Boccaccio, Petrarca e altri poeti del Trecento 8822232860, 9788822232861


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Boccaccio, Petrarca e altri poeti del Trecento
 8822232860, 9788822232861

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BIBLIOTECA DI LEErERE.FFALIANE” StupI E TESTI

XXXI

ARMANDO

BALDUINO

BOCCACCIO, PETRARCA E ALTRI POETI DERRERECENIO

FIRENZE

PRO

Esteo

sere: MCMLXXXIV

DETRO RE

BIBLIOTECA

DI « LETTERE

ITALIANE »

StupI E TESTI (cm. 17 X 24)

1 - EpoAaRDO SANGUINETI, Interpretazione di Malebolge. 1961, xx-364 pp. 2 - Mario MARTELLI, Studi Laurenziani. 1965, x11-236 pp. con 2 tavv. f. t. Esaurito 3 - GiLBERTO LoNARDI, L'esperienza stilistica del Manzoni tragico. 1965, xVI-

160 p. 4 - use GUNTERT, Un poeza-scienziato del Seicento: Lorenzo Magalotti. 1966, xI1-176 pp. 5 - Mario Saccenti, Lucrezio in Toscana. Studio su Alessandro Marchetti. 1966, vIri-360 pp. con 6 tavv. f. t. 6 - RoBERTO ALONGE, Il Teatro dei Rozzi di Siena. 1967, xx-206 pp.

7 - Giovanni GETTO, Studio sul « Morgante ». 1967, 1v-214 pp., ril. 8 - RoserTo Tessari, La Commedia

dell’arte nel Seicento.

« Industria » e

« Arte giocosa » della civiltà barocca. 1969, viri-292 pp. Ristampa 1977. 9 - CarLo OssoLa, Autunno del Rinascimento. « Idea del tempio » dell’arte nell'ultimo Cinquecento. 1971, x-312 pp. con 1 tav. f. t. 10 - STEFANIA DE STEFANIS Ciccone, La questione della lingua nei periodici letterari del primo Ottocento. 1971, vir-334 pp. con 20 ill. 11 - UMBERTO PIROTTI, Benedetto Varchi e la cultura del suo tempo. 1971, viri-300 pp.

12 - GruLio CATTIN, Il primzo Savonarola. Poesie e prediche autografe dal Codice Borromeo. 1973, xvi-340 pp. con 8 tavv. f. t. 13 - Enzo Noè GirarpI, Studi su Michelangelo scrittore. 1974, vir-216 pp. 14 - CarLo DeLcoRNO, Giordano da Pisa e l'antica predicazione volgare. 1975, x11-436 pp. 15 - Jacques Gouper, D'Annunzio romanziere. 1976, 320 pp. 16 - Vrro R. GIUSTINIANI, I/ testo della « Nencia » e della « Beca » secondo le più antiche stampe. 1976,vi1i-180 pp. con 5 tavv. f. t.e 1 n. t. 17 - ANTONIO FRANCESCHETTI, L’Orlando Innamorato e le sue componenti tematiche e strutturali. 1975, viri-216 pp. 18 - Franco SUITNER, Petrarca e la tradizione stilnovistica. 1977, 192 pp. 19 - Giovan MATTEO xII-160 pp.

Di MegLIO, Rizze a cura di Giuseppe Brincat.

1977,

20 - Fulvio Pezzarossa, I poemetti sacri di Lucrezia Tornabuoni.

1978,

212°pp: 21 - Giorgio PADOAN, Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l'Arno. 1978, vi306 pp. 22 - ORNELLA CASTELLANI PoLLiporI, Niccolò Machiavelli e il « Dialogo intorno alla nostra lingua ». 1978, 288 pp. 23 - DANIELA DeLcoRrNO BRANCA, Sulla tradizione delle Rime del Poliziano. 1979196 pp;

24 - Umanesimo e Rinascimento. Studi offerti a P. O. Kristeller da V. Branca, A. Frugoni, E. Garin, V. R. Giustiniani, S. Mariotti, A. Perosa, C. Vasoli. 1980, 176 pp. con 3 ill. f.t. 25 - AncIoLA FERRARIS, Ludovico di Breme. Le avventure dell’utopia. 1981, 224 pp.

26 - SiMonE

DA CAscinA,

Colloquio

spirituale.

A cura di Fausta Dalla

Riva. 1982, x11-236 pp. 27 - AureLIO DE’ GiorcI BERTOLA, Diari del viaggio in Svizzera e in Germania (1787), con un’appendice di documenti inediti o rari. Edizione critica e commento a cura di Michèle e Antonio Stiuble. 1982, 376 pp.

28 - RoBERT HoLLANDER, Il Virgilio dantesco. Tragedia nella « Commedia ». 1983, 156 pp. 29 - CHRISTIAN BEc, Les livres des forentins (1413-1608).

1984, 360 pp.

30 - AnNA Laura BELLINA, L’ingegnosa congiunzione. Melos e immagine nella « favola» per musica. 1984, 250 pp. 31 - Armanpo BaLpuino, Boccaccio, Petrarca e altri poeti del trecento. 1984, 344 pp.

University College Cardiff

Main Library TELEPEN

LITIJII Class No.

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STUI [LU STUDI E TESTI

XXXI ———_______, UNIVERSITY:COLLEGE CARDIFF — LIBRARY— This book must be renewed or returned by the latest date shown below. If not, a fine of 5p a day will be charged.

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The book may be recalled for another reader before this date, and it must then be returned to the library at once.

dI n42766

FIRENZE ECEOSST-OLSCHERStsE:

MCMLXXXIV

DERE

ISBN SS 222 32960

Al mio

maestro

VITTORE BRANCA

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/boccacciopetrarc0000bald

AVVERTENZA

Fra i dieci studi che compongono il presente volume, sono inediti il sesto

(Remziniscenze petrarchesche

nel « Filostrato »), il nono

(Per

un altro esercizio petrarchesco del Boccaccio), il decimo (Occasioni mancate); quantunque comprendano anche pagine che in origine fungevano da introduzione, rispettivamente, alla mia antologia Cartari del Trecento (Milano, Marzorati 1970) e a un testo critico incluso, con relativo

commento, nel terzo volume di Tutte le opere di Giovanni Boccaccio (Milano, Mondadori 1974), in gran parte nuovi sono inoltre il secondo (Letteratura canterina) e il settimo (Sul « Ninfale fiesolano »). Ritocchi e aggiornamenti più contenuti, ma non sempre marginali, hanno invece subito

i restanti saggi, che già sono apparsi nelle seguenti sedi: Premesse ad una storia della poesia trecentesca, in « Lettere italiane », XXV,

1973,

pp. 3-36; « Pater semper incertus ». Ancora sulle origini dell’ottava rima, in « Metrica », III, 1982, pp. 107-158; Cino da Pistoia, Boccaccio e i poeti minori del Trecento, negli atti del Colloquio Cino da Pistoia, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei 1976, pp. 33-85; Lettura di un sonetto petrarchesco (Rer. vulg. fr. XXXII), nelle « Memorie della Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti», XCIII,

1980-1981 (e parallelamente nel collettaneo Lectura Petrarce 1981, Firenze, Olschki 1982, pp. 25-47); Divagazioni sulla ballata di Mico da Siena (Decameron,

X 7), in « Studi

sul Boccaccio », XII, 1980,

pp. 47-69. Cresciuto, nel corso degli anni, sulla base di persistenti e conver-

genti interessi (che spero bastino anche ad assicurarne la sostanziale unità), il volume avrebbe potuto includere anche alcuni altri paragrafi, dedicati essi pure al poemetto di Africo e di Mensola, a singoli prodotti della letteratura canterina, al Beccari, al Saviozzo e ad altri minori.

Poiché però si tratta di contributi e appunti di critica testuale, li lascio

senza rimpianto alle riviste specialistiche facilmente accessibili per ogni Le

addetto ai lavori e solo ne faccio cenno pet avvertire che non certo casualmente, per molti autori e generi della poesia trecentesca, il mio primo approccio è stato di ordine filologico: a vario titolo, infatti, e pur alternando esercizi di lettura su singoli testi a più ambiziosi (e problematici) tentativi di inquadramento complessivo, anche gli studi qui selezionati trovano la loro imprescindibile base metodologica proprio nel connubio fra critica e filologia. Altrettanto fatale era poi che, a distanza e magari per esigenze diverse, mi accadesse in qualche caso di ritornare su uno stesso tema: mentre non posso escludere che ciò abbia prodotto qualche strumentale ripetizione, vorrei però che una simile insistenza fosse soprattutto accolta come un segno della centralità che, specie di fronte a nodi critici gravati ancora da dubbi e lacune, ho creduto di dover attribuire a singole questioni. Quanto

al resto, poiché il saggio d’apertura ha, dichiaratamente,

funzione introduttiva (e tra l’altro dice a chiare lettere quanto poco io stesso consideri le mie ricerche come un punto d’arrivo), penso di potermi esimere da una presentazione globale. E solo relativamente al frontespizio (che forse, nonostante la sua piattezza didascalico-enumera-

tiva, si presta a qualche equivoco) mi attardo ancora in qualche minima delucidazione. Il titolo, appunto, non solo sottintende, per l’autore del Decazzeron, una qualifica non

ancora

consueta

e pacifica, ma

in tale veste

anche ne apparenta il nome a quello del creatore dei Rerum vulgarium fragmenta. Propriamente, però, questo non è un nuovo libro su Boccaccio e Petrarca, e neppure è, con il debito contrappunto di voci minori più o meno collegate, un libro sulla poesia del Boccaccio da un lato e sulla lirica del Petrarca dall’altro. È, se posso dire, qualcosa di meno, ma anche qualcosa di più. I massimi scrittori del secolo sono qui chiamati a rappresentare due diversi fronti, anzi due diverse « anime » della poesia trecentesca: incarnata la prima da un poeta-narratore che, privilegiando la socialità, si proietta all’esterno e brucia esperienze decisive sull’onda di un geniale eclettismo; impersonata l’altra da un impareggiabile artefice che, geloso custode delle sue sempre insoddisfatte conquiste di poeta lirico, persegue appartato i suoi ideali supremi di coerenza e di esemplarità, e che in fondo

(o almeno

con

poche eccezioni) sembra rivolgersi piuttosto ai posteri che ai contemporanei. In questo senso, e proprio perché varie manifestazioni d’una fermentante letteratura che tocca e coinvolge settori disparati della società sono qui considerate nel loro immediato risalto e contesto, si spiega che vera figura emblematica abbia finito per rivelarsi il minor DESIO

poeta; e che insomma (non solo a compenso di passate disattenzioni) proprio

a Boccaccio

sia toccato

il ruolo del protagonista.

Quanto

a

Petrarca (di cui, di fatto, si analizza puntualmente una sola composizione, ancorché bastante a ricordare quale possa essere l’intensità della grande poesia) si vedrà, invece, che per lo più lo si è chiamato in causa come termine inevitabile di raffronto. Entrambi peraltro, e pur dominando la scena, proiettano la loro ombra soprattutto sul futuro; né

certo (mentre fra loro si sviluppa e si perfeziona, anche su questo specifico terreno, un dialogo dal quale i più rimangono esclusi) sono secondari gli interrogativi legati alla constatazione che tanto Boccaccio quanto Petrarca appaiono, nel loro secolo e per motivi diversi, sostanzialmente incompresi. Mi è grato, infine, sottolineare che la dedica apposta al volume, se da un lato è il doveroso omaggio al maestro cui (fra tante altre cose) devo anche l’incitamento e la prima guida a questo genere di studi, dall’altro vorrebbe anche essere la tangibile, affettuosa testimonianza di un rapporto di lavoro (e perciò di vita) che, iniziato più di vent’anni fa, ancora prosegue, per mia fortuna, con inalterato profitto e sempre rinnovato calore. AREB: Padova, gennaio 1984

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PARTE

POESIA,

SOCIETÀ

PRIMA

E TRADIZIONI

LETTERARIE

PREMESSE AD UNA STORIA DELLA POESIA TRECENTESCA

«Non vi è analisi particolare che non sia ispirata da una visione d’insieme, la quale, ovviamente, continua a rimanere provvisoria e subordinata ai fatti che farà emergere ». JEAN RouSSsET

1. Se in tempi recenti, e con particolare intensità nel corso degli anni sessanta-settanta, continui e veramente sensibili progressi si sono registrati anche nell’esploraziéne della vasta area in cui si addensano le molteplici esperienze della poesia trecentesca che consideriamo « minore », lo si deve senza dubbio a tutta una serie di specifiche e talora decisive acquisizioni filologiche. Il merito pressoché esclusivo va cioè a quelle impegnative ricerche che hanno via via consentito una sistematica ricognizione sull’opera per tanti aspetti significativa di poeti come Nicolò de’ Rossi, Maestro Antonio da Ferrara, Neri Pagliaresi, Simone

Serdini;! hanno 1 Per

reso finalmente

il rimatore

(Milano-Napoli,

di Treviso

Ricciardi

2), rinviando soprattutto gendo la rec. di G. C. 1979, pp. 213-225; per Commissione per i testi mia

rec.

in «Lettere

agevole e accettabilmente

si allude

alle edd.

1973) e da F. BrugnoLo

curate

(Padova,

da M. Antenore

compiuto

SALEM

ELSHEIK

1974-1977,

voll.

a quest’ultima anche per la precedente bibliografia ed aggiunBELLETTI, in «Studi e problemi di critica testuale », n. 18, il Beccari cfr. l’ed. critica a cura di L. BeLLuCccI, Bologna, di lingua 1967 (in merito alla quale devo ricordare che, alla

italiane », XX,

1968,

pp.

526-542,

la Bellucci

ha

opposto

un

risentito dossier costituito da Sul testo delle rime di Maestro Antonio da Ferrara, in « Studi e problemi di critica testuale », n. 1, 1970, pp. 5-90, inducendomi a replicare con l’articolo Ancora su un'edizione delle Rime di Maestro Antonio da Ferrara, in « Lettere italiane », XXIII, 1971, pp. 63-85); ancora la Bellucci ha poi procurato un’apprezzabile

successive

guissola 1976 e Antonio dintorni,

vanno

ed.

commentata

almeno

(Bologna,

Pàtron

registrati F. A. GaLro,

1972),

mentre

fra

da Ferrara,

le

segnalazioni

Ane il madrigale trecentesco, in «Studi e problemi di critica testuale », n. 12, G. Gorni, Tra rettori e capitani trecenteschi: due canzoni di attribuire a da Ferrara, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, II, Boccaccio e Firenze, Olschki 1983, pp. 365-376; per .il 'Pagliaresi, oltre alla Leggenda di

Ben (5PS

Antonio

Lancillotto

l’incontro con le testimonianze più antiche di un singolare e fortunatissimo genere come quello dei cantari; © hanno predisposto, infine, con le fondamentali antologie dovute alle cure benemerite di Giuseppe Corsi nuovi strumenti per una sicura e articolata informazione generale, sostituendo in massima parte e di gran lunga migliorando, entro il settore della « lirica » latamente intesa, le pur meritorie sillogi in precedenza disponibili. Né si trascuri che, mentre segnano conquiste sostanzialmente definitive, non pochi fra i contributi appena ricordati spianano in vario modo la via anche per le molte indagini di critica testuale che tuttora attendono d’essere portate a compimento,;' o che addirittura impongono d’essere affrontate ex ovo” Naturalmente, sia che si trattasse dell’edizione d’una singola opera (e, s'intende, nell’atto stesso di esplorare lo sviluppo di una complessa tradizione manoscritta, o di affrontare le questioni attributive, i quesiti legati alla cronologia interna, al colorito linguistico, alle fonti, al glosSanto Giosatà, pubblicata da G. VARANINI in Cantari religiosi senesi del Trecento (Bari, Laterza 1965), cfr., a cura dello stesso studioso, Rimze sacre di certa o probabile attribuzione, Firenze, Le Monnier 1970 (su cui la rec. di M. MARTI, ora ristampata in Nuovi contributi dal certo al vero, Ravenna, Longo 1980, pp. 99-112); per il Saviozzo

l’ed. critica a cura di E. PAsquINI, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1965 (rec. di A. BALDUINO, in « Giorn. Stor. Lett. Ital. », CXLIII, 1966, pp. 578-597 e C. DeLcoRNO, in « Romance Philology », XV, 1972, pp. 310-324; per il «capitolo dantesco », su cui già E. Pasquini, in «Studi danteschi », XXXVIII, 1961, pp. 143-155, cfr. inoltre L. CoGLIEVINA, ivî, LII, 1979-1980, pp. 213-231). Per la più scialba figura che qui interessa, è da citare, ancora, Rime dei due Bonaccorso da Montemagno, a cura di R. Spongano, Bologna, Pàtron 1970; e vanno naturalmente aggiunti ricuperi e contributi critico-testuali di vario rilievo che interessano molti altri personaggi minori: Giovanni e Nicolò Quirini (grazie agli studi dovuti, rispettivamente, a G. FoLENA e a F. BrucnoLo), giunte alla cosiddetta rimeria perugina (di cui si sono occupati A. BETTARINI BRUNI e G. VARANINI), Matteo Correggiaio (entro le cui rime ha cercato di mettere ordine A. TartARO), Landulfo di Lamberto e altri rimatori della Napoli angioina (studiati a più riprese da R. CoLuccra), Niccolò Soldanieri (per cura di L. Rossi), ecc. 2 Per un quadro aggiornato anche bibliograficamente cfr. qui il cap. Letteratura canterina. 3 Rimatori del Trecento, Torino, Utet 1969 e Poesie musicali del Trecento, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1970. 4 Per es., e benché si susseguano le nuove segnalazioni e gli studi preparatori, il poema di Cecco d’Ascoli è ancora leggibile solo in edizioni assai infide; ed è a tutti nota la mancanza d’edizioni di livello scientifico che grava pur sempre su larga parte dell’opera di Cino da Pistoia (su cui è impegnato, da decenni, Domenico De Robertis) e di Antonio Pucci (cui attende validamente Anna Bettarini Bruni). S Tanto per citare il caso forse più clamoroso, basti dire che, per le Disperse del Petrarca, nulla ha sostituito l’ed. Solerti del 1909; né la soluzione è certo vicina, anche se lasciamo bene sperare le meritorie indagini di A. CaAvepoN sulla tradizione « vene ta»: cfr. «Studi petrarcheschi », VIII, 1976, pp. 1-73 e «Giorn. Stor. Lett. Ital. », CLVII, 1980, pp. 252-281 [e della stessa studiosa v. ora anche Intorzo alle « Rime estravaganti » del Petrarca, in «Revue des études italiennes », n.s., XXIX, 1983, pp. 86-108].

Ber

sario ecc.), sia — e ancor più — che in preparazione fossero scelte antologiche che, per loro stessa natura, comportano un più o meno esplicito e personale tentativo di sistemazione storiografica, siffatte im-

prese editoriali non potevano certo essere realizzate astraendo da un’attenta considerazione degli antecedenti come anche, e soprattutto, del vario configurarsi della letteratura contemporanea in zone più o meno limitrofe. Ad analoghe riflessioni, poi, non poteva che essere sollecitato ogni utente non frettoloso, a sua volta spinto anzi ad ulteriori accertamenti intesi a chiarire rappotti e ragioni storico-culturali, che in parte. almeno potevano pure indurre a trascendere la contingente occasione, anche qualora, dei singoli testi, solo si volesse mettere meglio a fuoco l’importanza e il possibile grado di novità. Eppure, se dal terreno che più propriamente pertiene alla critica testuale, ci si sposta a considerare gli apporti paralleli di chi più apertamente si occupa di « storia della letteratura » e che dei nuovi contributi della filologia dovrebbe avvalersi per rivedere e percisare attraverso proprie indagini e riflessioni il disegno storico in precedenza vulgato, si deve constatare che una tale consequenzialità, nei due com-

plementari ordini di ricerca, si è verificata solo parzialmente e in misura piuttosto modesta, corì' opportune, cioè, e magari rilevanti messe a punto su determinati autori, e però anche senza riesaminare e rimettere in discussione più generali prospettive, come forse si sarebbe per qualche aspetto potuto, e senza trarne a breve termine profitto onde sanare lacune e sfasature di cui, tuttavia, si possono supporre palesi tanto l’entità, quanto la collocazione. In linea di massima, direi, il quadro d’insieme è ancora, o quasi, per la poesia minore del secolo XIV, quello delineato o ribadito mezzo secolo fa da Natalino Sapegno, nel 6 Nella prima stesura di questo saggio lamentavo anzitutto la carenza di indagini sull’eredità di Cino e sullo sviluppo del primo petrarchismo (e sono temi sui quali — come testimoniano appositi capitoli del presente volume — io stesso mi sono poi intrattenuto); su molti problemi non sembra però che mutamenti sostanziali si possano

registrare: decisive distinzioni interne si attendono, ad es., per fenomeni come la cosiddetta « poesia di corte» (etichetta sotto la quale si coprono esperienze assai disparate), o come il tardo stilnovismo (che non è lo stesso, certo, per un rimatore come Matteo Frescobaldi, al quale lo Stil nuovo giunge direttamente, « per li rami», e per un Cino Rinuccini, teso invece a un personale ricupero di coloritura tardogotica). Piuttosto nulla che poco (v. qui anche nota 72), inoltre, sappiamo dei rapporti del Petrarca con i poeti del proprio tempo, mentre è viceversa consolante la constatazione che, grazie a fondamentali indagini di giovani studiosi, il più immediato retroterra culturale del Carzoriere risulta ormai illuminato tanto nel dettaglio quanto nella portata complessiva (si ricordino almeno M. SANTAGATA, Presenze di Dante « comico » nel « Canzoniere» del Petrarca, in «Giorn. Stor. Lett. Ital.», CXLVI, 1969, pp. 163-211; F. SurtNER, Petrarca e la tradizione stilnovistica, Firenze, Olschki 1977; P. Trovato, Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi nei « Rerum vulgarium fragmenta », ivi 1979).

ZE OA

glorioso Trecento vallardiano, non a caso testé riproposto; ” il recente bilancio resta insomma di gran lunga inferiore alle potenzialità già acquisite fors’anche tradendo (accanto a particolari e antiche difficoltà sulle quali insisteremo tra breve) sintomi di disagio e di tendenziale riluttanza di per sé non certo legati a questo specifico ed esclusivo campo d’indagine. Dissolte le apparenti certezze da cui, in altre stagioni, il critico attingeva la credibilità stessa della sua funzione di guida, magari illudendosi su una propria carismatica capacità di distinguere poesia e non poesia, è abbastanza conseguente — voglio dire — che più tranquillizzanti appaiano le faticose ma concrete verità della restifutio tfextus, o si preferisca rimanere ancorati ai meno infidi diagrammi della sincronia, cercando magari nei grafici di formalizzazioni alla moda supporti equivalenti alle tavole e agli stemmi in uso presso i filologi; ed è comprensibile, ancora, che — mettendo a frutto nuove e suggestive metodologie critiche — più facilmente si acceda all’approfondimento dell’indagine monografica o con minori preoccupazioni, benché spesso solo illudendosi di aggirare il problema, si ripieghi sulla sociologia della letteratura. Di fatto — e interrompo con ciò un discorso che porterebbe 7 Alludo alla 4° ed. rivista e aggiornata (Milano, Vallardi

1981). 8 Fra i tentativi di parziale rinnovamento già segnalavo A. TarTARO, Forzze poeti che del Trecento, Bari, Laterza 1971 (cui si affianca, dello stesso studioso, La letteratura civile e religiosa del Trecento, ivi 1972, entrambi estratti dalla Letteratura italiana diretta da C. MuSCETTA), ove si tien conto degli insegnamenti dionisottiani per enucleare, a grandi linee, funzionali distinzioni « geografiche ». Aggiungerei ora che, non a caso, proprio entro «storie » regionali si possono ormai reperire alcuni fra i panorami più convincenti (si vedano in particolare i capitoli sulla poesia trecentesca redatti da F. BruenoLo e da L. Lazzarini per la Storia della cultura veneta), fermo restando però che, quando siffatti criteri sono applicati con sistematicità e, volta a volta, per tutto il secolo, si corre il prevedibile rischio di un’antistorica frantumazione per compartimenti stagni (ed è per l’appunto quanto accade nella pur meritoria e puntuale ricognizione offerta dal volume di V. DORNETTI, Aspetti e figure della poesia minore trecentesca, Milano, Vallardi 1984). Su altro piano (e pur nei limiti che la sede imponeva) degne di nota mi sembrano infine le « voci» che E. iPAsquini ha redatto per il Dizionario critico della letteratura italiana (Torino, Utet 1973, vol. I, pp. 86-93 e vol. III, pp. 317-323) prendendo strumentalmente l’avvio da personaggi come Antonio da Ferrara e Simone Serdini. Per tornare al bilancio complessivo, mi limiterò comunque a registrare il parere di due specialisti come Marco Santagata e Guido Capovilla. Secondo il primo (cfr. Dante in Petrarca, in « Giorn. Stor. Lett. Ital. », CLVII, 1980, p. 452), «la poesia del Trecento rappresenta una delle più vistose e profonde lacune della nostra storiografia letteraria » e ne deriva, in particolare intorno a Petrarca, un vuoto che «costringe in un certo senso anche i ricercatori più avvertiti a ricorrere ai parametri e ai testi duecenteschi »;j e l’opinione del secondo, che qui si cita non senza imbarazzo, è addirittura che «l’unica voce bibliografica disponibile in materia di riflessione critica sulle vicende della produzione poetica del secolo XIV consista, da dieci anni a questa patte» proprio nelle Prerzesse che qui sto riproponendo con qualche aggiustamento (cfr. G. CapoviLLa, Ascendenze culte nella lingua poetica del Trecento. Un sondaggio, in « Rivista di letteratura italiana», I, 1983, pp. 235-236).

ON GA

troppo lontano? — riaffiorano così antiche remore ed altre, non sem-

pre fragili (legate per esempio allo stesso diffondersi dello strutturalismo e della semiologia) ad esse si aggiungono; in altri e più brutali termini, sembra insomma che, per vie traverse e sotterranee (camuffan-

dosi cioè dietro le insegne di una proclamata modernità) riprendano . vigore le vecchie tesi crociane che minavano alla base l’istituzione stessa di una storia della letteratura e rischiano ora di far passare per un paladino di viete formule manualistiche, o per un miope seguace del « vecchio storicismo », chi in quel tipo di ricerche ancora creda e sia disposto ad impegnarvi le sue deboli forze anche senza lavorare,

ottenendone bastevole copertura, su esplicita commissione. Nel bilancio di cui si diceva, sarà pure da considerare,

dunque, che negli ultimi

decenni (ma per fortuna oggi già meno di ieri) abbiamo visto imporsi e diffondersi tendenze che, per lo sviluppo della storiografia letteraria strettamente intesa, non possono essere certo definite tra le più favorevoli; neppure è contestabile, però, che proprio nell’affrontare il vasto capitolo sul quale (anche e in primo luogo per questo) si desidera richiamare qui l’attenzione, gli storici della nostra letteratura si siano trovati di fronte, non solo nella fase attuale ma

anche in passato,

difficoltà di particolare rilievo e di assai problematica

a

soluzione.

2. Mi si consenta allora, per un iniziale e provvisorio approccio, di ritornare all’edizione Corsi dei Rizzatori del Trecento, formidabile

lavoro



come

già ho avuto

modo

di dire! —

del quale meno

soddisfatti lasciano tuttavia due aspetti. Il primo riguarda la successione dei testi, troppo passivamente disposti secondo una precaria distinzione di genere letterario o per mate9 Rinunciando ad esibire una copiosa bibliografia, mi limiterò a dichiarare che, per parte mia, condivido le considerazioni svolte nell’art. di L. BALpaccI, I piani della critica, in «L’Approdo letterario », XVI, 1970, n. 50, pp. 100-103 (poi in Libretti d’opera e altri saggi, Firenze, Vallecchi 1974, pp. 3-9). 10 Riprendendo il discorso, tengo fede anche ad una promessa avanzata in chiusura della recensione che all’antologia del Corsi ho dedicato in «Lettere italiane », XXII, 1970, pp. 2967-605. Di notevole importanza, sullo stesso volume, gli interventi di M. MARTI, in «Giorn. Stor. Lett. Ital.», CXLVIII, 1971, pp. 370-384 (che prende in esame anche Poesie musicali del Trecento) e di E. PASQUINI, in « Studi e problemi di critica testuale », n. 3, 1971, pp. 225-256, nonché l’art. di F. BRAMBILLA AGENO, Osservazioni sul testo di poeti minori del Trecento, in « Romance Philology », XXXI, 1977, pp. 91-111. Di quest’ultima, nella medesima rivista (XXVIII, 1975, pp. 696-706), si rammenti

anche

la rec.

a Poesie

musicali

cit., corpus

intenzionalmente

completo,

ma

in realtà passibile di qualche integrazione, come segnalato da G. CapoviLra, Dante, Cino e Petrarca nel repertorio musicale del Trecento, in AA.VV., La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, a cura di C. Dr GIroLaMo e I. PaccacnELLA, Palermo, Sellerio 1982, p. 118.

Sa

ria, ossia sulla base di urnia catalogazione che — allineando nell’ordine « Rime di scuola e di corte », « Rime autobiografiche e gnomiche », « Rime di dubbia autenticità e anonime », « Madrigali, ballate, cacce dei codici musicali » — sottende la sostanziale rinuncia, non solo, sul

piano esterno, alla ricerca di un più funzionale ordinamento, ma anche alla sistemazione storiografia che — distinguendo esperienze appartenenti a generazioni, aree, situazioni storico-culturali assai diverse — ne sarebbe implicitamente derivata: carenza incresciosa, certo, ma non per questo (preme sottolinearlo anche se ciò, per gli utenti, non fa che aggravare la situazione) interamente imputabile a Giuseppe Corsi, se è vero che sulle medesime posizioni aveva già ripiegato Natalino Sapegno nella sua antologia ricciardiana !! e che perfino il Croce, contestatore supremo della nozione stessa di genere letterario, si era a suo tempo attenuto a distinzioni sostanzialmente non dissimili.” Secondo elemento destinato a suscitare immediate perplessità era, sempre nel monumentale lavoro del Corsi, il carattere piuttosto elusivo e la sproporzionata brevità dell’introduzione generale, contenuta in poche paginette (sei, per l’esattezza, in un volume che oltrepassa di molto le mille), tre delle quali riservate ad una pur utile ricapitolazione dei principali avvenimenti storici che si susseguono lungo il secolo. Nelle tre che restano, lo studioso indica opportunamente i maggiori centri culturali del Trecento

(Firenze e la Toscana, la Milano

viscontea, il

Veneto), ricorda il progressivo diffondersi del culto per le « tre corone » e quindi, venendo a valutazioni globali, afferma perentoriamente:

« quel coerente svolgimento che nel Duecento la poesia aveva avuto dalla scuola siciliana a quella del dolce stil novo è vano cercarlo nell’individualismo avanzato dei nuovi rimatori, nel frantumarsi

dei mol-

teplici argomenti e dei più vari interessi ». E poco oltre, dopo un 11 Cfr. Poeti minori del Trecento, Milano-Napoli, Ricciardi 1952 (ove, accanto alle sezioni che il Corsi ha poi ripreso e ampliato sotto titoli che presentano variazioni minime, comparivano anche le seguenti: « Poemi allegorici e didattici », « Cantari epici e leggendari », « Serventesi storici », « Poesia religiosa »; ed è appena il caso d’avvertire che non propriamente autorizzata risulta, nella prima, la presenza di estratti dal Fiore e dal Detto d'Amore e, nella seconda, di cantari che dobbiamo assegnare al Quattrocento). Va da sé, infine, che nessun lume può venire (anche per ragioni di spazio) da altre antologie redatte a scopo divulgativo: per es. da G. ContINI, Letteratura italiana delle Origini, Firenze, Sansoni 1970 (ove ben poco si affastella nella quarantina di pagine concesse a « Rime trecentesche minori »), oppure da A. GIULIANI, Antologia della poesia italiana. Dalle origini al Trecento, Milano, Feltrinelli 1975, vol. 2 (il cui solo tratto di relativa originalità è forse l’opportuna valorizzazione della Croraca Aquilana di Buccio di Ranallo). 12 Alludo ai due capitoli Fazio degli Uberti e altri lirici del Trecento e Rime autobiografiche, gnomiche, politiche e poesia popolare, nel vol. Poesia popolare e poesia d’arte, Bari, Laterza 1933. N

8

doveroso accenno al madrigale come « prodotto caratteristico dell’Ars nova », conclude: « Gli artifici stilistici e l’erudizione soppiantano spesso la mancanza

poesie d’amore, inutile insistere canto alle poesie lareggianti e la Ve»:

di sentimento:

si compongono

rime, tra cui

a richiesta: la poesia diventa esercizio letterario, ed è sulla poesia politica troppo spesso adulatoria. Ma acdi carattere aulico prosperano quelle popolari o popopoesia musicale, quasi sempre più fresche e più vi-

Ora, già per quanto attiene a quest’ultimo punto, dovremmo

met-

tere subito in guardia sui pericoli insiti in una troppo rigida contrapposizione (di cui, in effetti, vedremo presto l’opinabilità) tra la marcata

artificiosità della « poesia d’arte » e la mitizzata spontaneità da secolo aureo di quella che è stata autorevolmente giudicata come « l’età per eminenza popolare della letteratura italiana ».* Ma detto questo, possiamo essere sostanzialmente d’accordo nel riconoscere che nelle rime per musica risieda una delle più autentiche novità della lirica trecentesca (quanto incideranno tuttavia, su codesto giudizio, le forzatamente

più vaghe cognizioni che abbiamo per l’età che precede?) e aggiungere magari, per un necessario richiamo a un settore troppo a lungo trascu-

rato come impoetico e dozzinale, che non meno nuovo e decisivo sarà l’affermarsi della poesia narrativa attraverso i cantari e, su altro piano, attraverso i poemi in ottave del Boccaccio. Chiose meno immediate e più attente riflessioni sembrano invece meritare le altre affermazioni che dall’introduzione del Corsi ho appena citato e che del resto riflettono

opinioni

(non

necessariamente

errate,

dico

subito)

che

possiamo

ritenere largamente diffuse. Abbastanza pacifica, per esempio, potrà essere l’accettazione dell’idea di un « coerente svolgimento » della poesia duecentesca, almeno se con ciò si intende alludere all’affiorare di una precisa linea di sviluppo che dalle premesse dell’età fridericiana conduce all’età di Dante e via via suggerisce o impone (come nel caso della Scuola siciliana e, tutto sommato, dello stesso stil nuovo) raggruppamenti e schemi storiografici.

Eppure, per lo stesso Duecento, qualora si indugi a riconsiderare le tappe decisive, bastano rilievi scontati per rimettere in discussione una coerenza e una unità alle quali si è in genere disposti a concedere un

troppo facile credito, che forse spetta solo alla compattezza della prima

13 Rimatori del Trecento cit., pp. 14-15. 14 Cfr. B. Croce, op. cit., p. 37 (il brano all’inizio del cap. Letteratura canterina).

be cen

in questione

sarà citato

integralmente

scuola: giacché, appunto, non appena ci si allontani dallo spartiacque costituito

dalla morte

di Federico

II, sarà evidente

(anche

a voler

sorvolare su scansioni cronologiche che già diventano ben più labili) la precarietà insita nel concetto di « poesia toscana » o di analoghe etichette dietro cui si affastellano, sotto la severa egida guittoniana, i poeti confinati nel limbo di un’età di « transizione »; ! né occorrerà insistere sulla complessità di esperienze talora antagonistiche reperibili nell’area dello stil nuovo, di cui è d’altronde ben nota la contrastata e

tarda fortuna anche in sede storiografica. Se si passa poi al dominio della poesia che (con incertezze terminologiche già di per sé eloquenti) si suole qualificare « giocosa », « comico-realistica » o « realistico-borghese » e che, pur avvalendosi di un diverso e proprio codice stilistico, era anch’essa — come da tempo è stato definitivamente chiarito ” — una forma di « lirica d’arte », sarà non meno palese che vi si potranno rinvenire esiti e toni assai eterogenei, come quelli, poniamo, di un Cecco, di un Rustico, di un Folgore. E con

simili cenni, se avesse

senso un prolungato passaggio attraverso porte da tempo spalancate, si potrebbe ovviamente proseguire. E pur vero, comunque, che di tutti questi e altri fenomeni si è raggiunta una visione definita, in cui incertezze e zone d’ombra restano

(almeno se ci si accontenta

di una

ricognizione dall’alto) abba-

stanza marginali; quale che sia l’approssimazione di certi schemi, cui si accede magari per necessità di semplificazioni didattiche, quello della poesia volgare del Duecento è pur sempre, insomma, un quadro fornito di funzionalità e credibilità bastevoli a far sì che vi si spieghino relazioni interne e successivi sviluppi, e si delinei via via l’apporto di specifici ambienti, di distinte generazioni, di singoli poeti, trovando lo spazio legittimo per le voci minori e insieme seguendo i meno rettilinei e prevedibili percorsi delle personalità più dotate. Radicalmente diversa 15 Tra l’altro, soprattutto al seguito di una così incerta definizione sono venute per i « siculo-toscani » (e in parte ancora pesano, insieme come causa e come effetto) non poche sfortune, storture e carenze d’ordine editoriale (cfr. G. Gorni, Il nodo della

lingua e il verbo d'Amore, Firenze, Olschki 1981, pp. 105-106). 16 Cfr. E. Bici, Gewnesi di un concetto storiografico: «Dolce stil novo», in « Giorn. Stor. Lett. Ital. », CXXXII, 1955, pp. 333-371. 17 Basti il rinvio a M. MARTI, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa, Nistri-Lischi 1953, fermo restando però che il giusto riconoscimento delle impalcature stilistico-retoriche non può certo significare negazione assoluta dei legami che quel tipo di poesia intrattiene con una mutevole ma precisa realtà storico-sociale; e in proposito, non senza il richiamo alla discussione a suo tempo intervenuta tra lo stesso Marti e Maurizio Vitale, v. E. SAvona, Cultura e ideologia nell’età comunale, Ravenna, Longo 11975, pp. 57-70 [ma soprattutto, ed anche per nuove prospettive, cfr. ora F. SurtNER, La poesia satirica e giocosa nell’età dei Comuni, Padova, Antenore 1983].

RIINA, f-©

è invece la situazione che si presenta quando — anche tenendo conto degli studi più recenti — si ripensi allo sviluppo della poesia (e della lirica in ispecie) dopo Dante: in questo successivo quadro, infatti, si staglia nitida quanto isolata la gigantesca figura del Petrarca, mentre nel vasto ma nebuloso spazio che rimane si aggira confusamente, e spesso senza fissa dimora, tutta una folla di rimatori che solo di rado (pochissimi, in effetti, i nomi da aggiungere a Boccaccio, a Sacchetti,

magari a Fazio) svelano il loro volto in una luce bastevole a individuarne una significante e meritata collocazione. Dipende tutto ciò — verrà dunque da chiedersi — da una effettiva carenza dei tentativi di ricostruzione storiografica (se non anche di preliminari indagini critiche settoriali), o non satà per contro imputabile, più o meno direttamente, ai modi

e alle condizioni

‘stesse in cui, nella realtà storica, è stato

possibile lo sviluppo della poesia in quella non esigua stagione della nostra letteratura? La prima causa, sono propenso a credere, non esclude affatto la seconda. Ma forse, per cercare una più pertinente risposta, converrà procedere ancora a un sia pur rapido confronto tra i

due secoli. Ricordiamo dunque che, per il Duecento, il compito dello storico della poesia italiana è facilitato da una serie di fattori che, per di più, sono fra loro collegati e in parte concomitanti. Quanto meno, spiccano cioè risultanze così schematizzabili: 1) fin dagli inizi ci si trova di fronte ad una tradizione dai connotati specificamente letterari, ad una lirica d’arte cui è sottesa una cultura chiaramente percepibile e, all’interno di aree abbastanza vaste, sostanzialmente uniforme: ne consegue,

anche per questo, che si tratta d’una poesia che obbedisce a distinzioni di «stile », imposte, o quasi, da una comune retorica, secondo la quale, a determinati interessi tematici si accompagnano, con maggiore o

minor rigore, specifiche scelte e norme di livello stilistico; 2) per un certo tratto — e per effetto di ragioni storiche, linguistiche, ecc. che qui non importa richiamare — singoli modi ed esperienze di poesia restano fondamentalmente circoscritti a centri culturali (e politici) ben determinati, sicché quando una successiva diffusione li rende in vario modo noti ad altri protagonisti della letteratura duecentesca, essi ne sono sollecitati o ad accettarne l’eredità e a svilupparne le premesse, o ad assumere posizioni polemiche e programmaticamente antagonistiche; 3) interviene infine la sistemazione di Dante, il quale, attraverso di18 Con particolare decisione li sottolinea, fra gli altri, B. TERRACINI, libera e libertà linguistica, Torino, Einaudi 1963, pp. 179-180.

MES, EE

in Lingua

stinzioni basate su criteri cronologici, linguistico-stilistici e geografici insieme, riconosceva magistralmente le direttrici lungo le quali si era sviluppata la storia della poesia volgare e forniva schemi storiografici così duttili da permettere poi che, usufruendo di criteri analoghi, il suo disegno fosse agevolmente compiuto anche per quegli aspetti (giocosi toscani, poesia didattica dell’Italia padana, letteratura franco-veneta, ecc.), che nell’incompiuto De vulgari eloqguentia l’autore non aveva potuto, o voluto, includere e che tuttavia, fors’anche per questo, restarono poi sistemati ai margini.

Sono, già queste, condizioni che non si verificano affatto per gran parte del secolo XIV, oppure conoscono

mutamenti

sostanziali, che ci

sarà consentito anche qui, in attesa di riprendere il discorso, di sintetizzare lasciando da parte il caso Petrarca. In primo luogo, mette conto notare che il normale strumento espressivo da cui muove la maggior parte dei rimatori si presenta, nelle più disparate occasioni, come mobile prodotto del vario confluire di tradizioni e di esperienze diverse. È un linguaggio, se si vuole, in cui può perdurare bensì il retaggio stilnovistico, ma pur senza, di solito o almeno di frequente, che ne risultino perentoriamente escluse altre eterognee, presenze, accertabili del resto anche attraverso la quasi asso-

luta disponibilità con cui — specie, ma non solo, fuori di Toscana — si usava avvicinarsi al retroterra duecentesco.” Permane, spesso ineludibile, il connotato della /efterarietà cui si accennava, ma insieme, per vari letterati — dal Boccaccio al Vannozzo al Sacchei ecc. — si pongono ormai in modo nuovo e più stringente i rapporti con la poesia « popolare » o di tendenza popolareggiante, al punto che al piano qualitativo (e solo in sottordine tecnico-culturale: si pensi per 19 Ineccepibili, a questo proposito, i rilievi di G. FoLENA (Filologia testuale e storia linguistica, in AA.VV., Studi e problemi di critica testuale, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1961, p. 25): «... importante per la storia della lingua è la composizione intrinseca dei manoscritti antologici o miscellanei, siano essi p. es. raccolte di rime oppure sillogi di prose originali e volgarizzamenti. Basterà solo ricordare come la compresenza nei canzonieri settentrionali di modelli stilistici molto diversi che abbracciano tutta la gamma delle esperienze toscane, dalla lirica prestilnovistica allo Stilnuovo ai ‘comici’, illumini il gusto cantaminatorio di Stilmischung veneta, di cui quelle antologie sono la più suggestiva manifestazione, accompagnata insieme dalla produzione letteraria, da Niccolò de’ Rossi al Vannozzo, e dalla teorizzazione, da Antonio da Tempo al Baratella ...». È anche da dire, però, che da una sistematica illustrazione delle miscellanee di rime trecentesche (dove, per es., il fatto che Petrarca si trovi spesso in variegatissime compagnie già prefigura i risultati di un’indagine critica) siamo ancora ben lontani, ed è anzi c’è perfino lo spazio per sorprese assolute: caso fra i più

recenti quello fornito da R. MAGNANI, Un canzoniere italiano inedito del secolo XIV (Beineche Phillipps 8826), Firenze, Distr. Licosa - Commissionaria Sansoni 1974 (da consultarsi con l’indispensabile guida di C. CrocioLA, in «Studi medievali », 3* serie, XVII, 1976, pp. 757-775).

en

E

un caso emblematico al Nirfale fesolano) è talora demandata, assai più che ai singoli elementi costitutivi, una plausibile linea di demarcazione: ed anzi, sull’altro versante, proprio perché di questo ravvicinamento non si può sottovalutare la possibile reciprocità, spesso è soltanto con tutte le cautele di una dichiarata approssimazione che è lecito qualificare come « popolari » prodotti che, geneticamente, sono tali solo in parte e in senso molto lato. Come stupirsi allora (si pensi ancora a certe creazioni del Boccaccio e del Pucci, del Sacchetti o di taluni poeti di corte) se perfino le cerchie d’ascolto risultano talvolta tutt'altro che

esclusive e selezionate in partenza? Non vorrei con questo accentuare

la portata di un mutamento

di

clima che certo non implica un puro e semplice (né tanto meno uniforme e progressivo) processo d’osmosi. È un fatto però che le implicazioni concomitanti e i segni di contatto vanno da ingredienti incidentali (per es. la profusione di reminiscenze dantesche o il ricupero di stemperati moduli stilnovistici comuni sia alle frettolose creazioni dei canterini sia ai più raffinati esercizi della poesia aulica) fino a manifestazioni macroscopiche. Comunque si voglia risolverla, la stessa, perdurante controversia sugli oscuri natali dell’ottava rima è in fondo rivelatrice già per il fatto che ci si trovi a discutere se la paternità vada annoverata fra i meriti del grande Boccaccio o come gloria anonima della tradizione canterina (o magari, accanto ai remoti e blasonati ante-

cedenti d’altralpe, tornino ad affacciarsi le più umili, contigue e « casalinghe » tessiture laudistiche). Ed è significativo, ancora, che alle strutture dei cantari ricorrano uomini come il Pagliaresi e il Cicerchia, oppure



spostandosi

su

tutt'altro

terreno



che

composizioni

di

genere o sapore giullaresco portino nel secondo Trecento illustri firme, mentre è risaputo che tonalità popolaresche sono largamente (e talora costituzionalmente) presenti anche in interi settori della poesia politica, dalle cronache rimaste ai sirventesi storici, dai lamenti alle « profezie ». Enormemente accresciuto risulta frattanto lo spazio conquistato dalla poesia per musica, nella quale, per l’appunto e spiccatamente, confluiscono preziose tessere d’estrazione aulica e più corrive modulazioni popolari; ° e se il prestigio che via via consegue ai trionfi 20 «La storia del madrigale trecentesco — scriveva E. Lr GortI (La poesia musicale italiana del sec. XIV, Palermo, Palumbo 1944, p. 45) -, indicando un evolversi del gusto, distingue di per sé l’antica età dalla nuova, ed è per altra via una riprova non soltanto dei rapporti tra musica e poesia nel mondo ‘elegante’ del sec. XIV, ma testimonia anche l’assorbimento sempre maggiore di elementi ‘realistici’, naturalistici e, per così dire, popolareschi, in seno alla cultura laica e sottile dei ‘ borghesi’». Per altro verso — cioè sulla contiguità rispetto alla cultura stilnovistica e SI) me

dell’ars nova, sollecita l'intervento, o comunque l’interesse, degli stessi poeti d’arte, non è detto che in e da quell’ambito essi non maturino o ricavino poi tendenze destinate a lasciar traccia anche nello sviluppo di generi diversi di poesia. Anche e talvolta proprio di qui muoverà quella tendenza a un linguaggio di tono medio che è rilevabile in larghe zone della lirica minore del Trecento, non di rado associandosi e intersecan-

dosi con l’incidenza esercitata dalla mediazione ciniana.! Neppure si dimentichi però — senza peraltro volervi ravvisare una soluzione globabilmente alternativa, cioè di aperta e diretta reazione al linguaggio « medio » di cui si diceva

— che, nel secondo

Trecento,

la nostra

poesia conosce anche punte inusitate di espressivismo (o addirittura, in rimatori

come

il Beccari

e il Vannozzo,

di ibridismo)

che, in casi

estremi, sarebbero forse difficilmente spiegabili senza un richiamo a non tanto remote o ancora attive tradizioni giullaresche ? e che, se in Toscana



sulla linea che, dopo il Pucci, condurrà

dal Sacchetti

al

Burchiello — appaiono di norma dettate da esigenze municipali, nell’area padana lasciano più o meno consapevolmente affiorare fermentanti coloriture dialettali ed echi molteplici di disparate esperienze letterarie. Quale che sia la portata (e insieme

la varia origine)

di codesti

fenomeni, pare certo che meno rigide e programmaticamente consapevoli sono divenute, nel nuovo secolo, le distinzioni fra un livello « tra-

gico », e un livello « comico-elegiaco »; e si dovrà anzi aggiungere che, in origine, una responsabilità primaria, quantunque non esclusiva, spetta proprio a colui che, di quelle distinzioni, era stato il più autorevole sostenitore. Intendo dire che proprio dalla Commedia (più complessi ma non superflui rilievi meriterebbe però anche l'incidenza dell’ecletsull’affiorare, nei testi per musica, di «sedimenti della più alta poesia trecentesca » — si aggiungano le intelligenti osservazioni di M. MARTI, nella rec. cit., pp. 371-374 (e soprattutto, ora, si ricorra alla sistematica documentazione fornita dai già ricordati studi di G. CAPOVILLA). 21 All’argomento è specificamente dedicato il quarto studio del presente volume. Fin d’ora, comunque, segnalo che, per molti aspetti, l’importanza della lezione ciniana si evince dai caratteri stessi della sua complessa esperienza poetica: cfr. M. Corti, Il linguaggio poetico di Cino da Pistoia, in « Cultura neolatina », XII, 1952, pp. 185-223 (e v. in particolare p. 188, dove opportunamente si distingue la « vera liricità ciniana » da «quegli elementi dello stile e della lingua che ci rivelano un Cino dominato da un genio che non è più personale, ma è quello della cultura stessa poetica e retorica del trecento ») e, ancor più utile e pertinente per la prospettiva che qui interessa, D. DE RoBERTIS, Cino da Pistoia e la crisi del linguaggio poetico, in « Convivium », n. 1, 1952Mppal535:

22 Occotre infatti rammentare che, quantunque siano tradizionalmente assegnati a sillogi duecentesche, testi come la Nativitas rusticorum di Matazone da Caligano, la Disputatio aque et vini, il Contrasto della Zerbitana, vanno invece ascritti — come

francamente ammettono del secolo sucecssivo.

gli editori più recenti

(Contini, Pasquini) — ai primi decenni

SOA I

tismo testimoniato dalle Rizze dello stesso Dante) i poeti del Trecento ricavano — e poco importa se non ciò fraintendano o meno la lezione dantesca — l’autorizzazione a un pluristilismo che, in diversa misura, finiscono per esercitare entro i generi letterari più disparati, lasciandolo in casi-limite financo affiorare all’interno di uno stesso componimento lirico. Più in generale (è osservazione

ovvia ma

non

per questo

meno

importante), l’intera situazione della nostra letteratura appare, dopo l’Alighieri, profondamente mutata. « Dante significa la vittoria del toscano e la decadenza a dialetto di ogni altra parlata italiana. Su ciò ogni discussione è superflua », ha ricordato il Dionisotti, non senza però precisare che « quel che resta a discutere, e resterà per un pezzo, è da un lato il modo e la durata, regione per regione, di quella decadenza a dialetto, dall’altro il prezzo che il toscano dovette pagare per la sua vittoria ».? Né è solo questione di lingua, e di più o meno spiccate connotazioni dialettali, sì anche — nella misura e magari nei tempi in cui si impone il modello dantesco e, anche per suo tramite, altre molteplici esperienze restano attive — di sensibilità, di gusto, di apprendimento tecnico, di interessi tematici, di richieste eterogenee da

parte di un nuovo e mutevole pubblico. In apparenza potrebbe essere solo la sostituzione o l’aggiunta determinante, a modelli d’oltralpe, di modelli toscani, o italiani che dir si voglia: ma anche per questo ne risultano rapporti diversi e, anche nelle zone che avevano dato prove indubbie di una propria autonomia culturale, è rapidamente attutita ed emarginata l’incidenza di tradizioni geograficamente distinte (fino al punto, magari, che ciò che ad esse continua a richiamarsi comincia ad apparire come prodotto irrimediabilmente superato, legato insomma ad un passato definitivamente chiuso o che solo si può ricuperare nella misura in cui riesce ai nuovi rimatori di innestarlo nel « nuovo corso » che di Toscana muove), mentre solo in un secondo tempo, beninteso in forme diverse (e, paradossalmente, quando già sarà sulla scena il Petrarca), le spinte regionali daranno segni di nuovo e tutt'altro che

trascurabile vigore. Meglio, e più cautamente, sarà forse da dire che un simile fenomeno riguarda in primo luogo la cosiddetta lirica d’arte e in diversa 23 Per la storia della lingua italiana, in Geografia e storia della letteratura Torino, Einaudi 1967, p. 91.

italiana,

24 Mi par d’obbligo qui la citazione delle conclusioni a cui pervenne E. Levi (cfr.

Francesco di Vannozzo e la lirica nelle corti lombarde durante la seconda metà del secolo XIV, Firenze, Galletti e Cocci 1908, spec. pp. 383-385 e 425-438) e che, forse

troppo drastiche per amor di tesi, assai spesso sono state poi ingiustamente dimenticate.

A

misura la poesia didattico-allegorica, meno invece altre manifestazioni letterarie. Ma nell’ambito che più ci interessa, una volta preso atto del silenzio assoluto, o quasi, di molte regioni italiane e puntato lo sguardo sulle zone che continuano (o cominciano) ad essere letterariamente

vitali possiamo senz’altro constatare che, in assenza di gruppi sufficientemente omogenei, ogni precisa distinzione geografica è diventata precaria e che, significativamente, tanto più labile diventa quanto più si avanza all’interno del secolo, quando, cioè, a complicare il quadro inter-

viene con crescenti dimensioni anche la « diaspora degli intellettuali toscani ».° Ancora, comunque, possiamo lasciare la parola a Carlo Dionisotti, il quale, tornando ad occuparsi di questo ordine di studi in cui a tutti è stato e continua ad essere maestro, ha giustamente ribadito: « Siamo, credo, tutti d’accordo che non si può fare storia della letteratura del Duecento, prescindendo dalle culture e lingue regionali. E che non si può fare storia della letteratura italiana dal momento in cui Dante appare sulla scena innanzi, prescindendo da una fondamentale esigenza e forza unitaria, che soverchia la capacità di qualsiasi cultura e lingua regionale, non esclusa quella toscana. Ma detto ciò, bisogna anche subito riconoscere che già avanziamo su un terreno in cui l’accordo di massima non ci assicura da frequenti disaccordi e dubbi particolari ».? Quanto poi abbia pesato, nella moderna storiografia letteraria, la mancanza, ad opera dei contemporanei, di un qualsiasi tentativo di sistemazione che sia minimamente paragonabile a quella offertaci per il Duecento dal De vulgari eloquentia, nessuno può naturalmente dire. Senza esitazioni, invece, possiamo affermare che a un simile tentativo nessun letterato del Trecento era veramente interessato, né certo sa-

rebbe stato in grado di portarlo a compimento suggerendo prospettive atte a illuminarci su collocazioni e rapporti che, obiettivamente, s’erano

fatti assai più sfumati e sfuggenti. Si è giustamente rilevato, anzi, che « già gli scrittori delle generazioni immediatamente successive a Dante — siano il grande Petrarca dei Trionfi o i meno grandi come i commentatori della Commedia e l’autore della Leandreide — quando di5 Accurate statistiche e relativa carta geografica sono ora disponibili grazie a C. Bec, Lo statuto socio-professionale degli scrittori (Trecento e Cinquecento), in AAVV, Letteratura italiana, Il, Produzione e consumo, Torino, Einaudi 1983, p. 229 e sgg. (in particolare v. pp. 231-246 e 263-265). nia A questo fenomeno si intitola un apposito paragrafo del capitolo introduttivo (Crisi e sviluppi della cultura dal Comune alle Signorie) dettato da C. MUSCETTA per la collettanea Letteratura italiana già cit. (vol. II, t. 1, pp. 8-12). 2? Culture regionali e letteratura nazionale in Italia, in « Lettere italiane SDXOT 1970) p. 135. TI)

EE

scorrono di poeti duecenteschi mostrano di aver perduto quasi del tutto il senso della loro specifica collocazione geografica (e spesso anche quello della precisa consecuzione e dialettica storica di individui e scuole) » 28

In un computo anche sommario delle differenze che sussistono tra la storia della poesia duecentesca e quella del secolo successivo deve necessariamente entrare, tuttavia, anche un’altra e macroscopica discriminante, che solo indirettamente deriva forse dall’intervento di Dante, ma che comunque comporta altre difficoltà non lievi per chi intenda rintracciare i vari aspetti e momenti della poesia trecentesca entro il più ampio quadro della storia culturale e letteraria. In particolare, alludo al fatto che, nel Duecento, a caratterizzare e

distinguere « scuole » e singole personalità concorrono non solo scelte, acquisizioni e conquiste di ordine tecnico-stilistico, ma anche e in misura non inferiore specifiche posizioni ideologiche. Da Guittone al primo

Guido,

del Cavalcanti

a Dante,

infatti, la voce

dei poeti è

sempre in primo piano nei dibattiti fondamentali della cultura contemporanea. Emerge, così, almeno nelle loro composizioni più impegnate, non solo il riflesso, ma la diretta e piena espressione di un credo filosofico o politico, di una problematica religiosa o di una rivolta laica, di varie posizioni cristiane 0, più o meno

consapevolmente,

ereticali,

mentre anche i testi che più sembrano concedere alla sfera dei sentimenti personali sono ben lungi dall’esaurire il loro messaggio nell’espressione di una vicenda privata. Perciò, quantunque la spesso ardua lettura di quei dottissimi versi non basti certo a rendere esaustiva la nostra conoscenza dei conflitti e delle scoperte degli intellettuali di quell’età, resta nondimeno vero che una attenta storia della poesia, con tutte le implicazioni che essa comporta, può anche rivelarsi sufficiente perché nessun fatto davvero importante sia ignorato,” mentre — nei fragili limiti in cui può esser lecito restringere il discorso alle opere in volgare — assai meno conta, negli stessi decenni, il settore della prosa. Ebbene:

sono condizioni, anche queste, che più non sussistono, o

sono irrimediabilmente

minate, già all’altezza di Cino. Anch’egli, in

effetti, darà un contributo determinante alla cultura del proprio tempo, ma lo farà nel campo affatto diverso delle scienze giuridiche e, necessa28 P. V. Mencatpo, Introduz. a D. ALieHiERI, De vulgari eloquentia, Padova, 1968, p. LXXXI, n. 2. 29 Penso in particolare ad una ricostruzione sul tipo di quella che, con utilissimo corredo di documenti, ha offerto R. MontANO, nella sua Storia della poesia di Dante, Firenze, Olschki 1965, vol. I. Antenore

Bea, PIRO:

riamente, in lucida prosa latina; ® né meno radicale — se si riesce a considerare da un lato il messaggio lirico e soggettivo del Canzoniere, dall’altro, come pur avvenne alla maggior parte dei contemporanei, il complesso delle opere latine — appare, in un certo senso, la dicotomia avvertibile nell’attività del Petrarca, che pure al mondo delle lettere dedica tutte le proprie energie. Personalmente sono anzi convinto che proprio in quest’ultimo ordine di problemi vada ravvisata la ragione prima dello stacco che sussiste fra la storia della poesia nei due secoli. Ora è chiaro che, se una simile separazione intervenne, essa non fu né improvvisa né semplice: a determinarla, cioè, avrà in vario modo

contribuito una complessa serie di circostanze storiche, di fattori politico-economici che a loro volta influiscono sui modi stessi di produzione e diffusione della cultura, accogliendo e insieme condizionando le diverse richieste di un pubblico in via di rapida trasformazione. Ma neppure qui, credo, è possibile esimersi dal considerare la portata dell’intervento di Dante: e intendo riferirmi non tanto (o comunque non solo) alla

Commedia, quanto invece all’importanza che, per lo sviluppo stesso della poesia trecentesca, dobbiamo pure riconoscere alle sue opere in prosa volgare. Quasi paradossalmente, voglio dire, nel momento stesso in cui portava a compimento l’edificio della Vita nuova e dalla prosa poetica del « libello » si mostrava poi capace di assurgere a quella più dotta, scientifica e razionale del Convivio, egli cominciava implicitamente a restringere il campo della poesia, non foss’altro perché nello stesso tempo svelava, o addirittura proclamava," le enormi possibilità dell’« oratio soluta » e la riteneva necessaria a chiarire (non già — cosa che resterebbe normalissima — con semplici glosse marginali) la storia e le idee sottese ad autonomi

testi in versi composti

in prece-

30 Soccorre anche qui una illuminante pagina di C. DionISOTTI: «Ai primi del secolo Dante volgendo la mira verso l’alto mare della Comzzedia si era lontanato da Cino, accomiatandosi da lui con un gesto di sdegnosa impazienza, ma è probabile che di lì a poco Cino a sua volta potesse ricambiargli il saluto, lontanandosi da tutt’altra parte, certo segnando ad altri la rotta verso l’alto mare di una nuova scienza delle leggi. Non ad altri che come lui indulgessero alla poesia o che, in quanto giuristi, guardassero, com’egli ancora aveva guardato, ai maestri di Francia. Scompare con l’amoroso messer Cino la figura del legista, che è al tempo stesso poeta. Si apre, subito dopo la sua scomparsa, l’età di Bartolo, e così del principato giuridico italiano in Europa. Né è da credere che solo al tragico destino di Cecco d’Ascoli si debba la contemporanea scompatsa dell’artista, astrologo e scienziato universitario, che al tempo stesso mette in rime volgari la sua scienza. Ancora troviamo a mezzo il Trecento il padovano Dondi, illustre scienziato e a tempo perso rimatore, ma è eccezione che piuttosto conferma la regola. Legisti e artisti si ritraggono nel proprio campo, vasto e proficuo ...» (Chierici e laici, in Geografia e storia della letteratura italiana cit., p. 51). 31 Si ricordi

Convivio,

I x, 12-13.

Ovvio,

comunque,

che l’importanza

del « volgare comento » risiedono soprattutto nell’idioma prescelto.

Ne,

pese

e la novità

denza. Proprio di lì non sarebbe stato allora assai più breve il passo di chi, volendo affidare alla pagina un proprio messaggio ideologico e culturale, avrebbe poi scelto decisamente la prosa, e come

mezzo

non

solo più libero ma anche più efficace? * Spontanea, ma non decisiva, direi, in quanto doveva trattarsi di un’esperienza in ogni senso irripetibile, sarà l’obiezione che, dopo l’incompiuto Convivio, Dante scrisse

un poema che è anche un su72774 insuperata della cultura medioevale; né conta molto, quanto alla prosa, che ci si incamminasse poi per direzioni decisamente lontane da quelle additate da Dante e finissero per imporsi ben presto, magari per esigenze affatto diverse, la nuova e più duttile prosa volgare del Boccaccio, e quella non meno rinnovata del latino petrarchesco: resta in ogni caso il fatto che profondamente mutato, e senza dubbio più circoscritto, era ormai divenuto l’orizzonte entro il quale operavano, in quanto tali, i rimatori del nuovo secolo. Resistenze e contraddizioni, si capisce, possono essere compresenti, anche perché, soprattutto al livello dei minori, dovremmo forse parlare di « costrizioni » imposte da una diversa situazione storica assai più che di scelte libere e consapevoli. Ma che nuove e irreversibili tendenze generali sussistano, bastano;in fondo a confermare semplici considerazioni esterne. Le canzoni allegoriche e dottrinali, per esempio, diventano via via

più rare e sempre più nettamente si esauriscono nell’esercizio retorico. Continua l’uso delle tenzoni poetiche, ma di norma esse sono ormai circoscritte ai frettolosi scambi di più o meno occasionali cottesie o ridotte ad artificiose e sterili divagazioni su contingenti pretesti, mentre 32 Una conferma indiretta può venire anche da un testo come Donna me prega, in quanto, rendendo indispensabile un capillare commento, anche la canzone cavalcantiana finisce in fondo per evidenziare la maggiore funzionalità del «trattato ». Su altro piano, poi, neppure estranee al tema potrebbero risultare le riflessioni cui si presta un esame della letteratura di pietà, se è vero, per es., che per trovare una passionalità religiosa e un impegno paragonabili a quelli di Jacopone da Todi o di fra Guittone bisognerà rivolgersi alla prosa del ‘Passavanti o di S. Caterina, o si tien conto che un uomo come il Cavalca può sì scrivere dei versi, ma è comunque alla prosa che sente

(non solo perché si riconoscesse mediocre rimatore) di dover affidare il proprio apostolato. Con ciò, sia chiaro, non si intende affatto liquidare la fase postiacoponica con un giudizio drasticamente negativo, visto che anche nel secolo XIV, appunto, la poesia religiosa ha ragguardevole sviluppo, né appare priva di novità importanti e di risultati cospicui. Ma è un fatto che la fortuna delle laudi è dovuta ai legami col canto liturgico e con la preghiera che ne assicurano la diffusione anche fra i ceti più umili; ragioni similari danno impulso alle sacre rappresentazioni ed anche i poemetti dei vari Cicerchia, Pagliaresi ecc. si adeguano apertamente a strutture di grande successo come quelle dei cantari.

Più in generale (e cioè in un quadro complessivo di storia della cultura), risulta dunque che nella letteratura volgare di tema religioso sono i poeti ad essere in primo piano nell’arco che va da S. Francesco a Dante, mentre in seguito la preminenza passa ai prosatori.

DO

— ancora una volta senza che sia possibile trascurare un iniziale intervento di Dante * — ad assolvere quella che, in una precedente stagione, poteva anche essere stata una loro precisa funzione culturale, è piuttosto disponibile una nuova forma di poesia, quella cioè dell’egloga latina (dove tra l’altro, per ciò che comporta,

anche la scelta della

lingua dei dotti è di per sé significativa). Poemi allegorici e didattici ancora, per tutto il secolo e oltre, si continua a scriverne e talvolta, anzi, ottenendone successi di sorprendenti proporzioni: ® ma, a parte il fatto che fra i prodotti più interessanti dobbiamo porre (ancorché il nostro giudizio possa talora non coincidere affatto con quello dei contemporanei) opere come L’Intelligenza e soprattutto L’Acerba che appartengono ai primi decenni del Trecento (all’incirca, dunque, all’età stessa di Dante), non è contestabi-

le il rilievo che dalla Comzzedia, anche se si voglia misurarla solo alla luce dei suoi fini ideologico-culturali e della mirabile consequenzialità del suo realismo, il loro distacco è assoluto e incolmabile. Dalla ingegnosa trama allegorica di quei poemi (pur sempre ancorati ai moduli elusivi della allegoria in verbis, che il loro modello si era invece lasciata alle spalle) finisce insomma per affiorare poco più di una scontata precettistica o emerge il precario tentativo, lodevole solo nelle intenzioni, di divulgare una cultura che per di più è, di solito, cultura di retroguardia. E che poi non sia ovviamente quest’ultimo il caso dell’Amorosa Visione e dei Triumphi, di opere cioè che, firmate dai più grandi scrittori del secolo, danno vita ad un « genere » che avrà notevole fortuna nella stessa letteratura rinascimentale, non toglie che si tratti di creazioni che finiscono per caratterizzarsi anzitutto come pro-

33 Cfr. G. MartELLOTTI, umanistica », VII, 1964, pp.

Dalla tenzone al carme bucolico, in « Italia medioevale e 325-336 (e anche La riscoperta dello stile bucolico: da Dante al Boccaccio, nella misc. Dante e la cultura veneta, Firenze, Olschki :1966, pp. 335-346); G. Papoan, I/ Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, Firenze, Olschki 1978,

pp. 151-198.

34 Non per nulla si tratta di documenti culturali spesso preziosi; indispensabili, ad es., onde ricostruire l’intenso dibattito cui ha dato luogo lo Stil nuovo, come hanno proficuamente dimostrato prima A. E. QuacLio (cfr. Letteratura italiana Laterza cit., I 1, pp. 339 e sgg.) e quindi, con altra e meno convincente impostazione, G. FAVATI, Inchiesta sul Dolce Stil novo, Firenze, Le Monnier 1975. 35 « Le cifre non sono senza significato — rileva A. TAarTARO (Forme poetiche del Trecento cit., p. 67) -. Una quarantina almeno di manoscritti dell’Acerba, una sessantina circa del Dittamondo, una trentina più sette edizioni a stampa (tra Quattro e primo Cinquecento) del Quadriregio: sono le prove di una presenza oggettivamente non trascurabile; e nel caso dell’opera di Fazio in qualche modo obbligante ... ». Si aggiunga anzi — e soprattutto per Cecco d’Ascoli — che, come provano recenti segnalazioni, si tratta di un computo approssimato per difetto.

PI

pn

dotti di un prezioso « alessandrinismo »,f dove magari — e qui il rilievo tocca (senza dimenticare la Comedia delle ninfe fiorentine) so-

prattutto il Boccaccio —, al di là dei simboli e delle costruzioni idealizzanti puntigliosamente inseguite ed esibite, ciò che in particolare colpisce è la presenza di una cultura che è divenuta essenzialmente « letteraria » (mitologica in primo luogo) e che come tale meglio si chiarisce o si sarebbe chiarita attraverso altre esperienze e con ben diversi mezzi espressivi.

In un

certo

senso, insomma,

e per assurdo,

potremmo anche trascurarle senza per questo ignorare alcunché di veramente nuovo ed essenziale per la storia, non dico, almeno per i Triumphi, della poesia, ma delle conquiste culturali cui è demandata la grandezza del nostro Trecento, mentre assai meno trascurabile sarebbe fra l’altro — lo si cita ancora in riferimento a quella specie di primato della prosa che già si è ipotizzato — lo stesso contributo dei commentatori del poema dantesco. Meno

perspicue e pertinenti, e tuttavia non prive di significato,

saranno forse ulteriori diffrazioni in vario modo percepibili all’interno di altri settori della lirica trecentesca. Si pensi, per cominciare, a quella rimeria gnomica che, attingendo di norma ai ristretti quanto vitali confini di una borghese quotidianità, non trova più « slanci e posizioni sconvolgitrici » e tende in definitiva a quella « modesta saggezza, talvolta piagnona, talvolta arguta, che è l'emblema del secolo ») riscattandosi semmai (e vedendo irrobustito anche il proprio valore documentario) laddove riesce a visualizzare tipi emblematici e più liberamente (senza i limiti cioè di un troppo manierato macchiettismo e senza vincoli eccessivi di pruderie moralistica) lascia percepire i costumi e i fermentanti umori di una società urbana, che in testi di genere finitimo (basti qui ricordare quel piccolo capolavoro che è il ternario pucciano noto come Proprietà del Mercato Vecchio) giungono talora a svelarsi in una precisa cornice ambientale e con tutta la concretezza [N

3 Il termine — che certo non va esente da equivoci — è stato impiegato da F. Neri (cfr. Il Petrarca e le rime dantesche della Pietra, in Letteratura e leggende, Torino, Chiantore 1951, p. 68), che ha scritto: «Il vero è che l’allegorismo, con la sua freddezza, ha sempre attraversato il cammino del Petrarca: egli vi si ostinò, dai suoi primordi, Nel dolce tempo de la prima etade, fino a Standomi un giorno, a Tacer non posso, ed alla visione dei Trionfi; ma non vinse mai la prova. E questo suo “medio evo’ è alessandrino ». 37 Cfr. L. Matacoti, Storia dell'antica poesia dalle origini all’Ariosto, Firenze, La Nuova Italia 1965, p. 141 (dove si esemplifica con i nomi del Bonichi, del Pucci e del Tedaldi; ora però v. anche la più convincente caratterizzazione fornita da E. SAVONA, Bindo Bonichi da Siena e l’ideologia letteraria del primo Trecento, in op. cit., pp. 95-122).

15: 30

dell’umana verità. O si guardi alla poesia di tema più propriamente politico, la quale, in varie forme, assume nel secolo XIV uno sviluppo davvero inconsueto e può manifestarsi in commossa e partecipe esposizione cronachistica o in manifesti irosi e maledicenti di guittoniana veemenza, o ancora — dando voce a disorientate inquietudini — esprimersi in nostalgiche lamentazioni o tradursi in elegiaci ripiegamenti e in accorati aneliti alla pace, ma spesso anche resta vincolata all’occasionalità o si risolve nella celebrazione retorica; né certo — man mano che ci si addentra nel secolo — può sfuggire che vanno rarefacendosi i testi di poeti che, nelle lotte politiche di cui pure si fanno portavoce, siano davvero impegnati in prima linea e disposti a pagare di persona, non già per inseguire delle utopie ma per contribuire direttamente alla realizzazione delle proprie idee. Ma qui naturalmente, poiché si allude a manifestazioni inscindibilmente legate ad una varia e mutevole realtà storica,® oltre che a non meno diversificate situazioni ambientali, il quadro generale diventa tanto più insicuro ed eterogeneo; e piuttosto, poiché anche al Boccaccio e al Petrarca ci è fatalmente accaduto di accennare, saranno ancora i loro nomi ad imporre un non troppo breve

indugio. 3.

Quanto al Boccaccio, non ancora superfluo risulta sottolineare

che, nella storia della nostra letteratura, egli occupa un posto davvero preminente anche come dicitore in rima, subito aggiungendo, però, che questo avviene — anche a prescindere dagli esiti di più o meno autentica poesia che in varia misura si sarà disposti a riconoscervi — soprattutto in virtù di quelle opere (Filostrato, Teseida, Ninfale fiesola-

no) in cui decisamente prevale l’interesse per il tessuto narrativo; benché sia lungi da noi l’idea di misconoscerne l’altissimo valore documentario e la ricchezza di spunti originali, un posto tutto sommato marginale possiamo invece riconoscere, nella sua straripante attività letteraria, all’esercizio più propriamente lirico. Perciò, pur volendo ricondurre al suo giusto valore il rogo cui accenna nell’epistola a Pietro Piccolo da Monteforte,” meraviglia fino a un certo punto che prove 38 Benché solo in termini generali, conserva tuttavia una sua plausibilità la seguente conclusione di M. MartI (cfr. Costume, cronaca e storia comunale nelle rime del tempo

di Dante, nel vol. Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce, Milella 19712, p. 192): « Alla libera espressione dei propri sentimenti politici, dopo i primi decenni del Trecento, si andava sostituendo una poesia politicamente, ma dal di fuori, qualificata e condizionata; la libera libellistica politica comunale andava spegnendosi o s’era spenta ». 39 Cfr. Epist. XIX (in Opere latine minori, a cura di A. F. MAssERA, Bari, Laterza 1928, p. 203) e, per una esatta valutazione, V. BRANCA, L'atteggiamento del

nia

trascurabili giudicasse le proprie rime l’autore stesso. Ben a ragione, più ha sempre

stupito, invece, l’analoga noncuranza

di cui più volte,

nei confronti delle sue liriche volgari, volle dare pubblica testimonianza il grande Petrarca: logico quindi che ci si sia sempre affrettati a rilevare come una perentoria smentita venisse dal fatto che, in realtà, il Canzoniere nacque dall’assiduo, incessante, consapevolissimo lavoro di tutta una vita. Non credo però che a spiegare certe affermazioni

pe-

trarchesche fosse del tutto sufficiente il richiamo ad un /ocus meodestiae di cui è patente l’ascendenza culturale; non è poi detto, insomma, che si trattasse sempre e solo di pura affettazione letteraria. Proprio tenendo conto della prospettiva e dell’evoluzione storica che qui sto cercando di deilneare, sembra anzi di intuire che, quando — quasi costretto — parlava delle proprie nuge," il Petrarca doveva soprattutto considerare che le sue rime, essendo, salvo eccezioni, legate ad esperienze e occasioni affatto personali, trovavano (o, per meglio dire, parevano trovare) la loro giustificazione più sul piano « sentimentale » (privato) che non su quello « culturale » e pubblico; in definiti-

va (anche di qui, senza dubbio, il precario e tuttavia persistente tentativo di presentarle come «.iuveniles ineptiae »), se non addirittura agli

occhi suoi, presumibilmente a quelli di quasi tutti gli esponenti della cultura ufficiale del tempo, potevano cioè apparire sì come esercizi di mirabile eleganza, non però tali da offrire contributi degni di nota nel quadro di una nuova civiltà delle « humanae litterae » e insieme consoni (nell’immediato) all'immagine di sé così puntigliosamente costruita e sostenuta. Era in effetti una forma di poesia radicalmente nuova, Boccaccio di fronte alle sue «Rime» e la formazione delle più antiche sillogi, in Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio, Roma, Ed. di Storia e Letteratura 1958,

spec. pp. 304-306; inoltre sul destinatario dell’epistola citata, G. BILLANOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boccaccio, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze, Sansoni ‘11955, I, pp. 3-76. 40 « Per lui, come per il suo Dante — ha scritto Vittore Branca (Boccaccio medievale, Firenze, Sansoni 19815, p. 252) — come per i maggiori nostri scrittori da Palermo a Firenze, quei sonetti, quelle canzoni, quei madrigali sono veramente nugae: sono “ occasioni’ minori ed episodiche ai margini delle opere unitarie e sistematiche

che chiedevano impegno assoluto e promettevano vera e lunga gloria». Devo dire però — e chiarirò meglio in seguito — che non sarei altrettanto perentorio nell’attribuire a Dante, o anche ad altri duecentisti, un atteggiamento di fronte alle proprie Rizze strettamente analogo a quello che poté essere del Boccaccio o anche, prima che si definisse l’idea di « canzoniere », del Petrarca. 41 Almeno quando con tale vocabolo non allude solo a singoli componimenti di breve respiro, accezione nella quale — come ha ricordato il Quaglio (cfr. Francesco Petrarca, Milano, Garzanti 1967, p. 146) - nuge poteva indicare anche epistole ed egloge. 4 Sarà anche da aggiungere che le allusioni del Petrarca sono di solito assai generiche; nei rapidi, quasi spazientiti cenni alle sue liriche volgari come se si trattasse

PI

ancorché in qualche modo debitrice ad altre esperienze (certo più timide e modeste), precedenti o contemporanee; nuova in primo luogo perché un poeta osava « assumere come argomento della sua arte una così personale e ribelle esperienza sentimentale inquadrandola in schemi soltanto etico-letterari, privi cioè di quelle implicazioni di carattere sociale e filosofico, a cui si erano ancorati Provenzali e Stilnovisti ». Non sarà perciò «un caso che egli abbia cominciato a raccogliere sistematicamente le sue liriche volgari e ad esporle al gran pubblico, e non più a pochi amici fidati, solo quando si accorse che poteva, dopo la morte di Laura, inserirle in qualche modo, e quindi giustificarle, in

una struttura tradizionale di peccato, pentimento e redenzione ».* Né sarà casuale — anche se in fondo si tratta soltanto di sfumature — che il tono con cui parla delle sue rime muti con gli anni e che le sue confessioni sull’assiduo, impegnatissimo lavoro di correzione e riordinamento si facciano volutamente esplicite e meno rare nelle epistole più tarde, lasciando così trasparire, al di là delle quasi obbligate di-

di esercizi estemporanei e marginali o di debolezze giovanili alle quali doveva ripensare non senza pudore e pentimento (cfr. Farz., VIII 3, 13), nulla lascia in effetti supporre che vi sia anche implicito un qualche riferimento alle sue più impegnate e impegnative composizioni (a Spirto gentil e a Italia mia, per es., o alla « canzone delle visioni », ecc.). Sembra invece assai probabile che, nei decenni in cui le sue rime circolavano isolate o in esigue e casuali sillogi, il suo pensiero andasse a certe modeste poesie d’occasione che aveva scritto cedendo alle più pressanti richieste o a certe rime d’amore che, diffuse dai giullari (si ricordi quanto scriverà al riguardo in Sen., V 2), giungevano ad un pubblico pronto magari a considerarle alla stregua di prodotti appartenenti ad una letteratura d’evasione e d’intrattenimento. 4 Cfr. E. BicI, Introduzione a F. PETRARCA, Opere, a cura di E. Bici e G. PONTE, Milano, Mursia 1963, p. xxv. D'accordo sulla sostanza, anche perché non v’ha dubbio che per il Petrarca, come già per Dante, la morte della donna amata è evento capitale a tutti gli effetti (e dunque anche per l’assetto definitivo del «libro »), osserverei peraltro che ad esporre «al gran pubblico » le proprie rime il poeta laureato non fu mai davvero incline nemmeno nella sua tarda maturità; e nello stesso tempo credo si debba rammentare che, mentre da un lato diverse componenti (o «idee ») di « canzoniere » sopravvivono anche nelle redazioni finali, dall’altro occorrerebbe tener conto delle sia pur parziali sollecitazioni operate da antecedenti diversi (dapprima raccolte organiche di poeti latini, poi forse e soprattutto la Vita Nuova). [Anche sotto questo profilo, fra gli studi recenti vanno almeno ricordati G. Gorni, Metamorfosi e redenzione in Petrarca. Il senso della forma Correggio del « Canzoniere », in « Lettere italiane », XXX, 1978, pp. 3-13, e soprattutto B. MARTINELLI, L’ordinamento morale del « Canzoniere », in Petrarca e il Ventoso, Bergamo, Minerva Italica 1977, pp. 217-300: analisi globale e di grande importanza quest’ultima, che però, mentre reagisce opportunamente a certi processi di modernizzazione, mi pare finisca per enfatizzare oltre il lecito le pur indubbie radici « medievali » dell’ideologia petrarchesca; per citare un solo punto, e però decisivo, non mi sentirei per es., nonostante le motivazioni da lui addotte, di seguire il Martinelli nell’affermare (cfr. p. 233) che «a Beatrice-Cristo della Vita Nuova e della Commedia il Petrarca contrappone la figura di Laura-Cristo e di Laura-Vergine nel Carzorziere e nei Trionfi ». Nello stesso volume v. anche il saggio « Feria sexta aprilis ». La data sacra nel « Canzoniere » del Petrarca, pp. 103-148, e qui, per ulteriori indicazioni, la parte finale di nota 44].

ZIA} ESIS

chiarazioni di modestia, i segni di una valutazione almeno in parte diversa4 È tuttavia difficile, a questo punto, resistere alla tentazione di contrapporre — anche se accertabile solo in parte — l’atteggiamento assunto di fronte alle proprie rime dall’Alighieri e quello attribuibile al Petrarca. Ne emerge subito un divario che non basterà spiegare richiamandosi al diverso carattere dei due scrittori, al fatto che meno

fami-

liare e connaturato potesse essere al primo il locus modestiae di oraziana memoria, cui il Petrarca resta legato, o neppure forse alla diversa idea della dignità del volgare che essi avevano 0, quanto meno, si sentivano spinti a professare. Credo invece che anche qui resti preminente la diversità dei contenuti delle loro poesie e quindi il diverso significato « filosofico » e, in senso lato, etico-culturale che ad esse poesie poteva essere attribuito.* Mi par chiaro, per esempio, che quando, nel XXIV del Purgatorio, Dante si fa implicitamente elogiare da Bonagiunta come « colui che fore Trasse le nove rime » e si fa riconoscere come l’autore di Donne ch'avete intelletto d’amore, non tanto

cita quella canzone in quanto aveva segnato stile (non poteva sfuggirgli in effetti che per suoi testi potevano offrire esempi più alti anche e soprattutto perché era quella e non

la conquista di quello specifico e probanti), ma altra la canzone

un nuovo scopo altri la indica in cui per

# Si ricordi anzitutto la famosa Sezile inviata al Boccaccio (V 2), « scritta, sembra, nell’agosto del ’64, ma che il Petrarca, rielaborando e ordinando il suo epistolario, assegnò all’estate del ’66 probabilmente per motivi ideali », cioè appunto, come ha giustamente notato il Branca (cfr. Tradizione delle opere ... cit., p. 303), al « periodo in cui pensava più assiduamente ai “rerum vulgarium fragmenta” e andava maturando in lui il disegno di rivederli e di ordinarli sistematicamente e in maniera in certo senso

definitiva, meglio di quanto non avesse fatto sino allora ». Si aggiungano Var., 9, Sez., XIII

4 e 10 (tutte del

1373)

e si vedano

per

«il tono

degli

altri scarsi

cenni

alle

Rime negli anni e nelle lettere precedenti » i brani delle Farziliares segnalati ancora dal Branca, in op. cit., p. 302, n. 2. Non sarà da trascurare, del resto, l’ipotesi che la diversa valutazione delle Rizze sparse sia anche connessa, da un lato al progressivo affievolirsi delle speranze legate all’Africa, dall’altro al contemporaneo impegno concesso all'elaborazione dei Triumphi. Giunge a conclusioni in parte diverse, ma resta fondamentale per la esauriente documentazione, lo studio di V. CIAN, « Nugellae vulgares »? Questione petrarchesca, in Scritti minori, Torino, Gambino 1936, II, pp. 87-128. [Dichiara di condividere la mia impostazione, e però d’essere incline ad « accentuarla », soprattutto perché non ravvisa « differenze sostanziali tra il tono delle Famziliares... e quello del Serziles », P. Trovato, Dante in Petrarca... cit., pp. 4-5. Successivamente,

in

modo

dall’importante preistoria

organico

volume

e

di M.

e la costituzione

con

nuove

SantAGATA,

di un

prospettive,

Dal

genere, Padova,

il problema

sonetto Liviana

è stato

al Canzoniere.

analizzato

Ricerche

sulla

1979, ove (cfr. p. 154 sgg.)

anche alcune mie ipotesi sono proficuamente discusse; a mia volta, su taluni punti ed anche sviluppando il dialogo con l’amico Santagata, sono tornato nel saggio Occasioni mancate (v. soprattutto $$ 3-4) che chiude il presente volume]. 45 Per non diversi motivi neppure riesce possibile pensare che con i toni e i modi consueti al Petrarca potessero parlare delle proprie rime un Guittone, un Guinizzelli, un Cavalcanti.

eg

la prima volta egli aveva raggiunto una nuova soluzione del problema dell'amore e quindi dei suoi possibili rapporti con Dio attraverso la mediazione di una donna che non ha più solo « d’angel sembianza » (com’era per Guinizzelli) ma è ella stessa un angelo, ella stessa speculum Christi. Più in generale, è noto come per Dante non si dia canticum novum se non come prodotto ed espressione di vita nova, e come con ciò egli si richiami non tanto alla sua esistenza di individuo, ma ad una interpretazione della vita che come tale si può e si deve trasmettere agli uomini attraverso la poesia; di canticum novum insomma si può parlare veramente solo se esso è anche rivelazione e mezzo di una «reformatio vitae ». Si potrà considerare infine che anche Dante, in certi momenti, può avere avuto di fronte a taluni prodotti della sua attività poetica non lievi perplessità di ordine etico-religioso, ma in lui esse appaiono ben presto risolte nell’esercizio stesso della poesia e con una trisolutezza che al Petrarca sarà sempre negata. Con il che forse — sia detto per inciso — si potrà anche spiegare come

la meditazione

di Dante

sull’arte (di un Dante, certo,

assai più legato alla tipologia dell’ars poetica medioevale) abbia largo spazio soprattutto in riferimento a problemi tecnici, retorico-stilistici connessi con l’uso della nuova lingua volgare, laddove nel Petrarca (basti il rinvio al terzo libro del Secretum) assai più spesso emergono le riflessioni e i laceranti conflitti legati alle implicazioni etico-religiose della sua attività letteraria e, ovviamente, a quella di cantore di Laura in primo luogo. In seconda istanza, non meno importa rilevare che ai nuovi sviluppi della poesia trecentesca non corrisponde affatto, o appare per troppi aspetti inadeguata, la parallela acquisizione di nuove, più duttili e coerenti posizioni estetiche; per tutto il secolo (ed anche oltre) domina, anzi, un’idea del valore e della funzione della poesia sostanzialmente non difforme da quella imperante nell’età di Dante e degli Stilnovisti, a loro volta, del resto, eredi della precedente cultura medievale. Per lo stesso Petrarca l’opera dei poeti va difesa ed esaltata, in quanto nelle loro favole « allegoricus sapidissimus ac iucundissimus sensus inest, qui fere omnis Sacrarum etiam Scripturarum textus abun-

4 Su questo punto, indicando anche gli antecedenti biblici e la documentazione di una vasta tradizione medioevale da S. Agostino ai vittorini, ha soprattutto insistito D. DE RogertIs, in Il libro della «Vita Nuova», Firenze, Sansoni 19702, spec. pp. 117-120; ma v. anche V. BRANCA, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella « Vita Nuova », in Studi in onore di I. Siciliano, Firenze, Olschki 1966, vol. I, pp. 123-148.

SIOE

dat », e, più esplicitamente,

« poete ... studium

est veritatem

rerum

pulcris velaminibus adornare, ut vulgus insulsum ... lateat, ingeniosis autem studiosisque lectoribus et quesitu difficilior et dulcior sit inventu»; ‘’ non diversamente, per il Boccaccio — che neppure trascura, a sua volta, di sottolineare i rapporti fra teologia e poesia, l’affinità fra i modi allegorici della Bibbia e quelli in uso presso i poeti ‘* —, sono « sublimes effectus » della poesia non solo « mentem in desiderium dicendi compellere, peregrinas et inauditas inventiones excogitare, meditatas ordine certo componere, ornare compositum inusitato quodam verborum atque sententiarum contextu », ma soprattutto « velamento fabuloso atque decenti veritatem contegere »: in altri termini « mera poesis est quicquid sub velamento

componitur

et exponitur

exquisi-

te ».* Anche se è indispensabile la perizia tecnico-retorica, l’inventio capace di aftascinare « pulcris velaminibus », la grandezza della poesia è dunque sempre commisurata ai suoi valori allegorici, al tesoro di sapienza e saggezza che, compiutamente, essa trasmette soltanto ai pochi eletti che saranno in grado di intenderne il messaggio (Dante stesso, si sa, viene pubblicamente celebrato — o magari criticato — in tutto il Trecento non tanto per i valori estetici del suo poema, ma soprattutto come

« scienziato », come

« poeta-teologo »). Si spiega co-

sì, da un lato come nell’esaltare un singolo poeta si tenda a porre in

4 Cfr. Invective contra medicum I (ed. critica a cura di P. G. Ricci, Roma, Ed. di Storia e Letteratura 1950, pp. 36-37). 4 Com'è noto, presenti in tutto il secolo (e oltre), dal Mussato — cui si deve la prima organica e appassionata formulazione — al Salutati, tali argomentazioni erano state sviluppate dal Petrarca nella famosa Fam., X 4, donde soprattutto le trasse il Boccaccio, con una fedeltà via via testimoniata nelle redazioni del Trattatello in laude di Dante

(cfr. G. BiLLANOVICH,

Petrarca

letterato,

I, Lo

scrittoio

del Petrarca,

Roma,

Ed. di Storia e Letteratura 1957, pp. 121-124, 236-238 e 268-271), nel De Casibus (ed. Ricci-Zaccaria, III 14), nella Genedlogia (ed. Romano, XIV, 8-9, 18), nelle Esposizioni sopra la Comedia (ed. Padoan, I esp. litt. 75 e sgg.). 49 Cfr. Genealogie XIV 7. Fermandomi, per non appesantire troppo il discorso, alla citazione delle affermazioni più note e sintomatiche, semplifico forse oltre il lecito e quasi banalizzo problemi complessi e importanti, pur senza volere con ciò misconoscere

quanto

di più consono

Petrarca e del Boccaccio,

Basti

comunque

ad una

nuova

né il diverso

sensibilità

umanistica

tono che spesso

il rinvio, oltre che alla sintesi

affiora nelle posizioni del

distingue il secondo

del Branca

(Motivi

dal primo.

preumanistici,

in

Boccaccio medievale cit., pp. 277-298), ad alcuni contributi recenti: G. BILLANOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte ... cit.; G. BARBERI SQuAROTTI, Le poetiche del Trecento

in Italia, in Momenti e problemi di storia dell'estetica, parte I, Milano, Marzorati 1959, pp. 255-324; E. Girson, Poesie et vérité dans la Genealogia de Boccace, in « Studi sul Boccaccio », II, 1964, pp. 253-283; G. MARTELLOTTI, La difesa della poesia nel Boccaccio e un giudizio su Lucano, ivi, IV, 1967, pp. 265-279; ed ora anche G. Ronconi, Le origini delle dispute umanistiche sulla poesia (Mussato e Petrarca), Roma, Bulzoni 1976; À. Buck, La difesa della poesia nelle «Genealogie deorum gentilium » del Boccaccio, in « Misure critiche », n. 26-27, 1978. pp. 27-38.

SE: (pad

primo piano anzittutto la sua cultura e le sue virtù morali,” dall’altro come in ogni generale celebrazione della poesia l’accento batta sempre sulla parola verità," condizione inelusibile, appunto, ribadiva il Petrarca puntando ancora sui « firmissima veri fundamenta », anche per la poesia epica e più in generale per chiunque voglia esser chiamato poeta.” Quando poi si tratta di suffragare l’appassionata difesa della poesia con illuminanti esempi, è naturale che il padre dell’umanesimo si rivolga prontamente ai grandi scrittori dell’antichità; ma anche per il Boccaccio, che pure, rispetto al Petrarca, palesò sempre un atteggiamento più aperto e interessato verso la letteratura del proprio tempo, l’unico esempio davvero probante che in quest’ultimo ambito si presentava non poteva essere che quello dell’amatissimo Dante.® Neppure poté resistere, si capisce, alla tentazione di allegare ai nomi di Virgilio e di Dante quello del proprio « insignis praeceptor »; è sintomatico tuttavia che, nell’occasione, non abbia potuto citarlo se non per il Bucolicum carmen e che, pur avendo magnificato altrove la « divina Affri50 Ne offre esempi continui proprio il Boccaccio: si veda, per es., l’inizio del profilo biografico del Petrarca (Opere latine minori cit., p. 238), subito definito «vir illustris ac vita moribusque et scientia clarus »; o quanto dice di Francesco da Barberino in Gereaologie, XV 6; o in una rassegna di grandi paeti, da Omero (« padre d’ogni virtù ») al Petrarca («la cui vita e i cui costumi sono manifestissimo essemplo d’onestà »), in Esposizioni sopra la Comedia, I litt., 89-90 e parallelamente in Geredalogie, XIV 10. E appena occorre ricordare che solo sulla base di un giudizio morale è accettata la condanna di un’unica categoria di poeti, quelli che scrissero per il teatro (v. per es., per il Petrarca, Invective contra medicum, III, ed. Ricci, p. 66 e Ser., XIV 11); è significativo, inoltre, che alle censure per i «comici disonesti» il Boccaccio accosti fugacemente quelle per gli « elegiaci passionati » (cfr. ancora Esposizioni, I litt. TUO 51 Citando il passo della Invectiva sopra riprodotto (v. n. 47), il Barberi Squarotti (cfr. op. cit., p. 249) ha affermato che la «tematica del giudizio di poesia impostata sull’interpretazione allegorica » vi è «accentuata più sotto l’aspetto estetico che non sotto quello etico e filosofico, in quanto non tanto importa al Petrarca la “ veritas’ nascosta sotto gli adornamenti formali dell’allegoria, quanto piuttosto l’abile bellezza di questa, l’edonistica contemplazione della rispondenza fra ‘cortex’ e ‘veritas’, l’ancor maggiore piacere della soluzione dei difficili quesiti imposti dall’adornamento allegorico: tanto che a un certo punto quasi si potrebbe tradurre il termine ‘allegoricus’ col termine ‘formale’, non ad altro, in fondo, alludendo il Petrarca, se non appunto al decoro della forma, non senza uno spunto di compiacimento per la difficoltà tecnica del discorso poetico e per la suggestiva oscurità che ne consegue, capace di rendere più intensa l’adesione estetica ». Leggendo per intero le pagine da cui è estratta la citazione alla quale ci si riferisce, a me pare, tuttavia, che una simile interpretazione si riveli piuttosto forzata; il tono, certo, potrà essere diverso, ma in sostanza siamo ancora fermi alla «veritade ascosa sotto bella menzogna» di Dante (cfr. Convivio, II I, 3). 52 Cfr. Africa, IX 92 sgg., dove però, è stato giustamente rilevato (cfr. G. MARTELLOTTI, La difesa della poesia... cit., p. 272), il Petrarca si riferisce più alla verità storica che non a quella morale. Ma per altri rilievi, v. anche quanto osserva — in riferimento all’egloga X del medesimo Petrarca - M. Pastore SToccHI, in « Lettere italiane », XXI, 1969, pp. 498-499.

ae

ca » e altre opere latine,” nessun cenno vi abbia incluso (direi meglio: vi abbia potuto includere) a quelle rime volgari che pure teneva in altissima considerazione. Vien subito da pensare, in effetti, che le poetiche « medievali » cui ora abbiamo accennato erano pienamente adatte per giustificare e difendere le sottili allegorie della nuova poesia bucolica — che del resto ha, nel Trecento, importanza e diffusione assai superiore a quelle che si è di solito disposti a concederle* -, o per apprezzare la poesia epico-storica dell’Africa e, non senza dubbi (persino molte delle Metri ce petrarchesche sarebbero estranee, per esempio, a siffatti criteri), poche altre espressioni della poesia latina dell’incipiente umanesimo. Sul fronte della letteratura volgare solo i poemi in qualche modo riconducibili al modello dantesco non ponevano problema alcuno; com’era possibile difendere, invece, le liriche del Canzoniere” 0, su un

piano inferiore (posto anche che la si giudicasse degna d’esser presa in considerazione), l’opera di tanti altri rimatori contemporanei? Esaminando il capitolo della Genealogia (XIV 19) nel quale il Boccaccio si sforza di negare che Platone intendesse bandire i poeti dalla città, e riferendosi in particolare alla domanda « Credamne igitur ego tantae dementiae fuisse Platonem ut Franciscum Petrarcham urbe pellendum censuerit? », Etienne Gilson ha giustamente affermato che, in base ai

canoni ufficiali nella cultura trecentesca, ad un simile quesito noi possiamo rispondere con certezza quasi assoluta:

« peut-étre pas Pétrarque

lui-méme, mais au moins le Canzoniere, ce prototype de la poésie romantique où la raison abdique devant la passion triomphante, car on 53 In quel singolare excursus di letteratura contemporanea che è il cap. 6 del libro XV della Gexeaologia, il Boccaccio cita, invero, anche Francesco da Barberino, col quale neppure si esce però dall’ambito della poesia allegorico-didattica (ma quanto avranno pesato in questa scelta i legami d’amicizia e l'ammirazione per l’erudizione profusa nel

commento latino ai Documenti d’Amore?). Su un piano ben diverso siamo, evidentemente, con i nomi dei maestri della sua formazione napoletana che il Boccaccio ricorda nel medesimo capitolo. 54 Cfr. Genealogie, XIV 22 e Esposizioni, I litt., 77 (in De Casibus, III 14, 6, vige invece la serie Omero-Virgilio-Petrarca). 55 Cfr. ancora Genealogie, XV 6. 56 Di informazioni assai più ampie disponiamo ora soprattutto grazie agli studi di G. BrLLanovicH, F. CADA, A. CAMPANA, P. O. KRISTELLER, pubblicati sotto il titolo complessivo Scuola di retorica e poesia bucolica nel Trecento italiano nella rivista « Italia medioevale e umanistica » a partire dal 1961. 57 Più d’una composizione, invero, anche nel capolavoro del Petrarca potrebbe essere salvata: ma si tratterebbe, appunto, di eccezioni, mentre è chiaro che il tentativo d’una difesa complessiva riuscirebbe tanto meno arduo quanto più fosse valorizzato quel disegno morale che, intervenuta la morte

come si accennava, poté emergere soltanto dopo che (essendo di Laura) il Liber fragmentorum cominciò ad avviarsi verso un

organico (e a grandi linee già definitivo) ordinamento.

PE pe

peut faire de tout avec les sonnets de Pétrarque, sauf des philosophes et des guerriers ».* Naturalmente un simile divario fra la nuova poesia e le contemporanee teorie estetiche (non oserei parlare di divario rispetto alle poetiche, giacché sarà dalla concreta realizzazione dell’opera che esse andranno soprattutto enucleate) non poteva essere privo di conseguenze: unitamente

ad altri fattori (lingua, pubblico, modelli, ecc.), tutti più

manifesti se non più importanti, anch’esso contribuisce infatti a determinare quello stacco fra letteratura latina e letteratura volgare che, comunque si tenti — e giustamente — di non radicalizzarne lo sviluppo, resta innegabile e decisivo se, con i letterati delle prime generazioni quattrocentesche, conduce ad una situazione in cui vistosamente diminuito è, quanto meno, l’interesse per tutta la poesia moderna. Anche è evidente, peraltro, che difesa della poesia e conseguenti rifles-

sioni sono nel Trecento, dal Mussato al Salutati, prerogativa e vanto esclusivi di una cultura tipicamente umanistica; estranei ad un simile dibattito restano invece i rimatori del secolo, nella cui voce appena si coglie il riflesso della diversa sensibilità determinata da una nuova realtà storica. In altri termini, sarà essenzialmente di quest’ultima, nel

suo complesso, che essi potranno avvertire, in parte e confusamente, mutamenti e contraddizioni e senza perciò porsi, direttamente, quesiti di ordine estetico (o anche morale e storico-letterario) veramente

assi-

milabili alla problematica che abbiamo poc’anzi ricordato. Un grado massimo di consapevolezza e di partecipazione va per contro attribuito al Petrarca: se non certissimo, è dunque assai « probabile che la ostentata noncuranza ... verso le sue rime volgari » nascondesse in lui « proprio e soprattutto la consapevolezza imbarazzata »© delle novità della propria poesia, e insieme la perdurante difficoltà di presentarle come prodotto primario e coerente della propria attività letteraria e del suo stesso magistero culturale. Sintetizzare le dimensioni, i percorsi e i vari aspetti tematici, culturali e stilistici

di tali novità



tra l’altro

destinate,

come

vedremo

altrove, a trovare presso i contemporanei ascolto limitato e, ciò che più conta, sostanzialmente parziale ed episodico© — non rientra ora fra i 58 Cfr. Poesie et vérité... cit., p. 268. 59 Sono ancora parole di E. BrcI, nell’Introduzione cit., p. XXV; miei i corsivi (ma anche su questo punto si vedano le chiose di M. SANTAGATA, Dal sonetto al Canzoniere CItSMpoad5/0s9g)). 6 Per un primo approccio a questa problematica (e la relativa, ancora scarsa bibliografia) rinvio al cap. Occasioni mancate.

Le

compiti che intendevo prefiggermi con codesti appunti. Per riaccostatsi finalmente al punto da cui ha preso l’avvio questa lunga divagazione, importa invece ribadire che basilare è, nel Canzoniere, l’incidenza di un

diverso rapporto tra filosofia e poesia, che è poi il prodotto anche di un diverso atteggiamento verso i procedimenti logici della filosofia stessa e, all’interno di essa, di specifiche scelte di temi e d’autori. In particolare, proprio richiamandosi ad un « dispregio per la dialettica, che investe indebitamente tutta la Scolastica », già Umberto Bosco — quasi incidentalmente, ma come meglio non si potrebbe — ha anzi scritto: « Esso è ..., chi ben guardi, ciò che più profondamente distingue il Petrarca dagli stilnovisti, quali e quanti che siano i suoi debiti verso di essi. Le discussioni sulla filosofia, per esempio, d’un Cavalcanti, sui suoi rapporti con gli averroisti, e simili, che la poesia di lui autorizza e anzi impone, non potrebbero aver luogo per la poesia petrarchesca. Il Petrarca ignora tutta la discussione stilnovistica sulla natura d’amore, riportando la questione unicamente a se stesso che è l’unica cosa che gli importi, ed estraneo gli è l’intero mondo tomistico,

da cui non possiamo prescindere per capire lo Stil novo. L’introspezione, se in questo tende verso la filosofia e vi si dissolve, nel Petrarca

resta invece assolutamente autonoma »." Più empiricamente, tutto ciò significa, non già che anche per interpretare e analizzare le liriche del Petrarca non possa essere utile, e talora necessario, richiamarsi alle sue

meditazioni filosofiche, ma che — a differenza di quanto poteva avvenire per l’appunto in Cavalcanti o in Dante — esse, sempre svincolate dal rigore di scuole e sistemi, andranno ricercate di norma, non nella poesia stessa, bensì nei trattati latini, nelle opere polemiche, negli epistolari e talora ricondotte più alle sue esperienze di lettore che non al suo concreto

esercizio di scrittore.

Su un piano assai diverso, considerazioni analoghe potrebbero valere in fondo anche per il Boccaccio, mentre già abbiamo accennato a quali siano i risultati di un esame complessivo delle altre voci minori della poesia trecentesca, di poeti cioè che si limitano alla elaborazione di nuclei narrativi e cronachistici o di non problematiche immagini atte

all'evasione del canto, oppure, in quanto lirici, si fermano agli spunti offerti da contingenti occasioni, scoprono implicazioni autobiografiche dapprima esili e poi via via più pressanti, quando addirittura non esauriscono il loro apporto nell’esteriore variazione di formule lettera-

rie prive ormai dell’originaria intensità semantica che, ancora nello Stil 61 U, Bosco, Francesco Petrarca, Bari, Laterza 1961, p. 124.

DET :A ese

nuovo, le faceva diretta espressione d’una Weltanschauung ed evidenziava determinanti implicazioni religiose, sociali, filosofiche. E non si nega, ovviamente, che in questo multiforme quadro si rifletta una complessa trasformazione della società; se si guarda all’insieme, quasi sempre indiretti e tardivi, labili e talora del tutto inconsistenti vi appaiono però i legami con il profondo rinnovamento culturale che, a vari livelli, si va delineando in quegli stessi decenni e che solo, e assai meglio, possiamo cogliere anche e necessariamente rivolgendoci ad altri settori della letteratura contemporanea. Soprattutto di qui (oltre che — come vedremo nel capitolo finale di questo volume — dalla mancanza di figure-guida assunte come tali) deriveranno dunque le obiettive, accresciute difficoltà che si parano dinnanzi a chi, della poesia trecentesca (il rilievo, peraltro, potrebbe interessare anche la prima metà, almeno, del secolo successivo), tenti di tracciare una storia che

non si esaurisca in una neutra rassegna di nomi disposti cronologicamente, o in un meccanico catalogo di testi ascrivibili a un determinato genere letterario. 4.

Se le giustificazioni fin qui esposte

essenziali, esse diventano

implicitamente

sono

davvero

valide ed

chiarificatrici, contribuiscono

cioè esse stesse alla ricostruzione storiografica. Dubito invece che analoga utilità si possa riconoscere nei più ricorrenti richiami al generico concetto di « età di transizione » o nelle persistenti, evasive allusioni alla « crisi»

di un intero

secolo con

cui ci si limita, di solito, a

spiegare l’eclettismo, l’inquieto e non sempre consapevole sperimentalismo (quanto dire, in definitiva, il disorientamento e l’individualismo)

che sono, o meglio sarebbero, ravvisabili in quasi tutti i poeti minori del Trecento: con ciò, appunto, si tende a prendere atto della mancanza del «coerente sviluppo » concordemente riconosciuto alla poesia duecentesca, trovando in pari tempo alibi di comodo per una sostanziale rinuncia alla soluzione dei problemi che, per lo storico della nostra letteratura, la poesia del nuovo secolo comporta. A parte il fatto che di eclettismo è lecito parlare anche per vari poeti,

e non

solo minori, del secolo XIII, si deve subito obiettare,

però, che ogni secolo, anzi ogni generazione (se non ogni individuo) porta con sé le proprie crisi e annovera elementi che configurano un processo di transizione, senza che ovviamente ne derivi la benché minima autorizzazione ad un giudizio negativo o comunque riduttivo. Trattandosi di un dato acquisito, a nulla serve dunque constatarlo se di quella crisi (per ripetere ancora un termine non scevro da equivoci)

igor

non si precisano anche ragioni ed effetti; nel caso specifico se anche non si indicano, cioè, i modi in cui il complesso dispiegarsi di forze, di classi, di istituzioni, di ideali diversi e di incerte o contrastanti tendenze si riflette — a vari livelli di incidenza e di consapevolezza — nella letteratura del nostro « autunno del medioevo », al tempo stesso con-

dizionandone la storia. Ancora resterebbero da precisare, però, i motivi per cui quella situazione storica avrebbe impedito o fortemente ostacolato un organico, « coerente sviluppo » della poesia posteriore a Dante, e non anche della prosa contemporanea ® e neppure della musica o delle arti figurative; ed è per questo che, senza voler naturalmente suggerire la possibilità di prescindere dallo studio del contesto storico nel suo complesso, ho ritenuto e ritengo più proficuo non allontanarmi dalle motivazioni specifiche che possono emergere all’interno della storia, e della fortuna, del particolare settore letterario che è l’oggetto di codeste note. Sarà ancora opportuno ricordare, quindi, che sulla fortuna critica della poesia trecentesca, hanno pesato notevolmente, in sede storiografica, da un lato anche il culto delle « tre corone » (con lo schiacciante confronto che per i minori — e non solo sul piano della valutazione estetica — ne derivava), dall’altro quello che potremmo

denomi-

nare il « culto delle origini ». Di fatto, ai pochi e magari scialbi versi che ci facciano risentire l’esile voce di un qualsiasi rimatore del Duecento, si è subito propensi ad assegnare un’importanza che, anche quando il livello estetico possa apparire sostanzialmente analogo, sembra assai più difficile, se non impossibile, riconoscere ad un poeta del Trecento. Più o meno incosciamente, gioca insomma, a favore del primo, l’interesse che si è spinti ad annettere alle esperienze iniziali o, forse meglio, a reperti archeologici che, appunto come tali, hanno sempre un proprio fascino, una propria dignità. Del resto, almeno nella fase prestilnovistica, assai più alte sono le probabilità che singoli testi si impongano, anche all’attenzione del lettore medio, per una certa originalità dei temi, per l’apparente freschezza del tessuto immaginativo, per la suggestione di soluzione stilistiche,

o semplicemente tecniche, non ancora consuete. Poco conta, in effetti, 62 Si vedano, a questo proposito, le osservazioni di C. SALINARI, nell’Introduzione alla sezione trecentesca dell’Antologia della letteratura italiana diretta da M. VITALE, Milano, Rizzoli 1965, I, pp. 447-449 (saggio ora ristampato nel postumo Boccaccio Manzoni Pirandello, a cura di N. BorsELLINO ed E. GHIDETTI, Roma, Editori Riuniti 1979).

e

ES

che possa poi trattarsi di novità relative (valide al massimo per la letteratura italiana, e magari entro aree regionali o municipali), essendo spesso dimostrabile che anche quegli antichi testi sono inscindibilmente legati, e talvolta quasi come sovraimpressioni, a modelli precedenti: occitanici, di solito, o, più di rado e meno

direttamente, mediolatini;

quand’anche si siano precisate — e non sempre, com’è noto, si tratta di operazione possibile® — la natura e l’entità dei debiti contratti con determinati antecedenti, permangono pur sempre, infatti, l’apporto e il più o meno sensibile scarto mantenuto o provocato nel passaggio dall’una all’altra tradizione, in particolare dall’una all’altra lingua, dall’una all’altra società. Ogni testo del secolo successivo (e dopo Dante soprattutto) si colloca invece all’interno di una tradizione letteraria nazionale, che ha già conquistato una sua autonomia e si presenta ormai con tutta la ricchezza di proprie, solide e mature, esperienze; da un lato, dunque, ogni elemento innovativo è divenuto più arduo e insieme meno cospicuo e appariscente (più difficile, cioè, sia da intro-

durre sia da ravvisare), dall’altro è già disponibile, accanto a un vasto repertorio di temi, di immagini, di figurazioni, una gamma di possibili tà linguistiche, stilistiche, metriche di cui è possibile avvalersi, almeno

nell’esercizio di una poesia di livello medio (discorso assai diverso, ovviamente, richiederebbe un grande poeta come il Petrarca), quasi come di materiali precostituiti, tutti seppur diversamente adattabili per nuove occasioni. Se poi si considerano i rapporti che più contano nell’iniziale sviluppo della nostra letteratura, quelli cioè con le letterature di Francia, appare evidente che in vario modo ad esse si torna, nel Duecento, sempre ricavandone, quanto meno, stimoli e suggerimenti che si traducono in esperienze vitali, tutte, come si è detto, almeno relativamente nuove; nel Trecento, invece, le possibilità di contributi innovatori da

parte delle letterature d’oltralpe si vanno via via esaurendo: è un territorio ormai quasi completamente esplorato, entro il quale non appare più necessaria e altrettanto proficua la ricerca diretta, in quanto già esiste una mediazione italiana che, ai vantaggi di una più facile conoscenza e intelleggibilità, spesso unisce quelli che derivano dall’adattamento di forme di poesia nate in una società aristocratico-feudale 6 Oltre che ad altre, obiettive difficoltà di siffatte ricerche, alludo ad eventuali imitazioni di testi che possono anche non esserci pervenuti. In particolare, per fermarsi al caso forse più macroscopico, può per es. avvenire che determinate espressioni poetiche si configurino ragionevolmente come sviluppi di tradizioni popolari sulle quali le nostre informazioni restano però assai vaghe e assolutamente carenti.

AA

(« cortese ») alla sensibilità e agli interessi di un diverso mondo (borghese, mercantesco, comunale). Fermo restando che, come per tanti

altri aspetti, la posizione del Petrarca è anche eccezionale per il suo (variamente spiegabile e tutt'altro che improduttivo) interesse per i poeti di Provenza, si pottà magari riconoscere che particolari condizioni storico-geografiche inducono episodicamente ad isolare l’esperienza di qualche rimatore veneto del primo Trecento: è certo però che il retroterra culturale dei nostri lirici del secolo XIV * è di norma rappresentato da una tradizione italica, mentre solo di rado, e soprattutto in un

secondo tempo, vi confluirono con autonoma e davvero determinante incidenza gli apporti di una nuova cultura classico-umanistica. Lasciando magari da parte i cenni, contenuti in quest’ultimo capoverso, sui rapporti con la letteratura d’oc e d’oil (tipici, per l’appunto, della stagione di cui ci occupiamo) si potrà forse obiettare, per quanto attiene alle osservazioni che precedono, che esse valgono in fondo per la letteratura di qualsiasi età posteriore al periodo delle origini. Ma non è almeno lecito il sospetto che il confronto, proprio perché più immediato e perentorio, abbia finito per incidere soprattutto nella valutazione della poesia che. direttamente segue il primo secolo della nostra letteratura? E fino a che punto, nel caso che qui ci interessa, si è riusciti a impostare correttamente l’analisi, andando oltre l’esterna considerazione

di un linguaggio in cui certamente

ritornano

clichés tanto più evidenti proprio perché fatalmente

fòpoi e

desunti da una

ancor giovane tradizione autoctona? ® Fino a che punto, voglio anche dire, si può esser certi di non essersi arrestati all’asse paradigmatico (scelte lessicali, uso di non inedite metafore, ecc.), senza

considerare

invece, sul piano sintagmatico, le novità e i particolari caratteri che possono emergere perfino in una poesia che sia fondamentalmente composta dalla combinazione di « materiali » prefabbricati? Quest'ultimo, evidentemente, sarebbe un caso limite (e perciò, forse, solo parzialmen-

te reale). È pur vero, però, che le censure mosse alla poesia minore del Trecento insistono ancor oggi, con singolare frequenza e concordia, sui

limiti di uno « sterile epigonismo », sulla persistenza di « inerti ripe64 Mi riferisco, sia chiaro, solo alla lirica, essendo palese che anche nel secolo XIV gli influssi d’oltralpe continuano ad essere importanti, e talora decisivi, in altri settori: per es., per non spostarsi da quanto in questa sede ci interessa, nei cantari leggendari e nei poemi cavallereschi.

Ma

anche

qui, fino a che punto,

«fonti », non si èx sostituita la mediazione

alla conoscenza

diretta delle

dei volgarizzamenti?

6 Ripiego su quest’ultimo epiteto, anziché parlare di tradizione razionale o toscana, ritenendo

che, per motivi diversi, questi due aggettivi offrono zione non del tutto rispondente alla realtà storica.

Dal ASSE

entrambi

una

qualifica-

tizioni », sul vario configurarsi di un « accademismo letterario » nel quale anche si sottintendono, per la maggior parte dei rimatori, le accuse

inerenti

alla mancanza

di sincerità, di serietà morale,

di un

definito e personale mondo poetico. Mi limiterò a citarne pochissime testimonianze, ricordando per esempio che, riferendosi alla lirica, il Sapegno ha scritto: « Nella prima metà del secolo è possibile registrare una fioritura di rimatoti che riecheggiano, ma in modo del tutto esteriore e superficiale, l’insegnamento degli stilnovisti ... »; e quindi, passando ad altro genere di poe-

sia: « Parallela a questa corrente di tardo ed esangue stilnovismo, che del resto si prolunga per tutto il Trecento e avrà una netta ripresa a fine secolo, è quella degli antistilnovisti, che si rifanno ai moduli di Rustico, dell’Angiolieri e di Folgore; una ‘ maniera’ anche questa, con la sua

tradizione ormai fissa di temi, di immagini,

di stilemi e di

linguaggio, ma più disposta ad accogliere i suggerimenti di una cronaca personale e ad assecondare la varietà e vivacità dei temperamenti e degli umori ».f Ancora più drastico, sempre a proposito dei poeti giocosi, l'autorevole giudizio del Marti: « Progressivamente, durante il sec. XIV,

l’iniziale, così vario e colorito,

fissarsi in precise forme

e formule,

realismo

a infiacchirsi

giocoso

tende

a

in un’accettazione

passiva, se pur divertita, e a cristallizzarsi, infine. Non

ora, natural

mente, mentre le prime potenti voci individuali scadono nel genericume degli epigoni, è da ricercare originale novità di immagini e di tecnica, se non in quanto il verseggiatore trova in sé la forza di reagire all’aduggiarsi della tradizione nella generica maniera ».” E già si è visto, più in generale, come secondo il Corsi « gli artifici stilistici e l’erudizione soppiantano spesso la mancanza di sentimento ... la poesia diventa esercizio letterario, ed è inutile insistere sulla poesia politica troppo spesso adulatoria ».* Giudizi non del tutto immotivati, si capisce, o comunque discutibili 6 N. SapeGno, Storia letteraria del Trecento, Milano-Napoli, Ricciardi 1963, pp. 366-367. 6 M. MARTI, Cultura e poesia nei poeti giocosi del tempo di Dante cit., p. 171. 68 Rimatori del Trecento cit., p. 15. Anche si è ricordato come, per lo stesso critico, più benevola valutazione, in quanto «quasi sempre più fresche e più vive », meritino le poesie « popolari o popolareggianti e la poesia musicale »; né si vuol negare ora la legittimità della distinzione. Mette conto tuttavia di osservare che, se parametri di giudizio dovessero pur essere ricercati nel « cristallizzarsi » della forma, nella frequenza di tòpoî, nel disimpegno, ecc. le conclusioni sarebbero ancor più negative che per la poesia di carattere « aulico »; affiora di conseguenza il sospetto che quanto nell’un caso viene giudicato artificiosità e vacuo preziosismo, nell’altro sia

considerato frutto di spontanea fresca grazia ed eleganza.

semplicità e di immediatezza

Nr

espressiva, ricerca di una

solo nella misura in cui tali (e tanto più quando si giunga ad estraniarle dal contesto da cui possono ricevere più o meno probanti ed esaurienti conferme) sempre diventano le dichiarazioni di carattere generale. Accantonato il tentativo di sostituirvi, per quanto attiene ai giudizi di valore, altri ed ugualmente opinabili enunciati, non è però una discussione diretta che qui importa, sibbene la possibilità, anche muovendo da formulazioni come quelle sopra citate, di concludere almeno provvisoriamente con alcune non trascurabili constatazioni. E cioè:

1)

la communis opinio sulla poesia minore del Trecento poggia di solito sulla considerazione del linguaggio (di cui volta a volta si accentua e stigmatizza il carattere tradizionale e impersonale, manierato e artificioso, ibrido, ecc.), ma implicitamente si richiama anche alla superficialità dei temi e delle implicazioni psicologiche, alla povertà o alla mancanza di un coerente sostrato ideologico; 2) è basata normalmente sul confronto, più o meno evidenziato, fra Due e Trecento); 3) sfocia in una

valutazione globalmente negativa. Sono tutte, in effetti, indicazioni sulle quali già mi sono, in vario

modo, soffermato; ma qualche postilla, ancora, impone forse il terzo e ultimo punto, non foss’altro perché si precisi come fra le conseguenze più immediate di quella iniziale (e, a mio parere, spesso pregiudiziale) posizione negativa siano anche da annoverare, da un lato un diffuso disinteresse dei lettori e dei critici (eccezion fatta per l’immancabile manipolo di specialisti, spesso tuttavia troppo esclusivamente preoccupati della ricerca erudita), dall’altro la tendenza che, nelle comuni storie letterarie, induce a dedicare a questo vasto settore della nostra poesia, uno spazio quanto mai esiguo e visibilmente sproporzionato, oltre che vistosamente decentrato; * e ciò, tra l’altro, non da oggi, se è vero che una tale prospettiva già trovava una clamorosoa consacrazione nella Storia desanctisiana.” 6 Non

si sottraggono

a questo criterio, per es., neppure Storie recenti e per vari

aspetti originali, come quelle di S. BartAGLIA (La letteratura italiana. Medioevo e Umanesimo, Firenze, Sansoni 1971) e di R, Montano (Lo spirito e le lettere. Disegno storico della letteratura italiana, I, Milano, Marzorati 1970); e perfino nel più vasto,

nuovo e intelligente strumento di cui la nostra scuola disponga (ossia nell’antologia di R. CeseranI e L. De FeperICIS, Il materiale e l'immaginario: cfr. vol. III, La società urbana, Torino, Loescher 1979) si cercherebbe invano la testimonianza dei testi di cui stiamo discorrendo. Di norma, del resto, non è solo questione di spazio, bensì anche di distribuzione della materia, ove si consideri che, a tre ampie monografie dedicate nell'ordine a Dante, Petrarca e Boccaccio, si giustappongono uno o due capitoli in cui si affollano tutti i minori, con quali difficoltà (non solo sul piano [N meramente didattico) e con quali pericoli per la comprensione del quadro storico è facile intuire.

70 Chiunque ripensi al capolavoro della nostra storiografia letteraria sa appunto che nel capitolo che pur s’intitola Il Trecento si discorre in pratica, oltre che del Dante minore,

solo di prosatori;

e bisogna

poi attendere

Serri

il capitolo X (L'ultimo

trecentista)

Anche e forse soprattutto per questo, come si accennava, il Petrarca — quasi splendida eccezione che confermi la regola — è visto, nel suo tempo, in un isolamento pressoché totale” e così assolutizzato da recare danni non trascurabili, almeno a mio parere, alla stessa analisi critica dei Fragmenta”? Ma anche in termini più generali, dalla medesima impostazione (sia essa sottintesa o resa esplicita) deriva in fondo

un’altra idea paradossale:

ed è che, se si potesse prescindere dalla

per apprendere che, a Franco Sacchetti, «facea cerchio la turba de’ rimatori », di cui finalmente (e però non prima d’averla bollata come «ripetizione stanca del passato ») si allega (ed è tutto) un lacunosissimo e farraginoso elenco di nomi. Né è poi da credere che d’una simile impostazione non affiorino ancor oggi tracce manifeste: benché sia dovuto a un attento studioso dell’età comunale, anche il fortunato manuale di G. PetRroNIO

(L'attività

letteraria

in Italia,

Palermo,

Palumbo

1969!)

attende

per

es.

il

cap. XI (L'ultimo Trecento) per offrire qualche cenno di Antonio Pucci e di Fazio degli Uberti, e per aggiungere i nomi di pochi altri autori, la cui « fisionomia artistica si confonde nella massa ». 71 Ciò accade, se vogliamo fare qualche esempio, tanto in una decorosa antologia scolastica come quella curata da M. T. CATTANEO (Francesco Petrarca e la lirica d’arte del ’200, Torino, Loescher 1964), quanto nella solida trattazione offerta da un volume di H. FriepRIcH (Epochen der italienischen Lyrik, Frankfurt am M., Klostermann 1964), nel quale dal capitolo su Dante si passa direttamente al Petrarca e da quest’ultimo disinvoltamente a Boiardo. Di per sé, naturalmente, il suddetto isolamento è un dato oggettivo suffragato da molte e buone ragioni (non ultima l’atteggiamento mantenuto, in quanto poeta in volgare, dall’autore stesso), ma neppure par dubbio che, su questa linea, la spaccatura

sia stata spesso e troppo a lungo esagerata.

Non

è un caso che la stessa gamma

dei

prelievi stilnovistico-danteschi, che più contano, sia stata scandagliata in modo esaustivo, e non senza effetti anche ai fini di una valutazione complessiva, solo da indagini recenti (cfr. nota 6); ma poiché lì, in pratica, il discorso s'è arrestato, proviamo almeno a porre domande di questo tenore: quali rimatori successivi all’età stilnovistica, e cioè a lui contemporanei, furono letti e conosciuti da Petrarca? Possibile che non ne abbia tratto spunto alcuno o che, almeno per qualche testo, il confronto sia del tutto improponibile e affatto privo d’interesse? Mettendo insieme referenze biografiche e tracce fornite dagli epistolari, sonetti di corrispondenza e testimonianze degli interessati, redigere un catalogo di nomi come quello ipotizzato non sarebbe impresa avventata; e resta da dimostrare che l’operazione si riveli del tutto inutile, anche se certo nemmeno è lecito attendersi scoperte clamorose (ciò, beninteso, sia per lo stacco che l’originalità del Canzoniere impone, sia per la sua ben nota capacità — quando non si tratti di materiali biblici e classici — di occultamento e superamento della « fonte » eventuale); ovvio inoltre, essendo prevedibile che la verifica possa rivelarsi meno improduttiva per certi testi giovanili, che si dovrebbe tener conto, nei limiti del possibile e senza trascurare la Disperse, dell’originaria cronologia dei singoli testi. Per ora le punte più avanzate di una simile. prospettiva sembrano l’ipotesi di un Petrarca lettore di Nicolò de’ Rossi (tra l’altro presente

ad Avignone

negli anni Trenta

e autore

di un

canzoniere

per Floruzza già « romanzescamente » strutturato), per cui cfr. P. Trovato, Dante in Petrarca... cit., p. 21 e F. BrugnoLo, La cultura volgare trevisana della prima metà del Trecento, negli Atti del Convegno Tomaso da Modena e il suo tempo, Treviso 1980, pp. 174-175, nonché le possibili suggestioni provenienti da testi boccacciani indicate,

non solo per i Trionf, dal Branca (cfr. Boccaccio medievale cit., p. 305 e sgg.). Comunque sia, la questione rimane aperta, e qui posso solo aggiungere che, proprio chiosando il libro di Trovato (cfr. « Giorn. Stor. Lett. Ital. », CLVII, 1980, pp. 455-452), esigenze non dissimili sono state avanzate da M. SANTAGATA, di cui sarà anche da vedere Il giovane Petrarca e la tradizione poetica romanza: modelli ideologici e letterari, in « Rivista di letteratura italiana », I, 1983, pp. 11-61.

125 ARA

presenza della lirica petrarchesca, il cosiddetto « secolo senza poesia » comincerebbe in pratica già con la morte di Dante o, quanto meno, esauritosi anche il crepuscolo della precedente stagione, verso la metà del Trecento.” Non si tratta tuttavia,

o almeno non solo, di invertire di segno i

risultati di un bilancio generale tradizionalmente accettato, e neppure di ritrovare (o tanto meno di isolare) espressioni di autentica poesia entro pagine indebitamente trascurate. Quando si fa storia, e sia pure della letteratura, ciò che anzitutto importa è, da un lato che si colga — in sé e in prospettiva — la portata delle innovazioni sostanziali o relative,

dall’altro

che si comprendano

i moventi,

i modi,

i tempi

interni di uno sviluppo complessivo; non è solo questione, insomma, di qualità e di valore estetico metastoricamente inteso, ma anche e soprattutto di rilevanza storica più o meno immediata, di incidenza entro un certo contesto sociale e culturale, o addirittura, detto brutalmente, di motivata richiesta, di quantità, di « consumo ».

Per quanto

attiene al primo punto,

e se si vuole aggirando il

discorso, mi limiterò a richiamare l’attenzione su due dati che considero oggettivi e non necessariamente esterni: l’indiretta ma eclatante conferma che, della vitalità della poesia trecentesca, viene, a posteriori,

dall’infinita sequenza di riprese, variazioni, rifacimenti elaborati, a vario livello, nel corso del secolo successivo; ” l'immediato

rilievo che,

non solo in sé ma anche per la loro funzione promozionale, meritano l'avvento e lo sviluppo di varie forme metriche (dopo la terzina, che è 73 Il Croce, invero (cfr. op. cit., p. 209), si riferiva esplicitamente agli « ultimi decenni del Trecento », nei quali, come « per gran parte del Quattrocento, proseguono, chi guardi dall’esterno, tutte le diverse forme e temi e motivi così di poesia popolare come di poesia d’arte ... Ma è una letteratura stanca, che vive di ricordi e di abitudini, incapace di rinnovare, capace soltanto di variare nelle parti materiali ed estrinseche, e più ancora di rendere inanimato quel che era animato, e rozzo e triviale quel che era fine e squisito». Ma già per altri critici, appunto, l’inizio della «decadenza» va anticipato alla metà del secolo. Per il Momigliano, ad es. (Storia della letteratura italiana, Milano-Messina, Principato 19568, p. 110), « il periodo che va dalla seconda metà del 2300

alla seconda

metà

del

’400

è uno

dei più aridi

della

nostra

storia

letteraria »;

parallelamente, secondo il Pompeati (Storia della letteratura italiana, Torino, Utet 1953?, I, p. 692), «in quel secolo che va dalla metà del Trecento a quella del Quattrocento, e che è così deserto di poesia grande, i tempi parvero propizi a una poesia minore. Ma la poesia minore di questi decenni non fu tale in quanto si raccogliesse in un mondo intimo

più limitato

e ritroso, ma

con

uno

sforzo, sia pur modesto,

di concentrazione.

No: fu minore nel senso che si contentò dell’esterno e dell’effimero, quasi a lasciar dominare nella loro solitudine i cantori dell’eterno e del profondo, dono delle generazioni precedenti. L'ispirazione decadde a semplice stimolo occasionale, il canto a conversazione ».

74 Ne offre un campionario vastissimo (ed è però importante anche ad altri fini) lo Nuove prospettive sul «secolo senza poesia », in Letteratura e di N. Sapegno, IV, Roma, Bulzoni 1977, pp. 81-136.

studio di E. Pasquini, critica. Studi in onore

adora:

gloria dantesca, ecco infattti la sestina narrativa dei Disciplinati, l’ottava «toscana » dei cantari e del Boccaccio, quindi il madrigale, la caccia, fors’anche la frottola, senza dire dei molteplici e talora capitali assestamenti che si vanno verificando nella compagine della canzone). Per quanto poi riguarda il secondo punto di vista, sul quale — a ragion veduta — mi permetto d’indugiare un po’ più a lungo, credo anzitutto che sia doveroso partire dalla considerazione che in nessuna epoca della nostra storia la poesia ha forse avuto uno spazio e un’importanza paragonabili a quelli assunti nella civiltà del Trecento. Accanto alle forme più dotte e auliche, tradizionalmente riservate ad una élite culturale che, di norma, continua a trovare i suoi adepti all’interno dei ceti più ricchi e perciò dominanti, altri generi e altre forme di poesia, infatti, si affermano e si diffondono, dapprima per adeguarsi alle esigenze di una borghesia in continua espansione, ma parallelamente pervenendo, magari per suo tramite, anche a ceti più umili. In tal modo, nella comune esperienza degli uomini del Trecento (soprattutto nella « dotta » Firenze” e in altri centri toscani dove persistono le libere istituzioni comunali, ma con non sempre decisive restrizioni anche là dove si sono affermate le signorie), il contatto con la poesia non è più ristretto ad un evanescente patrimonio folclorico, alle espressioni direttamente legate alla cristianità, e alle episodiche, scomposte esibizioni di qualche giullare: per tutti esiste più o meno la possibilità di accostarsi alla elementare e tuttavia meravigliosa epicità dei cantari, di ascoltare e di ripetere nel canto suggestive ballate e fortunatissimi madrigali, per molti, ancora, la possibilità di apprendere e di capire i fatti stessi della propria storia municipale attraverso l’impetuosa narrazione di sirventesi e cronache rimate, talora — e sia pure eccezionalmente — di avvicinarsi alla grande poesia con la mediazione di pubbliche letture della Comzzedia. Se dunque, per il vario tramite della 75 È Giovanni Villani « a farci sapere che gli 8-10.000 bambini fiorentini sapevano tutti leggere e scrivere, che da 1.000 a 1.500 avevano imparato 1°“ algorismo ” e 350-600 frequentavano le scuole di tipo superiore. Ne risultava un grado di alfabetizzazione e di livello culturale di base assolutamente eccezionale nell’Occidente cristiano di allora. Ne va tenuto conto se si vuole comprendere come mai la Firenze del Trecento producesse una letteratura volgare e “borghese” così ricca e così genuina» (G. Procacci, Storia degli italiani, Bari, Laterza 1968, vol. I, pp. 85-86). 7 Naturalmente non occorre presupporre una preparazione musicale più che dilettantesca; è comunque noto che maggiore diffusione toccò alle ballate, essendo madrigali e cacce — per le difficoltà tecniche della loro struttura musicale — alla portata piuttosto di una ristretta cerchia di persone colte o in grado di far ricorso ad esecutori professionisti. E proprio in quest'ambito dovevano essere numerosi i rimatori improvvisati: « Pien è il mondo di chi vuol far rime: / tal compitar non sa che fa ballate, / tosto volendo che sieno intonate ...», dichiara Franco Sacchetti (cfr. Rizze, ed. Chiari, CXLVII 4-6).

e

(e

circolazione orale, la poesia — sempre più nettamente, ormai, anche nelle sue manifestazioni laiche — riesce a far giungere significativi frammenti del suo messaggio perfino alla maggioranza degli analfabeti o semianalfabeti, a maggior ragione trova uno spazio di tutto rilievo nell'esistenza dei ceti medi cui i trionfi della borghesia e della letteratura volgare hanno permesso di affacciarsi durevolmente al mondo della cultura. Ed è tra l’altro proprio in tale situazione che il poeta (0, come più spesso sarebbe meglio dire, il dicitore in rima) vede crescere la propria fama e importanza sociale, e non di rado riesce a valorizzare il proprio ruolo, non solo negli ambienti di corte, ma anche all’interno dei comuni; è appunto in un tale consorzio civile che, non solo va crescendo la richiesta di poesia, ma anche il singolo rimatore può divenire oggetto di specifiche e pressanti richieste perfino a livello privato (in questo

senso, per citare una

sola testimonianza,

non

avrà

dunque solo valore aneddotico il noto e non tanto scherzoso lamento del Pucci che comincia con il verso « Deh fammi una canzon, fammi un sonetto » 7).

Possiamo riferirci, così, a quel pubblico medio in cui il poema di Dante (ovunque e di gran lunga il libro più letto di tutto il secolo) trovò un numero di lettori assai superiore a quello che ogni altra opera letteraria, dall’antichità in poi, avesse mai saputo conquistarsi. Appunto Dante — è stato giustamente rilevato — creò un nuovo e ben più vasto pubblico non solo per sé, ma anche per i suoi successori; * bisogna pur precisare però che, Commedia a parte, non si tratta e non poteva trattarsi di un pubblico sempre prontamente ricettivo nei confronti di altre espressioni di poesia allegorica e dottrinale, bensì reso soprattutto disponibile per diverse e meno « cifrate » esperienze letterarie. Alla base del suo interesse non sono, insomma,

sollecitazioni di

ordine estetico e consapevolmente culturale, ma più contingenti esigenze che si iscrivono nell’orizzonte della sua vita quotidiana; esigenze, cioè, che da un lato lo spingono a chiedere

alla poesia un concreto

rispecchiamento della realtà municipale in cui vive (rime gnomiche e giocose, poesia giullaresca e storico-cronachistica), dall’altro a cercarvi occasioni per contatti sociali che favoriscano il suo riposo dalle fatiche d’ogni giorno (rime per musica e danza soprattutto) o gli forniscano i mezzi per una salutare evasione fantastica e sentimentale (cantari e TI Se ne veda il testo in Rimzatori del Trecento cit., p. 824. 78 Cfr. E. AuerBAcH, Lingua letteraria e pubblico nella tarda Medioevo, Milano, Feltrinelli 1960, p. 282.

e, pp

antichità

e nel

poemi cavallereschi). Si potrà allora precisare, quanto al primo punto, come l’occasionalità tante volte rimproverata alla poesia minore del Trecento sia spesso legata al carattere particolare della sua genesi e alle esplicite finalità che essa si propone come prodotto di immediato consumo, ma come anche ciò non escluda il merito e il vigore di un sia pur circoscritto « realismo », che è poi la condizione ineludibile attraverso la quale, entro la società cui perviene, quella poesia riesce ad esercitare un proprio influsso, sia che intenda trasmetterle informazioni storiche, messaggi di propaganda politica o di più neutra e quotidiana moralità; si potrà inoltre rilevare, per quanto attiene al secondo punto, come ancora i poeti abbiano nel Trecento funzione preminente in quella che oggi si chiamerebbe l’organizzazione del tempo libero, in quanto sono proprio le loro creazioni a fornire specifiche occasioni di incontro e soprattutto le più facili e fortunate forme di spettacolo. E fin qui si è fatto riferimento a manifestazioni di una cultura laica: ma grande diffusione, s'intende, continuano ad avere (e non senza significative differenze rispetto al secolo precedente) anche le varie forme di poesia religiosa; ad un altro tipo di spettacolo ci riportano in particolare le laude drammatiche, per le quali, ha ricordato il Sapegno, « al lettore moderno s’impone quasi sempre l’esigenza di integrare la scarna stesura letteraria ricostruendo con la fantasia gli elementi musicali scenografici e coreografici, la colorita fisionomia insomma dello spettacolo, con il contorno ammirato e commosso del pubblico di umili devoti che ad esso assisteva »;” e da parte nostra, più in generale, soggiungeremo che, sotto l’iniziale impulso delle confraternite dei Disciplinati, sempre più frequenti si fecero, nel Trecento, le occasioni in cui varie forme di

poesia sacra venivano portate anche all’esterno delle chiese, che pur continuavano ad esserne i luoghi deputati. Pur tenendo conto delle difformità che sussistono fra corti e comuni, fra centri e periferia, fra le sedi più prestigiose della cultura universitaria e le più modeste città di provincia (e senza dimenticare che quasi totalmente estranee a questo quadro appaiono — Napoli angioina a parte — le regioni a sud dell'Umbria), varia a quanto mai intensa si rivela dunque la produzione di versi che sa raggiungere un pubblico medio, non drasticamente selezionato da una circolazione vincolata alla sola, faticosa lettura e scrittura dei manoscritti; ed è pure scontato che,

in un simile ambito, i rapporti fra autore e pubblico siano in vario modo operanti nell’atto stesso in cui il testo viene ideato e quindi 79 Poeti minori del Trecento cit., p. 1013.

SARDI

riproposto in successive esecuzioni che via via possono sollecitare appositi adattamenti. Più in generale, una casistica abbastanza complessa andrebbe certo attribuita ai modi diversi di conoscenza

e diffusione

(lettura pubblica o privata, mediazione musicale o esclusiva attenzione

al testo letterario, ecc.) e al vario grado di completezza e « fedeltà » con cui una stessa opera poteva essere recepita da consumatori diversi

per estrazione sociale, sensibilità, preparazione culturale, con differenze tanto più mobili quando si trattasse di testi di genere intermedio, capaci cioè di sollecitare un certo (e particolare) interesse nel pubblico più vasto e sprovveduto come anche in più ristrette ed esigenti cerchie di lettori. Elifes, queste ultime, alle quali erano naturalmente serbate le espressioni più dotte e raffinate di poesia (poemi allegorici e didattici, testi latini, gran parte della lirica d’arte), anche se non sempre ne

sarà lecita la classificazione fra le opere offerte in esclusiva da letterati ad altri letterati. Quali che siano le ulteriori precisazioni che si rendessero necessarie, resta almeno assodato che, nella civiltà del Trecento, in forme diverse e a vari livelli, la poesia contemporanea è sempre attivamente presente. Non giunge a condizionarla, si capisce, nei momenti essenziali del suo travagliato sviluppo storico e assai più ne è, caso mai, condizionata; della vita di quella società, comunque, è essa stessa parte integrante e ne riflette perciò gli umori e gli interessi, i conflitti e le

abitudini, i sogni e le tipiche aspirazioni. Isolare il capolavoro del Petrarca e pochi altri testi eletti, trascurando invece — come troppo spesso si è fatto — il frastagliato e fermentante mondo della poesia minore nel suo complesso, può significare dunque arrestarsi al soggettivo ed elusivo divario tra poesia e non poesia e precludersi invece la possibilità di comprendere la storia di una civiltà letteraria attraverso la ricchezza e varietà di molte altre manifestazioni, essenziali allora e

quindi anche per chi di quell’età voglia oggi tracciare la storia. Neppure il fatto che, per molti aspetti — sul piano politico come

su quello più propriamente

letterario — basi indispensabili debbano

essere cercate nel secondo Duecento, impedisce, come dicevo, che si debba puntare anche, e in certo modo soprattutto, sui diagrammi di intensità, ampiezza, continuità di incidenza e diffusione; risulta nello

stesso tempo chiaro, però, che una così rilevante importanza nella vita del Trecento la poesia non avrebbe certo raggiunto se anche dopo l’Alighieri non fosse pervenuta a soluzioni in tutto o in parte nuove e un suo specifico contributo non avesse così offerto anche al successivo

sviluppo della nostra letteratura. Un contributo, basterà precisare, che

con i primi tentativi di poesia epica, le esperienze del carme bucolico, la freschezza dell’idillio mitologico-pastorale, le suggestioni del madrigale, ecc., è naturalmente affidato a direzioni molteplici, ma che, a mio

parere, si impone principalmente attraverso due fondamentali e durature conquiste: l’approdo, cioè, a forme di poesia distesamente narrativa, ormai libera dai vincoli dell’allegoria e l’affermarsi di una lirica che già può essere considerata, con tutte le implicazioni e le aperture che ciò comporta, come espressione di un’esperienza soggettiva (spesso, magari,

impacciata da persistenti sovrastrutture o viceversa circoscritta allo sfogo immediato e privatistico, ma talora anche capace di unire l’individualismo all’esemplarità che supera il contingente). Si dica dunque Boccaccio nel primo caso e si dica a maggior ragione Petrarca nel secondo: purché non si dimentichi che, in questa prospettiva e per quanto « isolati » dalla loro stessa eccezionalità o grandezza, per molti e non secondari aspetti essi non sono che i massimi interpreti di uno sviluppo variamente perseguito da una civiltà letteraria nel suo complesso” e che, lungo il secolo, vede partecipi — sia come incerti precursori, sia come più o meno consapevoli fiancheggiatori, non sempre però incapaci di trovare proprie vie — interi gruppi di più umili artisti e di onesti operai della poesia, a loro volta, come si è più volte sottolineato, direttamente sensibili alle esigenze di un pubblico sempre più vasto e a suo modo

direttamente

attivo.

A questo punto, oltre che spostarsi più decisamente su singole personalità — alcune delle quali, in effetti, non ancora studiate e valorizzate convenientemente — il discorso dovrebbe affrontare i molti problemi di periodizzamento interno; problemi ardui di per sé, com'è risaputo, e tuttavia non affrontabili tenendo conto delle sole manifestazioni letterarie e tanto meno, quindi, attraverso un esame settoriale della sola produzione in versi (anche se, naturalmente, ad essa pure

80 Per l’autore del Decazzeron, forse, l’avventimento è superfluo, non essendo egli, come poeta, tenuto in tanta considerazione da indurre a trascurare i rapporti e i raffronti con le creazioni di meno blasonati o addirittura ignoti autori di cantari e poemi, o d’altri più o meno illustri rimatori; come già si ricordava (cfr. nota 72), per l’autore del Canzoniere vige invece la prospettiva opposta. Ma a parte questo, se da un lato è vero, per quanto riguarda il futuro prossimo, che Petrarca comincierà ben presto

a fare scuola

(a lungo però, e significativamente,

non

in modo

esclusivo),

dall’altro

neppure va dimenticato che varie altre tendenze della poesia trecentesca si riveleranno produttive anche nel secolo successivo; e forse non è nemmeno tanto atrischiato

affermare che nelle aperture e sperimentazioni dell’eclettico secolo XIV sono già compresenti, beninteso in nuce, talune polarità (regola e antiregola, classicismo e apertura al « popolare ») che, da più parti, sono state indicate come le due diverse « anime » del nostro Rinascimento.

SSR

spetta di far valere i diritti della propria specificità *). Per ora, dunque — dopo averle redatte con l’intento dichiarato di riconsiderare l’importanza della poesia trecentesca nel suo insieme e di proporre alla

riflessione problemi e difficoltà che ancor oggi emergono nel ripercorrerne la storia — interrompo le mie note, senza minimamente illudermi d’esser pervenuto ad autentiche conclusioni; pago invece se, in queste dubbiose pagine, si potessero almeno ritrovare alcuni spunti degni di non sterile discussione e magari un qualche impulso per gli ulteriori, indispensabili approfondimenti.

81 Per quel poco che può valere l’esperienza (anche didattica), qui accenno

che, come

nell’analisi

dei testi giova alternare

la visione

dall’alto

soltanto

alla radiografia

o

all'uso del microscopio, così anche in ogni sforzo storicistico occorrerà alternare la considerazione di lungo periodo (nel nostro caso, forse, dal 1320 circa al Quattrocento

inoltrato)

alle scansioni generazionali

e alle periodizzazioni

ancor

più ravvicinate

(per

decenni, lustri ecc.), mai però dimenticando che le concomitanze non per tutti valgono allo stesso livello e che, variando i luoghi, esse potrebbero anche rivelarsi illusorie (a

Firenze, per es., la situazione 1330 è certo ben diversa da quella che si produrrà dieci anni dopo con il ritorno del Boccaccio; muterà ancora verso il ’50, quando a tener banco sarà piuttosto il Pucci ecc.). Nemmenoi principi generali valgono tuttavia su ogni fronte: criteri tipologici come quelli fondatamente applicabili alla letteratura canterina, alla poesia per musica o ad altri settori che godano d’una rilevante compattezza, mal si adatterebbero, per es., alla frastagliata fenomenologia della lirica. Giacché son giunto a cose che mi sembrano (o dovrebbero essere) ovvie, mi si consenta anzi il

richiamo a un’ultima « degnità »: anche per chi si occupi di poesia del Trecento, obiettivo difficile ma legittimo è comprendere la poesia ella storia, non già pretendere di ricostruire la storia ((e magari tutta la storia) attraverso la poesia.

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LETTERATURA

CANTERINA

In un celebre paragrafo di Poesia popolare e poesia d’arte, dopo avere ricordato che « l’età per eminenza popolare » della nostra letteratura « per comune ammissione, fu quella del trecento, segnatamente toscano », Benedetto

Croce affermava tra l’altro:

... Certamente nel trecento sorse una poesia d’arte altissima, e tutt’altro che popolare, carca di scienza, di teologia, di erudizione, d’incipienti studi e concetti e metodi umanistici, quella nientemeno di Dante, del Petrarca e del prosatore-poeta Boccaccio. Ma le « tre corone » stavano come

tre cime di monta-

gna, con qualche piccolo colle interposto o vicino, e ai loro piedi si stendeva un piano fertilissimo, erboso, tutto cosparso di arbusti e di umili mirici, ameno e consolante quanto le tre montagne erano sublimi: mentre piccole e rade erano le terre di faticosa e stentata vegetazione, ossia, fuor di metafora, scarsa la poesia letteraria e artifiziosa. Questa prospettiva, in cui il letterario ed artificioso quasi non si mostra all’occhio, e solo dominano la spontaneità della grande arte e la diversa spontaneità dell’arte umile, è ciò che fa considerare eminentemente popolare il trecento. Trionfava la vita libera dei comuni ... [...] nella folla degli scrittori di cronache, di ricordi, di leggende, di opere ascetiche e morali, di poesie amorose, religiose, politiche, satiriche, c’è, a tutti comune, una guisa di sentire semplice e chiaro, e di esprimersi schietto e franco, che è stata chiamata ‘borghese’, aggettivo che vale, nel caso, lo stesso che ‘ popolare ’.!

Ne emerge, senza dubbio, un quadro più suggestivo e affascinante di quanto, a rigore, non possa poi risultare persuasivo e completo (e non solo, s'intende, perché vi fa difetto un’esplicita menzione della letteratura canterina della quale intendiamo occuparci). Se non è il caso, comunque, di impegnarsi ora nel tentativo di rettificare e chiosare pedantescamente le brillanti pagine crociane (nelle quali, pure, ancora 1 Cfr. B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte, Bari, Laterza 1933, p. 37 e sgg.

e

era

sopravvive un entusiasmo per la popolaresca spontaneità del secolo aureo che, in vario modo, poté trovare via via accomunati gli adepti del purismo, parecchi romantici, Carducci e vari positivisti), più impor-

ta ricavarne una conferma di come ogni ricostruzione storiografica d’una civiltà letteraria — del nostro Trecento, come di qualsiasi altra epoca — non possa e non debba limitarsi allo studio della letteratura più aristocratica, dotta, « ufficiale », tecnicamente raffinata, ma anche e

necessariamente debba tener conto di ogni altro prodotto letterario, magari meno blasonato e originale, spesso culturalmente e artisticamente meno impegnato, ma non per questo meno significativo e interessan-

te. In sintesi cioè — e lasciando forzatamente ai margini quel patrimonio folclorico che, affidato di norma

alla trasmissione orale, è, pet

sua natura, in perenne, inarrestabile movimento e che, per il sec. XIV, sfuggirebbe del resto ad una precisa e adeguata documentazione — l’attenzione dovrà ancora appuntarsi, quanto meno, su due direzioni: da un lato, intendo, su esperienze letterarie che ebbero inizialmente il semplice valore di testimonianze private (ricordi domestici, lettere familiari, e simili) o sorsero con finalità eminentemente pratiche o extraestetiche (per es., ed eccezioni a parte, la letteratura di pietà, le cronache, i libri di divulgazione in genere), dall’altra sulle opere che costituiscono, in sostanza, il corrispettivo di quella che oggi consideriamo letteratura ‘commerciale’ e d’appendice, su quei prodotti insomma di più o meno alto artigianato (cantari, appunto, e compilazioni romanzesche in primo luogo) che erano volutamente destinati all’immediato consumo di un pubblico il più possibile vasto e di esso cercavano perciò, con ogni mezzo, di sollecitare e soddisfare le curiosità, i fremiti sentimentali, il gusto medio. Naturalmente la separazione fra i vari filoni, qui sommariamente indicati, non sempre può apparire (ed è, per taluni generi letterari in ispecie) così netta e radicale; anzi, come

occorre concedere l’esistenza

di una serie di creazioni di valore e carattere intermedio, di genesi non facilmente precisabile e di opinabile classificazione, così vanno anche analizzate puntualmente la fenomenologia di complesse relazioni, l’incidenza di sottili e spesso non rettilinei rapporti. Non è poi molto raro, inoltre, che un’opera ascrivibile alla più dotta letteratura d’arte non sia diretta solo ad una élite di intellettuali, ma anche si prefigga, per altre vie, quel zzaximum di successo e di diffusione che abbiamo ravvisato come finalità tipica e primaria della letteratura di consumo e può accadere benissimo che, nonostante la sua complessità, questo traguardo essa raggiunga prepotentemente, sia pure al prezzo di un certo

RE

depauperamento, o travisamento, del suo messaggio estetico e ideologico (basti per tutti l'esempio clamoroso della Comedia dantesca); né è

escluso, per contro, che una non trascurabile originalità e dignità artistica debba alla fine esser riconosciuta anche a talune opere inizialmente concepite in obbedienza

a più umili e pratici programmi.

Una volta ammessi francamente questi e altri limiti, crediamo tuttavia che siffatte distinzioni non cessino di mantenere una loro funzionalità: ciò anzitutto perché qualsiasi storico della letteratura, a meno che non sia solo preoccupato di reperire e magnificare più o meno fulgide gemme di poesia, ha l’obbligo di misurare e definire l’importanza di un testo anche attraverso la risonanza e il significato che esso poté avere nel tempo, luogo, contesto socio-culturale in cui vide la luce, saggiandone insieme la validità in rapporto all’intuibile o esplicito intento per il quale, allora, fu dall’autore concepito; ? in secondo luogo, e soprattutto, perché nell’uno o nell’altro caso si pongono in maniera diversa quei rapporti tra letteratura e società, o, più concreta-

mente, tra autore e pubblico che, se appaiono fattore ineludibile nell’esame di qualsiasi esperienza letteraria, acquistano preminenza davvero assoluta qualora — come nei cantari — si tratti di opere e di autori per i quali l’incontro immediato e diretto con un determinato pubblico costituisce, a tutti gli effetti, la preoccupazione prima. Anche adeguandosi a specifiche esigenze, mutavano dunque la gamma tematica, le stesse possibilità (e scelte) tecnico-espressive, nonché i criteri di esecuzione (non si dimentichi infatti, sempre per la letteratura canterina, l’essenzialità delle funzioni registico-sceniche assolte dall’interprete-adattatore),

e mutavano insieme modi e livelli di ricezione; il che significa

che, almeno entro certi limiti, ad essi si adeguavano, e per ciò stesso devono in sostanza adeguarsi, gli stessi parametri di giudizio. Così, in particolare, non originalità di temi e di immagini, maestria tecnica e retorica d’alta scuola, elaborazioni stilistiche che rechino l’im-

pronta vigorosa di una personalità, esposizioni dense di dottrina e di erudizione,

inedite

soluzioni

inventive

e meno

ancora

sottili analisi

psicologiche dovremo chiedere all’abilità professionale dei canterini. Loro compito e scopo era, più semplicemente, quello di rielaborare, diffondere, riproporre temi e storie già variamente noti, ritagliandoli in

serrate sequenze narrative ed esponendoli in un linguaggio piano, sem-

2 Naturalmente il discorso (che, trattandosi di cantari, può anzi essere fondamentale) vale poi anche per le varie tappe e motivazioni della fortuna di un singolo prodotto o filone.

RO

pre facilmente

intelligibile (anche se non

sempre

grammaticalmente

ineccepibile) e insieme così incisivo, colorito, efficace da poter avvince-

re un pubblico borghese e popolare, composto di uditori e solo incidentalmente di lettori. Ciò che importava, ancora (e magari, appunto, con abili riprese di situazioni topiche e già familiari), era riuscire a provocare commozione e consensi, saper introdurre al momento

oppor-

tuno le dovute

troppo

impegnate

variazioni di tono, suscitare rapide ma

riflessioni, ottenere

una

partecipazione

pronta

non

e costante,

talvolta informare e commentare pur senza assumere accenti di troppo rigido moralismo, e piuttosto con quel tanto di passionalità, partigianeria o campanilismo che meglio potevano essere condivisi dall’uditorio; più spesso sorprendere con trovate ad effetto o calcolate sospensioni e riprese a distanza di certi filoni narrativi, sempre però avendo cura di non deludere neppure le aspettative degli esperti conoscitori del genere per taluni passaggi obbligati e per i non meno obbligatori successi degli eroi prediletti; in definitiva (ed anche se, come vedremo meglio, non tutti i cantari si presentavano come una specie di prolungato sogno ad occhi aperti) offrire i prodotti più adatti all’intrattenimento e all’evasione fantastica, pur senza dare mai l’impressione del gioco superficiale e puramente meccanico. Dovrebbe essere ovvio, peraltro, che tutto ciò

non significa affermare un generale appiattimento, come se, anche all’interno di una tradizione pur così unitaria, singoli manufatti non potessero acquistare un loro particolare rilievo, una loro ben definita fisionomia; neppure si esclude, quindi, la possibilità e legittimità, per il lettore moderno, di pervenire ad autonome valutazioni estetiche, pur nella consapevolezza d’essere di fronte ad opere non concepite, di norma, per una meditata e privata lettura e delle quali, fra l’altro, totalmente

ci sfugge la particolare

suggestione

che certo

acquisivano

non solo da un’abile recitazione, ma anche dall’accompagnamento musicale; fattore senza dubbio non ultimo (come sempre avviene nell’incontro fra musica e poesia e come, nel caso specifico, basterebbe a 3 Spesso questi poeti vengono indicati, al tempo sesso, come « sonatori », « cantatori» e i

SECONDA

i

fai

A

TRA PETRARCA E BOCCACCIO

13:

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LETTURA

DI UN

SONETTO

PETRARCHESCO

(Rer. vulg. fr., XXXII)

Quanto più m’avicino al giorno extremo che l’umana miseria suol far breve, più veggio il tempo andar veloce et leve e ’1 mio di lui sperar fallace et scemo.

4

I° dico a’ miei pensier’: Non molto andremo d’amor parlando omai, ché ’1 duro et greve terreno incarco come frescha neve si va struggendo; onde noi pace avremo:

perché co'llui cadrà quella speranza che ne fe’ vaneggiar sì lungamente, e ’l riso e ’1 pianto et la paura et l’ira;

11

sì vedrem chiaro poi come sovente per le cose dubbiose altri s’avanza, et come

spesso indarno si sospira.

14

Un sia pur rapido sondaggio entro la plurisecolare tradizione esegetica dei Rerum vulgarium fragmenta accerta che anche il sonetto che mi accingo a commentare ha dato luogo a non pochi dubbi e con essi, in più punti, a diverse soluzioni interpretative. Di ciò, in rapporto ad 1 Fornisco qui compendiose referenze bibliografiche per i soli commenti ai quali mi accadrà in seguito di fare esplicito riferimento. Nell’ordine, essi appartengono a Francesco Filelfo (In Vinegia, Stagnino 1513: edizione comprensiva anche delle chiose attribuite ad Antonio da Tempo e a Girolamo Squarciafico); Alessandro Vellutello (In Vinegia, per Giovannantonio e fratelli da Sabbio 1525); Giovanni Andrea Gesualdo (ivi 1533); Bernardino Daniello (ivi 1541); Antonio Brucioli (in Lyone, Rovillio 1548); Lodovico Castelvetro (Basilea, Pietro de Sedabonis 1581); Alessandro Tassoni (Venezia, Viezzeri 1741: edizione in cui sono anche comprese le Annotazioni di Girolamo Muzio



14

209 —

un testo privo affatto di complesse implicazioni culturali e che si giova (o sembra

avvalersi)

di una

piana, quasi « dimessa » scrittura, ci si

potrà forse sorprendere; è però un fatto, ben noto a ogni non frettoloso lettore, che una simile circostanza risulta tutt’altro che rara. E se così è, credo se ne debba in primo luogo dedurre l’invito a non sottovalutare il grado di polisemia e di « ambiguità », che anche del linguaggio poetico petrarchesco è, per proprie vie, connotato non secondario. Per questo motivo (come anche per più generali ragioni di principio, che forse oggi non è più tanto superfluo ribadire) comincerò dunque, molto scolasticamente, con una prima proposta di « esposizione » globale, che mi sembra di poter formulare nei termini seguenti: « Quanto più vado appressandomi all’ultimo giorno di mia vita, al giorno cioè di quella morte che solitamente abbrevia le miserie della vita umana,

tanto più distintamente

mi accorgo

che il tempo

fugge

veloce, con rapidità crescente e quasi inavvertibile, e sempre più chiaramente mi avvedo di come le speranze, che nell'opera del tempo stesso avevo riposto, si dimostrino ingannevoli e « prive di effetto » (Leopardi). Rivolgendomi ai miei stessi pensieri, mi dico dunque: — Sarà ormai molto breve la stagione in cui tema dominante dei nostri soliloqui continuerà ad essere l’amore (il rostro amore), e questo perché la pesante, faticosa soma costituita dal corpo mortale (« un carico di terra che grava l’anima, poi alla terra si abbandona », chiosa efficacemente il Chiòrboli) si va consumando come neve fresca, non ancora

consolidata e indurita dal gelo. Così alla fine anche per noi ci sarà tregua, anche noi potremo raggiungere la pace. Insieme con il corpo,

infatti, si dissolverà pure la vana speranza per la quale tanto a lungo ci illudemmo e martoriammo, e parimenti cesseranno fugaci gioie e lacrime, timori e moti di sdegno. A quel punto (ossia — per dirla con il Vellutello — quando il corpo non farà più « velo all’anima ») vedremo con assoluta chiarezza come, in molti casi, si possa trarre vantaggio anche da situazioni insidiose (e che, in quanto tali, sembravano

recare

e le Osservazioni di Lodovico Antonio Muratori): Giacomo Leopardi (Milano, Stella 1826); Giosue Carducci - Severino Ferrari (Firenze, Sansoni 1899); Nicola Scarano (Li-

vorno, Giusti 1909); Andrea Moschetti (Milano, Vallardi 1908-12); Michele Scherillo (Milano, Hoepli 1918); Ezio Chiòrboli (Milano, Trevisini 1924); Natalino Sapegno (Firenze, La Nuova Italia 1938). Mancano, che io sappia, letture specifiche, ove si escluda la nota di N. SaPEGNo, Ur sonetto del Petrarca, in « L’Approdo letterario », I, 1952, pp. 52-57 (poi riassorbita nel capitolo petrarchesco redatto dallo stesso studioso per la Storia della Letteratura Italiana edita da Garzanti: cfr. vol. II, Il Trecento, pp. 301-304).



210—

solo dubbi e timori) e come altrettanto spesso, durante la vita, accada invece di affannarsi inutilmente, di crucciarsi senza frutto e per cose vane ». Mi auguro, naturalmente, che questa mia parafrasi sia plausibile; nemmeno nella sua preliminare funzione di explazatio verborum mi assoggetterei però a ritenerla esauriente. Non pochi lemmi e passaggi del testo sollecitano anzi ulteriori e più puntuali annotazioni, nel cui vario configurarsi spero perfino possano emergere, con una qualche concretezza, le non vulgate o sottovalutate qualità del verseggiare petrarchesco cui accennavo all’inizio. Valga dunque l’intento di una così ambiziosa verifica a bilanciare almeno in parte la pedanteria del chiosatore e la forse inevitabile frammentarietà delle postille in serie. Un primo momento di senso non univoco è costituito dalla clausola del v. 2. La maggior parte dei commentatori, antichi e moderni, intende semplicemente (ma anche troppo semplicisticamente), limitandosi (ed è per es. il caso del Filelfo) all’enunciato che la morte « subito mete fine a ciaschuna miseria »; suol far breve, dunque, come « suol terminare » (Vellutello), visto che la morte « è fine di tutte le miserie » (Brucioli). Altri però (a cominciare, se ho visto bene, dal Daniel-

lo) vanno oltre, premurandosi di precisare che il giorno extremo pone « fine alla humana miseria, ond’è piena la vita nostra, la quale quanto più è lunga, tanto anchora è più misera »; insomma (e cito ora il Gesualdo) « chi ha più breve vita più presto esce di miseria », per la ragione che « qua giù non è altro che misera et oscura prigione piena di martiri ». Ma sono, anche queste, delucidazioni che non appagano tutti i lettori, tant'è che, sempre per il v. 2, il Tassoni annota: « Anzi o la finisce affatto, o la fa eterna.

O

di’, che questa

nostra

vita,

chiamata miseria, comunque lunga, nel giorno della morte par sempre brieve, perché niuno vorrebbe morire »; come dire, in quest’ultimo caso, che, quando si sia giunti al limite estremo della vita, tutte le. umane miserie finiscono per apparire come brevi pene, « un rapido susseguirsi di vane

angoscie » (Sapegno).

Resta

però la necessità,

o

almeno la tentazione, di valorizzare pure in altro modo il sianificito pregnante di quel suo! (il quale poi — sia notato per inciso — si rapporta anche al coze sovente del v. 12 e al come spesso del v. 14, permettendoci così di rilevare che, pur entro una lirica che tutta si appunta sulla chiarezza definitiva delle certezze estreme, Petrarca non dimentica affatto le contingenze e la varietà dell'umano destino): suole abbreviare, precisa dunque il Moschetti (seguito dal Chièrboli e da altri), ma solo per chi in questa vita abbia ben meritato e fermo —

211

restando che per i malvagi la morte sarà invece l’inizio di una « miseria » eterna. S’intende che se, per questa prima occasione, ho antologizzato così largamente chiose di disparata natura e provenienza, l’ho fatto un po’ per partito preso e non senza rendermi conto di come possa scaturirne

l'impressione di una sottigliezza eccessiva e sproporzionata all’oggetto. Non pare, però, che tutte le difformi spiegazioni più sopra registrate si elidano a vicenda: secondo la prima (che mi piace riferire con le parole di Natalino Sapegno), in questo « desolato » componimento « il travaglio della coscienza [...] è ricontemplato quasi da una specola sublime e vertiginosa sul limitare della morte e senza conforto di celesti speranze », ed è prospettiva che, per brevità, possiamo definire laico-esistenziale; la seconda allude invece al bilancio che, proprio in quanto cristiano, l’uomo può compiere alla fine dei suoi giorni, con le intuizioni che solo allora gli sono possibili ed entro una visuale che di necessità include anche l’idea di un giudizio divino, di un aldilà con i suoi premi o le eventuali pene. Ora può ben essere che si sia propensi a giudicare preminente, e perciò preferibile, la prima interpretazione; ma è davvero lecito supporre e intendere che, in questa meditazione sulla vita e sulla morte, resti del tutto assente, per il cristianissimo Petrarca, ogni richiamo all’aldilà, ogni « conforto di celesti speranze »? Si osserverà frattanto che, nellesegesi di un singolo passaggio (ancorché, insisto, si tratti di un verso in apparenza così piano ed evangelicamente spoglio), può anche essere in gioco l’interpretazione complessiva del testo, ed essere magari chiamata in causa una certa idea della spiritualità petrarchesca, nel vario intreccio delle sue componenti psicologiche, religiose, culturali ecc. Si aggiunga, a conferma delle oscillazioni già rilevate, che anche il commento di Carducci-Ferrari, solitamente così puntuale e rigoroso, si limita a proporre una battuta del Gesualdo (« Chi ha più breve vita più presto esce di miseria »), giustapponendola alla seconda

«considerazione » tassoniana

(la « nostra

vita,

[...]

comunque lunga, nel giorno della morte par sempre brieve »), senza presupporre che tra l’una e l’altra chiosa si possa o si debba scegliere. Ma può una così persistente incertezza (e talora discordia) degli interpreti essere considerata priva di motivazioni che non risalgano, almeno in parte, alle qualità del testo medesimo? Si tratta, a mio parere, di prenderne atto, registrando il fenomeno non già (salvo ecce2 Secondo il SAPEGNO (commento cit., p. 37), accettare quest’ultima interpretazione significherebbe però attribuire al Petrarca «un pensiero facile e povero e qui inopportuno ».



212—

zioni) come un fattore negativo, bensì come un segno di ricchezza e di

intensità espressiva; si tratta quindi di scrutare il testo nelle sue pieghe più segrete, nella latitudine dei suoi messaggi anche meno espliciti, nel tentativo (che, come ho detto, è anche nelle mie intenzioni) di metterne a fuoco ogni sfumatura semantica.

Per quanto riguarda il v. 3, ho parafrasato il conclusivo leve con la formula « rapidità inavvertibile ». Preciso ora che, se da un lato veloce et leve costituiscono una dittologia sinonimica, dall’altro Petrarca gioca sulla duplice accezione del /evis latino, il quale può indicare la leggerezza sia rispetto al peso, sia rispetto alla mobilità. Ma che anche e forse soprattutto di impressionante rapidità continui a trattarsi prova quel passo di un’epistola metrica dove, allo stesso fine, Petrarca scrive:

« flumina nulla quidem cursu leviore fluunt, quam / tempus abit vite ».° Un’altra dittologia conclude parallelamente il v. 4, dove scemo, oltre che indicare uno

stato

(nel senso

di ‘ difettoso ’, ‘ mancante ’),

implica però anche un senso di tipo attivo, l’allusione a speranze che nello scorrere fatale del tempo sono andate via via perdendo forza e credibilità. Non sfugga peraltro (sempre per il v. 4) l’assoluta indeterminatezza di quello sperar che, almeno per ora (prima cioè che si precisi, benché sempre relativamente, in « quella speranza / che ne fe’ vaneggiar sì lungamente »), il lettore di Petrarca non è certo tenuto a riferire in esclusiva al coronamento di un sogno d’amore. E voglio dire che, senza troppe forzature, vi si può cogliere anche una meno circoscritta attesa: la speranza di ottenere in un indistinto futuro l’agognato ristoro non solo ai mali d'amore, ma anche ai travagli e alle pene della

vita tutta; fors’anche la speranza di gloria e di poesia: Laura insomma, ma anche il lauro, che non a caso si troveranno associati in costituzio-

nale ambiguità poco appresso, nel sonetto XXXIV (Apollo, s’ancor vive il bel desio), che ancora ci parla « de l’amorosa speme », dopo che su una « speme già condutta al verde » aveva insistito il limitrofo sonetto XXXIII. Con il v. 5 (né si tratterà certo di una costante priva di rilievo e

di risonanza) si passa alla prima persona plurale. Di fatto, e alla lettera, essa va riferita all’io del poeta e ai suoi propri « pensieri »; si avverta però che, col finire di questa seconda quartina, quel « zoî pace avremo » (prima ed unica occasione in cui il nuovo pronome viene esplicitato) può anche non riferirsi più ai pensieri soltanto: piuttosto, 3 Metr., I 4, 91-92. E si ricordi che si tratta d’una citazione messa in bocca a Sant Agostino nel terzo libro del Secretuzz (opera per la quale, qui e in seguito, mi servo dell’ed. ricciardiana curata da E. CARRARA: cfr. p. 210).



213—

e forse soprattutto, ci parla di una pace che è insieme fisica e spirituale, dell'anima sì, ma anche e necessariamente del corpo, il « terreno incarco » che «si va struggendo » e a cui appunto

il poeta

torna

a

rimandare apertamente nella ripresa del v. 9: «perché collui cadrà ... ». E quanto al vareggiar che campeggia nel v. 10, mi si permetta di porre. in evidenza, da un lato che — nella cronologia reale del Canzoniere — è questa la sua prima occorrenza, dall’altro che si tratta di una fra le parole più emblematiche, più densamente allusive e perciò più intraducibili della poesia petrarchesca. È ora impossibile, s'intende, leggerla impedendo alla memoria di riandare subito al vaneggiar del sonetto proemiale e dunque senza cogliervi in primo luogo la pregnanza della connessione etimologica con « vano » (senza un richiamo, cioè, alle « vare speranze » e al « van dolore », donde la « vergogna » e il « pentersi », fino a «conoscer chiaramente / che quanto piace al mondo è breve sogno »). Non è tutto, però. Anche a voler concedere che secondaria possa ritenersi qui una valutazione precipuamente etico-razionale (riferibile ad un dire e pensare cose assurde e prive di senso), in vaneggiare è pure presente, alla lettera, l’idea del vuoto (nel senso, se non dell’assenza, della vacuità che appartiene a ogni miraggio); c'è infine, sempre risorgente, l’idea del fantasticare e delle sue attrazioni.’ Si sarà forse notato che fin qui non ho operato il benché minimo richiamo ad antecendenti letterari, quasi, tra l’altro, che anch’essi non

fossero mezzi variamente utili all’esegesi di un testo. In ciò, devo dire, si riflettono le risultanze di una tradizione critica che, su codesto versante, è rimasta pressoché muta, in un certo senso confermando anche

col suo silenzio la spiccata originalità del nostro sonetto” Ma c’è, per l’esattezza, almeno un’eccezione e proprio da essa converrà cominciare.

In rapporto all’assunto iniziale, Bernardino Daniello esibisce (in realtà molto imperfettamente e come se si trattasse di un passo appartenente al terzo libro del De oratore, mentre ho potuto verificare che corrisponde a Pro Marcello, 27) la seguente citazione ciceroniana: 4 Un’analoga complessità semantica vareggiare conserva, nelle Rizze sparse, anche in tutte le successive occorrenze (cfr. LXXII 2, CCXLIV 4, CCLXX 25); perdendo il suo eccezionale (Già ia

rilievo, il verbo avrà invece significato diverso e sempre 099 da 6 0 TIR I8, VIE)

univoco

nei Trionf

S Degna di nota, in particolare (e riscontrabile anche nelle accurate ricerche di M. SANTAGATA, F. SurrNER, P. Trovato), l’assenza di richiami « diretti » e qualificanti all’area stilnovistica e a Dante; e si vedano, a sostanziale conferma, anche gli strumentali accostamenti operati più avanti nel corso della presente analisi.