla Motion Picture Producers and Distributors of America, e una va all’Unione Sovietica “per la miglior presentazione statale”. La signora di tutti, che Max Ophüls gira in Italia nel 1934, abbandonando la Germania all’avvento del nazionalsocialismo, è giudicato “il film italiano tecnicamente migliore”, 113

e Dood water di Gerard Rutten è insignito per la fotografia. Fra gli attori si premiano Wallace Beery e Katherine Hepburn, che brilla al festival nella commedia di George Cukor Little Women (Piccole donne), mentre la Coppa Mussolini è attribuita a Teresa Confalonieri di Guido Brignone e al documentario di Robert Flaherty The Man of Aran (L’uomo di Aran). Diverso è l’esito della votazione che si svolge fra il pubblico, in cui primeggia Extase. Segue The Man of Aran, al terzo posto si colloca l’americano Viva Villa!66 Tuttavia lo scandalo che provoca rende impossibile l’assegnazione di un premio ad Extase e si opta per un riconoscimento all’insieme della produzione ceca al Lido, raggruppando Extase, Řeka e i documentari Zem spieva e Bouře nad Tatrami, ai quali si attribuisce la Coppa della Città di Venezia per la miglior regia, “per la grande efficacia raggiunta con l’arte narrativa più semplice”, si legge nella motivazione, e “la comprensione ed interpretazione più spontanea della natura”.67 Come rileva Margadonna, “l’assegnazione collettiva attenua il significato e l’importanza del premio” ad Extase,68 di cui si riconosce il merito, al tempo stesso distanziandosi.

La delusione è stata grande Dopo la presentazione al Lido Extase scompare dalla circolazione, tuttavia Machatý è ingaggiato nel 1935 con l’approvazione del regime per girare un film in Italia, Ballerine. Il film, a due anni dal successo di Extase, è presentato nel 1936 al festival di Venezia, ma il pubblico e la stampa lo avversano. “Ora è la stessa Venezia che dà la croce addosso 114

all’uomo che aveva esaltato due stagioni addietro”, scrive Il Messaggero.69 La fama di Extase è fagocitante ed è impossibile per Ballerine essergli all’altezza. Il mito di Extase sopravvive alla guerra ed è tale ancora l’appeal del film in Italia alla fine degli anni ‘40 che la Capitani Film progetta di distribuirlo. All’inizio del 1947 la società si rivolge alla Direzione Generale dello Spettacolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri per importare il film.70 La Capitani Film sottopone alla Direzione una edizione in lingua francese. La copia, proveniente dal Belgio, consta appena di 1.701 metri,71 a fronte di 2.486 metri che il film misura in origine. Una riduzione all’incirca di 30 minuti che si spiega poiché “in tale copia erano già stati apportati numerosi tagli ordinati dalla censura cinematografica di quella Nazione”.72 Inoltre la Capitani Film si dichiara disponibile a modificare il finale, conferendogli “un lato morale”, inserendo una indicazione sul matrimonio fra Eva e Adam.73 Una misura a cui ricorre anche la distribuzione negli Stati Uniti, introducendo un dettaglio con il diario di Eva prima della scena d’amore, dove la donna annota di essersi segretamente sposata.74 Tuttavia la Direzione Generale dello Spettacolo richiede ancora il taglio di numerose parti, in particolare la “scena dell’amplesso dei due amanti dovrà essere quasi totalmente eliminata, facendo apparire la figura dell’attore soltanto all’inizio ed alla fine”, e quella “in cui la protagonista appare nuda o quasi”.75 Ma l’intervento ridurrebbe il film a uno scampolo; una eventualità di cui si avverte il rischio. Tenuto presente che le scene di nudo dovrebbero essere censurate e che occorrerebbe attenuare anche alcune altre scene prego l’E.V. di esaminare l’opportunità di immettere in circolazione un film il quale, dopo i tagli sopportati, risulterebbe 115

seriamente pregiudicato nella sua consistenza e non offrirebbe più quegli elementi di spettacolo che hanno reso famoso il film stesso, il che potrebbe provocare proteste e reazioni da parte della stampa e del pubblico.76

Di fronte al rischio che Extase produca uno scandalo, in un caso per il suo contenuto, nell’altro a causa dell’intervento della censura, si constata l’impossibilità di distribuirlo e la Direzione Generale dello Spettacolo vieta l’importazione in Italia.77 Tuttavia Extase circola all’inizio degli anni ‘50 nel circuito d’essai, ma si tratta di “una pessima edizione”, informa l’Eco del Cinema e dello Spettacolo, “mutilata dei brani essenziali giustificanti il titolo”. La delusione è stata grande sia per coloro che, attratti dalla fama scandalistica, non si accontentarono delle troppo fugaci apparizioni delle nudità di Hedy Kiesler, […] sia per i critici e gli studiosi che furono privati della possibilità di dare un giudizio definitivo e completo.78

È impossibile per Extase essere all’altezza della fama che lo avvolge. Una sorte a cui non lo condanna tanto la censura, quanto la vicenda del film, di cui si è parlato troppo, mentre è stato invisibile ai più, divenendo una leggenda. Che lo si veda mutilo, a causa della censura, come è stato per settant’anni, o nell’edizione integrale, grazie al restauro nel 2001 ad opera del Filmarchiv Austria, il destino di Extase è di soggiacere al suo mito. Per una storia e un’analisi del film si segnala Armin Loacker (a cura di), Extase, Vienna 2001. 2 Mario Labroca, “Tre film di alto interesse”, in Il Lavoro Fascista, 11 agosto 1934, pag. 3. 1

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Sulla nascita del festival di Venezia si veda Francesco Bono, “Cronaca di un festival senza orbace, censure e coppe di regime”, in Giuseppe Chigi (a cura di), Venezia 1932. Il cinema diventa arte, Venezia 1992, pp. 91-109; e Francesco Bono, “La Mostra del cinema di Venezia, nascita e sviluppo nell’anteguerra (1932-1939)”, in Storia contemporanea, n. 3, giugno 1991, pp. 513-549. In entrambi si trova una bibliografia sulla storia del festival. 4 Francesco Pasinetti, “Il festival del cinema a Venezia”, in Il Ventuno, 28 agosto 1932; si trova in Ilario Ierace, Giovanna Grigraffini (a cura di), Francesco Pasinetti. L’arte del cinematografo. Articoli e saggi teorici, Venezia 1980, pag. 118. 5 Flavia Paulon, La dogaressa contestata. La favolosa storia della Mostra di Venezia: dalle regine alla contestazione, Venezia 1971, pag. 19. 6 Francesco Pasinetti, “Bilanci della II Biennale”, in Cinema Illustrazione, n. 36, 5 settembre 1934, pag. 13. 7 Mino Doletti, in Giornale d’Oriente, 30 giugno 1934; si trova in Adriano Aprà, Giuseppe Chigi, Patrizia Pistagnesi (a cura di), Cinquant’anni di cinema a Venezia, Venezia 1982, pag. 43. 8 Filippo Sacchi, “Alle belle figurine”, in Corriere della Sera, 12 agosto 1934, pag. 6. 9 Mario Gromo, “I divi all’ultimo traguardo”, in La Stampa, 26 agosto 1934, pag. 3. 10 Ibidem. 11 Filippo Sacchi, “Il film di cui si parla”, in Corriere della Sera, 9 agosto 1934, pag. 6. 12 Mario Gromo, “Sullo schermo, sotto le stelle”, in La Stampa, 8 agosto 1934, pag. 3. 13 Gastone Toschi, in Bella, 31 agosto 1934; si trova in Claudio Basso (a cura di), Gustav Machatý, l’eros ritrovato, Pordenone 1980, pag. 47. Si tratta dell’unica pubblicazione in Italia sul regista. 3

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Lello Molossi, in Il Popolo di Trieste, 20 agosto 1934; si trova in Claudio Basso, op. cit., pag. 42. 15 Filippo Sacchi, “Il film di cui si parla”, cit. 16 Filippo Sacchi, “Il film di cui si parla”, cit. 17 Sull’attrice si segnalano Christopher Young, Hedy Lamarr, Secaucus, N.J. 1978; e Peter Körte, Hedy Lamarr. Die stumme Sirene, Monaco 2000. Inoltre si ricorda l’autobiografia di Hedy Lamarr, Ecstasy and Me. My Life as a Woman, London 1967. 18 Mario Gromo, “Intervistiamo le dive?”, in La Stampa, 15 agosto 1934, pag. 3. 19 Filippo Sacchi, “Alle belle figurine”, cit. 20 Mario Gromo, “Intervistiamo le dive?”, cit. 21 Flavia Paulon, op. cit., pag. 21. 22 Marco Ramperti, “I corpi davanti alle ombre”, in Cinema Illustrazione, n. 37, 12 settembre 1934, pag. 3. 23 Luciano De Feo, in L’Eco del Cinema e dello Spettacolo, 1531 agosto 1954; si trova in Adriano Aprà, Giuseppe Chigi, Patrizia Pistagnesi, op. cit., pag. 56. 24 Mario Gromo, “Intervistiamo le dive?”, cit. 25 Ubaldo Magnaghi, “Come le ho viste io”, in Cinema Illustrazione, n. 35, 29 agosto 1934, pag. 4. 26 Mario Gromo, “Intervistiamo le dive?”, cit. 27 Filippo Sacchi, “Alle belle figurine”, cit. 28 Eugenio Giovannetti, “Valori pittorici e film puro. Commenti alla Biennale cinematografica”, in Comoedia, n. 10, ottobre 1934, pag. 13. 29 Orazio Bernardinelli, “Il secondo film italiano Stadio e quello cecoslovacco Estasi, in Il Messaggero, 8 agosto 1934, pag. 3. 30 Mario Labroca, “Tre film di altro interesse”, cit., pag. 3. 31 In Cinesorpresa, settembre 1934; si trova in Claudio Basso, op. cit., pag. 41. 32 Mario Gromo, “Sullo schermo, sotto le stelle”, cit. 14

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In Cinesorpresa, cit. Guglielmina Setti, in Il lavoro, 14 agosto 1934; si trova in Claudio Basso, op. cit., pag. 46. 35 Francesco Pasinetti, “Bilancio della II Biennale”, in Cinema Illustrazione, n. 36, 5 settembre 1934, pag. 13. 36 Mario Gromo, “Sullo schermo, sotto le stelle”, cit. 37 Ibidem. 38 Mario Labroca, “Tre film di altro interesse”, cit. 39 Si veda Francesco Pitassio, “Il geniale falsario: Machatý”, in Immagine. Note di storia del cinema, n. 31, 1995, pp. 12-13. 40 Corrado Pavolini, “Considerazioni alla Biennale del cinema”, in Scenario, n. 9, settembre 1934, pag. 471. 41 Guglielmina Setti, in Il Lavoro, cit. 42 Mario Labroca, “Tre film di altro interesse”, cit. 43 Henry Miller, “Reflections on Ekstase”, in Max and the White Phagocytes, Parigi 1938, pp. 135-147. 44 Eugenio Giovannetti, “Valori pittorici e film puro” cit., pag. 15. 45 Ivi, pag. 16. 46 Mario Gromo, “Sullo schermo, sotto le stelle”, cit. 47 Orazio Bernardinelli, “Il secondo film italiano Stadio”, cit. 48 Corrado Pavolini, “Considerazioni alla Biennale del cinema”, cit. 49 Eugenio Giovannetti, “Valori pittorici e film puro”, cit., pag. 15. 50 Filippo Sacchi, “Il film di cui si parla”, cit. 51 Mario Meneghini, “Alla II Biennale internazionale del cinema a Venezia. Incomprensione o deliberato proposito”, in L’Osservatore Romano, 18 agosto 1934, pag. 3. 52 Mario Meneghini, “Alla II Biennale del cinema. Intenzione e realtà”, in L’Osservatore Romano, 20-21 agosto 1934, pag. 3. 53 Mario Meneghini, “Dopo la II Biennale internazionale del cinema a Venezia. Considerazione d’indole generale”, in L’Osservatore Romano, 1 settembre 1934, pag. 3. 33 34

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Mario Meneghini, “Incresciose constatazioni alla II Biennale internazionale del cinema a Venezia”, in L’Osservatore Romano, 13-14 agosto 1934, pag. 3. 55 Mario Milano, in Rivista del Cinematografo, agosto-settembre 1934; si trova in Claudio Basso, op. cit., pag. 48. 56 Marco Ramperti, “Teatro e cinema”, in L’Illustrazione Italiana, n. 34, 26 agosto 1934, pag. 322. 57 Lello Malossi, in Il Popolo di Trieste, cit. 58 In Cinesorpresa, cit. 59 Mario Gromo, “Sullo schermo, sotto le stelle”, cit. 60 Ettore M. Margadonna, “Postille alla Biennale del cinema”, in Cultura, ottobre 1934, pag. 7. 61 Per esempio lo riferisce Peter Körte, op. cit., pag. 64. 62 Cit. in Flavia Paulon, op. cit., pag. 21. 63 Ibidem. 64 Si legga Hedy Lamarr, op. cit., pag. 23. 65 “La assegnazione dei premi alla II Esposizione Internazionale del Cinema”, in Giornale dello Spettacolo, 10 ottobre 1934, pag. 5. 66 Si ringrazia l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale per una copia del resoconto sul risultato della votazione fra il pubblico. 67 In Giornale dello Spettacolo, cit. 68 Ettore M. Margadonna, “Postille alla Biennale”, cit. 69 In Il Messaggero, 18 agosto 1936; si trova in Claudio Basso, op. cit., pag. 66. 70 Si ringrazia la Direzione Generale per il Cinema/Ministero per i Beni e le Attività Culturali per avermi consentito di consultare la documentazione. 71 L’appunto, del 29 gennaio 1947, risulta privo d’intestazione e di firma. 72 Così informa la Capitani Film; la lettera è del 1° aprile 1947. 73 Si veda la lettera della Capitani Film del 3 febbraio 1949. 54

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Christopher Young, op. cit., pag. 95. La lettera della Direzione Generale dello Spettacolo alla Capitani Film è priva di data. 76 La lettera, del 28 luglio 1948, è indirizzata dal direttore generale dello Spettacolo Nicola De Pirro a Giulio Andreotti, che all’epoca è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega per lo spettacolo. 77 Alla decisione si giunge il 9 marzo 1949. 78 Emidio Saladini, “Estasi”, in Eco del Cinema e dello Spettacolo, n. 36, 15 novembre 1952, pag. 2. 74 75

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STORIA DI UNA BALLERINA GUSTAV MACHATÝ IN ITALIA

Sulla strada che dopo il successo di Extase lo porta da Praga a Hollywood, dove giunge alla fine del 1936, Gustav Machatý si trattiene per alcuni mesi in Italia. Qui lavora a cavallo fra 1935 e 1936 al film Ballerine. Nell’esigua letteratura sul regista1 e in quella sul cinema italiano degli anni ‘30, solitamente il film è appena accennato. Qui si cerca di ricostruire la storia di Ballerine, dalla scelta del soggetto alla difficile realizzazione, alla presentazione del film al festival di Venezia, dove la stampa lo avversa, fino alla versione riveduta in cui giunge in sala mezz’anno dopo, rivelandosi un fiasco.

Quel nome a quell’epoca La storia di Ballerine inizia nell’estate 1935. In agosto la rivista Lo Schermo riferisce della visita di Machatý agli studios di Pisorno;2 il complesso, che si trova in prossimità di Tirrenia, fra Pisa e Livorno (da cui deriva il nome), è stato costruito due anni prima per iniziativa di Giovacchino Forzano.3 Questi costituisce una figura singolare nel 123

cinema italiano degli anni ‘30; accanto all’attività di regista, Forzano è autore di testi per il teatro e di libretti d’opera ed è in rapporto di amicizia con Benito Mussolini. Ancora non esiste Cinecittà e il complesso di Pisorno si colloca all’avanguardia in Italia. Si estende su una superficie di 200.000 mq e vanta tre teatri di posa, dove è possibile girare da cinque a sei film all’anno; è l’equivalente di un quinto della produzione in Italia a metà degli anni ‘30. Intorno agli studios di Pisorno si sviluppa una complessa struttura, cui fanno capo le case di produzione Consorzio Vis e Pisorno Film e una società di distribuzione, la Cine Tirrenia. Forzano punta in particolare su coproduzioni con l’estero. Fra l’altro si avviano progetti con le inglesi Grand National Pictures e Two Cities; a metà degli anni ‘30 Luis Trenker gira alla Pisorno Der Kaiser von Kalifornien (L’imperatore della California) e s’ingaggiano i francesi Abel Gance e Jean Epstein per dirigere, rispettivamente, Ladro di donne e Cuor di vagabondo, dei quali si appronta anche una versione in lingua francese. Perlopiù l’esito è modesto e la Pisorno in breve tempo si trova in difficoltà, ma i progetti testimoniano della volontà di raccordarsi con l’Europa, in cui s’inserisce anche la produzione di Ballerine. Insieme al resoconto della visita a Pisorno si abbozza su Lo Schermo un ritratto di Machatý. Corrado Pavolini lo presenta come “un uomo freddo, dallo sguardo cattivo e pesante”, dal quale traspaiono “le insofferenze, gli spigoli, la prepotenza, le testardaggini e l’egoismo di una persona d’ingegno”. Un artigiano del cinema, “ferrato come un accidente nel suo mestiere”, che “sa di tutto in tutto i settori”, del quale Pavolini evidenzia l’interesse per la fotografia, che costituisce per Machatý l’essenza del cinema.

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La sua macchinetta non l’abbandona un istante; se ne serve come il pittore d’un taccuino, per prendere appunto di una fisionomia, di un’inquadratura, di un effetto di luce. Materiale che gli servirà domani per le sue “composizioni”.

Al tempo stesso Pavolini accenna nell’articolo una riflessione sull’opera di Machatý, in cui scorge l’esponente di un international style che si diffonde alla vigilia del sonoro, “sufficiente a se stesso, regolato da proprie leggi, ricco infine di una propria retorica”; uno stile che non è tanto il frutto dell’elaborazione di un regista, quanto appartiene a una epoca, della quale rispecchia l’estetica. E il critico attribuisce a Machatý il merito di far uso di “un vocabolario internazionale per poeti filmistici”, superando “come oggi non più necessario, lo stadio della originalità; a vantaggio dell’affermazione di uno stile diffuso”. Ma si formula su Lo Schermo anche un appunto, che sarà spesso mosso a Machatý dalla storiografia, di privilegiare l’immagine in sé, indifferente al contenuto che veicola. “Puro pittore si direbbe di lui se dipingesse”, è il giudizio di Pavolini, constatando il disinteresse di Machatý per la storia e la cultura del paese che visita. Il suo linguaggio spirituale […] è il chiaro-scuro dell’immagine. La chioma d’un albero, l’angolo di una chiesa o lo zigomo di una vecchia attirano il suo sguardo all’infuori d’ogni considerazione d’altra natura. […] Guardava e fotografava; senza chiedere tante spiegazioni.

È incerto se, al momento della visita di Machatý a Pisorno, sia già stato definito un progetto. Nell’articolo su Lo Schermo non si fa menzione di Ballerine, accennando soltanto all’intenzione di Machatý di lavorare in Italia. Proba125

bilmente una ragione è la difficoltà per il regista di proseguire l’attività fra Praga e Vienna, dove gira Nocturno nel 1934, dopo l’avvento del nazionalsocialismo in Germania; dopo Extase è malvisto dal regime e Nocturno è vietato nel Terzo Reich. Il progetto di Ballerine si concretizza in autunno. In ottobre è costituita la società che lo produce, l’Anonima Film Internazionali,4 e Fannì ballerina della Scala, un romanzo di Giuseppe Adami, fa da soggetto. A fianco dell’attività di critico e di una esperienza nel cinema come sceneggiatore, Adami è autore di libretti d’opera (fra l’altro scrive Il tabarro e Turandot per Giacomo Puccini) e di testi per il teatro, con cui ottiene la fama negli anni ‘20; si ricordano le commedie Felicita Colombo e Nonna Felicita, che Mario Mattoli porta sullo schermo fra 1937 e 1938. L’idea per Ballerine è attribuita da Enrico Lancia e Stefano Masi ad Irina Lucacevich, che è inizialmente in predicato per impersonare Fannì.5 Riguardo alla Lucacevich si sa poco; russa, probabilmente di famiglia aristocratica, con cui lascia il paese dopo la rivoluzione d’Ottobre, studia danza a Varsavia, poi si trasferisce in Italia. Qui compare nel 1933 a fianco di Vittorio De Sica in un ruolo di femme fatale nella commedia di Carlo Ludovico Bragaglia Un cattivo soggetto, un rifacimento dell’americano The Devil to Pay (L’uomo delle scommesse, 1931). La stampa la giudica “seducente, fine e aristocratica”.6 Alla ricerca di un soggetto per affermarsi in Italia, la Lucacevich pensa al romanzo di Adami, in cui si percorre la parabola di una ballerina, dall’esordio fino al successo in Europa, in parallelo con la sua storia d’amore con un giornalista; questi prima la lascia, poi si rincontrano a Vienna, per perdersi di nuovo dopo una notte d’amore, quando Fannì si ammala e muore. Sullo sviluppo del progetto probabilmente influisce la co126

noscenza fra Adami e Forzano; entrambi collaborano con Puccini fra gli anni ‘10 e il dopoguerra. Anche la Lucacevich ha già lavorato con Forzano, che le affida nel 1935 un ruolo in Campo di maggio. È un indizio del ruolo centrale che Forzano ricopre nella genesi di Ballerine. Quando Machatý nell’autunno 1935 è incaricato della regia di Ballerine, che inizialmente s’intitola come il romanzo, verosimilmente il progetto ha già preso forma. Dopo il successo di Extase il regista gode di un nome in Italia, a cui contribuisce la proibizione del film; una misura che avvolge Extase nella leggenda. In un periodo in cui è diffuso in Italia l’ingaggio di registi stranieri, si punta su Machatý per un film di appeal europeo. Fra gli interpreti s’ingaggiano la protagonista di Nocturno, Maria Ray, e la tedesca Olivia Fried, e il progetto ha il sostegno della Direzione Generale per la Cinematografia.7 Al tempo stesso l’Anonima Film Internazionali specula sulla fama che accompagna Machatý. Quel nome a quell’epoca, dopo il grande e segreto successo veneziano di Estasi, di cui tutti parlavano con piccoli brividi di piacere, poteva essere un grosso colpo per il noleggio del film.8

Così ricorda G.V. Sampieri, che dirige la produzione di Ballerine. Una ragione per l’ingaggio di Machatý, a cui accenna anche Luigi Freddi, alla guida della Direzione Generale per la Cinematografia; “[Ballerine] era stato voluto da una ditta che, entusiasmata dal successo del precedente film di Machatý, voleva ritentare il colpo”.9 Sull’affermazione, se coglie in parte nel segno, influisce probabilmente il fiasco di Ballerine, dal quale Sampieri e Freddi si distanziano post factum. 127

In autunno Machatý lavora alla sceneggiatura insieme ad Albrecht e Rudolf Joseph.10 Partecipa alla stesura anche la Lucacevich secondo Cinema Illustrazione,11 mentre Roberto Chiti e Enrico Lancia includono Leo Bomba fra gli sceneggiatori, insieme ai fratelli Joseph.12 A Bomba, che collabora con Alessandro Blasetti negli anni ‘30, si deve probabilmente l’adattamento in italiano. Ma è impervio distinguere fra i molti apporti che, sovrapponendosi, si ripercuotono sul carattere incerto della sceneggiatura, la quale oscilla dal melodramma alla commedia. Se la storia d’amore fra Fannì e Mario, il giornalista, si svolge nel segno del mélo, l’affaire di una compagna col milionario è condotta a mo’ di commedia. È indicativo che nei titoli non si riporta alcuno sceneggiatore, riferendosi soltanto al romanzo di Adami; un elemento che suggerisce una difficoltà riguardo alla sceneggiatura. Vi accenna anche Antonio Centa (nel film impersona Mario), ricordando l’insoddisfazione di Machatý per la sceneggiatura, in “completo contrasto con quello che invece Machatý voleva”.13 La realizzazione di Ballerine si rivela impervia. Alla fine di dicembre la Lucacevich muore in un incidente d’automobile e la sua scomparsa inizialmente mette in forse il progetto.14 Si cerca in fretta una sostituzione e la scelta si appunta su Silvana Jachino, che ha appena debuttato nel film di Forzano Fiordalisi d’oro; il dettaglio conferma il ruolo che questi gioca nella gestazione di Ballerine. La sostituzione influisce negativamente sul film, per il quale si è puntato sul talento di ballerina della Lucacevich; una preparazione che manca alla Jachino e costringe alla modifica delle scene di danza. Quando Fannì si esibisce in un provino di fronte ad una étoile in visita in Italia, l’espediente a cui si ricorre è palese; mentre Fannì danza e la primadonna 128

l’ammira, la macchina da presa si sofferma su quest’ultima e sul pianista, escludendo Fannì dall’inquadratura durante l’esibizione. E le scene in cui si mostra la Jachino danzare, quando è sola in teatro alla vigilia della prima, o in quella che decreta il suo successo, soffrono visibilmente per la sua modestia di ballerina. A rendere difficoltose le riprese è anche la differenza di lingua, che ostacola Machatý nel lavoro con gli attori. “Machatý si trovò in difficoltà anzitutto per la lingua”, è il ricordo di Centa;15 “non parlava quasi l’italiano e ci si aiutava con il francese”.16 E la Jachino riferisce di “tante di quelle controversie” fra la produzione e Machatý, “liti col produttore, liti con altre persone, sorte a causa del suo modo di lavorare e del suo carattere”.17 “Vedeva tutto un po’ a modo suo. [...] Un modo diverso da quello a cui eravamo abituati”, racconta Laura Nucci18 (nel film è una compagna di Fannì) e dal ricordo emerge l’immagine di un regista maudit, su cui probabilmente influisce il fiasco di Ballerine. “Era un uomo stranissimo. Dolce e nello stesso tempo furioso”, lo descrive la Jachino;19 e all’immagine risponde anche il ricordo di Mario Monicelli, che fa da assistente alla regia per Ballerine. Era un pazzo, questo Machatý [...] durante il film io l’ho sentita questa sua follia. Si comportava come i registi dei fumetti: andava vestito in maniera eccentrica, veniva colto da crisi isteriche improvvise; a metà di una scena [...] cominciava a gridare.20

Si giunge al punto che Machatý non porta a termine Ballerine. Probabilmente un ritardo nelle riprese e lo sforamento del budget originano un conflitto con la produzione e il regista abbandona il film. A riguardo la Jachino 129

ricorda: “Penso che Machatý avesse troppe pretese [...]. C’erano scene lunghissime, che non finivamo mai. Questo film non arrivava mai in fondo”.21 Secondo Sampieri il costo di Ballerine quasi raddoppia rispetto al preventivo e le riprese si protraggono di un mese.22 “Ed avvenne la catastrofe”.23 Quando Ballerine è ultimato dalla casa di produzione, Machatý ha già lasciato l’Italia. Il regista completa le riprese (le testimonianze concordano sul punto),24 ma non sovrintende al montaggio. Questo è effettuato da Vincenzo Sordelli,25 un regista di teatro che s’impegna nel cinema all’inizio degli anni ‘30; ma il suo nome non compare nei titoli. Machatý non approva il risultato e protesterebbe con Mussolini.26 Un piccolo idillio senza importanza Il 15 agosto 1936 Ballerine è presentato al festival di Venezia, dove Extase è accolto con entusiasmo nel 1934 dalla stampa e dal pubblico, ed è grande l’aspettativa, intorno a “un film che doveva essere il successo dell’anno”, ricorda Centa;27 invece Ballerine è un fiasco. Descrivere la reazione del pubblico è assai difficile. Subito dopo le prime scene, incominciarono i mormorii; poi man mano, come in un crescendo irresistibile, si passò alle apostrofi, ai commenti corali, agli schiamazzi.28

“Fu una sera burrascosa”,29 la descrive la stampa, riferendo dell’impietoso giudizio del pubblico. E la critica che nel 1934 s’indigna per Extase registra il fiasco con soddisfazione. Scrive Marco Ramperti: “Di spoglio, questa volta, Machatý non ci aveva mostrato che il proprio ingegno. 130

Ma questa sola nudità non poteva sedurci”.30 Una condanna che al corrispondente di Le Temps, Emile Vuillermoz sembra eccessiva; “certo, il film conteneva delle ingenuità e delle inesperienze, ma nel suo insieme non era inferiore a certe realizzazioni americane”.31 Ci si attende troppo per scusare la debolezza di Ballerine, che appare vistosa, e il film non è in grado di competere con Extase. “Ci si aspettava un grandissimo film; e ciò ha nociuto”;32 e la delusione contribuisce alla virulenza con cui lo si rigetta. A riguardo Il Messaggero ricorda un dato psicologico che non bisogna trascurare. Machatý deve a Venezia i tre quarti della sua fulminea notorietà, [...] ora è la stessa Venezia che dà la croce addosso all’uomo che aveva esaltato due stagioni addietro.33

Cosa si rimprovera a Ballerine? In parte delude la vicenda, che la stampa giudica banale; “chi potrebbe ancora interessarsi alla storia della ballerinetta bella e virtuosa che il giovanotto per bene [...] giudica degna di diventare sua moglie?”.34 Ma irritano soprattutto la sceneggiatura e la regia, di cui si stigmatizza “un manifesto cattivo gusto”;35 “tutto appare storpiato, ingarbugliato, inconcludente”.36 Osserva L’Ambrosiano che “la trama [...] è mingherlina; ma tradotta bene in azione e dialogo poteva andare” e richiama l’elemento che più disturba, il dialogo. S’è rivelato fin dalle prime battute per infame, [...] troppe corbellerie, assurdità e mal digerite ingenuità sono state messe in bocca a quei poveri personaggi.37

La Rivista Cinematografica giudica Ballerine “esteriormente bellissimo, ma privo di un’intima forza drammati131

ca, d’una vera sostanza umana”.38 Né il giudizio risparmia gli interpreti. “C’è da dubitare sull’avvenire di Silvana Jachino”, è l’opinione de L’Ambrosiano,39 mentre piace la Ray, “l’unica che si salverebbe, se la parte fosse più interessante”.40 Stupisce in particolare la mediocrità del montaggio, contrastando con Extase, nel quale si è apprezzata specialmente la capacità di Machatý di plasmare visivamente il racconto, conferendogli una unitarietà. “Il film va avanti così lentamente che esso finisce per irritare”, è il rimprovero de Il Lavoro;41 “molte scene di Ballerine hanno una lunghezza due volte maggiore di quella necessaria; altre ne difettano”.42 E la differenza fra Ballerine e Extase induce L’Ambrosiano a chiedersi, cogliendo nel segno, se il montaggio sia attribuibile al regista; “se codesto è il montaggio fatto da Machatý bisogna sospettare che Estasi e Notturno non siano stati montati dal loro autore”.43 Contemporaneamente la polemica intorno a Ballerine si colora d’una nuance nazionalista. Si addossa interamente la responsabilità per l’insuccesso a Machatý. “Sfortunatamente, Ballerine porta un avvallo italiano. [...] Però porta la firma di un boemo: ed è costui, allo straniero, che noi assegniamo tutta la colpa”, si legge su L’Illustrazione Italiana.44 Avanzando un distinguo fra il regista e l’apporto della produzione, Mario Gromo scrive: “Tecnicamente, Ballerine è un film pregevole, e sotto alcuni aspetti pregevolissimo”.45 Ballerine dimostra una cosa importantissima, [...] che la cinematografia italiana ha potuto mettere a disposizione di un notissimo regista straniero [...] mezzi tecnici di perfezione assoluta. Da tale punto di vista questo film ha pochi rivali.46

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Mentre si apprezza “l’efficienza dei nostri studi, dei nostri tecnici, delle nostre maestranze”, si accusa il regista; “purtroppo la fiducia che in lui fu posta è stata tradita”.47 E si accusa Ballerine d’essere un pot-pourri, in cui si guarda confusamente all’estero. Questo Mario, giovane giornalista, [...] non l’abbiamo mai visto nemmeno fra i giornalisti dei film americani peggiori. Questa ballerinetta, [...] qualsiasi ragazza italiana, anche dell’ultimo villaggio, è più umana e intelligente di questa. L’ambiente di quei balletti è viennese di seconda mano; quello dell’albergo è parigino di terza mano e così via.48

Nel giudizio di Gromo, “di film cosiddetti ‘internazionali’ esiste una specie sola, quella [...] che rispecchia in sé l’ambiente di un’epoca e d’un paese”,49 e Ballerine diviene la conferma che l’ingaggio di registi dall’estero è fallimentare. “Ancora una volta quella specie di regista straniero è affogato nel disastro”, è il verdetto su Cine Magazzino.50 Dopo il fiasco al Lido la società di produzione ritira Ballerine dalla circolazione; e il film “subiva, come un vestito vecchio, un’aggiustatura”,51 prima di uscire in sala all’inizio del 1937. Nel processo di revisione si eliminano delle scene, di altre è modificato l’ordine. In particolare si riduce in consistenza l’affaire della compagna di Fannì col milionario e si espungono i momenti passionali o umoristici che la vicenda contiene inizialmente (per esempio, la scena in cui Mario cade nella botola del suggeritore, a cui si fa cenno su Lo Schermo)52, con il risultato di trasformare la storia d’amore in “un piccolo idillio senza importanza”, osserva Filippo Sacchi.53 Anche il finale, che tanto infastidisce al Lido, con Mario che schiaffeggia Fannì prima di affrettarsi alla stazione, è modificato. Inizialmente un 133

happy end suggella la storia d’amore; Fannì comprende che Mario l’ama, gli corre appresso e partono insieme. Invece Ballerine si chiude con Mario che si reca in America per il giornale, mentre Fannì rinuncia all’amore per l’arte; un finale che ricorda Extase, in cui gli amanti si separano, sublimando la passione, Eva nella maternità, Adam con il lavoro. Ma Ballerine non piace nonostante la revisione. “L’edizione rivista [...] non è migliore della prima”, è il giudizio di Guglielmina Setti;54 “anzi ci sembra che la traballante commediola, così rabberciata, traballi ancora di più”.

Vederlo soltanto pezzo a pezzo Resta un interrogativo. Come valutare Ballerine, che risponde nell’attuale versione soltanto in piccola parte al film che Machatý gira? Come osserva Sacchi quando il film approda in sala, “Ballerine, come si presenta ora, è una edizione completamente riveduta e corretta del film che era stato girato da Machatý”.55 In una valutazione di Ballerine non è possibile prescindere dalle circostanze che segnano negativamente la produzione, dalla morte della Lucacevich alla decisione di Machatý di abbandonare il set. E si pone la domanda se Ballerine sia da considerarsi un film di Machatý. Qualsiasi speculazione su quel che Ballerine sarebbe potuto essere è arbitraria. Tuttavia, nel romanzo di Adami è possibile riscontrare dell’affinità con l’opera di Machatý, che spiega il suo interesse per il soggetto. Il mélo che intesse Fannì ballerina della Scala presenta più di un punto di contatto con film di Machatý, da Erotikon a Nocturno, 134

che ugualmente s’incentrano su figure di donne, di cui mettono in scena lo sguardo e la pulsione che lo anima, come rileva Francesco Pitassio,56 e in cui il desiderio fa da motore per l’azione e il dramma sovente si chiude nella impossibilità di soddisfare la pulsione, come l’eroina riconosce alla fine, che si chiami Eva, Maria o Fannì. Anche il romanzo di Adami si compone di un plot scarno, alimentandolo con l’attrazione e la gelosia, il rifiuto e il desiderio che, intrecciandosi, segnano il rapporto tra Fannì e il giornalista, in una dinamica che costituisce il cuore del cinema di Machatý. Al tempo stesso il romanzo si caratterizza per una scrittura impressionista, la quale si arresta sulla superficie degli avvenimenti e dei personaggi, che non preme ad Adami di approfondire, ma che si presenta vivida ed immaginosa. Un bel esempio è la scena in cui Fannì dopo il litigio con Mario che la crede infedele, tenta il suicidio. Adami la disegna con concisione. Scoppia un temporale, il vento sbatte le imposte e Fannì esce sul balcone, in preda all’agitazione. Prende forma sulla pagina una scena che pare di un film di Machatý. Le vesti caddero una ad una come se una invisibile mano gliele strappasse di dosso e poi spalancasse il balcone e la trascinasse là nella raffica e l’adagiasse a terra, lievemente, sulla gelida pietra. Morire. I morti non sentono la pioggia. I fiori sì. E Fannì era un fiore e la pioggia rugiada. Sul suo nudo corpo, fitte e incessanti si sgranavano perle che il calore scioglieva e trasformava in rigagnoli per comporre un ruscello.57

Gli interventi che si succedono su Ballerine finiscono per sfigurarlo. Ne risulta “un film slavato e neutro“, come osserva Sacchi; in cui “tante volontà diverse e contrastanti hanno 135

finito praticamente per annullarsi”.58 Del romanzo di Adami rimane poco, se non l’ambiente, la protagonista e Mario ed un paio di figure di secondo piano, il nugolo delle compagne di Fannì, la primadonna e l’anziano maestro di ballo, e della vicenda si conserva soltanto l’impianto. Se il romanzo osa a tratti, accennando uno stato d’animo o una situazione, come la festicciola in casa di Mario, che solleticano la fantasia, il film appare ritroso. La preoccupazione per la censura evidentemente spinge la produzione ad ammantare la vicenda di pudicizia, mentre si ricorre alla fama di Machatý per suscitare una aspettativa che Ballerine non soddisfa. “Una promessa continua di proibito”, osserva Ramperti, stigmatizzando l’ipocrisia; “timida, è vero, ma tanto più evidente e indecente, in quanto sentiamo questo pudore essere soltanto spavento di censura”.59 Parallelamente il mélo è alleggerito con inserti umoristici, che gli conferiscono a tratti un tono da commedia; ma questa non si addice a Machatý. “Estasi e Notturno dovevano bastare a convincere della di lui mancanza di humour, e delle incompatibilità tra il suo temperamento e questo soggetto leggero”, si osserva su Il Lavoro,60 evidenziando la contraddizione che segna il film. “Vederlo soltanto, Ballerine, pezzo a pezzo, forse potrebbe parere un bellissimo film, di squisita raffinatezza”, scrive Francesco Pasinetti,61 riassumendo la sensazione che si prova di fronte al film, che privo di un disegno, si presenta come un insieme d’immagini e di scene a sé, in cui tuttavia è possibile scorgere la grafia di Machatý. Lasciando da parte la fabula, per considerare soltanto la messinscena, Ballerine offre più di un momento d’interesse. Valga da esempio la scena d’apertura, della quale si apprezza l’inventiva. Partendo dal cielo ed abbassandosi, la macchina da presa, mimando il gesto di Mario, intento a scattare una 136

fotografia, scopre Fannì fra i ruderi del Foro Romano. Ora la ragazza si mette in posa, l’occhio della macchina da presa coincide con Mario, con il quale si sovrappone lo spettatore, che ha l’impressione di scattare la foto di persona. Spesso Machatý si serve di specchi per frammentare la scena, spezzando la prospettiva e moltiplicando il punto di vista. Oppure ricorre a un oggetto in primo piano o ad una figura che entra in campo, per accentuare la profondità, rafforzando l’impressione che la scena sia tridimensionale. L’effetto risalta in alcune inquadrature in cui, nella scuola di danza, Machatý colma lo spazio con i corpi delle danseuses che, seguendo il ritmo della musica, eseguono un identico movimento. In una inquadratura, delle gambe in primo piano compiono un esercizio e incorniciano l’immagine, mentre delle ballerine replicano il movimento al centro della sala e uno specchio sul muro sdoppia la scena. A riguardo Giuseppe Marchiori traccia un confronto con la pittura di Edgar Degas,62 in cui è facile scorgere un riferimento per Ballerine. La ricercatezza che in Ballerine contraddistingue l’immagine deve molto a Václav Vích, il quale firma la fotografia di Ballerine e ha già collaborato con Machatý per Erotikon. Le linee che il cappello scandisce sul viso di Fannì quando si reca con Mario alla Scala, oppure il gioco d’ombre nella camera d’albergo in cui la compagna alloggia con il milionario, che la luce disegna al mattino, testimoniano del talento di Vích, al quale va l’apprezzamento della stampa. “Dove è assolutamente vietato alzar biasimi è sulla fotografia: superba, dall’inizio alla fine”, si legge su L’Ambrosiano; “a Vích rendiamo l’onore delle armi, poiché ha mantenuto le garanzie”.63 E il film segna per Vích l’avvio di una carriera in Italia che prosegue fino al dopoguerra. 137

È agevole riconoscere la grafia di Machatý anche nella scena in cui Mario insegue l’autobus sul quale si trova Fannì. La ragazza dice qualcosa, ma non riescono a sentirsi, così disegna la metà di un cuore sul vetro. Mario raggiunge l’autobus e completa il disegno e la macchina da presa, mentre l’autobus si allontana, lo inquadra dal punto di vista di Fannì; il cuore incornicia esattamente il volto di Mario. Ugualmente la messinscena impreziosisce il dialogo fra il milionario e l’affittacamere, presso cui alloggia l’amica di Fannì. Mentre conversano, la macchina da presa esclude l’uomo dall’inquadratura, ma lo si scorge nello specchio accanto alla porta mentre si veste, e il milionario e l’affittacamere, che si trovano uno di fronte all’altra nella stanza, appaiono a fianco; si produce l’effetto che, pur parlandosi, lo sguardo del milionario e della donna non s’incrociano. Similmente si articola la scena in cui Mario entra nella stanza di Fannì, che si trova a letto. Nuovamente Machatý si serve di uno specchio per congiungere nell’inquadratura il volto di Mario (che si riflette nel vetro) con Fannì. Poi Mario si avvicina e si siede a un capo del letto. Con malizia Machatý conferisce alla scena un tocco d’erotismo. Fannì tradisce con i gesti un desiderio che le parole negano. La macchina da presa la mostra in robe de nuit, che si appoggia al cuscino, mentre porta la mano al seno. “La prego!”, esclama e abbassa gli occhi. “La prego!”, ripete. Lentamente si corica e chiude gli occhi. Mario spegne la luce e lascia la stanza, mentre Fannì si gira con un fare che annuncia un dolce sogno. Sovviene una osservazione di Jacopo Comin, che descrive Ballerine come “un’opera che, presa a brani, sequenza per sequenza, quadro per quadro, ha caratteri e valori interessanti”;64 che fanno di Ballerine, a dispetto di tutto, un film di Machatý. 138

A parte Claudio Basso (a cura di), Gustav Machatý, l’eros ritrovato, Pordenone 1980 e Armin Loacker (a cura di), Extase, Vienna 2002, si segnala un volume a cura di Christian Cargnelli in corso di stampa a Vienna. 2 Corrado Pavolini, “Nota su Machatý”, in Lo Schermo, agosto 1935, pag. 11. 3 Si veda Simonetta Della Croce, “Breve storia della Pisorno”, in Immagine. Note di storia del cinema, n. 11, 1985, pp. 20-24 e n. 3, 1986, pp. 17-22. 4 Aldo Bernardini (a cura di), Cinema italiano 1930-1995. Le imprese di produzione, Roma 2000, pag. 8. 5 Enrico Lancia, Stefano Masi, Stelle d’Italia, Roma 1994, pp. 170-171. 6 Ivi, pag. 170. 7 Ibidem. 8 B.L. Randone, “Come rifarebbero i loro film”, in Film, n. 14, 6 aprile 1940, pag. 6. Nell’intervista G.V. Sampieri ripercorre la genesi e la difficile realizzazione del film. 9 Luigi Freddi, Il cinema, Roma 1949, pag. 381. 10 Si legga Josef Albrecht, Ein Tisch bei Romanoff ’s: Vom expressionistischen Theater zur Westernserie. Erinnerungen, Mönchengladbach 1991, pp. 175-184. Lo sceneggiatore rievoca il soggiorno a Roma e il lavoro per Ballerine. 11 Luigi A. Garrone, “Ricordo di Irina”, in Cinema Illustrazione, n. 2, 8 gennaio 1936, pag. 10. 12 Roberto Chiti, Enrico Lancia, Dizionario del cinema italiano. I film, vol. 1, Dal 1930 al 1944, Roma 1993, pag. 42. 13 Francesco Savio, Cinecittà anni Trenta, Roma 1979, pag. 307. 14 Ra. “Silvana Jachino ha assicurato le proprie gambe per mezzo milione!”, in Cinema Illustrazione, n. 10, 4 marzo 1936, pag. 3. 15 Francesco Savio, op. cit., pag. 307. 16 Ivi, pag. 856. 17 Ivi, pag. 652. 18 Ivi, pag. 856. 1

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Ivi, pag. 652. Claudio Basso, op. cit., pag. 61. Nell’intervista con Andrea Crozzoli il regista ricorda l’esperienza sul set di Ballerine. 21 Francesco Savio, op. cit., pag. 652. 22 B.L. Randone, “Come rifarebbero i loro film”, cit. 23 Francesco Savio, op. cit., pag. 652. 24 Si veda Claudio Basso, op. cit., pag. 62 e Francesco Savio, op. cit., pag. 652. “Io ho sempre lavorato con lui”, ricorda la Jachino, alla domanda se Machatý porti a termine le riprese, e Monicelli conferma che “le riprese le ha terminate lui”. 25 Roberto Chiti, Enrico Lancia, op. cit., pag. 42. 26 Lo riferisce Claudio Basso, op. cit., pag. 13. 27 Francesco Savio, op. cit., pag. 307. 28 Luigi Freddi, op. cit., pag. 382. 29 G. Altichieri, in L’Ambrosiano, 17 agosto 1936; si trova in Claudio Basso, op. cit., pag. 65. 30 Marco Ramperti, “Salvo Mackatý, tutto bene!”, in L’Illustrazione Italiana, n. 34, 23 agosto 1936, pag. 237. 31 Emile Vuillermoz, in Le Temps, 16 ottobre 1936; si trova in Claudio Basso, op. cit., pag. 69. 32 G. Altichieri, in L’Ambrosiano, cit. 33 Sandro De Feo, “Scrooge un bel film inglese e Gigli tenore innamorato” in Il Messaggero, 18 agosto 1936, pag. 3. 34 Guglielmina Setti, “Le nuove produzioni della Mostra Cinematografica di Venezia”, in Il Lavoro, 18 agosto 1936, pag. 3. 35 G. Altichieri, in L’Ambrosiano, cit. 36 Vice, in Cine Magazzino, n. 8, 24 aprile 1937; cit. in Roberto Chiti, Enrico Lancia, op. cit., pag. 42. 37 G. Altichieri, in L’Ambrosiano, cit. 38 Achille Valdata, in La Rivista Cinematografica, agosto 1936; si trova in Claudio Basso, op. cit., pag. 69. 39 G. Altichieri, in L’Ambrosiano, cit. 40 Guglielmina Setti, “Le nuove produzione della mostra Cinematografica”, cit. 41 Ibidem. 42 G. Altichieri, in L’Ambrosiano, cit. 19 20

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Ibidem. Marco Ramperti, “Salvo Mackatý, tutto bene!”, cit. 45 Mario Gromo, “Da Ballerine di Machaty a una fantasia di Wells”, in La Stampa, 17 agosto 1936, pag. 2. 46 Jacopo Comin, “Cinque film: quattro successi”, in Lo Schermo, ottobre 1936, pag. 12. 47 Mario Gromo, “Da Ballerine di Machaty a una fantasia di Wells”, cit. 48 Ibidem. 49 Ibidem. 50 In Cine Magazzino, cit. 51 Guglielmina Setti, “Ballerine al Rex”, in Il Lavoro, 19 giugno 1937, pag. 2. 52 Giuseppe Marchiori, “Degas, regista di Ballerine”, in Lo Schermo, settembre 1936, pag. 36. 53 Filippo Sacchi, “Ballerine”, in Corriere della Sera, 14 febbraio 1937, pag. 5. 54 Guglielmina Setti, “Ballerine al Rex”, cit., pag. 2. 55 Filippo Sacchi, “Ballerine”, cit. 56 Francesco Pitassio, “Il geniale falsario: Machatý”, in Immagine. Note di storia del cinema, n. 31, 1995, pag. 12. 57 Giuseppe Adami, Fannì ballerina della Scala, Milano 1942, pp. 158-159. 58 Filippo Sacchi, “Ballerine”, cit. 59 Marco Ramperti, “Salvo Mackatý, tutto bene!”, cit. 60 Guglielmina Setti, “Le nuove produzioni della Mostra Cinematografica”, cit. 61 Cit. in Claudio Basso, op. cit., pag. 69. 62 Giuseppe Marchiori, “Degas, regista di Ballerine”, cit., pag. 33. 63 G. Altichieri, in L’Ambrosiano, cit. 64 Jacopo Comin, “Cinque film: quattro successi”, cit., pag. 13. 43 44

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BIBLIOGRAFIA

Si raccolgono nella bibliografia soltanto i volumi e gli articoli a cui si è direttamente fatto riferimento nel testo. Per agevolare il riscontro si articola l’elenco in due parti, riportando in una le opere e i contributi di vario carattere, nell’altra gli articoli sulla stampa d’epoca. Non ������������������������������������������������ si includono le opere letterarie né la documentazione d’archivio. Albrecht Josef, Ein Tisch bei Romanoff’s: Vom expressionistischen Theater zur Westernserie. Erinnerungen, Mönchengladbach 1991. Aprà Adriano, Giuseppe Chigi, Patrizia Pistagnesi (a cura di), Cinquant’anni di cinema a Venezia, Venezia 1982. Argentieri Mino, L’asse cinematografico Roma – Berlino, Napoli 1986. Baldi Alfredo, “Casta Diva”, in Fernaldo Di Giammatteo (a cura di), Dizionario Universale del Cinema, vol. 1, I film, Roma 1984, pag. 184. Basso Claudio (a cura di), Gustav Machatý, l’eros ritrovato, Pordenone 1980. Bernardini Aldo (a cura di), Il cinema sonoro 1930-1969, Roma 1992. Bernardini Aldo, “Le collaborazioni internazionali nel cinema europeo”, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. 1, L’Europa. Miti, luoghi, divi, Torino 1999, pp. 1013-1048. 143

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152

INDICE DEI NOMI E DEI FILM

Abenteuer geht weiter Das, 61 Adami Giuseppe, 126-128, 134-136 Addio giovinezza!, 24, 28 Addio Mimì!, 61, 81-83 Albani Marcella, 16-17, 2223, 32 Albers Hans, 78 Albertini Luciano, 17, 22 Aldini Carlo, 17, 26 Alessandrini Goffredo, 4244, 78 Alexander Kurt, 60 Allegro cantante L’ v. Das Abenteuer geht weiter Al sole v. Opernring Alvaro Corrado, 88 Amok, 110 Amore giovane L’ v. Řeka Amo tutte le donne v. Ich liebe alle Frauen Angeli senza paradiso v. Leise flehen meine Lieder Armenise Vittorio, 16 Aspetto una signora v. Ein

Lied für Dich Asquith Anthony, 88 Atlantide v. Die Herrin von Atlantis Ave Maria, 57-58, 60

Bacon Lloyd, 110 Baldi Alfredo, 49 Ballerine, 114-115, 123-138 Beery Wallace, 114 Bellini Vincenzo, 39, 52, 5456, 68, 73-75, 88, 90-95 Benson Richard, 88 Benz Hamilton, 82 Bergner Elisabeth, 44 Bernini Lorenzo, 108 Bertini Francesca, 16 Besozzi Angelo, 42-43, 46 Bezaubernde Augen v. Casta Diva Biancini Ferruccio, 15, 45-46 Bilancia Oreste, 32 Billinger Richard, 60 Bisschen Liebe für Dich Ein, 42 153

Blasco Ricardo, 54 Blasetti Alessandro, 40, 42, 44, 128 Blaue vom Himmel Das, 73 Blumenmädchen vom Grand Hotel Das, 46 Boardman Eleanor, 103 Boese Carl, 44, 46 Bohème, 17 Boheme La v. Bohème Boito Arrigo, 81 Bolvary Géza von, 27, 58, 65, 80-81, 88 Bomba Leo, 128 Bonaparte Napoleone, 46 Boni Carmen, 27-29, 32 Bonnard Mario, 16, 22-23, 31-32, 41 Borelli Lyda, 21 Bosse Peter, 59 Bouře nad Tatrami, 101, 114 Bragaglia Carlo Ludovico, 44, 126 Bratt Harald, 60 Brignone Guido, 15, 56, 58, 60, 114 Brunetta Gian Piero, 27, 44 Büchse der Pandora Die, 16

Carnevale d’amore v. Liebeskarneval Casa lontana, 58-60 Casanova Giacomo, 29 Casta Diva, 39, 48-58, 60, 68, 73-78, 80, 87-97 Catalani Alfredo, 56 Cattivo soggetto Un, 126 Cavalcata ardente La, 25 Cavaliere del sogno Il, 81 Centa Antonio, 128-130 Cercasi modella, 45 Chaplin Charlie, 44 Chenal Pierre, 51 Chiti Roberto, 128 Città canora La v. Die singende Stadt City Lights, 44 City of Song, 52 Comin Jacopo, 138 Correggio (Antonio Allegri, detto il), 108 Corsi Mario, 27 Crowd The, 44 Csibi, der Fratz, 44 Cukor George, 114 Cuor di vagabondo, 124 Czinner Paul, 44

Camerini Mario, 26 Campo di maggio, 127 Cantante dell’opera La, 40 Canzone dell’amore La, 40-41, 59 Canzone del sole La, 46 Capitani Liborio, 46

D’Annunzio Gabriellino, 18 David Constantin J., 40 Davis Marion, 103 Debito d’odio, 24 De Feo Luciano, 100, 104, 113 De Feo Sandro, 112 Degas Edgar, 137

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Dernière berceuse La, 40 De Sica Vittorio, 42, 126 Devil to Pay The, 126 Diario di una donna amata, 78 Dieterle Wilhelm, 22 Dir gehört mein Herz, 58 Divine Spark The, 51, 87-97 Doletti Mino, 76 Dolfuss Engelbert, 78, 104 Donizetti Gaetano, 81 Donna fra due mondi Una, 78 Dood water, 114 Dottor Jekyll Il v. Dr Jekyll and Mr Hyde 3-Groschen-Oper Die, 27 Dr Jekyll and Mr Hyde, 100 Due barbieri I, 60 Due cuori a tempo di valzer v. Zwei Herzen im 3/4 Takt Due cuori felici, 41-42, 44-45 Dürfen wir schweigen?, 21 Eggerth Marta, 39, 53, 65-68, 70-71, 73-77, 79-83, 88, 92 E lucean le stelle v. Mein Herz ruft nach Dir Emo E.W., 42, 45 Englisch Lucie, 59 Enrico IV v. Die Flucht in die Nacht Epstein Jean, 51, 124 Erotikon, 99, 105, 134, 137 Es war einmal ein Walzer, 73 Extase, 99, 101-116, 123, 126127, 130-132, 134, 136

Fascino di Boheme v. Zauber der Boheme Fatigati Giuseppe, 58 Felicita Colombo, 126 Ferrari Angelo, 32 Fiordalisi d’oro, 128 Flaherty Robert, 114 Flucht in die Nacht Die, 18-22, 26, 32 Flüchtlinge, 102 Focolare spento Il, 25 Folla La v. The Crowd Forget Me Not, 58 Forst Willi, 48, 50, 53-55, 6667, 74, 88 Forzano Giovacchino, 87, 123-124, 127-128 Francis Kay, 104 Fräulein, falsch verbunden, 42 Freddi Luigi, 49-50, 52, 127 Fried Olivia, 127 Froelich Carl, 102 Fröhlich Gustav, 40 Frutto acerbo, 44 Fuggiaschi v. Flüchtlinge Gaal Franziska, 44 Gallone Carmine, 15, 18, 25, 39, 52-56, 58, 61, 65-66, 68-72, 77, 79, 81, 83, 8788, 90 Gallone Soava, 21 Gance Abel, 51, 124 Garbo Greta, 100 Gefangene von Shanghai Die, 27 155

Genina Augusto, 16-17, 2433, 58 George Heinrich, 23 Gerron Kurt, 51 Giacalone Alberto, 46, 57-59 Gigli Beniamino, 60, 69 Giorgione (Giorgio da Castelfranco, detto il), 108 Giovannetti Eugenio, 105, 108-109 Giovinezza v. Reifende Jugend Giuseppe Verdi, 58-59 Give Us This Night, 77 Gobbi Tito, 81 Goetzke Bernhard, 18 Gounod Charles, 81 Grazia La, 26 Gromo Mario, 48, 53, 104105, 112, 132-133 Grune Karl, 27 Gys Leda, 21 Haas Dolly, 45 Hainisch Leopold, 58 Harbou Thea von, 60 Heilberg Kirsten, 59 Heimkehr ins Glück, 44 Hellberg Ruth, 59 Helm Brigitte, 68 Hepburn Katherine, 114 Herrin von Atlantis Die, 27 Hildebrand Hilde, 59 Hitler Adolf, 50 Hochbaum Werner, 79 Hofmann Bernd, 60 Holmes Phillips, 88 156

Hörbiger Paul, 72 Horn Camilla, 60 Ich liebe alle Frauen, 77 Immer wenn ich glücklich bin, 80 Imperatore della California L’ v. Der Kaiser von Kalifornien Impiegata di papà L’, 44 Im Sonnenschein v. Opernring Invisible Man The, 102 Irving Stanley, 58 Jachino Silvana, 128-129, 132 Jacobini Maria, 16-17 Jacoby Georg, 18 Jannings Emil, 18 Joseph Albrecht, 128 Joseph Rudolf, 128 Kaiser von Kalifornien Der, 124 Kaiserwalzer, 73 Kameradschaft, 27 Karenne Diana, 16 Karneval in Rom, 80 Karol Jakob, 22 Kennst du das Land, 40 Kemp Paul, 59 Kiepura Jan, 53, 65-66, 68-72, 77-83 Kiesler Hedwig, 103-104, 112, 116 Kiki, 87 Kimmich Max W., 60 Klaren Georg C., 60

Kleine Mädeln, grosses Glück, 45 Koch Karl, 81 Korda Maria, 18 Korda Zoltan, 58 Kosterlitz Hermann, 78 Kraus Eduard Albert, 78 Labroca Mario, 107 Lache, Bajazzo, 58 Ladro di donne, 124 Lamarr Hedy v. Hedwig Kiesler Lancia Enrico, 126, 128 Land ohne Frauen Das, 15, 53 Land Robert, 27, 44 Lang Fritz, 16, 22, 27 Lawrence D.H., 107 Leggenda di Faust La, 81 Leight Rowland, 82 Leise flehen meine Lieder, 48, 50, 53-56, 66-67, 71, 74, 88 Leonardo da Vinci, 67 Leoncavallo Ruggero, 59 Letzte Souper Das, 22-23 Liebeskarneval, 24, 28-32 Liebeslied, 40 Lied der Sonne Das, 46 Lied einer Nacht Das, 69 Lied für Dich Ein, 69 Liedtke Harry, 21 Lingen Theo, 59, 72 Lisetta, 46 Little Women, 114 Litvak Anatole, 69 Loth in Sodom, 110

Lubitsch Ernst, 47 Lucacevich Irina, 126-128, 134 Luci della città v. City Lights M, 16 M. Il mostro di Düsseldorf v. M Machatý Gustav, 51, 99, 101, 104-109, 114, 123-125, 127-132, 134-138 Mädchen der Strasse Das, 24, 28-29, 31-33 Magnaghi Ubaldo, 104 Malasomma Nunzio, 15, 40 Mamma, 58 Mamoulian Rouben, 66, 100 Mandl Friedrich, 104 Man of Aran The, 114 Maraini Antonio, 100 Marchiori Giuseppe, 137 Margadonna Ettore M., 112, 114 Maria Malibran, 60 Marion, das gehört sich nicht, 45 Marionette, 58-61 Marischka Ernst, 61, 72, 82 Martinelli Vittorio, 28 Masi Stefano, 126 Matarazzo Raffaello, 87 Mattoli Mario, 126 May Joe, 22, 70 Mein Herz ruft nach Dir, 53, 61, 65, 70-73, 79, 87 Mein Leben für das Deine, 16 Melodie eterne, 61 157

Melodie impieriali v. Kaiserwalzer Melodramma, 44 Menas Lotte, 44 Meneghini Mario, 110 Merlini Elsa, 42, 44-45 Meyer Johannes, 58 Miller Henry, 107 Moglie bella La, 28 Moglie di Sua Eccellenza La, 24 Molossi Lello, 102 Mon coeur t’appelle, 70 Monicelli Mario, 129 Morandi Alberto, 67 Moser Hans, 59 Mozart Wolfgang Amadeus, 61 Müller L.A.C., 60 Müller Renate, 40, 42 Murger Henri, 17, 82 Mussolini Benito, 104, 112113, 124, 130 Mussolini Vittorio, 52, 80 Mutter, 58 Mutterlied, 58 Mutter verzeih mir! v. Il focolare spento My Heart Is Calling, 70, 87 Napoli che canta, 40 Nebenzahl Heinrich, 16, 21 Nebenzahl Seymour, 16 Nell’azzurro del cielo v. Das Blaue vom Himmel Neufeld Max, 42, 44, 46, 79 Niccodemi Dario, 28 158

Nocturno, 101, 126-127, 132, 134, 136 Non c’è bisogno di denaro, 44 Nonna Felicita, 126 Non ti scordar di me, 57-58 Notte con te Una, 45, 47 Nucci Laura, 129 Odette v. Mein Leben für das Deine Opera da tre soldi L’ v. Die 3Groschen-Oper Opernring, 77-79 Ophüls Max, 51, 60, 113 Oppicelli Ernesto G., 47 O sole mio, 81 Oswald Richard, 21, 27 Ozep Fëdor, 110 Pabst Georg Wilhelm, 16, 22, 27 Paganini Niccolò, 91-93 Pagano Bartolomeo, 17, 22 Pagliacci I, 59-60 Palermi Amleto, 16, 18-21, 26, 31-33, 44 Palmieri Sandro, 88, 92 Paprika, 46, 48 Parish Guido, 15, 17, 26 Pasinetti Francesco, 99, 105, 136 Paulon Flavia, 104, 112 Pavanelli Livio, 32 Pavolini Corrado, 107, 109, 124-125 Pergolesi, 56 Pergolesi Giovan Battista, 56

Pescatore Guglielmo, 93 Piccole donne v. Little Women Pickford Mary, 29 Piel Harry, 26-27 Pirandello Luigi, 18, 21, 41 Pitassio Francesco, 135 Pittaluga Stefano, 40 Planer Franz, 39, 53 Plicka Karel, 101 Pranke Die, 40 Premiere der Butterfly, 61 Pressburger Arnold, 50-53, 69-70, 78, 87, 90 Pressburger Fritz, 90 Prigioniera di Shanghai La v. Die Gefangene von Shanghai Privatsekretärin Die, 42-43 Provincialina La, 46 Puberteit, 110 Puccini Giacomo, 126-127 Quartier Latin, 26, 28 Quattrocchi Raoul, 15, 30 Quattro cuori e una ragazza v. Es war einmal ein Walzer Queen Christina, 100 Questa notte o mai più v. Das Lied einer Nacht Quo vadis?, 18 Rabenalt Arthur Maria, 78 Rabinovič Grigorij, 50-53, 70, 78, 81, 87 Ragazza dal livido azzurro La, 45, 48

Ramperti Marco, 76, 111, 130, 136 Ray Maria, 127, 132 Regina Cristina La v. Queen Christina Reifende Jugend, 102 Reisch Walter, 39, 53, 55, 79, 89 Renoir Jean, 81 Řeka, 101, 114 Riel Raimondo van, 32 Righelli Gennaro, 15, 17, 26, 40 Ritorno, 58, 60 Roma Enrico, 47, 67 Rotaie, 26 Rovenský Josef, 101 Rust Carla, 59 Rutten Gerard, 114 Sacchi Filippo, 42, 76, 79, 103-104, 109, 133-135 Sampieri Giuseppe Vittorio, 127, 130 Sangue d’artista v. Immer wenn ich glücklich bin Scampolo v. Das Mädchen der Strasse Schiava bianca La v. Die weisse Sklavin Schlichting Werner, 39, 53 Schmidt-Gentner Willy, 39, 53 Schmidt Joseph, 69 Schneider Magda, 45 Schubert Franz, 54-56, 66 Scimitarra La, 27 Sciuscià, 81 159

Seduzione v. Erotikon Segretaria privata La, 41-45 Seitz Franz, 27 Serva padrona La, 56 Setti Guglielmina, 134 Signora dalle camelie La, 81 Signora di tutti La, 113 Simonelli Giorgio C., 44 Singende Stadt Die, 52, 65, 68-69 Slezak Walter, 24 Sogno di Butterfly Il, 61 Soldati Mario, 80 Solo per te, 58-60 Song of Love The, 77 Sordelli Vincenzo, 130 Sprung ins Glück Der, 24-26, 28-30, 33 Stanwyck Barbara, 104 Starhenberg Ferdinand von, 104 Steinhoff Hans, 40 Stinnes Hugo, 25 Storia di una piccola parigina La v. Der Sprung ins Glück Strauss Johann, 80 Szekely Hans, 68 Szekely Wilhelm, 50-51, 78, 81-82 Tagebuch der Geliebten Das, 78 Telefonista La, 41-42, 44-45 Teresa Confalonieri, 114 Terra madre, 40 Terra senza donne v. Das Land ohne Frauen 160

Testament des Dr. Mabuse Das, 16, 27 Testamento del dottor Mabuse Il v. Das Testament des Dr. Mabuse Thiele Wilhelm, 42-43 Thimig Hermann, 42 Toeplitz Giuseppe, 40 Toeplitz Ludovico, 40 Tofano Sergio, 43 Tosca, 80-81 Toschi Gastone, 102 Tragedia della miniera La v. Kameradschaft Tragedia dell’Opera La v. Das letzte Souper Tragödie einer Liebe, 58 Trauber Richard, 69 Träumende Mund Der, 44 Traummusik, 58 Tredici uomini e un cannone, 87 Trenker Luis, 124 Trnka Tomáš, 101 Tropea Fernando, 90 Two Hearts in a Waltz Time, 88 Ucicky Gustav, 102 Ultimi giorni di Pompei Gli, 18 Ultimo Lord L’, 28-29 Und wer küsst mich?, 45 Unfinished Symphony The, 88 Unschuld vom Lande Die, 46 Uomo dall’artiglio L’, 40 Uomo delle scommesse L’ v. The Devil to Pay

Uomo di Aran L’ v. The Man of Aran Uomo invisibile L’ v. The Invisible Man Uomo più allegro di Vienna L’, 18

Viva Villa!, 114 Volkov Aleksandr, 23 Volpi di Misurata Giuseppe, 100 Vuillermoz Emile, 131

Varconi Victor v. Mihály Várkonyi Várkonyi Mihály, 18 Vaso di Pandora Il v. Die Büchse der Pandora Veidt Conrad, 19-21 Vengerov Vladimir, 25 Ventimiglia Gaetano, 16 Vergiss mein nicht!, 58, 60-61 Vertigine, 58, 60 Vích Václav, 137 Vidor King, 44 Visconti Luchino, 57 Vitrotti Giuseppe, 16

Wally La, 56 Weisse Frau des Maharadscha Die, 78 Weisse Sklavin Die, 25 Welt will belogen sein Die, 21 Whale James, 102 Wilk Herbert, 60 Williams Emlyn, 88 Wir brauchen kein Geld, 44 Wonder Bar, 110 Zauber der Boheme, 82 Zem spieva, 101, 114 Zwei Herzen im 3/4 Takt, 88

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Finito di stampare nel mese di giugno 2004 dalle Industrie Grafiche Failli Fausto snc Guidonia-Montecelio (Roma)