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Italian Pages 124 [154] Year 2013
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Nuovo Medioevo 91 Collana diretta da Massimo Oldoni
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Renzo Bragantini
Ingressi laterali al Trecento maggiore. Dante, Petrarca, Boccaccio
Liguori Editore
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Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, fatte salve le eccezioni di legge, è vietata senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2012 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Novembre 2012 Stampato in Italia da Liguori Editore, Napoli Bragantini, Renzo : Ingressi laterali al Trecento maggiore. Dante, Petrarca, Boccaccio/Renzo Bragantini Nuovo Medioevo Napoli : Liguori, 2012 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5664 - 2 1. Letteratura medievale italiana 2. Storia della letteratura italiana I. Titolo II. Collana III. Serie Ristampe: ————————————————————————————————————————— 19 18 17 16 15 14 13 12 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi, a PH neutro, conforme alle norme UNI EN ISO 9706 ∞, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegradabili (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS).
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INDICE
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XI
Premessa 1
I Devozione e superamento: il canto xv dell’Inferno
17
II Memoria di cenere: sul canto xix del Purgatorio
31
III Appunti su Petrarca e la musica
47
IV Un ciclo di ritratti affrescati a Cittadella: appunti sulle fonti letterarie
69
V Premesse sull’ascolto decameroniano. Con primi appunti sul codice biblico nel Decameron
89
VI Le opere e i giorni. Di cosa parla la prima giornata del Decameron?
111
Nota editoriale
113
Indice dei nomi
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Per Stefano, di noi il più forte e indifeso
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PREMESSA
Raccolgo in questo volume saggi, parte inediti, parte editi, sui tre grandi trecentisti (tutte le informazioni in proposito si trovano in coda al libro). I lavori già apparsi in altra sede sono stati sempre attentamente rivisti, in alcuni segmenti riscritti (con interventi più o meno estesi), infine bibliograficamente aggiornati, ma con criterî di funzionalità ed economia: vale a dire che ho incluso nella discussione unicamente quei contributi che ritenessi effettivamente necessarî per la trattazione dei problemi affrontati nella singola indagine, segnalando così le stazioni essenziali dalle quali si può ricavare la maggior parte delle informazioni a quella indagine inerenti. Solo per i saggi danteschi (la Commedia essendo testo il cui statuto esige, a fronte delle proposte avanzate, il rendiconto di un deposito secolare, spesso fortemente divaricato) ho in parte attuato una deroga a tale norma di condotta. Infine, ho provveduto ad armonizzare il già edito, evitando per quanto possibile sovrapposizioni e ridondanze. Anche se il libro si presenta con fisionomia tripartita, esso è attraversato da un filo rosso a duplice intreccio. Sul piano degli oggetti si può dire che, mentre i due saggi danteschi obbediscono a una consolidata forma di lettura, che peraltro qui si è spogliata il più possibile da tentazioni ecumeniche (impraticabili in zona dantesca; caso mai ho dichiarato la resa dove non fossero possibili soluzioni condivisibili o verosimili), i due capitoli centrali presentano un Petrarca «fuori di casa», la coppia finale un Boccaccio letto secondo prospettive ancora, se non mi inganno, in buona parte inedite. In tutti i casi si tratta insomma (ed è questo il piano che tocca, se non il metodo, i sistemi di lettura messi in atto) di tagli particolari, che illuminano di luce laterale gli oggetti, consentendone una visione dei tratti lasciati per lo più in ombra. Tutto ciò sempre tramite una lettura ravvicinata (il che non deve, si spera, significare miope), e quanto possibile accertata sul piano filologico, dei testi. Se ho effettuato una simile scelta, mi sono però
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XII
PREMESSA
anche sforzato di muovere in una direzione complementare che, con moto centripeto, catturasse in quella selezione, per così dire, fenomeni di più vasta portata. Sicché la sintesi, qualsiasi nome le si voglia dare (e ammesso sia praticabile pacificamente, cosa che resta da dimostrare per ogni singola evenienza), costituzionalmente impossibile secondo la prospettiva adottata, fosse per altro verso recuperabile tramite gli oggetti, piuttosto che venire calata su di essi come una camicia di forza, in osservanza a letture per grandi linee, che tendono a smussare i reali punti di contraddizione. Al contrario, ho messo in atto ogni possibile cura nel far emergere i nuclei irrisolti o anche solo inconciliati, che riguardano persino individualità di così assoluto spicco. Ringrazio Massimo Oldoni per avere accettato il volume nella collana da lui diretta. Non dimentico la gratitudine che devo alla discreta ma vigile attenzione di Cristiano Spila. Per spunti iniziali o più recenti suggerimenti, sono grato a Lucia Battaglia Ricci, Francesco Ciabattoni, Vittorio Formentin, Pier Massimo Forni, Andrea Mazzucchi, Matteo Palumbo; non è omaggio alla convenzione riconoscere che il loro apporto ha contribuito a rendere (s’intende, nei miei limiti) più coerente e motivata l’argomentazione. Un ringraziamento particolare debbo infine a mia sorella Irene, che ha messo a mia disposizione, per snodi importanti del capitolo IV, la sua competenza di archeologa. Per la licenza di riproduzione delle immagini che corredano questo stesso capitolo ringrazio la Soprintendenza per il Patrimonio storico artistico e demoetnoantropologico del Veneto. A mia figlia Marta, oltre questi confini, sono debitore per il suo stimolo all’ascolto e la sua saggia amministrazione dell’agonismo. Di mia esclusiva responsabilità ogni manchevolezza e imprecisione. Roma, ottobre 2011
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I
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DEVOZIONE E SUPERAMENTO: IL CANTO XV DELL’INFERNO
Il canto di Brunetto Latini, da sempre percepito come centrale nell’architettura dell’Inferno (tale esso risulta quasi matematicamente nel computo dei canti della prima cantica, se si appaia al seguente, e si considera, come si deve, il primo canto come proemiale dell’intera opera), è, per molte ragioni, oltre che tra i più celebrati, tra i maggiormente dibattuti, e anzi controversi dell’intero poema. Celebrato per la tensione e densità intellettuale, non meno che per il mutuo e trattenuto pathos, dell’incontro (che ha dato luogo a una memorabile rielaborazione eliotiana in Little Gidding, ultimo dei Four Quartets).1 Controverso innanzi tutto in relazione al peccato di Brunetto, giacché la nomea di sodomita viene a lui in prima battuta proprio da Dante (le altre testimonianze in proposito sono più tarde della Commedia). Occorre anzi precisare che la collocazione nella stessa schiera tanto di Prisciano quanto di Francesco d’Accorso lascia margini di dubbio che, benché neppure nel suo caso esistano prove concrete, non sussisteranno per Andrea de’ Mozzi (né sarà casuale che, al contrario di quanto accade con gli altri personaggi ricordati, Dante lasci quest’ultimo nell’anonimato, e lo designi, per bocca di Brunetto, tramite perifrasi che non si potrebbe immaginare più sprezzantemente corrosiva). Semplificando di molto un dibattito che si è aggrovigliato nel tempo, e facendo piazza pulita di letture non verosimili (quali a esempio quella per cui Brunetto sarebbe punito per aver operato malversazioni o falsi nella sua professione notarile), le ipotesi, vertenti sul senso da attribuire alle 1 Su cui mi limito a rimandare a P. BOITANI, «Siete voi qui?»: Brunetto, Dante ed Eliot, in ID., Il genio di migliorare un’invenzione. Transizioni letterarie, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 115-38.
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2
INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
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parole con cui Virgilio illustra la distribuzione dei dannati nel basso Inferno, e particolarmente nel terzo girone del settimo cerchio (Inf., XI 46-51), si sono divise in due rami: uno conferma il peccato attribuito a Brunetto; l’altro, che ha la sua sorgente moderna in André Pézard (e si è poi disperso in molti e poco chiari rivoli), ritiene tale peccato vada interpretato in senso estensivo (in concreto Pézard vede nel personaggio una colpa diversa e specifica, quella di chi, scrivendo il Tresor, ha esaltato una lingua straniera a danno della materna).2 Nel fatto tale tesi,
2 Cfr. A. PÉZARD, Dante sous la pluie de feu (Enfer, chant XV), Paris, Librairie Philosophique J. Vrin, 1950 (ivi, pp. 29-57, utilissima rassegna sulla secolare vicenda interpretativa del canto): Pézard non è del resto il primo ad avanzare la tesi, già fatta propria da Perticari (cfr. TH. SUNDBY, Della vita e delle opere di B. Latini, trad. dall’originale danese per cura di R. RENIER, con appendici di I. DEL LUNGO e A. MUSSAFIA, e due testi medievali latini, Firenze, Le Monnier, 1884, p. 17 e n.; Sundby dissente da tale opinione, e ritiene, appoggiandosi a un passo in realtà non decisivo, né perspicuo, del commento di Pietro Alighieri, che la collocazione di Brunetto tra i sodomiti sia da collegare alla taccia comunemente attribuita in questo senso agli intellettuali; cfr. op. cit., pp. 23-24). Riprende la tesi di Pézard, volgendola ad altra direzione, R. KAY, The Sin of B. Latini, in «Mediaeval Studies», XXXI 1969, pp. 262-86, sostenendo che Brunetto avrebbe agito contro l’ordine naturale ponendo la filosofia al servizio delle innaturali strutture comunali, anziché dell’Impero (tesi insostenibile, come già notato da Mazzoni nei suoi interventi poco oltre cit., e oppugnata anche, per altre e non meno buone ragioni, in J.E. BOSWELL, Dante and the Sodomites, in «Dante Studies», CXII 1994, pp. 63-76). Kay è poi ritornato sull’argomento in una voluminosa monografia (Dante’s Swift and Strong. Essays on ‘Inferno’ XV, Lawrence, The Regents Press of Kansas, 1978), nella quale ribadisce la propria tesi, aggiungendone altre affatto implausibili. Intende «riconoscere Brunetto responsabile d’una colpa diversa dalla vera e propria sodomia», ma non offre poi indicazioni di sorta, F. SALSANO, Carità e giustizia (B. Latini e i tre fiorentini), in ID., La coda di Minosse e altri saggi danteschi, Milano, Marzorati, 1968, pp. 21-52 (il passo cit. a p. 32). Accoglie in parte le proposte di Pézard e Kay, ma di fatto non fornisce proposte valide, S. MUSSETTER, «Ritornare a lo suo principio»: Dante and the Sin of B. Latini, in «Philological Quarterly», LXIII 1984, n. 4, pp. 431-48. Sia pur con cautela, adombra la possibilità che Brunetto si sia macchiato di eresia P. ARMOUR, Dante’s Brunetto: the Paternal Paterine?, in «Italian Studies», XXXVIII 1983, pp. 1-38 (cfr. anche ID., Brunetto, the Stoic Pessimist, in «Dante Studies», CXII 1994, pp. 1-18). Scardina allegramente la lettera L.M. BISSON, B. Latini as a Failed Mentor, in «Medievalia et Humanistica», New Series, n. 18, 1992, pp. 1-15, per la quale «in questo consiste la sua [di Brunetto] sodomia: egli viola il rapporto tra mentore e discepolo facendone uno strumento della soddisfazione e del piacere personali, anziché fare di se stesso il mezzo disinteressato tramite il quale il suo discepolo può ricercare la verità e raggiungere un bene più grande» (ivi, p. 12); non troppo diversamente (ma con più scaltrita strumentazione) TH. NEVIN, Ser Brunetto’s Immortality: ‘Inferno’ XV, in «Dante Studies», XCVI 1978, pp. 21-37, aveva già parlato (cfr. part. pp. 27-29, 34) di un narcisismo di Brunetto, preclusivo di ogni visione spirituale e intellettualmente sterile. Ben peggio accade in J. AHERN, Troping the Fig: ‘Inferno’ XV 66, in «Lectura Dantis», n. 6, Spring 1990, pp. 80-91 (ripreso in ID., “Nudi Grammantes”: the Grammar and Rhetoric of Deviation in ‘Inferno’ XV, in «Romanic Review», vol. LXXXI 1990, pp. 466-86), che avanza tesi strampalate e inaccettabili.
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DEVOZIONE E SUPERAMENTO: IL CANTO XV DELL’INFERNO
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sviluppata da Pézard in pagine di agguerrita informazione, si appoggia soprattutto a un passo specifico del Convivio (I 11 1-2):
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A perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità.3
Brunetto sarebbe punito, sostiene Pézard, non in quanto sodomita, ma per avere calpestato la sacralità del linguaggio umano, punto su cui Dante insiste più volte nelle sue opere. La giustizia divina colpirebbe perciò in lui la violenza esercitata contro sé (la «deïtade»; Inf., XI 46), non contro la Natura: si sarebbe dunque in presenza di un bestemmiatore, non di un sodomita, sicché Brunetto si apparenterebbe di fatto a Capaneo, così da costituire, con la sua presenza, una sorta di coda al canto precedente. Della stessa schiera farebbero così parte anche i personaggi nominati da Brunetto: Prisciano, Francesco d’Accorso, Andrea de’ Mozzi. Indugio un momento anche sull’interpretazione dei vv. 106-8 («In somma sappi che tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama, / d’un peccato medesmo al mondo lerci»). Appoggiandosi ad alcuni antichi glossatori, Pézard ritiene che cherci abbia qui il senso, diffuso nel latino medioevale (e attestato anche in volgare da Dante stesso: Convivio, IV 10 6), di clerici (mantenuto nel francese clercs):4 cherci e litterati verrebbero a essere perciò sinonimi. Ma altrove 3 D. ALIGHIERI, Convivio, a cura di F. BRAMBILLA AGENO, 2 voll. in 3 to., Firenze, Le Lettere, 1995, II p. 44. Chiosa Contini: «Che veramente questo passo brunettiano [Tresor, I 1 7] abbia di mira il Convivio dove vitupera i lodatori del volgare altrui e spregiatori del proprio, è stato asserito, ma non si può affatto considerare cosa certa» (nell’introduzione alla sezione brunettiana dell’ed., a sua cura, di Poeti del Duecento, 2 to., Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, II pp. 169-74; a p. 171). 4 Cfr. PÉZARD, Dante sous la pluie, ecc., cit., pp. 78-80 e nn. Stessa interpretazione in A. MARIANI, nella “voce” Cherico, in Enciclopedia dantesca, 6 voll., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, [1970] 19842, I pp. 949-50, per il quale la forma cherci, oltre a essere contrazione da cherici è, in bocca a Brunetto, francesismo (p. 950): affermazione da respingere, anche a non considerare la gravitazione eminentemente fiorentina del canto, essendo la sincope della vocale mediana, non solo nei proparossitoni, fatto consueto nella lingua dei primi secoli; cfr. G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, trad. it., 3 voll., Torino, Einaudi, 1966-1969, § 138; A. CASTELLANI, Grammatica storica della lingua italiana, I. Introduzione, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 414-15, segnala la frequenza del fenomeno nella Toscana orientale (in particolare chierco e derivati sono attestati ad Arezzo, Borgo San Sepolcro, Cortona). Cfr. anche le osservazioni di T. ZANATO, Su ‘Inferno’ XV e dintorni, in «Rivista di letteratura italiana», VI 1988, pp. 185-246 (a p. 194).
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
nel poema (con occorrenze registrate anzi solo in un numero ristretto e ravvicinato di canti dell’Inferno) cherco-i, così come chercuto-i, ha sempre il valore di ‘religioso’ (cfr. Inf., VII 38-39, 46; XVIII 117), e pare difficile dovergli annettere nel caso specifico valenza diversa. Si aggiunga che la struttura del periodo non pare legittimare tale interpretazione: risulterebbe incongrua la precisazione che i personaggi indicati si fossero macchiati in vita «d’un peccato medesmo», mentre essa viene a assumere senso pieno solo se si opera distinzione tra i due gruppi: diversi, appunto, ma uniti dal peccato. È vero che il precedente tutti può ingenerare in questo senso ambiguità; ma sembra più economico conferire valore di accumulo alla congiunzione, così che essa venga a designare due categorie diverse, piuttosto che ignorare il riferimento all’identità del peccato. Né si capisce come potrebbe rientrare nella categoria dei cherci in quanto litterati Andrea de’ Mozzi, sprovvisto di ogni titolo in merito; a meno che, ma sarebbe motivazione affatto capziosa, non si pensi che il suo rimanere innominato lo ponga fuori dalla categoria. Non sembra, per le ragioni addotte, sussistere la possibilità di intendere cherci come francesismo semantico. Senza dire che anche in francese antico i clers, magari designati con la qualifica di afeitiez (‘colti’, ‘raffinati’) o affine, sono in genere dei chierici a tutti gli effetti (così a es. in Erec et Enide, 2268-69, 2276-78, 2284-86).5 La proposta dell’insigne dantista francese ha sollevato molti e giustificati dubbî (si può anzi dire che sia stata nella sostanza rifiutata).6 I motivi ne sono molti, né si pretende qui elencarli compiutamente. Doveroso tuttavia menzionare, perché tesa a confermare in pieno i 5
Les romans de Chrétien de Troyes, [...] I, Erec et Enide, publié par M. ROQUES, Paris, H. Champion, 1952, pp. 69-70. 6 Tra le voci più autorevoli nel dubbio o nel dissenso (ma sempre appaiato da ammirazione per l’ acutezza della proposta esegetica di Pézard) si registrano: G. CONTINI, Introduzione alla sezione brunettiana, cit.; F. MAZZONI, nella “voce” Latini, Brunetto, in Enciclopedia dantesca, cit., III pp. 579-88 (part. p. 582); ID., nelle Chiose posposte al canto, in D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, con i commenti di T. CASINI-S.A. BARBI e di A. MOMIGLIANO, Introduzione e aggiornamento bibliografico-critico di F. MAZZONI, Inferno, Firenze, Sansoni, 1972, pp. 302-4. Più recisamente contrarî a Pézard G. PETRONIO, Il canto XV dell’‘Inferno’, in Nuove letture dantesche, vol. secondo, Anno di studi 1966-1967, Firenze, Le Monnier, 1968, pp. 75-85 (part. p. 78), e C. SEGRE, Canto XV [1982], in Lectura Dantis Neapolitana, Inferno, Direttore P. GIANNANTONIO, Napoli, Loffredo, 1986, pp. 259-68 (part. p. 260). Specifiche intertestualità brunettiane sono indicate, prima che nella “voce” da ultimo cit. (pp. 584-86), ancora in F. MAZZONI, Brunetto in Dante, introduzione a B. LATINI, Il Tesoretto. Il Favolello, Alpignano, Tallone, 1967, part. pp. XXVII-L. Qualcosa aggiunge M.U. SOWELL, Brunetto’s ‘Tesoro’ in Dante’s ‘Inferno’, in «Lectura Dantis», n. 7, Fall 1990, pp. 60-71.
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DEVOZIONE E SUPERAMENTO: IL CANTO XV DELL’INFERNO
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motivi della condanna di Brunetto, l’analisi di Avalle: leggendo la canzone di Bondie Dietaiuti Amore, quando mi membra, trasmessaci unicamente dal canzoniere Vaticano, dove essa figura subito dopo l’unica prova lirica rimastaci di Brunetto, la canzone S’eo son distretto inamoratamente (di cui si parlerà oltre), come replica a quest’ultimo testo (che la canzone di Bondie sia indirizzata ad altro rimatore è fatto fuori discussione),7 il grande studioso l’ha interpretata come esempio di «corrispondenza poetica amorosa» tra due rimatori dello stesso sesso: col che la collocazione di Brunetto tra i violenti contro natura troverebbe autenticazione inscritta nella lettera dei testi. Va però specificato, per rendere giustizia alla posizione di Avalle, che nella sua ricostruzione dell’episodio è precisamente l’incisività dei testi a contare per la condanna espressa da Dante, e a far aggio su ogni dato biografico, scolorito al rango di parvenza (per cui Dante verrebbe a essere una sorta di Sainte-Beuve a rovescio).8 Pur confermando la natura di replica del testo di Bondie, dell’episodio hanno dato una lettura diversa Peter Armour e Luciano Rossi, sostenendo che nel ricco tessuto di immagini delle due canzoni si celi la realtà politica dell’esilio di Brunetto, piuttosto che un episodio di corrispondenza amorosa.9 7
Cfr. la introduttiva nota metrica in Poeti del Duecento, cit., I p. 385. Cfr. D’A. S. AVALLE, Nel terzo girone del settimo cerchio, in ID., Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, pp. 87-106 (part. pp. 102-4). Concorda con la ricostruzione di Avalle, considerando indiscutibile l’omosessualità di Brunetto, SEGRE, Canto XV, cit., p. 260. 9 Cfr. P. ARMOUR, The Love of two Florentines: B. Latini and B. Dietaiuti, in «Lectura Dantis», n. 9, Fall 1991, pp. 11-33; L. ROSSI, Brunetto, Bondie, Dante e il tema dell’esilio, in Feconde venner le carte. Studi in onore di O. Besomi, a cura di T. CRIVELLI, con una bibliografia degli scritti a cura di C. CARUSO, 2 to., Bellinzona, Casagrande, 1997, I pp. 13-34 (Rossi accenna anch’egli all’ipotesi che il peccato di Brunetto sia da collegare «alla sua milizia di “pedagogo” o “istruttore” di giovani»; ivi, p. 28). Sulla questione Rossi torna nella sezione dei cosiddetti siculo-toscani, da lui curata per l’Antologia della poesia italiana, diretta da C. SEGRE e C. OSSOLA, Duecento, Torino, Einaudi-Gallimard, 1997, pp. 104-5, nonché nel commento alle canzoni di Brunetto e Bondie (ivi, pp. 135-41); fa ora il punto S. LUBELLO, B. Latini, «S’eo son distretto inamoratamente» (V 181): tra lettori antichi e moderni, in A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione di B. Latini dal Medioevo al Rinascimento, Atti del Convegno internaz. di studi, Università di Basilea, 8-10 giugno 2006, a cura di I. MAFFIA SCARIATI, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2008, pp. 515-34, nonché nella scheda introduttiva alla canzone di Brunetto (I poeti della scuola siciliana, 3 voll., Milano, Mondadori, 2008, III, Poeti siculo-toscani, Ed. critica […] diretta da R. COLUCCIA, pp. 307-8). La tesi di Rossi (che si riallaccia ad Armour, ma con maggior dispiego di analisi formale), per quanto ingegnosa, non sembra del tutto persuasiva. Lo studioso rimarca come «la connessione fra le due canzonette […] non si fondi certo su ineccepibili analogie strutturali: non si tratta, cioè, d’una risposta “per le rime”, anzi gli schemi metrici e la forma strofica dei due componimenti, pur presentando qualche analogia, sono sostanzialmente diversi», e aggiunge poi che «la connessione fra i due componimenti è stata postulata da Avalle 8
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
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Scrivono nel loro commento Pasquini e Quaglio, tra i più severi degli interpreti recenti nel valutare la linea interpretativa di Pézard (mentre Anna Maria Chiavacci Leonardi, nelle sue chiose, non tocca il punto, anche se si intuisce una netta distanza dalle tesi dello studioso francese): «l’apparente assurdo [della collocazione di Brunetto nel girone dei sodomiti] (data l’affettuosa venerazione del discepolo) si giustifica con il “sentir morale” del nostro autore e non con brillanti ma inconsistenti congetture (quella ad es. del Pézard, che identifica la violenza contro natura di Brunetto con il tradimento della “bestemsoprattutto in base alla loro prossimità nel manoscritto unico che ce li ha trasmessi» (entrambi i passi in Brunetto, Bondie, ecc., cit., p. 15). Quanto al primo punto, va rilevato che esso offre una visione restrittiva delle rime di corrispondenza, che non necessariamente, nelle canzoni, presentano perfetto isomorfismo metrico-rimico (così accade a es. nella seconda proposta e nella relativa risposta della tenzone tra frate Ubertino e Chiaro Davanzati, del cui ultimo la canzone, su rime nuove, è oltretutto, contro quanto offerto dal proponente, di soli endecasillabi; o nella replica conclusiva di Monte nella tenzone con Tomaso da Faenza che, pur nella stabilità dell’assetto metrico, è su altre rime; cfr. rispettivamente C. DAVANZATI, Rime, Ed. critica […] a cura di A. MENICHETTI, Bologna, Commiss. per i testi di lingua, 1965, pp. 10-14; Poeti del Duecento, cit., I pp. 449-59, nonché MONTE ANDREA DA FIORENZA, Le rime, Ed. critica a cura di F.F. MINETTI, Firenze, Accademia della Crusca, 1979, pp. 5166); quanto al secondo che, tale essendo senza dubbio la mossa di partenza, Avalle mostra poi una serie di richiami interni tra i due testi, a cominciare dalla condizione di «distretto» che segna l’incipit di Brunetto e ritorna in Bondie (v. 18), che paiono piuttosto saldi. Armour e Rossi indicano il ricorrere di certo lessico che unisce le due canzoni anche presso altri rimatori coevi; l’alto tasso iterativo e formulare di quella lirica induce però a ritenere che il loro rilievo, per quanto giustamente invitante alla cautela, manchi di chiarire perché agganci evidenti siano rinvenibili proprio in quei due testi contigui nel Vaticano (e in misura certo superiore rispetto alle sparse occorrenze da essi addotte): canzoniere del quale è risaputo il rigore dell’ordinamento, particolarmente nel genere “alto” delle canzoni, e l’attenzione, nella seriazione dei pezzi, agli stessi sottogeneri (cfr. R. ANTONELLI, Struttura materiale e disegno storiografico del canzoniere Vaticano, in I canzonieri della lirica italiana delle Origini, IV, Studi critici, a cura di L. LEONARDI, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2001, pp. 3-23, part. pp. 8-9; e C. GIUNTA, Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 259-60). Maggior peso ha il richiamo al fatto che «le canzonette di Brunetto e di Bondie […] fanno parte, nel codice vaticano, d’una piccola serie di canzoni di lontananza di Guelfi fiorentini: da Carnino Ghiberti a Guglielmo Beroardi, a Incontrino de’ Fabrucci, allo stesso Palamidesse» (ROSSI, Brunetto, Bondie, ecc., cit., p. 25). Ma, a parte la difficoltà di segmentare in modo tematicamente coeso gruppi di testi che non siano già di per sé collegati da motivazioni o occasioni riconoscibili (il caso ovvio delle tenzoni, e, in genere, dei testi di corrispondenza: la fattispecie indicata da Rossi mostra tuttavia che in alcuni frangenti non si tratta di fatto palmare), se in tali canzoni l’intreccio tra lontananza politica e sofferenza amorosa (segnatamente nella canzone di Ghiberti, Lontan vi son) costituisce marca di contrassegno, non si vede perché all’unica dimensione politica debba essere condotto lo scambio tra Brunetto e Bondie: la decifrazione così proposta (e che non ha motivo di esercitarsi negli altri componimenti indicati da Rossi, dove la coesistenza dei temi si lascia percepire senza sforzo) rischia la sovrainterpretazione.
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DEVOZIONE E SUPERAMENTO: IL CANTO XV DELL’INFERNO
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miata” lingua materna, a parte tutto smentita dall’assenza in questo canto di ogni problematica linguistico-letteraria, quale si ha invece nel De vulgari e nel Convivio)».10 Si deve convenire in linea di massima con quanto asserito dai due dantisti nel loro commento, anche se non del tutto pertinente può sembrare il richiamo alla mancanza di «problematica linguistico-letteraria» nel canto. Per quella linguistica si può essere d’accordo (e fino a un certo punto); ma la mancanza di problematica letteraria, almeno a un livello implicito, non è così fermamente asseribile, come si vedrà. Vero che essa non possa rinvenirsi al livello ravvisabile, per fare due soli esempî tra i molti possibili, in Purg., XXIV e XXVI; ma neppure in quei casi si potranno esigere dal Dante poeta prese di posizione quali quelle reperibili nel Dante trattatista (spesso anzi sottoposte a revisione nel poema). Né è da pretendere che formulazioni teoriche debbano emergere, in Dante come in altri (ma per quanto riguarda lui, la tendenza a scambiare lo smagliante rigore mentale per rigidità simmetrica è pericolo sempre in agguato), non si dice con la stessa esplicitezza, ma con uguale evidenza argomentativa. Ammesso questo, non si potrà sostenere una tesi estremistica opposta, che tenda a rendere marginale il punto centrale, vale a dire il giudizio teologico-morale (Mazzoni) sul peccato di Brunetto, per fare emergere in via privilegiata il nucleo letterario del canto. Ma, assodata quella componente, certo è che se l’incontro tra il vecchio maestro e il discepolo conserva per il lettore, nell’inevitabilità della condanna, una così alta carica di identificazione emotiva equamente riversabile sui due, ciò avviene anche in forza del fatto che quella eredità intellettuale viene rivista, riconosciuta con gratitudine, ma insieme passata al vaglio della persona di Dante, che quelle esperienze ha attraversato per poterle superare. Tornando alla tesi di Pézard, si potrà forse dire, più semplicemente, che essa risulta poco convincente, malgrado la considerevole mole di materiale addotto e l’ingegnosità della costruzione, per un eccesso di astrazione (e fors’anche cerebralità) rispetto alla concretezza dell’universo dantesco, e della generalmente verificabile natura del rapporto tra peccati e pene istituito dall’autore;11 dati che in tal 10 In n. al v. 30 (in D. ALIGHIERI, Commedia, a cura di E. PASQUINI e A. QUAGLIO, Milano, Garzanti, 1987, p. 163). 11 Benché talora segnato dallo sforzo tendenzioso di ridurre il peso del pensiero tomistico nella Commedia, un lucido riesame della posizione dantesca in tema di omosessualità è in J. PEQUIGNEY, Sodomy in Dante’s ‘Inferno’ and ‘Purgatorio’, in «Representations», n. 36, Fall 1991, pp. 22-42.
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modo verrebbero clamorosamente alterati, per di più in relazione a un personaggio così centrale non solo nella cantica e nel poema, ma nella stessa biografia intellettuale di Dante. Per reperire la lettura forse più convincente del canto occorre ancora rifarsi a Parodi:12 il quale, dopo aver constatato i numerosi punti di contatto tra i canti X e XV dell’Inferno, rileva come non per ragioni di imparzialità morale Dante collochi Brunetto nel luogo destinatogli, ma per motivi squisitamente artistici, di tenuta complessiva nell’architettura della cantica e dell’intero poema. Brunetto sta insomma nel centro dell’Inferno, e in posizione centrale nel numero dei canti di esso, per ragioni analoghe a quelle che suggeriscono una collocazione opposta ed equivalente per Cacciaguida nel Paradiso. Come nessuno meglio di Cacciaguida può testimoniare la nobiltà della schiatta dantesca, nessuno meglio di Brunetto può affermare che nel giovane Dante fosse riconoscibile la pianta del buon seme romano. Ne discende che i due episodî convergano nel presentare Dante come cittadino, uomo, filosofo, di autorità e rigore morale inattaccabili; e che nel canto di Brunetto Dante celebri la propria grandezza. La morte di Brunetto viene ascritta al 1294 (dunque più o meno all’altezza della composizione della Vita Nuova), generalmente sulla scorta di un passaggio assai noto della Cronica di Giovanni Villani, che anche fornisce un breve, e tutto sommato fedele, ritratto del personaggio: Nel detto anno MCCLXXXXIIII morì in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo, e fue sommo maestro in rettorica, tanto in bene saper dire come in bene dittare. E fu quegli che spuose la Rettorica di Tulio, e fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto, e la Chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e de’ vizi e di virtù, e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch’egli fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica.13
12 Cfr. E.G. PARODI, Il canto di B. Latini [1906], in ID. Poesia e Storia nella ‘Divina Commedia’ [1921], a cura di G. FOLENA e P.V. MENGALDO, Vicenza, N. Pozza, 1965, pp. 165-200. 13 G. VILLANI, Nuova cronica, IX 10, ediz. critica a cura di G. PORTA, 3 voll., MilanoParma, Guanda-Fondaz. P. Bembo, 1990-1991, II pp. 27-28, rr. 19-31. Per la vita di Brunetto, a parte SUNDBY, Della vita e delle opere, ecc., cit., tuttora insostituibile, si dispone della monografia non più che diligentemente informativa di B. CEVA, B. Latini. L’uomo e l’opera, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965. Né molto aggiunge il far-
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Quanto alla definizione di «mondano uomo», responsabile forse anche di una taccia di irreligiosità talora, e su basi malferme, attribuita a Brunetto, essa deriverà presumibilmente dal Tesoretto, 2560-61 («ché sai che sén tenuti / un poco mondanetti»).14 La tesi di un Brunetto «libero pensatore» non è nuova, e non sembra essere scomparsa del tutto.15 Scrive Chiavacci Leonardi: «Se si ripensa a Farinata, al Cavalcanti, e ora a Brunetto, appare chiaro che i personaggi più in vista della Firenze del secondo ’200, cioè del tempo della giovinezza di Dante, erano ben lontani da una posizione di fede».16 L’accostamento a Farinata e Cavalcanti in realtà non pare giustificato, essendo tali personaggi puniti nel sesto cerchio, appunto degli eretici. E appena è necessario aggiungere che eresia (posizione di rottura all’interno dell’unità dottrinale della Chiesa), irreligiosità, tiepidezza religiosa (la punta massima che si possa evincere da quanto ci è testimoniato, direttamente o indirettamente, in relazione a Brunetto), sono posizioni da non confondere mai in linea di principio: oltre che per i fatti dottrinarî appena indicati, per il ben diverso tasso speculativo che esse comportano. Per ciò che riguarda invece la fisionomia intellettuale di Brunetto, lo schizzo approntato da Villani conserva validità. La cultura del personaggio, come una lettura delle sue opere dimostra, è essenzialmente, anche se non esclusivamente, retorico-politica, e anzi di una retorica gerarchicamente sottoposta alla politica: ciò vale per la sua Rettorica, che volgarizza e commenta i primi capitoli del ciceroniano De inventione (cui sono da accostare, per l’innesto della dimensione giuridico-politica, i volgarizzamenti di orazioni ciceroniane: Pro Ligario, Pro rege Deiotaro, Pro Marcello); come, ma in connubio con la dimensione etica, per il Tresor.17 Alla summa del Tresor si avvicina il raginoso e talora fuorviante J. BOLTON HOLLOWAY, Twice-told Tales: B. Latino and D. Alighieri, New York, P. Lang, 1993. 14 In Poeti del Duecento, ed. CONTINI cit., II p. 264 (e n. relativa); cfr. anche 2448-52 («pur non ti sia fatica / d’udire infi∙la fine, / amico mio, ch’afine / mie parole mondane / ch’io dissi ognora vane»; ed. cit., p. 260). 15 Cfr. a es. N. ILIESCU, Inferno XV: ‘Se tu segui tua stella...’, in Essays in Honor of L.F. Solano, Edited by R.J. CORMIER and U.T. HOLMES, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1970, pp. 101-15; in contrario le giuste osservazioni di PÉZARD, Dante sous la pluie, ecc., cit., pp. 49-51. 16 D. ALIGHIERI, Commedia, con il commento di A.M. CHIAVACCI LEONARDI, 3 voll., Milano, Mondadori, 1991-1997, Introduzione al canto XV, I p. 452. 17 Cfr. CH.T. DAVIS, B. Latini and Dante, in «Studi medievali», s. III, VIII 1967, pp. 421-50 (leggibile con lo stesso titolo in versione italiana, con qualche rimaneggiamento, in ID., L’Italia di Dante [1984], Bologna, il Mulino, 1988, pp. 167-200); e
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Tesoretto, poemetto di struttura visionario-allegorica, pensato, anche se non ne è rimasta traccia (per abbandono del progetto all’origine), come prosimetro; mentre il Favolello, sorta di epistola in versi indirizzata a Rustico di Filippo sul tema dell’amicizia, ha maggiore sostenutezza, giusta la diversa caratura dei due generi implicati.18 Di Brunetto, come ricordato sopra, ci è conservato un unico esercizio lirico, S’eo son distretto inamoratamente, «canzonetta» secondo la definizione d’autore (verosimilmente in relazione all’alta frequenza dei settenarî), affidata al solo canzoniere Vaticano. In un passo celebre del De vulgari eloquentia (I 13 1), che coinvolge anche Brunetto, Dante stigmatizza un manipolo di poeti che hanno composto senza elevarsi da un dettato municipale: Et in hoc [la pretesa di aver composto in volgare illustre] non solum plebeia dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus: puta Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum, quorum dicta, si rimari vacaverit, non curialia sed municipalia tantum invenientur.19
Tanto Mengaldo che, precedentemente, Marigo, ritengono difficile che la sanzione tocchi Tesoretto e Favolello, opere non liriche ma didascalico-narrative, per le quali l’adozione di un volgare non «curiale» parrebbe in Dante ammettere deroghe: ciò in base alla teoria del conveniens, che esige rispondenza tra livello formale e materia trattata, esposta più oltre nel De vulgari (II 1 7-8).20 La censura dovrà intendersi allora indirizzata alla poesia lirica, di cui, come detto, ci è rimasta un’unica testimonianza (sempre che essa non sia, come pure è stato ipotizzato e come non pare troppo azzardato supporre, fortunoso la lucida sintesi di P.G. BELTRAMI, Italiani e francesi nel ‘Tresor’: qualche appunto sulla “politica”, in Eteroglossia e plurilinguismo letterario. I. L’italiano in Europa, Atti del XXI Conv. interuniversitario di Bressanone (2-4 luglio 1993), a cura di F. BRUGNOLO e V. ORIOLES, Roma, “il Calamo”, 2002, pp. 25-40 (cui rimando per la segnalazione di ulteriori contributi, dello stesso Beltrami e di altri, sulla questione). 18 Cfr. CONTINI, Introduzione alla sezione brunettiana di Poeti del Duecento, cit., p. 173 (e nella n. iniziale al Favolello, ivi, p. 278). 19 Nell’ed. a cura di P.V. MENGALDO, in D. ALIGHIERI, Opere minori, II tomi (il primo in 2 parti), Milano-Napoli, Ricciardi, 1979-1988: to. II (1979), a cura, oltre che di Mengaldo, di B. NARDI, A. FRUGONI, G. BRUGNOLI, E. CECCHINI, F. MAZZONI, pp. 106, 108. 20 Cfr., oltre alla n. di Mengaldo in calce a loc. cit., ed. cit., p. 108, D. ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, ridotto a miglior lezione […] da A. MARIGO, Terza ed. […] a cura di P.G. RICCI, Firenze, Le Monnier, 1968 (in n. al passo cit., p. 111). Diversamente, ma con cautela, CONTINI, Poeti del Duecento, cit. pp. 173-74.
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DEVOZIONE E SUPERAMENTO: IL CANTO XV DELL’INFERNO
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relitto di una più consistente pratica, a Dante nota, per noi perduta). Resta comunque che il complesso dell’attività, tanto poetica quanto più latamente letteraria, di Brunetto, fa di quest’ultimo un autore che non potrebbe immaginarsi più refrattario innanzi tutto al fascino della poesia virgiliana; e ciò potrà forse spiegare la posizione qui nettamente marginale di Virgilio, cui nel canto è data voce una sola volta, con una breve asserzione di sapore sentenzioso e di senso non perspicuo («Bene ascolta chi la nota»), successiva al preannuncio dell’esilio e alla ferma reazione di Dante, variamente intesa dagli interpreti (che hanno talora proposto una lezione diversa del passo).21 Senza dire che l’allergia, sicuramente inscritta nella formazione e nella carriera intellettuale di Brunetto, per la poesia di Virgilio, potrebbe far paio con quella di Cavalcanti, quand’anche il senso di Inf., X 63 («forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»), debba intendersi nell’accezione che appare oggi più vulgata nei commenti (il «disdegno» sarebbe riferito a Beatrice-Teologia, o sapienza divina, e non a una avversione di Guido Cavalcanti per la poesia virgiliana), e offrire così un ulteriore elemento di collegamento tra i due canti (X e XV), che molti fattori, a cominciare dal preannuncio dell’esilio, avvicinano.22 Ma s’intende che la distanza di Brunetto da Virgilio comporti anche la conseguente distanza, non assoluta e originaria, ma relativa e scalata nel tempo fino a divenire a sua volta irrecuperabile, di Dante, e tanto più del Dante della Commedia, da Brunetto.23 Ciononostante, 21 Cfr. PARODI, Il canto, ecc., cit., p. 187 n.: «è da scrivere là, lassù, in Cielo?»; A. PAGLIARO, La fortuna, in ID., Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, 2 to., Messina-Firenze, D’Anna, 1967 (rist.), I pp. 173-84, propone di leggere chi l’ha nota, e chiosa perciò: «ascolta bene, intende bene le tue parole nei riguardi della Fortuna, solo chi la conosce per quello che veramente è» (p. 182). La proposta non ha trovato fortuna presso gli esegeti successivi e sembra in effetti non persuasiva. Ciò non toglie che il passo, prevalentemente inteso con riferimento a un la di valore neutro (ma crede che vada riferito al precedente «arra» P. NICOSIA, «Bene ascolta chi la nota» [XV 99], in ID., Dieci saggi sull’Inferno dantesco, Messina-Firenze, D’Anna, 1969, pp. 135-44), non sia affatto liquido. 22 Cfr. G. CONTINI, Cavalcanti in Dante [1968], in ID., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 143-57 (part. pp. 147-50). Diversamente PARODI, Il canto, ecc., cit., per cui il «famoso disdegno di Guido, […] non può esser preso anzitutto se non nel senso letterale, sia pur attenuato quanto si voglia, d’un vero e proprio disdegno di Guido Cavalcanti per la poesia virgiliana, per l’Eneide» (p. 180). Sulla questione cfr. E. MALATO, Il «disdegno» di Guido. Chiosa a Inf. X 63: «forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» [1991], in ID., Studi su Dante. «Lecturae Dantis», chiose e altre note dantesche, Padova, Bertoncello Artigrafiche, 2005, pp. 425-59 (con discussione della bibliografia pregressa; il «disdegno» riguarderebbe Virgilio non in quanto poeta, ma in quanto rappresentante della ragione). 23 Utili osservazioni in merito in E. COSTA, From ‘locus amoris’ to Infernal Pentecost:
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riagganci al Tesoretto e al Favolello sono stati da tempo indicati (e perciò verranno ricordati solo quelli ora necessarî).24 Sommamente significativo, e rappresentativo della particolare grana del realismo, quando non del mimetismo, dantesco, è che un certo numero di tali riprese si concentri proprio nel canto che vede Brunetto protagonista. Ciò del resto accade di norma quando Dante incontra individualità segnalate per dignità letteraria: a un grado meno rilevato, non perciò meno sorvegliato, di mimetismo, apparterranno figure etimologiche e poliptoto verbale caratterizzanti il racconto di Pier della Vigna, così come allitterazione e paronomasia marcanti il discorso di Brunetto («[…] qual di questa greggia / s’arresta punto, giace poi cent’anni / sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia»: 37-39); dal quale pure il poliptoto verbale non è assente («ti si farà, per tuo ben far, nimico»; 64). Né sarà secondario che fatti simili caratterizzino maestri del dittare, con influsso anzi, già rilevato, del primo personaggio sul secondo.25 Nel caso di Brunetto accade qualcosa di più. Già la formula di transizione che apre il canto («Ora cen porta l’un de’ duri margini»), variazione di quella in precedenza utilizzata per l’attacco del canto X («Ora sen va per un secreto calle / [...] / lo mio maestro, e io dopo le spalle»: ulteriore collante tra i due canti), è certo stampo travasato da Tesoretto, 1183-84 («Or va mastro Brunetto / per un sentiero stretto») e 2181-82 («Or si ne va il maestro / per lo camino a destro»). Aggiungo, perché non notato da Contini né da Mazzoni, che il «fiotto» (v. 5: occorrenza unica nella Commedia) da cui i fiamminghi si difendono con le dighe, e che è termine tecnico designante la marea, è ancora rinvenibile nel Tesoretto, 1039-42 (or [scil.: “’l mare Ucïano”] prende terra, or lassa, / or monta, or dibassa; / e la gente per motto / dicon c’ha nome fiotto»; in fine di verso e di periodo, posizioni entrambe di maggiore presa mnemonica e perciò favorevoli al prelievo).26 Anche l’immagine topica della ruota della Fortuna («però giri Fortuna la sua
the Sin of B. Latini, in «Quaderni d’Italianistica», X 1989, nn. 1-2 (Dante today, Edited by A.A. IANNUCCI), pp. 109-32; nonché in P. ARMOUR, XV, in «Lectura Dantis», n. 6, Supplement, Spring 1990 (Dante’s ‘Divine Comedy’. Introductory Readings. I: Inferno, Edited by T. WLASSICS), pp. 189-208. 24 Cfr. il commento di Contini alla sezione brunettiana dei Poeti del Duecento, cit., nonché i varî interventi di Mazzoni su segnalati. 25 Cfr. ancora CONTINI, Introduzione cit., pp. 170-71. 26 Cfr. il commento CASINI-BARBI cit., p. 283; D. ALIGHIERI, The Divine Comedy, Translated, with a Commentary, by CH.S. SINGLETON, 6 voll., Princeton, Princeton University Press, 19772, Inferno II (Commentary) p. 252; nonché SEGRE, Canto XV, cit., p. 262 (con rimando, oltre al luogo indicato del Tesoretto, a Tresor, I 117 2).
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rota / come le piace […]»; 95-96), che, presa di per sé, resterebbe naturalmente irrelata, manifesta la sua possibile ascendenza dal Tesoretto, 2434-35 «(come Ventura mena / la rot’ a falsa parte)», una volta che essa, con le altre indubbie riprese dal testo, faccia sistema nel corpo dello stesso canto.27 Tutto ciò è parte di atteggiamento mimetico, appunto, che stavolta incide però direttamente sulla lettera del testo. Unito ai numerosi echi sia dal Tesoretto che dal Favolello, esso viene a dire il debito di Dante, di tanto maggiore significato quanto l’autore della Commedia è ben consapevole di avere in parte assimilato (ancor più se a Dante spettasse il Detto d’amore, nello stesso settenario caratterizzante la poesia allegorico-didattica, perciò lo stesso Tesoretto e il pur diverso Favolello), ma certo superato, quella lezione: innalzandone il livello tanto linguistico che formale, eleggendo materia incomparabile per impegno intellettuale ed elevatezza, entrambe versate in colate di inaudita temperatura stilistica.28 Brunetto finisce insomma per essere, pur nella riverenza manifesta, una delle tante vittime della ridiscussione dantesca della poesia, latina e volgare, attuata nella Commedia. Si dirà che del Brunetto lirico, nel canto che lo mette in scena, Dante non tratti. Ma qui (lo convalida la esplicita menzione del Tresor) sta il punto; l’argomento e silentio vige nel poema, come insegna l’esempio principe (e, naturalmente, imparagonabile con quello in questione) di Cavalcanti; e le precedenti prese di posizione nel De vulgari non possono far dubitare del senso di tale rimarginatura.29 Starà anche in tali cicatrici intertestuali una delle ragioni del fascino difficilmente definibile che emana dal canto; giacché alla gratitudine del discepolo (non diretto, pare; e anche seguendo con attenzione
27
Sul valore da attribuire ai vv. 95-96 cfr. A.A. IANNUCCI, Fortuna, tempo, e l’esilio di Dante (Inferno XV, 95-96), in ID., Forma ed evento nella Divina Commedia, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 115-43, il quale, operata distinzione tra la rappresentazione del tempo come Kairòs e come Chronos, suggerisce che il «villan» del v. 96 vada interpretato come immagine di Chronos-Saturno (cfr. ivi, part. pp. 122-32); utili integrazioni in ZANATO, Su ‘Inferno’ XV, ecc., cit., pp. 225-28. 28 Sul superamento operato da Dante cfr. A.M. CHIAVACCI LEONARDI, Il maestro di morale, in EAD., La guerra de la pietate. Saggio per una interpretazione dell’Inferno di Dante, Napoli, Liguori, 1979, pp. 111-37 (part. pp. 119-22): saggio che, giusta il titolo, relega però in secondo piano la sostanza retorico-politica del lascito brunettiano, e di conseguenza il superamento, appunto, attuato da Dante in ambito propriamente letterario. 29 Nel suggestivo, e non raramente cavilloso, T. BAROLINI, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della ‘Commedia’ [1984], Torino, Bollati Boringhieri, 1993, non si fa cenno in questo senso di Brunetto (cfr. part. pp. 77-152, e l’Appendice, pp. 229-35).
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
il racconto di Dante si ricava quest’impressione: «[…] nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna»; 84-85) si appaia, senza possibilità di tracciare una linea di demarcazione, la consapevolezza di una raggiunta superiorità poetica e intellettuale.30 Conferisce ulteriore importanza a ciò il fatto che il superamento sia da Dante, come sempre, percepito anche come autosuperamento;31 e che in esso si possa avvertire la lezione di Brunetto in quanto politico-letterato, ed esempio di uno sforzo di comunicazione del sapere anche a chi non faccia professione di letteratura.32 Sembra questo infatti, per lettura pressoché unanime dei commentatori, il senso da attribuire al v. 60 («dato t’avrei a l’opera conforto»), dove il termine chiave, opera, deve essere inteso al più nell’accezione di un’attività letteraria posta al servizio della vita politica e civile, quando esso non rimandi esplicitamente ed esclusivamente a quest’ultima.33 Dante si situa sulla stessa lunghezza d’onda, rispondendo a Brunetto, coi vv. 82-87, già parzialmente richiamati, e che sembrano memori di un passo del Tresor, che si dà nel volgarizzamento tradizionalmente (ma quasi di certo erroneamente) attribuito a Bono Giamboni:34 Gloria è nominanza che corre per molte terre d’alcuna persona potente di grande affare, e di sapere bene sua arte. […] E quelli che trattano di grandi cose testimoniano, che gloria dona al prode uomo una seconda
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Sul problema dell’insegnamento di Brunetto cfr. H. WIERUSZOWSKI, B. Latini als Lehrer Dantes und der Florentiner (Mitteilungen aus Cod. II, VIII, 36 der Florentiner Nationalbibliothek), in «Archivio italiano per la Storia della Pietà», vol. II 1959, pp. 169-98; U. BOSCO, Il canto di Brunetto (XV dell’‘Inferno’) [1962], in ID., Dante vicino, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 1966, pp. 92-121 (con insistenza sull’identificazione, in Brunetto, di politica e morale; cfr. part. pp. 103-5, 117); DAVIS, B. Latini and Dante, cit., pp. 441-42 (in accordo con la tesi prevalente di un insegnamento non istituzionale). 31 Cfr. D. DELLA TERZA, Il canto di B. Latini, in ID., Forma e memoria. Saggi e ricerche sulla tradizione letteraria da Dante a Vico, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 13-39 (part. p. 24); ZANATO, Su ‘Inferno’ XV, ecc., cit., pp. 207-8, 240-42. 32 Cfr. PARODI, Il canto, ecc., cit., part. pp. 174-76. 33 Per un connubio tra i due fatti propende PARODI, Il canto, ecc., cit., p. 182; sulla sua scia, nei commenti al passo, Scartazzini-Vandelli, Sapegno, Chiavacci Leonardi, ecc. Più reciso il parere di PASQUINI-QUAGLIO, ed. cit., p. 165: «attività politica, azione civile (non certo esperienza letteraria)». Cfr. ancora ZANATO, art. cit., pp. 211-15, con ricca e pertinente esemplificazione. 34 L’erroneità dell’attribuzione è segnalata, in testa alla scelta dalla versione del Tresor, da C. SEGRE, in La prosa del Duecento, a cura di C. SEGRE e M. MARTI, MilanoNapoli, Ricciardi, 1959, pp. 311-12; lo stesso sostiene P. G. BELTRAMI, Introduzione a B. LATINI, Tresor, a cura di P.G. BELTRAMI, P. SQUILLACIOTI, P. TORRI e S. VATTERONI, Torino, Einaudi, 2007, p. XXIV (Beltrami ritiene anche non verosimile l’ipotesi, da altri avanzata, che la traduzione si debba allo stesso Brunetto; cfr. loc. cit.).
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DEVOZIONE E SUPERAMENTO: IL CANTO XV DELL’INFERNO
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vita, ciò è a dire, che dopo la sua morte, la nominanza che rimane di sue buone opere, mostra ch’egli sia ancora in vita.35
Pare fuori di dubbio che il poeta alluda in quei versi a gloria intellettuale e fama civile, non ad altro (non alla stessa gloria poetica, del resto ai margini dell’orizzonte terreno e degli interessi concreti di Brunetto).36 Il cerchio si stringe coerentemente colla richiesta finale del dannato («Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora, e più non cheggio»; 119-20): formula che affida a Dante, già dichiaratosi pronto al bisogno di riconoscere il suo debito nei confronti dell’insegnamento ricevuto («e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo / convien che ne la mia lingua si scerna»: 86-87), il ruolo di testimone. Si noti che la raccomandazione muove, solennemente quanto semplicemente, da costrutto impersonale, fatto che cozza singolarmente (il possessivo e il pronome seguenti lo confermano) colla proclamazione orgogliosa della dignità ed eccellenza conseguite con la propria opera più significativa: con ripresa del concetto di gloria intellettuale imperitura, sentita pur nella dannazione, perciò in collegamento con quanto da Dante esposto al v. 85. Tuttavia proprio le ultime parole di Brunetto sono strette tra la constatazione di una dimensione eterna in nulla alterabile («Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone / più lungo esser non può, però ch’i’ veggio / là surger nuovo fummo del sabbione. / Gente vien con la quale esser non deggio»; 115-18), e l’affannosa corsa per raggiungere la «sua masnada» (41).37 Corsa che a qualcuno è parsa contrassegnata da una tonalità comica o beffarda, o grottesca; mentre altri, richiamando anche l’accenno alla «[…] fretta, / che l’onestade ad ogn’atto dismaga» (Purg., III 10-11) ha parlato di una perdita di dignità.38 35
Il Tesoro di B. Latini volgarizzato da B. Giamboni […] emendato con mss. ed illustrato da L. GAITER, VII 72, 4 voll., Bologna, Romagnoli, 1878-1883, III pp. 479-80. Sul passo cfr. il rilievo di CONTINI, nell’Introduzione alla sezione brunettiana cit., p. 170. 36 S’intende che anche nella circoscrizione terrena di tale gloria sia da ravvisare distanza da parte di Dante rispetto al lascito brunettiano: cfr. F. MONTANARI, B. Latini, in «Cultura e scuola», IV 1965, nn. 13-14, pp. 471-75; e, assai più persuasivamente, A.A. IANNUCCI, Autoesegesi dantesca: la tecnica dell’‘episodio parallelo’ (Inferno XV-Purgatorio XI), in ID., Forma ed evento, ecc., cit., pp. 83-114 (part. pp. 104-9). 37 Ben noto che «masnada» sia privo, nella lingua antica, dell’accezione negativa poi corrente (cfr. anche Purg., II 130; diversamente, ma in modo a mio avviso non plausibile, propende per l’estensione a significato negativo CHIAVACCI LEONARDI, ed. cit., I p. 462 n.): nel senso appunto di ‘gente di casa’, affine al latino familia, Brunetto parla di mesnee nel Tresor, I 4 1, ed. BELTRAMI et alii, cit., p. 10, e p. 11 n. 4. 38 Cfr. nell’ordine M. PASTORE STOCCHI, Delusione e giustizia nel canto XV dell’Inferno [1968], in Letture Classensi, III 1970, Ravenna, Longo, pp. 219-54 (part. pp. 228,
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
In senso forse più concreto e fedele al testo si potrà dire che la forte accelerazione che si ha a partire dalle ultime battute del dialogo (almeno dal v. 115: «Di più direi […]»), ma forse già prima, dal v. 105 («[…] ’l tempo saria corto a tanto suono») ha un chiaro valore di termine dello stato di quasi sospensione che caratterizza l’incontro tra Brunetto e Dante (stato iniziatosi coi vv. 31-33: «[…] O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia»). E tale termine sigilla coerentemente, proprio nella corsa finale del vecchio “maestro”, il doppio movimento, di cui i due protagonisti mutuamente partecipano, da cui è costantemente attraversato il canto: coscienza della gratificazione umana ottenuta nella grandezza (tuttavia sottoposta da Dante a radicale revisione), consapevolezza della giustizia divina manifestata nella pena.39
252-53); ROSSI, Brunetto, Bondie, ecc., cit., p. 28; CHIAVACCI LEONARDI, ed. cit., I p. 475 n. Il rilievo pare specioso, se si ricorda che la corsa di Brunetto (che comunque ne sigilla il valore umano) è imposta dalla sua pena (cfr. vv. 40-42, 118), come rimarcato da Eliot nel suo saggio dantesco del 1929 (cfr. T.S. ELIOT, Opere, a cura di R. SANESI, Milano, Bompiani, 1986, pp. 808-46, part. p. 818). 39 Sarà certo da mettere sul conto del precedente dantesco il fatto che tanto le cosiddette Chiose Cassinesi (peraltro di ascendenza veronese, il che è fatto non trascurabile), quanto il commento all’Inferno di Maramauro, facciano cenno all’uso di offrire, come premio per chi vincesse al Palio di Verona, «il drappo verde» alle donne (col che l’allusione alla sessualità di Brunetto verrebbe a essere ben marcata): cfr. Il codice cassinese della Divina Commedia per la prima volta letteralmente messo a stampa per cura dei monaci benedettini della Badia di Monte Cassino, s.i.l. [ma Monte Cassino], Tipografia di Monte Cassino, 1865, p. 103; G. MARAMAURO, Expositione sopra l’‘Inferno’ di Dante Alligieri, a cura di † P.G. PISONI e S. BELLOMO, Padova, Antenore, 1998, p. 278 e n. 28.
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MEMORIA DI CENERE: SUL CANTO XIX DEL PURGATORIO
Trattare del canto XIX del Purgatorio implica dover affrontare un doppio ordine di difficoltà: giacché al fatto che esso non ha goduto, salvo eccezioni, di una particolare fortuna critica, occorre aggiungere la tormentata vicenda esegetica, che tocca tanto l’identità da conferire ad alcune raffigurazioni decisive (la «femmina balba» e la «donna […] santa e presta»), quanto più specifiche, e tutt’altro che pacifiche, chiose puntuali. Trascurerò il primo punto, contentandomi di affermare che il giudizio spesso limitativo non mi pare affatto condivisibile, incapace com’è di percepire la potenza che emana dalla tinta di cenere della vicenda di Adriano V; e mi concentrerò su alcuni aspetti del secondo. Il canto si mostra composto di tre momenti, peraltro pienamente coesi. L’iniziale sogno e la psicomachia tra le due figure femminili (appunto la «femmina balba» e la «donna […] santa e presta»), cui segue l’invito di Virgilio a riprendere il cammino (vv. 1-39); la comparsa dell’angelo che cancella il quarto P dalla fronte di Dante, e il successivo ingresso nella quinta cornice (vv. 40-69); l’uscita nella quinta cornice e il colloquio con Adriano V (vv. 70-145). Quasi al centro (vv. 64-69) del computo totale dei versi, la similitudine del falcone, il cui vigore cinetico è perfettamente funzionale al contrasto tra lusinghe dei beni mondani e spinta verso la purificazione, che è il motore (rilevabile anche sul piano semiotico, trascurato nell’analisi che segue) da cui è alimentato tutto il canto. L’attacco è costituito da un’ampia perifrasi di sei versi («Ne l’ora che non può il calor diurno», ecc.), designante il periodo, di poco antecedente l’alba, in cui avviene il sogno effettuato da Dante (per-
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
ciò in un momento che un’antica tradizione, ben viva nel Medioevo, voleva foriero di sogni veritieri e premonitori; analogamente, Inf., XXVI 7; Purg., IX 13-18). Ma già qui sorge un primo intoppo: il sogno è prosecuzione di quello di cui Dante narra al termine del canto precedente, o costituisce separata avventura onirica? Nel primo caso, ci si troverebbe in presenza di una simmetria novenaria con gli altri due sogni purgatoriali, che avvengono nel canto IX e nel canto XXVII; nel secondo, occorrerebbe ammettere di essere in presenza di una flagrante infrazione della regola del nove. E tale alterazione, ove fosse dimostrata in modo incontrovertibile, non potrebbe essere che consapevolmente perseguita, non solo in ragione della conclamata attenzione di Dante verso il valore simbolico del numero, ma anche in considerazione dell’identico stilema che segna, negli altri due frangenti, il principio di quelle tre esperienze («Ne l’ora che comincia i tristi lai»: Purg., IX 13; «Ne l’ora, credo, che de l’orïente»: Purg., XXVII 94):1 dove la formula perifrastica sta a indicare una temporalità volutamente sfumata, come si addice ai contorni slabbrati dell’esperienza onirica. La maggioranza dei critici e commentatori opta per la prima soluzione, tuttavia non sono mancate recentemente obiezioni a essa.2 La figura che appare in sogno al pellegrino è una «femmina balba, / ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba» (vv. 7-9). Lo sguardo rivoltole da Dante, mosso da indubitabile pulsione amorosa, provoca una rapida scomparsa di tutte le imperfezioni e deformità elencate (vv. 10-15; da mettere parzialmente in relazione ad analoga similitudine di Inf., II 127-30):3 Io la mirava; e come ’l sol conforta le fredde membra che la notte aggrava, così lo sguardo mio le facea scorta la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco d’ora, e lo smarrito volto, com’amor vuol, così le colorava.
1 Cfr. M. MARTI, L’unità poetica del XIX del ‘Purgatorio’ [1962], in ID., Studi su Dante, Galatina, Congedo, 1984, pp. 119-34 (part. pp. 120-21); G. MURESU, Il richiamo dell’antica strega (‘Purgatorio’ XIX), in ID., Il richiamo dell’antica strega. Altri saggi di semantica dantesca, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 85-135 (part. p. 88). 2 Cfr. MURESU, Il richiamo, ecc., cit., pp. 85-92. 3 SINGLETON, nel commento cit., Purgatorio II (Commentary), p. 449, richiama opportunamente A. CAPPELLANO, De amore, I 6 («Amor enim personam saepe degenerem et deformem tanquam nobilem et formosam repraesentat amanti […]»).
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MEMORIA DI CENERE: SUL CANTO XIX DEL PURGATORIO
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Non sembrano sussistere dubbî sul fatto che la «femmina balba» condensi nei suoi tratti deformi i peccati di incontinenza, o eccessivo attaccamento ai beni terreni, di cui le anime purganti espiano il peso nelle cornici superiori.4 Ne sia teste Virgilio che, nella dottrina dell’amore da lui esposta, ricorda i peccati che si scontano nelle tre ultime cornici, affidando a Dante il compito di ricercarne la suddivisione con le sue forze (Purg., XVII 136-39: «L’amor ch’ad esso [il bene terreno] troppo s’abbandona, / di sovr’a noi si piange per tre cerchi; / ma come tripartito si ragiona, / tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi»). Tentare di reperire precise corrispondenze tra le caratteristiche deformità o mancanze della «femmina balba» e le colpe indicate è probabilmente vano, tanto più che esiste discrepanza tra i numeri (cinque malformazioni contro tre peccati). È lecito tuttavia pensare che le imperfezioni possano ciascuna corrispondere ai peccati di incontinenza considerati nel loro complesso.5 Come che sia di ciò, avarizia nella sua forma estrema e specifica di cupidigia, gola, lussuria, sono appunto le forme di eccessivo attaccamento ai beni terreni che vengono puniti nell’alto Purgatorio. E l’avarizia, secondo il filtro dell’Etica aristotelica, si accompagna nell’espiazione all’estremo opposto della prodigalità: della quale ultima, tuttavia, non è fatto a questa altezza alcun cenno (ne farà oltre Stazio, Purg., XXII 31-54), sicché potrebbe dirsi che nel secondo regno Dante tenda a non con4 G. PAPARELLI, La «femmina balba» e la «donna santa e presta» nel XIX del Purgatorio, in ID., Ideologia e poesia di Dante, Firenze, Olschki, 1975, pp. 203-21, sembra pensare lo stesso, ma di fatto si restringe alla sola avarizia, considerata inclusiva delle altre due colpe (ivi, pp. 204-5). 5 Lo sforzo più rigoroso in tal senso appartiene forse a Benvenuto: «Dicit ergo poeta: Una femmina balba; hoc respicit avaritiam quae non loquitur clare et aperte, sed implicite et dolose: gulam, quia ebrietas facit linguam grossam, ita ut non possit articolate loqui: luxuriam, quae facit hominem adulari, lingere et multa fingere falso; negli occhi guercia: hoc facit avaritia, quia avarus non videt recte, nimia cupiditate caecus tam habendi, quam retinendi; hoc facit gula, quae reddit oculos lippientes et visum destruit; luxuria multo fortius, quia offuscat oculos corporales et intellectuales, et quid deceat non videt ullus amans: e sopra i piè distorta, talis est avaritia quae numquam recte incedit, nec iudicat recta lance; gula peius, quia ebrius praestat risum videntibus ipsum ambulare tortuose: luxuria pessime vadit per viam rectam, con le man monche, istud patet in avaro, qui nihil dat, nil recte facit nisi cum moritur; unde paulo infra audies quod avari stant manibus et pedibus ligati; gulosus nihil vult operari, luxuriosus minus, imo luxuria fovetur inertia et accidia, e di colore scialba: hoc verificatur in avaro, guloso et luxurioso qui habent bona tantum simulata. Omnes isti communiter habent faciem pallidam et sine colore» (BENVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA Comentum super D. Aldigherij Comoediam […] curante J. PH. LACAITA, 5 to., Florentiae, Typis G. Barbèra, III pp. 498-99: d’ora in poi si farà riferimento esclusivamente a tale volume dell’edizione, coll’indicazione del solo numero di pagina).
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
ferirle una collocazione a tutti gli effetti specifica. Si ripresenta qui uno scompenso già percepibile nell’Inferno, dove, malgrado il cozzo paritario delle schiere degli avari e dei prodighi, e il loro reciproco rimproverarsi con «ontoso metro» (Inf., VII 33), il fuoco narrativo è senza dubbio occupato dalla prima schiera. Sembra lecito, considerata la riproposizione del medesimo squilibrio nei due oltremondi, poter concludere che l’avarizia costituisca per Dante, soprattutto nella forma della cupidigia, minacciosa sopra ogni altra malvagia disposizione sin dall’esordio infernale (Inf., I 49-60, 94-99), peccato più grave della prodigalità. Non tanto, come è stato detto, perché quest’ultima meno offende il prossimo (la dissipazione delle proprie ricchezze è offesa ben grave, agli occhi della giustizia divina, nei confronti di chi nemmeno il necessario possiede), ma perché il peccato nasce da inclinazione non negativa già alla sua radice (quale sarà invece da considerarsi il peccato degli scialacquatori, infatti colpiti da più grave punizione nel secondo girone del settimo cerchio; Inf., XIII 109-29).6 Tale del resto la posizione di Tommaso che, nella Summa theologiae (IIa-IIae, q. 119 a. 3), contrapponendo avarizia e prodigalità, asserisce la minor gravità della seconda. Il vanto della sirena («Io son», cantava, «io son dolce serena, / che ’ marinari in mezzo mar dismago; / tanto son di piacere a sentir piena! / Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio […]»; vv. 19-23) presenta già una prima crux esegetica.7 Sono state avanzate tre proposte sul senso da conferire a vago (le elenco in quello che mi pare il loro ordine crescente di plausibilità): disviai Ulisse
6 Per la considerazione della minor gravità dell’avarizia sulla prima base indicata cfr. G. PADOAN, Nelle cornici degli accidiosi e degli avari, in Lectura Dantis modenese. Purgatorio, Modena, Comitato Provinciale D. Alighieri-Banca Popolare dell’Emilia, 1985, pp. 83-99 (part. pp. 88-89). 7 La soggezione di Dante al canto della sirena (cioè alle lusinghe dei beni terreni), gli sarà rimproverata oltre da Beatrice (Purg., XXXI 43-46), come rimarcato da tutti i commenti. Altro luogo parallelo è ravvisabile poco prima, sempre nelle parole di Beatrice (Purg., XXX 73: «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice»), dove infatti ritorna, a enfatizzare la rampogna, la geminatio che inaugura l’autopresentazione della sirena (il che sarebbe ragione ulteriore per dare al -ci valore avverbiale anziché pronominale, e mantenere di conseguenza la lezione son, invece di sem, nel secondo dei due passi: cfr. D. ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, 4 voll., Firenze, Le Lettere, 1994, 2a rist. rived., I p. 130, III pp. 52122 n.); cfr. anche G. MAZZOTTA, Il sogno della sirena (Purgatorio XIX), in Il sogno raccontato, Atti del convegno internaz. di Rende (12-14 novembre 1992) […], a cura di N. MEROLA e C. VERBARO, Vibo Valentia, Monteleone, 1995, pp. 117-36 (part. p. 127).
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MEMORIA DI CENERE: SUL CANTO XIX DEL PURGATORIO
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1) “invaghito del mio canto”;8 2) “dal suo cammino errabondo”;9 3) “benché fosse bramoso di raggiungere la sua meta”.10 La prima soluzione pare da scartare, non essendo il costrutto (vago/a a[l]) altrove attestato nella Commedia.11 Ma anche la seconda, certo più verosimile, non può essere definita calzante, soprattutto perché vago/ a, nell’accezione di “errabondo/a”, determina il soggetto dell’azione (oltretutto mai inanimato), non la sua modalità.12 Sulla terza, che sembra a tutti gli effetti preferibile (anche in forza di una qualche rispondenza con Inf., XXVI 121-23), convergono per lo più gli esegeti moderni.13
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Cfr. DANTE, Œuvres complètes, trad. de l’italien par A. PÉZARD, Paris, Gallimard, 1965, pp. 1248-49: «vago al canto mio, ‘attiré vers mon chant’». Secondo Mazzoni (D. ALIGHIERI, La divina commedia, con i commenti di T. CASINI-S.A. BARBI e di A. MOMIGLIANO, aggiornamento bibliografico-critico di F. MAZZONI, Purgatorio, Firenze, Sansoni, 1973, p. 437) questa sarebbe anche l’interpretazione di Tommaseo, che pare tuttavia propendere per la seconda soluzione (cfr. N. TOMMASEO, Commento alla ‘Commedia’, a cura di V. MARUCCI, 3 to., Roma, Salerno Editrice, 2004, II p. 1105: «Trassi Ulisse dal suo vagante cammino»). 9 Così A.M. CHIAVACCI LEONARDI, nel suo commento al Purgatorio, Milano, Mondadori, 19972: «Noi preferiamo l’altro significato [“errabondo” riferito a cammin], prima perché un valore così pregnante [quello che si identifica nell’ultima e maggioritaria chiosa; cfr. subito oltre] non risulta dalla debole collocazione dell’aggettivo posposto; poi perché Ulisse era “bramoso”, non del cammino, ma del conoscere; infine perché la prima lettura meglio completa il senso del verbo volsi» (ivi, p. 559; e cfr. anche p. 578). Quanto alla «debole collocazione», va detto che andranno messe in conto le ragioni della rima; si aggiunga che, salve tutte le differenze, a norma di Inf., XXVI (e anche di logica) sembra che volsi (“deviai”, “distolsi”) meglio si adatti a chi persegue con decisione una meta. 10 La seconda interpretazione è fatta propria anche da Del Lungo (e più recentemente da Porena, nonché da PAPARELLI, La «femmina balba», ecc., cit., pp. 205-6); l’ultima, da M. BARBI, Problemi di critica dantesca, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1975, I p. 228, e F. MAGGINI, «Io volsi Ulisse del suo cammin vago» (Purg. XIX, 22), in «Rassegna della letteratura italiana», LXI 1957, pp. 456-58; recentemente T. CALIGIURE, La «femmina balba» e la «dolce serena», in «Rivista di studi danteschi», IV 2004, pp. 333-66, ha riproposto l’esegesi di Barbi, proponendo però di dare alla frase valore non concessivo, ma causale (cfr. ivi, pp. 353-54). 11 Da un controllo sul corpus OVI dell’Italiano antico, consultabile in rete, parrebbe che il costrutto, fino a tutto il Trecento, abbia solo tre occorrenze, e tutte posteriori alla Commedia: due in Jacopo Passavanti, una in Francesco da Buti (a proposito di Inf., XXIX 3, dove giuocherà un’imperfetta intelligenza del passo). 12 Né vale il rimando a «gissen vago vago» (Purg., XXXII 135), locuzione avverbiale di valore assoluto, dunque sintatticamente imparagonabile con la fattispecie, effettuato da PAPARELLI, La «femmina balba», ecc., cit., p. 206. Si aggiunga che, anche in tutte le occorrenze di vaga/o (col valore di “desiderosa/o”), il soggetto è sempre animato. 13 Così, pare, anche F. TATEO, Il trittico dei sogni veritieri e il sistema dell’avarizia (‘Pg’ XIX) [1992], in ID., Simmetrie dantesche, Bari, Palomar, 2001, pp. 153-71 (part. pp. 169-70). Rassegna delle diverse soluzioni prospettate in D. ALIGHIERI, La divina commedia, con i commenti di T. CASINI-S.A. BARBI e di A. MOMIGLIANO, ecc., cit., p. 437.
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
Qualunque sia il significato da attribuire ai versi in questione, resta che qui si giuochi uno snodo essenziale del testo. E si giuochi non per la prima volta, né per l’ultima, a testimonianza del fatto che vi si incisti un modello (s’intenda, negativo), il viaggio di Ulisse, contro il quale si erge l’esperienza del viaggio oltremondano di Dante personaggio, non meno che la prassi di Dante poeta della Commedia.14 Basti accennare, in scorcio contrastivo, al timore «che la venuta non sia folle» (Inf., II 35) espresso da Dante all’inizio del poema, dopo aver dichiarato per insufficientiam la propria posizione nei confronti dei suoi modelli, Virgilio e la Scrittura, e al «folle volo», nonché al «varco / folle» di Ulisse (Inf., XXVI 125; Par., XXVII 82-83), per intendere l’entità della sfida. Riproposta, a metà circa dell’intero percorso, a segnare da una parte il fatto che essa sia sostenuta, diversamente da quanto accaduto per l’eroe omerico, dalla Grazia; dall’altra il superamento che Dante compie sulla stessa esperienza del Convivio, impossibilitata, giusta le sue premesse, ad affrontare compiti, nella loro inaudita impervietà, affatto diversi.15 La possibilità di conferire alla «donna […] santa e presta» (v. 26) univoca individuazione simbolica si rivela ancor più disperante di quanto non accada con la figura femminile che appare a Dante all’inizio del sogno. Scontato che la qualifica di donna subito la designi in antitesi a femmina, e che essa debba intendersi come figura di intercessione celeste in aiuto del pellegrino, si è pensato alle soluzioni più disparate: la Ragione o la Filosofia (il che, malgrado sia soluzione maggioritaria nei commenti antichi, pare senz’altro da respingere, atteso che soprattutto la prima è adeguatamente rappresentata da Virgilio), la Carità, la Madonna, santa Lucia, la Temperanza, la vita attiva, la giustizia, Beatrice, la Grazia divina (l’elenco non è completo). Della ridda di ipotesi non è possibile segnalare una che si imponga incontestabilmente sulle altre;16 meglio perciò limitarsi a constatare la funzione 14 Cfr. da ultimo M. PICONE, Canto XIX, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di G. GÜNTERT e M. PICONE, Purgatorio, Firenze, Cesati, 2001, pp. 287-306. 15 Cfr. CALIGIURE, La «femmina balba», ecc., cit., p. 356-57. 16 Riterrei comunque deboli le identificazioni con la vita attiva e con la giustizia, proposte rispettivamente da MARTI, L’unità poetica, ecc., cit., pp.123-25, e da PAPARELLI, La «femmina balba», ecc., cit., pp. 210-21: quest’ultimo incoerente se, dopo aver proposto la «femmina balba» come figurazione dei peccati di incontinenza, specialmente dell’avarizia, sostiene poi che la sua antagonista, simbolo appunto della giustizia, agisce anche «per contrapposizione all’accidia, nel cui girone […] accade il sogno di Dante» (ivi, p. 219). Si sarebbe così in presenza, contro la dominante legge dell’aldilà dantesco, di una figura che agisce contro la rappresentazione di alcuni peccati, avendone però di mira anche altri e diversi.
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MEMORIA DI CENERE: SUL CANTO XIX DEL PURGATORIO
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salvifica della figurazione.17 Quanto alle fonti della psicomachia, se il passo di Prov., VII 10-20, spesso richiamato, non sembra essere qui presente alla memoria poetica di Dante (se non altro perché vi manca, registrato com’esso è tutto in negativo, quella funzione di contrasto salvifico esercitata dalla donna dantesca), maggiormente indiziati sono un passo dalle Vitae Patrum (V 5 23), nel quale a un giovane monaco si rivela, tramite un’apparizione, il vero aspetto della concupiscenza; e soprattutto le primissime pagine del De consolatione philosophiae (I 1 11), dove a soccorrere Boezio malato e vecchio sopraggiunge la Filosofia che, rivolgendosi alle Muse della poesia, da lei definite «scenicas meretriculas» (ivi, 8), le assimila alle sirene, incolpandole di dolcezza perversa e potenzialmente letale, e ingiunge infine loro di allontanarsi dal suo protetto: «Sed abite potius, Sirenes usque in exitium dulces, meisque eum Musis curandum sanandumque relinquite».18 Tenendo gli occhi fissi «in quella onesta» (v. 30), Virgilio squarcia le vesti della femmina balba, il cui fetore rompe il sogno di Dante.19 Ancora occupato dalla visione, il poeta procede curvato in avanti, come «chi fa di sé un mezzo arco di ponte» (v. 42); anche all’avviso dell’angelo («Venite; qui si varca»: v. 43) la sua attitudine meditabonda non muta, malgrado il successivo v. 47 («volseci in sù colui che sì parlonne») suoni, per il Dante auctor, se non ancora per il Dante agens, giuocato com’è sull’opposto valore semantico dello stesso verbo (per di più, in entrambi i casi, in sede di primo emistichio), invito ad alzare lo sguardo, ancora irretito nella dimensione terrena del vanto della sirena («Io volsi Ulisse del suo cammin vago»), definitivamente verso l’alto. Si rimarca in tal modo come l’angelo indirizzi, la sirena
17 C. NARDI, Sul diciannovesimo canto del ‘Purgatorio’. In compagnia dei Padri della Chiesa, in «Studi danteschi», vol. LXXI 2006, pp. 27-86 propone di identificare la figura femminile (verosimilmente Lucia) con la grazia attuale illuminante preveniente ed efficace (cfr. ivi, pp. 56-59). 18 Per il passo delle Vitae Patrum cfr. G. TOFFANIN, La “foetida Aethiopissa” e la “femmina balba” [1920], in ID., Sette interpretazioni dantesche, Napoli-Bari, Libreria Scientifica Editrice, 1947, pp. 29-34. Una ridiscussione delle fonti indicate in MURESU, Il richiamo, ecc., cit., pp. 140-44. Più generica l’indicazione di altro brano dal De consolatione (III 8 8-10) attuata da CALIGIURE, La «femmina balba», ecc., cit., pp. 336-37. 19 R. HOLLANDER, ‘Purgatorio’ XIX: Dante’s Siren/Harpy, in Dante, Petrarch, Boccaccio. Studies in the Italian Trecento in Honor of Ch.S. Singleton, Edited by A.S. BERNARDO and A.L. PELLEGRINI, Binghamton (NY), Medieval & Renaissance Texts & Studies, 1983, pp. 77-88, legge in questo particolare, anche per la parallela specificazione delle mani monche e del pallore, un’eco della descrizione virgiliana delle Arpie (Æneis, III 216-18); cfr. ivi, part. pp. 84-86.
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disvii.20 Infine l’ammissione di debolezza da parte di Dante provoca il definitivo chiarimento di Virgilio e la sua ingiunzione ad abbandonare definitivamente lo stato di sospensione (vv. 58-63):
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«Vedesti», disse, «quell’antica strega che sola sovr’a noi omai si piagne; vedesti come l’uom da lei si slega. Bastiti, e batti a terra le calcagne; li occhi rivolgi al logoro che gira lo rege etterno con le rote magne».
L’anaforico vedesti risponde certo alla geminatio sigillata da impiego anaforico del pronome personale nelle parole della sirena («Io son», cantava, «io son dolce serena […]. / Io volsi Ulisse del suo cammin vago»), e rivela a Dante la vera natura del suo sogno. Analogo discorso si può fare per l’assillabazione e le allitterazioni pervasive dei vv. 6163, tese a mostrare per oppositionem il pericolo mortale del canto della sirena, che anche su esse si modula («[…] io son dolce serena, / che ’ marinari in mezzo mar dismago»). Ma s’intende vi sia stretta cooperazione tra tali mezzi retorici e il corredo figurale che essi veicolano. Non può tacersi che il fermarsi alla soglia esclusivamente letterale del gesto di battere a terra le calcagna è palesemente in debito rispetto alla polisemia del verso (eppure capita tuttora di trovare che l’annessione di un significato morale sia sentito come semplice possibilità). Con ogni evidenza l’esortazione di Virgilio non è ad affrettare il passo, ma è rivolta, giusta la metafora seguente, a mutare radicalmente prospettiva. È qui probabilmente attivo il ricordo di un passo di Matteo (X 14: «excutite pulverem de pedibus vestris»);21 pur non rifacendosi al brano indicato, mostra di intendere senza esitazioni il significato del verso Benvenuto.22 Quanto al logoro, il nucleo metaforico si connette, in mirabile transumptio, alla seguente similitudine del falcone (in qual20 Che il potere di traviamento esercitato dalla sirena colla dolcezza e sensualità del canto sia di natura sessuale, sostiene con buone ragioni, e con dovizia di allegati testuali precedenti e coevi a Dante, L. PERTILE, Il cigno e la sirena, in Esperimenti danteschi. Purgatorio 2009, a cura di B. QUADRIO, Genova-Milano, Marietti, 2010, pp. 175-96 (part. pp. 177-83). 21 Altre possibili tangenze con brani di Matteo sono fornite da HOLLANDER, ‘Purgatorio’ XIX, ecc., cit., p. 86. 22 «Et hoc dicit Virgilius, quia poeta portabat oculos ad terram. Et hic nota quod sub istis verbis pulcris Virgilius non vult aliud dicere nisi utaris istis terrenis sicut pecunia, gula, luxuria, quantum sufficit ad sustentationem vitae, et subiicias ipsa pedibus tuis tamquam vilia et parva, et erige speculationem mentalem ad coelum, quod est aeternum et immortale» (pp. 505-6).
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che modo riattivata in Par., XIX 34-36), a marcare, con il definitivo ritorno in sé di Dante, il momento di svolta dell’intero canto. A Dante e Virgilio, giunti nella quinta cornice, si offre la vista degli avari (e dei prodighi, di cui, come detto, non si fa però cenno) che, stesi bocconi, legati mani e piedi, recitano la prima parte di un versetto dei Salmi (CXIX 25): Adhaesit pavimento anima mea (v. 73).23 Se tale segmento è appropriato alla purgazione degli avari, il successivo (vivifica me secundum verbum tuum), benché non pronunciato, manifesta l’aspirazione a essere in tutto degni della Grazia. Alla richiesta di informazioni circa la via più breve per la salita, formulata da Virgilio, risponde l’ombra di Adriano V, che attira l’attenzione di Dante (vv. 79-84): «Se voi venite dal giacer sicuri, e volete trovar la via più tosto, le vostre destre sien sempre di fori». Così pregò ’l poeta, e sì risposto poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io nel parlare avvisai l’altro nascosto […].
L’esortazione del v. 81 è per lo più intesa sul piano letterale, come conferma cioè del cammino purgatoriale, che obbliga a procedere muovendo sempre verso destra. Tra i primi commentatori, Benvenuto annette tuttavia alle parole anche un significato morale: «moraliter loquendo, non teneatis manus subtus, sicut nos fecimus, non porrigendo pauperi proximo» (508).24 L’indicazione è, come spesso, assai acuta, ma qualche dubbio in merito alla sua effettiva pertinenza resta. Perché, a norma di grammatica, nel passo in questione delle due l’una: o la congiunzione introduce proposizione di valore ipotetico, o la marca di valore asseverativo (“se è vero, come è vero”, “dal momento che”; 23 E. PARATORE, “voce” Persio, in Enciclopedia dantesca, cit., IV pp. 434-35, segnala, accanto alla citazione biblica, il possibile ricordo di PERSIO, Saturae, II 61: «o curvae in terris animae et caelestium inanis» (la coesistenza potrebbe estendersi anche ai vv. 118-19; cfr. infra); cfr. anche C. CHIERICHINI, La III ‘Satira’ di Persio ‘fra le righe’ di ‘Inferno’ XXVI, in «L’Alighieri», a. XXXIX, n.s. 11, gennaio-giugno 1998, pp. 95-103 (part. p. 191). Andrà anche ricordato quanto (e sempre con riflesso sui successivi vv. 118-19), sullo stesso tema, dice S. AGOSTINO, De civitate Dei, XXII 24 4: «Non enim ut animalia rationis expertia prona esse videmus in terram, ita creatus est homo; sed erecta in caelum corporis forma admonet eum quae sursum sunt sapere». 24 La chiosa di Benvenuto (generalmente ignorata dai moderni commenti: Scartazzini-Vandelli, Casini-Barbi, Momigliano, Singleton, Pasquini-Quaglio, Chiavacci Leonardi, Bosco-Reggio, ecc.) è stata recentemente ripresa, e fatta propria, da MURESU, Il richiamo, ecc., cit., p. 127.
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analogamente nella richiesta di Guinizzelli a Dante, Purg., XXVI 127; e nelle asserzioni di Dante, Par., XIX 28-29, e Beatrice, Par., XXIV 4-5).25 In entrambi i casi la raccomandazione dell’anima purgante sarebbe, se le si vuole attribuire il senso di un ammonimento morale, non del tutto a proposito, tanto più in considerazione dell’economia verbale cui sono costrette le anime del Purgatorio, impegnate senza sosta nell’espiazione (e se esiste un campione rappresentativo in merito, questi è proprio Adriano V, come accusato dall’attacco del canto successivo: «Contra miglior voler voler mal pugna»): perché l’ipotetica della possibilità formula una premessa che, se considerata come giusta, fa sì che i due poeti di quella raccomandazione non abbiano bisogno; meno ancora ne hanno se chi si rivolge loro è già perfettamente convinto che Dante e Virgilio non si sono macchiati di quel peccato. Potrebbe esistere, sul piano puramente teorico, un’ultima possibilità: che l’esortazione di Adriano V si riferisca a una condotta da continuare a tenere, per quanto concerne il peccato di avarizia, immacolata nel futuro. Ma tale evenienza è da scartare, alla luce della premessa («Se voi venite», ecc.), che introduce una circoscrizione temporale legata al momento dell’incontro, quale che sia il valore che le si vuole attribuire. Tanto più se, come pure si è pensato, l’indicazione viene interpretata come rivolta ad anime che hanno terminato il cammino di espiazione («hoc dicit, quia Virgilius dixerat quod volebant ascendere, ex quo comprehendebat quod erant sine poena […]; vel quia imaginabatur quod fuissent in eadem poena, sed soluti et purgati»; Benvenuto, 508): caso in cui essa non ha motivazione alcuna. Il v. 84, per il suo costrutto ellittico, risulta tutt’altro che perspicuo, e ha dato adito a due possibili letture: 1) “individuai, dal suono delle parole, da quale delle anime, il cui viso rimaneva celato, esse provenissero”; 2) “nelle sue parole intuii qualcosa d’altro, che rimaneva inespresso” (l’altro potrebbe riferirsi al dubbio se Dante fosse ancora vivo, o al desiderio di conoscere chi fosse a parlare, o per quale ragione i due poeti erano dal giacer sicuri). La prima interpretazione risulta oggi nettamente maggioritaria (pur se resta sempre in debito rispetto alla inestricabile concisione sintattica del verso), anche alla luce dei successivi vv. 89-90 («trassimi sovra quella creatura / le cui parole pria notar mi fenno»). Ma anche alla seconda non sono mancati avalli importanti.26 25 26
In questo senso la intende MURESU, Il richiamo, ecc., cit., p. 126. Per la prima ipotesi si schierano, tra gli esegeti e i commenti moderni: Barbi (Pro-
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Alle domande di Dante al penitente (chi egli sia, il perché di quella espiazione, se egli desideri ottenere da lui qualcosa), Adriano V risponde esaurientemente, nello stesso ordine in cui vengono poste, in tre blocchi (vv. 97-114; 115-26; 142-45). Ma occorrono prima alcune messe a punto. Non so, innanzi tutto, come si possa pensare, anche solo in relazione ai vv. 97-99 (che suonano desolatamente plumbei nel contrasto tra la condizione attuale e il prestigio sommo della carica occupata in terra), all’«effetto di una solenne canzonatura».27 Meno ancora riesco a capire come si possa pensare che la chiave di lettura dell’episodio debba essere meramente politica.28 In base a tale ottica la «conversione» (v. 106) andrebbe interpretata come cenno al passaggio dalla posizione antisveva e filoangioina di Ottobuono Fieschi al nuovo indirizzo filoimperiale, assunto in occasione dell’elezione a pontefice. Ma nella lettera della rievocazione di Adriano V nulla autorizza ad assumere simile prospettiva. In primo piano balza inequivocabilmente il pentimento non tanto per l’avarizia, quanto per lo specifico volto che essa assume nell’esito estremo della cupidigia di onori. Non può essere altrimenti interpretata la violenta apostrofe scagliata da Dante all’inizio del canto seguente, dopo la conclusione dell’incontro con Adriano V («Maladetta sie tu, antica lupa, / che più che tutte l’altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa»; XX 10-12): versi che rimandano, con evidenza figurale inconcussa, a Inf., I 49-60, 97-99 (mentre l’altre bestie sarà allusione a differenti vizî, compresi quelli ivi simboleggiati dalla lonza e dal leone). Giusta la codificazione paolina, la cupidigia è radice di ogni male: «Nam qui volunt divites fieri incidunt in temptationem et laqueum, et desideria multa inutilia et nociva, quae mergunt homines in interitum et perblemi, ecc., cit., I p. 228); Scartazzini-Vandelli, Casini-Barbi, Bosco-Reggio, PasquiniQuaglio, Chiavacci Leonardi; per la seconda, tra gli altri, Buti e Landino. Benvenuto («Vult dicere quod ex verbis perpendit de alio spiritu jacente, ita quod loquela erat quasi latens»; 508) sembra pensare a un’anima diversa da quella di Adriano V. 27 L’espressione è di E.G. PARODI, Il comico nella «Divina Commedia» [1909], in ID., Poesia e Storia nella “Divina Commedia”, cit., pp. 71-134 (a p. 115). Per parte sua PAPARELLI, Adriano V e gli avari del Purgatorio, in ID., Ideologia e poesia, ecc., cit., pp. 225-42 (part. pp. 226-29), calca indebitamente la mano, estendendo quello che in Parodi è giudizio veloce a chiave interpretativa dell’episodio del papa penitente, il tono delle cui parole è ritenuto «un po’ beffardo» (p. 226), ironico e autoironico (!?). 28 Così pensano a es. PAPARELLI, Adriano V, ecc., cit., pp. 235-38, e PADOAN, Nelle cornici, ecc., cit., pp. 89-99, il quale arriva a sostenere che «non è che con questi episodi [quelli di Adriano V e di Ugo Capeto] il poeta voglia approfondire il discorso sull’avarizia, e neppure sull’avarizia come vizio capitale degli ecclesiastici. Dante immagina l’incontro con un papa e con un re di Francia per intessere un sostanziale j’accuse contro la corruzione della Chiesa e il suo asservimento alla Francia» (ivi, p. 89).
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ditionem. Radix enim omnium malorum est cupiditas, quam quidam appetentes erraverunt a fide et inseruerunt se doloribus multis» ( I ad Tim., VI 9-10);29 Ugo Capeto, anch’egli affetto da cupidigia, farà ricorso alla stessa immagine presentandosi a Dante («Io fui radice de la mala pianta»; Purg., XX 43). Nient’altro dunque sembra potersi inferire, dalla narrazione di Adriano V, se non la consapevolezza della gravità del proprio peccato, e una percezione lacerante della vanità delle ambizioni terrene. Il che già traspare dalle parole con cui il personaggio si presenta a Dante (vv. 97-99): […] Perché i nostri diretri rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima scias quod ego fui successor Petri.
Nelle quali, davvero lungi da ogni canzonatura, a emergere è l’avvilente contrappasso per analogia (rimarcato dalla rima diretri : Petri) cui la giustizia divina obbliga chi ricoprì la somma carica ecclesiastica. Poiché a dominare è tuttavia, giusta la funzione espiante operata dalla pena, la percezione della vanità degli onori, sarà forse lecito rintracciare anche nella formula latina un controcanto lancinante alla vanità di ogni lusinga attuata dal potere: in altre parole l’ego fui, per quanto inevitabile nell’anagrafe oltremondana dei primi due regni (solo il Paradiso manifesta assenza di frizione tra condizione in vita e stato delle anime, sottratto al flusso temporale non meno che alla dimensione spaziale) costituisce un richiamo alla finitezza irredimibile di ogni desiderio, che non potrebbe suonare più definitivo ripudio nei confronti dell’attrattiva esercitata dai beni terreni, da Dante pericolosamente sperimentata nell’ingannevole canto della sirena («ego fui» risponde perciò a distanza a «Io son» […] «io son dolce serena»). Sperimentata con esito salvifico dal poeta, ma come colpa da espiare dall’ombra del pontefice, che da quella seduzione è stato allettato. Un filo rosso lega un verbo di pertinenza equorea come “mergere” (v. 120), arditamente traslato a raffigurare la condizione di chi giace col volto a terra, al canto della sirena «che ’ marinari in mezzo mar dismaga». Si aggiunga che il latinismo «merse» sarà da ricondurre ancora al passo citato di s. Paolo, I Ad Tim, VI 9: «desideria multa inutilia et nociva […] mergunt homines in interitum et perditionem». 29
Cfr. MURESU, Il richiamo, ecc., cit., pp. 118-19 (che anche rileva il ricorrere di lessico e immagini dal passo paolino nella condizione degli avari).
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La scoperta della «vita bugiarda» (v. 108), conseguente all’elezione a pontefice, è perciò all’origine della «conversione» (v. 106) di Adriano V: conversione da intendersi come una vera e propria «mutatio vitae», all’origine del nuovo corso impresso dal personaggio allo scadere della propria esistenza, in concomitanza col brevissimo (38 giorni) pontificato. Non si intende veramente quale appiglio il discorso del penitente possa offrire a una interpretazione politica della sua vicenda terrena. Tanto più che, dalla considerazione di quanto «pesi il gran manto a chi dal fango il guarda» (v. 104), alla denuncia della propria conversione tardiva, la ricostruzione della propria vita è segnata da costante pungolo di autoumiliazione, esercitata verso la carica ricoperta (non, perciò, verso l’uso fattone):30 echi e citazioni neotestamentarî addensati nell’invito a Dante a rialzarsi (vv. 133-38), suonano condanna definitiva della propria brama di onori.31 Svanita ogni dignità terrena, egli è, come con Dante «conservo […] / […] con li altri ad una podestate» (Apoc., XIX 10); e il Neque nubent (Matth., XXII 29-30) ricorda, a se stesso prima che al viator, che egli non è più sposo della Chiesa. Dopo aver soddisfatto alle prime due domande di Dante, l’ombra del pontefice risponde anche all’offerta del poeta di ottenergli qualcosa dal mondo dei viventi (vv. 95-96). Nel ricordo della nipote Alagia, figlia di Niccolò, fratello del pontefice, e moglie di Moroello Malaspina, sollecito ospite di Dante durante il suo soggiorno in Lunigiana del 1307, si chiude il canto. Sta di fatto che, se in pochi versi Dante paga il debito di gratitudine nei confronti della nipote del pontefice, le parole di quest’ultimo manifestano, con l’inalterata ansia che le incide, il timore che anche colei che può intercedere per lui possa essere sviata dalla corruzione.32
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SINGLETON, commento cit., pp. 462-63, con riferimento ai vv. 115-16 («Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara / in purgazion de l’anime converse»), chiosa (forse stavolta con eccesso di sottigliezza, che il testo non pare autorizzare): «There is irony in the contrapasso. Adrian was “converted” late, i.e., it was late when he turned to God. He now must lie turned away (“converted”) from God, as must the other souls who lie face down» (corsivi nel testo). 31 SINGLETON, ivi, pp. 464-65, mette giustamente in contrasto l’invito rivolto a Dante coll’atteggiamento di quest’ultimo, che non si inginocchia di fronte al simoniaco papa Niccolò III (Inf., XIX 49-51), e ricorda l’analoga esortazione di Pietro ad alzarsi, rivolta al centurione Cornelio, che gli si era gettato ai piedi per adorarlo (Actus apost., X 25-26). 32 A ciò accenna Benvenuto: «Et vide, quod iste sacerdos loquitur honeste et caute: dicit enim quod neptis est bona, nisi imitetur exemplum aliarum de domo sua. Per hoc enim dat intelligi caute, quod mulieres illorum de Flisco fuerunt nobiles meretrices» (p. 517).
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APPUNTI SU PETRARCA E LA MUSICA
Il titolo di questo intervento, pur incardinato su Petrarca, lascia una qualche libertà di scelta non tanto in merito al suo effettivo fulcro (almeno in linea di principio, l’indagine non può che contemplare entrambe le direttrici), ma in ordine alle priorità da dare alla trattazione. Sembra lecito, non tanto in ragione di fatti di primogenitura, ma data l’oggettiva sproporzione tra l’uno (il poeta) e i molti (la sterminata e ininterrotta catena di intonazioni petrarchesche), muovere innanzi tutto dal primo, dalla sua disposizione in merito all’oggetto specifico. Già relativamente tiepido nei confronti delle arti figurative, Petrarca sembra esserlo ancor più, con punte elevate di ambiguità, se non addirittura di elusività, in relazione alla musica. Ammesso, e parzialmente concesso, che il panorama offra, sul versante d’autore, una certa povertà di spunti, restano comunque sempre da chiarire motivazioni e specifiche contingenze, infine ascendenze, di quella povertà. S’intende che qui non siano in questione competenze, che non possono che essere diversificate, e neppure interessi individuali, che legittimamente sussistono a diversi livelli d’attenzione: ma gerarchie in ordine agli specifici linguaggi, e disponibilità al confronto con essi. Quanto alle prime, le arti figurative, non basta un Simone Martini (cui è dovuta, come si sa, la miniatura sul frontespizio del Virgilio Ambrosiano, e sul cui ritratto di Laura riferiscono due sonetti contigui del Canzoniere: LXXVII e LXXVIII), o il possesso di una Madonna giottesca, a far supporre una effettiva percezione di pari dignità.1 Per 1 Muove da un noto pronunciamento negativo di Longhi, ma accresce poi la casistica, e discute da par suo le testimonianze, G. CONTINI, Petrarca e le arti figurative, in F. Petrarca Citizen of the World, Proceedings of the World Petrarch Congress, Washington, D.C., April 6-13, 1974, Edited by A.S. BERNARDO, Padova-Albany, Antenore-State University of New York Press, 1980, pp. 115-31. Sulla questione si
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
ciò che attiene alla seconda, la musica, tanto meno pare sufficiente la consuetudine con l’amico più saldo, Socrate, vale a dire Ludwig van Kempen, musico presso la “famiglia” avignonese del cardinale Giovanni Colonna, a garantire attenzione in quel settore. Casi clamorosi di ironia della storia, se si riflette alla immensa fortuna figurativa di Petrarca, e ai fiumi di musica scaturiti dai suoi versi. Prova ne siano, del resto, i Triumphi: nelle tre sezioni del Triumphus Fame sono assenti tanto i rappresentanti delle arti figurative quanto, a maggior ragione verrebbe da dire, quelli della musica. Anche per tali fatti la disposizione di Petrarca si mostra lontanissima dall’ampio e generoso canone dantesco (almeno quello della Commedia). Si ricordino, a non dir altro, e tralasciando le prese di posizione in relazione al fatto poetico ravvisabili, ma è solo un esempio, in Purg., XXIV e XXVI, gli interessi danteschi manifesti negli incontri con Casella (Purg., II; ma la musica, nella forma del canto tanto corale quanto individuale, è presenza ricorrente nelle ultime due cantiche), Oderisi (Purg., XI; con rassegna che stila un canone d’eccellenza toccante miniatura, pittura, poesia);2 a non dire della riflessione sulla natura mimetica dell’arte è accumulata una consistente bibliografia, di cui fornisco solo alcuni estremi significativi, rimandando a essi per l’indicazione dei contributi pregressi: M. BAXANDALL, Giotto and the Orators. Humanist Observers of Painting in Italy and the Discovery of Pictorial Composition, 1350-1450, Oxford, Clarendon Press, 1971, pp. 51-66 (trad. it.: Giotto e gli umanisti. Gli umanisti osservatori della pittura in Italia e la scoperta della composizione pittorica, 1350-1450, Milano, Jaca Book, 1994, pp. 77-108); M. BETTINI, F. Petrarca sulle arti figurative. Tra Plinio e s. Agostino [1984], s.i.l. [ma Livorno], Sillabe, 2002 (entrambi convergenti sulla pur contrastata convenzionalità dei giudizî petrarcheschi in materia); M. CICCUTO, Figure di Petrarca. Giotto, S. Martini, Franco bolognese, Napoli, Federico & Ardia, 1991; ID., Petrarca e le arti: l’occhio della mente fra i segni del mondo, in «Quaderns d’Italià», 11, 2006, pp. 203-21 (pur non alterando il quadro, sposta l’attenzione sul Petrarca bibliofilo, possessore di codici di pregio assoluto, a cominciare appunto dal Virgilio Ambrosiano). Il contributo più circostanziato e ampio in materia, anche per le importanti allegazioni testuali, si deve a M.M. DONATO, “Veteres” e “novi”, “externi” e “nostri”. Gli artisti di Petrarca: per una rilettura, in Medioevo: immagine e racconto, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Parma, 27-30 settembre 2000, a cura di A.C. QUINTAVALLE, Milano, Electa, 2003, pp. 433-55 (resta che anche una studiosa così disposta a fornire credenziali positive sul soggetto deve riconoscere, in esso, «l’idea della superiorità espressiva della parola rispetto alla figura»; ivi, p. 446). 2 Per la musica, cfr. anche Convivio, II 13 20-24, dove si afferma (par. 24) che «la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve lo suono» (ed. a cura di F. BRAMBILLA AGENO, 2 voll. in 3 to., Firenze, Le Lettere, 1995, II p. 128); con parole che richiamano da vicino l’effetto prodotto sugli ascoltatori dal canto di Casella (Purg., II 115-17) sul testo della canzone che apre il terzo trattato dell’opera (non posso qui ripercorrere i problemi specifici, filosofici e dottrinarî, che l’episodio solleva all’inter-
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APPUNTI SU PETRARCA E LA MUSICA
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affidata alla descrizione dei rilievi di Purg., X. Il punto è importante, perché le escursioni segnalate non compaiono in testi che abbiano di mira una qualche sistemazione storico-descrittiva dei fenomeni o offrano spunti di carattere magari militante (come accade nel De vulgari eloquentia), dove la loro presenza si giustifica facilmente, ma nel corpo del poema: sono insomma non si dice esplicitazione teorica, ma rassegna critica che con esso poema fanno blocco. Va bene che simili prese di posizione non sono in alcun modo pensabili in una tipologia testuale quale quella del Canzoniere: ma per i Triumphi il discorso è affatto diverso, e testimonia a sfavore. Poiché le considerazioni esposte valgono anche al di fuori del confine selezionatissimo del Petrarca lirico, se ne dovrà dedurre che ci si trova di fronte a un’altra manifestazione non solo della natura antisperimentale del poeta, ma della sua riluttanza, ancora in contrasto con quanto accade in Dante, a formulazioni e prese di posizione teoriche (per entrambi i fatti sono ancora decisive le osservazioni di Contini).3 Per i rispetti indicati non solo Dante, ma anche Boccaccio, soprattutto in relazione agli interessi figurativi (quand’anche non debbano essergli attribuiti, come credo non debbano essergli, i monocromi del Par. ital. 482), appare decisamente più avanzato. Senza tralasciare il fatto che al potere rapinoso della musica sono dedicati squarci memorabili del Decameron: l’improvviso desiderio della sua donna riacceso in Tedaldo dall’ascolto del canto sul testo di una canzone da lui composta (III 7 8); la dolcezza indotta dal canto delle due figlie di Neri degli Uberti in re Carlo (X 6 22); l’intonazione, e la successiva mirabile prestazione, eseguite da Minuccio sulla ballata del supposto Mico da Siena, dietro il quale pare ormai accertato si celi Boccaccio stesso (X 7 23-25). Se è permesso il salto, verrebbe da dire che, fatti di storia del gusto a parte, nulla veramente separi le reazioni descritte da Dante e Boccaccio da alcuni memorabili pronunciamenti di Tolstoj, i cui referti musicali non sono peraltro tutti immacolati, sull’effetto di decentramento dall’io prodotto dall’ascolto musicale. Del resto non suonerà troppo paradossale che le pagine più acute sul potere della no della Commedia). Per una trattazione di massima cfr. R. MONTEROSSO, Musica, in Enciclopedia dantesca, cit., III pp. 1061-65; cui si aggiunga ora F. CIABATTONI, Dante’s Journey to Polyphony, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 2010, con escussione di importanti testimonianze, che suggeriscono come Dante, se non della musica polifonica derivante da fonti scritte, possa aver avuto diretta esperienza della prassi polifonica coeva. 3 Cfr. G. CONTINI, Preliminari sulla lingua del Petrarca [1951], in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-92.
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musica siano state scritte proprio da chi, oltre ad avvertirne il richiamo, ne sente il rischio debilitante: ciò che si verifica in Mann, più incisivo e potente se tocca tale ultimo tasto di quanto non gli accada quando analizza testi ed esecuzioni musicali (ne sono esempio i Buddenbrook contro il Doktor Faustus, e il dislivello si ripropone inalterato all’interno del secondo). Poiché nella schiera appena indicata va notoriamente inserito, su presupposti affatto diversi, anche una figura di alta sensibilità musicale (particolarmente, teste il De musica, in relazione alla componente ritmica) quale Agostino, come esposto in dettaglio più oltre, le motivazioni dell’atteggiamento ambivalente di Petrarca trovano la loro plausibile genealogia. Tornando al punto: per quanto attiene al riconoscimento della pari dignità dei diversi ambiti, discorso non troppo dissimile da quello riguardante Dante e Boccaccio, ma scalando il valore degli esiti, si potrebbe fare, e proprio in relazione alla musica, per un rimatore pur attardato e contaminatore come Nicolò de’ Rossi, appartenente a una generazione poetica intermedia tra Dante e Petrarca: conoscenze o interessi musicali saranno in lui certo «infarinatura».4 Ma intanto due sonetti, i nn. 307 (Io vidi ombre e vivi al parangone) e 324 (En la citade del senno, Bologna), mostrano attenzione specifica al fatto musicale, ed esibiscono un canone di importanza almeno testimoniale.5 Andrà tenuto presente che, nel primo, la citazione di Casella (v. 3) non obbliga a dare per certa la conoscenza del citato episodio del Purgatorio (tanto più che nel sonetto si fa menzione di altri musicisti, non tutti noti a Dante), sulla cui conoscenza integrale da parte di de’ Rossi, al contrario di quanto accade per l’Inferno, è necessario essere cauti (e ancor più verso il Paradiso).6 Si potrà anche supporre che a un’esposizione così compiaciuta abbiano concorso le amicizie contratte da Nicolò durante gli anni di studio di legge all’Università di Bologna, e aggiungere che in fin dei conti la sua non è che una lista di nomi, che non postula interesse specifico alla musica.7 Ma a rivestire significato è qui il riconoscimento di eccellenza e specificità conferito a un linguaggio artistico diverso dal proprio. Si può e si 4 Cfr. N. PIRROTTA, Due sonetti musicali del secolo XIV [1958-1961], in ID., Musica tra Medioevo e Rinascimento, Torino, Einaudi, 1984, pp. 52-62 (part. p. 60). 5 I due sonetti in F. BRUGNOLO, Il canzoniere di Nicolò de’ Rossi, 2 voll., Padova, Antenore, 1974-1977, I, pp. 176, 184. 6 Cfr. BRUGNOLO, op. cit., II pp. 95-119 (part. pp. 112-19); e, per alcune proposte di identificazione, M. SALEM ELSHEIKH, I musicisti di Dante (Casella, Lippo, Scochetto) in N. de’ Rossi, in «Studi danteschi», XLVIII 1971, pp. 153-66. 7 Cfr. PIRROTTA, Due sonetti, cit., pp. 52-53.
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deve obiettare che una simile apertura non è compatibile col rigore selettivo dell’umanesimo petrarchesco: e che la supposta attenzione di de’ Rossi non è che una variante provvidenzialmente positiva della sua arretratezza in termini di cultura poetica. Vero, ma nel principio di selezione sta appunto il nodo, e prenderne positivamente consapevolezza non deve esimere dal fare negativamente i conti con esso, e con l’arretratezza in materia che ancora caratterizza (precisamente tramite il lascito umanistico) la nostra cultura. Si potrebbero certo allegare testimonianze in contrario, a partire da quelle di Boccaccio, Filippo Villani, Paolo Cortesi, impegnati a tramandare il ritratto di un poeta sensibile al linguaggio musicale, e sufficientemente versato in esso da accompagnarsi col liuto mentre canta i proprî versi.8 Come giustamente rimarca Pirrotta, è tuttavia assente in genere nella civiltà umanistica (e a fortiori in Petrarca), la consapevolezza dell’eccellenza raggiunta da singoli musicisti, e prevale per contro l’attenzione a fatti di gusto e tipi di consumo musicale.9 Argomenti in contrario, per la verità, possono essere rintracciati in Petrarca stesso, a cominciare da passi della produzione latina. Ma inevitabilmente si viene da quelli risospinti, quando si analizzino i pronunciamenti relativi ad altri sistemi espressivi, a una valutazione di essi ausiliaria o vicaria, comunque in sottordine, rispetto a istituti, o a esperienze (a cominciare, s’intende, da quelle del poeta lirico), ritenuti ben altrimenti rappresentativi.10 Tra le Epystole metrice, a esempio, una 8 «In musicalibus vero, prout in fidicinibus et cantilenis, et nondum hominum tantum sed eciam avium, delectatus ita ut ipsemet se bene gerat et gesserit in utrisque» (G. BOCCACCIO, De vita et moribus Domini Francisci Petracchi […], 25, a cura di R. FABBRI, in Tutte le opere di G. Boccaccio, a cura di V. BRANCA, V 1, Milano, Mondadori, 1992, p. 908); «Doctus insuper lira mire cecinit, unde labores studii modeste levabat» (De vita et moribus Francisci Petrarce […], B II iii 44, in PH. VILLANI De origine civitatis Florentie et de eiusdem famosis civibus, edidit G. TANTURLI, Patavii, in Aedibus Antenoreis, 1997, p. 367); «At vero carminum modi hi numerari solent qui maxime octasticorum aut trinariorum ratione constant: quod quidem genus primus apud nostros Franciscus Petrarcha instituisse dicitur, qui edita carmina caneret ad lembum» (P. CORTESII De cardinalatu, in Castro Cortesio, Symeon Nicolai Nardi senensis alias Rufus calcographus imprimebat, 1510, c. LXXIIIIr; numerazione erronea, in realtà LXXXIXr). 9 Cfr. N. PIRROTTA, Musica e orientamenti culturali nell’Italia del Quattrocento [1966], in ID., Musica tra Medioevo e Rinascimento, cit., pp. 213-49, part. pp. 228-31 (ivi, p. 240, il passo cortesiano cit.). 10 In ciò Petrarca porta a compimento la tendenza alla divisione del lavoro tra poeta e musico, che è già della lirica delle nostre origini (contro la compresenza delle due figure nei trovatori provenzali): cfr. A. RONCAGLIA, Sul «divorzio tra musica e poesia» nel Duecento italiano, in L’Ars nova italiana del Trecento, IV, Atti del 3° Congresso internaz. sul tema «La musica al tempo del Boccaccio e i suoi rapporti con la lette-
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(I 8) diretta a Lelio (Lello di Piero di Stefano, l’amico più stretto della giovinezza), è tutta intessuta di rimandi al fascino del canto, a metà tra potere lenitivo e pericolosamente evocativo delle ferite d’amore, così da vertere sulla soggettività della frustrazione amorosa pronta a riscattarsi in esercizio poetico: […] Illic regina canentum Phebeium Philomela canit; sed parva volucris gutture mellifluo superat, quam sepe per umbram dum sequor aeria latitantem fronde notavi. Mira avis effigies, verum sibi reddere nomen nescio; tu lecta fortassis imagine reddes: nigra caput, sed glauca latus, sub palmite gaudens ludere pampineo: non maior corporis usquam spiritus exigui et mulcere potentior aures. Hec michi dum tepidam assidue sub corde favillam singula concutiunt, incendia nota pavesco. […] Quid loquar aut viridi riparum in gramine molles accubitus teneroque leves in gramine somnos? quid strepitum fugientis aque flexusque sonoros, carmina quid dulcesque modos, quos nocte serena, quos oriente die vel quos moriente decora concinit angelico trans rivum murmure Nimpha ethereos motura deos iaculumque tonanti excussura Iovi rigidumque adamanta modestis effractura oculis, lesi quibus ampla potestas cordis inest taciteque faces et conscius ardor, unde iacit flammas et tinctas igne sagittas ille puer nostroque levis circumvolat orto?11 ratura» (Siena-Certaldo, 19-22 luglio 1975), Certaldo, Centro di Studi sull’Ars nova italiana del Trecento, 1978, pp. 365-97. Ma sul punto il panorama si è ora ampliato, precisandosi sulla base di diversi parametri; cfr. M.S. LANNUTTI, Poesia cantata, musica scritta. Generi e registri di ascendenza francese alle origini della lirica italiana (con una nuova edizione di RS 409), in Tracce di una tradizione sommersa. I primi testi lirici italiani tra poesia e musica, Atti del Seminario di studi, Cremona, 19 e 20 febbraio 2004, a cura di M.S. LANNUTTI e M. LOCANTO, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005, pp. 157-97 (cui si rimanda anche per la bibliografia sull’argomento). 11 Si legge in F. PETRARCA, Rime, Trionfi e Poesie latine, a cura di F. NERI, G. MARTELLOTTI, E. BIANCHI, N. SAPEGNO, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951, pp. 740, 742 (vv. 8-18; 38-49; «Ivi modula il suo canto divino l’usignolo, re di tutti i volanti; ma lo supera un uccellino, che io spesso, seguendolo con gli occhi sotto l’ombra, vidi celato tra aerie frondi. Mirabile ne è l’aspetto, ma io non so dargli un nome; tu forse potrai riconoscerlo da questa mia descrizione: ha il capo nero, grigi i fianchi, e gode saltellare sotto i tralci delle viti; non mai in corpo così piccolo fu voce così forte e più capace di dilettare le mie orecchie. Tutte queste cose smuovono nel mio cuore la cenere ancor calda, e io temo che l’incendio non divampi di nuovo. […] Che dirò dei
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Nella ventiduesima e ultima familiaris del terzo libro, indirizzata allo stesso Lelio, si elencano i mirabili effetti dell’eloquenza e della musica (Ad eundem [scil.: Lelium], de eloquentie memorandis effectibus ac musice et quod omne asperum animal blanditiis ac dulcedine mitigatur, recita appunto l’intestazione).12 Ma l’epistola, nel ricordare la vicenda del cantore Arione tratto in salvo da un delfino ammaliato dal suo canto (Ovidio, Fasti, II 83-118; Plinio, Naturalis historia, IX 28), fa della musice suavitas (par. 6) un esempio, o meglio una variante specifica, e si direbbe gerarchicamente inferiore, della verborum dulcedo, che è il vero fuoco del testo. Ancora: nella familiaris IX 13 Petrarca si rivolge a Philippe de Vitry (cui risale l’espressione ars nova, che è titolo, o parte di titolo, di un suo trattato), esortandolo a non considerare una sorta di esilio il viaggio in Italia del cardinale Guy de Boulogne, legato apostolico. Il mittente conosce, com’è ovvio, le competenze primarie del destinatario (la lettera è diretta infatti Ad Philippum de Vitriaco musicum), ma esse non rientrano in alcun modo nella lunga epistola: ciò sarà anche indotto dal tema di quella. Ma sta di fatto che, rivolgendoglisi, Petrarca lo appella «poeta nunc unicus Galliarum», non con termini che facciano supporre adeguata considerazione di altre, e anzi primarie, capacità.13 Credo il contesto permetta di escludere che il termine poeta sia, nel passo citato, sinonimo di artifex, e possa attagliarsi appunto al musicista: tanto più che poeta, anche se di lui ben poco ci è rimasto, Philippe è nella realtà. Semplicemente, la qualifica viene sentita come maggiormente prestigiosa, quasi che tra soprascritta della lettera e corpo di essa si verificasse una progressione scalare tra indicazione professionale e qualità intellettuale del destinatario (fatto che ha del resto una lunga storia, che sopravanza, e di molto, la fattispecie petrarchesca). Si consideri ancora che nella quarta egloga Petrarca inscena un dialogo tra i pastori Tyrrhenus (sotto il cui nome si cela lo stesso autore) e Gallus (cui corrisponde ancora
dolci riposi sulle verdi sponde dei rivi, e dei leggeri sonni sull’erba, e del mormorio delle acque fuggenti e dei gorghi sonori? che dei dolci carmi, che nella notte serena o al sorgere o al cader del giorno questa Ninfa mi canta di là dal rivo con angelici accenti? Tale è la sua potenza, da commuovere gli dei superni e far cadere di mano a Giove il suo fulmine, e spezzare il duro diamante con quei suoi occhi modesti, capaci di signoreggiare il mio cuore ferito. Da essi, pieni di un tacito lume e di un conscio ardore, trae quel fanciullo fiamme e infocate saette, e lieve svolazza nel mio orto»; la versione italiana dall’ed. cit., pp. 741, 743). 12 In F. PETRARCA, Le Familiari, ediz. critica per cura di V. ROSSI, 4 voll., Firenze, Sansoni, 1933-1942, I pp. 149-51. 13 PETRARCA, Le Familiari, ed. ROSSI cit., II pp. 246-56 (part. pp. 253, 256).
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Philippe). Così si descrive, in un «argomento» che Hortis giudicava autentico (oggi non è più ritenuto tale), il ruolo dei personaggi e il risultato della disputa:
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Collocutores gallus et tyrenus. Gallus fuit quidam proprio nomine dictus philippus in musica summus artifex a gallia gallus in hoc loco conominatus. Tyrenus a tyrenia, i. italia, ipse poeta est. Et disputant ipsi duo cur potius apud italicos quam apud gallicos ars poetica floruit concludens in hoc nos italicos esse felices.14
Malgrado la presenza di un interlocutore per molti versi affine, per altri diversamente attrezzato, il centro d’attenzione non muta. Salvo errore, nel rapporto tra i due, che pure sappiamo intenso e nutrito di stima anche da parte di Petrarca, attenzione vera alle capacità musicali di Philippe de Vitry non compare mai. Due ragioni sono state indicate come responsabili di tale trascuratezza: l’inosservanza della prosodia ostentata dall’Ars nova francese, atteggiamento certo sgradito al poeta (su questo punto, come non competente del fenomeno musicale chiamato in causa, non posso pronunciarmi); il senso di inadeguatezza sentito da Petrarca nei confronti di chi possiede conoscenze musicali imparagonabili con le sue.15 Da questa seconda osservazione mi permetto di dissentire. Ritengo più semplicemente che per Petrarca (teste, come segnalato, il Triumphus Fame) la musica occupi, nella gerarchia dei linguaggi espressivi, un gradino relativamente basso (e sia pure tale atteggiamento causato da insufficienza personale in merito): di sicuro più basso della poesia. È prevedibile e giusta obiezione che si tratti solo di pochi esempî. Ma sospetto che anche allargando lo spettro le cose non cambierebbero di molto. Si aggiunga che, benché la maggior parte dei testi addotti si inscriva nel genere epistolare, non per questo si può apparentarli senza discrimine: non solo perché le Metrice sono in versi, ma per-
14 Il brano in Scritti inediti di F. Petrarca, pubblicati ed illustrati da A. HORTIS, Trieste, Tipografia del Lloyd austro-ungarico, 1874, p. 361 (per il ruolo di Philippe nella quarta egloga cfr. ivi, pp. 244-46). L’apocrifia è dimostrata già in Il Bucolicum carmen e i suoi commenti inediti, edizione curata ed illustrata da A. AVENA, Padova, Società cooperativa tipografica, 1906, pp. 69-74. 15 Cfr. PH. MORANT, Pétrarque et Philippe de Vitry: une amitié pré-humaniste sur fond de relations franco-italiennes, in Dynamique d’une expansion culturelle. Pétrarque en Europe, XVe-XXe siècle, Actes du XXVIe congrès international du CEFI, Turin et Chambéry, 11-15 décembre 1995, Études réunies et publiées par P. BLANC, Paris, Champion, 2001, pp. 163-74 (part. p. 171): per difetto di informazione Morant (p. 167) considera ancora autentico l’«argomento» della quarta egloga.
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ché proprio tale veste formale determina spesso una dominante lirica, perciò stesso eminentemente soggettiva, sulla stessa sollecitazione comunicativa, esplicitamente primaria nella raccolta maggiore. Ciò nonostante, l’ordine dei fattori non sembra sostanzialmente passibile di alterazioni. È da ritenere che una attitudine così oscillante nei confronti del fatto musicale derivi a Petrarca, come anticipato, da Agostino, che sul punto indugia in una memorabile pagina delle Confessiones, là dove denuncia (X 33 50) la continua battaglia che in lui si verifica tra seduzione del canto e ragione del testo, mai risolta a livello individuale, placata solo da considerazioni di opportunità liturgica: Aliquando autem hanc ipsam fallaciam immoderatius cavens erro nimia severitate, sed valde interdum, ut melos omne cantilenarum suavium, quibus Davidicum psalterium frequentatur, ab auribus meis removeri velim atque ipsius ecclesiae, tutiusque mihi videtur quod de Alexandrino episcopo Athanasio saepe mihi dictum commemini, qui tam modico flexu vocis faciebat sonare lectorem psalmi, ut pronuntianti vicinior esset quam canenti. Verum tamen cum reminiscor lacrimas meas, quas fudi ad cantus ecclesiae in primordiis recuperatae fidei meae, et nunc ipsum cum moveor non cantu, sed rebus quae cantantur, cum liquida voce et convenientissima modulatione cantantur, magnam instituti huius utilitatem rursus agnosco. […] Tamen cum mihi accidit ut me amplius cantus quam res, quae canitur, moveat, poenaliter me peccare confiteor et tunc mallem non audire cantantem.
Il passo è ben presente a Petrarca in una pagina del De remediis (De cantu et dulcedine a musica, I 23), dove infatti la Ratio oppone al Gaudium le posizioni di Atanasio e Ambrogio in materia di canto ecclesiastico: Nempe Athanasius vanitates fugitans, canendi usum in Ecclesiis interdixit. Ambrosius pietatis exercitium appetens, ut caneretur instituit. Augustinus utrunque se passum, et difficile hinc sibi negotium dubietatis exortum, inter confessiones suas pie meminit.16
16 F. PETRARCHAE [...] Opera quae extant omnia, Basileae, per Sebastianum Henricpetri, 1581, 4 to., I p. 22; per un’edizione moderna occorre rifarsi a PÉTRARQUE, Les remèdes aux deux fortunes-De remediis utriusque fortune 1354-1366, 2 voll., Grenoble, Millon, 2002 (I: Texte et traduction, Texte établi et traduit par CH. CARRAUD; II: Commentaires, notes et index, Préface de G. TOGNON, Introduction, notes et index par CH. CARRAUD). Superfluo ricordare i numerosi tratti in cui Agostino sottolinea il fascino su di lui esercitato dagli Inni di Ambrogio (ma cfr. soprattutto, oltre al passo cit., Confessiones, IX 7 15).
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Abbandonando ora la riva petrarchesca, e volgendosi alla seconda meta, la musica che ha per oggetto testi di Petrarca, mi limiterò a toccare, di fronte alla non abbracciabile ampiezza del fenomeno, il solo caso di Luca Marenzio, rappresentativo di una predilezione musicale per il poeta in epoca, l’ultimo quarto del Cinquecento, in cui lo spettro si amplia di molto, virando spesso verso la poesia coeva, che quell’esempio lirico declina in forme spesso centrifughe: e si sa come ciò determini una progressiva emarginazione dei testi petrarcheschi attuata dai madrigalisti.17 Si pensi, per tutti, a Monteverdi, e alle sue predilezioni, che divengono sempre più evidenti, per la poesia recente e recentissima, fino a includere nel Settimo libro de madrigali (ma nel 1619, oltre i confini ora considerati) lasciamo stare Marino e Chiabrera, ma Claudio Achillini, con un idillio, Se i languidi miei sguardi, la cui conoscenza da parte del musicista si deve supporre anteriore alla raccolta ufficiale del poeta (1632).18 Si sa come, nella conclusione del dialogo La Cavaletta overo de la poesia toscana, il Forestiero Napolitano, maschera dialogica di Tasso, si auguri un rinnovamento del linguaggio musicale: Dunque lasciarem da parte tutta quella musica la qual degenerando è divenuta molle ed effeminata, e pregheremo lo Striggio e Iacches e ’l Lucciasco e alcuno altro eccelente maestro di musica eccelente che voglia richiamarla a quella gravità da la quale traviando è spesso traboccata in parte di cui è più bello il tacere che ’l ragionare. E questo modo grave sarà simile a quello che Aristotele chiama [‰̂ÚÈÛÙ›], il quale è magnifico, costante e grave e sopra tutti gli altri accomodato a la cetera.19
Einstein e Pirrotta leggono il passo in modo differente: il primo ritiene che Tasso, accennando ad «alcuno altro eccelente maestro di
17 Cfr. L. BIANCONI, Il Cinquecento e il Seicento, in Letteratura italiana diretta da A. ASOR ROSA, VI, Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi, 1986, pp. 319-63 (per la sua immediata evidenza, part. il grafico di p. 330, da cui risulta che il picco massimo di intonazioni su testi petrarcheschi è raggiunto attorno al 1570, mentre la percentuale cala regolarmente a partire da quelle date, e irreversibilmente nel decennio 1590-1600). 18 Cfr. C. ACHILLINI, Poesie, a cura di A. COLOMBO, Parma, Università di Parma, 1991, LXXIX pp. 151-55; per l’inclusione del testo nel Settimo libro occorre pensare che Monteverdi conoscesse l’opuscolo stampato a Vicenza nel 1612, dove esso compare la prima volta (cfr. l’ed. cit., pp. 310-16). 19 T. TASSO, La Cavaletta overo de la poesia toscana, 180, in Dialoghi, ediz. critica a cura di E. RAIMONDI, 3 voll. in 4 to., Firenze, Sansoni, 1958, II 2 pp. 667-68. L’importanza del passo è stata segnalata primamente da L. RONGA, Tasso e Monteverdi [1945], in ID., Arte e gusto nella musica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, pp. 19-32.
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musica», abbia in mente proprio Marenzio; ciò che il secondo non ritiene verosimile.20 Ma la divergenza tocca un punto più sostanziale. Nella dedica del primo libro dei Madrigali a quattro, cinque e sei voci (1587) il compositore dichiara di avere mirato in essi al raggiungimento di una «mesta gravità». Parole che a Einstein paiono riecheggiare la dichiarazione tassiana richiamata; Pirrotta ritiene che i tempi sarebbero troppo stretti per far supporre la lettura del dialogo da parte di Marenzio (nove mesi separano la stampa della Cavaletta da quella dei Madrigali), e obietta che «resterebbe da spiegare come mai la sua [di Marenzio] insolita raccolta del 1587 non contenga un solo testo del poeta [Tasso] che l’avrebbe ispirata».21 Nessuna delle due riserve pare in realtà decisiva: per la prima i tempi, ravvicinati ma non certo impossibili, parlano da sé; per la seconda basta ricordare che il passo della Cavaletta rimanda a una teoria dello stile (ed è scontato che la degenerazione di cui parla Tasso sia effetto di una «dolcezza» non temperata dal ricorso alla «gravità») che è applicata sì alla musica, ma muove in realtà da fatti squisitamente poetici, secondo una linea che del resto non è del solo Tasso, benché egli ne sia rappresentante eccelso.22 I poeti chiamati a raccolta per chiarire le posizioni tassiane sono, con l’eccezione di Coppetta (presente solo come spunto polemico di partenza) e Della Casa, Dante e Petrarca (poche esemplificazioni toccano Cino, Cavalcanti, Bembo). Nessun testo tassiano, ovviamente, è presente. Se per la raccolta citata la pressione del modello stilistico indicato nel dialogo tassiano può anche rimanere sub judice, per l’ultima silloge di Marenzio, il Nono libro de madrigali a cinque voci, apparsa nel 1599, tre mesi prima della morte del compositore, credo che essa debba essere ammessa e anzi sostenuta, e la natura dell’influsso illustrata. Il Nono libro è composto da quattordici testi: Petrarca (con ben sette numeri), 20 Cfr. rispettivamente A. EINSTEIN, The Italian Madrigal [1949], 3 voll., Princeton, Princeton University Press, 1971, I pp. 219-21, II pp. 662-63; N. PIRROTTA, Note su Marenzio e il Tasso [1973], in ID., Scelte poetiche di musicisti. Teatro, poesia e musica da Willaert a Malipiero, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 63-79 (part. pp. 63-64). 21 PIRROTTA, Note su Marenzio, ecc., cit., p. 64. 22 Prova del rivestimento affatto letterario delle posizioni espresse nella Cavaletta è il sostanziale disinteresse di Tasso per i problemi compositivi del tempo: cfr. E. DURANTE-A. MARTELLOTTI, Tasso, Luzzaschi e il principe di Venosa, in Tasso, la musica, i musicisti, a cura di M.A. BALSANO e TH. WALKER, Firenze, Olschki, 1988, pp. 17-44. Sul versante letterario cfr. A. AFRIBO, Teoria e prassi della “gravitas” nel Cinquecento, Presentazione di P.V. MENGALDO, Firenze, Cesati, 2001 (importante anche per il rilievo conferito a Minturno quale significativo precedente della teoria tassiana della «gravità»: part. pp. 120-32).
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Dante (uno, ma quello d’apertura), Livio Celiano (cioè Angelo Grillo: uno),23 Antonio Ongaro (due), Battista Guarini (tre). Se si pensa che le due precedenti raccolte di Marenzio, il libro settimo (1595) e ottavo (1598), sono, rispettivamente, su testi in massima parte guariniani, e di Tasso e Celiano/Grillo, si misura l’intensità dello scarto.24 Intanto proprio l’ultimo nome citato permette una considerazione: il suo madrigale incluso nell’ultima raccolta di Marenzio viene stampato nel 1587 (Bergamo, Comin Ventura) nella silloge di Rime di diversi celebri poeti dell’età nostra. Il volume contiene, oltre a testi di Grillo, composizioni di Celiano (lo stesso Grillo), Tasso, Guarini (numerosi madrigali, tra cui il conclusivo del Nono libro, che compare però anche nell’edizione delle Rime guariniane del 1598, in cui sono inclusi per la prima volta gli altri due madrigali dell’ultimo libro marenziano), e alcuni poeti di minor grido, tra i quali, guarda caso, compaiono Orsina ed Ercole Cavalletti, i coniugi interlocutori, col Forestiero Napolitano, nel dialogo tassiano. Fatto da addebitare a pura coincidenza? Poiché l’antologia rimanda, lo ha mostrato convincentemente Giulia Raboni, a un contesto genovese, in cui Tasso è naturalmente la voce ospite di maggior spicco, ritengo che i nomi di Orsina ed Ercole rivestano in questo senso una certa importanza.25 Quanto alla forma metrica, i numeri si succedono in quest’ordine: stanza di canzone; stanza di sestina doppia (RVF, CCCXXXII, da cui derivano anche le seguenti);26 terza rima; stanza di sestina doppia (due brani consecutivi); sonetto; madrigale; tre sonetti consecutivi;27 due 23 Si tratta del madrigale Il vago, e bello Armillo (ma nel testo originale il nome è Eurillo), leggibile in DON A. GRILLO O.S.B. ALIAS L. CELIANO, Rime, a cura di E. DURANTE e A. MARTELLOTTI, Bari, Palomar, 1994, 76 p. 92; su Grillo/Celiano cfr., oltre a Trasformazioni poetiche, saggio introduttivo dei curatori all’ed. cit., il vol. degli stessi Don A. Grillo O.S.B. alias L. Celiano poeta per musica del secolo decimosesto, Firenze, S.P.E.S., 1989, part. pp. 14-31, 316 (per il testo del madrigale); e il relativo saggio-recensione di G. RABONI, Il madrigalista genovese L. Celiano e il benedettino A. Grillo. In margine a una recente monografia, in «Studi secenteschi», vol. XXXII 1991, pp. 137-88. 24 Cfr. F. MALHOMME, Réception de Pétrarque dans l’œuvre madrigalesque de L. Marenzio (1580-1599), in Dynamique d’une expansion culturelle. Pétrarque en Europe, ecc., cit., pp. 527-46 (part. pp. 529-30). 25 Per la caratterizzazione genovese dell’antologia cfr. RABONI, Il madrigalista genovese, ecc., cit., pp. 139-40. 26 Cfr. G. FRASCA, La furia della sintassi. La sestina in Italia, Napoli, Bibliopolis, 1992 (part. pp. 313-52, sulla fortuna di tale forma metrica dopo Petrarca); per la particolare predilezione marenziana per questo specifico testo petrarchesco cfr. oltre. 27 Sul primo di questo gruppo (RVF, XXXV) cfr. M. PRIVITERA, Malinconia e acedia. Intorno a “Solo e pensoso” di L. Marenzio, in «Studi musicali», XXIII 1994, pp. 29-71 (il quale ritiene plausibile che Marenzio declini la caratteristica atmosfera del Nono libro sulla scorta di altro dialogo tassiano, Il messaggiero: cfr. ivi, pp. 52-59).
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APPUNTI SU PETRARCA E LA MUSICA
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madrigali in sequenza; stanza di sestina doppia; madrigale. Ancor più fa riflettere la presenza di Dante, autore che vede nel Cinquecento, giusta la selezione bembiana, il momento della sua massima depressione, e le cui intonazioni nel secolo sono poco più che una dozzina, prevalentemente relative alla Commedia.28 Marenzio elegge insomma, a parte Celiano, Ongaro, Guarini, i due massimi trecentisti, il primo da tempo in ombra nel gusto poetico e scarsamente intonato, il secondo sempre vigorosamente presente nella prassi poetica (pur se sottoposto a declinazione “grave” per opera soprattutto di Della Casa e Tasso), ma proprio in quel torno d’anni vistosamente declinante nella predilezione dei musicisti. Mosse così controcorrente si giustificano proprio tenendo presente la Cavaletta, la quale, seguendo da presso il De vulgari eloquentia (da Tasso letto nel volgarizzamento trissiniano del 1529), ne assume il principio dell’eccellenza della canzone (con la prima stanza di Così nel mio parlar voglio esser aspro si inizia il Nono libro) sulla ballata e sul sonetto (l’ordine di prestigio di queste due ultime forme è invertito da Tasso, sulla scorta di Petrarca e di alcuni rimatori cinquecenteschi). E ancora, per ciò che concerne la poetica della gravitas: nel passo immediatamente successivo a quello su riportato, il Forestiero Napolitano così risponde a una precisazione di Orsina Cavaletta («[…] pur niuna cosa scompagnata da la dolcezza può essere dilettevole»): Io non biasimo la dolcezza e la soavità, ma ci vorrei il temperamento, perch’io stimo che la musica sia com’una de le altre arti pur nobili, ciascuna de le quali è seguita da un lusinghiero, simile ne l’apparenza, ma ne l’operazioni molto dissomigliante: e come l’arte de la cucina lusinga la medicina, il calunniatore a l’oratore, il sofista al filosofo, così la musica lasciva a la temperata.29
Al termine del dialogo, Tasso ripercorre il punto nodale della teoria stilistica bembiana, tesa al connubio paritario tra piacevolezza e gravità, facendo oscillare il pendolo, col richiamo al «temperamento», in direzione del secondo punto. Precisamente quanto avviene nel Nono libro, che vede, dopo la stanza di canzone d’esordio, forme metriche 28 Per tutto ciò cfr. P. FABBRI, Prefazione a L. MARENZIO, Il nono libro de madrigali a cinque voci (1599), a cura dello stesso, Milano, Edizioni Suvini Zerboni, 2000; ivi anche notizie sulle precedenti intonazioni marenziane di altre stanze della stessa sestina doppia petrarchesca, e sulle specifiche fonti a stampa utilizzate per i testi tardocinquecenteschi della raccolta (part. pp. IV-V). 29 TASSO, La Cavaletta, ecc., 181, ed. RAIMONDI cit., II 2 p. 668.
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
“alte” del canone classicista, per accogliere poi, a partire dal settimo testo, a metà della raccolta, una forma dal profilo metrico più aperto e libero come il madrigale nella sua veste cinquecentesca: quattro (appunto il settimo, l’undicesimo e il dodicesimo, il quattordicesimo e ultimo). Se si ricorda che il penultimo numero è costituito dalla seconda stanza della sestina petrarchesca (Crudele, acerba, inesorabil Morte), seguita dai toni leggeri e arguti del madrigale guariniano (La bella man vi stringo), si avrà idea di come il dosaggio accorto del «temperamento», oltre a estendersi sull’intera successione dei testi, includa anche il puntello reciproco dei singoli numeri.30 Ultima osservazione sulla raccolta, che tocca tanto fatti di intertestualità quanto la natura della «gravità» di Marenzio: si è visto come ben quattro numeri derivino dalla sestina doppia Mia benigna fortuna e ’l viver lieto (RVF, CCCXXXII). Il penultimo brano (Crudele, acerba, inesorabil Morte) registra, nell’ultimo verso (e ’l mio duro martir vince ogni stile), un richiamo tematico a Così nel mio parlar (vv. 20-21: e ’l peso che m’affonda / è tal che nol potrebbe adequar rima), il testo di apertura; analogamente, il terzo numero (Dura legge d’Amor, ma benché obliqua: Triumphus Cupidinis, III 148-59), reca traccia, ai vv. 154-56 (e so come in un punto si dilegua / e poi si sparge per le guance il sangue, / se paura o vergogna aven ch’el segua), della stessa canzone dantesca, vv. 45-47 (e ’l sangue ch’è per le vene disperso / correndo fugge verso / il cuor, che ’l chiama, ond’io rimango bianco).31 La sequenza dei testi mostra una volta di più la consapevolezza persino sofisticata dell’operazione attuata da Marenzio per il raggiungimento di una gravitas debitamente temperata (non entro qui nel merito della possibile, e a mio avviso più che verosimile, collaborazione di un letterato, non ancora dimo-
30 Sul penultimo brano petrarchesco cfr. S. LA VIA, «E ’l mio duro martir vince ogni stile». Marenzio e l’espressione musicale dell’inesprimibile petrarchesco, in Studi marenziani, a cura di I. FENLON e F. PIPERNO, Venezia, Fondazione Levi, 2003, pp. 201-39. La reiterata predilezione di Marenzio per RVF, CCCXXXII è analizzata in M. PRIVITERA, «Ond’io vo col penser cangiando stile». Marenzio e ‘Mia benigna fortuna’ di Petrarca, ivi, pp. 255-76. 31 Per i due passi petrarcheschi, e gli echi danteschi rilevabili, cfr. rispettivamente F. PETRARCA, Canzoniere, ediz. commentata a cura di M. SANTAGATA, nuova ed. aggiornata, Milano, Mondadori, 2004, pp. 1299-300; ID., Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di V. PACCA e L. PAOLINO, Introduzione di M. SANTAGATA, Milano, Mondadori, 1996, pp. 167-68. Per la coerenza letteraria delle due ultime raccolte marenziane (diverse tra loro, ma ognuna tramata su progetto individuabile) cfr. M. BIZZARINI, L’ultimo Marenzio: tipologie di committenza e di recezione, in Studi marenziani, cit., pp. 67-87.
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APPUNTI SU PETRARCA E LA MUSICA
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strata nei fatti).32 Né pare dubbio che la sua ultima raccolta proponga un programma “petroso” per il quale, sulla scorta del Dante di Così nel mio parlar e dello stesso Petrarca, Tasso, oltre i pronunciamenti critico-teorici, nello stesso esercizio poetico, si offra come mediatore per eccellenza.33 L’ambivalenza (quando non la diffidenza) nei confronti della musica, che sembra contrassegnare la cultura di Petrarca, non comporta, evidentemente, assenza di musicalità intrinseca, e a maggior ragione non osta a che Petrarca sia tra i poeti più musicabili, e più musicati, della nostra tradizione lirica, come una vicenda europea di secoli sta a dimostrare. Un italianista di raffinata e salda cultura musicale quale Mengaldo, recensendo in prima battuta l’edizione Santagata del Canzoniere, ha parlato del Petrarca lirico come di un artista della variazione, e lo ha accostato per questo a Schubert. Sul giudizio non si può che concordare, atteso che Petrarca lavora su uno spettro selezionato di temi, e solo la stupefacente capacità di variatio del poeta impedisce che l’iterazione generi sazietà: la variatio surroga insomma il sorvegliatissimo controllo della materia (sicché anche in ciò: sfruttamento di ogni risorsa di variatio in rapporto al tema/ricchezza e molteplicità tematica non pareggiate da oculata amministrazione della variatio, è da vedere un tassello della canonica contrapposizione Petrarca/Dante). E occorre appena ricordare che di tali capacità di variazione sono parti essenziali, sui versanti rispettivamente tematico e formale: il sofisticato riuso del repertorio amoroso; la continua propensione a intervenire sui dati della tradizione per ciò che concerne fatti metrici e ritmici.34 Si può aggiungere, a conferma, che quanto accomuna questi due artisti della variazione è anche la loro natura supremamente, e direi subli32 La notevole caratura letteraria dell’intera carriera madrigalistica di Marenzio è segnalata in BIANCONI, Il Cinquecento e il Seicento, cit., pp. 339-40; cfr. anche J. CHATER, Fonti poetiche per i madrigali di L. Marenzio, in «Rivista italiana di musicologia», XIII 1978, pp. 60-103, di cui è da condividere pienamente la conclusione, che distingue le scelte poetiche del musicista dalla casualità erratica delle opzioni di altri madrigalisti: «Che l’aspetto poetico e il musicale della personalità di Marenzio sono inseparabili è dimostrato dal fatto che ad ogni mutamento di stile musicale corrisponde un pari mutamento di indirizzo letterario. Nei libri tardi i testi poetici ricevono spesso un’impronta fortemente personale (alterazioni testuali, riferimenti musicali incrociati), tantoché la loro individua identità è subordinata all’organizzazione della raccolta di cui fan parte» (p. 83). 33 Cfr. D. GIBBONS, Tasso ‘petroso’: beyond Petrarchan and Dantean Metaphor in the ‘Gerusalemme Liberata’, in «Italian Studies», LV 2000, pp. 83-98: ringrazio Arnaldo Soldani per avermi segnalato questo articolo. 34 Cfr. i contributi raccolti in La metrica dei ‘Fragmenta’, a cura di M. PRALORAN, Roma-Padova, Antenore, 2003.
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memente, adialettica (né saprei dire se tale condizione sia corollario inevitabile della prima). Da nessuna parte sta scritto che un poeta, o un musicista, debbano nutrire propensione dialettica. Ma a ogni disposizione risponde una attitudine operativa, e ognuna ha il suo costo. Se per Schubert si potrà ricorrere alla formulazione impareggiabile di Adorno, che parla di cristallizzazione dei sogni infantili e della conseguente passione per l’immutabile; non meno vero sarà per Petrarca che il progetto a un certo punto contemplato, teso alla inedita fondazione di un romanzo lirico che saldi tesi morale e narrazione, viene lasciato cadere, sicché il testo torna poi sui suoi passi iniziali, a tracciare una storia esemplare dell’io.35
35
Cfr. M. SANTAGATA, I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, il Mulino, 2004 (nuova ed.), part. pp. 283-327.
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UN CICLO DI RITRATTI AFFRESCATI A CITTADELLA: APPUNTI SULLE FONTI LETTERARIE
Premetto che in questo saggio, come chiarito dal titolo, discuto solo del ciclo di ritratti (ma il termine, come si vedrà, vale stricto sensu per pochi casi; per gli altri userò designazioni neutre), femminili e maschili, di committenza malatestiana, databile con certezza, per fattori interni, a un periodo compreso tra il 1504 e il 1509. La prima data è quella dell’ingresso a Cittadella di Pandolfo Malatesta, spodestato dalla sua signoria di Rimini per opera del duca Valentino nel 1500, e accolto da Venezia, che subentra nel 1503 al dominio borgiano, nel territorio della Repubblica; la seconda quella dell’abbandono della città da parte dello stesso Pandolfo (ma sarà presumibile un completamento del ciclo non oltre la seconda metà del 1505). Non tratto della decorazione affrescata precedente, di committenza sanseveriniana; decorazione sì ampia e importante, ma priva, almeno nello stato in cui ci è giunta, per la sua fisionomia sostanzialmente ornamentale, di quei caratteri di continuità narrativa e coerenza iconografica che apparentano invece l’insieme qui indagato.1 Una chiara leggibilità del ciclo affrescato occupante il piano nobile del recentemente restaurato Palazzo Pretorio di Cittadella (tav. 1) è 1
Per una più compiuta informazione sull’insieme degli affreschi cfr. G. ERICANI, I cicli pittorici, in Palazzo Pretorio, a cura della stessa, Cittadella (Pd), Biblos, 2002, pp. 99-131 (ivi, p. 109, notizie sulla datazione del ciclo qui discusso). Non entro nel fatto attributivo, per il quale la studiosa, notata la possibile matrice ferrarese degli affreschi, dopo aver avanzato con cautela il nome del parmense Giovanni Francesco Maineri, seguace di Lorenzo Costa (ivi, pp. 119-22), propone ora quello di Bernardino Zaganelli (cfr. G. ERICANI, Per B. Zaganelli ‘ferrarese’. Una tavola bassanese e una proposta per il maestro di Palazzo Pretorio, in La parola e l’immagine. Studi in onore di G. Venturi, a cura di M. ARIANI et alii, 2 to., Firenze, Olschki, 2011, I pp. 153-57); indubitabile mi sembra comunque che il ciclo presupponga la mano di due artisti.
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resa ardua da una serie di fattori:2 il disuguale stato di conservazione delle teste (quando non, addirittura, la loro scomparsa), la talora difficile, in alcuni casi impossibile, decifrazione dei cartigli indicanti i nomi dei personaggi, il riassetto della struttura interna dell’edificio, che rende meno perspicui i collegamenti tra le parti, soprattutto, naturalmente, per ciò che riguarda il delicato nesso tra figure femminili e maschili. Partendo dai dati sicuri, cercherò di stringere nel cerchio di alcune ipotesi plausibili tanto le identità di alcuni dei personaggi effigiati, quanto, ed è il punto più arduo, su cui persistono ampî margini di dubbio, il collegamento tra le parti: ciò che potrà forse facilitare l’individuazione del progetto iconografico del ciclo, e dei testi che ne hanno determinato l’esecuzione. Ma va subito precisato che i due momenti sono necessariamente interdipendenti, e che maggiore verosimiglianza, anche per l’identificazione dei personaggi, avrà l’ipotesi che faccia emergere, se non un sistema rigoroso, una qualche coerenza. Altrettanto vale sul piano dei testi che si può pensare abbiano guidato la realizzazione della compagine: anche in questo caso più alta possibilità di tenuta avrà l’ipotesi dotata del maggior coefficiente di economia. Più persuasivo sarà insomma l’aggancio al testo che consentirà il reperimento del maggior numero di episodî e personaggi sicuri, o sicuramente identificabili, del ciclo, pena la minore compattezza del sistema (tanto nell’ordito narrativo del ciclo quanto nel procedimento argomentativo). Va precisato che il principio di economia, invocato sul piano del metodo per il momento della produzione, vige, sul piano della prassi, anche per quello della fruizione: è difficile ammettere un ciclo di immagini che lasci l’osservatore in balìa di segni contrastanti, senza un filo rosso che gli consenta di orientarsi con agevolezza verso un senso incanalato dai testi implicati.3 Ma occorre dire sin dall’inizio che, anche se un testo decisamente da privilegiare esiste (anticipo che si tratta dei Triumphi petrarcheschi), esso non sembra essere in grado 2 Informazioni su modalità e date del restauro in G. ERICANI, Il restauro delle decorazioni del palazzo, in Palazzo Pretorio, cit., pp. 147-70. 3 Il principio di economia si appoggia tanto a note prese di posizione di Contini, quanto, in ambito storico-artistico, ai cardini di legittimità (storica), ordine (pittorico ed espositivo), necessità (critica), quali esposti in M. BAXANDALL, Forme dell’intenzione. Sulla spiegazione storica delle opere d’arte [1985], Introduzione di E. CASTELNUOVO, Torino, Einaudi, 2000, pp. 154-99: sia Contini (filologo e critico come pochi altri attento al fatto figurativo) sia Baxandall esortano al minor dispendio possibile nella formulazione delle ipotesi. È vero che Baxandall nel suo libro mette in pratica i principî esposti solo in relazione a opere di alta qualità (ciò che non si può dire per il caso qui discusso): ma l’invito al risparmio nelle congetture non è derogabile, tanto meno di fronte a un ciclo con ambizioni programmatiche.
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UN CICLO DI RITRATTI AFFRESCATI A CITTADELLA
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da solo di illuminare tutto l’insieme, neppure nello stato lacunoso in cui ci è giunto. Sicché dovrà supporsi, alla base del ciclo, la presenza di chi è in grado di risalire a più fonti, anche se tra loro per molti versi omogenee: verosimile, sulla base di quanto oltre detto, che possa trattarsi di personaggio dotato di buona cultura umanistica, ma non digiuno di testi volgari. Più precisamente, sforzandosi di scalare le singole responsabilità, si dovrà probabilmente pensare a una inventio (indicazione, non si sa quanto specifica nel caso in questione) da far risalire alla committenza; a una dispositio (ordinamento delle sequenze in funzione del programma di base) che richiede l’intervento di una o più figure di mediazione; a una compositio (momento prettamente esecutivo) da addebitare al responsabile pittorico dell’insieme (che si tratti di uno o più artisti).4 Non si conoscono al momento documenti (lettere, contratti, ecc.) che aiutino a chiarire la distribuzione delle parti per il ciclo in questione. Ritengo però, sulla base di quanto chiarito più oltre (a esempio, la necessità di supporre il ricorso non solo a testi petrarcheschi, ma ai loro commenti), che una figura di mediazione, capace di tradurre in ordine coerente il programma originario, sia nella fattispecie da credere indispensabile:5 il responsabile della dispositio, in altre parole, se non ha necessariamente affiancato colui cui risale l’inventio, magari fino a sovrapporsi a esso, tende certo a occupare qui uno spazio predominante. I candidati a ricoprire il ruolo di titolare della dispositio sono naturalmente assai numerosi, e in assenza di documentazione esplicita proporre nomi può sembrare sterile giuoco. Ma un personaggio (sempre che a uno ci si debba limitare) sembrerebbe avere più titoli di altri a figurare nella posizione di sovrintendente letterario. In ogni caso il nome che avanzo, Giovanni Aurelio Augurello (o Augurelli), vale come silhouette dell’ordinatore del progetto, non in quanto individuo anagrafico. In estrema sintesi, le ragioni che fanno affiorare la possibilità di tale nome sono le seguenti: nascita riminese (nel 1440-1441,
4 Cfr. S. SETTIS, Artisti e committenti fra Quattro e Cinquecento, Postfazione di A. PINELLI, Torino, Einaudi, 2010 (ma il saggio che dà il titolo al volume è del 1981), pp. 3-88 (part. pp. 32-51), con giusto rilievo conferito (pp. 36-41) alla base retorica della terminologia, che ricalca quella in uso nella trattatistica artistica dell’epoca. 5 Ciò spiegherebbe anche la tendenza all’ibridazione di modelli testuali in un settore del ciclo (stanza I; cfr. oltre), favorita probabilmente dal ricorso ai commenti; cfr. in proposito R. GUERRINI, Dal testo all’immagine. La «pittura di storia» nel Rinascimento, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, a cura di S. SETTIS, tomo II, I generi e i temi ritrovati, Torino, Einaudi, 1985, pp. 45-93 (part. pp. 45-73).
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o, secondo più recenti proposte, intorno al 1456);6 peregrinazioni romane e fiorentine, seguite da lunga permanenza veneta (Padova, Venezia, Treviso, città dove muore, nel 1524 secondo le fonti); assidua, e celebrata dai contemporanei, pratica della poesia latina (ma anche della volgare, benché a lungo inedita), più ancora, di una poesia latina che, sin dalla raccolta dei Carmina (1491) manifesta «una così franca professione di petrarchismo come forse non si trova in alcuna altra opera umanistica anteriore»;7 dedica, lui riminese da tempo residente in Veneto, del primo libro dei citati Carmina allo stesso Pandolfo Malatesta committente del ciclo in questione, all’epoca ancora signore di Rimini; amicizie importanti non solo in ambito letterario (bastino i nomi di Bembo padre e figlio, e di Trifon Gabriele), derivategli dal suo lungo esercizio di maestro e da un tirocinio attento nella poesia dell’una e dell’altra lingua. Non sembrerebbe improprio ritenere che, consolidata la sua posizione in Veneto, Augurello si possa proporre, dati i legami sempre vivi con la città natale, come responsabile dell’ordinamento, e insomma iconografo del ciclo; se non è vero il contrario, che sia cioè Pandolfo, dati i trascorsi, a invitarlo ad assumere quella funzione. Il nome di Augurello ha una certa verosimiglianza storica e contestuale. Ma ribadisco, a scanso di equivoci, che esso figura qui, in assenza di prove e documentazione, solo in quanto rappresentante di una tipologia intellettuale, che il seguito dell’indagine dovrebbe chiarire. Le figure femminili sembrano radicarsi naturalmente nella letteratura che ha nel De mulieribus claris di Boccaccio il proprio testo fondativo. In ambiente bentivolesco è tuttavia più che verosimile supporre la presenza, accanto a quel testo, della Gynevera de le clare donne, che Giovanni Sabadino degli Arienti indirizza nel 1483 a Ginevra Sforza Bentivoglio, moglie di Giovanni II Bentivoglio (sposato in seconde 6 La data più tarda è proposta da R. WEISS, Augurelli, Giovanni Aurelio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1962, pp. 578-81; per la parabola biografica e le relazioni intellettuali ancora utile G. PAVANELLO, Un maestro del Quattrocento (G.A. Augurello), Venezia, Tipografia Emiliana, 1905 (con appendice di testi e documenti). 7 C. DIONISOTTI, Introduzione a ‘Prose e Rime’ [1960], in ID., Scritti sul Bembo, a cura di C. VELA, Torino, Einaudi, 2002, p. 30; cfr. anche A. BALDUINO, Le esperienze della poesia volgare, in Storia della cultura veneta, a cura di G. ARNALDI e M. PASTORE STOCCHI, 3/1, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza, N. Pozza, 1980, pp. 265-367 (part. pp. 362-67); nonché G. GORNI, Nota introduttiva alla sezione III (Cerchia veneta del Bembo) di Poeti del Cinquecento, tomo I, Poeti lirici, burleschi satirici e didascalici, a cura di G. GORNI, M. DANZI e S. LONGHI, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, part. pp. 229-31.
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UN CICLO DI RITRATTI AFFRESCATI A CITTADELLA
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nozze, dopo la morte di Sante Bentivoglio), e madre di Violante, sposa di Pandolfo Malatesta, committente, è da presumere di concerto con la moglie, degli affreschi.8 Della Gynevera esistono due autografi, conservati nell’Archivio di Stato di Bologna e nella Biblioteca Palatina di Parma.9 Quest’ultimo reca, nel risguardo posteriore, una nota di possesso che recita: «Questo libro si è di me violante bentivolia – chi lo arà e no me lo darà – a casa dal diavol andarà – in anima et in corpo il portarà». Ricci e Bacchi della Lega portano prove abbastanza fondate a sostegno dell’individuazione di tale Violante, da non confondersi con la moglie di Pandolfo Malatesta, ma da identificarsi probabilmente con la Violante Bentivoglio moglie di Giampaolo Sforza marchese di Caravaggio; il codice in origine venne probabilmente inviato a una figlia di Romeo Pepoli ed Elisabetta Bentivoglio, quest’ultima nipote di Giovanni II e Ginevra.10 Tuttavia ciò non sposta di molto l’evidenza dei fatti, per i quali si deve dare per scontata la dimestichezza, in ambito bentivolesco, con la Gynevera (come del resto con tutte le opere di Sabadino, scrittore, per buona parte della sua vita, legatissimo a quella famiglia).11 Occorre qui correggere parzialmente quanto sostenuto dai curatori dell’edizione della Gynevera, per i quali nell’opera «non mancano […] i cenni biografici d’altre [‘signore’] fiorite qualche secolo prima, ma fortunatamente sono pochi e nessuno dell’antichità classica».12 L’affermazione risponde a verità, ma al tempo stesso 8
Per il ruolo di Violante cfr. C. CASANOVA, Le due signore di Cittadella. Relazioni familiari e relazioni di potere nella seconda metà del Quattrocento, in Palazzo Pretorio, cit., pp. 35-48. 9 Per queste notizie cfr. la Prefazione a Gynevera de le clare donne di J.S. de li Arienti, a cura di C. RICCI e A. BACCHI DELLA LEGA, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1888; V. FORMENTIN, La prosa del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana, vol. X, La tradizione dei testi, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 545-600 (part. p. 573 e n.). Il 1483 è la data apposta tanto in coda alla dedica quanto in conclusione dell’opera nel manoscritto bolognese, il più completo dei due, su cui si fonda l’ed. cit., ma la composizione andrà spostata a epoca posteriore (presumibilmente il 1489/1490), perché nella stessa dedica Sabadino, rivolgendosi a Ginevra, fa cenno al di lei «duodecimo figliuolo, Violante, consorte de Pandolpho Malatesta de Arimino felicissimo prencipe […]» (ed. cit., p. 5). È vero che il termine «consorte» non è, in questo caso, del tutto esplicito, e non è detto debba riferirsi a un matrimonio già avvenuto (nel 1488), ma dovrà tenersi almeno presente la data del 1485, in cui avvengono i festeggiamenti per le nozze; cfr. C. GHIRARDACCI, Della istoria di Bologna, Parte terza [1426-1509], a cura di A. SORBELLI, in Rerum Italicarum Scriptores, XXXIII, I, Città di Castello, Lapi, [1915], pp. 231-32. 10 Cfr. Prefazione a Gynevera, ecc., cit., pp. XLVI-LIII. 11 Rimando per brevità solo a C. JAMES, G.S. degli Arienti. A Literary Career, Firenze, Olschki, 1996 (part. pp. 69-92, sulla Gynevera e le altre opere filogine di Sabadino). 12
Prefazione, cit., p. XXV.
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prospetta una lettura che non tiene sufficiente conto del modo in cui il testo è costruito. La Gynevera non offre in effetti alcuna biografia di donna dell’antichità, ma dei 33 medaglioni solo 8 sono privi di richiamo a figure femminili del mondo antico: tutte le altre biografie istituiscono, con un modulo pressoché fisso, un parallelo con donne, prevalentemente della storia romana, le cui gesta sono note da secoli, e lo fanno quasi sempre sulla scorta del De mulieribus boccacciano, e della lettura dei fatti da quel testo proposta. Si apre qui il problema più delicato per la lettura del ciclo di affreschi, problema che ho solo modo di sfiorare, senza azzardarmi a procedere a una lettura sistematica. Se tale è il modulo struttivo che regge la Gynevera, è possibile che il ciclo, semplicemente invertendo il flusso di corrente, riproponga lo stesso schema? In altre parole, le immagini di donne e uomini dell’antichità proposte dagli affreschi possono rimandare a protagonisti di vicende recenti, forse ancora viventi, ed essere pertanto considerate anche effettivi ritratti di questi ultimi? Personalmente ritengo plausibile, con cautela, una risposta affermativa, ma le conoscenze sugli affreschi sono ancora troppo malsicure per permettere di procedere senz’altro in questa direzione: né ci si può sbilanciare a favore della regolarità (da ritenere dubbia) di quella possibile corrispondenza.13 Senza contare che la netta prevalenza, sulla Gynevera, di altri modelli esclusivi (che di quel ritmo binario sono privi), rende più arduo interpretare la possibile allusione a personaggi contemporanei. È comunque necessario precisare che, quando anche tale impaginazione, sollecitata dall’opera di Sabadino, dovesse risultare convincente, essa può rendere conto solo di una parte della lettura che il ciclo propone, non necessariamente della sua struttura profonda, che sembra radicarsi nei Triumphi di Petrarca.14 Parrebbe infatti essere quest’ultimo il testo maggiormente indiziato per la soluzione del problema, almeno per la sezione delle immagini femminili 13 Propende più decisamente verso l’ipotesi della corrispondenza ERICANI, I cicli pittorici, cit., part. pp. 117-18. 14 Faccio uso delle seguenti sigle: TC (=Triumphus Cupidinis); TP (=Triumphus Pudicitie); TF (=Triumphus Fame). Con TF Ia indico una prima stesura di TF, poi abbandonata da Petrarca a favore di una diversa partizione della materia, ma stampata regolarmente in prima posizione tra i capitoli di TF fino all’edizione aldina (1501), che per prima espunge tale versione dal canone: gli altri Triumphi non hanno attinenza col ciclo (vd. oltre). Rimandi e citazioni sono relativi a F. PETRARCA, Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di V. PACCA e L. PAOLINO, Introduzione di M. SANTAGATA, Milano, Mondadori, 1996 (con ricchissimo e accurato commento, il rimando al quale è implicito: e cfr. ivi anche la Nota al testo, pp. 5-37, nonché la premessa a TF Ia, pp. 549-53).
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(per quella delle maschili, come si vedrà, che pure trovano anch’esse quasi totale riscontro nei Triumphi, è necessario forse ipotizzare un sistema più articolato di fonti). È in tale poemetto che pressoché tutti i personaggi di sicura identificazione si ritrovano (talora, per di più, in sequenza corrispondente al ciclo), ed è ancora in base a esso che è possibile ottenere la certezza su rappresentazioni ed episodî pervenutici in stato lacunoso: pur trasmessa da fonti autorevoli e di ampia frequentazione (le stesse cui attinge Petrarca), l’intera serie necessiterebbe, per essere spiegata altrimenti, di un troppo faticoso lavoro di controllo su testi diversi, di cui i Triumphi sono predisposto e unificato (oltre che diffusissimo) collettore.15 Questo in relazione al su invocato principio di economia: né è necessario spendere parole sul fatto che la visione petrarchesca, suddivisa in sei quadri (Triumphus Cupidinis, Triumphus Pudicitie, Triumphus Mortis, Triumphus Fame, Triumphus Temporis, Triumphus Eternitatis), proprio perché si presenta, per una larga porzione di testo, come ininterrotta catena di cataloghi eruditi, mostra perfetta consanguineità con quanto esibito dagli affreschi. In rapporto ai fatti distributivi (se il rimando al testo indicato dovesse 15 È invece fuori questione l’Amorosa visione di Boccaccio, testo per altri versi parzialmente apparentabile ai Triumphi, non solo perché non vi compaiono alcuni personaggi effigiati (o vi compaiono con caratteristiche tali da non far ipotizzare che il ciclo si appoggi a esso) ma perché edito la prima volta in date incompatibili col ciclo stesso (1521), in un’edizione che è stata spesso erroneamente interpretata come il riflesso di una seconda redazione d’autore: si aggiunga che anche la tradizione manoscritta, relativamente esigua (8 manoscritti, più altri cinque ora irreperibili) milita a sfavore dell’ipotesi. Lo stesso si dica per le biografie femminili di Jacopo Filippo Foresti (De plurimis claris sceletisque [sic; ma nel colophon: selectisque] mulieribus; nel colophon: Ferrarie […] opera et i(m)pensa […] Laurentij de Rubeis […], Mcccclxxxxvij): anche in tale testo mancano all’appello troppe protagoniste e vicende presenti invece nel ciclo. Per la diffusione e l’iconografia del tema trionfale, nonché per la fortuna dei Trionfi tra Umanesimo e Rinascimento, mi limito a rimandare ai contributi fondamentali (dai quali è acquisibile una più ampia bibliografia sul fenomeno): PRINCE D’ESSLING-E. MÜNTZ, Pétrarque, ses études d’art, son influence sur les artistes, ses portraits et ceux de Laure, l’illustration de ses écrits, Paris, Gazette des Beaux-Arts, 1902; G. CARANDENTE, I Trionfi nel primo Rinascimento, Torino, ERI, 1963; S. SAMEK LUDOVICI, Studio introduttivo alle tavole, in F. PETRARCA, I Trionfi, illustrati nella miniatura da codici precedenti del sec. XIII al sec. XVI, 2 voll., Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1978, I pp. 95-184; L. BATTAGLIA RICCI, Immaginario trionfale: Petrarca e la tradizione figurativa; F. TATEO, Sulla ricezione umanistica dei ‘Trionfi’ (gli ultimi due in I ‘Triumphi’ di F. Petrarca, Gargnano del Garda [1-3 ottobre 1998], a cura di C. BERRA, Bologna, Cisalpino, 1999, rispett. pp. 255-98, 375-401); A. ORTNER, Petrarcas ‘Trionfi’ in Malerei, Dichtung und Festkultur. Untersuchung zur Entstehung und Verbreitung eines florentinischen Bildmotivs auf ‘cassoni’ und ‘deschi da parto’ des 15. Jahrhunderts, Weimar, Verlag und Datenbank für Geisteswissenschaften, 1998. Sempre insostituibile C. DIONISOTTI, Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, in «Italia medioevale e umanistica», vol. XVII 1974, pp. 61-113.
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mostrarsi valido), dimostrazione e contrario ne sia che le sezioni del poemetto non ripercorse dagli affreschi sono appunto quelle in cui la lista dei cataloghi è assente. In altre parole, integrazione e condensazione di fatti e gesta nella pura etichetta nominale sono, in un caso e nell’altro, stigmi caratterizzanti. Si aggiunga che, laddove nei Triumphi tale etichetta non è esplicita, e viene sostituita dalla perifrasi, quest’ultima viene adottata con fedeltà letterale dal ciclo (come si verifica nei casi di Canace e Tuccia, oltre discussi). Per dare un’idea della cautela da esercitare nei confronti dei singoli passaggi, si cominci dalla stanza G. Qui compare quello che si ritiene il ritratto di Violante Bentivoglio (tav. 2), le cui fattezze, col volto sottile e il caratteristico mento allungato, potrebbero in effetti ricordare il quarto personaggio da sinistra, ritratto in età giovanile da Lorenzo Costa nella tempera della Madonna in trono col bambino e la famiglia Bentivoglio della Cappella Bentivoglio in S. Giacomo Maggiore a Bologna (tav. 3).16 L’aquila a due teste che figura sotto il bordo della camicia (e che compare in altre immagini del ciclo) non è incongrua alla identificazione proposta, poiché dal 1469 Giovanni II Bentivoglio ottiene dall’imperatore Federico III l’autorizzazione a fregiare il proprio stemma con l’aquila imperiale.17 La scritta retta dalla figura femminile sovrastante la finta cornice reca l’iscrizione «Sabine», mentre il cartiglio inferiore, di cui restano solo i bordi, non permette alcuna identificazione. Non pare dubbio che la scritta superiore debba essere riferita all’episodio del ratto delle Sabine. La candidatura più plausibile per il personaggio antico cui far corrispondere la ritrattata risulta in tal caso quella di Ersilia, figlia del re dei Sabini divenuta poi moglie di Romolo, che, dopo la guerra seguita all’episodio, avrebbe favorito la riconciliazione e l’alleanza tra Romani e Sabini (Livio, Ab urbe condita, I 11 2, 13 1-4). Né in Boccaccio né in Sabadino, peraltro, viene fatto cenno ad Ersilia, ciò che potrebbe costituire una prima difficoltà, e costringerebbe ad allargare il campo delle fonti. Andrebbe tuttavia ricordato che il passo di Livio (fonte tra le privilegiate, insieme a Valerio Massimo, del De 16 Cfr. naturalmente R. LONGHI, Officina ferrarese 1934, seguita dagli Ampliamenti 1940 e dai Nuovi ampliamenti 1940-55, in ID., Opere complete, V, Firenze, Sansoni, 1956, part. pp. 51-55, 141-43; e, da ultimo, A. BACCHI, Vicende della pittura nell’età di Giovanni II Bentivoglio, in Bentivolorum magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. BASILE, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 285-335 (part. pp. 314-20; e cfr. la bibliografia ivi segnalata). 17 Anche qui per esigenze di economia rimando a G. DE CARO, Bentivoglio, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. VIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1966, pp. 622-32 (part. p. 624), dal quale si attinge altra bibliografia.
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mulieribus) consente un riferimento dominabile da qualsiasi umanista di ordinaria attrezzatura.18 Tutto si chiarisce invece se si fa capo ai Triumphi, dove è cenno tanto alle Sabine (di cui era proverbiale la pudicizia) quanto a Ersilia: «Poi vidi Hersilia con le sue sabine, / schiera che del suo nome empie ogni libro» (TP 152-53). Si noti ancora che, se sul nome di Ersilia dovesse essere confermata la sovrapposizione del ritratto di Violante Bentivoglio, ne discenderebbe quasi di necessità un’analoga corrispondenza della lacunosa testa (tav. 4) della stanza I (il cui cartiglio inferiore, ugualmente incompleto, può essere integrato in modo plausibile: «mulo», «il gran fondatore»; TF I 128, e cfr. anche TF Ia 68) con il ritratto di Pandolfo Malatesta. È vero che anche il poco che si scorge sembra poco collimante (si pensi alla forma del mento e a colore, consistenza, foggia della capigliatura, particolari che registrano tutti cospicue differenze) col ritratto di Pandolfo eseguito da Domenico Ghirlandaio nella Pala di S. Vincenzo Ferrer del Museo Civico di Rimini (tav. 5); ma va ricordato che la scarsa somiglianza dei ritratti del gruppo, anche in seguito al subentro di Davide, fratello di Ghirlandaio, dopo la morte di quest’ultimo (1494), viene lamentata dallo stesso committente, che paga la pala meno del compenso inizialmente pattuito.19 A rigore, penso che la corrispondenza tra personaggi dell’antichità e ritratti coevi, quando dovesse essere confermata, possa benissimo arrestarsi su questa soglia (privilegiata, poiché include la committenza), senza doversi estendere all’intero ciclo. Precede, nella scansione cronologica, il volto di una donna con capo cinto da corona, coperta da un abito violetto, su cui spiccano due aquile affrontate, chiuso da fermagli dorati (tav. 6). La figura femminile poggiante sulla finta cornice, anch’essa incoronata, tiene alta nella destra una spada e reca nella sinistra la scritta «Cartagi(n)e», sicché il cartiglio inferiore, pur appena leggibile nel bordo superiore («Dido»), non offre alcuna difficoltà all’identificazione colla regina cartaginese (che parrebbe così essere rappresentata due volte, con la figura superiore, intera, incaricata di narrare l’episodio culminante).20 18 In particolare per l’umanesimo bolognese cfr. E. RAIMONDI, Codro e l’Umanesimo a Bologna [1950], Bologna, il Mulino, 1987; ID., Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 15-140. 19 Cfr. SETTIS, Artisti e committenti, ecc., cit., p. 82 (più in generale, pp. 51-88, per l’intricato tema dei rapporti tra committente e artista); e P.G. PASINI, I Malatesti e l’arte, Bologna, Cassa di Risparmio, 1983, p. 128. 20 Si potrebbe pensare alla figura sovrastante anche come personificazione di Cartagine: tuttavia ciò sarebbe in contrasto con quanto accade in altre immagini, particolarmente di questa stanza (cfr. oltre).
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Il volto fiero e composto suggerisce che la sua vicenda venga ripercorsa non sulla scia della versione virgiliana (la donna suicida per amore di Enea: così anche in Inf. V 61-62), ma su quella di Giustino, poi di Girolamo (la regina che, richiesta di un nuovo matrimonio dai propri sudditi, si uccide per non mancare di fedeltà a Sicheo, il marito defunto). Quest’ultima è fatta propria da Petrarca, che per ben due volte torna sul fatto: «[…] veggio ad un lacciuol Giunone e Dido, / ch’amor pio del suo sposo a morte spinse, / non quel d’Enea, com’è ’l publico grido»; «Poi vidi, fra le donne pellegrine, / quella che per lo suo diletto e fido / sposo, non per Enea, volse ire al fine: / taccia il vulgo ignorante! io dico Dido, / cui studio d’onestate a morte spinse, / non vano amor, come è il publico grido» (TP 10-12; 154-59: si noti che il secondo passo segue immediatamente la menzione di Ersilia, così come Didone affianca quest’ultima negli affreschi). Il mancato riferimento, in Petrarca, agli strumenti usati per il suicidio (la spada e il rogo), non crea difficoltà, dato che su questo punto della notissima storia le due versioni, a parte l’ausilio offerto dai commenti ai Triumphi (per cui vedi oltre), coincidono.21 La figura superiore ha un particolare, l’aria che muove l’orlo inferiore della veste e i capelli, che merita indugio. Non pare dubbio che il dettaglio, contaminando il testo che guida il ciclo con altra fonte, alluda alla flotta di Enea che si allontana sospinta dai venti, mentre si consuma la tragedia della regina («Interea medium Aeneas iam classe tenebat / certus iter fluctusque atros Aquilone secabat / moenia respiciens […]»; V 1-3). Fatto rilevante per due ragioni, strettamente legate al presente discorso: 1) la confidenza con più testi che il particolare richiede, così da far supporre ancor più necessaria, dato che non tutti i pittori sono Rubens, la figura di un sovrintendente alla dispositio; 2) la ribadita 21 Peraltro la prima redazione del secondo passo citato (certamente ignota a chi ha guidato il progetto iconografico) faceva riferimento tanto al «ferro» che all’«orribile catasta». Quanto a Boccaccio, dopo aver seguito, nelle opere giovanili, il racconto virgiliano, in quelle della maturità aderisce alla seconda versione del fatto, con menzione tanto della pira che dell’arma da taglio, che è però un coltello (cfr. De mulieribus claris, XLII 14-15, a cura di V. ZACCARIA, Milano, Mondadori, 19702, pp. 174-76). Importante notare che Boccaccio contamina, nel passo indicato, le sue fonti, e fa commettere il suicidio a Didone non per evitare la richiesta di matrimonio del re dei Massitani (come in Giustino), ma per sottrarsi a Enea (cfr. la n. a De mulieribus claris, loc. e ed. cit., p. 515), così immettendo nella narrazione, sia pure in modo non esplicito, la leggendaria fondazione di Roma (ciò che si lega alla presenza di Ersilia e Romolo). Sulla stessa linea Petrarca-Boccaccio maturo, ma ancora senza riferimento agli strumenti per il suicidio, Sabadino (cfr. Gynevera, ecc., ed. cit., 4. De Mathilda comitissa, pp. 29-30).
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subordinazione del fatto narrativo alla funzione catalogatrice, propria invece del solo testo che è all’origine del ciclo. Nelle figurazioni del suicidio di Didone che compaiono in alcuni manoscritti dell’Eneide, o di compilazioni medioevali che a quella attingono, i miniatori rappresentano la scena tanto isolata (la regina che si trafigge con la spada), quanto inserita nel continuum narrativo che lega in unica sequenza conclusione del canto quarto e incipit del quinto.22 Ma è chiaro che non si può mettere sullo stesso piano la prassi di un miniatore, che lavora spesso sotto il diretto controllo di chi, avendo trascritto il testo, ne conosce gli snodi decisivi, con quella di un frescante intento a un ciclo costituito quasi esclusivamente di teste. Sulla parete opposta (forse anche con funzione di opposizione fra TC e TP) a quella ove compaiono Didone e colei che propongo di identificare con Ersilia, ritratta nelle sembianze di Violante, era un’altra immagine femminile, di cui restano solo la figura superiore e una porzione della finta cornice. La figura reca un cartiglio con la scritta «Siria»; è verosimile che la testa scomparsa rappresentasse Semiramide, la leggendaria regina assira nota insieme per il suo valore militare e la libertà estrema dei costumi sessuali (cfr. rispettivamente TF II 103-5; TC III 76-78), fino al legittimato incesto col figlio Ninia (ciò che si accorderebbe con l’immagine subito oltre discussa).23 Solo in apparenza incerta l’identificazione dell’altro personaggio femminile ritratto di tre quarti verso destra (ultimo conservatosi nella stanza G), con volto mesto e il doppio giro di una collana, una sopravveste celestina che le attraversa diagonalmente il petto (tav. 7). 22
Così nei manoscritti Paris, Bibliothèque Nationale: français 784 (Roman d’Énéas); français 9682 (Histoire universelle); français 20125, français 1386, français 301 (tutti contenenti l’Histoire ancienne); nonché nei manoscritti seguenti: Paris, Bibliothèque de l’Arsenal, 5077 (Histoire ancienne); Dijon, Bibliothèque Municipale, 493 (Bucoliche, Georgiche, Eneide, col commento di Servio); Paris, Bibliothèque Nationale, français 861 (Eneide nella versione francese di Ottaviano di Saint-Gelais). Cfr. A. CADEI, Medioevo, tradizione manoscritta illustrata, e G. MARIANI CANOVA, Rinascimento, tradizione manoscritta illustrata, in Enciclopedia virgiliana, 5 voll., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1984-1990, rispettivamente III pp. 443-50, IV pp. 483-90; più in dettaglio P. COURCELLE-J. COURCELLE, Lecteurs païens et lecteurs chrétiens de l’Énéide. 2. Les manuscrits illustrés de l’Énéide du Xe au XVe siècle, Paris, Imprimerie Gauthier-Villars, 1984 («Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», n.s., t. IV), pp. 90-93, 101-6, 203-9, 213-15, e figure 197, 198, 200, 205, 233, 245, 368, 380. 23 Potrebbero confermare l’identificazione il particolare del copricapo di foggia orientale e dei veli sulle braccia, che la tradizione indica introdotti tra gli Assiri dalla regina: dati naturalmente non rilevati nei Triumphi (né nel commento a essi; cfr. oltre), ma acquisibili da Boccaccio (cfr. De mulieribus claris, ed. cit., II 5, p. 32), più facilmente che dalle sue fonti (Giustino e Orosio).
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La figura femminile che poggia sulla finta cornice circolare tiene nella mano destra un calamaio con una penna o un calamo, nella sinistra un pugnale appuntito. Come insegna l’esempio già discusso di Didone, i due elementi andranno messi in rapporto con la testa sottostante (con allusione a un suicidio o a una morte violenta): il cartiglio inferiore solo parzialmente leggibile («Can[.]c[.]») non presenta alcuna difficoltà all’identificazione con Canace, costretta al suicidio dal padre a causa del suo amore incestuoso per il fratello Macareo (Ovidio, Heroides, XI). La figura femminile poggiante sulla finta cornice, ancora alla pari di quanto accade per Didone, dovrebbe rappresentare la stessa Canace, raffigurata nel momento in cui scrive a Macareo la lettera d’addio, mentre nell’altra mano tiene il pugnale, secondo il passo di Ovidio («dextra tenet calamum, strictum tenet altera ferrum»; Heroides, XI 5), tradotto da Petrarca («e [‘vidi’] quella che la penna da man destra, / come dogliosa e desperata scriva, / e ’l ferro ignudo tèn dalla sinestra»; TC II 181-83). Il riferimento a Canace può derivare solo dalla trafila inaugurata da Ovidio. Ma il fatto che l’episodio si rapprenda nel gesto unico fissato dai Triumphi, che in esso condensano l’intera vicenda, non sembra lasciare margini di dubbio sul filtro effettivo;24 tanto più quando si consideri il collegamento della testa alle altre della stanza. Non solo la presenza di Canace, e dello snodo figurativo a essa relativo, si spiegano, rimanendo ancorati ai Triumphi, in osservanza al principio di economia su ricordato, ma il suo incardinamento nei medesimi spazî in cui figurano Ersilia e Didone si motiva in forza della stessa logica della vittoria sulle passioni che è il motore primo del poemetto (logica che si ripete, sia pure su piani diversi, anche negli altri ambienti affrescati): in concreto ciò significa che la sequenza, almeno secondo quanto ci è pervenuto, muove da Canace (forse in coppia, come suggerito, con Semiramide) per approdare alla coppia DidoneErsilia. Si aggiunga, a dimostrazione ulteriore della tenuta delle singole articolazioni del ciclo, che la meta simbolica dove si celebra il trionfo della pudicizia, sotto la guida di Laura, è Roma.25 24 A escludere una volta di più l’Amorosa visione di Boccaccio (che pure dipende dalla stessa fonte), si leggano i versi relativi a Canace: «Oh, come quivi, alquanto dop’esso [scil.: Egisto], / seguian Cannace e Macareo dolenti, / divisi per lo lor fallo commesso!» (XXV 10-12; in G. BOCCACCIO, Amorosa visione, a cura di V. BRANCA; Ninfale fiesolano, a cura di A. BALDUINO; Trattatello in laude di Dante, a cura di P.G. RICCI, Milano, Mondadori, 1974, p. 85). 25 Opportuno, per l’intelligenza dei legami tra le singole parti del ciclo, fare riferimento esplicito al commento al passo richiamato («Ivi spiegò le glorïose spoglie / la bella vincitrice; ivi depose / le sue victorïose e sacre foglie»; TP 184-86), dove
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Gli affreschi della stanza H presentano minori difficoltà, poiché tutti i cartigli indicanti i nomi sono perfettamente leggibili: ancora una volta i personaggi, nessuno escluso, compaiono nei Triumphi, e due specifici episodî corrispondono a luoghi precisi del testo. Vi figurano Penelope (TP 133; nel cartiglio inferiore, per errore d’anticipo, «Penolope») col piccolo Telemaco (tav. 8), mentre una nave è al largo (il momento rappresentato è perciò quello della partenza di Ulisse per la spedizione contro Troia), e Camilla (tav. 9), come da tradizione in abito da vergine guerriera (TF II 101-2: ed è un giunto importante verso i ritratti maschili).26 Gli altri due episodî riguardano invece Tuccia (tav. 10) e Virginia, le cui effigie compaiono anche nella stanza L, con i cartigli «Tucia R(omana)» e «V(ir)ginea». La prima è una vestale che, ingiustamente accusata di aver violato il voto di castità, per dimostrare la propria innocenza ottiene da Vesta di poter portare un setaccio d’acqua dal Tevere al tempio della dea (Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri, VIII 1 5), ed è ricordata inequivocabilmente, anche se non esplicitamente nominata, da Petrarca, nello stesso atto che la fissa sull’affresco («Fra l’altre [‘vidi’ trionfare di Amore] la vestal vergine pia / che baldanzosamente corse al Tibro / e, per purgarsi d’ogni fama ria, / portò del fiume al tempio acqua col cribro»; TP 148-51: il passo precede immediatamente la menzione di Ersilia e Didone).27 Non sarà inutile, a dimostrazione si ricorda, a proposito delle armi del nemico (Amore) appese, e della deposizione della corona d’alloro (con riferimento al legame Laura-lauro), che «il gesto di Laura ricalca quello dei capitani romani che offrivano al tempio di Giove Feretrio le spolia opima tolte ai capitani nemici sconfitti in singolar tenzone» (PETRARCA, Trionfi, ecc., ed. cit., p. 263). 26 Da notare che in Boccaccio le due donne occupano due capitoli successivi (cfr. De mulieribus claris, ed. cit., XXXIX-XL, pp. 156-64). Camilla è inoltre nominata più volte nella Gynevera di Sabadino (cfr. ed. cit., 10. De Janna polcella gaya de Franza; 32. De quella che al presente el bel nome se tace, rispett. pp. 100-1, 371): mette anche conto di rimarcare che lo stesso nome, teste ancora Sabadino, porta la sorella immediatamente più anziana di Violante, monaca clarissa (cfr. ed. cit., p. 5). 27 Si noti che sia in Boccaccio sia in Sabadino manca ogni riferimento a Tuccia e all’episodio ricordato. Il nome di Tuccia, e il suo atto, sono invece esplicitamente menzionati nei commenti ai Triumphi, a partire dal più diffuso, quello di Bernardo Lapini, detto Ilicino (apparso la prima volta nel 1475): cfr. F. PETRARCA, Trionfi, Sonetti e Canzoni, Venezia, Piero Veronese [de Plasiis], 1490 (Indice generale degli Incunaboli delle Biblioteche d’Italia, d’ora in poi IGI, 6 voll., di cui l’ultimo di Aggiunte, Correzioni, Indici, Roma, Libreria dello Stato-Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1943-1981, IV, 7553), c. 43r. Il commento di Ilicino è la fonte più indiziata; meno verosimile il ricorso a quello anonimo che di poco lo precede (Parma, Andrea Portilia, 1473; IGI, IV, 7542), interrotto a TF Ia 60 (di impostazione per lo più allegorica, il commento, attento al fatto mitologico, è debole e confuso sul versante storico), come a quello di Jacopo Bracciolini (cfr. qui oltre); da escludere il ricorso alle chiose di
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del collegamento tra virtù individuali e valore militare che sembra essere uno dei fili rossi del ciclo (e di tanta storiografia romana, particolarmente pretacitiana), rimarcare che la finta cornice è sovrastata da una corazza sostenuta a una spada, dietro cui sta obliquamente la grande ascia che è uno degli stemmi dei Malatesta: il fregio è perciò a mo’ di trofeo, secondo un modulo reperibile nelle rappresentazioni trionfali (ravvisabile, per fare un esempio vicino, nei Portatori di trofei della serie mantegnesca del Trionfo di Cesare, ad Hampton Court). Quanto a Virginia, la sua vicenda è narrata da Livio (Ab urbe condita, III 44-54): il decemviro Appio Claudio, invaghitosi di lei, ricorrendo a un processo truccato, cercò di averla sua schiava. Il padre della giovane, Virginio, la uccise per salvarne l’onestà, causando con il suo gesto una rivolta popolare che segnò la fine del decemvirato e il ritorno alle istituzioni repubblicane. L’episodio è ricordato esplicitamente da Petrarca: «Verginia [‘era’] apresso e ’l fero padre armato / di disdegno e di ferro e di pietate, / ch’a sua figlia ed a Roma cangiò stato, / l’una e l’altra ponendo in libertate» (TP 136-39, cfr. anche TF Ia 79-81). L’immagine di Virginia presente nella stanza L (tav. 11), che mostra, immerso nel petto della donna, un coltello di impugnatura grossa e lama lunga, particolare non desumibile dal testo petrarchesco, non obbliga a supporre una precisa memoria del racconto nella sua fonte, o uno specifico controllo, attuato su quella o su altro testo: il fatto è riportato nei commenti.28 Si passi ora alla stanza L. Qui compaiono, a parte i casi già ricordati di Tuccia (tav. 12: con fattezze prossime alla Ersilia-Violante della stanza G) e Virginia, le immagini di Giulia, Cornelia, Faustina (tavv. 13, 14, 15) e Lucrezia (tutte insieme, ancora una volta, presenti Bartolomeo Fonzio, note oggi in un unico manoscritto (cfr. G. BELLONI, Commenti petrarcheschi, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. BRANCA, con la collaborazione di A. BALDUINO, M. PASTORE STOCCHI, M. PECORARO, 4 voll., Torino, UTET, 19862, II pp. 22-39, part. pp. 27-29). 28 Cfr. il commento di Ilicino (ed. cit., c. 63v), oltre a quello di Jacopo Bracciolini, relativo al solo TF Ia, Roma, Vitus Puecher, 1475 (IGI, IV, 7561), c. 31r non num. (ma un ricorso a tale fonte pare, per la marcata selezione testuale a fronte dell’ampiezza del prelievo attuato nel ciclo, poco verosimile; sulla datazione di quest’ultima stampa, e anche sui tempi di stesura del Commento, cfr. F. BAUSI, Umanesimo a Firenze nell’età di Lorenzo e Poliziano. Jacopo Bracciolini, Bartolomeo Fonzio, Francesco da Castiglione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, part. pp. 103 e n. 125, 156-58 e nn.). Il punto è rintracciabile anche in Boccaccio, che, sulla scorta di Livio (III 48 5), parla di un coltello da macellaio: «Cumque cum eis [Virginia e la nutrice] apud Cloatinas tabernas in conspectu tamen curie evasisset [‘Virginius’], sumpto lanii cultro, inquit: -Qua possum via, dilecta filia, libertatem tuam vendico-» (De mulieribus claris, LVIII 9, ed. cit., p. 240).
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nei Triumphi, non invece in altre opere, latine e volgari, di Boccaccio; cfr. anche oltre). Il caso più delicato è rappresentato da Giulia e Cornelia. L’età giovanile della seconda porta a escludere che si tratti della madre dei Gracchi (oltretutto, tanto Petrarca che Boccaccio non mostrano per questi alcuna simpatia, sicché una simile presenza sarebbe incongrua ai presupposti testuali che sembrano aver guidato il ciclo).29 Ancora una volta possono venire in soccorso i criterî di coesione interna e di economia, che dovrebbero portare altresì a scartare che la Cornelia effigiata sia la seconda moglie di Cesare. Se si anticipa il riferimento alla testa di Pompeo (stanza I), risulta più credibile l’identificazione tanto di Giulia che di Cornelia: dovrebbe in effetti trattarsi, nell’ordine, della figlia di Cesare, andata sposa a Pompeo nel 59 e morta anzitempo cinque anni dopo, e dell’ultima moglie dello stesso Pompeo, presente alla uccisione a tradimento del marito, ordinata da Tolomeo XIII. Si ricordi che delle due donne solo una, Giulia, è ricordata nel De mulieribus (LXXXI) per il suo attaccamento al consorte.30 Lo sguardo lievemente imbronciato che qui la caratterizza, unito all’espressione rassegnata e dolente, anche se non pienamente leggibile, del volto di Cornelia, suggeriscono che qui operi il preciso ricordo di due luoghi dei Triumphi, in cui la guida indica al poeta la schiera dei sottomessi ad Amore: «“Vedi quel grande il quale ogni uomo honora: / egli è Pompeo; ed à Cornelia seco, / che del vil Tholomeo si lagna e plora”»; «“Quell’altra è Giulia, e duolsi del marito, / ch’a la seconda fiamma più s’inchina”» (TC III 13-15 e 32-33). Quanto a Faustina, si tratta certo di Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio, indicata a Petrarca dalla sua guida («“Vedi il bon Marco, d’ogni laude degno, / pien di philosophia la lingua e ’l petto, / ma pur Faustina il fa qui star a segno”»; TC I 100-2);31 vista la 29 Come del resto accade nelle loro fonti (Cicerone, Valerio Massimo, ecc.). Basti per Petrarca il cenno di TF I 112-14: «[…] e [‘vedeva’] solo un Gracco / di quel gran nido garulo inquieto / che fe’ il popol roman più volte stracco»; per Boccaccio il passo seguente: «Gracci Gaius et Tyberius fratres […] non minus clamoribus camerulam meam complentes quam dudum tribuni romanum forum facerent, reticentes quas seditiosissimi res novas temptassent, se tantum eiectos a tribunatu occisosque dum fugerent […] querebantur» (G. BOCCACCIO, De casibus virorum illustrium, V 16 1, a cura di P.G. RICCI e V. ZACCARIA, Milano, Mondadori, 1983, p. 442). 30 Viceversa esse sono ricordate insieme, proprio in relazione a Pompeo, nell’Amorosa visione (X 49-54, 76-82; cfr. ed. cit., pp. 50-51). Ma un ricorso a tale opera, per le ragioni su esposte, è da escludere, tanto più che in essa mai compare Lucrezia, naturalmente presente, invece, nel De mulieribus (XLVIII). 31 Sicuramente di Faustina Minore (visto l’accenno a Marco Aurelio) si tratta in Petrarca, mentre Boccaccio confonde la donna colla omonima madre (Faustina
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fama non irreprensibile del personaggio, la sua collocazione negli stessi spazî occupati da un campione di pudicizia femminile come Lucrezia (infatti la prima tra le compagne di Laura in TP 132), obbedirà alla stessa logica del superamento delle passioni, e alla medesima scansione narrativa (vale a dire anche con una possibile funzione oppositiva fra TC e TP, proposta già per la stanza G), viste all’opera a proposito di Canace e della coppia formata da Ersilia e Didone. Notevole è che quella di Faustina sia l’unica effigie di profilo tra quelle conservatesi del ciclo, ciò che fa supporre la derivazione, più o meno diretta, da una moneta.32 Assai più complessa (a parte il caso di Romolo, sopra discusso) si presenta la leggibilità delle teste maschili che occupano la stanza I, tanto per la quasi totale cancellazione di alcuni cartigli, quanto per la difficoltà che solo parzialmente ne consegue, legata all’ordinamento da dare all’insieme (e perciò all’individuazione del programma per questo settore): per l’uno e per l’altro aspetto si potranno solo avanzare ipotesi assai caute. Indecifrabili intanto risultano il giovane condottiero ripreso di tre quarti sulla sinistra, il cui volto si è solo parzialmente conservato (tav. 16), e l’anziano militare di alto grado (uno dei raggiungimenti più considerevoli del ciclo sul piano squisitamente pittorico), sulla cui veste azzurrina ricompare l’aquila a due teste (tav. 17): il cartiglio del primo lascia scorgere chiaramente, in un nome composto Maggiore), moglie di Antonino Pio (cfr. De mulieribus claris, XCVIII, ed. cit., pp. 396-400). 32 Cfr. K. FITTSCHEN, Die Bildnistypen der Faustina minor und die Fecunditas Augustae, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1982, pp. 34-37. Fatte salve capigliatura e acconciatura (e tanto più vestiario), che si ricollegano alla foggia coeva e nulla hanno della prima età degli Antonini, il profilo di Cittadella, sulla base della classificazione attuata da Fittschen sul corpus delle monete, sembra esemplato sul tipo 5, o sul 7 (che del precedente è sviluppo): cfr. loc. cit., e ivi tavola 4, n. 4; tavola 5, nn. 1-3, 8. Su un piano più generale cfr. K. FITTSCHEN, Sul ruolo del ritratto antico nell’arte italiana, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, cit., tomo II, cit., pp. 383-412 (part. pp. 388-94, dove si discute anche un caso di analoga trafila, gli affreschi nella loggia di Cansignorio a Verona, attribuiti ad Altichiero, uno dei quali raffigurante Faustina: si tratta di Faustina Maggiore, ma la confusione, come visto, era frequente); e M. PELC, Illustrium imagines. Das Porträtbuch der Renaissance, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2002, pp. 11-18, 28-30, con ampia bibliografia sul tema. Il libro non è peraltro esente da mende, una delle quali, clamorosa, riguarda il ritratto di Giovan Batista Gelli, la cui identità di autore di fama, all’epoca dell’effigie allegata, europea, sfugge del tutto allo studioso (cfr. pp. 42-44): esito singolare considerato che, a parte il fatto che bastava il controllo di qualsiasi catalogo di biblioteca, il ritratto di Gelli campeggia nel frontespizio della prima stampa, pirata, dei Capricci del bottaio (Firenze, Doni, 1546), e viene ripreso (sia pure senza indicazione del nome del personaggio) nella quarta parte dei Marmi di Doni (Venezia, Marcolini, 1552, p. 13). Il confronto fra i ritratti bastava a fugare ogni dubbio sull’identificazione.
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probabilmente di sei lettere, solo la prima e le ultime due («C[…]ro»; la seconda parrebbe essere una «l» o una «i»), quello del secondo solo una probabile «o» finale.33 Non esimendo la scomparsa, parziale o totale, dei cartigli, dal necessario sforzo di identificazione, azzardo, con ampio beneficio d’inventario, le due proposte, la cui plausibilità è condizionata dal fatto che esse dovrebbero supporsi coerenti col testo che ha guidato il programma fino a questa soglia. Il primo personaggio potrebbe forse essere identificato in Caio Claudio Nerone (TF I 43-49; TF Ia 37-39), qualora si accettasse che l’estensore dei cartigli, come altre volte accade, abbia utilizzato abbreviazioni: in questo caso si può ipotizzare che essa suoni «Cl. Nero» (la base della terz’ultima lettera è compatibile con quella di una «e»; la forma nominativale «Nero», riferita tanto all’imperatore che al personaggio qui indicato, è attestata in volgare dal Duecento).34 La verosimiglianza dell’ipotesi può trovare sostegno nel fatto che a Claudio Nerone è conferita, nel passaggio da TF Ia a TF I, una posizione di progressiva eccellenza, testimoniata già dall’amplificatio, per il ruolo decisivo avuto nella seconda guerra punica (battaglia del Metauro del 207, nella quale viene ucciso Asdrubale), ulteriormente confermata dal fatto che il personaggio, rispetto alla prima stesura, guadagni posizioni nella rassegna, attestandosi subito dopo la menzione di Cesare, di Augusto, degli Scipioni. Se la supposizione dovesse dimostrarsi valida, il vecchio che gli è contiguo potrebbe essere identificato nell’altro grande stratega della seconda guerra punica, Fabio Massimo, che precede (in TF Ia 35-36) e segue (in TF I 50-51) Claudio Nerone, secondo una prossimità che si trasferisce dal testo alla sua resa figurativa, già vista all’opera in altre sezioni del ciclo. Da notare che in entrambe le stesure si insiste, giusta le fonti (Livio, 33 Pare da escludere, in entrambi i casi, la qualifica di «Ro(mano)», giacché essa, in tutti gli altri cartigli conservatisi, è indicata da una semplice «R» puntata. Va però tenuto conto che l’estensore dei cartigli non sembra coerente, né particolarmente abile nel calcolo degli spazî, come mostra la imperfetta centratura di alcuni nomi (a es. «Iulia» e «V(ir)ginea» nella stanza L, entrambi troppo sbilanciati a sinistra; «Iuba» nella stanza I, così spostato, all’opposto, verso destra, che manca lo spazio, consueto negli altri casi, per separare il nome dalla sua qualifica, «L(ybico)», tramite un punto a mezza altezza). 34 Anche in questo caso non è peraltro dirimente il punto a mezza altezza, giacché esso, oltre a svolgere ovvia funzione abbreviativa, segue spesso, anche se non sempre, nomi dati nella loro interezza. Pare inoltre da scartare l’eventualità, potenzialmente suggerita dalla vicinanza colla testa di Pompeo (cfr. oltre), che l’effigiato sia Cesare (la forma «Cesaro» è corrente): la terz’ultima lettera senz’altro non può essere una «a»; quand’anche, per via di compendi, essa dovesse essere la finale del nome nella sua forma consueta, la qualifica di «Ro(mano)» parrebbe, nella sua sovrabbondanza, incongrua.
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Valerio Massimo, ecc.) sulla vecchiezza di Fabio Massimo, perfettamente compatibile colla testa in questione.35 Maggiormente indiziata sarebbe, eventualmente, la versione di TF I («ed un gran vecchio il [scil.: Claudio] secondava a presso, / che con arte Hanibàle a bada tenne»): sia perché essa accentua il carattere insigne della vecchiaia del personaggio, sia perché vi si fa più visibile la percezione dei due opposti modelli strategici (basato sulla rapidità di decisione ed esecuzione quello di Claudio Nerone, sulla nota tattica dilatoria che gli valse il soprannome di Temporeggiatore quello di Fabio Massimo). Le effigie (vicine, ma distribuite su due differenti pareti della stanza, disposte tra loro ad angolo retto) si manterrebbero ancora aderenti al modello petrarchesco, nell’utilizzare lo spazio per rimandare a una giunzione che indica allo stesso tempo una diversificazione. Non sto dicendo che ciò faccia parte di un sofisticato procedimento intellettualistico, volontariamente programmatico. Sto sostenendo qualcosa di quasi antitetico a ciò: vale a dire che la sintassi dello spazio pittorico (intesa in senso lato, in quanto compositio e ordo narrationis) si disponga, con naturale ma certo consapevole fedeltà, come equivalente visivo della sintassi (ancora in senso lato) in atto nel testo letterario.36 Lo stesso Petrarca, adoperando simili strategie compositive, suggerisce di mettere in opera le corrispondenti percettive quando, sia pure in differente contesto, ricorda che «[…] nulla meglio scopre / contrari due com piccolo interstitio» (TF II 35-36). Le proposte di identificazione che ho appena avanzato possono essere confutate, e rivelarsi in ultimo erronee. Ma il principio della corrispondenza tra i due ordini compositivi (letterario e figurativo), come attesta il giuoco di rimandi e opposizioni riscontrabile sulle pareti delle stanze G e L, congrue alla partizione della materia dei Triumphi, non ne sarebbe inficiato. Nessun dubbio invece sugli altri tre personaggi, i cui cartigli sono perfettamente leggibili o sicuramente integrabili: «Iuba L(ybico)» (tav. 18), «Po(m)peo» (tav. 19), «atio» (tav. 20: di quest’ultimo solo le quattro lettere finali risultano chiare). Rispetto al quadro emerso finora, si registra un’alterazione. Romolo, Orazio Coclite, Pompeo, sono tutti elogiati nei Triumphi (per gli ultimi due cfr. rispettivamente TF I 80-81 e TF Ia 41; TF I 90-94 e TF Ia 30), né presenta difficoltà lo 35 Per una puntuale indicazione delle fonti cfr. la nota a TF I 50-51, ed. cit., p. 363. 36 La corrispondenza tra struttura del periodo e compositio pittorica, quale attestata dal De pictura di Alberti, è analizzata da BAXANDALL, Giotto e gli umanisti, trad. it. cit., pp. 163-84. Cfr. anche SETTIS, Artisti e committenti, ecc., cit., pp. 38-39.
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iato temporale tra i personaggi, che si giustifica in ragione della logica enumerativa, strutturalmente disinteressata alla coerenza cronologica, del poemetto (così come accade per le figure femminili).37 Altrettanto compatibile con esso (soprattutto con TF I, elenco di condottieri e uomini d’azione romani) sarebbe la dominante militare dell’insieme. Stona tuttavia la presenza di Giuba, affatto assente dai Triumphi (ma non, cfr. subito oltre, dai commenti a essi). E colpisce l’aspetto mesto, o addirittura desolato, di molti personaggi (fa eccezione la fermezza del volto di Orazio Coclite). Anche pensando al possibile influsso della parabola dei Triumphi (la caducità della fama decretata dal Triumphus Temporis, e più ancora dal Triumphus Eternitatis) un discorso che si appoggiasse solo a quel testo parrebbe qui più arduo da sostenere. È invece da ricordare lo stretto legame tra Giuba e Pompeo, alleati contro Cesare e usciti, in diverso modo e tempo, sconfitti dal confronto con lui. A parte il caso già segnalato di Pompeo, Giuba, dopo la morte del suo alleato, si unì ai seguaci di quello; sconfitto a Tapso da Cesare (47 a.C.) si fece uccidere.38 Tanto la presenza di Giuba quanto quella di Pompeo, quanto infine l’aspetto mesto di molti volti di questa stanza potrebbero forse meglio giustificarsi in relazione anche al boccacciano De casibus, testo di amplissima diffusione, tanto più se si ricorda che in due capitoli successivi dell’opera, dopo la descrizione della rapidissima ascesa di Pompeo e della sua tragica fine, viene fatta menzione della disperazione di Giuba per le sue scelte: «Quem [‘Ptholomeum’] Iuba Lybie rex mestissimus sequebatur et barbara ac fastidiosa superbia sua posita, […] tristis, quod pompeianas partes iuverit, seipsum damnabat […]».39 Meno verosimile nel contesto indicato, ma non da escludersi, il ricorso al petrarchesco De viris illustribus, facilmente accessibile nell’incunabolo (Pojano, Felice Feliciano e Innocente Zileto, 1 ottobre 1476: IGI, IV, 7584) che reca il volgarizzamento, adespoto, di Donato degli Albanzani; benché infatti nella biografia di Cesare si 37 Va per di più tenuto presente, ad attenuare il peso di tale rilievo, che le teste sono disposte, in questo ambiente, su due livelli: uno superiore (dove compaiono Romolo e Orazio Coclite) e uno inferiore (dove si raggruppano le altre). Inoltre si consideri che nel settore in questione un’effigie dovrebbe essere andata persa in seguito alle ristrutturazioni avvenute. 38 In relazione alle vicende di Cesare il fatto è anche nel commento di Ilicino, dove si registra l’alleanza di Pompeo e Giuba, e si ricorda che, dopo l’uccisione di Pompeo, Cesare «diliberò andare contra le reliquie di Pompeiani» (cfr. ed. cit., c. 67r: ma si noti che Giuba vi viene detto re di Numidia, denominazione peraltro coincidente con la Libia). 39 BOCCACCIO, De casibus virorum illustrium, ed. cit., VI 11 4, p. 530; per Pompeo cfr. ivi, VI 9, pp. 514-28.
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parli di Giuba come di un nemico, non vi si fa riferimento esplicito alla sua confederazione con Pompeo, né il particolare risulta dalla vita di quest’ultimo (in realtà facente parte del supplemento di Lombardo della Seta).40 Testimonia comunque una prossimità non episodica col ciclo qui discusso il fatto che sei esemplari dell’incunabolo citato, che esibisce ricche cornici xilografiche con motivi a intreccio rimaste vuote in altri esemplari della medesima impressione, presentino immagini degli uomini famosi. Si tratta delle sequenze inedite contenute nelle copie di Londra (British Library: IB 32901) e Parigi (Bibliothèque Nationale de France: Rés. J 603), entrambe miniate nel Veneto in date prossime alla stampa, con personaggi a figura intera;41 a esse vanno aggiunte le sequenze incomplete contenute negli esemplari di Città del Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana: Stamp. Chigi II 679; ventidue uomini famosi), Roma (Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana: 51 F 18; quattro disegni a penna e inchiostro, con le effigie di Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Cincinnato), e Baltimore (Walters Art Gallery Library: P 373; tardo sec. XV, due disegni a penna e inchiostro relativi a Romolo e Augusto); nonché quella completa dell’esemplare di Roma (Biblioteca Casanatense, Inc. 887; tardo sec. XV, o inizio sec. XVI, trentacinque teste “all’antica”, tutte di profilo, disegnate a penna e inchiostro).42 40 Per queste notizie cfr. l’Introduzione a F. PETRARCA, De viris illustribus, ed. critica per cura di G. MARTELLOTTI, vol. I, Firenze, Sansoni, 1964 (part. pp. LII-LIII per la stampa del volgarizzamento). La fortuna iconografica dei cicli di uomini illustri, con al centro lo snodo fondamentale del De viris illustribus e della sua parallela realizzazione figurativa, è ripercorsa da M.M. DONATO, Gli eroi romani tra storia ed «exemplum». I primi cicli umanistici di Uomini Famosi, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, cit., tomo II, cit., pp. 97-152. 41 Rese note da L. ARMSTRONG, Copie di miniature del ‘Libro degli Uomini Famosi’, Poiano 1476, di F. Petrarca, e il ciclo perduto di affreschi nella reggia carrarese di Padova, in La miniatura a Padova dal Medioevo al Settecento, Progetto e coordinamento scientifico G. CANOVA MARIANI, Catalogo a cura di G. BALDISSIN MOLLI, G. CANOVA MARIANI, F. TONIOLO, Modena, Panini, 1999, pp. 513-22 (e cfr. le schede relative, nn. 135-36, pp. 329-34). 42 Cfr. L. DONATI, Il non-finito nel libro illustrato antico, in «La Bibliofilia», LXXI 1969, pp. 25-86, 97-155 (part. pp. 36-41, ove vengono analizzati gli esemplari romani e vaticano). Ho potuto controllare direttamente solo gli esemplari corsiniano (poco significativo: le teste, tutte di profilo, sono inserite in piccoli tondi, e derivano certamente da monete) e casanatense, a proposito del quale ultimo ARMSTRONG, Copie di miniature, ecc., cit., p. 520 n. 11, erroneamente parla solo di diciotto teste. La loro costante posizione di profilo lascia supporre ancora una derivazione da monete; contro tale ipotesi può invece militare il fatto che tutti i busti siano tagliati nettamente con un tratto orizzontale alla base. Da notare comunque l’affinità (tipologica, non di tratto) che entrambi gli esemplari presentano colle immagini desunte da monete, come compaiono nella Historia imperialis di Giovanni de Matociis, detto Mansionario
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L’individuazione corretta della fonte (o delle fonti) per questo settore del ciclo non è fatto di poco conto. Se il computo dovesse restringersi ancora ai soli Petrarca e Boccaccio (ciò che parrebbe più verosimile per le ragioni di economia addotte all’inizio di queste pagine, ma non è sicuro, giacché il ciclo potrebbe qui appoggiarsi anche ad altri testi affini) ne discenderebbero conseguenze importanti sul piano della lettura politica dell’insieme. La menzione di Pompeo nei Triumphi registra, nel passaggio da TF Ia 30 a TF I 90-94, non solo una amplificazione, ma una valutazione sostanzialmente elogiativa che costituisce, rispetto all’abbozzo, un ulteriore inserto anticesariano (le riserve di Petrarca vengono superate solo nel De gestis Caesaris). La netta propensione per Cesare è invece fatto caratteristico e costante dell’opera, tanto volgare quanto latina, di Boccaccio. Tutto ciò, naturalmente, sempre che non si debba pensare a una contaminazione attuata anche oltre questi testi. Ma resta l’obbligo di una spiegazione in questo senso, che risulterà tanto più convincente quanto meglio si accorderà anche colle altre parti del ciclo. Di più, in base alle conoscenze attuali e a riguardo del malcerto stato di conservazione degli affreschi, non sembra prudente dire. Si può solo immaginare la funzione, consolatoria e ammonitoria insieme, che essi dovettero avere per Violante Bentivoglio e Pandolfo Malatesta, all’inizio del loro meritato (le fonti sono concordi) tramonto.
(Città del Vaticano, Bibl. Apostolica Vaticana, ms. Chig. I VII 259; cfr. BETTINI, F. Petrarca sulle arti figurative, ecc., cit., tav. II del Repertorio iconografico, a cura di G. REBECCHINI).
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1. – Cittadella (Pd): pianta del piano nobile di Palazzo Pretorio.
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2. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza G, Ersilia (Ritratto di Violante Bentivoglio?).
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3. – Lorenzo Costa, La Madonna col Bambino in trono con la famiglia di Giovanni II Bentivoglio (part.). Bologna, Chiesa di San Giacomo Maggiore.
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4. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza I (vano scale), Romolo (mutilo; Ritratto di Pandolfo Malatesta?).
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5. – Domenico e Davide Ghirlandaio, Pala di San Vincenzo Ferrer. Rimini, Museo Civico.
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6. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza G, Didone.
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7. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza G, Canace.
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8. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza H, Penelope.
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9. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza H, Camilla.
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10. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza H, Tuccia.
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11. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza L, Virginia.
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12. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza L, Tuccia.
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13. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza L, Giulia.
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14. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza L, Cornelia.
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15. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza L, Faustina.
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16. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza I, Ritratto maschile (Claudio Nerone?).
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17. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza I, Ritratto maschile (Fabio Massimo?).
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18. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza I, Giuba.
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19. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza I, Pompeo.
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20. – Cittadella (Pd): Palazzo Pretorio, stanza I, Orazio Coclite.
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PREMESSE SULL’ASCOLTO DECAMERONIANO. CON PRIMI APPUNTI SUL CODICE BIBLICO NEL DECAMERON Che ascoltare sia atteggiamento più impegnativo e forse anche più nobile, in ogni caso più evoluto, del semplice udire, benché i due lessemi e i loro derivati siano spesso usati scambievolmente, è probabilmente asserzione largamente condivisa.1 Ma di rado ci si interroga se udire e ascoltare siano di fatto operazioni coincidenti nella sostanza, e più ancora se siano sempre state considerate tali, o, infine, se fra esse sia esistita una sorta di gerarchia. Nella Scrittura l’atto di audire è senza paragone più frequente di quello di auscultare, cui ci si riferisce solo 18 volte. Tra queste meritano menzione particolare alcune occorrenze, perché le azioni qui considerate vi vengono indicate simultaneamente, ma con una sfumatura semantica che chiaramente le gradua. Le elenco di seguito, non senza prima aver rilevato che nel testo ebraico uno stesso verbo (אזן, cui corrisponde, nella versione dei Settanta, âÓ̂Ù›˙ÂÈÓ, passibile, al pari di quanto accade per il testo della Vulgata, di oscillazioni semantiche in ordine alle fattispecie considerate), vale, se riferito a Dio, ‘udire’ e, più esplicitamente, ‘esaudire’; se relativo all’uomo, ‘obbedire’, ‘ottemperare a un ordine’ (si può pensare perciò che nella Vulgata lo sdoppiamento risponda a una variatio del traduttore).2 Lamech si rivolge alle mogli, Ada e Zilla, proclaman1 Cfr. da ultimo R. BARTHES, Ascolto, in ID., L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III [1982], Torino, Einaudi, 1985, pp. 237-51. 2 Cfr. W. GESENIUS, Hebräisches und aramäisches Handwörterbuch über das Alte Testament, Leipzig, Vogel, 190514, s.v. אזן, I, (=’zn), p. 18, dove si legge appunto: «a) v. Gott: erhören […]. b) v. Menschen: gehorchen, Folge leisten»; analoghe informazioni si ricavano da Eerdmans Dictionary of the Bible, D.N. FREEDMAN, Editor-in-Chief, W.B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids (Mich.)-Cambridge (U. K.), 2000, s.v. Ear e Obedience.
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
do che sette volte sarà vendicato Caino, Lamech settantasette volte: «Audite vocem meam, Uxores Lamech, auscultate sermonem meum: Quoniam occidi virum in vulnus meum» (Genesis, IV 23). Dopo aver avuto notizia, a Susa, della distruzione delle mura e delle porte di Gerusalemme, Neemia rivolge a Dio la propria preghiera: «Fiat auris tua auscultans et oculi tui aperti, ut audias orationem servi tui» (II Ezrae, I 6). Eliu, il quarto degli interlocutori di Giobbe, richiede l’attenzione di quest’ultimo: «Audi igitur Iob eloquia mea, Et omnes sermones meos ausculta» (Iob, XXXIII 1), e soggiunge poco oltre, rivolto allo stesso Giobbe e ai suoi primi tre amici: «Audite sapientes verba mea, Et eruditi auscultate me. […] Si habes ergo intellectum, audi quod dicitur, Et ausculta vocem eloquii mei» (Iob, XXXIV 2, 16). Le parole di Balaam a Balak, dopo che l’angelo ha ingiunto al primo di riferire solo ciò che gli dirà: «Sta, Balac, et ausculta, Audi, fili Sephor: Non est Deus quasi homo, ut mentiatur, Nec ut filius hominis, ut mutetur» (Numeri, XXIII 18-19). La profezia di Isaia che, giusta la tradizione cristiana, contiene un messaggio messianico: «Non caligabunt oculi videntium, Et aures audientium diligenter auscultabunt. […] Quis est in vobis qui audiat hoc, Adtendat et auscultet futura?» (Isaias, XXXII 3, XLII 23). Le parole di Osea: «Audite hoc sacerdotes, Et adtendite domus Israhel, Et domus regis auscultate» (Osee, V 1). Non ignoro, in relazione ad audire e auscultare, il ricorso a perifrasi, quali, rispettivamente, auribus percipere e inclinare aurem, nettamente le dominanti, in un testo ad alto tasso formulare (entrambe hanno valore aspettuale momentaneo, ma la seconda ha valenza sintattica intrinsecamente “dativa”, che postula attenzione specifica verso il parlante); esse tuttavia non sembrano alterare significativamente il quadro, come mostrano, a tacer d’altro, gli esempî magnificamente chiari di Isaia, ad apertura di libro, «Audite caeli, et auribus percipe terra, Quoniam Dominus locutus est», e più oltre, «Inclina Domine aurem tuam et audi» (Isaias, I 2, XXXVII 17). In tutti i casi elencati, pare che all’atto dell’ascolto sia connessa una capacità di rielaborazione individuale, di collaborazione al senso, che è ancora oggi inscindibile da un uso consapevole del termine, e dalla pratica stessa dell’ascolto: tanto che, nell’esempio di Lamech e nel primo di Eliu, audire è messo in relazione a vox o eloquium, auscultare, in entrambi i frangenti, a sermo. Non smentisce questo rilievo, e anzi lo corrobora, il fatto che l’auscultare possa avere per soggetto Dio o l’uomo indifferentemente, ma se l’oggetto è Dio e l’inesorabilità della sua voce, il soggetto, sia esso umano o meno, può solo audire,
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PREMESSE SULL’ASCOLTO DECAMERONIANO
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essendogli per definizione preclusa qualsiasi possibilità di intervento attivo (rappresentativi al massimo grado i due ultimi esempî di Isaia). Resta che a differenza dell’audire (relativo per lo più alla voce), che implica un dislivello tra emittente e ricevente, l’auscultare (relativo soprattutto al discorso) è atteggiamento che si dispone allo stesso livello del processo comunicativo. Se ne può concludere che nella Bibbia è già inscritta, e anzi propriamente da lì deriva, una legge che ognuno conosce: se si astrae dal puro fatto sensoriale, che può illudere circa la perfetta reversibilità delle due operazioni, si ode necessariamente ciò che si ascolta, non viceversa. La distinzione non è naturalmente così rigida come l’ho prospettata, ma per quanto possibile, e salvo eccezioni che andranno motivate, a essa cercherò di attenermi anche nella presente analisi. Giusta la finzione da cui parte, il Decameron è, come del racconto, un enorme e complesso codice dell’ascolto, che del resto al racconto è istituzionalmente legato. Nell’indagine che segue, tale dimensione è analizzata su due versanti: 1) la cooperazione alla diegesi; 2) le modalità di comunicazione.3 Si può partire da una memorabile formulazione di Benjamin: «il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita –; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Il romanziere si è tirato in disparte».4 Di una sentenza espressa con così perentoria chiarezza (ciò che non sempre accade con quel grande), e con tanta lucidità in relazione alla catena distributiva della narrazione, non si è tenuto il conto adeguato. Superfluo, perché chiaro a molti, e impossibile motivare qui tale trascuratezza in seno a una tradizione quale la nostra: resta che i modi di lettura esercitati sul testo hanno teso a privilegiare da una parte i raggiungimenti stilistici attinti dal libro, dall’altra le sue componenti mimetiche (sul fronte rispettivamente bembiano e della reazione fiorentina a Bembo), relegando nell’indistinto tale componente. Per quanto più direttamente è della fortuna, per secoli l’attenzione si è rivolta al nodo comico dell’enunciato, piuttosto che a 3 Per un primo orientamento cfr. G. BALDISSONE, Le voci della novella. Storia di una scrittura da ascolto, Premessa di G. BÁRBERI SQUAROTTI, Firenze, Olschki, 1992 (per il Decameron, part. pp. 26-39). Piuttosto che sui meccanismi di ascolto come rilevabili nelle raccolte novellistiche, il lavoro si incentra tuttavia sui modi di trascrizione dell’oralità. Cfr. anche R. BRUNO PAGNAMENTA, Il ‘Decameron’. L’ambiguità come strategia narrativa, Ravenna, Longo, 1999, pp. 98-118. 4 W. BENJAMIN, Il narratore. Considerazioni sull’opera di N. Leskov, in ID., Angelus novus. Saggi e frammenti, Traduzione e Introduzione di R. SOLMI, Torino, Einaudi, 1962, pp. 235-60 (a p. 239).
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
quello, più difficilmente rilevabile, delle modalità di enunciazione e di ricezione: conseguenza della supremazia conferita ai singoli segmenti narrativi, piuttosto che alle ragioni del contesto, con effetti inevitabili di fraintendimento. Oggi non pare dubbio che quest’ultimo aspetto tenda a riguadagnare spazio, proponendo il Decameron anche come modello per una letteratura in cui l’analisi, e la proposta, di diversificate strategie di comunicazione divenga primaria. Faccio due soli esempî. Non è possibile pensare alla proliferazione dei trattati cinquecenteschi sul comportamento senza il modello, non si dice stilistico, ma di retorica comunicativa proposto dal capolavoro di Boccaccio; più in dettaglio, la disposizione auscultativa, di “spalla” al discorso maschile, quale proposta per la «donna di palazzo» nel terzo libro del Cortegiano, non è immaginabile fuori da quella retorica. Ancora: non sembrano esserci dubbî sul fatto che il testo di Boccaccio sia capace di parlare a Cervantes proprio per quanto di non esclusivamente mimetico esso propone, al punto da contemplare al suo interno una teoresi, non solo implicita, della narrazione.5 Mi limito qui a sfiorare il problema, invece centrale, dell’ascolto come componente esemplare del comportamento femminile, in rapporto col silenzio.6 Fatto da ricondurre a matrice biblica, con prevedibile acme nella contrapposizione tra la pericolosità della lingua femminile e la lode della donna silente e operosa offerta dai libri sapienziali (Proverbia, V 1-23, XXXI 10-31; Ecclesiasticus, XXV-XXVI).7 Lo scandaglio delle presenze bibliche (lavoro che per il Decameron è nella sostanza ancora tutto da fare, e che non può trovare la sua naturale collocazione che in un nuovo commento, integrativo e, dove occorra, sostitutivo di quello classico di Branca) è punto di estrema delicatezza, per il fatto che la Scrittura non è testo che lasci i suoi effetti in forma sempre nitidamente identificabile, ma più spesso un deposito appartenente alla comunità, che in quel tessuto di immagini riconosce, più e oltre che un modello pervasivo con esiti verificabili sulla lettera, un precedente indispensabile alla lettura della stessa realtà fenomenica. Difficile trovare una dichiarazione più incisiva di quella 5 Cfr. C. SEGRE, Costruzioni rettilinee e costruzioni a spirale nel ‘Don Chisciotte’, in ID., Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 183-219. 6 Sulla tensione silenzio-ascolto cfr. P. VALESIO, Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria, Bologna, il Mulino, 1986, part. pp. 295-448. 7 Cfr. K.T. AITKEN, Proverbs, J.J. COLLINS, Ecclesiasticus, or The Wisdom of Jesus Son of Sirach, in The Oxford Bible Commentary, Edited by J. BARTON and J. MUDDIMAN, Oxford, Oxford University Press, 2001, rispett. pp. 405-22 (part. pp. 409-11, 422), 667-98 (part. pp. 684-86), con ampia trattazione del tema.
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PREMESSE SULL’ASCOLTO DECAMERONIANO
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offerta da Giovanni Pozzi, in un suo memorabile intervento sugli echi biblici nel Canzoniere di Petrarca: «Le segnalazioni dei commenti petrarcheschi sono avare e spesso oscure nelle loro motivazioni, primo per il mancato ricorso all’immensa letteratura esegetica della fonte biblica (i commentatori del Canzoniere non frequentano i commentatori dei due Testamenti), e secondo perché trascurano i modi in cui il testo sacro era (e in parte è) usufruito dal credente, anche quando operava in un campo estraneo come quello della letteratura secolare. Allora come oggi, ma ben più allora di oggi, le presenze bibliche non si risolvono, una volta allestito il catalogo delle citazioni, nella prospettiva del trapasso da testo a testo. La Bibbia era da una parte il libro (e non un libro pur massimamente autorevole), e dall’altra agiva fuori della misura libresca, in quanto era esperienza».8 Fatte salve le ovvie differenze, a cominciare da quelle di genere (che spiegano, pur in un dominio amplissimo del canone biblico, la prevalenza nel Canzoniere, a norma delle indagini di Pozzi, dei Salmi e di Geremia Lamentazioni, rispetto ad altri libri), il discorso potrebbe per il Decameron rivelarsi altrettanto ricco di implicazioni. Qui, restringendomi al tema (e notando che il silenzio femminile ricorre nel testo con una frequenza che esige risposta), mi limito a avanzare l’ipotesi che il silenzio obbediente e vittorioso di Griselda (X 10) sia la versione “sublime” e rovesciata della loquacità altrettanto vittoriosa e inarrestabile di Bartolomea (II 10): rispettivamente le due eroine (le cui vicende sono raccontate dal medesimo narratore) sono esempio di parodia senza e con mutazione di registro (dal serio al serio; dal serio al comico) e rimandano nell’ordine al modello della mulier sensata et tacita e della mulier linguata (Ecclesiasticus, XXVI 18; XXV 27). Per quanto indiscussa sia l’identificazione emotiva di tutti (autore, narratore, ascoltatori, lettori) con i diritti di Bartolomea, non c’è dubbio che il suo torrentizio assalto verso le inadempienze del marito abbia tutte le caratteristiche della derisio, della scurrilitas (temperata dall’eufemismo), del multiloqium, peccati della lingua che, lungamente dibattuti nel Vecchio Testamento e in Paolo (Ad Ephesios, V 3-4), sono fatti oggetto di trattazione analitica nelle varie summae dei predicatori.9 S’intende che bersaglio della parodia non sia qui in prima battuta la 8 G. POZZI, Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia [1989], in ID., Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 143-89 (cit. a p. 150). 9 Cfr. C. CASAGRANDE-S. VECCHIO, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1987, part. pp. 383-423.
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
parola sacra, ma appunto quel vasto apparato di testi che da essa si sviluppa in casistiche infinite. Sul piano delle sequenze narrative la novella può essere letta come rovesciamento del lieto fine del romanzo alessandrino:10 su quello dei valori propugnati a essere investite da una luce antifrastica sono invece le propaggini della Scrittura. Ciò appare ancora più evidente se il racconto è messo in relazione col precedente (come suggerisce la premessa di Dioneo: «[…] una parte della novella della reina m’ha fatto mutar consiglio di dirne una, che all’animo m’era, a doverne un’altra dire: e questa è la bestialità di Bernabò, come che bene ne gli avvenisse, e di tutti gli altri che quello si danno a credere che esso di creder mostrava»; II 10 3). Il dittico costituito da II 9 e 10 presenta antifrasi tanto sul piano narrativo (una coppia disunita che si ricongiunge, un’altra che, disunita dal caso, si separa definitivamente), quanto su quello dei valori, focalizzati sull’atteggiamento femminile. A essere determinante non è tanto il contrasto che pertiene alla sfera sessuale. Esso è solo l’esito del diverso peso che tale sfera ha nella vita delle due donne: per Bartolomea la storia parla da sé; le lodi attribuite da Bernabò a Zinevra (II 9 8-10) riguardano sì il suo aspetto fisico e la sua fedeltà, ma sono incentrate soprattutto sulla sua inarrivabile versatilità e operosità, segni di una gerarchia in cui alla pulsione sessuale sono posti limiti. Limiti, beninteso, funzionali al diverso lieto fine dei due racconti consecutivi; ma che acquistano significato aggiunto se messi in relazione con gli elogi della mulier fortis (personificazione della sapienza) di Proverbia XXXI 10-31, il poema alfabetico che, chiudendo quel libro, gode di condizione privilegiata di memorabilità. Naturalmente, non bisogna pensare qui, per le ragioni già esposte, a prelievi specifici; e va ricordato che Boccaccio, anche nella tramatura intertestuale attuata su precedenti classici, procede spesso per sottrazione, spostamento, condensazione dei modelli (operazione che riuscirà tanto più ovvia per un testo che aggalla naturalmente alla memoria, su cui non è perciò necessario lavorare con tessere allusive).11 Ma se si scorrono le lodi di Zinevra, non sarà difficile rintracciarvi una scansione che, nel trapasso scalare 10
Cfr. C. DELCORNO, Ironia/parodia, in Lessico critico decameroniano, a cura di R. BRAGANTINI e P.M. FORNI, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 162-91 (part. pp. 178-79). 11 Per la riscrittura dei classici cfr. G. VELLI, Memoria, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 222-48 (part. pp. 244-48). Sulla categoria di allusività sempre necessario il rimando a G. PASQUALI, Arte allusiva, in ID., Stravaganze quarte e supreme, Venezia, N. Pozza, 1951, pp. 11-20.
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PREMESSE SULL’ASCOLTO DECAMERONIANO
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dalle attività manuali alle intellettuali, rimanda negli snodi decisivi al precedente biblico: dalla lavorazione a mano dei tessuti in prima persona alla sorveglianza sul cibo, all’abilità nella mercatura (esclusiva, e funzionale al trapianto mercantile dell’iniziale spunto liviano, è invece la lode relativa al governo degli animali).12 La previdenza della donna che «ridebit in die novissimo» (Proverbia, XXXI 25), di cui Zinevra è replica, si situa anche per questo in posizione antitetica alla proclamazione dell’hic et nunc da parte di Bartolomea (II 10 34); quest’ultima è a sua volta versione parodistica di quelle. I due racconti possono essere letti, in prospettiva genetica, come chiose narrative che si sviluppano sui numerosi passi dei Proverbia che disciplinano l’uso della lingua e mettono in guardia dal suo uso a scopo di seduzione da parte della donna (non diversamente da quanto Velli ha mostrato in relazione alla ripresa di una massima senecana nella novella di Guido Cavalcanti; cfr. infra). Caratteristico sarebbe in questo senso il rapporto di inversione totale tra le vicende delle due protagoniste, che obbedisce alla stessa logica binaria del parallelismo antitetico (la proposizione A e la B frontalmente contrapposte) governante larga parte non solo di quel segmento biblico, ma dell’insieme dei libri sapienziali.13 Ho insistito sulla difficoltà di reperire nel Decameron tessere intertestuali che rimandino esplicitamente alla Scrittura. Ma approfittando delle sbalorditive conoscenze di Pozzi in materia, trascrivo questo passo di san Bernardo (autore carissimo a Boccaccio), dal quarto sermone per l’ascensione (passo a sua volta tessuto su Lamentationes, III 2728):14 «[…] necesse est levare te super te, calcando carnalia desideria quae in te militant adversus te». Suggerisco, con beneficio di dubbio, la possibilità che il brano sia ripercorso, con abrasiva parodia e mutazione 12 Per la riscrittura attuata in II 9 4 di Livio, I 57 6, cfr. VELLI, Memoria, cit., pp. 233-34; di Velli andrà ricordata, perché decisiva per quanto qui interessa, l’osservazione che «il principio morale può essere nel Decameron, anch’esso, materia di scrittura letteraria e obbedire alla logica di questa» (ivi, p. 232). 13 La formula binaria che regola tanto i proverbia in forma di “sentenza” quanto quelli in forma di “istruzione” (secondo distinzione secolare dell’esegesi biblica), e di cui altri testi sapienziali sono variazione ed espansione, è ben discussa in J.G. WILLIAMS, Proverbs and Ecclesiastes, in The Literary Guide to the Bible, Edited by R. ALTER and F. KERMODE, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1987, pp. 263-82 (part. pp. 269-75); cfr. anche AITKEN, Proverbs, cit., part. pp. 405-12, e L.E. BOADT, C. S. P., Proverbs, in The Collegeville Bible Commentary, Based on the New American Bible. Old Testament, General Editor D. BERGANT, C. S. A., Collegeville (Minn.), The Liturgical Press, 1992, pp. 644-74 (part. pp. 645-47, 657). Benché ampio, trascura quasi del tutto il precedente biblico G. CHIECCHI, Sentenze e proverbi nel ‘Decameron’, in «Studi sul Boccaccio», vol. IX 1975-1976, pp. 119-68. 14 Cfr. POZZI, Petrarca, i Padri, ecc., cit., p. 159 e n.
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INGRESSI LATERALI AL TRECENTO MAGGIORE
di registro (passaggio dal serio al comico), nella decisione di Alatiel, donna dal silenzio sospetto, di cedere alle lusinghe di Pericone: «[…] avvisandosi [‘la donna’] che a lungo andare o per forza o per amore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Perdicon fare, con altezza d’animo propose di calcare la miseria della sua fortuna» (II 7 23).15 Il travaso non è proprio scorrevole, se si eccettua l’uso di calcare (unica occorrenza nel Decameron), che viene a capovolgere l’esortazione di Bernardo, giacché lo stesso verbo lì usato a vincere il desiderio viene adibito a una situazione perfettamente antitetica. Per il resto Boccaccio adotta le seguenti procedure: a) passaggio dalla seconda alla terza persona, con aggancio al modulo biblico, e recupero e dislocazione («quivi tutta sola si vedeva»; «quivi sola senza aiuto o consiglio d’alcun si vedea»: II 7 16, 43) della condizione ivi esplicitata di solitudine e silenzio (Lamentationes, III 28: «Sedebit solitarius et tacebit, quia levavit super se»); b) ricorso, rispetto a Bernardo, a formula nominale (levare te super te>con altezza d’animo) per significare innalzamento e vittoria su sé di segno rovesciato; c) eliminazione della repetitio pronominale. Il procedimento qui attuato è propriamente il centone, perché preleva unità riconoscibili adeguandole a un contesto radicalmente altro rispetto a quello di partenza.16 Qualora il passo boccacciano risultasse effettivamente esercizio centonario su Geremia Lamentazioni e san Bernardo, se ne avrebbe una chiarificazione ermeneutica: in esso calcare varrebbe sicuramente ‘calpestare’, piuttosto che, come anche ritenuto possibile, ‘percorrere tutta intera l’infelicità delle sue [scil.: di Alatiel] sventurate condizioni’.17 Tornando all’assunto primo: racconto e ascolto dipendono l’uno dall’altro. E poiché il racconto si situa nel testo a diversi livelli, sviluppandosi in base a strategie enunciative differenziate, occorre dedurre che lo stesso avvenga in relazione all’ascolto. Appena proclamata regina, Pampinea avanza ai compagni la sua proposta di intrattenimento con le parole seguenti: Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all’animo gli è più di piacere, 15
Neppure sarà estranea la memoria, anche in tal caso capovolta, di OVIDIO, Amores, III 11 5: «vicimus et domitum pedibus calcamus amorem». 16 Per la definizione di centone cfr. POZZI, Petrarca, i Padri, ecc., cit., p. 154, nonché G. VELLI, Petrarca e Boccaccio. Tradizione. Memoria. Scrittura, Padova, Antenore, 19952, p. 139. 17 Cfr. G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. BRANCA, Torino, Einaudi, 1980, p. 231, n. 9.
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diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo (I Intr. 110-111).
La formulazione è la più limpida immaginabile, ma sarebbe erroneo sottovalutarne le implicazioni in relazione al percorso che qui interessa. Pampinea infatti vi rimarca le seguenti considerazioni: 1) il giuoco a due ha natura esplicitamente agonistica, contraria all’ipotesi paritaria su cui dovrebbe reggersi il gruppo (ciascuno si contrappone a tutta la compagnia); 2) il racconto, ludico, ma non istituzionalmente agonistico all’interno del circolo narrativo, è in grado di garantire l’ipotesi paritaria (contro lo scarso piacere di chi osserva due antagonisti al giuoco, e quello ancor minore di chi perde, «tutta la compagnia» può trarne piacere); 3) nel godimento di tale piacere, che segnala per definizione l’eccellenza sociale dell’insieme, uguale dignità è conferita al racconto e al suo ascolto. Le basi della fisionomia dialogica del Decameron sono tutte qui, e non va scordato che esse sono gettate da chi per prima prende la parola, sostenendo la liceità dell’abbandono di Firenze in preda alla peste. Il livello cui si riferiscono le parole di Pampinea tocca la compagine dei narratori, ma è ovvio che quelle stesse parole, sia pure in differenti condizioni, e sotto diverse modalità, riguardino anche protagonisti e comprimarî dei racconti. Se così non fosse, non avrebbe luogo la legge della corrispondenza che ha invece così gran parte nel testo (in modo particolarmente cospicuo nella sesta giornata): in base a essa, i dieci narratori possono costantemente verificare, nei due sensi, la permeabilità del mondo del racconto e di quello del commento.18 In altre parole, se esistono dimensioni definite come diegetica, intradiegetica e metadiegetica del Decameron, si può dire che accanto a esse vanno poste le tre messe in moto dal procedimento dell’ascolto: rispettivamente acroamatica, intracroamatica e metacroamatica.19 Per evitare compiacimenti nell’adozione delle formule, quando dovrò distinguere i 18
Cfr. H. WEINRICH, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo [1964], Bologna, il Mulino, 1978, pp. 176-82. 19 Per le categorie della diegesi qui indicate cfr. M. PICONE, Autore/narratori, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 34-59 (part. pp. 36-42). Non tratto qui, data la minore presa che essa esercita sui meccanismi propriamente narrativi, della dimensione extracroamatica (corrispondente auscultativa della extradiegetica), peraltro agevolmente rintracciabile nella Conclusione dell’autore.
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tre livelli, parlerò nell’ordine di ascolto esterno, interno, e trasmissivo: tali ascolti si attivano in corrispondenza dei piani compositivi distinguibili come diegetico, intradiegetico e metadiegetico. Do una breve illustrazione delle tre tipologie: l’ascolto esterno è quello che riguarda i dieci novellatori del Decameron, e va identificato non solo nelle parole di Pampinea sopra riportate, ma in tutto il vasto apparato di reazioni e commenti reperibili all’interno della storia portante, tocchino essi la vita della brigata (come accade nei momenti di sospensione narrativa) o le singole narrazioni (le parti di raccordo, proemiali o conclusive). L’ascolto interno è riferibile alle reazioni dei protagonisti delle novelle e insomma alla ricezione delle strategie discorsive che altri protagonisti o comprimarî mettono in atto. L’ascolto trasmissivo, infine, riguarda i numerosi casi in cui quella stessa ricezione si riverbera concentricamente sul personaggio ascoltante, e di conseguenza sui dieci narratori. Tra i due ultimi tipi si riscontrano naturalmente frequenti e cospicue intersezioni, fermo restando che l’ascolto trasmissivo si verifica solo in connessione con l’interno. Data tale indivisibilità, e la casistica più semplice, rispetto all’ascolto esterno, che essa presenta, partirò dall’ascolto interno. La novella di Melchisedech è introdotta da Filomena con le seguenti parole: «a narrarvi quella [scil.: novella] verrò, la quale udita, forse più caute diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero» (I 3 3). La narratrice di turno proietta immediatamente l’enunciato sull’enunciazione, il racconto sul commento, aprendo così il canale di comunicazione tra ascolto interno e ascolto trasmissivo. Andrà notato nella fattispecie che ciò comporta, in relazione al circolo novellistico, un’attenzione posta sull’emissione, insomma sulla produzione di nuovo discorso, piuttosto che sulla sola ricezione, anche se le due dimensioni sono nel fatto inseparabili. Melchisedech para il colpo del Saladino proponendogli il racconto interno dei tre anelli. Tuttavia tale racconto è preceduto da una rapida messa a fuoco della situazione da parte dell’usuraio, che soppesa i pericoli insiti nell’operazione: Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di queste tre [scil.: ‘leggi’ religiose] più l’una che l’altre lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione; per che, come colui il quale pareva d’aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse (I 3 9).
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Si noti intanto che il termine quistione riprende studiatamente quello adoperato nell’esposizione della narratrice, così da creare un ponte ulteriore tra le due zone del racconto. Si aggiunga che la risposta di Melchisedech si giuoca sull’impossibile crinale fra la concentrazione meditata e la prontezza della reazione. La quale reazione a sua volta è esemplata sulla stessa strategia del Saladino. Melchisedech cerca di «pigliarlo nelle parole» allo stesso modo, e costringe il suo antagonista a rivolgergli apertamente la richiesta di finanziamento, solo a quel punto prontamente esaudita. L’interesse del racconto, dal punto di vista qui scelto, risiede nel fatto che entrambi i protagonisti si rivelano, prima ancora che accorti amministratori della parola, ottimi ascoltatori, che reagiscono al messaggio obliquo dell’altro adeguandovisi, per poi passare alla comunicazione aperta e diretta. L’invito alla cautela pronunciato da Filomena riguarda in altre parole non tanto la risposta in sé, ovviamente irripetibile sia riguardo alla sua modalità sia in relazione all’oggetto, quanto la necessità di attenersi fedelmente alla strategia di comunicazione proposta dall’interlocutore. Ne è conferma la premessa della narratrice, pronunciata, si ricordi, dopo la novella di Abraam: «Per ciò che già e di Dio e della verità della nostra fede è assai bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti e agli atti degli uomini non si dovrà disdire» (I 3 3). In questione non sono ora problemi di fede, su cui la paradossale conclusione del racconto precedente si è già espressa, ma i meccanismi dell’ascolto e del discorso all’interno della comunicazione tra diversi soggetti, meccanismi qui perfettamente distinguibili nella cornice diegetica proposta dalla narratrice: la vicenda del Saladino e di Melchisedech, col suo felice scioglimento, rientrando nel territorio degli «avvenimenti», il botta e risposta tra i due in quello performativo degli «atti». La novella di Melchisedech si propone come racconto interno, o a incastro, quella di Bergamino (I 7) è un vero e proprio caso di mise en abîme, poiché «la seconda novella riproduce, quasi immagine riflessa in uno specchio, la situazione della prima».20 Vale a dire che il canale che mette in comunicazione ascolto interno e ascolto trasmissivo (Cangrande e i dieci narratori boccacciani) vi risulta ancora più chiaramente tracciato. A muovere il primo passo verso la situazione trasmissiva, rilevando innanzi tutto l’importanza dell’ascolto interno, provvede Filostrato all’inizio del suo racconto:
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PICONE, Autore/narratori, cit., p. 42.
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il quale [scil.: Bergamino, qui non ancora nominato] messer Cane della Scala, magnifico signore, d’una subita e disusata avarizia in lui apparita morse con una leggiadra novella, in altrui figurando quello che di sé e di lui intendeva di dire (I 7 4).
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Per la legge della corrispondenza sopra ricordata, che collega in osmosi diegesi e ascolto, sullo stesso asse narrativo si situano Bergamino e Filostrato, sul medesimo piano ricettivo Cangrande e i nove componenti della brigata che seguono il racconto, la cui clausola suona stigma della disposizione auscultativa corretta: Messer Cane, il quale intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò che dir volea Bergamino: e sorridendo gli disse: «Bergamino, assai acconciamente hai mostrati i danni tuoi, la tua virtù e la mia avarizia e quel che da me desideri: e veramente mai più che ora per te da avarizia assalito non fui, ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo hai divisato» (I 7 27).
Non c’è dubbio che la qualifica di intendente qui conferita a Cangrande riguardi prima di tutto la sua capacità di mettere a frutto, tramite un ascolto attento, la lezione impartitagli.21 Ma anche non va dimenticato, a conferma dei continui passaggi tra ascolto trasmissivo e ascolto interno, che il racconto seguente, quello di Guglielmo Borsiere e Ermino de’ Grimaldi, narrato da Lauretta, tratta ancora di un personaggio afflitto da avarizia (stavolta congenita, non improvvisa), poi definitivamente riacquistato alle leggi della liberalità e della cortesia. Pur ricordando che la prima giornata, al pari della nona, è a tema libero, andrà sottolineato che, se sul piano della narrazione il collegamento obbedisce al principio del racconto responsivo (in base al quale la vicenda si richiama alla precedente, ma la supera per l’eccezionalità del suo esito), su quello del commento la commessura è più sottile.22 Il racconto di Bergamino, analizzato isolatamente, innesca un movimento di trasmissione che tocca il come della novella, la modalità di un ascolto corretto e della conseguente giusta interpretazione; lo stesso racconto, se accoppiato al seguente, tocca 21
Cfr. F. BRUNI, Comunicazione, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 73-92 (part. pp. 76-79). 22 Per il racconto responsivo cfr. P.M. FORNI, Forme complesse nel ‘Decameron’, Firenze, Olschki, 1992, pp. 101-11; ID., Appunti sull’intrattenimento decameroniano, in Passare il tempo. La letteratura del gioco e dell’intrattenimento dal XII al XVI secolo, Atti del Convegno di Pienza, 10-14 settembre 1991, 2 to., Roma, Salerno Editrice, 1993, II pp. 529-40.
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invece il cosa, il mondo dei valori quali essi sono esaminati e discussi dai dieci narratori, comunque confermando il continuo interscambio tra le diverse parti della narrazione. In armonia con gli scopi prefissi, il come del racconto di Bergamino (e di qualsiasi altra unità narrativa implicata nelle dinamiche qui indagate) riguarda le modalità di comunicazione; il cosa ricavabile dal ricorrere, in racconti più o meno contigui, di temi e problemi affini discussi nei commenti dei narratori, pertiene invece ai modi di cooperazione alla diegesi, perché organizza le singole sequenze in macrostrutture (tanto più rilevanti nel caso di giornata senza tema prestabilito). Si può in questo senso fare un passo ulteriore, e annettere anche la novella del re di Cipro. Con essa si ottiene una triade (I 7, 8, 9) che ha, malgrado l’apparente diversità dell’ultimo esemplare, lo stesso oggetto: la possibilità, messa in moto dall’ascolto attento di un racconto o di una sentenza, di superare con i fatti i proprî condizionamenti. L’attenzione riservata a Cangrande non deve far dimenticare la presenza di Bergamino. La sua posizione resta, per quanto concerne l’ascolto, defilata rispetto a quella del signore veronese, non per questo irrilevante. Va infatti osservato che, se la sua presentazione insiste sulla leggendaria rapidità di reazione («presto parlatore», allorché gli si offre l’occasione «senza punto pensare quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de’ fatti suoi disse»; I 7 7, 11), la sua capacità di attendere il Î∙ÈÚfĩ, il momento propizio, è risultato della sua capacità di attesa, soglia ineludibile per accedere all’ascolto. La giornata in cui le diverse tipologie dell’ascolto celebrano il proprio trionfo è la sesta. Ciò è tanto più rilevante in quanto la didascalia generale recita: «incomincia la Sesta [‘giornata’], nella quale […] si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno». Ma che qui in giuoco sia la capacità di intendere o no il motto, non meno di quella di produrlo, è fuori discussione. La scala delle possibilità si estende dal massimo della incapacità di intendimento (la giovane che «[…] non altramenti che un montone avrebbe fatto intese il vero motto di Fresco, anzi disse che ella si voleva specchiar come l’altre. E così nella sua grossezza si rimase e ancor vi si sta»; VI 8 10) al culmine dell’acutezza ricettiva manifestata dagli ascoltatori accorti. Ma esistono gradini intermedî in cui la corretta decodifica della produzione verbale altrui si staglia su una più diffusa incomprensione di quei messaggi. È importante rilevare che ciò accade in due novelle consecutive, la nona e la decima della giornata, nelle quali le figure
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dei corretti ascoltatori e decodificatori rispondono ai nomi di Betto Brunelleschi, e di Giovanni del Bragoniera insieme con Biagio Pizzini. Difficilmente la collocazione di queste due narrazioni nella giornata, come di quella inaugurale di madonna Oretta, può essere ritenuta casuale. Si cominci dall’ultimo racconto citato. Esso è introdotto da Filomena come segue: È il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagità del nostro [scil.: delle donne] ingegno o inimicizia singulare che a’ nostri secoli sia portata da’ cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è la qual ne sappia ne’ tempi oportuni dire alcuno [scil.: motto] o, se detto l’è, intenderlo come si conviene […]. Fu adunque [la ‘gentile e costumata donna e ben parlante’] chiamata madonna Oretta […]; la quale per avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo a un altro andando per via di diporto insieme con donne e con cavalieri […], e essendo forse la via lunghetta di là onde si partivano a colà dove tutti a piè d’andare intendevano, disse uno de’ cavalieri della brigata: «Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che a andare abbiamo, a cavallo con una delle belle novelle del mondo» (VI 1 3, 6-7).
Le due porzioni di testo selezionate tendono a mettere in evidenza la sutura, che non si verifica mai a un grado altrettanto cospicuo di consapevolezza, tra i piani del racconto. In concreto si osservi: 1) Filomena ribadisce, a metà del libro, che l’ascolto conferisce dignità e prestigio sociale in misura non inferiore alla produzione del discorso, integrando così quanto proposto dalla didascalia generale della giornata; 2) la situazione in cui si trovano madonna Oretta e l’anonimo cavaliere riflette precisamente quella dei dieci narratori della compagnia. I due antagonisti sono in contado («come noi siamo», specifica Filomena), sono impegnati in una trasferta (a parte quella che dà origine al libro, alla fine della giornata ha luogo la visita, in gruppi separati, alla Valle delle Donne), infine, e ovviamente, sono occupati nelle attività caratterizzanti la vita dei dieci giovani: raccontare e ascoltare. Sulla novella di madonna Oretta, e sul suo carattere metadiegetico, si è a lungo insistito.23 Non altrettanto sul fatto che la novella “bianca” proposta dal narratore interno fa della donna una vittima (indagata nelle stesse reazioni fisiologiche) dell’ascolto, dell’anonimo cavaliere una sorta di campione di esso. Alla richiesta di 23 A partire da G. ALMANSI, Lettura della novella di Madonna Oretta, in «Paragone»Letteratura, 270, 1972, pp. 139-42; per ulteriori analisi, cfr. PICONE, Autore/narratori, cit., part. pp. 42, 58-59.
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smettere formulata «piacevolmente» da madonna Oretta la sua reazione è descritta in questi termini:
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Il cavaliere, il quale per avventura era molto migliore intenditor che novellatore, inteso il motto e quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle e quella che cominciata aveva e mal seguita senza finita lasciò stare (VI 1 12).
La saldatura tra i piani del racconto (diegetico, intradiegetico, metadiegetico) e dell’ascolto (esterno, interno, trasmissivo) si realizza in questa novella compiutamente. Ogni racconto è esposto al rischio del fallimento, decretato da chi lo ascolta. In un giuoco di specchi potenzialmente infinito, una ulteriore e corretta auscultazione di tale decreto produce nuove narrazioni. Nella pratica della legge della corrispondenza, ogni diaframma che tenda a separare mondo del racconto e mondo del commento è qui saltato. Si considerino ora le novelle di Guido Cavalcanti e di frate Cipolla, ultime della sesta giornata, secondo la medesima prospettiva. In relazione alla produzione verbale esse non potrebbero risultare più diverse, giusta anche la imparagonabile statura intellettuale e sociale dei due protagonisti. La novella di Guido Cavalcanti si appoggia su un motto eco di una sentenza di matrice senecana, e che della sentenza conserva la caratteristica concisione;24 quella di frate Cipolla contiene il più noto sfoggio di inarrestabile illusionismo verbale del libro. Ma un filo rosso unisce le due narrazioni se ci si rivolge alla tipologia dell’ascolto. In entrambi i casi infatti la corretta decodifica del messaggio verbale sfugge a tutto un gruppo per essere affidata a singoli individui. Poco importa naturalmente che il messaggio di Guido Cavalcanti abbia un senso, del quale quello di frate Cipolla è privo. Importa invece che un ascolto attento crei una demarcazione fra chi è in grado di accedere al livello prospettato dalla sfida verbale intrapresa, e chi rimane di qua da quella linea. La conclusione della novella di Guido Cavalcanti recita: Allora [dopo la giusta interpretazione del motto di Guido da parte di Betto Brunelleschi] ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi, né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere (VI 9 15).
24
Cfr. G. VELLI, Seneca nel ‘Decameron’, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXVIII 1991, pp. 321-34; e, da ultimo, ID., Memoria, cit., part. pp. 239-42.
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Quanto alle reazioni suscitate dalla predica di frate Cipolla, la linea di demarcazione è non meno netta, e accoglie nel novero degli «intendenti» Giovanni del Bragoniera e Biagio Pizzini (i quali, si ricordi, sono compagni abituali del frate; cfr. VI 10 13), lasciando fuori i creduli certaldesi: E in cotal guisa, non senza sua [scil.: di frate Cipolla] grandissima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro [scil.: Giovanni e Biagio] rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire. Li quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole, avevan tanto riso, che eran creduti smascellare. E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono e appresso gli renderono la sua penna (VI 10 55-56).
Qui il corretto ascolto nient’altro significa che riconoscere la legge del nonsense che governa la predica. Saper ascoltare significa innanzi tutto porsi nella condizione di poter partecipare al riso, essere soggetti «co-ridenti», così da evitare di essere invece oggetto di riso, zimbello (come inevitabilmente avviene del «vulgo»).25 La congruenza dell’ascolto, in altre parole, rende Giovanni e Biagio, benché momentaneamente sconfitti, gli unici degni destinatarî del racconto, e li apparenta perciò alla società dei dieci narratori, dalla quale gli altri ascoltatori di frate Cipolla sono altrettanto conseguentemente espulsi. Se ci si interroga, ancora, sui modi in cui tali fenomeni collaborano alla diegesi della storia portante e dell’intero libro, balza agli occhi una singolare progressione. La sesta giornata, che si apre su un racconto in sé bellissimo ma fallito per le non padroneggiate capacità performative del narratore, e si chiude su un ciarlatano che è invece improvvisatore d’eccezione, propone una caratteristica antitesi, forse mimetica dei modi, faticosamente progressivi, di perfezionamento dei meccanismi della narrazione: nel primo caso si ha infatti una storia perfetta (che tutto lascia pensare creata da altri e bisognosa solo di accorta enunciazione) malamente svuotata, nel secondo una storia vuota (fino al punto che a chi la deve narrare mancano gli oggetti su cui si è preparato per imbastirla) perfettamente farcita. L’antitesi riguarda perciò tanto i fatti esecutivi (dispositio, elocutio, memoria, pronuntiatio), disastrosamente 25 Per questi aspetti cfr. G. SAVELLI, Riso, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 344-71, che utilizza con intelligenza modello teorico e lessico di F. CECCARELLI, Sorriso e riso. Saggio di antropologia biosociale, Torino, Einaudi, 1988.
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amministrati nel primo frangente, magistralmente nel secondo, quanto la creazione del racconto (l’inventio non è appannaggio dell’anonimo cavaliere, ma di frate Cipolla).26 Infine, essa tocca il rapporto narrazione-improvvisazione, sottoposto a un totale rovesciamento, che investe anche il canone della brevitas, esclusivo nella giornata e infranto nella sua novella conclusiva:27 tanto più clamorosamente se essa è letta a paragone della stringatezza delle parole di Guido Cavalcanti. Anche qui si potrà pensare, analogamente a quanto detto per le vicende di Zinevra e Bartolomea, a chiose narrative contrapposte, tramate su precedenti biblici relativi, nella fattispecie, al governo della lingua, tra i due estremi dell’economia e della dissipazione (esempî calzanti sono offerti da Proverbia, X 14, 19; XII 19, 23; XIII 3; XVII 27-28; Ecclesiasticus, XXI 28-29). Deve far riflettere il fatto che, se ci si sposta sul territorio dell’ascolto, la polarità risulti invece ridotta, poiché entrambe le narrazioni ruotano intorno ad ascoltatori avveduti, capaci di distinguersi da chi non è «intendente» (la giornata contempla casi clamorosi di fraintendimento e ottusità). In tal modo da una parte si ribadisce la parità di ascolto e narrazione, dall’altra la progressione mette in rilievo i valori di esclusività ludica nei quali la compagnia dei narratori si riconosce (pochi sanno narrare, pochi ascoltare). Se i dieci componenti della brigata possono conoscere l’agonismo interno, ciò avviene solo in funzione di una sempre maggiore consapevolezza del possesso comune di una nuova ars narrandi (e, si aggiunga, di una sofisticata ars auscultandi). La logica del libro preme invece in direzione esclusiva verso chi non sia depositario di quei valori. Il territorio dell’ascolto esterno, riguardante direttamente i dieci narratori, è il più vasto, estendendosi sull’intera superficie del testo (esordio delle narrazioni, commento interno o in coda a esse, introduzioni e conclusioni delle singole giornate), e il più articolato. Rinunciando a un panorama esaustivo di una tipologia tanto diversificata, mi limito all’analisi di un unico fenomeno. Tra i segnali che 26
Malgrado la vertigine illusionistica della sua predica, frate Cipolla reperisce nella memoria tutti i loci codificati per l’inventio dalle poetiche medioevali (i numeri qui oltre tra parentesi indicano i paragrafi della novella cui possono essere fatti corrispondere i singoli loci): locus a persona (37, 43), locus a re (44-47), locus a loco (38-43), locus ab instrumento (38), locus a causa (37, 51), locus a modo (49-50), locus a tempore (37, 50); cfr. H. LAUSBERG, Elementi di retorica [1949], Bologna, il Mulino, 1969, §§ 40-41 pp. 30-31. 27 Per l’infrazione alla brevitas cfr. M. PASTORE STOCCHI, Dioneo e l’orazione di frate Cipolla, in «Studi sul Boccaccio», vol. X 1977-1978, pp. 201-15 (part. pp. 203-5); DELCORNO, Ironia/parodia, cit., p. 189.
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caratterizzano la qualità dell’ascolto esterno, e insieme indicano il gradimento ottenuto dal racconto, il riso dei nove ascoltatori è il più frequente. Operando una ulteriore selezione, ci si può restringere al riso femminile, come forma di risposta e commento alle narrazioni potenzialmente più scabrose.28 Dopo la novella narrata da Dioneo nella prima giornata (il monaco che, per liberarsi dalla sicura punizione, induce l’abate a commettere la stessa infrazione alla regola da lui attuata in precedenza), la reazione delle donne viene descritta in questi termini: La novella da Dioneo raccontata prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con onesto rossore nel loro viso apparito ne diede segno; e poi quella, l’una l’altra guardando, appena del rider potendosi abstenere, soghignando ascoltarono (I 5 2).
La formula ritorna, quasi alla lettera, dopo la novella di madonna Filippa (VI 8 2), in entrambi i casi esibendo, nella ripetizione del verbo ascoltare, una accezione che è agevole graduare: la prima occorrenza riguarda l’oggetto della narrazione, la seconda la modalità del racconto (rispettivamente enunciato ed enunciazione). Più specificamente, la graduazione si misura nell’attitudine delle donne, dapprima colta nella sfera individuale, poi allargata alla loro partecipazione al circolo novellistico («l’una l’altra guardando»). Viene da domandarsi la ragione del contrasto tra tale riso trattenuto e complice, e quello invece apertissimo, ancora solo delle donne, all’inizio della sesta giornata, in seguito al litigio tra Licisca e Tindaro («mentre la Licisca parlava, facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre […]»; VI Intr. 11). Il contrasto è in realtà solo apparente, e trova la sua spiegazione in una serie di fattori. L’ultimo episodio citato si verifica nel mondo della storia portante, piuttosto che in quello del commento interno alle narrazioni (cui si riferiscono invece le reazioni controllate delle donne), quindi in un momento di evasione rispetto all’impegno primario. Di cosa, infine, ridono così apertamente le donne? L’oggetto è il rozzo metaforismo di Licisca, senza dubbio l’intrusione più “bassa” nello spazio della storia portante; esso costituisce l’opportuno canale di sfogo, e consente di ripristinare il magistero del controllo sociale, interpretato nella sua veste linguistica. Licisca “sfonda” la pellicola tra storia portante e racconti, preparando così il 28
Trattazione analitica, da altra angolatura, in SAVELLI, Riso, cit., part. pp. 363-
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terreno per la novella di madonna Oretta, e consente la licenza di un travaso diretto del linguaggio di alcuni dei secondi nella prima, moltiplicando il piacere, ma anche mettendo in risalto il rischio, connesso all’uso ludico del discorso.29 È infatti la voce di Panfilo, ultimo re del Decameron, a ribadire i vincoli che hanno consentito la tenuta del patto su cui si è retta la vita della compagnia: il che [l’abbandono di Firenze], secondo il mio giudicio, noi onestamente abbiam fatto, per ciò che, se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle e forse attrattive a concupiscenzia dette ci sieno e del continuo mangiato e bevuto bene e sonato e cantato (cose tutte da incitare le deboli menti a cose meno oneste), niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né dalla nostra ci ho conosciuto da biasimare: continua onestà, continua concordia, continua fraternal dimestichezza mi ci è paruta vedere e sentire (X Concl. 4-5).
Che del patto sia parte anche la pratica di un ascolto critico e partecipe indica, senza possibilità di equivoco, l’accenno alle reazioni auscultative delle «deboli menti» in simili situazioni di svago. A conclusione della vita sociale scelta dai narratori, l’ascolto riemerge come componente fondante del libro, e anzi attitudine indispensabile alla genesi di ogni racconto.30
29
Cfr. G. ALFANO, Comico in progresso: la funzione poietica della cornice decameroniana, in «Nuova rivista di letteratura italiana», III 2000, pp. 99-119, importante perché individua i meccanismi del comico sul versante delle strutture contrapposto a quello degli oggetti, e per il rilievo conferito al travestimento retorico, progressivamente affinato dalla compagine dei narratori. 30 Cfr. in proposito le smaglianti considerazioni di BENJAMIN, Il narratore, ecc., cit., part. pp. 242-43.
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LE OPERE E I GIORNI. DI COSA PARLA LA PRIMA GIORNATA DEL DECAMERON?
Nell’indagine seguente, giusta il sottotitolo, si rinuncia, per ragioni di economia, a uno sguardo complessivo sull’organizzazione testuale del Decameron, che la sorveglianza d’autore induce troppo comunemente a dare per scontata (come fosse, cioè, una sorta di contenitore esternamente predisposto, invece che effetto di un disegno organizzato, e chissà quanto e come scalato nel tempo, con sapienza strategica); e ci si concentra prevalentemente su un solo racconto e sulle sue immediate propaggini, tentando di derivarne alcuni corollarî passibili di più ampia applicazione per l’intelligenza della giornata. Il racconto in questione è la novella di Melchisedech e del Saladino (I 3), su cui negli ultimi tempi si sono avvicendati interventi a vario titolo significativi. Mi avvarrò precipuamente del più compiuto sguardo d’insieme sulla diversificata tradizione del racconto, di un lavoro che affronta il problema del macrotesto decameroniano, di una lettura specifica della novella stessa (beninteso rifacendomi, quando occorra, ad altri necessarî apporti). Al tutto è da presupporre l’impulso, ormai inderogabile, a liberarsi dell’erroneo mito, idealistico e post-idealistico, dell’unità del Decameron, sostituendovi il principio della rispondenza (non sempre necessariamente corrispondenza) tra le parti, e l’urgenza di reperire un tessuto connettivo che consenta l’attivazione di tale principio. Solo affrancatisi dalla prima ipotesi sarà possibile indicare una lettura che mostri come l’ordito narrativo sia al servizio di un progetto più ampio, al quale non è eccessivamente azzardato conferire la qualifica di trattato di filosofia morale (meglio, di filosofia morale avente per
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oggetto principalmente, ma non esclusivamente, l’amore), svolto sotto forma appunto diegetica.1 Si è detto del principio d’unità, ma in concreto essa, nelle letture che hanno caratterizzato almeno il secolo trascorso, andrebbe ulteriormente specificata con la determinazione di progressiva o ascensionale: brevemente, dall’abiezione di ser Ciappelletto alla sublimità di Griselda. Eppure tutti sappiamo come, per estremo paradosso, essendo nel Decameron la morale del racconto non un dato esplicito, ma una difficile conquista affidata all’enunciazione e al commento dei narratori (talora anche dei protagonisti interni ai racconti) e degli ascoltatori, il libro potrebbe finire dove comincia e viceversa, senza che il raggiungimento della perfetta arte della narrazione, e il discernimento morale da essa promosso, ne venisse intaccato. Lo insegnano le parole di Dioneo a conclusione proprio della novella di Griselda (X 10 68-69); e la lezione morale del libro si giuoca per l’appunto in questi termini, come indicato da molti luoghi, tra i quali si può scegliere, non casualmente a metà della raccolta, una celebre immagine ancora di Dioneo («[…] per ciò che la fatica, la quale altra volta ho impresa e ora son per pigliare, a niuno altro fine riguarda se non a dovervi torre malinconia, e riso e allegrezza porgervi, quantunque la materia della mia seguente novella, innamorate giovani, sia in parte men che onesta, però che diletto può porgere, ve la pur dirò. E voi, ascoltandola, quello ne fate che usate siete di fare quando ne’ giardini entrate, che, distesa la dilicata mano, cogliete le rose e lasciate le spine stare: il che farete lasciando il cattivo uomo con la mala ventura stare con la sua disonestà, e liete riderete degli amorosi inganni della sua donna, compassione avendo all’altrui sciagure dove bisogna»; V 10 4-5); e alla sua conclusione, una non meno nota affermazione di Panfilo (X Concl., 3-5). Che siano due narratori con responsabilità diegetiche e commentative così diversamente distribuite a tirare le
1 La vocazione insieme narrativa e trattatistica (con mutuo sostegno delle parti) del Decameron traspare anche dalla complessa e strategica impaginazione dell’autografo hamiltoniano, come rimarcato da L. BATTAGLIA RICCI, Boccaccio, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 127-28, 141-46, 200 (con bibliografia pregressa). Ottima ricognizione in questo senso in F. BAUSI, Gli spiriti magni. Filigrane aristoteliche e tomistiche nella decima giornata del ‘Decameron’, in «Studi sul Boccaccio», vol. XXVII 1999, pp. 20553, con rilievi tanto intertestuali quanto interdiscorsivi; al lavoro di Bausi mi sentirei solo di obiettare che esso finisce col confermare la lettura “ascensionale” della giornata in questione, e del testo nel suo insieme, trascurando un po’ il fatto che l’enunciato mai, in un libro in cui l’auctor parla, tranne che in poche sezioni, per via mediata, è scompagnabile dall’enunciazione.
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somme, nei due ultimi casi convergenti, dell’attività ludica connessa al racconto, impone una volta di più di abbandonare gli strumenti a lungo utilizzati per leggere il testo. Pare comunque indubbio che a una costruzione così tenacemente duratura si sia stati indotti dalla pressione, sempre operante in ogni ordinamento indebitamente costruito a posteriori, dei pur così diversi modelli di Dante e di Petrarca. Ma qui, a parte ogni altra considerazione (l’assenza indubitabile di ogni componente riconducibile al quadruplice senso della scrittura da una parte, come di una sovrapposizione a tenuta stagna tra vicenda personale e storia narrata dall’altra), a mettere sull’avviso già dovrebbe essere il filtro interposto tramite le figure dei narratori, e l’esperienza esplicitamente extraindividuale del trauma collettivo da cui muove il libro. Il che nulla toglie, da un lato, al fatto che i racconti siano parte di una compagine organicamente autosufficiente e rigorosamente intessuta, su basi certo diverse ma al pari di quanto avviene nella Commedia e nel Canzoniere; dall’altro, al sigillo d’autore. Piuttosto, quelle interposizioni tendono a ridistribuire responsabilità e investimento in termini di esperienza diretta: «ma io non pote’ né doveva scrivere se non le raccontate [scil.: ‘novelle’], e per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle e io l’avrei scritte belle» (secondo la formulazione di Concl. aut., 16). Beninteso, l’attitudine molteplice resa possibile dalle persone dei narratori non comporta alcuna diminuzione del controllo d’autore; semplicemente, rende più arduo mostrarne la diversamente graduata pressione. Non rientra tra gli scopi delle pagine che seguono l’indicazione dei diversi livelli narrativi reperibili nel Decameron.2 Essi sono piuttosto dati come presupposti, atti a fornire alcuni dei materiali per la costruzione e l’intelligenza macrotestuale del libro, venendo perciò qui assunti solo nella misura necessaria alla discussione dell’oggetto peculiare della presente indagine. Per tornare alla quale va rimarcato che il libro di Mario Penna ha il merito indiscutibile di tentare una ricostruzione completa della trasmissione del racconto attraverso le sue molte e spesso non coincidenti versioni (tratti discutibili sono invece le numerose digressioni esterne all’oggetto vero e proprio, e, soprattutto, un uso poco sorvegliato del concetto di allegoria, che conduce a frequenti fraintendimenti, ed è palesemente inservibile, anzi fuorviante, nei confronti del 2
Su ciò cfr. M. PICONE, Autore/narratori, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 34-59.
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Decameron).3 Allo studioso va riconosciuto, attesa la impossibilità di scaglionare in modo cronologicamente sempre persuasivo tutte le versioni della novella, di aver ordinato in gruppi omogenei le sue tante riscritture, distinguendole in una prospettiva ancora utile. Ci si troverebbe di fronte a tre tipologie, che Penna designa rispettivamente come: «edificanti» (Étienne de Bourbon, Tractatus de diversis materiis praedicabilibus, ex. 331; Bromyard, Summa Praedicantium; Dis dou vrai aniel);4 «austera» (al singolare, trattandosi di unico esemplare; Gesta Romanorum, 89);5 «tolleranti» o più specificamente «aconfessionali» (Avventuroso siciliano, III osserv. 5; Novellino, LXXIII; Decameron, I 3; la definizione corregge, a mio avviso giustamente, la categoria dello scetticismo che, da Paris in poi, ha spesso toccato tali versioni).6 A parte, anche per la difficoltà, più marcata ancora che nei casi citati, di determinarne la cronologia in rapporto alle altre attestazioni, sta lo Schebet Jehuda, giuntoci in copie della fine del secolo XV (ma riflettenti un nucleo più antico, forse del secolo XIII, se non antecedente). Pur nella consapevolezza del fatto che gli intendimenti dello studioso sono altri, resta che alla sua indagine, dal punto di vista qui scelto, nuoce l’indifferenza (che è però, all’altezza della pubblicazione di quella monografia, diffusa e, ahimè, non ancora del tutto estinta) verso quello che è, a conti fatti, il punto decisivo: vale a dire la questione dell’incorniciamento del racconto, particolarmente nella sua versione boccacciana.7 Non alludo solo a quella che normalmente si definisce 3 M. PENNA, La parabola dei tre anelli e la tolleranza nel Medio Evo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1953. 4 I testi rispettivamente in: Anecdotes historiques, légendes et apologues tirés du recueil inédit d’Étienne de Bourbon, dominicain du XIIIe siècle, publiés [...] par A. LECOY DE LA MARCHE, Paris, Librairie Renouard, 1877, pp. 281-82; Summa praedicantium [...] auctore Ioanne Bromiardo Dominicanae familiae Theologo praestantissimo, Prima [-Secunda] Pars, Venetiis, apud Dominicum Nicolinum, 1586 [ma entrambi i voll. recano in fine la data 1585], I, Fidei Christianae, cap. IIII, cc. 285v-297r (la parabola alle cc. 287r-288r); Li dis dou vrai aniel. Die Parabel von dem ächten Ringe, Französische Dichtung des dreizehnten Jahrhunderts, [...] zum ersten Male hrsg. von A. TOBLER, zweite Auflage, Leipzig, S. Hirzel, 1884. 5 Cfr. Gesta Romanorum, von H. OESTERLEY, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1872, pp. 416-17. 6 Cfr. PENNA, La parabola dei tre anelli, cit., rispett. pp. 50-62, 63-69, 70-90. 7 Opportuna correzione, tra le altre, in M. PICONE, Il ‘Decameron’ come macrotesto: il problema della cornice, in Introduzione al ‘Decameron’, a cura dello stesso e M. MESIRCA, Firenze, Cesati, 2004, pp. 9-33, cui si rimanda anche per la bibliografia accumulatasi sul punto (ma qualche cautela andrebbe conservata a proposito di contatti con raccolte di racconti orientali la cui mediazione nei confronti del Decameron è ancora da acclarare puntualmente); cfr. anche M. PICONE, Lettura macrotestuale della prima giornata del ‘Decameron’, in Feconde venner le carte, Studi in onore di O. Besomi, a cura
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cornice, ma anche alle parti commentative che aprono e chiudono i singoli racconti (discusse più oltre), e di cui Penna non fa cenno. Si capisce che in interventi più recenti, da tempo ormai riconosciutosi il distintivo valore di soglia di tali porzioni di testo, lo snodo non possa essere evitato, e su esso anzi si appuntino le attenzioni di lettori a noi più vicini. Alla possibilità di leggere il Decameron come macrotesto (l’uso del termine, ormai frusto, è reso obbligatorio dalla fattispecie in discussione) si è dedicato, in un lavoro di forte impegno, necessariamente nutrito di una ampia premessa teorica, Giovanni Cappello.8 Sfrondando il lavoro da una certa vertigine terminologica (di applicabilità spesso incerta), e venendo direttamente al punto, Cappello ritiene che la raccolta presenti una aspirazione macrotestuale, o, con altre parole, ancora sue, una macrotestualità debole (in altro senso il mancato raggiungimento di una compiuta macrotestualità riguarderebbe anche il Canzoniere, del che, malgrado la pertinenza di molte singole osservazioni, pare lecito dubitare);9 non, insomma, una compiuta macrotestualità, quale è data riscontrare nella Vita nuova e nella Commedia.10 Col Decameron ci si troverebbe di fronte perciò a una serie di segmenti macrotestuali, che solo all’interno di sezioni, che restano volta per volta da perimetrare (e non necessariamente sono garantite dal tema prefissato per la giornata), consentono di vedere risolta la contiguità delle singole narrazioni in continuità, produttrice di incremento coerente di senso.11 Controprova di ciò sarebbe il fatto che il testo sopporterebbe senza eccessive scosse quello che lo studioso definisce «test di di T. CRIVELLI, con una bibliografia degli scritti a cura di C. CARUSO, 2 to., Bellinzona, Casagrande, 1997, I pp. 107-22 (con qualche integrazione anche in ID., Il principio del novellare: la prima giornata, in Introduzione al ‘Decameron’, cit., pp. 57-78). 8 Cfr. G. CAPPELLO, La dimensione macrotestuale. Dante, Boccaccio, Petrarca, Ravenna, Longo, 1998. 9 Cfr. CAPPELLO, op. cit., pp. 183-232. Per contro basta riandare ai più classici commenti cinquecenteschi, e, vicino a noi, ai migliori usciti negli ultimi anni (F. PETRARCA, Canzoniere, a cura di M. SANTAGATA, nuova ed. aggiornata, Milano, Mondadori, 2004 [19961], nonché l’ed. del medesimo testo a cura di R. BETTARINI, 2 voll., Torino, Einaudi, 2005). 10 Qualche dubbio sulla reale validità operativa del concetto di macrotesto forte mostra di avere onestamente lo stesso studioso, interrogandosi sul rischio che tale designazione finisca col poter riguardare un numero ristretto di esemplari testuali, così da rendersi scarsamente applicabile, o meglio da dover cedere il passo di fronte a un proliferare di macrotesti deboli (restando beninteso del tutto vero che vi siano testi che si sottraggono a ogni organizzazione macrotestuale; cfr. CAPPELLO, op. cit., pp. 226-28). 11 Cfr. CAPPELLO, op. cit., part. pp. 174-81.
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antologizzazione», vale a dire la pubblicazione di singole unità narrative prive dell’ausilio di una scheda informativa che le introduca.12 Più che lecito, rovesciando l’argomentazione, obiettare che il Decameron tolleri l’esperimento solo se si insiste a leggere “monadicamente” le singole novelle, secondo una prospettiva di durata secolare (anche presente, nient’affatto dominante però, presso il primo pubblico e fino a tutto il Cinquecento), ma estranea a quella che qualificati lettori antichi e ricerche recenti hanno mostrato essere la logica della confezione del libro. Quello della tenuta dell’insieme è d’altronde rovello che tocca più o meno ogni autore di raccolte di racconti (il primo che manifesti una tendenza consapevolmente contraria è Bandello, per il quale è comunque necessario operare distinzioni, giacché anche nel suo caso la proclamata disattenzione alla continuità dell’organismo è risarcita dal vero tessuto connettivo, costituito dalla conversazione di corte, sicché la disarticolazione esibita trova il suo collante nei soggetti incaricati del racconto). Ritengo in questo senso verosimile che l’avvertimento leggibile nel Prólogo al lector delle Novelas ejemplares di Cervantes (notoriamente attento non solo a Boccaccio, ma alla stessa produzione narrativa cinquecentesca italiana) testimonii la consapevolezza che, di fronte alle raccolte d’autore, una lettura antologica (cui non per caso ironicamente invita Boccaccio: Concl. aut., 19) possa compromettere l’equilibrio della compagine, e segnali l’urgenza di tenere sotto controllo tale prassi: «Heles dado nombre de ejemplares, y si bien lo miras, no hay ninguna de quien no se pueda sacar algún ejemplo provechoso; y si no fuera por no alargar este sujeto, quizá te mostrara el sabroso y honesto fruto que se podría sacar, así de todas juntas, como de cada una de por sí».13 12
Cfr. CAPPELLO, op. cit., pp. 17-29 (part. pp. 20-24). M. DE CERVANTES SAAVEDRA, Novelas ejemplares, Edición de H. SIEBER, 2 voll., Madrid, Ediciones Cátedra, 200423, I p. 52. Va però aggiunto che l’avviso può anche essere allusione polemica allo smembramento macrotestuale operato dalle versioni castigliane del Decameron a noi note (tra le quali l’unica a stampa, e capostipite della successiva tradizione in quella lingua fino alla messa all’Indice del 1559, è l’incunabolo sivigliano finito di stampare l’8 novembre 1496, di cui si conosce un’unica copia, conservata alla Biblioteca Reale di Bruxelles: benché si debba ipotizzare, per gli autori spagnoli del Siglo de oro, un accesso diretto al testo italiano). Su ciò cfr. l’esaustivo J.C. CONDE LÓPEZ, Las traducciones del ‘Decameron’ al castellano en el siglo XV, in La traduzione della letteratura italiana in Spagna (1300-1939). Traduzione e tradizione del testo. Dalla filologia all’informatica, Atti del Primo Convegno Internazionale (13-16 aprile 2005), […] a cura di M. DE LAS N. MUÑIZ MUÑIZ, con la collaborazione di U. BEDOGNI e L. CALVO VALDIVIELSO, Barcelona/Firenze, Universitat de Barcelona/F. Cesati, 2007, pp. 139-56 (ivi, p. 155, un notevole passo dal prologo di Tirso de Molina ai Cigarrales de Toledo, per tanti versi accostabile al brano cervantino citato). 13
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Va aggiunto che a comprendere la peculiare natura del macrotesto decameroniano sarebbe di aiuto prezioso qualsiasi testimonianza sicura sulla sua formazione nel tempo, inibita invece (contrariamente a quanto avviene per il Canzoniere) dall’assenza di attestazioni relative a “forme” redazionali precedenti la definitiva (a meno che non si voglia considerare il testo tràdito dal Parigino Italiano 482 come una indubitabile prima redazione;14 anche in questo caso, comunque, ci si troverebbe davanti a fenomeni ben diversi, in termini di interventi sui testi, da quelli ingenti anche in termini struttivi riscontrabili, per il Canzoniere, sulle carte petrarchesche). L’unico dato in proposito, su cui da tempo molti convengono, ma in realtà senza supporto di prove certe, deriva dall’introduzione alla quarta giornata, che potrebbe far supporre una circolazione delle prime tre giornate, o di alcune novelle a esse appartenenti:15 circolazione della quale peraltro non sussiste testimonianza inconfutabile. Nel contributo più ricco (anzi unico di tale natura) dedicato alla storia della tradizione del Decameron, attuato tramite vaglio autoptico dei testimoni superstiti analizzati nelle loro peculiarità grafiche e nella specificità della loro confezione, Marco Cursi segnala un unico caso (tra i 60 da lui studiati nell’arco cronologico dal 1360 al 1490) che potrebbe attestare un’antica diffusione del testo limitato alle prime tre giornate: il ms. Vat. lat. 9893.16 È appena 14 Come proposto da Branca in una nutrita serie di studî, culminati in Il capolavoro del Boccaccio e due diverse redazioni (I: M. VITALE, La riscrittura del ‘Decameron’. I mutamenti linguistici; II: V. BRANCA, Variazioni narrative e stilistiche), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2002. Sulla questione occorre ancora mantenere cautela; cfr. G. BRESCHI, Il ms. Parigino It. 482 e le vicissitudini editoriali del ‘Decameron’. Postilla per A. Rossi, in «Medioevo e Rinascimento», 18, n.s., XV 2004, pp. 77-119 (cui va ora aggiunto M. FIORILLA, Per il testo del ‘Decameron’, in «L’Ellisse», V 2010, pp. 9-38). Cautela che deve estendersi, a mio avviso a maggior ragione, alla possibilità che Boccaccio sia l’autore del corredo illustrativo del manoscritto (per economia rinvio, a proposito di tale ipotesi, a M.G. CIARDI DUPRÉ DAL POGGETTO, Il rapporto testo e immagini all’origine della formazione artistica e letteraria di G. Boccaccio, in Medioevo: immagine e racconto, cit., p. 456-73, e alla bibliografia ivi segnalata e discussa); mi limito a rimandare (anche per l’informazione bibliografica pregressa) a L. BATTAGLIA RICCI, Edizioni d’autore, copie di lavoro, interventi di autoesegesi: testimonianze trecentesche, in «Di mano propria». Gli autografi dei letterati italiani, Atti del Convegno internazionale di Forlì, 24-27 novembre 2008, […], a cura di G. BALDASSARRI et alii, Roma, Salerno Editrice, 2010, pp. 123-57 (part. pp. 145-57). 15 Cfr. G. PADOAN, Sulla genesi e la pubblicazione del ‘Decameròn’, in ID., Il Boccaccio le Muse il Parnaso e l’Arno, Firenze, Olschki, 1978, pp. 93-121. Lo studioso ipotizza anche una sistemazione del materiale a blocchi scalati nel tempo (giornate I-III; IVVI; VII-IX; X), con un disegno dell’ultima giornata chiaro però sin dall’inizio (cfr. ivi, rispettiv. pp. 94-98, 105-6); sul che è bene mantenere prudenza. 16 Cfr. M. CURSI, Il ‘Decameron’: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo, Roma, Viella, 2007, pp. 57-59, 173-76 (per la descrizione del manoscritto). Si tratta di caso
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il caso di rimarcare, per il punto in questione, che una diffusione del testo in segmenti distinti non ricalca necessariamente, tutt’altro, una redazione che si possa ipotizzare scalata in tempi cospicuamente divaricati. A tutto ciò va aggiunto come della cosa non facciano cenno Borghini e i Deputati nelle Annotazioni e discorsi del 1574, prodotti in servizio della stampa dell’anno precedente. È vero che il personaggio più eminente del gruppo, conforme ai suoi interessi, è attento soprattutto a fatti di lezione, piuttosto che a questioni redazionali;17 ma il suo silenzio in materia, se non è certo una prova, è un indizio da tenere in alta considerazione. Tornando al problema della macrotestualità, allo scopo di mostrare la validità della proposta, Cappello seleziona le prime quattro novelle della prima giornata (si sa, a tema libero), vedendovi realizzato un effettivo segmento macrotestuale. In dettaglio, le prime tre novelle sarebbero legate dal filo rosso della problematica religiosa (mi limito a ripercorrere questa porzione, perché già inclusiva dell’oggetto del importante perché il manoscritto (diviso dall’origine in tre volumi, secondo la scansione delle giornate I-III; IV-VII; VIII-X) è stato «trascritto tutto nello stesso momento, probabilmente appena dopo la morte del Boccaccio» (p. 58). Ai fini che qui interessano non riveste importanza il fatto che la terza parte, per lo più perduta, venga risarcita da una mano databile al terzo quarto del secolo XV. Diverso il caso del ms. Roma, Biblioteca Vallicelliana, R 61, databile al primo quarto del secolo XVI, il cui stato di incompletezza non permette di decidere se la trascrizione sia stata interrotta o se esso sia mutilo (cfr. CURSI, op. cit., pp. 239-47). Lo stesso studioso ha poi segnalato un lacerto da far risalire a un manoscritto appartenente alla più antica diffusione; cfr. M. CURSI, Un’antica carta di prova del ‘Decameron’ (Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Cod. Castiglioni 12)?, in «Studi sul Boccaccio», vol. XXXVII 2009, pp. 105-25. 17 Non sempre, tuttavia, come mostra il passo seguente, relativo a un’interpolazione riscontrabile in alcuni testimoni (a proposito di VIII 9 15): «Tutte queste parole mancano ne’ quattro principali libri, et in alcuni altri, et questo ci fa credere che non sia avvenuto per difetto del copiatore; et siamo stati alcuna volta dubbii se nel principio fussero per avventura usciti fuori, et dal medesimo autore, duoi testi, l’un prima et l’altro poi, et l’ultimo in qualche cosellina, come sarebbe questa, diverso dal primo; o se pur son queste di quelle aggiunte che si son trovate tante volte et tante in questo libro, che […] son cagione di farci più sospettosi che forse non bisognerebbe. Ma e’ si è horamai tante volte dimostro questo disordine […] che noi crediam pure dover esser sempre scusati se […] non crederemmo qualche volta a certi testi il vero» (Le Annotazioni e i Discorsi sul ‘Decameron’ del 1573 dei Deputati fiorentini, a cura di G. CHIECCHI, Roma-Padova, Antenore, 2001, pp. 274-75); i «principali libri» (il codice Mannelli, la cosiddetta edizione Deo gratias, un codice appartenuto a Ludovico Beccadelli, uno collazionato da Matteo Franzesi con un manoscritto antico posseduto da Giovanni Gaddi, uno di proprietà della famiglia Rosati, collazionati sulla copia di lavoro, costituita da un esemplare della giuntina del 1527 del Decameron), sono descritti nel Proemio alle Annotazioni (cfr. ed. cit., pp. 14-17). Notizie sui testimoni elencati (irreperibili sono i codici Beccadelli, Gaddi, Rosati) nella scheda di S. C. (S. CARRAI), in V. Borghini. Filologia e invenzione nella Firenze di Cosimo I, Ideazione e cura del catalogo G. BELLONI e R. DRUSI […], Firenze, Olschki, 2002, pp. 275-77.
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presente studio, e perché potenzialmente destabilizzante, lasciando da parte il caso meno determinante di I 4). Tutt’altro fatto, e degno di attenta considerazione (perché l’osservazione nasce dai modi di trasmissione dei testi) è l’ipotesi, avanzata da Rinoldi, che Boccaccio abbia, nelle novelle di Abraam e del Saladino, scorporato nuclei narrativi, verosimilmente circolanti in Toscana, originariamente riferiti alla sola persona del secondo, attuando così una variatio tipicamente sua, che mette sulla scena, nelle prime tre novelle, un cristiano, un giudeo, un saraceno (e, aggiungo, soffermandosi in tre modi diversi sull’inattingibilità del disegno divino).18 Come che stia la cosa, il suggerimento di Cappello corrisponde certo alla vulgata interpretativa di tale blocco narrativo. Ma si tratta di una vulgata da rivedere su un tratto sostanziale, vale a dire in relazione appunto alla terza novella (Melchisedech e il Saladino, su cui continua a riverberarsi impropriamente e a ritroso l’influenza di Nathan der Weise di Lessing); a proposito della quale, scrive lo studioso, «nonostante l’abilità di Melchisedech possa apparire il tema principale, questa serve in realtà da veicolo per la ripresa di un vecchio nodo narrativo, di lunga tradizione, utilizzato per affermare l’impossibilità di esprimere un giudizio umano sulla validità di questa o quella religione, e rimandando il giudizio a Dio e alla sua onniscienza».19 Invertendo l’ordine della proposizione, si parta dalla fine, asserente la sospensione del giudizio in ordine alla verità delle singole religioni. Già nel racconto più prossimo, sul piano genealogico, alla narrazione in questione (Novellino, LXXIII), è dubbio che sia questo il fulcro del racconto, che verte piuttosto sull’acutezza della risposta.20 Nei 18 Cfr. P. RINOLDI, Il Saladino in Italia: materiali per la storia del mito e il racconto dell’‘adoubement’, I e II, in «Studi mediolatini e volgari», XLIX 2003, pp. 151-77 (part. pp. 171-73, per l’ipotesi segnalata), e L 2004, pp. 225-50, cui rimando anche per l’agguerrita informazione (ringrazio Stefano Asperti per la segnalazione di questo contributo, che mi era sfuggito). Il saggio di Rinoldi si basa a sua volta, per questo tratto, su A. CONTE, Bertran de Born tra liberalità ed eccesso. Appunti su alcune sequenze del ‘Novellino’, in «Filologia e Critica», XXII 1997, pp. 81-97 (part. pp. 87-90). 19 CAPPELLO, op. cit., pp. 148-49. 20 Cfr. la sezione dedicata alle Fonti in Il Novellino, a cura di A. CONTE, Presentazione di C. SEGRE, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 365-67 (e quanto detto a p. 367 n. 2). Prescindo qui dal fatto, altrimenti importante, che, allo stato attuale, si può ritenere che le versioni della vicenda trasmesse dal Novellino, dall’Avventuroso siciliano (III, ch. e; cfr. BOSONE DA GUBBIO, L’avventuroso siciliano, ed. critica a cura di R. GIGLIUCCI, Roma, Bulzoni, 1989, pp. 201-2, nonché R. GIGLIUCCI, Argumentum, Historia: nota su ‘Avventuroso siciliano’ e ‘Decameron’, in «Studi sul Boccaccio», vol. XXIII 1995, pp. 245-53) e dal Decameron discendono probabilmente da una stessa fonte peninsulare (cfr. Il Novellino, ed. CONTE cit., p. 366).
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confronti della versione decameroniana il dubbio deve farsi ancora più marcato, intervenendo Boccaccio con quel più di indicatori spaziotemporali, quelle informazioni supplementari sulle motivazioni e sugli effetti della vicenda sui protagonisti anche in proiezione futura, che contribuiscono a superare l’esemplarità del caso tipico articolandolo nella sua individuale forma problematica.21 La versione del Novellino (sotto la didascalia «Come il soldano, avendo bisogno di moneta, vuolle cogliere cagione a un giudeo»), recita: l soldano, avendo bisogno di moneta, fo consigliato che cogliesse cagione a un ricco Giudeo ch’era in sua terra, e poi gli togliesse il mobile suo, ch’era grande oltre numero. Il soldano mandò per questo giudeo, e domandolli qual fosse la migliore fede, pensando: -S’elli dirà la giudea, io dirò ch’elli pecca contro la mia. E se dirà la saracina, e io dirò: dunque, perché tieni la giudea?- El giudeo, udendo la domanda del signore, rispuose: -Messere, el