Buroriforma: Per una sociologia delle trasformazioni nel lavoro pubblico 9788868437909, 8868437902

Da sempre percepita come un’entità statica e poco reattiva, la pubblica amministrazione sta vivendo oggi un momento di c

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Italian Pages [144] Year 2018

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Indice
Buroriforma
Introduzione. Obiettivi e limiti della pubblica amministrazione e una nuova fase del pubblico impiego
I. Trasformazioni organizzative del modello burocratico
1. Evoluzione del fenomeno burocratico tra il XIX e il XX secolo
2. Le istituzioni per Weber e le conseguenze inattese della burocrazia per Merton
3. Lo studio di Crozier sulle burocrazie statali
4. La leadership e la gestione delle conseguenze inattese per Selznick
5. Simon: razionalità limitata e processi decisionali
6. Weick e il legame debole applicato agli apparati burocratici
7. I modelli di management come risposta alla crisi della macchina amministrativa
II. La produttività della pubblica amministrazione tra efficienza ed economicità
1. Produzione di beni pubblici e produttività nel settore pubblico
2. Le tecniche di misurazione e di controllo dei servizi pubblici
3. Nuove condizioni organizzative per l’offerta di servizi pubblici
III. Le prospettive di riforma del lavoro pubblico tra innovazioni tentate ed esiti oscillanti
1. La modernizzazione del lavoro pubblico dopo il 1993 e i dilemmi della fase attuale
2. A cavallo tra due riforme: dalla «Brunetta» alla «Madia»
Bibliografia
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Buroriforma: Per una sociologia delle trasformazioni nel lavoro pubblico
 9788868437909, 8868437902

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Da sempre percepita come un’entità statica e poco reattiva, la pubblica amministrazione sta vivendo oggi un momento di cambiamento e modernizzazione, legato soprattutto all’inserimento nella gestione pubblica di principî di intervento mutuati dalle imprese private e diretti ad assicurare efficienza ed efficacia ai servizi operativi. La crisi però permane, soprattutto a causa dei profondi limiti del complesso sistema organizzativo rappresentato dalle strutture pubbliche. C’è un assoluto bisogno di un’amministrazione pubblica migliore, a cui la riforma Madia ha cercato di dare una risposta, proseguendo il processo di deregolamentazione già in atto con l’obiettivo di eliminare tutti quei vincoli che sono di ostacolo all’innovazione e alla crescita della produttività dei servizi pubblici. Il nodo che permane nel processo di riforma della pubblica amministrazione è il coinvolgimento degli attori interessati: una riforma così importante non deve appartenere solo al governo che l’ha varata, ma essere condivisa e partecipata da chi lavora nel comparto pubblico e dai cittadini. Dunque non si tratta solo di «tagliare», di ottenere un efficientamento economico, ma di far sì che la pubblica amministrazione produca risultati, sul versante dei servizi tradizionali e di quelli che possono garantire il miglioramento delle attività economiche per il rilancio del paese.

Adolfo Braga insegna Innovazioni organizzative e regolazione del lavoro nella pubblica amministrazione presso l’Università di Teramo. Tra le sue pubblicazioni: Delegati a Milano (con M. Carrieri, 2001), Sindacato e delegati alla prova del lavoro che cambia (con M. Carrieri, 2007), editi da Donzelli; Un percorso di approfondimento per i sindacalisti del pubblico impiego. La nuova riforma della pubblica amministrazione e centralità del lavoro pubblico e privato (Ediesse, 2014).

Saggi. Storia e scienze sociali

Adolfo Braga

BURORIFORMA Per una sociologia delle trasformazioni nel lavoro pubblico

La presente pubblicazione è stata realizzata con il contributo della Fondazione Di Vittorio, già Istituto Superiore per la Formazione, Roma.

© 2017 Donzelli editore, Roma via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected] ISBN 978-88-6843-790-9

Indice

Introduzione. Obiettivi e limiti della pubblica amministrazione e una nuova fase del pubblico impiego    I. Trasformazioni organizzative del modello burocratico 1. Evoluzione del fenomeno burocratico tra il XIX e il XX secolo 2. Le istituzioni per Weber e le conseguenze inattese della burocrazia per Merton 3. Lo studio di Crozier sulle burocrazie statali 4. La leadership e la gestione delle conseguenze inattese per Selznick 5. Simon: razionalità limitata e processi decisionali 6. Weick e il legame debole applicato agli apparati burocratici 7. I modelli di management come risposta alla crisi della macchina amministrativa   II. La produttività della pubblica amministrazione tra efficienza ed economicità 1. Produzione di beni pubblici e produttività nel settore pubblico 2. Le tecniche di misurazione e di controllo dei servizi pubblici 3. Nuove condizioni organizzative per l’offerta di servizi pubblici  III. Le prospettive di riforma del lavoro pubblico tra innovazioni tentate ed esiti oscillanti 1. La modernizzazione del lavoro pubblico dopo il 1993 e i dilemmi della fase attuale 2. A cavallo tra due riforme: dalla «Brunetta» alla «Madia» Bibliografia

Buroriforma

Nel periodo 2006-2015 l’Istituto Superiore per la Formazione (successivamente l’Associazione Bruno Trentin e successivamente ancora la Fondazione Giuseppe Di Vittorio) ha condotto attività di ricerca e formazione sui temi dei cambiamenti della pubblica amministrazione e della riforma del lavoro pubblico. In particolare ha realizzato due percorsi di alta formazione per dirigenti sindacali della funzione pubblica Lombardia e Puglia che avevano come focus centrale la lunga stagione di riforme della pubblica amministrazione fino al d.lgs. 150/2009 e ai provvedimenti adottati dai governi Monti e Letta (spending review, Salva Italia ecc.). La pubblicazione darà ulteriormente conto di quanto avvenuto successivamente al 2015, ovvero delle riforme avviate dal governo Renzi e in particolare della riforma Madia.

Introduzione Obiettivi e limiti della pubblica amministrazione e una nuova fase del pubblico impiego

Quando è stata pensata la pubblicazione di questo libro le riflessioni avevano come focus centrale la lunga stagione di riforme della pubblica amministrazione fino al decreto legislativo n. 150 del 2009 di Brunetta e, successivamente, quanto adottato dai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. In particolare, con la riforma cosiddetta «Brunetta» vi è stato un ritorno alla prevalenza della legge sulla contrattualizzazione a discapito del sistema delle relazioni sindacali, individuato come il problema principe per il buon funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Dunque, annullando quella che era stata definita la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici1. Sarà compito di questo volume dare conto dei riflessi e degli sviluppi concreti che l’ultima proposta riformatrice avrà, partendo dalla disamina delle innovazioni proposte già a partire dal decreto-legge n. 90 del 2014, convertito con legge n. 114 dell’11 agosto 2014 e dai decreti legislativi 25 maggio 2017, n. 74 recante «Modifiche al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, in attuazione dell’articolo 17, comma 1, lettera r), della legge 7 agosto 2015, n. 124» e 25 maggio 2017, n. 75 recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche». Come è nella prassi, il Consiglio dei ministri approva in genere solo i principî di una riforma, mentre i testi vengono redatti successivamente da uffici legislativi e gabinetti. Le proposte del 2014 avevano il «difetto» di essere state presentate a distanza di pochi giorni e suscitarono perplessità sul tipo di approccio. Tali perplessità, in verità, fondavano sul presupposto che le proposte di ricorrere alla decretazione d’urgenza, senza considerare

le regole vere che servono per attuare le riforme, erano prive di scadenze ben definite e di un conseguente impianto legislativo rigoroso. Il nodo ancora attuale che si presenta è proprio quello della realizzazione effettiva della riforma della pubblica amministrazione. Una riforma così importante non può e non deve appartenere solo al governo che la propone ma deve coinvolgere tutte le parti interessate (Donolo 2006). Il presente lavoro fa un’attenta analisi del rapporto tra attori, istituzione e organizzazione, mettendo in evidenza il passaggio da un approccio razionale, basato su una concezione strumentale delle organizzazioni e della pubblica amministrazione, a un rapporto che sottolinei la dimensione istituzionale delle organizzazioni a partire da una concezione processuale dell’organizzazione stessa (Zan 1988) o dell’organizzare (Weick 1993). Una pubblica amministrazione, dunque, che si interessi dei cittadini, dei loro diritti, delle loro aspirazioni a migliorare condizioni di vita e di lavoro e che, sulla base di ciò, sia in grado di costruire un processo di riforma organico, condiviso, sicuramente con possibilità di riuscita maggiori delle tante esperienze tentate. Perché questo avvenga è necessario ribaltare la logica di impostazione delle riforme a oggi susseguitesi: andare nella direzione dei cittadini e non dei bisogni di primazia della politica sulla cosa pubblica; andare verso i servizi e la loro funzionalità e non per costringerli ad altra gratuita burocrazia; agevolare un sistema certo di responsabilità e di verifica del lavoro pubblico. La riforma, che deve essere misurata nel tempo, da una prima analisi presenta alcune proposte di innovazione che sembrano rappresentare più uno Stato «da tagliare» e meno uno Stato più attivo nella soluzione dei problemi. In definitiva, tutta una serie di semplificazioni burocratiche potrà avere certezza di attuazione solo se si avrà una pubblica amministrazione non «tagliata» ma capace di produrre risultati, sul versante dei servizi tradizionali e di quelli che possono garantire il miglioramento delle attività economiche per il rilancio del paese. Per tali ragioni l’oggetto di questo lavoro riguarda gli aspetti di funzionamento delle pubbliche amministrazioni e la ricostruzione degli istituti normativi e contrattuali che hanno regolato e regolano il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, con l’intento di dimostrare che si potrà ottenere un processo di modernizzazione delle organizzazioni pubbliche solo se i servizi operativi adotteranno principî di efficienza ed efficacia organizzative e la gestione del personale sarà ispirata alla crescita della

produttività e alla valorizzazione delle buone performance dei dipendenti pubblici. Ci si riferisce ai livelli di prestazione e di soddisfazione basati su sistemi di misurazione e di valutazione della performance che devono prevedere un ruolo attivo dei cittadini ai fini della valutazione della performance organizzativa, attraverso strumenti di rilevamento della soddisfazione degli utenti in merito alla qualità dei servizi. L’esigenza parte dalla constatazione che, nonostante l’approvazione della legge di riforma cui sono seguiti i decreti di attuazione, e la volontà di riaprire un confronto tra le parti per il rinnovo del contratto di lavoro nel pubblico impiego2, non si valorizzano effettivamente le strutture pubbliche e, conseguentemente, non si realizza l’auspicata efficacia organizzativa. Gli attuali progetti dei decreti legislativi (alcuni già emanati) tentano di affrontare aspetti diversi per il buon andamento delle pubbliche amministrazioni con l’intento di rispondere alle richieste della collettività per avere servizi pubblici di maggiore qualità e a costi inferiori. L’auspicio è quello di ipotizzare una pubblica amministrazione che non deve più limitarsi ad essere attore ininfluente ma, al contrario, un attore strategico per lo sviluppo del paese perché in grado di revisionare i propri meccanismi interni e di relazioni di lavoro. Purtroppo i reiterati insuccessi organizzativi succedutisi con i tentativi delle precedenti riforme hanno determinato dinamiche che non hanno valorizzato il lavoro pubblico e lo hanno esposto a severi giudizi che si sono trasformati facilmente anche in pregiudizi. Ne è derivato un cortocircuito che ha generato insoddisfazione tra gli operatori pubblici che vedono non riconosciuta la loro professionalità. Quanto le soluzioni contrattuali pregresse, e quelle in atto, sono conformate in modo da rispondere e adattarsi alle esigenze dei diversi contesti organizzativi caratteristici dei vari settori di attività delle amministrazioni? Sicuramente i tentativi messi in atto per una modernizzazione del lavoro pubblico non sempre hanno consentito l’ottenimento di un cambiamento, né hanno agevolato il processo di recupero di efficacia organizzativa ma, al contrario, si sono spesso tradotti in ulteriori ostacoli al rinnovamento. Il processo che serve alla pubblica amministrazione per rispondere alle nuove e incessanti domande che provengono dall’esterno non può essere basato sui modificati strumenti di regolazione del rapporto di pubblico

impiego, seppure estremamente necessari, ma sulla concomitanza di più aspetti che possono incidere sul processo di recupero di efficacia. In quest’ottica, avanzare delle proposte sul terreno del miglioramento organizzativo delle tante strutture pubbliche e, più in generale, nel complessivo sistema della pubblica amministrazione può aiutare a comprendere il paradosso esistente tra quelle spinte che richiedono un recupero di efficienza, efficacia ed economicità coincidente con le domande e i bisogni sociali e con le mutate tendenze culturali, e la capacità concreta di garantire livelli di efficacia organizzativa per il tramite di un management pubblico effettivamente competente e preparato. Si intende dunque spiegare che è possibile realizzare, con criteri economicamente sostenibili e validi sul piano organizzativo, i compiti a cui le strutture pubbliche sono chiamate non solo rispondendo ai legittimi stimoli che provengono dall’ambiente esterno, ma anche migliorando l’azione amministrativa con forme di governo e gestione che utilizzino bene tutte le strutture pubbliche. Sul piano concettuale, si propone un’analisi sulla qualità effettiva del management pubblico, sulla sua filosofia e sulle sue realizzazioni sulla contrattazione. In questa impostazione non si esclude la contrattazione collettiva e la regolazione dei rapporti di lavoro, che comprendono il decentramento e l’autonomia contrattuale e che costituiscono l’aspetto più importante della filosofia del New Public Management (Npm). Relativamente alla contrattazione, questa filosofia privilegia un’ottica tesa a ridurre, se non ad annullare, il peso del contratto nazionale, consentendo così maggiore flessibilità e differenziazione delle retribuzioni e del sistema di relazioni industriali (Della Rocca 2003). La necessità di fare riferimento al New Public Management si considererà per verificare la centralità di questa funzione, potendone limitare gli esiti sotto il profilo delle condizioni di efficacia organizzativa. Sul versante della gestione del lavoro pubblico in base alle prestazioni, si vuole dimostrare che dopo oltre due decenni di riforme la questione è ancora aperta. La misurazione dei risultati, utilizzata per la valutazione delle performance sia delle amministrazioni che di quelle individuali dei pubblici dipendenti, solleva ancora oggi perplessità sull’affidabilità e sull’utilizzo dei dati e sui sistemi di valutazione (De Bruijn 2002). La gestione e il controllo economico e qualitativo della prestazione pubblica rimandano a quegli studi che tenevano conto delle profonde trasformazioni che, sulla spinta delle esigenze di sviluppo delle moderne società

industrializzate e globalizzate, da tempo caratterizzano il ruolo del settore pubblico. Anche l’Italia è attraversata da molti anni da un accelerato mutamento sia della collocazione della pubblica amministrazione all’interno del sistema economico, sia delle funzioni che essa è chiamata a svolgere. I compiti più rilevanti delle strutture pubbliche riguardano la produzione di servizi, la gestione delle attività finanziarie dello Stato, i trasferimenti agli altri settori produttivi e ai centri di consumo, mentre diminuisce l’importanza relativa dell’amministrazione di tipo tradizionale chiamata, nel Rapporto Giannini3, «amministrazione d’ordine» (Giustizia, Difesa, Ordine pubblico). A fronte di queste importanti modificazioni avvenute negli ultimi quarant’anni in Italia non si sono registrate analoghe trasformazioni dell’organizzazione operativa e delle tecniche amministrative dell’apparato pubblico. Per tali ragioni è fondamentale dedicare uno studio scientificamente rigoroso al modo di operare e produrre propri della pubblica amministrazione affinché si possa intervenire per renderlo maggiormente idoneo a soddisfare le crescenti e diversificate funzioni ad esso affidate. Dunque, non è più procrastinabile un’approfondita conoscenza dei reali meccanismi attraverso cui si svolgono le attività produttive, badando non solo alle esigenze istituzionali connesse ai profili giuridico-formali, ma anche agli aspetti dell’efficienza produttiva, dell’efficacia e dell’economicità (Pennella 1987). Questo lavoro vuole anche essere l’occasione per proporre una riflessione sulla produttività dell’economia italiana che vide nascere i primi passi alla fine degli anni cinquanta, quando venne istituito il Comitato nazionale per la produttività, successivamente trasformato in Istituto nazionale per l’incremento della produttività. Organismo sorto per promuovere ricerche sulla produttività e dare indicazioni agli operatori economici; dopo una breve stagione non ebbe molta fortuna. La qualità del management pubblico e della sua azione deve essere annoverata come un sistema di azione complesso, costituito da forme e modalità di relazione che coinvolgono una pluralità di soggetti tipici di questo particolare setting: soggetti istituzionali, sindacati, dipendenti e cittadini-utenti. Questa qualità si rende possibile se si realizza un gioco collettivo di diversi attori che sono protagonisti delle varie forme di incertezza presenti nel sistema e frutto di un processo di apprendimento organizzativo4 che coinvolge tutti coloro che operano e interagiscono con la pubblica amministrazione (Gagliardi 1986).

Il nesso tra il processo di recupero dell’efficacia organizzativa e qualità del management pubblico comporta l’analisi di una serie di fattori influenzanti, appunto, il recupero di efficacia organizzativa nella pubblica amministrazione. Questi fattori considerano, prioritariamente, le varie forme di riassetto istituzionale e macro-organizzativo, che riguardano la ridefinizione di alcune funzioni istituzionali, le modalità di relazione interistituzionale, le modifiche sull’assetto degli organi deliberativi, le riprogettazioni dello schema organizzativo generale (macro-struttura) e le procedure di funzionamento. Un’altra tipologia di fattori influenzanti è quella che considera le possibili innovazioni che introducono meccanismi di mercato simulato, vale a dire per quelle situazioni che determinano un cambio di passo da generiche spinte e generici stimoli causati dal contesto ambientale a elementi che influenzano direttamente il quadro delle convenienze dei soggetti interni agli enti. Si tratta di quei meccanismi che potenziano l’influenza degli utenti sul processo decisionale. Un’ultima tipologia di fattori influenzanti è quella che valorizza e sostiene la cultura organizzativa5, la sola idonea a diffondere la conoscenza e l’applicazione del management attraverso concreti sistemi gestionali (Romei 1988). Questo lavoro propone nelle sue conclusioni una serie di criteri e orientamenti partendo dal presupposto che esistono sostanziali diversità tra le tante strutture del pubblico impiego e che conseguentemente sono necessarie linee di azione puntuali e precise da adottare in ogni singola struttura pubblica facendo riferimento al contributo della letteratura organizzativa oltre che alle buone pratiche consolidatesi nel corso degli anni (Lanzara 1993). Si conferma la priorità per qualsiasi presupposto di processo riformatore di considerare le condizioni attuali e le prospettive del pubblico impiego, non trascurando la permanenza di una complessa stratificazione ancora oggi presente di regole e vincoli, che spesso si traducono in prassi, comportamenti e orientamenti culturali consolidati. Sono necessarie nuove strade per andare oltre un sistema ancora troppo rigido e spesso «bloccato», refrattario ad accogliere un insieme di nuove regole capaci di rivitalizzare la pubblica amministrazione. Questo obiettivo si può raggiungere a condizione che si creino i presupposti per valorizzare il lavoro collocandolo nella giusta direzione,

che non deve omettere la funzione pubblica cui è destinato senza però trascurare la valorizzazione delle risorse umane, le sole atte a migliorare i servizi offerti ai cittadini-utenti. Un obiettivo, dunque, che richiede un profondo processo di cambiamento che includa anche sistemi socio-tecnici di grande dimensione, articolazione e complessità; ne consegue che non è possibile realizzare concretamente tali processi né attraverso «decreti imposti formalmente», né illudendosi di applicare progetti ben coerentemente confezionati e organici. È necessario creare i presupposti per alcune condizioni di partenza in grado di innescare successivamente molteplici e coordinati interventi considerando le peculiarità di ogni singola struttura pubblica. Condizioni di partenza che siano capaci di non ritardare più la necessità di aprire spazi selettivi e controllati di flessibilità e di introdurre, anche contrattualmente, requisiti di praticabilità per quelle innovazioni rilevanti e non più procrastinabili; sono oramai ben note quelle realtà organizzative dove maggiormente permangono rigidità e appiattimento e che richiedono soluzioni in controtendenza. I vari tentativi succedutisi negli anni passati ci dicono che se non si opera in modo selettivo e con un rigoroso monitoraggio teso a rompere vincoli e schemi rigidi si rischia la reiterazione di comportamenti opportunistici e conseguenti effetti non desiderati, se non addirittura perversi che finiscono per aggravare i problemi già noti. Occorre continuare sulla strada lenta ma inevitabile, avviata negli anni ottanta, di consolidazione degli spazi di flessibilità e di praticabilità di innovazioni realizzabili attraverso il miglioramento di una serie di istituti normativi e contrattuali del pubblico che questa tornata contrattuale deve assolutamente portare a compimento. Servono concrete e complessive politiche del personale improntate a una reale innovazione, politiche effettivamente volute dalla disponibilità degli amministratori e dalla dirigenza in quanto disposti ad assumersi alcuni rischi nella prospettiva dei sicuri vantaggi che l’innovazione comporta. Le sperimentazioni innovative possono attuarsi con la predisposizione e realizzazione di particolari progetti che prevedono anche microcambiamenti organizzativi riferiti alle condizioni di gestione di specifici servizi o ambiti omogenei di attività che facilitano l’emergere di competenze distintive e connotative (Braga 2016). Tra i micro-cambiamenti si può prevedere la composizione di piccoli gruppi di funzionari (anche singoli funzionari) particolarmente motivati con lo scopo di assumere un

ruolo «imprenditoriale» inteso nell’ottica di accettare prospettive inedite di professionalità con nuovi spazi di azione e incentivi non necessariamente legati alle tradizionali garanzie che fino a ora hanno caratterizzato l’impiego pubblico. Sul piano delle buone pratiche si annoverano enti pubblici che hanno realizzato sperimentazioni, permettendo la destinazione di fondi aggiuntivi per remunerazioni corrisposte per la realizzazione di progetti mirati al recupero di produttività e funzionalità organizzativa. In definitiva, l’auspicato rinnovamento organizzativo che mira a modificare i principî fondamentali di organizzazione e dei rapporti di lavoro nel settore pubblico necessita della diffusione e dell’aumento della qualità del management pubblico, di iniziative intenzionali di formazione per tutti i dipendenti pubblici e di una selezione accurata di servizi di consulenza per quelle prestazioni non ancora consolidate o non presenti nelle strutture pubbliche ma che risultano irrinunciabili per i cittadini-utenti. Relativamente all’approccio riferito al nuovo management pubblico e alle sue applicazioni sulla contrattazione collettiva, nel presente lavoro si darà conto dell’esito relativo agli effetti del decentramento contrattuale mettendo in evidenza gli esiti non sempre positivi dovuti al ridimensionamento della contrattazione collettiva nazionale, senza rinnegare che la contrattazione locale aveva permesso forme di convergenza tra il legislatore e il sindacato per raggiungere una migliore adattabilità e flessibilità delle retribuzioni rispetto alla produttività e al mercato del lavoro locale. Si sono così consolidate forme di concertazione tra le parti sociali, con una forte partecipazione del sindacato e, infine, con strumenti di monitoraggio e controllo delle dinamiche retributive. Negli ultimi otto anni si sono determinate condizioni tali per cui lo scenario appena descritto è completamente cambiato per effetto di un mutato atteggiamento dei recenti governi, considerato il datore di lavoro, teso a contenere o, addirittura, a fare a meno della contrattazione collettiva, con un ritorno alla centralizzazione a scapito del decentramento. In questo modo si è assistito all’eliminazione delle parti incentivanti del salario facendo prevalere politiche unilaterali di congelamento dei salari pur non rinunciando alla flessibilità della forza lavoro attraverso l’utilizzo di forme contrattuali precarie inedite per la tradizione del pubblico impiego. Sul versante organizzativo si è sempre più fatto uso di orari flessibili di lavoro o del lavoro a tempo parziale, di una maggiore articolazione dei turni, di una

mobilità tra uffici spesso a causa della chiusura o dell’accorpamento di più amministrazioni. Teramo, dicembre 2017 1

In questa sede, e in relazione agli ultimi provvedimenti del governo Renzi e Gentiloni, si vuole mettere in evidenza che dopo la riforma Bassanini – che apriva un percorso di «privatizzazione dei contratti» – si era registrato un primo passo indietro con la riforma Brunetta. Questa «privatizzazione» avrebbe sicuramente aiutato il processo di riforma della pubblica amministrazione che, per essere tale, ha bisogno di semplificazioni e non di soluzioni che ingessano il sistema. L’esempio di ciò che avviene nel privato è significativo in quanto prevede una regolazione dei rapporti di lavoro e delle forme organizzative stabilite per via contrattuale. 2 L’accordo siglato con il ministro Madia da Cgil, Cisl e Uil del 30 novembre 2016 ribadisce la necessità di una riforma della pubblica amministrazione accompagnata dalla non rinviabilità del rinnovo dei contratti di lavoro dei pubblici dipendenti. Invoca un’innovazione del settore pubblico subordinato alla professionalità dei lavoratori pubblici. 3 Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato, presentato al Parlamento il 10 novembre 1979 dal ministro della Funzione pubblica. 4 Un processo dinamico di apprendimento implica un’idea di cultura organizzativa intesa come l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi. 5 Si fa riferimento al dilemma tra cultura come «avere», cioè come risorsa, come variabile su cui agire per gestire i sistemi organizzativi, e cultura come «essere», cioè come stato di fatto «oggettuale», una sorta di condizione a priori che influisce sui comportamenti dei sistemi organizzativi stessi.

I.

Trasformazioni organizzative del modello burocratico

1. Evoluzione del fenomeno burocratico tra il XIX e il XX secolo. Le amministrazioni pubbliche, nella fase attuale, sono soggette a profondi processi di trasformazione che ne stanno modificando le dimensioni, gli scopi e in alcuni casi anche la natura, in passato inequivocabilmente determinata dalla loro origine pubblica. La distinzione in ambito organizzativo tra l’attività pubblica e quella privata (o meglio tra la pubblica amministrazione e l’impresa privata) necessita di una comparazione e di un confronto non semplicemente per sottolineare la diversità tra i due apparati, ma per definirne i comportamenti, la disciplina, le regole e i rapporti. L’attività prevalentemente pubblica è maggiormente identificata con un ambito d’azione amministrativo interno e che si muove nell’alveo delle regole del diritto amministrativo. L’attività che richiede un confronto tra istituzioni pubbliche e organizzazioni private, e/o la condivisione dell’erogazione di un servizio pubblico, deve relazionarsi con le esigenze che provengono dall’esterno, ovvero dalla collettività. Una prospettiva, quindi, che considera contemporaneamente i soggetti che amministrano e che nel loro insieme costituiscono la pubblica amministrazione e gli amministrati, superando quel paradigma della scienza giuridica che esaltava la contrapposizione tra Stato e cittadino, tra soggetti attivi e soggetti passivi della potestà amministrativa (Lariccia 2008). Nel trentennio che va dal 1870 al 1900 si afferma in Europa, e comunque nei principali paesi industriali, un sistema di amministrazioni pubbliche destinato a diventare ben presto un punto di riferimento per quei paesi che solo in momenti successivi affronteranno le problematiche connesse alla formazione dello Stato moderno. Quest’ultimo introduce il principio della divisione dei poteri e determina una separazione di complessi organizzativi che consente la nascita della pubblica amministrazione in quanto l’apparato amministrativo si trasforma da

ordinamento generale ad appartenenza necessaria a rilevanza giuridica separata. Attraverso questa trasformazione la pubblica amministrazione si qualifica come organo sovrano composto dal governo e dagli uffici esecutivi e ausiliari (Giannini 1986). Nel Sette-Ottocento l’organizzazione pubblica abbandona alcuni settori e ne assume altri. Solo all’inizio del Settecento si assiste negli Stati europei a un’organizzazione dell’esercito su basi amministrative, con la creazione di un sistema stabile di caserme, l’assunzione di personale di carriera, l’emanazione dei regolamenti militari e un approntamento preventivo dei sistemi di difesa e di offesa. Nell’Ottocento, sempre negli Stati europei, si crea per la prima volta un’organizzazione pubblica di istruzione e si organizzano, sempre con istituti pubblici, servizi quali le poste e quelli relativi ad altre forme di comunicazione. Nei decenni più recenti si è avuta in parecchi paesi la creazione di istituti o di organizzazioni pubbliche specializzate per il controllo della liquidità e degli scambi, per un sistema generalizzato di assistenza e previdenza sociale, per l’assistenza ospedaliera. Infine, sono più estese le presenze pubbliche nel campo delle imprese, limitate prima ai servizi pubblici o a settori fondamentali (banche, petrolio, energia elettrica), poi ampliatesi gradualmente a settori privi di particolari qualificazioni, e quindi, formalmente, di libera concorrenza. Questa trasformazione quantitativa e qualitativa ne ha determinata un’altra strettamente organizzativa, che riguarda la posizione e il ruolo della persona giuridica dello Stato che, pur continuando a costituire la componente principale, è soltanto una delle persone giuridiche pubbliche. Accanto allo Stato, esistono altri tipi di persone giuridiche pubbliche che, al pari di esso, trovano nella Costituzione la loro disciplina base (le Regioni) e comunque una garanzia di esistenza (Comuni e Province). Uno Stato, dunque, non più elemento dominante, ma una delle componenti, anche se la più importante, di un sistema che si snoda in una molteplicità di articolazioni, per diverse funzioni e, in parte, per natura (Guarino 1977). In Italia solo alla fine dell’Ottocento si realizza uno spazio istituzionale proprio e specifico dell’amministrazione, che contraddistingue uno «Stato amministrativo» (Cassese 1974) caratterizzato da una pubblica amministrazione capace di interporsi tra il governo e la società e di garantire l’autonomia decisionale dell’apparato amministrativo dalle scelte del livello politico (Mannori - Sordi 2004). Da un punto di vista più strutturale, la pubblica amministrazione si presenta come un’organizzazione

monista, ordinata intorno al governo di uno Stato accentrato, retta sia dal principio gerarchico sia da quello di uniformità. Esistono pochi ministeri di limitate dimensioni e un sistema di enti pubblici territoriali (Comuni e Province), ma privi di sostanziale autonomia (Nigro 1996). Questo assetto entra in crisi già all’inizio del Novecento, a seguito dell’estensione del diritto di voto a categorie sempre più ampie di cittadini e alla progressiva trasformazione delle funzioni dello Stato. L’amministrazione, allora, viene chiamata a occuparsi non più soltanto di difesa, ordine pubblico e politica estera, ma anche dei bisogni delle classi meno protette: si pensi alla previdenza sociale, alla tutela sanitaria, alle garanzie nel rapporto di lavoro, ai sussidi in caso di calamità, agli interventi economici per le zone depresse (Giannini 1986). Si determina, in questo modo, una notevole crescita delle dimensioni dei pubblici poteri, che si manifesta in un aumento degli organi centrali e locali, diretti e indiretti, dello Stato. Accanto alla dilatazione dell’apparato delle amministrazioni pubbliche, si assiste al contempo a una loro complicazione. Sorgono nuove e sempre più elaborate specie di enti pubblici, che sono preposti anche a funzioni erogative e imprenditoriali. Questa tendenza si rafforza ulteriormente negli anni trenta e quaranta, con l’ordinamento corporativo fascista e, poi, con la crisi economica e le esigenze belliche. Il periodo compreso tra la formazione dello «Stato» moderno cosiddetto «di diritto», risalente alla metà del secolo XIX, e quello che ha consentito la formazione dell’attuale Stato definito come «Stato regolatore», permette di cogliere il processo evolutivo che ha condotto la pubblica amministrazione a trasformarsi nel tempo sino ad assumere la connotazione odierna; la stessa dicotomia tra pubblico e privato diviene preludio alla formazione di quello che oggi è definito Stato mercato, una dicotomia tra amministrazioni pubbliche e aziende private produttrici di beni e servizi. In particolare, la base di tale distinzione tra le due «organizzazioni» (quella pubblica e quella privata) poggerebbe principalmente sulla funzione finalistica del pubblico potere, in base alla quale «amministrazioni pubbliche si dicono tutti gli apparati amministrativi di pubblici poteri» (Giannini 1986). Tale distinzione assume doppia importanza: per un verso, perché punta a identificare ciò che è amministrazione pubblica, per l’altro perché definisce, in negativo, la distinzione tra amministrazioni pubbliche e organizzazioni che operano nell’area del privato. Il suddetto paradigma bipolare ha continuato, sino a poco tempo addietro, a costituire un dogma da cui partire per analizzare

l’organizzazione pubblica. Solo di recente tale dogma ha subìto una crisi (Lariccia 2008)1 che ha comportato una diversa chiave di lettura orientata verso un’apertura a un ravvicinamento tra pubblico e privato, che costituiscono due poli separati in contrapposizione, a causa della superiorità dell’uno sull’altro. Tuttavia, per contrastare questa superiorità, quello più forte (lo Stato) che è retto da regole e doveri, deve agire in un modo pianificato impostogli dalla legge e dal diritto, mentre il privato agisce secondo il proprio interesse, in modo libero, salvo limiti esterni imposti dalla legge (Cassese 1992). La crisi di tale paradigma, definibile come bipolare, è stata acuita dall’aumento delle «zone grigie» nelle quali risulta sempre più difficile «assegnare» un’organizzazione a uno dei due «campi», quello pubblico o quello privato. In particolare, tale fenomeno è coinciso con quello della nascita delle cosiddette organizzazioni «miste», fenomeno, questo, che ha interessato principalmente il «terzo settore» (quello dei servizi sociali) dove operano organizzazioni che s’ispirano a regole e principî economici, perseguendo tuttavia interessi di natura collettiva (tipici dell’organizzazione pubblica). Di conseguenza si sono verificati la fine del bipolarismo pubblico-privato e l’avvio di una concezione multipolare, secondo la quale i nuovi paradigmi dello Stato porrebbero in discussione tutte le nozioni, i temi e i problemi classici del diritto pubblico, con una nuova «arena pubblica» (Cassese 1992)2. Le pubbliche amministrazioni viste in chiave organizzativa non sono solo definibili come «organizzazioni complesse» (Zan 2011) ma caratterizzate dalla presenza di un continuum di organizzazioni, contraddistinte da diverse sfumature, e disposte tra i due poli del «pubblico puro» e del «privato puro». Da «arena pubblica» a «arena delle organizzazioni», volendo ricomprendere in tale accezione l’insieme delle organizzazioni pubbliche e private che operano nell’ambito di relazioni di competizione (finalizzata alla conquista del «mercato» da dove le organizzazioni stesse traggono le risorse che servono alla loro sopravvivenza) e collaborazione. A ogni buon conto il fine, che costituisce il punto di partenza del consolidamento della democrazia in senso sostanziale, è la continua metamorfosi dello Stato, ovvero di una pubblica amministrazione che assume una posizione centrale rispetto alla generale gestione economicosociale; posizione assunta nella prospettiva della garanzia del «cittadinocliente» e non più utente; di qui anche il farsi strada di approcci legati alla customer satisfaction e della diffusione nella cultura della pubblica

amministrazione di tematiche come il marketing strategico dei servizi che prevede una logica processuale del cambiamento associato a un approccio multidimensionale e integrato del fenomeno organizzativo. Il modello a cui ci si riferisce è quello della gestione strategica dei servizi che si configura come uno strumento utile per interpretare il processo di raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione. La sua struttura è caratterizzata da cinque macro-variabili: finalità, attori e processi, organizzazione e strumenti, misura delle prestazioni e contesto; variabili legate tra loro e in stretta relazione tra gli obiettivi di un sistema e i riferimenti normativi. Per questa via occorre cogliere le strategie dell’azione amministrativa e i confini che delimitano le possibilità di realizzare diverse tipologie di beni e servizi e, al tempo stesso, giustificare le scelte compiute. In particolare la finalità definisce la mission del servizio offerto e le motivazioni che stanno alla base dell’utilizzazione e dell’utilità delle risorse pubbliche, mentre i riferimenti normativi illustrano il programma e le normative che circoscrivono a livello legislativo l’ambito di intervento di ciascuna realtà considerata. Il sistema organizzativo deve essere pensato e progettato in considerazione della definizione del mercato al quale il sistema si rivolge e dei principali processi operativi attraverso cui si tenta di raggiungere il target dei destinatari del servizio pubblico. La configurazione del sistema deve, quindi, prendere in considerazione l’insieme degli attori coinvolti direttamente e indirettamente (stakeholder esterni e interni). Soggetto politico, cittadini e personale della pubblica amministrazione sono tutti portatori di interesse di ogni specifica e diversa amministrazione pubblica (Norman 1990; Costa 1997). In conclusione, non resta che chiedersi in che modo sia avvenuta e tutt’oggi avvenga la trasformazione dello Stato ovvero della pubblica amministrazione. Su questo interrogativo i paragrafi che seguono daranno conto dei fenomeni evolutivi in chiave organizzativa delle diversificate strutture pubbliche, evidenziando il verificarsi di eventi imprevedibili e di particolare peso politico-pubblico. Ciò in considerazione che lo Stato, ovvero la pubblica amministrazione, non sarebbe di per sé in grado di modificarsi senza l’inevitabile influenza di interventi esterni.

2. Le istituzioni per Weber e le conseguenze inattese della burocrazia per Merton.

L’oggetto di studio della sociologia è l’agire dotato di senso, che Weber3 definisce come quell’atteggiamento umano a cui l’individuo che agisce attribuisce un suo senso soggettivo in riferimento all’atteggiamento di altri individui (Bonazzi 2002c). Per Weber scopo della ricerca sociologica è fornire una «spiegazione comprendente» dell’agire sociale di una o più persone, spiegare vuol dire trovare le cause che si suppone abbiano provocato un dato agire, comprendere vuol dire rendere evidente il senso che il soggetto ha dato al suo agire in rapporto a quelle cause. Nel suo metodo di analisi, oltre a «comprendente», Weber aggiunge anche il concetto «istituzionale», concetto che permette di dimostrare le condizioni e i vincoli che determinate istituzioni sociali pongono sia all’agire umano che al senso che i soggetti danno del loro agire. Per il sociologo sono gli uomini che hanno creato diverse istituzioni: quelle statali (monarchia, repubblica), quelle politiche (democrazia, dittatura ecc.), quelle giudiziarie (magistratura), quelle economiche (latifondo agrario, capitalismo ecc.) e quelle religiose (chiese, sette, monasteri ecc.). A differenza di Marx che privilegia i rapporti economici, di Freud che privilegia gli impulsi libidici dell’individuo, Max Weber non privilegia alcun fattore, non mira a dare spiegazioni generali della storia, la sua attenzione è rivolta a studiare le infinite forme istituzionali apparse nel corso della storia umana, i presupposti materiali, sociali, culturali, religiosi, economici che le hanno fatte nascere, le affinità tra varie istituzioni in apparenza lontane tra loro4. Un’analisi rigorosa di quelle che sono state le trasformazioni organizzative del modello burocratico nella pubblica amministrazione richiede necessariamente una disamina di come i sociologi classici e contemporanei hanno affrontato il tema del cambiamento organizzativo e istituzionale della pubblica amministrazione, anche attraverso il rapporto tra attori, istituzione e organizzazione e mettendo in evidenza il passaggio da un approccio razionale, basato su una concezione strumentale delle organizzazioni e della pubblica amministrazione, a un approccio che sottolinei la dimensione istituzionale delle organizzazioni a partire da una concezione processuale dell’organizzazione stessa (Zan 1988) o dell’organizzare (Weick 1993). I nuovi apporti agli studi organizzativi evidenziano che il secondo approccio pone al centro dell’attenzione l’intersoggettività delle interazioni, attraverso cui si formano pratiche

culturali e costrutti simbolici che non sono altro che i materiali di cui sono fatte le istituzioni. Queste pratiche culturali e i costrutti simbolici fanno riferimento a un approccio che analizza le dinamiche comunicative e le pratiche di lavoro nei contesti organizzativi e che, partendo dagli studi di Vygotskij (2002; 2007), ha sviluppato una prospettiva culturale capace di studiare in una lettura unitaria i contesti organizzativi, intesi in senso lato, e di lavoro come complessi sistemi di pratiche sociali di lavoro, di comunicazione e di apprendimento. Tale approccio, sviluppato nell’ambito di una psicologia definita «culturale», pone l’accento su due caratteristiche peculiari dell’agire umano: la capacità di attivare e modificare l’ambiente attraverso la creazione di artefatti materiali e simbolici; la capacità di trasmettere filogeneticamente questi costrutti simbolici e materiali attraverso l’utilizzo del linguaggio. La cultura viene pertanto intesa come il «medium» dell’agire umano, ponendosi sia come vincolo che come strumento attraverso il quale gli esseri umani operano. Questa concezione «culturalista» pone in evidenza come il rapporto tra gli uomini e il mondo sia mediato dalla presenza di artefatti culturali, simbolici e materiali. Gli artefatti, esito delle azioni umane, si caratterizzano come prodotti «artificiali e culturali», grazie ai quali il rapporto dell’uomo con il mondo si configura sempre come culturalmente mediato. Gli strumenti in cui si concretizza il rapporto dell’uomo con il mondo e la «natura» sono, tra gli altri, il linguaggio, i sistemi formali, gli artefatti materiali e tecnologici. Oggetto specifico della ricerca sociologica per Weber è l’agire dotato di senso, definito come l’atteggiamento umano a cui l’individuo che agisce attribuisce un suo senso soggettivo, in riferimento all’atteggiamento di altri individui. Nel suo metodo di comprensione della realtà diviene fondamentale la capacità di capire i significati che mediano l’azione sociale perché l’attore attribuisce senso al proprio comportamento, non agendo meccanicamente a uno stimolo, ma interpretandolo e poi agendo (Scott 1998). Gli studi di Weber, inoltre, partono dalle conseguenze sociali dello sviluppo capitalistico dell’Occidente moderno, adottando la prospettiva istituzionalista (Schluchter 1987; Bonazzi 2002b) per mettere al centro della sua analisi il «significato culturale generale della struttura socio-economica

della vita della comunità umana e delle sue forme storiche di organizzazione» (Weber 1958). Attraverso la comprensione del senso che i soggetti attribuiscono al loro comportamento nel rapporto con le istituzioni che operano nella vita sociale, Weber si interessò dapprima a cogliere le peculiarità dell’economia occidentale, per poi concentrarsi sugli aspetti della cultura europea moderna nel suo complesso, così che il tema del capitalismo si trasformò in quello del razionalismo (Schluchter 1987). Il suo interesse andò ai processi intraculturali e interculturali che influenzano l’azione sociale (che a sua volta svolge una funzione di influenza su tali processi) e la traducono in razionalità dell’ordine sociale. Le diverse culture dell’Occidente e dell’Oriente, le molteplici istituzioni della storia e lo studio dei presupposti materiali, sociali, economici, culturali, religiosi, da un lato, e le obbligazioni normative derivanti da quelle istituzioni e le loro affinità, dall’altro (Bonazzi 2002a), consentirono a Weber di analizzare l’avvenuta razionalizzazione e le sue conseguenze. Le istituzioni non vengono considerate come concetto a sé stante, non trascurando la comprensione delle strutture e dei comportamenti sociali in quanto influenzate da regole culturali, intese come abitudini, comportamenti o codici legislativi (Scott 1998). La stessa tipologia dei sistemi amministrativi basata su tre tipologie di potere era fondata su credenze e su sistemi culturali che legittimavano l’utilizzo dell’autorità (Bendix 1984). Osservare una realtà e valutare in che misura essa si avvicina o discosta da un certo tipo ideale per Weber rappresenta un concetto qualitativo costruito selezionando e accentuando aspetti della realtà osservata; la sua capacità euristica dipende dalla bravura del ricercatore, non indica qualcosa che si possa desiderare e non ha nulla a che fare con una perfezione che non sia puramente logica. La costruzione dei tipi ideali viene introdotta per lo studio del potere, definito come la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un determinato gruppo di uomini. Il potere ha una natura relazionale e specifica; è relazionale perché nasce dal rapporto tra chi comanda e chi accetta di obbedire; è specifica perché bisogna sempre stabilire le circostanze, condizioni e limiti in cui un rapporto di potere si instaura. Il potere, inoltre, se esercitato in modo continuativo, richiede di essere legittimato e ha bisogno di un apparato amministrativo, diverso a seconda

del tipo di legittimazione di cui gode il potere, dove la forma di legittimazione dello stesso è il vero oggetto dello studio sociologico. Vengono distinte tre forme di potere legittimato: il potere carismatico che si basa su qualità eccezionali e a volte sovraumane che i seguaci attribuiscono a un capo. Non è detto che tale potere duri, nella sua forma pura questo potere è irrazionale, manca di regole, è rivoluzionario perché rovescia il passato e nasce da una rottura radicale con le istituzioni. L’apparato amministrativo del potere carismatico è rudimentale, formato da discepoli a diretto contatto con il capo, persone che hanno dato prova di fedeltà. Tale potere trova la sua forma più pura nella sfera religiosa ma anche nella sfera politica dei grandi rivoluzionari e nella sfera economica dei grandi imprenditori. Questo movimento si affievolisce con la scomparsa del capo o se si ritira, e i suoi seguaci trasformano il carisma in pratica quotidiana, stabilendo una routinizzazione del carisma che diventa alla fine un potere burocratico o tradizionale. La seconda forma di potere legittimato è quello tradizionale o burocratico che fonda la sua legittimità su ordinamenti antichi ed esistenti da sempre; chi ha il potere è rispettato in virtù della tradizione, può non avere personali doti di comando: un esempio è il sovrano che regna in base a un diritto di sangue. Si assegnano cariche in base all’appartenenza a un gruppo privilegiato, e in questo si trova il punto debole di tale potere, sempre minacciato dall’insorgere di un capo carismatico, oppure alla messa in discussione dell’assenza di capacità del detentore del potere. La terza forma di potere legittimato è quello legale o razionale che stabilisce che chi comanda lo fa in virtù di una nomina legale; l’ordinamento in tal caso è ispirato a criteri astratti e universali, applicabili in modo equo a tutti i casi simili; anche il detentore di potere è tenuto a rispettare l’ordinamento stesso. Il carattere universalistico del potere legale è prerogativa degli Stati di diritto dove i soggetti sono dei cittadini con diritti riconosciuti (Bonazzi 2002a). Con il concetto di «tipo ideale» viene avviato un confronto sulla nascita degli apparati burocratici e dello Stato moderno che si basa sul principio di razionalità burocratica e amministrativa, dentro il quale l’individuo, all’interno di una razionalità data, deve garantire il funzionamento in modo acritico della macchina. Per queste ragioni l’attualità del pensiero weberiano attiene all’idea di macchina, all’organizzazione come macchina (Morgan 1990) che diviene un riferimento concettuale di fondo assunto

anche dalle teorie organizzative: ricondurre l’impiego del lavoro umano a sequenze di attività preordinate e programmate in modo da massimizzarne il rendimento. Si afferma il paradigma meccanico dell’organizzazione costruito e consolidato secondo alcuni presupposti. La metafora che riconduce alla razionalità ed efficienza della macchina di derivazione industriale, o anche delle strutture militari; la definizione di confini netti e ben presidiati dell’organizzazione rispetto alla realtà esterna e anche, al suo interno, tra le componenti o unità che si sviluppano in linea verticale (gerarchia) e orizzontale (articolazione di funzioni e compiti ben delineati); la ricerca di condizioni di stabilità, sicurezza, ripetitività come fattori fondamentali per l’efficienza dei processi produttivi (Bonazzi 1996). Con questi presupposti di un apparato amministrativo tipico la burocrazia assume la sua forma più completa nella società moderna distinguendo la razionalità rispetto al valore e la razionalità rispetto allo scopo dove il valore è buono mentre lo scopo è qualcosa che si prefiggono vari soggetti indipendentemente dal suo valore etico. Per Weber la burocrazia non è orientata verso valori con scopi sempre benefici, ma può anche essere usata per scopi di sfruttamento, oppressione e morte. La sua funzione di strumento tecnico la rende superiore a qualsiasi altra amministrazione. La burocratizzazione è da intendersi come una tendenza generale della società moderna segnata dall’avvento di grandi progetti politici come il socialismo, il liberalitarismo o il comunitarismo cristiano, novità non destinate ad affermarsi nel mondo, e si caratterizzerà come un processo universale che accompagna la realizzazione di qualsiasi processo politico-sociale nel mondo contemporaneo. Il potere burocratico ha una particolarità, è acefalo, non ha cioè dentro di sé le direttive supreme di natura politica che guidano le scelte di un paese o di un’organizzazione. La burocrazia è sempre un apparato al servizio di un potere politico che si può basare su forme di legittimazione carismatica, tradizionale o razionale, ossia è conforme ai principî di uno Stato di diritto. Responsabile di un apparato burocratico è il funzionario che segue le direttive di un capo politico; mentre il capo politico cambia a seconda delle vicende politiche, il funzionario resta. Tra capo politico e funzionario si instaura un rapporto complesso in cui uno ha bisogno dell’altro; i funzionari attuano i programmi dei politici interpretandoli e adattandoli, esercitando un loro potere perché li possono attenuare, ritardare, sabotare di nascosto.

Il potere della burocrazia può spingersi fino ad essere avverso a un Parlamento democraticamente eletto, tanto che se quest’ultimo è male informato diventa impotente con una potenziale degenerazione burocratica rispetto al funzionamento dello Stato. Al contrario, impostando un rapporto corretto tra potere politico e potere burocratico, per Weber è possibile controllare il secondo; questo naturalmente può avvenire solo in quei paesi dove esiste libertà di stampa e di denuncia, e dove c’è una classe politica non dilettante, professionalizzata e capace di controllare la macchina burocratica. Nel delineare un modello ideale di burocrazia Weber ne indica alcune caratteristiche fondamentali. La prima caratteristica è quella riferita alla fedeltà di ufficio che consiste nel dovere di obbedienza ai superiori anche se questi cambiano, cosa che non accade quando si è in presenza di un capo dal potere carismatico e tradizionale. Fa seguito la caratteristica che richiede la dotazione di una competenza disciplinata nella quale i dipendenti svolgono, sono capaci di svolgere e sono tenuti a svolgere compiti precisi secondo norme prestabilite. Una caratteristica legata alla gestione del potere è quella che regola la gerarchia degli uffici che si ottiene con un rigido sistema di subordinazione dell’autorità con poteri di controllo e direzione dei superiori sugli inferiori. Altra caratteristica è quella che implica un percorso di istruzione formale particolarmente idoneo per una preparazione specializzata che richiede un corso di studi predeterminato per acquisire conoscenze utili a svolgere i compiti preposti. La caratteristica per eccellenza del lavoro pubblico è quella che prevede l’accesso attraverso un concorso pubblico per chi vuole entrare negli organici della pubblica amministrazione. Lo sviluppo di una carriera non è precluso in quanto vi è la possibilità di ricoprire funzioni superiori. Lavorare in una struttura pubblica rappresenta la garanzia di un’attività a tempo pieno per l’esercizio di una professione continuativa che deve diventare l’attività primaria da svolgere. È fatto obbligo di garantire il segreto di ufficio affinché non ci sia una divulgazione delle pratiche di ufficio. La prestazione lavorativa è assicurata da uno stipendio monetario fisso pagato dall’amministrazione per cui si lavora. È compito dell’amministrazione dotare i dipendenti degli strumenti di lavoro (Bonazzi 2002a). Ne deriva che il burocrate puro non chiede né di essere amato né di essere temuto per i suoi tratti caratteriali, trae la sua autorevolezza dalla

legge; non sono previsti né tradizione, né carisma perché nella burocrazia pura vige solo la fedeltà di ufficio. Weber è perfettamente consapevole di definire un tipo ideale puro e privo di spessore umano, che non esiste un uomo così perfetto ma che deve essere ipotizzato in termini di analisi sociologica e assumere le conseguenze che ne derivano dal riconoscere che in un’organizzazione burocratica si può obbedire e per quali ragioni. Il carisma non nasce solo dal rifiuto di un ordine preesistente ossia fuori e contro le istituzioni, ma può nascere dentro le istituzioni sull’onda del successo che il capo ottiene nell’opera di rafforzarle e rinnovarle (Etzioni 1961); ma può anche essere esercitato su persone esterne all’organizzazione (Biggart 1989)5. Non sempre si hanno effetti benefici del carisma perché personaggi che portano prestigio a una determinata organizzazione, senza che questa lo possieda direttamente, generano un’obbedienza dovuta al professionista carismatico che si avvicina all’obbedienza razionale della burocrazia pura. Se si ritorna sulla concezione che la burocrazia (ovvero l’amministrazione pubblica) è una macchina, si può affermare che questa idea può essere considerata ancora attuale ed essere utilizzata sia nei dibattiti relativi al funzionamento dell’amministrazione pubblica che alle recenti proposte di riforma della pubblica amministrazione. In altre parole, il ritorno in chiave attuale al linguaggio weberiano evidenzia come questo pensiero lasci in eredità l’approfondimento della razionalità dei soggetti che agiscono; razionalità che appare insufficiente per affrontare l’effetto complessivo delle azioni e delle decisioni delle organizzazioni burocratiche. Si tratta, in definitiva, di garantire l’aumento della razionalità progettata attraverso specifiche risposte alle norme e alle procedure formali. Il raffronto con quanto si discute oggi sui processi di riforma della pubblica amministrazione e la qualità della gestione amministrativa weberiana ci indicano che è comunque garantita la produzione di norme e procedure che rendono gli apparati pubblici efficienti. Ne consegue che il contributo di questo importante studioso è quello di una riflessione sistematica sullo studio delle organizzazioni burocratiche intese come apparati burocratici espressione del potere legale, come strutture organizzative imperniate sul tipo ideale, che presentano una gestione delle risorse umane fortemente orientata all’idea di razionalità e che presentano un agire razionale in grado di evitare la degenerazione della burocrazia.

Siamo di fronte a una complessità di un impianto teorico che mette in relazione la burocrazia con la razionalità organizzativa, senza trascurare la riflessione sugli aspetti legati alla libertà individuale e all’agire sociale piuttosto che sugli aspetti sistemici e strutturali; contrapponendolo a Durkheim, in realtà l’antinomia tra azione e struttura è molto più sfumata e meno marcata di quanto si sia ipotizzato (Schluchter 1987; Rizza 1999). La cristallizzazione del sistema di mercato e la sua sorte impersonale e burocratizzata, che come una «gabbia d’acciaio» intrappola le azioni degli individui e la loro libertà personale, non impediscono il rapporto tra attori e istituzione, tra azione sociale e contesto da cui discende la libertà personale dell’attore. Con l’azione istituzionalizzata si stabilizzano, tramite norme e regolazioni, i comportamenti che si cristallizzano nelle menti degli attori per essere continuamente riprodotti. L’intreccio tra azione sociale e rappresentazioni della realtà indirizza e influenza l’azione dell’attore (Weber 1961). Le diverse tipologie dell’azione, oltre all’azione razionale rispetto allo scopo in cui l’attore massimizza i suoi interessi e sceglie tra i mezzi a disposizione quelli ottimali, sottolineano l’estrema importanza delle cornici culturali esistenti, dei fondamenti culturali e del loro rapporto con l’azione. Se è l’interesse, infatti, che fa muovere l’attore, tuttavia i comportamenti si fondano su nuclei di rappresentazioni ideali che già sussistono e dunque l’azione individuale risulterebbe determinata più che da interessi, da fattori ideali e da istituzioni ad essi collegate. Come Weber evidenzia nello studio dedicato allo sviluppo del capitalismo e all’etica protestante (Weber 1945), l’azione individuale è dunque connessa al contesto sociale e istituzionale, mentre il capitalismo non risulterebbe fondato su una razionalità dell’azione individuale innata né su un adattamento ai fattori ambientali, ma sulla relazione, sul rapporto tra attore e contesto sociale e culturale. Delle istituzioni definite come «gruppi sociali con ordinamenti statuiti imposti con successo ad ogni azione che rivesta determinate caratteristiche», Weber però sottolinea anche l’aspetto «cogente», di strumenti «costrittivi» che incanalano l’agire individuale attraverso regole e norme stabilite, a cui è difficile sottrarsi. La burocrazia, con la sua tendenza alla burocratizzazione della vita sociale, contiene rischi e risvolti negativi allorquando la razionalità formale e impersonale, tipica degli apparati dei funzionari, diventa dominante,

allora le istituzioni si trasformano in strumenti che vincolano l’azione e rallentano o impediscono il cambiamento. Le conseguenze di questa razionalizzazione, portata all’eccesso, sono quelle di una spersonalizzazione, di una disumanizzazione dei rapporti che possono andare dall’annullamento dell’elemento affettivo e personale nelle relazioni, che conduce all’indifferenza delle istituzioni nei confronti dell’etica, fino alla nascita di sistemi totalitari (Hennis 1991; de Leonardis 2001; Bonazzi 2002c). Nella modernità, con la nascita del capitalismo, a fianco del processo di secolarizzazione, della diffusione della mentalità scientifica e del «disincantamento del sacro», si afferma, secondo Weber, anche la burocrazia come necessità di efficienza, razionalità, regolarità, affidabilità rispetto ad altri apparati burocratici del passato che facevano affidamento su amministrazioni di tipo patriarcale, feudale, patrimoniale ecc. La fortuna della burocrazia si deve quindi alla sua superiorità tecnica e al fatto che nell’amministrazione burocratica una serie di fattori6 è utilizzata in modo migliore rispetto ad altre forme organizzative (Weber 1961). Rispetto al passato, dunque, i nuovi apparati burocratici come la pubblica amministrazione, ma non solo, andranno ad assumere una forma organizzativa inconfondibile, legata a grandi strutture gerarchiche, rigide e segmentate, fondate sulla divisione del lavoro, su principî e regole di funzionamento oggettivi e sulla nascita di un nuovo ceto di funzionari. Come dimostrato, alla base del processo di burocratizzazione degli apparati, oltre alla superiorità tecnica richiesta dallo sviluppo capitalistico, ha inciso anche l’avvento della democrazia di massa che aveva trasformato i sudditi in cittadini aprendo la strada alla nascita del moderno Stato di diritto e all’eguaglianza formale. Il rapporto tra burocrazia e democrazia diviene strettamente connesso al problema del cambiamento organizzativo e istituzionale. Con la comparsa della democrazia formale matura l’esigenza di un apparato amministrativo conforme alle sue regole di fondo e in grado di garantire trattamenti imparziali, uguali e prevedibili ai cittadini (Weber 1961); due processi, quello della democratizzazione e quello della burocratizzazione, che si sostengono vicendevolmente (Bonazzi 2002b), con una chiara distinzione tra la democrazia passiva e quella attiva. In questo senso la democrazia viene concepita come «eguaglianza giuridica», come estensione dei diritti e dei doveri, e non come partecipazione fattiva, e che anzi è la stessa amministrazione burocratica per la sua conformazione e

le sue caratteristiche a ostacolare la partecipazione effettiva dei cittadini alle decisioni. Questo tipo di democrazia è tipica della Stato moderno che, pur necessitando dello sviluppo di un apparato burocratico, deve fare i conti con la stessa burocrazia che si comporta come un’istituzione di potere, dotata di interessi propri e di logiche specifiche di autoconservazione, pertanto avversa al potere politico che si contrappone a questa concentrazione del potere amministrativo, alle procedure e alle strutture burocratiche (Weber 1961). Per Weber il burocrate puro deve essere inserito in una gerarchia che occupa un grado preciso, deve avere dei superiori, dei pari grado e degli inferiori. In un’organizzazione burocratica comandi e controlli devono procedere sempre attraverso gerarchie. Tra gli anni trenta e cinquanta la scienza del management ha a lungo esaminato e discusso le diverse forme che può assumere una gerarchia: gerarchie lunghe, con molti livelli, gerarchie corte con pochi livelli, gerarchie con controllo dall’alto, gerarchie che lasciano discrezionalità, quelle fondate sull’autorità formale o sulla competenza, quelle con un solo superiore e quelle con diversi responsabili. Tale tema è affrontato negli anni sessanta e settanta da un programma di ricerche sociologiche, la cosiddetta scuola di contingenze, di origine britannica, che prende il nome dal fatto che non esiste un modo unico e ottimale (l’one best way di Taylor) di costruire un’organizzazione, ma tanti diversi modi organizzativi la cui scelta ottimale dipende dalle circostanze, dalle contingenze. La variabile strategica messa in luce dalle ricerche ispirate a tale teoria è quella che si colloca lungo la dimensione tranquillitàturbolenza dell’ambiente in cui l’organizzazione opera: in un ambiente tranquillo gli eventi sono ordinari, ripetitivi e prevedibili; in un ambiente turbolento gli eventi sono imprevedibili e sempre nuovi. L’ambiente tranquillo è gestito meglio da una gerarchia burocratica tradizionale, una gerarchia lunga, procedure precise e regolari; un ambiente turbolento richiede una gerarchia corta, rapidità di comunicazione, ruoli non predefiniti, apertura alle novità, lavoro in team e capacità di iniziativa. Si afferma in questo modo il modello post-burocratico che si basa sulla comunicazione diffusa e sulla responsabilità di gruppo per gestire i problemi tecnici, sociali complessi. Anche secondo Weber una preparazione specializzata era indispensabile per svolgere efficientemente un compito in seno a una burocrazia.

Negli anni trenta Robert King Merton, critico del modello weberiano di burocrazia, attirò l’attenzione sul fatto che la formazione professionale data ai funzionari poteva non essere adeguata e parlò di incapacità addestrata, quando le azioni basate sull’addestramento e l’abilità tecnica possono risultare inappropriate sotto mutate condizioni; quando la realtà muta sorgono problemi inediti e l’addestramento troppo specifico del funzionario si traduce in mancanza di duttilità nell’applicazione delle norme e nel non conseguimento degli scopi prefissati. Merton recupererà l’impianto weberiano, ovvero il senso che i soggetti conferiscono alle loro azioni e lo scarto tra intenzionalità e risultati acquisiti, ma per le sue critiche viene riconosciuto come rappresentante della versione debole, contro la versione forte, della visione organicistica di tipo parsonsiano. Per Merton vi è sempre una tensione tra il senso soggettivo che gli individui attribuiscono alle loro azioni e le funzioni integrative svolte dal sistema istituzionale ovvero le conseguenze oggettive dell’azione. La sua teoria che si basa sulla distinzione tra funzioni manifeste e latenti delle azioni, al di là dei limiti individuabili in una tale distinzione, ha avuto sicuramente il merito di aver aiutato a comprendere soprattutto le irrazionalità, presunte o reali, che si presentano nei modelli sociali, e quello di aver condotto l’analisi verso campi di indagine non scontati, alla scoperta di risultati che, all’apparenza paradossali, in realtà lo sono soltanto perché si discostano dal «Senso comune». Nella sua analisi sulla burocrazia pubblica Merton si limiterà ai soli aspetti interni e non evidenzierà le altre fragilità del modello weberiano, soprattutto quelle che sottolineano la relazione e lo scambio tra burocrazia e ambiente. Emergono, comunque, le funzioni latenti, al di là di quelle manifeste della burocrazia, sottolineando come il complesso sistema di regole e norme che strutturano ogni comportamento possa anche tradursi in criticità per l’intero sistema burocratico. La richiamata «incapacità addestrata», vale a dire la specializzazione che diventa deformazione professionale, se perseguita fino alle estreme conseguenze dai funzionari, determina un rallentamento della burocrazia fino a bloccarla di fronte a cambiamenti e imprevisti; così che le azioni basate sull’addestramento e l’abilità tecnica, che in passato avevano dato un risultato positivo, possono risultare come risposte inappropriate sotto mutate condizioni (Merton 1936). L’approccio ai problemi che subentrano necessita di comportamenti realizzati con lenti diverse, non limitandosi a quelle proposte dalla cornice

cognitiva, prescrittiva e simbolica imperante che si basa su regole e norme standardizzate, determinando una «cecità cognitiva» degli stessi funzionari (Bifulco 2002). Merton, andando oltre il presupposto su cui si fonda la costruzione weberiana della realtà considerata stabile, immutabile e che quindi tutto sia prevedibile e preventivabile, dimostra che la burocrazia si può trasformare in un apparato lento e rigido, la cui mancanza di flessibilità e duttilità nell’applicazione delle norme provocherebbe una serie di conseguenze sia per i membri interni che per la stessa organizzazione dal punto di vista dei risultati, soprattutto quando si verificano mutamenti o si presentano situazioni inedite. Su questa mancanza di adattamento si determina la prima delle funzioni latenti o «conseguenze oggettive che non sono né volute né ammesse» dell’ordinamento burocratico (Merton 1992). Altra conseguenza inattesa della burocrazia è il ritualismo dei funzionari che, in determinate circostanze, perderebbero di vista gli obiettivi finali per arroccarsi in posizioni iperspecialistiche, con il pericolo di generare alcuni comportamenti meticolosi e pedanti e, dunque, tutt’altro che efficienti dando un’interpretazione delle regole più simbolica che strettamente utilitaria (ibid.). Di conseguenza la disciplina, intesa quale conformità ai regolamenti, indipendentemente dal genere di situazioni concrete, non è vista più come misura destinata a scopi specifici, ma diventa un valore di primaria importanza nel sistema di vita del burocrate; ne segue un ritualismo caratterizzato da routine, abitudini e prassi consolidate che diventano fini a sé stesse, e si trasformano in zavorra, in ruggine che appesantisce i meccanismi, crea attrito, rendendoli inefficaci (ibid.). L’apparato burocratico rischia la paralisi soprattutto nei momenti e nelle situazioni in cui sarebbe richiesta un’azione più duttile ed elastica proprio perché interpreta la norma in modo rigido e pedissequo, e perché crea rallentamenti all’intero processo amministrativo. La stessa adesione alle regole, concepita originariamente come mezzo, diventa fine a sé stessa, dando origine al processo di «trasposizione delle mete» per cui «un valore strumentale diventa un valore finale» (ibid.). La creazione di uno «spirito di corpo» dei burocrati per Merton è da considerare come un’ulteriore funzione latente che può generarsi quando vi è l’adozione da parte dei burocrati di comportamenti atti a difendere i

privilegi acquisiti, le proprie certezze anziché il punto di vista del pubblico che richiede servizi o degli altri membri dell’organizzazione; un atteggiamento che rallenta la presunta efficienza dell’azione amministrativa, ostacolando il cambiamento. L’organizzazione diviene «difensiva non ufficiale» e tende a sorgere tutte le volte che si manifesta un’apparente minaccia all’integrità del gruppo; la formazione di sentimenti particolari, l’attaccamento allo status e ai simboli della burocrazia e la partecipazione affettiva a sfere teoricamente «neutrali» quali quelle della competenza e dell’autorità, provocano il sorgere di atteggiamenti di legittimità morale che si accompagnano alle prerogative che non sono più viste come meri strumenti tecnici per una razionale e rapida amministrazione, ma come valori assoluti. Sarebbe proprio tale comportamento a creare le maggiori resistenze e opposizioni a ogni deviazione dalla norma, a ogni mutamento che viene vissuto come imposto dall’esterno (Merton 1992). L’azione procedurale del funzionario rispetto alle aspettative di chi si rivolge all’amministrazione per risolvere un problema si appalesa come un comportamento standard del burocrate che etichetta, cataloga ogni problema che si presenta attraverso un repertorio di regole astratte e norme che supportano l’amministrazione. Il carattere di generalità delle regole richiede un uso continuo della categorizzazione, in modo che i casi e i problemi individuali siano classificati secondo criteri generali stabiliti e trattati di conseguenza; con la dimensione simbolica, per un verso, che concorre a produrre il sistema di significati su cui si regge l’azione; con la dimensione cognitiva, per altro verso, che genera modi di vedere e di pensare in base ai quali le organizzazioni stabiliscono la propria realtà; e infine con la dimensione prescrittiva attraverso la quale vengono definite le azioni più appropriate. Sebbene Merton non parlerà mai di istituzionalizzazione, segnalerà che i funzionari, attenendosi a una certa disciplina, adottano un sistema di valori per ogni loro azione, dando origine in questo modo a processi istituzionali all’interno delle organizzazioni (Scott 1998). La struttura che sottende le burocrazie presenta dei tratti che vengono connotati come tipici: l’incapacità addestrata, la spersonalizzazione ecc., mentre i conseguenti conflitti derivano dal ruolo dominante che assumono le regole generali e astratte; di contro ci si aspetta dai funzionari comportamenti di un certo tipo quali l’attaccamento, la disciplina, l’aderenza ai valori come fatti positivi.

Quello che descrive Merton è un apparato che si configura come un meccanismo persistente, granitico, impermeabile al cambiamento; non sono garantite relazioni interne tra i diversi livelli, l’ambiente e le trasformazioni esterne non scalfiscono la configurazione burocratica. I rapporti semmai rimangono tutti all’interno dei diversi gruppi (es. burocrati) e sono utilizzati come strategie di protezione, di mantenimento del potere nei confronti di richieste che escono dalla norma e che pretenderebbero soluzioni ad hoc. La soluzione dei problemi viene imposta dall’alto a colpi di regolamenti e circolari da un lato e, proprio perché imposta dall’esterno e non condivisa e concepita congiuntamente, viene osteggiata dagli stessi funzionari. La risposta dell’istituzione burocratica di fronte a questi imprevisti è quella di un irrigidimento ulteriore e di un rafforzamento delle norme che avrebbero la pretesa di incanalare l’azione verso soluzioni standard e prevedibili, non certamente quella di aumentare lo scambio comunicativo tra utenti e funzionari e tra gli stessi membri dell’organizzazione. Si cristallizzano così nell’organizzazione delle competenze apprese che vengono continuamente riprodotte e adottate anche quando appare chiaro che non produrranno un cambiamento e una risoluzione del problema, ma saranno soltanto l’ennesima esecuzione di un automatismo. L’individuazione delle funzioni latenti, oltre che quelle manifeste, la messa in evidenza delle contraddizioni e dei paradossi dell’azione amministrativa e dei funzionari hanno aperto con Merton la strada alla critica dell’azione razionale rispetto allo scopo, posta alla base del modello burocratico che, con il suo ragionamento lineare, produce soluzioni teoriche che nella pratica risultano difficilmente attuabili (Bifulco 2002). Con l’analisi delle funzioni latenti Merton dimostra alcune irrazionalità su cui si fonda anche l’azione razionale rispetto allo scopo del modello burocratico e lo fa descrivendo gli effetti imprevisti esercitati dalle pressioni delle strutture sulla personalità e sulle azioni dei funzionari; pur nella consapevolezza che negli studi di Merton non vi sono ancora problematiche legate alle strategie degli attori che interagiscono con le strutture, né un’analisi delle diverse razionalità che si esplicano all’interno della burocrazia e dei loro effetti (Bonazzi 2002c), questioni che saranno affrontate da Crozier nel paragrafo che segue.

3. Lo studio di Crozier sulle burocrazie statali.

Con Merton si è sottolineato l’aspetto cogente delle strutture e delle procedure amministrative sul comportamento degli individui, mettendo in luce il fatto che essi possano rimanere «imprigionati», assuefatti da tali meccanismi e incapaci di cambiarli. Nell’organizzazione burocratica, da lui analizzata, viene criticata la prevalenza della dimensione tecnica su quella morale e politica delle materie. Un tecnicismo esasperato che, portato alle estreme conseguenze, conduce ad accentuare e a cronicizzare gli aspetti legati al conflitto tra funzionari e pubblico, alla cristallizzazione del professionismo e dell’orgoglio del burocrate, che si trasforma in gestione privata di questioni che sono invece pubbliche, a un uso delle procedure amministrative (basti pensare al segreto d’ufficio) come strategie di autodifesa (Bifulco - de Leonardis 1997). Con Crozier7 si fa strada una nuova concezione che considera l’uomo non soltanto un braccio e un cuore ma anche una mente, un progetto, una libertà. Crozier cambia il paradigma precedente perché sostiene che, per capire il funzionamento di un’organizzazione, non basta l’approccio della scuola classica (dipendenti come semplici esecutori di comandi gerarchici) e non bastano le Relazioni Umane (che si limitano a sottolineare la psicologia e la sensibilità delle persone, il cuore), ma occorre tener presente la mente delle persone, riconoscere la loro capacità di pensare e progettare. I soggetti, per il sociologo francese, sono capaci di sviluppare delle strategie all’interno dell’organizzazione, negoziano la loro partecipazione, cercano di tutelare i propri interessi. La razionalità non appartiene solo alle organizzazioni perché anche i soggetti hanno delle proprie razionalità private che non solo coincidono con quella dell’organizzazione ma che possono anche portare a condotte non previste dall’organizzazione stessa. Il potere è la capacità di controllare i margini di incertezza presenti nei rapporti con altri soggetti; nella realtà infatti ci sono sempre situazioni imprevedibili e non è possibile ricondurre i soggetti a comportamenti pre-derminati come si trattasse di api di un alveare. Le radici del potere si trovano in rapporti squilibrati di prevedibilità tra due o più soggetti; in tutte le situazioni dove un soggetto prevede le mosse altrui e nasconde le proprie si può dire che egli si trova in un rapporto di potere favorevole rispetto agli altri interlocutori. Con questa concettualizzazione del potere Crozier dimostra che lo stesso è cosa diversa dall’autorità formale che si connette al grado gerarchico ricoperto in un’organizzazione; non vi è necessariamente

corrispondenza tra grado gerarchico e sfera di potere. Se un inferiore gerarchico riesce a conservare dei margini di imprevedibilità nel modo in cui compie il suo lavoro, proprio su quei margini egli esercita un potere che sfugge al controllo del suo superiore. Chi detiene un margine di incertezza nel suo comportamento agisce per conservarlo, mentre coloro che lo subiscono tentano di eliminarlo o ridurlo il più possibile. Il risultato sistemico complessivo di tali strategie possono essere circoli viziosi. Risulta, quindi, evidente che rispetto all’analisi mertoniana Crozier non assumerà la concezione tipica ideale razionale di Weber, ma assumerà un’accezione popolare di burocrazia che considera il concetto di organizzazione associandolo alla burocrazia, dando un significato di inutili complicazioni, di standardizzazione costrittiva e di soffocamento della personalità (Crozier 1969) e, dunque, una visione della burocrazia come ingranaggio lento, inutilmente complesso e inefficiente. Crozier ritiene la burocrazia soprattutto un’amministrazione pubblica e i suoi studi verteranno prevalentemente sui grandi apparati amministrativi pubblici e sul rapporto che esiste tra questi, la società che cambia e il contesto culturale. Una prospettiva di un apparato burocratico che si connota e si distingue per la sua rigidità, per il groviglio di regole e norme esistenti e per il suo orientamento, in definitiva, alla stasi. Un’amministrazione burocratica caratterizzata dalla frammentazione, che non giova al cambiamento, ma favorisce il consolidarsi di un irrigidimento delle strutture, delle procedure e delle azioni dei soggetti coinvolti (Bifulco 2002). Andando oltre i funzionalisti post-weberiani, per Crozier l’incapacità di cambiare è una delle caratteristiche prioritarie e strutturali dell’amministrazione pubblica. Si distinguono apparati restii al cambiamento attraverso una perpetuazione delle situazioni dovuta a un eccesso di regolamentazione e alla pratica di risolvere problematiche nuove, introducendo ulteriori prescrizioni legislative che, irrigidendo ancora di più gli addetti nello svolgimento delle loro attività, impedirebbero alla macchina di correggersi e di adattarsi alle novità. In altre parole, le burocrazie non sarebbero dotate di strumenti per essere più flessibili e adattarsi alle mutate condizioni del contesto. Da qui deriverebbe un’organizzazione che ricerca l’equilibrio e la funzionalità tramite situazioni statiche e l’adozione di comportamenti che si conformano alle regole, che si traducono in circoli viziosi, ovvero quando la pubblica

amministrazione, non sapendo correggere i propri errori, adotta soluzioni che conducono a un ulteriore irrigidimento delle norme e alimentano ulteriormente quei circoli viziosi relativamente stabili, che si sviluppano a partire dal clima di impersonalità e di centralizzazione (Crozier 1969). Mentre per Merton tali comportamenti generavano conseguenze inattese, che i funzionalisti annoveravano come comportamenti eccezionali della struttura amministrativa, considerata comunque razionale rispetto allo scopo, per Crozier i medesimi comportamenti erano considerati come condizioni di fondo che la burocrazia accetta e, anzi, ricerca quotidianamente per mantenersi tale. Crozier è convinto che un cambiamento richiede una maggiore condivisione del processo decisionale, una maggiore responsabilizzazione ai livelli inferiori, una più ampia discrezionalità e autonomia nello svolgimento dei compiti; con la consapevolezza che le trasformazioni necessarie non possono che essere graduali e quasi costanti; che i membri attivi dell’organizzazione, avendo diretta esperienza della necessità delle innovazioni, possono essere gli unici a introdurle o a ottenere che le autorità gerarchiche competenti le introducano. Mentre bisogna evitare di introdurre misure per superare l’inefficienza prodottasi che rischiano di trasformarsi in un boomerang, creando esattamente l’effetto contrario. Le difficoltà, i cattivi risultati e le frustrazioni finiscono per portare allo sviluppo di nuove pressioni e al rafforzamento del clima di impersonalità e di centralizzazione che è all’origine di risultati disastrosi; affermandosi per questa via una cultura antitetica al mutamento, contraria al progresso e all’innovazione che la burocrazia adotterebbe per cercare di mantenere l’equilibrio e la giustizia tra le diverse parti del sistema (Bonazzi 2002c). Lo studio del monopolio dei tabacchi e dell’istituto contabile parigino è rivolto al tema del potere con lo scopo di controllare i margini di incertezza con i soggetti capaci di ragionare e di esprimere le proprie idee; perché nelle organizzazioni le persone non possono essere considerate come mano e cuore ma anche come mente appartenente a un agente autonomo capace di calcolo e manipolazione, che si adatta e inventa in funzione delle circostanze e dei movimenti dei suoi partner; sono proprio le strategie adottate che influenzano e condizionano il sistema burocratico (Crozier Friedberg 1978). Crozier focalizza la sua attenzione sull’individuazione delle pieghe del sistema, lasciate in ombra dai regolamenti, e sull’analisi di come le strategie

degli attori si annidano in questi vuoti, traendone spazi di autonomia e discrezionalità. La burocrazia è in grado di giocare il suo funzionamento attivando quei rapporti tra le logiche di azione dei soggetti e la stessa struttura che vincola l’azione. Weber aveva legato la razionalità e l’efficienza della burocrazia alla divisione del lavoro «scientifica», mentre Crozier dimostra la negatività che può derivare dall’imposizione gerarchica dei compiti ai livelli inferiori dell’organizzazione, che si sentono per questo esclusi e lontani da quella razionalità che, secondo il modello classico di burocrazia, dovrebbe permeare tutta l’organizzazione; in questo modo si sviluppano comportamenti di resistenza che fondano su razionalità che non coincidono con quella generale della struttura organizzativa, ma con le tante razionalità che sono proprie delle diverse culture interne dei gruppi. Esiste una razionalità al plurale all’interno delle organizzazioni dove i soggetti sono attori razionali legati agli interessi personali, in netto contrasto con la razionalità ufficiale dell’organizzazione (Bonazzi 2002c). Da questo punto di vista si comprende anche che il mutamento non dipende mai dall’innovazione tecnica ma è un fatto politico che si verifica soltanto nel momento in cui si va oltre la solidarietà del gruppo (Maranini, in Crozier 1969). Il fenomeno burocratico si ridurrebbe perciò a un meccanismo lento e pesante, a una «manifestazione patologica dei sistemi sociali», a un susseguirsi di vuoti formalismi, di blocchi dei flussi comunicativi e informativi, di ostacoli alla collaborazione che sono tutto fuorché esempi di razionalità tecnica (ibid.). Se dunque Weber individuava i possibili rischi della burocrazia nella spersonalizzazione e nella disumanizzazione dei rapporti che poteva facilmente condurre all’adozione di comportamenti non etici e lontani dai valori, Crozier non vede tale pericolosità negli apparati, ma semmai nella mancanza di carisma e di fascino, nella loro rigidità e pignoleria, accanto a insperate nicchie di potere potenzialmente sfruttabili dagli individui. In questa cornice organizzativa Crozier fa emergere il carattere strategico di ogni azione adottata dai soggetti, anche quando si manifesta con la non partecipazione, la disaffezione, il distacco, l’indifferenza nei confronti dell’azione amministrativa. La causa di questo comportamento risiederebbe in un insieme di elementi che caratterizzano la pubblica amministrazione, dall’ampiezza dello sviluppo delle norme impersonali, dalla centralizzazione delle decisioni; dall’isolamento di ciascun strato o categoria gerarchica e il concomitante accrescimento della

pressione del gruppo sull’individuo; allo sviluppo di rapporti di potere paralleli, intorno alle zone residue di incertezza (Crozier 1969). Con il libro Il fenomeno burocratico sulla ricerca relativa al funzionamento di due amministrazioni statali, un istituto contabile presso il ministero delle Finanze e il Monopolio dei tabacchi, Crozier ottenne fama internazionale. Secondo l’analisi di Crozier le due amministrazioni erano acefale, le decisioni fondamentali dipendevano da un potere politico esterno, la dirigenza era nominata dal potere politico con criteri esclusivamente legali e burocratici, la struttura centralizzata piramidale e gerarchica, tutto il funzionamento si ispirava a regole rigide precise, impersonali, a cui la dirigenza era tenuta a uniformarsi senza libertà interpretative e senza iniziative autonome, le retribuzioni e l’assegnazione dei compiti erano regolate secondo il criterio di anzianità e l’impiego era garantito a vita. Con Crozier la burocrazia risultava essere lenta, pesante, poco efficiente, incapace di innovazione; la scarsa efficienza era dovuta al fatto che le burocrazie non operavano in condizioni di mercato, non si ispiravano a criteri di profitto, non dovevano competere con la concorrenza, non sentivano il bisogno di rinnovarsi. Lo studio dei rapporti sociali all’interno di questo tipo di organizzazioni fatto da Crozier delinea un microcosmo bloccato, stratificato, senza conflitti espliciti, con poche occasioni di comunicazione e di contatto sociale. Crozier scopre che i dipendenti svolgevano il lavoro strettamente previsto dal regolamento, i vari strati gerarchici tendevano a isolarsi, i rapporti formali e di cortesia, i contrasti aperti erano evitati. Nonostante il diffuso individualismo, esistevano meccanismi di difesa collettiva che sfociavano in un atteggiamento soddisfatto e aggressivo, fatto di ostilità verso le nuove tecnologie e di appelli ideologici all’unità di classe. Il fatto di essere acefale rendeva le burocrazie prive degli strumenti finanziari, politici, tecnici per decidere qualsiasi innovazione; la stessa cultura aziendale era ostile ai cambiamenti. La dirigenza interna si limitava a redigere per l’autorità giuridica e per l’autorità politica dei rapporti in cui si segnalavano le insoddisfazioni interne.

4. La leadership e la gestione delle conseguenze inattese per Selznick.

Con Crozier si conclude il percorso intellettuale che, a partire da Weber, aveva analizzato la questione burocratica e studiato la pubblica amministrazione concentrandosi maggiormente sull’esame degli aspetti endogeni e sul rapporto tra l’architettura amministrativa di tipo razionale, i soggetti e le loro strategie d’azione. Con Selznick8 si inaugura definitivamente una nuova stagione di studi che porrà al centro l’importanza del rapporto tra organizzazione e ambiente socio-culturale in cui le organizzazioni sono immerse. L’autore è infatti ritenuto il fondatore della prima fase, anni quaranta-sessanta, dell’istituzionalismo organizzativo interessato a capire il rapporto tra la sopravvivenza delle organizzazioni e il perseguimento delle finalità originarie. Il problema che Selznick e i suoi successori, nelle diverse ricerche empiriche svolte a partire da questo approccio, affronteranno sarà proprio quello di mettere a confronto questi due elementi. L’altra fase parte dagli anni settanta in poi e le due fasi hanno un tratto in comune che è quello di spiegare sia l’ordine che i mutamenti nelle organizzazioni risalendo al più ampio quadro istituzionale inteso come ambiente sociale e culturale. Selznick studierà i meccanismi degenerativi nelle organizzazioni pubbliche e semi-pubbliche che per statuto sono tenute a perseguire determinati obiettivi di interesse generale ma che poi, prese in una rete di influenze esterne, si allontanano da quegli obiettivi. Ai suoi esordi viene profondamente influenzato dal pensiero di Robert Michels, il sociologo italiano che all’inizio del XX secolo aveva studiato la degenerazione del sistema di rappresentanza nel Partito socialdemocratico tedesco. L’influenza di Michels su Selznick si rivolge al processo degenerativo che nasceva dai meccanismi impersonali che portavano ad anteporre la difesa del partito inteso come strumento di azione al perseguimento degli scopi per cui il partito stesso era nato. Nel 1949, appena trentenne, Philip Selznick pubblicò una ricerca sulla Tennessee Valley Authority, dal titolo TVA and the Grass Roots, che si sarebbe imposta come un classico dell’analisi organizzativa. Proprio questa ricerca, che diede notorietà al giovane Selznick, permise di evidenziare uno degli aspetti più qualificanti del suo pensiero: l’enfasi sulle influenze che centri di potere esterno, percepiti come istituzioni, esercitano sulle organizzazioni per indurle ad agire in conformità ai loro voleri.

Con l’approccio istituzionalista, di cui Selznick è il precursore, viene superato il rapporto tra soggetti e organizzazioni e viene messa in evidenza l’importanza delle grandi istituzioni nel condizionare i comportamenti umani. Tale scuola di pensiero, presente nelle scienze economiche, politiche e sociali, rifiuta di vedere la società come un aggregato di individui orientati a massimizzare le proprie utilità secondo criteri di razionalità sia pure limitata e pone in primo piano i condizionamenti di carattere materiale e simbolici che le istituzioni storiche (Stato, Chiesa ecc.) esercitano sugli orientamenti e sui comportamenti umani. Per queste ragioni l’istituzionalismo si differenzia dalle correnti razionaliste che spiegano i comportamenti umani in base a principî universali astratti della natura umana e dalla visione riduttiva dell’ambiente come insieme di fattori produttivi dotati di maggiore o minore turbolenza. Per l’istituzionalismo sono le istituzioni a plasmare la mappa mentale degli individui nei loro aspetti cognitivi e normativi, a suggerire sia i modi di agire che di conoscere, interpretare il mondo. Selznick parla del funzionalismo come di un pensiero rispetto al quale le istituzioni sono concepite come sistemi sociali che per sopravvivere devono soddisfare alcuni bisogni fondamentali. Il pessimismo di Selznick parte da un’analisi che concepisce il mutamento come risultato di logiche degenerative presenti nelle organizzazioni che, accettando compromessi esterni, si allontanano dai loro scopi originari. L’oggetto di studio di Selznick, poiché si rivolge alle organizzazioni pubbliche o semipubbliche che hanno come scopo il perseguimento di obiettivi di interesse generale anche se poi gli stessi obiettivi vengono abbandonati, dimostra che si innesca un processo degenerativo proprio nell’azione dei centri di potere esterno (a differenza di Crozier, che trova le logiche degenerative nelle strategie degli individui). Vengono definite le organizzazioni formali come degli strumenti razionalmente orientati al raggiungimento di determinati scopi, dove ognuna di esse ha una sua catena di comando, competenze tecniche e manageriali e una divisione del lavoro. In tutte le forme di organizzazione, intese come «sistemi cooperativi», quale che sia la loro forma e la loro funzione e che siano esse economiche, politiche, sociali, religiose, militari o ricreative, gli individui con diversi piani di vita e diverse preferenze soggettive sono spinti a collaborare alla realizzazione degli scopi dell’organizzazione di cui fanno parte. Si cerca un delicato equilibrio tra i fini dell’organizzazione e i moventi personali dei

singoli membri, la cui soddisfazione non è risolvibile semplicemente attraverso il ricorso a incentivi di tipo economico (Barnard 1938). A Selznick preme esplorare i paradossi, le tensioni e i dilemmi che scaturiscono dal rapporto tra i soggetti e le organizzazioni. I soggetti tendono a fuoriuscire dai ruoli assegnati, a partecipare nella loro totalità di persone, a resistere alla spersonalizzazione. Con queste premesse si può affermare che l’istituzionalizzazione è un processo in base al quale componenti individuali o pratiche sociali che si ripetono in modo regolare e costante vengono percepite come istituzioni, strutture relativamente stabili indipendente dal loro grado di legittimità formale. Esistono comportamenti informali istituzionalizzati sia dentro che fuori le organizzazioni. Tra gli effetti dell’istituzionalizzazione vi è che essa porta a considerare le deviazioni dalle norme come aspetti strutturali delle organizzazioni formali; tra le istituzioni informali ci sono le cliques o cricche basate su relazioni personali, attraverso cui alcuni membri interni alle organizzazioni cercano di controllare l’ambiente in cui si prendono decisioni organizzative. Anche le cricche fanno parte integrante del sistema cooperativo, il loro carattere istituzionale porta a studiare le funzioni che esse svolgono nelle organizzazioni a prescindere dalle personalità dei soggetti che le compongono. Le cricche obbediscono a logiche d’azione che superano la personalità dei membri che ne fanno parte. Un concetto fondamentale affrontato da Selznick è la recalcitranza dei mezzi, ossia l’organizzazione vista come uno strumento indispensabile per raggiungere un obiettivo, ma al contempo come uno strumento imperfetto che deforma l’obiettivo verso cui tende. Oggetto di questa riflessione è il modo in cui, in nome della sopravvivenza dell’organizzazione, i responsabili dell’organizzazione accettano progressivi spostamenti dagli scopi e dallo spirito originario dell’organizzazione stessa. Successivamente alla ricerca sulla Tva (nelle righe che seguono sarà descritta nei dettagli) Selznick si rende conto di un problema che necessita di una risposta, ovvero se le organizzazioni subiscono le pressioni dei centri di potere esterno; ne consegue che queste ultime hanno una loro struttura organizzativa che al tempo stesso subisce pressioni da altri ambienti esterni. Dunque, vi sono organizzazioni che subiscono pressioni e altre che esercitano pressioni e occorre stabilire in base a quale criterio si possono distinguere queste organizzazioni.

Selznick, con il suo studio sulla leadership nelle organizzazioni del 1957, definisce questo criterio affermando che le ragioni non vanno ricercate nelle pressioni esterne a cui le organizzazioni sono costrette ad adattarsi, ma nelle iniziative che la leadership prende per dare degli scopi alle organizzazioni e per creare nei suoi membri il consenso necessario a raggiungerli; non è detto che le organizzazioni siano costrette a tradire gli obiettivi originari ma possono raggiungerli se sono dirette da una leadership efficace e se sono presenti determinate condizioni per ottenere i risultati preposti. Selznick chiarisce a questo proposito che occorre distinguere due tipi di organizzazioni: quelle strumentali, che si limitano a svolgere servizi tecnici, e quelle denominate istituzioni, capaci di una progettualità politica. Mentre nelle organizzazioni strumentali contano l’efficienza amministrativa e le procedure razionalmente orientate a fini tecnici, nelle organizzazioni istituzioni conta definire e proporre dei valori, avere un’identità e un progetto che le distingua dall’essere semplici strumenti tecnici9; solo queste ultime hanno una leadership ed esercitano un’influenza sull’ambiente circostante. Così come è necessario distinguere sulle tipologie di decisioni che possono essere di routine o critiche. Le prime rientrano nell’ordinaria amministrazione, riguardano le organizzazioni di servizio e possono essere giudicate in termini di efficienza tecnica. Le seconde rientrano invece nella sfera della leadership perché riguardano la definizione dei valori e degli scopi che diviene il tratto caratterizzante delle istituzioni in grado di esprimere la volontà politica di mobilitarsi per definire degli scopi e per raggiungerli. La leadership non è mai un mero adattamento passivo alle spinte esterne, ma è sempre un’attività creativa che rende l’istituzione un soggetto capace di prendere iniziative. Essa si manifesta attraverso quattro funzioni fondamentali. La prima funzione è quella di definire la missione e il ruolo dell’istituzione ossia indicare la prospettiva generale di azione che ricomprende e subordina tutte le attività di routine. La seconda è quella di dare uno scopo all’organizzazione che cerca di creare un’identità collettiva in modo che tutti i membri possano interiorizzare gli stessi scopi e che le attività non debbano essere delle routine ma rappresentare un impegno creativo e un’esperienza critica per indicare una prospettiva di azione in rapporto alla quale tutte le attività di routine devono essere subordinate. La

terza funzione difende l’integrità istituzionale con una leadership capace di ridefinire continuamente l’azione svolta mediante bilanci, celebrazioni, analisi critiche; esaminando gli eventi passati può interpretare i problemi del presente, svolgendo una funzione simbolica e comunicativa. L’ultima funzione è quella di mediazione e di composizione dei conflitti interni; conflitti che non possono essere risolti solo attraverso l’imposizione autoritaria di un esito, ma ottenuti con il consenso da entrambe le parti, con il solo scopo di aumentare il consenso di cui deve godere la leadership. Le iniziative che la leadership prende per dare scopi all’organizzazione e per creare nei suoi membri il consenso necessario a raggiungerli comportano un’attività creativa che può essere svolta da una persona sola o da un gruppo dirigente. Selznick indica, inoltre, tre principali rischi nell’esercizio della leadership, a partire dalla fuga nella tecnologia che si determina quando alla leadership mancano gli obiettivi strategici e si concentra sull’acquisizione di mezzi come se fossero un surrogato dei fini. Un altro rischio è legato all’opportunismo che si determina quando si perseguono fini a breve termine senza visioni di largo respiro, con un conseguente pericolo di perdita di identità dell’istituzione che rincorre obiettivi incoerenti. L’ultimo rischio è quello dell’utopismo che si ha quando si perseguono obiettivi non raggiungibili in base a considerazioni puramente ideologiche. Portato alle estreme conseguenze, l’utopismo può condurre anche all’opportunismo. Alla luce di quanto dimostrato da Selznick sulla concezione di leadership di seguito sarà descritta e riletta sia la ricerca sulla Tva che quella sulla leadership con la consapevolezza che entrambe definiscono un solo e costante oggetto di ricerca, quello dei rapporti di potere tra le organizzazioni e dei mutamenti provocati da tali rapporti. Selznick sostiene, infatti, che per un verso le organizzazioni possono essere oggetto di pressioni da parte dei poteri esterni e che possono cambiare per effetto di quelle pressioni. Per un altro verso, se guidate da una leadership, possono diventare esse stesse soggetti capaci di esercitare pressioni sull’ambiente esterno e di indurlo a uniformarsi ai loro obiettivi (in questo caso Selznick parla di istituzioni). Con queste considerazioni appena enunciate si traggono alcune prime conclusioni, una è riferita alla fonte del mutamento istituzionale che risiede nell’iniziativa umana, a patto che sappia imporsi come leadership, l’altra conclusione stabilisce che sono

le istituzioni a formare il quadro dei poteri forti di cui bisogna tenere conto per capire cosa avviene nelle altre organizzazioni e nella società in generale. Dunque, il celebre lavoro di Selznick, condotto negli anni quaranta all’ente statale Tennessee Valley Authority (Tva) e nato nell’ambito del New Deal roosveltiano, mette in risalto le capacità adattive dell’organizzazione che per garantirsi la propria continuità scende a patti con la realtà circostante e soprattutto con le lobby locali che detengono maggior potere. Per compiere questo lavoro Selznick trascorse vari mesi nel Tennessee, esplorò il materiale disponibile negli archivi e fece interviste in profondità con diverse decine di persone, dai dirigenti e dal personale della Tva ai maggiorenti locali. C’era da considerare che la Tva era un ente voluto negli anni trenta dal presidente Roosevelt, appunto nel quadro del New Deal, ovvero una politica di intervento statale orientata a superare la crisi economica del 1929. Questo ente era nato per realizzare – attraverso un vasto programma di opere pubbliche – lo sviluppo economico e sociale della vallata del Tennessee e per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni residenti in quel territorio; un’iniziativa totalmente nuova nel panorama politico e legislativo americano. La Tva doveva costruire dighe, centrali elettriche, produrre e distribuire i fertilizzanti chimici a basso costo. Una ricerca, dunque, che nacque sotto il segno della polemica perché venne dimostrato che la politica della dirigenza era volta a superare le opposizioni preconcette e conquistare la fiducia degli enti locali. La caratteristica peculiare di quest’ente era, infatti, la piena autonomia d’iniziativa di cui era stata investita, che la rendeva simile a un’azienda privata, con l’eccezione verso una serie di controlli amministrativi e federali che avrebbero appesantito la sua azione. Le fu concesso uno stanziamento annuo e la possibilità di riutilizzare per la propria gestione ordinaria gli utili ricavati dalla vendita dell’energia elettrica e dei prodotti chimici. Nei campi di attività affidati alla Tva, dovendosi comportare con la libertà d’iniziativa di un’impresa privata e non dovendo assumersi la massimizzazione dei profitti, fu inevitabile provocare polemiche dovute alla contraddizione di unificare come azienda sia il potere di un ente statale che i vantaggi di un’impresa privata. Questa condizione poteva costituire una minaccia al sistema concorrenziale americano della libera impresa. Nel suo resoconto sulla ricerca Selznick ipotizza che alla Tva si ponevano prevedere due alternative: o eseguire i suoi programmi con

un’azione diretta, oppure sviluppare un metodo che ricercasse e stabilisse la mediazione delle istituzioni locali fra la Tva e la popolazione della zona. I dirigenti della Tva si resero subito conto che un programma federale imposto dall’alto era condannato al fallimento e decisero di decentrare i dipartimenti sul territorio coinvolgendo il più possibile gli enti locali, le associazioni professionali, le comunità etniche, l’università, le organizzazioni volontarie e tutti gli uffici statali e federali disposti a cooperare. La scelta appariva tanto più giusta in quanto conforme al credo politico americano delle «radici dell’erba» (the grass roots), espressione che nel gergo politico di quel paese indicava la democrazia dal basso nata nei paesi di frontiera in opposizione alle «stanze fumose» della capitale. La collaborazione con le istituzioni locali, in nome degli interessi generali della popolazione, divenne così il manifesto ideologico della Tva. Per Selznick era fondamentale capire cosa volesse dire realmente una strategia basata sugli «interessi della popolazione» e su «istituzioni legate alla popolazione», concludendo che bisognava considerarle semplicemente delle astrazioni indeterminate, con una funzione ideologica di copertura. Poiché nella società locale vi erano interessi sociali contrapposti, la Tva si trovava nelle condizioni di dover scegliere con chi schierarsi: o portare avanti un programma radicale di tutela degli strati più deboli ed emarginati, oppure adottare un programma più cauto e conservatore che non provocasse l’ostilità dei maggiorenti locali. E siccome questi ultimi erano meglio rappresentati dei primi nelle associazioni locali, ne conseguiva che l’intenzione della Tva di soddisfare la domanda espressa attraverso i canali di rappresentanza locali significava di fatto favorire i ceti privilegiati. La Tva finì così con il favorire i ricchi proprietari terrieri invece delle popolazioni più svantaggiate. Tra l’orientamento originario della Tva e la sua prassi si determinò un crescente scostamento che richiedeva continue giustificazioni ideologiche in nome della necessità di fare scelte corrispondenti alle concrete esigenze dell’ambiente. I progressivi compromessi con le fonti locali di potere provocarono una tale involuzione della Tva da porla in contrasto con altri enti federali, anch’essi creati nel quadro del New Deal. Una situazione così politicamente paradossale che la Tva si astenne dall’appoggiare degli organismi di cui condivideva lo spirito politico e si alleò invece con i rispettivi nemici. La necessità della Tva di soddisfare la domanda espressa dei canali di rappresentanza locali favorì i ceti privilegiati, determinando uno

scostamento crescente con il suo orientamento originario e con un ricorso a giustificazioni ideologiche in nome della necessità di fare scelte che rispondessero alle concrete esigenze dell’ambiente. Un lavoro di ricerca in qualche modo orientato rispetto a quanto aveva recepito del messaggio pessimistico di Michels, ovvero di esaminare i processi degenerativi provocati dalla tirannia dei mezzi sui fini. Il libro di Selznick sulla Tennessee Valley Autority non solo rimane l’opera più nota ma ha anche influenzato il suo successivo percorso intellettuale. Secondo l’autore le organizzazioni, per difendersi dalle minacce provenienti dall’esterno e per scongiurarne le pressioni, devono dotarsi di strumenti idonei, come l’istituto della cooptazione, e, nel caso della Tva, la stessa vi fece largo ricorso per coinvolgere le forze locali nell’attuazione del suo programma. Selznick definisce la cooptazione come il processo di assorbimento di nuovi elementi nella direzione o nella struttura che determina la politica di un’organizzazione, come mezzo per prevenire minacce alla sua stabilità e alla sua esistenza. Quando un’organizzazione si sente minacciata da pericoli esterni, un modo per difendersi è quello di cooptare dei rappresentanti dell’ambiente da cui provengono le minacce. La cooptazione è una strategia razionale per disinnescare conflitti pericolosi, ma in certe condizioni può rischiare di mettere in discussione la stessa ragion d’essere dell’organizzazione. Dunque, i meccanismi attraverso i quali l’organizzazione dialoga e accetta compromessi sono quelli della cooptazione sia formale che informale, utilizzati non soltanto per cercare consenso e legittimazione, ma per disinnescare meccanismi pericolosi e conflittuali (Selznick 1974b). Con questa impostazione una direzione amministrativa deve trovare l’appoggio delle istituzioni locali e sviluppare armonici rapporti di lavoro con esse. Deve, inoltre, evitare che si crei un’atmosfera continua di crisi e di conflitto che può portare in un primo tempo a disorganizzazione e a frustrazione, e a lungo andare all’affioramento di gravi minacce per l’esistenza stessa dell’organizzazione. Una delle conseguenze inattese della burocrazia si determina quando un’organizzazione, una volta istituita, deve confrontarsi con l’ambiente e deve accettare soluzioni non ideali, imposizioni esterne e costrizioni per poter continuare ad agire sul campo. Le organizzazioni spesso in momenti

cruciali si trovano coinvolte in un tentativo di coprire il divario fra quello che vogliono e quello che possono fare; generalmente il conflitto si risolve con un compromesso fra i desideri e le possibilità (ibid.). È in questa circostanza che Selznick parlerà di «recalcitranza dei mezzi»10 proprio per segnalare questa distorsione e questo gap che si viene a formare tra un’organizzazione vista come mezzo indispensabile per raggiungere un obiettivo e un’organizzazione considerata come strumento imperfetto che distorce e allontana la meta prefissata. Le conseguenze inattese non sono solo una possibilità del caso ma sono inevitabili alla stessa stregua della burocrazia e dei suoi inconvenienti (Gouldner 1955)11. Il concetto di recalcitranza sarà attenuato da Selznick nel lavoro successivo del 1957, per superare il pessimismo e lasciare aperto qualche spiraglio di autonomia dell’organizzazione. La visione dell’organizzazione cambia perché viene considerata come soggetto capace di perseguire gli obiettivi, di influenzare i rapporti di forza del contesto e di affermare dei valori grazie a una leadership efficace che è chiamata a occuparsi soprattutto di consenso della base per ottenere i fini prestabiliti. La distinzione che Selznick propone per i due tipi di cooptazione (quella formale e quella informale o sostanziale) ci aiuta a capire che nel caso della cooptazione formale siamo di fronte a un’organizzazione che assorbe ufficialmente nuovi elementi attraverso l’allargamento degli organi direttivi o la creazione di nuovi ruoli. Tale cooptazione si rende necessaria quando il carattere legittimo di un ente o del suo gruppo direttivo è contestato da una componente rilevante della popolazione interessata; oppure quando il bisogno di promuovere la partecipazione di strati più larghi di popolazione suggerisce di concedere delle forme di autogoverno. La stessa può essere considerata come la risposta che l’organizzazione fornisce in una situazione di difficoltà provocata dalla mancanza di consenso da parte della base, consentendo un allargamento della base del consenso sulle decisioni da prendere12. La cooptazione informale o sostanziale obbedisce a una logica differente perché il suo scopo non è quello di allargare la base del consenso popolare a una linea politica che resta immutata, ma è quello di fronteggiare delle minacce provenienti da centri di potere esterno. Di fronte alla prospettiva di una lotta faticosa e incerta, l’organizzazione può giungere alla decisione che sia più vantaggioso venire a patti con quei centri. Ciò può avvenire in due modi: o inserendo alcuni esponenti del potere esterno

all’interno dei propri organi decisionali, o accettando di fatto le loro richieste. In tal modo è vero che viene garantita la sopravvivenza dell’organizzazione ma il prezzo può essere quello di alterarne il programma originario. Questo tipo di cooptazione è di norma destinato a rimanere informale (e talvolta persino ufficialmente negato) perché le forze esterne sono interessate alla sostanza del potere e non alle sue forme. I due tipi di cooptazione implicano un diverso rapporto con l’ideologia ufficiale dell’organizzazione: quella formale trova una facile legittimazione nell’ideologia dell’organizzazione stessa, quella informale contraddice i valori e gli orientamenti ideologici dichiarati. Di conseguenza quanto più rilevante è la cooptazione informale, tanto più profondo diventa il solco tra la condotta pratica dell’organizzazione e il suo bagaglio ideologico. La distinzione tra cooptazione formale e informale rappresenta appunto lo strumento con cui Selznick esamina le iniziative palesi e i compromessi nascosti compiuti dalla Tva. Attraverso i molti casi di cooptazione sostanziale, dovuti soprattutto alle pressioni esercitate dalla lobby dei grandi proprietari terrieri e facilitate dalla struttura decentrata della Tva, i progressivi compromessi fatti con i poteri locali portarono di fatto all’abbandono degli obiettivi originari di sviluppo sociale. Le cooptazioni formali, coerenti con il principio di democrazia, si sovrapposero alle cooptazioni informali o sostanziali che condizionarono la politica della Tva. Queste ultime avvennero a opera delle pressioni esercitate dai grandi proprietari terrieri, i funzionari della Tva addetti all’agricoltura svilupparono intensi rapporti di collaborazione con i proprietari terrieri come se fossero una loro clientela amministrativa. Tale rapporto clientelare per Selznick era una cooptazione nascosta. I grandi proprietari riuscirono a far modificare l’indirizzo sociale del programma originario di promozione e di assistenza dei piccoli contadini, imponendo un’estensione minima all’ampiezza delle proprietà agricole da agevolare, una soglia minima di consumo dei fertilizzanti a basso costo venduti dalla Tva. Relativamente alla questione di acquisto di aree per i serbatoi idrici delle dighe, i grandi proprietari riuscirono a limitare l’acquisto di terre per serbatoi al minimo necessario e a ottenere la rinuncia della Tva alla fascia protetta. La Tva, benché fosse nata dal New Deal, si alleò con i nemici degli organismi con i quali divideva lo spirito politico. Così la parte tecnica del programma (rimboscamento, costruzione di dighe e centrali elettriche,

produzione di fertilizzanti) fu compiuta secondo le previsioni, la parte sociale subì un sostanziale tradimento. L’approfondimento sulle conseguenze inattese nelle organizzazioni burocratiche si arricchisce con l’analisi del contesto esterno che non viene considerato come soltanto lo sfondo su cui l’organizzazione agisce, ma come l’insieme dei centri di potere che operano per condizionare strategie e fini dell’organizzazione. Nell’ideale processo di allontanamento da Weber, Selznick disegna quindi un paesaggio più vario, popolato di altri incontri e altri percorsi. In particolare l’avere integrato l’ambiente come causa di trasformazione della realtà burocratica costituisce una novità di tale portata da segnare profondamente i futuri indirizzi di ricerca della sociologia delle organizzazioni. Infatti, le inefficienze che la burocrazia produce non sono date da fattori ed elementi interni che delineano una cultura antitetica al mutamento e allo stesso tempo funzionale al mantenimento dello status quo come l’eccesso di regolamentazione piuttosto che l’incapacità addestrata di mertoniana memoria o i circoli viziosi di Crozier. Le inefficienze, al contrario, sono considerate come il mancato raggiungimento dei fini prestabiliti dall’organizzazione, dipendono dal rapporto che si stabilisce tra organizzazione e ambiente e dall’imperativo alla sopravvivenza e alla tutela dello strumento organizzativo in quanto tale. Il mutamento concepito come il risultato di logiche degenerative presenti nelle organizzazioni appare, da un certo punto di vista, inevitabile: se nella teoria burocratica weberiana era la stasi che prevaleva e l’ingessatura dell’organizzazione che nella sua struttura gerarchica e statica trovava, in una visione ideale, il motivo della sua efficienza, per Selznick il mutamento, sebbene non ricercato e voluto, appare come l’unica via per la sopravvivenza, il compromesso necessario attraverso il quale l’organizzazione riesce a soddisfare i suoi bisogni fondamentali. L’ambiente entra in scena nell’analisi dell’autore non soltanto come sfondo sociale e culturale entro il quale le organizzazioni operano, ma viene concepito come un insieme di centri di potere che agiscono per condizionare e vincolare il comportamento organizzativo, costringendo l’organizzazione stessa a modificare fini originari e strategie per poter continuare la sua azione. I costi di adattamento dell’organizzazione fungono perciò da garanzia stessa di sopravvivenza. Rispetto al tradizionale modo di

affrontare la questione burocratica, Selznick tratta i temi relativi alla funzione sociale e politica attuata dall’organizzazione nei confronti dell’esterno. Dal tipo di analisi istituzionalista che conduce Selznick appare evidente che il contesto ambientale delle organizzazioni è molto mutato rispetto agli anni precedenti. Se nel passato cambiare significava destabilizzare la struttura organizzativa burocratica, nelle nuove condizioni il cambiamento appare per l’organizzazione l’unica arma per sopravvivere. Gli stessi neoistituzionalisti riprenderanno questi aspetti per superarli ed evidenziarne gli avvenuti cambiamenti del nuovo contesto sociale, economico, politico e culturale in cui si trovano a operare le organizzazioni. La modifica dei fini originari di un’organizzazione non significa necessariamente una trasformazione del suo operato, ma un adattamento della stessa alle sollecitazioni provenienti dall’ambiente esterno, che si manifestano con comportamenti adattivi sia dei singoli che di tutta l’organizzazione. D’altra parte oggi appare scontato e normale che l’ambiente sempre più complesso e ricco di istituzioni private, pubbliche e pubblico-private contempli un’azione di normazione e controllo sulle attività di qualsiasi ente (Bonazzi 2002b). Alla luce di quanto dimostrato sull’analisi condotta alla Tva la stessa può essere in parte riletta anche se alcune ambiguità comunque restano nel pensiero dell’autore; ambiguità che hanno a che fare con il grado di predeterminazione di questo meccanismo di influenza dell’ambiente sulle organizzazioni e dei gradi di libertà della stessa organizzazione. Queste ultime possono subire pressioni esterne da parte di poteri forti e quindi modificarsi in funzione di tali influenze. Possono, però, grazie a una buona leadership trasformarsi anche in istituzioni e esercitare, a loro volta, la stessa pressione su altre organizzazioni dell’ambiente e sui poteri locali. In ultima istanza il cambiamento si ha solo per effetto delle azioni umane purché appartengano a una leadership efficace. Nonostante l’accento posto da Selznick sull’azione individuale e sul ruolo della leadership bisogna anche considerare la valenza olistica della sua teoria (Parri 1995): l’organizzazione, una volta acquisita un’identità distintiva e dei valori che la connotano, si trasforma in un’istituzione acquisendo la capacità di adattarsi, più o meno intenzionalmente, alle condizioni dell’ambiente esterno.

Si riesce ad attuare adattamento e cambiamento non tanto per mere esigenze organizzative e per il perseguimento di una maggiore efficienza interna, ma proprio grazie a processi esterni ai quali le organizzazioni si adeguano, influenzate da un ambiente che è considerato dal punto di vista sociale, economico, politico e culturale e dunque istituzionale (Scott 1998).

5. Simon: razionalità limitata e processi decisionali. L’opera di Herbert Alexander Simon13 è fortemente interdisciplinare in quanto il filo rosso che lega tutte le sue ricerche e i suoi studi fu l’idea che l’human behavior può essere studiato scientificamente. I suoi studi hanno rivoluzionato i fondamenti della psicologia cognitiva. Padre dell’approccio psicologico Human Information Processing, egli tentò di modellizzare artificialmente quello che avviene nella mente umana e dedicò buona parte della sua carriera allo studio, alla ricerca e alla simulazione di diversi fenomeni cognitivi. Il lavoro di Herbert Simon, ragionando sulle logiche di azione all’interno delle organizzazioni, rappresenta un importante contributo che pone in evidenza il criterio di razionalità limitata alla base dei processi decisionali interni alle organizzazioni. Per Simon i soggetti, e soprattutto le decisioni che assumono, sono un oggetto di studio organizzativo di un certo rilievo, implicando un riferimento fondamentale a informazioni, vincoli, procedure e motivazioni. In tal senso, la razionalità acquista un carattere di limitatezza derivante proprio dai confini della razionalità umana non volta alla massima efficienza ma regolata da un criterio di sufficienza. In un continuum mezzi-fini per Simon un fine, ottenuto in base a scelte di valore, diviene mezzo per il raggiungimento di un fine successivo; dando una continuità teorica in chiave metodologica al pensiero di John Dewey (Dewey 2000). Per il filosofo americano mezzi e fini rappresentano due termini per indicare la stessa cosa; entrambi costituiscono infatti il medesimo strumento di regolazione dell’agire, però considerato in momenti temporali differenti. Lo scopo è il mezzo attraverso cui un’attività presente acquista un significato, è la traccia che rende chiara la strada da percorrere; il fine costituisce un fattore di organizzazione delle attività che ha senso solo in relazione a una data situazione e si riferisce alle modalità più adatte per rimuovere gli ostacoli presenti in essa. L’impossibilità di separare i

mezzi dai fini è il cardine della concezione deweyana di democrazia, nell’accezione di collaborazione e partecipazione a fini comuni non già presupposti. Visto in chiave metodologica tale modello teorico suggerisce l’importanza che negli studi organizzativi si rappresenti la razionalità dei soggetti che ne fanno parte come un qualcosa di limitato e connesso a una catena mezzi-fini imperfetta e non massimamente efficiente. Implica, inoltre, l’impossibilità di disgiungere i mezzi dai fini nell’analisi come se entrambi fossero entità indipendenti nella catena dell’azione umana in seno all’organizzazione. Come dimostrato nelle pagine precedenti, anche nel pensiero di Crozier la razionalità non appartiene solo all’organizzazione ma alle persone e alla loro capacità di muoversi in modo strategico all’interno dell’organizzazione stessa; tale razionalità tuttavia può divergere sostanzialmente o non essere coerente con quanto previsto dall’organizzazione. A questo proposito Simon distingue due categorie di giudizi: i giudizi di fatto e i giudizi di valore. I giudizi di fatto riguardano eventi avvenuti o previsti nel mondo sensibile ed è sempre possibile verificare se sono veri o falsi; mentre le decisioni sono quelle riguardanti i mezzi per raggiungere un determinato fine. I giudizi di valore esprimono la preferenza per un certo stato di cose, sono di natura etica, estetica, ideologica, emotiva, non è possibile verificare empiricamente se sono veri o falsi; mentre le decisioni sono quelle riguardanti i mezzi per raggiungere il fine. Nei concreti processi decisionali, la distinzione tra questi due giudizi non è facile, né si può valutare la bontà di uno scopo disgiungendolo dai mezzi necessari per raggiungerlo. Se il fine non giustifica i mezzi la desiderabilità degli scopi può essere stabilita prescindendo dai mezzi che si sceglie di usare per raggiungerli. Il giudizio di valore sugli scopi cambia nel quadro generale di un giudizio su un contesto in cui si collocano e nuovi scopi possono emergere nel proseguo del continuum tra mezzi e fini. Inoltre l’agire in una catena di decisioni dove quelle precedenti sono strumentali alle successive garantisce la coerenza del comportamento umano e consente di affermare che questo è orientato a criteri di razionalità. Pertanto, Simon definisce la razionalità come la selezione di alternative di comportamenti preferiti in rapporto a un sistema di valori in base al quale sia possibile valutare le conseguenze del comportamento, ma la coerenza tra

mezzi e fini non è solo espressione di razionalità perché in essa si forma la stessa identità sociale di un soggetto, il suo carattere e la sua immagine. Ciò che la persona ama e vuole influenza ciò che la persona vede, e ciò che vede influenza ciò che vuole e ama. Infine, la razionalità umana è limitata, la catena mezzi-fini è sempre vaga e incompleta, può essere precisa su un arco di tempo breve, se il fine è remoto il concatenamento tra azioni diventa debole e sfuggente. Simon riconosce il suo debito a Barnard sulla visione delle organizzazioni come strumenti cooperativi e sull’equilibrio tra i contributi e gli incentivi, ma sposta il suo oggetto di analisi a un livello più astratto, lo individua nei processi decisionali che avvengono all’interno delle organizzazioni. Le decisioni sono prese in base a criteri di razionalità limitata. Tale concetto sancisce la continuità della condizione umana dalle organizzazioni più complesse e formali alla sfera più intima e privata; a seconda delle situazioni cambiano gli strumenti di supporto e le procedure per prendere decisioni ma non cambia il fatto che qualunque decisione, sia pubblica che privata, è presa scontando l’impossibilità di una razionalità assoluta, accettando sia pure un margine minimo di rischio, congettura e soggettività. Per esaminare ciò che avviene all’interno delle organizzazioni si deve inoltre partire dall’azione dei soggetti. Non basta vedere i moventi dei soggetti a partecipare a un’organizzazione ma bisogna considerare che sono i soggetti a costruire le organizzazioni che, per quanto grandi e complesse, sono sempre frutto dell’iniziativa umana e a questa bisogna risalire per comprendere successi, difetti e fallimenti delle organizzazioni stesse. Simon critica la letteratura manageriale che concepiva l’organizzazione come una struttura composta da un insieme di ruoli collegati da canali formali di comunicazione e controllo, per lui il concetto di ruolo è troppo generico per offrire indicazioni sui comportamenti effettivi dei soggetti. Pertanto l’oggetto dell’analisi organizzativa per eccellenza non è il ruolo ma la decisione, che è un’unità di analisi molto più piccola e sottile di quella di ruolo e dipende da numerose premesse che occorre esaminare; bisogna creare un quadro teorico che permetta di studiare in che modo informazioni, vincoli, procedure e motivazioni dei singoli soggetti concorrono a formare le decisioni. Per Simon un’organizzazione deve ridurre la distribuzione delle informazioni tra i suoi membri, attraverso la specializzazione delle strutture

organizzative, al fine di elaborare in maniera semplificata la complessità dei problemi. In questo contesto la conoscenza inespressa o tacita (Polanyi 1967) è un ostacolo al percorso logico che conduce la mente umana a elaborare informazioni e decisioni: dimensione questa molto più rilevante rispetto ad altre componenti informative dal carattere comportamentale e implicito nella vita dell’organizzazione e dei suoi problemi. Simon si inseriva, quindi, in una visione scientifica dell’organizzazione, al contrario di altri autori che posero in discussione quel modello. In particolare March e Olsen (March - Olsen 1976) sottolinearono nel processo decisionale la presenza di ambiguità e irrazionalità, proprio in virtù della sensazione che nelle organizzazioni i significati siano assegnati solo retrospettivamente; inoltre esiste una relazione dell’organizzazione con l’ambiente esterno in chiave adattativa, compiendo una «rivoluzione culturale» (Zan 1988), fondata sull’incontro dei modelli di indeterminatezza e razionalità, laddove lo spazio esterno si definisce e costruisce nel rapporto stesso con l’organizzazione. La disamina sulle decisioni porta Simon a un’ulteriore riflessione sulle stesse relativamente alle decisioni critiche e a quelle routinarie dando significato all’importanza delle procedure. La complessità delle decisioni organizzative, infatti, implica il fatto che coinvolgono più persone, sono formali, seguono procedure prescritte e hanno conseguenze socialmente rilevanti, a differenza delle decisioni inerenti alla vita privata. Mentre Barnard insiste sui limiti fisici, Simon su quelli mentali. Ne consegue che l’organizzazione è un sistema cooperativo che non si limita a coordinare i compiti dei membri per raggiungere certi obiettivi, ma che conserva e accumula nel tempo la memoria di quei coordinamenti, con le decisioni prese, i risultati acquisiti, le esperienze fatte, gli errori commessi ecc. Il tempo è fondamentale per lo sviluppo di un processo di apprendimento (learning process) che consenta di selezionare e codificare la somma dei saperi utili ad affrontare i vari tipi di problemi che l’organizzazione deve affrontare. Uno dei modi efficaci per espandere la razionalità limitata è quello di trarre giovamento dalle esperienze passate. Affinché possano porsi obiettivi complessi occorre che i soggetti non debbano prendere decisioni nuove per ogni singolo atto che compiono e che possano ricorrere il più possibile a delle procedure, a sequenze di decisioni prestabilite in base a esperienze e a

calcoli, e questo vale sia per le attività di routine sia per le questioni più critiche. Le procedure, inoltre, non si limitano a fornire gli schemi per affrontare problemi che si pongono nella vita di un’organizzazione, esse servono anche ad assorbire l’incertezza di coloro che devono decidere; vi è incertezza quando mancano prove sicure sulla validità o attendibilità dei dati disponibili. Anche se l’esplorazione completa non è possibile, si decide in base a indicatori che stanno al posto di prove certe, ma ai quali i calcoli e le esperienze precedenti conferiscono un grado accettabile di probabilità. Per capire il comportamento umano si decide cercando una soluzione soddisfacente e non ottimale; si decide man mano che si procede scegliendo fra programmi di azione già disponibili nel repertorio dell’organizzazione; infine si esegue il programma d’azione prescelto in semi-indipendenza da altri programmi. La limitata connessione tra le varie parti di un’organizzazione è un requisito indispensabile per il suo funzionamento. Due differenti contributi vengono offerti all’analisi organizzativa e che si integrano rispetto a quanto elaborato da Simon. Il primo è attribuibile a Donald Roy che introduce categorie d’analisi utili a interpretare il comportamento degli individui in un contesto lavorativo con particolare riferimento all’impegno e al confronto tra fatica e salario. Per Roy gli obiettivi produttivi esulano da calcoli razionali relativi al mero guadagno andando a incidere su di essi aspetti legati alla soggettività dei lavoratori nel contesto organizzativo (Roy 1952). Il secondo contributo rimanda a quanto già analizzato dal pensiero di Selznick relativamente ai rapporti tra soggetti e organizzazione e al concetto di sistema sociale. In questo rapporto ciascuna parte opera per il raggiungimento degli scopi previsti dal tutto; ciò implica la capacità per l’organizzazione di rigenerarsi sempre a prescindere dai soggetti che ne fanno parte, ma che insieme all’ambiente esterno possono configurarsi come fonte di stress e tensioni (Selznick 1974a). Simon si concentra su l’uomo amministrativo che per decidere deve ridurre la complessità; un decisore, dunque, dalla limitata razionalità che non ricerca l’optimum, cioè che non sceglie l’alternativa migliore (in assoluto) tra tutte quelle possibili, ma, per contro, cerca una soluzione pur sempre razionale, e in particolare quella che gli consente di «soddisfare» le proprie preferenze e i propri obiettivi (Simon 1979). Un uomo amministrativo molto simile all’uomo comune, che nella propria esistenza

quotidiana è costantemente alle prese con problemi decisionali, che affronta grazie a strategie e a sotterfugi piuttosto che dispiegando pomposi quanto irrealistici piani. I processi decisionali sono processi di ricerca e non processi di ragionamento deduttivo (Grandori 1995). Lo schema decisionale della razionalità limitata, per un verso, considera la presenza di limiti cognitivi, con un’elevata incertezza relativa ai mezzi, alle alternative e agli effetti; per l’altro verso, prende in considerazione un elevato livello di consenso sui fini, che delinea una situazione di decisore unico. Simon è preoccupato che il criterio della congruenza sui fini/valori potrebbe generare qualche fraintendimento perché non è detto che i decisori agiscano sempre in armonia ma che ci possa essere un conflitto tra obiettivi. La sua attenzione si concentra sui limiti cognitivi della razionalità umana che operano indipendentemente dal livello di consenso o conflitto sui valori; i limiti della razionalità portano l’uomo ad essere condannato a vivere in una gabbia cognitiva. Le tappe dell’evoluzione intellettuale di Simon, partendo dalla teoria dell’organizzazione, esplicitano che il comportamento amministrativo è pur sempre un output del comportamento organizzativo che è influenzato e condizionato dai comportamenti degli individui che vi partecipano. Basti pensare alla diffusione di prassi costanti, di routine e di procedure standardizzate, ma anche alla specializzazione dei compiti e alla divisione del lavoro e, ancora, ai flussi di comunicazione e alla distribuzione dell’autorità. Attraverso i «meccanismi di influenza organizzativa» si forniscono agli individui le premesse di fatto e di valore per le loro decisioni. Tuttavia, questi meccanismi costituiscono anche un formidabile strumento di razionalità (sia pure non assoluta) procedurale che si ha quando i decisori seguano una procedura che valuta le conseguenze previste, e sulla base di questa scelgono le azioni che mediamente conducono ai risultati desiderati. Al contrario si ha razionalità sostanziale se l’obiettivo dell’azione è rivolto a conseguire specifici risultati, magari sulla scorta di esperienze passate che hanno dato risultati giudicati buoni (March 1993). Nel comportamento quotidiano legato al problem solving gli individui cercano di semplificare le situazioni decisionali, dando una risposta al problema della razionalità limitata, alla stessa stregua di come l’organizzazione consente all’individuo, semplificando la realtà decisionale,

di mirare a scelte dotate di una razionalità limitata (o procedurale). Gli individui, per far fronte a delle decisioni in condizioni di incertezza, ricorrono ad alcuni meccanismi di semplificazione della situazione decisionale in condizioni di incertezza analizzando il problema nelle sue componenti e ricorrendo a delle regole pratiche che permettono di semplificare le scelte e di fare ricorso ad alcune credenze che permettono di inquadrare il problema, acquisire l’informazione da raccogliere e scegliere le dimensioni da valutare (ibid.). Il ricorso a delle scorciatoie del pensiero, pur agevolando e alleggerendo il compito decisionale, non sempre conduce alla strada migliore, ma al massimo aiuta a risolvere a braccio in modo soddisfacente problemi complessi. Il più delle volte si rischia di andare fuori strada (Motterlini 2006). Data l’inevitabilità dell’errore Simon considera la valutazione e la capacità di correzione dell’errore stesso come condizione chiave dell’efficacia decisionale e come indispensabili complementi della razionalità. Nel suo Administrative Behavior Simon dimostra che il nucleo centrale del suo lavoro concerne «una teoria della scelta umana, o decisione» che comprende gli aspetti razionali della scelta e le proprietà e i limiti dei meccanismi umani di decisione, consolidando la sua teoria della «razionalità intenzionale e limitata, la teoria cioè del comportamento dell’uomo che non avendo la possibilità di massimizzare, ricerca una soluzione sufficientemente buona» (Simon 1979). Secondo Crozier e Friedberg (1978) il modello della razionalità limitata comporta un vero e proprio rovesciamento di prospettiva rispetto al paradigma della razionalità assoluta. Come è noto l’uomo per Simon è incapace di improntare le proprie decisioni e azioni al modello di razionalità «globale», per la presenza di vincoli informativi dei decisori, relativi alla attenzione, memoria, comprensione e comunicazione; per le difficoltà di prevedere le conseguenze reali delle scelte compiute; per l’impossibilità nel controllare tutte le modalità possibili che può assumere il comportamento umano (in termini sociologici potremmo dire che il campo di variazione del comportamento di ruolo è tale da non potere essere previsto anticipatamente).

6. Weick e il legame debole applicato agli apparati burocratici.

Le lenti dell’istituzionalismo pionieristico di Selznick analizzate nel paragrafo 4 di questo capitolo, hanno fornito una chiave di lettura per evitare la riduzione dei comportamenti organizzativi ai moventi individuali e alle varianti delle teorie dell’attore razionale. Le difficoltà di comprendere le scelte individuali nelle organizzazioni al di fuori dei modelli culturali e dei retroterra storici di cui sono intrise e in cui sono immerse non eliminano ma delimitano gli spazi d’azione innovativa e mostrano che le scelte operate dentro le organizzazioni non sono riconducibili a soli moventi individuali ma sono caratterizzate da un tasso elevato di densità sociale. La tesi dell’isomorfismo organizzativo (Powell - Di Maggio 1991)14 corre il rischio di perdere di vista le proprietà specifiche di ciascuna organizzazione e non ci aiuta a indagare sulle peculiarità delle organizzazioni pubbliche. Ma altre scuole e altri concetti pongono l’attenzione su differenti dimensioni come nel caso delle elaborazioni di Weick sul sensemaking e sul cosiddetto legame debole, che hanno trovato una eco significativa nelle applicazioni anche alle strutture pubbliche (Zan 1992). Ma da Weick possono scaturire sollecitazioni non secondarie nel comprendere tanto l’attrazione verso comportamenti di confine, quanto l’inadeguatezza delle organizzazioni di fronte a nuove sfide non previste e che fuoriescono dalle routine consolidate: aspetti che nella loro forma estrema si traducono in collassi organizzativi davanti alle emergenze (Bonazzi 1999). La nozione di campo organizzativo15, dove non ha più senso parlare di singole organizzazioni ma di sistema di organizzazioni che si influenzano reciprocamente, che definisce spazi più aperti per le reciproche influenze interorganizzative, aiuta a mettere l’accento sull’organizing (Wetzel, Weigand, Niemann-Findeisen, Lankau 2008) e le sue retroazioni, cercando di trovare un equilibrio tra la teoria soggettivistica e le dinamiche oggettivistiche. Nonché evidenzia le ambiguità dei processi organizzativi e decisionali e alimenta approcci meno meccanici e più aperti verso l’incertezza. In quest’ottica l’ambiente organizzativo, nella prospettiva di Weick, rimanda a una visione delle organizzazioni considerate nei loro aspetti ideativi e simbolici piuttosto che economici e materiali. Nell’ambito della teoria organizzativa, che concepisce le organizzazioni come flussi di esperienza, nei quali tutto ciò che si è abitualmente portati a pensare come delle realtà oggettive esterne agli individui, le stesse organizzazioni non

hanno una realtà se non all’interno dell’esperienza dei soggetti partecipanti. Non a caso gli orientamenti legati all’interazionismo simbolico rimandano al concetto di «costruzione sociale» dell’ambiente organizzativo circa la istituzionalizzazione e la oggettivazione delle attività umane. Gli individui si comportano verso le cose sulla base dei significati che le cose hanno per loro. Questi significati sono un prodotto dell’interazione sociale e sono modificati e manipolati da ognuno attraverso un processo interpretativo (Blumer 2008). La costruzione dell’identità sociale rimanda al dialogo tra l’organizzazione degli atteggiamenti altrui nei nostri confronti che abbiamo interiorizzato (Me) e la risposta a quelli (Io). Il Sé viene a stabilirsi attraverso lo sviluppo di un’identità individuale, la cui conquista inizia quando il bambino ha consapevolezza del fatto che l’immagine che egli ha di sé corrisponde all’immagine che gli altri hanno di lui. L’identità di una persona è fissata quando altri la situano come oggetto sociale attribuendole le stesse espressioni di identità di cui tale persona si appropria per sé o annuncia. Avere un’identità vuol dire associarsi con alcuni e allontanarsi da altri, iniziare e cessare allo stesso tempo rapporti sociali. In definitiva l’interazionismo simbolico16 fornisce un modo di comprendere i comportamenti sociali e la vita di gruppo. La sua prospettiva si occupa della relazione tra la persona e il mondo sociale (Mead 2010). Con questa prospettiva l’ambiente non è che una «invenzione» dell’organizzazione, a sua volta «invenzione» dei partecipanti ad essa; chiave di lettura che consente di superare il principio di una dittatura della realtà esterna e riconsiderare il problema dei confini fra interno ed esterno di un’organizzazione. Weick propone un’analisi sul processo di costruzione della realtà organizzativa indicando tre fasi: attivazione, selezione, e ritenzione. Queste fasi sono da considerare come momenti diversi di un ciclo che vede gli individui agire e creare dei flussi di esperienza attraverso l’attivazione; rivisitarli retrospettivamente e negoziare delle linee di interpretazione attraverso la selezione; assumerli come costruzioni valide della loro visione del mondo attraverso la ritenzione. Così, per Weick, l’organizzazione esiste solo se ciò che essa è in grado di riconoscere attraverso tali processi, porta alla costruzione di ciò con cui essa interagisce. Per interpretare meglio questo concetto soccorrono le mappe cognitive che permettono, rispetto ai partecipanti a

un’organizzazione, di esplicitare quella necessità naturale di «farsi un quadro della situazione» e di interagire con gli altri per pervenire a dei costrutti in grado di dare senso al loro agire, attivando la memoria organizzativa, allo scopo di evitare che le conoscenze e gli scenari attivati dalle organizzazioni cadano in obsolescenza. In quest’ultimo caso, infatti, i partecipanti interagirebbero con una mappa priva della possibilità di cambiamento e si condannerebbero a operare una reiterazione di scelte e di azioni che possono non avere l’efficacia avuta in passato, portando le organizzazioni alla crisi e alla distruzione. Con Weick si apre la riflessione sulle organizzazioni complesse, ovvero quelle che si muovono con logiche d’azione a legame debole che postulano che in qualsiasi sistema organizzativo si trovano parti debolmente legate e parti rigidamente legate; al mondo delle organizzazioni complesse sono riconoscibili sistemi organizzativi a legame (tendenzialmente) debole, caratterizzati da assetti strutturali, regolarità comportamentali e logiche d’azione proprie e diverse da quelle dei sistemi a legame (tendenzialmente) rigido. I sistemi a legame debole sono quei sistemi organizzativi caratterizzati da una pluralità di unità organizzative, tendenzialmente autonome, a bassa interdipendenza tecnologica e/o gerarchica; mentre in tutti i sistemi a legame rigido le unità organizzative, in particolare quelle periferiche, non godono di nessuna autonomia, nel senso che ciascuna unità periferica è tenuta a conformarsi esattamente a quanto previsto da una sede centrale (Zan 2011). Il dato che differenzia i sistemi a legame debole da quelli a legame rigido è che a fronte della stessa etichetta troviamo realtà strutturali significativamente diverse. Nei sistemi a legame debole la piramide con cui vengono talvolta rappresentati i diversi livelli dell’articolazione organizzativa non rende ragione delle interdipendenze gerarchiche, che sono assai deboli, a differenza di quanto avviene nei sistemi a legame rigido. In questi sistemi la gerarchia è parziale, non direttamente connessa alla carriera, alla retribuzione, al sistema premiante; mentre nei sistemi a legame rigido il superiore impone le sue decisioni, che diventano comandi per i subordinati, comandi che normalmente ottengono obbedienza. Così non avviene nei sistemi a legame debole nei quali i capi (apparenti e parziali) esortano i propri presunti subordinati ricercandone sempre il massimo del consenso.

In definitiva, nei sistemi a legame debole la gerarchia, o meglio l’autorità gerarchica, è esortativa perché le possibilità di un comando di ottenere obbedienza dipendono dal consenso sul merito della decisione da parte dei presunti subordinati e non – come prevedeva Weber – dalla fonte da cui emana il comando stesso. In tutti i sistemi a legame debole è particolarmente difficile «pagare» anche per colpe gravi commesse nell’esercizio delle proprie funzioni. Se nei sistemi a legame rigido è lecito ipotizzare che i comportamenti reali si distribuiscano intorno a una media definita da specifiche prescrizioni di ruolo e da forti interdipendenze sia tecnologiche che gerarchiche, quindi con poca varianza, nei sistemi a legame debole dobbiamo aspettarci una forte varianza. Inoltre, i sistemi a legame rigido sono in qualche modo capaci di rimediare agli errori di selezione, quelli a legame debole no. Il coordinamento nei sistemi a legame debole registra un’inefficacia strutturale, in quanto dipende dalle caratteristiche stesse di tali sistemi e si riverbera sul fatto che i meccanismi di coordinamento in essere sono estremamente limitati e comunque di scarsa efficacia, anche perché mancano reali poteri sanzionatori. L’inefficacia del coordinamento, che riesce in qualche misura a operare solo laddove incontra il consenso delle unità organizzative coinvolte, ma non è in grado di governare posizioni di dissenso palesi o nascoste, non fa altro che rafforzare il localismo di tali sistemi. Si può affermare che questa può essere considerata una sorta di «assicurazione» dei sistemi a legame debole, che grazie proprio al localismo, riescono a limitare e isolare le situazioni di crisi, evitando che queste si riverberino sull’intero sistema (Carrieri - Persano 2010). Weick sottolineava che i sistemi a legame debole presentano criteri irrazionali di allocazione delle risorse e, soprattutto, metteva in luce caratteristiche strutturali piuttosto che degenerazioni del sistema. Per l’autore la bassa responsabilità gestionale del sistema si traduce nei singoli in una generalizzata non cultura dei costi (Weick 1988). Sul versante della soggettività Weick apre una riflessione sui processi cognitivi e sul conferimento di senso, processo attraverso il quale i soggetti conferiscono senso che ai loro flussi di esperienza. Ne consegue che la cultura prende senso solo attraverso tali processi. In questo modo Weick assume una posizione di radicale soggettivismo in quanto per lui il mondo esterno non possiede un suo senso intrinseco, ma è sempre e soltanto il senso che gli individui gli attribuiscono: non è possibile conosce il mondo

esterno e interagire con esso se non all’interno dei nostri processi di creazione di senso. Alla mente arriva un flusso di esperienza caotico e informale, al quale viene attribuito ordine e forma man mano che procede il processo cognitivo. In questo processo si sviluppano delle deduzioni che vengono sistemate in mappe causali, ossia in costruzioni dotate di senso e di ordine logico. Tali mappe, dette anche mappe cognitivo-normative, predispongono il comportamento futuro e sono a loro volta modificate dall’ininterrotto flusso di nuova esperienza. Da questo assunto teorico discendono due conseguenze. La prima è la centralità dell’analisi dei processi di creazione di senso (sensemaking); la seconda è la totale equivalenza tra processi di creazione di senso e processi di organizzazione (organizing). Per Weick dare senso a un flusso di esperienza e organizzare la realtà in cui noi ci troviamo non sono che i due lati della stessa medaglia. Pertanto creare senso e organizzare sono esattamente la stessa cosa. Il processo è al tempo stesso cognitivo e ontologico e riguarda sia i singoli individui che le organizzazioni. Per Weick esiste un’equivalenza tra dare senso a un flusso di esperienza e organizzare che genera alcune importanti conseguenze. La prima privilegia la dinamica del processo di organizzare e non la statica delle organizzazioni generata da quel processo. Organizing è più importante di Organization, i verbi che esprimono azioni sono più pregnanti dei sostantivi che indicano cose o strutture. La seconda conseguenza afferma che l’organizzazione di aspetti o di momenti della vita quotidiana non è tanto differente dal gestire un’aggregazione in senso proprio come un’impresa di profitto o qualsiasi altra amministrazione. Le diversità riguardano soltanto il grado di complessità e di formalità delle procedure da seguire. Per comprendere ulteriormente e meglio il pensiero di Weick si deve approfondire quel concetto legato alla proprietà e alle occasioni del sensemaking, tenendo presenti quattro aspetti. Il primo è che considerare la realtà come prodotta dal conferimento di senso ai flussi di esperienza non significa supporre che la realtà stessa sia indefinitamente plasmabile dai soggetti. Un ambiente retroagisce sui soggetti che lo hanno attivato, li obbliga a prendere atto dei suoi vincoli e a comportarsi di conseguenza. Generalmente si attiva l’ambiente in cui ci si trova successivamente ad agire. Quell’ambiente condiziona per il fatto stesso che è stato attivato in base alle mappe cognitive. Ma i flussi di esperienze si prestano a essere reinterpretati e organizzati in modo diverso dal passato. Fa parte

dell’esperienza di vita cambiare il significato che viene attribuito a episodi che forma la biografia degli individui: ci si può disamorare di attività, di persone o di luoghi che prima appassionavano, e al contrario si possono scoprire aspetti affascinanti in cose o persone che prima apparivano indifferenti. Il secondo aspetto da tenere presente riguarda la centralità del linguaggio di processi di organizing e di sensemaking; una centralità da considerare livello sia metaforico che sostantivo. A livello metaforico l’organizzare può essere visto come una grammatica convalidata contestualmente per la riduzione dell’ambiguità attraverso comportamenti interpretativi dotati di senso. Allo stesso modo come la grammatica è la struttura di una lingua, e la lingua è lo strumento che consente agli esseri umani di comunicare, ossia di dare un senso condiviso alle cose o alle azioni, così è anche l’azione dell’organizzare. L’organizzazione come risultato finale dell’organizzare serve a ridurre la gamma delle ambiguità e degli equivoci. A livello sostantivo viene esplicitata l’importanza sostantiva della lingua nel sensemaking tanto che le parole sono presenti in ogni fase del processo cognitivo. Senza parole non è possibile né definire la realtà né comunicare. Esse sono generative di senso, ma al tempo stesso non sono sufficienti a rappresentare in modo esaustivo. Ecco perché il sensemaking non si arresta mai; nasce dallo sforzo di afferrare la realtà con le parole, ma è uno sforzo senza fine, proprio perché le parole sono inadeguate a rappresentare la realtà in modo compiuto. Le parole definiscono la realtà in modi che possono sempre essere contestati e capovolti da altre parole. Il terzo aspetto da tenere presente è quello che parte dal presupposto che il sensemaking è un processo che non conosce né principio né fine (dunque, un processo continuo) ma esso è anche sottoposto a continui sussulti con il conseguente cambiamento dei materiali grezzi a cui la persona conferisce senso. Weick parla di occasioni che generano il sensemaking come degli shock. C’è uno shock tutte le volte che un evento interrompe un corso di eventi precedenti. Lo shock può essere sia positivo che negativo, nel senso che può annunciare una situazione desiderabile anche una non desiderabile. In tutti i casi l’interruzione del flusso in corso o la discrepanza tra il corso atteso degli eventi e l’evento inatteso innesca il sensemaking. Lo shock sollecita le persone a vedere le cose in maniera diversa.

Non è detto che il sensemaking offra garanzia di successo e, quindi, la creazione di senso può fallire. L’interruzione di un flusso di esperienza provoca uno stato d’ansia che sollecita il processo di sensemaking. Ma l’ansia ha la caratteristica di consumare molte capacità del soggetto nell’elaborare informazioni, con l’effetto di ridurre le informazioni che possono essere utilizzate per dare senso. Si innesca allora un circolo vizioso: la perdita prolungata di informazioni rende più difficile il sensemaking, le difficoltà fanno aumentare lo stato di ansia, l’ansia provoca un’ulteriore perdita di informazioni e sempre meno il sensemaking. Infine il quarto aspetto da tenere presente riguarda il problema del potere. Weick sostiene che alcune persone dotate di particolare potere possono attivare ambienti che sono poi proposti come lettura della realtà anche ad altre persone. La possibilità di una lettura comune della realtà si basa sull’esistenza di centri di potere sufficientemente autorevoli da fornire alle persone tanto specifiche mappe cognitive quanto ambienti attivati in conformità a quelle mappe cognitive. Questo radicamento soggettivista delle esperienze comuni contiene in sé e l’antidoto al rischio di pervenire a una visione eccessivamente conformista del consenso. Ogni individuo ha il suo proprio personale flusso di esperienza, pertanto ne discende che l’accettazione di un ambiente attivato dall’esterno non sia mai totale ma riguardi sempre solo una porzione di quell’esperienza. Concordare su alcuni conferimenti di assenso non comporta automaticamente l’appiattimento delle persone, che conservano la loro irriducibile specificità, generata dall’ininterrotto sensemaking delle loro complessive esperienze di vita.

7. I modelli di management come risposta alla crisi della macchina amministrativa. Il cambiamento della pubblica amministrazione, affinché si realizzi, deve necessariamente superare quello che è stato il modello tradizionale weberiano, basato sulla centralizzazione istituzionale e sulle relazioni di tipo gerarchico, mentre deve concepire il dato che le pubbliche amministrazioni hanno bisogno di una varietà di soluzioni adatte ai loro molteplici fini; nonché considerare quelle analisi che stanno emergendo e che si occupano delle trasformazioni della governance. Il modello gerarchico tradizionale, in cui un unico soggetto interveniva nella

formulazione e implementazione delle politiche – l’istituzione pubblica responsabile delle decisioni –, necessita di un’impostazione totalmente modificata e ispirata a un modello a rete basato sulla cooperazione tra i soggetti pubblici e privati, tra gli attori statuali e non statuali che si affacciano sulla scena per affrontare i diversi problemi legati alla complessità e alla frammentazione della società. A partire dagli anni ottanta l’auspicata nuova e diversa concezione della pubblica amministrazione stenta nella pratica concreta ad essere attuata perché i modelli di comportamento e le influenze del contesto istituzionale condizionano fortemente le stesse organizzazioni. I modelli di governance che tentano di essere attuati assumono forme orientate sia al mercato che a un diverso tipo di autorità e rapporti; essi si fondano anche su una differente concezione dell’azione pubblica che incorpori un’idea di management depositaria di quella cultura organizzativa che si fa carico della responsabilità di favorirne sia l’apprendimento che la trasmissione e la diffusione della stessa fra tutti i membri dell’organizzazione. Ecco, dunque, l’avanzare dei modelli legati al New Public Management (Npm), che negli ultimi anni vengono adottati dalla pubblica amministrazione con l’intento di riprendere un processo di tipo isomorfico nel quale i comportamenti e le strutturazioni organizzative sono quelli tipici del settore privato e che ritengono che per il successo di un’impresa siano fondamentali la presenza di imprenditori creativi e la collaborazione dei lavoratori. Nel caso delle strutture pubbliche l’immagine delle stesse deve contemporaneamente prendere in carico il punto di vista dell’utente esterno rispetto all’organizzazione e il grado di apprezzamento, manifestato o implicito, di coloro che vi lavorano. Le attività, le procedure, le politiche che vengono attuate e promosse dal management pubblico devono riflettere i valori fondamentali di una determinata struttura organizzativa e devono svolgere un ruolo cruciale nel comunicare ai dipendenti pubblici quale particolare comportamento o atteggiamento può essere apprezzato maggiormente (D’Amico 2011). Con tali presupposti questo lavoro si propone di sciogliere il nodo attorno al dilemma se si sta assistendo alla scomparsa della funzione pubblica dello Stato e alla perdita incontrastabile di peso della pubblica amministrazione e delle sue istituzioni, con un declino irrecuperabile dello

Stato; o alla riconversione del ruolo e delle funzioni pubbliche con una trasformazione verso nuovi assetti (Pierre 2000). Un dilemma che richiede prioritariamente un’analisi sui grandi cambiamenti che stanno avvenendo nella società contemporanea e che necessitano di un approfondimento a partire dalla ricostruzione della fine del monopolio della politica e dell’amministrazione degli Stati nazionali (Bobbio 1996) fino al dibattito sui nuovi modelli di regolazione delle politiche pubbliche; dibattito che induce una comprensione e un’analisi di ciò che significa il passaggio da sistemi di government a sistemi di governance. Dilemma che ritiene che sia in atto una trasformazione che vede il passaggio da organizzazioni impositive con rapporti asimmetrici verso organizzazioni partecipative con rapporti simmetrici tra le diverse parti interessate al funzionamento delle amministrazioni e alla moltiplicazione di azioni congiunte o cooperative tra soggetti pubblici e/o privati (D’Amico 2011). Sicuramente il government ha rappresentato un approccio che racchiudeva tutti gli elementi di una visione della burocrazia tradizionale e statica, che considerava un insieme di istituzioni e un modello di governo gerarchico e centralizzato, oggi definitivamente e profondamente in crisi. Mentre l’approccio legato alla governance, al contrario, si manifesta come elemento attivo (Benington - Geddes 2001), come processo del governare, e racchiude tutte le attività e le prassi reticolari che concorrono, con il contributo di una pluralità di attori, a formulare e a mettere in campo politiche pubbliche (Bobbio 2002): in altre parole, una regolazione e un coordinamento delle azioni di individui e gruppi a diversi livelli di riferimento. La crisi di moduli organizzativi di impostazione gerarchica ha aperto la strada a moduli amministrativi e organizzativi negoziali e cooperativi; ha preso atto dell’indebolimento delle basi tradizionali del potere politico e della forza istituzionale dello Stato nazione e del superamento di quella logica verticistica fondata su schemi rigidi e derive autoreferenziali. Avanza definitivamente un sistema reticolare che comporta un’integrazione tra amministrazioni separate, ma operanti nel medesimo settore, allo scopo di consentire il migliore rapporto tra diversi livelli di intervento pubblico con una maggiore articolazione e frammentazione delle funzioni di governo, a livello sopranazionale e locale; mentre viene

confermato lo svuotamento dello Stato dovuto a una sua ristrutturazione interna che perde sul terreno dell’accentramento di funzioni (Girotti 2007). Con la governance lo Stato si limita a svolgere il ruolo di attivatore di un processo di interazione tra molteplici attori che dà vita a un policymaking inclusivo. Si attiva una collaborazione orizzontale tra attori pubblici e privati sia nella fase decisionale che nella fase di implementazione delle politiche pubbliche con un network di attori in grado di autoregolarsi (D’Amico 2011). Agli inizi del Novecento la pubblica amministrazione era considerata una macchina perfetta con la presenza di un attore dominante, con una struttura di governo, ovvero con istituzioni a cui sono attribuiti formalmente poteri di controllo. Una burocrazia pubblica con un’organizzazione che incarna, insieme alla grande industria, la razionalità occidentale attraverso la gerarchia verticale e integrata; con un modello organizzativo fondato su regole semplici e precise per garantire la massima prevedibilità dell’azione rispetto all’ambiente (Weber 1961). Con la moltiplicazione dei livelli di governo esistono più centri e più periferie aprendo in questo modo la strada al modello cooperativo basato su relazioni intergovernative non più condizionate dal modo con cui sono distribuite le risorse finanziarie tra i diversi livelli di governo. Si passa, dunque, da un modello di pubblica amministrazione di ispirazione weberiana basato idealtipicamente su un agire razionale rispetto allo scopo, a un nuovo modello fondato sulla «flessibilità amministrativa» con una tendenza a ridimensionare i controlli legali e a spostare sempre più l’accento sui controlli finanziari e funzionali. Emerge una crescita di network e di forme di governance che danno origine a movimenti che realizzano azioni dal centro alla periferia valorizzando flussi di comunicazioni circa gli interessi e le preferenze delle comunità locali. Un nuovo scenario di una pubblica amministrazione che delinea una direzione di senso dalla periferia al centro con la creazione di nuovi servizi e nuovi settori di politiche pubbliche, con maggiori responsabilità attribuite a centri di governo a livello locale. Scompare definitivamente il modello meccanico e razionale ipotizzato da Weber, che considerava alla stessa stregua imprese private e strutture pubbliche con meccanismi organizzativi paragonati a macchine asettiche e le persone considerate metaforicamente come ingranaggi in grado di far

funzionare un sistema che ubbidiva agli ordini imposti dall’alto (D’Albergo 2002). Le ragioni dello sviluppo dei modelli di governance si trovano nella trasformazione dell’ambiente della pubblica amministrazione che si identifica con le diverse categorie sociali che articolano la collettività amministrata, con il loro ruolo e gli specifici oggetti che danno contenuto alla dinamica domanda-risposte. L’ambiente del sistema amministrativo pubblico è costituito da altri sistemi: il sistema politico-istituzionale, il sistema economico e il sistema socio-culturale, tutti autonomi anche se non autosufficienti. Risulta, inoltre, determinante la complementarietà tra sistema e ambiente che costituisce una proprietà implicita nel concetto riferito al sistema aperto17. Allo stesso modo sono sfide per l’ambiente gli output che provengono dal sistema amministrativo, e verso i quali l’ambiente è chiamato comunque a reagire alla ricerca del suo stesso equilibrio. È dal suo ambiente, infatti, che il sistema ricava le risorse, le energie, le informazioni e tutto quanto serve alla sua sopravvivenza in una condizione di equilibrio interno (D’Amico 2011). Per queste ragioni il modo di essere e di funzionare della pubblica amministrazione, oltre ad essere condizionato dall’ambiente esterno (gli altri sistemi) che le sta intorno, a sua volta lo condiziona, e spesso anche, in maniera particolarmente pesante. Tra l’altro c’è da considerare che nessuna organizzazione è autosufficiente perché tutte per sopravvivere dipendono dal tipo di rapporti che stabiliscono con i sistemi più ampi di cui fanno parte. La necessità di un modello manageriale che punti alla riorganizzazione di molti settori della pubblica amministrazione e al ridisegno della stessa funzione pubblica ha generato l’esplosione di numerose esperienze di tipo partecipativo soprattutto in certi ambiti (locali) e per certe materie di politiche pubbliche, con conseguenti cambiamenti che hanno favorito questo mutamento negli stili di regolazione delle politiche pubbliche (Bifulco - de Leonardis 2002). Sul piano dell’analisi organizzativa emerge l’esigenza che le pubbliche amministrazioni siano dotate di una varietà di soluzioni adatte ai loro molteplici fini mutati, con la definizione di funzioni organizzate per ambiti finiti rispetto ai prodotti/servizi, ai destinatari, ai territori e ai processi. In definitiva un’aggregazione di più funzioni in un’unica struttura in grado di

gestire in maniera completa un ambito di intervento di un ente e di un servizio finito o di un ambito territoriale (D’Amico 2011). Le strutture organizzative pubbliche non sono più intese come strutture verticali, formate da un insieme di compiti specialistici da coordinare attraverso una chiara struttura gerarchica, ma vengono invece concepite in modo orizzontale; sono viste come un insieme di catene orizzontali di attività finalizzate a predisporre il prodotto-servizio per il cittadino-utente: tali catene di attività sono i processi. La connotazione di tale impostazione è dovuta, per un verso, a una sproporzione tra l’aumentata e inaspettata domanda di beni e servizi da parte dei cittadini; per altro verso, dovuta all’innalzamento dei rischi e delle insicurezze sociali ed economiche, e i crescenti costi per sostenerla. La richiamata crisi del welfare state ha generato una crisi di tipo finanziario, privando lo Stato di molte delle sue capacità di governo, riducendo la spesa pubblica e ricercando strade alternative per realizzare un risparmio economico. Una di queste strade guarda a soluzioni privatistiche e individualistiche che riconoscano l’economia e il mercato come meccanismi superiori di allocazione delle risorse (Pierre 2000). D’altronde l’efficacia delle risposte di welfare non sono riuscite né a eliminare le vecchie povertà e a contenere le nuove, né a produrre servizi adeguati alle aspettative e ai bisogni dei cittadini. Una crisi che ha comportato una perdita di legittimità del modello amministrativo centralizzato e della struttura decisionale top-down, dando luogo a un’esternalizzazione e a un affidamento di prestazioni alla sfera privata profit e non profit. La diretta conseguenza di questa crisi è stata anche l’acutizzarsi di sintomi di insoddisfazione e la perdita di fiducia dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione considerata inadeguata a dare risposte specifiche e concrete. Una crisi che ha messo in discussione il ruolo dello Stato centrale e la sua funzione pubblica in direzione di un risparmio di risorse pubbliche da un lato, e, dall’altro, di un ampliamento di nuove forme di responsabilità in grado di coinvolgere la società civile e il mercato; di erodere spazi decisionali, che una volta erano esclusivo appannaggio dello Stato centrale. L’introduzione di regolazioni di tipo post-burocratico delle politiche pubbliche, con l’obiettivo di ridurre l’incertezza dei processi di decisione e implementazione, ha permesso la sperimentazione di programmi pubblici meno costosi, più efficaci e più governabili (D’Albergo 2002), utilizzando

tecnologie decisionali e gestionali più idonee di quelle adottate durante l’esperienza del welfare state. L’evoluzione dello Stato amministrativo ha inciso anche sul cambiamento della formulazione delle politiche pubbliche che per aumentare la loro importanza e il loro ruolo sui beni pubblici hanno richiesto nuovi processi di governance (Donolo 2006), capaci di far fronte a quei mutamenti che hanno condizionato la scena mondiale, a partire dal processo di globalizzazione; quest’ultimo erode e ha eroso le competenze e l’autonomia che gli Stati nazionali avevano ereditato dalla modernità. Si sono consolidati per questa via dei processi di liberalizzazione, privatizzazione e mercificazione della funzione pubblica e della creazione di mercati privati, sostituendo nei fatti un ambito precedentemente gestito da beni erogati esclusivamente dal pubblico. Le amministrazioni nazionali sono state inserite in reti istituzionali multilivello e dentro programmi complessi e integrati da vincoli ben precisi, subendo un processo di europeizzazione e una spinta alla sussidiarietà, creando lungo l’asse centro-periferia una varietà istituzionale attraverso modelli ibridi, intrecci e reti che coinvolgono una molteplicità di attori diversi (Braga 2012). Si rendono necessarie scelte politiche che richiedono una maggiore integrazione del processo di trasformazione e innovazione della pubblica amministrazione che comporta riduzioni e ampliamenti, in questo modo fornendo una risposta all’aumentata complessificazione della società e dei bisogni. Una trasformazione sempre più articolata, multiscopo, multilivello e in grado di incorporare interazioni sociali e pratiche di tipo inclusivo. Cambia la natura e la qualità delle pratiche che diventano sempre più integrate, complesse, interdipendenti e globali, ma anche rivolte alla valorizzazione della capacità dei soggetti, alla loro attivazione e basate sul principio della sussidiarietà (Donolo 2006). Più che di crisi della funzione pubblica si deve parlare di evoluzione della stessa perché ne muta la direzione e viene rimossa e annullata la vecchia concezione di Stato amministrativo centralizzatore, dirigistico e burocratico (ibid.). Il dibattito teorico attorno a questi temi vede alcuni autori considerare la governance come l’unica risposta politica degli Stati di fronte alle criticità emergenti con lo scopo di ridefinire confini e ruolo dell’azione amministrativa pubblica nella società. Secondo altri autori la governance è una conseguenza non voluta né ricercata della crisi dovuta alle

trasformazioni tecnologiche, economiche e ai loro effetti sull’ambiente, sulla qualità della vita e sul lavoro. Complessivamente la teoria della governance politica si sviluppa con l’intento di far crescere e implementare le politiche pubbliche; con un’evoluzione del suo concetto che ritiene che la governabilità deve garantire l’attenzione non soltanto al soggetto delle politiche ma piuttosto ai destinatari di queste. Dunque, una governance può essere intesa come un nuovo stile di governo cooperativo che si distingue da quello basato sul controllo gerarchico, mettendo definitivamente in crisi la centralità dello Stato, indebolendone la sua efficacia come centro di controllo politico e lasciando spazio a forme alternative di governo della società. Un’accezione più ampia di governance comprende diverse modalità di coordinamento delle azioni individuali considerate forme primarie di costruzione dell’ordine sociale. Ma affidare la risoluzione dei problemi alle reti pubblico-private e all’autoregolamentazione sociale spesso non sempre può portare benefici ma complessificare e frammentare ulteriormente la scena (Mayntz 1999). Con la globalizzazione, infatti, gli scenari diventano naturalmente più complessi perché altri soggetti e livelli istituzionali entrano in gioco e perché il coordinamento politico a livello internazionale, rispetto a quello europeo, risulta più complesso e difficoltoso, con un cambiamento di paradigma i cui contorni faticano ad essere delineati chiaramente. Sul piano nazionale lo Stato acquista un nuovo ruolo e funzioni diverse, mentre nell’arena internazionale ed europea perde capacità di controllo perché cede competenze legislative e regolamentari. Una governance che si concentra solamente sulla cooperazione orizzontale e sui policy networks senza preoccuparsi troppo della legittimazione democratica e del grado di rappresentanza dei soggetti privati all’interno di queste reti, delinea un termometro della difficoltà di rappresentare oggi diversi e contrapposti interessi politici e l’inevitabilità della governance di stimolare processi dal basso, con il rischio però di tutelare interessi di parte, allontanandosi dal bene comune (Bowen 1971). Risulta assai interessante il proliferare di reti e il moltiplicarsi di esperienze e di sperimentazioni di pratiche deliberative che tracciano la concezione della governance come quell’insieme di trasformazioni che hanno a che fare con l’intensificazione e la diffusione di pratiche partecipative, strettamente connesse a processi di moltiplicazione dei livelli

e degli attori (Borghi 2006). La governance, dunque, come strumento di innovazione delle interazioni sociali e dei giochi tra gli attori e come garanzia per confermare la funzione pubblica (Donolo 2006). Un’amministrazione pubblica post-burocratica può essere rappresentata da modelli di governance che includano contemporaneamente logiche di mercato e logiche comunitarie, caratterizzate da forme di azione pubblica e di regolazione dense di altri centri o di periferie, abitata da una varietà di attori, rapporti e interazioni che traccino i contorni di una grande rete la cui modalità relazionale è quella negoziale e/o deliberativa (D’Albergo 2002). Il government che si tramuta in governance permette un passaggio verso il basso sia quello legato a interessi locali legittimi orientati alla massimizzazione dell’utilità che quello legato a visioni sociali orientate a uno spirito solidaristico ed espressivo (Battistelli 2002). Inizialmente, con il prevalere del modello di government, emergevano le procedure amministrative standardizzate, considerate valide indipendentemente dai risultati e legittimate dalla presenza di un’autorità formale. Il rapporto fra la parte politica e la parte amministrativa era funzionalmente separato e gerarchico, anche nella distribuzione delle competenze. I controlli autoritativi e legalistici prevedevano sanzioni giuridicamente formalizzate. Successivamente il government assume più i connotati del modello della governance e, pertanto, si caratterizza per il decentramento istituzionale e per una sussidiarietà fondata sul confronto e sulla convergenza fra le utilità degli attori, con la responsabilità coincidente con gli interessi degli attori medesimi, mentre le relazioni interistituzionali e interorganizzative erano fondate sulla partnership negoziale e su un rapporto paritario tra chi decide e chi implementa. Vi era un’esternalizzazione delle funzioni pubbliche, una tendenza alle privatizzazioni, un prevalere dei mercati interni e la presenza di controlli; alla dirigenza erano attribuiti strumenti manageriali con attribuzioni di autonomia e possibilità di esprimere doti di problem solving e diplomaticonegoziali. In una fase successiva il modello di governance presuppone una condivisione dei valori da parte degli attori della rete e della sua stessa mission. Il contesto è favorito e incentivato da comportamenti che si basano sull’interazione, sul coordinamento e sulla formazione di linguaggi, codici e conoscenze comuni. Si attenua la divisione tra parte tecnica e parte politica

perché è agevolata una ricerca continua di integrazione tra decisione, esecuzione e condivisione delle funzioni di guida, grazie anche al coinvolgimento sia dei destinatari degli interventi che di coloro che si occupano dell’implementazione dei servizi. L’esternalizzazione prevede un coinvolgimento di attori non statali basato sulla reciprocità, su regole e procedure di interazione formalizzate, tutti strumenti idonei per affrontare situazioni di conflitto. Molte pubbliche amministrazioni sempre più adottano il modello del New Public Management indotte dall’aumento della competitività che prende piede anche nel settore pubblico, introducendo dinamiche organizzative che prevedono un management pubblico di stampo razionale, una pervasività degli assunti di valore e un interesse a massimizzare l’efficienza nell’ambito interno della pubblica amministrazione (Gualmini 2003). Il New Public Management diviene nei fatti una risposta al modello burocratico, oramai lontano dai bisogni dei cittadini, scarsamente dotato di servizi di qualità e privo di risposte idonee ad aumentare la produttività della pubblica amministrazione attraverso la sperimentazione con strumenti tipici del privato come i metodi della contabilità analitica, gli indicatori di spesa che monitorizzino le risorse investite per poter correggere disfunzioni ed errori in itinere e le strategie di direzione per obiettivi accompagnati da valutazioni che attribuiscano a ciascuno la responsabilità di un budget (Girotti 2007). La direzione di senso è la stessa intrapresa dalle aziende private con l’introduzione delle logiche organizzative legate alla managerializzazione; nella pubblica amministrazione vengono inserite misure e tecniche organizzative che si traducono in processi di privatizzazione, liberalizzazione, esternalizzazione e creazione di relazioni di quasi mercato. Il New Public Management emerge come un paradigma composto da alcune caratteristiche che si diversificano a seconda dell’approccio teorico di riferimento. Per Hood (1991) le caratteristiche che lo esplicitano comprendono il riconoscimento del carattere professionale della pubblica amministrazione attraverso l’attribuzione ai dirigenti di una maggiore responsabilizzazione e autonomia sotto forma di capacità manageriali. Inoltre, la pubblica amministrazione necessita di parametri e indicatori di valutazione dell’attività sotto il profilo della qualità e dell’efficienza, garantendo per questa via il controllo degli output e dei servizi erogati. Si

rende sempre più vitale l’adozione di uno stile di gestione che privilegia la competizione e la concorrenza nei confronti del settore privato; i dipendenti pubblici garanti dell’utilizzo parsimonioso delle risorse pubbliche e capaci di darsi canoni di autodisciplina. Osborne e Gabler (1995) individuano altre caratteristiche che aiutano a ridefinire il ruolo della pubblica amministrazione come catalizzatrice, con funzioni di guida e coordinamento piuttosto che di erogazione di servizi. La responsabilizzazione della comunità di cittadini beneficiari dei servizi diventa un principio importante che si affianca all’aumento della competitività della pubblica amministrazione; inevitabilità di una logica che punta sul risultato della performance e non più alla conformità della regola. Il cittadino deve essere riconosciuto come «cliente» di un servizio fornito da un’amministrazione pubblica che si muove in una logica imprenditoriale. Il manager pubblico deve responsabilizzarsi attraverso la creazione dei centri di profitto, al potenziamento di capacità di anticipazione dei problemi, di delega verso il basso dei compiti e di modernizzazione dell’amministrazione attraverso il ricorso al mercato. Si afferma la convinzione che il contenimento dei costi e la riduzione della spesa possono essere raggiunti soltanto attraverso un nuovo stile di management pubblico basato sulla valutazione continua dei processi e il monitoraggio delle prestazioni, modificando il disegno organizzativo della pubblica amministrazione (Girotti 2007). Le modifiche organizzative prevedono interventi strutturali specifici per ridimensionare gli apparati e per cambiare l’organizzazione verso un modello divisionale, attento alla qualità dei «prodotti» e dei servizi erogati, passando attraverso la separazione tra funzione amministrativa e funzione politica. Ogni intervento di riorganizzazione richiede un carattere processuale con evidenti implicazioni, da un lato, per le nuove responsabilità dirigenziali e, dall’altro, per l’apertura bottom-up verso una serie di soggetti che vanno ad allargare le relazioni della pubblica amministrazione. Oltre all’adozione di modelli imprenditoriali il New Public Management, al pari del settore privato, richiede che la pubblica amministrazione si ispiri al principio del rendimento come criterio di legittimazione, ovvero come capacità di produrre un risultato congruente con le decisioni assunte con una responsabilità di tipo «contrattuale» nella

scelta degli obiettivi operativi e delle modalità gestionali più efficaci e coerenti con le decisioni assunte (ibid.). Non mancano naturalmente le critiche, anche sul piano scientifico, al modello del New Public Management che denunciano un forte orientamento prescrittivo e un interesse pressoché assoluto verso una visione dell’efficienza che rimane tutta interna all’amministrazione pubblica (Gualmini 2003). Critiche che riguardano gli effetti e le ricadute del New Public Management sulla pubblica amministrazione a partire prioritariamente da un’elevata astrazione delle risoluzioni proposte; inoltre si riscontra una difficile gestione delle numerosissime prescrizioni formulate dalle scienze del management e, da ultimo, le possibili negative derive tecnocratiche nella gestione dei processi di riorganizzazione (Girotti 2007). Sul piano teorico l’impianto risulta essere composito, molto pragmatico, scarsamente critico e meccanicistico; un’impostazione di fondo che potrebbe determinare un insieme di dissonanze e contraddizioni. Il modello del New Public Management sicuramente presenta versioni della pianificazione strategica molto aggiornate; non bisogna però trascurare il dato che nel modello convivono anche logiche di razionalizzazione che rimandano alle prime teorie organizzativiste di stampo tayloristico, legate sicuramente a un approccio scientifico ma che è stato dimostrato essere molto miope (Gualmini 2003). Una parte delle critiche a questo modello è quella che denuncia che non debba esserci solo un’attenzione rivolta all’utente, considerato come consumatore o cliente, ma capovolgere l’ottica considerandolo soprattutto come cittadino, ovvero come un soggetto in grado di avere una sua capacità critica e di partecipazione alla progettazione delle risoluzioni poste dai problemi e non solo un’abilità di scelta tra diverse opzioni pre-configurate. Il cambiamento si realizza se si garantisce il raggiungimento di valori e interessi collettivi e pubblici, coinvolgendo in un’ottica di tipo inclusivo anche i destinatari delle politiche pubbliche e riconoscendo loro un’importanza alla capacità di policy making e di produzione di innovazione sociale. Il funzionamento di una pubblica amministrazione non può fondare su una visione prettamente organizzativistica e manageriale, con meccanismi di tipo ingegneristico utili per risolvere problemi. La modernizzazione, per le sue caratteristiche implicite, implica sia guadagni che perdite e che dunque questa impostazione non può di per sé

essere in grado di risolvere tutti i problemi che hanno caratterizzato il passato. Il New Public Management, tra l’altro, non può essere annoverato come una ricetta globale semplicemente perché ogni paese detentore di singoli settori pubblici si caratterizza con proprie differenze interne e con diverse culture amministrative; in ragione di ciò assume e applica proprie caratteristiche ed esigenze (Pollit - Bouckaert 2002). Il New Public Management, rispetto ai modelli gerarchici fondati sul government, realizza comunque forme di controllo e valutazione anche di fronte a forme di decentramento amministrativo tipiche di quelle politiche pubbliche che privilegiano la partecipazione dal basso (bottom-up). Anche per queste politiche il New Public Management non esclude l’applicazione di indicatori delle prestazioni standard, rafforzando con questa impostazione il potere delle autorità centrali, mentre viene attribuita alle strutture periferiche una responsabilità limitata. Lo snellimento e la razionalizzazione dei processi amministrativi e delle prassi operative che hanno cambiato il volto della pubblica amministrazione rispetto al passato devono essere considerati un vero e proprio cambiamento culturale, a prescindere da quanto teorizzato dal modello del New Public Management. I processi di modernizzazione rappresentano l’idea di un cittadino utente a cui la pubblica amministrazione deve dare risposte; un cittadino come soggetto che entra a pieno titolo nel panorama delle decisioni riguardanti l’azione pubblica. All’ampliamento dei «diritti di cittadinanza» bisogna garantire un impegno a puntare sul «risultato» dell’azione amministrativa (Fedele 1998), con ruolo e funzioni dello Stato cambiati, ovvero si passa da funzioni di gestione a funzioni di regolazione grazie anche all’orientamento espresso a livello di Unione europea. In questa direzione anche il ruolo dei cittadini acquista spazio e fisionomia insieme all’idea di un’amministrazione sempre più partecipata; il decentramento trasferisce gran parte delle funzioni pubbliche alle amministrazioni territoriali, da quella regionale a quella locale, con l’ottica di un miglioramento dei rapporti tra poteri pubblici e cittadini. Con questi presupposti prende piede l’esigenza di introdurre un sistema di valutazione relativo all’efficienza dell’utilizzo delle risorse e l’efficacia degli interventi, nonché la separazione tra funzione politica e funzioni

gestionali con una dotazione di maggiore responsabilità e strumenti manageriali ai dirigenti. Persiste ancora una spaccatura netta tra le aspirazioni riformiste e la realtà; nonostante le aspettative legate al New Public Management, con il richiamo al mercato e alle tendenze isomorfiche nei confronti del mondo imprenditoriale. La pubblica amministrazione, dal punto di vista organizzativo, continua a non ricalcare quell’oggettività tanto declamata come, ad esempio, sul tema delle carriere legate al merito, delle condizioni dei lavoratori sia in termini di contenuto del lavoro che dal punto di vista delle retribuzioni, della mobilità professionale e delle competenze. La logica di tipo privatistico, come unico strumento risolutore di problemi complessi e persistenti, contiene ancora il rischio di perdita di imparzialità e del principio dell’eguaglianza (Sepe, Mazzone, Portelli, Vetritto 2003). I meccanismi che ricalcano una logica più strettamente manageriale tipica delle imprese, gli elementi di modernizzazione che potrebbero favorire lo snellimento e la flessibilità della pubblica amministrazione, e gli elementi che esaltano la partecipazione tra i diversi soggetti della governance auspicano ancora una volta mutamenti che dovrebbero portare a esaltare un’amministrazione orientata ai risultati. Ancora oggi però la flessibilità, i rapporti fiduciari, i modelli manageriali favoriscono modernizzazioni di facciata, continuano ad aumentare fenomeni di clientelismo e di dipendenza «insana» delle amministrazioni pubbliche dalla politica. La linea evolutiva che va dalla burocrazia tradizionale al New Public Management, fino a sfociare a regimi di public governance, rimanda alla natura composita ed eterogenea delle amministrazioni contemporanee che riflettono le specificità del contesto a loro volta influenzate da assetti, culture e pratiche consolidate (Gualmini 2003). Questo cambiamento di prospettiva, sollecitato dalla situazione di crisi economica e sociale che pervade tutti gli Stati, ha fatto maturare sulla scena amministrativa e politica l’idea che il mercato non può autoregolarsi e che dunque occorre un ripensamento del ruolo dello Stato verso quelle funzioni di regolazione e verso le nuove domande sociali di inclusione. Il paradigma organizzativo di stampo manageriale mostra indubbiamente delle incrinature e risulta non semplice utilizzarlo nel contesto di politiche pubbliche che puntino a una riqualificazione delle

forme di intervento di uno Stato in grado di operare secondo uno stile negoziale nella progettazione di nuovi sistemi di regolazione (Fedele 1998). I cambiamenti che sta subendo la pubblica amministrazione, come dimostrato, sono determinati dalla crisi del welfare state, dai processi di globalizzazione, di europeizzazione, di mercatizzazione ma anche dall’esigenza di assicurare una maggiore efficacia ai programmi e agli interventi di carattere pubblico (ibid.). Alla stessa espansione dell’intervento pubblico in risposta alla crescente domanda di welfare e di servizi terziari non ha seguito un analogo sentiero di razionalizzazione, con il risultato di avere prodotto un apparato pubblico «lento» sul piano dell’efficienza e dell’efficacia (Bellucci 1989). Tali cambiamenti richiedono che il decisore pubblico non detenga più saldamente la prerogativa di individuare gli interessi generali; che si sfaldi il modello gerarchico fondato su una legittimità di tipo legale razionale in base alla quale vengono definiti gli interessi generali; che il ruolo dell’amministrazione si trasformi sostenendo e catalizzando aggregazioni o integrazioni fra gli attori interessati e divenendo, soprattutto a livello locale, promotore di nuove forme di cittadinanza. Altra caratteristica importante dei cambiamenti in atto è quella che assume la figura del cittadino utente non solo come cliente della pubblica amministrazione, ma sempre più come soggetto partecipe, interessato alla costruzione e al mantenimento dei beni comuni, alla gestione della cosa pubblica. La governance è in grado di reinterpretare l’assetto strutturale della pubblica amministrazione che non viene più raffigurato in modo gerarchico e centralizzato, ma come un reticolo di sotto-unità organizzative in costante interscambio con l’ambiente e in cui coesistono diversi criteri di organizzazione del lavoro (Gualmini 2003). Per avere concretamente una pubblica amministrazione efficiente, snella e anche orientata ai principî del mercato, non basta imitare da altri contesti comportamenti che non appartengono alla sfera pubblica, spinti solamente dall’esigenza di adeguarsi agli standard economici vigenti o a orientamenti provenienti da organismi sovranazionali. Innovare significa assumere un cambiamento che riguarda innanzitutto le condizioni e le questioni cruciali da cui dipendono la credibilità e la legittimazione della pubblica amministrazione.

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Già agli inizi del Novecento Santi Romano parlava di «crisi dello Stato», intesa come crisi della supremazia e indipendenza dello Stato. 2 Il riferimento è preso in prestito dalla scienza politica anglosassone e indica lo «spazio nel quale si svolge l’attività pubblica e l’interscambio Stato-società» e in cui v’è un’interscambiabilità dei ruoli, delle regole e dei principî ordinatori dell’attività amministrativa. 3 Nella rassegna degli studi organizzativi sul fenomeno burocratico che in questa sede viene proposta il primo grande nome che incontriamo è Max Weber. La sua figura ha assunto un ruolo di riferimento primario per quel filone che confluisce nel paradigma classico o tradizionale di organizzazione e che si può identificare con la configurazione del modello, o idealtipo nel linguaggio weberiano, della burocrazia. 4 Un esempio che fa comprendere meglio il pensiero di Weber è la sua ricerca sui rapporti tra spirito del capitalismo ed etica protestante. L’insieme delle convinzioni etiche e religiose di ispirazione calvinista (rigore di costumi, vita attiva e ordinata, propensione al risparmio) rappresenta un importante elemento di legittimazione dell’agire capitalistico ai suoi primordi. 5 Biggart parla di capitalismo carismatico a proposito dei venditori che riescono a fare un grande fatturato imbambolando i clienti con la loro capacità di persuasione. 6 Weber ne indica alcuni come: la precisione, la rapidità, la univocità degli atti, la continuità, la discrezione, la coesione, la rigida subordinazione, la riduzione dei contrasti, le spese oggettive e personali. 7 Michel Crozier ha dedicato le sue ricerche prevalentemente all’analisi dei fenomeni di mobilità professionale e dei fattori di resistenza all’innovazione. Fondatore nel suo paese della fiorente scuola di studi organizzativi, ha contribuito alla riforma dell’apparato amministrativo francese. 8 Uno dei documenti più influenti di Selznick, intitolato Fondamenti della teoria dell’organizzazione (1948), illustra i suoi importanti contributi alla teoria dell’organizzazione. Selznick era il primo ad attaccare la teoria prevalente della società di massa. Il suo pensiero ha invece sostenuto che esistevano due approcci teorici analiticamente distinti per la società di massa. Un approccio rimandava ai critici dell’equivalismo o che sottolineava il ruolo delle élites creative e culturali. Un secondo approccio sottolineava la disintegrazione sociale e la qualità della partecipazione alla società di massa e alle organizzazioni di massa. 9 Nelle organizzazioni strumentali un riferimento è quello delle agenzie di raccolta dei rifiuti o dei trasporti urbani, mentre per le organizzazioni istituzioni il riferimento è il governo di una città, che si propone di attuare una politica. 10 Il termine «recalcitranza» indica la naturale avversione dell’essere umano all’assimilazione dell’organizzazione intesa come strumentalizzazione dei propri membri. Questa avversione è tale da indurre il soggetto a crearsi delle nicchie per sfuggire al controllo dell’organizzazione. In questo senso cessa la funzione integrativa delle regole assumendo solo quella sanzionatoria. 11 Gouldner a questo proposito parlerà di «pathos metafisico» riferendosi alla tendenza di Selznick a esprimere idee pessimistiche legate più che alla verifica empirica al suo modo di vedere e concepire le cose. Gouldner individua tre modelli di burocrazia: apparente, quando le regole imposte non sono riconosciute né dalla direzione né dai dipendenti; coercitiva, quando le regole sono imposte unilateralmente; rappresentativa, quando le norme vengono accettate sia dalla direzione che dai dipendenti e quindi quando si è in grado di disporre della legittimazione e della coesione sufficienti a garantire vera innovazione. 12 Un esempio sono le forme di partecipazione alla direzione aziendale che la dirigenza d’impresa offre ai sindacati per corresponsabilizzarli in alcune scelte strategiche. 13 Premio Nobel per le scienze economiche nel 1978, i suoi interessi spaziarono dalla sociologia dell’organizzazione industriale alla teoria delle decisioni, dalle problematiche dell’intelligenza

artificiale all’informatica, dalla psicologia all’economia d’impresa. 14 Isomorfismo organizzativo è quel processo per cui le organizzazioni in un dato contesto tendono a somigliarsi anche nei comportamenti. L’isomorfismo non caratterizza solo le organizzazioni ma anche i singoli individui; esso si riproduce a livello individuale e i singoli rafforzano, così, l’isomorfismo normativo delle organizzazioni. L’isomorfismo è tanto più rapido quanto più l’organizzazione dipende da risorse esterne e quanto maggiori sono l’incertezza e l’ambiguità dei suoi obiettivi. 15 Campo organizzativo come un’area riconosciuta di vita istituzionale caratterizzata da confini fluidi e indistinti ma con una fitta e stabile rete di comunicazione nell’ambito della quale un insieme estremamente variegato di attori sociali, economici, politici, culturali, contribuisce, in maniera più o meno consapevole, a determinare processi di cambiamento. 16 Interazionismo simbolico: orientamento teorico affermatosi nell’ambito della sociologia e della psicologia sociale, soprattutto negli Stati Uniti, a partire dalla prima metà del Novecento che pone al centro dell’analisi l’interazione sociale e l’interpretazione che di questa danno quanti vi partecipano. Approccio basato sul presupposto che il comportamento individuale è mediato dai significati che gli individui attribuiscono alla situazione sociale. 17 Per sistema aperto si intende un insieme organizzato di elementi che, al suo interno, interagiscono l’uno con l’altro, condizionandosi vicendevolmente, e che, al suo esterno, interagisce, sia come insieme sia attraverso i propri elementi singolarmente presi, con l’ambiente circostante in una permanente relazione di scambio in entrata (input) e in uscita (output).

II.

La produttività della pubblica amministrazione tra efficienza ed economicità

1. Produzione di beni pubblici e produttività nel settore pubblico. L’analisi della produttività nel settore della pubblica amministrazione, dalla fine degli anni settanta (successivamente al Rapporto Giannini), pose problemi in merito alla definizione stessa di produttività e alla concreta possibilità di pervenire alla sua corretta misurazione. Innanzitutto bisogna considerare che le strutture organizzative del settore pubblico sono, da un lato, influenzate, nei loro comportamenti, dalla crisi economica e, dall’altro, possono divenire causa esse stesse della crisi sia con comportamenti irrazionali, che originano sprechi di risorse, sia accentuando gli elementi di rigidità del sistema economico. D’altronde, il progresso economico, perché sia tale, richiede che la flessibilità sia la vera e propria condizione necessaria per il funzionamento del capitalismo. In questo contesto le istituzioni pubbliche emergono come agenti autonomi e razionali che producono beni e impongono tasse secondo le regole che definiscono i cosiddetti giochi cooperativi (Bonazzi 2002a). Con questa prospettiva le questioni collegate alla definizione e alla misurazione della produttività erano da tempo piuttosto note, qualora si fosse fatto riferimento ad applicazioni nel settore della produzione di beni nel privato rispetto al quale più numerosi e approfonditi erano stati gli studi teorici ed empirici. I problemi si moltiplicarono, invece, quando si cercò di applicare l’analisi della produttività al settore dei servizi e, più in particolare, alle attività svolte all’interno della pubblica amministrazione. Già dalla fine degli anni ottanta si innescò un periodo di forte riduzione delle risorse economiche con tagli apportati su tutta la gamma dei servizi, partendo da intere sezioni del servizio sanitario e dalla pubblica istruzione e giungendo fino ai sussidi alle famiglie. L’esigenza di una semplificazione e di un’efficienza della pubblica amministrazione per favorire la crescita delle

future generazioni determinò interventi di tipo macroeconomico prescindendo completamente – però – dall’assistenza di informazioni microeconomiche sulle preferenze individuali e sulle disponibilità a pagare da parte dei cittadini-utenti. Nella classifica mondiale 2015-2016 sulla competitività curata dal World Economic Forum (Wef) di Ginevra l’Italia è al 43° posto. Distante dal vertice ma in risalita – era infatti al 50° posto nel 2012 –, mentre la Germania, l’Inghilterra e la Francia sono nei primi quindici. Sempre secondo i dati del Wef, riguardo all’indicatore dell’efficienza, l’Italia guadagna dieci posizioni rispetto allo scorso anno pur restando sempre in fondo alla lista, al 126° posto sui 140 paesi presi in considerazione. Il Wef mette così in evidenza che occorre continuare sulla strada delle riforme per migliorare la sua produttività che resta bassa rispetto ad altri paesi europei, risultato di costrizioni di lunga durata come quella della burocrazia (139° posto) e dell’inefficienza del mercato del lavoro. Non sono escluse punte di eccellenza delle dimensioni del mercato (12° posto), della salute e dell’educazione primaria (26°), delle infrastrutture (26°). Per dare continuità a questi miglioramenti non è più rinviabile una grande e reale riorganizzazione del settore pubblico, partendo dalla sistematica comparazione dei singoli uffici, per far convergere i meno efficienti verso i migliori, in termini di semplificazione, costi e risultati. Lo scopo di questo capitolo è quello di partire da una disamina dei molteplici aspetti definitori che necessitano di essere trattati con attenzione e chiarezza poiché influiscono sulla stessa significatività del rapporto output-input, ovvero dei possibili rimedi che si traducono essenzialmente nell’incentivare e, quando occorre, vincolare le strutture pubbliche a seguire regole di comportamento in linea con la razionalità economica, quindi con l’obiettivo di risparmiare risorse. L’ipotesi di fondo è che attraverso l’assunzione di controlli microeconomici si può gestire un’offerta pubblica capace di contribuire al funzionamento efficiente del sistema finalizzato allo sviluppo economico e sociale, ed evitare la sindrome dello spreco pubblico dovuta al fatto che lo Stato, pur in possesso di risorse limitate, le utilizza con formule più economiche e poco vantaggiose rispetto al mercato. In questo modo possono realizzarsi perdite potenziali di benessere causate da forme di Stati che si caratterizzano come offerenti monopolistici contraddistinti da un apparato burocratico e da forme di spreco nell’utilizzazione da parte dei consumatori.

I problemi collegati alla definizione e misurazione dei fattori utilizzati dalla pubblica amministrazione non sono generalmente più complessi di quelli che si incontrano per gli input della produzione privata, ma variano a seconda che si voglia calcolare la produttività globale (riferita a tutti i fattori produttivi) ovvero quella parziale (riferita soltanto ad alcuni o a un fattore produttivo). Nel caso della pubblica amministrazione prevalentemente si è soliti far riferimento alla produttività del lavoro, anche perché è molto elevata l’importanza relativa assunta dall’impiego di manodopera rispetto al complesso dei fattori. Le prime esperienze di misurazione dell’input di lavoro furono facilmente praticate sperimentando diverse modalità con un uso specifico ottenibile dalla valutazione di produttività considerando il numero di addetti senza tener conto del numero di ore effettivamente lavorate (Lytton 1959)1. Un criterio meno generico fu adottato dal Bureau of Budget degli Stati Uniti in un’ampia ricerca condotta nei primi anni sessanta su un campione di uffici federali che impiegavano il 24% circa dei dipendenti governativi (Bureau of Budget 1964); esso si basava sulla stima del numero di ore di lavoro effettivamente prestate dai dipendenti, senza distinguere peraltro tra lavoro di qualità differente e funzione svolta, responsabilità, remunerazione. Per ovviare a questo elemento di imprecisione, i ricercatori del Bureau of Budget corressero successivamente i dati relativi all’input di lavoro, adottando i salari corrispondenti alle diverse categorie di personale come pesi per omogeneizzare le diverse qualità di lavoro, ipotizzando così che i differenziali salariali corrispondessero alle diverse caratteristiche qualitative presenti nel complesso della forza lavoro utilizzata. In una ricerca realizzata negli anni 1979 e 1980 sui costi e la produttività degli uffici ministeriali italiani furono utilizzati diversi criteri di misurazione dell’input di lavoro, in relazione ai differenti scopi analitici che si volevano conseguire2; così, ad esempio, rispetto all’obiettivo di misurare il grado di utilizzazione del personale assegnato alle varie unità di produzione, si fece riferimento al numero di ore contrattuali disponibili, mentre per valutare il grado di efficienza produttiva, si considerò solo il numero di ore effettivamente lavorate, depurando il tempo contrattuale dalle assenze, dai permessi e dalla mancata osservanza degli orari di lavoro in vigore. Si procedette alla ponderazione delle quantità di input rilevate utilizzando come pesi opportuni indicatori dei differenti livelli salariali, così fu possibile realizzare confronti fra unità diverse tenendo conto delle

differenti composizioni qualitative del personale assegnato a ciascuna di esse. Le difficoltà di misurazione degli input aumentarono quando si propose il calcolo della produttività riferita non solo al lavoro, ma al complesso delle risorse produttive impiegate. In questo caso si posero anzitutto problemi di valutazione del capitale impiegato nel processo produttivo e in secondo luogo problemi di omogeneizzazione dei diversi input. Definire approcci più rigorosi allo studio della produttività della pubblica amministrazione significava riformulare una criticità che era quella di provocare una distorsione della domanda che nasceva dal separare quelli che ricevevano benefici da quelli che pagavano i costi dei programmi governativi, generando una separazione che contribuiva a provocare una domanda in eccesso di attività governative. Il risultato era che tali programmi potevano essere iniziati e ampliati, benché inefficienti in senso microeconomico, e anche iniqui dato che conferivano guadagni speciali e privilegi alle coalizioni politicamente efficaci mentre imponevano costi più elevati sui gruppi politicamente meno efficaci (Formez 1985). C’era da chiarire che il grado di performance di un’impresa pubblica si poteva stimare solo se si era in grado di dimostrare una capacità di realizzare obiettivi effettivamente efficienti, giustamente equi, necessariamente profittevoli e analiticamente macroeconomici; mentre concretamente le imprese pubbliche non avevano dato dimostrazione di tendere all’efficienza economica, ma a obiettivi che si allontanavano da questa; con dirigenti pubblici non sottomessi né a un controllo, né a un gioco di incentivi sufficienti per portarli a prendere delle decisioni e gestire la struttura organizzativa di cui avevano la responsabilità in maniera efficiente e ottimale per la collettività. Al contrario i dirigenti pubblici disponevano di gradi di libertà, di poteri discrezionali che permettevano loro di perseguire la realizzazione di obiettivi prevalentemente individuali. Una parte degli studi che analizzavano queste problematiche si limitava a comparare i costi per concludere quasi all’unanimità che l’iniziativa pubblica fosse sensibilmente più costosa della privata, senza includere il problema dell’etica nella gestione della cosa pubblica che, nel caso italiano, si mostrava socialmente rilevante. Ormai da molto tempo le istituzioni internazionali mostravano un sistema pubblico e imprenditoriale imbrigliato nelle maglie dell’illegalità e delle inefficienze. I costi economici della

corruzione si mostravano così ingenti da determinare una grave perdita di competitività dell’Italia e pericolose conseguenze sul bilancio dello Stato. Ancor più grave doveva essere considerato il costo sociale di tale fenomeno perché la corruzione era divenuta così dilagante da minare le fondamenta stesse del sistema democratico italiano. La disaffezione dei cittadini alle istituzioni e la lontananza dalla Stato possono portare – ancor più in un periodo di crisi e rimodulazione delle identità e appartenenze come l’attuale contingenza storica – a un grave scollamento del tessuto politico-sociale del paese. L’analisi conoscitiva che in questa sede si propone deve allargarsi alle criticità di questo fenomeno e agli elementi che contribuiscono a determinare tale manifestazione patologica delle attività delle pubbliche amministrazioni, per comprenderne le cause e tentare di porre rimedi (Oecd 2000). In definitiva, le strutture pubbliche causavano iniquità distributiva ma vi era la convinzione che i fallimenti potessero essere rimediati dai mercati, che l’origine dei fallimenti potesse trovarsi nelle caratteristiche del bene piuttosto che nell’istituzione che lo forniva. A questo postulato bisognava aggiungere un altro elemento, ovvero che la promozione di azioni tese a condannare socialmente la corruzione era considerata uno strumento importante da mettere in campo nella lotta alla maladministration (Cassese 1992) e, per questa via, produrre un cambiamento culturale generale in tema di rispetto delle istituzioni. Cominciava ad affacciarsi l’idea di considerare l’etica pubblica come il corretto agire dei pubblici agenti al servizio della collettività, in tutta la loro pienezza, dal rispetto della legge sino alla soddisfazione ultima degli interessi protetti, delle giuste aspirazioni dei cittadini utenti (Cerulli Irelli 2010). Contribuire a una piena affermazione del principio di democraticità delle istituzioni amministrative: attraverso il diritto dei cittadini alla qualità delle prestazioni erogate dalle pubbliche amministrazioni e attraverso il diritto – conseguente ma non meno importante – a ricevere una rendicontazione delle attività e delle spese sostenute. Considerare l’etica pubblica al centro della mission dell’amministrazione per promuovere il ruolo – ancora oggi fondamentale – che le pubbliche amministrazioni hanno – o possono avere – nello sviluppo delle moderne democrazie. Un imperativo per le amministrazioni pubbliche deve divenire quello di garantire qualità nell’erogazione dei servizi e dar conto (public accountability) della propria attività (scelte, azioni, spese); strutture

amministrative pubbliche misurabili, che consentano (prima di tutto verso le assemblee elettive e l’opinione diffusa dei cittadini) la misurazione e valutazione dei risultati della gestione finanziaria pubblica e delle stesse attività (Carabba 2011). Come possibile alternativa compensatoria si faceva strada il ruolo delle organizzazioni volontarie in quanto idonee a integrare, o anche sostituire, i servizi forniti dalle istituzioni del settore pubblico. Queste ultime, infatti, avevano gli strumenti per individuare bisogni non riconosciuti dagli altri settori, in particolare dalle strutture pubbliche; potevano migliorare la qualità dei servizi forniti per legge (ad esempio nel caso dei servizi sociali); potevano addirittura anche essere più fidate. Nel frattempo si affacciava con forza, nel filone degli studi legati alla sussidiarietà, il mondo del terzo settore, popolato da coloro che fanno parte di gruppi di volontari i quali potevano trarre beneficio non solamente dal bene che essi producevano ma, per esempio, anche dall’integrazione sociale che i membri del gruppo attuavano associandosi, dalla partecipazione alla decisione su come doveva essere il campo da gioco, o dal semplice fatto di svolgere un lavoro volontario per uno scopo ragionevole (Braga 2017). Gli attori delle organizzazioni del volontariato vedevano crescere la loro importanza in quanto protagonisti dei bisogni non materiali, non presi sufficientemente in considerazione dagli Stati del benessere. La stretta cooperazione fra le istituzioni del settore volontario e le strutture pubbliche portava sicuramente dei benefici in termini di razionalizzazione dei costi (Id. 2012). Sul piano più economico legato alla stretta efficienza rimaneva il dato che l’impresa privata dominava sempre e comunque su quella pubblica; mentre una prospettiva da esplorare era quella di verificare se l’impresa pubblica non potesse giustificare il suo ritardo su questo terreno in nome della realizzazione di altri obiettivi altrettanto desiderabili con l’intento di far coincidere l’efficienza sociale e il benessere «individuale» dell’amministratore della cosa pubblica. Misurare gli input delle attività dei servizi pubblici non doveva risultare, da un punto di vista qualitativo, diverso da quello che avveniva per le attività produttive private, non altrettanto però risultava relativamente alle difficoltà che si incontravano nella definizione e misurazione dell’output. Era noto, infatti, che nel caso della pubblica amministrazione non era possibile usufruire del valore monetario del prodotto, perché questo veniva

offerto e utilizzato al di fuori di un sistema di mercato e quindi senza riferimento a un sistema di prezzi. Ne conseguiva, da un lato, l’impossibilità di effettuare valutazioni aggregate dei vari beni e servizi prodotti dal settore pubblico se non facendo riferimento del tutto convenzionale all’entità dei costi di produzione; dall’altro, la necessità di ricorrere a specificazioni in termini fisici del prodotto che, tuttavia, non si presentava priva di difficoltà poiché le caratteristiche fisiche e qualitative dell’output non solo non sono univoche ma sono anche difficilmente accertabili (Hirsch 1970)3. Fare riferimento a due diverse connotazioni di output pubblico indicava l’esistenza di esigenze analitiche differenziate; nel caso della valutazione dell’output di settori che operavano sul mercato, si credeva in generale che queste potessero essere simultaneamente perseguite facendo riferimento ai prezzi quali indicatori attendibili della qualità del prodotto e della soddisfazione dei consumatori; nel caso invece della pubblica amministrazione, risultava necessario separare la misurazione quantitativa del livello di attività dalla valutazione qualitativa delle conseguenze che da essa scaturivano sia nei confronti della soddisfazione individuale, sia rispetto al raggiungimento degli obiettivi fissati dai politici. Per una corretta analisi della produttività nella pubblica amministrazione sarebbe necessario determinare ambedue le connotazioni di output pubblico ma, concretamente, questo obiettivo complessivo molto difficilmente potrebbe essere soddisfatto se non considerando che la misurazione dell’efficacia4 deve confrontarsi con problemi di natura empirica e di rilevanza teorica (Burkhead - Hennigan 1978; Burkhead Ross 1980)5. Un’ulteriore difficoltà di valutazione dell’efficacia era correlata al fatto che i risultati di un servizio pubblico, essendo molteplici ed eterogenei, presentavano esternalità a volte molto complesse; gli effetti derivanti da un certo tipo di attività svolta nella pubblica amministrazione dipendevano dall’efficacia con la quale venivano soddisfatti gli obiettivi diretti di un altro tipo di attività. Inoltre spesso i risultati di un’azione pubblica erano valutati in modo ampiamente diversificato secondo i differenti giudizi di valore e orientamenti politici propri di coloro che erano chiamati a misurarne gli effetti6. Non era sempre possibile misurare le conseguenze qualitative di un servizio pubblico, poiché gli effetti erano completamente accertabili solo con il trascorrere del tempo7.

Un’altra caratteristica del settore pubblico che dava luogo a difficoltà di misurazione dell’efficacia era costituita dalla presenza di funzioni-obiettivo multiple, dal momento che non vi era alcun criterio oggettivo, generalmente accettato, mediante il quale applicare dei pesi agli obiettivi diversificati e talvolta addirittura contrastanti di una stessa unità amministrativa. Complessivamente, per via di queste difficoltà nelle esperienze empiriche di misurazione della produttività nella pubblica amministrazione, non si era riusciti a cogliere con lo stesso grado di accuratezza e di significatività gli aspetti di efficienza produttiva e quelli di efficacia, laddove si cercava di pervenire a una misurazione dell’output anche in termini di qualità (Hatry - Fisk 1971)8. In ogni caso, rimaneva complicato analizzare a fondo i risultati insoddisfacenti delle attività pubbliche, a causa della distinzione tra quelle collegate a un’inefficiente gestione delle risorse disponibili e quelle derivanti da una scelta di mezzi inefficaci al soddisfacimento degli obiettivi, da condizionamenti dell’ambiente esterno e da vincoli istituzionali. Notevoli sforzi sono stati compiuti per superare le difficoltà di valutazione degli aspetti inerenti al concetto di efficacia attraverso il miglioramento degli strumenti di misurazione dell’efficienza produttiva supportati da nuovi criteri migliorati sul piano analitico, senza trascurare la difficoltà dei limiti congeniti alla poca significatività statistica dei dati disponibili. La nuova impostazione si proponeva di contribuire a individuare le condizioni per una migliore utilizzazione delle risorse produttive disponibili con la possibilità di ottenere una maggiore quantità di output. L’evoluzione delle performance nelle pubbliche amministrazioni italiane conosce tre grandi momenti. Il primo momento è quello degli anni ottanta, dove la performance era considerata come un adempimento normativo e fino agli inizi degli anni novanta il sistema italiano della pubblica amministrazione era stato fortemente caratterizzato da una diffusa cultura giuridica e dal ruolo dello Stato. Tale orientamento portava a inquadrare la performance in termini di rispetto delle norme e degli atti amministrativi trascurando altre importanti dimensioni dell’azione pubblica. Il secondo momento è quello degli anni novanta, dove la performance era considerata come efficienza manageriale con il tradizionale orientamento ai compiti normativi che mostrava la sua incompatibilità con l’evoluzione del contesto di riferimento delle amministrazioni pubbliche.

Negli anni novanta, infatti, si assisteva a processi di ridefinizione dei confini e delle modalità di funzionamento del settore pubblico ispirati ai principî del New Public Management. In questa fase, si verificava il passaggio da un’amministrazione autoreferenziale, che considerava il cittadino come un soggetto passivo, a un’amministrazione sempre più attenta alle relazioni e alle necessità manifestate dalla comunità. Il focus si spostava sull’efficienza nella produzione dei servizi pubblici e sulla relativa qualità degli stessi. I manager pubblici, al fine di migliorare la gestione della propria organizzazione, introdussero logiche e strumenti di derivazione aziendale. La performance fu misurata in termini di risorse impiegate (input) e in termini di beni e servizi prodotti (output). Il terzo momento è quello degli anni duemila, dove la performance era considerata come creazione di valore pubblico. Oggi il concetto di valore pubblico (Moore 2003) ha trovato notevole diffusione e rappresenta ancora una delle sfide future sia per la misurazione sia per la gestione della performance nel sistema amministrativo pubblico italiano. Il valore pubblico è composto da tre elementi che definiscono il triangolo strategico e sono rappresentati dalla legittimazione e dal supporto all’azione pubblica, da parte dei clienti/cittadini/utenti e delle diverse tipologie di stakeholder interni ed esterni, che mettono a disposizione risorse finanziarie, consenso e sostegno; il secondo elemento è rappresentato dal valore prodotto nei confronti del sistema socioeconomico di riferimento; il terzo elemento è rappresentato dalla capacità operativa delle amministrazioni pubbliche, che deriva dalla coerenza tra risorse destinate alle politiche pubbliche e obiettivi istituzionali (ibid.). Il concetto di valore pubblico mette l’accento sui risultati conseguiti dall’azione pubblica per la collettività di riferimento e situa le amministrazioni pubbliche in un contesto caratterizzato da molteplici attori (pubblici e privati) che contribuiscono a rispondere ai problemi sempre più complessi a cui le pubbliche amministrazioni devono trovare delle soluzioni. Nella creazione di valore pubblico si introducono nuovi modelli di funzionamento delle amministrazioni pubbliche, legati all’evoluzione legislativa verso un maggiore decentramento delle funzioni e delle competenze amministrative. Sempre di più si assiste oggi all’introduzione di logiche di public governance che implicano una nuova concezione del ruolo che le amministrazioni devono svolgere nei confronti dei diversi attori

sociali ed economici e si estrinsecano in una maggiore attenzione a forme di cooperazione e partenariato con soggetti privati non e for profit. In questa nuova veste la misurazione della performance si sposta verso un orientamento ai risultati delle amministrazioni e, in particolare, alla capacità delle azioni pubbliche di rispondere efficacemente ai problemi dei cittadini, di incidere in modo positivo sul rafforzamento della competitività territoriale e sul coordinamento del capitale sociale.

2. Le tecniche si misurazione e di controllo dei servizi pubblici. Come si è tentato di dimostrare nel rapporto tra input e output, quest’ultimo è dato dal totale dei beni e servizi prodotti, è il risultato degli input espressi o come ammontare di lavoro prestato o come costo delle risorse complessive, mentre la qualità si rispecchia nell’ammontare dei beni che i consumatori sono desiderosi di comprare e nel prezzo che sono disposti a pagare per ottenerli. La produttività, sia riferita al governo statale che a quello locale, è in genere determinata dalle decisioni pubbliche che sono influenzate oltre che da fattori economici, anche dall’interesse pubblico, delle realtà politiche, dai valori sociali, e dalla dinamica delle relazioni intergovernative; indica un livello di utilizzazione delle risorse a un certo istante di tempo; il suo miglioramento è dato da un processo di incremento dell’efficienza nella utilizzazione delle risorse e di miglioramento dell’efficacia del servizio. Per soddisfare gli scopi perseguiti da un determinato servizio pubblico sono necessarie alcune condizioni. La prima rimanda alla capacità di evitare gli effetti negativi che possono essere connessi alla fornitura del servizio, ivi compresa la fornitura di adeguate quantità del servizio e da un’equa distribuzione dello stesso. Un’altra condizione è quella che richiede una dimostrazione di cortesia e di riguardo nei confronti dei cittadini che ricevono il servizio attraverso forme di disponibilità e di comprensione nel provvedere al servizio. Infine si considera l’ammontare complessivo dell’uso del servizio da parte dei cittadini e la soddisfazione percepita dagli stessi. Il problema si genera quando la struttura pubblica deve fare i conti con risorse limitate; in questi casi è fondamentale il ruolo del dirigente pubblico che, conoscendo le capacità dell’organizzazione che dirige, dovrebbe

possedere le informazioni necessarie per decidere fin dove debba essere migliorata la performance della struttura per far fronte a un aumento nei carichi di lavoro con l’introduzione di nuove procedure, le sole che possono dimostrare se vi è stato un aumento effettivo attraverso il calcolo della differenza tra la performance di prima e quella dopo il cambiamento. Questa impostazione della misurazione delle performance delle strutture pubbliche richiede un processo pratico e realistico di pianificazione, valutazione, controllo e miglioramento delle modalità con le quali le organizzazioni pubbliche producono e distribuiscono i loro beni e servizi. Con i primi approcci la tecnica usata più comunemente consisteva nel dividere l’output (misurato dai beni o servizi finali prodotti) per l’input (misurato dalle ore-lavoro, anni-personale, o sforzo); in tal modo si fornivano ai dirigenti pubblici le misure degli output delle informazioni necessarie per valutare l’avanzamento nella realizzazione degli obiettivi. Naturalmente il lavoro veniva considerato come la più semplice e più usata misura di input e, generalmente, veniva espresso in termini di annipersonale o ore-personale in quanto annoverato come costo di funzionamento prevalente. Ciò, ovviamente, per tutti quei casi in cui si poteva misurare l’efficienza (ovvero la mano d’opera e le spese) e accertare i cambiamenti temporali, e in cui le caratteristiche qualitative chiave non cambiavano; con queste condizioni l’output poteva essere identificato e misurato. Senza trascurare il dato che, quando bisognava misurare il lavoro, i cambiamenti inerenti alla qualità della produzione dovevano fare riferimento a quelle caratteristiche della produzione che potevano riflettere la diversità del bene o del servizio rispetto ai requisiti originali del lavoro considerato nel periodo base. Le prime forme di misure di efficacia erano, quindi, in grado di descrivere fino a che punto le finalità delle amministrazioni pubbliche erano soddisfatte. I conseguenti indicatori di efficacia venivano considerati con attenzione nel contesto delle finalità o degli obiettivi specificati per l’organizzazione pubblica che doveva essere valutata. L’efficacia doveva divenire la prima preoccupazione del dirigente pubblico e doveva essere analizzata prendendo in carica una serie di fattori progettuali: l’esame del progresso e dell’andamento temporale dei servizi, le decisioni relative all’allocazione delle risorse, la formulazione e la giustificazione delle scelte relative al bilancio, un’approfondita analisi e valutazione del programma, il grado di motivazioni dei dipendenti, la performance dello specifico appalto

assegnato, i controlli di qualità sulle misure di efficienza, i controlli della direzione amministrativa, una migliore comunicazione fra i cittadini e i funzionari pubblici. Limitandosi al calcolo della produttività fisica del lavoro veniva spontaneo rivolgere prioritariamente l’attenzione alle unità produttive pubbliche che offrivano un solo tipo di servizio intermedio o finale, in quanto le informazioni potevano essere desunte dal calcolo della produttività fisica in un dato periodo di tempo e potevano essere convenientemente utilizzate per stabilire dei confronti sia temporali che spaziali con altre unità amministrative. Le primissime ricerche empiriche condotte sulla produttività nella pubblica amministrazione avevano come campo di indagine prevalente settori piuttosto aggregati di amministrazioni centrali e facevano riferimento al periodo 1908-31. Si tratta delle principali ricerche condotte sull’amministrazione federale degli Usa (Bowden 1932). Ulteriori ricerche furono applicate a unità produttrici di servizi pubblici offerti localmente (i trasporti, la raccolta di rifiuti, l’assistenza ospedaliera, la polizia urbana ecc.). Questi studi non istituivano dei confronti diretti tra produttività fisiche, ma analizzavano in senso interspaziale le variazioni di produttività che si erano verificate dal dopoguerra in alcuni servizi locali. A tale scopo essi facevano derivare le variazioni della spesa da quelle intervenute nei costi, nei carichi di lavoro e in un residuo attribuito a mutamenti di produttività (Bradford, Malt, Oates 1969; Burkhead - Ross 1980; Hatry Fisk 1971). In questi casi la possibilità di lavorare sui dati cross section9 facilitava il confronto diretto tra produttività fisiche di unità che producevano lo stesso tipo di servizio, misurato quindi con il medesimo tipo di unità di output. Un ulteriore passo avanti nell’individuare le caratteristiche dei processi produttivi si ebbe con l’adozione di un criterio legato a uno studio analitico delle procedure parzialmente quantificabile, di agevole uso e legato al numero, alla qualità e alla sequenza delle operazioni elementari ritenute necessarie, secondo criteri standard, all’ottenimento dell’output e quindi del correlato tempo di lavoro per unità di prodotto. Ancora una volta l’obiettivo che ci si proponeva era di pervenire a una scomposizione dei processi produttivi sufficientemente disaggregata da permettere l’individuazione della serie completa di operazioni elementari espletate al loro interno. Si trattava di individuare e classificare tutti gli atti elementari praticati

nell’insieme delle unità esaminate, in modo che queste ultime potessero essere confrontate sulla base del numero di atti elementari comuni e in relazione ai tempi standard per unità di prodotto. Naturalmente, si sarebbero potuti individuare altri criteri di somiglianza che garantissero la presenza di un sufficiente grado di omogeneità tra gli output, tale da permettere un confronto diretto dei rispettivi valori di produttività fisica; tuttavia era chiaro che se l’adozione di un maggior numero di criteri avesse potuto migliorare la classificazione delle unità produttive omogenee, era pur vero che più erano i requisiti da rispettare, meno estesi sarebbero stati i gruppi di unità tra cui era possibile effettuare dei confronti. In definitiva, il tentativo di individuare criteri utili all’identificazione di unità produttive omogenee presentava molte difficoltà anche se non andava dimenticato che questa era l’unica strada che consentisse il confronto diretto dei valori di produttività fisica presenti in diversi comparti della pubblica amministrazione. Nel corso degli ultimi tre decenni si era sviluppata un’ampia letteratura economica empirica che si era occupata di questi temi nella prospettiva di ricercare relazioni econometricamente testabili sul livello delle performance economiche delle strutture pubbliche; l’intento ero quello di costruire indici quantitativi rappresentativi dei caratteri istituzionali di un sistema economico, le cui proprietà più essenziali erano non quantificabili e strettamente legate agli specifici momenti storici e ambientali – economicopolitici e culturali – che li esprimevano. Non erano mancati, tuttavia, programmi di ricerca che si proponevano di applicare le categorie dell’analisi economica ed econometrica allo studio delle istituzioni e del loro impatto sull’economia, riconoscendo agli stessi una capacità di approfondimento sulla natura, sulle motivazioni e sulla struttura delle interazioni sociali di cui le istituzioni sono espressione (Williamson 2000; Hall 2001), per tentare in vari modi di tradurli in indicatori quantitativi suscettibili di stima econometrica. Il contesto degli anni settanta partiva dalla constatazione che la maggior parte dei paesi delle piccole economie aperte dell’Europa settentrionale tentava di assorbire gli shock petroliferi dell’offerta mantenendo più bassi livelli di disoccupazione e inflazione; alimentando, pur con diverse impostazioni politico-ideologiche, la tesi di una correlazione positiva tra la presenza di assetti istituzionali volti a facilitare la gestione cooperativa del conflitto sociale tramite una negoziazione centralizzata, esplicita e implicita, tra sindacati dei lavoratori, associazioni delle imprese e governi

su tutti i principali aspetti del mercato del lavoro e delle connesse politiche sociali, da un lato, e la performance macroeconomica del sistema in termini di occupazione e stabilità dei prezzi, dall’altro (Pizzorno 1978; Schmitter Lehmbruch 1979; Golden 1993; Kenkorthy 2003). Questi studi, prevalentemente politologici, avevano aiutato la letteratura economica empirica concentrando l’attenzione sulla ricerca di relazioni tra uno o più elementi delle performance economiche delle istituzioni, con particolare riferimento al mercato del lavoro e alle politiche del lavoro a esso collegato. Le caratteristiche del mercato del lavoro prese in considerazione riguardavano molteplici suoi aspetti: il tasso di sindacalizzazione di lavoratori e imprese; il tasso di copertura dei contratti collettivi (grado di applicazione di questi anche a lavoratori e imprese non sindacalizzate); il livello più o meno centralizzato della contrattazione collettiva; il suo grado di sincronia e coordinamento settoriale, intersettoriale e nazionale; la presenza di incentivi di guadagno strettamente legati alla produttività individuale; la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori nelle sedi e nei processi di formazione delle politiche aziendali; la maggiore o minore partecipazione del governo alla gestione e regolazione del mercato del lavoro, sia tramite la partecipazione diretta ai negoziati collettivi tra le parti sociali, sia tramite interventi di estensione legislativa di determinati contenuti degli accordi sindacali e di legislazione autonoma in materia di protezione dell’occupazione (disciplina dei licenziamenti e della mobilità) e del salario (Flanagan 1999; Freeman 2000). Pur riconoscendo l’utilità che tali lavori hanno dato alla conoscenza del mercato del lavoro e alle relazioni industriali neanche gli stessi hanno soddisfatto l’esigenza di dimostrare il grado di efficacia derivante dalla protezione legislativa dell’occupazione e del salario, da una parte, e dalle misure di efficienza delle performance economiche, dall’altra. Una parziale risposta è deducibile da quelle ricerche che si sono occupate della distribuzione, ovvero inerenti al grado di centralizzazione della contrattazione collettiva e alla dispersione dei salari che permette una «comprensività» dell’interesse con quello del suo potere di mercato (Olson 1983); tali ricerche hanno stimato una relazione tra la contrattazione collettiva a livello, rispettivamente, di impresa, di industria e centralizzato, e i livelli dei salari reali, della disoccupazione e dell’inflazione. Una successiva e ampia ricerca realizzata dall’Organisation for Economic Co-operation and Development (Oecd) del 1997 sui rapporti

intercorrenti fra centralizzazione e coordinamento della contrattazione collettiva e performance economica riscontrò una robusta relazione tra struttura della contrattazione e dispersione salariale (Oecd 1997). Sempre l’Oecd nel 1999 realizzò una successiva ricerca sulle istituzioni del mercato del lavoro non riscontrando alcun effetto apprezzabile sull’efficienza né della legislazione per la protezione del salario e dell’occupazione, né di vari altri programmi di protezione sociale (Oecd 1999). Un ulteriore studio si propose di costruire un concetto molto ampio di istituzioni destinate a facilitare la gestione cooperativa del conflitto sociale (Schneider - Wagner 2001)10 attraverso la stima delle relazioni tra tali istituzioni e i tassi di crescita del prodotto reale pro capite, usando i dati di 14 paesi europei relativi al periodo 1961-95. Ne emergeva, in particolare, che la percentuale della spesa pubblica nel Pil interagiva negativamente con le istituzioni per la gestione del conflitto sociale, accentuandone la tendenza a incentivare comportamenti volti al perseguimento di rendita. Questo studio, pur portando a risultati empirici estremamente generici e poco conclusivi, ebbe il pregio di tentare di includere nell’analisi la questione decisiva del contrasto tra ricerca di rendita e cooperazione produttiva, ma condivise con molte ricerche sui rapporti tra istituzioni e performance economica il difetto di una mancata valutazione approfondita delle attività delle istituzioni stesse. Tale difetto continuava a indebolire seriamente anche risultati empirici apparentemente rilevanti e che poggiavano su raffinate analisi econometriche. È ancora interessante fare riferimento a un altro programma di ricerca su queste tematiche, più attento alla natura delle istituzioni e all’ambiente economico-politico-giuridico e culturale in cui si formano e operano, a come risultano essere strumento di cooperazione produttiva alternativo e coesistente con il mercato e la competizione (Hall - Soskice 2001). In questa prospettiva, le società liberali a capitalismo avanzato vengono studiate a partire dal ruolo centrale che in esse svolgono non tanto i singoli individui (come lavoratori, consumatori e cittadini) e i governi (come istituzioni dotate del potere politico-coattivo e deputate a operare le scelte collettive), bensì le singole imprese, come attori impegnati «a esercitare e sfruttare le competenze specifiche e le capacità gestionali necessarie a sviluppare, produrre e distribuire con profitto beni e servizi» (ibid.). Lo svolgimento dell’attività produttiva pone le imprese in un tessuto di relazioni con una molteplicità di altri attori, sia verso l’interno, con i loro

dipendenti, sia verso l’esterno, con i loro fornitori, clienti, collaboratori, finanziatori, cointeressati, sindacati, associazioni di imprese, governi. Da ciò nasce il problema del coordinamento tra l’impresa e l’insieme di tutti questi altri attori in diversi campi, principalmente in quelli delle relazioni industriali, dell’istruzione e formazione professionale, dell’accesso al finanziamento, delle relazioni con le altre imprese, della cooperazione interna con i suoi stessi dipendenti, dell’interazione coi poteri politicocoattivi di governo. Un tale coordinamento può avvenire tramite relazioni di mercato individuali-competitive verso l’esterno, e gerarchiche all’interno, o tramite relazioni collettive di cooperazione sia esterna che interna, passando attraverso vari gradi e forme di combinazione delle due modalità. Questa chiave di lettura sociale consente di individuare due tipologie principali di economie politiche del capitalismo avanzato: le economie di mercato liberali, con una larga prevalenza del coordinamento basato sulla gerarchia e la concorrenza, e le economie di mercato coordinate, con una larga prevalenza del coordinamento basato sulla costruzione di un sistema complesso di relazioni cooperative11. Il prevalere dell’una o dell’altra modalità di coordinamento tende ad accompagnarsi, secondo un rapporto di interazione dinamica reciproca, con lo sviluppo di sistemi di incentivi, di istituzioni (norme, procedure e organizzazioni) private e pubbliche, e di politiche pubbliche coerenti con il supporto della modalità prevalente, anche attraverso una dislocazione regionale e internazionale delle attività produttive e innovative più consone con una determinata modalità, proprio là dove prevalgono le istituzioni che la supportano. Le aggregazioni delle organizzazioni nei sistemi industriali (non solo sindacati e associazioni industriali), come pure i connessi sistemi di relazioni non di mercato tra singoli attori e organizzazioni nell’area privata e nei rapporti tra questa e quella pubblica, tenderanno a svilupparsi di più, ad avere più potere e a svolgere un ruolo maggiore nei paesi a economia coordinata che in quelli a economia liberale. La buona salute o la degenerazione delle economie di mercato, liberali e coordinate, dipende largamente dal successo o insuccesso dei loro diversi sistemi di incentivi, istituzioni e politiche pubbliche nell’orientare il coordinamento, competitivo-gerarchico o cooperativo, degli attori verso la produzione e contro la rendita (Olson 1996). Il confronto tra queste diverse varietà di capitalismo in termini dei principali indicatori di performance economica (tassi di crescita del Pil,

livelli del Pil pro capite, tassi di disoccupazione), calcolati su intervalli temporali sufficientemente lunghi, non hanno mostrato apprezzabili differenze. Più in generale, gli studi sviluppati all’interno di questa prospettiva mettono in evidenza che le più significative differenze strutturali tra i due tipi di economie riguardano aspetti non quantitativi, bensì qualitativi dello sviluppo economico (come ad esempio la specializzazione internazionale della produzione e le tipologie dell’innovazione) e naturalmente i modelli di incentivi, istituzioni e politiche pubbliche (Hall Soskice 2001). Nelle indagini ora ricordate il processo di omogeneizzazione tra gli indicatori di efficienza ha posto nel tempo vari problemi d’ordine metodologico e, per questo, si è ancora oggi alla ricerca di una prospettiva per indagare senza pregiudizio e mantenendo il necessario raccordo tra analisi econometriche e sottostante comprensione sociale, su natura, ruolo ed effetti delle istituzioni così come si presentano nelle società liberali a capitalismo avanzato. La scelta effettuata negli ultimi anni si è indirizzata assumendo dei pesi che rispettassero alcuni criteri analitici. In primo luogo, l’individuazione e la misurazione di un output indipendente dall’input per non cadere in vizi di circolarità che invalidassero il significato del rapporto di produttività. In secondo luogo, l’esigenza di evitare che beni e servizi di importanza diversa venissero valutati alla stessa maniera, mediante una semplice somma delle rispettive unità prodotte. Scegliere i pesi significava dunque valutare «l’importanza» dei singoli prodotti, ovvero individuare un criterio di valutazione di natura oggettiva tenendo conto dell’insieme di risorse utilizzate nell’ottenimento di ogni tipo di prodotto di output complessivo. D’altra parte l’uso di tale criterio di ponderazione non escludeva dal correre rischi di circolarità, poiché la misura dell’output così ponderato sarebbe influenzata dagli input utilizzati come pesi che nel tempo possono cambiare in virtù degli ammontari di risorse utilizzate nella produzione dei singoli tipi di beni e servizi che compongono l’output. In conseguenza di ciò, per una corretta valutazione dell’output aggregato, sarebbe necessario aggiornare i pesi di periodo in periodo. Dunque, da un lato tenere costanti i pesi nel tempo faceva rischiare un’errata valutazione dell’output, dall’altro lato l’aggiornamento dei pesi avrebbe dato luogo a elementi di circolarità che avrebbero inficiato le misure e lo stesso confronto intertemporale della produttività.

Spesso le attività amministrative possono essere caratterizzate da processi produttivi che non presentano somiglianze tali da poter considerare omogenei i rispettivi output; in tali circostanze il paragone tra produttività fisiche del lavoro non può che risolversi in un confronto generico tra le caratteristiche produttive dei processi in esame e, in particolare, tra gli aspetti più o meno labour-intensive delle tecniche utilizzate in un dato periodo per produrre output differenti. Seguendo una strada che permette di paragonare indirettamente, con risultati comunque significativi, gli elementi che incidono sulle produttività fisiche di attività disomogenee, sarà possibile prima misurare quanto, in ogni singolo processo da confrontare, il livello di produttività-efficienza si allontanerà da quello considerato standard nel dato settore e, successivamente, paragonare i differenziali così ottenuti. In Italia tecniche analoghe furono proposte inizialmente dalla Commissione Lombardo (Commissione Lombardo 1962; Onofri 1958). Esse furono poi applicate al Servizio ragioneria delle Ferrovie dello Stato e in una ricerca del ministero del Lavoro e della previdenza sociale volta a determinare il fabbisogno di personale nelle attività periferiche (Taradel 1980). Una successiva ricerca del Gruppo Costi del Formez fece ampio ricorso a questa metodologia; un sistema analogo fu applicato anche al caso di strutture ospedaliere (Zamprogna 1980). Si trattava di effettuare confronti indiretti per stabilire gli standard produttivi a cui paragonare le situazioni effettive rilevabili in ogni singolo processo di attività secondo criteri di natura oggettiva, evitando cioè che la loro definizione venisse influenzata dalle circostanze che caratterizzano le attività produttive da sottoporre a valutazione. Gli standard da utilizzare come metro di paragone riguardavano, in particolare, il tipo di procedure tecnico-amministrative da adottare in ogni processo d’attività e i tempi d’esecuzione per lo svolgimento dei singoli atti elementari che componevano la procedura. La definizione degli standard avrebbe dovuto estendersi anche alla quantità e qualità dei beni e servizi la cui utilizzazione era ritenuta necessaria in ogni attività produttiva. Considerando anche che generalmente le unità amministrative della pubblica amministrazione normalmente svolgono attività che danno luogo a più tipi di prodotto, per cui la prima operazione della ricerca deve consistere nell’individuazione dei processi produttivi attivati dalle unità stesse nel periodo di riferimento di una rilevazione. La complessiva attività di ogni unità amministrativa deve

essere scomposta in linee di attività principali, ausiliarie e occasionali (o collaterali), utilizzando alcune definizioni. Si parte, prioritariamente, dalle linee di attività principali che sono costituite dall’insieme delle operazioni svolte da uno o più operatori («complesso organizzativo elementare»), che hanno un obiettivo finale definito, cioè mirano ad assolvere una o più funzioni (omogenee nei fini) assegnate all’unità amministrativa; danno luogo a prodotti (atti) finali chiaramente distinguibili e generalmente rivolti all’esterno dell’unità amministrativa; presentano un processo produttivo chiaramente differenziato dagli altri svolti nell’ambito dell’unità amministrativa, anche se pervengono ad atti finali (nominalmente) uguali; impegnano in modo rilevante i dipendenti assegnati a tali unità. Mentre le linee di attività ausiliarie svolgono – nell’ambito dell’unità amministrativa osservata – attività di indirizzo o di supporto per quelle principali e, in qualche caso, occasionali e sono date dall’insieme di operazioni che, pur mirando a conseguire obiettivi propri dell’attività amministrativa osservata, si svolgono in periodi molto brevi e/o impegnano frazioni molto piccole del tempo di lavoro di pochi operatori. Hanno praticamente carattere «residuale» e contemporaneamente marginale rispetto al complesso delle attività svolte; il loro riconoscimento dipende perciò dalla soglia minima assunta per l’evidenziazione autonoma di linee di attività principali o ausiliarie. Per la rilevazione dell’unità si deve procedere alla specificazione dei processi produttivi preoccupandosi di stendere, per ciascuna linea di attività, delle carte di processo (flow-charts) che siano in grado di descrivere le fasi principali in cui si può scomporre il processo e la successione delle attività elementari (operazioni) che in esse possono susseguirsi. Si devono indicare gli atti di input e quelli di output intermedi e finali ai quali la linea potrebbe dare luogo, e occorre specificare la presenza di eventuali attività elementari (che solo in alcuni casi sono necessarie alla realizzazione del processo produttivo). Un’attività elementare dovrebbe costituire un segmento minimo in cui operativamente sarebbe frazionabile il processo di una linea e sarebbe tale da mettere in evidenza tutte quelle attività elementari considerate e capaci di dar luogo ad atti suscettibili di misurazione che non richiedano tempi di esecuzione troppo lunghi. Per effettuare una corretta rilevazione dell’attività di ciascuna linea si rende necessario, inoltre, precisare alcuni aspetti che

vanno dai punti di rilevazione a tutti quegli elementi occorrenti per quantificare tutta l’attività svolta (ad esempio: numero di atti svolti, tempi richiesti per lo svolgimento delle attività ecc.). Oggi le caratteristiche principali della misurazione della performance fanno riferimento, a livello generale (pubblica amministrazione), a particolari politiche pubbliche o singole amministrazioni pubbliche finalizzate a rispondere a specifici problemi socioeconomici che si manifestano come bisogni della collettività, con conseguenti responsabilità (mission) di darne risposta mediante la definizione di obiettivi strategici e di politiche pubbliche d’intervento. A loro volta gli obiettivi strategici sono dettagliati, attraverso la programmazione e il budgeting, in obiettivi operativi. È in questa fase che si acquisiscono gli input (cioè le risorse umane, strumentali, finanziarie ecc.) con i quali si svolgono le attività volte al raggiungimento degli obiettivi. Attraverso i processi si mettono in relazione tra loro i diversi attori e si svolgono le attività necessarie per generare output (beni e servizi prodotti).

3. Nuove condizioni organizzative per l’offerta di servizi pubblici. Con la riforma Brunetta12 l’intento dichiarato era quello di segnare una decisa discontinuità rispetto al passato attraverso l’affermazione di alcuni principî cardine quali valutazione, merito e trasparenza; con un intento di medio periodo per sperimentare alcune esperienze di applicazione e per aprire la strada al ruolo degli Organismi indipendenti di valutazione (Oiv). L’auspicata riforma del settore pubblico, come si è tentato di argomentare in questo libro, dovrebbe – sempre e comunque – essere condivisa e partecipata da tutti i protagonisti della società (Bouckaert 2010). Il tentativo che si propone, per una ricostruzione sistematica degli studi effettuati sulla produttività nella pubblica amministrazione, è quello di interrogarsi e di approfondire su quali debbano effettivamente essere questi principî cardine per elevare concretamente la pubblica amministrazione italiana, per liberarla da vincoli che oltre normativi sono innanzitutto organizzativi e comportamentali. Una condivisione non solo immaginaria ma, soprattutto, realizzata nelle pratiche e l’unica capace di avere il termometro dello stato di applicazione

della riforma della pubblica amministrazione. Tuttora si parla di valutazione, ma siamo ancora nell’alveo del possibile e non ideale dell’intera politica di riforma; senza rinunciare a far emergere le resistenze e gli effetti indesiderati delle pratiche realizzate dalle strutture pubbliche, con il semplice obiettivo di essere più produttivi facendo cose utili per la collettività. Questo capitolo, per quanto sino a ora dimostrato e per quanto si vuole ancora dimostrare, si propone come un’occasione per una riflessione sulle criticità, sulle potenzialità di riuscita per un’effettiva produttività nella pubblica amministrazione e sullo stato dell’arte dei meccanismi di valutazione a oggi sperimentati. Affinché questo processo si avveri è necessario che i prossimi obiettivi da raggiungere tendano a: essere più produttivi facendo cose utili per la collettività; identificare nelle difficoltà di applicazione la maggiore criticità del processo in corso; ricercare standard qualitativi e superare l’eccessiva concentrazione sulle performance individuali a beneficio di valutazioni maggiormente incentrate su meccanismi organizzativi. Non sarà possibile raggiungere questi obiettivi se saranno trascurati gli studi realizzati sulla pubblica amministrazione che hanno dato conto nel tempo delle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato il ruolo del settore pubblico e che tenevano conto delle esigenze di sviluppo delle moderne società. In Italia la pubblica amministrazione, nel corso degli ultimi sessant’anni, ha registrato un accelerato mutamento sia della sua collocazione all’interno del sistema economico che delle funzioni che essa era stata chiamata a svolgere. I suoi compiti risultati più rilevanti hanno riguardato la produzione di servizi, la gestione delle attività finanziarie dello Stato, i trasferimenti ad altri settori produttivi e ai centri di consumo, mentre man mano è diminuita l’importanza relativa dell’amministrazione tradizionale. A queste importanti trasformazioni non sono seguite equivalenti e rapidi cambiamenti dell’organizzazione operativa e delle tecniche amministrative dell’apparato pubblico, con un ritardo non giustificabile sul limitato impegno allo studio dei modi di operare e produrre propri della pubblica amministrazione, senza indugiare ulteriormente e renderli idonei a soddisfare le crescenti e diversificate funzioni affidate al complesso mondo delle strutture pubbliche. Questo lavoro vuole offrire un contributo e un approfondimento alla conoscenza dei reali meccanismi attraverso cui si svolgono le attività produttive dei servizi pubblici ponendo l’attenzione non solo alle esigenze

istituzionali connesse ai profili giuridico-formali, ma anche agli aspetti dell’efficienza produttiva e dell’efficacia. Il modo migliore è quello di mettere in risalto le prime vere esperienze passate che hanno segnato l’avvio delle ricerche sui problemi delle amministrazioni pubbliche. In particolare, ci si riferisce alla ricerca Formez sull’efficienza e sui costi nell’amministrazione centrale dello Stato – Individuazione dei processi produttivi – del 1979 voluta dall’allora ministro per la Funzione pubblica Massimo Severo Giannini con lo scopo di effettuare una rilevazione conoscitiva sullo stato degli uffici centrali e periferici della pubblica amministrazione, sul loro stato di attività svolte, sul loro grado di utilizzabilità, sulla loro efficienza e sui costi riferiti a insiemi significativi13 di unità amministrative pubbliche (Formez 1987). Prima di allora, e come dimostrato nelle pagine precedenti su specifici circoscritti settori di attività pubblica, erano state condotte indagini riferite a unità amministrative delle pubbliche amministrazioni che svolgevano attività che davano luogo a più tipi di prodotto, con l’intento di determinare i costi di produzione e l’efficienza produttiva. Si è dimostrata, dalla letteratura riferita sia a ricerche internazionali che a quelle condotte in Italia, la notevole frammentarietà di queste esperienze per la mancanza di rilevazioni rigorose ed elaborazioni continuative nel tempo e per la differenziazione degli obiettivi che di volta in volta ci si prefiggeva di raggiungere. Queste caratteristiche di episodicità generalmente impedivano (e lo impediscono ancora oggi tranne in alcune buone pratiche) la produzione di rilevanti ricadute sull’organizzazione operativa delle amministrazioni analizzate, limitandosi allo studio della tempestività della trattazione delle pratiche o sulla possibilità di possibili indicatori (Federico 1968)14. Altre esperienze facevano più sostanziale riferimento alle unità produttive delle singole strutture amministrative indagate, cercando di valutare i carichi di lavoro e l’efficienza produttiva, con l’obiettivo ultimo di determinare il fabbisogno di personale15. Ulteriori ricerche avevano tentato di rilevare anche i costi di produzione della pubblica amministrazione italiana sia attraverso lo studio della metodologia di raccolta dei dati su pochi casi sperimentali che con l’individuazione di indicatori di produttività. Sul versante internazionale più numerose e, soprattutto, più sistematiche erano state le ricerche sui temi della produttività e dei costi delle attività amministrative pubbliche. Le esperienze più cospicue erano indubbiamente

quelle condotte negli Stati Uniti con l’obiettivo principale di ricavare dallo studio sulla produttività la valutazione dell’output in termini fisici, l’aggregazione di prodotti diversi mediante sistemi di ponderazione basati sull’input di lavoro e/o sui costi totali, e anche spunti normativi (Searle Waite 1980; Signorini 1980). La ricostruzione, proposta in questa sede, delle maggiori esperienze di ricerca sugli uffici della pubblica amministrazione successivi alla pubblicazione del Rapporto Giannini ha permesso di mettere in evidenza le problematiche e alcuni risultati delle indagini più significative promosse da differenti enti e organismi. In particolare, sono stati evidenziati i problemi posti dalla misurazione della produttività nell’ambito delle amministrazioni pubbliche relativamente all’output e all’input, attribuendo significato agli indicatori che provengono dal confronto fra output e input con un accenno alla comparazione interspaziale e intertemporale. I principali risultati ottenuti da queste indagini, e relativi a Uffici della pubblica amministrazione centrale, periferiche, di amministrazioni regionali e locali, hanno dimostrato i caratteri di omogeneità che si pongono con i problemi di valutazione della produttività ai diversi livelli di governo e nelle differenti amministrazioni, nonché le peculiarità che ciascuna di tali situazioni propone e le soluzioni di volta in volta adottate. In definitiva gli orientamenti ai risultati sono divenuti oramai un elemento comune a ogni processo di riforma del settore pubblico e in questi ultimi anni le amministrazioni pubbliche hanno compiuto sforzi importanti per introdurre sistemi accurati di misurazione delle performance amministrative. Tali processi, però, hanno avuto ricadute molto deboli sulla formulazione e attuazione delle politiche pubbliche, sulla riprogrammazione delle attività e sul miglioramento della qualità dei servizi pubblici (Aa.Vv. 2006). Un motivo della lentezza di tali processi è dovuto anche alla mancata acquisizione di competenze che dovrebbero possedere i dipendenti pubblici quando devono concorrere ad aiutare un processo culturale capace di colmare le diverse valenze della misurazione delle performance ai diversi livelli decisionali di un’amministrazione; quando devono colmare la scarsa attitudine delle amministrazioni pubbliche alla misurazione delle performance, con particolare riferimento all’utilizzo di informazioni idonee a far assumere decisioni più consapevoli; quando devono consolidare prassi che favoriscano e sostengano processi continui di innovazione e miglioramento organizzativo, al fine di definire e attuare

politiche pubbliche capaci di rispondere adeguatamente ai bisogni della collettività. Al contrario, bisogna fare il massimo sforzo per migliorare la performance delle amministrazioni pubbliche per rispondere adeguatamente alle esigenze crescenti dei cittadini, in termini di qualità delle politiche e dei servizi pur in presenza di risorse scarse. Ancora oggi rimane prioritario che le pubbliche amministrazioni debbano conoscere in modo approfondito le loro performance economiche-finanziarie e organizzative per raggiungere obiettivi strategici e politici e per assicurare sia la qualità dei servizi che l’efficacia dell’azione amministrativa. D’altronde, il ruolo di governance di sistemi complessi di attori che le pubbliche amministrazioni sono sempre più spesso chiamate a svolgere, richiede una maggiore trasparenza rispetto all’utilizzo delle risorse pubbliche, alle proprie attività e ai risultati conseguiti per cittadini e i diversi interlocutori, sia in un’ottica di accountability sia nella ricerca di percorsi condivisi di miglioramento del benessere collettivo. Tali esigenze, così come nel passato recente, mettono in rilievo l’assoluta necessità di sviluppare sistemi di misurazione e analisi delle performance capaci di indirizzare iniziative di miglioramento dell’efficacia di una politica, della qualità di un servizio e della propria capacità organizzativa. Come dimostrato nelle pagine precedenti, negli ultimi anni molte amministrazioni hanno fatto sforzi importanti per introdurre sistemi di misurazione accurati dell’attività e dell’utilizzazione delle risorse, della qualità dei servizi erogati, dei risultati prodotti per la collettività e della performance organizzativa complessiva; molto spesso con risultati molto deboli sulla formulazione e l’attuazione delle politiche pubbliche e sulla percezione di miglioramento dei servizi pubblici da parte dei cittadini e delle imprese. Le esperienze descritte in questa sede hanno dimostrato che una delle condizioni necessarie per un efficace utilizzo delle misure di performance per il miglioramento delle prestazioni sia quella di definire in modo adeguato i vari aspetti della performance, collegandoli agli obiettivi e ai sistemi di raccolta e analisi delle informazioni. In realtà, le attività di misurazione poste in essere dalle amministrazioni pubbliche hanno dimostrato spesso il limite di fornire grande attenzione in fase preventiva agli obiettivi attesi e alle risorse assegnate (i finanziamenti disponibili, gli

impegni di spesa) e un interesse molto più limitato a un’attenta valutazione dei risultati realmente conseguiti e degli esiti finali di tali attività. La misurazione delle performance nelle pubbliche amministrazioni è caratterizzata da alcune criticità dovute alla natura stessa dell’attività pubblica, a partire dal fatto che le stesse operano spesso in assenza di mercato16, che i beni e i servizi prodotti dalle amministrazioni pubbliche sono spesso difficili da quantificare, che agiscono nell’ambito dei problemi collettivi sui quali incidono anche numerosi altri fattori che complicano la misurazione della performance in tempi utili per i processi decisionali e gestionali, che le amministrazioni pubbliche hanno rapporti molteplici e complessi con la collettività costituita da utenti dei servizi pubblici, contribuenti e cittadini. La molteplicità di interessi diversi a cui rispondono le amministrazioni pubbliche aggiunge un’ulteriore complessità alla misurazione della performance in ambito pubblico, nel senso che i vari stakeholder definiscono gli elementi qualificanti della performance rispetto ai valori, esigenze ed esperienze dell’attività amministrativa. Per esempio, piuttosto che l’efficienza economica, ritenuta importante dai manager pubblici, i cittadini e gli utenti spesso accordano una maggiore rilevanza alla facilità d’accesso ai servizi, alla cortesia del personale, alla cortesia del personale e alla capacità dei servizi di rispondere ai bisogni individuali. Ne deriva che la performance non è un oggetto fisso e immutabile, ma un insieme di concetti e giudizi basati su prospettive e interessi dei diversi stakeholder, da definire nel contesto specifico dell’amministrazione e del servizio. Per questo motivo non esiste, e non può esistere, una definizione generica della buona performance applicabile a tutte le amministrazioni pubbliche. I giudizi sulla performance di un’amministrazione si formano sempre rispetto alla missione, agli obiettivi e alle priorità dell’organizzazione, nonché agli stakeholder di riferimento. Allo stesso modo le iniziative di miglioramento della performance saranno sempre indirizzate dal quadro delle priorità politiche, gestionali e organizzative di ogni singola amministrazione. La definizione e la misurazione della performance nelle pubbliche amministrazioni richiedono dunque uno sforzo continuo di sviluppo focalizzato non sulla semplice raccolta e analisi dei dati ma sulla creazione di una cultura della performance legata all’espletamento della missione organizzativa e il raggiungimento dei suoi obiettivi. Pertanto, il concetto di

performance si è evoluto in linea con i cambiamenti di ruolo, compiti e attività delle amministrazioni pubbliche avvenuti nel tempo. In generale la valutazione, per quanto sino a ora dimostrato, costituisce in Italia, ma anche in Europa, uno degli aspetti critici da risolvere per le pubbliche amministrazioni, anche e in particolare tenendo conto del nuovo ruolo della dirigenza e del necessario nuovo stile di direzione che deve assumere. In questa prospettiva acquista maggiore forza la valutazione nell’ambito dei temi della gestione del personale nella pubblica amministrazione. Dai diversi casi di studio realizzati in Italia sui sistemi delle prestazioni si fa riferimento al sistema organizzativo e gestionale delle risorse umane che è basato sull’analisi e sulla definizione sia delle posizioni sia dei comportamenti organizzativi che devono essere messi in atto dai titolari delle posizioni medesime, riconoscendo e valorizzando le dimensioni dei diversi ambiti di responsabilità ricoperti, le competenze manageriali richieste e le caratteristiche operative proprie di ogni singola struttura. Il sistema di valutazione delle prestazioni consente di rilevare e valutare il comportamento organizzativo dei titolari dei diversi ruoli da individuare nella struttura dell’ente; con questo aggiungendo anche la valutazione del grado di raggiungimento dei risultati utile per l’attribuzione del premio di risultato. Gli obiettivi che un’amministrazione deve prefiggersi con l’introduzione di un sistema per la valutazione delle prestazioni devono essere finalizzati a migliorare complessivamente i risultati organizzativi; a incoraggiare i dipendenti pubblici ad esprimere al meglio capacità/comportamenti in linea con i requisiti del ruolo ricoperto; a evidenziare i punti di forza e le aree di migliorabilità dei singoli per individuare azioni di formazione e sviluppo; a utilizzare i dati raccolti per programmare assetto e sviluppo organizzativo; a ottenere valutazioni coerenti, confrontabili e più obiettive possibili (Della Rocca - Veneziano 2004). Un’altra priorità, e una sfida più alta per il cambiamento delle amministrazioni pubbliche, è quella legata alla capacità di rispondere in modo appropriato ai bisogni dei cittadini più esigenti, meglio informati, portatori di interessi sempre nuovi; questa capacità è individuata nella rilevazione della customer satisfaction. Nelle organizzazioni che operano in regime di concorrenza e di mercato la molla che spinge a sviluppare un sempre maggiore orientamento al

consumatore e alla valutazione della customer satisfaction è la ricerca della competitività. L’impresa ha bisogno di un consumatore soddisfatto, di un cliente fidelizzato. Le ricerche di marketing dimostrano che è molto più difficile – e oneroso – per le imprese catturare nuovi clienti che trattenere quelli già presenti. Per questo aumentare la sua soddisfazione diventa un investimento redditizio e l’obiettivo da privilegiare per mantenere o incrementare quote di mercato. Può dirsi parimenti che anche la pubblica amministrazione ha bisogno di un cliente soddisfatto? Alla base della relazione tra cittadino e amministrazione c’è la necessità di rispondere in modo appropriato ai bisogni e ai problemi. In termini di principio non è l’amministrazione che produce servizi per rispondere alle esigenze di un potenziale cliente (il cittadino o le imprese), ma è in realtà il cliente stesso il fondatore e l’azionista principale dell’amministrazione, colui che in ultima analisi decide l’istituzione e la legittimazione di un ente pubblico, che gli attribuisce delle finalità e delle eventuali proprietà di servizio pubblico. Nella realtà il rapporto tra amministrazione e cittadino è ben più complesso e problematico: nel momento in cui il cittadino è utente del servizio pubblico spesso la sua percezione è quella di avere molte meno garanzie di ricevere un servizio di qualità rispetto a un servizio privato. La qualità del servizio dipende tutta dal rapporto che si instaura con uno specifico ufficio o uno specifico reparto e in uno specifico momento: il cittadino è utente e fruitore del servizio a tutti gli effetti. L’esigenza che giustifica e rende necessario lo sviluppo di indagini di customer satisfaction è quella di ascoltare e comprendere a fondo i bisogni che il cittadino-utente esprime, porre attenzione costante al suo giudizio, sviluppare e migliorare la capacità di dialogo e di relazione. In questo senso, rilevare la customer satisfaction consente alle amministrazioni di uscire dalla propria autoreferenzialità, e le aiuta a comprendere sempre meglio i destinatari ultimi delle proprie attività (Danese, Negro, Gramigna 2003). Occuparsi oggi della misurazione e della valutazione della performance della pubblica amministrazione significa dare priorità al processo di modernizzazione del settore pubblico. La sfida di progettare e implementare sistemi di misurazione e valutazione della performance organizzativa è anche una strada per andare oltre i più tradizionali strumenti di valutazione delle politiche pubbliche, strumenti che negli ultimi vent’anni hanno registrato ritardi ingiustificabili (Valotti e altri 2012).

Gli strumenti e i metodi introdotti, l’impatto delle riforme sulla performance della pubblica amministrazione pongono l’interrogativo sulle azioni che servono per fare ulteriori passi avanti. Le politiche del pubblico impiego analizzate con questo lavoro confermano la priorità di snellire e migliorare le burocrazie pubbliche. Negli ultimi tre decenni, la maggioranza degli Stati appartenenti all’Oecd ha avviato riforme del pubblico impiego con l’obiettivo di creare «a government that works better, costs less and gets results» (Valotti e altri 2011). Così come la managerializzazione delle burocrazie pubbliche è da decenni una priorità nelle agende dei paesi industrializzati. «Creating a government that works better, costs less, and gets results» è diventato il mantra di una rivoluzione che ha investito organizzazioni governative nazionali, organismi internazionali e istituzioni sovranazionali (Ongaro, Bellé, Barbieri, Fedele 2010). Le recenti riforme amministrative promosse recentemente hanno rappresentato il tentativo di introdurre i principî del New Public Management con effetti sul funzionamento delle organizzazioni pubbliche che ancora non convincono sugli effettivi cambiamenti nei contenuti di lavoro e nei profili di carriera. 1

Questo metodo fu impiegato da Lytton in uno studio del 1959 che si proponeva di analizzare la dinamica della produttività in cinque differenti dipartimenti del governo federale statunitense. 2 La ricerca fu curata dal Formez con riferimento alle attività di sedici unità divisionali di altrettanti ministeri. 3 W. Z. Hirsch è stato tra i primi a porre in evidenza le difficoltà intrinseche nella definizione di un’unità di misura dell’output nel caso dei servizi sia pubblici che privati. 4 Con il termine efficacia si poteva fare riferimento a due distinti concetti. Qualora si tendesse a determinare il grado di soddisfacimento delle preferenze dei cittadini-utenti, si poteva parlare di efficacia esterna; quando invece si misurasse il grado di rispondenza dei risultati ottenuti agli obiettivi prefissati dai politici, il rapporto output-input veniva definito efficacia interna. 5 La validità del rapporto di produttività poteva essere messa in dubbio qualora si considerasse che il metodo di riferire l’output alle conseguenze delle attività pubbliche tendesse a confondere gli effetti realmente derivanti dall’offerta pubblica con quelli causati da altre variabili ambientali e/o istituzionali che pure avrebbero dovuto agire direttamente e autonomamente sui risultati ottenuti. 6 Ci si riferisce alle diverse valutazioni che possono essere espresse in merito all’efficacia di un trasferimento di reddito dallo Stato a specifiche categorie sociali. 7 Un esempio tipico era quello dell’offerta di un servizio di istruzione pubblica rispetto al quale solo dopo numerosi anni era possibile stabilire il grado in cui si era riusciti a soddisfare gli obiettivi che ci si era proposti. 8 Alcune misurazioni applicate al settore previdenziale italiano e a quello della giustizia tentarono di valutare la tempestività dell’azione amministrativa mediante indici di durata delle pratiche.

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Tipo di studio basato su un campionamento trasversale, condotto in un determinato tempo e in grado di fornire solo indirettamente un’evidenza circa gli effetti del tempo. 10 Per istituzioni si intendono non le organizzazioni strutturate, bensì i sistemi di norme e regole formali e informali seguite dagli attori sociali. 11 Tra i grandi paesi industriali, sei rientrano chiaramente nella prima tipologia (Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Irlanda), altri dieci nella seconda (Germania, Giappone, Svizzera, Paesi Bassi, Belgio, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Austria), mentre altri ancora presentano caratteri intermedi e peculiari (Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Turchia). A titolo di esemplificazione, gli Stati Uniti e la Germania possono essere presi come particolarmente rappresentativi delle due tipologie. 12 Come sarà dettagliatamente affrontato nel capitolo III, la riforma Brunetta fa riferimento alla legge n. 15 del 2009. Ai fini delle nuove condizioni organizzative dei servizi pubblici la norma in questione prefigurava una serie di molteplici misure di controllo, premiali e punitive, soprattutto in vista della produttività dell’amministrazione. Un disegno organizzativo per cui ogni controllo, ogni verifica, ogni azione migliorativa dell’assetto amministrativo, avrebbe dovuto andare per linee interne all’amministrazione pubblica medesima. 13 L’insieme significativo considerava il numero, l’articolazione territoriale e la tipologia di attività ed era riferito a 16 unità e, specificatamente: divisioni o direzioni generali di ministeri e 6 uffici dell’amministrazione periferica in due distinte province, una settentrionale, l’altra centromeridionale. 14 Ci si riferiva alle rilevazioni svolte nell’ambito dell’amministrazione finanziaria dello Stato (Uffici delle imposte dirette) e agli studi svolti sull’amministrazione della giustizia. 15 Tra queste esperienze risultavano di particolare interesse due indagini svolte dal ministero del Lavoro e della previdenza sociale – rispettivamente nel 1958 e nel 1970 – e le rilevazioni sistematiche e continuative effettuate, a partire dal 1967, dal servizio ragioneria delle Ferrovie dello Stato. 16 Assenza che limita sia la misura dell’efficacia rispetto a una concorrenza (neanche potenziale), che un unico risultato di sintesi della performance (come una misura di profit per il settore privato).

III.

Le prospettive di riforma del lavoro pubblico tra innovazioni tentate ed esiti oscillanti

1. La modernizzazione del lavoro pubblico dopo il 1993 e i dilemmi della fase attuale. Il paragrafo 1 di questo capitolo ripercorre le tappe di quello che è stato il lungo percorso del rapporto di pubblico impiego, dalla privatizzazione alla rilegificazione. Un percorso che aveva portato alla riforma, promossa e patrocinata anche dal sindacalismo confederale, fra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, di cambiamento radicale delle relazioni sindacali nel pubblico impiego. Tale riforma aveva conosciuto una prima fase, aperta dalla legge delega n. 421 del 1992 e tradotta in una serie di decreti legislativi (n. 29 del 1993, destinato a restare il testo base di riferimento, ripetutamente corretto e aggiornato, fino ad avere successivamente un volto assai diverso da quello originario, e nn. 470 e 546 del 1993), e una seconda, riaperta dalla legge delega n. 59 del 1997 e realizzata da una sequenza ulteriore di decreti legislativi (n. 396 del 1997, nn. 80 e 387 del 1998). Il padre nobile della riforma della pubblica amministrazione, Massimo Severo Giannini (Giannini 1986), aveva inizialmente parlato di privatizzazione; ma, successivamente, Cassese mette in discussione questo concetto e si interroga se «si tratta di privatizzazione oppure di contrattualizzazione del pubblico impiego» (Cassese 1997). È evidente che è più giusto parlare di privatizzazione in quanto rende giustizia alla storia e alla portata della riforma, sia con rispetto alla fase iniziale, quando la mera e semplice contrattualizzazione, individuale e collettiva, pur se accompagnata dal rinvio al codice civile e alle leggi del lavoro, si presentava non sufficiente, sia con riguardo alla fase successiva, quando c’è stata un’accelerazione tradotta e realizzata soprattutto tramite quella privatizzazione che si muoveva dalla gestione del personale

all’organizzazione cosiddetta micro o bassa. D’altronde parlare solo o prevalentemente di contrattualizzazione, con un’inevitabile enfasi su quella collettiva, appare strumentale a un’espansione dell’area negoziabile, pur se non assistita da alcun obbligo a trattare, sì da farla coincidere con tutta quella gestita tramite la capacità e i poteri del datore di lavoro privato, della micro-organizzazione o della gestione del personale. Non è possibile ricostruire la privatizzazione come una vicenda autosufficiente, se non scorporata dal contesto istituzionale e normativo, facendone una riforma a sé, tutta e solo figlia di una storia interna che si dipana con un’intrinseca continuità e coerenza dalla legislazione settoriale degli anni settanta alla legge quadro del 1983, dalla legge delega n. 421 del 1992 alla successiva n. 59 del 1997 (Braga 2006). La vicenda merita di essere inquadrata in quella «riforma globale» della pubblica amministrazione, avviata con la svolta degli anni novanta, a partire da due grandi leggi quali la n. 142 del 1990 sulle autonomie locali e la n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo e l’accesso ai documenti pubblici (D’Alessio 1998). La stessa riforma del pubblico impiego, delineata dalle due leggi delega e realizzata dalle relative sequenze di decreti delegati, ha riguardato inoltre, come un tutt’uno inscindibile, organizzazione e gestione del personale, facendo leva sullo snodo costituito dalla nuova dirigenza. In definitiva, fra il 1992 e il 1998, il legislatore ha legiferato molto, consegnando una riforma estremamente ricca e complessa, tesa a realizzare la non scontata conciliazione fra un datore di lavoro pubblico non economico, da un lato, e un rapporto di impiego privato, dall’altro. Nel passaggio dalla prima alla seconda fase, c’è stata una risalita a monte della privatizzazione, fino a investire l’organizzazione bassa o micro, la dirigenza generale, la stessa contrattazione collettiva. Risalita che è stata accompagnata da un’ulteriore rivisitazione dell’intera dirigenza, sì da rafforzare la correlazione fra autonomia e responsabilità nella gestione di un’attività sempre più manageriale, controllabile e sindacabile nell’insieme. La responsabilità del «nuovo diritto» è ricaduta tutta sull’Aran1, sulle pubbliche amministrazioni e sulle organizzazioni sindacali chiamate a gestire una disciplina ormai a regime. La legge n. 93 del 1983 si inseriva come nuovo sistema di rapporti di lavoro (individuali e collettivi) nel settore pubblico, ma era un complesso normativo che riconosceva formalmente la contrattazione collettiva e,

quindi, l’esistenza di un conflitto tra impiegato, in quanto subordinato, e pubblica amministrazione, in quanto datore di lavoro, pur lasciando a quest’ultima una «supremazia speciale». Questo nuovo sistema delle relazioni collettive nella pubblica amministrazione entrava in una realtà in cui erano quasi sconosciute le relazioni sindacali di questo tipo poiché i sottosistemi ad esso sottostanti erano tra loro divergenti, nello specifico: la quantità di norme esistenti e preesistenti (legge 93 del 1983) nel settore del pubblico impiego spesso era in contrasto con la rappresentazione che il legislatore e le stesse parti sindacali ne prefiguravano attraverso la normazione da essi stessi prodotta (Braga 2006). I tratti dominanti delle nuove tendenze dell’impiego pubblico si risolvevano, innanzitutto, in una profonda diversità, rispetto al passato, sul piano delle fonti. Si assisteva al fenomeno dell’espansione della contrattazione collettiva e della negoziazione per accordi sindacali. I contenuti stessi delle norme e delle regole cominciavano ad avvicinarsi a quelli del lavoro privato. La legge quadro sul pubblico impiego doveva divenire, per queste forze sociali riformatrici, un’occasione per omogeneizzare tutto il settore e far avanzare le conquiste e i cambiamenti ottenuti negli anni precedenti. Una legge, quindi, che costituì in quella fase un importante traguardo sindacale anche nei confronti della classe politica dirigenziale italiana. Le proposte che avanzava e gli spazi che apriva consentivano di offrire delle prospettive effettive che dovevano essere gestite sapientemente per tentare di realizzare quei salti di qualità di cui il mondo del pubblico impiego necessitava. La legge quadro sul pubblico impiego poteva ritenersi ispirata a quattro obiettivi fondamentali. Il primo, forse non solo in termini di progressione negli articoli, era quello dell’omogeneizzazione, che si rifaceva a una modificazione delle variegate frammentazioni e diversificazioni esistenti nel complesso sistema del pubblico impiego. Il secondo obiettivo era certamente quello della legittimazione e della regolamentazione della contrattazione che, evidentemente, presupponeva il riesame dei rapporti tra il sindacato e la pubblica amministrazione, con una rivalutazione del primo, sia sotto il profilo consultivo sia sotto il profilo della gestione e del controllo. Per questo motivo il terzo obiettivo mirava a realizzare, anche nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, la tutela dell’attività sindacale così come lo Statuto dei lavoratori aveva realizzato nel settore privato. Quarto, ma non ultimo in ordine di importanza, era l’obiettivo che

guardava alla predisposizione di criteri organizzativi dell’attività del personale dipendente idonei a realizzare livelli di efficienza non solo nei rapporti con l’utenza ma anche nei rapporti interni al vincolo gerarchico. Il decentramento delle pubbliche amministrazioni e il ruolo del sindacato nella «seconda privatizzazione» vede nel quadriennio 1998-2001 un periodo caratterizzato da grandi cambiamenti nel lavoro pubblico e nella pubblica amministrazione. Un quadriennio nel quale il sindacato del pubblico impiego, attraverso i rinnovi contrattuali, partecipava attivamente al completamento della riforma della pubblica amministrazione concorrendo all’affermazione definitiva di quel nuovo sistema di regole che avvicinavano il lavoro pubblico al privato. Il decreto legislativo n. 165 del 2001 rappresentava una riscrittura pressoché integrale dell’art. 1 del decreto legislativo n. 29 del 1993, così come era stato modificato e integrato dai successivi decreti legislativi n. 80 del 1998 e n. 387 del 1998. Quella che Massimo D’Antona aveva definito la «seconda privatizzazione» (D’Antona 1998), grazie all’ampio decentramento delle pubbliche amministrazioni e dello snellimento della regolamentazione della loro attività, che aveva inciso profondamente sulla riforma del lavoro pubblico, attenuando le scelte fortemente accentratrici sottese all’originario assetto normativo (Romagnoli 1999). La novità del nuovo impianto normativo continuava ad essere rappresentata dalla ridefinizione congiunta dell’organizzazione degli uffici (vale a dire la struttura dell’amministrazione) e dei rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Ne conseguiva che la riforma del lavoro pubblico, pur segnando la definitiva trasformazione del rapporto di impiego in contratto di lavoro con la sua riconduzione alla disciplina privatistica del lavoro subordinato nell’impresa – e, in particolare, la sua sottoposizione alla contrattazione collettiva e individuale –, non sembrava aver cancellato il collegamento funzionale tra il rapporto in parola e l’interesse pubblico istituzionale della pubblica amministrazione all’organizzazione dei propri uffici e servizi in conformità ai principî costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione. Non si poteva parlare di rapporto di impiego privatizzato, ma di una «privatizzazione tendenziale», che esprimeva una direzione di marcia del pubblico verso il privato ma con una coincidenza di meta, poiché c’era da fare i conti con una differenza di fondo fra una pubblica amministrazione che era e restava tale, come soggetto pubblico, sottratto al mercato, dotato anche di capacità privatistica per quel che

atteneva la micro-organizzazione e la gestione del personale, da un lato, e un imprenditore, soggetto al mercato, fornito solo di capacità privatistica sia come gestore dell’impresa, sia come datore di lavoro (Carinci - D’Antona 2000). Nelle leggi Bassanini (leggi n. 59 e n. 127 del 1997) viene stabilito un nesso esplicito tra il definitivo superamento della specialità del pubblico impiego e l’organica riforma amministrativa che anticipa alcuni caratteri di orientamento federale della riforma della Costituzione. Con il decreto legislativo n. 29 del 1993 e i successivi decreti correttivi vengono meno i cardini della separatezza del pubblico impiego. La svolta consiste essenzialmente nella contrattualizzazione del rapporto di lavoro («i rapporti di lavoro sono regolati contrattualmente») che riduce la pubblica amministrazione alla veste paritaria di parte contrattuale e ne riqualifica – in termini privatistici, e quindi neutri rispetto all’interesse pubblico – la posizione rispetto alle vicende dei rapporti di lavoro. La legislazione delegata offre la sua prima prova con il decreto legislativo 4 novembre 1997 n. 396, che ha esercitato la delega dell’art. 11 comma 4 del decreto legislativo n. 29 del 1993 nella parte in cui prevede l’adeguamento del quadro normativo delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva. Viene riformato il sistema di contrattazione collettiva, riorganizzata e potenziata l’Aran, vengono stabiliti criteri certi per la misurazione della rappresentatività sindacale ai fini della contrattazione collettiva e dei diritti sindacali. Una diversa dislocazione della legge rispetto all’autonomia collettiva si ha anche con riguardo alla struttura contrattuale. A parte il riconoscimento dei due livelli contrattuali («in coerenza con il settore privato», come prescritto dalla legge delega) tutte le opzioni concernenti l’articolazione contrattuale (suddivisione in comparti; definizione delle aree dirigenziali; individuazione di sezioni specifiche per tipologie professionali; rapporti tra livello nazionale e livelli decentrati) sono rimesse alla stessa contrattazione collettiva. Tuttavia il decreto legislativo n. 396 del 1997 sancisce la prevalenza del contratto collettivo nazionale su quello di livello decentrato, comminando, con una soluzione tecnica che non ha riscontri nel settore privato, la sanzione della nullità delle clausole degli accordi difformi rispetto ai vincoli posti dal contratto collettivo nazionale. In questa nuova combinazione di fonti e principî, il carattere pubblico del datore di lavoro non cessa di avere rilievo nell’assetto dei rapporti di

lavoro. La privatizzazione dei rapporti di lavoro non implica e non presuppone la privatizzazione dell’ente o amministrazione che ha la veste di datore di lavoro. La pubblica amministrazione continua a distinguersi dall’impresa perché, a differenza di questa, ha una missione che trova nella legge il suo fondamento. La sua attività è dunque finalizzata dalle norme che ne stabiliscono la missione. L’impresa privata è invece espressione della libertà economica dell’imprenditore, che per definizione non è vincolata a scopi predeterminati dallo Stato, che può essere solo indirizzata o conformata, mai funzionalizzata, e incontra limiti solo esterni nei diritti dei terzi. Il superamento del pubblico impiego come ordinamento speciale non nega la differenza intrinseca alla natura del soggetto pubblico, nega i corollari che la tradizionale concezione pubblicistica ha dedotto da quella differenza. La contrattazione collettiva delle pubbliche amministrazioni diviene espressione di libertà negoziale e non di potere normativo. È la naturale proiezione della capacità contrattuale in forza della quale le pubbliche amministrazioni costituiscono, regolano ed estinguono i rapporti individuali di lavoro. La cornice legale del decreto legislativo n. 396 del 1997, che definisce i soggetti e le procedure dei contratti collettivi pubblici, ha funzione conformativa, e non permissiva, della contrattazione collettiva, e come tale dovrebbe essere sempre interpretata. Se la contrattazione collettiva delle pubbliche amministrazioni è espressione di libertà negoziale e non di potere normativo, si rivela un errore la contrapposizione concettuale tra contrattazione collettiva e poteri di autodeterminazione organizzativa della pubblica amministrazione. Un errore derivato da un impianto normativo, quello della legge quadro n. 93 del 1983, che infatti dava per presupposto che la contrattazione collettiva non fosse manifestazione di libertà negoziale – non essendo negoziale il regime dei rapporti individuali di lavoro – e che, sulla base di questo dato di specialità normativa, traduceva la contrattazione collettiva in assoggettamento della fonte unilaterale pubblicistica al vincolo del previo consenso sindacale, su materie accuratamente ripartite. La contrattualizzazione dei rapporti di lavoro e l’unificazione normativa dei poteri datoriali sotto il regime del diritto privato comportavano un assetto diametralmente opposto: la pubblica amministrazione esercita la capacità di diritto privato sia quando determina unilateralmente, mediante i poteri di gestione dei dirigenti, il funzionamento degli apparati, sia quando

si vincola attraverso contratti collettivi, o partecipando alla formazione della volontà negoziale che attraverso la rappresentanza negoziale dell’Aran conduce alla sottoscrizione dei contratti nazionali, o negoziando e sottoscrivendo direttamente con i sindacati i contratti collettivi integrativi. I limiti legali all’autonomia negoziale presuppongono una capacità negoziale, anche se ne fissano i confini. L’autonomia organizzativa della pubblica amministrazione si esercita anche attraverso la capacità di diritto privato. Attraverso i contratti collettivi si possono introdurre nell’assetto normativo dei rapporti di lavoro quelle modificazioni, richieste dall’innovazione organizzativa, che non possono essere determinate senza il consenso dell’altra parte perché formano il contenuto obbligatorio dei contratti individuali (ad esempio, modificazioni della composizione delle retribuzioni o dell’inquadramento professionale). In questo primo senso, i contratti collettivi sono uno strumento insostituibile di adattamento dinamico delle normative. In secondo luogo, attraverso i contratti collettivi si può ottenere il consenso preventivo dei sindacati su quelle innovazioni organizzative che, rientrando nel potere gestionale dell’amministrazione, possono essere attuate unilateralmente, ma che, se non condivise dai lavoratori interessati, possono essere anche contrastate attraverso il conflitto sindacale. In questo secondo senso, la contrattazione collettiva può essere uno strumento, delicato da maneggiare ma efficiente, di gestione consensuale dei riflessi collettivi dei processi di innovazione organizzativa. Nel primo caso, il consenso sindacale è necessario; nel secondo non è necessario, ma può essere utile. L’esperienza della contrattazione integrativa, tentata nel contesto della riforma del lavoro pubblico che in questa sede si è ricostruita, aveva fra le proprie principali finalità il decisivo ruolo di incentivazione della produttività attraverso l’erogazione selettiva e meritocratica di quote di salario accessorio. Naturalmente nell’ambito dell’ampio mandato alla contrattazione collettiva nazionale per la definizione delle regole concrete e degli stessi margini di finanziamento. È evidente che quest’obiettivo è parzialmente fallito sia per alcuni effetti di slittamento retributivo dovuti a incrementi rilevanti della retribuzione di fatto percepita dai dipendenti pubblici che per la distribuzione delle risorse disponibili senza tenere conto dell’obiettivo dell’incentivazione. Con questi presupposti la riforma del lavoro pubblico contenuta nel decreto legislativo 27 ottobre 2009 n. 150 (riforma Brunetta) non ha contemplato la contrattazione integrativa,

confermando la preoccupazione che la stessa potesse essere utilizzata in modo distorto e non ottenere, quindi, il contenimento della spesa pubblica. L’emergenza dei conti pubblici doveva essere un’occasione per rafforzare la coesione sociale e i meccanismi concertativi mentre si è scelto il percorso decisionale più gerarchico con una «ricentralizzazione» delle principali decisioni allocative in materia salariale con misure centrali secondo parametri indifferenziati che hanno riguardato tutti i dipendenti pubblici (Carrieri - Nastasi 2009). Il complesso normativo del decreto legislativo n. 150 del 2009, fermo restando la preoccupazione del legislatore per l’inefficacia della contrattazione integrativa, opera su alcuni distinti versanti. Il primo rimanda alle risorse da destinare alla contrattazione integrativa che vengono sicuramente ridotte. Altro aspetto su cui interviene riguarda il «come» della contrattazione integrativa, introducendo limiti normativi che si spingono fino alla predeterminazione legale dell’oggetto della contrattazione se non si realizzano condizioni di efficienza organizzativa, premialità e merito individuale e collettivo. I poteri dirigenziali in materia di gestione delle risorse umane, dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni sindacali vengono potenziati. Per proteggere il cittadino vengono imposte maggiori disposizioni per la trasparenza e la comunicazione. Viene previsto un regime sanzionatorio a fronte di un allargamento dei sistemi di controllo.

2. A cavallo tra due riforme: dalla «Brunetta» alla «Madia». All’alba di una nuova riforma, dopo quella voluta da Brunetta e dopo tanti anni di apatia istituzionale su questi temi, si ripropone il pericolo che il disegno di rinnovamento della pubblica amministrazione resti sulla carta o nelle buone intenzioni dei policy maker. A fronte di circa 3500000 dipendenti pubblici2, dotazione tra l’altro in linea con la situazione attuale dei paesi europei, ci si interroga su quale sia la capacità produttiva di questi dipendenti, atteso che il settore pubblico dovrebbe avere un dovere di efficienza superiore a quella del privato; ogni risorsa sprecata corrisponde a una sottrazione della stessa a un uso primario della società in ossequio a un principio etico dell’amministrazione e della gestione della cosa pubblica.

La necessità di rivoluzionare la pubblica amministrazione spesso si trasforma in una generica e ingiustificata denigrazione dei pubblici dipendenti, attribuendo loro indiscriminatamente la qualifica di fannulloni, incorrendo per questa via a un errore di generalizzazione e allontanando l’opportunità di fare scelte concrete per migliorare la situazione. Quando ci si trova di fronte a organizzazioni virtuose devono necessariamente essere credibili perché devono produrre con costanza risultati e motivazione. È noto che nelle amministrazioni pubbliche emerge un forte deficit di credibilità al punto che i dipendenti pubblici si convincono che meriti e professionalità non sono riconosciuti (Valotti 2009). Con una rappresentazione delle amministrazioni pubbliche condizionata da questo giudizio si corre il rischio di penalizzare i dipendenti che lavorano e di promuovere disaffezione e una mediocrità generalizzata. Per queste ragioni bisogna partire dal presupposto che i fannulloni non sono il vero problema delle amministrazioni pubbliche ma di coloro – i politici e i dirigenti – che dovrebbero amministrare e gestire, condizionati dall’intreccio tra politica e management. Quello che conta realmente è che l’interesse generale non deve essere piegato agli interessi particolari; per ottenere questo obiettivo l’unica strada è quella di rendere efficiente la pubblica amministrazione comprendendone quanto è grande, quanto costa e come è possibile far funzionare la macchina pubblica che oggettivamente è enorme e complessa. Inoltre, è fondamentale comprendere quali sono le condizioni particolari che gravano sul lavoratore pubblico preposto alla produzione dei beni pubblici fondamentali per il sistema paese. Bisogna provare a dare chiavi di lettura che spieghino come mai in questo contesto il capitale umano è costantemente esposto a giudizi negativi da parte dell’opinione pubblica, fino a tramutarsi in pregiudizi non sempre giustificabili. Una prima chiave di lettura ci porta ad affermare che un settore che per sua natura produce beni pubblici non ha un mercato ben definito e legittimato. Una seconda chiave di lettura fa emergere che la pubblica amministrazione come datore di lavoro riveste una funzione anomala in quanto spesso è poco interessata ai suoi lavoratori e, soprattutto, in alcuni casi poco o nulla attenta alla strategia della struttura che dirige. Una terza chiave di lettura rileva che spesso è poco attenta al livello di soddisfazione dell’utente finale, ovvero del cittadino.

Un contesto, quello pubblico, che nonostante le innumerevoli criticità e contraddizioni produce beni, in alcuni casi anche di eccellenza, grazie anche al buon senso, all’orgoglio, alla voglia di lavorare e al senso di responsabilità individuale dei dipendenti; pur in presenza di regole del funzionamento del lavoro pubblico non sempre finalizzate alla produzione efficace e ottimale dei beni e dei servizi pubblici. Sono queste condizioni che hanno indotto nel 2009, con un approccio totalmente non condivisibile da parte di chi scrive, l’allora ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta a cercare soluzioni con strumenti che includevano sanzioni e licenziamenti verso i pubblici dipendenti a suo dire «fannulloni». Il convincimento del ministro fondava sull’idea di costringere i dirigenti «dell’azienda pubblica» a diventare finalmente datori di lavoro premiando il merito e punendo il demerito, misurando il livello di soddisfazione dei cittadini, ipotizzando addirittura uno strumento inedito quale la class action nel settore pubblico per rivalersi in forma collettiva in sede giudiziaria contro il responsabile di un grave disservizio, in un ufficio o una struttura pubblica. Una riforma, quella di Brunetta, motivata dalla convinzione che non era più possibile non cogliere un’opportunità unica e non ripetibile (dal suo punto di vista) che proveniva dal paese di una richiesta fortissima di innovazione del settore; chiamando anche in causa la stragrande maggioranza dei lavoratori pubblici che non sopportavano più di essere additati come causa di tutti i mali italiani e dell’insostenibilità economica dell’intero sistema. In definitiva per il policy maker del 2009 non era rinviabile la necessità di riformare l’amministrazione pubblica perché non era più possibile tenersela così inefficiente e con la presenza di dipendenti poco efficienti. L’Italia che perde costantemente competitività e quote di mercati internazionali, il Prodotto interno lordo che rimane largamente sotto la media europea portano alla necessità di ridurre il costo dell’amministrazione pubblica e di rendere migliori le prestazioni pubbliche. Per Brunetta queste condizioni rappresentavano una questione centrale perché non era più possibile bruciare troppa ricchezza al servizio di settori, caratterizzati da privilegi e da rendite che di ricchezza non ne producono alcuna. Andando oltre gli intenti dell’allora ministro Brunetta, oggi, rispetto alle intenzioni della riforma Madia, l’approccio da considerare è se la politica cominci ad affrontare il problema dal punto di vista degli interessi generali,

evitando le trappole degli interessi particolari che per loro natura spingono verso la conservazione e la resistenza organizzativa. Il cammino di un processo di riforma è sempre denso di complessità che si muovono in una palude tra il potere formale e il pericolo dell’impotenza sostanziale; il non fare è sempre più comodo e meno conflittuale del fare. Ogni seria politica di riforma non ha prospettive se non rappresenta gli interessi collettivi e quelli legati concretamente allo sviluppo; al contrario gli interessi della conservazione si consolidano più facilmente. L’intento del presente contributo è quello di dimostrare sicuramente la necessità effettiva di rivoluzionare la pubblica amministrazione senza con questo assecondare la tendenza a una generica e ingiustificata denigrazione dei dipendenti pubblici, ma analizzando con un rigore inedito cosa ha significato la politica di inquadramento professionale in questi anni nel mondo del pubblico impiego, cosa è oggi il concetto di gerarchia e di responsabilità nell’adempiere al proprio dovere. Nel testo della riforma Brunetta si prefiguravano una serie di misure di controllo, premiali e punitive, soprattutto in vista dell’obiettivo della produttività dell’amministrazione pubblica, tali per cui ogni controllo, ogni verifica, ogni azione migliorativa dell’assetto amministrativo realizzati per linee interne hanno messo concretamente in pericolo l’effettiva destinazione delle verifiche e dei controlli legati alle esigenze dei cittadini, anche come utenti del servizio che le amministrazioni pubbliche dovrebbero loro fornire. Premiando i dipendenti laboriosi e punendo i «fannulloni», si realizza una logica per cui il premio a chi più produce dipenderebbe da chi produce di meno, dedicando proprio a verifiche e controlli la gran parte delle energie, sottratte a compiti operativi (Angiolini 2009). Inoltre, nella disciplina del lavoro pubblico prevista dalla riforma Brunetta si era realizzato l’arretramento della contrattazione collettiva, restituendo spazi alla legge e ad atti imperativi unilaterali; nel caso delle misure premiali la contrattazione collettiva doveva avere una funzione puramente attuativa, con un’amministrazione con un’entità autocefala e resa immune dall’azione sindacale e dalla partecipazione dei lavoratori, proteggendo l’organizzazione amministrativa pubblica da ingerenze esterne. È del tutto evidente che una maggiore efficienza dell’amministrazione, una maggiore razionalità dell’ingente spesa pubblica per gli apparati amministrativi, una migliore utilizzazione delle risorse umane a disposizione degli stessi non sono obiettivi che si realizzano una volta per

tutte. Di qui una conseguenza ovvia: il processo che porta a una maggiore efficienza dell’attività amministrativa è – non può non essere – un cantiere aperto perché gli obiettivi della riforma si concretizzano in modo diverso nei diversi momenti storici nelle diverse realtà; in altre parole, mutando l’ambiente sociale e i bisogni che la società esprime, non possono che cambiare le risposte che le amministrazioni devono dare (Garofalo 2009). Non si può, infatti, parlare di amministrazione pubblica al singolare: le pubbliche amministrazioni sono tante e tra loro diverse. È sbagliato imporre a tutte un’unica risposta ai problemi organizzativi e gestionali, come auspicava invece la riforma Brunetta che ostacolava soluzioni che richiedevano un sistema di fonti di regolazione articolato e flessibile. Le riforme del 1992-93 e del 1997-98 avevano introdotto una gigantesca opera di delegificazione, disboscando una vera giungla di leggi e leggine che introducevano piccoli o grandi privilegi e che irrigidivano l’apparato amministrativo in regole spesso inapplicabili; mentre le innovazioni volute dalla riforma Brunetta non avevano bisogno di un intervento legislativo perché potevano essere realizzate con strumenti amministrativi o attraverso la contrattazione, a patto che ci fosse la volontà politica di farlo. Se le pubbliche amministrazioni oggi sono e non possono non essere realtà organizzative complesse perché devono rispondere ai bisogni complessi di una società complessa, non possono essere ridotte alla semplicità di una struttura gerarchica, perché sono necessari livelli decisionali propri delle organizzazioni complesse. Alla luce di questo scenario ecco, appunto, che entra in gioco la riforma Brunetta sul lavoro pubblico ed è importante conoscerne tutte le caratteristiche, a partire dalle finalità che il legislatore dell’epoca voleva perseguire. Con l’approvazione da parte del governo del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, in applicazione della legge delega 4 marzo 2009, n. 15, si attuava un provvedimento che aveva come principî ispiratori la trasparenza e la meritocrazia, che intendeva aprire a nuovi spazi di mobilitazione dei cittadini e della società civile, verso un reale cambiamento delle amministrazioni pubbliche. Come dimostrato, l’intento dichiarato dell’allora legislatore era quello di intervenire su alcune criticità manifestate, nell’applicazione delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, dirette ad accrescere efficienza e trasparenza, a razionalizzare il

costo del lavoro pubblico e a realizzare una migliore utilizzazione delle risorse umane all’interno di esse. Nelle intenzioni, è stato un banco di prova per migliorare il rapporto tra cittadini-utenti e pubblica amministrazione. La prospettiva di considerare le strutture pubbliche come operanti dentro le regole del mercato, pur non essendo immediatamente attuabile, viene compensata introducendo meccanismi per misurare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche con l’intento di assicurare una maggiore trasparenza attraverso il controllo diretto dei cittadini, avvalendosi di tecniche quali la customer satisfaction, sin dalla programmazione degli obiettivi. La riforma Brunetta non rinuncia ad attuare una piena convergenza con quanto avviene nel settore privato; per queste ragioni interviene nell’aspetto soggettivo del rapporto di lavoro, piuttosto che su quello oggettivo coinvolgendo i dirigenti pubblici e considerandoli rappresentanti del datore di lavoro pubblico. I dirigenti, per il decreto in esame, divengono i veri responsabili dell’attribuzione dei trattamenti economici accessori in quanto ad essi compete la valutazione della performance individuale di ciascun dipendente, secondo criteri certificati del sistema di valutazione; valorizzando la figura del dirigente detentore di strumenti per operare; prevedendo altresì sanzioni, anche economiche, qualora non fosse in grado di svolgere efficacemente i compiti assegnati. Con questa impostazione viene capovolta la scelta iniziata dalla prima stagione della riforma del lavoro pubblico avviata nel 19923, in quanto la legge ritorna ad essere la fonte regolatrice principale (art. 1 legge n. 15/2009) rispetto a quella pattizia precedente. Viene rafforzata la funzione dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale nelle pubbliche amministrazioni (Aran) nominando il presidente direttamente con un decreto del presidente della Repubblica, previo parere favorevole delle competenti Commissioni parlamentari. Vengono favoriti i processi di mobilità tra i comparti di contrattazione del personale delle pubbliche amministrazioni, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, con la definizione di una tabella di equiparazione tra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione. Vengono fissate nuove procedure per l’accesso alla dirigenza, prevedendo l’accesso alla qualifica di dirigente di prima fascia nelle amministrazioni statali e negli enti pubblici non economici. Infine vengono fissate nuove disposizioni in

materia di sanzioni disciplinari, introducendo una semplificazione dei procedimenti e un incremento della loro funzionalità, estendendo, anche in questa materia, i poteri del dirigente della struttura in cui il dipendente lavora. In particolare, vengono a ridursi i termini dei procedimenti, si viene a potenziare l’attività istruttoria, si aboliscono i collegi arbitrali di impugnazione e si prevede la validità della pubblicazione del codice disciplinare sul sito telematico dell’amministrazione. Inoltre si introduce un nuovo rapporto fra procedimento disciplinare e procedimento penale. Si introduce, infine, il reato per false attestazioni e certificazioni, a cui sarà soggetto il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio oppure giustifica l’assenza dal servizio mediante certificazione medica falsa. La contrattualizzazione del lavoro pubblico, come annunciato, subisce profonde evoluzioni e molti ripensamenti giustificati dalla necessità di assicurare una maggiore efficienza ai bisogni dei cittadini. L’introduzione, avvenuta negli anni precedenti, di una regolazione tendenzialmente omogenea al settore del lavoro privato ebbe una prima modifica sostanziale con quella regolazione del lavoro pubblico che abbandonava la natura esclusivamente pubblicistica, caratterizzata da atti legislativi e provvedimenti amministrativi; un processo di «contrattualizzazione» che riconduceva il sistema delle regole e delle vicende del rapporto di lavoro a quello prettamente contrattuale privatistico, con la definizione del trattamento economico, non più soggetto a un atto pubblicistico di recepimento. La riforma della contrattualizzazione del lavoro pubblico conosceva un ulteriore avanzamento con la legge delega del 15 marzo 1997 n. 59 (la cosiddetta «legge Bassanini») con lo scopo di agevolare la semplificazione amministrativa e di completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato. La peculiarità di questo processo di contrattualizzazione, poiché si applicano anche al dipendente pubblico le norme del codice civile e dello Statuto dei lavoratori, stanno nel fatto che è ribadito l’interesse collettivo nella prestazione del lavoro pubblico e, pertanto, vengono confermati strumenti di gestione del personale coerenti con quelli del lavoro pubblico (Simeoli 2006). Una novità importante era rappresentata dal tentativo di definire un assetto organizzativo per migliorare la funzionalità dell’intero sistema amministrativo; mentre la gestione delle risorse umane rappresentava

l’elemento centrale per impostare politiche effettive di cambiamento. Venivano introdotti due livelli di contrattazione, quello del contratto collettivo nazionale di comparto e quello del contratto decentrato che dettava disposizioni integrative, pur mantenendo il forte vincolo di coerenza con il contratto collettivo, prefigurando nel sistema negoziale pubblico condizioni di negoziabilità a livello di ente, anche se dipendenti direttamente da quella nazionale4. Alla contrattazione collettiva nazionale spettava disciplinare gli istituti contrattuali che nel dettaglio venivano regolati dalla contrattazione decentrata che, a sua volta, doveva attenersi a quanto disciplinato dal contratto collettivo nazionale (fermo restante il rispetto dei vincoli di bilancio dei singoli enti) e poteva avere come ambito territoriale una o più amministrazioni. Con la legge delega n. 15 del 2009 tutto il processo avviato precedentemente viene modificato e, in particolare, questo automatismo scompariva perché la nuova contrattazione collettiva prevedeva una deroga alle disposizioni di legge, regolamento o statuto solo se veniva espressamente previsto dalla legge. Certamente non sfuggiva il dato che nel momento in cui si metteva in campo una riforma complessiva del lavoro pubblico non si poteva non riconoscere la centralità del ruolo dei dirigenti, come punto di raccordo tra l’organizzazione degli uffici e dei servizi e organizzazione del lavoro, così come nel rapporto con le organizzazioni sindacali sia ai fini della gestione degli esiti della contrattazione che per la definizione delle decisioni attinenti all’organizzazione del lavoro. Con questi presupposti ai dirigenti veniva attribuito un protagonismo rispetto al nuovo assetto organizzativo e l’attribuzione della veste di «datore di lavoro». Era del tutto evidente che il sistema delle relazioni sindacali avrebbe costituito il punto più delicato e fonte di criticità di tutto l’impianto normativo della nuova riforma del pubblico impiego voluta da Brunetta perché il sistema di contrattualizzazione del rapporto di lavoro precedentemente realizzato aveva alcuni istituti contrattuali, quali le progressioni orizzontali, il premio di produttività e le varie indennità di disagio, che erano stati negoziati senza affrontare il collegamento degli stessi all’organizzazione del lavoro e alla produttività; per questa via l’applicazione di tali istituti contrattuali aveva rappresentato una sorta di incompiuto del sistema della contrattualizzazione con evidenti contraddizioni come il riconoscimento di troppi automatismi sulle progressioni orizzontali piuttosto che frutto di procedure selettive,

l’attribuzione del premio di produttività erogato «a pioggia» anziché previa valutazione del rendimento del personale nel raggiungimento degli obiettivi, e le varie indennità di disagio riconosciute impropriamente (Bianco, Di Filippo, Laezza 2007). Con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 150 del 2009 entrava definitivamente in crisi la contrattazione voluta nella prima stagione delle riforme del lavoro pubblico e si configurava un nuovo ambito operativo delineato da quanto era previsto dall’art. 40, primo comma del decreto legislativo n. 165/2001, laddove ora si disponeva che: La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali. Sono, in particolare, escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell’articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c) della legge 23 ottobre 1992, n. 421. Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge.

Il diritto del lavoro pubblico ritornava al passato perché la legge acquisiva la fonte regolatrice primaria e ad essa era subordinata la contrattazione collettiva rispetto ad alcune materie legate al merito e ai premi. A onore del vero la contrattazione collettiva nel settore pubblico era stata comunque fonte di criticità in tutto l’impianto normativo della riforma del pubblico impiego, senza cadere nell’errore che le responsabilità erano tutte da addebitare esclusivamente alle organizzazioni sindacali. Al contrario non si è mai approfondito fino in fondo il problema dell’effettivo ruolo dei dirigenti. La riforma Brunetta, anziché riassegnare alla fonte legislativa materia già oggetto di contrattazione o concertazione, avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati richiedendo alla dirigenza maggiori competenze e professionalità nella conduzione delle trattative sindacali in sede decentrata, determinando nei fatti una deresponsabilizzazione e una diminuzione delle capacità professionali. A ogni buon conto, dopo la delega, la contrattazione collettiva sul lavoro pubblico si configurava in modo profondamente diverso da come era stata conosciuta sino ad allora (Carrieri - Nastasi 2009). Sicuramente le varie soluzioni regolative della contrattazione collettiva dovute alla riforma

Bassanini, seppure si proponevano la promozione di innovazione nelle amministrazioni pubbliche, erano state attuate male e richiedevano correttivi anche di tipo legislativo, non fosse altro per l’attuarsi del riassetto delle amministrazioni pubbliche che aveva reso anacronistico lo stesso originario riferimento al decreto legislativo n. 29 del 1993, a partire dalla caratterizzazione accentratrice delle politiche contrattuali che registrava dal 2002 un susseguirsi di norme inserite nelle varie finanziarie e dirette a limitare e imbrogliare il sistema contrattuale pubblico che diveniva sostanzialmente «binario» (Zoppoli 2009). Da una parte il contratto di comparto, stipulato dall’Aran tenendo conto principalmente degli indirizzi governativi, dall’altra parte la contrattazione integrativa, soprattutto a livello di singolo ente, che deve muoversi nelle strette maglie delle finanziarie, di bilanci sempre più magri e di un contratto nazionale che dà scarso peso alle esigenze delle diverse organizzazioni e delle tante fasce di utenza. Nella legge delega n. 15 del 2009 l’intento dichiarato era quello di ridimensionare drasticamente gli spazi per la contrattazione collettiva, giustificato dal motivo che la stessa avesse generato colpe relative allo stato poco soddisfacente in cui versavano le pubbliche amministrazioni. Per quanto si possa essere molto critici nei confronti della contrattazione collettiva, bisogna essere obiettivi nel distribuire le responsabilità tra la parte pubblica e i sindacati. A questi ultimi si poteva rimproverare di aver utilizzato tutte le opportunità presenti nelle pieghe contrattuali per difendere gli interessi degli iscritti; con una possibile miopia strategica rispetto al proprio ruolo. Relativamente alla parte pubblica c’era da chiedersi come mai la contrattazione collettiva non avesse giocato un ruolo determinante per migliorare la qualità amministrativa degli apparati pubblici (Carrieri Ricciardi 2006). Dunque, una contrattazione collettiva sicuramente deficitaria sul piano delle politiche negoziali; mentre la legge delega del 2009 sceglieva completamente una strada opposta perché opzionava un unico indirizzo gestionale essenzialmente «punitivo» (Zoppoli 2009), con un modello che tendeva a contrattare il meno possibile nelle pubbliche amministrazioni per tenere la contrattazione lontana dalla regolazione del lavoro pubblico e per avere margini di maggiore autorità discrezionale con maggiori poteri ai dirigenti, soprattutto quelli più repressivi. I recenti provvedimenti legislativi presenti nella riforma Madia sono partiti dal presupposto che bisognava porre un limite all’eccessiva

compressione della contrattazione collettiva prevista dalla legge per evitare di incorrere nella compressione quasi totale della libertà sindacale (art. 39 della Costituzione) e dell’autonomia di scelta dei modelli organizzativi e degli stili gestionali (artt. 5 e 117 della Costituzione). Su quest’ultimo aspetto il confronto tra le parti sociali per addivenire a una formulazione condivisa degli strumenti attuativi della riforma Madia ha preso atto culturalmente e definitivamente che dopo le riforme degli ultimi anni le amministrazioni pubbliche non sono più monolitiche e non possono tornare ad esserlo senza modifiche sostanziali e costituzionali; che non possono essere formalmente ridimensionate più di tanto, soprattutto quando impattano su modelli organizzativi o istituti contrattuali che stanno a cavallo tra l’organizzazione e la regolazione dei rapporti di lavoro. La riforma Madia deve assolutamente evitare di pensare di risolvere le ambizioni riformatrici con innovazioni legislative di stampo autoritario (come lo è sicuramente stata la riforma Brunetta). Deve ispirarsi al principio di sussidiarietà per poter svolgere i suoi effetti positivi, permettendo di trovare spazio anche nell’ambito del lavoro pubblico coagulando un programma condiviso intorno a obiettivi di pieno funzionamento delle amministrazioni. In quest’ottica serve un ripensamento del modello contrattuale del lavoro pubblico che si faccia carico di politiche riformatrici delle amministrazioni pubbliche, lasciando uno spazio effettivo al principio di sussidiarietà applicato anche nell’impostazione delle politiche contrattuali che tengano conto di efficaci servizi ai cittadini. Serve una nuova fase contrattuale che delinei contenuti dell’azione sindacale sui quali è possibile cercare e stringere alleanze concrete tra lavoratori pubblici e cittadini in grado di soddisfare le aspettative professionali dei primi e i bisogni e i diritti dei secondi. La nuova stagione contrattuale deve rilanciare con forza queste politiche e deve mettere in campo tutti gli strumenti utili per implementarle, partendo dal presupposto che un’azione riformatrice risulta sempre difficile per diverse ragioni. Prioritariamente bisogna fare i conti con le resistenze dei gruppi organizzati; spesso le norme vengono applicate in modo parziale e frammentario; si presentano gli effetti inattesi degli interventi; si fanno errori di impostazione e di implementazione; si introducono distorsioni nei meccanismi istituzionali; i passi indietro e i ripensamenti risultano essere una caratteristica di un processo di riforma. Le riforme di questi anni, che con il presente lavoro si è voluto riassumere, sicuramente possedevano delle intuizioni valide e contenuti

convincenti ma – come in tutte le politiche pubbliche fallimentari – non erano in grado di realizzare il processo di implementazione con progetti concreti di fattibilità preventivi e, conseguentemente, con meccanismi di valutazione sui risultati raggiunti, limitandosi a predisporre un rigoroso apparato legislativo e, in alcuni casi, proponendo riforme di management e governance pubblica. Il contributo di questo volume può aiutare la riflessione su queste tematiche attraverso l’analisi delle esperienze pregresse e quelle che si stanno tentando sulle diverse riforme della pubblica amministrazione che si sono susseguite in questi anni, riforme che sono state sempre al centro dell’agenda politica con la formulazione di buone leggi che però non hanno funzionato perché non ci si preoccupava di creare le condizioni ideali per la riuscita di una politica riformatrice. La volontà di ridurre i costi del funzionamento delle strutture pubbliche e di aumentare la qualità dei servizi pubblici non sempre ha trovato continuità con le azioni concrete messe in atto con risultati scadenti. La stessa «privatizzazione» del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti avrebbe dovuto aprire la strada a prassi organizzative tipiche delle organizzazioni delle imprese con soluzioni totalmente differenti a quelle delle pratiche burocratiche fino ad allora dichiaratamente fallimentari. Purtroppo queste pratiche virtuose delle imprese private non sempre possono attecchire per organizzazioni che hanno la finalità di garantire beni pubblici e che necessitano di professionalità specifiche unitamente alla certezza di accompagnare la propria performance con una forte dose di impegno. Il tentativo di affidarsi al New Public Management, come possibile filosofia di approccio ai problemi di miglioramento della gestione dei servizi pubblici, è stato interessante ma non sempre appropriato. Un modello da non banalizzare perché contiene alcuni principî base che offre spunti operativi per un’implementazione a livello strategico dei servizi pubblici. Un primo principio è quello che immagina di eliminare dall’organizzazione tutto quello che non contribuisce al valore del servizio/prodotto erogato al consumatore. Un secondo principio suggerisce di «partire da capo» piuttosto che tentare di «aggiustare» i problemi già esistenti con soluzioni marginali e «tampone». Un principio che richiede attenzione ai processi e non alle funzioni e alle posizioni negli assetti gerarchici, per accrescere la soddisfazione dell’utente e migliorare la qualità

del servizio. Il terzo principio richiede di sviluppare nuove modalità di servizi. Il quarto principio richiede di armonizzare la struttura organizzativa alla strategia sviluppata nell’ambito della reinvenzione per ottenere gli obiettivi desiderati e per motivare il management e il personale. Il quinto principio richiede la capacità di accelerare l’analisi e il feedback, risolvere problemi reali partendo dai sintomi e da una valutazione migliore e più rapida della performance dei servizi (Meneguzzo, Cepiku, Di Filippo 2006). I cinque principi appena descritti costituiscono uno schema di riferimento per comprendere i diversi concetti che costituiscono il New Public Management; concetti che possono sicuramente essere usati come una guida per l’innovazione e il cambiamento organizzativo ma non sempre la promessa implicita che contengono può essere garante di risultati rivolti a una pubblica amministrazione pronta a rispondere in modo più efficace e più efficiente. Queste idee non bastano a capovolgere la burocrazia e la cultura burocratica perché il lavoro di trasformazione delle pubbliche amministrazioni richiede tenacia, continuità di impegno e capacità di mobilitare le migliori risorse ed energie, che ci sono e vanno valorizzate, e attorno a queste occorre aggregare progressivamente altre persone, determinando un movimento incredibile di cambiamento. Questo cambiamento deve necessariamente coinvolgere la burocrazia che, come dimostrato, compartecipa alla produzione di decisioni strategiche, mentre autonomamente elabora un gran numero di microdecisioni quotidiane, e non sempre di routine, le quali corrispondono nel complesso al nucleo più rilevante delle decisioni pubbliche (Bellucci 1989). La stessa obsolescenza del modulo organizzativo e le continue trasformazioni del quadro normativo, nell’accavallarsi di leggi e decreti, sono evidenti fattori di ostacolo all’attività decisionale dei dirigenti pubblici che rimane non adeguata rispetto ai problemi complessi della società contemporanea. A oggi gli strumenti impiegati per raggiungere risultati hanno fatto riferimento a processi di razionalizzazione delle strutture organizzative che hanno agito esclusivamente sulle strutture interne ed escludendo sistematicamente quelle esterne (non coinvolgendo gli stakeholder); introducendo moduli organizzativi simili a quelli aziendali limitandosi semplicemente a porre dei paletti alle forme di privatizzazione dei servizi pubblici. Un approccio che pone enfasi sulla produttività e sul controllo dei risultati, che deve essere valutato utile dalla dirigenza non solo nei confronti

del personale in generale, ma anche specificatamente per gli stessi vertici amministrativi. Approccio importante se accompagnato da quel complesso di attitudini e opinioni innovative sul ruolo e la funzione dirigenziale che devono garantire il funzionamento delle macchine amministrative pubbliche in un’ottica di trasformazione della pubblica amministrazione. Nelle esperienze registrate a oggi la dotazione di strumenti decisionali ad appannaggio della dirigenza pubblica non è stata per nulla adeguata a gestire i problemi complessi che un’economia in rapida trasformazione sociale e tecnologica pone agli apparati della pubblica amministrazione. Mentre i processi decisionali avrebbero dovuto stabilire un grado di flessibilità della classe burocratica rispetto a tutti i soggetti sociali, politici e istituzionali con cui si trovano a interagire nell’attività di gestione. Di fatto il management pubblico si è presentato come un corpo chiuso, impermeabile all’esterno, senza interscambi significativi con altre organizzazioni politiche e sociali; è prevalsa una logica di autoregolazione burocratica a scapito del governo dei processi complessi. Si auspica per la prospettiva un cambiamento del paradigma del New Public Management, che fa riferimento semplicemente al funzionamento delle singole amministrazioni da un punto di vista meramente aziendalistico, al paradigma della Public Governance, approccio più attento alla capacità di gestione di forme di cooperazione e partenariato tra amministrazioni pubbliche e tra queste e soggetti privati (cosiddetto non e for profit). La creazione di reti tra soggetti pubblici e privati testimonia l’erosione del centralismo statale nell’elaborazione dei programmi finalizzati al soddisfacimento dell’interesse pubblico, superando il binomio pubblicoprivato derivante dal New Public Management tramite il riconoscimento dell’importanza fondamentale delle interrelazioni tra i vari attori del contesto socioeconomico. Il percorso teorico delle evoluzioni organizzative della pubblica amministrazione che si è rappresentato con questo volume ha portato alla conclusione che i confini dello Stato nell’economia e nella società civile si sono continuamente modificati con il trascorrere degli anni, passando attraverso meccanismi caratterizzati da una razionalità assoluta, per arrivare ad altri di tipo sistemico, il cui processo decisionale è incardinato sulla presenza di strumenti e modalità di concertazione tra i vari soggetti economici e sociali.

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L’Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni), istituita già dal decreto legislativo n. 29 del 1993 e accresciuta e riconfermata nelle sue funzioni dai decreti legislativi n. 165 del 2001 e n. 150 del 2009, è l’agenzia tecnica – dotata di personalità giuridica di diritto pubblico e di autonomia organizzativa, gestionale e contabile – che rappresenta le pubbliche amministrazioni nella contrattazione collettiva nazionale di lavoro. Svolge ogni attività relativa alla negoziazione e definizione dei contratti collettivi del personale dei vari comparti del pubblico impiego, ivi compresa l’interpretazione autentica delle clausole contrattuali e la disciplina delle relazioni sindacali nelle amministrazioni pubbliche. Nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali, l’Aran si attiene agli atti di indirizzo dei comitati di settore, con l’autonomia dettata dall’esigenza di garantire una corretta e funzionale dinamica negoziale. Oltre a curare le attività di studio, monitoraggio e documentazione necessarie all’esercizio della contrattazione collettiva, assiste le pubbliche amministrazioni per l’uniforme applicazione dei contratti collettivi di lavoro e, su richiesta dei comitati di settore, può costituire delegazioni temporanee a livello regionale o interregionale per soddisfare specifiche esigenze delle amministrazioni interessate. L’Aran predispone – a cadenza semestrale e avvalendosi della collaborazione dell’Istat e del Mef – un rapporto sull’evoluzione delle retribuzioni di fatto dei pubblici dipendenti, che invia al governo, ai comitati di settore dei comparti Regioni e Autonomie locali e Sanità, nonché alle Commissioni parlamentari competenti. È competenza dell’agenzia, inoltre, effettuare il monitoraggio sull’applicazione dei contratti collettivi nazionali e sulla contrattazione collettiva integrativa e presentare annualmente al Dipartimento della funzione pubblica, al ministero dell’Economia e delle finanze e ai comitati di settore, un rapporto in cui verifica l’effettività e la congruenza della ripartizione fra le materie regolate dalla legge, quelle di competenza della contrattazione nazionale e quelle di competenza dei contratti integrativi, nonché le principali criticità emerse in sede di contrattazione collettiva nazionale e integrativa. Unico organismo preposto alla negoziazione nel pubblico impiego, l’Aran rappresenta un costante punto di riferimento nel complesso sistema della contrattazione collettiva. 2 «Il dato effettivo al 2014 dimostra che tra il 2008 e il 2012 il numero dei dipendenti pubblici è calato del 5,5%, portandosi a 3 238 474. Il pubblico impiego italiano sta diventando sempre meno oneroso e per il personale pubblico si spende il 33% in meno. Resta comunque la necessità di un piano straordinario per il settore, che ne migliori l’efficienza senza continuare a incidere indistintamente sul personale. Anche il rapporto tra la spesa per i redditi da lavoro dei dipendenti pubblici e il totale della spesa pubblica attuale si è portato nel 2012 leggermente al di sotto della media europea (24,8% contro 24,9%), con un calo di quasi due punti percentuali rispetto al 2008. In forte calo anche il numero dei dirigenti pubblici tra il 2007 e il 2012: 19% nei ministeri; 13% nelle regioni a statuto ordinario; 31% nelle province e 20% nei comuni. Inoltre, la presenza femminile nel settore dirigenziale della pubblica amministrazione è molto maggiore di quella nel settore privato. Si è infatti passati, sempre tra il 2007 e il 2012, dal 35,3% al 39,49% nei comuni, dal 26,44% al 31,07% nelle province, dal 30,18% al 36,31% nelle regioni a statuto ordinario e dal 34,47% al 42,93% nei ministeri. La terapia d’urto è dovuta alle innovazioni introdotte nel 2010, e che si sono concretizzate soprattutto con la riduzione del turnover e il blocco della contrattazione, provocando anche un effetto di dimagrimento ma anche effetti collaterali, come l’invecchiamento del personale, con quasi metà dei dipendenti over 50» (F. Sarcina, in «Il Sole 24 Ore», 18 febbraio 2014). 3 Si fa riferimento alla legge 23 ottobre 1992 n. 421. 4 Diversamente dalla contrattazione pubblica nel settore del lavoro privato la negoziazione è molto più libera nella determinazione degli istituti contrattuali.

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