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Italian Pages 444 Year 1993
SIRO FERPON'
ATTORI MERCANT' LA COMMEDIA DELL'ARTE IN -UR TRA CINQUE E SEICENTO
EINAUDI
Questo libro racconta il teatro dal punto di vista degli attori. Siamo negli anni finali del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento. Il teatro di cui si parla è quello solitamente definito Commedia dell’ Arte. Ma qui le maschere sono sullo sfondo; in primo piano stanno le vite degli attori che le impersonarono: l’egotico Arlecchino Tristano Martinelli da Mantova, l’audace Pier Maria Cecchini, il
profumiere capocomico Flaminio Scala, il primattore e drammaturgo Giovan Battista Andreini (e sullo sfondo i grandi suoi genitori, Francesco - Capitano Spavento e la divina Isabella), la primadonna Virginia Ramponi in arte Florinda, e tanti altri minori geniali errabondi. Attraverso documenti inediti estratti
dagli archivi, messi a confronto con le fonti storiche e letterarie, emerge un intreccio di biografie materiali, avventure artistiche, destini economici che attraver-
sano i luoghi della storia sociale e civile. Nella cornice dei porti di Napoli e di Genova, delle corti di Mantova e Parigi, dei
quartieri di Baldracca a Firenze e di Rialto a Venezia, dei nuovi insediamenti ur-
bani di Madrid, i teatri vengono analizzati come luoghi di vendita dello spettacolo: aree di libero mercato e di controllo sociale. Le strade, le stazioni di posta, le dogane, i valichi montani, le navigazioni fluviali e marittime, le cancellerie principesche, i monti di pietà, sono documentati come ostacoli e, nello stesso tempo, come stimoli all'invenzione artistica. Ma dalla storia materiale il libro si innalza poi verso il mito. Il mito che gli attori co-
In sopracoperta: Anonimo Fiammingo, Banchetto con maschere e Banchetto con maschere e musicanti, 1627 cit-
ca. Firenze, Villa di Petraia. Foto O. Guaita.
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© 1993 Giulio Einaudi editore s. p.a., Torino ISBN 88-06-13183-4
Siro Ferrone
Attori mercanti corsari La Commedia dell’ Arte in Europa tra Cinque e Seicento
Giulio Einaudi editore
Indice
Introduzione Nota ai testi
Ringraziamenti Abbreviazioni
Attori mercanti corsari I. mi. ir. Iv. v.
274
L'invenzione viaggiante Le stanze del teatro La mercatura teatrale e le corti Don Giovanni impresario Arlecchino rapito
vi. Lelio bandito e santo vi. Il pirata senza terra Appendice
323
I.
328
I. Carteggio di una mercatura teatrale
334
mi. Il «manifesto» di don Giovanni
339.
Arlecchino corsaro
Indice dei nomi e dei luoghi
Elenco delle illustrazioni
I. Itinerari.
1. Stazioni di posta e comunicazioni stradali in Italia all’inizio del Seicento, incisione. Da L'Italia con le sue Poste e Strade Principali descritta da Giacomo Cantelli da Vignola Geografo del Serenissimo Signor Duca di Modena data in Luce da Domenico de Rossi erede di Gio. Giacomo de Rossi, dalle sue Stampe in Roma
alla Pace con privil. del S.P. e Licenza de Sup. l’anno 1695 il di primo Maggio (da G. A. Magini, Italia, 1608). Firenze, Istituto Geografico Militare: (DD) IL.1, 1738, Coll. Bianconi 3.
2. Principali circuiti e piazze teatrali italiane all’inizio del Seicento. Schema grafico di Siro Ferrone (da Magini, 1608, e da Cantelli, 1695). 3. Stazioni di posta e comunicazioni stradali in Francia all’inizio del Seicento. Da Melchior Tavernier, Carte Géographique des Postes qui traversent la France (1632). Parigi, Biblioteca Nazionale, Cartes et Plans, Ge. D. 13432. (Foto della Biblioteca).
1. Le città e i teatri
4. Venezia. Il teatro di San Moisè (ubicazione approssimativa) e la zona circostante piazza San Marco. Particolare da Giovanni Merlo, Pianta prospettica di Venezia, 1670 (?); prima stampa: 1660. Firenze, Kunsthistorisches Institut, n. 23042. (Foto Guaita, Firenze).
5. Venezia. Il teatro di San Cassiano (ubicazione approssimativa) e il quartiere di Rialto, 1660. Firenze, Kunsthistorisches Institut, n. 23037. (Foto Guaita, Firenze).
6. Madrid. Corral del Principe [1], Corral de la Cruz [2] e il quartiere di Puerta del Sol, 1656. Particolare da Topographia de la Villa de Madrid descrita por Don Pedro Texeira aio 1656, Archivio de la Diputacion Provincial de Madrid. Parigi, Biblioteca Nazionale, Cartes et Plans, Ge A. 584. (Foto della Biblioteca).
7. Parigi. Il quartiere dell’Hòtel de Bourgogne. Particolare della pianta di Olivier Truschet e Germain Hoyau (1552), planche n. 6. Parigi, Biblioteca Nazionale, Cartes et Plans, Ge. CC. 1530. (Foto della Biblioteca).
8. Parigi. L’Hétel de Bourgogne alla metà del secolo XVII. Particolare da Plan de Paris dressé geometriquement en 1649 et publié en 1652 par Jacques Gomboust [...], planche n. 5. Parigi, Biblioteca Nazionale, Cartes et Plans, Ge. DD. 2962. (Foto della Biblioteca).
Elenco delle illustrazioni
. Parigi. Hotel de Bourgogne [1], Théatre du Marais [2], Place de la Grève [3], Pont-Neuf [4], Foire Saint-Germain [5], 1610. Particolare da Melchior Tavernier, pianta di Parigi, 1630 (d’après Matthieu Mérian, 1610). Parigi, Biblioteca Nazionale, Cartes et Plans, Ge. CC.1. (Foto della Biblioteca). IO.
Firenze. Palazzo Vecchio, il teatro Mediceo [1], il quartiere di Baldracca e il teatro della Dogana [2], incisione. Particolare da Fra’ Stefano Bonsignori, Nova pulcherrimae civitatis Florentinae topographia accuratissime delineata
(1584). Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. (Foto Guaita, Firenze). II.
Firenze. Immagine aerea della zona «portuale» in cui sorgeva il teatro della Dogana (1982). Firenze, Istituto Geografico Militare. (Foto dell’Istituto).
12,
Pianta dello «Stanzone che già serviva per le Commedie d’Istrioni della Dogana di Firenze», inchiostro e acquerello (1713-17). Firenze, Biblioteca Nazionale, Archivio Magliabechiano, f. II. Libreria Magliabechi, Affari correnti dal dî 22 maggio 1714 a tutto il 26 ottobre 1736, ins. XI, c. 219r.
13. Teatro della Dogana o di Baldracca visto dal palcoscenico. Ipotesi di ricostruzione. Modello dell’arch. Ferdinando Ghelli. Scala 1:25. Firenze, Amministrazione Provinciale.
I4. Teatro della Dogana o di Baldracca. La zona del pubblico e il palcoscenico.
Ipotesi di ricostruzione. Modello dell’arch. Ferdinando Ghelli. Scala 1 : 25. Ibidem.
IS. Ubicazione delle Stanze di San Giovanni dei Fiorentini (“comedia nuova”) e
di San Giorgio dei Genovesi (“comedia vecchia”) in Napoli, acquerello, xvII secolo. Napoli, Archivio di Stato, Monasteri soppressi, f. 784, foglio 8.
16-17. Napoli. Chiese di San Giorgio dei Genovesi [A], San Giovanni dei Fiorentini [B], Porta Capuana [C], Porta della Calce e quartiere della duchesca [D], Tea-
tro di San Bartolomeo [E]. Particolare dalla pianta di Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis Napolitanae cum omnibus viis accurata et nova delineatio Napoli 1629. Milano, Collezione della Banca Commerciale Italiana.
18.
Genova. L’osteria e il teatro del Falcone, incisione. Ubicazione approssimativa. Particolare da Alessandro Baratta, La farzosissima e nobilissima città di Genova con le sue nuove fortificazioni, 1637. RAI Ai Parigi, Biblioteca Nazionale, Cabinet des Estampes, Vb. 13. (Foto della Biblioteca).
19. Milano. Il duomo [115] e la Corte ducale [118] dove si trovavano diversi luoghi
per le commedie. Particolare dalla pianta di Marc’ Antonio Baratieri, La gran città di Milano, Milano 1629. Milano, Archivio Storico Civico. 20.
L’Aja. I luoghi dello spettacolo professionale [1] e il castello del potere [2], incisione acquarellata. Da [Georg Braun e Frans Hogemberg], Civitates orbis terrarum, Liber quartus urbium praecipuarum totius mundi, Coloniae Agrippinae, Apud Petrum à Brachel, 1588, tav. 45. Firenze, Biblioteca Nazionale, 22.1.3. (Foto della Biblioteca).
ZI
Mantova, acquaforte. Da Lodovico Delfichi, Urbis Mantuae descriptio, Man-
tova 1628 (da Gabriele Bertazzolo, 1596).
Mantova, Biblioteca Comunale, St. R.10.1. (Foto Giovetti, Mantova).
Elenco delle illustrazioni 225
XI
Mantova. Palazzo Ducale con il teatro di corte [4] e il teatro dei comici [81],
acquaforte. Particolare da Lodovico Delfichi, Urbis Mantuae descriptio, Man-
tova 1628 (da Gabriele Bertazzolo, 1596). Ibidem.
mi. Galleria comica
23. Bernardino Poccetti, Episodi della vita dei sette fondatori dei Servi: Il Beato So-
stegno alla corte di Francia, lunetta affrescata nel Chiostro Maggiore della chiesa della Santissima Annunziata in Firenze, 1607-1608 (?). (Foto Alinari, Firenze).
24. Francesco Andreini, particolare da Poccetti, Episodi della vita cit. Ibidem.
25. Giovan Battista Andreini, particolare da Poccetti, Episodi della vita cit. Ibidem.
26.
Scenografia effimera, particolare da Poccetti, Episodi della vita cit. Ibidem.
27: Dama (Isabella Andreini?), particolare da Poccetti, Episodi della vita cit. Ibidem.
28.
Medaglia commemorativa per la morte di Isabella Andreini (Lione, 1604): profilo dell’attrice. Argento, recto. Parigi, Biblioteca Nazionale. (Foto della Biblioteca).
29. Stemma della famiglia Usimbardi, particolare da Poccetti, Episodi della vita cit. (Foto Alinari, Firenze).
30. Stemma della famiglia Usimbardi. Da Sepoltuario Fiorentino ovvero descrizione delle Chiese, Cappelle, e Sepolture, loro Armi et Inscrizioni della Città di Firenze e suoi contorni fatta da Stefano Rosselli (1658). Firenze, Archivio di Stato, ms. 625, p. 921, n. 6. (Foto Guaita, Firenze).
30 Stemma della famiglia Usimbardi nel palazzo vescovile di Colle Vai d’Elsa (se-
colo xvII). (Foto Guaita, Firenze).
32. Stemma della famiglia Cerracchi Del Gallo. Da G. Mazzei, Steri ed insegne
pistoiesi con note e notizie storiche, Litografia Bindo Fedi, Pistoia 1907, ad vocem. Ibidem.
33- Ritratto di Francesco Andreini. Incisione nell’antiporta del volume F. Andreini, Le Bravure del Capitan Spavento, Somasco, Venezia 1609. Firenze, Biblioteca Nazionale. (Foto Guaita, Firenze).
34.
Stemma della famiglia Andreini, incisione. Da G. B. Andreini, Trattato sopra
l’arte comica cavato dall’opere di S. Tomaso e da altri santi, Volemar Timan
Germano, in Fiorenza 1604. Firenze, Biblioteca Nazionale. (Foto Guaita, Firenze).
G. B. An35: Ritratto di G. B. Andreini con lo stemma di famiglia, incisione. Da dreini, La Florinda, Bordoni, Milano 1606. Ibidem.
Elenco delle illustrazioni
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. Ritratto di G. B. Andreini con lo stemma di famiglia disarticolato, incisione. Da G. B. Andreini, L’Adaro, Bordoni, Milano 1613. Ibidem.
37 Ritratto di G. B. Andreini, incisione. Da G. B. Andreini, Lo Schiavetto, Ciotti, Venezia 1620. Ibidem.
38. Domenico Fetti, Ritratto di Francesco Andreini, olio su tela, 1621-22 (?) Leningrado, Ermitage, n. inv. 153.
39. Giusto Sustermans (?), Ritratto di Francesco Andreini in veste di capitano,
(particolare), inizio secolo XVII.
Già Villandry, collezione Carvalho (Carvallo), ora disperso.
40. Diavoli emergenti dal sottopalco. Da G. B. Andreini, Adarzo cit., atto I, incisione n. 8. Firenze, Biblioteca Nazionale. (Foto Pineider, Firenze).
4I. Ritratto di Maddalena, incisione. Da G. B. Andreini, La Maddalena, Osanna, Mantova 1617. Ibidem.
. Domenico Fetti, Bacco e Arianna a Nasso, tavola, 1611-13 (?). Londra, Matthiesen Fine Art Ltd.
43.
Domenico Fetti, Bacco e Arianna a Nasso cit., particolare. Ibidem.
. Domenico Fetti, Malinconia, olio su tela, 1618 circa. Venezia, Gallerie dell’Accademia, n. inv. 671.
45.
Domenico Fetti, Malinconia cit., particolare. Ibidem.
. Domenico Fetti, Moltiplicazione dei pani e dei pesci, lunetta su tela, 1618-19. Particolare. Mantova, Palazzo Ducale, in. inv. 6842. (Foto Giovetti, Mantova).
47. Dominicus Custos, Ritratto di don Giovanni dei Medici da giovane (prima del 1595), incisione.
Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Collezione iconica 49892. (Foto della Sovrintendenza per i Beni Artistici, Firenze).
48. Ritratto di Don Giovanni (circa 1767), disegno di Giuseppe Zocchi, incisione
di Francesco Allegrini. Firenze, Biblioteca Marucelliana, Incisioni, vol. 92 bis, n. 4. (Foto Guaita, Firenze).
49.
Don Giovanni dei Medici (?), particolare da P. P. Rubens, L'arrivo di Maria dei Medici a Marsiglia, 1622-25. Parigi, Louvre. (Foto Réunion des Musées Nationaux, Parigi).
50. Cristofano Dell’Altissimo, Ritratto di Don Giovanni, tavola, 1610 circa. Firenze, Uffizi, inv. 1890, n. 128 (Collezione Gioviana). (Foto della Sovrintendenza per iBeni Artistici, Firenze).
SI. Lapide in marmo del mulino di Tristano Martinelli (Arlecchino) a Bigarello, 1618. Mantova, Museo del Palazzo Ducale. (Foto del Museo).
Elenco delle illustrazioni
XII
52. Arlecchino (Tristano Martinelli), incisione. Da Compositions de Rbetorique de Monsieur Don Arlequin, s.i.t, Lione 1601, p. 48. Parigi, Biblioteca Nazionale, Réserve Yd. 922. (Foto della Biblioteca).
53. Scapino (Francesco Gabrielli) con Spinetta (moglie del Gabrielli), collage in
piume d’uccello. Da Dionisio Menaggio, Feather Book (1618), tav. 110.
Blacker-Wood Library of Zoology and Ornithology, Mc Gill University, Montreal (Canada). (Foto della Biblioteca).
54.
Dottore Campanaccia (Giovanni Rivani). Da Dionisio Menaggio, Feather Book cit., tav. 103. Ibidem.
PDL Cocalino de’ Cocalini (Giovan Battista Andreini). Da Feather Book cit., tav.
II4.
Ibidem.
56. Florinda (Virginia Ramponi). Da Feather Book cit., tav. 106. Ibidem.
57. Innamorati. Da Feather Book cit., tav. 111. Ibidem.
58. Capitan Matamoros (Silvio Fiorillo). Da Feather Book cit., tav. 108. Ibidem.
59. Pulcinella (Silvio Fiorillo). Da Feather Book cit., tav. 102. Ibidem.
60.
Trappolino (Giovan Battista Fiorillo) e Beltrame (Nicolò Barbieri). Da Feather Book cit., tav. 101. Ibidem.
Introduzione
Questo libro è dedicato agli attori, avventurosi e intelligenti, che inventarono, tra il 1580 e il 1630, il teatro moderno. A loro, pit che agli umanisti, architetti di edifici e di scene, e prima che agli scrittori di commedie e trattati, spetta il merito di avere fondato la disciplina dello spettacolo che giunge fino a noi. E intendiamo disciplina in senso letterale, come autogoverno dei comici ed esercizio sapiente dell’ascolto da parte degli spettatori. Le due quinte che abbiamo fissato (1580-1630) sono, come sempre, convenzionali. La prima viene suggerita dall’improvviso fiorire, nel corso degli anni Ottanta del Cinquecento, di un fitto nucleo di edizioni legate all’attività di attori professionisti e dal contemporaneo approdo alla maturità artistica di comici destinati a lasciare traccia di sé nella storia '. La seconda si situa al termine di un decennio che, oltre a vedere la scomparsa di alcuni protagonisti della nostra vicenda, registra un momento di profonda crisi nella cultura cortigiana e nelle sue manifestazioni teatrali. Il 1630 è l’anno del tragico sacco di Mantova, quasi il sipario di una stagione felice”. Sul palcoscenico delimitato da queste date gli attori di cui parliamo si affacciarono in momenti diversi: nessuno di loro visse quell’epoca in tutta la sua estensione, ciascuno contribuî in maniera decisiva a farne un’epoca luminosa dello spettacolo, alcuni le sopravvissero manifestando un nostalgico rimpianto. Fu quello iltempo in cui i progetti di riforma, nati più di un secolo prima, si spensero in un banale bisogno di ordine. Gli utopisti del teatro rinascimentale avevano generato gli apparatori del gran teatro di corte. E la loro storia, cominciata in gloria, finî in requiem. I progetti di dominio razionale dello spazio, derivati dal grande magistero di Brunelleschi, si inaridirono nel cimitero delle idee morte. Chi studia quel gran teatro ha giustamente rilevato che si tratta di una storia in discesa, che comincia bene nel sole dell’utopia aristocratica, si rifrange sull’amara storia civile del Cinquecento e si spegne nel crepuscolo accademico: malinconico come le ville e il teatro di Palladio. Ma non
XVI
Introduzione
avrebbe ragione se, di lî, ricavasse una guida didattica a tutto il teatro. Come se dalle ceneri del grande spettacolo di corte, aristocratico e intelligente, utopico e riformatore, nascessero, grazie alla inarrestabile degradazione, tutti i teatri seguenti. Due idee si riscontrano in quel diagramma: l’implicita ammissione che esista, al di là dei secoli, risalendo alle fonti prime del teatro, un’età dell’oro, in cui virtù e intelligenza congiurarono a fare del rito teatrale un evento di perfezione, da cui siamo destinati, giorno per giorno, ad allontanarci irresistibilmente; la convinzione che ogni avanzamento delle arti avvenga per via di ragione, secondo progetti di riforme orchestrati da élites. La prima idea sogna un teatro lontano dalla folla, fatto da pochi e per pochi, come avveniva per i riti virtuosi delle aristocrazie pre-rinascimentali: aspira a un non-teatro, ha in fastidio lo spettacolo reale, ne sogna uno mentale. La seconda idea muove da un’attenzione prevalente al teatro del Novecento e ne è succube: sopravvaluta, secondo un certo conformismo intellettuale, le avanguardie contemporanee e va alla ricerca di tutto quanto a esse somiglia. Predilige nei secoli passati le controfigure dei maestri e dei pedagoghi del secolo nostro. Gli uni e gli altri leggono la storia del teatro come se si trattasse di metafore del nostro quotidiano. Tutta la storia del teatro sarebbe la storia di una crisi. La rigenerazione sarebbe possibile solo con un gesto di rivolta. È una verità che il teatro sia una metafora, anzi una fabbrica di metafore, e che ne produca in abbondanza. È il regno in cui domina, sfrenata, la legge del «come se». L'attore è cozze se fosse un’altra persona, la scena core se fosse un altro luogo, il tempo fittizio viene accettato cozze se fosse un altro tempo, l'oggetto vale un altro oggetto. Il fascino del teatro consiste nel gioco delle comparazioni, delle somiglianze e delle differenze, degli equivoci e degli scambi di persona. Quell’attore è un personaggio ma potrebbe essere un altro e potrebbe essere una persona vera; ma intanto dobbiamo riconoscere che è del tutto diverso da noi. Proviamo curiosità, paura, attrazione, repul-
sione, ma anche simpatia. Diffidiamo, per arrivare, grazie allo spettacolo, alla confidenza. Quel luogo e quell’ombra richiamano un’altra
ombra e un altro luogo reale, ma anche uno possibile, un altro immaginabile, un altro ancora già una volta immaginato. E cosî all’infinito va il gioco del piacere di comparare. Lo storico del teatro, come anche il comune spettatore, è indotto a
proseguire automaticamente la comparazione e a trasferirla alla storia. Di metafora in metafora, dalla scena del passato egli arriva al nostro presente. Qui l'esercizio dei confronti e delle differenze si con-
Introduzione
XVII
clude. L’oggi è il secondo termine di una comparazione (metafora) cominciata sulla scena. Storie cosî ne sono state scritte. Non solo del teatro. E in genere risultano coerenti e conseguenti. Perché non contraddicono mai le metafore, cioè i teatri, che descrivono. Hanno il merito di spiegarli e giustificarli secondo un punto di vista inalterabile. Il punto di vista dello spettatore. Si tratta di un’ottica necessaria, e tuttavia insufficiente, da
sola, a restituire la complessità dello spettacolo, alla cui realizzazione partecipano, sempre, punti di vista diversi e addirittura, talvolta, antagonistici. La tentazione a semplificare l’analisi dello spettacolo situandosi da una sola parte di esso, deriva forse dall’abitudine a considerare il pubblico che vede gli spettacoli appartenente allo stesso gruppo sociale e culturale a cui appartengono i facitori di quegli spettacoli. Il presupposto può essere vero per epoche particolari, e comunque sempre in via molto approssimativa e convenzionale, come Ottocento della borghesia, il Novecento del teatro di massa, il Quattrocento del teatro aristocratico, il Rinascimento del teatro di corte. In questi casi la conoscenza approfondita della cultura alta (letteraria, artistica, filosofica) e della politica dei gruppi dirigenti consente, con un buon margine di approssimazione, di comprendere la metafora teatrale. Il teatro può essere letto come la comparazione raccorciata di quell’universo di idee e di gusti: una sorta di trascrizione della media aritmetica delle idee pit ardite del suo tempo. La storia dello spettacolo è, in quei casi, uno studio che vive di riflesso. Ci sono invece epoche in cui questa apparente tranquillità operativa viene messa perentoriamente in discussione. Sono le epoche del teatro che più ci interessano. Allora, ad esempio nel periodo che giace fra Cinque e Seicento, si può riscontrare il massimo scarto fra i punti di vista di chi fa e di chi vede lo spettacolo. È quanto avviene nel teatro che per consuetudine viene chiamato «degli istrioni», « dell’improvvisa», dei comici professionisti: insomma nella Commedia dell’Arte. Quel teatro ha il merito di obbligare lo storico che voglia capirlo a compiere uno sforzo, a sdoppiare il suo punto di vista, situandosi, nello stesso momento, dalla parte dello spettatore e dalla parte degli attori. Una doppiezza, del resto, legittimata dal fatto che in quel teatro spettatori e attori cominciarono a essere, come mal erano stati prima, diversi, non intercambiabili, separati da competenze, costumi, condizioni sociali inconciliabili. L’interpretazione dello spettaco-
lo di quel tempo non può quindi nascere da un unico punto di vista (quello dell’apparatore, del drammaturgo, dell’attore), ma dalla va-
XVIII
Introduzione
riabile e tremula tensione che congiunge, mediante lo scarto e il combaciare, spettatori e teatranti. Prima di allora gli spettacoli erano stati giochi chiusi (il teatro cortigiano, aristocratico, cortese, cristiano), appartenenti a gruppi omogenei di attori-spettatori che, occupando di volta in volta uno dei due punti di vista, di qua o di là della linea che separa la scena dagli spettatori, conoscevano bene, per esserne i produttori come i fruitori, le metafore, il linguaggio, i simboli, che avrebbero occupato lo spettacolo. E questo repertorio apparteneva alla comunità prima ancora che l'evento avesse luogo, prima che, per una convenzione necessaria, i ‘nostri’ (gli astanti) e i ‘loro’ (gli attori) si contrapponessero in
una scissione ficta per poi riconciliarsi. Era lo spettacolo dell’autocontemplazione mirabilmente ricostruito da Ludovico Zorzi in Venezia, Firenze e Ferrara’. Uno spettacolo in cui non venivano ammessi, tranne eccezioni, estranei, o meglio, stranieri. Le differenze di ruolo erano distribuite e tenute sotto controllo dagli apparatori, fossero questi i rappresentanti del patriziato veneziano, della borghesia mercantile fiorentina, dell’umanesimo cosmopolita. Al momento del gioco scenico, alcuni membri di quei gruppi sociali si assumevano il compito di ‘rappresentare’, e diventavano quindi gli stranieri; altri si situavano dalla parte dello spectare, e si confermavano quindi come cittadini stanziali. Nel gioco delle parti, la scena simulava un conflitto (una drammaturgia) inesistente, Il punto di vista della cultura cittadina di partenza bastava a spiegare ogni diversità apparente ‘. Altri teatri esistevano al di fuori di quello principale e più evoluto, ma incomunicanti, se non di rado, con il primo. Tra questi il teatro re-
so possibile dalla bravura tecnica degli attori: il teatro dei buffoni di corte (dove c’era la corte), il teatro dei cantastorie, il teatro dei ciarla-
tani. All’inizio del Cinquecento, diversi teatri entrarono per la prima volta in contatto. E in conflitto. L’avvento di torme, sempre più numerose, di comici professionisti (o anche semiprofessionisti) impegnati a vendere la loro abilità rappresentativa al di là delle mura municipali, cambia profondamente il panorama dello spettacolo agli inizi e nella prima metà del secolo xvi. Mentre gli intellettuali giocano tra loro a reinventare le forme del teatro classico, replicando in genere il
cerimoniale di teatro che era stato della cultura cortese, stranieri autentici bussano alle porte dei gruppi chiusi, lentamente occupano, con le loro irripetibili specializzazioni, sempre maggiori spazi all’interno del perimetro che i predecessori nel mestiere avevano frequentato in porzioni minime grazie a prestazioni professionali accessorie. Essi portano informazioni, lingue, metafore, non sempre previste dai
Introduzione
XIX
dilettanti e dai mecenati che li ricevono. Questi attori non sono più intercambiabili con i loro spettatori. Chi guarda non può più mutarsi d’improvviso in attore e, tanto meno, nessuno tra i recitanti si sogna
di confondere gli spettatori con se stesso. La distinzione è data dalle ragioni sociali, ma anche dalla natura artigianale, tecnica, talvolta quasi atletica, su cui si fonda il teatro nuovo. I professionisti, in possesso di «segreti» e «ricette» esclusive, si separano dai dilettanti che costituiscono il pubblico. E se gli attori e gli spettatori si schierano su fronti opposti, anche iloro linguaggi, per quanto comunicanti, possono denunciare incomprensioni. Simboli uguali vengono adoperati con significati diversi. Gli spettatori stanziali leggono il sistema culturale degli ‘stranieri’ secondo i loro bisogni, e viceversa. Il principio di quello spettacolo è, in parte, il fraintendimento, felice fonte di emozione. Si stabilisce un’inedita divisione di compiti fra chi è chiamato solo a leggere la metafora e chi la deve creare. Tra chi gioca e chi è giocato. Per capire il nuovo gioco è opportuno, senza smettere di ap-
prezzarne il risultato finale, conoscere meglio i giocatori. Guardare il gioco anche dal loro punto di vista. Per valutare meglio il senso di quest’ottica doppia, ricorriamo all'esempio di Ruzante, per molti versi un precursore dei comici di mestiere. Conosciamo lo sconcerto provocato da alcuni suoi spettacoli, giudicati dal pubblico veneziano estranei per lingua, stile e gusto, nonostante la brevità della distanza che separa Padova da Venezia. Marin Sanuto ha reso celebre con il suo resoconto l’episodio: «Ruzante et Menato padoani da vilan feno una comedia vilanesca et tutta lasciva et parole molto sporche; adeo da tutti fo biasemata et se li dava stridor. Quasi erano da done 60 con capa sul soler et scufie le zovene,
che se agrizavano a quello era ditto per so nome. Tutta la conclusion era de ficarie et far beco i so mariti». «Se agrizavano » gli spettatori veneziani, nello stesso modo in cui si sarebbero scandalizzati gli spettatori di qualunque scena che avesse espresso un contrasto di punti di vista altrettanto dissimili. L’incursione di una convenzione straniera (che coinvolge le sfere del costume e della morale) in una convenzio-
ne municipale, provoca emozione e sorpresa. Perché colui che osserva possa accettare l'ambasciatore di altri mondi, occorre che lo smarrimento sia tale da consentire la sostituzione della precedente convenzione linguistica, culturale, etica, con una nuova, più ampia, capace di comprendere e tollerare le due diverse e precedenti entrate in conflitto. Lo spettacolo consente questa ‘sostituzione’. E proprio nel rischio sotteso ad essa (rischio di smarrimento, di vergogna e di sor-
presa) gli spettatori sentivano il principale motivo di attrazione dello
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Introduzione
spettacolo. Gli uomini di Ruzante erano rustici, villani, come i loro antichi progenitori abitanti dei boschi, metà idiotae e metà bestie,
provenienti dal paesaggio agrario medievale, percorso da costumanze pagane. Il viaggio di questi attori, anche se traguardato dalle prospettive della scena di città, riesce a essere, più che finzione convenzionale o metafora letteraria, vera e propria performance. Essi testimoniano, con la lingua i costumi i gesti e anche con le fattezze di un’etnia diversa, un itinerario reale. Le loro fabulae sono invenzioni fantastiche, ma contengono frammenti di verità folklorica e conservano un’energia drammatica e una carica di emozioni capaci di operare sui sensi pit che sull’intelligenza. Sono azione viva, non solo rappresentazione.
AI di là dei generi teatrale o letterario che li contengono, sono gli attori a determinare il senso dello spettacolo con la loro azione scenica doppia: da una parte, finzione, obbedienza alla «parte» assegnata dalla trama e richiesta dal pubblico; dall’altra messa in campo della loro natura ‘estranea’, straniera. Indipendentemente dal copione che recitano, gli spettatori sanno che i comici, ciascuno con la sua peculiarità linguistica e la sua fisionomia etnica, non appartengono alla loro comunità. Essi non imitano conflitti di modelli o prototipi letterari, ma li vivono. Basti pensare, tra gli esempi della cultura rinascimentale destinati a sopravvivere a lungo, al nucleo binario costituito dal contrasto di Magnifico e Zanni, orchestrato sulla complementarietà di cultura cittadina e cultura dell’entroterra contadino, collegati in un percorso a handicap come due estremi di un viaggio migratorio di ordine sociale. Ma tutta la koizè comica buffonesca dell’inizio del secolo, basata sul contrasto etnico municipale e sul viaggio ‘da fuori’, è destinata a costituire il sostrato repertoriale del futuro mestiere degli attori‘.
Nel caso di Ruzante, lo straniero era un borghese stipendiato da un signore umanista, non praticava l’arte rappresentativa a tempo
pieno, ma viveva di continuo a contatto con il mondo dei comici prezzolati e, soprattutto, proveniva da un’area periferica rispetto a Venezia. La sua azione era un’invasione dell’hortus conclusus dei patrizi veneziani. Era l'ingresso dello straniero proveniente dal mondo dei comici di mestiere nel mondo dei dilettanti di lusso. Un piccolo scandalo che esponeva gli attori-spettatori dei giochi cortesi, abituati all’autocontemplazione, a uno sguardo che li scrutava dall’esterno. E intanto, attraverso il turbamento, anche prodotto dal bagno di anacronismo in cui erano improvvisamente costretti, gli spettatori
erano obbligati a riorganizzare e rimisurare i rapporti con le rispettive
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consuetudini. Dalla comparazione di un punto di vista consolidato e immemore delle sue origini, con uno inedito ma non del tutto sconosciuto, discendeva la necessità di regolare la messa a fuoco del proprio occhio e della propria mente. E quel movimento di messa a fuoco dell’occhio della vista e dell’occhio della mente è alle origini del fascino segreto di quel teatro. lo stesso movimento che l'archeologia impossibile dello storico dello spettacolo cerca di ricostruire con la tecnica del doppio punto di vista. Che, per quel teatro, può essere riproposta come un doppio interrogativo: come erano guardati gli attori dagli spettatori; come gli attori guardavano gli sguardi di coloro che li scrutavano in scena. L’attore double face è al centro del nuovo spettacolo. La cavia il cui grumo misterioso di intelligenza, fantasia e sentimenti, rifrange l’emozione di coloro dai quali è scrutato”. Cronache come quelle del Sanuto, per quanto utilissime, servono solo in parte al nostro scopo. Come servono in parte i giudizi che sugli attori, tramite poesie d’occasione, note di diario, cammei narrativi,
forniscono letterati più o meno celebri di cui avremo occasione di evocare la testimonianza. Altrettanto utili potranno essere i pittori o gli incisori che fecero un uso astuto e strumentale della bellezza o delle pose sceniche di attori maschili o femminili. Quando si trattava di raffigurare divinità pagane, sante o guerrieri, i corpi dei comici, già
resi idonei dalla quotidiana e professionale pratica dello spettacolo, erano i materiali migliori perché l’artista potesse impastare in maniera convincente le metafore del mito. Si trattava di modelli lungamente collaudati. Il pubblico poteva ritrovare, nel palcoscenico dei quadri, santi guerrieri e dèi dotati di una sapienza rappresentativa a lui nota. E anche poteva riconoscere (almeno il pubblico più avvertito) le fattezze mondane di qualche illustre artista del teatro. Un simile esercizio, consueto probabilmente per un cortigiano sfaccendato che dividesse allora il suo tempo fra le «stanze» adibite a teatro, le gallerie signorili o i chiostri adorni di immagini pregiate, è esattamente quello che tocca allo storico del teatro: decifrare la doppia identità delle immagini, spesso solo frammenti, che i teatranti professionisti di allora ci hanno trasmesso. Da una parte l'attore come personaggio generatore di miti; dall’altra, come individuo, persona reale in carne e ossa. Il nostro gioco consisterà nel leggere due volte gli stessi soggetti storici: portatori di significati metaforici o letterali. Dovremo quindi scomporre il corpo del comico esattamente a metà come facciamo quando sciogliamo la comparazione che è implicita in ogni metafora. Da una parte e dall’altra del «come se» troveremo due entità comple-
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mentari che, una volta riunite, costituiscono l’identità dell’attore.
Ma l’attore non ha solamente un corpo. Possiede anche un'anima. È una verità che non sempre gli spettatori, gli apparatori, idrammaturghi, e gli stessi comici, hanno accettato. Dalla metà del Cinquecento in poi quell’anima ha un minimo e certo diritto di esistenza. Per questo il confronto, molto comodo, con l’arte pittorica, non può proseguire troppo oltre. I comici che finiscono nei quadri svolgono una funzione puramente passiva, come nella drammaturgia degli spettacoli cortesi; nel teatro di mestiere, gli attori, proprio in quanto estranei alla cerchia dei loro spettatori, non sono oggetti dell’arredo scenico e dell’apparato. Sono soggetti attivi di teatro. Non si inseriscono nelle metafore ricevute, ne producono in proprio. Eppure essi, gli attori ‘stranieri’, sono deboli rispetto al pubblico che li scruterà, fischierà, zittirà, applaudirà, dopo avere pagato un biglietto o dopo avere reso omaggio al mecenate che li ha convocati e stipendiati. Dipendono dall’udienza per la loro condizione di venditori ambulanti, senza casa e senza salario sicuro. Non sanno, se non del tutto, almeno
in parte, quello che gli altri desiderano ricevere da loro. Lo sconcerto e lo scandalo che portano con i modi sregolati, villani, sconci, con i
barbarismi linguistici, lo stesso riso e gli schiamazzi che provocano con le azioni scatenate, li fanno amare ma anche temere. Come era successo ai capostipiti, Ruzante e Menato. Ed essi, d’altra parte, i comici, per la natura stessa del loro teatro, che è mestiere e vendita, vor-
rebbero essere amati, ma non ci riescono. Incerti fra l'adeguamento conformistico al gusto di chi li applaude e l’attaccamento istintivo al loro repertorio (una fedeltà dettata dalla necessità di economizzare
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memoria ed energie) decidono di volta in volta quale strada scegliere. Sono continuamente davanti al dilemma di come comporre, insieme agli altri attori, le parti dello spettacolo: le parti di cui ciascuno di loro è portatore. Ogni volta si interrogano e si adeguano; sperimentando soluzioni diverse. Sono, in definitiva e a tutti gli effetti, gli autori dei loro spettacoli. E come tali devono essere trattati, come direbbe il Dottore Graziano da Francolino, «St parva licet componere magnis». Gli attori, dunque, come autori. Nel nostro libro, insieme a tanti comprimari, abbiamo scelto quattro protagonisti: Arlecchino, Frittellino, Lelio e Florinda. Arlecchino è lo zanni che mette in scena, da solo, il rovesciamento parodico del reale e un accumulo di paralogismi verbali e mimici, ma è anche Tristano Martinelli, suddito e benestante cittadino mantovano (1557-1630); Florinda è la Sultana orientale oppure Arianna, oppure Maddalena, oppure la figlia fuggitiva di un ricco mercante, ma è anche Virginia Ramponi (1583-1631), moglie
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di Giovan Battista Andreini, il quale, a sua volta, non è solo il figlio
d’arte di Isabella e Francesco, vissuto tra il 1576 e il 1654, ma anche, nella metafora, Lelio bandito sui monti dell'Abruzzo, generoso come Robin Hood, oppure malavitoso «puttaniero» o figlio di nobile mer-
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cante. E infine Frittellino è un trafficante infido, un servo ribaldo, un mezzano, un mercante di basso lignaggio, ma è anche, nella vita, Pier Maria Cecchini, nato nel 1563 a Ferrara, fatto nobile dall’imperatore Mattia nel 1614 e morto dopo il 1633. La scelta degli attori non è casuale. Dipende dalla quantità di notizie biografiche e artistiche che siamo riusciti a raccogliere su di loro e sui loro interlocutori (committenti, mecenati, compratori del mestie-
re: in una parola, la parte più avvertita del pubblico). E per questo, di un altro protagonista del tempo, Flaminio Scala (1552-1624), profumiere e attore con il nome di Flavio, il libro offre un ritratto solo parziale. Si sono perse le tracce dei suoi primi sessant'anni. È un attore dimezzato, ben delineato per il periodo in cui fu capocomico della compagnia dei Confidenti (1615-21), ma misterioso per il resto. Della sua vita (e solo della vecchiaia) potremo quindi tentare una lettura dei dati letterali, poco potremo dire invece della sua vita di scena. Cosf evocate e anche interrogate, ma mai in primissimo piano, appaiono le
figure più alte ed emblematiche del teatro dei professionisti tra Cinque e Seicento: Isabella e Francesco Andreini. Fondatori di metafore memorabili e durature: l’attore come Capitano e l’attrice come Diva *. Ma quasi sospesi nel vuoto della storia. Poco si sa del loro concreto esistere nel mestiere. Le loro biografie o sono oscure o si perdono, per esplicito disegno degli interessati, nel cielo del mito. Ogni loro atto, dentro, ma soprattutto fuori del palcoscenico, fu teso a creare un'immagine doppia della loro persona, a eternare un duraturo «come se», e dentro a questo restano ancora oggi felicemente avviluppati. i Useremo perciò Flaminio Scala, Isabella e Francesco, meno come
individui dotati di biografie singolari, e più come esponenti di categorie storiche. Tutti e tre furono tra i capostipiti del mestiere. Isabella e Francesco resteranno sullo sfondo della nostra trama tutte le volte che i comici si troveranno davanti alla creazione o all’uso di modelli ideali di comportamento, fuori o dentro la scena, nella finzione o nella vita. Flaminio Scala interverrà più spesso e in primo piano nell’azione. Attraverso di lui conosceremo meglio i modelli pratici di funzionamento della vita comica che, appresi in gioventi al seguito dei padri fondatori del mestiere, egli trasmise in tarda età agli attori della seconda generazione: le tecniche adoperabili per far soprav-
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vivere una compagnia fra corvées cortigiane e teatri a pagamento, e i
modi con cui si consumarono, nei corridoi oscuri, lungo le strade,
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nelle corti, le gelosie, le vendette e i tradimenti della vita di gruppo. Grazie a lui avvicineremo la personalità eminente e drammatica, non aliena da bizzarrie e genialità, di un nobile protettore d’eccezione: don Giovanni dei Medici. La lettura dell’epistolario che legò il capocomico e il principe fiorentino aiuterà nella comprensione del sistema teatrale e dei giudizi che su di esso, sovente in modo implicito e di rado a chiare lettere, venivano formulati dal mondo dei comici.
Neanche i materiali di studio che riguardano Giovan Battista e Virginia Andreini, Martinelli e Cecchini, risalgono, tranne qualche
rara eccezione, a prima del 1600. Gli ultimi vent'anni del Cinquecento sono una zona in cui nelle biografie degli attori si alternano misteriosi silenzi e frammenti documentari sparsi. Nel buio, edizioni improvvise di testi. Diverso è il caso di una ricerca che non voglia seguire le tappe di una carriera artistica e collezioni dati sulla vita materiale del teatro. Numerosi reperti giacciono sul fondo del gran mare degli archivi. È un lavoro immenso che deve oltrepassare criteri di classificazione e di inventario che, in quei depositi, necessariamente, non tengono conto della voce «teatro», «spettacolo», e tanto meno della rubrica «attori». Una ricerca come si suol dire a tutto campo, che poi
esige l’ingrandimento al microscopio di episodi e accidenti apparentemente insignificanti, di allusioni oscure, di nomi sovente inediti. La rilettura della drammaturgia parallela che i comici dettero alle stampe, soprattutto se intesa in termini diversi dalla letteratura drammatica preventiva, come testualità consuntiva che riflette e sintetizza l’esperienza scenica in un quadro idealizzato ma ricco di scorie scenotecniche, può collaborare al restauro archeologico della materialità di quel teatro’. Tenendo conto che anche il recupero dei testi a suo tempo editi dalla scuola positivista (da D’Ancona a Luzio, da Rossi a Solerti, a tanti altri ancora), opportunamente emendati e interpretati, ha collaborato allo scioglimento di dubbi e alla illuminazione di oscurità, si può dire che il quadro del sistema teatrale tra Cinque e Seicento è adesso sufficientemente delineato. È il prologo all’azione vera e propria dei nostri quattro protagonisti che comincia solamente al di qua dell’anno 1600. da questa data, anno più anno meno, che si fa abbondante la messe di documenti, soprattutto epistolari, rinvenuti negli archivi. Particolarmente a Mantova e a Firenze dove, rispettivamente per iniziativa di Vincenzo I Gonzaga e sotto il governo di Ferdinando I dei Medici, l’attività dei comici comincia a essere regolamentata e anche
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tutelata proprio a partire dagli ultimi anni del Cinquecento: nel primo caso per la decisione del duca di stipendiare una compagnia di comici al suo servizio, nel secondo per l’oculata e ordinata gestione da parte della burocrazia granducale di un teatro per i comici mercenari. Ne consegue che gli attori più attivi presso questi due centri (particolarmente gelosi nella conservazione delle carte ufficiali dello stato) fi-
niscono per lasciare tracce frequenti del loro passaggio. La fortuna vuole che nei primi trent'anni del secolo tra costoro ci siano soprattutto gli Andreini, il Martinelli e il Cecchini. Non solo tramandati alla nostra memoria come i più grandi attori del tempo, ma anche capocomici, direttori e organizzatori delle migliori compagnie, nonché editori di testi drammatici e teorici. cosî iniziata, più di dieci anni fa, la ricerca intorno agli epistolari di questi comici, nella convinzione che lo studio e l'edizione corretta di testi comunque scritti per esteso, tanto più qualora si tratti di composizioni aventi uno scopo pratico come le lettere, può aiutare a tracciare un profilo degli artisti che sarebbe irrealizzabile muovendo dai dati contenuti nei canovacci: liste di azioni, di personaggi e di costumi. Era l'occasione per sperimentare davvero l’altro punto di vista (del costruttore dello spettacolo), sdoppiando il ruolo consueto di spettatore che è proprio dello storico. L'inchiesta, condotta attraverso le carte d’archivio con le difficoltà già dette, nutriva in realtà la speranza di andare oltre i dati di cronaca, i fatti, le schede personali, con
l’ambizione di decifrare, dietro sintassi irregolari e grafie esposte alla mimesi della lingua orale, uno stile e un’espressività. Il lavoro non sarebbe forse mai arrivato a una sua relativa completezza se intorno a questo progetto non si fosse formato, come si dice, un gruppo di ricerca. Cosî gli epistolari raccolti sono cresciuti e hanno via via trovato
adeguate trascrizioni, apparati di note puntuali, e finalmente un’edizione". Senza quel parallelo lavoro questo libro non sarebbe stato lo stesso. La parola spetta quindi, in primo piano, ad Arlecchino, Lelio, Florinda, Frittellino. Appena un poco distanti saranno Flaminio Scala e don Giovanni. Pià lontani, come voci fuori campo, il Capitan Spavento e la Diva Isabella. Raramente dialogano tra loro, quasi sempre le loro voci discordi rimbalzano nelle corti e nelle segreterie dei principi a distanza di pochi giorni le une dalle altre. Gli argomenti trattati sono spesso gli stessi. Si rispondono per interposta persona. Le confidenze segrete degli uni colmano le reticenze degli altri. Collazionando le carte, i dossier personali si completano. Gli attori cercano lavoro, difendono il diritto a occupare posti di rilievo nella compa-
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gnia, confessano debiti, chiedono licenze, salvacondotti, invocano
protezione. Viaggiano e recitano, contrattano e si indebitano, diventano frenetici durante la quaresima, quando hanno da predisporre i loro complicati viaggi, si placano durante il carnevale quando si fa intenso l’obbligo delle rappresentazioni. Scrivono lettere servili secondo finzioni retoriche che sanno di teatro, del tutto analoghe alle ossequienti dediche che fanno precedere alle loro commedie stampate. Alcuni nomi, qualche metafora, ossessioni, si rifrangono dalle lettere ai copioni. Messi in fila, gli epistolari, le commedie, i trattatelli (a cui
dobbiamo sempre aggiungere le scarse ma significative fonti iconografiche) costituiscono un unico immenso testo che può essere fatto rifluire nei due inventari che da tempo abbiamo predisposto. Quello dei significati letterali e quello delle metafore. Anche se nel nostro libro le due serie di concordanze si dispongono talvolta in recipienti distinti (i primi tre capitoli sono dedicati al profilo del teatro materiale; i successivi quattro ai ritratti ravvicinati dei protagonisti), la narrazione ricompone l’unità che ci interessa. Eventi memorabili (come la lungamente desiderata partenza per la Francia, che agitò e accese i comici fino all’estate tormentosa del 1620) vengono raccontati da punti di vista diversi e contrastanti; 0ssessioni e metafore emigrano da un attore all’altro suggerendo un sistema mitopoietico che accomuna esperienze che la vita materiale del teatro sembrerebbe separare. Le metafore adoperate appartengono ad alcuni principali campi semantici: la mercatura, la guerra, l’amore, il viaggio. Mentre il pubblico, in mezzo al quale si nascondono molti uomini colti, si ostina a vedere l’orizzonte dei comici rappresentato dai lazzi del cavadente e dell’orina, dalle maschere di Arlecchino e Pulcinella, attenendosi rispettosamente a quello che fanno vedere i canovacci, il punto di vista dei comici vede altro. Il loro sguardo cade alternativamente, ma senza soluzione di continuità, sui casi della vita, sui maledetti problemi del mestiere, sugli impacci sgradevoli o gradevoli della carne, oppure sulle favole di scena, comiche, tragiche o boscherecce: qui e là appaiono fantasmi ricorrenti, che non sempre coincidono con le maschere consuete ed esibite. E i fantasmi passano, agli occhi dei comici, dalla scena alla vita e viceversa. E rispondono alla domanda unica: quale abito vestire nei quotidiani viaggi, nelle contrattazioni penose e terribili con i potenti, nelle minute e snervanti querele con i compagni, nelle apparizioni sulla scena, nella divulgazione della propria fama? È il problema che domina interamente la loro esistenza. Appaiono cost
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attori-mercanti, attori-sensali, attori-ruffiani, attori-confidenti, attori-impresari, attori-avari, attori-ladri, attori-capitalisti, attori-operai, attori-guerrieri, attori-pirati, attori-corsari, attori-banditi, attori-sbirri, attori-fedeli, attori-confidenti, attori-spie, attori-disciplinati, attori-ribelli, compagnie teatrali che sembrano milizie, altre che si con-
fondono con ciurme disperate, viaggi che sembrano campagne di guerra, tradimenti, reclutamenti, congedi; poi ancora viaggi intermi-
nabili, patimenti, suppliche, vigilie insonni, lettere rubate e ritrovate, avventurose ricerche di attori perduti, amori tempestosi, gelosie che cambiano il corso di una tournée, ma anche di una favola scenica, trasfigurazioni di attrici da puttane a vergini, da meretrici a sante. E non si può sapere, davvero, se questo elenco riassuma in canovaccio le vite dei comici o dei loro personaggi. Se rammemori alcune trame di Frittellino, Lelio, Arlecchino, Florinda, oppure la cronistoria dei loro litigi capocomicali. Sono queste le metafore dei comici, simili solo nelle apparenze a quelle che figurano nelle commedie umanistiche.
Molte delle metafore citate appartengono del resto, con le costellazioni lessicale, figurativa, sonora che ne conseguono, al più generale magazzino semantico in uso tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. Ma i comici le adattano al loro bisogno. Praticano, come con i costumi regalati dai principi o le trame prese in prestito dai classici, il cosiddetto riuso dei materiali ricevuti. Che cosî sono, nello
stesso tempo, il risultato di una trasfigurazione simbolica e sintetica della vita materiale dei comici, ma anche il luogo di congiunzione di questa con il punto di vista degli spettatori-committenti. In ultima analisi rappresentano il punto di conciliazione delle aspettative di chi guarda e delle ambizioni di chi è guardato. Ed è qui che il «come se» della metafora si fa sottile sottile, si dissolve, per lasciare il campo a un puro e semplice «essere». L'attore che trascorre l’intero spazio della giornata a preparare costosi e incerti viaggi in terre lontane, disciplinando comici ribelli e litigiosi, sfidando il potere di mecenati dispotici, ottenendo licenze e prestiti, impegnando beni e rischiando la galera per i debiti non pagati, e poi salvandosi grazie all'aiuto di un protettore improvviso, non deve rappresentare modelli astratti ricevuti dalla letteratura o dal mito libresco, quando mette in scena il penoso nodo d’amore per una schiava in cerca di riscatto, complicato dai tradimenti, dalla mancanza di denari, dall’avversione di un potente genitore, ma sciolto dall’astuzia e dall'energia di un servo o di un vecchio sapienti: come nella vita di compagnia, vince sempre il rz4nager. E la parabola che raffigura una trasformazione, dal male al bene (insomma il ravvedimento di un
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malvagio, l’innamoramento di un frigido, il riconoscimento di due
amanti), comune alle parabole di ogni commedia o favola boschereccia, non è solo un esercizio di architettura drammatica, ma la messa in scena, nello spazio contratto di una perforzzance, di un desiderio e di un progetto biografico: da malavitosi alcuni personaggi (ma attraver-
so loro anche gli attori) diventano mercanti, da perfide cortigiane altre (attrici e personaggi) si fanno oneste dame, i corsari turchi si convertono in capitani della cristianità. Molti soggetti dei comici non fanno che anticipare sulla scena, che diventa cosî un luogo taumaturgico (e per certi aspetti, terapeutico) l'auspicio di redenzione che a più riprese essi avevano lanciato dalle pagine dei trattati in difesa dell’arte comica. I vili ciarlatani si dimostrano, grazie all’azione scenica, attori
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degni di rispetto, mercanti della loro arte, nobili guerrieri d’amore, in regola con i valori dell’etica cristiana. Attori, mercanti e «illustri corsari»: è questa la trinità a cui guardano gli attori. Non a caso il nostro Seicento e quello francese fioriranno di Capitani (Matamoros, Scaramuccia, Fracassa, ma anche Lelio è un uomo d’armi) e di nobili mer-
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canti (dall’edificante Beltrame del Barbieri al Pantalone che arriverà fino a Goldoni, passando per molti « caratteri» di Molière). In questo modo la Commedia dell’Arte dell’epoca d’oro appare ai nostri occhi, non ingannati dalla superficie dello spettacolo, come la messa in forma da parte degli stessi comici del loro destino. E la traiettoria di questo oltrepassa la vita e la morte dei singoli per coincidere con il mito di un'intera categoria sociale. A questo punto, lo storico potrebbe dirsi soddisfatto del punto d’arrivo a cui lo ha condotto l’assunzione del punto di vista dei comici. In realtà non può dimenticarsi che fin dall’inizio ha proposto una bizzarra ottica sdoppiata, e a quella vuole attenersi. Non può accontentarsi del luogo privilegiato in cui, servendosi del «come se», i comici si sono ridotti. Deve tornare adesso, prima di ricominciare a ispezionare i testi, idocumenti, le tracce del teatro di mestiere, anche al punto di vista dello spettatore. Ed essere ben lieto che le due visuali siano difformi. Perché nel varco intermedio che si apre lo storico trova la sua ragione di esistere. Attori e pubblico, si sa, vedono sempre uno spettacolo diverso. E i primi non si accorgono, una volta entrati nella trasfigurazione che li fa corsari e mercanti, che la metafora che li avvolge non soddisfa del tutto gli sguardi scrutatori che stanno in platea. Questi ultimi spogliano anzi, al contrario, i personaggi e vanno di nuovo alla ricerca di quanto si oppone alla riuscita della finzione. Guardano l’incessante movimento degli attori, le loro scene che si aprono davanti ai porti, in
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vista del mare, su marine ventose, nei quadrivi, davanti a osterie, lo-
cande, porte e postierle di città. Sconosciuti entrano ed escono. Se non sono appena arrivati, stanno partendo. La scena si schiude nell’intervallo di un continuo viaggio. È la stazione di sosta di un lungo peregrinare. Se il viaggio scenico è la continuazione inerziale di un percorso reale, quella sosta replica il riposo momentaneo di una tournée. Questo vogliono vedere gli spettatori. Che sulla scena si possa sorprendere un frammento della vita degli attori, la scoria emozionante e ancora incandescente di un’esistenza estranea che per il tempo di uno spettacolo li sfiora con i corpi autentici di un Arlecchino di una Florinda e di una Lidia, e poi si allontana irresistibilmente. È trascorso circa un secolo dalle « ficarie» di Ruzante e Menato e in questo frattempo il pubblico ha fatto come quei religiosi di cui parla Nicolò Barbieri che, costretti a vedere uno spettacolo di comici, dopo avere mostrato pudibonde ritrosie, ed essersi ritirati dietro una porta, a poco a poco, un passo dopo l’altro, avevano rovesciato i loro occhi e le loro risa sul gruppo degli istrioni”. Gli spettatori del Seicento non cercano le copie di se stessi, ma le maschere che segnalino la differenza. Vogliono, in un certo senso, la verità. Arlecchino, ad esempio, rapito in storie più grandi di lui, ma anche immobile nella ripetizione dei gesti che appartengono al suo proprio, e inconfondibile, corpo. Non a caso saranno gli spettatori, cioè i dilettanti del teatro, a creare per conto loro, mentre i comici saranno in caccia di metafore sempre più degne, le ben più numerose maschere delle commedie ridicolose, accademiche e scolastiche, nei secoli xvi e xvi. Il pubblico vuole credere in quello che gli attori intendono invece trasfigurare. Che i gesti, icostumi, la lingua, le loro fattezze, testimonino la provenienza di costoro da un altrove reale, che portino tracce di etnie diverse, di costumi stranieri, e anche di strade vere eroicamente percorse. Lo spettacolo, che abbiamo visto essere per gli attori l'occasione per un riscatto per via di simulacri, una specie di emancipazione i effigie, per gli spettatori si presenta dunque come l’occasione per carpire furtivamente, approfittando della metafora di turno, qualche notizia ‘vera’ sugli stranieri di un altro mondo. Come sempre in teatro non c’è mai una verità che possa dirsi definitiva. I punti di vista degli attori e degli spettatori sono altrettanto veri. Gli uni alla ricerca di prove concrete della propria riabilitazione attraverso il riscatto della metafora scenica (i corsari e i mercanti si trasformeranno con il tempo in eroi, martiri, r4sonneurs, nobiluomi-
ni, cavalieri brillanti, filosofi, senatori, guerriglieri e, di nuovo, martiri) e gli altri a fare il contrario, a rintracciare, rapito dentro ifossili del-
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la scena, un Arlecchino (o un Lelio, una Florinda, un Frittellino) che conservi i segni di un destino diverso e di lontananze remote. È lo scambio, o meglio, il malinteso, da cui nasce lo spettacolo moderno.
! Milimito qui a rinviare, per abbreviare l’argomentazione, alle considerazioni generali contenute nella mia Introduzione a Commedie dell’Arte, a cura di S. F., Mursia, Milano 1985-86, vol. I (ma si veda anche la Nota bibliografica, pp. 45-60). Occorre segnalare che i comici a cui qui mi riferisco sono i celebri Francesco e Isabella Andreini, sposi nel 1575, genitori del primogenito e futuro comico Giovan Battista nel 1576, e nel 1580, rispettivamente, poco oltre i trenta e i venti anni. n»
Fino a qualche tempo fa gli storici dell'economia e della politica avevano situato intorno al 1620-30 l’inizio della grande depressione che sarebbe durata circa un secolo. Mi riferisco a studi che hanno tentato un inquadramento europeo della crisi: Crisi i Europa 1560-1660, a cura di Tr. Aston, con introduzione di Ch. Hill, Giannini, Napoli 1968. Cfr. anche Storia economica Cambridge, vol. IV: L'espansione economica dell'Europa centrale nel Cinque e Seicento, a cura di E. E. Rich e C. H. Wilson, Einaudi, Torino 1975 (ed. inglese Cambridge University Press, Cambridge 1967); H. Trevor-Roper, La crisi generale del secolo xvu, in Id., Protestantesimo e trasformazione sociale, Laterza, Roma-Bari 1975. Per l’Italia si vedano: C. M. Cipolla, I/ declino economico dell’Italia, in Storia dell'economia italiana, a cura di C. M. Cipolla, Edizioni scientifiche Einaudi di P. Boringhieri, Torino 1959, vol. I; R. Romano, Tra xvI e xv secolo. Una crisi economica: 1619-1622, in «Rivista storica italiana», LXXIV (1962), ora in Id.,
L’Europa tra due crisi. xvI e xvI secolo, Einaudi, Torino 1980; G. Quazza, La decadenza îtalia-
na nella storia europea. Saggi sul Sei-Settecento, Einaudi, Torino 1971. Da qualche tempo l’idea di una crisi generalizzata ed estesa a tutto il secolo è stata messa in discussione. Ma sul de-
cennio in questione non mi pare che siano state avanzate obiezioni rilevanti. Ultimamente si veda R. Romano, Opposte congiunture. La crisi del Seicento in Europa e in America, Marsilio, Venezia 1992.
Mi riferisco naturalmente ai fondamentali studi raccolti in L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Einaudi, Torino 1977, e al postumo Carpaccio e la rappresentazione di Sant'Orsola. Ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento, Einaudi, Torino 1988, dove in particolare affiora a più riprese lo sdoppiamento degli spettatori in attori (e viceversa) come tema ricorrente dello spettacolo cortese. ES Attraverso il pretesto dei teleri di Sant'Orsola, Zorzi rammenta in pit luoghi del suo studio su Carpaccio spettacoli che aspirano a mettere in scena notizie, informazioni, messaggeri da mondi lontani. Si tratta di messinscene che contemplano la compresenza, l’esposizione e il confronto di rappresentanti di diverse nati0nes, tutti vestiti secondo irispettivi costumi. Gli spettacoli basati sui ricevimenti e le orazioni diplomatiche, intervallati da figure coreografiche, potevano essere di impianto principalmente dilettantesco, con inserti minoritari di performances professionali, come quello che Zorzi battezza Rappresentazione di Re Pancrazio (1513) e di cui ci ha lasciato testimonianza il Sanuto: un défilé di delegati vestiti alla vicentina,
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alla tedesca, alla musulmana, alla francese, alla spagnola, alla pigmea, alla veneziana, che scandivano i ritmi di un’azione fatta di musiche, balli, improvvisazioni (cfr. M. Sanuto, I Diarii, a cura di R. Fulin, F. Stefani, N. Barozzi, G. Berchet, M. Allegri, Visentini, Venezia 1879-
1903, vol. XVI, coll. 206-7). Analogo trattenimento di simulate ambascerie (spagnole, polacche, ungheresi, turche, tedesche è francesi) era stato allestito per gli sposi Gian Galeazzo Sforza e Isabella d'Aragona, in occasione della Festa del Paradiso svoltasi alla corte sforzesca nel gennaio 1490. Cosî i ricchi cortei dei Magi che per antica tradizione trasformavano Firenze in Gerusalemme, simulando una fastosa diplomazia orientale, celebravano la potenza mercantile della città e, nello stesso tempo, esibivano un gusto particolarmente smaliziato per lo spettacolo d’invenzione fantastica. Ma c'erano anche varianti più basse dello stesso te-
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ma, quasi parodiche, affidate esclusivamente ad attori (0 buffoni) professionisti come Zuan
Polo che, con i suoi compagni, eseguiva intermezzi «molto belli, de tutte le virtù de soni e canti ch’è possibil haver, vestiti in vari habiti da mori, da todeschi, da griegi, da hongari, da
va
pelegrini et altri assà habiti, senza però volti [maschere] » (ibi4., vol. XXXVII, coll. 559-60). Nella storia degli allestimenti umanistici e dilettanteschi di questo genere, documentati soprattutto a partire dal Quattrocento, i ruoli degli stranieri erano rappresentati dai giovani esponenti del patriziato cittadino che (forse con l’aiuto di professionisti) avevano il compito di organizzare gli spettacoli. In questi i cittadini si sdoppiavano in attori e spettatori (anche nella Rappresentazione di Sant'Orsola letta e analizzata da Zorzi) per prolungare oltre il tempo dell’evento reale, oppure per costruire artificiosamente il piacere e l'emozione di un’epifania straniera, con tutto il seguito di sfarzo, ostentazione, meraviglia che era solitamente insito in avvenimenti di quel genere. Ogni residua emozione performativa collegata ai più antichi riti di passaggio, e in definitiva, ogni residua forza drammatica era quindi destinata ad attenuarsi. In scena (nel luogo che avrebbe dovuto demarcare il limite del viaggio e dell’epifania e che invece circoscriveva uno spazio conosciuto e tutto misurabile) i rappresentanti della comunità assumevano le vesti e le maschere dei personaggi ‘estranei’ per essere poi, alla fine, riconosciuti come propri simili dai loro complici spettatori. È un procedimento di autocontemplazione della comunità cittadina, un gesto di autocelebrazione pedagogica e ideologica, sperimentata nei piccoli gruppi dell’aristocrazia e destinata poi a diventare il prototipo dello spettacolo encomiastico dello splendente teatro di corte. Ibid.
Sul valore genetico del contrasto di servo e padrone si veda il saggio di M. Apollonio, I/ duetto di Magnifico e Zanni alle origini dell'Arte, in Studi sul teatro veneto fra Rinascimento ed età barocca, a cura di M. T. Muraro, Olschki, Firenze 1971, pp. 193-220; ma dello stesso si vedano anche le fondamentali Prelezioni sulla Commedia dell'Arte, in Contributi dell'Istituto di Filologia moderna dell’Università Cattolica del S. Cuore, serie Storia del teatro, Vita e Pensiero, Milano 1968, vol. I, pp. 144-90. Non sarà da trascurare la durata nel tempo di un altro plot attorico basato sull’uso estremistico del décalage, fantastico più che geografico, che contrapponendo gli attori mascherati e gli abitanti degli inferi nelle composizioni buffonesche, sarebbe poi confluito nel repertorio dei comici professionisti. Ne abbiamo tracce, se non vogliamo risalire più indietro nel tempo, nel poemetto Novelle dell'altro mondo. Poema buffonesco del 1513, attribuito al buffone Zuan Polo (cfr. l'edizione a cura di V. Rossi, Zanichelli, Bologna 1929), ma pure in notizie relative ad altri attori veneziani come Domenico e Stefano Taiacalze, oltre che in testi dello stesso Ruzante (si veda L. Zorzi, Note alla « Betia», in Ruzante, Teatro, a cura di L. Z., Einaudi, Torino 1967, p. 1358, nota 340). Qui la scena è sulla soglia di Dite e l’attore funge da intermediario fra la terra e il mondo dei morti, tra i vivi e i diavoli. Il tasso di estraneità degli spettatori nei confronti della scena è al massimo grado, il trasalimento il più intenso possibile, il viaggio presupposto oltre la scena il più vertiginoso. E rimanda in maniera quasi esemplare a un ricorrente e documentato rito di passaggio carnevalesco e, nello stesso tempo, a un luogo comune del repertorio di molti canovacci e molte commedie «ridicolose»: cfr. almeno B. Rossi, Fiarzzzella, L’Angelier, Paris 1584 e G. Briccio, La tartarea, Discepolo, Viterbo 1614. sy Un concetto analogo di ‘meraviglia’, generata dall’incrociarsi di due rappresentazioni (quella del visitatore e quella del ‘visitato’) è esposto in un libro che ho potuto leggere solo alla fine di questo mio lavoro: S. Greenblatt, Marvellous Possessions. The Wonder of the New World, Clarendon Press, Oxford 1991; ma dello stesso si veda anche Shakespearean Negotiations. The Circulation of Social Energy in Renaissance England, Clarendon Press, Oxford 1988. o Un'analisi ben congegnata della strategia mitopoietica dei due capostipiti degli Andreini si può leggere in F. Taviani, Bella d'Asia. Torquato Tasso, gli attori e l'immortalità, in «Paragone. Letteratura», n. 408-410 (1984), pp. 3-76. v Anche qui, per abbreviare la dimostrazione, sono costretto a rimandare a due mici scritti: Da Ruzante a Andreini, in «Quaderni di Teatro», n. 27 (1985), numero dedicato a Ludovico Zorzi ela «nuova storia» del teatro, a cura di S. Mamone, pp. 22-27; Drammaturgia e ruoli teatrali, in «Il Castello di Elsinore», n. 3 (1988), pp. 37-44. CN
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Introduzione
!° Questo lavoro era cominciato nel corso della preparazione di un convegno sul teatro del Cinquecento svoltosi a Prato nell’aprile del 1982 (cfr. L. Zorzi, G. Innamorati, S. Ferrone, Il teatro del Cinquecento. I luoghi, i testi e gli attori, a cura di S. Ferrone, Sansoni, Firenze 1982). Da
allora mi è capitato varie volte di fissare le tappe della ricerca in scritti d'occasione. Appunti che ho ripreso e riscritto più volte. L’unico di quei saggi che ha conservato abbastanza integri i connotati d’origine è l’Arlecchino rapito che qui è diventato, mantenendo il titolo primitivo, il capitolo quinto. Era stato pubblicato negli Studi di filologia e critica offerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, Salerno ed., Roma 1985, t. I, pp. 319-53. ll Cfr. Cornici dell’Arte. Corrispondenze (G. B. Andreini, N. Barbieri, P.M. Cecchini, S. Fiorillo, T. Martinelli, F. Scala), edizione diretta da S. Ferrone, a cura di C. Burattelli, D. Landolfi, A. Zinanni, Le Lettere (collana «Storia dello Spettacolo. Fonti»), Firenze 1993, 2 voll. (d’ora in
poi Corrispondenze). Cfr. N. Barbieri, La supplica. Discorso famigliare a quelli che trattano de? comici, a cura di F. Taviani, Il Polifilo, Milano 1971, pp. 32-33.
Nota ai testi.
Nella trascrizione di edizioni seicentesche di cui non esistano stampe moderne ci siamo attenuti ai criteri di moderato ammodernamento esposti nella Nota ai testi in Commedie dell’Arte cit., vol. I, pp. 61-69; abbiamo invece rispettato i criteri di volta in volta adottati dagli editori quando abbiamo dovuto citare da stampe moderne. Per la trascrizione da manoscritti (ad esempio gli epistolari) di norma ci siamo adeguati ai criteri già adottati per l'edizione delle Corrispondenze; ricordando che in quell’edizione siamo stati nettamente più conservativi che per le commedie, avendo voluto restituire le peculiarità ortografiche e fonetiche di una comunicazione manoscritta irregolare e non attenta alla normalizzazione; qualche intervento di ammodernamento è stato reso necessario nel presente saggio dove la frammentarietà di alcune citazioni avrebbe reso incomprensibile il senso. L'aggiornamento della datazione, in stile veneziano o fiorentino, di alcune lettere è stato segnalato ponendo tra parentesi quadra il restauro e indicando se si tratta di zz0re veneto (= 721) o stile fiorentino (= sf). Nelle citazioni dalle commedie si sono segnalati l’atto (numero romano), la scena e la battuta (in numeri arabi).
Ringraziamenti.
a a a a
Lanfranco Caretti e Ludovico Zorzi che hanno disegnato la mappa dei miei studi; Sara Mamone per il gusto e l'armonia dei consigli; Stefano Mazzoni per la preziosa collaborazione; Francesco Bartoli, Vieri Becagli, Luigi Borgia, Claudia Burattelli, padre Eugenio Casalini, Silvia Castelli, Maria Cecilia Fabbri, Ovidio Guaita, Isabella Innamora-
ti, Domenica Landolfi, Marco Lombardi, Paolo Mazzinghi, Teresa Megale, Claudio Pizzorusso, Carlo Sisi, Antonio Tacchi per i contributi e gli aiuti; a Dorotea e Agogo.
Abbreviazioni.
ANN ANP ASCM ASF ASFE ASM ASMN ASMO ASV BBM BEMO BMF BNF BNP BNT BOP BRF BTB CGV GDSU MCV
— Archivio Notarile di Napoli. Archivi Nazionali di Parigi. Archivio Storico del Comune di Modena. Archivio di Stato di Firenze. Archivio di Stato di Ferrara. — Archivio di Stato di Milano. Archivio di Stato di Mantova. Archivio di Stato di Modena. Archivio di Stato di Venezia. . Biblioteca Braidense di Milano. Biblioteca Estense di Modena. . Biblioteca Marucelliana di Firenze. Biblioteca Nazionale di Firenze. Biblioteca Nazionale di Parigi. Biblioteca Nazionale di Torino. Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Biblioteca Riccardiana di Firenze. Biblioteca Teatrale Burcardo di Roma. Casa Goldoni di Venezia. Gabinetto Disegno e Stampe degli Uffizi di Firenze. — Museo Correr di Venezia.
Gonzaga Archivio Gonzaga. Mediceo Archivio Mediceo del Principato.
DBI ES GSLI
Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1960 sgg. Enciclopedia dello Spettacolo, Le Maschere, Roma 1954-68, 11 voll. «Giornale Storico della Letteratura Italiana».
Attori mercanti corsari
Ma mère était fille d’un marchand de Marseille, qui
la donna à mon père en mariage pour le récompenser d’avoir exposé sa vie pour sauver la sienne qu’avait attaquée à son avantage un officier des galères aussi amoureux de ma mère qu'il en était hai. Ce fut une bonne fortune pour mon père, car on lui donna, sans qu'il la demandàt, une femme jeune, belle et plus riche qu’un comédien de campagne ne la pouvait espérer. Son beaupère fit ce qu'il put pour lui faire quitter sa profession, lui proposant et plus d’honneur et plus de profit dans celle de marchand; mais ma mère, qui était charmée de la co-
médie, empécha mon père de la quitter. Il n’avait point de répugnance à suivre l’avis que lui donnait le père de sa femme, sachant mieux qu’elle que la vie comique n'est pas si heureuse qu'elle le paraît. P. SCARRON, Le roman comique. Il teatro consiste nella creazione di un malinteso.
CH. S. CHAPLIN
Capitolo primo L'invenzione viaggiante
I. Verso la fine del Cinquecento, l’attività dei comici organizzati in compagnie appare intensa e regolare. Diciamo «appare» perché non dobbiamo confondere la quantità delle notizie dirette di cui disponiamo oggi con l’intensità della vita teatrale di allora. Non tutti gli attori tenevano una corrispondenza, non tutti sapevano scrivere, una
parte delle loro relazioni professionali si doveva svolgere per interposta persona (ipiù abili, tra loro, nel tenere la penna in mano ei più autorevoli a condurre le trattative economiche) oppure per via orale, secondo un mercato consuetudinario, tutto diretto e personalizzato. Le lettere di cui ci serviamo per spiarli dall'interno del loro mondo, e i cui giacimenti si fanno abbondanti intorno al 1580, non sono quasi mai il documento di scambi diretti fra attori, dialoghi interni all’Arte. Si trovano tutte nelle cancellerie degli stati più importanti che le registrano e conservano in quanto documenti riconducibili ora all’amministrazione delle spese di corte ora al controllo giudiziario e doganale. Una volta esaurita la funzione pratica che le aveva dettate, le parole manoscritte che gli attori si scambiarono sulla carta povera delle lettere furono distrutte ancor prima di quelle testimoniate dai canovacci (dei quali quasi niente è rimasto a questa altezza cronologica). Le abbondanti corrispondenze con i principi e con i loro segretari, rese obbligatorie dalle procedure cancelleresche, suggeriscono l’illusione di una prevalenza della vita teatrale di corte su quella che si svolse altrove. In realtà il teatro di mestiere che viene rappresentato dalla documentazione in nostro possesso è solo la parte più tutelata e organizzata di un movimento più largo e variegato. Il carattere burocratico, formale, di molti epistolari giacenti negli archivi ci deve perciò indurre a immaginare anche comportamenti difformi da quelli testimoniati: tra i comici come tra i committenti.
Grazie alle cancellerie possiamo comunque raccogliere notizie preziose anche su quanto si svolgeva al di fuori del palazzo. I pacchi di lettere si accumulano in determinati momenti della vita teatrale.
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Capitolo primo
Subito prima o subito dopo le tournées più importanti, lo scambio delle informazioni si fa più fitto: definizione di dettagli contrattuali, richiesta di garanzie, paure davanti all’incognita del partire, memorie, consuntivi, testamenti, certificazioni di buona o cattiva condotta,
lettere commendatizie. E il nostro sguardo oltrepassa il chiuso delle cancellerie per seguire i viaggi, la durata delle permanenze altrove, le trattative economiche, i problemi logistici, l’oscillazione tra legge e illegalità. La registrazione, in una stagione che si trova agli esordi del sistema teatrale moderno, di abitudini legate alla migrazione delle compagnie, consente di individuare, al di sotto della regola consuetudinaria, l'ostacolo che quella regola intendeva sorpassare. I documenti che possiamo esibire sono altrettanti segnali di un progredire del libero scambio teatrale: da una parte servono a tracciare sulla cartina geografica un profilo delle strade e della viabilità funzionanti in quei tempi; d’altro canto fungono anche da termine ante quer se soltanto li utilizziamo per guardare indietro, agli anni immediatamente trascorsi, quando al posto del ‘passaporto’ giacente in archivio, bisogna immaginare operante l’ostacolo, la barriera, l’impedimento della vita materiale. E per lo storico, che sempre è di necessità sadico, la ricostruzione ipotetica dell’ostacolo sotteso al ‘passaporto’ ritrovato, suggerisce la comprensione dei conflitti che dovevano essere alla base, oltre che della vita dei comici, della loro creatività.
I progressi brillanti degli studi' hanno consentito di correggere, integrare e precisare fino al dettaglio l’informazione a suo tempo fornita dal padre Ottonelli, registrata dagli eruditi successivi e giunta poi fino ai giorni nostri, circa la fisionomia dei percorsi dei comici: L’anno 1640 in Fiorenza mi disse un capo d’una compagnia di comedianti, che (...) i comici italiani, almeno molti, si radunavano a Bologna nel tempo di Quaresima, nel quale non recitano; e che ivi si formano le compagnie, che poi durano per ordinario un anno; e che indi si spargono per le città d'Italia; e che alcune principali sogliono far questo giro. Da Bologna a Milano, da Milano a Genova, da Genova a Fiorenza, da Fiorenza a Venetia, ove stando il Carnevale finiscono la compagnia.
Si tratta di una testimonianza schematica e indicativa, raccolta in un
periodo tardo rispetto alla storia del professionismo teatrale da noi trattato, circoscritta comunque a un’esperienza solo settentrionale, redatta con lo scopo di suggerire un’idea unitaria dello spettacolo comico. Invece si può aggiungere che lo spettacolo comico era frammentato. Completando lo schema, che niente dice riguardo a un ipotetico circuito centro-meridionale, si può aggiungere che quello fu spesso del tutto separato dal sistema ‘lombardo’ e che, a differenza di
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questo (caratterizzato da un grande equilibrio fra i diversi centri dello spettacolo), fu dominato dallo schiacciante primato di Napoli’, mentre Roma ebbe una storia nettamente distinta, se si escludono i casi in cui funzionò da comoda tappa intermedia per i faticosi viaggi di trasferimento delle troupes dal nord al sud o viceversa ‘. Questi però avvenivano, in genere, al di fuori della stagione recitativa, durante la quaresima o nelle fasi di riposo; e anche in tale periodo erano piuttosto rari oltre che malcerti per le insidie nascoste nelle paludi e nei valichi di montagna infestati dal brigantaggio. Pit favorevoli le escursioni estive, compiute « con le galere di Napoli», verso la Sicilia, in patticolare Messina, dove i comici potevano dimorare anche tre mesi °. Da una parte la città di Napoli era talmente dotata di occasioni teatrali che non lasciava ai suoi attori lo spazio e il tempo per digressioni al nord’, dall’altra gli stessi attori settentrionali, quando decidevano di scendere giù fino al Regno, lo facevano per motivi del tutto eccezionali, né sempre riuscivano a trovare un buon ascolto per l’affollarsi in città di formazioni locali o provenienti dalla Spagna e destinate al diletto della folta colonia e dell’inclita guarnigione iberica di stanza all’ombra del Vesuvio *. Eppure nel corso del Seicento Napoli apparve, un po’ come Venezia, una terra promessa, dove si poteva lavorare più alungo che in altre città, a condizione di saper sopportare un duro regime di concorrenza. Rispetto a Venezia, Napoli aveva il vantaggio, per gli attori del nord, di essere estranea al sistema di connivenze organizzative che imbrigliava l’area padana’. Lî un attore ‘lombardo’ poteva quindi ‘sognare’ di rifarsi una vita, dopo essere fuggito per qualche motivo dal settentrione: l'immigrazione non sempre era felice e doveva sottostare ai ricatti, economici prima di tutto, di impresari che gestivano i differenti teatri della città secondo un regime di monopolio , arrivando a esercitare sui loro attori un dominio assoluto grazie al sistema di prestiti ausura ". Quando invece si verificava il trapianto contrario, dal sud al nord, il successo era molto più probabile, essendo la diversità tecnica, se non etnica, degli attori napoletani,
molto marcata e connotata, tanto da ingenerare diffusi pregiudizi razziali (anche nello spregiudicato mondo dei teatranti), preoccupazioni di concorrenza e scarti espressivi assai goduti e apprezzati ”. Tornando allo schema dell’Ottonelli, e facendo riferimento al cinquantennio che più ci iriteressa, si potrà aggiungere che quasi mai quel tour poté essere coperto in tutta la sua estensione fra quaresima e carnevale. E le stesse tappe dovettero essere molto meno estese di quanto sommariamente risulta dal documento, anche in conseguenza delle difficoltà dei viaggi, delle avversità climatiche o congiunturali
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Capitolo primo
che si potevano, di volta in volta, determinare: sappiamo, ad esempio, che la distanza Milano-Firenze, tenuto conto dell’ostacolo rilevante degli Appennini, era giudicata eccessivamente lunga e quindi troppo costosa per la normale borsa di un attore ”. Per colmare gli intervalli di tempo che separavano i più lunghi soggiorni nelle grandi città si fissavano periodi intermedi di stanzialità in aree regionali più ristrette. In queste occasioni si determinavano piccole fournées intorno a un centro maggiore. Era il caso del pendolarismo tra Firenze e le altre città della Toscana (Siena, Livorno, Lucca"), tra Venezia (o Mantova) e le città dell’entroterra padano (Padova, Vicenza, Vero-
na)”, tra Bologna (o Ferrara) e l’area emiliana (Modena, Parma, Gua-
stalla, Mirandola, Piacenza) “. A questi epicentri delle regioni teatrali settentrionali si devono poi aggiungere le capitali di grandi stati come Milano”, Torino” e Genova” naturalmente vocate a una iniziativa
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propria nel campo del teatro, ma tuttavia periferiche rispetto al baricentro della regione costituito dal bipolarismo Mantova-Venezia. La forza di attrazione delle città variò con gli anni e con il mutare della situazione politica, ed è perciò difficile riuscire a determinare un quadro riassuntivo delle forze in presenza. Certo Firenze, Venezia e Mantova furono, in media, le città più vitali, tra Cinque e Seicento, nel campo del teatro degli attori professionisti. Firenze per la presenza di una corte particolarmente operosa nell’allestimento di feste e spettacoli cortigiani che infondevano linfa indiretta anche nel serbatoio minore del teatro dell'Arte, ospitato in un grande edificio di proprietà della Magistratura della Dogana, e quindi posto sotto la diretta tutela dei Medici”; Mantova grazie alla politica dei Gonzaga che si erano molto presto assunti l’onere di sovvenzionare direttamente una propria formazione professionistica, e anche per la sua posizione geografica e strategica che la rendeva un ideale porto franco per traffici leciti e illeciti, centro di libero scambio nel belmezzo di quel mare fluviale che era la valle padana, in equilibrio instabile tra i territori spagnoli, sabaudi, veneziani e pontifici”; Venezia per la presenza di più luoghi teatrali specializzati nel teatro mercenario, oltre che per la ricchezza e la lunghezza del periodo carnevalesco che scandî e regolò con il suo calendario il ritmo della vita teatrale del nord ?. Mala storia di queste città non fu uniforme. Ascendente quella di Venezia man mano che ci inoltriamo nel.secolo xvi, splendente quella di Mantova fino agli anni Venti del Seicento e precipite poi nell’ora del sacco del 1630; oscillante fra memorie di splendori, involuzioni bigotte e riprese orgogliose, quella fiorentina. Facendo collimare i dati geografici con quelli calendariali si può
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concedere che nel periodo carnevalesco il primato fosse conquistato, già sul finire del Cinquecento, da Venezia”, anche se la concorrenza
di Mantova e, in piccola misura, di Ferrara, si fece per qualche tempo sentire. Firenze ebbe la sua stagione alta nel periodo compreso fra Ognissanti e Natale, e cosî fu per Bologna *, mentre Ferrara si accontentò, dopo la perdita della sua autonomia ducale, di fungere da tappa di passaggio, immediatamente prima del carnevale, per le compagnie dirette a Venezia”. Milano e Genova ebbero le loro stagioni più importanti nel periodo compreso fra la primavera e l’estate *. Erano cosî possibili più circuiti paralleli che le compagnie si premunivano di percorrere, quando potevano, ad anni alterni onde non stancare i pubblici delle diverse ‘piazze’ ”. Il quadro offerto da Ottonelli risulta cosîf scomposto con l’individuazione di aree fra loro relativamente autonome, separate dalla forza di gravità esercitata dalle diverse corti. Le quali, a loro volta, accentuavano o riducevano le linee di divisione in conseguenza delle differenti politiche dinastiche che, ad esempio, collegarono Firenze e Mantova, e poi Mantova, Modena e Torino.
Ad accentuare la frammentazione del territorio settentrionale intervenivano infine fattori meramente geografici. D’inverno, «l’oridezza della stagione» sull'Appennino tosco-emiliano allungava le distanze tra il granducato mediceo e le corti padane, tanto che tra Firenze e Mantova potevano essere necessari anche dodici giorni di viaggio *; invece le vie d’acqua dei canali artificiali e naturali, dei fiumi, e dei tratti di mare sotto costa, formavano un agile sistema di co-
municazioni fra le città della pianura padana, da Bologna a Ferrara a Venezia a Mantova, fino a Casale e Torino, con un evidente primato
strategico occupato dalla città gonzaghesca, grazie al suo efficace collegamento con la repubblica del mare ?. Anche qui gli attori non mancano di lamentarsi delle avversità atmosferiche che minacciano la re-
golarità dei traffici con «inondacioni grandissime » ,« qualche pericolo del mare», «l’acque grosse, il vento contrario» oppure, all’opposto, con la siccità che abbassa il livello dei corsi d’acqua ”; si tratta tuttavia, come sappiamo, di trasporti relativamente più sicuri, meno disagevoli, e anche meno costosi, come risulta dal frequente ricorso ad essi da parte di tutti i comici. Si stabiliva cosî sulla strada del teatro un itinerario a handicap variabili, con una cesura indiscutibilmente più forte ogni volta che dal percorso navale si passava a quello terrestre, con l’aggiunta dei valichi e dell'escursione metereologica: Genova
era più vicina a Firenze (grazie al collegamento via mare e via Arno at-
traverso Pisa e fino al porto fluviale della capitale medicea) di quanto
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non fosse Mantova, respinta più lontano dal difficile transito appenninico”.
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La geografia del teatro dei professionisti disegna quindi differendel viaggio agisce, accanto zei in cui la variabile ai fattorin politici4 e stoag io n argine : rico-antropologici, in misura tanto maggiore quanto più sono ‘fragili i viaggiatori coinvolti. Costretti talvolta a montare « per le poste a piedi», i comici si spostavano più spesso a dorso di mulo, a cavallo e, più raramente, sul «carocino da una bestia solla» ”. I rischi ricorrenti si nascondevano nelle locande straniere, nelle strade malridotte e pericolose: Se volessi raccontare le sventure nelle quali incorsi ed i pericoli che passai in quei tre giorni e mezzo che mettessimo da Bologna a Firenze, forsi parebbe favola e pure è vero, poiché in Savena ci avessimo ad annegare, a Scarica l’Asino il vento
mi gettò da cavallo, o giù del mulo. La scesa del Giogo bisognò farla a piedi; a Firenze non mi volsero lasciare entrare la sera perché avevo troppo del guidoncello, dove bisognò che due crazie che avevo servisero per albergare ed iscaldarmi, ché del magnare, se non era l’ostessa che mi donò un poco di pane, digiunavo la vigilia di Santo Bastiano, con tutte le circonstanze ”.
(...) non potevo venire per esere caduto ne l’aqua con la mia cavalla, la quale io credo che morirà. (...) io ò procurato di ritrovare un cavalo in prestito con grandissima fatica per venire a Mantova, dove io son arivato per gratia di Dio ma mezo rovinatto, sì per esere amalato et anco per le cative strade. Insuma io son qui: Vostra Signoria comanda ciò che ò da fare che lo farò, non guardando alla mia rovina che mi soprasta partendomi da casa mia et lasando ogni cosa in albitrio de una masara e un servitore. Basta con tuto ciò: io son qui tuto rovinato di fango et bagnato”.
Si aggiungevano poi gli acciacchi del sesso (capitava che le attrici incinte ricevessero come gli altri compagni sollecitazioni brusche ad andare dove voleva il committente) ” e dell’età, visto che i comici con-
tinuarono a viaggiare fino alla vecchiaia: «ma da l’altra parte poi, andargli nella ettà che noi si ritroviamo, de anni setanta, et mesi 4, et
giorni 15, et hore dieci, et minuti andatelo a cercare, questo è quello che ne pesa molto, per essere cosî longo viagio»; «Son dodici giorni che ho invaligiato per tornarmene a Venezia (...) e sempre son stato soprapreso da questi maledetti dolori colici, quali dubbito m’abbiano da levar dal mondo, e ben posso afermare che la vechiaia ne vien con tutti i mali». Meno evidente ma forse ancora più grave l’impaccio provocato dalle ingenti merci che gli attori erano costretti a portarsi dietro, principalmente quelle necessarie alla messa in scena. La cosiddetta « condotta delle robbe» era costosissima ” e gravosa da un punto di vista organizzativo”, esigendo l’intervento delle superiori autorità per gli sloganamenti di rito e per il trasporto che doveva es-
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sere fatto con un relativo dispiegamento di mezzi. Per tutte queste ra-
gioni messe insieme o tenute distinte, un cavallo, nient'altro che un cavallo, era il più gradito dei doni che i comici potevano ricevere dai loro mecenati: Et diece giorni sono, pasando per Verceli, trovai il signor duca de Sua Volontà o de Sua Voia, il qual era un quarto de milia lontano di Verze, ch’el faceva pasar la sua armata; et vedendomi mi chiamò, et mi adimandò dove era i comedianti perché el voleva dele comedie. Io gli disi il tuto, al fine elmi donò il mio solito tributo, chi è un cavalo sempre che passo per Turino, ma perché i cavalli erano tuti impediti el mi donò un mulo de ducati 60; et intendendo che il re et madama sua sorella aveva tenuto un mio figliolo a batesimo, et che mia moglie era gravida, el me dise ch’el voleva esere mio compadre ancor lui. Io stavo in dubio di acetarlo, et poi, consideratis considarando, considerai che se dicevo di non lo volere per compadre el non mi dava il prefato mulo, sì che io lo acetai per ancor lui in la Cademia di miei Compadri, che non è poco favore questo che io gli ò fatto”.
La lettera è burlesca, ma dipinge bene lo spirito con cui gli attori intrapresero i viaggi. La loro debolezza diventava forza quando si trasformava in mutevolezza, adattabilità, camaleontismo; in altre parole poteva diventare un additivo delle loro virtù artistiche: capacità di ‘patire’ l'ostacolo e di ‘superarlo’, di avversare la differenza e di tollerarla. I grandi comici furono, e sono, se stessi e il loro contrario. Mi-
metici secondo i bisogni, furono portatori di tanti passaporti quanti erano gli stati da attraversare. La frequenza dei viaggi li addestrò al trasformismo. Il passaggio degli attori e degli spettatori di ciascuna area teatrale dall’una all’altra regione implicava la registrazione delle differenze: o se vogliamo, un elementare catalogo, ad uso pratico, dei tratti pertinenti a ogni area. E non è forse un caso che le principali caratterizzazioni linguistiche ed etniche (e, di conseguenza, i più forti motori drammaturgici) del teatro professionistico utilizzassero come contorni delle «parti» sceniche le differenze (i tratti pertinenti, appunto) rivelate dal confronto delle aree teatrali che abbiamo indivi-
duato: il Magnifico veneziano, il Dottore emiliano, gli innamorati di lingua toscana, le cosiddette «parti napoletane» *, Arlecchino poliglotta e mantovano *. E si badi bene non caratterizzazioni, per cosî dire, statiche, ma contrastive: il Dottore e il Magnifico antagonisti e inseparabili come i centri urbani dislocati lungo la viabilità venezianoferrarese-bolognese; gli innamorati prigionieri della loro diversità e lontananza dai servi settentrionali. Dalle stesse regioni teatrali mossero i primi passi nel mestiere i grandi capocomici del periodo: il veneziano Flaminio Scala, i toscani Francesco e Giovan Battista Andreini,
la padovana Isabella Andreini, il mantovano Tristano Martinelli, il ferrarese Pier Maria Cecchini, il napoletano Silvio Fiorillo. E non è
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Capitolo primo
ancora un caso che le più grandi famiglie di ruoli all’interno delle principali compagnie professionali prevedessero le «parti toscane», le maschere e le cosiddette « parti mobili» (capeggiate dal Capitano), corrispondenti alle tre macroregioni (Toscana, Padania, Regno di Napoli) di cui si è parlato. Nel corso del Cinquecento italiano è noto che un procedimento del tutto opposto era stato messo in opera dai letterati più ossequienti ai dettami del petrarchismo stilistico, del fiorentinismo linguistico e del pedantismo retorico: la tolleranza delle differenze era stata lentamente epurata dalle scene; l’obiettivo predominante della letteratura drammatica era stata l’unificazione del pubblico, al di sopra delle aree linguistiche e culturali. La bella letteratura, meglio se in edizione di prestigio, aveva funzionato da lasciapassare con cui si erano potuti aggirare gli ostacoli e le frontiere. Anche gli attori se ne servirono in un esercizio di imitazione, talvolta maldestro, dei letterati autentici. Le edizioni dei testi scritti dai comici del mestiere sono molto più numerose di quanto non riconosca in genere la critica letteraria, ma
molto meno numerose di quanto farebbe pensare l’intensità della vita professionale di costoro. Quasi sempre messe in circolazione prima o durante impegnative tournées, le stampe erano il travestimento, l’imitazione che doveva rendere accettabile l’attore-autore ai suoi ospiti. Frequentemente apparvero a coprire i rischi di trasferte in terra francese, toscana o veneziana, regioni tra le più esigenti dal punto di vista delle forme *. Ma in realtà, salvo le eccezioni di rilievo, che ri-
guardano infatti solo grandi capocomici, gli attori non si sottrassero mai ai condizionamenti materiali dei viaggi e delle dogane. Nell’epoca in cui iletterati e gli artisti della figurazione erano quasi tutti muniti di adeguati passaporti sovramunicipali (opere a stampa, di poesia e prosa, encomiastiche, devozionali, cicli pittorici monumentali e dinastici) rafforzando l’immagine ‘nuova’ di un artista cosmopolita e cortigiano, ubiquo e nazionale, i comici continuarono a registrare 77 cor-
pore vili (e quindi anche nel loro mestiere o arte che dir si voglia) le divaricazioni linguistiche, le peculiarità etniche, le particolarità dei costumi laici e religiosi, gli squilibri sociali, le anomalie folkloriche, che il variegato scacchiere italiano conservava al di sotto del reticolo della cultura unificata. E questo non perché fossero coraggiosi e indipendenti, o ideologicamente ‘diversi’, ma soprattutto perché furono ipiù fragili e indifesi. Ogni volta che fortuna e valore li fecero pit forti, seppero anche essi fare un yso strumentale e astuto delle categorie alte della cultura letteraria e figurativa.
L'invenzione viaggiante
II
2. Procedendo a un ulteriore ingrandimento della carta stradale che fu adoperata dagli attori dell'Arte, ed entrando a volo d’uccello dentro le mura di alcune città, ci si accorge che la frammentazione territoriale era anche più complessa, le difficoltà frapposte ai viaggi più irte, le condizioni di lavoro fortemente determinate dall’esistenza di ostacoli amministrativi. Se seguiamo gli attori, organizzati in compagnie, nei loro spostamenti, dobbiamo convenire che essi manifestarono sempre una doppia natura: l'attaccamento e la subordinazione, complice e interessata, alle leggi del particolarismo municipale e il bisogno di oltrepassarle nel nome della libera circolazione della merceteatro. Se è vero, come scrisse Barbieri, che «Quest’arte non si esercita senza permissione de’ Superiori (...) e le licenze del recitare escono
dalla loro bocca e talvolta dalla loro penna» *, è altrettanto vero che i comici furono spesso complici servili delle autorità e, nel migliore dei casi, cercarono di aggirare le costrizioni vigenti sfruttando le zone d’ombra, i territori franchi, l’ambiguo confine tra lecito e illecito che ogni stato, ogni corte, ogni città tollerava ai margini dell’ordine apparente. La doppiezza in materia di asservimento e libertà era il tratto comune a tutti gli attori, ma forse in nessuno risaltò più che in Tristano Martinelli. Egli occupava a Mantovala carica di « Superiore» di tutti i «comici mercenari, zaratani, cantinbanco, bagattiglieri, postiggiatori, et che mettono banchi per vender ogli, balotte, saponeti, historie et cose simili (...) sì che alcuno di loro, o solo o accompagnato, sia di che
paese esser si voglia, non habbia ardire de recitare comedie o cantar in banco vendendo ballotti, far bagatelle, posteggiare in terra o metter banco senza licenza di detto Martinelli in scrito, né d’indi partirsi senza la medesima licenza, sotto pena d’essere spogliati di ciò ch’avranno così comune come proprio»; Arlecchino aveva anche l’obbligo di «procurare con ogni diligenza che non segui scandolo né disordine alcuno» in occasione dei festini carnevaleschi, utilizzando allo scopo agenti (o «luoghitenenti») da lui stesso assoldati “. Era quindi
un funzionario di polizia del duca, il taglieggiatore autorizzato dei poveri guitti, ciarlatani e comici ambulanti. Un attore che traeva denaro, potere e libertà dalla riduzione di denaro, potere e libertà degli altri attori. Ma all’interno delle mura gonzaghesche lo stesso Arlecchino non era poi cosî onnipotente e doveva scontare il privilegio sottoponendosi a una speciale pena del contrappasso, come lui stesso riferisce al suo signore in una lettera scandalizzata contro i magistrati e
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Capitolo primo
funzionari dell'Ufficio delle Bollette, preposti al controllo delle entrate e uscite dei forestieri e dei cittadini: La saperà come che quelli da le Bolete, per invidia e per dispeto che non li volsi dare a manigiare l’officio che Vostra Altezza per sua bontà mi donò (...) et anco per averne io gli utili che loro pretendevano avere, i galant’homeni per vendicarsi àno fatto quanto Vostra Altezza intenderà, e questo pochi lo sa. Prima, a tuti quelli che mi venevano a dar guadagno loro gli dicevano che io ero un tirano e che li facevo pagar tropo, et gli facevano fugire la più parte senza pagarmi; io giuro a Vostra Altezza che li lasavo il terzo di quello che comanda il decretto. Non li bastando questo, perché vedevano che poco me ne curava (...) andorno sotto man dal signor Cotto, che gli favorise perché fra loro se intendano, et con bel modo e lor inventione ebero ordine di far fare una grida che non se esercitase la comedia né il montar in banco per alcuni giorni (...), ma fecero bandire tuti i comici et zaratani, et alcuni che se ritrovava nella città gli cazorno via subito termine un’hora, che mai più si vide tal crudeltà. Et di più, de là a tre giorni vene Gasparo saltatore con una compagnia che non sapevano il crudel bando, et per disaviar la città da queste gente gli fecero dare tre strapate di corda per uno. Et in quel medemo tempo arivò la compagnia di Vostra Altezza, che venevamo a Verona, et detto Cotto la note gli fece metere prigione tuti et ordinò che gli dasero la corda a tuti, chon tuto che lo avisasero che erano comici di Vostra Altezza; et lui se ne burlava, dicendo: «Io li volio ben dare, comici di Sua Altezza». Volse la bona sorte che la signora Diana andò subito da madama serenissima fuora et li contò il fatto; Sua Altezza n’ebe gran disgusto et li fecero usire, et se non si faceva così presto avevano tuti la corda, dove che i poveretti tuti sono restati confusi et mal sadisfati nel aver riceuto tal afronto in la città dove più sperano averne favori *.
È solo un primo assaggio delle infinite liti che i comici dovettero sostenere contro i poteri municipali, i quali spesso innalzavano barriere protezionistiche orientate in direzione opposta, catturando letteralmente i comici per evitare che scegliessero di emigrare verso piazze più lucrose. Come nel caso dei ferraresi che vengono accusati, in occasione di feste nuziali, di avere «arrestato (...) una parte dei Co-
mici Gelosi», con la maligna postilla che, nonostante l’azione di polizia, «la femmina e i personaggi migliori sono passati a Venezia» perché «impauriti di Ferrara dove ricevono poco guadagno e assai superchierie» “. Celebri furono i sequestri a cui furono sottoposti i comici italiani diretti in Francia durante i loro transiti obbligati dalla Savoia. Per il duca erano le opportunità ideali per concedersi il godimento delle esibizioni di compagnie che poco volentieri avrebbero altrimenti allungato i loro itinerari abituali per raggiungere la corte decentrata di Torino”. Giustificati dal diritto erano invece i poteri di «arresto» che i diversi sovrani esercitarono sui comici (come potevano fare su qualsiasi
altro artigiano) in quanto sudditi nati nel loro territorio ‘*, e che potevano servire a guadagnare qualche adesione non proprio spontanea
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all'insieme della compagnia. In altri vincoli ordinari potevano imbattersiiteatranti una volta entrati nelle zone di giurisdizione delle dogane. Qui potevano essere minacciati di sequestro delle «robbe» che servivano per la costumistica e l’attrezzeria, e qualche volta anche di cattura e detenzione per traffico illegale di merci proibite. Attraverso i documenti dei comici «forestieri» è quasi possibile stilare un’inchiesta sul sistema doganale del tempo; i viaggiatori di professione sono praticamente gli autori involontari di reportages sugli usi commerciali delle diverse città: I Comici Confidenti ricorrono supplicando a Vostra Altezza Serenissima, et avendo loro condotto in questa città felicissima le veste et arnesi che sono necessari alla sua arte delle comedie, e pagatone la dogana di duoi tamburi in poi, ne“quali vi hanno ritrovati alcuni guarnellucci e girelli vecchi et usati di velo d’argento falso, che dicono essere proibiti. Loro ron sapendo questa legge come forestieri, umilmente supplicano Vostra Altezza Serenissima che li faccia grazia di rendere quelli pochi stracci, accioché con quelli possino vivere et anche che sia liberata una de loro done, la quale è in carcere per questi veli. E quando che Vostra Altezza Serenissima non li accoglia fare grazia, li concedi come alli altri forestieri, come per passo s’usa, obligandosi che al suo partire se li consegnerano nelli medesimi termini, che in tutto ne terranno infinitissimo obligo *.
Gli ostacoli e gli obblighi determinati dal controllo esercitato con crescente severità, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, sul flusso migratorio verso le città, mettono gli uni contro gli altri i forestieri e i locali. I conflitti consentono di misurare leggi e costumi diversi, qualche volta opposti. E non solo in relazione al terreno economico-sociale. Iviaggiatori della scena sono spesso, per chi li vede arrivare alle porte della città, iveicoli di consuetudini (linguistiche, culturali, folkloriche, religiose, morali) parzialmente estranee al punto di vista di chi li riceve. Ogni volta il ‘rituale’ comico allestito dai viaggiatori doveva essere ispezionato, controllato e, per quanto possibile, regolarizzato secondo il ‘rituale’ della comunità ospitante. Sono note le precauzioni messe in opera per tutta la seconda metà del secolo xvI dal cardinale Borromeo e dalle autorità civili milanesi nei confronti degli spettacoli degli istrioni, con il vaglio preventivo dei copioni che avrebbero dovuto essere recitati nella città”. Ogni governo era preoccupato di mantenere fermi i confini del senso del pudore comune alla propria popolazione, impedendo che il divario di costumi tra gli stranieri e gli stanziali fosse troppo ampio. Nel 1576 il commissario granducale in Pisa proibiva il rientro in città della compagnia del comico Pedrolino per ragioni di pubblica moralità: «nelle ragunate et abitazioni rispetto a certi amori di lor donne sentii tali romori che ne poteva uscir scandali notabili e però non gli
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ho voluto concedere il ritorno. Oggi, avendo ottenuto da Vostra Altezza abitino in Pisa senza far ragunate o comedie, non ho mancato di obedir ai suoi comandi e significarli ancora la cagione perché non la ho voluto lasciar entrare»”. Tre anni dopo sappiamo che la stessa compagnia di Pedrolino provocava ancora scandalo, subendo conseguenze poliziesche: una sera che gli erono preparati per fare al solito la commedia venne un zanaiuolo a chiamare uno de’ loro histrioni che per rappresentare in scena un capitano spagnuolo si chiamava il Capitano Cardone, et egli andò né mai poi si è rivisto né ritrovato vivo né morto. Era questo il principale che fosse tra questa brigata, et dava loro i soggetti sî di tragedie come di tragicomedie et comedie, infra i quali soggetti ve ne possono essere stati de’ licenziosi, come anco parole licenziosissime che possono havere offeso qualcuno che abbia volsuto farne vendetta, o forse egli, attediato da mestiere così vile, si è resoluto a lasciare la compagnia et attendere a cosa più lodevole che non è questa del zanni che danno occasione a mille poltronarie”.
L’ipotesi del ravvedimento spirituale veniva subito negata dai fatti raccontati dal cronista, che infatti poco dopo precisava: «Era in prigione, et doppo molte cicalate che nessuna ne riusci vera, fu liberato». Episodi analoghi” possono essere letti come il segno della diversità della societas comicorum rispetto a tutta la società civile di ogni latitudine, ma sono anche da spiegare con il décalage di costumi lingua e cultura tra la regione d’origine di molti attori (spesso di estrazione bassa, come saltimbanchi, cerretani, buffoni, prostitute) e il luogo della ricezione spettacolare. Se era disorientato il pubblico misto degli spettacoli fiorentini («nobile, artigiano o plebeo»)”* o quello smaliziato di Venezia, ancor
più lo erano gli spettatori dei centri periferici. Nei primi anni del Seicento si raccolgono numerose notizie sullo sconcerto che l’apparizione o l'annuncio di teatranti prezzolati produceva sulle comunità marginali e quindi più conservative. La supplica del comico, ex ciarlatano, 60
Nicolò Barbieri, non è solo un trattato in difesa dei comici, ma anche
un documento sulla mentalità del tempo. Per quanto impegnato ideologicamente e moralisticamente a enucleare dalla vita degli istrioni quanto poteva essere accettato dal buon senso comune, volendo essere convincente e credibile, l’autore raccoglieva ed esponeva referti documentari. E diventava quindi un cronista curioso di molti spettacoli e di molti spettatori. Oggetto delle sue cronache sono gli umori e le reazioni di tutti coloro che assistono alle esibizioni degli attori professionisti. In questo modo egli finisce inevitabilmente per registrare gli scarti di incomprensione, smarrimento, emozione, che si
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producono tra i portatori di teatro e i ricettori di questo, tra coloro che viaggiano il mondo per vendere teatro e coloro che ricevono il viaggiatore e le sue ‘merci’. Nelle sue pagine migliori Barbieri dimostra come solo la concreta esperienza dello spettacolo professionistico possa superare la differenza fra spettatori e attori, e trasformare la diffidenza iniziale dei primi in una nuova consuetudine che accomuna la scena e l’udienza. Cosî facendo l’attore polemista individua, dal suo osservatorio, la natura dei trasalimenti, dello sconcerto, della sorpresa e della scoperta che avevamo intravisto nei documenti d’archivio citati sopra. Il mondo è pieno di persone e di gruppi sociali che, una volta usciti dalla loro segregazione ed entrati nel recinto dello scambio sociale, si ricredono dei pregiudizi e diventano cittadini di un mondo migliore: >
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Si partì, dodici anni sono, una compagnia di comici da Napoli per andare in Sicilia, ela fortuna li sequestrò per quattro giorni a Capo d'Orlando, ove non vi era da vivere. S’incontrò esservi in quel luogo Monsignor Illustrissimo in visita, il quale aveva seco quattro Reverendi Religiosi, e forse di quelli che talvolta esclamano contro le comedie. L’ostaria ad alto era tutta occupata per Monsignore; onde i poveri comici non sapevano ove ricovrarsi. Il buon Prelato, pieno di carità, vedendo tante persone con poca provisione, ad uso di buon Principe si pose a far parte di que’ regali che i luoghi convicini presentavano, e fece ristringere la sua Corte per dar commodità di camere a quelle povere creature; e perché il tempo era strano e ’l mare tempestoso, il Prelato era in ozio, e i comici gli si offerirono di
qualche comedia. Monsignore accettò l'offerta servitù, fino che il mare sedato fosse. E così il primo giorno si recitò: Monsignore si pose a sedere avanti una por-
ta di camera a vedere e i Padri si posero dietro nella camera, con la porta succhiusa. Non fu a mezzo la comedia, che la porta era spalancata e la camera risonava dal mormorio dell’applauso. Il giorno seguente tutti i sudetti Padri stettero fuori vicino al Prelato; il terzo giorno precorsero l’ora stabilita e sollecitavano i comici a cominciar tosto, per non star in ozio.
Andò a finire che i religiosi benedissero «il mal tempo ch’aveva loro dato occasione di goder sf virtuoso trattenimento» ”. È proprio il viaggio, per Barbieri, che consente di vincere ivizi di una società statica e superstiziosa, ed è sinonimo di virtù, di fratellanza e di ragionevolezza. Il teatro viaggiante basato sulla percezione della differenza sta dalla parte della modernità; la cultura municipale e provinciale è accecata dalla ripetizione di monotone costumanze e dal sospetto verso la novità. Come era successo allo stesso attore, nel 1596, ad Aosta, quando un «Superiore spirituale» aveva negato a lui e al suo maestro, il «montinbanco sopranominato il Monferino » la licenza di recitare in piazza « dicendo che non voleva ammettere le ne-
gromanzie (...) e che in Italia aveva veduto ciarlatani prender una pic-
ciolla pallotta in una mano e farla passar dall’altra, far che un picciolo
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piombo entra da un occhio e per l’altro salga, tener il fuoco, involto nella stoppa, buona pezza in bocca e farlo uscire in tante faville, passarsi con un coltello un braccio e sanarsi per incantesmi subito ed altre cose del Demonio». Il Monferrino aveva dovuto fuggirsene per non essere incarcerato. Malinconicamente e con atteggiamento mo-
rale superiore a quello del «Superiore spirituale», il Barbieri concludeva da grande saggio: «Si trovano uomini che hanno massime in capo tanto abbarbicate che non vi è ragione che le possa svellere» “. Il viaggio dunque come grande guaritore delle superstizioni: L’estate del 1628 certi signori uffiziali di guerra, alloggiati a Casal Maggiore, invitorono una compagnia di comici, qual era a Cremona, a trasferirsi da loro per otto o dieci giorni, e gli fecero, oltre all’istanza, competente partito ed i comici l’accettarono; quando questo si seppe a Casale, un buon uomo si lagnò più di quest’invito che se fossero invitati ipredicanti Calvinisti; non mancò di prometter ogni bene a chi non fosse andato alla comedia. Ora portò il caso che le pioggie intumidorono il Po e, valicandolo, certi sonatori naufragarono ed uno degli stromenti di quelli scorse sopr’acqua fin a Casale ove fu raccolto e certi fecero argomento che fosse di que’comici che si aspettavano. Inteso quel buon uomo che teneva così sinistra opinione delle comedie questa disgrazia, s’allegrò tanto che non capiva in se stesso, e ringraziò il Cielo che avesse trovato tal mezzo per salvar quella terra che non fosse stata contaminata da quelle diaboliche persone. Doppo tre giorni giunsero i comici a Casale, servirono quei signori i quali rimasero sodisfatti, ed i comici pagati, e partirono: e così in otto giorni si liberò Gierusalemme dalla tirannide degli Ottomani. Il Cielo sa che cosa pensava quel buon uomo che fosse la comedia. Vi è persona tanto fidele alla sua prima impressione, che temerebbe d’idolatrare s’egli porgesse voto ad altra ragione”.
Il buon uomo di Casale, il funzionario di Aosta ei religiosi siciliani erano stupiti provinciali, non frequentavano corti né città festeggianti, eil trapasso dalla diffidenza alla complicità, il movimento dalla sorpresa alla consuetudine, che si intravede dentro la cronaca del Barbieri (almeno nel primo e nel terzo caso), ci ripropongono lo spettacolo dell’ Arte come un alternarsi di paura e piacere, angoscia e sollievo, mistero minaccioso e riso liberatorio. Non era cosî, come si capi-
sce dalle parole del Barbieri, per gli attori, che possedevano il sapere tecnico che faceva credere alle negromanzie e mostrava meraviglie innocue. Era cosî per gli spettatori. E infatti quello spettacolo non esisteva al di fuori del punto di vista di coloro che lo vedevano di volta in volta apparire e lo giudicavano in rapporto alle proprie convenzioni culturali e anche rituali. Esso fu il risultato, sempre variabile, di uno scarto e di una differenza. Fu il rinvenimento, letteralmente l’invenzione, resa possibile dal viaggio, di questa differenza. Fu l’invenzione viaggiante fra due limiti variabili. Variavano infatti, di città in città, i pregiudizi ottici, morali, linguistici, sociali, degli spettatori, e variava-
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| no anche, di volta in volta, i codici espressivi della compagnia dei comici, costantemente rivoluzionata nella sua composizione di «parti» in virtà delle occasioni offerte dalle diverse ‘piazze’ teatrali. Per questo la cosiddetta Commedia dell’Arte non ebbe la patria e i natali in nessuna città: perché fu prima di tutto un teatro di rapporti e di misurazione dei rapporti. In questo senso non ha fondamento interrogarsi sull’origine delle maschere, né sull’identità delle «parti» allora praticate. Si prenda Arlecchino. Anche lui fu un’invenzione del viaggio. Né bergamasco né francese, mantovano solo per l’anagrafe dell’attore che per primo lo recitò”, fu soprattutto lo straniero, un corpo estraneo, il capo di una masnada di vagabondi ”, colui che veniva da fuori; e non a caso, quando si dovette battezzare da solo, nell’unico e stram-
palato libro che diede alle stampe a Lione, sottolineò che l’opuscolo era stato «imprimé de là le bout du monde» e che lui, in un francolatino sgrammaticato, dovevasi chiamare «Monsieur Don Arlequin, comicorum de civitatis novalensis» . Di Novalesa dunque, e non di
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Mantova, o di un’altra città, o dell’inferno. Perché? E cos’era, dov'era, Novalesa? Novalesa era la più grande stazione di posta esistente al
— di qua delle Alpi. Un servizio di trasporto per merci e persone a mezzo muli tra il Piemonte e la Francia, con destinazione Chambéry. Assegnandosi quel luogo di nascita Arlecchino assumeva, da vero uomo di spettacolo, il punto di vista degli spettatori e dei mecenati lionesi e francesi. Il grembo da cui nasceva non era quello naturale autentico, come attore egli vedeva la luce sulla scena del teatro, dal filo dell’orizzonte (quell’orizzonte da cui lo videro davvero arrivare i suoi spettatori), dalla frontiera che separava il noto dall’ignoto. Anche lui nasceva letteralmente dal viaggio °. Intanto, per chi guardava, Arlecchino e i suoi compagni erano la misurazione di una distanza: quella che separava la loro casa e città dal mondo di fuori. Una misurazione che non era comunque inusuale per gli abitanti di Lione, città di frontiera, non solo politica, ma anche religiosa, tra entroterra cattolico e periferia esterna protestante. Città peraltro di fiere e mercati, dove la differenza etnica e linguistica era da molto tempo tollerata, dove l’esercizio dell’identificazione dello straniero era pratica quotidiana. E proprio nell'occasione della venuta di Arlecchino, altre significative eccezioni alle consuetudini religiose ostili al teatro vennero introdotte, a conferma del carattere ‘franco’ della zona lionese ©. Anche le altre principali stazioni di viaggio dei comici erano dislocate in analoghi territori di confine, laddove appunto l’esercizio della messa a fuoco si perdeva nel mare di un con-
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tinuo gioco di adeguamento alle difformità, e laddove l’epifania del viaggiatore poteva essere meglio assorbita e tollerata dal resto della società stanziale. L'attore Domenico Bruni si lamentava di «ostarie cattive, osti poco buoni, cavalli pessimi, carrozze spezzate, barcaroli impertinenti, vetturini importuni, spioni di porte e di gabelle» °, e in particolare dell’«osteria, dove per lo più si paga bene e stassi male» *. Eppure le osterie, le stazioni di posta, le locande, le dogane, i porti, erano, più delle corti, i luoghi naturali per accogliere e nutrire l’invenzione viaggiante dei comici. Nessun luogo meglio di questi prometteva un alto esercizio della ‘differenza’, una rivelazione continua della novità e un esercizio della stanzialità provvisorio. Perennemente ‘frontalieri’ icomici erano a loro agio in questa linea d’ombra che collegava tutte le frontiere. Un fragile intervallo tra il noto e l’ignoto, fra la tradizione e la scoperta, la consuetudine municipale e la rivelazione strana e straniera, tra l’aldiqua e l’aldilà, la terraferma e il mare, la città nota e il fuori porta, le tavole del palcoscenico e il viavai turbinoso di viaggiatori ignoti. E viene in mente il caso di Venezia, emporio mediterraneo e centro regolatore della vita teatrale del nord, e poi il già ricordato teatro fiorentino della Dogana nel quartiere malfamato di Baldracca ma alle spalle dell’edificio monumentale degli Uffizi, e cosi l’Hostaria del Falcone a Genova, situata anch’essa sul confine tra il quartiere monumentale seicentesco voluto dai Balbi e l’antica zona del porto, disordinata e medievale, e infine Napoli con i teatri disposti nelle vicinanze di Porta Capuana e Castelcapuano nel crocevia dei traffici portuali ed extraurbani. Ma nel prossimo capitolo, che sarà dedicato alla vendita del teatro e ai suoi luoghi, vedremo meglio come nelle principali città l’ubicazione degli spazi destinati agli spettacoli dei comici di mestiere si trovasse sempre nei quartieri della dogana o del porto, dove iviaggiatori e ianeurs locali si urtavano e si affollavano in cerca di locande, taverne, bordelli, bische, cavalcature, lettighe e commedianti. i 3. Abbandoniamo ora il punto di vista degli spettatori per assumere quello degli attori. In attesa di ascoltarli, più avanti, come testimoni di storie individuali, li adoperiamo per ora come cavie per scoprire problemi più generali, scegliendo tra le parole degli sfoghi personali quelle che, a loro insaputa, alludono ai problemi della professione, oppure quelle che intenzionalmente li denunciano. In questo modo il viaggio ci appare meno un felice germe di teatro e più un logorante impaccio della vita quotidiana. Riprendendo l’esibito lamen-
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to di Domenico Bruni, l'impasto di pioggia, neve, osterie cattive «ed altre simili delizie» è visto come un male inseparabile dalla «felicità comica» “. Inconsapevolmente l’attore del Seicento ironizza proprio con noi, i posteri compiaciuti di quel fascinoso mondo, ammiratori dell’invenzione viaggiante che, attraverso gli ostacoli e le differenze, genera un teatro vivo e di grande futuro: Venga il canchero a questa professione ed a chi ne fu l'inventore! Quando mi accomodai con costoro, mi credevo di provare una vita felice: ma la ritruovo appunto una vita da zingani, quali non hanno mai luogo fermo né stabile. Oggi qua, domani di là; quando per terra, quando per mare e quel ch’è peggio, sempre vivendo su l’osteria, dove per lo più si paga bene e stassi male. Poteva pur mio padre mettermi a qualche altro mestiero, nel qual credo che avrei fatto miglior profitto, e senza tanto travaglio, poiché chi ha arte ha parte in questo mondo, soleva dire Farfanicchio mio compagno. Pacienza, io ci sono entrato e basta in questa professione romperci un paio di scarpe, per non se ne levar mai più”.
Nel gergo dei commedianti «rompere le scarpe » è quasi un sinonimo di ‘recitare’ “, che registra, insieme al danno e alla fatica del mestiere, la fatale accettazione di un destino. Un altro attore, Flaminio
Scala, fa del «moto perpetuo » un sinonimo della vita comica e gli attribuisce la capacità di produrre il profondo «fastidio » che lo fa «inpazzare» come l’irresistibile attrazione («umore») che esercita in genere sui comici”.
stato giustamente scritto che gli attori si mossero per guadagnarsi da vivere”. È vero, ma è solo una parte della verità. Non si spiegherebbero altrimenti né la persistenza del mestiere in attori affermati che raggiunsero, grazie al teatro e ad altre professioni collaterali, una relativa sicurezza economica, né le scelte addirittura contrarie all’interesse economico immediato che fecero altri, preferendo l’arte del recitar viaggiando a qualunque occupazione stanziale ”. La lotta per la sopravvivenza è inseparabile in questi umili attori dalla ricerca di libertà. Altrimenti, come diceva Domenico Bruni, sarebbe stato preferibile «qualche altro mestiero» con il quale si sarebbe potuto cavare «miglior profitto, e senza travaglio ». Essi cercavano di godere «quella libertà che pare che conceda Iddio benedetto a tutti quelli che non nascano sudditi» ”. Non sappiamo se il viaggio degli attori abbia avuto inizio in una determinata epoca della civiltà come effetto di una crisi improvvisa o se invece, molto pit probabilmente, sia sempre esistito come fattore endemico, all’interno e a fianco di altre migrazioni; tuttavia nell’epoca di cui ci occupiamo esso lascia intravvedere tracce di antiche motivazioni. Ebbe, ad esempio, caratteri stagionali, come molti altri viaggi che videro protagoniste le frange mo-
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bili delle società contadine. Come il banditismo, ad esempio, o la mi-
lizia mercenaria”. Ancor meglio delle guerre e delle rapine, che si svolgevano di preferenza in primavera ed estate, l’attività comica poteva integrarsi con il ritmo dell’agricoltura che regrediva proprio nella stagione culminante del carnevale (non a caso, le trattative per le stagioni seguenti si svolgevano in periodo di quaresima e potevano protrarsi fino all’estate, in coincidenza con le fasi più intense dell’attività agricola). In ogni caso la mobilità, anche temporanea, era il modo migliore per vincere la coercizione e l'autorità vessatoria che i padroni potevano esercitare sui sudditi stanziali. La terra, i raccolti ciclici, incatenavano l’uomo al potere. Solo la decisione di partire e di vivere da nomade, almeno per lunghi periodi, poteva liberarlo. Il viaggio di questi ‘ribelli’ non ha né uno scopo, né una destinazione, non ha né una fine né un principio: è— secondo le parole dei comici — un «andar in volta», un
«moto perpetuo», un
«andare attorno», una condizio-
ne di vita precaria e instabile assunta per vivere liberamente. Almeno nelle illusioni e nelle scelte di partenza. Non diverse da quelle di coloro che, cadetti di famiglie nobili in disarmo o anche inferiori, si mettevano sulla strada della milizia mer-
cenaria e della ventura militare per denaro e per ambizione di potere, approdando non di rado al puro e semplice banditismo ”. La contiguità delle due figure sociali (il soldato di ventura, il comico mercena-
rio) spiega, e meglio di qualunque tesi evoluzionistica che fa risalire la tradizione al teatro classico, la persistenza, fin dagli inizi del teatro professionale, della parte comica del Capitano. Non necessariamente si deve vedere nei tratti di quel personaggio il riflesso della realtà: soldati e ufficiali spagnoli, napoletani, tedeschi. Forse è più giusto osservarvi, come in uno specchio, la proiezione del teatro mentale degli at-
tori. Il fantasma della loro vita. Fuggire dalla sudditanza, viaggiare il mondo, conquistare ricchezze. Anche i capitani di ventura, d’altra parte, combattevano più per sé che per gli altri, più per bisogno di libertà che per ideali; non c’era patria da servire, ma soltanto un generico padrone che era di volta in volta il re, il duca, il capitano. Si vive-
va alla giornata, obbedendo pit al guadagno che al capo. Una giustificazione nobilitante poteva venire da una missione alta a cui ci si assoggettava per necessità, e la congiuntura storica l’offriva spesso sotto forma di guerra agli infedeli, di missione cristiana. Era una messa in scena nello stesso tempo ridicola e pomposa, con i cappellacci, le sciabole, i cinturoni, le cappe e le piume variopinte, di cui restano tracce nelle stampe del Cinque e Seicento o nelle memorie tutte teatrali
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di uno straordinario picaro come il Capitano Alonso de Contreras”. Di quel sogno millantatore fu interprete anche il celebre Capitano Spavento da Vall’Inferna inventato dal grande attore Francesco Andreini. Ma costui non mise solo in scena, come si è generalmente detto, la ridicola vanagloria di un soggetto sociale esistente, non si limitò insomma a registrare un dato sociologico, riscattandolo con il ridicolo. Egli fu, più semplicemente, l’inscenatore della sua autobiografia. Nelle forme autorizzate dalla convenzione del tempo, raccontò la vita e i sogni smisurati di un attore er capitaine. Cercò anche di fornire un certificato di autenticità storica alla sua «parte » diffondendo le notizie su una presunta partecipazione a imprese turchesche (e vedremo più oltre con quale strategia nobilitante) ”, ma soprattutto dette corpo a un’utopia e alla sua inseparabile angoscia. Comune del resto a molti altri attori che, nel concreto della loro vita, avevano tentato
dapprima di diventare ricchi e famosi grazie alle armi, ripiegando in un secondo tempo sul teatro”. Traspaiono in molti passi delle Bravare del Capitano Spavento, il libro capitale che egli ci ha lasciato, i segni di un’esistenza itinerante e cialtronesca, illuminata da osterie celesti, servizi postali avventurosi, viaggi da incubo e da delirio: immagini letterarie, ovviamente, sostenute dalla leggerezza del sogno più che dalla passione autobiografica”. E il suo costume da Capitano ora scintilla come un mito, ora si abbassa al livello di un abito buffonesco.
Con andatura schizoide Francesco Andreini scopre la contiguità dei due costumi e cerca di allontanare da sé il meno nobile: cAPITANO Habito mezo Spagnuolo, mezo Francese, mezo Todesco, et mezo Italiano, foderato tutto di contrari pareri, ricamato di strane bizzarrie, con la sua bottoniera d'interesse di stato. TRAPPOLA E poi donarlo al primo buffone, che vi comparisca innanzi, come sogliono fare la maggior parte de’ Prencipi. capitano Gli habiti miei non sono da donare a simili furfanti, parendomi cosa molto sconcia il veder un habito superbissimo, che dianzi vestiva un Prencipe, indosso a un vilissimo buffone, che per lo più vien creduto l’istesso Prencipe che già lo portava. TRAPPOLA L’usanza è tale; e quel donare di cotal maniera viene a significare che il Prencipe ha in odio, et poco più prezza simili donativi, et perciò dona quelle
cose da lui disprezzate a persone disprezzate come sono i Buffoni. capitano S’io havessi da donare ad un Buffone, vorrei farli un babito dalla pezza, che fosse conosciuto per habito di Buffone, e non di Capitano, cioè fatto di mille colori, con strana foggia, con cappuccio in testa, e due orecchie d’Asino, c’havessero i loro sonagli in cima, che sonando facessero segno della venuta del furfante Buffone”.
Nel suo viaggio il Capitano-capocomico vuole separarsi dal mondo infimo dei servi e salire verso i professionisti rispettabili; lascia al-
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lora che sia il servo Trappola, dal basso, a completare il diagramma ideale dei mestieri. In basso stanno la ciarlataneria e la vile mercatura degli ebrei. In alto, accanto al Capitano, sta il mercante cristiano: TRAPPOLA (...) padron mio, s’io fossi Principe non vorrei sul mio né ciarlatani né giudei, ma lasciar solo che la Legge, la Medicina, e la Mercatura de’ Christiani fosse quella che facesse le famiglie ricche, agiate, e possenti assai per sovvenire il publico, e ciascuno particolare, ond’esse, acquistata molto benevolenza, potessero facilmente poi esser ricevute per parenti da nobili, e quindi poi ricever delle maggiori degnità, comz’anco fanno quelli che si danno alla militia, che vi acquistano dentro fama immortale ®.
Questa misurazione dell’alto e del basso della società non comprende ancora esplicitamente l’attore professionista, ma uno dei termini di confronto inferiori (il ciarlatano) lascia aperta una casella speculare nel piano superiore, pronta per accogliere il comico nobile. In un altro luogo la simmetria alto-basso viene esplicitata anche per il teatro e sempre per bocca di Trappola che evidentemente ama la sociologia: CAPITANO (...) la povera Comedia e la misera Tragedia (...) vergognosamente se ne vanno per le pubbliche Piazze, e sopra i publichi Banchi dei Ciarlatani, tutte stracciate, che a fatica si riconoscono. TRAPPOLA
vero, Padrone, e me ne creppa il cuore, havend’io una certa incli-
natione alla Drammatica Poesia; ma questa è colpa di quelli che governano le Cittadi (...) iquali a modo niuno non doverebbono permettere che una Comedia et una Tragedia fusse rappresentata così vilmente sopra de i banchi; ma sî bene in luogo privato, con quell’honore, e con quella magnificenza che se le conviene,
Tutto era pronto perché l'Arte della Commedia si affiancasse, almeno nelle intenzioni degli attori, alla Mercatura cristiana e all’Arte delle Armi come simbolo di ciò che è onorevole, magnifico, degno di lode. Perché questo si avverasse era necessario che mutasse l’atteggiamento di «quelli che governano le Cittadi». — Nel corso del Cinquecento, il crescente urbanesimo e le relative resistenze opposte dalle città all’ingresso di flussi migratori soverchianti ostacolarono dapprima la libertà del viaggio comico. La precarietà degli asili urbani, la durezza poliziesca dei controlli attuata dai poteri municipali e statali, avevano accentuato l’empito fuggiasco dei commedianti, costretti ad adeguarsi con soste urbane misurate e con lunghi intervalli di assenza alle restrizioni. Ma lentamente i comici, distinguendosi dai ciarlatani volgari, riuscirono a trovare un posto nelle città, a rosicchiare un poco delle ricchezze altrui senza entrare in conflitto con la società costituita. L'organizzazione urbana che usci dal Rinascimento italiano favorî, come vedremo meglio nel secondo
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capitolo, la regolarizzazione del «moto perpetuo». Gli attori che operarono fra Cinque e Seicento, lasciato alle spalle (ma non dimenticato) l’istinto libertario d’origine, agirono nello stesso spirito di conciliazione, e tentarono (se non tutti, la maggior parte) di sanare la lacerazione che essi avevano prodotto nel tessuto sociale all’inizio del loro viaggio quando si erano distaccati dai campi. Come avvenne peri banditi di terra e per quelli di mare (pirati e corsari), non ci fu nessun gruppo organizzato di comici che non avesse alle spalle un signore che lo proteggesse o una città che fungesse da porto principale *. Gli attori sfruttarono spesso il sostegno offerto da alcune città nel periodo per loro più difficile, quello di quaresima, ma soprattutto si avvalsero della protezione ravvicinata dei principi minori, quando non addirittura dei segretari del principe, oppure dei cadetti delle grandi famiglie, che non potevano aspirare ai gradi supremi della dignità ereditaria”. Da costoro ottennero lasciapassare e passaporti che servirono a prolungare e proteggere i loro rischiosi itinerari. Cosî icomici, che si erano dati al nomadismo per fuggire la sudditanza, e che quel nomadismo avevano reso possibile con un mestiere itinerante, arrivarono piano piano a riscoprire l'obbedienza. E non si capisce se la sottomissione alle corti fosse dovuta al bisogno di trovare lavoro o alla necessità di procurarsi le patenti di libera circolazione *. In ogni caso quella strategia era l’indice di una crescente incapacità di mantenere l’autonomia del proprio stato con i soli strumenti del mestiere. Quei salvacondotti erano anche bandiere, assomigliavano alle patenti che i sovrani d'Europa assegnavano ai pirati del Mediterraneo e dell'Atlantico per trasformarli in corsari e in predoni legittimati dalla fede e dall’autorità statale. Fu Nicolò Barbieri, molti anni dopo Francesco Andreini, a enunciare in un chiaro paradigma polemico la coscienza del nuovo status teoricamente acquisito: a dir corsari, ladri e assassini par che si dica uomini del diavolo, ma in tal viluppo non si rinchiude que” corsari illustri, che sgombrano il mare de’ ladroni pirati e che s’oppongono a’ nemici di nostra fede, ché vi è differenza da chi ha per arte il furto a chi ha per fine guerriero onore. Così vi sono comici tanto lontani dall’esercizio de’ mimi e buffoni quanto da’ corsari illustri a’ pirati”.
Si portava cosî a compimento il modello*sociale che il Capitano Spavento aveva progettato. Dopo avere eletto lo status syrzbol della rispettabilità civica nella «mercatura de’ Christiani» e nella «militia», quest’ultima veniva identificata nelle nobili gesta dei corsari della fede e, grazie all’exerzplum mitico di Andreini, direttamente equiparata alla professione comica, a sua volta contrapposta alla vile buf-
foneria dei ciarlatani. Attori, mercanti, corsari diventavano, dotati di
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pari dignità, gli esponenti più alti di un corpo sociale che aveva posto nella mobilità professionale il fondamento della sua esistenza al servizio della civitas cristiana. Se gli spettatori continuarono a vedere nel viaggio una rivelazione delle differenze, gli attori cercarono di dimostrare (come il Barbieri
della Supplica) che il loro mestiere contribuiva al superamento di quelle. E per questo furono attenti a trasformare in metodo l’improvvisazione organizzativa che presiedeva ai viaggi e alle tournées. Il definirsi più esatto degli statuti del mestiere coincise con l'assunzione sempre più consapevole di un lessico militare all’interno delle troupes: oltre a quest’ultimo termine che entrerà in uso, a consuntivo, nel corso del Seicento francese, ricordo qui l’attore Flaminio Scala che dichiarava al suo protettore l'orgoglio «di militare e di essere al rolo di un sì generoso e bel capitano » “; allo stesso comico il suo protettore e «capitano», don Giovanni dei Medici, ordinava « che ancor esso se ne venga a servirla, mettendo come capo insieme tutti i compagni, et riceva l’honore de’ suoi comandamenti» ”. Vedremo più avanti che linguaggio e metodi del mondo militare abbondano nelle comunicazioni fra questi due personaggi. Più diffuso ancora è il ricorso alle metafore marinaresche. Il fenomeno è, da una parte, un riflesso dell’abitudine di chi si è trovato «molte volte con nostri comici a prender barche per noi a posta, o per la riviera di Genova o di Ligorno o peri fiumi di Lombardia» *. Si tratta di una navigazione in tono minore che produce facili metafore del mestiere comico: «non vego l’hora di
pigliar porto per non più far vella, il qual porto ho fato dissegno che sia Mantova»; «ha più bisogno ch’io lo servi per peota [pilota] che per marinaro» ”. Ma talvolta la metafora procede da una motivazione più profonda e riflette uno stato di necessità. Una più estesa campionatura dei comportamenti delle compagnie teatrali rivela infatti analogie tra strutture comiche e strutture militari marinaresche. In particolare i modi tenuti dai comici d’inizio Seicento nell’aggregarsi e disaggregarsi da una stagione all’altra, con scissioni di minoranze insubordinate, successive conciliazioni e fusioni, rinviano, per molti versi,
alla genesi di molti equipaggi corsari, la cui formazione procedeva secondo un ritmo ciclico di affinità e contrasti, separazioni e unificazioni senza fine”. Come le navi anche le compagnie avevano infatti un perimetro invalicabile, fissato dal numero e dall’equilibrio delle «parti»; una ciurma in soprannumero doveva per forza scindersi per evitare di dover suddividere troppo il guadagno: (...) tutti unitamente me àno imposto che io vi scriva che loro non intendano di tor
altri in compagnia per questo carnevale perché sono abastanza loro, et più tosto
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àno uno di più che di meno (...). Però (...) se desiderate aver gusto dalla compagnia non gli cresete parte (...) quel poco o asai guadagno che àno da fare non lo vogliano dividere in tante parte”.
Il comico che qui fa la relazione al principe si comporta come il capitano di una nave che si rivolge al suo armatore, che non governa l’equipaggio con la forza ma con il consenso, in quanto rappresentante del volere collettivo («tutti unitamente me àno imposto»), secondo
una prassi che distingue la marina corsara dalla marina militare ”. Un principe impresario illustre come don Giovanni dei Medici dirà a questo proposito che «niuna cosa fatta per forza ha mai il fine che si presuppone»”; un attore esperto come Pier Maria Cecchini, in un contesto che impareremo a conoscere più avanti, consigliava il suo signore e padrone di far sapere ai comici « che non intende di violentar niuno, ma di lasciar nel suo arbitrio ciaschuno e pigliar quelli soli che spontaneamente vogliono servire» *. Il riapparire della metafora marinaresca sulla bocca di un altro attore non può quindi essere considerato un generico artificio letterario quanto il preciso riferimento a un dato organizzativo mutuato dalla vita di « corsa»: «io ho adunato la compagnia, et ho fatto ogni sforzo di prendere il parere di tutti, si per la mia insufficienza come per navigar sicuro»”. Vedremo oltre, nel capitolo dedicato a Don Giovanni impresario, l'eccezionale importanza che in quel caso venne ad assumere il « consiglio» di compagnia.
L’economia marinara e di viaggio impone di avere bagagli ridotti e un personale eclettico, capace di prestazioni multiple. Un po’ come l'arredamento delle navi doveva servire a più fini e occupare poco spazio vitale. Per questo la presenza di tre zanni invece di due, di troppi innamorati o capitani, è giudicata spesso incongrua e si prefe-
riscono gli attori « che sano e possono fare parti doppie » *. La bravura di un capocomico consiste nella capacità di regolare gli arruolamenti degli attori (i « personaggi») a seconda delle possibilità di guadagno della compagnia, anche resistendo alle pressanti richieste dei committenti illustri o declinando l’offerta di nuovi comici da parte di protettori zelanti: «Circa il mandar personaggi tutta la compagnia le ne rende grazie, poiché sta tanto bene che si contenta ella stessa e l’auditorio»”. Gran parte dei dissensi interni erano dovuti al conflitto d’interessi che si generava, in compagnie troppo numerose, tra chi voleva ridurre l'organico (il capo della compagnia) e chi temeva di essere lasciato per strada”. Ma i dissensi non erano tollerabili a lungo in compagini che avevano nel viaggio, sempre rischioso e costoso, la lo-
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ro ragione di vita. Quanto pit gravi erano le difficoltà del percorso, tanto maggiori dovevano essere l'armonia e l’efficienza dei viaggiatori”. Nona caso il crimine di lesa disciplina viene bollato come ammutinamento dal capocomico-capitano che trasmette il giornale di bordo all’‘armatore’: «fanno un misto scelleratissimo, e quel che importa, non àn timore di nulla e cercano sempre di abbotinare [ammutinare] la compagnia. Per tanto, eccellentissimo signore, la lasci andar la barca dove la vole». Analogie si possono stabilire anche tra i sistemi di reclutamento. La ricerca del personale di bordo avveniva in genere durante la sospensione dell’attività vera e propria, nel porto di riposo, cosî come quella tra i comici si svolgeva quasi esclusivamente in periodo di quaresima, durante la sospensione dei viaggi. Analogie esistevano ancora nella ripartizione dei guadagni che doveva comunque obbedire a criteri rigorosamente stabiliti 4 priori con equità. Consueta, come in tutte le attività legate al viaggio, la pratica di anticipare denari ai membri dell'equipaggio fin dalla fase antecedente la partenza. Spesso l’anticipo serviva a liberare qualche futuro membro della troupe dai debiti contratti in lunghi soggiorni forzosi e inattivi nelle locande delle città di mare e di transito. Di conseguenza la spartizione del bottino a consuntivo era nulla, e si ricominciava con i debiti. Tra i corsari l’erogazione degli anticipi, insieme alle spese per la ricognizione e il reclutamento dei marinai, e a tutti gli altri investimenti, spettava al capitano, agente per conto dell'armatore che poteva essere lo stesso sovrano; tra gli attori, ‘armatori’ della spedizione (impresari) potevano essere, come vedremo meglio in seguito, il duca di Mantova, il granduca di Toscana, il re di Francia: costoro rilasciavano le lettere patenti al capo della compagnia (capocomico) e anticipavano le somme necessarie all’avviamento dell'impresa comica. In qualche caso erano gli attori capocomici (questo poteva capitare anche ai grandi corsari come Sir Francis Drake) a investire denari a proprio rischio e pericolo. 4. Il viaggio si apriva al movimento e alla libertà, ma anche al buio dell’ignoto. Era il padre della paura. Sulla strada si poteva morire, cadere ammalati, essere rapinati dai briganti. Eventi imprevedibili e fatali a cui poco era dato di opporre. I comici però cercavano di fare il possibile e due cose chiedevano ai loro protettori prima di cominciare un viaggio: le lettere patenti che dovevano autorizzare la loro «corsa» in terra straniera, e il denaro con cui pagare le locande, i vetturini e le barche per il trasporto delle persone e delle «robbe».
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Operazioni necessarie e diventate consuete all’inizio del Seicento per i lunghi viaggi, come faceva notare un comico napoletano abituato a correre in su e giù da Napoli a Mantova: potrà Vostra Signoria Ilustrissima per mezo di questi ebrei di casa di Vito di Ferrara farmi qui capitar sicure le lettere et il ricapito, si pure ci sarrà, et non esendoci non occorre altro, perché in modo alcuno no potrò venire, racordando a Vostra Signoria che ilviaggio è lungo et è di molta spesa, et quando che le conpagnie fora di Quatragesima et prencipio di Pasqua sogliono chiamare personaggi, che gli pagano il viaggio, et detti ebrei me hanno sempre fatto pagare i danari qui in Napoli a casa mia!
Passando dalle trattative singole ai più complessi negoziati che interessavano intere compagnie, l’anticipazione delle spese di viaggio diventava ancor più determinante per le sorti della spedizione. I costi erano maggiori e la loro copertura si rifletteva, nel bene e nel male, sulla disciplina e sull’ordine dell’equipaggio comico. L'‘armatore’ era chiamato ad anticipare il denaro necessario ai viaggi di andata e di ritorno, mediante ufficiali pagatori, anche in più rate. Dai documenti in nostro possesso risulta che tali investimenti furono una prerogativa esclusiva dei grandi e piccoli sovrani. Cosî un attore come il già citato Martinelli venne più volte incaricato dal suo diretto superiore, il duca di Mantova, e dal re di Francia di ‘armare’ una spedizione per andare oltralpe. Vedremo oltre come la funzione di arruolatore e capo della compagnia fosse occasione di aspri scontri tra gli attori più forti; subito dopo la vertenza si spostava tra il capocomico e il committente, e ogni volta, anche a distanza di anni, riflettendo le medesime esigenze di sicurezza degli attori. Questi chiedevano lettere patenti e denari: aciò che Vostra Signoria illustrissima sapia come bisogna fare per avere detta compagnia, io ce lo dico anco a lei. Bisogna che subitto Sua Maestà scrivi due letere, una a Sua Altezza serenissima, che deba metere insieme una buona compagnia per questa Pasqua et fare che io l’abia da condure a Parigi, et che Sua Altezza me lo comanda lui, et poi scrivermene un’altra a me, che dica che li comici che verano in Francia a servire Sua Maestà sarano ben tratatti et ben visti da Sua Maestà,
et che in particulare gli sarà pagato il viaggio dil venire a Parigi et per tornare in Itallia, corze fece anco Sua Maestà bona memoria”.
Come si vede, gli attori stavano trasformando (siamo nel 1611) in legge una pratica antica che, nel caso specifico, risale all’epoca di Vincenzo I Gonzaga, probabilmente l’inventore e instauratore di molte consuetudini comiche destinate a rimanere vive in tutta Italia. Queste
però potevano essere messe in discussione da un successore poco at-
tento, a cui gli attori dovevano ricordare le regole consolidate:
(...) che la si aricorda quando viveva la felice memoria dil serenissimo suo padre, che sempre el mandava uno a Fiorenza con denari da condure la compagnia a
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Mantova, et così pregano Vostra Altezza mandare almeno i dinari da pagare le * 103 spese di viagi!”.
Gli attori erano però decisi, prima di intraprendere i difficili viaggi, a far rispettare le leggi non scritte: (...) scriverò in Francia che diano l'ordine solitto a Lione come mi prometano nelle sue lettere, chi è di farne dare mile et duicento scudi per il viagio, così zi dro sempre datto, et altri tanti a tornare in Italia: questi ne Îli dano per obligo*.
La buona volontà dell’‘armatore’ poteva essere disturbata anche dai funzionari, o banchieri, incaricati, ad esempio, del pagamento.
L’insicurezza era dunque permanente. Il Martinelli, evidentemente scottato da precedenti inadempienze, chiedeva al suo duca di fare le dovute «raccomandacioni al molto illustre brutto can beco cornuto di quel tesoriero da Lione dalla meza collana gottoso »; qualche anno dopo (1614) gli ufficiali pagatori lo faranno ancora disperare visto che, sebbene il re avesse ordinato «1200 ducati per il viagio, i quali si avevano da ricevere a Lione (...) itesorieri non li volsero dare » e la compagnia si vedrà costretta «a mandare a Parigi un messo per avere quei
denari». Senza contare che poteva benissimo succedere che le lettere di cambio, una volta spedite da Parigi, se non si servivano del corriere diplomatico, venissero rubate mettendo nei guai l’intera missione”. In realtà la condizione « corsara », che consentiva di inalberare lettere patenti o di godere di un investimento principesco, era piuttosto l'eccezione che non la norma. E le incertezze del caso erano comunque preferibili a una quotidianità più aspra e avventurosa, in balia di contrattazioni minute con committenti improvvisati o con proprieta-
ri di teatri che mettevano i comici gli uni contro gli altri. Quando si trovavano improvvisamente abbandonati dai denari reali e ducali, gli attori più intraprendenti erano costretti, come succedeva ai migliori corsari, a farsi armatori di se stessi: diventavano cioè impresari. Lo stato affidava loro una ragione sociale che essi dovevano sostenere con il lavoro. Per quanto autorizzati a sfoggiare la bandiera dei Gonzaga o di altre case regnanti, dovevano essere autonomi sul piano finanziario. Erano costosi i trasporti, le locande, letaverne, ma anche la
spedizione delle «robbe», l'acquisto del legname per l’allestimento dei palchi nelle città che ne erano sprovviste '*, ed anche la paga («il cottidiano tributo»)! da distribuire agli attori e ai servitori della
compagnia: questa doveva correre, per contratto, anche quando non si recitava (se la sospensione delle recite non dipendeva dagli attori), ed era dovuta anche alle attrici in stato di gravidanza ‘". Ancora più
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costosi erano gli esborsi che dovevano essere fatti per reclutare, in casi d'emergenza, attori che si trovavano lontani, obbligati da anticipi versati in contratti precedenti, e che dovevano quindi essere ‘svincolati’ dal debito con un nuovo anticipo che assumeva cost i caratteri di
una vera e propria penale. Altrettanto onerosi erano iviaggi con cui si
faceva la ricognizione dei luoghi teatrali o si intavolavano trattative
per future tournées'”. Per tutto questo occorrevano somme non pic-
cole, che il capocomico doveva avere o doveva farsi prestare. Gli anticipi (0 i «debiti», a seconda del punto di vista) erano dunque la regola fissa del sistema economico in cui vivevano le compagnie, esattamente come nel caso dei trade and war ships corsari. Gli attori stavano generalmente dalla parte dei debiti. Solo alcuni riuscirono a fatica a innalzarsi alla condizione di finanziatori, guadagnandosi il diritto, almeno ai nostri occhi, di essere chiamati capocomici. ‘Armatori’ che spendono il proprio denaro e quindi avanzano diritti di comando e di strategia, come Giovan Battista Andreini, Pier Maria Cecchini, Tristano Martinelli e soprattutto Flaminio Scala, i protagonisti di questo libro. Essi dispongono, se non sempre, spesso, di notevoli somme di denaro, arrivando a fare anticipi, non solo ad altri comici", ma anche al loro signore e padrone, a pagare il cavallo a messaggeri del duca ’”, a investire comunque cifre rilevanti per la programmazione e promozione della compagnia”. La disponibilità di abbondanti scorte di denaro fu per alcuni attori una necessità imprenditoriale che li fece avvicinare, più per bisogni letterali che per ambizioni metaforiche e ideologiche, ai mercanti di cui avevano parlato Trappola e il Capitan Spavento. Mercanti in senso lato, in quanto operatori finanziari di piccolo calibro, viaggiatori di commercio, ebrei impegnati nella gestione del monte di pietà, usurai". Di costoro si servirono continuamente, oltre che per soprav-
vivere durante la sospensione dell’anno comico, anche per spedire pagamenti a distanza, per riceverne, per salvare i propri guadagni dai facili furti a cui li esponeva la vita nomade ’. Riabilitati ormai da tempo, ma non in via definitiva, dall’ideologia cattolica corrente (si ricordino le distinzioni sulla mercatura ebraica e quella cristiana avanzate dal servo Trappola) costoro furono in alcuni casi gli alleati naturali e necessari dei comici. Altre volte divennero iloro peggiori rivali. Pirati contro corsari’. Frequente è il grido di disperazione di attori che hanno da «pagar capitali, livelli et usure» ! e che sono costretti a impegnare preziosi e anche vestiti per potersi allontanare dalle città e dalla «camera locante» in cui si sono indebitati'*. «Ingordissimi mercanti» li chiama Tristano Martinelli. E Giovan Battista Andreini,
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REC
comico letterato, conta su di sé le ferite che costoro sono capaci d’infliggere: Son pien di debiti, e vanno a migliaia; il raccolto m'è sequestrato; ho tutto alMonte degli hebrei a 17 per cento; lascio l’oro, acquisto l'argento d’una flotta di capelli bianchi; e quando non potrò più, mi vederò col finir della robba sparir le speranze dalle mani!”.
Il modello che era stato prospettato da Francesco Andreini (la mercatura cristiana contrapposta a quella «vile» degli ebrei, la milizia cristiana e la distinzione dai ciarlatani) si rivelava sempre meno una metafora e una finzione, e sempre pit una dura necessità reale. Stretti tra i silenzi improvvisi di mecenati cortigiani distratti da affari di altra importanza, le esigenze di una corporazione spesso atterrata dai bisogni materiali, le diffidenze di un pubblico poco propenso a riconoscere i loro diritti, gli interessi contrastanti di altri marginali in cerca di sopravvivenza, gli attori (i più avvertiti tra loro) erano costretti a diventare imprenditori inesorabili ed efficienti, acuti nel commercio e nell’uso del denaro, coraggiosi e lungimiranti nella programmazione del loro mestiere. Altrimenti la fuga dall’antica servitù della terra rischiava di riportarli a una nuova schiavitù. Abili inventori di canovacci, dimostrarono un’uguale bravura nell’organizzazione. Un’organizzazione che aveva prima di tutto una funzione cautelativa, conservativa, rispetto ai rischi rappresentati dal viaggio, e che quindi venne a costituirsi, per merito dell’inventiva e della sagacia amministrativa dei comici, come un sistema di protezioni, prevenzioni e nor-
me. Prima di tutto per dare una struttura regolare agli itinerari mediante programmi di spostamenti e di soste predisposti con molti mesi di anticipo. Uno schema di richiesta da avanzare a un nobile amico, fatto quindi in forma scherzosa, poteva essere questo: ci à parsso di scrivervi queste quatro righe, per avisarvi che noi si siamo risolti dignarssi in el pasare di volervi favorire, ciovè alogiare a casa-vostra a Polesen et questo noi lo faciamo per star più a comodo che non farei a l’osteria et con manco spesa asai, et anco per recriare alquanto lo spirto nostro in el vedere et gustare cossì bello et acomodo alogiamento con la sua bonissima canova, ciovè il vino 2,
Pit in generale, se le grandi tournées in terra di Francia vengono precedute da scambi di corrispondenze copiosi, che interessano le cancellerie principesche e durano più anni, ogni spostamento nei luoghi in cui lo spettacolo è pit diffuso comporta una progressiva definizione di consuetudini. Si registra cosî, anno dopo anno, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, un affollarsi di formule come: «è stato sempre il solito», «ricordisi l’anno futuro», «conforme il solito »,
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«il solito delli altri anni», «mi àno sempre dato», «ne Ili dano per obligo», «come anco fece Sua Maestà buona memoria» . Come è stato notato per il grande spettacolo di corte fiorentino, in cui l’inventario paziente delle esperienze accumulate lungo il Cinquecento, insieme all’esigenza economica di ‘riusare’ il già collaudato e all’orgoglio della propria capacità artistico-artigianale, fondano una tradizione, cioè una storia (« Una tradizione diventa tale quando ci si riferisce ad essa»), lo stesso avvenne per la cosiddetta Commedia dell'Arte.
Solo che qui i fondatori del sistema non furono potenti e colti apparatori o illuminati sovrani, ma più modesti istrioni. Furono loro infatti a fissare, in una tradizione orale solo in parte riflessa nei documenti d'archivio, le abitudini, poi le regole, poi i diritti, infine le leggi che rendevano possibile un buon orchestrato anno comico, con i ritmi scanditi a seconda delle costumanze cittadine e regionali, con le pause rese obbligate dalle stagioni e dai tempi di spostamento. Naturalmente, a differenza degli apparatori cortigiani, essi fecero tutto questo ben in sordina, dovendo adeguarsi alle più generali leggi della società, quasi trovando fra le pieghe dei tempi dei negozi maggiori lo spazio per l’instaurazione calendariale nuova del loro ozio professionale. Tutele e sicurezze crescevano insieme ai vincoli che gli attori si imponevano e imponevano ai loro committenti. A primavera e in quare-
sima ci si preoccupava di programmare l’autunno e il carnevale seguenti, badando a precedere nella richiesta delle licenze altre compagnie e badando anche a non replicare in maniera ravvicinata i passaggi nelle stesse città per evitare di annoiare e stancare i pubblici paganti. Ma facendo soprattutto attenzione a distribuire le prenotazioni in modo da disporre di piazze consecutive non lontane fra loro. Cominciò a costituirsi, a partire dalla fine del Cinquecento, un vero e proprio planning che immobilizzava le virtualità del mercato teatrale secondo cadenze e privative fisse: Pedrolino e compagni Comici Uniti (...) desiderano, per esser più vicini e commodi al viaggio, di venir per l’autunno a recitar in Bologna nella stanza solita. Presto prego Vostra Signoria Illustrissima di conceder la licenza a detta compagnia, che possa, in quel tempo recitar sola, che l’ascrivesse a mio singolarissimo favore 123
Firenze, in virti dell’archivio vivente dello spettacolo organizzato e valorizzato dai Medici e dal loro apparato di funzionari, e Mantova, grazie alla precoce regolarizzazione della professione comica voluta in particolare dal duca Vincenzo I, furono i centri fondatori del nuovo diritto dello spettacolo viaggiante. Ed è naturale che anche le altre
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corti, imparentate tra loro e tutte soggette allo schiacciante modello teatrale esibito nello spettacolo ‘alto’ dai Medici, rispettassero il sistema gravitazionale esistente anche nel più modesto campo del teatro d’attori. Del resto era stato questo mercato cortigiano a consentire l’avvio dell'invenzione viaggiante, e ad esso i capocomici prudenti continuarono a guardare come a una garanzia primaria. Fiorente ai
margini dello spettacolo festivo maggiore e ospitato nei palazzi signorili, aveva il vantaggio di essere tutelato dalla cura di funzionari ordinari e di articolarsi in cicli di rappresentazioni anche di lunga durata”. Esso era remunerato con «stipendi» eccezionali ma quasi mai contrattati: oltre ad un «anticipo » destinato all’insieme della compagnia, uno «stipendio» regolare (sempre collettivo) poteva correre per settimane o mesi; ogni attore poi, a seconda del suo valore, stabilito dall’arbitrio del principe, riceveva (talvolta anche di nascosto, per evitare le gelosie dei compagni) donativi personali che potevano essere in denaro o in materie prime (cavalli, vestiti, medaglie, collane) e una «manza» (mancia) finale che poteva essere elargita a discrezione del committente. Pur esposto agli umori variabili della stirpe regnante (a Mantova, al benemerito Vincenzo successe il tiepido Francesco;
a Firenze, la felice fase culminante in Cosimo II si spense con la successiva Reggenza), oltre che agli sbalzi d’umore dei mecenati assoluti, soggetti a inevitabili parzialità nei confronti di un teatro fondato sulle prestazioni individuali, questo mercato costituî tuttavia la colonna portante su cui i capocomici edificarono il loro sistema di previdenze. Era dal consorzio delle corti che essi riuscivano a ottenere le famose lettere patenti che li dichiaravano corsari e mercanti legittimi, di stato. E a quel consorzio cercarono di obbedire, per ottenere itinerari collaudati, calendari sicuri, sovvenzioni straordinarie. In questo modo, il teatro della differenza e della messa a fuoco della diversità, nel momento in cui si affermava come pratica consuetudinaria, collaudata, si autodistruggeva. Lo spettacolo dell'Arte, nato come contrasto e conflitto tra i repertori rituali dei recitanti e i repertori rituali degli spettatori, diventava la ripetizione di uno scarto collaudato, e per questo sempre pit svincolato dai riferimenti ai riti di partenza: nuovo rito metateatrale di cui diventa sempre più difficile conoscere il fascino d’origine, perché è altrettanto ormai difficile percepirne il valore di scoperta e di invenzione. Le attenzioni dei principi che si occuperanno di teatro professionistico verso la metà del Seicento, non riguarderanno pit il possibile trasalimento che lo spettacolo degli istrioni potrà ingenerare nel pubblico, ma solo la qualità tecnica degli interpreti.
L’invenzione viaggiante
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Intanto un secondo mercato, non meno importante del primo, di più recente costituzione, si era venuto formando, in particolare a Venezia e a Napoli, ma anche in altre città, grazie all’apertura di «stanze» destinate al pubblico pagante. Erano queste le fonti di guadagno che gli attori giudicavano migliori ”, perché godevano, come vedremo meglio nel secondo capitolo, della protezione e del controllo delle autorità, essendo però svincolate dall’obbedienza rigida al calendario fissato dal protocollo principesco e potendo aspirare a un numero teoricamente illimitato di compratori, mentre sappiamo che il pubblico cortigiano era assolutamente selezionato, a numero chiuso. La prudenza delle corti italiane (ma sarà giusto dire europee e cattoliche) volle che quei luoghi fossero situati nel perimetro dell’area controllata dal potere, ma in una zona marginale di esso, in modo che là fosse concesso agli attori quello che non era tollerato nella piena luce della corte. La «stanza» degli istrioni era insomma, in ogni città, il porto franco semiufficiale in cui i corsari potevano esercitare la loro pirateria legalizzata. Questa era la base da cui muovevano per le loro attività di rapina: per andare «alla busca» (l’espressione è di un attore) '* come attori-buffoni presso privati; per spedire, ricevere, comprare e vendere merce di vario genere aggirando i controlli doganali; per trovare sussidi a famigliari disoccupati e in disgrazia ; per raccogliere informazioni riservate che era più facile estorcere nel vivo di un divertimento sensuale e accalorato; per praticare il commercio dell'amore, il consumo dell’erotismo a pagamento o se non altro la sua promozione pubblicitaria”. Pratiche anomale in cui il viaggio, lo scambio, la misurazione della diversità, potevano ancora trovare gli ostacoli apportatori di conflitti, di teatro e di creatività. Pratiche, tuttavia, a loro volta tollerate e in qualche modo protette, in conformità con l'esigenza di tutela che era sentita dai comici itineranti. È in queste «stanze», al loro interno e al loro intorno; sotto la spinta di esigenze contrarie (il desiderio del viaggio e la sua paura; l'attrazione della libertà e la conservazione di sé; il bisogno di protezione e l’indipendenza imprenditoriale) che si genera ed evolve la forma teatrale chiamata Commedia dell'Arte. Le differenze, gli ostacoli, le difficoltà, la frammentazione del tempo e dello spazio nella vita dei comici, insieme alloro continuo superamento, per ragioni di mera sopravvivenza, sono i suoi elementi
genetici. Quando la facilità del viaggio prevarrà sull’ostacolo, la convenzione tra recitanti e pubblico sarà talmente diffusa e consolidata da ridurre il margine di sorpresa e sconcerto nel loro incontro, tanto da consentire di trasformare le «stanze» dei comici in teatri convenzionali, allora la cosiddetta Commedia dell’Arte sarà completamente
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Capitolo primo
esaurita come forma artistica vitale. Le «stanze» di cui ci occuperemo nei prossimi capitoli si trovano ancora nella penombra, nel tempo in cui non è ancora certo che il mestiere del teatro sarà pienamente accolto nella luce un po’ ovvia della città moderna.
! Un primo contributo fondamentale per lo studio dell’organizzazione dei comici è costituito dagli scritti di Anna Maria Evangelista, tutti scaturiti dall’officina di ricerche documentarie promossa da Ludovico Zorzi durante il suo insegnamento di Storia dello Spettacolo all’Università di Firenze: cfr. I/ teatro dei comici dell'Arte a Firenze (ricognizione dello «Stanzone delle Commedie» detto di Baldracca), in «Biblioteca Teatrale», n. 23-24 (1979), pp. 70-86; Il teatro della Commedia dell'Arte a Firenze (1576-1653). Cenni sull’organizzazione e lettere di comici al Granduca, in «Quaderni di Teatro», n. 7 (1980), pp. 169-76; Il teatro della Dogana detto di Baldracca, in Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del Cinquecento. Il potere e lo spazio. La scena del principe, catalogo della mostra, Edizioni Medicee, Firenze 1980, pp. 370374; Le Compagnie dei Comici dell'Arte nel teatrino di Baldracca a Firenze: notizie dagli epistolari (1576-1653), in «Quaderni di Teatro », n. 24 (1984), pp. 50-66. Sulla scia delle indicazioni metodologiche di Zorzi (i cui principali interventi sulla Commedia dell'Arte si trovano adesso raccolti nel volume postumo L'attore, la Commedia, il drammaturgo, Einaudi, Torino
1990) ho guidato le ricerche degli studenti presso la cattedra di Storia dello Spettacolo dell’Università di Firenze: tra le tesi più importanti da me discusse sull’argomento segnalo quella di D. Landolfi, Don Giovanni de’ Medici e la compagnia dei Confidenti, anno accademico 19841985; tra gli approfondimenti successivi alla tesi di laurea mi paiono particolarmente significativi quelli di C. Burattelli: Borghese e gentiluomo. La vita e il mestiere di Pier Maria Cecchini, trai comici detto «Frittellino», in «Il Castello di Elsinore», n. 2 (1988), pp. 33-63; Il calendario e la geografia dei comici dell'Arte, in «Biblioteca Teatrale», nuova serie, n. 24 (1991), pp. 19-40, oltre naturalmente al citato lavoro sulle Corrispondenze. Circa il nomadismo dei comici in altri paesi europei mi sembra di dover segnalare il soloJ.Limon, Gentlemen ofa Company. English Players in Central and Eastern Europe 1590-1660, University Press, Cambridge 1985. Più in generale sulla viabilità e le comunicazioni, in particolare in Italia, tra Cinque e Seicento è utile la consultazione di fonti postali quali: O. Codogno, Nuovo itinerario delle Poste per tutto il mondo [...], Bordoni, Milano 1608 (2° ed. Curti, Venezia 1676); G. Miselli, 1) Burattino Veridico, 0° vero instruzzione generale per chi viaggia con la descrizione dell'Europa
[...], L’Hulliè, Roma 1684. Tra gli studi pit recenti è utile la consultazione dei volumi, curati da D. Sterpos, Comunicazioni stradali attraverso i tempi, Ed. Autostrade, Roma 1961-66, dedicati ai percorsi Bologna-Firenze (1961; in particolare le pp. 95-164), Firenze-Roma (1964; in particolare le pp. 107-200), Rorza-Capua (1966; in particolare le pp. 117-248). Cfr. anche L. Allegra, In viaggio, fra Cinque e Seicento, in Viaggi teatrali dall'Italia a Parigi fra Cinque e Seicento, Atti del convegno internazionale (Torino 6-8 aprile 1987), Costa & Nolan, Genova 1989,
PP. 31-44.
? G.D. Ottonelli, Della christiana moderatione del theatro. Libro quarto detto L’ammonitionia’ recitanti, per avvisare ogni christiano a moderarsi da gli eccessi nel recitare, Bonardi, Firenze 1652, p. 128.
? Notizie sui comici dell’Arte a Napoli e sull’attività dei diversi teatri si trovano in B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, Laterza, Bari 1926’, e in ÙU. Prota-Giurleo, I teatri di Napoli nel 600. La commedia e le maschere, Fiorentino, Napoli 1962. Sulla chiusura della piazza napoletana cfr. anche le osservazioni di C. Burattelli, Borghese e gentiluomo cit., p. 50. 4 Circa le restrizioni degli spettacoli professionistici nella città dei pontefici si veda R. Ciancarelli, Committenza e spettacoli nella Roma sistina: il teatro tra liturgia e società civile, in «Biblioteca Teatrale», nuova serie, n. 7 (1987), pp. 25-37. ? Inunalettera di Antonio De Melo, in arte Capitano Flegetonte, al duca di Mantova, da Vene-
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zia, 5 giugno 1610 (ASMN, Gonzaga, busta 1542, 1 c.n.n.), si ha notizia di una rapina subita dal
comico proveniente da Napoli, con la perdita di tutta la «robba» e di 120 scudi. Un’eco del brigantaggio operante sulle montagne abruzzesi, attraversate da tutti iviaggiatori che volevano evitare le pianure paludose giacenti fra Roma e Napoli, si trova nella «tragicommedia boschereccia» Lelio bandito (Bidelli, Milano 1620) di Giovan Battista Andreini. CN
Y
Cfr. U. Prota-Giurleo, I teatri cit., pp. 40-43 (si cita un contratto del 20 febbraio 1619 in cui gli attori si impegnano a «andare unitamente a rapresentare alla città di Messina comedie et altre opere per li 15 del mese di giugno primo futuro et Ilà stare tre mesi continoi») e p. 201. Ma si veda anche N. Barbieri, La supplica cit., pp. 32-33. Il caso eccezionale di un attore in continuo viaggio tra sud e nord è rappresentato da Silvio Fiorillo. Su di lui cfr. G. Checchi, Silvio Fiorillo in arte Capitan Matamoros, Museo Provinciale Campano, Capua 1986; Id., Debiti e ricchezze di un attore, in «Biblioteca Teatrale», nuova serie, n. 12 (1989), pp. 85-97; tutta la sezione a lui dedicata, a cura di Domenica Landolfi, in Corrispondenze, I. Una spedizione «extra Regnum» fu tentata fra la primavera e l’estate del 1616 dall’impresario Andrea Della Valle e dal comico Aniello Testa «per ritrovare Comici per condurli in Napoli per rappresentare comedie» (per tutta la vicenda, accompagnata da garanzie contrattuali, cfr. U. Prota-Giurleo, I teatri cit., pp. 30-33). Analoga missione fu compiuta in direzione «di Bologna e di Lombardia» da Bartolomeo Zito per conto della compagnia di Ambrogio Buonomo (cfr. i2z4., p. 43). Sempre Prota-Giurleo (i074., p. 201) segnala il caso di Francesco Calcese (Pollicenella Cetrulo) e Ottavio Sacco (Capitan Giangur-
golo): «a differenza dell’analoga coppia [Vincenzo] Calcese-Buonomo, che raramente si mosse da Napoli, questi due recitarono quasi sempre da Roma in su, in compagnie ‘lombarde’ ». (o) Tra le poche notizie che riguardano il passaggio di attori dal nord al sud, c’è quella che parla di una tournée dei Gelosi a Napoli e in Sicilia, avvenuta fra il1593 e il 1594. Cfr. D. Bruni, Fat che comiche, Callemont, Paris 1623, ora edito modernamente in F. Marotti e G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società barocca. La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991, pp. 345-46: «L’anno del Mille Cinquecento Novantaquattro, che fu il quatordicesimo dell’età mia (...) intendendo che mio padre si ritrovava in Firenze, essendo di ritorno di Sicilia e di
Napoli (...) uscii di Bologna il dì 15 di genaio, la sera». Una traccia della tournée siciliana è forse il Prologo in lode di Sicilia che si può leggere in D. Bruni, Prologhi. Parte seconda, in BBM, ms. AG. XIV. 24, ora in F. Marotti e G. Romei, La Commedia dell’Arte e la società ba-
N°)
1°
rocca cit., pp. 407-8. Cfr. anche U. Prota-Giurleo, I teatri cit., pp. 13-25: un attore della compagnia, il padovano Carlo Fredi, si sarebbe poi fermato a Napoli e avrebbe costituito, unendo le forze della sua famiglia d’arte a comici locali, una formazione mista destinata ad avere lunga vita nella storia teatrale della città. Un altro caso di fusione tra comici «lombardi» e «regnicoli», datato 1601, è segnalato ancora #bid., pp. 179-81. Su questo argomento ci soffermeremo particolarmente nel corso del terzo capitolo. È questa la storia del ferrarese Pier Maria Cecchini che tentò per tre volte la strada del successo partenopeo nel 1616, nel 1618 e nel 1632, pentendosi però per gli impegni troppo vincolanti e lunghi che aveva assunto con i rapaci impresari napoletani; la stessa ‘evasione’ fu progettata, sotto la spinta di necessità economiche, da Francesco Antonazzoni (sull'argomento mi
soffermo più attentamente nel corso del settimo capitolo). Non particolarmente felice la fuga al sud tentata da un altro perseguitato dalle compagnie del nord, Giovan Battista Austoni, in arte Battistino, che vi morî cieco e pazzo, mentre la moglie di lui, e sorella dell’Antonazzoni, Salomè (in arte Valeria), riusci davvero a rifarsi una vita, sposando un altro attore del posto, diventando vedova una seconda volta, e finalmente assicurandosi, a quanto pare, un’esistenza decorosa fuori del teatro (cfr. più avanti il capitolo quarto). Sul regime monopolistico del sistema teatrale napoletano si veda in particolare il capitolo secondo. È questa la storia del fiorentino Cinzio, che i comici Confidenti cercheranno di liberare dai debiti che egli aveva contratto con il suo impresario Vincenzo Capece. Cfr. capitolo settimo,
pp. 291-92.
Particolarmente brillante nell'opera di reclutamento al sud fu il già citato Pier Maria Cecchini. Cfr. lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni dei Medici, da Firenze, 5 marzo 1615, in
Capitolo primo
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ASF, Mediceo, £. 5146, cc. 195v-196v: vi si legge che il comico sta «per passarsene a Roma, dove disegna (...) di andare arecitare (...) e di quivi vuol poi passare a Napoli, non tanto per recitare quanto per cercare di tirare nella sua compagnia una parte di un Dottore e di un Coviello che sono là eccellentissimi». Sull’apporto scenico che le parti napoletane dettero allo spettacolo dell'Arte anche al nord, basti ricordare, oltre al celebre personaggio del Capitano Matamoros, interpretato dal grande Silvio Fiorillo, quanto scrive lo stesso P. M. Cecchini, in Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita, Guareschi, Padova 1628, pp. 32 e 34: «In queste nostre parti di Lombardia si sono seminati diversi personaggi alla napolitana, i quali per non essere napolitani sono ignudi di quell’azioni le quali son proprie solo di chi è nato in quel paese; onde con uno espresso assassinio fatto alla lingua, ai modi ed all’ordine del dire, riserbano solo il nome di Coviello, Cola, Pasquariello, od altro, il cui condimento par loro che sia un tal torcimento di vita, nefandità de’ balli, obrobrio de’ gesti, le quali cosa tutte formano un uomo da consegnar alle carceri, le quali per mediocre castigo le servino per stanza perpetua». Gli attori elogiati sono Ambrogio Buonomo e Bartolomeo Zito «i quali a mio gusto ognuno di loro rappresenta il suo personaggio con quel verisimile che forse non ha simile in tutta Italia», e poi l'inventore di Pulcinella, Silvio Fiorillo «uomo in altri comici rispetti di una isquisita bontà, poscia che per far il Capitano Spagnuolo non ha avuto chi lo avanzi, e forse pochi che lo agguaglino». Per i pregiudizi contro i napoletani, anche nello spregiudicato e cosmopolita mondo dei comici, si veda invece l’accenno breve, ma significativo, fatto da
Flaminio Scala per raccomandare un nuovo attore napoletano: «Io glielo raccomando perché è homo (ancorché napolitano) che merita» (lettera di Flaminio Scala a don Giovanni,
caBologna, 20 ottobre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 4537, ora in Corrispondenze, I, Scala, ett. 81).
Cfr. la lettera di Pirro Visconte Borromeo a Ferdinando I dei Medici, da Milano, 3 novembre 1590, in ASF, Mediceo, £. 812, c. 4977, edita in A. M. Evangelista, I/ teatro dei comici dell’Arte cit., p. 77: i comici Gelosi avvertivano che non sarebbero potuti arrivare a Firenze, partendo appunto da Milano, dove risiedevano momentaneamente, perché «astretti per la presente carestia a fugire la spesa di così longo viaggio»; cfr. anche la lettera in cui, più di venti anni
dopo, Virginia e Giovan Battista Andreini si lamentano per «la molta spesa fatta per venire a cammino diritto da Milano a Fiorenza, senza riposare in luogo alcuno » (lettera a Ferdinando Gonzaga, da Firenze, 20 ottobre 1612, in ASMN, Gonzaga, busta 1128, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett, 21). 4
Da una lettera di Francesco Capponi a Cosimo I del 28 luglio 1576 (ASF, Mediceo, f. 687, c. 1357) si apprende la compagnia di Pedrolino «esser stata gran parte della invernata in Firenze e di poi in Pisa e doppo certe settimane essersene andata a Lucca»; da una supplica dei comici Uniti del 26 marzo 1594 (ivi, Dogana di Firenze, £. 223, supplica n. 318a) risulta certo che il soggiorno della compagnia è tale « da cominciare il pagamento il primo di Novembre, o prima se prima si troveranno a Fiorenza, e da fornire il primo giorno di Quaresima». Cfr. anche, per il pendolarismo Firenze-Lucca, le lettere di Flaminio Scala a don Giovanni, da Firenze, del periodo compreso fra il 1° settembre e il 13 ottobre 1618 (ivi, Mediceo, f. 5150, cc. 4851-v, 5107, 511r-v, 516r-v, 5191-5200, 6217), in Corrispondenze, I,Scala, lett. 34-39; ma cfr. pure la lettera di Domenico Bruni a don Giovanni, da Lucca, 3 ottobre 1618, in ASF, Mediceo, f.
5143, C. 3757.
Si veda il circuito percorso da Pier Maria Cecchini nell’estate del 1613, in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 58-61. Analogo l’itinerario intrapreso tra la primavera e l’autunno del 1620 dai Confidenti: cfr. il ricco carteggio indirizzato a don Giovanni da Verona per mano di Giulio Giustiniani (18 marzo), di Giovan Tommaso Canossa (18 marzo, 13 settembre, 25 ottobre) e
di Giovan Battista Giusti (18 marzo e 13 maggio), da Padova per mano di Antonio Bragadin
(27 marzo e 8 luglio) e da Venezia ad opera di Vincenzo Grimani (21 marzo) (cfr. ASF, Mediceo, f. 5136, cc. 5857, 586r, 6617, 7021, 587r-0, 5951, 5911, 6317, 5881). Si possono aggiungere a queste città gravitanti nell’area padana Cremona, Brescia, Parma e Piacenza, spesso inserite
negli itinerari dai comici provenienti da Milano e diretti a Bologna o a Verona. Sul ruolo di Parma informazioni istruttive si trovano in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 4, ma anche nella lettera di Giovanni Rivani al duca di Mantova, da Parma, 1° giugno 1618, in ASMN, Gonzaga, busta 1383, 1 c.n.n. Sulla posizione di Piacenza, intermedia tra Bologna e Milano, cfr. la
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lettera di Scala a don Giovanni, da Milano, 7 agosto 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, cc.
5741-5757, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 77, ma anche quella di Domenico Bruni a don
Giovanni, da Piacenza, 6 settembre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 6127, e quella di Nicolò
17
Barbieri a don Giovanni, da Bologna, 8 ottobre 1619, ivi, c. 6327: le tre lettere sono distribuite sull’itinerario sopra menzionato. Cenni su Brescia e Cremona sono invece in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 1 e Andreini, lett. 36 e 50. Sull’area ferrarese cfr. i carteggi pubblicati da A. Solerti e D. Lanza, I/ teatro ferrarese nella seconda metà del secolo xvI, in GSLI, vol. XVIII (1891), pp. 148-85; per il ruolo della città agli inizi del secolo xvII si vedano i carteggi di Pier Maria Cecchini e Flaminio Scala (con le relative note) in Corrispondenze, I. Sulla continuità, nelle tournées, del circuito di Ferrara, Bologna e Modena, si veda quanto scrive Domenico Bruni in una lettera a Enzo Bentivoglio, da Bologna, in ASFE, Bentivoglio, Lettere sciolte, mazzo 100, c. 597. Sull’area emiliana in generale cfr. Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 62-68 e 82. Un accenno a Guastalla si trova nella lettera di G. B. Andreini a un segretario mantovano, da Bologna, [dopo il 4 ottobre] 1607, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 157, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 3. Sulla Commedia dell'Arte a Milano si vedano: G. Pagani, Teatro 4 Milano, Sonzogno, Milano 1884; A. Paglicci Brozzi, I/ teatro a Milano nel secolo xv. Studi e ricerche negli Archivi di Stato Lombardi, Ricordi, Milano 1891. Segnalo inoltre la tesi di laurea della dott.ssa Roberta Giovanna Arcaini, discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica di Milano (relatrice Anna Maria Cascetta), per la quale si veda R. G. Arcaini, La commedia dell’arte, in La scena della gloria. Studi sullo spettacolo a Milano sotto la dominazione spagnola, a cura di A. M. Cascetta e R. Carpani, in corso di stampa presso la casa editrice Vita e Pensiero di Milano (collana «Lo spettacolo e la città»). Manca uno studio scientifico e specialistico sullo spettacolo a Torino tra Cinque e Seicento. Recente contributo storico alla conoscenza della politica sabauda, anche in tema di spettacoli, è quello di P. Merlin, Tra guerre e tornei. La corte sabauda nell'età di Carlo Emanuele I Sei, Torino 1991. Utile strumento di consultazione è il Repertorio delle feste alla corte di Savoia (1346-1669), raccolto dai trattati di C. F. Menestrier, a cura di G. Rizzi, Centro Studi Piemontesi, Torino 1973. Un importante ciclo festivo, che coinvolse anche comici dell'Arte, è quello del 1608, studiato da M. Giovannetti, I/ ciclo festivo per le nozze di Margherita di Savoia con Francesco IV Gonzaga, e diIsabella di Savoia con Alfonso III d'Este (1608), tesi di laurea da me
discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze (anno accademico 1983-84). Sulla presenza dei comici professionisti a Genova è utile la consultazione di A. F. Ivaldi, Gli Adorno e l’Hostaria-Teatro del Falcone a Genova (1600-1680), in «Rivista Italiana di Musicologia», xv (1980), nn. 1-2, pp. 87-152. Tra gli studi più antichi, degni di menzione quelli di G. Scriba [pseudonimo di L. T. Belgrano]: Delle feste e dei giochi dei genovesi, in « Archivio Storico Italiano», serie III, tomo XV (1872); La commedia nel Cinquecento, in «Il Caffaro», 27, 28, 29, 30 dicembre 1882 e 3, 4, 5 gennaio 1883; Comzici del secolo xv: Accesi e Fedeli, in «Domenica Letteraria», Iv (1885), n.1; I Confidenti sulla fine del secolo xvi, in «Il Caffaro», 6 giugno 1886. Notizie frammentarie sui soggiorni genovesi dei comici si trovano anche nei seguenti scritti di A. Neri: La Lavinia dei Confidenti, in « Gazzetta Letteraria», n. 20 (18 maggio 1889), p. 155; Fra i comzici dell’arte, in «Rivista Teatrale Italiana», vi (1906), vol. XI, p. 106. Oltre ai citati lavori dell’Evangelista, è d’obbligo il rinvio a L. Zorzi, I/ teatro e la città cit., pp. 124-25 e note relative. 2 ad Sul ruolo e sugli eventi spettacolari di Mantova fra Cinque e Seicento, si vedano: A. D’Ancona, Origini del teatro italiano, Loescher, Torino 1891° (ristampa anastatica La Bottega di Erasmo, Torino 1971); E. Faccioli, Mantova. Le Lettere, Istituto Carlo d’Arco per la Storia di Mantova, Mantova 1962, vol. II, pp. 553-612; P. Fabbri, Gusto scenico a Mantova nel tardo Rinascimento, Liviana, Padova 1974; P. Carpeggiani, Teatri e apparati scenici alla corte dei Gonzaga tra Cinque e Seicento, in «Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura ‘Andrea Palladio», xvII (1975), pp. 101-18; I. Fenlon, Music and Patronage in SixteenthCentury Mantua, Cambridge University Press, Cambridge 1980-82, 2 voll. (trad. it. Musicisti e mecenati a Mantova nel ‘500, Il Mulino, Bologna 1992); M. Giovannetti, Il ciclo festivo cit.
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Capitolo primo La stagione del carnevale cominciava praticamente il giorno di San Martino (x novembre) e si concludeva il martedî grasso. Ma a Venezia c’era un’altra stagione teatrale compresa tra la Pasqua e la festa della Sensa (dell’Ascensione). Piti particolari riflessioni sulla ‘piazza’vene-
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ziana si possono leggere più avanti, ai capitoli secondo e terzo. Scrivendo a don Giovanni, Flaminio Scala, il 18 novembre 1619, riconosceva senza esitazioni quel primato ormai consolidato: «la compagnia non farà in città nisuna quello farà in Venezia» (ASF, Mediceo, £. 5150, c. 588r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 87). Per Bologna cfr. quanto scrive P. M. Cecchini, Frutti delle moderne comedie et avisia chi le recita cit., p. 9: «In Bologna (...) si suole per lo pit recitar l’Autunno e parte del Verno ». Per altre notizie sull'argomento cfr.: una lettera di Alessandro Senesi indirizzata forse a un segretario del duca di Mantova, da Bologna, 5 ottobre 1614, in ASF, Mediceo, £. 4044, 1 c.n.n.; una lettera del cardinale Luigi Capponi al duca di Mantova, da Bologna, 2 aprile 1616, in ASMN, Gonzaga, busta 171, c. 4301; una minuta di cancelleria del duca di Mantova al cardinale Capponi, da Mantova, senza data, ivi, busta 2367, c. 328r. Per l'opinione diffusa presso i comici sull’inizio della stagione fiorentina si veda quanto riferisce Virginia Andreini (lettera a Ferdinando Gonzaga, da Firenze, 20 ottobre 1612, ivi, busta 1128, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 21) circa un ottobre che «non era la stagione di Fiorenza». Cfr. la lettera di Francesco Antonazzoni (forse ad Atanasio Ridolfi?), da Verona, 29 agosto 1620, in ASF, Mediceo, f. 5136, c. 658r: «Resta solo che ci conceda quella [Ferrara] per il Signor cardinale Serra, essendo neccessaria una città fra Verona e Venezia, dove, se andiamo a
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novembre, faremo male il carnevale, essendo vecchi e non havendo tanta robba che possa suplire per sì lungo tempo». Dello stesso si veda la lettera a don Giovanni dei Medici, da Bologna, 10 dicembre 1619, ivi, c. 5497: «Luni adunque c’incamineremo per Ferrara e la seconda o terza festa di Pasqua ci partiremo di Ferrara per Venetia». Cfr. anche la lettera di P.M. Cecchini forse a Enzo Bentivoglio, da Bologna, n dicembre 1616, in ASFE, Bentivoglio, Lettere sciolte, mazzo 88**, 1 c.n.n.: «qui tra noi sono comparse lettere d’amici di Ferrara che avisano che la stanza non è all'ordine, anzi che non faremo nulla, onde la compagnia si è tutta confusa, però si è determinato così: di partir mercori prossimo (se l’illustrissimo cardinale lo permette), et se la stanza serà pronta incominciar giobedì 15 del corrente et far comedie per tutto il dì 22, et poi partire non putendo rimanere, et caso che vi sia impedimento a dar principio passar di longo a Venecia»: cfr. Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 67. Anche Mirandola e il suo duca godevano del privilegio di essere una fortunata tappa intermedia fra Bologna e Venezia, come si può rilevare dalle considerazioni di Marc’ Antonio Romagnesi in una lettera a don Giovanni, da Bologna, 14 novembre 1620, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 898r. I documenti circa l’attività teatrale milanese sono abbastanza concordi nell’indicare una stagione teatrale che va da Pasqua alla fine di settembre. A titolo esemplificativo possono essere citate le seguenti carte: lettera di Alessandro Beccaria a don Giovanni dei Medici, da Milano, 5 marzo 1614, ivi, c. 217-v; supplica di Pier Maria Cecchini al governatore di Milano, registrata il 2 dicembre 1616, in ASM, Cancelleria, Carteggio Generale, busta 408, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 66; lettere di Flaminio Scala a don Giovanni, da Milano, dal 24 aprile al 7 agosto 1679, ibid., Scala, lett. 64-77. Per la stagione genovese, in genere fiorente fra aprile e luglio, si vedano i documenti editi da L. T. Belgrano, La commedia nel Cinquecento, parte quinta, in «Il Caffaro», 30 dicembre 1882; I Corzici Uniti, ivi, 20 giugno 1886; Corzici del secolo xvI: Accesi e Fedeli cit. Analoghe indicazioni fornisce il carteggio di Flaminio Scala e di altri attori della compagnia dei Confidenti, cosî come è stato ricostruito dal lavoro di tesi di Domenica Landolfi. A questo proposito cfr. le lettere di Pantaleo Balbi a don Giovanni dei Medici del 6 e nr giugno, e del 30 luglio 1616 (ASF, Mediceo, f. 5143, cc. 1757, 1777, 198r-v); quella di Flaminio Scala, sempre a don Giovanni, da Mantova, 23 maggio 1618 (ivi, f. 5150, c. 4741), in Corrispondenze, I, Scala, lett. 27; quella di Francesco Antonazzoni, allo stesso, da Genova, 27 luglio 1618 (ASF, Mediceo, f. 5141, c. 847). Sul tema dei calendari e degli itinerari cfr. anche C. Burattelli, I/ calendario e la geografia cit. Osservazioni a questo riguardo si trovano in D. Landolfi, Don Giovanni [...] e la compagnia cit., pp. 368-79.
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La citazione è tratta da una lettera di Nicolò Barbieri forse a Enzo Bentivoglio, da Lucca, 26 novembre 1625, in BEMO, Autografoteca Campori, Barbieri, Nicolò, 1 c.n.n., ora in Corr:
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spondenze, I, Barbieri, lett. 5. Cfr. anche ibid., Cecchini, lett. 10: «volendo l’Altezza Sua che si
troviamo in Mantova per Natale bisogna che il messo si trovi da noi prima delli 9 di dicembre, perché lo imbarazzo è tanto grande, ei tempi serano così cattivi, che non vego che si possi spender in camino meno di dodeci giorni, e forsi più secondo l’occasione del’acqua in Bologna» (la lettera è scritta ad Annibale Chieppio, da Firenze, il 26 novembre 1602, e si trova in ASMN, Autografi, busta 10, C. 747). Sempre nelle Corrispondenze, I, Scala, lett. 90, si trovano altre notazioni sul rigore del clima nella regione di Bologna. Sulla linea fluviale Ferrara-Mantova cfr. sbid., Cecchini, lett. 54, 73, 83; per i collegamenti d’acqua fra Venezia e Mantova cfr. ibid., Scala, lett. 103, 105 e 106. 30
Le citazioni sono tratte rispettivamente dalla lettera di Alessandro da Rho a Vincenzo Gon-
zaga, da Torino, 25 dicembre 1605, in ASMN, Gonzaga, busta 734, 1 c.n.n., e da Corrispondenze, I, Scala, lett. 79; Cecchini, lett. 34 e 46. Cfr. quanto affermano i Confidenti in una lettera a don Lorenzo dei Medici, da Genova, del I7luglio 1627, in ASF, Mediceo, £. 5176, c. 4641-v, a proposito del fatto che essi si erano « ridotti a Genova per esser vicini a Firenze». 32 Le citazioni sono ricavate da Corrispondenze, I, Martinelli, rispettivamente lett. 24 e 11. 33 D. Bruni, Fatiche comiche cit., p. 346. 3à Lettera di Tristano Martinelli a un segretario ducale, da Mantova, 19 novembre 1609, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 1557. Cfr. anche il poscritto di Martinelli nella lettera di P. M. Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Mantova, 21 novembre 1609, ivi, c. 106r-v: «al venire dai Castelli a Mantova mi son quasi anegatto con la cavalla, che ne farà fede a Vostra Altezza che l’è quasi morta». Per entrambi i testi cfr. ora Corrispondenze, I, rispettivamente Martinelli, lett. 12 e Cecchini, lett. 34. 3:iv Un episodio del genere è esibito e ingigantito ibid., Andreini, lett. 7. 3 (N I due sfoghi, anche questi teatrali, sono allestiti rispettivamente da Tristano Martinelli e Flaminio Scala: cfr. lettera del primo a Ferdinando II dei Medici, da Mantova, 22 agosto 1627, in ASF, Mediceo, £. 1403, cc. 180r-v e 182r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 58; lettera del secondo a don Giovanni dei Medici, da Firenze, 2 dicembre 1616, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 618r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 7. Qualche anno dopo il sessantaseienne Scala si dichiara «indisposto per la stanchezza del viaggio, quale ho fatto in un giorno da Lucca a Firenze, non pensando d’aver aquistato il nome de sesantasei nemici dalli 27 di settembre in qua» (0:4., lett. 38); sessantasettenne, si sarebbe ancora rimesso in movimento per andare da Mantova a Casale: «e prego Dio che io mi ci conduca a salvamento, perché sì per la mia età, sì per la staggione et lungo viaggio, ne ho grandissimo dubbio» (:b:4., lett. 92). 3 N Lettera di Annibale Chieppio a Vincenzo Gonzaga, da Mantova, 21 ottobre 1606, in ASMN, Gonzaga, busta 2704, fasc. 1, lett. 64. 3 (3 Cfr. Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 23 e 24; Andreini, lett. 3. 3v
Lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Mantova, 9 settembre 1614, in ASMN, Gonzaga, busta 2731, fasc. 10, lett. 158, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 36. Cosî le chiama, dando il titolo a un paragrafo del libro, Pier Maria Cecchini, in Frutti delle
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moderne comedie et avisi a chi le recita cit., p. 32. Sulla radice mantovana di Arlecchino, contrapposta alla filiazione bergamasca assegnata alla maschera dalle tradizioni letteraria e folklorica (in questo caso inutili alla comprensione della realtà storica dell’attore), si veda il successivo capitolo quinto. Dovendosi recare in Francia attraverso il Piemonte e durante un conflitto militare tra i due stati limitrofi, nel 1600, Pier Maria Cecchini utilizzò come passaporto un’opera quasi teologica desunta dagli scritti di san Tommaso e dei suoi chiosatori donandola sfrontatamente a illustri esponenti di entrambi i campi nemici: tanto al principe Amedeo di Savoia (presso il quale l’attore si trattenne a lungo con la sua compagnia) quanto al potente cortigiano francese Roger de Bellegarde in Lione (dove gli attori erano diretti). La prima copia era manoscritta, la seconda a stampa, e difficilmente la doppiezza avrebbe potuto essere rivelata. Intanto serviva per la libera circolazione di qua e di là delle Alpi. Analogo espediente usava Giovan Battista Andreini quando nel 1613 adoperava come salvacondotto in territorio francese un suo libric-
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cino già stampato nel 1611 (La turca), al quale aggiungeva un inedito frontespizio dedicato al duca di Nevers, in sostituzione di un precedente rivolto a ringraziare un tipografo di Casale Monferrato. Sulla vicenda del Cecchini cfr. anche S. Mamone, Firenze e Parigi due capitali dello spettacolo per una regina, Maria de’ Medici, Silvana, Milano 1988?, pp. 135-44. Sulla vicenda editoriale de La turca cfr. A. Zazo, «La Turca» di Giovan Battista Andreini. Un caso di editoria teatrale nel Seicento, in «Quaderni di Teatro», n. 32 (1986), pp. 61-72. Su entrambi gli episodi mi soffermo ancora nel capitolo quinto. N. Barbieri, La supplica cit., pp. 55-56. Il decreto, datato 29 aprile 1599, in ASMN, Decreti, vol. 52, cc. 1441-1457 (già riprodotto in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 8, nota 2) può essere letto per intero in Appendice, I. 1. In precedenza la carica era stata occupata da un tal Filippo Angeloni a partire dal 1588 (cfr. A. Bertolotti, Musici alla corte dei Gonzaga in Mantova dal secolo xv al xvi. Notizie e documenti raccolti negli archivi mantovani, Ricordi, Milano 1890, p. 75). Lettera di Tristano Martinelli a Vincenzo Gonzaga, da Verona, 7 agosto 1599 (ASMN, Autografi, busta 10, c. 144r-v), in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 8. Lettera di Bernardo Canigiani al segretario fiorentino Belisario Vinta, da Ferrara, 13 febbraio 1576, in ASF, Mediceo, £. 2895, c. 77; quattro giorni dopo i comici Gelosi furono «richiamati dal Duca a suon di scudi» (ivi, c. 1). Per un altro episodio di «arresto » degli attori da parte di autorità cittadine cfr. ivi, f. 5345, cc. 2077 e 208r-209v: si tratta di due lettere che Giovan Battista e Beatrice Fiorillo scrissero al principe Giovan Carlo de’ Medici, da Bologna, rispettivamente il 4 e il 6 ottobre 1643, per giustificarsi del loro mancato arrivo in Firenze. Cfr. la lettera indirizzata da P. M. Cecchini ad Annibale Chieppio, da Torino, 22 novembre 1607, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 947, con cui l’attore segnala a Mantova l’arresto subito: «ho fatto che il cavaglier Sandri, general delle poste, mostri al serenissimo signor duca e la lettera che va alla reggina, et il passaporto dell’Altezza del signor nostro. Ma non vego che nulla giovi, onde fa di bisogno caldissimo lettere per fare che siamo lasciati partire» (ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 23; ma cfr. anche ibid., lett. 25, 28 e nota 1). Su analoghi episodi riguardanti invece Arlecchino, cfr. ibi4., Martinelli, lett. 10 e 32. Anche il fratello maggiore, Drusiano, fu fatto oggetto delle stesse angherie savoiarde (cfr. lettera di Drusiano Martinelli al duca di Mantova, da Lione, 10 luglio 1600, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 1407). Il cenno è in una lettera di Pier Maria Cecchini a Ercole Marliani, da Piacenza, 5 dicembre 1620, ivi, Gonzaga, busta 1383, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 82: «Fortunio è mantovano, onde in virtù dell’autorità che Sua Altezza tiene sopra di lui, non putrà di meno di non andar con la moglie a Mantova». Supplica dei comici Confidenti, 10 ottobre 1581, in ASF, Dogana di Firenze, f. 219, supplica n. 216; la sottolineatura è nostra. Ma cfr. anche la supplica dei Gelosi dell’8-9 settembre 1578 (ivi, £. 218, supplica n. 147) e quella dei comici Uniti del 31 ottobre 1584 (ivi, f. 220, supplica n. 317). Tracce di problemi con i doganieri si riscontrano anche in una lite che agiterà un’altra formazione dei Confidenti, qualche anno più tardi: cfr. lettera di Pantaleo Balbi a don Giovanni dei Medici, da Genova, n giugno 1616, ivi, Mediceo, f. 5143, c.177r: Sul trasporto di merci fra Mantova e Venezia si soffermerà, allarmato per il ritardo del passaporto richiesto, l’attore e profumiere Flaminio Scala in alcune lettere a Ercole Marliani, da Venezia, del 9 maggio, 28 settembre e 5 ottobre 1624 (ASMN, Gonzaga, busta 1556, rispettivamente alle cc. 2747, 3997, 408r, ora edite in Corrispondenze, I, Scala, lett. 106, 110, 11); ma cfr. pure le due lettere di Alessandro Striggi al duca Ferdinando Gonzaga, da Mantova (il duca era a Firenze), del 28 giugno e 12 luglio 1624, rispettivamente in ASMN, Gonzaga, busta 2766, pezzi 78-79 e 97-98. Oltre ai citati studi del Pagani e del Paglicci Brozzi, cfr. [G. B. Castiglione], Sentimenti di S. Carlo Borromeo intorno agli spettacoli, Lancellotti, Bergamo 1759; F. Taviani e M. Schino, I/ segreto della Commedia dell’Arte, La Casa Usher, Firenze 1982, pp. 379-89. Analoghe preoccupazioni erano vive a Firenze, ancora nel 1615 quando, prima di concedere il permesso di recitare all'attore Pier Maria Cecchini, in arte Frittellino, ci si era premuniti di precisare che «l’Altezza Sua voleva prima sapere i suggetti della sua conpagnia» (lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni dei Medici, da Firenze, 19 marzo 1615 sf [1616], in ASE, Mediceo, £. 5146, Cc. 2091-2107).
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Cfr. lettera cit. di Francesco Capponi a Cosimo I, da Pisa, 28 luglio 1576, ivi, f. 687, c. 1357.
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G. De’ Ricci, Cronaca (1532-1606), a cura di G. Sapori, Ricciardi, Milano-Napoli 1972, pp.
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Si vedano gliincidenti punibili, e quindi possibili («fare fistiate, romori, trarre limoni, aranci, mele, pere, rapi, o qual si voglia altra sorta di simil materie o brutture»), elencati nel bando degli Otto di Guardia e di Balîa del 29 gennaio 1583 (cit. in A. D'Ancona, Origini cit., vol. II, pp. 477-78). Ma cfr. anche le azioni «puttanesche» di Celia Malloni e della madre, che provocano incidenti, con relativa espulsione dei comici da Lucca e liti infinite in Firenze, durante una serie di rappresentazioni dei Confidenti, molto più tardi (ASF, Mediceo, f. 5150, cc.
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5171-V, 5191-5200, 5451-v, 546r-v, 5497, 606r-v, 608r-6097r, 6137-6147, 6167, 6727, ora in Corri-
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spondenze, I, Scala, lett. 39-48, 6177; f. 5147, cc. 2077, 213V-2147, 2151-2177, 2201-V, 2271-V, 2290. Su questi episodi tornerò nel corso del quarto capitolo. La citazione è tratta dal bando del 1583 rammentato più sopra. N. Barbieri, La supplica cit., pp. 32-33. Pit oltre si legge ancora: «Io mi sono trovato molte volte con nostri comici a prender barche per noi a posta, o per la riviera di Genova o di Ligorno o per i fiumi di Lombardia, e trovar religiosi, di que’ tali che non maneggiano danari, che avevano a fare anch'essi lo stesso viaggio e venir con noi in barca, onorandoci della foro compagnia, e, al fine del viaggio, dir maraviglie del nostro procedere, e ringraziar il Cielo di non esser andati co ’l corriere, ove talvolta i passaggieri senza riguardo (per stare allegri) si pigliano campo di trapassar dal passatempo agli osceni racconti ed immodeste favole o canzoni scostumate». Ibid., pp. 126-27. Ibid., p.17. Per una ridiscussione della prima apparizione di Arlecchino sulle scene europee si vedano i due contributi di I. Florescu, Harlequin, nom de comédien, in «Biblioteca Teatrale», nuova serie, n.4 (1986), pp. 21-59; Id., Parigi 1585: la querelle degli acteurs-bouffons, in Viaggi teatrali cit., pp. 109-27.
Questo è, come vedremo meglio nel capitolo quinto, il travestimento che gli fece assumere Giovan Battista Andreini nella commedia Lo schiavetto, Malatesta, Milano 1612, ota in edizione moderna in Commedie dei comici dell'Arte, a cura di L. Falavolti, Utet, Torino 1982, pp. 55-213. 60 Su quest'opera si veda ancora il capitolo quinto. 61 Analogo il caso del dottor Graziano Partesana da Francolino, il cui paese d’origine coincideva non a caso con il traghetto che, già frequentato dai comici di Ruzante, solitamente collegava il territorio ferrarese (patria del dottore) e quello veneziano (luogo prediletto delle sue recite carnevalesche). Cfr. S. Mamone, Firenze e Parigi cit., pp. 135-44. 63 D. Bruni, Prologhi. Parte seconda cit.; p. 388. Id., Fatiche comiche cit., p. 347. Cfr. i quadri delle osterie e locande che vengono forniti in commedie di Giovan Battista Andreini quali Lo schiavetto, Le due comedie in comedia, La sultana. Tanto per rimanere fra i nostri comici. 65 Questa ubicazione liminale del teatro era riconosciuta come indispensabile dagli attori e dalle autorità cittadine. Per i primi si legga il tono conciliante della supplica rivolta al senato milanese da Pier Maria Cecchini: « Gli comici humilissimi suoi servi, conoscendo i discomodi et danni che patiscono nel far comedie fuori di corte, et li scandali che possono succedere, supplicano humilmente Vostri Signori illustrissimi et eccellentissimi a compiacersi di ritornarli al possesso della gratia di essa corte, facendo l’entrata per la porta di dietro, quando però non li fosse in piacere che si facesse per la porta maggiore di essa corte» (supplica registrata il 18 agosto 1610, in ASM, Cancelleria, Carteggio Generale, busta 398, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 42). Per la politica dell’«entrata per la porta di dietro» attuata in città minori si veda quanto dichiara il podestà di Padova, Antonio Bragadin, a proposito della scelta di un luogo per la rappresentazione di commedie: «si ellegerà quello che potrà appor59
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tare minor scandolo » (lettera di Antonio Bragadin a don Giovanni dei Medici, da Padova, 27 marzo 1620, in ASF, Mediceo, £. 5136, c. 5917). Bruni, Prologhi. Parte seconda cit., p. 388. Id., Fatiche comiche cit., p. 347. Oltre che nel citato passo di Bruni, l’espressione ritorna nella lettera di don Giovanni a Erco-
le Marliani, da Venezia, 21 marzo 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1552, 2 cc.n.n («hanno rotte troppe scarpe in quel mestiero»), che si può leggere per intero nell’Appendice, III. 6vd Cfr. Corrispondenze, I, Scala, lett. 49: «La compagnia parte domatina alla volta di Mantova, ma con tanto mio fastidio per la longhezza e varietà del moto perpetuo, ch’io ho auto a inpazzare»; lett. 50: «ier sera dessimo principio alle nostre comedie, et in vero ch'era tempo, per aver fatto vacanza de diciotto giorni per umore del moto perpetuo, quale ne fece lasciar Firenze con disgusto de’ nobili e ingnobbili»; lett. 51: «le cose vanno freddisime, perché il moto perpetuo dà una pochissima sodisfatione». 70 Cfr. R. Tessari, La Commedia dell'Arte nel Seicento. «Industria» e «arte giocosa» della civiltà barocca, Olschki, Firenze 1969, p. 30. 7s Si veda il caso di Tristano Martinelli che continuò fin da vecchio a battere le strade del mondo, nonostante i reiterati proclami di dimissioni dal teatro, nonostante una ricca dotazione di poderi e di beni immobili; oppure il caso di Flaminio Scala che solo da vecchio, una volta timasto senza protezione, decise di abbracciare senza riserve il mestiere di profumiere ducale alla corte di Mantova. Ancora più drastica la difficile ma coerente scelta di Pier Maria Cecchini. Questi temi saranno ripresi, in maniera conclusiva, nel capitolo settimo. 7N La frase appartiene alla lettera di don Giovanni citata più sopra e ora in Appendice, III 73 Sul banditismo sono sempre importanti le indicazioni di ordine generale contenute in F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1976 (1° ed. francese 1949), vol. II, pp. 775-98. Ma si veda quanto scrive soprattutto E. J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell'età moderna, Einaudi, Torino 1971, in particolare alle pp. 24-25. Cfr. anche ilpiù recente Bande armate, banditi, banditismo e repressione di giustizia negli stati di antico regime, a cura di G. Ortalli, Jouvence, Roma 1986. Un sintetico profilo del soldato nel secolo xvir è in G. Parker, I/ soldato, in L’uomo barocco, a cura di R. Villari, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 31-60. Sui mestieri ambulanti in Italia cfr. P. Camporesi, Introduzione a Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino 1973. 7 rs F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo cit., vol. II, p. 793: «I gentiluomini poveri, o rovinati o cadetti di famiglie senza grandi beni di fortuna, formano, molto spesso, i quadri di quella guerra sociale larvata». 75 Cfr. A. de Contreras, Le avventure del Capitano [1582-1633], traduzione di E. De Zuani, Longanesi, Milano 1946. Per la prima edizione del ms. castigliano si guardi la Vida del Capitan Alonso de Contreras, edizione critica e introduzione di M. Serrano y Sanz, in «Boletin de la Real Academia de la Historia», t. 37 (1900), pp. 129-270. 76 La notizia è divulgata dal figlio Giovan Battista in G. B. Andreini, La ferza. Ragionamento secondo contra l'accuse date alla commedia, Callemont, Paris 1625, p. 41. 7i Questo tipo di attori provenivano spesso dal regno di Napoli, come nel caso dello spagnolo Luis de Palomeras, in arte Capitan Brandimarte, che pare fosse stato militare di carriera per ben ventitre anni prima di passare al servizio della compagnia dei Confidenti (cfr. ASF, Mediceo, £. 5143, c. 639r: si tratta della lettera da lui indirizzata, da Bologna, a don Giovanni dei Medici, il 22 ottobre 1619). Notizia analoga è riferita da A. Costantini, La Vie de Scaramouche, Paris 1695 (ma cito dall’edizione italiana, a cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1973, p. 7 a proposito di Scaramuccia il cui padre sarebbe stato prima capitano di ventura e poi ciarlatano. 7 C) Cosile osterie del cielo dei sogni vengono confrontate con le osterie della terra e della biografia comica, come l’osteria della Stellata «che si trova sul Ferrarese»: «Se colà su non si sta meglio di quello che si sta alla Stellata di qua giù, vi si deve star molto male, poiché in questa vi si sta dolorosissimamente con la giunta dell’Hoste armato di buone pistolle, e di buon Pistolese, che dice nella sua lingua: ‘Al ghe vuol cinquanta bolognin per testa, fai conto o nol
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fai?’ » (cito dall'edizione moderna F. Andreini, Le bravure del Capitano Spavento, a cura di
R. Tessari, Giardini, Pisa 1987, Ragionamento XIX, p. 90). Carrozze e postiglioni reali traspaiono al di sotto di mascheramenti astrali: «CAPITANO Corrend’io una notte alla Posta verso gli Antipodi, il mio Postiglione nominato il Sonno, dormendo profondissimamente a cavallo, urtò non volendo nel Monte Atlante, e nel cadere si ruppe il collo, insieme col suo cavallo. ‘TRAPPOLA Questo è il fine della maggior parte de’ Postiglioni e dei Corrieri. cAOnde fui astretto a pigliar la mia valige in groppa, e correr senza guida al mio viagPITANO gio. TRAPPOLA Mala cosa è il correr di notte, e senza guida, a pericolo d’essere svaligiato dagli assassini da strada che per lo più stanno sempre aspettando che passi qualche corriero o qualche mercadante. caPITANO E perch’io non haveva il Postiglione che mi scorgesse il camino, invece di pigliar la strada verso il Polo Antartico, mi posi a correre verso il Settentrione (...). Giunto ch'io fui alla Posta dell'Orsa Maggiore, e conobbi d’haver errato il mio camino, e perché quivi non erano cavalli, mi fu di bisogno correr alla Posta con la Carrozza settentrionale guidata dal carrozziero nominato Artofilace. TRAPPOLA. Usanza nuova di correr alla Posta con le carozze. Ma non me ne meraviglio, perché ancora nell’Ongheria si corre alla Posta con le carozze, tirate da sei, da otto, e da dodici cavalli et in altri Paesi si dice CAPITANO Pervefar il medesimo con le carozze tirate da grandissimi e velocissimi cervi. nuti, che noi fummo al gran Mare Oceano, il carrozziere Artofilace mi disse che la carozza settentrionale non poteva passar più oltre, per ordine di Giunone Padrona della posta
di Settentrione. tri.
caPITANO.
TRAPPOLA
Chiva per viaggio, et a lungo camino, trova dei pazzi incon-
Intesa, ch'io ebbi la nuova, deliberai di passar più oltre con la detta caroz-
za, al dispetto della Padrona e del Carrozziero Artofilace: il Carrozziero all’hora cominciò a gridare, come sogliono far la maggior parte dei Carrozzieri di Lombardia, et a rispondermi arrogantemente» (15:4., Ragionamento XXIX, p. 132). Sulle avventure di mare, con tanto di
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pirati turchi, cfr. :bid., Ragionamento XLI. Ibid., Ragionamento LVI, p. 263; il corsivo è nostro. Ibid., Seconda Parte, Ragionamento XIII, pp. 362-63; il corsivo è nostro. Ibid., Ragionamento XIX, p. 88. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo cit., vol. II, p. 792: «Dietro la pirateria marittima, c'erano le città, gli stati cittadini; dietro al banditismo, pirateria terrestre, c’era egual-
mente, a sostegno dell’avventura, l’aiuto dei signori. Spesso i briganti hanno un signore autentico che li guida e dirige da vicino o da lontano». ® Personaggi destinati a svolgere un ruolo determinante in questa evoluzione degli attori professionisti furono, tra gli altri, don Giovanni dei Medici a Firenze, Lorenzo Giustiniani a Venezia, Enzo Bentivoglio a Ferrara. Dei primi due avremo occasione di parlare più diffusamente nei capitoli terzo e quarto. Il Bentivoglio (1575 circa - 1639), marchese di Gualtieri, faceva parte della consulta istituita a Ferrara da Clemente VII dopo la devoluzione della città allo Stato della Chiesa (1598). Ambasciatore a Roma (1608), autore di preziose bonifiche nel-
l’area padana, fu membro dell’Accademia degli Intrepidi di Ferrara. Ma fu soprattutto un intraprendente uomo di spettacolo. Sovrintese (1602-12) alla realizzazione di due teatri per la sua Accademia, su progetti di Giovan Battista Aleotti: uno presso la chiesa di San Lorenzo e l’altro in un salone di Palazzo Ducale. Fece allestire spettacoli: Ida/ba di M. Venier (1614), Bradamante gelosa di A. Guarini (1616); entrambi con intermezzi di G. B. Guarini. Altri ne al-
lesti personalmente. Nell’aprile del 1618 fu nominato da Ranuccio Farnese impresario del teatro ducale di Parma, con il compito di dirigere sia i lavori di costruzione dell’edificio che la messa in scena della festa inaugurale. Tra il 1614 e il 1618, ma anche in altri tempi, contrattò spesso il reclutamento dei comici dell’Arte. Su di lui si vedano: T. Ascari, Bentivoglio Enzo, in DBI, vol. VII, pp. 610-12; L. Lugaresi, La «Bonificazione Bentivoglio» nella « Traspadana» ferrarese (1609-1614), in « Archivio Veneto», serie V, CXVII (1986), vol. CXXVI, pp. 5- 50;
Corrispondenze, I, Fiorillo, lett. 5, nota 1a cura di D. Landolfi. In particolare sul suo ruolo impresariale, per il quale manca ancora un auspicabile studio organico, si rimanda a R. Ciancarelli, I progetto di una festa barocca. Alle origini del Teatro Farnese di Parma (1618-1629), Bulzoni, Roma 1987, passim; cfr. anche Corrispondenze, I e II, passim.
# Cfr. J. Limon, Gentlemen of a Company cit., p. 7.
Capitolo primo
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8 N, Barbieri, La supplica cit., p. 85. Per una eccellente lettura di questo passo cfr. R. Tessari, Commedia dell'Arte: la Maschera e l'Ombra, Mursia, Milano 1981, pp. 57-59, che tuttavia non coglie nella metafora marinara il segnale di un più vasto e consapevole sistema mitopoietico. Corrispondenze, I, Scala, lett. 7. 8 7 Lettera di don Giovanni al duca di Mantova, da Venezia, 2 aprile 1618, in ASMN : Gonzaga, busta 1550, 1 c.n.n. Per un uso del lessico militare nelle comunicazioni degli attori con il Medici cfr. anche Corrispondenze, I, Barbieri, lett. 1: «Per esser io di setemana, toca a me a scriver quello che occorre per la compagnia». Ma sulla disciplina militare instaurata da don Giovanni dei Medici tornerò più distesamente nel corso del capitolo quarto. 8 N, Barbieri, La supplica cit., p. 33. 8 Le citazioni sono tratte da Corrispondenze, I, Cecchini, rispettivamente lett. 9 e 70. Sulla struttura degli equipaggi pirati e le dinamiche delle loro relazioni cfr. M. Le Bris, Les anges noîrs de l’utopie, in D. Defoe, Les chemins de fortune. Histoire générale des plus fameux pirates, Phébus, Paris 1990, vol. I, pp. 16-18. 9 Lettera di T. Martinelli a Francesco Gonzaga, da Firenze, 26 novembre 1612 (ASMN, Autografi, busta 10, cc. 1677-1687), ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 29. 92 Sulla guerra di corsa e i suoi aspetti generali, oltre alle considerazioni generali di F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo cit., vol. II, pp. 919-48, cfr. D. Defoe, A General History of the Pyrates, edited by M. Schonhorn, J. M. Dent & Sons, London 1972; G. Fisher, Barbary Legend. War, Trade and Piracy in North Africa. 1415-1830, Clarendon Press, Oxford 1957; S.
92N°)
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Bono, I corsari barbareschi, Eri, Torino 1964; A. Toussaint, Histoîre des corsatîres, Puf, Paris 1978. Per uno studio più delimitato ma pur sempre ricco di importanti indicazioni si veda A. Tenenti, Venezia e î corsari 1580-1615, Laterza, Bari 1961. Importante la metodologia, per una lettura sociale e ideologica, suggerita da Ch. Hill, Radica! Pirates?, in The collected essays of Christopher Hill, The Harvester press, Brighton 1986, vol. III, pp. 161-87. Cfr. la citata lettera del 21 marzo 1620, ora in Appendice, III; a questo principio dimostravano di attenersi i suoi attori quando (in Corrispondenze, I, Barbieri, lett. 1) badavano a esprimere le loro opinioni e richieste con lettere che portavano ben evidenti, in calce, le firme di tutti i membri della compagnia. Ibid., I, Cecchini, lett. 30. Ibid., Barbieri, lett. 3; il corsivo è nostro. Si parla del « consiglio»di compagnia e delle decisioni collettive che prevalgono sulla volontà dei singoli ancora in sbid., Scala, lett. 65 eAndreini, lett. 42-44. Lettera di P.M. Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 29 luglio 1609, in ASMN, Gonzaga, busta 735, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, Cecchini, I, lett. 30. Sui principî dell'economia delle «parti» in commedia si veda, a titolo di ulteriore esempio, ancora ibid., lett. 59 (poiché in una compagnia «rimangono tre zanni», se ne può chiedere uno «offerendo [...] di mandar un Magnifico a quella compagnia poiché n’è senza») e Martinelli, lett. 21 (cerca di avere, viceversa, uno zanni da Frittellino, poiché in compagnia ce ne sono due che «fano [...] una parte medema»). È la lettera di G. B. Andreini a un segretario ducale, da Brescia, 21 maggio 1619, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 28r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 36. In questo caso il risparmio era fatto sulla figura del secondo zanni, interpretato da Gallotta, una specie di tuttofare della compagnia (cfr. su di lui al capitolo settimo, pp. 296-98): «Arlecchino fa il primo zanni con tanta felicità che tutta Brescia ne va pazza; Gallotta fa il secondo zanni, con un Cola che habbiamo che passa anch'egli; pur s’è gusto di Sua Altezza serenissima che si pigli Farina solo, il mandi, che in questo caso la compagnia goderà della sua persona». Come si vede le pretese ducali facevano cadere le riserve economiche di Andreini. Anche la lettera dello stesso al duca Ferdinando Gonzaga, da Milano, 5 agosto 1620 (in ASMN, Gonzaga, busta 1751, cc. 858r-861r, ora in Corrispondenze, I, Andretni, lett. 39) illustra bene, in modo vivace, l’atteggiamento degli attori sulla questione: la compagnia è in ansia, sta sulle spese e teme il peggio: «tutti e’ miei compagni più volte dissero: ‘Non si può star così; siam troppi; tante patti ci distruggono’ ». Anche la moglie del Cecchini, Orsola (in arte Flaminia) si lamenta perché:
L’invenzione viaggiante
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«ha bisognato unirci con quest’altra compagnia la qualle haveva la licenza prima di noi, dove con tante parti non si è potutto far quello che aspetavamo» (lettera a Vincenzo Gonzaga, da Firenze, 25 novembre 1610, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 687). E per concludere, un com-
mento lapalissiano di Cecchini: «se un altr’anno anderò per il mondo, che più tosto voglio andar in sei buoni che in dodici cattivi» (lettera a Vincenzo Gonzaga, da Milano, 6 giugno 161, ivi, Gonzaga, busta 1735, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 48). Esemplare lo scontro fra Cecchini, allora direttore della compagnia, e Andreini, giovane esordiente, nell’estate del 1609: il secondo difende gli attori e il primo «vuole cacciare via molti di quelli» (cfr. :bid., Andreini, lett. 6 e Cecchini, lett. 28 e 30). Anche la preparazione della spedizione francese del 1620, di cui ci occuperemo più avanti, vide un analogo contrasto fra i due.
? Sui danni prodotti dal personalismo dei comici si veda la lettera di G. B. Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Firenze, 20 ottobre 1612, in ASMN, Gonzaga, busta 1128, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 21: «Così Pedrolino rimase in Milano, et il Capitano a Man-
tova, et altri a Bologna; onde restammo tutti noi per lo spazio di 10 giorni senza recitare»; il distacco dalla compagnia, che diminuiva d’improvviso e in maniera unilaterale un organico prestabilito, doveva spesso essere pagato con una penale: « purché certo interesse pecuniario fosse risarcito dalla Florinda et suo marito agl’altri, che non haverano altro interesse di stare a Milano» (lettera di Annibale Chieppio a Lelio Belloni, da Mantova, 25 settembre 1606, in ASMN, Gonzaga, busta 2704, fasc. 6, lett. 69). Sui danni arrecati dall’improvvisa defezione di un attore si veda anche l’episodio della fuga di Martinelli dalla compagnia di Andreini nel 1621 in Francia: cfr. Corrispondenze, I, Andreini, lett. 42-43. 19 Lettera di F. Scala a don Giovanni dei Medici, da Bologna, 29 ottobre 1619, in ASF, Mediceo,
£. 5150, c. 619r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 82. 101 Lettera di Silvio Fiorillo a Enzo Bentivoglio, da Napoli, 17 novembre 1615, in ASFE, Bertivoglio, Lettere sciolte, mazzo 82, c. 287r-v, ora in Corrispondenze, I, Fiorillo, lett. 5. Per il viaggio in direzione opposta, sovvenzionato cioè dai napoletani, cfr. lettera di Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Firenze, 30 novembre 1610, in ASMN, Autografi, busta 10, c. mnor-v, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 44. Ma cfr. anche, dello stesso, la lettera a Ferdinando Gonzaga, da Ferrara, 19 aprile 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1270, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 73: «et con lo aspettar una delle sue barche, che con le mie robbe mi conduchi, la supplico insieme di dar ordine ch’io sia alloggiato et spesato». 10;D Lettera di T. Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Mantova, 3 dicembre 161, in ASMN, Axtografi, busta 10, c. 160r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 18 (il corsivo è nostro); la proposta era stata fatta da Martinelli, negli stessi termini, già nel settembre di quell’anno, cfr. lettera allo stesso, da Mantova, 30 settembre 161, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 1597, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 17: «Però se Sua Maestà desidera una buona compagnia bisogna che la facia quanto io gli ò scritto, et subito scrivere una letera a Sua Altezza serenissima che lui sia quello che meta una buona compagnia insieme, et comandarmi a me che la conduca in Franza a servire Sua Maestà; et anco farmene scrivere un’altra a me, che dica che la compagnia venga alegramente, che sarano ben tratatti et che gli sarà pagato i viagi del vennire in Francia et da tornare in Italia, perché chi vol condure una compagnia buona fuora di Talia bisogna fargli delle proferte asai, perché Vostra Signoria illustrissima sa che le buone compagnie guadagnano da per tutto e bene. Però la non manchi di far scrivere due letere subito». Sulle garanzie ottenute preventivamente dalle compagnie si veda sempre il volume Corrispondenze, I, Andreini, lett. 9 (l’attore riceve in anticipo dal duca di Savoia «lettiga, carozza, e dinari»), lett. 29 (dalle Fiandre gli garantiscono un anticipo di 1200 scudi, l’utile delle rappresentazioni e anche doni straordinari); ibi4., Cecchini, lett. 22, nota 2 (il duca di Mantova deve rimborsareicosti di spedizione delle «robbe» a risarcimento di un suo intervento che ha distolto la compagnia dalla tournée abituale). Analogamente si comportano con la compagnia dei Confidenti il duca di Modena (lettera di don Alfonso d’Este a don Giovanni dei Medici, da Modena, 12 maggio 1620, in ASF, Mediceo, £. 5138, c. 200r) e di Mirandola (lettera di Marc’ Antonio Romagnesi a don Giovanni dei Medici, da Bologna, 14 novembre 1620, ivi, f. 5143, c. 8987). ‘3 Lettera del Martinelli a Francesco IV Gonzaga, da Firenze, 26 novembre 1612, in ASMN, Au-
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Capitolo primo tografi, busta 10, cc. 1677-1687 (il corsivo è nostro). Il duca Francesco non era stato solerte
quanto ilpadre nella protezione dei comici e aveva provocato, poco prima, un’acida considerazione di Arlecchino: «Et se a voi piace che la compagnia ci vada a suo nome senza spendere un soldo dil vostro la ci andarà» (la lettera, da Milano, del 14 agosto dello stesso anno, è ivi, c.170r-v). Circa l'abitudine dei Gonzaga di mandare una scorta ufficiale per accompagnare i trasferimenti della compagnia ducale cfr. anche la lettera di G. B. Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Firenze, 16 novembre 1612, ivi, Gonzaga, busta 1128, 1 c.n.n. Per tutte queste lettere cfr. ora Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 20 e 29; Andreini, lett. 23.
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Lettera di Martinelli a don Giovanni dei Medici, da Ferrara, 30 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 488r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 44; il corsivo è nostro. Lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 19 ottobre 1620, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 200r, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 48: «Frittelino non à volsiuto
darne la lettera del signor abatte Rucelai, che scrive in nome del re alla compagnia per tirare qui in Milano ducati 500 et in Lione altro tanti; il signor ambasiatore ce l’à dimandata, lui dice di averla perssa, et non abiamo potuto avere detti ducati 500. Vostra Altezza non manchi di mandarmi detta lettera per Sua Maestà, che a Vostra Altezza non è niente et a noi ne sarà di gran giovamento; la la potrà mandar qui al signor ambasiatore, che lui me la farà avere a Turino, dove sogiornaremo almeno 15 giorni». Per le altre citazioni cfr. le lettere del Martinelli, da Mantova, rispettivamente del 3 dicembre 1617 e del 9 settembre 1614, a Ferdinando Gonzaga, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 160r-v, e ivi, Gorzaga, busta 2731, fascicolo 10, lett. 158,
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ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 18 e 36. Un comico era, in questi casi, inviato in avanscoperta per il disbrigo delle procedure di costruzione (lettera di Antonio Bragadin a don Giovanni dei Medici, da Padova, 13 aprile 1620, in ASF, Mediceo, £. 5136, c. 5927). Non sempre tuttavia il palco era costruito a spese del committente. Si veda la preoccupazione, che allude evidentemente a esperienze negative alquanto costose, manifestata da Silvio Fiorillo per ottenere il pagamento del legname necessario alla costruzione del palco: «Però, s’io haverò dala conpagnia soccotsso, o da quessi maestri di lignami de la stanzia di costì, io senza dubio alcuno mi portò in viaggio»; «ho quasi disposti cotesti miei conpagni ala venuta, con gusto di Vostra Signoria ilustrissima et con l’obligo che ci siano dati i schudi cento dali padroni dei legniami conforme il solito, perché del resto si ponerà ala discritione et concenzia di chi entrarà in comedia» (lettere di Silvio Fiorillo a Enzo Bentivoglio, da Napoli, 2 dicembre 1615, in ASFE, Bentivoglio, Lettere sciolte, mazzo 82, c. 4427, e da Modena, 13 dicembre 1616, ivi, mazzo 88**,1c.n.n.: ora in Corrispondenze, I, Fiorillo, lett. 6 e 8). Per capire la difficile situazione di un capocomico meno noto si vedano i lamenti di Marc’ Antonio Carpiani per le spese generali anticipate a cui si èdovuto sottoporre «in preparamenti di palchi per recitare altrove, in affitto di case, et altro di qualche consideratione» (lettera a Ercole Marliani, da Venezia, nr aprile 1626, in ASMN, Gonzaga, busta 1557, rc.n.n.; ma cfr. anche la lettera del Carpiani allo stesso, da Venezia, 3 aprile 1626, ivi,1c.n.n.). Lettera di Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Milano, 26 settembre 1606, ivi, busta 1730, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 22: «ben tosto cominciarà a corer il cottidiano tributo che si paga et a che sono obligato per tutti». La previdenza sociale in questione è documentata, sia pur in mezzo a litigi e controversie, da Andreini: «mi danno quella poca parte, la quale sin che mia moglie parturisca con gran clamori la daranno; poi partorito s’accorderanno tutti»; si veda, in proposito, anche l'opinione di Cecchini: «Nel tempo ch’io sono stato in Torino et Lelio in Milano, ho sempre datto a lui et a sua moglie le sue parti, tanto che sono assese alla suma quasi di cento scudi, et questo non per altro che per havermegli l’Altezza Vostra serenissima consegnati per compagni». Il Cecchini era poi preoccupato di riavere indietro la somma erogata in anticipo: «se gli parerà giusto ch'io habbia quello che mi si deve et ch’io ho datto a loro, la supplico non mi mancar di giusticia». Per queste citazioni cfr. la lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 12 giugno 1609, e quella di Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Mantova, 10 ottobre 1609, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 18r-v e 1057, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 6 e Cecchini, lett. 33. Si legga il racconto delle traversie vissute dal sessantasettenne Flaminio Scala costretto a mettersi in viaggio, d’inverno, per verificare la fattibilità di una spedizione comica, in una lettera
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da lui scritta a don Giovanni dei Medici, da Mantova, 1r dicembre 1619, in ASF, Mediceo, £. 5150, c. 486r-v: «ho speso et spendo del mio, mi vien proposto gran cose, ma Dio sa quello sarrà. (...) io mi contento spender del mio, patire in questo viaggio per far conoscere a’miei compagni quanto ch'io desidero il ben loro, et loro utile et honore, se bene non è conosiuto ss nisuna ch'io facci. (...) per mio interesso non desidero altro che di tornare a casa mia con
n
a vita». Cfr. lettera di Domenico Bruni a Flaminio Scala, da Milano, 20 aprile 1621, ivi, f. 5143, c. 10157. Lettera di Scala a Ercole Marliani, da Bologna, 6 novembre 1619, in ASMN, Gonzaga, busta 1172, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 84: «se li hoccorre danari a Venezia o qui, avisi, ch’io li farrò pagare». Lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Bologna, 27 novembre 1618, in ASMN, Gonzaga, busta 1172, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 33: «dando la cura ad alcun suo servo, se ci andasse spesa al cavalo io rimborserò a quel tale nel passare per Bologna il tutto».
Sugli investimenti imprenditoriali dei capocomici cfr. ibid., lett. 6 e 39; Cecchini, lett. 12, 14, ulSS
22, 23; Scala, lett. 84. Manca uno studio sul ruolo decisivo svolto dagli ebrei nel sostentamento del teatro profes-
sionale, sia attraverso operazioni di prestito, che attraverso la gestione delle «robbe» di cui furono affidatari nei Monti dei Pegni. Un ruolo interessante nell’ospitalità offerta talvolta alle compagnie dei comici fu svolto dalle locande ebraiche: una sorta di terra di nessuno in cui il cristiano poteva avventurarsi in quanto attore, soggetto sociale marginale come igiudei, come costoro dedito a una mercatura illecita o comunque pericolosa. In attesa di uno studio sugli ebrei e il teatro, che dovrebbe prendere le mosse da una ricognizione dei libri di conti e dei registri dei Monti di Pietà, mi limito qui a segnalare gli studi di S. Simonsohn, History of the Jews in the Duchy of Mantua, Kiryath Sepher, Jerusalem 1977, nonché i documenti, raccolti ed editi dallo stesso studioso, in The Jews in the Duchy of Milan, The Israel Academy of Sciences and Humanities, Jerusalem 1982. Cfr. per una riflessione generale sul ruolo degli ebrei nell'epoca del mercantilismo J. I. Israel, Gli ebrei d'Europa nell'età moderna (15501750), Il Mulino, Bologna 1992. Ma si veda anche B. Pullan, La politica sociale della repubblica di Venezia, 1500-1620, vol. II, Gli ebrei veneziani e i monti di pietà, Il Veltro, Roma 1985. Martinelli giustifica il deposito presso il Monte di Pietà di Firenze con la paura di rapine: «per hora gli voresimo meter 1000 scuti che habbiamo in casa, aciò, come noi siamo partiti per Germania, non venga in casa nostra certi banchieri, quali cambiasero deti scudi a mia moglie et a’ miei figliuoli in tante numerate bastonate» (cfr. lettera di Martinelli a Ferdinando II dei Medici, da Mantova, 22 agosto 1627, in ASF, Mediceo, £. 1403, cc. 180r-v e 182r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 58). Ma cfr. anche casi diversi: ibid., Scala, lett. 69; Martinelli, lett. 2, 3; Cecchini, lett. 44, 49, 88; Fiorillo, lett. 5. ll(o Tristano Martinelli dichiarava di voler versare i denari guadagnati al Monte di Pietà « per esere poca fede in questi mercanti» e perché lo stesso granduca lo aveva consigliato di «levarli de mane de ingordi mercanti e meterli in luoco sicuro » (lettera a Ferdinando I dei Medici, da Milano, n marzo 1597, in ASF, Mediceo, £. 878, c. 154v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 2). 117 L’espressione è di Andreini, nella lettera a un segretario ducale, da Brescia, del 21 maggio 1619, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 28r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 36. 118 Cfr. le lettere di Andreini del 12, 17 e 24 giugno 1609, da Milano, in ASMN, Autografi, busta 10, Cc. 17r-19r-v; ma si veda anche la lettera di Cecchini, del 30 novembre 1607, da Torino, ivi, c. gor: «la spesa fatta sin hora è così grande che mi bisogna far un grossissimo pegno per levarmi di Torino». Per tutte si veda ora Corrispondenze, I, Andreini, lett. 6-9 e Cecchini, lett. 24. Lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 5 agosto 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, cc. 858r-861r, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 39. Cfr. pure un altro passo: «Serenissimo signore, non si guadagna, et inoltre essersi fatto un cattivo carnovale, una lunga Quadragesima, essere stati 2 mesi a Mantova, e qui con ispartir mezo scudo il giorno, m'ha ridotto a passo di disperazione. Ho 50 ducatoni de debito, e duo diamantini in pegno; et oltre
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Capitolo primo questo la compagnia non piace, e se (cosa che tutti icomici dicono) non foss'io che richiamo e’ popolo e la reputazione, spesse volte perduta, saressimo stati lapidati». Le espressioni di Martinelli contro i mercanti si possono leggere nelle lettere da lui scritte a Ferdinando dei Medici, da Milano e da Mantova, l’m e 20 marzo 1597, in ASF, Mediceo, £. 878, c.154v, e f. 870, c. 264r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 2 e 3. Lettera di Martinelli a un segretario ducale, da Due Castelli, 16 luglio 1606, in ASMN, Autografi, busta ro, c. 153r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. n. Cfr., tra le altre, la lettera di Francesco Biffoli a Ferdinando I dei Medici, da Firenze, 8 ottobre 1589, in ASF, Dogana di Firenze, f. 221, supplica n. 276. In Corrispondenze, I, cfr. Martinelli, lett. 18, 29, 35 («fatemi pagare il mio festino, come mi fece anco il mio compadre Vicenzzo, che mi dava lui ducati 75 per carnevale dil mio festino quando si cominciò a fare li quatro festini»), 44; Fiorillo, lett. 8. Mamone, Firenze e Parigi cit., p. 23. Ma la questione generale del riuso dei materiali e della tradizione iconologica nello spettacolo di corte fiorentino è affrontata dalla stessa autrice in Callot e lo spettacolo fiorentino: il risparmio e lo spreco, in Le incisioni di Jacques Callot nelle collezioni italiane, Mazzotta, Milano 1992, pp. 69-83, e in Le mairotr des spectacles: Jacques Callot à Florence (1612-1622), in Jacques Callot 1592-1635, Réunion des Musées Nationaux, Paris 1992, pp. 183-87.
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Supplica datata 1609 e citata da L. Rasi, I corzici italiani, Bocca, Firenze 1897-1905, vol. II, p. 243. Per una verifica della precisione dei vincoli contrattuali che, ad esempio, ricorrevano in Firenze, si leggano: la supplica dei comici Uniti del 26 marzo 1594, il successivo contratto del 2 aprile con gli stessi, la precisazione del Biffoli al granduca del 3 aprile (ASF, Dogana di Firen- . ze, £. 223, supplica n. 318 a,c; f. 226, supplica n. 175). Cfr. inoltre la lettera di Vincenzo Gonzaga a don Antonio dei Medici, da Mantova, 29 maggio 1609, dove si esprime preoccupazione perché i comici mantovani erano stati «prevenuti della licenza da un Nobili comico d’altra compagnia ch’a bello studio va preoccupando le stanze delle città principali» (ivi, Mediceo, £. 5130, c. 5407); analogo contrasto è in una lettera del cardinale Caetani a don Antonio dei Medici, del 22 settembre 1670 (ivi, f. 5131, c. 617). Sulla programmazione anticipata delle tournées si può leggere la lettera di Annibale Turchi a Cosimo Baroncelli che, da Venezia, in data 23 febbraio 1613, fa richiesta del «salone » delle commedie per il prossimo «Ogni Santo» (ivi,
Carte Alessandri, £. 7, c. 1857); lo stesso si riscontra, con crescente accumulo di informazioni, in molte suppliche successive (cfr. quella degli Affezionati del 3 marzo 1633, ivi, Dogana di Firenze, £. 236, supplica n. 144; quella di Francesco e Marina Dorotea Antonazzoni del 12 gennaio 1634, ivi, supplica n. 347; quella di Francesco Gabrielli detto Scapino, del 7 marzo 1635, ivi, £. 237, supplica n. 112; quella dei Confidenti del 5 novembre 1636, ivi, supplica n. 309). Su tutta questa materia si vedano sempre gli scritti citati di A.M. Evangelista, nonché il recente contributo di C. Burattelli, Il calendario e la geografia cit. Di ii Arlecchino, durante il ciclo di rappresentazioni tenute a Parigi tra il 1613 e il1614, riteneva che il «maggior guadagno » sarebbe venuto dagli spettacoli tenuti «alla stanza» e «in publico», anche se nelle lettere di quel periodo non perdeva occasione per vantare i donativi eccezionali intascati da più parti, ma soprattutto dalla regina. A Parigi i comici avevano ricevuto un anticipo collettivo (500 ducati) e un salario mensile (200 ducati) più il vitto e l'alloggio; personalmente però Arlecchino aveva un salario di 15 ducati al mese, a conti fatti ben pit alto di quello che poteva spettare a ciascun membro della folta compagnia. Gli incassi di Lione (non conosciamo quelli di Parigi) ammontarono invece, in sole quattro sere, a un totale di 220 ducatoni; è immaginabile che a Parigi siano stati più alti. A Mantova, per i festini carnevaleschi sui quali aveva la supervisione, Arlecchino intascava dai 25 ai 75 ducati l’anno. Bisogna tuttavia rilevare che i guadagni delle spedizioni d’oltralpe erano incommensurabili con il regime normale delle stagioni italiane: secondo don Giovanni (citata lettera del 2r marzo 1621, in Appendice, III) Scala guadagnava mediamente 500 scudi l’anno, cifra corrispondente al reddito annuo che lo stesso Martinelli dichiarava, qualche anno dopo, di ricavare dall’attività di un mulino: cfr. lettera di Martinelli a Ferdinando II dei Medici, da Mantova, 22 agosto 1627, in ASF, Mediceo, £. 1403, cc. 180r-v e 182r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 58; ma si vedano anche le lett. 59, 60 e, per la tournée francese, lett. 31, 32, 33 e 35. Naturalmente i con-
L’invenzione viaggiante
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fronti sono comunque difficili, dovendo tenere conto della variabilità dei cambi e dei tipi di moneta che i comici si trovarono a maneggiare nei loro numerosi passaggi di frontiera. Uno studio, auspicabile, sull'economia degli attori dell’ Arte deve fare i conti comunque con la carenza di informazioni, essendo Martinelli nella sua rapace avarizia il solo a fornire, sia pur saltuariamente, rendiconti amministrativi. Lettera di Andreini a un segretario ducale, da Milano, 18 luglio 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, c. 843r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 38. Su questi aspetti apparentemente secondari del mestiere comico ci soffermeremo nei capitoli quarto e settimo, in particolare quando parleremo di Flaminio Scala. Fu lui il capocomico che dedicò piti tempo ai piccoli commerci (forse non sempre leciti) paralleli al teatro; fu ancora lui a rappresentare, con Frittellino e meglio di Arlecchino, il campione dell’attoreinformatore e forse spia. E fu ancora lui (per conto di don Giovanni) il fustigatore dei vizi antichi del teatro. Si batté contro i legami parentali in compagnia e contro le «riffe» (una sorta di lotteria che le attrici praticavano nei camerini, con clienti e spettatori, mettendo in palio gioie e preziosi, in una competizione i cui limiti non possono che sfuggirci vista la penombra di quei luoghi). Come le attività secondarie che aiutavano gli attori a sopravvivere, cosî i vincoli familiari erano garanzie di solidarietà interna in un mestiere in cui le garanzie esterne (fornite cioè dalla autorità e dalle leggi) non erano sufficienti a compensare l’insicurezza del viaggio. Dalla lotta contro questi retaggi della tradizione Scala non uscî vittorioso. Ma forse non li combatté mai con convinzione. Per questo sarà un ottimo testimone per la nostra storia.
Capitolo secondo Le stanze del teatro
1. Uno dei motori principali della fase storica, e quindi anche del teatro, che si inaugura con il Cinquecento e che culmina nei primi decenni del Seicento, è costituito dalla cosiddetta «alluvione demografica e immigratoria»', che si abbatte sulle città europee, soprattutto sulle capitali, provocando un’accelerazione dei consumi, della circolazione delle merci e delle informazioni in uno spazio fortemente implosivo. I governi locali oppongono a questa alluvione provvedimenti di ordine pubblico e di urbanizzazione che finiscono per ridisegnare il volto delle città, delimitando spazi, tentando di orientare, respingere e incanalare masse inurbate di poveri, viandanti, senza lavoro, con
disposizioni di polizia, provvedimenti permanenti ed eccezionali, interventi urbanistici. Alle emergenze simboliche della città medievale e umanistica subentrano nel paesaggio architettonico nuove entità che concretizzano il bisogno di catalogazione e controllo di una società in continuo movimento. I teatri, cosi come gli ospedali dei poveri, sono fra le più importanti risultanze di questo processo. Entrambi i luoghi, in modi diversi, costituiscono le lenti di ingrandimento attraverso le quali il governo della città classifica e decifra la sua turbolenta demografia”. Quanto più intenso è il flusso dei viaggiatori in arrivo e in transito, tanto più urgente è l'allestimento di questi strumentidi classificazione degli stranieri. Le capitali europee più popolose sono le prime a dotarsi, sul finire del Cinquecento, di stanze in cui raccogliere ed ‘esporre’ a una pubblica visione i campioni selezionati della irrequieta migrazione interna. E «theatro » è la parola che si usa, in senso lato, per designare questa esposizione. L'autorizzazione ad una libera vendita dello spettacolo in spazi esterni alle corti, relativamente autonomi, significa ammettere, implicitamente, la liceità, l’utilità o la necessità del teatro come ‘spia’ di un mondo basso e disordinato. In questo
modo anche le corti e i patrizi, che del teatro avevano fatto fino a quel momento il tramite simbolico con l'universo delle idee fisse e delle
Le stanze del teatro
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virtù, o il segnatempo del calendario festivo con cui si voleva celebrare la tradizione familiare, municipale o religiosa, cominciano ad ammettere un teatro che non esprime altro al di fuori della sua esistenza,
un teatro che oltrepassa l’idea di verità morale che il realismo pedagogico dei commediografi letterati aveva enunciato (e forse anche esorcizzato) con la formula pseudociceroniana e mediana: «imitatio vitae, speculum consuetudinis, imago veritatis». Accanto a un teatro come scena simbolico-rappresentativa si impone adesso un teatro co-
me camera di rappresentanza di una realtà sociale che si ammette essere più ampia di quella presa in visione dallo spettacolo umanistico. Risale agli anni Quaranta del Cinquecento l’intensificarsi, simul-. taneo e diffuso, dei provvedimenti nei confronti dei poveri e dei forestieri in numerose parti d’Europa: dall’Italia settentrionale ai Paesi Bassi, dalla Francia alla Germania. La barriera fu alzata per frenare l’arrivo dei falsi mendicanti che toglievano il pane ai mendicanti locali, per allontanare sconosciuti che avrebbero potuto introdurre il contagio di ricorrenti pestilenze, per alleggerire le strade delle città dall'ingombro di venditori di menzogne, nullafacenti, furfanti, meretrici e contrabbandieri. Nacque probabilmente da queste paure, più che nella congiuntura postridentina, l’infamante trinomio «ebrei prostitute attori» che additava alla pubblica riprovazione i campioni di un vivere nomade. Pit per paura che per tracotanza. Nel momento in cui le porte delle città popolose e mercantili si facevano più strette al transito dei viaggiatori sospettati di ‘recitare’ ruoli sociali falsi (falsi mendicanti, falsi guaritori, imbonitori, ciarlatani e cerretani di ogni risma) e mentre si intensificavano i divieti e i controlli per attività che fino ad allora avevano goduto della relativa tolleranza morale e poliziesca (l'abilità teatrale nell’esibire deformazioni inesistenti o virtù te-
rapeutiche illusorie), una selezione cominciò a prodursi all’interno dell’universo dei vagabondi e dei montimpanca. Una selezione che fu anche una specializzazione. Come è stato giustamente osservato ’, «Nella figura del ciarlatano, la maschera del falso oggetto di carità lascia affiorare lentamente le maschere del mercante, del medico, dell'esperto di magia naturale. Il rapporto di persuasione occulta, di fascino, tra il nuovo vagabondo e il suo pubblico, allora, non sarebbe più fondato sulla fede, sulla carità e sulla speranza della religione tradizionale, bensì su una fiducia, su un rapporto di compra-vendita, su una illusione di felicità che richiedono l'incremento di certe tecniche d’attrazione e di convinzione del potenziale acquirente. Si spiegherebbe così l’indubbio emergere, nella ciarlataneria, d’un più autonomo uso di tecniche dello spettacolo.
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Capitolo secondo
Se il cerretano è un attore inconsapevole, il ciarlatano è un regista consapevole». In questo modo, bisogna aggiungere, il cerretano evo-
luto, una volta distintosi dal falso mendicante, se volle salvarsi dalla
galera o dall'ospedale dei poveri, senza essere costretto a vagare perpetuamente al di fuori delle mura cittadine, fu costretto a raffinare la tecnica e il repertorio, e ad accostarsi a qualcuna delle Arti e corporazioni tollerate dalle istituzioni locali ‘. Come ha scritto ancora Tessari, «Il ciarlatano si allea al buffone (talora si fa buffone egli stesso) », co-
mincia a denigrare la parte bassa della categoria, cerca di imparentarsi con la parte alta (gli umanisti vaganti, esuli dalle corti padane o da quella romana), tenta di munirsi di più rispettabili passaporti (repertori e canovacci)’ con cui ottenere l’accesso ai luoghi più degni della città.
Del resto l’apertura di spazi urbani deputati ad accogliere una selezione dei viaggiatori in cerca di guadagni (ciarlatani, buffoni, acrobati, umanisti erranti) non era del tutto dissimile dall’istituzione di ospizi per poveri veri. Si veda quello che successe a Venezia nel 1528, secondo una notizia fornita dal Sanuto, male interpretata da alcuni e poi recentemente chiarita da Zorzi‘: secondo il cronista, il 14 marzo 1528 i Savi alla Sanità avrebbero proposto, giusta una «parte» presa il giorno avanti «zerca li povereti», di allestire in vari punti della città quattro ospizi per i mendicanti che in quell’anno affollavano la città in maniera eccezionale a causa di una grave carestia. Tra i luoghi indicati ne figura uno «drio san Canzian, dove si recitava le comedie». Non solo il termine con cui si segnalano questi spazi è lo stesso che abitualmente si adopera per gli ambienti dedicati allo spettacolo («stantia»), ma, quello che più conta, dalla notizia emerge una curiosa equipollenza, nella pratica dell’uso urbanistico, dello spazio teatrale e dello spazio filantropico-carcerario. Secondo quanto scrive Zorzi, «si tratta di edifici già predisposti all’uso pubblico (...) ovvero di locali di frequentazione saltuaria o di destinazione ancora incerta (...), ma nei quali, data la natura incerta (o ‘aperta’) del sito, era più agevole predisporre un’ampia metamorfosi funzionale». Conferma questa, se ce ne era bisogno, del carattere saltuario, nei primi decenni
del secolo, delle attività spettacolari, che approfittavano dei varchi lasciati aperti nel tessuto delle grandi città da attività discontinue (o declinanti), situate in aree con una destinazione d’uso flessibile o mista.
Ma anche il segno, questa notizia, della funzione termostatica svolta dal teatro in rapporto ai mutamenti della temperatura sociale. Il governo cittadino adopera gli stessi edifici indifferentemente come luoghi del teatro e come reclusori del ‘diverso’ e dello ‘straniero’. I vaga-
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bondi, abitanti temporanei dei luoghi, si erano comunque impegnati a trasformare quei reclusori in mercati e se stessi in mercanti, assumendo per imitazione l’identità sociale dei propri ospiti-signori. Prima di diventare la stazione di poveri affamati, proprio la « stantia» di San Cassiano era stata il teatro di un attore non minore come Francesco de’ Nobili, detto Cherea”. Nato a Lucca, attivo a Venezia
tra il 1508 e il 1527, proveniente dagli ambienti umanistici, egli svolse un ruolo di primo piano nel momento in cui il teatro si trovò a dover definire i suoi statuti di autonomia‘. In questo senso Cherea ebbe meriti storici. Spostò infatti il teatro della cultura umanistica, delle « comedie, tragedie et eglog[h]e » al di fuori degli ambienti (cortesi, letterari, dilettanteschi) abitualmente destinati a esso. Ma questa fu solo una metà del tragitto da lui percorso (quella digradante). Ancora più importante l’altra metà: egli cercò infatti di omologare il suo lavoro all’attività civilmente utile e riconosciuta dei mercanti. In questo modo Cherea diminuiva il suo personale statuto di umanista, ma chiedeva di fatto la riabilitazione a mercatura dell’attività teatrale. Cosî il 10 settembre 1508 aveva avanzato al Senato veneziano la richiesta del privilegio di stampa per un gruppo di testi teatrali volgari o volgarizzati: «desideroso de far stampar le infrascripte tragedie et comedie, eglog[h]e et tragedie, cum spesa, verdù et travaglio raccolte et traducte de greco et latino in vulgare a comodità et satisfactione de qualunque persona»’. Non troviamo traccia dell’attività recitativa né dell’uso di quei testi, tuttavia la richiesta dell’esclusiva di stampa è un modo per fissare sulla carta, con l’autorità della tipografia e del privilegio ufficialmente concesso dalla Repubblica, il diritto a servirsene anche sulla scena. Molti anni dopo Flaminio Scala, Nicolò Barbieri e altri attori-scrittori rivendicarono allo stesso modo — stampando i testi per esteso—la proprietà di alcune commedie da loro recitate in forma di canovaccio, e quindi la facoltà di metterle invendita. La stampa di volgarizzamenti o adattamenti era per Cherea il necessario preliminare di ogni vendita teatrale. L’attore lucchese fu il primo a introdurre il principio della distinzione fra la paternità dell’opera letteraria e la paternità dell’opera teatrale. Più evidente l'ambizione mercantile di Cherea in un’altra sua impresa dello stesso anno 1508. Mi riferisco al tentativo, che verrà respinto dal Consiglio dei Dieci, di ottenere la concessione della Loggia di Rialto per la rappresentazione delle sue commedie: Da po disnar fo Gran Conseio, et fo publicà una parte presa nel Conseio di X, a dì 29 di questo, che de cetero, non si fazi più in questa terra nî a noze, nì in nisun loco, recitar comedie, tragedie et egloge (...) è da saper, l’autor di questo era uno Che-
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Capitolo secondo rea luchese, qual tramava di aver la loza di Rialto da li Provedadori dil Sal e Cai di X, per recitar dite comedie, unde per il Conseio di X, auctore il Serenissimo e Consieri, fo preso tal parte.
Per capire il progetto di Cherea bisogna ricordare il valore speciale che aveva l’isola di Rialto nella geografia urbana di Venezia. Essa non era solo il «sacrario » cittadino, in tutto simile al Campidoglio romano, il simbolo della forza repubblicana; era anche il luogo eccellente dell’arte mercantile, « dove si esibisce lo stupendo e inusuale apparato di merci», lo «spazio finanziario» più illustre, dove si intrecciano la vendita al minuto e i grandi affari ". La richiesta di Cherea non era solo quindi, agli occhi dei patrizi veneziani, un tentativo di violare il recinto più rappresentativo della città, era anche il tentativo di sancire, con quella collocazione ardita, la massima dignità possibile per l’arte teatrale mediante l’equiparazione alle altre forme di mercatura. Dalle stanze di San Cassiano, situate all’esterno del perimetro di Rialto, egli puntava al centro simbolico della città. Cherea era uno straniero e per questo la concessione di autorizzazioni a impiantarsi
in Rialto non poteva essere né frequente né facile; l'occupazione della loggia avrebbe inoltre significato un mutamento nella destinazione d’uso di un luogo solitamente adibito a deposito di merci pregiate o ad area di libera contrattazione commerciale, e una tale eventualità
non era ancora presa in considerazione all’inizio del secolo quando l’attività portuale e di sdoganamento, il pullulare di traffici nell’isola di Rialto, non avevano ancora subito soste e rallentamenti: l’accetta-
zione da parte delle autorità veneziane di una destinazione teatrale, anche se provvisoria, del luogo mercantile, avrebbe urtato la sensibilità di chi non ammetteva cali nel volume di affari e nel ritmo, almeno apparente, della vita produttiva della città. Come era opportuno che i mercanti patrizi fossero separati dai piccoli commercianti e dai venditori di strada, altrettanto separati dovevano restare.i traffici minori e marginali come il teatro e la prostituzione per i quali i residenti, i viaggiatori e i mercanti disponevano già di numerose tabernae: si ricordi che anche la segregazione delle meretrici era stata disposta in uno speciale ghetto che si trovava a Ca” Rampani, sempre nella contrada di San Cassiano: fuori del centro, ma non troppo, per comodità dei veneziani e dei viaggiatori”. Tornando all’attore lucchese occorre poi ricordare che siamo in un anno (1508) contrassegnato dalla Lega anti-
veneziana dei francesi, degli spagnoli e dell’imperatore Massimiliano, e che il decreto contro Cherea si inserisce in una pit vasta opera di moralizzazione e prevenzione dei disordini interni, culminata nel divieto dei pubblici spettacoli che non erano contemplati dalla tradizio-
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ne municipale: «a paucissimo tempore citra, appareat introductum in hac civitate, qua ex causa festorum et nuptiarum, pastuum et aliter, et tam in domibus quam etiam in propatulo ad haec preparato recitantur et fiunt Comoediae et Representationes Comediarum, in quibus per personatos sive mascheratos dicuntur et utuntur multa verba et acta turpia, lasciva et inhonestissima» ”. Il bando si riferiva a opere di stampo umanistico e cortese, sul tipo di quelle importate da Cherea, e manifestava perciò, più che un larvato sentimento di xenofobia,
l’esistenza di riserve non secondarie nei confronti di spettacoli che non fossero, per cosi dire, autorizzati da occasioni festive più ortodosse (o ufficiali) o da una tradizione più documentata negli usi re-
pubblicani.
2. Nel corso dei decenni centrali e finali del secolo xvi l'alluvione demografica aumentò la sua pressione sulle città italiane; una modificazione sensibile e un relativo declino delle attività mercantili (soprattutto in città come Venezia, Genova, Firenze, Napoli), preludio alla più grave crisi economica successiva al secondo decennio del Seicento, favorirono un riordino urbanistico dei centri più importanti. Si modificò cos il rapporto tra aree residenziali, spazi e depositi commerciali, emergenze monumentali e rappresentative. Negli spazi che di volta in volta si resero liberi le attività teatrali non di corte trovarono un inedito riconoscimento. Non al centro del «sacrario» urbano,
ma ai suoi margini più immediati, il teatro a pagamento, dove gli stranieri e la popolazione locale si incontravano senza altra distinzione che il ruolo di recitanti e paganti, fu il detector del nuovo, dello sconosciuto, dell’impensato. Lo spettacolo divenne il luogo deputato alla decifrazione del mistero urbano, alla rivelazione di un mondo estra-
neo guardato spesso con sospetto e con apprensione: fu la garitta daziaria di una conoscenza che guardava alla parte bassa della società. La scena come luogo simbolico in cui si ‘rappresentano’ modelli ideali, progetti umanistici, ipostatizzazioni del mondo superiore, proseguî la sua vita'all’interno del teatro di corte. Nelle «stanze» lo spettacolo fu l’incontro di platea e scena come condensazione alchemica di frammenti di realtà prima diluiti e disseminati altrove. Nacque cosî la pratica borghese di un teatro che, contraddittoriamente, si predisponeva a una inchiesta curiosa oltre le frontiere del conosciuto e nello stesso tempo tendeva a immobilizzarlo in un catalogo poliziesco di nuove norme e nuovi tipi. L’analisi e la ricostruzione del funzionamento di alcuni teatri eu-
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Capitolo secondo
ropei su cui hanno recato informazioni studi più o meno recenti, consente di dare consistenza e precisione alle nostre considerazioni generali. Colpisce, innanzi tutto, la coincidenza delle date. Tra il 1570 e i primi anni Ottanta, a Firenze, Venezia, Madrid, Napoli, Parigi e Londra, la congiuntura particolare di fenomeni demografici, urbanistici e politici, produce i primi segni vistosi di un radicamento del teatro in luoghi stabili di vendita. Lasciando da parte il caso pur macroscopico di Londra, ci soffermeremo su una casistica che riflette il comportamento di una cultura cattolica“. Per lo stesso motivo cominceremo dalla Spagna. A Madrid, il trasferimento della capitale da Toledo (1561) provocò un consistente aumento della popolazione (si passò dai 14 000 abitanti del 1570 ai 46 209 del 1594 ai 57 285 del 1598) e un allargamento della città, trasformando la zona periferica gravitante intorno a Puerta del Sol in centro geografico e sociale: qui, tra il 1574 e il 1584, si trovavano, secondo la documentazione che ancora si conserva, almeno quattro corrales che le compagnie teatrali prendevano in affitto regolarmente ma per periodi limitati. Nel nuovo quartiere, corrispondente all’antica parrocchia di Santa Cruz, sorsero anche, a
partire rispettivamente dal 1579 e dal 1583, il Corral de la Cruz e il Corral del Principe, i primi due teatri permanenti della città: lî del resto giacevano quattro dei cinque corrales che, prima di quella data, erano stati presi in affitto, in maniera saltuaria, dalle stesse due Cofradfas (Corral del Sol, Corral de la Pacheca, Corral de la Puente e il Corral de Burguillos; di un altro locale, il Corral de Valdivieso, non si conosce invece l’esatta ubicazione). I nuovi teatri stabili sostituirono
del tutto quelli temporanei, confermando la vocazione del quartiere, anche all'indomani della nuova sistemazione urbanistica di cui anzi i due locali costituirono emergenze significative”. È probabile che fin dal secolo xItI questo quartiere, allora periferico, fosse l’asilo di corr4les adibiti a uso teatrale; ma solo il riordino urbanistico voluto da Fi-
lippo II e le relative preoccupazioni di tipo demografico favorirono la razionalizzazione degli spazi. Non è da escludere che la destinazione spettacolare di alcune case dotate di cortile fosse stata anche incoraggiata dalle disposizioni in materia edilizia emanate dal re nel 1565 quando, per combattere la pratica delle «casas de malicia», era stato imposto che le abitazioni borghesi, nuove o restaurate, dovessero essere dotate di doppia pianta per consentire l'applicazione della norma conosciuta come «Regalfa del Real Aposento de Corte», la quale prevedeva che i proprietari di case dovessero lasciare libera metà delle loro grandi abitazioni per i funzionari (numerosi) della Corte. La destinazione, anche temporanea, a uso teatrale, del patio e dei locali
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circonvicini poteva essere un modo per aggirare la disposizione e per ricavare, per contro, utili periodici. Una specie di esenzione dalla corvée, che prelude alla dinamica imprenditoriale che sarà propria del teatro, destinato a nascere come impresa commerciale all’ombra delle garanzie e dei controlli statali, e poi quasi ‘costretto’ a svilupparsi secondo logiche commerciali autonome. Ancora in connessione con le preoccupazioni d'ordine pubblico e demografico pit volte esposte, è la notizia che nel 1574 assegna alla Cofradîa de la Sagrada Pasién de Nuestro Sefior Jesucristo (fondata nel 1565, quattro anni solamente dopo il trasferimento della capitale) e alla Cofradîa de la Soledad de Nuestra Sefiora (fondata nel 1567) l’i-
niziativa di firmare un accordo per la gestione centralizzata e unificata della vita teatrale di Madrid, con fini di pubblica beneficenza. In precedenza il controllo, che costituiva un vero e proprio monopolio, al di fuori del quale nessuna attività di spettacolo aveva diritto di manifestarsi, era stato assegnato dal presidente del Consiglio di Castiglia, cardinale Espinosa, alla sola Cofradîa de la Sagrada Pasién (1572): questa, dopo l’accordo, avrebbe incamerato i due terzi degli incassi, la Soledad il rimanente terzo, entrambe avrebbero contribui-
to in parti uguali alle spese di gestione “. In seguito, insieme, le due Cofradfas comprarono i terreni e vi edificarono i citati corrales de la Cruz e del Principe. Dalla loro origine le due associazioni avevano avuto lo scopo di dare ricovero ai poveri, alle donne indigenti o inferme, ai bambini abbandonati, e disponevano per tali fini di un proprio ospedale; la riscossione di una tassa sui pubblici spettacoli, ricavata dagli ingressi ai corra/es, era stata fin dalla data della loro fondazione il mezzo di sostentamento, riconosciuto dal re e dal Consiglio di Castiglia, per le opere benefiche che esse avevano in statuto. La costruzione dei teatri stabili razionalizzò in maniera definitiva quella pratica, assegnando praticamente alle due Confraternite l’esclusiva del controllo degli spettacoli. In un solo colpo la città di Madrid e la corona si assicuravano uno strumento di controllo del disordine demografico e la ‘copertura’ morale di una attività venale che la dottrina cattolica stentava ad ammettere e che neanche la monarchia aveva dimostrato di riconoscere come pedagogicamente utile, se è vero che lo stesso Filippo II aveva più volte messo in guardia dalle pratiche teatrali anche gli studenti universitari: «para evitar las distracciones de los jovenes dedicados a las letras, no se permitiese en esta ciudad, entonces villa, que los representantes de comedias que acudiesen a ella representasen mas dias que los domingos o fiestas de guardar»”. Il flusso di denaro dai teatri alle confraternite agli ospedali e, vice-
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Capitolo secondo
versa, i riflessi di garanzie e controlli che si riverberavano dagli ospedali alle confraternite ai teatri, crearono nel giro di pochi anni un sistema relativamente rigido. Cosf altri istituti di assistenza e beneficenza ottennero di partecipare agli utili spettacolari, come l’Hospital General (1583) e poi l’Hospital de los Nifios Desamparados, l’Hospital Real e Hospital de Antén Martin. I controlli erano affidati a commissari (si trattava di personale scelto tra esperti contabili di estrazione nobile, i quali lavoravano gratuitamente in cambio dell’uso di un palco speciale) che conteggiavano gli incassi mensili dei posti a sedere situati nei gradoni, nel loggione, nei palchi e sulle panche; un controllo era svolto anche sul pagamento dell’ingresso, che era comunque dovuto da tutti gli spettatori (l'incasso spettava alle compagnie recitanti, che erano chiamate a collaborare alle verifiche contabili). Uniche attività professionali autonome consentite erano quelle degli « arrendadores» che svolgevano due funzioni: smerciavano acqua e frutta nella parte bassa, vicino al patio, incassando tutti i denari; vendevano i posti a sedere e trattenevano una percentuale sul prezzo, pur essendo poi sottoposti a una tassa fissa di due ducati a spettacolo. La supervisione delle Confraternite era rigorosa per quanto riguarda, in Madrid, la garanzia del monopolio teatrale dei due corrales, la concessione dei due luoghi essendo sottoposta a una preventiva richiesta formale, accompagnata spesso dalla presentazione dei copioni in programma; ulteriori controlli si facevano poi sulla drastica separazione del pubblico maschile e femminile, sulla moralità delle donne ammesse nel corra/, sulla presenza delle ragazze più giovani. Di non secondaria importanza era poi la rigidità dei prezzi per ogni ordine di posto che impediva ai detentori degli appalti di modificare le tariffe stabilite dalle Confraternite e dai loro commissari. Ci si era però accorti che un simile sistema non arrivava a coprire le spese di manutenzione dei locali. Le esigenze commerciali e quelle assistenziali risultarono col tempo incompatibili. Il 30 marzo 1615 il Consiglio di Castiglia, sentiti «los Padres Confesores de S. M. y del Prîncipe nuestro sefior, y Juan Federico de la Compafifa de Jestis» giunsero alla conclusione di mutare assetto al sistema teatrale. L’Ayuntamiento di Madrid avrebbe sovvenzionato direttamente gli ospizi con un contributo annuale (54 000 ducati), liberandoli dalla gestione dei corrales che sarebbe stata, da allora in poi, assunta in proprio dalla stessa amministrazione cittadina. È questa una data fondamentale per lo sviluppo di un regime teatrale autonomo nei territori del regno di Spagna, con riflessi che si faranno poi sentire anche nei territori italiani sotto il controllo della monarchia castigliana: l’Ayun-
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tamiento di Madrid cominciò infatti a dare in appalto tutta la gestione degli spettacoli; limitandosi per sua parte alla riscossione di un affitto annuo che sarebbe andato a coprire il 50 per cento delle spese a favore delle opere pie (27 000 ducati per quel primo anno). Da quel momento la professione dell’impresario teatrale cominciò a separarsi dal mestiere comico “, dal momento che ben presto l’appalto generò i subappalti e il governo dei corrales si trasformò in una pura impresa commerciale, anche se nei primi tempi le regole circa il funzionamento interno dei teatri (il monopolio cittadino dei due corrales, il con-
trollo della moralità degli spettacoli) rimasero inalterate e il magistrato Protector de Hospitales y Teatros fu confermato come autorità suprema delegata dal re alla supervisione degli spettacoli. Il 1615 è comunque una data capitale per l’affermazione, ancora embrionale, della vendita del teatro. Eppure, se appena ci spostiamo di qualche chilometro dal centro di Madrid, scopriamo che i segnali della vita teatrale sono pit complessi. Laddove probabilmente il disordine demografico è meno drammatico e l'esercizio dello zelo ospedaliero meno assillante, lo spettacolo scopre in anticipo, e sperimenta, formule approssimative di impresariato, lasciando intuire, una volta moltiplicate le distanze dal centro della capitale, quello che doveva essere il regime della vita teatrale nella periferia del grande regno, non escluse le province italiane. È stato infatti recentemente scoperto e ricostruito per via di con-
getture architettoniche e filologiche un corra! fino a qualche tempo fa sconosciuto o mal noto, le cui origini appaiono relativamente diverse da quelle dei teatri fin qui studiati. Risale al 1601 e si trova ad Alcalà de Henares, la città natale di Cervantes, centro universitario di primo piano, non lontano dalla capitale”. Normale il fatto che la pianta ritrovata (e anche documentata negli incartamenti notarili) si rifaccia esplicitamente al modello del Corral de la Cruz di Madrid. Normale anche la sua ubicazione nella piazza del mercato, centro economico e sociale della città, luogo d’incontro di residenti e di stranieri nei giorni delle fiere, delle feste pubbliche e delle cerimonie regie ”: non è altro che la conferma della dislocazione liminare dello spazio teatro, della sua funzione di controllo daziario tra noto e ignoto. Sorprendente invece il fatto che la sua nascita sia il frutto di un accordo tra il governo della città e un privato cittadino. Come si legge negli atti che regolarono la costruzione del teatro, l’iniziativa fu di un certo Francisco Sanchez di professione « carpintero » (oggi probabilmente diremmo impresario edile) come il più celebre James Burbage, costruttore del Theatre di Londra nel 1576. Costui, dopo aver comprato degli edi-
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fici di proprietà della chiesa di Santa Maria, si impegnava, davanti al consiglio municipale, a costruire un patio «a la traza que està el patio que (...) dicen en la Cruz» di Madrid; di conseguenza «se obliga que todos los dias que ubiere comedias en esta dicha villa darà a esta villa dos ducados para los propios [poveri] d’esta dicha villa, perpetuamente para siempre xamàs»: proprio di due ducati era anche il balzello che gli «arrendadores» madrileni pagavano sui proventi (peraltro modesti) dei posti a sedere”.
Ad Alcalà non si fa menzione di ulteriori esazioni a vantaggio di
istituzioni benefiche e, fatto ancora più rilevante, l’investimento eco-
nomico di avviamento dell’impresa risulta essere tutto a carico del Sanchez, che come unico aiuto chiede all’Ayuntamiento la fornitura gratuita di cento travi di legno per l’edificazione, oltre al privilegio che «solo en el dicho patio se pueda representar y no en otra parte ninguna», salvo il caso di recite dilettantesche e gratuite. Solo più tardi, nel 1611 (forse a causa anche della difficile gestione dell’impresa)
Sanchez cedette metà del patio alla Cofradîa de Santa Maria. All’altezza del 1601 la notizia sembra quindi il segno preciso di un modello implicito di professionismo impresariale, anche se non sappiamo altro delle attività abituali del carpintero Sanchez. Certo si tratta di un esempio che anticipa di qualche anno la svolta legislativa madrilena. Ma anche in questo caso, a conferma della natura instabile e insicura del terreno operativo su cui vengono edificati i prototipi delle moderne fabbriche teatrali, si scopre il contrario. Dalle clausole del contratto emerge che anche il carpintero Sanchez ha i suoi obblighi statuali e, accanto ai doveri morali nei confronti dei poveri, la sua corvée da
prestare a favore dell’autorità municipale. Una serviti meno regolare di quelle imposte dalle Cofradîas ospedaliere, ma proprio per questo ingombrante: tendrà y ospederà en la dicha su casa y patio al alferez del capitàn que viniere a acer xente a esta dicha villa con su bandera, sin interes alguno, con tanto que si, estando en la dicha su casa e patio alguna compafiia de soldados, ubiere en dicha villa comediantes que vengan a representar, todo el tiempo que duraren las dichas representaciones la dicha Villa y Ayuntamiento d’ella sea obligada a mudar la dicha vandera y alferez de su casa y patio a otra parte hasta tanto que los dichos representantes ayan acavado de hacer sus comedias ”.
Il luogo riservato alla vendita degli spettacoli professionali è ancora promiscuo, non esclusivamente aperto alla recitazione. I militari si faranno da parte qualora occorra, ma non in modo definitivo, per lasciare il posto ai comici, nelle stagioni a questi riservate. Negli altri tempi abiteranno il teatro come una caserma, sfruttando la sua ubica-
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zione ideale nel cuore dei traffici della piazza del mercato, per spiarla e controllarla. . 3. Anche a Parigi, negli stessi decenni, la nascita di una moderna e organizzata sala teatrale è il risultato di un compromesso tra la paura della piazza e il bisogno di spiarla. Anche lf il mercato del teatro è il frutto di due patologie sociali: il privilegio e il disordine. È nota la storia della più importante sala pubblica di Parigi, l’Hétel de Bourgogne?”; quasi del tutto sconosciuta è invece la vita degli altri numerosi, e forse improvvisati, luoghi cinquecenteschi della capitale francese adibiti alla vendita dello spettacolo professionistico. L’Hòtel de Bourgogne operava agli ordini dei potentissimi Confrères de la Passion che, grazie a un privilegio regale, ospitavano e controllavano, incassando il prezzo del biglietto e pagando a loro volta dei salari, tutte le compagnie in transito; gli attori erano completamente subordinati alla confraternita, non godevano di alcuna autonomia. Il Parlamento di Parigi aveva infatti proibito «à tous autres de jouer et representer doresnavant aulcuns jeux ou mystères tant en ville, faulbourgs que banlieux de Paris sinon que soubz le nom de la dite confrairie et au proffit d’icelle»”*. Da sottolineare che la precedente sede teatrale dei Confrères, che si trovava fino al 1535 all’interno dell’ospizio della Trinité, era stata requisita dallo stesso Parlamento per dare ricetto e assistenza ai bambini poveri della capitale, a conferma dell’analogia delle funzioni che anche agli occhi delle autorità parigine, come di quelle spagnole, ospizi e sale teatrali potevano rivestire nella gestione e nel controllo dell'andamento demografico. L’edificazione della nuova sede, acquisita nel 1548, all'angolo tra la rue Mauconseil e la rue NeuveSaint-Frangois (dopo una temporanea permanenza all’Hétel de Flandres, da cui i Confrères furono ‘sfrattati’ dal programma urbanistico di Francesco I), fu un episodio dell’impetuoso riordino e sviluppo che Parigi conobbe in particolare nel decennio 1540-50, che poi le lotte di religione bloccarono fino all’avvento di Enrico IV, e che consistette, nel quartiere occupato dal teatro, in una liquidazione degli hòtels medievali e nella loro trasformazione in residenze di lusso moderne ”. Quell’ordine urbanistico si opponeva a un disordine destinato ad acuirsi in modo eccezionale negli ultimi anni del secolo. I flussi migratori di ogni specie di viandanti, mendicanti e ciarlatani, si erano fatti particolarmente frenetici dopo il 1570. È stata studiata * l’angoscia con cui le testimonianze francesi guardano come un vero e proprio assalto alla città l’arrivo dei forestieri alla disperata ricerca di pa-
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ne e salario. La crescita del numero dei mendicanti e l’estendersi delle zone pericolose intorno e dentro Parigi, provocarono l’accelerazione della politica dell’internamento dei poveri e dei diseredati, la recinzione di quelle aree urbane che nel secolo xvi furono poi designate con il nome di «corte dei miracoli». L'invito pressante che i Confrères de la Passion si trovarono a rivolgere al Parlamento di Parigi perché frenasse l’arbitrio delle troupes ambulanti che recitavano nei più diversi luoghi della capitale, era un atto di indiretta cooperazione con le autorità di polizia, un modo per assecondarne gli orientamenti. La difesa dei datati privilegi di questa corporazione (la cui attività teatrale era tutta vincolata da un repertorio tradizionale di tipo medievaleromanzo che, sotto il nome di mystères, celava in realtà un adeguamento permanente ai gusti più bassi e ripetitivi delle farsae, dell’intrattenimento popolare e locale) coincideva perfettamente con la politica di protezionismo xenofobo. Frequenti decreti furono emanati dalle autorità parigine, su richiesta dei Confrères, contro compagnie italiane. Tra questi, quelli importanti del febbraio 1571, della fine del 1576, del maggio e del giugno 1577, del febbraio 1583. Non mancarono bandi nei confronti di teatranti francesi sbarcati in Parigi dalla provincia. Il pretesto per intervenire era moralistico: «toutes ces comédies n’enseignoient que paillardises et adultères et ne servoient que escole de débauche è la jeunesse de tout sexe de la ville de Paris» ”. Lo scopo era di costringere le compagnie straniere ad andare a recitare, con le dovute conseguenze economiche, all’Hétel del Bourgogne. Lo strumento per ottenerlo era la minaccia di pene corporali, l'arresto, la cacciata da Parigi. Mail risultato fu molto diverso da quanto sperato dai Confrères. Trascorsi gli anni sanguinosi delle guerre di religione, sul finire del secolo, regnante già Enrico IV, la piazza respinse più volte, con la forza, l’arroganza del privilegio. Resta traccia, agli inizi del 1596, di un vero e proprio assalto all’Hétel del Bourgogne, con disordini e violenze, a opera di una folla che protestava per l'interruzione, decretata su richiesta dei Confrères, degli spettacoli della foîre di Saint-Germain, un evento divenuto ormai popolarissimo, durante il cui svolgimento venivano fatti decadere tutti i privilegi particolari, tra cui anche quello teatrale. Quella fiera, che non a caso durantele lotte di religione era stata sospesa, durava circa tre settimane, cominciava la vigilia del
martedi grasso, ed era l’altro luogo deputato in cui potevano essere convogliate e recintate le inquiete energie, le fantasie insubordinate di un popolo insoddisfatto. Era un vero e proprio mercato coperto (la cui durata arriverà a protarsi per circa sei settimane, nel 1630), in cui si
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vendevano ed esponevano animali esotici, medicinali miracolosi, spettacoli di marionette, individui mostruosi, vini e cibi a volontà. Un teatro universale della vitalità e degli istinti più violenti. Vi si intrecciavano risse e perorazioni, esibizioni di criminali messi alla gogna e anche performances di attori di mestiere”. In qualche modo svolgeva sulla riva sinistra della Senna il ruolo di contenimento che spettava all’Hétel de Bourgogne sulla riva destra. L’affluente che lo alimentava era però più vasto, incontrollabile e minaccioso. Per questo gli autorevoli Confrères erano riusciti a ottenere, il 5 febbraio 1596, l’interruzione degli spettacoli che alcuni attori avevano allestito alla fore. Nondimeno, a dimostrare la forza incoercibile della piazza teatrale, la sentenza emessa al riguardo dallo Chatelet conteneva concessioni importanti. Si ammoniva la folla a non «reprendre les violences à ’H6tel de Bourgogne, d’y jeter pierres, poudres ou autres choses, ce qui risquerait de provoquer une émeute», ma nello stesso tempo si concedeva la ripresa degli spettacoli forzis in virti del pagamento di una tassa annuale di due scudi alla corporazione dell’Hétel de Bourgogne”. Le intemperanze della folla contro il privilegio del monopolio teatrale dovettero durare ancora se il 12 aprile 1597 la stessa Confraternita faceva intervenire il Prevét di Parigi per minacciare pene seve-
re a chi avesse provocato, «tant dehors que dedans», incidenti nel teatro”. Il compromesso tra le pressioni della piazza e il privilegio fu trovato con la rinuncia dei Confrères al diritto di rappresentare propri spettacoli (legati alla tradizionale forma dei mystères) e a quello contiguo della riscossione diretta degli incassi: quest’ultimo fu lasciato agli attori che avrebbero recitato periodicamente i loro repertori; costoro avrebbero però dovuto pagare una tassa fissa per ogni rappresentazione; inoltre la compagnia ospite si impegnava a lasciare alcuni dei dodici palchetti del teatro a disposizione degli stessi Confrères o del funzionario incaricato del controllo dell’attività teatrale; qualora gli attori impegnati all’Hétel de Bourgogne avessero voluto dare rappresentazioni altrove erano comunque tenuti a pagare un diritto giornaliero alla Confraternita che cosî si confermava il baluardo della vita spettacolare fuori della corte: permettons aux commédiens anglois de jouer dans l’Hostel de Bourgogne en payant par eulx six escus et demy par chacun jour aus dicts maistres, et leur laissant une loge pour eulx et celle ordonnée pour la police aux officiers du dict Chastellet, sy mieux n’aiment les dicts anglois jouer hors la dicte maison en payant pour le droict des dicts maistres de la dicte confrairie un escu par jour ”.
Si aggiunge peraltro che l’incasso spetterà «le quart aus dicts maistres de la passion et les autres trois quartz aus dicts anglois».
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Queste regole sono contenute nella sentenza pronunciata dal Prevòt di Parigi a conclusione del processo intentato dalla Confraternita contro gli attori inglesi che, nonostante un contratto che li legava in esclusiva all’Hétel de Bourgogne”, si erano esibiti in altri luoghi della città. Il documento, datato 4 giugno 1598, certifica l'avvenuta trasformazione della sala in pubblico teatro soggetto a periodiche locazioni, nonché la sostituzione di un primato ‘impresariale’ al vero e proprio monopolio: il teatro della rue Mauconseil regola la vita delle altre eventuali sale, non la impedisce. La trasformazione è stata determinata spontaneamente dal confronto empirico delle parti sociali, senza che l’autorità regale abbia dovuto sbilanciarsi in un’autonoma e autorevole progettazione. Gli interventi del Parlamento di Parigi piuttosto hanno dettato l’evoluzione dei rapporti, dimostrando l’importanza del fattore ‘ordine pubblico’ nella questione teatrale. La monarchia registrava l'equilibrio raggiunto dalle contrastanti forze in campo. Enrico IV non aveva ancora sposato Maria dei Medici e un embrione di politica dello spettacolo doveva ancora attendere, per manifestarsi, i primi anni del nuo-
vo secolo”. C’era l’Hétel de Bourgogne, garanzia d’ordine, ma di fronte a esso — come racconta un viaggiatore del 1599 — «Il y a encore à Paris beaucoup d’autres comédiens, artistes e musiciens, qui ex-
hibent en tout temps des choses merveilleuses artistiques, en allant plusieurs fois par jour d’une rue à l’autre. D’autres s’établissent dans un quartier, y font des annonces et encaissent de l’argent. Quand il leur semble que tout le quartier a à peu près contribué à leur fournir, ils se rendent è un autre endroit de la ville jusqu’à ce qu’ils aient encaissé une grosse somme»”. Le compagnie provinciali e straniere
adesso sono libere di trovare altri luoghi capaci di dare ricetto a molti spettatori e a un palcoscenico elementare, purché si sborsi la tassa di diritto dovuta ai Confrères. Fioriscono cosî gli adattamenti a teatro di molti locali solitamente impiegati come jeux de paume (questi erano più numerosi delle chiese, secondo il viaggiatore inglese Dallington)”, dove confluiscono gli attori vaganti di ogni provenienza, anche se lHòtel de Bourgogne mantiene la fama egregia di spazio privile-
giato nel buon quartiere della nuova borghesia *. La costruzione di un sistema teatrale articolato, sul modello di quello fiorentino, comprendente il modulo del gran spettacolo di corte, l'apparato cerimoniale e festivo, il teatro dei comici, fu l'ambizione, non priva di intenzioni politiche, di Maria dei Medici. In tale sistema, mentre il Palazzo del
Louvre, il Petit Bourbon, la sala dell'Arsenal restaurata da Sully, il ca-
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stello di Fontainebleau accoglievano i grandi balletti destinati all’élite (un po’ come il sistema fiorentino di Pitti e Uffizi), e mentre la Place Royale veniva arredata per accogliere le grandi prosopopee di folla e di potere (che si celebreranno infatti con i ludi del Carrousel nell’a-
prile del 1612, nell’imminenza delle nozze spagnole dei due figli di Maria), le compagnie di mestiere più qualificate, una volta prestato servizio nelle sale dei palazzi, scendevano all’Hétel de Bourgogne e fino alle sale minori svolgendo un ruolo di intrattenimento, e di occupazione, capillare della nuova città che si stava ridisegnando. Come bene riassume il veri vidi vici dell’Arlecchino Tristano Martinelli: Subito gionti a Parigi Sua Maestà ne menò a Fontanabeliò, stasimo là sino a San Martino, fasimo comedie alla stanza tutto il carnevale, et tute le sere recitavamo al Lovre”.
Regnando Enrico e anche subito dopo, durante la Reggenza di Maria, fermentavano in piazza istinti torbidi e regressivi, retaggio di una tradizione antica che il superamento compromissorio della sfida religiosa aveva soffocato ma non spento. Sotto le ceneri sparse da una monarchia che intendeva fondare il nuovo stato di Francia, liquidando i legami con il Medio Evo, covavano le fiamme di un incendio barbarico solo represso. Sul Pont Neuf, in Place de la Grève, alla Foire Saint-Germain, i gesti, le azioni e le parole dei performers solitari erano nello stesso tempo spettacolo e movimento politico, frammenti concitati di una comunicazione politica antagonistica e richiami a un rituale non ancora del tutto perduto. E quel rito-spettacolo sarebbe esploso in tutto il suo furore nel supplizio di Ravaillac (1610) e nello
scempio del cadavere di Concino Concini (1617), cosî come nel processo per stregoneria e nella esecuzione di Eleonora Galigai (1618) *. Maria e il suo entourage fiorentino avevano intuito, prima che fosse troppo tardi, che quei fuochi potevano essere domati ed esorcizzati ricorrendo agli strumenti che la dinastia medicea aveva adoperato su larga scala. Da una parte la geniale messa in spettacolo del comportamento rituale all’interno delle cerimonie regali, con la riconversione di queste da un ambito propriamente performativo a una dimensione rappresentativa: i casi più clamorosi furono senz’altro quello del sacre e couronnement di Maria, il lit de justice di Luigi XIII, i funerali di Enrico IV, il sacre del nuovo re (celebrati tutti nel corso del 1610) che se-
gnano «il passaggio da una ritualità ancora medievale a quella dello stato moderno »”. D'altra parte, il processo di laicizzazione e monda-
nizzazione della corte, secondo i riferimenti che in terra francese era-
no stati diffusi dalla cerchia italiana a partire dall’epoca di Francesco
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I in poi, prevedeva il definirsi di una classe di cortigiani fedeli, educati al lusso e allo spreco rinascimentale di cui il teatro ben fatto era una delle discipline fondanti. A corte o in città insomma la regina italiana a Parigi, se voleva rafforzare il suo peso politico, doveva allargare il pubblico di fedeli spettatori e contemporaneamente sottrarre forze alla piazza. L’Hétel de Bourgogne (che sarà più tardi affiancato dal Théàtre du Marais nella promozione sincronica di un pubblico nuovo e dei suoi «auteurs», Molière e Corneille) ‘ era uno dei principali luoghi in cui potevano essere adunati e gratificati, secondo la tecnica dell’autocontemplazione indotta di matrice fiorentina, i futuri cortigiani della moderna monarchia francese; grazie al teatro si sarebbe potuto separare la cittadinanza educata da quella irrecuperabile, involta nell’insofferenza incolta e plebea che allignava nel mercato tra patiboli, delitti e mostra della miseria. Anche geograficamente la separazione del teatro dalla piazza era sensibile, stante la collocazione dell’Hétel de Bourgogne molto all’interno della rive droite e molto lontano dai bordi della Senna su cui germinava la populace della Grève e della Foire Saint-Germain. Con questo disegno Maria, quasi a introdurre un calmiere del gusto, a dispetto dei comici francesi, invitò più volte gli attori italiani: nel 1600 parteciparono alla celebrazione delle sue nozze i Desiosi con Flaminio Scala, Pier Maria Cecchini e Tristano Martinelli; tra la pri-
mavera del 1603 e il giugno del 1604 giunsero i Gelosi di Francesco e Isabella Andreini (che sarebbe morta sulla strada del ritorno), tra l’in-
verno del 1607 e l'autunno del 1608 fu la volta di Pier Maria Cecchini e dei suoi Accesi; tra il settembre del 1613 e il luglio del 1614 toccò ai Fedeli di Giovan Battista e Virginia Andreini, rafforzati dal solito Arlecchino Martinelli; a partire dal novembre 1620 e fino a tutto il 1622 tornarono ancora gli uomini dell’Andreini a celebrare l’avvenuta, momentanea riconciliazione della regina madre con il figlio Luigi XIII *. Durante quelle tournées non mancarono gli incidenti e i conflitti ‘commerciali’ tra italiani e francesi, anche perché i nostri commedianti erano vistosamente favoriti dal trattamento della corona. Come si è detto essi recitarono in tutti i livelli del sistema teatrale di Maria. Inoltre se nel 1608 Pier Maria Cecchini passò seri guai nel tentativo di fare rispettare i diritti di esazione dei comici sui palchetti ‘, nel 1613 la regina Maria aveva provveduto lei stessa ad affittare l’Hétel de Bourgogne per Martinelli e Andreini onde restaurare una qualche vita teatrale nella sala che si era completamente svuotata a causa del clima di sospetto e tensione seguito ai sanguinosi avvenimenti del 1610. Il teatro era chiuso dalla primavera del 1612, i professionisti italiani
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non volevano sottostare ai taglieggiamenti dei Confrères de la Passion, la regina non si contentava delle recite date a palazzo, voleva che gli spettacoli della principale «stanza» di Parigi distraessero il pubblico pericolosamente attratto dalla piazza: «La legittimazione del governo regale non poteva fare a meno dell’apoteosi matrimoniale, del romanzo guerresco simulato nella Place Royale, ma neanche della sua più bassa appendice arlecchinesca. Per quanto meccanicamente perseguito, più per riflessi culturali condizionati che per teorica consapevolezza, il disegno di Maria presupponeva un sistema. E non ci poteva essere sistema senza la cattura, a corte e all’Hétel de Bourgogne, dell’alterità magica e stregonesca di Arlecchino e soci. Quel frammento di spettacolo, una volta escluso dal sistema, sarebbe pericolosamente rimasto, potenzialità inespressa destinata a manifestarsi presto o tardi, a fermentare in Place de la Grève fino alla prossima performance espiatoria. L'appello ai comici della madre patria era quasi il ricorso a un esorcismo tutelare, garantito da un Arlecchino ormai trasformato da nume inferico in professionista » *. Ma era anche un gesto impresariale. La trattativa durò mesi, la regina si fece mediatrice nei confronti dei Confrères, pagò l'affitto e salvò il sistema teatrale parigino dal collasso “. L'attivazione del mercato della scena, in un luogo garantito e controllato, era ancora una volta dovuto a una elargizione mecenatesca e illuminata. 4. La strategia di Maria, lo abbiamo già detto, era esemplata su quella degli avi fiorentini. Qui la creazione di un teatro pubblico era avvenuta in maniera più consapevole, con ponderate cautele e con misurate deliberazioni, sulla scia di un’esperienza raffinata, propria di una dinastia da più di un secolo consapevole della funzione dello spettacolo nell’esercizio del potere e del governo sulla città. Analoga la congiuntura che, come a Madride a Parigi, sollecitò la messa a punto di nuovi interventi. La solita turbolenza demografica, la crisi mercantile e daziaria, la ristrutturazione urbanistica del centro della città. Fenomeni già osservati nelle due grandi capitali, ma meno urgenti, tenuti sotto controllo, nella parte finale del secolo, da un potere saldamente accentrato. Soprattutto Ferdinando I riusci a ordinare prima dei colleghi francesi, spagnoli e veneziani, grazie alla collaborazione di un impareggiabile st4/f di architetti e iconologi, un sistema totalizzante di spazi teatrali complementari, capaci di ‘rappresentare’ le diverse gradazioni della società al suo occhio onnicomprensivo di principe sovrintendente. Quanto il sistema parigino fu il consuntivo di un
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equilibrio spontaneo di controspinte sociali, altrettanto quello fiorentino fu il risultato di un programma maturato all’interno di un prodigioso e anonimo artefice collettivo: l'apparato di corte. Un sistema di funzionari che sono allo stesso tempo le antenne dei mutamenti sociali, gli informatori del principe, i terminali della sua volontà e gli elaboratori empirici di adeguamenti organizzativi. La vendita del teatro è una creatura di questa intelligenza basata sulla divisione delle competenze e sulla cooperazione delle classi, oltre che sulla capacità di monetizzare ogni anfratto della compagine sociale e urbana. A Firenze il Teatro della Dogana (o di Baldracca), situato sul retro
del lato ovest della fabbrica degli Uffizi, era adiacente alle due aree urbane tipiche dello spettacolo mercantile cinquecentesco, quella ‘portuale’ e quella monumentale. Tra tabernae, «alberghi», «botteghe» e «magazzini» 10, 14
di biadaioli, tintori, maniscalchi, fornai, case di
«puttane», sappiamo che il teatro occupava i locali di un grande edificio di proprietà della Magistratura portuale. Al piano terreno dell’edificio si trovavano le botteghe, al primo piano i magazzini, al secondo piano c’era appunto lo «stanzone delle commedie» ‘. Un’ubicazione che ha molte analogie con quella dei teatri veneziani, frammischiati ai bordelli e alle osterie ma vicini al «sacrario » dei dazi di Rialto. Il funzionamento del teatro è stato spiegato dagli studi più recenti che hanno proposto il 1576 come data d’inizio dell’attività. Ma l’interpretazione dei documenti non mi pare del tutto convincente. Le testimonianze conservate rivelano che solo con il passare del tempo, in anni successivi al 1576, matura una consapevole strategia nell’esercizio del commercio teatrale. Come se a una pratica consuetudinaria fosse seguita una più specializzata normativa. Inizialmente le suppliche che i comici rivolgono al magistrato, e che questi trasmette, mediante il segretario, allo stesso granduca, riguardano comuni questioni di ordine pubblico e mercantili. Il fatto che il destinatario delle domande dei comici fosse l'Ufficio della Dogana non significa automatica ammissione dell’esistenza, già negli anni Settanta, di uno stanzone di commedie dentro l’edificio daziario. Può essere invece che dalla pratica, obbligatoria per tutti i viaggiatori stranieri in arrivo, di rivolgersi alla magistratura doganale, sia derivata poi l'invenzione di un luogo permanente e protetto per l’esercizio dell’arte teatrale, gradito sia ai comici che al granduca, all’interno dei locali della Magistratura. Chiedendo l’esenzione dalle gabelle relative all'importazione di vesti e «robbe» in città i comici compivano uno dei tanti gesti che avrebbero loro consentito di aggirare la normativa vigente e che con il tempo li avrebbero distinti dai loro confratelli itineranti:
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con reverentia li domandano licentia di poter venire et appresso gratia di poter condurci et di poi alla lor partita averne i lor panni et arnesi, tanto per l’uso delle lor persone quanto delle comedie, usati, senza averne a pagare la gabella.
Poiché il funzionario granducale aveva chiesto ai commedianti di fare «una lista delle robbe», e la sua richiesta non era stata esaudita
dato che gli attori si trovavano in Lombardia, si stabilisce che «pagando dieci scudi di gabella così per l’entrata come per l’uscita, habbino gratia di tutti i loro arnesi usati» “. Minuziose descrizioni delle merci importate e del loro uso si leggono in numerosi altri documenti degli anni seguenti. Mentre permangono le misure contro le masse indistinte degli inurbati «inabili a lavorare», e si espellono «vagabondi, birboni, cantimbanchi, cerretani e simili (...) sendo mente delle Signorie loro che le limosine e opere pie quali si fanno in detta città e stato servino per li poveri di esso stato, e non per birboni e mendicanti che vengono a sfamarsi», altri venditori chiedono l’immatricolazione nell’Arte dei medici e degli speziali «per poter vendere in banco ogni sorta di merci sottoposte alla presente Arte» ‘. «Dai libri della matricola dell'Arte si ricava che dal 1592 al 1620 si iscrissero a essa 114 tra cantaimbanca, vendimbanca, montimbanca e ciurmadori, su un complesso di circa duemila immatricolati — una percentuale perciò superiore a quella delle altre specializzazioni, che nel frattempo si erano accresciute, diventando più di quaranta » “. È la conferma che la politica xenofoba si traduce in una nuova classificazione sociale e professionale. Alla fine del secolo la differenza tra chi vende false malattie, chi vende merci autorizzate e chi vende tecniche teatrali servendosi di false malattie e di merci autorizzate, è ormai consolidata.
La sanzione ufficiale della liceità della vendita del teatro deve tuttavia risalire a qualche anno prima, quando l’intervento architettonico del Buontalenti in un primo tempo sistemò il Teatro Mediceo degli Uffizi (1586) e poi riordinò e completò la parte posteriore del complesso di Palazzo Vecchio (1587) *. Un primo intervento nel quartiere era già stato programmato più di dieci anni prima: «Baldracca era, et è un’hosteria in Firenza vicino alla Piazza del Grano, ma starà ben poco a non esser più, perché l’Eccellenza del nostro Duca essendo ella quasi dirimpetto al suo Palazzo, la vuol far spianare e murare in tutti quei contorni edifizj e casamenti, dove si ragunino i Magistrati» ”. probabile, anche se non certo, che il riordino urbanistico intorno a Palazzo Vecchio e agli Uffizi dovette in qualche modo prendere posizione nei confronti degli usi e abusi che si praticavano nel quartiere di Baldracca. Il teatro, che nelle feste principesche del 1589, ospitate nella sala specializzata degli Uffizi, aveva vissuto la sua celebrazione
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gloriosa, erà comunque pronto, agli occhi del granduca, architetto e apparatore, a occupare gli spazi fisanati lasciati liberi dai traffici illeciti del quartiere di Baldracca e anche gli altri resi disponibili dalla contrazione dei traffici leciti di una mercatura declinante, che aveva
da qualche tempo spostato a Livorno il suo centro operativo”. Si legga l’istruttiva testimonianza datata 1594, rammentando che la registrazione consapevole di un evento è quasi sempre tardiva rispetto al prodursi iniziale di questo. Nel documento Girolamo Salimbeni detto Piombino, un ex attore, chiedeva al granduca «di concederli le stanze e camere che servono per servizio de’ comici che recitano l’anno nello Stanzone delle Commedie, con obligo, quando essi comici verranno a Fiorenza, di darle loro con il solito fitto se ne paga alla Dogana». La richiesta si fonda sulla constatazione che quelle stanze sono cadute in disuso: «atteso che dette camere stanno vote fuorché nel tempo che si recitano le commedie»; «sendo alte e scomode troppo a salirvi le balle di lana e simili mercanzie». La locazione sarebbe di « gran commodo a’ commedianti, perché non potendo essi stare tutti nelle prime stanze sono forzati, parte di loro, a stare sugli alberghi»; per poter meritare quel favore, il Salimbeni prometteva di «fare opera che venga ogn’anno a Fiorenza la meglio compagnia ». La trasformazione dei locali da magazzini a « camere locande» gestite dalla famiglia del Salimbeni potrebbe essere il punto d’arrivo finale di una metamorfosi della destinazione d’uso, cominciata qualche anno prima, registrata empiricamente dai funzionari e poi ratificata e sanzionata dal volere del principe, prima consentendo l’uso di quei locali per le rappresentazioni e poi anche per il ricovero dei comici ”. L’applicazione di un metodo principesco basato sul rispetto delle consuetudini e sulla trasformazione di queste in leggi, appare chiara in quello che è, se non vado errato, il primo documento che mette in esplicito collegamento i locali con l’uso teatrale. Non a caso è dell’ottobre 1589 e si richiama a consuetudini risalenti al 1587, l’anno della ristrutturazione urbanistica attribuita al Buontalenti. Il documento che riportiamo viaggia dal sovrintendente alla Dogana Francesco Biffoli al granduca e da questi ritorna con la firma del segretario granducale Giovan Battista Concini: Serenissimo Gran Duca,
Dallo stanzone dove li Comedianti recitano le Comedie, come membro di questa Dogana, è stato sempre solito trarne loro, nel tempo che ci stanno, il fitto di scudi uno il giorno. E perché l’anno 1587 Vostra Altezza Serenissima ne fece gratia a detti Comedianti, di poi l’anno passato 1588 tornai a ricordare a Vostra Altezza Serenissima se dalli detti Comedianti haveva da risquotere il detto fitto,
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Ella benignamente rescrisse Ricordisi l’anno futuro, et essendo comparsi qua li detti Comedianti quest’anno per voler recitare le loro comedie, et si è consignato le chiavi alla Signora Vettoria capo di detti Comedianti. Per debito di mio uffizio torno a ricordare a Vostra Altezza Serenissima quanto di sopra acciò ella si degni comettere quello le piacerà si facci et humilmente le faccio riverenza. Dell’Ufficio di Dogana il dî 8 di ottobre 1589. Di Vostra Altezza Serenissima Umilissimo Servitore
Francesco Biffoli
In calce al documento si legge per la prima volta una disposizione (corrispondente a una consuetudine forse vecchia di qualche anno) che prevede il versamento dell’affitto pagato dagli attori all'ospedale di San Giovanni di Dio in Borgo Ognissanti: «Faccesi pagare uno scudo il giorno il quale si dia per elemosina ai fratelli di Giovanni di Dio che hanno in Borgo Ognisanti»”. la messa in pratica del principio secondo cui l'elemosina «giustifica i peccatori» ”*, li riabilita, o almeno riabilita il loro lavoro, ri-
specchiando un metodo morale che la religione cristiana aveva preso a praticare alla fine del secolo xII, come testimonia uno dei primi autori di manuali di confessione, Tommaso di Chobham, che aveva giu-
stificato e considerato accoglibili le elemosine fatte dalle prostitute a vantaggio della Chiesa”. È la consuetudine che avevamo già incontrato applicata ai teatri di Spagna, ma che, evidentemente, doveva essersi diffusa rapidamente in tutte le città sottoposte alla influenza di Madrid, a cominciare da Barcellona. Oltre a Firenze, dove l’esazione poteva risalire anche al filospagnolo granduca Francesco (1574-87), forse interessato ad assecondare un costume della cattolicissima corona di Castiglia, l'usanza è documentata a Milano, Napoli e anche nei Paesi Bassi, parzialmente, quando non completamente, sottoposti all’influenza spagnola. A Napoli sappiamo per certo che la norma di esigere il pagamento dello jus repraesentandi in ogni teatro della città, a vantaggio dell’Ospedale degli Incurabili, risaliva a una disposizione del re Filippo II del 3 dicembre 1583: por parte de algunos napolitanos devotos de los Incurables d’esta ciudad, me ha sido suplicado que, tuviendo consideracion 4 que la necessidad de aquella casa es tanta, que, si muchas veces no fuese socorrida del de la Anunciada, no tendria
modo para poderla suplir, fuese servido mandar que, para los gastos que allî se hazen, se aplique la mitad del provecho, que se saca de las comedias, que se rapresentan en esta ciudad, con que el dicho Ospital ponga persona 4 posta, que cobre lo que assî se le adjudicare, conforme 4 lo que con otros ospitales se haze en la villa de Madrid, adonde reside mi real Corte”.
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La disposizione, espressamente ricalcata su quelle madrilene, fu esecutiva nel 1589. Il balzello a favore delle istituzioni filantropiche divenne permanente e riguardò anche le categorie dei «montainbanco, ciarlatani, bagattelle, circolatori, saltatori et ogn’altra persona che, con intartenimento o di strumenti da sonare o maschere, faccia-
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no popolo »”. A differenza delle confraternite di Madrid, l'ospedale di Napoli in principio non possedeva un proprio teatro (lo costruî solo nel 1621, con il nome di San Bartolomeo, 34 palchetti e 310 posti a sedere)”, il controllo sugli spettacoli cittadini fu quindi indiretto e l'applicazione dello jus repraesentandi si configurò più che altro come un provvedimento amministrativo. Infatti essendo lo jus, per quanto mimetizzato dietro le consuete preoccupazioni cattoliche, un puro e semplice balzello, esso divenne subito oggetto di appalti e subappalti. L’Ospedale degli Incurabili cedeva il diritto di riscuotere la parte di sua spettanza degli incassi quotidiani al migliore offerente, liberandosi cosî di ogni problema gestionale (quella «persona a posta, que cobre lo que assî se le adjudicare», che l'ospedale doveva incaricare della riscossione degli incassi). Le incomplete notizie di cui siamo in possesso indicano che all’inizio del Seicento «la mità di proventi di commedie» (o «affitto della mezza parte») era ancora ceduta ai soli comi-
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ci: tra questi c'erano Silvio Fiorillo conosciuto come Capitan Matamoros e il meno noto Carlo Fredi in arte Lutio Fedele”. Quest'ultimo pagava un diritto annuo all'ospedale in cambio della sovrintendenza su tutti gli spettacoli della città, il che significava la disciplina delle attività ciarlatanesche di strada, come anche di tutti gli spettacoli che si davano nei diversi teatri della città. Era la funzione artistico-poliziesca che abbiamo già visto operante a Mantova con l’Arlecchino Tristano Martinelli. L’appaltatore si teneva naturalmente una percentuale sugli incassi, in particolare su quelli relativi ai posti a sedere, di tutti i teatri; nel teatro in cui operava di persona doveva però pagare l'affitto della stanza ai proprietari (nel caso del Fredi, il teatro era quello di San Giorgio de’ Genovesi, di proprietà dei Governatori di quella chiesa). Sommando l'investimento per l’appalto (le fonti parlano di 600 ducati per il 1603) alla pigione del locale (pare di 18 ducati mensili all’inizio del secolo, di 20 nel 1619) “, si capisce che lo sforzo fi-
nanziario doveva essere non indifferente per il comico, che cercò di farvi fronte con la sua esperienza professionale: si unî infatti ad altri compagni di mestiere (tra questi, il più celebre fu il ricordato Fiorillo), stipulò brevi contratti di subappalto con altre formazioni, cercò di contenere il costo delle paghe degli attori”. Ma dopo la sua morte (avvenuta nel 1615, l’anno in cui gli ospedali
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di Madrid perdono il diretto controllo dei teatri e si apre anche in Spagna la nuova fase impresariale), si ha l’impressione che a Napoli gli attori non fossero più in grado di sostenere il peso dell’appalto del diritto di rappresentazione . Vennero allora allo scoperto figure che avevano prima agito nell’ombra, i protettori e finanziatori che con le loro attività collaterali (bisca, prostituzione, prestito a usura) avevano accumulato denaro ai margini dei teatri, e adesso, senza avere nessun rapporto di lavoro con la scena, lottavano fra loro per assicurarsi la concessione del desiderato appalto. Due i personaggi in questione. Uno è Vincenzo Capece, già protettore del Lutio, dotato di un capitale di circa 60 000 ducati e di un buon numero di «bravi» implicati in vari traffici malavitosi, tra cui, pare, anche l’uccisione dell’attore
Aniello Testa, in arte Aurelio “. Egli sostenne dapprima la società impresariale composta da tre attori (il Bertolino Natale Consalvo, il Coviello Ambrogio Buonomo, il Graziano Bartolomeo Zito) © che alla
morte del Lutio avevano rilevato il Teatro dei Genovesi e avevano continuato a subaffittarlo per alcuni anni a varie compagnie oppure a cogestirlo con queste “; poi intervenne in prima persona, attraverso
un'operazione edilizia che lo portò a costruire il nuovo teatro di San Giovanni dei Fiorentini (1618), poi affittato alla compagnia del grande attore settentrionale Pier Maria Cecchini e a molti comici spagnoli. L’altro proprietario, biscazziere, usuraio e paraninfo, era Andrea Della Valle che disponeva di una «stantia» nel quartiere della Duchesca, in prossimità di Castelcapuano, in un quartiere affollato, soprattutto nei giorni di tribunale, da gente di ogni risma, e di un’altra, meno nota, alla Porta della Calce, carrefour di stranieri e cafoni in cerca di alloggi e divertimenti: in queste due «stanze » egli investiva, senza bisogno di impresari mediatori, il suo denaro «tanto per apparato et vestiti, quanto per supplimento de’ recitanti»; gli attori riscuotevano paghe ogni quindici o trenta giorni e si impegnavano a recitare un repertorio concordato; il Della Valle incassava «tutti li denari che giorno per giorno, etiam le feste, tanto di porte, quanto di seggie, balchetti, corretori, et ogni altro guadagno (...) da dette Comedie et Opere debbiano pervenire». La rivalità spietata spinse i due impresari ad avventurose missioni al di là dei confini del Regno alla ricerca dei comici migliori “, ma anche a una lotta accanita per conquistare l’appal-
to del beneamato jus, con l’ausilio dei più classici prestanome °. La vittoria arrise al Capece, quando costui riuscî a ottenere la gestione, a partire dal 1626, del nuovo grande teatro di San Bartolomeo, che l’Ospedale degli Incurabili aveva fatto costruire nel 1621 a proprie spese. Quell’affitto era del tutto inseparabile dallo jus generale: perciò
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chiunque volesse rappresentare spettacoli in Napoli non solo doveva rivolgersi al Capece per l'autorizzazione, ma anche doveva farlo per ottenere l’affitto dei principali teatri cittadini, entrambi saldamente nelle mani dell’onnipotente impresario. Era un monopolio schiacciante, che avrebbe consentito un trapasso senza scosse dalla gestione cortigiana a quella imprenditoriale dello spettacolo napoletano del Seicento, secondo un fenomeno che fu positivamente riscontrato anche a Venezia nel corso dello stesso secolo grazie all’egemonia di poche famiglie, e in particolare dei Grimani. D'altra parte però, nel momento in cui si superava, almeno nella pratica, l’idea peccaminosa del teatro e del suo necessario risarcimento filantropico, e si consolidava l'affermazione dello spettacolo come autonoma attività commerciale, risultava più sorprendente il mancato riconoscimento della dignità degli attori. Anzi sembra quasi che l'autonomia del fare teatro venisse sostanzialmente legittimata, più che dal mestiere dei comici, dalla quantità di denaro che quell’attività era capace di attrarre, oltre che dal riconoscimento politico che la rendeva possibile con l’elargizione dei privilegi vicereali. Diventa esemplare il destino dei poveri attori Bartolomeo Zito e Ambrogio Buonomo, che già erano stati gestori e affittuari del Teatro dei Genovesi e anche del diritto di rappresentazione (e che nondimeno mai avevano smesso di recitare condividendo le condizioni di lavoro degli altri attori a contratto)”, e che nel 1621 ritroviamo come semplici salariati del potente Capece e del suo socio: Item li detti Capece et Sgambato siano tenuti che Bartolomeo Zito, Ambrosio Buonhomo et Andrea Calcese, Comici italiani, debbiano ogni dî che detti Comici spagnuoli rappresentaranno in detta stanza, fare un Intermedio (...). Et per causa di detto Intermedio faciendo da detti Comici, li detti [spagnoli] siano tenuti dare alli detti Capece e Sgambato alla ragione di carlini tredici, grana tre et un terzo per ciascuno di detti Comici italiani per ogni dî”.
La divisione del lavoro aveva ormai separato l’attività teatrale dalla sua gestione finanziaria e la figura dell’impresario era ormai distinta da quella dell’attore.
5. Non ci sono, per il momento, informazioni altrettanto ricche per altri paesi sottoposti al governo spagnolo. Una ricerca più attenta all’interno della legislazione relativa agli ospedali, agli orfanotrofi, ai ricoveri di mendicanti di molte città cattoliche (ma non solo), potreb-
be rinviarci utili insegnamenti anche sulla vita tetrale di quelle comunità. Per adesso basta qui ricordare qualche ulteriore notizia che
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conferma la validità dello spunto. Cosî in Catalogna, a Barcellona, appare strettamente derivato dal modello della capitale castigliana il privilegio concesso dal re Filippo III all'Ospedale di Santa Cruz: Que como las rentas, y entradas, que el dicho Hospital tiene, sean muy pocas, y grandes los gastos, que en él se ofrecen, por la multitud de pobres, y enfermos, que en él se recogen, padecen muy grandes necessidades, suplicandonos humilmente, que para algun remedio de ella, fuessemos servidos conceder, y otorgarlos, que llegando 4 la dicha Ciudad qualesquier Comediantes, 6 Representantes Comedias, no puedan representar aquellas, sino en la parte, 6 lugar donde el dicho Hospital, 6 sus Administradores se sefialaren, de manera que les pueda resultar el provecho, que en otras partes se podr4 aver, y suelen pagar, assî los que representan, como los que van 4 oîr las dichas Comedias. Y nos por consideracion de lo susodicho, lo avemos tenido por bien. Porende con tenor de la presente de nuestra cierta ciencia, y Real autoritad liberalmente, y consulta, concedemos, y otorgamos de gracia especial a los dichos Administradores, que aora son, 6 por
tiempo fueren de dicho Hospital General de Santa Cruz de la nuestra Ciudad de Barcelona, que siempre, que acudieren en ella qualesquier Representantes, 6 Comediantes de qualquier suerte, 6 condicion que sean, no puedan representar aquellas en ningunos lugares publicos, sino 4 donde les fuere sefialado por dichos Administradores: de manera que al dicho Hospital le resulten, y ayan de resultar todos aquellos provechos, que en otras partes se podrian aver, y han acostumbrado pagar, assî los representantes, como los que vàn 4 oîr dichas Comedias. Querémos, emperò, que no puedan ser representadas, sino aquellas, que primero fueren aprobadas por el Obispo, 6 Inquisidores de Barcelona ”.
Il costume è testimoniato anche nei Paesi Bassi. Da documenti d’archivio e dai registri contabili degli Ospizi di Bruxelles sappiamo che, nei primi decenni del secolo, era consuetudine dei magistrati cit-
tadini imporre una tassa di mezzo soldo su ogni biglietto d’ingresso agli spettacoli, e che sicuramente gran parte di quelle imposte finiva nelle casse degli istituti di beneficenza”. Analoghi rapporti fra regolamentazione del teatro e disciplina dell’assistenza sono documentati anche ad Amsterdam, qualche anno dopo, da un viaggiatore francese che li segnala a proposito degli attori dilettanti e popolari: «Ces comédiens [d' Amsterdam] ne sont pas entretenus comme les nostres, ny si relevez: ce sont des portefaix et gens de marine de mesme étoffe, qui son les personnages de l’un et de l’autre sexe; qui s’accordent entre eux, et donnentl’autre aux pauvres» ”. È curioso notare che anche dal bottino dei corsari francesi veniva effettuata una detrazione (nella misura di sei denari ogni «livre tournois») a vantaggio della Cassa degli Invalidi della Marina, mentre in Inghilterra la tassa andava all'Ospedale Militare di Greenwich ”. Sempre ad Amsterdam sappiamo che la «Duytsche Academie» fondata, tra gli altri, da Samuel Coster nel 1617, cedeva un terzo degli incassi delle rappresentazioni,
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una volta dedotte le spese, all’Orfanotrofio municipale che qualche anno dopo (1622) arrivò addirittura a comprare l’edificio in legno che ospitava il teatro per assicurarsi il controllo totale della rendita, che dovette però ben presto (1632) condividere con l’Ospizio dei vecchi, diventato proprietario di un terzo dell’impresa”. Nascerà (1637) di qui, grazie a un investimento di 20 000 fiorini dell’Orfanotrofio, il nuovo teatro in pietra, che avrebbe monopolizzato la vita spettacolare di Amsterdam per tutto il Seicento, limitando l’arrivo di troupes straniere, controllando i repertori”. Esazioni a favore dei poveri si segnalano tra 1608 e 1613 anche a Leyda e L’Aja”, mentre da Utrecht giunge la notizia, solo apparentemente di segno contrario, dell’allontanamento da parte degli Stati generali d'Olanda di comici forestieri dal refettorio dell’ospedale di Sainte-Catherine (Utrecht) dove erano stati accolti dai magistrati cittadini: ancora una volta gli spazi del teatro e dell’assistenza erano apparsi comunque intercambiabili ad alcuni tutori dell’ordine”. Tornando in Italia, ed in territori occupati dagli spagnoli, troviamo analoga concessione benefica rilasciata in data 20 giugno 1601, in nome del re di Spagna, da don Pietro de Acevedo, conte di Fuentes,
governatore dello stato di Milano, a vantaggio del Collegio delle Vergini Spagnole, fondato nel 1578. A tale pia istituzione, che accoglie le fanciulle orfane o trovatelle o bisognose di protezione dalle tentazioni del mondo, viene deliberato di versare « gli emolumenti che il Protofisico di questo Stato, o sia dell’esercito, è solito avere et godere dalli Comici, Ciarlatani, Montainbanco, Erborari et qualsivoglia altre persone, che con occasione di spasso o per qualsivoglia altra casone lo riconoscono»; per cui tutti coloro «che vorranno rappresentare, montare in banco, o in altra maniera esercire» dovranno rivolgersi agli amministratori dell’ospizio o a chi avrà in appalto la concessione di tale licenza”. Come si vede, la confusione dei mestieri regnava ancora sovrana nelle poco sofisticate menti dei legislatori spagnoli di Milano: venditori di specifici e commedianti erano accomunati, senza discrimine alcuno, fra i soggetti tassabili. Per fortuna il distinguo venne suggerito dallo stesso Protofisico milanese, Bartolomeo Assandri, il quale riteneva legittimo che gli venissero conservate le prerogative di controllo e di licenza per quanto riguardava la vendita delle «cose medicinali» a opera dei saltimbanchi, premurandosi di segnalare che riteneva opportuno fermare lî le sue competenze « non intromettendosi né in commedianti né in altri ciarlatani che non vendano cose medicinali». Era cosi resa evidente, nel negoziato delle parti sociali, quella distinzione tra saltimbanchi, buffoni e attori professio-
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nisti, a cui teoricamente e da tempo avevano aspirato i comici dell’Arte più illustri e battaglieri. In compenso, qualche anno pit tardi, nel 1611, altre entrate furono garantite al Collegio delle Vergini Spagnole: applichiamo alla detta Casa ossia Collegio delle Vergini, tutti gli emolumenti che perveniranno dalle cadreghe e banchette, che si provederanno nei luoghi dove occorrerà recitarsi commedie nell’avvenire sì in questo palazzo che in altre parti di questa città, et concediamo licenza agli amministratori di esso Collegio di deputare persona quale habbia cura di dare le dette sedie et riscuotere il pagamento di esse (...) alla persona che sarà deputata dalli detti amministratori, e non ad altri, sia permesso il provedere di frutta, vino et altro per rinfrescarsi, a quelli che anderanno a sentire le commedie.
Unica limitazione al privilegio, il calmiere dei prezzi dei biglietti che non dovevano superare i 5 soldi a persona per le recite ordinarie e i 10 per le straordinarie”. Come a Madrid, a Napoli, a Bruxelles e ad Amsterdam, l’istituzione di beneficenza deteneva in questo modo il monopolio di tutti i pubblici spettacoli, essendo sgravata delle spese grazie all'intervento del governo”. Sappiamo che poi, sempre in linea con quanto abbiamo visto negli altri territori spagnoli, la gestione e i carichi amministrativi della vita teatrale furono trasferiti, mediante contratti d’appalto, dal Collegio a singoli impresari. Costoro diventarono presumibilmente potenti come altrove, se il loro privilegio durò, come sembra nel caso di Antonio Lonati, per 46 anni dal 1628 al 1674 *. Sappiamo che l’impresario prendeva «in consegna le scalinate [posti a sedere probabilmente disposti a gradoni], palchetti, camerini et palco» *, riscuoteva oltre al prezzo « de las sillas y escabeles » anche il corrispettivo «de las licencias de los herbolarios, charlatanes y juegos de los lotes de la plaza del Domo»*, pagava anticipatamente alla Tesoreria del Collegio un affitto per il teatro e uno per i ciarlatani”, aveva il diritto « di far venir a suo beneplacito comici alla presente città di Milano a tutte sue spese, et far recitar comedie tutti li giorni permessi et anco di notte all’invernata, nel loco solito dove si recitano le comedie o in altro loco che occorrerà, da signarsi nella regia ducal corte» “; inoltre doveva sostenere tutte le spese necessarie agli allestimenti, poiché l’amministrazione del Collegio non era «tenuta a cosa alcuna verso li comedianti in materia di spese, onorarii et altro, solo che a dar licenze opportune per poter venire et prestarli quell’aggiuto et favore che stimarà conveniente». Il Collegio aggiungeva di non essere disposto «a far alcun restauro, né renunciare di fitto, venendo o non ve-
nendo i comici, né per qualsivoglia altro caso o accidente ancorché impensato (...), salvo che in caso di peste o guerra dentro la città (...) o
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che la città venghi assalita» ”. Fatta eccezione per queste catastrofi, il pagamento dell'affitto era inesorabile. Lo stato esattore, evitando di trattare direttamente con i comici, li allontanava da sé mediante il Collegio o l’impresario, li trasformava in mere funzioni economiche, in accidenti sociali inevitabili che esso cercava di rendere utili alla comunità. Trasformava quindi il teatro in merce. 6. Torniamo ora a Venezia, dove avevamo lasciato l'attore Che-
rea alle prese con le ripulse del Consiglio dei Dieci, che aveva gelosamente difeso le prerogative del sacrario urbano di Rialto. Proprio nei dintorni di quel recinto abbiamo la notizia della nascita dei primi teatri, e proprio negli anni in cui in tutta Europa si fissa il processo di regolarizzazione degli spazi destinati agli spettacoli: Sono poco discosto da questo Tempio due Theatri bellissimi edificati con spesa grande, l’uno in forma ovata et l’altro rotonda, capaci di gran numero di persone, per recitarvi ne’ tempi del Carnevale, comedie, secondo l’uso della città ”.
La notizia risale al 1581, quei teatri erano molto probabilmente recenti (si pensa risalgano al carnevale dell’anno precedente), appartenevano alle nobili famiglie Michiel e Tron, ed erano situati nella parrocchia di San Cassiano: il primo poco distante dal campanile della
chiesa, l’altro più nell’interno. Entrambi erano il risultato di restauri e ricostruzioni immobiliari dettate dall'esigenza di trasformare in investimenti più redditizi la normale affittanza di abitazioni private. I Tron e i Michiel operavano nella scia di altri patrizi veneziani che reagivano alla flessione dei profitti mercantili, all’inflazione successiva al 1560, alla crisi del grano e al conseguente inasprimento fiscale”, trasferendo gli investimenti dalla mercatura alle proprietà fondiarie e immobiliari di terraferma. Il fermento urbanistico riguardò anche Rialto con «l'ampliamento del circuito dell’isola e quindi della giurisdizione del mercato, con l'inserimento accanto alle altre tre, delle due parrocchie di San Silvestro e San Aponal» ”, e anche conila perdita del carattere circoscritto dell’isola daziaria e portuale. La parrocchia di San Cassiano dove furono edificati i due teatri, dovette partecipare alle conseguenze di quel riordino, trovandosi ai margini di Rialto. Non è da trascurare il fatto che l'intervento dei Michiel e dei Tron cadde nella zona «inhonestissima», occupata fin dai tempi antichi dal mercato della prostituzione, e che quindi, anche nei confronti di quel vistoso fenomeno, poteva costituire un gesto di ‘risanamento’, se non altro un atto di controllo in linea con l’ondata di moralizzazio-
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ne voluta dagli stessi gesuiti, molto attivi, come è noto, nell'ultimo ventennio del secolo. Éra il seguito e l'aggiornamento della politica di segregazione attuata per secoli nel ghetto di Ca’ Rampani, mentre un gigantesco sforzo di razionalizzazione urbanistica investirà, nel periodo immediatamente seguente, le istituzioni ospedaliere nuove e vecchie: nel 1594 sarà deciso di «serrare in un hospitale questi mendicanti sicome hanno fatto molte città d’Italia» ”; nel 1593 si costruirà una nuova sede per l'Ospedale del Soccorso aperto alle donne adultere o fuggite di casa; sul finire del secolo saranno migliorati il nuovo Ospedale delle Zitelle, la Pia Casa dei Catecumeni, l’Ospizio degli Incurabili e tutte le altre opere pie veneziane. Non è poi un caso che la realizzazione delle Nuove Prigioni sia datata 1581. Succede quello che già abbiamo visto a Madrid, a Firenze, a Pari-
gi, e che succederà anche a Genova dove l’Osteria del Falcone, luogo d’incontro promiscuo di attori e forestieri, farà la sua fortuna al confine tra il nuovo quartiere monumentale voluto dai Balbi e la zona del porto, disordinata e medievale, sfiorata dalla nuova strada del Guastato tracciata agli inizi del ’600*; oppure a L’Aja dove le due sale di spettacolo (in una scuderia e in un jeu de paume) funzionavano nella piazza semiabitata del Buitenhof, appena fuori (a ovest) della citta-
della del potere politico”. Lo stabilizzarsi di luoghi teatrali permanenti fiorisce lungo la linea d’ombra che segna l’espansione dei risanamenti urbanistici, nelle aree in cui si baciano le ultime propaggini della marginalità e gli esordi delle nuove fabbriche del centro monumentale. Due teatri, facilmente controllabili al pari degli ospizi, delle prigioni, dei bordelli e delle bische, rappresentarono il compromesso tra la linea antiteatrale e protezionistica sostenuta dai gesuiti, che si rifaceva al decreto proibizionista del 1508, e la linea festiva che si era manifestata soprattutto dopo la peste del 1575-77 per iniziativa del partito dei giovani patrizi. Ciò non impedî la chiusura delle due stanze, come nel settembre del 1581 quando il senatore Agostino Barbarigo ottenne un decreto in tal senso «vedendosi che in questa città non solamente vien dato ordinario ricetto alli comedianti, ma che li sia stato fabricato più d’un loco per recitar le loro inhonestissime comedie » *. Poco tempo dopo però lo stesso Consiglio dei Dieci dovette annullare la sua decisione, i teatri si riaprirono e «si fecero commedie a S. Cassian per gratificar li giovani Nobili» ”. Nonostante le alterne vicende e le lunghe chiusure i due teatri di San Cassiano riuscirono a ospitare anche le principali compagnie professionistiche italiane, dai Gelosi degli Andreini ai primi Confidenti di Giovanni Pellesini e di Vittoria Piissimi. Essi furono il ridotto (o se si vuole ‘la casa di tolle-
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ranza’) del teatro nuovo, mentre tutt'intorno provvedimenti di polizia tentavano di impedire l’accesso in città ai venditori di teatro:
«non debbano, nell’avvenire far, né far far comedie in banco di alcuna sorte, né in Piazza di S. Marco, né in altro luogo di questa città giu-
sta le parti altre volte prese circa il prohibere il far comedie » *. Le resistenze e le barriere innalzate dai gesuiti e dalla parte conservatrice del patriziato veneziano sarebbero cadute dopo il primo decennio del secolo, e in maniera più rapida che altrove, grazie alle prerogative economiche della città: l’esistenza di famiglie influenti presso le alte magistrature della città, disposte a intervenire con il proprio denaro e ipropri beni nella gestione dei luoghi teatrali; la certezza di una lunga stagione carnevalesca, che consentiva una vantaggiosa permanenza
delle compagnie e quindi investimenti pit redditizi da parte dei proprietari di teatri; l'assenza, almeno a quanto finora risulta dai dati archivistici, di imposizioni economiche, in apparenza moralistiche e nella sostanza fiscali, per chi si trovava a svolgere l’attività del venditore di spettacoli. L'analisi più ravvicinata del ‘caso’ Venezia consente di approfondire lo studio della mercatura teatrale, suggerendo utili misurazioni di questa in rapporto alla tradizione rinascimentale italiana.
1 G. D’Agostino, Città e monarchie nazionali nell'Europa moderna, in Modelli di città. Strutture e funzioni politiche, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1987, p. 404. Sul nesso tra vagabondaggio, istituti di repressione e di carità, si veda l’ormai classico M. Foucault, Storsa della follia, Il Saggiatore, Milano 1963. Ma cfr. anche J.-P. Gutton, La società e ipoveri, Mondadori, Milano 1977; B. Geremek, La réforme de l’assistence publigue au xv siècle et ses controverses idéologiques, in Domanda e consumi. Livelli e strutture nei secoli xm-xvm, Atti della «Sesta settimana di studio» dell'Istituto Datini, Olschki, Firenze 1978; R. Chartier, Figure della furfanteria. Marginalità e cultura popolare in Francia tra Cinque e Seicento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1984; La storia dei poveri. Pauperismo e assistenza nell'età moderna, a cura di A. Monticone, Studium, Roma 1985; B. Geremek, Mendicanti e miserabili nell'Europa moderna (1350-1600), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1985. In particolare su Firenze cfr. D. Lombardi, Povertà maschile, povertà femminile. L'ospedale dei mendicanti nella Firenze dei Medici, Il Mulino, Bologna 1988; su Venezia cfr. B. Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia cit., 1982, vol. I: Le Scuole Grandi, l'assistenza e le leggi sui poveri. Per uno sguardo d’insieme sulle diverse categorie di mendicanti cfr. F. W. Chandler, The literature of roguery, Houghton, Mifflin & c., Boston - New York 1907, vol. I; E. von Kraemer, Le type du faux-mendiant dans les littératures romanes depuis le Moyen Age jusqu’au xvir siècle, (collana «Commentationes humanarum litterarum»; t. 13, n. 6), Helsingfors 1944; pet l’Italia cfr. P. Camporesi, I/ libro dei vagabondi cit. Un suggestivo esempio, corroborato da riscontri cronologici quasi perfetti, di monumentalizzazione parallela di teatro e di ospedale, si riscontra a Vicenza, dove tra il1579 e il 1585 vengono costruiti, in sincronica armonia, l’edificio del Teatro Olimpico progettato da Palladio, e il complesso ospedaliero di San Valentino, la cui attribuzione non è ancora certa ma sembra rinviare, se non al Palladio stesso, a un ambiente a lui non estraneo; i rapporti tra le due fab-
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briche sono peraltro stabiliti in maniera non equivoca dal patrocinio garantito a entrambe dagli stessi illustri cittadini, veri e propri autori di un progetto ideologico urbano di compatta coerenza. Cfr. L. Puppi, Divagazioni al modo di un preludio, in La bottega di San Valentino, a cura di L. Puppi, Electa, Milano 1990, p. 14: «Sarà, allora, fuori di pertinenza, immaginare che, celebrato allo scoccar dell’ultimo giorno del carnevale, il trionfo della ricchezza nel riparo sontuoso e sfolgorante del Teatro Olimpico, gli autori e attori di quella cerimonia, si radunassero, poco dopo, in un giorno di penitenza quaresimale, a compiere il rito del trionfo della povertà, nel rifugio dimesso e oscuro dell’ospedale, alla cui preparazione simultaneamente s'erano affaticati? Quando si vadano a controllar nomi e cognomi, i conti sembrano tornare, tutti, con inequivocabile perentorietà». Sull'argomento si veda anche il documentato B. Rigon Barbieri, L’Ospedale dei mendicanti di San Valentino a Vicenza, Accademia Olimpica, Vicenza 1990. Quanto all'Olimpico si veda ora L. Magagnato, I/ teatro Olimpico, a cura di L. Puppi. Contributi di M. E. Avagnina, T. Carunchio, S. Mazzoni, Electa, Milano 1992. ? Tessari, Commedia dell’Arte cit., p. 40.
4 Si veda quello che ha scritto sull’argomento C. Molinari, nella Prefazione a P. M. Cecchini, Le Commedie. Un commediante e il suo mestiere, testo, introduzione e note di C. M., Bovo-
lenta, Ferrara 1983, pp. 5-13. ? R. Tessari, Comedia dell'Arte cit., p. 41. Ma cfr. anche S. Ferrone, Introduzione a Commedie dell’Arte cit., pp. 7-14. 6 La notizia, contenuta in M. Sanuto, Diarzî cit., vol. XLVII, col. 84, fu fraintesa da G. Dameri-
ni, I teatri dei poveri per la commedia del primo Cinquecento veneziano, in «Il Dramma», XXXVI (1960), n. 282, pp. 43-49, ma poi ripresa e chiarita da L. Zorzi, Il teatro e la città cit., pp. 321-22, nota 18.
? Cfr. M. Sanuto, Diarti cit., vol. VII, col. 243 (10 gennaio 1508): «la sera a San Canzian in Biri fo fato la demonstration di la comedia di Plauto dita Menechin. Fo bellissima. La fa Francesco Cherea»; ma cfr. anche s2:4., vol. XXXIII, col. 598 (21 febbraio 1517).
8 Oltre alle pagine che gli dedica L. Zorzi, Il teatro e la città cit., pp. 299-304, si vedano: G. Padoan, La commedia rinascimentale veneta, Neri Pozza editore, Vicenza 1982; R. Guarino,
Cherea, o le commedie nella città, in «Biblioteca Teatrale», nuova serie, n. 5-6 (1987), pp. 29-52. ? Il documento è datato 10 settembre 1508 e si trova in A. D'Ancona, Origini cit., vol. II, p. mu, nota I. 0 M. Sanuto, Diartî cit., vol. VII, col. 701.
l!! Cfr. D. Calabi e P. Morachiello, Ria/to. Le fabbriche del Ponte, Einaudi, Torino 1987, p. 13.
!? Cfr. ibid., pp. 16-40. Sempre vicino a Rialto si trovava il precedente Castelletto adibito al medesimo scopo fino al 1498. Sulla storia, anche topografica, della prostituzione veneziana si vedano soprattutto gli scritti di epoca positivista, come G. Tassini, Curiosità veneziane, sesta edizione con prefazione, note e aggiunte di E. Zorzi, Edizione Scarabellin, Venezia 1933 (1° ed. 1863). La segregazione delle meretrici, dei giocatori d’azzardo e degli intrattenimenti osceni costituiva a Venezia un unico dossier poliziesco. Sivedano ancora: G. B. Lorenzi, Leggi e memorie sulla prostituzione fino alla caduta della republica, Visentini, Venezia 1872; G. Tassini, Cenni storici e leggi circa il libertinaggio in Venezia dal secolo decimoquarto alla caduta delli Repubblica, Fontana, Venezia 1886; P. G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica, Lint, Trieste 1973’; (1° ed. 1880). Il rapporto molto stretto fra prostituzione e teatro (ai livelli più bassi) come quello tra le cortigiane, le attrici e i pittori che le raffigurarono nei quadri di argomento mitologico, non è stato ancora sufficientemente studiato. Tra gli studi recenti pit interessanti si vedano: P. Larivaille, La vita quotidiana delle cortigiane nell'Italia del Rinascimento. Roma e Venezia nei secoli xv e XVI, Rizzoli, Milano 1983 (1° ed. 1975); G. Masson, Courtesans of the Italian Renaissance, Secker & Warburg, London 1975; L. Lawner, Le cortigiane, Rizzoli, Milano 1988 (1° ed. 1987); Il gioco dell’amore. Le cortigiane di Venezia dal Trecento al Settecento, catalogo della mostra, Venezia, 2 febbraio - 16 aprile 1990, Berenice, Milano 1990.
Capitolo secondo
82 ib)
Il decreto, pubblicato il 31 dicembre nel Maggior Consiglio e il 3 gennaio 1509 a Rialto, si trova presso l’ASV, Consiglio dei Dieci, Misti, Reg. 32, c. 55v., ed è stato riprodotto, oltre che da A. D'Ancona, Origini cit., vol. II, pp. 13-14, anche da G. Padoan, La commedia cit., pp. 3839, nota 58.
Per l'Inghilterra e la nascita dei suoi teatri si vedano: E. K. Chambers, The Elizabethan Stage, Clarendon Press, Oxford 1923, 4 voll.; G. E. Bentley, The Jacobean and Caroline Stage, Clarendon Press, Oxford 1941-56, 5 voll.; The Revels History of Drama in English, edited by C. Leech and T. W. Craik, Methuen, London 1975, vol. III (in particolare il saggio di R. Hosley); G. Wickham, Early English Stage 1300-1600, Columbia University Press, New York 1963-72, 3 voll.; A. Gurr, The Shakespearean Stage 1574-1642, Cambridge University Press, Cambridge 1970. Per una sintesi delle diverse opinioni circa la fisionomia delle playbouses, cfr. M. D'Amico, Scena e parola in Shakespeare, Einaudi, Torino 1974. Interessante notare che il nesso tra la nascita di teatri permanenti (insieme alla definizione del loro funzionamento) e la soddisfazione di un bisogno diffuso di controllo sociale viene accettato anche dalla critica inglese, che tuttavia sottolinea prevalentemente la natura pratica ed economica del controllo. Cfr. ad esempio A. Gurr, The Shakespearean Stage cit., p. 82: « What was inJames Burbage’s mind when he set about building the first playhouse proper was probably above all the control it gave him over his audience. It enabled him to collect money at the door instead of going through the audience with a hat as travelling players did». Sull’urbanizzazione della capitale spagnola si veda l'ottimo T. Middleton, E/ urbanismo madrileno y la fundacién del Corral de la Cruz, in V jornadas de teatro clàsico espatiol. El trabajo con los clésicos en el teatro contemporaneo, Almagro, 1-24 settembre 1982, Direcciòn General de Musica y Teatro, Madrid 1983, vol. I, pp. 135-67. L(N Per queste notizie cfr. J. E. Varey e N. D. Shergold, Datos bistéricos sobre los primeros teatros de Madrid: contratos de arriendo, 1587-1615, in «Bulletin Hispanique», tomo LX (1958), pp. 73-95; ma cfr. anche, per gli anni seguenti, degli stessi autori idocumenti relativi ai periodi 1615-41 e 1641-1719, rispettivamente nel tomo LXII (1960), dello stesso «Bulletin Hispanique», pp. 163-89 e in «Boletîn de la Biblioteca de Menéndez y Pelayo», xXXIx (1963), pp. 95179. Più complessiva è la trattazione in Id., Teatros y comedias en Madrid: 1600-1650. Estudios y documentos, Tamesis Books, London 1971; ilvolume fa parte della collana «Fuentes para la historia del teatro en Espafia », per la quale i due citati autori hanno pubblicato anche i volumi relativi agli anni 1651-65 (ed. 1973), 1666-87 (ed. 1975), 1687-99 (ed. 1979). Si veda anche, sempre a cura degli stessi studiosi, Los arriendos de los corrales de comedias de Madrid: 15871719. Estudios y documentos, conla colaboracion de Ch. Davis, Tamesis Books, London 1987. Sul Corral del Principe cfr.J.J. Allen, The reconstruction of a Spanish Golden Age Playbouse. El Corral del Principe: 1583-1744, University Press of Florida, Gainesville 1983. Pit in generale utile è N. D. Shergold, A History of the Spanish Stage from Medieval Times until the End of the Seventeenth Century, Clarendon Press, Oxford 1967. Ma si veda soprattutto il più aggiornato e sintetico contributo miscellaneo Teatros del Siglo de Oro: Corrales y Coliseos en la Peninsula Ibérica, a cura diJ.M. Diez Borque, in «Cuadernos de teatro clésico», n. 6 (1991). La disposizione regia è del 15 aprile 1578, ma fu replicata, con analoghe considerazioni, il 2 gennaio 1592. Ancora più severa la risoluzione presa da una consulta diteologi convocata dal Consiglio di Castiglia per conto del re Filippo III nel 1600: «Que no se represente en la Universitad de Alcala y Salamanca porque en ella se distraen los estudiantes y se retrasan los estudios y ejercicios de letras (...) aunque se podra permitir que en las dichas universitades se pudiese representar en las vacaciones, para alguna recreacion de los estudiantes, pues en aquel tiempo cesa la razon de la prohibicion de ellas». I documenti sono citati in E/ Teatro Cervantes de Alcala de Henares: 1602-1866. Estudio y documentos, a cura di M. A. Coso Marîn, M.H. Sanchez-Pardo e J. $. Ballesteros, Tamesis Books, London 1989, pp. 16-17. 18 Si rimanda in particolare a quanto già ebbero a scrivereJ.E. Varey e N. D. Shergold, Datos histbricos cit., in particolare alle pp. 80-84.
=
Si rinvia al ricchissimo volume E/ Teatro Cervantes cit., che raccoglie i frutti di minuziose ri-
cerche cominciate nel 1981; ma degli stessi autori si veda anche M. H. Sanchez-Pardo, J. S. Ballesteros e M. A. Coso Marin, A/calé de Henares: un nuevo corral de comedias, in «Edad de oro», V (1986), pp. 73-106.
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83
?° Si veda a questo riguardo B. Vayssière, La Plaza Mayor dans l’Urbanisme Hispanique. Essai de typologie, in Forum et Plaza Mayor dans le monde bispanique, colloque interdisciplinaire (Madrid, 28 octobre 1976), par R. Martin [e altri], Editions E. de Boccard, Paris 1978. 2 Il protocollo notarile da cui sono tratte le citazioni relative alla costruzione del teatro è trascritto in E/ Teatro Cervantes cit., pp. 77-84, ed è datato 27 novembre 1601. Notizie di balzelli e benefici successivi sono fornite dalla Merzoria bistorica de lo ocurrido en el Teatro de la ciudad de Alcalé de Henares [... ], redatta da un talJosé Antonio Rayén e pubblicata ibid. pp. 239 sgg. Destinatari di successive percentuali sugli incassi sarebbero stati l’Hospital de San Lucas y San Nicolas e la Casa de Recogidas. ® Ibid., p. 82. 2 Cfr. S. W. Deierkauf-Holsboer, Le théatre de l’Hétel de Bourgogne, Nizet, Paris 1968, 2 voll. * La citazione è tratta dal decreto del Parlamento del 17 novembre 1548, riprodotto :5i4., vol. I, p. 24. ® Su questo intervento urbanistico si veda quanto racconta G. Corrozet, Les Antiguitez, histoires et singularitez de Paris, ville capitale du Royaume de France, Paris 1550, cc. 163-64, cit. in J.-P. Babelon, Nouvelle histoire de Paris. Paris au xvI° siècle, Association pour la publication d’une histoire de Paris, Paris 1986, p. 196: « Aussi furent baillez è bastir l’hostel de Flandres, où peu paravant avoient esté jouez les mistères du vieil testament, de la passion, et des actes des apostres: les hostelz de Bourgogne, et d’Artois, d’Orleans à Sainct Marceau». Ma cfr. anche :bid., pp. 228-209, i particolari dell’intervento di Francesco I nel quartiere di SaintEustache. Sulla sistemazione urbanistica seicentesca, a partire da Enrico IV, si veda invece R. Mousnier, Parigi capitale nell'età di Richelieu e Mazarino, Il Mulino, Bologna 1983 (1° ed. francese 1978), pp. 119-68. % Cfr. R. Chartier, Figure della furfanteria cit. Particolarmente ricca la bibliografia sulla politica nei confronti di poveri e marginali a Parigi: oltre ai citati lavori di Foucault, Geremek e Gutton, si veda l'importante Histozre de la France urbaine, diretta da G. Duby, Seuil, Paris 1981, vol. 3: La ville classigue de la Renaissance aux révolutions. 2Y È il testo del decreto del Parlamento di Parigi del 26 giugno 1577, citato in S. W. DeierkaufHolsboer, Le thédtre de l’Hétel de Bourgogne cit., vol. I, p. 26; per gli altri decreti cfr. ANP, X IA, 1963, c. 261; X IA, 1654, c. 67; X IA, 1588, c. 203.
Sull’argomento L. Roulland, La foîre Saint-Germain sous les rèégnes de Charles IX, de Henri IMI et de Henri IV, in «Mémoires de la Société de l’Histoire de Paris et de l’Île-de-France», tome III (1876), pp. 192-218. 2 Cfr. S. W. Deierkauf-Holsboer, Le théétre de l'Hotel de Bourgogne cit., vol. I, p. 38. 2 [3
» Ibid., p. 39. 3 Cfr. ANP, Minutier Central, fonds XXXV, liasse 377, cit. ibid., pp. 176-77. » Il contratto (cfr. ibid., pp. 173-74), siglato il 25 marzo 1598, prevedeva la spartizione al 50 per cento degli incassi e la conservazione dell’usufrutto di cinque palchi da parte della Confraternita: Jean Thais e i suoi compagni inglesi «prendront et recevront a leur proffict particullier tout ce qui sera donné par les personnes qui assisteront es dicts jeulx et comédies la premiere journées qu’ils joueront et les dicts doyen, gouverneurs, ce qui sera donné la seconde journée, et ainsy continuer, excepté que les dicts gouverneurs et doyen auront tousjours a leur proffict particullier les cinq loges qu’ilz ont accoustumé sans que lesdicts Thais et ses dicts compaignons puissent rien prendre, prétendre ne avoir sur ce qui cera donné par ceulx qui occuperont les dictes cinq loges». »_Si veda su questo ruolo di grande impresaria di Maria dei Medici il volume di S. Mamone, Firenze e Parigi cit.
% È un brano di T. Platter jr, Description de Paris (1599), edito a cura di L. Sieber, in «Mémoires de la Société de l’Histoire de Paris et de l’Île-de-France», tome XXIII (1896), pp. 167-224. » Cfr. R. Dallington, A Method for Travell. Shewed by taking the view of France. As it stoode in the yeare of our Lord 1598, Creede, London 1605. 3 Su sale secondarie di Parigi e jeux de paumes, cfr. S. W. Deierkauf-Holsboer, L’Histotre de la
mise en scène dans le théatre francais è Paris de 1600 è 1673, Nizet, Paris 1960. Sul calendario e
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la composizione delle troupes presenti all’H6tel de Bourgogne, oltre al già citato volume della Deierkauf-Holsboer, si veda G. Mongredien, Chronologie des troupes qui ont joué è l’Hétel de Bourgogne (1598-1680), in «Revue d’histoire du théatre», v (1953), n. 2, pp. 160-74. Per capire la reputazione del teatro, si veda quanto scriveva Pierre de L’Estoile, MémotresJournaux [1574-1611], publiés par Mm. Brunet [e altri], A. Lemerre, Paris 1878-96, in data 26 gennaio 1607: «Le vendredi 26 de ce mois fut joué à l’hétel de Bourgogne. Chacun disait que de longtemps on n’avait vu à Paris farce plus plaisante, mieux jouée, ni d’une plus gentille invention, mémement à l’hétel de Bourgogne, où ils sont assez bons coutumiers de jouer chose qui vaille ». 3I
3:do
Lettera di Tristano Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Mantova, 9 settembre 1614, in ASMN, Gonzaga, busta 2731, fasc. 10, lett. 158, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 36. Su questo secondo episodio si veda quanto scrive, nel contesto della ricostruzione del rapporto tra sacralità del potere e rito-spettacolo in un ampio panorama diacronico, S. Bertelli, Il corpo del re, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, pp. 219-22. Piti in generale sul carattere purificatore delle esecuzioni dei Concini un accenno si trova in S. Mamone, Firenze e Parigi cit., pp. 167-68.
Ibid., p. 173. 4 to) Cfr. S. W. Deierkauf-Holsboer, Le Thédtre du Marais, Nizet, Paris 1954, vol. I. 41 Informazioni su questi viaggi dei comici italiani in Francia si trovano, oltre che nei citati lavori della Deierkauf-Holsboer e della Mamone (pp. 151-62 e 247-56), in A. Baschet, Les comédiens italiens è la cour de France sous Charles IX, Henri III, Henry IV et Lowis XIII, Plon, Paris 1882 (ristampa anastatica Slatkine, Genève 1969) e inJ. Fransen, Documents inédits sur l’H6tel de Bourgogne, in «Revue d’histoire littéraire de la France», xxxIV (1927). n. 3, pp. 321-55. 42 Sulle disavventure del Cecchini si vedano A. Baschet, Les comédiens cit., pp. 171-82; S. Mamone, Firenze e Parigi cit., pp. 158-61; C. Burattelli, Borghese e gentiluomo cit., p. 41, nota 2. Ancora sul Cecchini e questo episodio cfr. più avanti capitoli terzo e quinto. 4 Mamone, Firenze e Parigi cit., p. 253. Nella copia, in traduzione italiana, della lettera che Maria dei Medici scrisse a Tristano Martinelli il4 settembre 16127 (in ASMN, Gonzaga, busta 628, c. 1367) si legge: «et fatte che presto si partino sotto queste promesse: che non havranno niente da contrastare, nemmeno voi con l’hétel de Bourgogne». Il fatto che «pourla ville la Reine leur a loué l’Hétel de Bourgogne» è segnalato da Malherbe nella lettera a Peiresc del 15 settembre 1612, in F. Malherbe, Euvres, Gallimard, Paris 1971, p. 581. 45 Per una congetturale ricostruzione degli edifici del quartiere di Baldracca si vedano i documenti dell’ASF (Capitani di parte, £. 1803, Descrizione delle case e botteghe poste nel quartiere diSanta Croce nel 1650, c. 23r; Capitani di parte, £. 1804, Descrizione delle case e botteghe poste nel quartiere di Santa Croce nel 1662, c. 20, e altri ancora) citati da A. M. Evangelista, I/ teatro dei comici dell’Arte cit., pp. 72-75 e note relative. RE Cfr. ASF, Dogana di Firenze, £. 218, supplica n. 147, dell'8 e 9 settembre 1578. 4 di Il primo bando, datato 2rluglio 1590, è pubblicato da L. Cantini, Legislazione toscana raccolta e illustrata, Stamperia Albizziana, Firenze 1800-08, vol. XIII, pp. 162-63; per ia seconda notizia cfr. Liber di matricole verde del Arte de Medici et Speciali di Firenze, in ASF, Medici e Speziali, 14, citato da C. Molinari, Prefazione a P. M. Cecchini, Le Commedie cit., pp. 9-10 e note. Ibid., p.10. 3 vd
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50 51
Si veda quanto si registra, in data 15 dicembre 1587, in ASF, Manoscritti, f. 130: F. Settimani, Memorie fiorentine dell’anno 1532 che la famiglia de’ Medici ottenne l’assoluto principato della città e dominio fiorentino fino all'anno 1737 in cui la medesima famiglia mancò, vol. V, c. 12. B. Varchi, L’Ercolano, Giunti, Firenze 1570, p. 294. Sulla crisi dell'industria fiorentina e sulla flessione degli scambi cfr. P. Malanima, Industria e agricoltura in Toscana fra Cinque e Seicento, in «Studi Storici», xX1 (1980), pp. 281-309; Id.,
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L'industria fiorentina in declino fra Cinque e Seicento: linee per un'analisi comparata, in Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del ‘500, Atti del Convegno Internazionale di Studio (Firenze 9-14 giugno 1980), a cura di G. Garfagnini, Olschki, Firenze 1983, vol. I, pp. 296-308; J. Goodman, Tuscan commercial relations with Europe, 1550-1620: Florence and the european textile market, ibid., pp. 327-41. Sul ruolo di Livorno cfr. Atti del Convegno « Livorno e ilMediterraneo nell’età medicea» (Livorno, 23-25 settembre 1977), Bastogi, Livorno 1978; D. Matteoni, Livorno, Laterza, Roma-Bari 1985.
Per tutte le citazioni cfr.: lettera di Francesco Biffoli a Ferdinando I dei Medici, da Firenze, 3 aprile 1594 (ASF, Dogana di Firenze, £. 226, supplica n. 175); letteta di Girolamo Salimbeni detto Piombino a Ferdinando I dei Medici, da Firenze, 8 dicembre 1594 (ivi, Mediceo, f. 853, c. 6367); lettera di Girolamo Salimbeni a Ferdinando I dei Medici, da Firenze, 7 luglio 1595
(ivi, Dogana di Firenze, £. 226, supplica n. 175). 53
Ivi, f. 221, supplica n. 276 dell’8 ottobre 1589.
54 Cfr. M. Marulo, Opera di M. M. da Spalato circa l’institutione del buono e beato vivere, secon-
do l’essempio de’ santi, del Vecchio e Nuovo Testamento [...], Bindoni, Venezia 1580, c. 8: «O
Gran Virtù della Limosina. Ella santifica i Ricchi, fa beati i poveri, giustifica i peccatori, fa gloriosi i giusti, suscita i morti, e fa immortali, i mortali». Cfr. su questo tema il fondamentale J. Le Goff, Méwiers licites et métiers illicites dans l’Occident médiéval, in Pour un autre Moyen Age. Temps, travail et culture en Occident: 18 essais, Gallimard, Paris 1977, pp. 90-107; per un approfondimento del motivo in area iberica, con riferimento allo specifico mestiere teatrale, cfr. anche J. Hernando, Los moralistas frente a los espectàculos en la Edad Media, in El teatre durant ’Edat Mitjana i el Renaixement, Actes delI simposi internacional d’Histéria del teatre (Sitges, 13 i 14 d’octubre de 1983), Publicacions i edicions de la Universitat de Barcelona, Barcelona 1986, pp. 21-37. Il documento è citato in B. Croce, I teatri di Napoli cit.; p. 36. Per questa notizia, desunta dal contratto stipulato dai Governatori degli Incurabili nel novembre 1639, cfr. U. Prota-Giurleo, I teatri cit., p. 134. Cfr. ibid., pp. 121 sgg. Cfr. ibid., p. 20 e B. Croce, I teatri di Napoli cit., p. 37. Cfr. capitolo primo, pp. 1-12 e Appendice, I. 1. Cfr. il contratto fra Lutio Fedele e Andreano Fani, del 9 dicembre 1603, in ANN, Notaio G. B. Cotignola, anno 1603, fol.266, e il contratto a firma di Natale Consalvo, del 29 maggio 1679, ivi, Notaio G. L. de Divitiis, anno 1619, fol. 284, cit. in U. Prota-Giurleo, I teatri cit., rispettivamente alle pp. 15-17 e 75. 62 Per il subappalto si veda il citato contratto del 9 dicembre 1603: «l’utile et lucro che si cava da dette sedie, palchi, palchetti et corretori, sarà di detto Lutio, il quale ha fatto il tutto a sue spese, contentandosi detto Lutio che per li ducati seicento anticipati che detto Lutio paga alli Incurabili per l’affitto delle Commedie, la Compagnia paghi della comune cascetta per quel tempo che si accomoderà detta stantia avante. Item perché quelli giorni che non si potrà recitare per l’impedimento del mettere all’ordine et che starà occupata detta stantia, si paghi della comune cascetta al detto Lutio ducati 4 al giorno, per le spese che correno ordinariamente a detto Lutio, oltre al affitto delli Incurabili» (124., p. 17). Le spese erano divise a metà, e cosf anche l’incasso della «porta». Vari contratti con singoli attori sono riportati :bid., pp. 13-23. 6.ed Negli stessi anni, con una coincidenza forse non casuale, sembra che anche a Mantova venisse messo in discussione il sistema di gestione della piazza e dei mestieri ambulanti, vigente fino a quel momento (cfr. Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 30-33, 35 € 37). Sul delitto ai danni di Aniello Testa, cfr. U. Prota-Giurleo, I teatri cit., pp. 69-70. 6dì Bartolomeo Zito era molisano e noto fra gli accademici Risoluti come il Tardacino. Pubblicò nel 1628 un commento in napoletano alla Vasasseide di Giulio Cesare Cortese. Insieme al Buonomo è ricordato da P. M. Cecchini, Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita cit., pp. 32-34, come ottimo attore. Lavorò anche con Fiorillo (anche lui membro della stessa accademia) a cui dedicò un sonetto che figura nell'edizione di S. Fiorillo, L’amzor giusto, egloga pastorale in napolitana e toscana lingua, Stigliola, Napoli 1604, p. 10. Fu cultore di storia e di poesia, collezionista di libri rari. L. Allacci, Drammaturgia, Pasquali, Venezia 1755, col.
Capitolo secondo
86
583, gli attribuisce varie opere: I/ Corrado, overo presa di Napoli; La crudeltà di Medea; La Gierusalemme liberata ridotta in rappresentazione drammatica in tre giornate; La Lucretia romana; La pazzia d'Orlando; Polifemo overo Galatea. Su di lui cfr. P. Albino, Biblioteca molisana ossia Indice di libri ed opuscoli pubblicati fino al 1865 da autori nati nella provincia di Molise, Colitti, Campobasso 1865, p. 40; Corrispondenze, I, Fiorillo, lett. 8, nota 1 (a cura di D.
Landolfi). Quanto al Buonomo sappiamo che era napoletano, attivo forse fin dal 1589, e che mort intorno al 1646. Nel ruolo di Coviello fece sempre coppia con l’altro zanni Andrea Calcese. Pare fosse eccellente negli intermezzi. Su di lui cfr. A. Zapperi, Buonomzo Ambrogio, in DBI, vol. XV, pp. 275-76. Per un contratto di subaffitto si veda quello stipulato fra Bartolomeo Zito e Natale Consalvo da una parte, e la compagnia di cui era membro Silvio Fiorillo dall’altra, in ANN, Notaio G.
L. de Divitiis, anno 1615, fol. 510, cit. in U. Prota-Giurleo, I teatri cit., pp. 27-28; per la cogestione cfr. il contratto del 9 marzo 1618, in ANN, Notaio Giulio Capaldo, anno 1638, fol. 80, cit. ibid., pp. 37-40. 67
Cfr. il contratto del 10 novembre 1617, in ANN, Notaio Marcello Gaudioso, anno 1677, fol.
614, cit. ibid., pp. 49-50; tra gli attori scritturati figura il futuro celebre Pulcinella, Andrea Calcese. Fu Andrea Della Valle a promuovere una spedizione alla ricerca di talenti fuori del Regno insieme al comico Aniello Testa nel 1616, « con il quale è andato in Roma per ritrovare Comici per condurli in Napoli per rappresentare Commedie, dove non hanno possuto haverli et se ne sono ritornati in Napoli»: cfr. ;bid., p. 33. 6d
L’appalto del 1625-29, che segnò la vittoria del Capece, fu in realtà assegnato a Bartolomeo Zito; l'attore però, secondo quanto si legge in un documento del 5 giugno 1626, riprodotto ibid., pp. 92-93, «non ce have havuto né have eccetto che il nudo et assoluto nome tantum».
7ò
Pur titolare dello jus repraesentandi, Natale Consalvo risulta insieme ai soci Bartolomeo Zito e Ambrogio Buonomo nella lista degli attori scritturati, e ricevono rispettivamente « una parte», «una parte e tre quarti», «una parte e un quarto » della somma degli incassi giornalieri: cfr. ibid., p. 39.
7=
Contratto fra Vincenzo Capece e Ottavio Sgambato, da una parte, e il comico spagnolo Francisco de Leon, del 20 aprile 1621, citato :0i4., p. 85; ma cfr. anche, per un’altra scrittura, ib:4., pp. 80-83.
72
Il documento, non datato, è conservato all’Istituto del teatro di Barcellona; devo la sua con-
sultazione alla gentilezza dello scomparso Xavier Fabregas, eccellente conoscitore di teatro e squisito ospite. 73
Cfr. A. Henne e A. Wauters, Histoire de la ville de Bruxelles, Périchon, Bruxelles 1845, tomo
II, p. 286; ma cfr. anche Archives des Hospices, R. 159. Comptes des enfants trouvés. Années 1613-14, c. 21, citato in H. Liebrecht, Histoire du thédtre francais è Bruxelles au xvI° et xvin° siècle, Champion, Paris 1923, p. 46 e note. 74
J. S. Le Laboureur, Histotre et relation du voyage de la royne de Pologne, Le Nain, Paris 1648,
p. 70.
76
Cfr. A. Toussaint, Histotres des corsaires cit., p. 15. J. A. Worp, Geschiedenis van den Amsterdamschen Schouwburg, 1496-1772, Uitgegeven met aanvulling tot 1872 door Dr. J. F. M. Sterck, van Looy, Amsterdam 1920, pp. 71-80; J. Fransen, Les comédiens francais en Hollande, Champion, Paris 1925. Cfr. P. Zumthor, La vie quotidienne en Hollande au temps de Rembrandt, Hachette, Paris 1990 (1° ed. 1959), pp. 228-30.
78
Cfr. J. Fransen, Les comédiens frangais cit. p. 44, menziona un documento dell’ Archivio municipale di Leyda del 16 gennaio 1608, in cui iborgomastri della città autorizzano spettacoli di attori francesi, fissando però il prezzo del biglietto d’ingresso a tre soldi a spettatore e chiedendo un’anticipata elemosina di trenta fiorini per i poveri; lo stesso studioso (ibid.) segnala
Le stanze del teatro
87
l’autorizzazione concessa il 23 novembre 1610 dalla Corte d'Olanda ad alcuni attori francesi
in cambio di un versamento di poco inferiore (venti fiorini); ancora inferiore (questa volta i
fiorini versati ai poveri di Leyda furono 25) il costo della licenza rilasciata nel 1613 a Valleran le Conte (ibid., p. 45).
Ibid., pp. 54-55.
81
8:d
ASM, Registri delle Cancellerie, serie XXI, n. 25, cc. 320-337, pubblicato in A. Paglicci Brozzi,Il teatro a Milano cit., pp. 15-17. Documenti inediti sul Collegio delle Vergini Spagnole, insieme a interessanti considerazioni sul teatro professionale a Milano si trovano in R. G. Arcaini, La commedia dell’arte cit. La petizione, o memoria, dell’Assandri è parzialmente riprodotta in A. Paglicci Brozzi, I/ teatro a Milano cit., p. 17; il 2 luglio del 1601 il Governatore accolse l'opinione dell’Assandri. Cfr. la concessione del governatore don Juan Fernandez de Velasco, del 26 ottobre 161, in ASM, Registri delle Cancellerie, serie XXI, n. 27, cc. 1231-1247, citata ibid., pp. 18-19. La concessione fu confermata nel 1616 e nel 1619: cfr. ASM, Registri delle Cancellerie, serie XXI, n. 29, cc.51-6r (27 gennaio 1616) e cc. 950-96v (28 marzo 1619). Sembra (R. G. Arcaini, La commedia dell’arte cit.) che «il palco per il recitar delle comedie»
fosse consegnato agli amministratori del Collegio da parte della Regia Camera, in modo che l'istituto non avesse «alcun carico di tali spese, [essendo] concesso l’emolumento senza alcun carico, per soccorrere le precise necessità di quella casa»: cfr. ASM, Spettacoli Pubblici, P. A., cart. 28, 22 luglio 1613. La notizia, insieme ai documenti che si citano qui di seguito, è riportata da R. G. Arcaini, La
commedia dell’arte cit.
87
Cfr. il contratto del 24 febbraio 1665, rogato dal notaio Crodario, in ASM, Spettacoli Pubblici, PaASscartitzo! Cfr. il registro contabile per gli anni 1643-50 intitolato Cassa del Collegio delle Vergini Spagnole, n. 2, conservato nell’archivio del Collegio, attualmente giacente presso l'Archivio Storico del «Collegio della Guastalla» a San Fruttuoso di Monza (Milano). La notizia sulla «obligacion de pagar anticipatamente cada mes» 660 lire «por las comedias» e 180 lire «por lotes y charlatanes», per cinque anni, «4 correr 4 calendas de henero del ano proximo passado », si trova in un documento del 31 gennaio 1643, ivi, c.Iv.
88
Contratto del 24 febbraio 1665, rogato dal notaio Crodario, in ASM, Spettacoli Pubblici, P. A., cart. 30.
Ivi. F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIII libri, I. Sansovino, Vene-
zia 1581, p. 75. Per la storia dei teatri veneziani basti rinviare a L. Zorzi, Il teatro e la città cit. pp. 235-326, e a N. Mangini, I teatri di Venezia, Mursia, Milano 1974 (ma dello stesso cfr. anche il più recente articolo Alle origini del teatro moderno: lo spettacolo pubblico nel Veneto tra Cinquecento e Seicento, in Alle origini del teatro moderno e altri saggi, Mucchi, Modena 1989, pp. 11-31). 9:2 Cfr. F. Braudel, La vita economica di Venezia nel xvI secolo, in Storia della civiltà veneziana, a cura di V. Branca, Sansoni, Firenze 1979, vol. II, pp. 259-69. 9:N D. Calabi e P. Morachiello, Ria/to cit., p. 167. 93 Cfr. ASV, Ospedali e luoghi pii diversi, busta 610, proc. n. 40, citato in Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna 1474-1797, a cura di B. Aikema e D. Meijers, Arsenale, Venezia 1989, p. 269; il volume è una trattazione sistematica della questione da un punto di vista architettonico e storico-artistico, contiene però anche un saggio di B. Pullan, La nuova filantropia nella Venezia cinquecentesca, più attento alle questioni di storia sociale. In generale sul riordino urbanistico di Genova all’inizio del Seicento, oltre allo scritto di Ivaldi (Gli Adorno cit.), più attento ai riflessi ‘teatrali’ dell'operazione, si vedano E. Poleggi eL.
Grossi Bianchi, La Strada del Guastato: capitale e urbanistica genovese agli inizi del Seicento,
88
Capitolo secondo in Dalla città preindustriale alla città del capitalismo, a cura di A. Caracciolo, Il Mulino, Bologna 1975, pp. 81-93; E. Poleggi e P. Cevini, Gezova, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 121-28.
% J. Fransen, Les comédiens francais cit., pp. 39-40. % Cfr. ASV, Consiglio dei Dieci. Comune, Reg. 36, c. 9. Cfr. MCV, Ms. Cicogna 2991/II, c. 28. % Cfr. ASV., Consiglio dei Dieci. Comune, Reg. 50, c. 19v (2 e 4 maggio 1600); tutte queste fonti sono citate in Mangini, I teatri di Venezia cit., pp. 21-22.
Capitolo terzo La mercatura teatrale e le corti
1. Venezia sarebbe dunque stata l’unica città italiana a non infliggere esazioni ‘punitive’ al teatro e ai teatranti. Delle due «stanze» segnalate in vita già nel1580-81 sappiamo che furono sottoposte alla sola tassazione ordinaria, peraltro di modesta entità '. Notizie più precise, insieme alla conferma dell’inesistenza di tasse speciali, si hanno invece per un terzo teatro attivo a partire dalla stagione comica 1613-14,
quando la liberalizzazione della vita teatrale veneziana era diventata pienamente operante dopo l’espulsione dei Gesuiti (1606). Si tratta del teatro di San Moisè, di proprietà della famiglia Giustiniani. Finora se ne conosceva l’esistenza e il funzionamento all’altezza del 1626; i documenti che abbiamo trovato ci consentono di stabilirne, con mi-
gliore approssimazione, l’anno di nascita*. La notizia è riportata in una lettera contenuta in un ampio carteggio intercorso tra Firenze e
Venezia, che, con una coincidenza non fortuita, segnala anche i primi movimenti di una compagnia di attori professionisti destinata ad avere grande fortuna fino al 1620: si tratta dei comici detti Confidenti, posti sotto la protezione di don Giovanni dei Medici, figlio illegittimo e versatile di Cosimo I’. I due avvenimenti risultano strettamente intrecciati e interdipendenti. Essi costituiscono due aspetti dello stesso fenomeno, destinati a sostenersi reciprocamente: l’apertura di un nuovo mercato (si tratta della terza stanza teatrale veneziana che si aggiunge a quelle dei Tron e dei Michiel) e il rafforzamento di una compagnia appena costituita (le prime notizie della nuova formazione sono della fine del 1613, ma sembra che il gruppo di attori si sia costituito per progressive aggregazioni a partire dalla quaresima dello stesso anno)‘.
Tornando al carteggio, i principali corrispondenti sono: da una
parte, a Venezia, Lorenzo Giustiniani’, proprietario del nuovo teatro, e il suo intermediario Orazio Del Monte; dall’altra parte, in Fi-
renze, don Giovanni dei Medici e il suo maggiordomo Cosimo Baroncelli. La prima lettera è del 18 gennaio 1614‘, proviene da Venezia,
90
Capitolo terzo
mittente Orazio Del Monte, destinatari (in Firenze) il Baroncelli e, tramite costui, don Giovanni: È stato fatto un teatro in questa città per recitar comedie migliore, più commodo et ornato di quello che Vostra Signoria sa che è a San Cassano, et è stato raccomandato alla protettione di Sua Signoria Illustrissima. Hora, havendo questo anno [si riferisce all’anno comico 1613-14] havuto concorso pienissimo, per l’anno venturo [anno comico 1614-15] desidera la compagnia, che si dice esser hoggi costà, che è di Battista Austoni, sua moglie, Ortensio, Marc’Antonio Romagnese, Fulvietto e tutto il resto”.
In procinto di partire, come Otello, alla volta di Cipro, dove morirà appena un anno dopo, il nobiluomo Del Monte si serve della mediazione di Cosimo Baroncelli per stabilire un accordo fra Lorenzo Giustiniani e Giovanni dei Medici: il negoziato, che chiamerà in causa altre persone, procede dunque dagli interessi di due non più giovani rampolli della nobiltà, uno impegnato da tempo nelle più alte cariche della repubblica veneta, l’altro coinvolto in tutti gli intrighi, internazionali e non, della casa medicea. Che il fine principale di quei maneggi fosse anche politico, qui non importa: i modi tenuti per raggiungerlo rispondono appieno alle nuove leggi della mercatura teatrale, oltre che a quelle un po’ più vecchie della diplomazia e della politica cortigiane. Le condizioni contrattuali offerte dal nuovo teatro sono del tutto straordinarie se confrontate con quelle delle altre stanze operanti in Italia. Il bisogno di procurarsi una delle migliori compagnie esistenti (o comunque una delle meglio tutelate da uno sponsor altolocato) spinge il proprietario del teatro a un’offerta particolarmente allettante. Un contratto quadriennale, percentuali sugli incassi molto migliori di quelle, già alte, offerte dal teatro di San Cassiano, uno dei più vantaggiosi: Di utile offerisce vantaggiar quella academia a l’utile che hanno dal teatro di San Cassano, che ciascuno di loro sa che in questa città si avanza più che altrove. Et se essi vorranno questo luogo per tre o quattro anni et più Sua Signoria Illustrissima glene concederà?*.
AI di là della propaganda interessata, il nuovo locale avrà fatto di tutto per apparire davvero « migliore, più commodo et ornato», pet vincere la concorrenza della stanza dei Tron, nel rinato liberismo dello spettacolo veneziano. Lo stesso Lorenzo Giustiniani prende la
penna per sollecitare il Baroncelli, 1’8 febbraio 1614:
acciò possino licomici venir allegramente, potrà Vostra Signoria molto Illustre dir loro che io li avantaggierò assai da quello che hanno quelli che qui recitano in
La mercatura teatrale e le corti
9I
San Cassano, poiché darò loro il loco libero [affitto gratuito], li darò l’utile delle ipglasi scagni, et delli palchi farò loro quella porzione che sarà giudicata ragguarevole?.
La percentuale o «porzione» spettante agli attori sul biglietto d’ingresso ai palchi sarà addirittura del 50 per cento («il signor illustrissimo Lorenzo Giustiniano ne dava la mità dei palchi») mentre risulta che i Tron, nel loro teatro di San Cassiano, solo qualche anno
dopo, offrivano ai comici appena il 25 per cento («il quarto di quello si cava delli palchetti»); i Tron concedevano anche loro l’affitto gratuito della stanza e affidavano alla compagnia la gestione del prezzo dei posti a sedere («le seggie»), ma si trattava di condizioni che spesso non venivano rispettate, e che sicuramente erano revocate al di fuori del carnevale, quando l’affitto della stanza poteva anche ammontare a due zecchini e la percentuale sui palchi scendere a zero: «nelli altri tempi è vero che si paga doi zechini il giorno e non ànno utile de’ palchetti»°. Ancora un palco su quattro sarà concesso ai comici Accesi dai Vendramin qualche anno dopo, al momento di inaugurare il loro teatro San Luca (1622); mentre la riscossione degli utili
«della porta, carieghe et scagni» era in quel caso bilanciata dalle spese per l’illuminazione, a carico degli attori ". Si ricordi che al teatro di Baldracca di Firenze i comici solitamente, tranne qualche eccezione *, non erano esonerati dal pagamento dell’affitto: questo, che doveva essere versato ogni settimana, sappiamo che ammontava a uno scudo nel 1589 ed era salito a uno scudo e mezzo nel 1594; qualora il locale prenotato non fosse stato effettivamente occupato dagli attori, questi dovevano pagare una penale che alla fine del Cinquecento si aggirava sui cento fiorini; non risulta che a Firenze venissero praticati gli sconti sugli affitti, tipici del carnevale veneziano, anche se è vero che la «pigione» fiorentina comprendeva il diritto di pernottamento ”. Per sottolineare il trattamento privilegiato del Giustiniani sarà bene ricordare che molti palchi fiorentini, se non tutti, erano riservati all’uso della corte e della famiglia medicea, e quindi non costituivano una fonte di guadagno per i comici (solo negli anni del pieno Seicento si introdusse l’abitudine di venderne alcuni) “; agli attori non rimaneva che la riscossione della «porta» (ingresso), il cui costo poteva arriva-
re fino a «mezza piastra», cifra elevata se confrontata con i cinque soldi che si domandavano a Milano ”. Si aggiunga, infine, che la compagnia non sempre era esentata dal pagamento delle imposte relative alla introduzione di merci straniere (costumi,
«robbe» necessarie per
lo spettacolo) dal momento che il teatro si trovava negli uffici della Dogana.
92
Capitolo terzo
Regole simili vigevano nel territorio spagnolo di Milano. In terra lombarda si è visto come i proventi relativi ai posti a sedere (« cadre-
ghe e banchette » per il pubblico di rango più elevato, i «travetti» per la plebe), ai palchi e al buffet di «frutta, vino et altro per rinfrescarsi» venissero incassati interamente dal Collegio delle Vergini Spagnole; l’unico introito certo per gli attori era l'ingresso, che però spesso il pubblico tentava e otteneva di non pagare “; in più si aggiunga che a Milano il prezzo del biglietto era calmierato e non poteva superare, salvo eventi del tutto eccezionali, i cinque soldi ”. Solo a Napoli vigevano, più verso il terzo decennio che all’inizio del secolo, pit nei confronti dei comici spagnoli che di quelli italiani, condizioni altrettanto vantaggiose. « Seggie, palchetti et corritori» (i diversi posti a sedere) potevano essere riscossi dalle compagnie in una misura oscillante tra il 50 e il 75 per cento, fatti salvi il diritto d’ingresso e la metà dei proventi del tradizionale buffet di frutta i cui incassi andavano ai proprietari dei teatri che dovevano rivalersi sulle compagnie per il recupero dei soldi sborsati per la tassa dello spagnolesco jus repraesentandi. I comici dovevano inoltre pagare l’affitto del teatro. Questo nel caso di un subappalto in cui la troupe si assumesse l’intero onere dell'impresa; nel caso di un contratto di pura prestazione d’opera, nessun balzello era dovuto dalla compagnia, ma tutte le entrate andavano all’impresario del teatro, che si limitava a pagare i rispettivi salari ai comici. Confrontate poi con le consuetudini dei teatri delle corti settentrionali le condizioni contrattuali offerte dalla stanza di San Moisè apparivano ancora più vantaggiose. In città come Ferrara,
Modena e Torino è probabile che l’uso della sala fosse gratuito, come anche il vitto e l'alloggio; ma non è certo che gli attori riuscissero sempre a ottenere il rimborso delle spese di viaggio e neanche la copertura dei costi di costruzione del palcoscenico (che spesso era provvisorio); si aggiunga che il pagamento del biglietto d’ingresso poteva essere lasciato, come a Ferrara, «a la discritione et concenzia di chi entrarà in comedia» *; lo stesso inconveniente di incassi fortemente decurtati è segnalato a Torino («In diece comedie si à fatto ducatoni 250, ma quasi tutti entrano con i prencipi a gratis») ”; rappresentazioni sciaguratamente (per i comici) elargite «a porte aper-
VA A
te» si potevano dare anche a Mantova dove pure la ricchezza del carnevale, durante il quale i Gonzaga avevano l’abitudine di concedere «tutt’i palchetti ai Comici», era quasi proverbiale, tanto che — si diceva — «non vi è compagnia, né si è per far compagnia, che non debba far capitale del carnovale di Mantova» ”. Uno dei due teatri probabilmente esistenti in città aveva annesso un «appartamento di sopra con
La mercatura teatrale e le corti
93
le comoditadi di cantina» ”, che consentiva, sull'esempio del fiorenti-
no teatro di Baldracca, di concedere ospitalità agli attori; se questi non erano però stipendiati dalla corte, dovevano sottostare a molte imposizioni, come la cessione di almeno un palco («camara della
stanza») al «Superiore» dei comici mercenari e il pagamento di una tassa («mezo ducatone») per ogni rappresentazione ”. Le aree caratterizzate da un protezionismo cortigiano ancora forte
interferirono nel processo di liberismo teatrale che si stava sviluppando a Venezia. Ne troviamo traccia sempre nell’epistolario che regola i rapporti di nobile ‘impresariato’ tra il Giustiniani e il Medici. La richiesta interessata del Giustiniani per una compagnia di valore come quella dei Confidenti si accompagnò a un’offerta non meno interessata: l’inserimento di due comici suoi favoriti nella troupe di don Giovanni. L’offerta, discreta ma ostinata, venne avanzata nel corso di tutta la corrispondenza: (...) e se non havessero le parti ridicole egli ne offerisce due bonissime, che sono Farina e Cortellaccio. (18 gennaio 1613 720 [1614]. Nel particolare de’ comici Confidenti (...) farò loro ogni avantaggioso partito, li aggiungerò se essi vorranno due bonissime parti ridicole, cioè Cortellazzo et il Farina. (1° febbraio 1613 720 [1614]). Ben vorrei sapere se vorrano in lor compagnia Farina et Cortellazzo, acciò possi o tenerli o licenziarli, perché è in mano mia il fare o l’uno o l’altro, o si anco vorrano uno solo di loro.
(8 febbraio 1613 720 [1614]).
(...) offerirò loro et Farina et Cortellazzo et la Bernetta quando ne habbino bisogno, che sono hoggidì stimate le maggiori et le migliori mascare che venghino in
scena.
(15 febbraio 1613 w2v [1614]) ?.
Se si retrocede di qualche mese possiamo scoprire la ragione di quella tenace generosità. La quale non è, come potrebbe sembrare a prima vista, il segno della forza contrattuale dell’imprenditore Giustinianio
il riflesso di un libero confronto mercantile di chi, in cambio
di una piazza lucrosa, chiede che vengano scritturati attori da lui già stipendiati; al contrario, l’insistenza del cortese mallevadore è la con-
seguenza di una debolezza, di una insufficienza. Esiste infatti un altro pacchetto di lettere. Sono in parte coeve a quelle che viaggiano tra Venezia e Firenze (furono scritte fra il dicembre del 1613 e il gennaio del 1614), e questa volta percorrono la distanza che separa Venezia da Mantova. Dal confronto dei due carteggi scopriamo qualcosa che il Giustiniani avrebbe comunque voluto tenere nascosto e che don Giovanni non seppe forse mai. Intanto scopriamo che il teatro di San Moisè nasceva grazie all’investimento di un privato cittadino e che
94
Capitolo terzo
questo investimento aveva come copertura, piuttosto che un privilegio o un'esclusiva di origine governativa o statale, l'accordo con una compagnia comica predeterminata: a parolle e promesse della quale [Lorenzo Giustiniani] è caduto in grossa spesa nel fabricarli una stanza con li suoi palchi ”.
La fabbrica era stata dunque edificata non con la prospettiva di una eventuale locazione a compagnie itineranti, ma sulla base di un contratto esclusivo. E su questa base il Giustiniani, da buon impresario, aveva avviato un programma di investimenti. Nello stesso tempo però dal medesimo epistolario risulta anche quanto precario fosse il governo di quel libero spazio mercantile. Fin dalle prime lettere (sono del 14 e 16 dicembre 1613 e provengono dal residente mantovano in Venezia)” risulta infatti tutta la forza di una potente controparte mecenatesca, rappresentata dal duca e dalla corte di Mantova che, a poca distanza dal carnevale, nel dispregio proprio di ogni programmazione teatrale, pretendeva di imporre le sue ragioni signorili ‘catturando’ gli attori impegnati con il Giustiniani: Sua Altezza mi comisse che dovessi far officio acciò che la compagnia di Vittoria venisse a servirlo in questo carnevale, et col corriero li dissi che e la Vittoria e Fa-
britio, che deve essere suo marito, in compagnia del capitano Mattamores si dimostravano pronti di servirlo, ma che li altri compagni restavano ancora perplessi per haver come datto parolla all’illustrissimo signor Lorenzo Giustiniani, et dicono hora liberamente questo di non poter venire, sf come quelli tre restano fermi di venire ogni volta che Sua Altezza habbi bisogno de l’opera loro, et Farina è quello che impedisce questo servitio, et riduce anco li altri a essere renitenti *.
Abbiamo cosi ritrovato Zan Farina, il fedelissimo attore che il
Giustiniani voleva a sua volta imporre ai Confidenti di don Giovanni, e che qui assume le vesti del più deciso oppositore all'opera di smembramento della compagnia messa in atto dal Gonzaga. Il duca di Mantova, per quanto avesse ben altri e più gravi problemi cui appassionarsi (la guerra nel Monferrato, ad esempio), come gli ricordavano
a Venezia « quasi rimproverandolo che in queste congionture aplicasse ancora l’animo a questi piaceri, molto sproportionati al stato presente nel qual si ritrova Sua Altezza», ricorse a ogni mezzo per convincere il comico renitente alla sua ‘leva’. Fece intervenire un uomo d’armi, un nobile veneziano, Alvise Donato, che in futuro comanderà
l'artiglieria dei Gonzaga nel Monferrato ”. Costui, a differenza del residente che si indirizzava solo ai segretari, stabilî rapporti diretti con il duca Ferdinando e usò modi bruschi: «ho parlato con Farina comediante, et avanti che lui me dica le sue raggioni l’ho fatto una bonissima passata con cominatione (...) et l’ho detto che se non si rissol-
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verà a venir a servire l’Altezza Vostra Serenissima sarà da me trattato come merita un furfante par suo» *; «farò ogni possibile aciò se ne venga Farina, et quando farà la solita resistenza non mancarò d’usare contra di lui quel termine che si conviene». La commedia pare volgere in dramma. Il comandante Donato non è un Capitano da teatro. Il povero Zan Farina ha paura di essere rapito. Eppure resiste, con l’aiuto del padrone. Anche quando Matamoros, Fabrizio e Vittoria hanno già ceduto e sono arrivati, obbedientissimi, a Mantova. Si nasconde di giorno, in casa dei Giustiniani,
e la sera esce, scortato dai servitori dei padroni, per andare a recitare e poi ritornare, furtivamente, nel suo rifugio. Ma il poliziesco Donato non demorde e continua a far la guardia sotto le finestre: (...) questo s’è reterirato in casa delli signori Giustiniani, né più ho potuto parlarli, et va molto circonspetto, né si vede se non la sera in la comedia condoto da detti signori. L’ho però posto cani dietro all’orechie, che al sicuro non andarà fuori carnevale che costui sarà colto, et con castigo meritato alla sua rebaldaria.
Gli altri intermediari del duca agiscono con altre tecniche. Adoperando le armi tradizionali del mecenatismo e fidando sul richiamo di una buona borsa: «questa compagnia è in debito di 2000 lire di queste al hoste del Salvatico, le quali quando anco si risolvessero di venirci bisognarebbe pagarli, e non havendoli loro, ne patirebbe la borsa di Sua Altezza, essendo costoro falliti in modo miserabile, che l’aiutarli inporterebbe non puoco » ?. Maggiore prudenza è d’obbligo con il Giustiniani: «questo gentilhuomo è di gran qualità e di casa, e di valore, e di parentado, poiché oltre che è senatore di Pregadi, et che camina a ogni ascendenza, è ristretto in parentado con la casa Cornara e Contarina e Grimani, che tutte insieme asorbano dua terzi
del Pregadi, in modo che stimarei bene che Sua Altezza lo consolasse in questa dimanda» ”. Lo stesso Donato abbandona il piglio militare quando si trova ad affrontare le richieste dei patrizi veneti in persona: «fui sopra gionto dal signor Giustiniano et signor Giulio Contarini pregandomi uno e l’altro con grande instanza a volere retardar ogni pensiero contro Farina et suoi compagni fin tanto che havessero fatto rapresentar a Vostra Altezza l’obligo de questi verso di lui, et il dispendio che lui resta quando questi partissero havendo sopra la sua parola fabricato certo luogo. Essendo questi due gentilhuomeni miei amicissimi et congionti, non ho potuto far di meno de non darli questa poca satisfatione di ritardar quanto haveva disegnato contro Farina»”. Le parole del Donato circa l'investimento immobiliare confermano la serietà dei problemi imprenditoriali del Giustiniani che tut-
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tavia dovette capitolare davanti alle imperiose volontà del duca. I migliori attori emigrarono verso i Gonzaga, il teatro di San Moisè si trovò senza la compagnia per la quale era stato edificato e con la quale aveva brillantemente iniziato la sua attività. Ecco perché il buon Giustiniani era stato costretto a rivolgersi anche lui a un generale di artiglieria più illustre di Alvise Donato, il mediceo don Giovanni a cui aveva chiesto di colmare i vuoti di un esodo imprevisto, se non per quel carnevale, almeno per il prossimo venturo, sperando comunque di poter trovare un ricovero per il malcapitato Zan Farina che aveva praticamente costretto agli arresti domiciliari oltre che a recitare in condizioni di semiclandestinità, sfidando le ire degli scherani del Gonzaga. Il negoziato con i Confidenti si era aperto il 18 gennaio 1614, una prima risposta favorevole era arrivata da Firenze ai primi di febbraio, l’°8 di quel mese il Giustiniani spedî una lettera di ringraziamento al segretario di don Giovanni: quel giorno stesso Alvise Donato informò il duca di Mantova che la resistenza del patrizio veneziano e del suo zanni stava venendo meno. Per quanto non definitivo il suo assenso riflette il buon esito della trattativa fiorentina. Il Giustiniani è un mercante prudente: Il signor Giustignano per servir Vostra Altezza Serenissima m’ha dato parola di perdono contro tutti quelli che si partirono di qua, e che possino a suo beneplacito tornarsene qui, o altrove, dove a lloro tornerà più comodo senza dubio d'esser molestati da lui; m’ha ben detto che desiderarebe che Giovanni Farina non fusse levato de qua questa Quadragesima ma che quando così sia la volontà di Vostra Altezza Serenissima che sarà pronto a far quanto la comandarà ”.
Da buon impresario il Giustiniani aveva tentato fino all’ultimo di conservare il suo attore di maggior richiamo. Almeno fino al termine di quel carnevale. Ma poi, più che il timore delle rappresaglie mantovane, l’ormai raggiunta certezza che per l’anno seguente avrebbe potuto contare sul ricambio di una eccellente compagnia, lo aveva convinto a cedere. Anche perché la nuova formazione dei comici Confidenti era dotata di uno zanni, Scapino, particolarmente amato dai ve-
neziani”. Il Giustiniani poteva quindi assecondare anche don Gio| vanni e, da buon mercante, liberarsi di Zan Farina: Farina et Cortellaccio saranno licentiati quando non ne habbi bisogno la compagnia, se bene qui Farina è in grande stima *.
Aveva vinto il duca di Mantova, e con lui anche don Giovanni e Alvi-
se Donato, i due generali d’artiglieria, ma neppure il Giustiniani fu
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davvero sconfitto. L’unico a doversi arrangiare fra siffatti padroni fu Zan Farina. Licenziandolo per il momento anche noi, e tornando dalla cronaca alla storia, osserviamo che il Giustiniani nel tentativo, peraltro non riuscito, di determinare la struttura e la composizione della compagnia alla quale aveva offerto il suo teatro, aveva assunto lo stesso atteggiamento del suo concorrente mantovano, e più in generale, dei committenti ducali, granducali e monarchici che, offrendo compensi eccezionali, riuscivano a scomporre a loro piacimento le compagnie esistenti per cavarne i comici a essi più graditi. Il fatto di poter contare su un folto pubblico pagante e su una stagione scelta come il carnevale veneziano, non bastava però a vincere la forza di una dinastia ‘teatrale’ come quella mantovana, e per questo si era alleato con don Giovanni dei Medici. Principe eccentrico rispetto alla corte, il fiorentino usava il potere che gli derivava dall’appartenenza a una famiglia regnante più potente dei Giustiniani e dei Gonzaga, non per svolgere un indiscriminato mecenatismo, ma per sostenere una libera compagnia di professionisti, come vedremo meglio nel prossimo capitolo. Sia il Giustiniani che il Medici sfruttarono il potere ricevuto da aristocrazie diversamente illustri per fare nascere una forza contrattuale e impresariale autonoma. La forza dei Giustiniani erano le aderenze in senato, il denaro e la proprietà di un teatro a pagamento. Quella di don Giovanni derivava dal fatto di poter contare su una piazza teatrale come la Toscana (dove disponeva, accanto al teatro di Baldracca,
del teatro degli Uffizi, del suo privato teatrino di Parione in Firenze, di numerose altre «stanze» nel granducato” controllate dal monopolio della sua famiglia). L'episodio è esemplare di quanto, fin dal suo sorgere, il teatro professionistico italiano sia contraddistinto da un intreccio di feudalesimo e di capitalismo, di responsabilità imprenditoriale e di affidamento servile. In questo modo, come vedremo più avanti, la stessa compagnia dei Confidenti fu il risultato di un compromesso ben dosato fra lo strapotere mecenatesco delle corti, da cui pure riceveva non piccolo nutrimento, e la disponibilità del mercato carnevalesco veneziano tenuto aperto da impresari come i Giustiniani e i Tron.
2. Il conflitto tra una pratica teatrale concepita secondo le regole professionali e uno spettacolo equiparato a una delle tante corvées che i sovrani avevano il diritto di esigere dai loro sudditi, risaliva al-
menoa
cinquant'anni prima. E sempre aveva visto schierate, su fronti
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opposti, da una parte Venezia e dall’altra le corti padane come Mantova e Ferrara. Nel mezzo, sempre, gli attori. In vista di una rappresentazione del Pastor fido di Giovan Battista Guarini, prevista per il carnevale del 1585, i segretari del duca Alfonso II d’Este si erano dati d’attorno per reclutare giovani adatti alla scena: «ne ho scritto a tutti gli ufficiali acciò veggano di ritrovar que’ giovani che si desiderano, io ho ordinato loro che trovati che siano ne diano subito aviso, acciò si
possano sceglier quelli de’ quali la vista sia migliore» *. La ricerca si allargò da Ferrara a Modena alla Garfagnana. Data la penuria di comparse e di attori, bisognò ricorrere a dilettanti addirittura esordienti: «Non trovo qui giovani dell’età e qualità che Vostra Signoria mi scrive voler Sua Altezza per la tragicomedia, che habbino recitato (...) ma
ve ne sono però che chi li essercitasse, per quanto mi vien detto, seriano atti a ciò» ”. Poco più che debuttanti erano anche i giovani segnalati dal governatore della Garfagnana, il quale dichiarava di avere trovati tre fanciulli di 16 o 17 anni d’assai bel viso et buon garbo, et sebene non hanno più recitato altra volta, nondimeno credo che riusciranno assai bene, et saranno atti a fare la parte di Ninfa come mi scrive, poiché nella Pastorale del Tasso
che feci mettere all’ordine l’anno passato per farla recitare, sebene l'occasione de rumori con lucchesi l’impedì, li detti fanciulli, nel provare ch’ella si fece molte volte, riuscivano benissimo. Quanto poi all’huomo d’età, di buona presenza, che habbia buona voce et lingua, et sappia recitare, qua non è alcuno che sia meglio et tanto buono come è messer Baldassare Mentessi, quale credo che Vostra Signoria lo conosca, et ha tutte le qualità ch’ella mi scrive, se il non essere molto grande non disdice, ma in simile esercitio qua è tenuto molto idoneo et quasi raro, et senza altro riuscirà benissimo, et ho detto sì a esso come ai fanciulli che stiano in
pronto per venirsene a Ferrara se saranno richiesti, sicome faranno tutta volta che Sua Altezza si compiacerà di comandare che venghino *.
Lo spettacolo non andò in scena, ma gli eletti del duca erano pronti a obbedire «tutta volta che Sua Altezza si compiacerà di comandare che venghino ». Era un atto di cieca obbedienza alsovrano, abituato a
circondarsi di spettacoli di sudditi dilettanti o di «scolari». Ancora al congedo del secolo xvi, nella luce intensa e declinante della corte ferrarese, correva un’opinione assai modesta circa i diritti dei recitanti e dei sudditi comparse. I ricordi della grande stagione estense d’inizio secolo suggerivano ad Alfonso II l’illusione di poter mantenere vive le funzioni mecenatesche di un sovrano a cui tutti erano pronti a obbedire nel nome di una comunanza d'’intenti civili, suggeriti a ciascuno dal municipalismo e dalla universale cultura umanistica. Masse il duca estense aveva tutto l’interesse a confondere gli attori con i sudditi e le corvées con le prestazioni professionali, c'erano tuttavia impedimenti oggettivi che frenavano le sue anacronistiche spe-
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ranze. Cosf era stato nel1581 quando egli si era rivolto a Giovanni Pellesini, in arte Pedrolino, per invitarlo a recitare a corte ”. Gli impedimenti erano costituiti dal fatto che Pedrolino apparteneva a una compagnia (anche quella detta dei Confidenti, ma senza alcun rapporto con la futura formazione di don Giovanni) vincolata da norme di
comportamento precise, da contratti stipulati «con pubblico instrumento», come si apprende dalla lettera con cui il nobile veneziano Ettore Tron, proprietario di teatro, si vide costretto a respingere, con reverente fermezza, la richiesta di Alfonso II: Mi ritrovo haver fatto, alli comici Confidenti, una spesa di molta importanza per il recitare delle comedie, con patti, et conditioni come per publico instrumento si può vedere; et già sono passati giorni, che si è principiato a recitare, per la qual occasione, si ha scosso, per capara, di molti palchi, circa ducati mille, da diversi Nobili di questa città. Hora mò, mi è stato rifferto dalla signora Vittoria [è l’attrice Vittoria Piissimi che guidava insieme a Pedrolino la compagnia dei Confidenti] “, che Vostra Serenissima Altezza vole Petrolino al suo servicio non sapendo forse le obligationi che egli ha con esso meco per li accordi fatti; il che veramente sarebbe la total ruina, et dissunione di questa compagnia et a me levarebbe, oltra il danno, l’honore, et reputatione per haver accomodato la mettà de Nobili di questa città; alli quali resteria del continuo, ogni mala sodisfatione ‘.
Erano stati stipulati degli ‘abbonamenti’ ai palchi, la compagnia aveva cominciato a lavorare nel rispetto degli impegni assunti e ci si trovava del resto già nel pieno della stagione di carnevale. Pedrolino non poteva obbedire alla richiesta autorevole del duca. Non poteva, prima di tutto, perché avrebbe rotto l’unità della compagnia e poi perché avrebbe mandato all’aria un contratto e l’investimento economico che a quello era sotteso. Da una parte il principe si comportava nei confronti degli attori come un mecenate alle prese con dei sudditi, un committente assoluto che pensa di poter disporre del singolo buffone senza tenere conto della compagnia in cui è inserito. Dall’altra premono ragioni sociali ed economiche che oltrepassano la responsabilità individuale. Come succederà al Giustiniani, anche il Tron si trova quasi obbligato a resistere al duca: la compagnia non si può disfare per ragioni che, sebbene urtino contro le norme dell’etichetta (la lettera sopra citata si concludeva con prudenti dichiarazioni di sottomissione: «che s’io non potrò in altro corrispondere a così grato favore, m’affaticarò con il desiderio di haver occasione per servirla sempre; et le resterò perpetuo, et obligatissimo servitore»), rimanda-
no purtuttavia a necessità organizzative inesorabili.
î
Il conflitto appare gravido di storiche conseguenze (lo sviluppo di un modello mercantile in antitesi alla conservazione di un modello feudale) se lo si osserva dal punto di vista dei due nobili impresari, an-
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che qualora (come è giusto) non si attribuisca a costoro una netta co-
scienza del ruolo che erano chiamati a svolgere. Ancora più confusa era la percezione del medesimo problema da parte di Pedrolino e Vittoria. Il primo, più che un attore, era un buffone all’antica. Il suo stesso repertorio era ambiguo. Alla frequentazione regolare delle compagnie, probabilmente impegnate nella rappresentazione di spettacoli d’insieme che richiedevano una disciplina di gruppo e un rispetto delle prerogative artistiche della ‘ditta’, egli affiancava la pratica dell’intrattenimento conviviale, l’esercizio della performance solitaria in feste e banchetti, la messa in scena di elementari sketch (allora si chiamavano anche « contrasti») sostenuti dalla collaborazione di un atto-
re che oggi si chiamerebbe ‘di spalla’. In questa veste è ricordato proprio a Ferrara: Erano tre tavolini quadri grandi, in modo che vi capivano quattro persone per faccia a star agiate, e si servivano attorno attorno. Nella prima tavola, ove mangia-
rono le loro serenissime Altezze vi era un buco nel mezzo, tanto che vi potea sorgere un uomo, ed era coperto da un gran pasticcio voto, che anco egli nel fondo era forato quanto il buco della tavola, col coperto, ma il coperto si potea levare. Era poi nascosto sotto la tavola, senza che nissuno lo sapesse fuori che la Duchessa serenissima, Pedrolino comediante; e posti che furono a tavola, con le vivande
ch’io dirò poi, venne in sala Pantalone mostrando cercare Pedrolino come fachino goloso, ove si mangiava, chiamandolo; costui sorse fuori del pasticcio la testa solo, né si vedea il resto e gli rispose che per sua disgrazia essendo ito in cucina per gola, i cuochi l'avevano fatto in pasticcio, poi si tornò a ricoprire, e mentre quei signori desinarono, sempre parlò in quel pasticcio molto ben sentito, per molti buchi che vi erano acconci, con foglie ‘.
Non differiva molto, Pedrolino, da un esempio illustre come quello
di Ruzante, anche lui diviso tra prestazioni drammaturgicamente più complesse e intrattenimenti buffoneschi. Ruzante era stato del resto un professionista a metà e una parte di lui aveva sempre obbedito, pit che ai committenti occasionali, al suo signore e padrone Alvise Cornaro. Ugualmente Pedrolino, mostrandosi ora buffone e ora attore, favoriva le ambiguità del suo committente che preferiva dimenticare le prerogative di chi apparteneva a una corporazione, per ricordare invece solo quelle di chi lo aveva servito come un obbedientissimo cortigiano. Anche nella specifica vertenza tra il Tron e Alfonso II, Pedrolino aveva manifestato una inadeguata coscienza dei suoi doveri contrattuali. Tornando alla parte finale della citata lettera del patrizio veneziano non possiamo passare sotto silenzio un segnale di indisciplina del comico: a detta del Tron, nonostante il contratto firmato e l’iniziata stagione di repliche, «si diceva che egli voleva partire, an-
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chora che egli mi affermasse non haversi obligato a Vostra Serenissima Altezza di alcuna cosa, ché non si havrebbe ligato con noi». Anche la comica Vittoria mostrava una concezione antica del mestiere, e ricorreva, per legittima paura, agli artifici della sua arte per ottenere, come grazia elargita personalmente dal sovrano al suddito, quello che pit tardi altri attori conquisteranno o vedranno riconosciuto come diritto. La sua lettera ad Alfonso II era probabilmente concordata con il Tron visto che reca la data di partenza di quella del nobile impresario: Ho veduto quanto Vostra Altezza Serenissima ha fato scriver a Petrollino et ben che come sua humil serva mi dovessi aquetare a quanto conosco esser di Sua sodisfacione nondimeno astreta da quella pietà che ogniuno ha di se stesso vedendomi una tanta ruina così vicina et credendo pur che Vostra Altezza perseveri perché non conosca tanto mio danno et dissonore però di novo la suplico per le vissere di Giesu Christo a non esser causa de la ruina mia et creda che se così non fosse vorei prima perder la vita che restar di obedirla, la mi facia gratia di farsi dar informacione da chi ha cognicion di questo fato senza che io sapia da chi et non siano persone interessate che la conosserà ch’io dico il vero et da quelli la intenderà quello che per non infastidir tacio chiedendoli perdono de la molestia et mia sforzata importunità, con che gli resto humilissima serva suplicandola di novo concedermi con Petrolino la vita del mio honore et del corpo che nel restar di Petrollino consiste; però gratia Serenissimo mio Signor, gratia per l'amor de Dio che gle la chiedo con le ginochia a tera et con le lacrime del cuore, nostro Signor la conservi et a me dia gratia di poterla servire *.
Tutti e due gli attori, appena liberi dagli obblighi veneziani e carnevaleschi, erano pronti a implorare di nuovo il duca per intascare qualche lauto e aspettato compenso. Vittoria, anche a nome di Pedrolino, si sottometteva con teatrale veemenza. L’attrice, specializza-
ta nelle lacrimose e passionali scene da «innamorata», non usciva di parte quando diventava procuratrice della sua compagnia: Da molti mi viene referto, che Petrollino et io habbiamo persa la gratia di Vostra Altezza Serenissima per non haverla potuto servire questo Carnevale; et perché la riverenza con la quale l’osservo da tanti ani in qua supera ognialtra vedendomi così a viva forza haver mancato a chi tanto son tenuta, et ho desiderato sempre servire, vivo la più scontenta donna che mai nascesse, et però a’ suoi piedi ricorro suplicandola ritornarmi nella sua gratia, et l’istesso dico di Petrollino, poi che per mia causa è incorso in errore, il quale per l’affano che sente si può dir che faccia la penitenza de l’errore, et acresse la mia col suo cordoglio: ma perché una sentilla de quella benignità, con la quale mi ha sempre favorita può render noi felicissimi io di novo caldamente la suplico et humilissimamente me et questo suo devoto benché basso servo racomando, oferendo me et la mia Compagnia supplire almancamento et pregar Dio per la sua conservacione, che nostro Signore la feliciti *.
La sottomissione di Vittoria e Pedrolino era la tassa obbligata che i comici dovevano pagare a fronte delle minacce del duca. Il loro con-
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tributo all’etichetta. Ma poi è sicuro che anche in altre circostanze si sarebbero comportati secondo il dettato della necessità e del mestiere, come molti altri dei loro compagni. Basta tornare a leggere quanto aveva scritto un cronista d’eccezione, il fiorentino Bernardo Canigiani, ambasciatore mediceo a Ferrara, in un dispaccio che avevamo già spiato. Secondo questo testimone apparentemente neutrale, la vertenza teatrale tra Venezia e Ferrara era nettamente vinta dalla prima, nonostante la minacciosa arroganza del potere estense: (...) la femmina e i personaggi migliori son passati a Venezia, molto soddisfatti di Firenze e impauriti di Ferrara dove ricevono poco guadagno e assai soperchierie: e in Venezia avevano caparra (per quindici dì avanti carnevale che si darà licenza di maschere e di festini) di toccar un mondo di denari, sì che non sono questi qui
ben sicuri ch’i lor compagni venghino, ancor che chiamatici dal signor Duca, che s’adirerà se gli mancono, di maladetto senno *.
Il duca si adira, ma i comici andranno dove corre il denaro — osserva
compiaciuto il residente mediceo — e dove gli impegni sono chiari e di lunga durata. Pur rilevando che in realtà neanche il Canigiani pare del tutto affidabile come informatore, vista la malizia e la prontezza con cui egli, nei suoi dispacci, sfrutta ogni occasione propizia per denigrare gli estensi ed esaltare i fiorentini, la scelta dei comici a favore del carnevale veneziano ci pare risulti comunque evidente al di là di ogni sospetto. La mercatura teatrale prevale sulle corti, soprattutto quando queste ultime non sono in grado di mantenere fede a un passato illustre. Del resto, negli stessi anni, anche Torquato Tasso pativa le insicurezze di un mecenatismo in declino, di una corte prossima alla smobilitazione e di un duca senza eredi legittimi. E gli attori professionisti ancor meno dei poeti ambivano a fermare il loro tempo, preferendo semmai assecondarlo, soggiacendo alla rapida evoluzione dei costumi e delle leggi, fuggendo, quando possibile, i mecenati dispotici e improvvisatori e cercando la pianificazione commerciale del loro mestiere.
Ma non era solo una questione di soldi. Anche un mecenate munifico come il duca di Mantova, Vincenzo Gonzaga, aveva difficoltà a
ottenere le prestazioni dei suoi comici prediletti. A lui, nell’aprile del 1583, aveva negato la sua opera, con motivazioni dettate dalla disciplina professionale, il grande Francesco Andreini. Anche questa vertenza chiama in causa Venezia e uno dei suoi teatri a pagamento, quello di proprietà della famiglia Michiel: Per il signor Antonio, musico di Vostra Altezza Serenissima, ò inteso l’animo suo e la sua buona intentione intorno alla novella Compagnia, ch’ella brama mettere insieme. E perché mi trovo obbligatissimo alla gentilissima gratia di Vostra Al-
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tezza Serenissima non posso se non con mio grandissimo dispiacere ringratiarlo del cortesissimo animo suo d’havermi fatto degno, insieme con la mia consorte, d’essere annoverato fra così degna Compagnia. Poiché trovandomi obligato et legato per fede alla Compagnia de’ comici Gelosi, et in particolare al clarissimo signore Alvise Michiele, padrone della stantia di Venetia, sono astretto a non poter accettare il partito et il volere di Vostra Altezza Serenissima, poiché per mettere insieme questa compagnia bisogna guastarne tre: la qual cosa par difficile, se bene a Vostra Altezza Serenissima ogni difficilissima cosa è facilissima a farsi: inoltre, che ritrovandomi in Ferrara solo, non posso senza il parere degli altri compagni manco offerire la Compagnia de’ Gelosi al servitio di Vostra Altezza Serenissima. Con che pregandola a tenermi con la mia consorte nel numero delli suoi minimi servitori, etc. Francesco Andreini comico geloso £.
Da una parte c’era una «buona intenzione» sia pure sostenuta dall’autorità ducale, e dall’altra la «stantia» di Venezia con il relativo contratto. Francesco Andreini era cortese ma fermo: non era disposto ad abbandonare la compagnia per andare ad arricchire con la sua parte di Capitano Spavento la formazione che il giovane principe, non ancora regnante ma destinato a essere un grande patrocinatore di comici, stava mettendo insieme per la stagione seguente. L’attore professionista, a differenza di un buffone di corte come Pedrolino, non era un artigiano solitario, sulla scena e fuori, e si sentiva vincolato dal patto (non solo morale) stipulato con i compagni di troupe. Sapeva che, qualora avesse deciso di aggregarsi, lui solo, ad altri, senza curarsi degli impegni societari assunti, avrebbe dovuto scontare conseguenze penali e avrebbe anche perduto la fiducia dei colleghi. Solo la protezione assoluta e personale del sovrano avrebbe potuto ripagarlo del tradimento. Ma lo avrebbe anche ricondotto a quella servità da cui il mestiere di attore aveva in parte affrancato, insieme a lui, anche i suoi compagni. Non a caso, a partire dal primo contratto stipulato dagli attori davanti a un notaio e datato 1545, la rottura della solidarietà di compagnia fu sempre giudicata il reato più grave che un attore poteva commettere contro la propria Arte: «Et se durante dita compagnia, il venisse in fantasia ad alcuno di tal compagni, over due et più, partirsi et piantar li altri a suo grandissimo danno et vergogna, che allora et in tal caso, quel tal over tali che si partiranno, oltra le pene infrascripte, debba aver perso ogni comodo et utile del denaro (...) et quella parte, che se li atroverà de tal absentadi, sia egualmente divisa et partida in quelli compagni che si atroveranno fraternalmente uniti et non disolti de la compagnia». E grave continuerà a essere quel reato anche molti anni dopo, nel 1627, se tutta la compagnia dei Con-
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fidenti (sarà la terza formazione ad adottare questa insegna) sotto-
scriverà una lettera di condanna nei confronti appunto di un comico fuggiasco, il quale « domenica prossima passata, mentre noi recitavamo la Filli in Sciro se ne fuggì di Genova, né noi lo sapessimo se non la mattina del lunedì e gli spedissimo dietro gente acciò che lo facessero ritornare, ricordandoli che la città rimaneva disgustata e noi indebitati di centinaia di scudi e com’egli con esso noi era obligato a Firenze et in particolare all’Altezza Vostra Serenissima» *. Come si vede, l'infrazione della regola di solidarietà indeboliva comunque l'autonomia dei comici, costringendoli a ricorrere alla superiore autorità del principe per vedere sanati i conflitti interni. E i più grandi attori sapevano che avrebbero dovuto guardarsi tanto dal disordine dei ribelli solitari quanto dalla tutela dei funzionari di stato. Gli eccessi dei primi avrebbero indotto, necessariamente, gli interventi dei secondi. Al posto del nuovo ordine interno che la corporazione aveva imparato a instaurare, amministrando in autonomia la sua giusti-
zia, sarebbe stato restaurato il vecchio ordine stabilito dai principi, gli unici, un tempo, in grado di convincere gli attori, reclutarli e regolarne i contrasti”. Invece, verso la fine del Cinquecento, si fanno sempre più puntuali le prove della crescente resistenza degli attori alle lusinghe principesche. Con grande sorpresa dei funzionari di corte incaricati di condurre le trattative. Costoro, in regimi forti come quello mediceo, ritenevano naturale che gli attori aspirassero a raggiungere la sicurezza e il prestigio di un ruolo cortigiano, obbedendo con zelo alle richieste di prestazione d’opera avanzate in maniera estemporanea dal sovrano. Erano convinti che la vita del funzionario fosse la migliore del mondo. E invece, nel 1594, Francesco Biffoli, provveditore della Dogana di Firenze, registrava l’intransigenza della moglie di Francesco Andreini, la celebratissima Isabella, coerente con i principî del marito e insofferente di qualunque ruolo funzionario: « Vostra Altezza Serenissima mi ha comandato che io intenda da Isabella Andreini se vuol essere di questa compagnia [si tratta di una formazione allestita dal granduca]. Sono stato da essa in persona e mi ha detto che non lo può fare, trovandosi promesso alla sua compagnia [i Gelosi]» *. Con il primo e il secondo decennio del Seicento l’autonomia dei comici divenne ancora più netta. Come dimostrano i Confidenti di don Giovanni davanti a Ferdinando Gonzaga che, sull’esempio del padre, tentò di smembrarli e assoggettarli ai suoi interessi di rappresentanza e di rappresentazione:
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Per poter formar una compagnia compita di comici che mi serva quest'anno, trovandosi Lelio e Florinda haver bisogno di Mezzettino e Scappino con sua moglie, e sapend'’io l'autorità che ha Vostra Eccellenza di poterli disporre a venir a questo servitio, ho voluto con questa mia, che spedisco per staffetta, pregarla, come faccio affettuosamente, che si compiaccia d’ordinarli a venir ad accomodarsi in detta compagnia senza admetterli alcuna scusa”.
Don Giovanni, come il Giustiniani, non aveva mezzi per opporsi, e infatti non osò farlo apertamente. Rispose però in maniera abile, dimostrando di avere ben capito le ragioni dei suoi sottoposti. Rifiutò lo smembramento e propose al duca un accordo che avrebbe dovuto salvaguardare le ragioni ‘aziendali’ (mantenere unita la compagnia) su quelle cortigiane. Piuttosto che dividere gli attori preferiva far cambiare rotta alla troupe e imporla, tutta intera, al signore mantovano. Insomma: ‘O tutti o nessuno”: io manderò tutta la compagnia insieme a servire l’Altezza Vostra (...) perché non
minore necessità ha la mia compagnia de’ Confidenti di Mezzettino et di Scappino con sua moglie, di quello che possino havere Lelio et la Signora Florinda ”.
Ancora più fermo l'atteggiamento dimostrato dai comici nei confronti delle richieste avanzate da un apparatore di provincia, Camillo Giordani, al servizio dei duchi di Pesaro e Urbino, nel 1615. Costui si era permesso di chiedere a un suo corrispondente il rapporto sulla possibilità di avere anche a Pesaro, forse per il carnevale seguente, quella compagnia comica. I Confidenti, che stanno recitando a Bologna I due Mezzettini, vengono avvicinati dal rappresentante del ‘regista’ di provincia che poi riferisce l’opinione corrente all'amico pesarese: è quella «forse la migliore compagnia che vada attorno adesso, e sempre sono obbligati un carnevale per l’altro, e quando si partono di qui vanno a Venezia, dove guadagnano quel che vogliono» ”. Venendo poi alla trattativa concreta, fa sapere che non ci sono speranze: essi non possono venire costì, poiché hanno promesso già due anni sono e chi vuole averli bisogna trattare con loro molto prima del tempo nel quale si vogliono”.
Il contratto e la programmazione dei circuiti sono contrapposti alla volontà dei principi: Con il passare degli anni (arriviamo al 1626) gli impegni economici, la qualità della paga, le condizioni di lavoro e anche le ragioni morali, tra le quali non ultima quella italica di chi «tienne una grossa famiglia», vengono a costituire una sorta di rudimentale deontologia professionale anche per l’attore isolato che deve far valere i suoi diritti nei confronti del solito duca. E l’esposizione dei diritti viene fatta con elementare pacatezza, ben lontana dalla teatrale e
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lacrimosa perorazione di Vittoria e Pedrolino. In questo caso è il na58-59 poletano Silvio Fiorillo che parla: per non rimaner io senza compagnia, perché era di già tutta formata, et non essendo io obligato a nessuno, come per le mie mandate a Mantova si può vedere, per ultimo reffrigerio serrai compagnia col signor Oratio Carpiano, sapendo egli ch’io non havevo ad altri promesso. E più per la necessità chio havevo per soccorer la mia povera famiglia in Napoli, mi fece prestare da lui ducatoni quaranta per me e per mio figlio, e subito li mandai alli miei poveri figliuoli in Napoli. (...) È vero ch'io altre volte con li favori dell’ Altezza Sua senza promissione sono stato più d’una volta pronto al venire, e più che prontissimo al servire, perché non vi era all’hora l’obligo promesso ad altri, né delli denari ricevuti ad imprestanza (...). E più che in questa compagnia non vi è chi tirra più di noi, e mia nora recita a vicenda un dì per una con la signora Ardellia et tirra tre quarti e mezzo, et stiamo in Paradiso senza che ci voglia fare il patrone adosso né ‘1 pedante; et lasciando noi il detto Carpiano, gli sarebbe infinito danno, poiché essendo di già formate tutte le compagnie non haverebbe dove dar di piglio, et si ritrova ad haver speso persino al numero in circa di ducatoni cento, parte prestati et parte spesi per negotio di compagnia, et lui tienne una grossa famiglia”.
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In una mercatura teatrale mista, fatta di impresari cortigiani e di proprietari di teatri, sembra che l'autonomia organizzativa dei professionisti abbia fatto molta strada. Gli attori si sentono impegnati a rispettare i contratti sottoscritti. Non vogliono andare a prestare la loro opera in una provincia che li pagherebbe molto meno di Venezia e dove, soprattutto, la loro attività non sia stata programmata. In realtà, all’altezza del secondo decennio del Seicento, il rapporto di forze era mutato meno di quanto può sembrare da queste notizie relative alle compagnie più importanti. La formazione dei Confidenti, come vedremo meglio più avanti, fu più un’eccezione che una regola. L’intreccio di antico e nuovo è difficile da dipanare, e le stesse figure dei singoli comici oscillarono, nella loro quotidiana scelta di mestiere, tra conservazione della tradizione e ricerca di nuovi vantaggi materiali. I loro destini furono determinati, più che dalle opzioni ideali e progettuali, dai rapporti di forza che di volta in volta stabilirono i committenti. Non a caso, tanto per restare alle figure più rilevanti del tempo, uno dei protagonisti della vicenda teatrale che occupò i successivi decenni fu quel Tristano Martinelli, in arte Arlecchino, di cui si è già detto, più vicino a Pedrolino (con il quale condivise alcune tournées)” che ai Gelosi o ai Confidenti. Egli però, a differenza del
Pellesini, fu, oltre che un buffone, un funzionario. Il suo rapporto con i Gonzaga era diretto, non molto diverso da quello che teneva legati in maniera indissolubile i membri della cancelleria, segretari e apparatori compresi. Arlecchino era, come costoro, uno stipendiato ducale, e come costoro, godeva di alcuni privilegi. Grazie alla sua carica
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di sovrintendente dei «comici mercenari» poteva incassare: «una
mezza parte (...) o mezzo ducatone» dai comici che recitavano com-
medie; dai «bagatellieri» quello che conveniva di volta in volta; dai «zarratani, posteggiatori che vendono in terra», sei soldi a persona ogni giorno; da coloro che intendevano organizzare «festini» nel periodo di carnevale poteva intascare «mezzo scudo da sei lire». Ma aveva anche altri privilegi: poteva trattenere per sé gli incassi (in media 25 ducati) di uno di quei festini senza dover pagare tasse; riscuoteva le multe dovute dai ciarlatani inadempienti; disponeva di un palco («camara») nella «stanza delle comedie » e aveva diritto a una ‘parte-
cipazione speciale’ all’interno della compagnia sovvenzionata dal duca di Mantova, «la quale non vogliamo che sia tenuta ad altro che a tenerlo in compagnia dandogli la sua parte intera»”. Una simile somma di diritti poteva far crepare d’invidia anche gli onnipotenti appaltatori napoletani. Gli screzi e i litigi che punteggiarono la carriera assai lunga del Martinelli, non sono perciò da imputare, come vuole l’aneddotica ottocentesca, al suo carattere bizzoso o alla rivalità dei capocomici in cui si imbatté di volta in volta. Arlecchino è un uomo d’affari e di potere che «fuori de’ suoi interessi non capisse altra cosa» *. Un mercante, un individualista per necessità, più che per vocazione. Poteva (ma anche doveva) rendere conto a un unico signore e padrone e im-
presario (il duca di Mantova), mentre i suoi compagni di ventura sapevano che le sorti della compagnia erano legate, oltre che alla protezione dell’autorità, all’armonia dell’insieme, alla loro capacità di programmare tournées che dovevano vincere lo spazio, per quanto sontuoso, di un carnevale a corte. Per questo i professionisti regolarono la vita nomade secondo le offerte dei diversi centri teatrali, mentre
Arlecchino poteva ignorare le regole di comportamento della corporazione, non avendo nessun bisogno di lasciare la protezione dell’egida mantovana e, con questa; anche di quella medicea congiunta alla gonzaghesca da legami matrimoniali. L’improvvisazione era per lui, ancor più che per Pedrolino, meno un modo di recitare estemporaneo e più un metodo di vita, sapientemente calcolato, strategico. Un
metodo per guadagnare meglio, adattando di volta in volta il proprio status professionale ora alle esigenze di mecenati che ambivano ad avere un ore-man-show buffonesco, ora alle richieste degli impresari o delle compagnie. La sua dignità di cortigiano, sia pure buffone, lo fa sentire diverso dagli altri comici. Si compiace di stare «sollo et soletto», impegnato ad «arricchire se solo»”, trattando i compagni con una punta di disprezzo ©. Quando è costretto a riferire degli altri e dei
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Capitolo terzo
successi collettivi, ammettendo che tutti sono stati «ben ragalati», aggiunge però d'istinto: «ma io più di tutti et così è stato sempre al despeto degl’invidiosi» ©. Solitario, è più vicino ai re e ai principi che alla sua arte, come confida al duca di Mantova: «et se non fuse per amor vostro la mi creda che mai palchi né scene vederebe l’arlechinesca mia persona » . Nei confronti del mestiere si comporta infatti più da nobile cavaliere di ventura che da commediante. Per lui, come per il duca, le tournées potevano essere dirottate all’ultimo momento, e per questo poteva abbandonare i compagni dall’oggi al domani, anche in pieno carnevale, unendosi a chi capitava purché l’occasione fosse lucrosa e il gesto tempestivo. Insomma, sotto la bandiera gonzaghesca, era autorizzato a inalberare, a suo piacimento, nel rispetto del vassallaggio principesco, l'insegna di un temibile corsaro. La proteiforme identità di Martinelli, buffone-funzionario- corsaro, bene illustra la fisionomia magmatica degli attori italiani del secolo xvi. Anche nei decenni successivi alla sua morte, il fantasma arlecchi-
nesco, per quanto oscurato da più moderni modelli professionali, continuò a vivere come archetipo vagheggiato di un’ipotetica età dell’oro e della cuccagna comica. Verranno tuttavia a mancare le fonti che potevano alimentare un’economia buffonesca e funzionaria come la sua,
nutrita dalla custodia immobile e solitaria dei privilegi municipali delle antiche corti. Durante il Seicento Firenze si vide soffocata da crescenti precauzioni cattoliche, il ducato estense fu consunto dalla estinzione dinastica e finanziaria, Mantova avrebbe subîto il tragico trauma del sacco, mentre Torino avrebbe incontrato difficoltà a darsi una solida
tradizione spettacolare: ildeperimento del sistema cortigiano avrebbe allentato la pressione delle esazioni e corvées principesche sulle aree destinate alla mercatura del teatro, Napoli e Venezia in particolare. Due città politicamente periferiche, e forse perciò teatralmente centrali. Le interferenze mecenatesche diminuirono (se si escludono, ver-
solametà delsecolo, quelleromane e fiorentine) e, soprattutto nella repubblica veneta, si registra il consolidarsi della responsabilità professionale e contrattuale della gente di teatro, il fissarsi in consuetudine dell’autonomia organizzativa delle compagnie, il perfezionarsi della specializzazione tecnica, la sanzione definitiva della pratica e del principio della vendita del teatro, di cui la prima stagione d’opera per pubblico pagante, datata 1637, non fu che il dato di cronaca più famoso.
3. Ma torniamo adesso al secondo decennio del Seicento, o meglio, al cinquantennio che abbiamo fatto cominciare con l’avvento
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dei teatri pubblici a pagamento in Venezia e che può dirsi concluso con la data indicativa del sacco di Mantova (1630): un periodo che è per noi tanto più interessante quanto più registra un relativo equilibrio tra la repubblica e il resto d’Italia, dal momento che Venezia non ha ancora superato, per vivacità e continuità, la vita teatrale degli altri centri. L’analisi svolta ci ha portato a sottolineare un conflitto in qualche modo ‘imprenditoriale’ tra Venezia, da una parte, e le corti italiane (Ferrara e Mantova, soprattutto) dall’altra, oppure tra ‘impresari’ quali i Michiel, i Tron, i Giustiniani, don Giovanni dei Medici, e le cancellerie di corte direttamente orientate dai sovrani. Nel mezzo i buffoni (Pedrolino) destinati a soccombere, i buffonifunzionari (Martinelli) destinati a sopravvivere adattandosi, le com-
pagnie organizzate (i Gelosi, i Confidenti) destinate a prevalere nel lungo periodo. L’analisi del conflitto ci è servita per individuare, all’interno del sistema dello spettacolo in via di definizione all’uscita del Rinascimento, un embrione di iniziativa che tenta di affermare l’inedita dignità della libera professione teatrale: anzi, più in generale, è l’affrancamento del lavoro artigianale dalla servità feudale che i faticosi negoziati descritti tentano, per quanto confusamente, di proteggere. L’antico e il nuovo di cui è fatta la pasta umana di Martinelli si ritrovano anche presso coloro che abbiamo chiamato gli ‘impresari’. Le virgolette si spiegano con le origini di don Giovanni e dei patrizi veneti, esponenti della medesima classe di cui erano espressione i sovrani di tutta Italia. Per ragioni dinastiche o economiche essi occupano i ranghi inferiori della loro casta, si dedicano al teatro perché non possono ambire a più alti maneggi. Le ragioni che li fanno diventare ‘impresari’ teatrali sono le stesse che spingevano molti cadetti delle frange più povere dell’aristocrazia a intraprendere la carriera delle armi al servizio di questa o quella potenza, oppure in proprio come corsari o banditi a seconda dei casi e del destino sociale. Questa variante meno cruenta della ventura militare viene intrapresa sfruttando un potere ricevuto ancora fiorente: l'appartenenza a una famiglia regnante, con tutte le conseguenti opportunità di relazioni diplomatiche e con la correlativa disponibilità di mezzi e solidarietà, nel caso di don Giovanni; la partecipazione agli organi di governo repubblicani, l'esercizio di proprietà e benemerenze che si potevano barattare con altri privilegi disponibili nelle corti soprattutto minori, nel caso del Giustiniani. Che genere di complicità potesse nascondersi dietro un’apparente concorrenza di mercato lo si è visto bene quando, durante la citata vertenza tra Venezia e Mantova, l’agente dei
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Gonzaga aveva insistito, da buon mediatore, sul fatto che il Giustinia-
ni era un senatore «di gran qualità e di casa, e di valore, e di parentado». Da una parte essi hanno l’interesse a salvaguardare l’autonomia delle loro compagnie e dei loro teatri, quasi a voler rafforzare delle microsocietà, simili a repubbliche mimetizzate, all’interno del sistema dinastico in cui operano (e questo, come si è visto, è un aiuto al-
l'emancipazione dei comici), ma dall'altro non hanno la forza, nella
congiuntura in cui vivono, per sottrarsi agli obblighi politici di classe che in linea diretta o indiretta agiscono su di loro. Come Arlecchino, anche questi impresari illustri sono in parte funzionari e in parte corsari. Collaborano all'avvio di un moderno impresariato teatrale, ma anche lo frenano; espungono i buffoni e tutti coloro che risultano incapaci di adeguarsi alle norme del nascente diritto pubblico dello spettacolo (le cui radici andranno ricercate nei visti doganali, nelle
suppliche, nelle transazioni private che si trovano nei cospicui carteggi dei comici con le cancellerie private e pubbliche) ma sono costretti, per farlo, a utilizzare il sistema delle corti. È un aspetto significativo, per quanto minore, del ritardo con cui si diffuse nella società italiana di antico regime, la cultura del mercante e della libera intrapresa “. Nel corso del nostro cinquantennio le dinastie che escono dal Rinascimento, davanti alle crepe che si aprono negli alberi genealogici, tentano di restaurare, con alterni successi, i legami matrimoniali e di-
plomatici. Primi fra tutti iMedici, con le spettacolari nozze che li congiunsero alla Francia (con il matrimonio di Ferdinando I e Cristina di
Lorena nel 1589 e con quello di Maria e Enrico IV nel 1600) e all’impero (con le nozze di Cosimo II e Maria Maddalena d’Austria nel 1608),
dopo che un altrettanto forte legame era stato fissato con Mantova in virtà del matrimonio di Eleonora, sorella di Maria, nipote di don Giovanni, con Vincenzo Gonzaga (1582), e prima che Ferdinando
Gonzaga, rinunciando al cappello cardinalizio, tentasse di rinnovare il destino ereditario dei Gonzaga e dei Medici, sposando nel 1617 Caterina di Toscana ®. Carlo Emanuele di Savoia aveva collaborato, con
un altro spettacolare doppio evento matrimoniale sempre nel 1608 (in autunno, mentre le nozze fiorentine avevano avuto luogo in primavera), a intrecciare un solido nodo d’intesa, non senza conseguenze a lungo andare mortifere, tra Torino, Modena e Mantova “. La strategi-
ca ricerca di nozze imperiali, spagnolesche e francesi, unita alle trame nostrane, fu una ragnatela illusoria, fragile, capace di fissare connes-
sioni solo estrinseche. Gli spettacoli furono il tramite privilegiato di questa diplomazia, il linguaggio del teatro fu chiamato a unire laddove non riuscivano le necessità materiali della politica. Nonostante le
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III
competizioni e i conflitti che dividevano i sovrani circa la conquista di un primato edi un prestigio nell’esibizione della pompa teatrale, gli strumenti adoperati erano identici, costituivano un unico linguaggio. E cosî una schiera di nobili senza feudo ma con iltitolo in tasca, di ministri e condottieri declassati, di principi ereditari nati per il teatto ma costretti alle cancellerie o alla carriera ecclesiastica, si trovarono congiunti dalla fortuna e dalla cronaca spettacolare. Poterono spendere ma non tanto da far funzionare i loro stati esautorati; tanto però da surrogare la forza con la finzione. Basta guardare i destinatari delle suppliche oppure, se non si vuole salire negli archivi, consultare i nomi dei dedicatari delle edizioni teatrali per scoprire tra segretari, finanzieri, patrizi e prelati (dai segretari mantovani Ercole Marliani e Alessandro Striggi ai patrizi veneziani Priuli e Grimani, dai nobili francesi Bassompierre e Bellegarde al finanziere parigino Zamet al cortigiano Concini, dall’abate Rucellai al cardinale Richelieu, dal cardinale Carlo dei Medici ai governatori Guzman e Figueroa del ducato di Milano, da Enzo Bentivoglio in Ferrara al marchese Niccolò Tassoni in Bologna al conte Pepoli, dall’ambasciatore mantovano in Milano ai signorotti locali in caccia di rinomanza) un vero e proprio consorzio di anime illustri che, pur recitando l’involontaria parodia dei mecenati umanisti, tennero in vita una società sovraregionale e sovranazionale dello spettacolo. Un consorzio di nobili che funzionava come una catena di alleanze e scambi in un sistema chiuso di compensazioni e di equilibri, tanto più soffocante quanto più era disperato. Gli attori furono più pronti dei letterati e degli artisti a cogliere quanto di vantaggioso, per loro, si accompagnava alla precaria stabilità cucita insieme dalla tela di ragno delle dinastie italiane. Nel nascente sistema dello spettacolo essi videro meno ilimiti che le tutele. Si è già detto della semplificazione e normalizzazione progressiva introdotta nei viaggi e nel calendario comico. Se l’apparizione di impresari come don Giovanni o il Giustiniani o il Tron costrinse le corti stesse ad adeguare l’atteggiamento mecenatesco ai nuovi diritti acquisiti per via consuetudinaria dai comici, l’esistenza di canali di comunicazione diplomatici servi a rendere rapida l'omologazione delle regole. In ogni città si venne definendo un uso sempre più coerente dei luoghi teatrali interni o limitrofi alle corti. Dati i vincoli stretti che univano le varie ‘piazze’ nobili, le caratteristiche di ciascuna finirono per influenzare il resto del sistema; i vuoti di organizzazione che erano stati inevitabili per un’attività fino ad allora disordinata e irregolare, vennero gradualmente colmati da una
normativa che era il prodotto della mediazione tra le controparti (il
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committente, la società dei comici). Il recitare cessava di essere eser-
cizio libero ma complementare, per diventare permanente e regolamentato. Esso non dipese più, quale attività di lusso, dal benvolere del sovrano, non fu più un piacere octroyé. Lo stesso principe fu obbligato a tenere conto del riscontro e dei riflessi che il suo operato poteva avere su altri principi. Il concerto diplomatico diventava concerto teatrale. Se recitare era un’attività permanente, per gli attori risultò un diritto, e necessariamente anche un dovere. Le leggi del teatro si sottraevano all’arbitrio del monarca, ma anche sfuggivano al controllo soggettivo dell’attore. Come tutte le leggi che regolano attività permanenti, dovevano essere chiare previdenti inesorabili. Per alcuni attori fu questo, decisamente, un passo avanti, appunto una tutela. Per altri risultò un’irreparabile perdita di libertà. Le diverse reazioni degli attori alla nascita del ‘sistema teatrale’ non dipesero comunque da motivi ideologici, né tanto meno dalla valutazione storica che noi abbiamo dato rilevando che, comunque,
l'assetto organizzativo fornito dai cosiddetti impresari consentiva una maggiore autonomia nell’allestimento della compagnia. Ognuno aveva motivi pratici o ignobili per perseguire i suoi obiettivi. I comici speravano di guadagnare meglio e laddove questo appariva possibile andavano senza troppi scrupoli. Ciò non toglie che mentre alcuni erano disposti, pur di guadagnare meglio, ad autodisciplinarsi, per essere all’altezza del nuovo ‘sistema’, altri si mostrarono del tutto incapaci . di adeguarsi. Se l’improvvisazione aveva ceduto il passo alla programmazione, gli attori erano chiamati a una inedita disciplina: «è di necessità che l’Altezza Sua ci avisi di quando ci vuole e quanto tempo si vuol servir di noi, per poter disponere quest'anno compartendo il tempo secondo il nostro bisogno» ”. Si è detto della compagnia dei Confidenti, ma si sa anche che città come Bologna e Firenze prenotavano i comici per l’inverno già durante la primavera * e che Venezia li vincolava da un carnevale all’altro. Le facilitazioni di un regime più omogeneo dovevano essere pagate con vincoli inediti e superiori a quelli fino ad allora sperimentati. E anche guadagnate con iniziativa ed efficienza. Cosî la prenotazione di una «stanza» rendeva meno incerto il futuro dei comici ma anche meno arbitraria la loro condotta: «nel caso non venissero a recitare, sieno tenuti a pagare a detto tempo fiorini cento di moneta e possa detto signore proveditore appigionando ad altrui a suo beneplacito con detta pena alli suddetti» ”; l'avvento del sistema aumentava l’arbitrio, o l'autorità, del funzionario addetto al controllo”.
L'equilibrio tra le protezioni cortigiane e quelle impresariali ren-
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deva più aspra, fra le poche compagnie più importanti, la lotta per la conquista dei migliori circuiti. Era necessario anticipare i rivali, se questi erano più potenti: nel maggio del 1609 il duca di Mantova si lamentava perché la sua compagnia dei Fedeli «era prevenuta della licenza [era stata anticipata nel disbrigo delle necessarie pratiche di prenotazione delle ‘piazze’ ]da un Nobili comico d’altra compagnia ch’a bello studio va preoccupando le stanze delle città principali» ”. Contro gli intraprendenti senza scrupoli si doveva invece agire con efficienza, rispettando (e facendoli rispettare ai propri compagni) gli impegni assunti, dimostrando che, qualora occotresse, si poteva essere buoni funzionari, a differenza di altri comici più corsari. Cosî ambiva ad apparire lo zelante capocomico dei Confidenti di don Giovanni, Flaminio Scala, quando (novembre 1616) tramava contro Pier Maria Cecchini (Frittellino): Alcuni conpagni di Frettellino con le robbe son giunti qui, et questa settimana si aspetta il restante della compagnia quali vanno a Bologna, ma credo che il cardinale [ si tratta di Luigi Capponi, a Bologna come cardinale legato] abbia animo di far poco piacere a Frittelino, perché quando io li presentai la lettera di Vostra Eccellenza lui mostrò aver dispiacere de non aver dato la licenza alla Florinda, et non aver dato gusto a Vostra Eccellenza per aver creduto troppo a Frettellino; e mi disse esservi oblichi e scritti di mano di Frittellino per mezzo di quali li voleva Sua Signoria Illustrissima fare una segnalata burla”.
Niente poteva il povero Frittellino contro lo Scala, il Medici e il Capponi coalizzati contro di lui. E non è dato di sapere chi, in questa lotta senza esclusione di colpi, fosse in realtà il meno ‘affidabile’ e ‘professionale’. L’anno prima don Giovanni aveva fatto revocare al Cecchini la licenza per lo Stanzone fiorentino relativa all’anno 1616 (e
ottenuta fin dal 1615) per favorire i suoi Confidenti; in maggio aveva tentato di privarlo della ‘piazza’ di Bologna, per avvantaggiare la compagnia di Florinda e Giovan Battista Andreini. Sembra che la scarsa attendibilità di cui Scala accusava Frittellino fosse più una scusa che un movente autentico”. La griglia protettiva che le corti consorziate d’Italia avevano steso sui teatranti diventò (ed era ovvio) una prigione, sia pur dorata. Le conseguenze del mancato rispetto degli impegni assunti con un principe non poterono più essere eluse grazie alla protezione di un mecenate concorrente. Le corti si fecero, ognuna per suo conto, più deboli, ma nell’insieme il sistema da esse costituito divenne più solidale, soprattutto nei confronti della temibile concorrenza delle «stanze» di Venezia. Era pit difficile ribellarsi, come fa capire l'appello rivolto in questo senso da Giovan Battista Andreini a «tutti que’ nobili che
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tengono theatri», di fronte al mancato rispetto delle leggi della corporazione da parte dei soliti attori intemperanti: Doveva il molto illustre signor secretario Comino scriver per questo ordinario a Vostra Signoria Illustrissima perché dovesse ostare all’impertinenza d’alcuni co-
mici, che arditi avendo al serenissimo principe et principessa data parola di servirgli per questo carnovale, ora gli manchino. Già l’illustrissimo signor Hercole Marliani, nemico di questi indigni, spedisce lettera per uno staffiero a Crema, dove questi tali sono, per rintuzzare questo loro orgoglio. Ma perché hanno gli istessi motteggiato che si vogliono obligare a Vinezia, la diligenza che si desidera da Vostra Signoria Illustrissima, per servizio di questi serenissimi padroni, è che faccia parlare a tutti que’ nobili che tengono theatri che, qualvolta Mattamoros e Frittellino uniti trattino accordo con que’ signori, sieno avvertiti che Mattamoros non può dispor di sé, anzi che Frittellino non è in questo corpo di comici dov'è Mattamoros, essendosi di sua auttorità cacciato in cotesta compagnia ”.
Il rimborso delle spese di viaggio, un tempo eccezionale regalia concessa in occasione di qualche evento principesco, era diventato una consuetudine, quasi una legge, per tutti i comici e poteva essere decisivo per le sorti di una compagnia, se prestiamo fede alle parole per la verità un po’ teatrali di Silvio Fiorillo che si abbandona sovente a napoletane implorazioni sull’argomento: subito al’arivo de la sua io mi sarrei parttito per la volta di Ferrara quando che io havesse hauto il modo per pagare le cavalcature per me, mio figlio et le robbe, ma perché non ò hauto il comodo di danari, io non sono venuto *.
Nel corso dell’anno comico 1618-19 il problema era stato facilmente risolto: pur di avere i comici al momento debito «ha Sua Altezza pagato loro le cavalcature per ilviaggio e dato loro tutte le comodità che hanno desiderato». Gli attori si erano trattenuti fino all’ultimo momento a Firenze: «sabato sera fecero (...) l’ultima lor comedia» e «domenica mattina partirno (...) a buon hora»; si era sotto le feste,
«ma il signor duca li ha affrettati acciò sieno a Mantova riposati al suo arrivo». Faranno il Natale per strada e avranno paga-certa almeno fino a carnevale”. Questi erano i patti: un calendario di ferro e uno stipendio d’oro. Le cancellerie ducali offrivano al teatro professionistico una protezione zelante, cosî zelante da vanificare il riconoscimento implicito della autonomia e dignità della nuova professione. Pagando e programmando da un carnevale all’altro si otteneva di determinare la vita delle compagnie, oltre che nell’organizzazione, anche nei contenuti delle loro messe in scena. Programmi e censure procedettero di pari passo. A Pier Maria Cecchini, che prenotava la stanza di Firenze con un buon anno d’anticipo, cosî come era richiesto dai funzionari medicei, si rispondeva «che l’Altezza Serenissima voleva
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prima sapere i suggetti della sua conpagnia»”. La censura non era certo una novità, qui però entrava come elemento meno istituzionale
e più imprenditoriale. Era uno degli elementi della trattativa, una pedina della partita a scacchi tra il primo teatrante e il primo spettatore. La pubblicazione a stampa di una commedia poteva essere la credenziale migliore (certo la più costosa) da mostrare ai futuri protettori. 4. Pier Maria Cecchini e Tristano Martinelli, primo e secondo zanni in commedia, i ribelli più diffamati e vituperati di questo periodo, epperò capaci di raccogliere individuali allori, certificati di benemerenza e anche lauti guadagni, furono le vittime illustri del nuovo ‘sistema’ teatrale. Troppo moderno il primo, troppo antico il secondo. Rimasero fuori dal sistema: Cecchini tentò di adeguarsi senza successo, Martinelli riusci benissimo a ignorarlo. Furono grandi attori probabilmente, ottimi impresari di se stessi, eccellenti pubblicitari, e non mediocri scrittori, ma non ebbero il talento per governare o sop-
portare l’indisciplina delle compagnie. Non seppero trasformarsi in maniera stabile in capocomici. E fu la nascita del capocomicato la conseguenza storicamente più rilevante del processo che stiamo esaminando. Un ruolo destinato, almeno in Italia, a segnare la vita del
teatro dei professionisti fino all’inizio del secolo xx, e a riflettersi nella drammaturgia e nelle scelte artistiche dei singoli attori. Un ruolo che, alla sua nascita, fu perfettamente interpretato prima da Flaminio Scala e poi da Giovan Battista Andreini. Furono loro, più che don Giovanni e il Giustiniani, i veri general managers del nuovo secolo. Scala fu il direttore dei Confidenti e seppe trasferire nella pratica quotidiana e artistica le esigenze strategiche del suo protettore don Giovanni, mantenendo, all’interno del gruppo di attori ai suoi ordini, rispetto delle « parti», coesione e continuità di rendimento. Non ebbe forse chiari gli effetti artistici che la sua funzione doveva determinare, e fu anche più rispettoso delle funzioni assegnategli dal suo capo che capace di un autonomo disegno impresariale; però nell’esercizio del mestiere di capocomico fu sicuramente una figura prototipica di grande valore. Più consapevole ancora fu Giovan Battista Andreini, coadiuvato, almeno nei primi anni di attività, dal carismatico padre Francesco, la cui coscienza professionale abbiamo già avuto modo di conoscere come esemplare. Il figlio, a capo dei Fedeli, mantenne in piedi una compagine composta da teatranti diversi ma sempre perfettamente efficiente, capace di rispondere con puntualità alle richieste del sistema. Di quel sistema l’organizzazione della compagnia
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fu quasi l’immagine speculare, destinata a rimanere ineguagliata e immobile per quasi due secoli di teatro italiano. Al capocomico era demandata la previdenza comicale. A lui spettava l’obbligo di essere giudizioso, dirigente e sovvenzionato. E lui, soprattutto, doveva guardarsi dagli attori all’antica, i buffoni tutti genio e sregolatezza, gelosi del loro segreto repertorio, che potevano buttare all’aria qualunque pianificazione: di viaggio, di copione, di repertorio. Una volta scelte «le parti» e sedati i reciproci malumori, rassicurate le diverse censure con canovacci decenti che erano il risultato (quasi la somma aritmetica) degli attori che si erano scelti, il resto
veniva da solo. Il copione da recitare era più leggero dell’armamentario delle «robbe» da portarsi dietro, giaceva dentro i corpi, era fitto nella memoria linguistica e gestuale degli attori. smembrato, ogni sera poteva agevolmente ricomporsi purché gli attori rimanessero sempre insieme e identici (o almeno prevedibili, se non per il pubblico, per gli altri compagni) nel gioco della scena”. Sarebbe stato eccessivo amore per la complicazione (oltre che antieconomico) presupporre successive varianti nel cas?; ancora peggio sarebbe stato tollerare nella compagnia attori troppo innamorati del proprio personale succes-
so. Alleanze e armonie comunitarie avrebbero dovuto essere continuamente riviste, gli stessi canovacci si sarebbero rotti in più punti a causa delle varianti improvvise volute dal buffone solitario. Le riparazioni sarebbero state tanto più difficili quanto più dotato e originale fosse stato quel buffone. Mentre le compagnie perfezionarono, sotto la ferrea direzione di un capocomico, la loro struttura professionale e ‘aziendale’, ricevendo dai committenti garanzie che ben presto si rivelarono costrittive, icommedianti si chiusero, individuo per individuo, all’improvvisazione. Si può ben dire che i pericoli più gravi per i capocomici previdenti vennero, nel corso del Seicento, soprattutto dagli attori indisciplinati. E ancora si capirà come la cosiddetta cristallizzazione secentesca della Commedia dell'Arte, pur subendo l’azione di agenti esterni, venisse guidata soprattutto da fattori endogeni. I capocomici forti resero i loro attori meno ricattabili dai mecenati, ma anche meno liberi. Non
era più il principe spettatore che ordinava un generico programma d’intrattenimento (Plauto volgarizzato, canzoni per banchetti, «lazzi» a volontà) e che pagava individualmente i suoi esecutori; era il capocomico che assegnava le parti e garantiva per tutti davanti al committente. I pericoli per l'assetto della compagnia venivano dunque dall’improvvisazione, dal ricorso che ogni recitante poteva fare a depositi segreti del suo repertorio personale, cosi segreti da sopraffare i
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compagni, spiazzandoli e isolandoli. Gli stessi protagonisti della scena sentivano perciò la necessità di autolimitarsi se volevano tutelare la convivenza con gli altri. Solo più tardi, molto più tardi, quando la società borghese avrà riconosciuto ai comici i diritti e idoveri di un mestiere quasi istituzionale e i problemi pratici delle compagnie itineranti saranno meno drammatici, nell’epoca cioè del trionfo del teatro di mestiere, non sovvenzionato e non funzionario (tra la fine del Settecento e la prima metà del secolo x1x), allora comincerà il rimpianto per la perduta creatività dei buffoni solitari, costretti a scomparire dall’organizzazione protoindustriale del Seicento. Sarà allora che, ignorando le condizioni materiali e prosaiche del teatro dell'Arte, fiorirà, nutrito di inevitabili sensi di colpa per la perduta età dell’oro del teatro, il mito della Commedia dell'Arte fatta di geniali e disordinati folletti e di prodigiosi artisti dell’irrazionale. La creatività improvvisa del singolo comico, che sarà riscoperta senza riserve fra collezionismo archeologico e primitivismo folklorico dagli intellettuali dei secoli XVIII e XIX, appare ai capocomici del primo Seicento in una luce contrastata di necessità e di insidia”. Pericolosa appariva a costoro l’instabilità dell'organico di compagnia: dagli acquisti di comici sconosciuti alle defezioni di attori collaudati. Anche se riconducibili a un numero limitato di «parti»
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vecchi, gli amorosi, le fantesche, i capitani, gli zanni) i repertori dei personaggi variavano per ragioni geografiche e storiche. E pochi erano i comici in grado di conoscere le qualità dei molti pretendenti a una «parte» in una delle maggiori compagnie. La grandezza unica di Frittellino-Cecchini si basava proprio (e lo si può rilevare leggendo i suoi documentati scritti sulla recitazione o alcune sue minuziose let- . tere) sulla conoscenza di professionisti del teatro distribuiti in tutte le regioni d’Italia, sulle informazioni riservate circa il loro stato economico (quanti debiti avevano, con chi, come potevano essere ricattati per quella via), sulla raffinata competenza con cui era capace di valutare le loro attitudini sceniche e anche la loro interscambiabilità. Unico nel suo genere”, Pier Maria Cecchini era, grazie a questa sua cultura tecnica, molto aperto ai cambiamenti, elastico nella costituzione o nello scioglimento di una compagnia. In tutta la sua vita seppe lanciare molti attori sconosciuti, poi destinati a un grande successo; per le stesse ragioni non conservò mai un nucleo permanente di collaboratori. Unica ‘fedele’ compagna la moglie Orsola, in arte Flaminia. Sfruttando questa forza-debolezza del Cecchini, costruirono la loro fortuna i Fedeli di Giovan Battista Andreini e i Confidenti di don Giovanni. I primi strapparono fin dal 1608 agli Accesi di Frittellino il
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titolo e il ruolo di principale compagnia del duca di Mantova; i secondi gli rubarono imigliori attori e poi, con il tempo, ‘piazze’ e fama in tutta Italia. Lelio poteva contare sulle doti canore e femminili della moglie Florinda, sui meriti dei genitori Isabella e Francesco, Flaminio Scala faceva proteggere i Confidenti da don Giovanni, ma l’uno e l’altro univano a questo patrimonio ricevuto dalla sorte una personale ossessione. Erano infatti dei conservatori. Difendevano con durezza l’unità delle loro compagnie dalle intrusioni esterne e dalle tentazioni interne. Non ammettevano diserzioni o conversioni. Credevano fermamente che l’ordine organizzativo fosse la premessa dell’efficacia spettacolare, che la ripetizione di schemi collaudati fosse preferibile, per la compagnia, alla innovazione improvvisa. Non a caso entrambi si dedicarono con particolare fortuna alla drammaturgia. Il Teatro delle favole rappresentative di Scala e l’opera omnia di Giovan Battista Andreini sono un gigantesco repertorio consuntivo di trame, situazio-
ni, generici, dialoghi, ma possono essere anche visti come il brevetto ufficiale di schemi combinatori collaudati a cui gli attori sono invitati ad attenersi. La drammaturgia riflette l’organizzazione e, come si direbbe oggi in gergo aziendale, contribuisce all’ottimizzazione. Viceversa, un attore all’antica, buffone più che attore, come Tri-
stano Martinelli, capace di affascinare con le sue arguzie improvvise e con le risposte pronte tutta la corte di Francia, pur costituendo una garanzia di sicuro successo per qualunque compagnia che lo accogliesse nel suo organico, era anche un pericoloso guastatore, portatore di una miccia imprevedibile. Arlecchino non conosceva autolimitazioni e, come il suo predecessore Pedrolino, doveva essere acquistato a scatola chiusa. Egli si identificava completamente con la sua «parte in commedia», e quando offriva ai re e ai duchi le sue prestazioni, queste erano inclusive di « parti», per cosî dire, già belle e scritte nella sua testa e nel suo corpo, accumulate nel corso di un traizing che era durato quanto il suo mestiere. Chi le riceveva, quelle « parti» (l’apparatore della festa, gli altri attori, il capocomico) non doveva fare altro che adattarle al resto dello spettacolo, al moncone di trama fornito dal canovaccio, ai caratteri suggeriti dai comici restanti: Quelo che Vostra Signoria à da operare per me si è che Vostra Signoria dica a Sua Altezza serenissima se si vole servire di me questo carnevale de la mzia parte în comedia, ch'el mi comandi, ché a ogni minimo suo cenno io sarò prontissimo a venirlo a servire ®.
Un comportamento del genere urtò contro la previdenza del capocomico e la sua abilità di concertatore della drammaturgia e del-
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l’organizzazione, nel momento in cui queste ultime ebbero raggiunto un pit alto grado di efficienza e un’inedita regolarizzazione grazie all’operosità festiva del sistema cortigiano all’inizio del Seicento. Allora l'efficienza dell'insieme e la libertà del buffone, la previdenza del capocomico e l’improvvisazione del solista apparvero incompatibili. E il conflitto scoppiò tutte le volte che l’offerta di una tournée prestigiosa e ricca da parte di un committente ricco e prestigioso venne ad accelerare, da una parte, le ansie di libertà, di successo e di improvvisazione dei solisti, e dall’altra, l'esigenza di ordine drammaturgico e organizzativo dei capocomici. È quello che successe quando, sul finire del 1618, giunse in Italia la notizia di un possibile viaggio in terra di Francia. Non a caso fu Arlecchino che avverti prontamente il duca di Mantova. Ii tono burlesco adoperato lascia trasparire in filigrana l’apertura di un negoziato tra il mondo dei comici e la corte. L'attore, il re, il duca e don Giovanni dei Medici sono collocati sullo stesso piano: « Gli faciamo sapere come nuovamente n’è arivato quatro lettere mandate dal nostro carissimo compadre re di gali, una indrizata a Vostra Altezza, una al signor don Giovani, una al signor Arlechin et l’altra alla nostra persona, et in dette lettere si contiene che noi tutti quatro prencipi dobiamo con le nostre forzze dargli socorsso et aiuto in un suo bisogno, et mandargli una compagnia eletta da noi de comici soprafini per socorerlo in certe sue alegrezze» ®. Si scatenarono ben presto appetiti, invidie, concorrenze sleali, trattative segrete e palesi che coinvolsero principi e nobili, e tutti i più importanti attori italiani del tempo, e che durarono fino all'autunno del 1620, quando finalmente la partenza per la Francia ebbe luogo. Precedenti inviti (1600, 1608, 1613) erano stati contrassegnati da difficoltà minori e tuttavia
crescenti. In un ‘sistema’ teatrale diventato più rigido e pit razionale, metà impresariale e metà mecenatesco, l’incursione di una commit-
tenza principesca cosî impegnativa come quella della corona di Francia, rappresentava per certi versi un salto indietro nel tempo. Si riproponevano sollecitazioni cortigiane che il più aggiornato impresariato
italiano aveva oltrepassato. Arlecchino, sempre sensibile al richiamo del denaro, si affrettò a indossare i panni del mediatore-capocomico;
altrettanto solerti furono i principali attori, da Andreini a Cecchini a Scala, che cercarono di occupare subito una posizione di rilievo nella nuova spedizione. Dovettero correre numerose consultazioni al tiguardo, ma poi fu d’obbligo che ciascun attore si rivolgesse alproprio potente protettore. Scala chiese aiuto a don Giovanni, gli altri ai Gonzaga. Il duca di Mantova (che poi era l’ex cardinale Ferdinando,
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esperto in cose d’arte e di teatro) fu punto nell’orgoglio mecenatesco e volle probabilmente sfruttare l’occasione anche per stringere buoni legami con la nuova dirigenza politica che affiancava allora Luigi XIII; per parte sua analoghe considerazioni doveva fare don Giovanni dei Medici, forse spinto a interessarsi alla spedizione anche da motivi dinastici, vista la disgrazia in cui era caduta da qualche tempo la regina Maria dei Medici, dopo il colpo di stato dell'aprile 1617 *. Era inevitabile che, davanti a cosî forti ragioni, la microsocietà del teatro subisse contraccolpi non lievi. L'episodio merita di essere analizzato nel dettaglio perché costituisce la migliore rappresentazione possibile del conflitto tra mercatura teatrale e mecenatismo cortigiano, nonché il caso estremo di contrapposizione fra un nucleo di attori moderni e un buffone ‘all'antica’ come Martinelli. 5. All’inizio sono Arlecchino, Scala, Andreini e Frittellino, a contendersi il diritto di formare la nuova troupe, scambiandosi accuse e blandizie. Scala difende l’unità dei Confidenti giurando a don Giovanni « che la compagnia desidera qual è di passare in Francia sotto il suo glorioso nome, assicurandosi che la getterà a tterra la fama di quante compagnie che vi sono state», e accusa Arlecchino di voler «rompere» la sua compagnia trascinando alcuni di loro, lui stesso, l’innamorato Fulvio (Domenico Bruni) e lo zanni Scapino (Francesco
Gabrielli)”, nella formazione del duca di Mantova, secondo un pro-
cedimento a noi ben noto. Questa volta però il tradizionale duello fra sovrani mecenati e principi impresari si svolge per procura. Arlecchino rappresenta i Gonzaga, Scala agisce in nome di don Giovanni. Intanto, sebbene tutti gli attori dei Confidenti dichiarino la loro fedeltà a don Giovanni, lo Scala non può fare a meno di aggiungere sospettoso: «ne stiamo in dubio» “. Il gioco si fa sottile. Arlecchino ricorre all’astuzia per vincere le diffidenze provocate dall'intervento del duca di Mantova, dichiara di agire a titolo personale e alle dirette dipendenze del re di Francia, chiede a don Giovanni « qualche personaggio della sua compagnia [Scapino], come parimenti n’ha fatto instanza al signor duca mio signore, il quale cortesemente m'ha concesso quelli ch'io gli ho addimandati»”. Andreini, qualche giorno dopo, non esita a capovolgere la sua posizione, prende anche lui le distanze dal Gonzaga e si adegua prontamente ai voleri del Medici ringraziandolo perché questi «si compiace ch’io con mia moglie entriamo nella sua
compagnia per questa andata in Francia»; in più si concede il lusso di perorare la causa di Arlecchino perché venga accettato, anche lui,
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nella formazione di don Giovanni, sebbene sia, da un punto di vista
tecnico, un doppione di Mezzettino, secondo zanni dei Confidenti *. Nonva tanto per il sottile l’Andreini, purché corrano i soldi. L’equilibrio della compagnia conta meno del guadagno: [Arlecchino] si contenta di far tutto quello che vuol Mezettino, essendosi nelle buone compagnie veduto et Arlecchino e Burattino e Francatrippi e mill’altri cadenti come Coli, Bagattini et simili. Poi, per ricever un utile come quello ch’alla compagnia s’appresenta, non si dee guardar così al minuto, che pur si vede nella stessa compagnia di Sua Eccellenza tollerarsi tre zanni e due fantesche, benché paiono i zanni ciascun per sé da l’altro diferente ”.
Quasi lo stesso giorno Arlecchino si piega alle ragioni aziendali di Scala e don Giovanni, giustificando il precedente tentativo fatto per conto del duca di Mantova: «per compiacere alli miei compagni io fui sforzato a scrivergli quella, et perché anco Sua Maestà sapia che io non ho mancato dalla mia parte di fare lo inposibile per metere insieme una buona compagnia conforme al volere di Sua Maestà ». Facendo buon viso a cattiva sorte, dimentica i legami di solidarietà comica e, da capocomico ridiventando buffone, si preoccupa solo di sé: Hora gli è il tempo di favorirmi che sarà mandando la sua compagnia in Francia che io vada con loro sollo et soletto, dove io son certo che gli sarò di uttile asai a detta compagnia (...) et perché nella sua compagnia vi è Mezetino che fa il mio personagio, faremo un giorno per uno le nostre segonde parti [la parte di secondo zanni, cioè il cascatore], et un giorno per uno a desproposito [in un ruolo inusuale], perché io son homo che mi acordo con tuti”.
La prima fase della trattativa registra dunque il successo delle ragioni professionali contro l’improvvisazione disordinata istigata dalle corti. Ma passano due mesi e si segnalano nuove mosse gonzaghesche. Questa volta è la cancelleria del duca che prende l’iniziativa, non più fidandosi evidentemente della intermediazione dei comici. Il conflitto tra don Giovanni e Mantova si svolge tuttavia ancora per linee trasversali. Tra minacce velate, segrete insinuazioni e colpi di mano. Il 27 marzo 1619 Ferdinando Gonzaga mette il Medici davanti al fatto compiuto. Si è assicurato quattro attori Confidenti: Scapino, la moglie di lui (Spinetta), Marina Dorotea e Francesco Antonazzoni (sposi nella vita e innamorati sulla scena con i nomi di Lavinia e Ortensio) ?:
«mi son fatto dar parola che, finito quest'anno, debbano venire a servirmi, credendo io che vi possa anco concorrere il gusto di Vostra Eccellenza, et così, quand’ella se ne contenti, m'hanno promesso. In questo tempo non mancherà commodo per ritrovare altri personaggi in cambio loro, et se nella mia compagnia se ne troverà alcuno che possa essere di gusto di Vostra Eccellenza io prontamente ne la com-
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piacerò»”. Si tratta di un vincolo che mira a impegnare gli attori per la spedizione francese”, anche se il duca tenta già di trattenerli nell’immediato. C’è un clima di congiura, una lettera di Scala a Ortensio sta per essere perduta. Francesco Andreini la recupera e la fa arrivare a destinazione; vi aggiunge un messaggio cifrato che consiglia un intervento urgente di don Giovanni”. Scala si spaventa. Don Giovanni interviene. Davanti all’autorità del duca egli è il più debole. Esibisce una dolorosa umiliazione. Rinuncerà a Scapino ma: senz’esso non mi curerò in avvenire di tenere protezzione di altra compagnia di comici, già che quella che io ho fatta da me et tenuta otto anni et più insieme sarà senza questi personaggi priva dell’anima et dello spirito”.
È una formulazione ambigua, rinunciataria ma anche leggermente risentita. Gli attori restano sospesi, incerti. Scala è il più agitato. Scrive due lettere a distanza di poche ore, teme che il duca «avanti ch’il coriero parta, si muterà d’umore». Scruta i compagni e ci tiene a far sapere al suo padrone che Scapino e Ortensio stanno «in qualche timore che Vostra Eccellenza li conceda di novo a Sua Altezza Serenissima»”. Non osa parlare perché — confessa — ha «troppa paura». E quando scrive è circospetto, finge: «la lettera (...) la scrissi alla pre-
senza del secretario, e per questo scrissi quella parola (...). Hora li dico che, quando io non fusse comandato da Vostra Eccellenza, non
andrei al servitio de Sua Altezza per tutto l’oro del mondo, perché mi farei più presto frate»”. Cosî tra sospetti e calunnie («il comico, qual è più dedito a credere il male che il bene, sicurissimamente mi teneva per reo») Scala bada a non irritare il duca e a rassicurare don Giovanni. La partenza per la Francia rimane sospesa come una minaccia per tutta l’estate. La notizia di un movimento lascia Scapino «più morto che vivo » e Mezzettino, che «è homo spaventoso», «ogni poco di cosa lo adom-
bra»”. I Confidenti sono a Milano e il governatore spagnolo, il duca di Feria, è particolarmente interessato a scoprire i maneggi filofrancesi del duca di Mantova. Attraverso Mezzettino, e poi Scala, egli desidera tenere vigile don Giovanni, che infatti viene puntualmente avvertito delle trame. In via confidenziale viene riferito che un certo Lucchesino, che si spaccia per cavaliere di piacere, è in realtà un emissario dei Gonzaga «venuto per menar via la Lavinia, suo marito e Scapino» con la promessa di un prestito di più di mille scudi. Il duca di Feria è deciso a intralciare quella manovra anche se solo teatrale, e Flaminio Scala ha capito che le tensioni che travagliano la compagnia oltrepassano le sue capacità d’azione: «la Lavinia sarà forzata de an-
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dare a Mantova, non considerando lo interesso della compagnia. E poi ch’à da fare di Scapino? Horsù, non so che altro dire se non che è il duca di Mantova». Vicino a lui, Mezzettino « genufflesso fa un basacappa» a don Giovanni, gli altri aspettano di subire il destino: c’è chi, come Marc’Antonio Romagnesi'”, perde la pazienza e si lascia andare a qualche parola che provoca la «gran collera» del duca di Mantova; altri esibiscono la consueta sottomissione; Scapino, fatto
forte delle promesse di denaro, dimostra «aroganza e troppa ambizione». Tutt’intorno si rubano lettere «a l’uso antico», mentre molte
«cose passano secrete». In quell’estate del 1619 non si capisce se — come dice lo Scala — «il duca di Mantova la vince». Grazie anche al sabotaggio del duca di Feria i soldi promessi a Lavinia, Ortensio e Scapino sono perduti: « Li milli e trecento sono andati in fumo e ipretensori se consumano nel usura de’ suoi debbiti, e l’alterezza si va abbassando un poco, e si vanno mantenendo con qualche riffa, perché si comincia a vedere che tutto il mondo è paese». L’esito del duello tra il mecenate e l’impresario è incerto. C'è spesso silenzio, in questi mesi, dopo il carnevale che avevano trascorso insieme a Mantova, tra il Medici e il Gonzaga. Nell’attesa il duca «ne sta perplesso» mentre il solitario don Giovanni è tormentato dal dubbio che gli ha insinuato una lettera semiufficiale di Ettore Marliani segretario dei Gonzaga a proposito del suo fidato Flaminio Scala: Sua Altezza vorrebbe valersi della sua persona nell’arte di profumiere, et che facesse qui una bottega con lasciarlo partecipare nella sua compagnia in quel medesimo modo che fa in quella di Vostra Eccellenza !®.
Una simile proposta poteva aumentare i sospetti di don Giovanni circa un tradimento di Flaminio Scala. Ma per capire l’importanza di questo piccolo intrigo teatrale, e prima di assistere allo svolgimento della lunga partenza per la Francia, èopportuno prolungare un poco l’attesa e avvicinare meglio la figura di don Giovanni e la sua libera compagnia dei Confidenti.
! Le notizie al riguardo sono tuttavia sospette, dal momento che vengono desunte dalle dichiarazioni di decima dei diretti interessati, probabilmente preoccupati per eventuali imposte elevate, e quindi poco propensi a partecipare all’autorità eventuali successi di pubblico. Cfr. quanto scrive N. Mangini, I teatri di Venezia cit., pp. 20-24, dove vengono citati idocumenti relativi alle dichiarazioni dei redditi dei Michiel (« Un luogo fabricato già un anno per recitar comedie, le quali essendo state prohibite con le strettezze note ad ogn’uno, poca speranza si può havere di trarne più alcun utile»: cfr. ASV, X Savi sopra le Decime, Condizion Dorsoduro, B. 172, n.1376) e dei Tron («Un luogo da recitar le Comedie del qual al presente non si cava niente»: cfr. ivi, Condizion S. Marco, B. 158, n. 905).
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? Il merito di questa scoperta spetta a Domenica Landolfi che l’ha compiuta nel corso di una ricerca svolta in preparazione delle Corrispondenze cit. La notizia fu per la prima volta menzionata da S. Ferrone, La compagnia dei comici « Confidenti» al servizio di don Giovanni dei Medici (1613-1621), in «Quaderni di Teatro», n. 26 (1984), pp.135-56 (ma già in precedenza quel testo era stato letto al I° simposi internacional d’Història del teatre, tenutosi a Sitges, il 13 e 14 ottobre 1983: cfr. gli atti in E/ teatre durant l'Edat Mitjana i el Renaixement cit.); qui correggo alcune imprecisioni di date. Ha tenuto conto della notizia N. Mangini, Alle origini del teatro moderno cit., pp. 28-29. Del resto già Zorzi, in occasione della mostra I teatri pubblici di Venezia (secoli xvm-xvui), realizzata con E. Garbero, M. T. Muraro e G. Prato, per la Biennale di Venezia del 1971, avvertiva che era opportuno, sulla scorta di un’annotazione del diario di
Gerolamo Priuli, «collocare l’origine dei tre teatri molto in alto nel tempo, e largamente in anticipo sulle date trasmesse dagli annalisti posteriori»: ora in L. Zorzi, I/ teatro e la città cit., p. 253. w A don Giovanni dei Medici è dedicato l’intero capitolo quarto. Sulla sua figura si vedano i seguenti studi: C. Promis, Don Giovanni de’ Medici, in Biografie di ingegneri militari italiani, Paravia, Torino 1874, pp. 747-66; G. Sommi Picenardi, Don Giovanni de’ Medici governatore dell’esercito veneto nel Friuli, in «Nuovo Archivio Veneto», vII (1907), fasc. 25, pp. 104-42 € fasc. 26, pp. 94-136; P. Bacci, Don Giovanni de’ Medici architetto e il «modello » per lafacciata di S. Stefano dei Cavalieri in Pisa, Pacini, Pisa 1923; G. Pieraccini, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, Vallecchi, Firenze 1925, vol. II, pp. 217-49; G. Marti, La partecipazione di don Giovanni alla guerra d'Ungheria (1594-95 e 1601), in« Archivio Storico Italiano», xCIX (1941), vol. I, pp. 50-59; F. Borsi, Don Giovanni de’ Medici, principe architetto, in Firenze del Cinquecento, Editalia, Roma 1974, pp. 352-58; D. Landolfi, Don Giovanni de’ Medici «principe intendentissimo in varie scienze», in «Studi Secenteschi», vol. XXIX (1988), pp.125-62; Id., Su ur teatrino mediceo e sull’Accademia degli Incostanti, in «Teatro e Storia», fasc. 10 (1991), pp. 5788. Tra le fonti manoscritte si veda C. Baroncelli, Discorso del Signor C. B. [...] dove s'intende la vita di Don Giovanni de’ Medici [...], ms. in BMF, C.CCCLXXII.9, cc. 1741-2340. » La prima notizia che fissa un legame stretto fra don Giovanni e la compagnia dei Confidenti si trova in una lettera del marchese della Hinojosa a don Giovanni, da Milano, del 18 dicembre 1613, dove si fa riferimento alla «carta de Vuestra Excelencia de 25 del pasado [novembre] (...) por la compania de los Confidentes» e alla prenotazione della stanza di Milano: «Digo que la compania de los Confidentes podrà benir para San Juan [24 giugno 1614], que aqui seri muy bien recibida y de mi todas las occasiones que Vuestra Excelencia me diere en que servile» (ASF, Mediceo, f. 5143, c. 46r). È probabile che la formazione si sia organizzata nel corso del precedente periodo di quaresima-estate e che abbia preso a funzionare in maniera regolare sotto la nuova egida a partire dal tradizionale giorno di San Martino (1 novembre). Durante quel periodo preparatorio gli attori che faranno parte della compagnia di don Giovanni (Giovan Battista Austoni detto Battistino, Salomè Antonazzoni sposata Austoni detta Valeria, Francesco Antonazzoni detto Ortensio, con la moglie Marina Dorotea Antonaz-
zoni detta Lavinia, Domenico Bruni detto Fulvio, Ottavio Onorati detto Mezzettino, Francesco Gabrielli detto Scapino) risultano essere ancora oscillanti tra varie formazioni; le lettere relative ai negozi teatrali del principe mediceo non contengono mai il riferimento esplicito
al nome dei Confidenti (si parla invece di «compagnia della signora Valeria» o della « compagnia di Battistino») e tuttavia si percepisce un forte interessamento di don Giovanni, mediato anche dal maggiordomo Cosimo Baroncelli, a regolamentare la vita dei comici destinati a Firenze: «La compagnia della signora Valeria desiderarebbe di esser favorita del Salone [teatro della Dogana in Firenze] per dar principio ad Ognisanto prossimo [1° novembre 1613] a recitar in cotesta città qualche comedia»
(lettera di Annibale Turchi a Cosimo Baroncelli,
da Venezia, 23 febbraio 1613, ivi, Carte Alessandri, f. 7, parte seconda, c. 1857); «Rendo infinite gratie a Vostra Signoria di quanto ha operato in servigio della signora Valetia (...). Intendo che Mezettino, non ostante la parola data a me di esser con Fritelino, si è posto nella compagnia di Battistino et che di questo ne ha dato parola al signor don Giovanni» (lettera di Annibale Turchi a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 22 marzo 1613, ivi, c. 1877-v). Ma si veda anche, per tutto questo periodo, la lettera del Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 15 agosto 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 1627-1637, e quella del Cecchini a un segretario del
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duca di Mantova, da Venezia, 8 dicembre 1612, ivi, c. 127; entrambe le lettere si possono ora leggere in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 21 e Cecchini, lett. 55. Almeno tre volte don Giovanni si trovò a rievocare la data di formazione della compagnia dei Confidenti, senza tuttavia chiarire con precisione le oscurità al riguardo. Nessuna delle sue affermazioni retrospettive è concorde. Una volta coliocherebbe la nascita della compagnia nel 161 poiché (nel 1619) ricorda di averla «tenuta otto anni e più insieme» (lettera al duca di Mantova, da Paluello, 6 aprile 1619, in ASMN, Gonzaga, busta 1551, 1 c.n.n.); un’altra volta la sposterebbe al 1612 visto
che (nel 1618) dichiara perentoriamente: «Son circa sei anni che io stesso per mio gusto la (lettera al duca di Mantova, da Venezia, 30 marzo 1618, in ASF, Mediceo, £. 1550, I c.n.n.); in una terza occasione verrebbe invece incontro alla nostra ipotesi circa il 1613 ricordando (nel 1620) che i suoi attori «per sette anni continui hanno obbedito al cenno» (lettera a Ercole Marliani, da Venezia, 21 marzo 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1552, 2 cc.n.n., ora in Appendice, III). v Lorenzo Giustiniani (1570-1620), laureato a Padova, viaggiatore, colto autore di un’orazione De perfecto ingenti cultu (1593), occupò nel corso del tempo molte cariche della magistratura veneziana. Savio agli Ordini (1595-96), incaricato dell’esazione dei crediti pubblici (1598), lavorò poi a Londra (1602) e Damasco (1604); nel 1608 sposò una nobile vedova della famiglia Grimani e, nello stesso anno, fu fatto senatore; fece poi parte dei Dieci Offici, dei Dieci Savi, fu Savio di Terraferma (1608), provveditore alle Biade (1613) e membro del Consiglio dei Dieci (1614). In seguito combatté, insieme a don Giovanni, nel Friuli contro gli austriaci protettori dei pirati uscocchi e fu impegnato nell’assedio di Gradisca (1617) con la carica di provveditore in campo. Cfr. P. Litta, Farziglie celebri d’Italia, Giusti, Milano 1819 sgg., vol. VI, disp. 78, tav. V. Sui suoi rapporti con don Giovanni durante la campagna del Friuli si veda l’accenno nella lettera di don Giovanni al duca di Mantova, da Venezia, 7 luglio 1618, in ASMN, Gonzaga, busta 1550, 1 c.n.n.; più in generale cfr. il carteggio contenuto in ASF, Mediceo, f. 5136, passim, nonché C. Pizzorusso, Ricerche su Cristofano Allori, Olschki, Firenze 1982, pp. 29-31 e 109-11. Sulla campagna del Friuli cfr. F. Moisesso, Historia della ultima guerra nel Friuli [...] Libri due, Barezzi, Venezia 1623; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma 1958; G. Benzoni, I «frutti dell’armi». Volti e risvolti della guerra nel 600 in Italia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1980. x Le lettere più importanti di questo carteggio sono riportate nell’Apperdice, II. Nel riordino della sequenza delle lettere si è tenuto conto del costume veneziano di datazione che fa cominciare l’anno dal 1° marzo. Sy Lettera di Orazio Del Monte a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 18 gennaio 1613 72v [1614], in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. 1051-v, ora in Appendice, II.5. (o) Ibid. Lettera di Lorenzo Giustiniani a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 8 febbraio 1613 720 [1614], in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. mr, ora in Appendice, IL.6. 5 Le notizie sulla differenza delle gestioni Tron e Giustiniani sono desunte da una lettera facente parte di una lunga trattativa fra iTron e i Confidenti. Flaminio Scala si rivolge, da Bologna, a don Giovanni dei Medici, che si trova a Venezia, il 20 ottobre 1619: «Sogliano li signori Troni dare alli comici che recitano nella lor stanza il quarto di quello si cava delli palchetti, e stanza per nulla, affitando noi per noi le seggie; hora è scritto il signor Ettor alla compagnia che non intende darli nulla de’ palchetti, cosa che non si è usata mai, massima dal Natale al carnevale, perché nelli altri tempi è vero che si paga doi zechini il giorno e non ànno utile de’ palchetti, ma nel tempo detto noi abbiamo l’utile de’ palchi senza pagar nulla. Questa lettera à dato che dire alla compagnia, e ne scriveno a detto signore, dicendo non voler venire se non ànno quello che ànno auto altre volte; anzi, il signor illustrissimo Lorenzo Giustiniano ne dava la mità de’ palchi» (cfr. ASF, Mediceo, f. 5150, cc.592r e 5937; ma anche le lettere dello stesso a don Giovanni, da Venezia del 2 marzo, da Bologna del 18 e 19 novembre 1679, rispettivamente in ASMN, Gonzaga, busta 1551, 1 c.n.n., e in ASF, Mediceo, £. 5150, cc. 588r-v e 590r: per tutte vedi ora Corrispondenze, I, Scala, lett. 53, 80, 87 e 88). Sulla incertezza della riscossione degli ingressi ai palchi nelle altre stanze veneziane si veda quanto aveva scritto Giovan Battista Andreini qualche anno prima, quando il teatro dei Giustiniani era ancora da costruimessi insieme»
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Capitolo terzo re: «crede la compagnia nostra (...) di non fare carnevale in Venezia, et questo per le grandi controversie che sono in campo, colpa ognuno di voler palchetti, che già per questo molti nobili si sono nemicati» (lettera di G. B. Andreini a Vincenzo Gonzaga, da Venezia, 18 settembre 1610, in ASMN, Gonzaga, busta 1542, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 16). I diritti dei patrizi veneziani a disporre dei palchetti tramite l’affitto dovevano limitare le concessioni ai comici: nel 1613 sappiamo che i «senatori più vecchi et di maggior autorità (...) hanno cento palchetti ad affito per loro et per le sue donne » (lettera di Pier Maria Cecchini a un segretario ducale mantovano, da Vicenza, 29 agosto 1613, in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 1c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 60). Cfr. ancora una notizia del 2 ottobre 1626 in cui un trattamento privilegiato offerto all’Andreini non contempla comunque i palchi: «assicurandoci d’un ottimo guadagno, oltre 300 ducati che prometteva di donativo, gli scagni, casa, e mill’altri regali» (lettera di Giovan Battista Andreini a un segretario ducale mantovano, da Cremona, 2 ottobre 1626, in ASMN, Gonzaga, busta 1757, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 51). Cfr. CGV, Archivio Vendramin, 42F 16/4, cc. 10-11, 2 aprile 1622, cit. in N. Mangini, I teatri di Venezia cit., pp. 49-50. Nella lettera di Francesco Biffoli al granduca, Firenze, 8 ottobre 1589 (ASF, Dogana di Firenze, f. 221, supplica n. 276, ora in A. M. Evangelista, I/ teatro della Commedia dell’Arte a Firenze cit., p.174) si ricorda che nel 1587 e1588 lo stanzone era stato concesso gratuitamente. Analogamente Pirro Visconte Borromeo aveva chiesto a Ferdinando I dei Medici, da Milano, il 3 novembre 1590 (ASF, Mediceo, f. 812, c. 4977), che i comici Gelosi «ottenghino grazia d’esser sgravati da la pigione che doveriano pagare nel Salone nel quale costì sono soliti recitare le comedie e questo mentre dura il tempo de la loro convenzione, che deve essere per duoi mesi o circa, come intendo». Eccezionale il caso di un pagamento delle spese di soggiorno dei Gelosi da parte del granduca in occasione di un battesimo mediceo del 1592 (cfr. il pagamento ai comici Gelosi, del 22 aprile 1592, ivi, Strozziane, serie I, f. 27, cc. 2r: «Ricordo come il dì 22 aprile 1592 vennono in Firenze chiamati da Sua Altezza Serenissima per il sudetto battesimo la Compagnia de’ Comici Gelosi che erono in Siena, e si èpagato loro le vettovaglie da soma e da sella che sono importate»; 60: «A Comici Gelosi, chiamati da Sua Altezza in n. 13 per loro vitto di giorni stati in Firenze a scudi 6 il giorno»). Dello «stanzone franco » si parla a proposito della rappresentazione della Finta pazza nell’inverno del 1644-45 (cfr. G. Poggi Cellesi, Diario di corte, ivi, Miscellanea medicea, £. 302, inserto 3, c. 28); ma cfr. anche un biglietto anonimo, senza data [ma 1645], ivi, Mediceo, £. 5439, c. 325r: vi si parla dello «Stanzone di Fiorenza franco». Infine una supplica di una compagnia non identificata (22 settembre 1649, ivi, Dogana di Firenze, £. 238, supplica n. 164) che chiede la dispensa del pagamento dello «zecchino alla Dogana», conferma la durata nel tempo delle esenzioni. Cfr. lettera di Francesco Biffoli, dell’8 ottobre 1589, cit.; contratto dei comici Uniti, Firenze, 2 aprile 1594, in ASF, Dogana di Firenze, £. 223, supplica n. 318 (c); lettera di Francesco Biffoli del 3 aprile 1594, cit. Nella supplica dei comici Uniti, Firenze, 26 marzo 1594, in ASF, Dogana di Firenze, £. 223, supplica n. 318 (a), il pagamento della «solita pigione» si prevede che debba cominciare «il primo di novembre, o prima se prima si troverarino a Fiorenza, et da fornire il primo giorno di Quaresima». i Nella già citata supplica dei comici Uniti, 26 marzo 1594, si fa domanda, non solo per la «stanza solita» ma anche per «le stesse camere e palchetti», come se quei « palchetti» fossero di competenza dei comici, ma non abbiamo conferma di quel lucro. Più esplicito il cenno in G. Poggi Cellesi, Diarz0 cit., c. 28, dove si dice che «i comedianti (...) hanno ottenuto dal Gran Duca (...) i stanzini ancora di galleria a loro instanzia»; siamo nell’inverno 1644 e, qualche settimana dopo, una lettera di Francesco di Federico Barbolani dei conti di Montauto al principe Mattias dei Medici, da Firenze, datata 14 febbraio 1644 (ASF, Mediceo, f. 5431, c. 192r-v) avverte che i comici «sperano d’avere a far bene ifatti loro, pagandosi mezza piastra [cinque lire] per testa oltre a' fitti delli stanzini, i quali importano sino adesso vicino a 500 scudi». Per la lunga tradizione che assegna alla famiglia medicea l’uso gratuito dei palchetti cfr.: Diario di Cesare Tinghi, ms. in BNF, Fondo Capponi CCLXI, vol. I e II, passirz e in ASF, Miscellanea medicea, £. x, vol. III, passim; lettere di don Giovanni a Cosimo Baroncelli, da Cerreto Guidi, 1° e19 novembre 1613, ivi, Carte Alessandri, £. 2, cc. 30re 32r; lettera di Cosimo
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Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 25 dicembre 1618, ivi, Mediceo, £. 5147, CC. 2527-2541; lettera del cardinale Carlo dei Medici a don Antonio dei Medici, da Firenze, 29 ottobre 1619, ivi, £. 5131, c. 5037 (citata in A. M. Evangelista, Le Compagnie dei Comici dell'Arte cit., p. 54€ nota 17: il mittente chiede «la ciave del suo stanzino» perché aveva un «regiro» e la donna aveva «voglia di vedere alcune commedie»). Tra le notizie fornite dal Tinghi, curiosa quella riportata da A. Solerti, Musica, Ballo e Drammatica alla Corte Medicea dal 1600 al 1637, Bem-
porad, Firenze 1905, p. 63: «4 dicembre 1611. Sua Altezza andò alla commedia nel stanzino del Cquei don Giovanni» (citato in A. M. Evangelista, I/ teatro dei comici dell’Arte cit., P. 79).
Cfr. alla nota precedente la lettera di Francesco di Federico Barbolani, cit.; nel Diario cit. del Poggi Cellesi si accenna a un biglietto ancora pit salato: «La loro spesa sarà grandissima e si crede che devino restare al scoperto poiché a molti parrà troppo rigorosa l’avere a pagare una piastra per testa». Bisogna anche precisare, nel confronto con Milano, che nelle occasioni eccezionali (e questa doveva esserlo) si consentiva un aumento del biglietto d’ingresso da 5 a 10 soldi. Una piastra valeva poco meno dello scudo d’oro e poco più dello scudo d’argento o ducato d’argento. Lo si capisce da una disposizione, tanto perentoria da lasciare intravedere frequenti disordini, emanata dalle autorità milanesi il 25 maggio 1616: «D’ordine di S. E. si avvisa e comanda, che nissuno ardisca sia chi si voglia, né soldati spagnoli, né italiani di qualsivoglia stato o condizione si sia, entrare per forza nella porta, ove si recitano le commedie, se prima non haveranno pagato il dovuto premio, né meno si usino modi insolenti, né con atti, né con parole ingiuriose a quelli che stanno alla detta potta sotto la pena arbitraria a S. E.» (in ASM, Carteggio generale, maggio 1616, citato in A. Paglicci Brozzi, I teatro a Milano cit., p. 39). In anni più tardi, a conferma della persistenza della scorretta abitudine, ci si lamenta che i palchetti erano «sempre stati occupati di gente senza mai pagare alla porta et li comici per questo non vogliono venire, come al presente li musici strepitano di non voler recitare per questa causa» (cfr. il documento del 24 febbraio 1665, in ASM, Spettacoli Pubblici, P. A., citato in R. G. Arcaini, La commedia dell’arte cit.). Il problema si presentava anche a Venezia visto che Andreini ebbe occasione di lamentarsi: «non vogliono di giorno pagare, pensisi poi quella gentilezza che dovranno usar la notte» (Corrispondenze, I, Andreini, lett. 16, cit.). Cfr. A. Paglicci Brozzi, I/ teatro a Milano cit., pp. 16-17. Le notizie sono tratte da tre lettere di Silvio Fiorillo a Enzo Bentivoglio, da Napoli, 2 dicembre 1615, da Modena, 22 novembre e 13 dicembre 1616, in ASFE, Bentivoglio, Lettere sciolte, mazzo 82, c. 4427; mazzo 88*, 1 c.n.n.; mazzo 88**, 1 c.n.n. (ora in Corrispondenze, I, Fiorillo, lett. 6, 7, 8). Circa le agevolazioni sul rimborso delle spese di viaggio e di pernottamento in Ferrara, almeno nel periodo carnevalesco, valga la testimonianza di Flaminio Scala, in una lettera a don Giovanni dei Medici, da Bologna, 20 ottobre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, cc. 592r e 5937: «Ferrara suol dar cento scudi et stanza franca con le nostre abitazione» (ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 80). Sulle vicende del teatro professionistico a Ferrara si vedano: A. Solerti, Ferrara e la corte estense nella seconda metà del secolo decimosesto. «I Dialoghi» di Annibale Romei, Lapi, Città di Castello 1891; A. Solerti e D. Lanza, I/ teatro ferrarese cit. Su Modena, che dopo il trasferimento della corte estense nel 1598, divenne promotrice di una rilevante stagione carnevalesca, cfr. le notizie desumibili da Corrispondenze, I, Martinelki, lett. 5; Scala, lett. 89; Andreini, lett. 51; nonché la lettera di Alfonso III d’Este al duca di Mantova, da Modena, 16 dicembre 1609, in ASMN, Gonzaga, busta 1282, 1 c.n.n.; più in generale sulla vita spettacolare della città cfr. M. Calore, Spettacoli a Modena tra ’500 e *600, Aedes Muratoriana, Modena 1983. Lettera di Tristano Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Torino, 5 novembre 1620, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 2017-2027, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 49. Lettera di P. M. Cecchini ad Annibale Chieppio, da Torino, 14 agosto 1609, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 103r-1047, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 32. Sui palchetti mantovani si vedano anche ibid., Scala, lett. 53 e la lettera di Andrea Mangini a Giovan Battista Andreini (?), da Mantova, 26 marzo 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 2749, lett. 63. Su quel carnevale cfr. anche la lettera di Alessandro Senesi a Belisario Vinta, da Bologna, 19 febbraio 1605, in ASF, Mediceo, f. 4043, 1 c.n.n.: «si celebra con tanta solennità et occupatione di que’
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Capitolo terzo principi et principesse che pospone ogn’altro interesse, et si fa di giorno, di notte, magnandosi si può dire con la maschera al viso». Lettera di Cecchini a un segretario del duca di Mantova, da Verona, 28 giugno 1633, in ASMN, Gonzaga, busta 1567, cc. 4891-4907, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 91. Che i teatri fossero due è accennato da P. Carpeggiani, Teatri e apparati scenici cit., pp. 101-8 (cfr. anche Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 32, nota 2, a cura di C. Burattelli, eMartinelli, lett. 35, nota 7, a cura della stessa). Uno dei due edifici, adiacente alla corte, vicino al Castello di San Giorgio, era stato costruito alla fine del Cinquecento ad opera, non si sa bene, se di Antonio Maria Viani o di Ippolito Andreasi, dopo che incendi avvenuti fa il 1588 e il 1591 avevano distrutto il precedente che, opera di Giovan Battista Bertani, risaliva alla metà del secolo xvI (1549-51); l’altro edificio, riservato ai comici mercenari, si trovava in una posizione più esterna rispetto al palazzo gonzaghesco, a cui era collegato da un corridoio realizzato dal Viani per consentire un circuito privilegiato e segreto agli spostamenti del duca (cfr. $. Mazzoni, Temi aulici e motivi comici nel teatro di Sabbioneta, in «Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura, ‘Andrea Palladio’ », xx1v [1982-87], pp. 126-29). In un’altra occasione il duca di Mantova (lettera a don Giovanni dei Medici, da Mantova, 7 agosto 1618, in ASF, Mediceo, f. 5138, c. 997) accenna a una sola «stanza». Cfr. Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 35 e 40. Cfr. ASF, Carte Alessandri, f. 7, cc.105t-v, 1131, mr, 109r-v: lettera di Orazio Del Monte a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 18 gennaio 1613 720 [1614]; lettere di Lorenzo Giustiniani a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 1, 8 e 15 febbraio 1613 72v [1614]. Per tutta questa parte si veda comunque l’Appendice, IL Cfr. ASMN, Gonzaga, busta 1545, 2 cc.n.n.: lettera di Camillo Sordi ad Annibale Iberti, da Venezia, 16 dicembre 1613. Cfr. Appendice, II 1. Per la lettera del 14 dicembre cfr. ASMN, Gonzaga, busta 1545, 1 c.n.n. Questa citazione e la seguente sono tratte dalla lettera del 16 dicembre citata alla nota 24. Si veda la sua relazione al Collegio della Repubblica svolta di ritorno da Casale il 3 febbraio 1614, in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, Laterza, Bati 1912, vol. I, pp. 250 sgg. Per tutti i rinvii che seguono cfr. lettere di Alvise Donato a Ferdinando Gonzaga, da Venezia,
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28 dicembre 1613, 4 €13 gennaio 1613 720 [1614], in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 3 cc.n.n. Cfr. Appendice, Il. 2-4. Cfr. lettera di Camillo Sordi del 16 dicembre 1613, cit., ora in Appendice, ILL 1. Ibid. Lettera di Alvise Donato del 28 dicembre 1613, cit., ora in Appendice, II 2. Lettera di Alvise Donato a Ferdinando Gonzaga, da Venezia, 8 febbraio 1613 722 [1614], in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 1 c.n.n.; Appendice, IL 7. Il giudizio, tecnicamente puntuale, è di Pier Maria Cecchini e risale alla lettera citata del 29 agosto 1613 (cfr. Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 60): «questi che ne tragono tal gusto sonno di quei senatori più vecchi et di maggior autorità, i qualli hanno cento palchetti ad affito per loro et per le sue donne; et questo non per l'eccellenza del personaggio nel rappresentare, ma per la piacevolezza d’alcune sue canzoni che canta sopra Venecia, et altre baiuzze che amano quei signori». Poco sopra si legge: «piglino quello che la bontà di Sua Altezza li darà accompagnato dal personaggio di Scapino, del quale farei più capitale, per la speranza del gusto delli signori veniciani per il carnovale, ch’io non farei di qual si voglia suma di denari». Anche Tristano Martinelli aveva poco tempo prima riconosciuto che Scapino «si è fatto un bon zane» (cfr. lettera del Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 15 agosto 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 1621-1637, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 21). Lettera di Lorenzo Giustiniani a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 22 febbraio 1613 120 [1614], in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. ngr.
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Per una dettagliata descrizione dei teatri messi a disposizione dei suoi comici da don Giovanni si rimanda al capitolo quarto. Sul poco noto teatrino di Parione cfr. le notizie fornite da D. Landolfi, Don Giovanni de’ Medici cit., p. 135 e nota 46.
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? Lettera di un segretario estense a M. Paolo Brusantini, da Ferrara, 27 novembre 1584, pubblicata in V. Rossi, Battista Guarini ed il «Pastor Fido», Loescher, Torino 1886, p. 298. Su questo argomento mi sono già soffermato in uno studio che costituisce il punto di partenza per la presente trattazione: cfr. S. Ferrone, Attori: professionisti e dilettanti, in L. Zorzi, G. Innamorati, S. Ferrone, I/ teatro del Cinquecento cit., pp. 59-79. si Lettera di Ferrante Estense Tassoni, governatore di Modena, a Giovan Battista Laderchi, segretario ducale, da Modena, 5 dicembre 1584, in A. Solerti e D. Lanza, I/ teatro ferrarese cit., p. 180.
% Lettera di Ercole Zinzani, governatore della Garfagnana, a Giovan Battista Laderchi, da Castelnuovo Garfagnana, 4 dicembre 1584, cit. ibid., p. 181. ? Giovanni Pellesini (nato a Reggio Emilia intorno al 1526 e morto dopo il 1616) fu a capo della compagnia degli Uniti forse dal 1576 e per molti anni (almeno fino al 1598); su questo periodo si vedano la supplica degli Uniti, s.1., 26 marzo 1594, in ASF, Dogana di Firenze, f. 223, supplica n. 318 (a); la lettera di Alessandro Catrani a un segretario mantovano, da Mantova, 29 aprile 1598, in ASMN, Gonzaga, busta 2674, 2 cc.n.n. Nei primi anni del Seicento gravitò, senza continuità e in una posizione subalterna, ma sempre circondato di rispetto, nell'orbita delle compagnie del duca di Mantova anche se Arlecchino, nel 1612, rilevava che l’anziano comico non aveva « più vigor naturalle per la vechieza » (Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 21, cit.). A ottantasette anni (1613) sembra che abbia partecipato alla tournée francese dei Fedeli di Giovan Battista Andreini. Per più dettagliate notizie si consultino ib:4., lett.1, nota1elett. 31, nota1; Cecchini, lett. 28, 30, 34, 35, 45 (lettera a un segretario mantovano, da Pianoro, 19 dicembre 1610, in ASMN, Gonzaga, busta 995, 1 c.n.n.: «Pedrolino è stato mal pet morire, et se ne viene in ceste: che Dio voglia che sia pur buono a nulla»). L'ultima traccia che abbiamo di lui si trova in una lettera di Silvio Fiorillo a Enzo Bentivoglio, da Modena, 22 dicembre 1616, in ASFE, Bentivoglio, Lettere sciolte, mazzo 88**, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Fiorillo, lett. 1o: la lettera è firmata da tutti i comici, tra i quali anche Pedrolino. 4 Sporadiche le notizie su Vittoria Piissimi, una delle attrici più celebri della seconda metà del Cinquecento. Sappiamo che fu con i Gelosi nel 1574 a Venezia per recitare davanti a Enrico III di Francia. Recitò anche nelle feste fiorentine del 1589, nella Zizgaza di G. A. Giancarli, mentre Isabella Andreini, l’altra innamorata della compagnia, interpretava La pazzia d’Isabella (cfr. G. Pavoni, Diario [...] delle feste celebrate nelle solennissime nozze delli serenissimi sposi, il sig. Don Ferdinando Medici, e la sig. Donna Christina di Loreno Gran Duchi di Toscana, Rossi, Bologna 1589, pp. 29-30). Nel periodo di cui trattiamo aveva formato compagnia insieme a Pedrolino (come risulta anche da una lettera di Drusiano Martinelli, da Firenze, al duca di Mantova, 17 settembre 1580, citata in A. D'Ancona, Origini cit., vol. II, pp. 478-79); i due dovettero rimanere a lungo insieme se vengono ancora accomunati dalla supplica che la compagnia degli Uniti indirizzava al Senato di Genova il 12 ottobre 1593, citata ibid., pp. 510su, nota 2; insieme sono segnalati dalla supplica indirizzata dai comici Uniti al granduca di Firenze, il 26 marzo 1594, cit. Poi si perdono le sue tracce. Non pare infatti probabile che sia riferibile a lei «la compagnia di Vittoria» segnalata nella lettera di Camillo Sordi del 16 dicembre 1613, cit. La bibliografia su questa importante attrice è praticamente ferma ad A. D'Ancona, Origini cit., vol. II pp. 466-68, 475-80, 510-12, se si esclude l’utile contributo di F. Taviani e M. Schino, I/ segreto cit., pp. 332-37. 4 Lettera di Ettore Tron ad Alfonso II, duca di Ferrara, da Venezia, del 4 gennaio 1580 mv [1581], in ASMO, Archivio per materie. Drammatica. Minute di lettere a comici. Busta unica,
4438/91, citata in A. Solerti e D. Lanza, Il teatro ferrarese cit., pp.174-75, e anche in N. Mangini, I teatri di Venezia cit., p. 25. 4 La notizia è tratta da G. B. Rossetti, Dello Scalco [...], s.i.t., Venezia, s.d., citato in A. Solerti e
D. Lanza, I/ teatro ferrarese cit., pp. 172-73.
4 Lettera di Vittoria Piissimi al duca Alfonso II d’Este, da Venezia, 4 gennaio 1581, citata 1b1d.,
pp. 175-76. 4 Lettera di Vittoria Piissimi al duca Alfonso II d’Este, da Venezia, 5 marzo 1581, citata 1b:d., p. 176.
Capitolo terzo
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4 La citazione del dispaccio da Ferrara, datato 13 febbraio 1576, si trova ibid., p. 165. Il carteggio del residente mediceo (relativo agli anni 1564-79) èin ASF, Mediceo, ff.2888-96, edè stato utilizzato, oltre che dall’accoppiata Solerti-Lanza, nel più volte citato articolo sul teatro ferrarese, anche dal solo A. Solerti, Ferrara e la corte estense cit. Lettera di Francesco Andreini a Vincenzo Gonzaga, da Ferrara, 13 aprile 1583, pubblicata in D'Ancona, Origini cit., vol. II, pp. 484-85. I corsivi sono nostri. 4 Ss Il celebre contratto, datato 25 febbraio 1545, fu pubblicato per la prima volta da E. Cocco, Una compagnia comica nella prima metà del secolo xvi, in GSLI, vol. LXV (1915), ma si può oggi più comodamente consultare in R. Tessari, Commedia dell’Arte cit., pp. 113-14. 4 =] Lettera della compagnia dei Confidenti a Lorenzo dei Medici, da Genova, 17 luglio 1627, in ASF, Mediceo, £. 5176, c. 464r-v. La lettera reca in calce le firme di Paolo Zanotti (Finocchio), Jacopo Antonio Fidenzi (Cinzio), Nicolò Barbieri (Beltrame), Stefano (Fulvio e Odoardo) e Leonora Castiglioni, Ercole Nelli (Dottore), Marc’ Antonio Romagnesi (Pantalone), Giovan Battista Zecca (Cassandro) e la moglie Livia (Franceschina), Francesco (Ortensio) e Marina Dorotea (Lavinia) Antonazzoni. 4d
Traccia di questo metodo, che delegava completamente al principe la composizione dei contrasti fra comici, è in una richiesta avanzata da Tristano Martinelli al duca di Mantova: «bisogna che Vostra Signoria illustrissima sia quella che con il suo ingegno e otorità facia in modo che queste due donne si acordano insieme per questo servicio » (Corrispondenze, I, Martinel-
5Ò
Lettera di Francesco Biffoli al granduca Ferdinando I, da Firenze, 31 marzo 1594, in ASF, Dogana di Firenze, £. 223, supplica n. 318; la lettera è allegata alla detta supplica, datata 26 marzo 1594 e indirizzata al granduca. Lettera di Ferdinando Gonzaga a don Giovanni dei Medici, da Mantova, 29 marzo 1638, ivi, Mediceo, £. 5138, c. 64r.
li, lett. 21, cit.).
i
5:De
5 ve)
5à
Lettera di don Giovanni dei Medici a Ferdinando Gonzaga, da Venezia, 30 marzo 1618, in ASMN, Gonzaga, busta 1550, 1 c.n.n. Cfr. inoltre l’altra lettera dello stesso, sempre al duca, da Venezia, 2 aprile 1618, ivi, 1 c.n.n.: «Se bene havevo promessa la compagnia de’ Comici
Confidenti a Genova et erasi già inviata a quella volta, non di meno, quando intesi il desiderio dell’Altezza Vostra dal suo signor Residente, non mancai subito di spedirgli a posta che mutassero camino et se ne venissero a servirla costì come la comanda». A segnalare il perdurare di casi contrari in cui la resistenza degli attori poteva essere piegata, con loro grave danno economico, basti ricordare l'episodio che coinvolse, tra il novembre e il dicembre 1610, l’illustre Pier Maria Cecchini, prima costretto dai Gonzaga a rinunciare a un viaggio verso Napoli e a rientrare a Mantova, poi autorizzato a recarsi nel sud quando ormai la marcia di rientro a corte era quasi compiuta. Cfr. la lettera di Cecchini al duca di Mantova, da Firenze, 30 novembre 1670, ivi, Autografi, busta 10, c. mor, e quella, dello stesso, a un segretario ducale, da Pianoro, 19 dicembre 1670, ivi, busta 995, 1 c.n.n. Ma cfr. ora queste lettere in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 44-45. Lettera di Giuseppe Zongo Ondedei a Camillo Giordani, da Bologna, rr novembre 1615, in BOP, Carte Oliveriane, £. 448, c. 18r-v, pubblicata da A. Saviotti, Feste e spettacoli nel Seicento, in GSLI, vol. XLI (1903), p. 63. Lettera di Giuseppe Zongo Ondedei a Camillo Giordani, da Bologna, 14 novembre 1615, in BOP, Carte Oliveriane, £. 448, c. 21, riprodotta in A. Saviotti, Feste e spettacoli nel Seicento
cit., p. 66.
5n
Lettera di Silvio Fiorillo forse a Ercole Marliani, da Venezia, 3 aprile 1626, in ASMN, Gonzaga, busta 1557, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Fiorillo, lett. 15.
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È probabile che i due attori partecipassero a una stessa tournée dall’autunno 1594 (cfr. la già citata supplica del 26 marzo 1594 dei comici Uniti dove Martinelli appare, insieme a Vittoria Piissimi e Pedrolino, tra i firmatari) al carnevale del ’95 (cfr. la supplica al governatore di Milano, 18 aprile 1595, in ASM, Autografi, busta 94, fasc. 43, 1 c.n.n.); sappiamo anche che essi recitarono il 13 ottobre del 1594 nella corte del palazzo del governatore di Milano per festeggiare le nozze del conte di Haro, figlio del governatore Juan Fernandez de Velasco, figurando
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tra gli attori impegnati nei quattro intermedi intitolati La caduta di Fetonte: «Et s'udiron strepiti grandi di tuoni in cielo, dopo i quali continuando i lampi et tuoni, tempestò confetti sopra il palco, che causò gran alegrezza a Relichino et Pedrolino, et molto riso alli ascoltanti» (cfr. A. D’Ancona, Origini cit., vol. II, p. 515). Per la rottura tra i due si veda la lettera del Martinelli a un segretario del duca di Mantova, da Cremona, del 4 dicembre 1595: «Et se mi son partito dalla compagnia di Pedrolino io ne ò auto mille ocasioni, perché voglieno esere patroni et non conpagni, et io, non esendo uso a servire, mi pareva che mi facesero torto» (cfr. ASMN, Gonzaga, busta 1717, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 1). Le notizie sono tratte dal documento riprodotto in Appendice, I. 1. Il privilegio del 29 aprile 1599, rilasciato da Vincenzo I, fu rinnovato prima da Francesco Gonzaga (cfr. lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Verona, 20 dicembre 1618, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 196r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 42: «il privileggio che n’è stato dato, redato et stradato, dato dal serenissimo vostro padre, redato dal serenissimo vostro frattello, strada-
o)
to da Vostra Altezza»), e poi da Ferdinando I, l’8 aprile 1613, con una più dettagliata elencazione dei nomadi sottoposti al suo controllo: «comici mercenari, bagattileri, saltatori che vanno su la corda, che mostrano mostri e edifficii et simile cose, et ciarlattani che metano banchi per le piazze per vendere oglii, unguenti, pomata, lituari contra veleno, balle moscardini, acque muschiate, zibetto, muschio, instorie et altre carte stampate, ongia della gran bestia, et che mettano cartelli per medicare» (ASMN, Decreti, vol. 54, c. 287). Ulteriore rinnovo venne fatto da Carlo Gonzaga Nevers finché poi il privilegio non passò ai figli del Martinelli grazie a una concessione datata 13 settembre 1638 (ivi, vol. 57, c. 710). Lettera di Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 28 agosto 1620, ivi, Gonzaga, busta 1751, cc. 876r-8777, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 78. Le due citazioni si trovano rispettivamente nella lettera di Martinelli a don Giovanni dei Medici, da Ferrara, 30 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, £. 5143, c. 488r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 44, e nella lettera di G. B. Andreini del 2 luglio 1621, ora in Appendice, I. 2.
Cfr. lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Mantova, 3 dicembre 160, in ASMN, Awtografi, busta 10, c. 160r-v: «Io so che Vostra Signoria Illustrissima à giudicio in tutte le cose, et in particulare la sa che cosa è comediante; però la scriva, et 72 manda le letere a ze, et in
tutte le letere che se gli scriverà che li dica che abiano da venire con ze, aciò che sapieno che Sua Maestà 725 vol ze. In particulare per hora non gli starò a dire altro, se non che la y2/ tenga in sua buona gracia, aricordandogli che gli son compare e partiotto»; i corsivi sono nostri. Lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Torino, 5 novembre 1620, ivi, cc. 2011-2027,
ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 49. Lettera di Martinelli a Francesco Gonzaga, da Milano, 14 agosto 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 170r-v. Sulla volontà di Arlecchino di marcare la sua distanza dal mestiere comico si veda anche la lettera del 21 aprile 1621, da Fontainebleau, ivi, c. 2077: «Arlequin (...) se ne vol andare alle fine dil mese di maggio a casa sua dove à molto che fare, et per riposarsi et per non fare più comedie». Il tono di Martinelli, anche nei dialoghi a distanza con i sovrani, è spesso quello di un pari grado che non nasconde l’alta considerazione di se stesso: cfr. lettera a Ferdinando II dei Medici, da Mantova, 22 agosto 1627, in ASF, Mediceo, £. 1403, cc. 180r-v e 182r-v: «Gli è longo tempo che noi non gli habiamo dato ragualio della nostra arlichinesca persona, credendo di venire personalmente a visitarla nel tempo che i comici vengono costì a recitare, et con quella occasione noi volevamo fare una improvisata una sera sul palco della comedia». Per queste lettere si veda ora Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 20, 50, 58; ma cfr. anche, sempre sul motivo della distinzione di Arlecchino, ibid., lett. 33 e 36. ai Si veda la lettera del Sordi all’Iberti del 16 dicembre 1613, cit., ora in Appendice, IL 1. Sullo sfondo storico-culturale della questione si veda l’interessante studio di C. Donati, L’;dea di nobiltà in Italia. Secoli xrv-xvin, Laterza, Roma-Bari 1988, a cui si rinvia anche per i numerosi riferimenti bibliografici. dv Oltre ai volumi di L. Zorzi, I/ teatro e la città cit., e S.Mamone, Firenze e Parigi cit., si ricordano qui i più importanti studi che dedicano un'attenzione rilevante ai cicli nuziali fiorentini: A. M. Nagler, Theatre Festivals of the Medici (1539-1637), Yale University Press, New Haven and London 1964; Feste e Apparati Medicei da Cosimo I a Cosimo II. Mostra di disegni e inci-
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Capitolo terzo sioni, catalogo a cura di G. Gaeta Bertelà e A. M. Petrioli Tofani, Olschki, Firenze 1969; Il
luogo teatrale a Firenze, catalogo della mostra, Firenze, 31 maggio - 31 ottobre 1975, a cura di M. Fabbri, E. Garbero Zorzi, A. M. Petrioli Tofani, introduzione di L. Zorzi (ordinatore),
Electa, Milano 1975; A. R. Blumenthal, Theater Art of the Medici, catalog of the exhibition held at Dartmouth College Museum and Galleries, 10 october - 7 december 1980, University Press of New England, Hanover, New Hampshire and London 1980 (2° ed. 1982); R. Strong, Arte e potere. Le feste del Rinascimento (1450-1650), Il Saggiatore, Milano 1987 (1° ed. 1973).
Sulle feste nuziali a Mantova si vedano le fonti primarie per il 1608: G. B. Spaccini, Cronaca (1608), ms. in ASCM, Camera Segreta; G. M. Cavalchino, Breve relatione di quanto è successo nelle nozze delle serenissime infanti di Savoia fra doi principi cioè Mantoa e Modena et anche il seguito di guerra sino a questo anno 1618 come anchora di pace, in BNT, ms. N.VI.37; G. Bertazzolo, Breve descrittione della battaglia navale, et del castello de fuochi trionfali fatti il dì 31 maggio 1608 sul lago di Mantova nelle gloriosissime nozze del serenissimo prencipe di Mantova et di Monferrato con la serenissima infanta d. Margarita di Savoia, Osanna, Mantova 1608; A. Corbellini, Trionfo di Manto ne’ gloriosi himenei de’ serenissimi principi il signor principe di Mantova e la signora infante diSavoia, da A. C. a’ serenissimi principe e principessa sposa dedicato, Marta, Ivrea 1608; F. Follino, Compendio delle sontuose feste fatte l’anno 1608 nella città di Mantova, per le reali nozze del serenissimo prencipe Don Francesco Gonzaga con la serenissima infante Margherita di Savoia, Osanna, Mantova 1608; F. Zuccaro, I/ passaggio per l’Italia, con la dimora in Parma [...], Cocchi, Bologna 1608. Su altri eventi nuziali si vedano: G. Bertazzolo, Breve descrittione delle allegrezze et sontuosissimi trionfi fatti in Mantova per le felicissime nozze delle maestà di Spagna et Francia, Osanna, Mantova 1615; Id., Breve relatione dello sposalitio fatto dalla serenissima principessa Eleonora Gonzaga con la sacra cesarea maestà di Ferdinando II imperatore, Osanna, Mantova 1622. Tra gli studi storici, oltre ai citati lavori di D'Ancona, Faccioli, Fabbri, Giovannetti, Fenlon e Carpeggiani, si veda A. Portioli, I/ matrimonio di Ferdinando Gonzaga con Caterina de’ Medici (1617), Mondovi ed., Mantova
1882. Sul lavoro di apparatore del Bertazzolo conviene qui ricordare lo scritto di P. Carpeggiani, StudisuGabriele Bertazzolo: I. Le feste fiorentine del 1608, in «Civiltà mantovana», x1I (1978), pp. 14-56, ove si analizza il contributo dell’ingegnere mantovano, che quello stesso anno aveva organizzato gran parte delle feste nuziali. Le relazioni tra spettacoli fiorentini e mantovani all’inizio del Seicento sono ancora in gran parte da studiare. 6Ss
Lettera di Cecchini a un segretario del duca di Mantova, da Padova, 10 agosto 1613 (ASMN, Gonzaga, busta 1545,1c.n.n.); ma cfr. anche la lettera dello stesso da Modena, 30 gennaio 1612 (ivi, busta 1296, 2 cc.n.n.): cfr. ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 59 e 50.
Cfr. la lettera della duchessa di Mantova a Belisario Vinta, da Mantova, 29 marzo 1591, in ASF, Mediceo, £. 2941, 1c.n.n., e la lettera del cardinale Capponi al duca di Mantova, da Bologna, 2 aprile 1616, in ASMN, Gonzaga, busta 1171, c. 430. Pet Firenze si può citare l'esempio della supplica dei Confidenti (la terza formazione) alla Magistratura della Dogana di Firenze del 5 novembre 1636 (ASF, Dogana di Firenze, £. 237, supplica n. 309). 6v
7 =)
7i
Lettera di Antonio Calegari a Ercole Marliani, da Bologna, 15 gennaio 1627, in ASMN, Gonzaga, busta 174, 1 c.n.n.: «le compagnie vengono di già ricercate et incaparate per l’anno ven-
turo». Tutti questi esempi sono stati segnalati da C. Burattelli, I/ calendario e la geografia cit. Contratto dei comici Uniti del 2 aprile 1594, cit.; il corsivo è nostro. Ma si veda anche il caso menzionato nel contratto sottoscritto dai Vendramin e dal Cecchini per il teatro San Salvador nel 1622: «quando accidente portasse che non potessero venire per intaresse de Prencipi diano in cambio loro un’altra Compagnia buona et di sodisfatione di sue signorie Illustrissime (...) si obligano li Comici cadaun di loro d’esser sottoposto nel spatio di questi due anni alla pena di scudi ducento in avento che mancasse di servire et osservare la presente scrittura d’aplicarsi detto danaro la mità alli suddetti signori et l’altra alla Compagnia » (in N. Mangini, I teatri di Venezia cit., pp. 49-50). Per il potere discrezionale dei funzionari, precocemente affermatosi a Firenze, cfr. la lettera
diFrancesco Biffoli del 3 aprile 1594 cit., e la lettera di Girolamo Salimbeni del 7 luglio 1595 cit.
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? La notizia si trova nella lettera di Vincenzo I Gonzaga a don Antonio dei Medici, da Manto-
va, 29 maggio 1609, in ASF, Mediceo, f. 5130, c. 5407.
® Cfr. lettera di Flaminio Scala a don Giovanni dei Medici, da Firenze, 5 novembre 1636, ivi,
f. 5150, c. 452v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 5. % Tutta la vicenda è ben riassunta e documentata sb1d., nota 4 (a cura di D. Landolfi). Sui rap-
porti turbolenti fra la compagnia di don Giovanni e Frittellino si vedano comunque le seguenti lettere: di Cecchini a don Giovanni dei Medici, da Venezia, 6 aprile 1613, in ASF, Carte Alessandri, £. 5, cc. 6171-6181; di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 19 settembre 1615, in BRE, Carteggi vari, cassetta 3, n. 4, c. 477; di don Giovanni al Baroncelli, da Venezia, 26 settembre 1615, in ASF, Carte Alessandri, f. 2, c. 751; di Fabrizio Colloredo a don Giovanni, da Firenze, 21 febbraio 1615 sf [1616], ivi, Mediceo, f. 5139, c. 317; di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 5 marzo 1615 sf [1616], ivi, f. 5146, cc. 1951-200v; di Fabrizio Colloredo a don Giovanni, da Livorno, 12 marzo 1615 sf [1616], ivi, f. 5139, c. 757; di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 19 marzo 1615 s/[1616], ivi, f. 5146, cc. 207r- 213; di don Giovanni a Baroncelli, da Venezia, 26 marzo 1616, ivi, Carte Alessandri, f. 2, cc. 1131-1150; del cardinale Luigi Capponi a don Giovanni, da Bologna, 21 maggio 1616, ivi, Mediceo, f. 5139, c. 56r.
Sulla questione cfr. anche C. Burattelli, Borghese e gentiluomo cit., p. 46. 7:dà
7 Ca
7 NI
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79
Lettera di Andreini a Girolamo Parma, da Mantova, 16 settembre 1629, in ASMN, Gonzaga, busta 2785, c. 258r-0, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 56. Lettera di Fiorillo a Enzo Bentivoglio, ibid., Fiorillo, lett. 6, cit.; ma si vedano sullo stesso tema, :bid., lett. 1, 2, 5,11,13, 15. Ricordiamo che gli stessi Gelosi avevano dovuto, il 3 novembre
1590, rinviare una tournée fiorentina in quanto «astretti per la presente carestia a fugire la spesa di così longo viaggio » (lettera di Pirro Visconte Borromeo a Ferdinando I, 3 novembre 1590, cit.). Cfr. lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 25 dicembre 1618, in ASF, Mediceo, £. 5147, cc. 2521-254V. Cfr. lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 19 marzo 1615 sf [1616], ivi, f. 5146, cc. 2091-2107. Sulla composizione dei copioni e dei canovacci (cioè sulla drammaturgia d’attore), oltre ai miei contributi rammentati nella nota 9 dell’Introduzione a questo volume, segnalo lo scritto di F. Taviani, La composizione del dramma nella Commedia dell'Arte, in «Quaderni di Teatro», n. 15 (1982), pp. 151-71.
80
(CAtod
È d’obbligo il rinvio a quell’area culturale che va dalle compilazioni erudite e dilettantesche (ma precise) del Bartoli alle invenzioni romantiche del Sand passando per l’onnivoro inventario del Quadrio. I migliori contributi sulla biografia e sulla carriera artistica del Cecchini sono: F. Taviani, Cecchini Pier Maria, in DBI, vol. XXIII, pp. 274-80; C. Molinari, Prefazione a P. M. Cecchini, Le Commedie cit., pp. 5-44; C. Burattelli, Borghese e gentiluomo cit. Tra le sue opere teoriche, ricordiamo: Discorso sopra l’arte comica con il modo di ben recitare, in Trattato sopra l’arte comica, cavato dall’opere di S. Tomaso e da altri santi, Roussin, Lyon 1601 (su cui ci soffermiamo nel corso del capitolo quinto); Discorsi intorno alle comedie, comedianti et spettatori [...], Amadio, Vicenza 1614 (altre edizioni, con il titolo mutato in Brevi discorsi [...]: Roncagliolo, Napoli 1616; Pinelli, Venezia 1621); Delle lettere facete et morali [...], Vitale, Napoli 1618 (altra edizione, stampata insieme ai Brevi discorsi [...]: Pinelli, Venezia 1622); Frutti delle
moderne comedie et avisi a chi le recita cit. Lettera di Martinelli a un segretario ducale, del 4 dicembre 1595, da Cremona, in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 1; il corsivo è nostro. 8(ea Lettera di Martinelli al duca Ferdinando Gonzaga, da Verona, 20 dicembre 1618, in ASMN, Autografi, b. 10, c. 196r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 42. Nel 1617 Luigi aveva dapprima eliminato i consiglieri e i potenti alleati della regina madre (primo fra tutti Concino Concini), allontanando poi anche lei da Parigi. Un primo riavvicinamento politico, evidentemente preparato nei mesi precedenti, comincerà a manifestarsi alla fine del 1619, per culminare nel significativo rientro di Maria nella capitale del regno nel
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Capitolo terzo 1620. Sul conflitto tra Maria e Luigi XIII dopo l’uccisione di Concini fino alla riconciliazione si veda M. Carmona, Marie de Medicis, Fayard, Paris 1981, pp. 329-97. Per ulteriori ragguagli bibliografici cfr. oltre nel capitolo sesto, nota 63. Non estranea alle prospettive di un intervento diplomatico nelle quere/les francesi è la notizia, che cominciò a circolare nel giugno del 1618, di un riavvicinamento fra don Giovanni, in quel tempo in volontario ‘esilio’ a Venezia, e
la corte fiorentina. Il progetto pare che prevedesse l'andata del principe a Firenze e poi a Milano, insieme a Cosimo II, per visitare la tomba di San Carlo Borromeo, passando per Parma e Mantova. Anche Livia Vernazza, la discussa amante di don Giovanni, avrebbe dovuto partecipare al viaggio di riparazione. La trattativa segreta tra Firenze e Venezia aveva interessato
anche Flaminio Scala e il maggiordomo di don Giovanni, Cosimo Baroncelli. Sull’argomento si possono leggere, tra le altre, le seguenti lettere: Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 30 giugno 1618, in ASF, Mediceo, f£. 5147, c.127r; Scala a don Giovanni, da Firenze, 18 agosto, 1, 8,
15 settembre, 25 e 29 novembre 1638, ivi, f. 5150, cc. 5507, 4857-v, 5101, 5117-v, 5497, 5461-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 32, 34, 35 («Qui si mormora che Sua Altezza serenissima vada a San Carlo e che Vostra Eccellenza venga a Firenze per accompagnarlo »), 36, 45, 46 («Io stavo pure aspettando di vedere la illustrissima padrona, ma io credo toccherà a me a venire a veder lei. Qui si è levato voce che Vostra Eccellenza luni sarà a Montui»). L’intera vicenda è ricostruita in D. Landolfi, Don Giovanni [...] e la compagnia cit., pp. 270-75. 85
Domenico Bruni nacque a Bologna nel 1580 e, figlio d’arte, cominciò a recitare a soli 14 anni fra i Gelosi, con cui fece numerosi viaggi in Italia e in Francia. Con il Cecchini forse dal 1606 al 1613. Entrato poi nei Confidenti, fu tra gli attori di maggiore autorità e intrattenne rapporti personali con il potente protettore. Dopo la morte di lui, si recò in Francia dove pubblicò le Fatiche comiche cit., e una seconda edizione dei Prologhî (Callemont, Paris 1623) già stampati due anni prima a Torino. Dialoghi scenici e Prologhi manoscritti si trovano rispettivamente in BTB e BBM. Tra le fonti essenziali su di lui si vedano: D. Bruni, Fatiche corziche cit.; la sua lettera a un segretario mantovano, da Bologna, 17 matzo 1627, in ASMN, Gonzaga, busta 174, 1c.n.n.; Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 21. Profili biografici utili sono in L. Rasi, I corzici
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italiani cit., vol. I, pp. 518-25, e in C. Morinello, Bruni Dorzenico, in ES, vol. II coll. 1204-5. Fu figlio d’arte anche Francesco Gabrielli (1588-1636), il cui padre Giovanni raggiunse una notevole fama con il nome di Sivello. Nel 1612 era con Cecchini e veniva giudicato «un bon zane». La sua fama crebbe grazie alle prove date con i comici Confidenti con i quali restò fino allo scioglimento della compagnia. Lavorò con lui la moglie Spinetta, nel ruolo di servetta. Fu poi con Giovan Battista Andreini e Nicolò Barbieri a Parigi nel 1624; quindi capocomico di una sua compagnia fino alla morte avvenuta nel 1636. Celebre per l’abilità manifestata nell’uso virtuosistico di numerosi strumenti, venne giudicato dal Barbieri «il miglior zanni de’ tempi suoi». Nonlasciò scritti propri, ma, due anni dopo la morte, apparve un poemetto a lui
dedicato: Infermità, testamento e morte di Francesco Gabrielli detto Scappino, composto e dato in luce a requisitione degli spiritosi ingegni, Viotti, Verona-Padova-Parma 1638. Fonti essenziali per una sua nota biografica si trovano in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 21, Cecchini, lett. 60 e 78, e Scala, lett. 43 e 76. Si vedano inoltre A. Baschet, Les comédiens cit., pp. 332-33; C. Garboli, Gabrielli, in ES, vol. V, coll. 804-5; F. Taviani e M. Schino, Il segreto cit., p. 450, nota 2.
a
Per questa e le precedenti citazioni cfr. lettera di Flaminio Scala a don Giovanni, da Mantova, 10 gennaio 1619 (ASF, Mediceo, £. 5150, c. 581r-v), in Corrispondenze, I, Scala, lett. 50: «Arlechino cerca rompere questa compagnia per farne una da menare in Francia, con un certo protesto che il re abbi mandato per lui, et per Frittellino, Lelio e Florinda con Flaminia. E perché Frittellino è in rotta con Cintio, Arlechino à parlato con Fulvio e Scappino, e con gran persuasiva à cercato tirare al suo volere ambidoi, dicendo che Frittellino farà da Pantalone e
Scappino da zani, e li à mostrato una lettera qual manda il re a Vostra Eccellenza con suggillo volante. Fulvio dice aver risposto lui star con Vostra Eccellenza, et il simile dice aver detto Scappino, ma ne stiamo in dubbio. Il detto Arlechino, subbito che io giunsi in Mantova (che fui il primo) ne parlò meco, ma io, ch’ero avisato dal signor Francesco Andreini, mi feci dalla villa e dissi esser stufo di comedie, e se avessi auto licenza da Vostra Eccellenza sarei restato a casa, caso che non mi avesse mandato con questa compagnia in Francia, e che con altra non sarei andato; lui restò, et andò subbito a trovar li doi. Il Romagnese fulmina contro di Arle-
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chino, et così li altri compagni, ma tutti alla muta. E il Romagnese mi à pregato io ne scriva a Vostra Eccellenza et mi à dato l’inclusi avertimenti, quali io mando a Vostra Eccellenza perché so che la conoscerà benissimo quello che la compagnia desidera, qual è di passare in Francia sotto il suo glorioso nome, assicurandosi che la getterà a tterra la fama di quante compagnie che vi sono state, et io me ne gloriarei acciò i miei nemici non avessero questo
contento. Con tutto ciò me rimetterò sempre al volere di Vostra Eccellenza illustrissima mio signore, alla quale con la solita riverenza et umiltà baccio le mani, sì come fanno i miei compagni». Lettera di Martinelli a don Giovanni, da Ferrara, 22 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 4877, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 43.
Ottavio Onorati, detto Mezzettino, era entrato nell’estate del 1612 nella compagnia di Cecchini. Poi dal 1613 al 1621 rimase tra i Confidenti. Dopo è segnalato insieme a Jacopo Antonio Fidenzi, nella formazione dei nuovi Confidenti, in compagnia di alcuni attori della precedente formazione. Pare fosse, almeno in gioventi, un buon acrobata e anche, in occasioni parti-
colari, un discreto apparatore di scene. Tra le fonti utili per ricostruire la sua carriera si veda ibid., lett. 21, ma anche Scala, lett. 33 e 34; lettera di Francesco Gabrielli ad Antonio Costantini, da Ferrara, 6 gennaio 1627, in ASMN, Gonzaga, busta 1272, 2 cc.n.n; lettera dei Confidenti
a Lorenzo dei Medici, da Genova, 17 luglio 1627, in ASF, Mediceo, f. 5176, c. 464r-v; lettere degli stessi alla Dogana di Firenze, in Firenze, 12 luglio e 5 novembre 1636, ivi, Dogana di Firenze, £. 237, supplica n. 270 e n. 309. Per una traccia approssimativa del suo repertorio si ve-
da come è ritratto in N. Barbieri, L’inavertito, in Commedie dell'Arte cit., vol. II, pp. 107-231. Lettera di Andreini a don Giovanni, da Ferrara, 29 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, £. 5141, c. 763r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 35. Lettera di Martinelli a don Giovanni, da Ferrara, 30 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 488r-v, ora in Corrispondenze I, Martinelli, lett. 44. 91
Lavinia (di cui non si conosce il cognome da nubile) era veneziana e a diciotto anni (1611) ave-
va sposato Francesco Antonazzoni, specializzato nelle «parti» di Capitano e di innamorato. L’uomo si sarebbe segnalato di lî a poco per la pubblicazione de Le funebri rime di diversi eccellenti autori in morte della signora Camilla Rocca Nobili comica Confidente detta Delia, Dei, Venezia 1613. Forse i due entrarono insieme nella compagnia dei Confidenti verso quella data. Ci si chiede se la compianta Delia sia stata o meno la prima «innamorata » della formazione, e se l’ingresso della sostituta Lavinia nella stessa troupe sia stato una conseguenza di quella morte e di quel libretto. Marito e moglie uscirono insieme dalla compagine di don Giovanni, nell’ora dello scioglimento definitivo (1621). La prosecuzione della loro carriera è documentata in maniera irregolare: furono con Domenico Bruni a Parigi nel 1623, con il Barbieri a Firenze nel 1627, ancora a Firenze con Onorati e Gabrielli nel 1631 e °33. Per entrambi può essere utile consultare Corrispondenze, I e II, passirz; su Lavinia in particolare cfr. ibid., I, Scala, lett. 4, nota 6 (a cura di D. Landolfi); A. Zapperi, Antonazzoni Marina Dorotea, in DBI, vol.
III, pp. 478-79. Lettera del duca di Mantova a don Giovanni, da Mantova, 27 marzo 1619, in ASF, Mediceo,
f. 5138, c. 1547. 9
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Da una lettera di Francesco Andreini a Flaminio Scala, da Mantova, del 27 marzo 1619 (ivi,
f. 5150, c. 5377), si apprende che «Il vostro eccellentissimo Scappino piacque in estremo all’ambasciatore di Francia, che passò per Mantova, lo vidde et intese sonare tutti i suoi strumenti, dicendo che il re di Francia riceverebbe gran gusto in sentirlo». A segnalare che il vincolo ducale è già operante, nella stessa lettera, Francesco Andreini comunica che il Gonzaga ha « donato trenta scudi al signor Ortensio et altretanti al signor Francesco Scappin per loro viaggio». Da una lettera di Pier Maria Cecchini risulta che Mantova non interruppe mai, anche nei mesi di febbraio e marzo, ipreparativi per la spedizione in terra di Francia (cfr. lettera di P. M. Cecchini forse a Ercole Marliani, da Roma, 1 maggio 1619, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 113r-1147, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 70). Cfr. lettera di Francesco Andreini a Flaminio Scala del 27 marzo 1639, cit.: «La vostra lettera diretta al signor Ortensio stava per far naufragio s’io non l’aiutava, et l’ho inviata a salvamento a Milano. Sono arrivati qua il signor Fabritio Nero et Farina per comandamento del signor
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Capitolo terzo duca, et ancora non si sa l’esito di questo arivo. Vi mando il presente sonetto acciò che vediate che nel correre al palio bisogna che i barbari famosi siano veloci nel corso». Sulla vicenda cfr. anche la lettera di Ercole Marliani a Flaminio Scala, da Mantova, 29 marzo 1619, in ASF, Mediceo, £. 5141, c. 4331-v, e quella di Flaminio Scala a don Giovanni dei Medici, da Venezia, 29 marzo 1679, ivi, f. 5150, c. 623r, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 57. Lettera di don Giovanni al duca di Mantova, da Paluello, 6 aprile 1619, in ASMN, Gonzaga, busta 1551, 1 c.n.n. Cfr. le due lettere di Flaminio Scala a don Giovanni, da Mantova, entrambe del 17 aprile 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, rispettivamente alle cc. 5357 e 5847, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 62 e 63. Lettera di Flaminio Scala a don Giovanni, da Milano, 24 aprile 1619, in ASF, Mediceo, £. 5150, c. 570r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 64. Cfr. la lettera di Flaminio Scala a don Giovanni, da Milano, 1° maggio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 5137, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 65: «Quanto più io raggiono con questi giovani, tanto più vò vedendo che il signor duca mi à tagliato li panni adosso: la minima parola io essere un traditore de’ miei compagni, et che io ho auto da lui cento ducatoni in Firenze per la Lavinia, e mille altre infamità. E se io non mi risolvevo alla presenza de tutti far comfessare alla Lavinia ia verità del fatto, il comico, qual è più dedito a credere il male che il bene, sicurissimamente mi teneva per reo. Dio laudato, mi son difeso con la inocenza mia, et loro
ànno tocco con mano la verità». Per tutte le citazioni seguenti cfr. le lettere di Flaminio Scala a don Giovanni, da Milano,
4 giugno, 2, 10, 17 e 24 luglio 1619, in ASF, Mediceo, £. 5150, cc. 484r-v, 489r-v, 509r-v, 5437-v, 569r, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 69, 72, 73, 74, 75. Marc’Antonio Romagnesi era il Pantalone dei Confidenti. Di lui, ferrarese di nascita, non
sappiamo nulla prima dell’apparizione dei Confidenti di don Giovanni se non che il Cecchini (nella sua lettera a un segretario mantovano, da Venezia, 8 dicembre 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 127, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 55) lo definisce «huomo che per
53
la sua parte del Magnifico è il primo che hoggi recitti». Dopo la morte di don Giovanni, lavorò con Bruni e Antonazzoni, e poi con il Fidenzi nei nuovi Confidenti, insieme al figlio Agostino, in arte Leandro. Si hanno notizie di lui fino al 1636. Ci ha lasciato una traduzione dal francese: Dichiaratione del re christianissimo pubblicata nel Parlamento, nel quale si ritrovò il giorno 18 di gennaro 1634 ricchiamando il duca d’Orleans suo fratello, Scaglia, Venezia 1634. 10)2 Lettera di Flaminio Scala a don Giovanni del 24 luglio 1619, cit. Divertente e teatrale il resoconto di una scena alla corte milanese fornito da Scala (lettera a don Giovanni, da Milano, del 31 luglio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 536r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 76): «Domenica matina, sì come è suo solito, Mezzettino andò a ccorte e il Luchesino si accompagnò seco. Il duca di Feria vedendoli mostrò maravigliarsi, e disse alla presenza de molti cavalieri: ‘Mezzettino, tu pratichi con il Luchesino quale è il maggior nemico che tu abbi: non t’ò io detto che è venuto per menar via il tuo Scapino e la Lavinia?”. Il Luchesino restò morto e cercò scusarsi con dire egli far quello che li comanda il padrone. Il duca sogiunse altre parole e menò per mano seco Ottavio, al qual disse: ‘Hora tu crederai quanto te ò detto. Io di questo tristo non me ne curo, non puol pretendere altro da me: io li ò donato un vestito e la duchessa mia signora alcune doble’. Eccellentissimo signore, le carezze che fa questo homo a Mezzettino fa stupire questa nobiltà. Scapino fece questi giorni in un’opera vedere tutti li suoi strumenti, e a mezzo li strumenti venne il duca e li fece intendere che tornasse a principiare li strumenti, € lui disse che erano scordati e non volse sonarli. Il duca se piccò per esservi il marchese de Bellamare e quello che viene a Venezia, e disse che Scapino era un gran vigliacco, e molto peggio. Tutto questo viene dalla grande ambitione datali dal tarullo et dalla invidia che egli à di Mezzettino. Si dice che il duca aveva animo di dar la mancia alla compagnia e che questo sdegno ne à da far spedir gratis». !? Lettera di Ercole Marliani a don Giovanni, da Mantova, 15 maggio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 538r. 10IVI
Capitolo quarto Don Giovanni impresario
I. Don Giovanni dei Medici era nato per rappresentare. Cosi avevano voluto la sua famiglia e il destino. Figlio naturale, poi legittimato, di Cosimo I ed Eleonora degli Albizi, gli era stato assegnato il nome dell’avo paterno (Giovanni dalle Bande Nere) e con quello anche
il compito di ripeterne le imprese di condottiero e capitano di ventura. Lui stesso si sentî obbligato, durante quasi tutta la vita, a dimostrare la sua adeguatezza alla dinastia in cui la sorte lo aveva collocato come membro cadetto. Di qui il suo continuo e un po’ affannato anelito a interpretare una «parte» idonea al suo rango sul palcoscenico della corte fiorentina e dell’aristocrazia internazionale. Di qui anche l’insoddisfazione, destinata a diventare acuta sul finire della vita, nell’ora dei consuntivi, per i diversi ‘ruoli’ occupati, mai comunque all’altezza di una dinastia troppo illustre e ingombrante. Fu «venturiero» al fianco degli spagnoli nelle Fiandre (1587) e loro nemico quando si trattò di difendere Marsiglia (1597), fu generale di artiglieria con le truppe imperiali di Rodolfo II impegnate contro i turchi in Ungheria (1594-95): un’altra volta vi tornò (1601) con minore fortuna, cosî come tornò nelle Fiandre, di nuovo con gli spagnoli, anche qui con declinante successo (1602-605). Tutte imprese condotte più per l’impellente bisogno di mostrarsi come condottiero che sotto la spinta di urgenti e serie necessità politico-militari. Un ruolo superfluo ma fascinoso, comune a molti avventurieri di alto o basso lignaggio del suo tempo, a cominciare dal vanitoso e inconcludente Vincenzo I Gonzaga, celebre sconfitto delle campagne d'Ungheria e tuttavia pomposo creatore di ordini cavallereschi tanto inefficienti quanto spettacolari '. Uomini del secolo xvI, o forse anche più antichi, per cui la cosa meno importante in un'impresa era l’esecuzione, nient'altro essendo l’impresa che il pretesto per mostrarsi in azione. Quasi sempre del resto don Giovanni fu attento a diffondere immagini di sé in costume militare che con continuità celebrassero il suo ruolo di capitano valoroso”. Più volte, anche in epoca tarda, quando una leggera vena di ma-
47,48, 50
138
Capitolo quarto
linconia coprirà le sue parole, amerà designarsi come uomo «naturalmente disposto a bellicose attioni» e «povero cavaliere di spada et cappa». E quando si trovò impegnato in una campagna vera e difficile, tutta dipendente dalla sua bravura, a partire dal dicembre del 1616, come governatore generale delle armi venete in Friuli, nella campagna contro i pirati Uscocchi e gli Asburgo, si preoccupò di far comporre una « scrittura» che, accompagnata da un’incisione di Callot, avrebbe dovuto circolare
49
a Venezia e Firenze, raccontando i
«successi» della guerra friulana ‘. Di più sicuro effetto furono i costumi militari che don Giovanni poté sfoggiare in altre circostanze, come nel 1600 quando ebbe l’incarico di guidare la flotta di galere che accompagnava la regina Maria dei Medici in Francia dopo le cerimonie nuziali fiorentine. Don Giovanni ricavò da quell’incarico quello che oggi si direbbe un buon ‘ritorno di immagine’, merito di Maria e soprattutto di Rubens che qualche anno dopo lo ritrasse alle costole della nipote sposa, in abito severo di cavaliere di Malta’. A quell’immagine corrispondeva una meno gloriosa cronaca, anche militare. Pare infatti che fosse corso qualche « disgusto degno di menzione», all’ingresso del porto, per una questione di precedenza tra le galere granducali e quelle dei Cavalieri di Malta, « Tale che se la mistia si fussi attacata aremo avuto al certo il porto in disfavore — raccontò un testimone di parte toscana — e tre notte si è stato di così in cagniesco né
per ancora si è mosso nessuna galera dal suo luogo e si va tuttavia trattando il modo d’accomodare questo fatto seguito con fraude per la parte loro ma per mancanza di diligenza dalla parte nostra» ‘. Meno rischiosa la funzione di rappresentanza che, nello stesso ciclo festivo, don Giovanni sostenne a Firenze, dapprima impegnato a «ricevere, salutare, sistemare onorevolmente gli ospiti» ’,e poi a sfilare più volte in processione con una livrea che fu giudicata tra «le più belle del corteo» ". Nel ruolo di ‘rappresentante’ della casa Medici aveva esordito a quattordici anni a Venezia (1579), per poi distinguersi in varie ambascerie a Genova (1581), alla corte papale (1590-92), presso il re di Spagna (1598-99) ’. A una messa in scena più grande della gloria dinastica si era dedicato con l’opera di revisione delle fortezze del granducato svolta per conto del fratello Ferdinando I, con la progettazione della Fortezza Nuova nel porto di Livorno, con il disegno del nuovo Forte del Belvedere (insieme a Bernardo Buontalenti),
con il progetto per la facciata della chiesa di Santo Stefano dei Cava-
lieri a Pisa, e soprattutto con la controversa vittoria (1602) nel concor-
so per il progetto definitivo della Cappella dei Principi in San Loren-
Don Giovanni impresario
139
zo a Firenze, in cui riuscî a battere il modello presentato nientedimeno che da Bernardo Buontalenti". Una rappresentazione più effimera ma non meno significativa del potere granducale e del suo ruolo in esso era stata da lui offerta durante le nozze di Maria. E si trattava, letteralmente, di spettacoli teatrali: il Banchetto tenuto nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio e la rappresentazione del Rapirzento di Cefalo nel teatro degli Uffizi. E anche qui il Buontalenti, da tempo indiscusso maestro apparatore della corte fiorentina, pur conservando la direzione sostanziale degli allestimenti, aveva dovuto accettare la collaborazione ‘autorevole’ del principe, i suoi interventi zelanti e non sempre efficaci, come ebbe a riferire il nobiluomo musicista Emilio de’ Cavalieri: «et se il signor don Giovanni havesse voluto un poco di parere da me, circa alle musiche della commedia, et anco da Bernardo sopra le cose appartenenti alle macchine, credo che ogni cosa saria restata terminata e finita, et le musiche sariano state proportionate al luogo et al teatro et sariano stati i danari spesi con più soddisfazione delli ascoltatori» ". Le macchine pare non funzionassero molto bene e sconsigliarono per gli anni successivi un nuovo ricorso alle virtà d’apparatore di don Giovanni”. L’incontro e l’amore di una donna, Livia Vernazza, muteranno il
corso della sua esistenza. Nonostante il legame di affetto e di stima che verso di lui provava il nipote granduca Cosimo II, mai gli fu perdonato dalla famiglia e dalla bigotta granduchessa Maria Maddalena d'Austria il legame stabilito con una donna di natali oscuri e comunque infimi, nota per avere praticato il mestiere di cortigiana in Firenze e in Lucca, dopo una catena di avventure dolorose: un matrimonio forzoso all’età di quindici anni, la fuga da casa con un amante, la cattura e la reclusione in un convento, la nuova fuga con lo stesso uomo”. Non che fosse la favorita del principe, ma che si arrogasse diritti e atteggiamenti di tipo coniugale, abitando nel palazzo di fronte a quello di don Giovanni, in via del Parione, godendo di un trattamento «quasi se fusse stata una principessa» ‘: era questo che infastidiva la corte e i Medici. Molto attenti all’asse ereditario, costoro si preoccupavano più che altro degli eventuali eredi che sarebbero potuti nascere da un legame non temporaneo ma solido come si stava dimostrando quello di don Giovanni e Livia. Lo stesso principe, che aveva conosciuto la donna subito dopo il suo rientro da Parigi, donde era stato cacciato per opera di Concino Concini, mal sopportava che la «riputazione» e il «credito » per i quali aveva speso sangue e sudore, fatica e umiliazioni, sui campi di battaglia, nelle cancellerie straniere,
140
Capitolo quarto
nelle difficili esercitazioni architettoniche o teatrali, venissero messi
in discussione da cortigiani che profondamente disprezzava. Valgono per allora le parole che ebbe a dire più tardi: «Non son più da sopportar cicalate, trescate et cianciume, né voglio, né per me, né per cose mie, romanzine alla veneziana; però non ne correndo risico qua [a Venezia] (dove sono in uso), non mi curo andarle a cercare altrove » ”.
Cercò allora di affrancarsi, almeno in parte, dai ruoli medicei per passare al servizio esclusivo di uno stato che sembrava garantirgli una funzione adeguata alla sua condizione di libero cavaliere. Grazie ai suoi buoni rapporti con il patriziato veneto, ottenne una condotta al servizio della Repubblica a partire dal 1610, e per la durata di cinque anni”. Fu però un periodo incerto, diviso tra la fedeltà al granduca Cosimo II e gli obblighi nei confronti del nuovo stato di « cittadino». Risale alla fine di questo periodo la notizia che abbiamo raccolto circa la trattativa con Lorenzo Giustiniani, proprietario del teatro San Moisè. Una trattativa svolta da lontano, attraverso la mediazione del
maggiordomo Baroncelli. Il commercio con gli attori, agli occhi dei benpensanti di corte, doveva apparire quasi un vizio segreto e occasionale, non diverso dal lusso che lo stesso principe si era concesso, molti anni prima, con la « proprietà» personale di un buffone ”, tollerabile come il collezionismo di libri proibiti raccolti grazie alla collaborazione dell’ebreo Benedetto Blanis", o come la stessa relazione scandalosa con la prostituta Livia. Gli attori, la cortigiana, gli ebrei: tre luoghi comuni della cultura marginale che don Giovanni frequentava da sempre ma con il dubitoso equilibrio tra losco e lecito che era giudicato comunemente ammissibile purché provvisorio e discreto. Una strada separava la casa del principe dall’abitazione di Livia in via del Parione, un corridoio e una chiave riservata separavano la residenza granducale dal teatrino di Baldracca in cui da tempo don Giovanni disponeva di un palchetto permanente. Il granduca stesso usava quel palco, alla corte medicea bastava che don Giovanni facesse un
uso altrettanto discreto della sua Livia ”. Oscillò a lungo il nobile cadetto, durante tutto quel tempo, tra Firenze e Venezia, non accettan-
do forse l’antica rappresentazione di sé che la corte toscana gli chiedeva di dare, ma ancora incapace di assumere completamente la parte che Venezia gli offriva. La scelta definitiva di Venezia avvenne nel giugno del 1615, quando non gli era ancora stata confermata dalla Repubblica la condotta né la nomina a governatore generale delle armi venete in Friuli che arrivò solo nel novembre 1616”. Intanto però otteneva finalmente di poter condividere con Livia il tetto comune che a Firenze era stato loro
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I. Itinerari 1. Stazioni di posta e comunicazioni stradali in Italia all’inizio del Seicento.
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2. Principali circuiti e piazze teatrali italiane all’inizio del Seicento (da Magini, 1608, e da Cantelli, 1695).
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3. Stazioni di posta e comunicazioni stradali in Francia all’inizio del Seicento.
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nu. Le città e i teatri 4. Venezia. Il teatro di San Moisè (ubicazione approssimativa) e la zona circostante piazza San Marco, 1660.
5. Venezia. Il teatro di San Cassiano (ubicazione approssimativa) e il quartiere di Rialto, 1660.
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6. Madrid. Corral del Principe [1], Corral de la Cruz [2] e il quartiere di Puerta del Sol, 1656.
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12. Pianta dello «Stanzone che già serviva per le Commedie d’Istrion i della Dogana di Firenze». 13. Teatro della Dogana o di Baldracca visto dal palcosce nico. Ipotesi di ricostruzione.
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14. Teatro della Dogana o di Baldracca. La zona del pubblico e il palcoscenico. Ipotesi di ricostruzione.
15. Ubicazione delle Stanze di San Giovanni dei Fiorentini («comedia nuova») e di San Giorgio dei Genovesi («comedia vecchia») in Napoli, xvI secolo.
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16-17. Napoli. Chiese di San Giorgio dei Genovesi [A], San Giovanni dei Fiorentini [B],
Porta Capuana [C], Porta della Calce e il quartiere della duchesca [D], teatro di San Bartolomeo [E], 1629. 18. Genova. L’osteria e il teatro del Falcone, 1637. Ubicazione approssimativa.
19. Milano. Il duomo [115] e la corte ducale [118] dove si trovavano diversi luoghi per le commedie, 1629.
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20. L’Aja. I luoghi dello spettacolo professionale [1] e il castello del potere [2], 1588.
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21. Mantova, 1596.
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Sar 22. Mantova. Palazzo Ducale con il teatro di corte [4] e il teatro dei comici [81], 1596.
m. Galleria comica 23. Bernardino Poccetti, Episodi della vita dei sette fondatori dei Servi: Il Beato Sostegno alla corte di Francia, lunetta affrescata nel Chiostro Maggiore della Chiesa della Santissima Annunziata in Firenze, 1607-608 (?).
24. Francesco Andreini, particolare da Poccetti, Episodi della vita cit.
25. Giovan Battista Andreini, particolare da B. Poccetti, Episodi della vita dei sette fondatori dei Servi: Il Beato Sostegno alla corte di Francia, 1607-6098 (2). 26. Scenografia effimera, particolare da Poccetti, Episodi della vita cit.
27. Dama (Isabella Andreini?), particolare da B. Poccetti, Episodi della vita dei sette fondatori dei Servi: Il Beato Sostegno alla corte di Francia, 1607-6098 (?).
28. Medaglia commemorativa per la morte di Isabella Andreini (Lione, 1604): profilo dell’attrice.
29. Stemma della famiglia Usimbardi, particolare da Poccetti, Episodi della vita cit.
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Stemma della famiglia Usimbardi, 1658. Stemma della famiglia Usimbardi nel palazzo vescovile di Colle Val d’Elsa (secolo
Stemma della famiglia Cerracchi Del Gallo.
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33. Ritratto di Francesco Andreini e stemma degli Andreini, 1609.
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34. Stemma della famiglia Andreini, 1604.
35. R itratto di G. B . fam iglla , 1606.
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36. Ritratto di G. B. Andreini con lo stemma di famiglia disarticolato >» 1613. 37. Ritratto di G. B. Andrein i, 1620.
38. Domenico Fetti, Ritratto di France sco Andreini, 1621-22 (2). Leningrado , Ermitage.
39. Giusto Sustermans (?), Ritratto di Francesco Andreini in veste di capitano, inizio secolo XVII, particolare.
40. Diavoli emergenti dal sottopalco (da G. B. Andreini, Adarzo, atto I).
41. Ritratto di Maddalena
(da G. B. Andreini, La Maddalena
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1617).
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A2Î Domenico Fetti, Bacco e Arianna a Nasso, 1611-13 (?). Londra, Matthiesen Fine Art Ltd.
3. Domenico Fetti, Bacco e Arianna a Nasso, 1611-13 (2), particolare.
44. Domenico Fetti, Malinconia, 1618 circa. Venezia , Gallerie dell’ Accademia.
45. Domenico Fetti, Malinconia, 1618 circa, particolare.
46. Domenico Fetti, La moltiplicazione dei pani e dei pesci, 1618-19, particolare. Mantova, Palazzo Ducale. 47. Ritratto di don Giovanni dei Medici da giovane (prima del 1595). 48. Ritratto di don Giovanni (secolo xv).
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49. Don Giovanni dei Medici (?), particolare da P. P. Rubens, L’arrivo di Maria dei Medici a Marsiglia, 1622-25. Parigi, Louvre.
so. Cristofano dell’ Altissimo, Ritratto di don Giovanni, 1610 circa. Firenze, Uffizi.
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51. Lapide in marmo del mulino di Tristano Martine lli (Arlecchino) a Bigarello, 1618.
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52. Arlecchino (Tristano Martinelli
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1601.
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53. Scapino (Francesco Gabrielli) con Spinet ta (moglie del Gabrie Ii) , 1618.
54. Dottor Campanaccia (Giovanni Rivani), 1618.
55. Cocalino de’ Cocalini (Giovan Battis ta Andreini), 1618.
56. Florinda (Virginia Ramponi), 1618.
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58. Capitan Matamoros (Silvio Fiorillo), 1618. 59. Pulcinella (Silvio Fiorillo), 1618.
60. Trappolino (Giovan Battista Andreini) e Beltrame (Nicolò Barbieri), 1618.
Don Giovanni impresario
I4I
negato. Venezia era l'approdo felice in cui il Medici poteva rappresentare la sua nuova identità in un luogo che riconosceva in lui un condottiero degno di stima e in Livia la sua «Signora» degna di rispetto e di ossequio. Come appare dai carteggi fra i due amanti, Venezia fu anche il luogo in cui finalmente essi poterono sperare, con serenità, la nascita di un figlio. Là non c'erano i membri maggiori e minori della casa regnante che avevano da temere l’avvento di quel bambino come un attentato al loro interesse patrimoniale. E là infatti Livia soffri ben tre aborti (nel giugno del ’16, nell’aprile del ’17 e nel maggio del ’18) prima di dare alla luce un maschio, Francesco Maria (i nomi del defunto fratello granduca e della nipote regina di Francia) il 25 agosto 1619. E mentre ancora là, a Venezia, il giorno stesso del parto, i due si sposavano, e qualche settimana dopo, il 5 ottobre, una ce-
rimonia solenne celebrava il battesimo del neonato alla presenza di «circa trentacinque compari, senatori et di famiglie principali», avendo come testimoni il residente mantovano e il figlio del doge Priuli”, a Firenze i Medici catturavano il primo marito di Livia e lo costringevano a chiedere al papa la revoca della sentenza di annullamento del matrimonio che don Giovanni aveva ottenuto ”. A Venezia insomma don Giovanni fu in condizioni di vivere « con buona comodità, ben visto et con reputazione » ?. Poteva dedicarsi di nuovo agli studi cabalistici e alchemici che aveva condiviso con il Blanis, e anche il teatro poteva entrare non più come lusso semisegreto nella sua vita privata ma come commercio apertamente dichiarato nella sua vita pubblica. Nella primavera del 1613, all’epoca dell’inquieto soggiorno fiorentino, la compagnia dei Confidenti non era ancora stata costituita. Nelle lettere che intercorrono fra il loro protettore veneziano, Annibale Turchi, e il maggiordomo di don Giovanni,
gli attori sono definiti genericamente «la compagnia della signora Valeria» o la «compagnia di Battistino»”; la chiamata in causa di. don Giovanni, tramite il Baroncelli, si spiega inizialmente solo con
l'influenza che il principe poteva esercitare sulla concessione delle licenze per recitare al teatro di Baldracca: «La compagnia della signora Valeria desiderarebbe di esser favorita del salone per dar principio ad Ognisanto prossimo a recitar in cotesta città qualche comedia, onde parendomi compagnia che ovunque vada sia per farsi onore, volentieri piglio l’assunto di aiutar questo suo desiderio col pregar Vostra Signoria sì come facio con ogni affetto ad esserlene intercessore con la sua auttorità» ”. Il corrispondente veneziano deve illustrare le qualità della compagnia che quindi risulta non essere ben conosciuta dal Medici; qualche mese dopo troviamo Valeria e i suoi compa-
142
Capitolo quarto
gni al servizio di don Giovanni, muniti del titolo di comici Confidenti: con quel nome essi entreranno nella trattativa per l'apertura della nuova stagione del teatro San Moisè. Sembra quindi che la formazione comica di don Giovanni muova isuoi primi passi per via di impulsi dettati dalle circostanze pit che per esplicita volontà del principe. In particolare la nascita della stanza dei Giustiniani, fornendo ai Confidenti l'ospitalità di un teatro che li svincolava in parte dagli obblighi cortigiani, rappresentò per don Giovanni una ‘rivelazione’ decisiva. Venezia era anche in questo un approdo fortunato. Non è un caso che la trasformazione di quello che poteva sembrare un semplice trastullo principesco in vera e propria impresa teatrale avvenga proprio a partire dal 1615, l’anno cioè del definitivo trasferimento del Medici da Firenze a Venezia. È a partire da questo momento che si intensifica il carteggio intorno alla compagnia, cosî come da questo momento appare nelle corrispondenze di don Giovanni e del Baroncelli il nome di un mittente e destinatario di primo piano: il sessantatreenne Flaminio Scala *, già celebre come attore ed editore di canovacci, amico dei grandi comici viventi e scomparsi, noto alle corti d'Europa, ma da tempo inattivo e comunque estraneo alle principali formazioni comiche del momento. Flaminio Scala non era sposato ed era libero di muoversi in lungo e in largo per l’Italia, senza il ricatto di una moglie attrice che ne avrebbe istigato la condotta secondo interessi coniugali che, come vedremo meglio più avanti, don Giovanni non tollerava fra i comici. È vero che aveva obblighi in Venezia, di tipo professionale: una bottega di profumi e specifici nei pressi di Rialto; ma quando gli occorreva di partire al seguito dei Confidenti poteva farsi sostituire da un nucleo di giovani aiutanti fedelissimi e amati, e poi quell’attività era particolarmente apprezzata dal Medici, curioso da tempo di tutto ciò che sapeva di alchimia, alambicchi e storte”. Era dunque l’uomo giusto cui affidare la gestione della compagnia, il ruolo di «mantenitore» di questa”. La ricca documentazione epistolare tra don Giovanni e Flaminio Scala si costituisce quindi come vero e proprio archivio dei Confidenti: il teatro come mestiere, e non più come lusso, si affianca cosî al mestiere militare che a Venezia cessa di es-
sere la dovuta prestazione d’opera di un cadetto al servizio della bandiera dinastica per assumere le caratteristiche di una prestazione re-
tribuita.
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Le carriere militare e impresariale sono praticate, in quegli ultimi anni di vita di don Giovanni (morirà il 19 luglio 1621), nella tenace ri-
cerca di una effettiva libertà, materiale e spirituale, dalla eredità fiorentina. Il riscatto del proprio valore poteva cosî avvenire sui campi
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di battaglia, alla guida di truppe che egli pretendeva di trasformare da indisciplinate in efficienti”, come anche sui teatri di corte e a pagamento di tutta Italia, alla guida di una compagnia che doveva essere ammirata come modello di bravura e disciplina. La truppa dei comici, in particolare, venne investita di significati simbolici. Da ‘rappresentante’ don Giovanni poté finalmente diventare ‘rappresentato’. Quella scolta di artisti portava la sua bandiera, recava messaggi, officiava cerimonie in forma di spettacoli, esibiva la sua potenza, dimostrava la sua signoria. Poteva in questo modo gareggiare, alla pari, con il duca di Mantova, con il granduca e i signori d’Italia, e anche, forse, con il re di Francia. E quel successo aveva un valore doppio. Come il comando delle truppe venete non dipendeva da meriti ereditari, ma esclusivamente dal suo valore cavalleresco, anche il governo dei teatranti dipendeva esclusivamente dalla sua capacità di amministrarne qualità e difetti. Per questo, passando dalla Toscana alla laguna, aveva oscurato l’indole dimissionaria che aveva dominato la sua
vita per affrancarsi dall’inutilità cortigiana, ed era diventato un serio militare di ventura. La protezione dei Confidenti lo aveva allontanato dal dilettantismo velleitario che lo aveva fatto gareggiare con Buontalenti e lo aveva immesso nella dura serietà della vendita teatrale. In una società quasi esclusivamente cortigiana i Confidenti erano la sua Venezia errante, una repubblica preziosa e salvifica, la cui storia diventò ben presto l’esperimento faticoso e tuttavia illuminante con il quale don Giovanni misurò, 1 corpore vili, la possibilità di dare consistenza reale a un sogno di libertà individuale e collettiva. Le fatiche con cui i suoi attori sopravvissero per circa otto anni alle avversità fu-
rono fertili anche per il principe che, quasi al termine della sua vita, mostrerà di avere tratto non piccoli insegnamenti morali da quella esperienza: una sua lettera, che riproduciamo nell’Appendice e che commenteremo meglio più avanti, costituisce, in particolare, un te-
stamento spirituale di grande valore per la storia del teatro. 2. La compagnia di don Giovanni, prima di chiamarsi dei Confidenti, era nota grazie al nome dei due coniugi Austoni che ne erano forse i personaggi di maggiore importanza. L'uomo, Giovan Battista, detto anche Battistino, non recitava, faceva il «portinaro», stava cioè
alla porta per incassare il diritto d’entrata. Nella già citata lettera di Orazio Del Monte a Cosimo Baroncelli, del 18 gennaio 1614, figura come primo nell’elenco della compagnia; il personaggio di maggiore prestigio teatrale era però la moglie, Salomè Antonazzoni, in arte Va-
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leria, prima donna fascinosa ma turbolenta, causa di futuri frequenti dissidi. C'erano poi gli «innamorati» Francesco Antonazzoni (fratello di Salomè) e Domenico Bruni, la serva Nespola, il Pantalone Marc’Antonio Romagnesi”. Come si ricorda, secondo il Giustiniani, che voleva imporre i suoi zanni Farina e Cortellaccio, in questa compa-
gnia sarebbero state assenti «le parti ridicole», le quali di lî a poco futono introdotte grazie proprio a un abile maneggio di Battistino. Una notizia del novembre 1615 fornisce infatti l’elenco completo delle «parti»: Quanto poi ai personaggi, prima vi sono due zanni, un furbo ch'è quello che intriga e si chiama Scappino, l’altro, ch'è poi quel grazioso e che non si puol sentir meglio, èMezettino. Vi sono quattro donne, l’una Lavinia, che è la più bella, più giovane e recita meglio di tutti, l’altra Valeria e due altre Nespola e Spinetta moglie di Scappino, e queste sono serve. Due sono gli innamorati, l’uno Fulvio, che dice meglio dell’altro e (...) questo è fratello di Valeria, la quale è assai di tempo. L’altro è Ortensio, marito di Lavinia; un Pantalone, un Beltrammo bergamasco, un Capitano spagnuolo, un francese italianato detto Claudione; questi tutti sono li
personaggi. Fulvio poi fa ancora un romagnuolo et un Graziano, il Capitano fa molte volte il Capitano italiano e così tutti fanno all’occasione parti doppie ”.
Sono arrivati gli zanni (Scappino e Mezzettino), la seconda amorosa (Lavinia), e molti altri ancora ”. Qui non si fa menzione di Battistino,
perché la notizia serve soprattutto a illustrare gli attori; eppure è lui l’uomo-chiave della compagnia nella sua prima fase di vita, colui che, adoprando gli strumenti più spregiudicati del reclutamento, consegna alla formazione di don Giovanni la struttura che essa conserverà praticamente inalterata fino alla conclusione della sua esistenza. Giovan Battista Austoni, legato fin dal 1591 a Pier Maria Cecchini, di cui condivideva le origini ferraresi, era stato anche il «portinaro» e rappresentante legale della compagnia degli Accesi nel corso della tournée francese del 1608, svolta per conto del duca di Mantova”: fu lui a firmare i contratti con cui gli attori italiani ricevevano in concessione l’Hétel de Bourgogne da parte dei Maîtres et Gouverneurs de la Confrérie de la Passion, e fu ancora lui a sostenere, davanti a un notaio, il diritto dei comici a usare a proprio piacimento un palchetto («loge») contro le pretese di Monsieur Jacques de Fonteny « controleur des comédiens» per conto del re”. L’usurpazione da parte dei comici di posti generalmente riservati (sappiamo che anche in Italia era questa una delle principali cause di conflitto fra gli attori e i proprietari delle «stanze») scatenò la reazione dei nobili francesi che si
ritenevano defraudati di un diritto. Allora Battistino si era segnalato per fermezza e per coraggio:
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Di là a due notti il detto gentiluomo con gran comitiva benissimo armat’ andò a casa de’ comici per ammazzar quel poveraccio, infingendo d’esser le guardie del re, ma, riconosciuti, fu serrata la porta della scala et gl’usci delle camere, fu per opera del padron della casa, huomo assai discreto, condotto per un’altra uscita a salvamento; era però ben risoluto, con una pistola alla mano et la spada dall’altra, di vender loro la sua pelle ben cara”.
Pare che a occupare quel palco conteso fosse proprio don Giovanni dei Medici, all’epoca impegnato alla corte della nipote Maria. Come ha giustamente scritto Sara Mamone, quella rissa non nasceva da un puntiglio: «si trattava di una contesa fra due diversi ‘sovrintendenti’, di una questione di principio che metteva in discussione l’autonomia dei comici italiani. Il segno, se vogliamo, di una difficile coesistenza di interessi artistici ed economici sulla piazza parigina» *. Era il battesimo impresariale di don Giovanni. L’inizio di un tormentato rapporto di attrazione-repulsione con Battistino e Frittellino. Il principe mediceo difese gli attori che avevano difeso la privativa del suo palco, probabilmente sfruttando le sue ottime ‘entrature’ a corte, però suscitando i sospetti dell’ambasciatore dei Gonzaga che era stato incaricato della protezione dei comici da parte del duca di Mantova, allora finanziatore e patrocinatore di Cecchini e soci. Nella parte finale del dispaccio che abbiamo riferito più sopra il residente mantovano a Parigi insinuava il sospetto che i favori del principe don Giovanni avessero sostituito, per oscuri motivi, la protezione dei Gonzaga: Mi son meravigliato che né Frittellino né altri de’ suoi non me ne habbian parlato, che per ubbidir a Vostra Altezza haverei prontamente cercato d’aiutargli. Forse non hanno havuto bisogno del mio mezo essendo ricorsi dal signore don Giovanni che gl’ha grandemente favoriti.
L’intrigo era reso credibile dal clima sospettoso e violento suscitato a corte dalle trame di Concino Concini, di Maria dei Medici, dei
notabili francesi. C'erano di mezzo la politica estera, il partito filofrancese e quello filospagnolo, i difficili equilibri dei fiorentini attratti alternativamente da un riavvicinamento ulteriore alla Francia e da una ripresa della collaborazione più nettamente cattolica e filospagnola; c'erano anche le manovre dei veneziani molto attivi in terra di Francia e molto preoccupati di bilanciare l’operato degli agenti diplomatici dell’uno e dell’altro schieramento; ed erano in pieno svolgimento a Mantova le feste, le cerimonie e gli spettacoli che sancivano il matrimonio politico che univa Margherita di Savoia e Francesco IV Gonzaga, secondo il disegno voluto da Carlo Emanuele I, temuto da molti e certo non gradito dai francesi. Nel settembre del 1607 Cosimo Baroncelli era stato arrestato sotto l’accusa di tentato omicidio, e poi
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espulso da Parigi. Lo stesso don Giovanni lo avrebbe seguito presto, in aprile, sotto la pressione del Concini che lo aveva accusato di avere complottato contro di lui e avere introdotto in Francia persone indesiderate”. Subito dopo, a conferma di quanto dipenda la vita dei comici dai mutamenti del vento politico, Frittellino si sarebbe affrettato a fare atto di sottomissione al Concini, chiedendo una lettera di rac-
comandazione al duca di Mantova, suo indimenticato padrone: «La partenza del signor don Giovani ci è stata di gran perdita, et l’esser statti troppo protteti da lui ci arecca hora qualche disturbo, perché chi può farci del bene sta per farci del male». Tutto lascia pensare che don Giovanni abbia allora ‘appreso’ a utilizzare quella compagnia di attori per scopi non solo teatrali e che dietro la guerra dei palchetti si nascondessero doppi o tripli giochi di spie e informatori. L’immunità extraterritoriale di cui godevano i teatri e i teatranti, in una zona che si situava ai margini dell’ufficialità, tra rappresentazione protocollare e vizio privato, si addiceva alla natura delle complicate relazioni diplomatiche che dovevano essere condotte nella penombra della storia. E furono proprio i comici designati dal programmatico nome di Confidenti che, vivendo e lavorando in quella penombra,
seppero dare continuità all'esperimento del 1608. Forse per le stesse ragioni, l’oscura figura di Battistino, che era stata la più importante in quel commercio ibrido di ozi e negozi, tra l’effimero della finzione e la solidità dell’affare, fu decisiva per il varo della formazione comica che si raccolse intorno a don Giovanni a partire dall'anno comico 1613-14.
i
All’inizio di ogni successo c’è sempre un delitto, o almeno un tradimento. Qui il colpevole fu Battistino e la vittima Pier Maria Cecchini. La disgregazione della compagnia di quest’ultimo (gli Accesi) fu la premessa indispensabile per il rafforzamento e l'affermazione dei Confidenti. Tenuto conto del sistema teatrale che abbiamo descritto, con un’ancora debole mercatura delle «stanze», non c’era spazio in Italia per due compagnie professionali di alto livello che non fossero subordinate a un potere cortigiano. I Confidenti, se vollero occupare quello spazio, dovettero pertanto impegnarsi ad assorbire nel loro corpo tutti i migliori attori in circolazione; e questi, quando non erano stipendiati al servizio del duca di Mantova, si trovavano appunto al seguito del Cecchini. Le «parti» principali che abbiamo registrato nell'elenco dei Confidenti del 1615 in aggiunta a quelle note fin dal 1613-14, sono gli zanni Scapino e Mezzettino, i quali nel 1612, secondo la testimonianza altrettanto interessata di Arlecchino, facevano parte della compagnia degli Accesi: «Scapino è con Fritellino, il quale non
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à molto bisogno di lui per aver tolto in compagnia Mezetino, che fano tutti dui una parte medema»”. Quello che era stato progettato da Arlecchino (sottrarre almeno uno dei due zanni al Cecchini) fu evidentemente realizzato (e meglio) da Battistino e da don Giovanni. E che
l’operazione fosse stata condotta mediante azioni poco chiare, promesse non mantenute, istigazioni segrete, risulta dalla voce di un altro testimone della vicenda, quell’ Annibale Turchi che avevamo già trovato come protettore della signora Valeria, e che in questo caso doveva avere convinto Frittellino-Cecchini a cedere uno dei suoi due zanni in soprannumero (Scapino) proprio alla formazione di Valeria e Battistino. Accortosi però che Scapino era stato seguito anche da Mezzettino, il Turchi era intervenuto per proteggere e difendere, davanti a don Giovanni, il povero Cecchini:
«Intendo che Mezettino,
nonostante la parola data a me di esser con Fritelino si è posto nella compagnia di Battistino et che di questo ne ha dato parola al signor don Giovanni; prego Vostra Signoria quanto più efficacemente posso, quando sia vero che il sudetto signore habbia gusto di questo personaggio, ad adoperare che questa parola non s’estenda più oltre del tempo che costì recitarano, come appunto ne supplico Sua Eccellenza Illustrissima anche del resto del tempo le sia concesso venirsene nella compagnia di Fritelino, et ad osservar la parola a me che, pur ad instanza di Mezettino, ho fatto licenziar Scapino da Fritelino » ‘. E cost il povero Frittellino che, a detta dei suoi concorrenti, teneva troppi zanni in compagnia, aveva finito per ritrovarsi senza nessuna
di quelle parti e nella condizione di doverne chiedere la restituzione, implorante. Una sua lettera, di poco successiva, ce lo presenta «tradito e sotto la parola assassinato » nell’atto di dare e chiedere spiegazione su quanto gli è successo “. Sembra che non abbia capito che tutte le sue disgrazie dipendono dalla nascita della nuova compagnia che sarà affiliata a don Giovanni, e che lo esclude. Si illude che la defezione si-
multanea dei suoi due zanni sia un puro e semplice incidente che non obbedisce a una strategia organizzativa. Si sente tradito, proprio lui che qualche anno prima (1610) aveva dedicato al principe fiorentino, in ricordo della comune esperienza parigina, la stampa della sua commedia Flaminia schiava. Non può credere che, tra i due complici più fedeli della stagione francese, il prescelto sia Battistino. Continua a sperare nelle future strategie impresariali di don Giovanni dei Medici: «Potev’io mai pensare che Sua Altezza Serenissima e Vostra Eccellenza, havendo desiderio di veder Mezetino et sapendo ch'era mecco, non mi havessero fatto avisare ch’io venessi al lor servicio?
Potev’io far di meno di non venirci, havend’io tanti e tanti obglighi? »
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È comunque abile a dimostrare la sua generosità, lasciando credere che, se aveva preso in compagnia Mezzettino, lo aveva fatto per «utilitar questo ch'era rovinato», che a Scapino aveva dato «scudi 200 in prestito, per esser quasi in neccessità », e a Domenico Bruni un lavoro
perché era stato «caciato dalle scortesie di Battistino et dal puoco guadagno». Un sant'uomo insomma, che però si era lasciato gabbare dalle promesse dei suoi furbi commedianti. Il quadro che scaturisce dal racconto di Frittellino restituisce, meglio di qualunque discorso critico, il sapore di un mercato delle braccia comiche trattato sulla libera piazza, garantito da promesse verbali e da sensali appartenenti all’Arte, sostenuto da un sentimento di mutuo soccorso determinato dai legami parentali che stanno alla base di tutte le formazioni: Entrai in qualche sospetto che costui mi dovesse mancare intendendo ch'egli fosse inamorato di quella Nespola, et lo dissi a Fulvio, il quale, essendo quello che negoziava per Mezetino, mi rispose ch'io non licenciassi Scapino se di novo non parlava con lui, onde l’andò a parlare et poi mecco l’abboccò in piazza di San Marco, et hebbe mecco queste parole: «Mi dispiace che mi habbiate così puoca fede che crediate ch’io sia per mancarvi, anci, ch’io vorrei che mi si faccesse in-
contro qualche gran difficultà, per farvi conoscere qual sia la mia fede». A parolle di tanto senso m’achetai, et finito il carnovale diedi con mio gran disgusto licenza a Scapino. Andò Mezetino a Bologna, et io rimasi pensando allo stato di Battistino, et non mi parendo troppo buono, imagginandomi che non fosse per haver compagnia, lo chiamai un giorno et li dissi così: «Mi par di vedervi star molto male, sì per non haver compagnia di proposito, come per haver fatto di molti debbiti questo carnovale per le puoche facende che havete fatto, onde vi esibisco la mia compagnia per voi et vostra moglie»; lui mi ringraciò, et partì dicendo che non voleva lasciar suo cognato [Francesco Antonazzoni, detto Ortensio]. Pigliò il detto Battistino Scapino, et partì per Firenze seminando parole che andava per levarmi Mezetino. Io che intesi ciò me ne risi, pensando che niun favore si potesse spendere più per Battistino portinaro che per Frittellino comediante.
Invece — continua Cecchini — «gionto in Bologna [Battistino] fece che Mezetino avisò che non voleva esser mecco; né si diceva perché» e «puoco doppo venne aviso che » era don Giovanni stesso che lo domandava al suo servizio per spettacoli alla corte di Firenze: Scapino, Mezzettino, e anche il mediatore Fulvio si erano ritrovati ben presto tutti insieme, e insieme a Battistino, agli ordini del principe mediceo. Credo che questo sia l’atto di nascita della compagnia dei Confidenti, coincidente con la quasi totale dissoluzione della compagnia di Frittellino, a cui rimase in carico probabilmente la sola moglie, Orsola, in arte Flaminia. Sconfitte del genere torneranno più volte anche nel seguito della vita del nostro attore, cosî come torneranno le manifestazioni di disappunto e disprezzo nei confronti di chi lo ha beffato
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(e se ne parlerà ancora nell’ultimo capitolo di questo libro). Per ora si sottolinea come particolarmente grave che il vincitore di questa contesa sia un collega di tanti viaggi, un subordinato, un «portinaro» incapace di recitare. Sul divario professionale che lo separa da Battistino il Cecchini insiste molto, sottolineando che non basta il titolo di
compagnia per fare un insieme di veri attori: «Potev’'io mai credere che una compagnia che non ha altro che il titolo havesse luogo dove vi sonno neccessarie l’opere? » *. Il richiamo è giusto, ma si rivelerà ben presto infondato dopo l’esodo delle parti ridicole. Gli attori, come è logico, corrono dove la protezione è più forte. Il rapporto di valore si capovolgerà e qualche tempo dopo (beffa della storia) i Confidenti di don Giovanni al teatro di San Moisè schiacceranno la concorrenza degli Accesi, ospiti del teatro San Cassiano, gestito dai Tron: Qui li comici si fanno honore et sono molto ben veduti dalla città, et posso dire che sono senza concorrenza, tanta è la disparità che vi è fra questa compagnia et quella di Frittellino; et anco di questo favore ne ringrazio Vostra Signoria molto Illustre poiché da lf conosco il buon successo, con eterna mia obligazione *.
Frittellino-Cecchini arriva a essere accusato della colpa di cui è vittima. Il tentativo di recuperare uno degli zanni perduti viene visto come un’ingerenza nella vita di una compagnia unita, e lui si trasforma da capocomico di una compagnia sconvolta per opera di un potente signore in istigatore di disunioni in altre compagnie: « Vengo avisato che Fritellino fa ogni cosa per disunir questa compagnia et io li ho fatto parlar in maniera che credo si guarderà di farmi quest’oltraggio » ‘’. Il protezionismo cortigiano, che sempre alligna all’interno della mercatura teatrale, ha vinto anche qui l’improvvisato artigianato del Cecchini, che è costretto a chiedere perdono per avere resistito ai potenti: «È venuto esso Fritellino a pregarmi, si può dir in ginocchioni, che io le interceda perdono per mezzo di Vostra Signoria molto Illustre dall’Eccellenza Sua, che habbi egli procurato di sviar Scappino di qui. Il pover’homo mi fa compassione, si bene è accorto assai; per non dir altro, io prego con tutto lo affetto mio la sua benignità che mi interceda questa grazia: che per questa volta li sia perdonato l’errore, che se incapperà la seconda, procurerò io stesso il suo castigo» ‘“.
3. Espropriato Frittellino dei suoi attori, assunto a partire dall’estate del 1615 Flaminio Scala con il compito di dirigere la compagnia ”, e rimanendo Cosimo Baroncelli il maggiordomo tuttofare di don Giovanni, l’utilissimo Battistino perde prestigio. Come capita spesso,
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l’autore materiale del colpo di stato, del tradimento, viene brutalmente ‘scaricato’. Del resto, come aveva fatto notare lo stesso Cecchi-
ni, non era un attore ma solo un «portinaro». E cosî, in una serie di lettere dell’estate del 1616, assistiamo a una lunga vertenza che, traen-
do pretesto da alcune rimostranze di Battistino e della moglie, si conclude con la punizione del benemerito di un tempo, preludio a un suo successivo licenziamento “. Avendo Flaminio Scala conquistato il posto che nella fiducia di don Giovanni era stato occupato da Battistino, all’interno della compagnia si determina un nuovo sistema di vita e di lavoro che è militare e assembleare allo stesso tempo: un specie di monarchia costituzionale, o se si vuole, di dittatura corporativa *. Non sono ammesse gerarchie artistiche che siano anche distinzioni di potere, l'eguaglianza dei compagni è condizione necessaria per mantenere l’ordine secondo la volontà del signore e padrone. Lo dimostra il processo che viene istruito per corrispondenza intorno alle rivendicazioni dei coniugi Austoni. Si dice che l’uomo non vuole «star più alla porta» e invece «vuole essere compagno quanto ogni altro, deliberare e proponere in compagnia, ritornare in consiglio e patroneggiare»”. Colpisce, nella notizia, l’importanza che viene implicitamente riconosciuta al « consiglio », una specie di assemblea in cui dovevano essere prese decisioni tecniche di una certa importanza; e colpisce anche che, nonostante l’importanza del ruolo, il «portinaro» fosse escluso dalle consultazioni. Quando un esterno, il nobile genovese Pantaleo Balbi, già garante e procuratore della licenza per le rappresentazioni in Genova”, incaricato di dirimere la controversia, finisce per dare ragione agli Austoni, tutta la compagnia insorge e invia un documento di protesta che, sottoscritto da tutti imembri maschi dei Confidenti, viene mandato a don Giovanni (in assenza di Fla-
minio Scala, sono gli attori Domenico Bruni e Nicolò Barbieri a redigere la relazione come primi firmatari). E don Giovanni stesso si affretta a respingere una soluzione che, tramite il riconoscimento dell’eguaglianza di Battistino rispetto agli altri componenti della troupe, andava contro i più moderni e razionali criteri di gestione che i Confidenti si erano dati distinguendo le funzioni artistiche (degli attori) da quelle di servizio (del portinaro). Una soluzione favorevole ai coniugi Austoni appariva poi particolarmente pericolosa in quanto avrebbe sancito, oltre alla promozione del Battistino in «consiglio», anche il riconoscimento a Valeria del ruolo di «prima donna dandoli tutte le sue prorogative come alle Flaminie e Florinde»”. Il riferimento è alle mogli del Cecchini e dell’Andreini, il cui primato artistico influenzava e determinava pesantemente, nel bene e nel male, la composizione
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delle compagnie di cui facevano parte. È sempre pit evidente la volontà dei Confidenti di distinguersi in maniera consapevole dai modelli allora dominanti dei Fedeli e degli Accesi, e di sperimentare un’autonoma e originale formula organizzativa. I due dissidenti furono puniti, anche se la pena estrema dell’espulsione venne poi mitigata per volontà di don Giovanni: Per una del signor Flavio, portataci da Battistino, habbiamo inteso la volontà e gusto di Vostra Eccellenza, onde habbiamo di comune gusto e consenso riacettato la signora Valeria tra di noi, con la quale di novo uniti cercheremo di mantenerci in quella pace tanto a noi necessaria, e con tanta fatica, per nostro honore da Vostra Eccellenza procurata. Messer Battistino, suo marito, starà, come ci vien
scritto, fuori di compagnia, né sarà ammesso in qualsivoglia benché minimo negozio da che potesse pretendere più di quello che nella lettera del signor Flavio ci viene prescritto”.
La conferma dell’esclusione di Battistino dal « consiglio » e il trattamento punitivo imposto alla coppia, a cui fu assegnata solo
«una
parte e mezza» ” nella ripartizione dei proventi, segnano un allentamento dei vincoli familiari all’interno di quello che era stato il nucleo originale dei Confidenti che, com'è noto fin dal 1613, ruotava intorno al duplice rapporto di parentela di Valeria (Salomè Antonazzoni, coniugata Austoni), moglie di Battistino e sorella di Francesco Antonazzoni detto Ortensio. I comici Confidenti erano consapevoli che, soprattutto in presenza di donne, l’esistenza di legami parentali era di grave ostacolo all’unità della compagnia. Essendosi prospettata la necessità, poi rientrata, di scegliere una sostituta dell’Antonazzoni, si
era deciso di preferire una certa « Violina, per essere prattica delle comedie, perché impara versi, canta et ha un marito che non è buono da niente» (non c’è quindi pericolo che si intrometta nelle questioni artistiche). Era stata invece scartata la moglie di un certo Leandro per-
ché, oltre a essere
«inesperta», «ha il marito, il suocero et l’obligo de”
compagni»; cosf non sono gradite Isabella, che «ha il marito e non sa leggere; la figlia della Virginia» che «ha la madre, frattello e prosunzione, dove che questa Violina non ha se non il marito» ”. La lettera dei comici con cui si approvavano le decisioni di don Giovanni, precisava del resto che « Vostra Eccellenza (...) sarà sempre anteposta a qualsivoglia interesse, stretezza di amicizia o vincolo di parentella che sia tra di noi». Ma i «vincoli» resteranno e risulteranno invincibili e perniciosi. La definitiva cacciata dei coniugi Austoni, alla fine della stagione comica 1617-18, avverrà infatti in seguito alle violente polemiche scoppiate tra la solita Valeria e la cognata Lavinia, la quale aveva il grave torto di essere, oltre che più giovane, la moglie di Francesco
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Antonazzoni. E la seconda donna che venne poi reclutata fu «la figlia della Virginia», Maria Malloni (in arte Celia), i cui consanguinei (ma-
dre e fratello) si riveleranno presto assai poco raccomandabili”.
Quella che si svolgeva tra don Giovanni e Flaminio Scala, da una
parte, e gli attori, dall’altra, era una disfida che intaccava dunque una duplice consuetudine comica: l'abitudine antica alla gestione familiare delle compagnie e il più recente predominio delle figure femminili. Queste, le ultime arrivate ma le prime a essere ricercate, insieme agli ‘ zanni, dal pubblico e dai mecenati, tentarono di contrapporre alla gerarchia fissata dall’impresario e dal capocomico quella delle loro virtà, cercando di stabilire su tale base un loro speciale primato (una sorta di capocomicato sotterraneo), non importa se dipendente dai legami di sangue o coniugali che vantavano all’interno del gruppo degli attori. Non arrivarono mai a gesti unilaterali, come furono quelli di alcuni attori uomini che abbandonavano le compagnie senza chiedere il permesso, ma nondimeno domandavano il congedo consapevoli del rischio di un’avventura isolata. Era appena cominciato l’anno comico del suo debutto tra i Confidenti che Celia manifestò la sua esplicita insofferenza nei confronti della disciplina quasi militare che, tramite il luogotenente in servizio Flaminio Scala, don Giovanni esigeva fra i suoi comici: «la qual Celia di tutti gl’honori della Signora Lavinia si duole e vorrebbe uscire di conpagnia (con buona grazia di Vostra Eccellenza Illustrissima) alla fine di carnovale, per vivere non
di meno sotto la protezione dell’Eccellenza Vostra in qual si sia conpagnia che vadia » *. Proprio con amorose come queste don Giovanni fece però bella mostra di sé, imponendo per primo e sia pur per poco tempo la disciplina e il primato del collettivo alle più naturali custodi dell’arte solista. Nel giro di pochi anni (dal 1615 al 1618) le titolari dei personaggi di prima e seconda donna furono sostituite. Dalla coppia
costituita da Salomè Austoni (prima donna) e dalla Antonazzoni si passò gradualmente, prima a un’inversione gerarchica fra queste due, e poi al duo Antonazzoni-Malloni. Le sostituzioni avvennero sotto la vigile sorveglianza di Flaminio Scala che, avendo a suo tempo calcato il palcoscenico e conosciuto almeno due generazioni di comici dell'Arte, ormai al di sopra delle parti per l’età avanzata e per la mancanza di vincoli di sangue (tanto meno con donne) nella nuova compa-
gnia, era in grado di governare le trasformazioni del gruppo rispettando idelicati automatismi del repertorio. Il gradualismo e la sapienza registica del capocomico assomigliano a quelli di un prudente allenatore di un’équipe sportiva che rispetta i ruoli e bada all’amalgama. Per questo la ‘squadra’ dei Confidenti restò cosî a lungo identica a se
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stessa. E sempre dal fitto epistolario che unisce il.principe mediceo
(in Venezia) al fidato Cosimo Baroncelli (in Firenze) e al suo capo-
comico (in giro per l’Italia), emerge il metodo di lavoro che segna il trapasso graduale, poi incompiuto, verso la compagnia teatrale moderna. Nel 1616, la fine della sommossa degli Austoni, che aveva occupato tutto il periodo estivo, fu decretata dall’intervento deciso di Flaminio Scala, che era stato inviato a Firenze, al seguito della compagnia, per evitare i rischi di disordini teatrali che avrebbero potuto compromettere il buon nome di don Giovanni presso la corte. Bastò una «particella» scritta dall’Eccellenza impresaria per domare gli arroganti e costringere Valeria a «contentarsi che la Lavinia facci la sua Pazzia et opere», a giurare che «quando sia in gusto di Vostra Eccellenza li cederà le prime parti, poiché il suo fine non è altro che di compiacere e servire Vostra Eccellenza» ”. Il potere esibito era quello assoluto dei sovrani mecenati, come ai tempi di Vittoria Piissimi e Pedrolino, an-
che se qui veniva accompagnato dalla giustificazione tecnica di un vecchio attore attento ai valori del mestiere: «Io la ho assicurata che quanto Vostra Eccellenza domanda si è per honore della compagnia». La disciplina ottenuta era ancora militare: «Insomma tutti con le ginochia a terra fanno riverenza a Vostra Eccellenza, pregandola a non voler ritrarsi punto indietro della sua solita protetione. Io poi non con i ginochi, ma con la lingua per terra mi ricordo suo vero e fidel servitore». Poi, dopo il debutto di Lavinia, il vecchio capocomico aveva manifestato la soddisfazione per l'affermazione della nuova diva: La signora Lavinia à fatto la sua Pazzia con contento e sodisfatione de tutto il popolo, e con grandissima invidia del povero Battistino e forse anco della signora Valeria. Mando a Vostra Eccellenza li cartelli over cartello che si gettò dal palco con hoccasione d’una giostra che si finge nel’hopera: insomma la Lavinia aquistò in questa sua fatica l’aura popolare. Ella con tutti imiei compagni rendono infinite gratie a Vostra Eccellenza dello amore, memoria e bona volontà che la tiene verso di loro, e gli fanno hogni debita riverenza ®°,
Tutti dovevano essere uguali davanti alla compagnia, che costituiva il principio regolatore di ogni dissenso. Ognuno partecipava all’armonizzazione dei diversi. Due anni dopo (1618) il medesimo problema si ripropose. Diva contro diva. Come le declinante Valeria si era opposta alla rampante Lavinia, cosî Lavinia dovette fronteggiare l’aggressività della nuova venuta, Celia Malloni. E anche in quel caso, in maniera ancora più insolente, ci fu un complotto di famiglia. Lo Scala accusava infatti «la Celia e quella infame di sua madre con il vitupero-
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so fratello» che «con le loro attione puttanesche tengano in continui travagli » i fedelissimi e uniti Confidenti “. A Lucca, il clan della Malloni era arrivato a bloccare sul nascere una rappresentazione solo perché vi recitava, nel ruolo solista di Arianna, la bella Lavinia, e si era
servito di gentiluomini prezzolati e di una claque di guastatori: Se aveva da fare l’Arianna, nella quale Lavinia fa la sua pazzia, e quando fu fatto lo apparato, che vi si spese da trenta ducati, et tutti icompagni andati alla stanza e presi de molti danari alla porta, venne un messo da parte de’ Signori che non se recitasse e subito li abbottinati cominciorno a levar fiscchiate con risa delli tre, e con parole che pungeva la compagnia. Et questo è stato perché la Celia voleva far la sua Pazzia e la compagnia si contentava lei si elegese il giorno, ma quando fu a quel tempo non la volse fare, e la compagnia li fece intendere che se non la faceva il giorno ch’ella l’aveva promessa, non l’arebbe fatta più. La madre scellerata debbe dire: «Se non la farà mia figlia, non la farà manco altri», et così hordirno questa trama, quale à uto a essere gran rovina fra lor gentilhomini ®.
Subito il gruppo degli attori reagî. Il rispettabile Marc’ Antonio Romagnesi, noto come Pantalone, «et altri della compagnia» li ripresero «dicendo che queste erano scelleratagini da non soportare e che se ne darrebbe parte a Vostra Eccellenza ». Ma non era bastato. La famiglia non aveva ceduto di fronte all'azienda. «Quello che disse quella scellerata vechia, non lo debbo scrivere; suo figlio disse voler fare quello pareva a Ilui, e che non si conosceva essere hobblicato ad altro che a Dio ». Tanto che quando «la compagnia se mise a l’ordine » per lasciare la città, iMalloni «si lasciavano intendere non voler venire».
La società di don Giovanni però dimostra di funzionare bene, ed è Mezzettino a correre «in diligenza » a Firenze a narrare la storia al capocomico il quale, a sua volta, chiederà l’intervento ufficiale del maggiordomo del principe impresario: Prego dunque Vostra Eccellenza, per quello amore qual m’à sempre portato, a
fulminar con lettere e minacce a questo triangolo scellerato, et hordinare al signor Baroncelli o a chi parà a Vostra Eccellenza che li parli in suo nome, perché io dubbito che qui non nasca qualche disordine, che se ciò avenisse, io morei di dolore. E sopra il tutto, Eccellentissimo Signore, che le lettere si vedano dalla compagnia, perché tutti aspettano un grandissimo risentimento, e principalmente Scapino, qual se ricorda delle lettere minacciatorie de Vostra Eccellenza che (come egli dice) gli mettevano il cervello a partito, et alla fine è conosuto ch’il tutto nasceva dallo amore che Vostra Eccellenza li portava ©.
Ci sarà stato uno zelo partigiano nel resoconto di Scala, comunque non uno dei grandi interpreti della compagnia sembra astenersi dall’intervenire. Tutti si richiamano a una legge non scritta che regola i rapporti di lavoro, specialmente i due zanni Scapino e Mezzettino e il Pantalone. I Confidenti funzionano come microsocietà autosuffi-
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cienti, come tutti i gruppi trasgressivi e quindi necessariamente instabili, minacciati all’esterno dall'ordine sociale dominante e all’interno
dalle inclinazioni libertarie dei loro membri“. Scala non era un moralista. Se da Firenze confidava a don Giovanni di essere «in un continuo travaglio per queste maladette donne» °, non lo faceva certo per timore che queste offendessero il pudore
granducale visto che lo stesso cardinale Carlo dei Medici scrisse una lettera al parente impresario «in scusa e difesa della Celia» “. Quando parla della «intiera soddisfatione » che la compagnia ha da dare a Sua Altezza Serenissima il Granduca, egli intende il piacere, per cost dire, estetico, di una buona esecuzione teatrale. Vorrebbe presentarsi più come commediografo che come servitore di fiducia e mantenitore dell’ordine per conto di don Giovanni. Il vecchio comico vorrebbe assaporare un’ultima ombra di gloria nella prestigiosa corte medicea, affollata di artisti del teatro. Non voleva deludere le attese dei committenti. Se quindi si lasciò sfuggire qualche aspra notazione sull’anima di Celia, bisogna giustificarlo con la sua esigenza di tecnico lindore: del tutto è causa quella maladetta vechia madre della Celia, quale vol stare del continuo sul palco appresso la figlia, con quelli modi puttaneschi che puol trovarsi in una che sia nata puttana nel corpo della madre ®.
Invadenza di primattrice e, sul palcoscenico, un disordine senza fine: «Qui non si vedano se non bordelletti e chiassi in sul palco: chi sta in ginochioni davanti la figlia, chi all’orechio della madre, e chi intartie-
ne il figlio e chi procura le riffe, delle quale se ne son fatte sin hora doi o tre; e quei gentilhomini che mettano alle riffe, si vergognano poi di pagare alla porta». C'era un doppio rischio economico: non riscuotere l'ingresso dovuto e dover fare i bagagli anzi tempo per avere lasciato disgustati i nobili fiorentini loro protettori. Inoltre, un tessitore di favole rappresentative non poteva acconsentire alle orditure private dell’amorosa che invece di curarsi dei suoi Fulvio o Aurelio, «instrut-
ta da la madre, tien giocato con i sguardi al cardinale»; gli effetti erano deplorevoli per la favola che correva il rischio di perdere l’unità delle sue parti, intendendosi per « parti» i ruoli, ipersonaggi, le maschere: «tutti questi compagni sono in una grandissima confusione, et io duro una gran fatica a ttenerli a freno. Tutti uniti insieme odiano a morte questo triumvirato, e per contrario tutti amano la Lavinia».
Povero Scala: «Io non fui mai travagliato tanto in tempo de vita mia, sì per mantenere in pace la compagnia, sì per cercare farmi amare da
questa nobiltà» *.
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Se un capocomico rsé non si doveva demoralizzare, sapendo che iveleni delteatro erano comunque linfa vitale, per parte sua un saggio e autorevole impresario non doveva concedere troppa autorità e credito neanche a un capocomico rusé. Al momento opportuno, per ristabilire la serietà delle funzioni del suo complesso, doveva intervenire direttamente, con la necessaria violenza, scavalcando il comico anziano e ricorrendo al maggiordomo Baroncelli con funzioni di ‘revisore’. Il linguaggio di don Giovanni fu brutale e spietato: Con la Celia, sua madre et fratello faccia Vostra Signoria offizi efficaci, bravatori e
con spavento, dicendoli ch'io so tutta la storia et tutto quel che hanno fatto e detto con tanto poco rispetto, ma che, per Dio, s’io ci ho a metter le mani gli farò vivere miserabili il tempo di vita loro, et in particulare a questo suo fratello, che gli farò tenere la lingua a sé o gliela trarrò fuora affatto. Et se non riconosce se non Dio, gli farò conoscere che ci sono anche degl’huomini che per tali gli doverà stimare rispetto a lui che è un furfante et un vituperoso. Vostra Signoria si faccia mostrare da Flavio la lettera che scrivo et parli in quel tenore, perché questi manigoldi, cioè la Celia, il fratello et la madre, sono arditi et prosontuosi in sommo grado, avvertendo che io non intendo in modo alcuno che si partino della compagnia, ma che vi stiano a lor dispetto, et stiano in cervello et ne’ debiti termini ®.
Reitiri Vostra Signoria l’offizio con la madraccia della Celia et, ancora che ella sia petulantissima et impertinente, mortifichila Vostra Signoria con le parole, perché se non s’humilia decentemente et reverentemente, per Dio, per Dio, che se io ho a metter le mani a’ fatti, ancorché donna, gli farò mortificare le rene, le spalle, perché a simile sua pari, che arrufianano pubblicamente le figlie, ci va la frusta et la scopa de directo, et forse, non mi bastando questo, gli farò segnare ilviso in croce, perché il diavolo si contenti dell’anima et lasci il corpo ai cani”°.
Dietro l’impresario appare finalmente il signore dispotico, l’uomo d’arme, il padrone assoluto dei suoi servi. Il condottiero un po’ impulsivo, un po’ iracondo, che aveva volentieri fatto ricorso all’impiccagione per riportare l’ordine fra le truppe mercenarie del Friuli”, che giudicava «merda» il popolo” e «puttane erranti (...) quelle che recitano in commedia» ”. Anche don Giovanni, come Scala, non era ‘un moralista. La vio-
lenza quasi sadica che adopera in questa, come in altre circostanze, si spiega probabilmente con la stessa ansia di ‘serietà’ che dettava i comportamenti del suo capocomico. Fustigare i costumi delle sue attrici, costringerle a una ipercorrezione efficiente, lontana dall'immagine di donne pubbliche, impegnate nel commercio del loro corpo e dei loro talenti, distinguerle insomma dalle cortigiane a cui per tanto tempo erano state accostate: erano tutti doveri indotti dalla linea di modernizzazione della professione comica che don Giovanni aveva deciso di intraprendere per meglio fronteggiare le invadenze esterne. I privati commerci di Celia o di un’altra attrice erano insomma disdicevoli
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perché aprivano il varco a intrusioni come quella del cardinale nipote o dei patrizi lucchesi. Quanto pit le esigenze del collettivo prevalgono sulle individualità, tanto pit gli attori devono farsi disciplinati e, almeno nella rappresentazione che danno di sé (dentro e fuori del teatro), puritani. E questo ‘puritanesimo’ su generis è, insieme ai principî di autogoverno, un altro elemento antagonistico (tuttavia non programmatico) della compagnia dei Confidenti nei confronti della società cortigiana. Una volta redenta Celia, anche le corrispondenze di Scala cambiano tono. Il palcoscenico viene sgombrato delle presenze inopportune, l’attrice diventa una brava compagna anzi un’amica, la compagnia un’accolita di virtuosi: Giovedì a ssera io invitai alla Fi/lt di Sciro, e nello invitare chiesi in gratia al popolo il palco libero, con tal dolcezza che molti, quali erano in sul palco, quando fui dentro mi abbracciorno e bacciorno, e non se vidde mentre se recitava persona sul palco. La Celia va pigliando bona piega, è tornata a domesticarsi meco pur assai; una di queste sere, sapendo ella ch'io cenavo con Mezzettino, la venne a ccena
con noi. In quanto alla giovane, sarebbe una coppa d’oro ”*. La nostra signora Celia giovedì a sera ebbe una gran mortificatione da una mana de gentilomini nel popolo, e perché il signor Leoncin de’ Neroli dubbitava di peggio (come quello che ne vive appassionato), mi trovò pregandomi ch’io fussi contento che la non recitasse più e se ne andasse in camera. Ma io lo levai giù di quell'umore, dicendoli che fornita la comedia io arei parlato al popolo, sì come io feci, et ebbi tanta buona fortuna, che io detti loro nel’umore in maniera che non solo il signor Leone, ma tutti quei signori mi abbracciorno e bacciorno; et la Celia conobbe io esserli vero amico”.
Amico sî, tanto da partire solo insieme a lei, per accompagnarla nel viaggio da Firenze a Mantova, ma non cosî delicato come vorrebbe apparire al nobile suo signore. Un altro testimone, Cosimo Baroncelli, lo aveva visto la sera dei tumulti, e aveva scritto: Hebbe la signora Celia una sera una gran fischiata dal popolo, e si credeva non havessi a poter più recitare, però alla fine della commedia l’istessa sera il signor Flavio parlò arditamente e, doppo molte cose dette in escusazione di lei e di tutta la conpagnia, disse queste parole: « Signori, ricordatevi che si porta rispetto al cane per amor del padrone» ”.
Il testimone aggiunge, a rincuorare il padrone, che «questi virtuosi» hanno lasciato « gran nome», sono «riusciti» e hanno «satisfatto universalmente». Forse il maggiordomo aveva avuto dei motivi più per abbellire che per denigrare le prestazioni dei suoi comici; sembra tuttavia che il viaggio dei Confidenti, nonostante quelle burrasche, proseguisse da allora felice, senza defezioni. Quanto a Celia, sarebbe sta-
ta la più zelante interprete della deontologia professionale voluta dal principe impresario. Alla fine della stagione comica 1618-19, lo stesso
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Scala doveva ammettere che l’attrice «la si porta molto bene e si mantiene amiche tutte le donne di compagnia» ”. I tumulti e il segreto processo intentato per procura da don Giovanni, non erano noti che a poche persone, nessuno aveva interesse a propagandarli, solo la solerzia dei moderni ricercatori li ha scoperti in carteggi privati. Cosf come ha scoperto il sorprendente seguito della storia. Nell'estate immediatamente seguente Celia ha allontanato definitivamente madre e fratello e viene segnalata a Milano completamente trasfigurata: «Hanno presa licenza da Palazzo gli itagliani comici, nominati della vergine Celia, che tra loro tale fin qui si va conservando». Con un training impeccabile l’abile attrice si è trasformata da «puttana» in «vergine». Nel nuovo abito di castità la celebreranno poeti e spettatori. È il trionfo della strategia puritana di don Giovanni, ma anche il tributo pagato al mito dell’eroismo sessuale che vedremo trionfare negli stessi anni nella drammaturgia di Virginia e Giovan Battista Andreini”.
4. Soldati delteatro erano questi attori che dovevano annichilire i legami familiari e umiliare le presunzioni da prima donna. A un più generale rapporto di analogia, e di reciproca mutuazione, tra organizzazione militare (terrestre e anche navale) e disciplina teatrale, tra la gerarchia e la divisione del lavoro marinaro e il sistema di relazioni attuato dai comici all’interno della loro vita nomade, si è accennato. Si
ricordi anche l'importante funzione di autoregolamentazione interna svolta dal « consiglio» di compagnia dei Confidenti: (...) in tempo tanto neccesario di rispondere alla lettera del’Eccellenza Vostra, io ho adunato la compagnia, et ho fatto ogni sforzo di prendere 7/ parere di tutti, si per mia insufficienza come per navigar sicuro”.
La formazione comica assomiglia all’equipaggio di una nave corsara dove il lavoro del capitano e dei subordinati si svolge più per via di collaborazione che di subordinazione. Se Flaminio Scala era il capitano e il «portinaro» era, sulla nave, quello che i francesi chiamavano l’écrivain (l'ufficiale incaricato di fare i verbali, gli inventari, l’amministrazione e la ripartizione del bottino), Nicolò Barbieri, Domenico Bruni, Marc'Antonio Romagnesi, erano di volta in volta il ‘secondo’ e i luogotenenti: ufficiali minori che si aggiungevano al capitano, nelle occasioni più delicate, per confermare la sua versione con ulteriori relazioni di viaggio; spesso, si è visto, dichiarazioni di principio erano firmate da tutta la ciurma comica.
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Don Giovanni era l’autorità suprema, elargitore delle lettere patenti che consentivano di circolare liberamente sui mari della ventura, senza correre il rischio di essere scambiati per pirati volgari. IConfidenti battevano infatti la bandiera medicea, come i Fedeli inalbera-
vano il vessillo dei Gonzaga, oppure, in occasioni eccezionali, i gigli di Francia, e cosî via. Le lettere patenti aprivano porti e teatri, schiudevano dogane, intimidivano i nemici e le bandiere nemiche. Per
questo gli equipaggi dovevano garantire al loro interno un funzionamento esemplare, una disciplina ineguagliata, in modo da incutere rispetto al mondo intero e meritare l'insegna di cui erano fregiati. Più che una squadra di marinai o pirati, un Ordine, come i Cavalieri di Santo Stefano che praticavano sf la guerra da corsa in tutto il Mediterraneo, predando navi veneziane, inglesi, turche e spagnole, ma osten-
tando tuttavia il titolo di eroi della fede. La celebre equazione istaurata da Nicolò Barbieri fra corsari e comici (cosî come tra pirati e buffoni)” non era quindi una metafora astratta e letteraria, ma l’interpretazione consuntiva di una lunga carriera svolta quasi tutta tra le fila dei Confidenti di don Giovanni. Disciplinati nell’amministrazione del bottino di guerra e nella libertà personale, i Cavalieri di Santo Stefano costituivano un esempio di autogoverno amministrativo e militare
pur dipendendo gerarchicamente dalla corona granducale “. E come il granduca, anche don Giovanni, pur essendo il Maestro supremo dei suoi comici, lasciava che essi si procurassero la sopravvivenza grazie alla loro «corsa» comica lungo tutta l’Italia. Non spese un ducato per loro, tanto è vero che quando si affaccerà l’ipotesi di uno scioglimento momentaneo della compagnia, l’idea di doverli sostentare uno per uno, sarà da lui giudicata impossibile. Fu sempre Flaminio Scala l’armatore della nave, colui che, a fronte di un utile personale garantito, si preoccupava di anticipare le spese (gli investimenti) assumendosi il rischio di prestiti ad attori, di viaggi di ricognizione e di altri oneri preventivi”. Inflessibile, come si conviene a ogni buon Maestro di un Ordine,
fu invece don Giovanni nel controllo degli arruolamenti e dei congedi. Non tollerava, in materia, intrusioni di sorta, e in caso di inadempienza mostrava particolare durezza. Alla notizia, riferita da Scala, che i Confidenti «ànno pigliato un Capitano» senza consultarlo ”, don Giovanni spedisce un plico «minacciatorio » talmente duro che «la compagnia si scusa con dire ch’il bisogno li ànno fatto far questo erore, e li ne chiedono tutti perdono. (...) Tutti icompagni mi sono attorno scrive Scala — pregandomi io preghi Vostra Eccellenza per loro». Tutti iprovvedimenti disciplinari erano comunque ricondotti
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all’autorità principesca, nonostante la presenza di « costituzioni della compagnia» alle quali i comici giuravano obbedienza ordinaria, fatta salva qualche «licenza» che essi ottenevano in casi eccezionali ”. La presenza di numerosi atti di sottomissione nell’epistolario di don Giovanni rivela, accanto al carattere burocratico e centralizzato della
sua disciplina, anche l’insicurezza del suo potere. Molte lettere dei comici (e anche alcune di Flaminio Scala) paiono redatte secondo formulari-tipo, contengono frasi d’occasione e dichiarazioni stereotipe di fedeltà, come se l’impresario-condottiero, da lontano, esigesse comunque certificati formali di obbedienza, da registrare come ‘ricevute’ nell’archivio dei ruoli della compagnia. Cosimo Baroncelli controllava Flaminio Scala che, a sua volta, controllava i Confidenti, i
quali a loro volta spedivano periodiche relazioni a don Giovanni. Se insorgevano conflitti interni, il signore e padrone esigeva e otteneva assicurazioni scritte di obbedienza. A tale scopo, in assenza dello Scala, veniva nominato, a turno, un «comico di settimana», modellato sull’ufficiale di settimana tipico delle strutture militari, che aveva il
compito di verbalizzare l'andamento del viaggio mediante dispacci periodici*. I casi più gravi, come quello di Celia, richiedevano la presenza di un ‘revisore’ fidato come Baroncelli. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio processo, con testimoni multipli, non senza qualche interessante accenno a un #rairing di tipo teatrale, con tanto di trasfigurazione in scena. Intanto il Baroncelli. istruisce il dibattimento avendo ai fianchi due « consiglieri» (oggi diremmo ‘delegati’) di Scala, che è assente. Poi si esige che la lettera contenente le imposizioni di don Giovanni venga letta da Celia «in corpo della compagnia (...) forte, acciò la sentissero ancora sua madre e suo fratello». L’attrice— riferisce il maggiordomo di don Giovanni — «la lesse forte come io gl’havevo inposto (...) non senza essere in-
pallidita esmorta da dovero ». Dopo aver dato la parola all’imputata, il Baroncelli fa conoscere una lista compilata da Scala e contenente « diciotto o venti disgusti che in varie occasioni e in diversi luoghi e tenpi ella haveva dato alla compagnia»; rappresentano l’accusa i due attori che in compagnia recitavano le parti dei vecchi, il Pantalone Marc’ Antonio Romagnesi e il Beltrame Nicolò Barbieri. Nasce un dibattito, si confessano colpe, altre si rivelano: « qui si scopersono fraloro, comesi dice, gl’altari». Celia «quasi cominciando a piangere» risponde: «Dunque io devo star senpre in questo inferno e sottoposta alle continove calumnie che falsamente ogni giorno mi daranno questi conpagni per concertarmi contro l’indignazione di Sua Eccellenza Illustrissima? » Tra paura e pietà, la catarsi si compie in virtù di una tran-
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sazione commerciale: « Lei si scusa con dire ch'è poveretta e che ha debito in conpagnia passa cento scudi e non ha il modo a pagarli, e però mi pregò di operare che i conpagni gli dessino licenza, caso che qualche gentil’homo di quelli che vanno a trattenersi da lei li domandasse anelli o altra cosa da riffare, per fare la riffa fuori delle stanze della conpagnia e della scena, di maniera che lei, senza contraffare al-
le costituzioni e alla promessa, potesse havere questa licenza se lei si porterà come conviene» ”.
Don Giovanni non era del resto solo il comandante di truppe regolari, aveva imparato molto presto a governare manipoli mercenari, particolarmente difficili da ordinare e dominare. Sappiamo che aveva trafficato in schiavi e gente da galera: «in questo tempo li Marsiliesi hanno cerco con gran veemenza e quasi con insolenza di rihavere certi forzati ladroni di Mare qui e di questa Riviera che furno presi in una tartana dal signor Don Giovanni Eccellentissimo » *. Ma si era anche servito spesso di compagnie militari ad uso privato (a differenza di quelle comiche queste potevano essere fortemente condizionate dai legami di sangue e parentela) per fare da scorta alla sua Livia: «(...) quando presentii che l’Eccellenza Vostra aveva volontà di servirsi di me, alestii cinque giovani de’ miei, quali tutti volontierissimi corrono qualsivoglia fortuna meco et, come son con loro, glifarò far qual parte vorrò in comedia, et questi saranno sempre pronti. Ma metto a Vostra Eccellenza in considerazione che il far fra di loro un capo et superiore potrà forse ingenerar ombra et, d’amici che sono, restar poi mal sodisfatti l’uno dell’altro. Anzi piuttosto, venendo questi o altri, Vostra Eccellenza dia loro un capo là, ché so quando lei li commanderà gli saranno obedienti. Et sappia che gli dico questo perché il paese è eguale, né alcuno si tien meno del compagno » ®. Il parallelo tra teatro e milizia qui si fa addirittura esplicito, alludendo al mansionario militare come a qualcosa di simile al concertato dei ruoli dell'Arte, e alla concorrenza fra gli attori come a un problema generalizzato valido per ogni attività di gruppo. E il capitano che qui scrive all’impresariocomandante è del tutto simile al capocomico Flaminio Scala”. I risultati della conduzione militare di don Giovanni garantirono una stabilità sostanziale alla compagnia per quasi dieci anni, caso raro per le formazioni professionistiche del tempo. Alle ragioni tecniche che abbiamo appena visto dovranno tuttavia aggiungersi quelle politiche e diplomatiche che, del resto, erano state operanti fin dalle origini della società artistica dei Confidenti quando era intervenuta l’intesa tra ilMedici e il Giustiniani. È tutta da studiare la fitta rete di solidarietà, occulte e palesi, che potevano essere stabilite grazie al prete-
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sto spettacolare (gli stessi circuiti teatrali, fra Venezia, Mantova, Firenze, Torino, nascevano - al pari di molti cicli festivi — da calcoli di cancelleria e da strategie dinastiche), ma intanto il carteggio che lega Flaminio Scala a don Giovanni, soprattutto nell’ultimo periodo di vi-
ta dei Confidenti, può essere indicativo di un metodo e di una ideologia che facevano della maschera comica lo strumento di altre trame e di più solidi canovacci. I comici Confidenti erano uno dei servizi più pregiati che il principe mediceo poteva rendere alla famiglia regnante in Firenze. L'ordine e la qualità di quel servizio erano un segno del potere. Gli attori dovevano essere disciplinati ed efficienti come le compagnie di soldati che, a suo tempo, erano state da lui guidate in varie parti d'Europa. Cosî obbediva Flaminio Scala: Intanto, io mi sforzerò di far quanto Vostra Eccellenza m’inpone intorno al tener la compagnia in pace per poter dare sodisfatione a queste Altezze serenissime, sapendo che questo è il scopo de Vostra Eccellenza; et io, che altro non desidero che compiacerla, so quello che debbo fare”. (...) mai me ricordo esservi stata amata compagnia quanto questa. Il signor cardinale me disse con grande instanza se la compagnia fusse tornata questo altro anno; io risposi che sapendo quanto Vostra Eccellenza desideri servir Sua Signoria illustrissima, a un minimo suo cenno ne arebbe fatto volare nelle Indie, nonché a Firenze. Mostrò di queste parole aver grandissimo gusto ”.
Anche una dedica costituiva un gesto diplomatico, e anche in questo Flaminio Scala obbediva senza obiezioni: «L’haver io mutato pensiero per la dedicatoria della comedia, se in alcuna parte è comforme il pensiero de Sua Eccellenza, tanto più m'è di gusto quanto più mi affligeva il pensiero che non avessi incontrato il gusto di lei» ”. Altrettanto esemplari dovevano essere i rapporti con tutte le famiglie e casate illustri: oltre ai più volte rammentati Gonzaga e ai Giustiniani di Venezia”, quelli con il doge Priuli a cui don Giovanni chiese personalmente la licenza per i suoi comici”, i potenti Balbi di Genova *, Alfonso d’Este”, il duca di Feria a Milano”, i cardinali Pio, Bevilacqua e Serra di Ferrara, il cardinale Farnese di Modena”, il cardinale Capponi legato del papa a Bologna", il vescovo Alfonso Pozzo al servizio dei Farnese di Parma". Rapporti anche delicati che don Giovanni esigeva di governare in prima persona, allorquando si trattava di prenotare un teatro, di chiedere una licenza. In caso contrario, poteva prodursi un incidente diplomatico, come avvertiva il solerte Baroncelli: «Si duole bene esso signore [Pantaleo Balbi] che, mentre Vostra Eccellenza l’ha onorato di comandarli a proccurar loro questa licenzia, Beltramo e Mezzettino habbino scritto a altri che gliela procurino, quasi che l’autorità di Vostra Eccellenza non fusse bastante, o sf
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vero che essi habbino voluto concorrere nella multiplicità de’ preghi;
e havendo scritto a’ Grimaldi, poco amici secondo me de’ Balbi, è di-
spiaciuto al signor Pantaleo il loro modo di fare»; immediatamente allora gli attori «si scusano et negano assolutamente di aver scritto lettere per la stanza di Genova (...) sapendo essi molto bene che, dove s’interpone l'autorità di Vostra Eccellenza, non hanno luogo i loro uffici»,
Viaggiando con facilità da un porto a una dogana, da una corte a uno stanzone, frequentando ipotenti segretari preposti alle concessioni e alle licenze, trattando di movimenti di uomini e cose, il buon Flaminio Scala si trovava a essere, come spesso capita nella vita teatrale, un uomo bene informato. Si preoccupava di inviare occhialetti al principe, scampoli di stoffa alla consorte di lui, partite di pesce, di frutta, di finocchi, salumi e chicche di varia natura. Ma aveva anche da curare particolari di etichetta farciti di sottili risvolti politici: «il signor Ercole Marliani, secretario di Camera molto mio comfidente amico e padrone, ragionando sopra la venuta de Vostra Eccellenza, mi disse s’io credevo s’ella avesse auto caro un bucintoro. Io li risposi creder de sì, ma mi accorsi che questo sospetto del sì e ’l no sia per amor del Senato; e seguì dicendomi se Sua Eccellenza vorrà favorire il duca con la sua venuta, spedirà subbito un coriero. Aviso questo a Vostra Eccellenza perché la sappi come aversi, in questo particulare, a governare con il residente qual li porterà la lettera. Qui io so che Vostra Eccellenza sarà tanto ben visto quanto s’ella fusse in Firenze» ‘°. Inoltre Flaminio Scala non disdegnava, certo perché richiesto, di redigere pagine di cronaca nera o poliziesca: So che il signor Cosimo scriverà la morte del Caldarino, quale è stato amazzato dal socero perché andava dicendo che la moglie non era gravida di lui, et io ò parlato con uno amico quale mi à detto che il Calderino andò a trovare il confessore della moglie, dal quale voleva sapere s’ella li faceva torto, et mille altre inpertinenze”.
Qui si fanno infinite costione e la settimana passata la gente dell’ambasciatore del duca di Mantova con alcuni milanesi si diedero malamente, e ne furno feriti sette et uno andò (...). È stato amazzato il signor don Alvaro de Luna, parente del si-
gnor don Pietro et di questo governatore, a Pavia. Ciò è di questa maniera: dicano che il duca di Feria molti giorni sono li disse che lui dovesse andare a Vigevene suo quartiero, dicendoli che ciò Sua Eccellenza faceva per maggior sicurezza della sua persona, e che lui vi andò malvolontiera. Dopo andatovi, da Ilì a pochi giorni (e questo fu domenica che lui fu morto) li fu mandata una lettera, et che lui subbito prese le poste solo et venne a Pavia, e volse smontare fuora, e contrastò con il postiglione qual lo voleva smontare alla posta per consignarlo, ma lui non volse. La matina fu trovato dentro di Pavia morto con doi stillettate nella testa et doi archibusciate; et li ànno tagliato il membro e posteglielo in bocca. Il duca è in gran-
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Capitolo quarto dissima smania e la matina della nova non volse desinare. La cosa è stata tanto be-
ne hordinata e secreta che non se ne puol cavare inditio nisuno !”.
È solo un limitato campione delle corrispondenze quasi giornalistiche di Flaminio Scala. Altri dispacci, quasi mimetizzati all’interno di comunicazioni di servizio, toccano argomenti più esplicitamente po-
litici. Le indiscrezioni sono militari e riguardano il mestiere palese di don Giovanni, comandante di artiglieria: Qui si vede per tutti questi contorni gran soldatesca et si dice che si dia hordine a far provisione delli cavalli per l’artellaria. Alcuni di casa del marchese di Belmare ch’era costì ambasciatore m’ànno domandato de Vostra Eccellenza illustrissima s’ella stava bene; io sarei andato a farli riverenza in suo nome, ma non sapeva far bene o male. Qui è continua pioggia, e se dice che il re di Spagna passa in Portogallo per incoronare il figlio di quel regno; dicano anco che si vada preparando gran guerra, et questo popolo tien per sicuro che il marchese de Bellamar abbi da essere governatore di Milano. Qui non c’è niente, dico niente di novo. Viddi una lettera de Madril delli quattro dil pasato, nella quale si scriveva la partita del re il dì cinque per Lisbona, et che partito il re si faceva morire quel Caldarone, e che non si trattava punto di guerra e che le cose della Francia fussero accomodate tra la regina e ’1 re. Qui è il Ceppio [Chieppio] già son da otto giorni a negotiare con il signor duca di Feria, dicano per le cose di Casale, e se dice anco che il duca di Savoia facci gran preparamenti et abbi levato alcuni canoni del castello de Turino, et inviatoli verso il Monferato. Dio aiuti quelli ch’àènno poco cervello e che si fanno malvoler da tutto il mondo”,
E si capisce quanto potessero, in un secolo non libero, due immunità reciprocamente solidali come il teatro e la nobiltà. L’esercizio della dissimulazione, della menzogna giocosa e non, era il naturale linguaggio comune al principe e ai suoi Confidenti, questa volta forse con l’iniziale minuscola. Con il passare degli anni, Flaminio Scala, sempre meno comico e sempre più confidente, aveva affinato le capacità di buon servitore. La finzione e la maschera avevano però bisogno di una regia sottile, come quella che dettava don Giovanni al Baroncelli in margine a una lettera non firmata; ‘note di regia’ che avrebbero potuto figurare in calce a molte delle lettere cifrate che giacciono misteriose nel fondo dell’epistolario del principe: Vostra Signoria conosce la mano ma avverta che altri ancora la può riconoscere, però la più sicura è far capitale, dirne qualche motto a tempo, ma non si lasciare intendere; perché non si sa in quant’acqua si peschi, e le persone mi paiono assai latine e da non tener cocomeri per la piana nonché all’erta; però la vera è tener la bocca chiusa e l’occhio aperto, acciò non ne sia qualcun diserto; ma non però con
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tanto silenzio che a tempo e col ghignetto, senza dar l’autore, non si possa qualcosa. Dice Orazio: Ridentem dicere verum'.
Non è infrequente che, in quel carteggio, si parli di corrieri svaligiati, sigilli protettivi infrangibili o infranti: Prego Vostra Eccellenza a dire alla illustrissima mia padrona che mi favorisca far porre lasua lettera, quando me ne favorisce, nel plico di Vostra Eccellenza, perché qui si va a ccaccia a lettere al’uso comico, ma non se scherza con il suggillo de Vostra Eccellenza, perché questi Signori della posta mi favoriscano subbito de ricapitarmele®,
Il blasone di don Giovanni era comunque garanzia di immunità e di impunità. Sotto la sua bandiera cercarono protezione, insieme ai comici, anche gli ebrei; i governi assecondarono le sue ambiguità per sfruttarle a loro vantaggio. Adeguandosi al vizio come fosse una necessità, don Giovanni cercò di adoperare gli altri più di quanto non fosse adoperato, e trascorse la sua vita di viaggio e di corrispondenze senza mai sapere se il suo ruolo fosse quello del raggirato o del raggiratore. Le sue oscillazioni tra Spagna e Impero lo avevano raccomandato, all’epoca del soggiorno parigino iniziato nel 1605, tanto alle attenzioni di Enrico IV quanto alle richieste di informazione cifrate del fratello granduca”. A Venezia, nonostante la sostanziale fedeltà alla Repubblica, pur nella fase del definitivo distacco dal granducato, che lo vide rifiutare l’opera di mediazione tra Venezia e Asburgo richiestagli direttamente da Cosimo II, aggiungeva però di essere disposto a«conoscere e ritrarre i (...) pensieri» dei senatori veneziani e a «far-
ne avvisato» sia il granduca che «i suoi ministri», ben consapevole che «se una sola lettera di queste mie andasse in sinistro, harei bella et giocatomi la servitù et ogni speranza, ma per obedire a Vostra Altezza Serenissima farò sempre quanto sarà in me».
5. All’ombra di sottintesi e segreti maneggi abbiamo visto che era cresciuto e si era sviluppato anche l’allestimento della spedizione francese che, iniziata nel dicembre 1618, abbiamo lasciato in sospeso nell’autunno del 1619. Il duca di Mantova sperava di poter sottrarre a don Giovanni i migliori attori (Scapino, Lavinia, Ortensio) per aggregarli a quelli da lui stipendiati (i Fedeli) e inviarli in Francia sotto la propria bandiera; don Giovanni da una parte acconsentiva per non inimicarsi il potente parente, dall’altra non concedeva la libertà ai suoi prediletti sperando di poter essere lui, in prima persona, lo sporsor dell’impresa servendosi della solita squadra dei Confidenti «un
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poco aiutata» da elementi noti quali Frittellino e Arlecchino". Tra l'ottobre del ’19 e la primavera del ’20, don Giovanni, cambierà atteggiamento e da ambiguo diverrà chiaro. Denuncerà infatti la trama di accordi, ricatti e ambiguità che si era stesa, con il suo consenso, attor-
no alla compagnia dei Confidenti e, con un gesto coraggioso, porrà fine alle connivenze cortigiane con il duca di Mantova per ritirarsi nell'autonomia della sua accademia comica. A seconda di comella si guarda, la fase più ambigua della trattativa appare come una sequenza di dispute tra attori in caccia di denaro o come una schermaglia diplomatica. Scala ce ne dà una cronaca dal vivo, mettendo in primo piano lo scalpitante Scapino, da tempo prenotato per la Francia: Tutti si sono mostrati desiderosi far questo viaggio, ma questa matina, letto la lettera di Vostra Eccellenza illustrissima, Scapino à detto: «Io voglio esser libero di me questo anno che viene ». Subbito Pantalone à risposto: «Non occorre dir questo, perché si sa». Io ò secondato e lui subito mi à detto: «Che volete che io facci in Francia per questo carnevale?» !2.
L’attore non manca di far trapelare indiscrezioni sulla conzection dinastica che guida le manovre: Hora Vostra Eccellenza illustrissima saperà che è venuto qui da Firenze il signor conte Prospero Bentivogli, et seco un tal de’ Pii giovane che fu figliolo de un signor Gianpavolo Pii, qual mi pare che avesse per moglie una de’ Bertinoli (?), che fu dama della duchessa Bianca. Hor questo tale porta lettere di Francia, dicano del re, per menar in Francia una compagnia (...). Dice aver costui portato anco lettere al granduca a questo effetto et che Sua Altezza abbi sopra di ciò scritto al signor duca di Mantova, al quale anco pare a me che abbi portato altre lettere, e ne sta aspettando risposta”.
A detta dello Scala, che probabilmente accentua le difficoltà per convincere il padrone a intraprendere la strada di Francia, «la compagnia stravagantemente sta male» !“ e lo ha costretto a obbedire agli ordini del duca di Mantova che lo ha convocato a Casale: S’io vado volentiera, Dio lo sa: sin hora ho speso et spendo del mio, mi vien proposto gran cose, ma Dio sa quello sarrà. (...) io mi contento spender del mio, patire in questo viaggio per far conoscere a’ miei compagni quanto ch’io desidero il ben loro, et loro utile et honore, se bene non è conosiuto cosa nisuna ch'io facci. Prego Vostra Eccellenza illustrissima a favorirli et protergerli, et io giuro a Vostra Eccellenza che per mio interesso non desidero altro che di tornare a casa mia con la vita et con lo aver fatto alcuna cosa di lor gusto et loro utile, perché Vostra Eccellenza illustrissima mi creda, e lo pol credere dalle mie attioni, ch’io altro non desidero ch’il ben loro. (...) e prego Dio che io mi ci conduca a salvamento, per-
ai per la mia età, sì per la staggione et lungo viaggio, ne ò grandissimo dub10
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Piccola diplomazia, accompagnata dalle «grandissime speranze» dei compagni e da proclami formali di obbedienza a don Giovanni ', come è inevitabile trattandosi di piccoli e deboli attori. La questione, da un punto di vista tecnico-professionale, è quella di sempre: la compagnia contro il potere cortigiano. Da un punto di vista, per cosi dire più alto, quello dei maneggi d’importanza, il problema riguardava la bandiera che avrebbe sventolato sulla ‘nave comica”. La rete della diplomazia segreta faceva sentire a don Giovanni gli impacci della sua condizione di cavaliere dimezzato, non del tutto liberato dalle corvées medicee. Un riassunto dell’intera vicenda, fatto con retrospettiva freddezza da Ercole Marliani, all’indomani del riti-
ro di don Giovanni dalla trattativa, svela la presenza di interessi medicei, probabilmente non estranei alle vicende di Francia, dove si stava realizzando il riavvicinamento della regina Maria al figlio Luigi XIII, non senza l’importante mediazione degli ambienti ‘fiorentini’ ed ecclesiastici della corte parigina. Il duca di Mantova ricorda attraverso il suo segretario il rispetto della gerarchia, dovuto tanto dai comici servitori quanto dai padroni che, risalendo l’ordine delle cose, erano (sotto di lui) il signor don Giovanni e (sopra di lui) il granduca e il re
di Francia. Gli attori Confidenti avevano commesso scorrettezza per «essersi obligati al lume dell’oro» e non avere poi mantenuto la promessa; ma il principe mediceo non aveva saputo comandarli, dato che non era pensabile che «i Confidenti havessero havuto spirito di renitenza nel formar sì nuovo corpo di compagni et andare a servire Sua Maestà se Vostra Eccellenza — scrive il Marliani — l’havesse incaricato loro». Di conseguenza esisteva un’inadempienza del duca e del granduca nei confronti del re di Francia: essendo stata Sua Altezza [ il re di Francia] in concerto col Serenissimo granduca [di Toscana] di fare questa compagnia (...), Vostra Eccellenza [don Giovanni] ri-
spondendo al granduca lo fece padrone di pigliare quelli che fossero stati di maggiore sua sodisfattione et questa autorità fu ceduta dall’ Altezza Sua [di Toscana] al signor duca [di Mantova] mio Signore. (...) [Il duca di Mantova] stando questa renitenza, si dichiara di voler scrivere al re et iscaricarsi se non vedrà la compagnia formata di quei personaggi che già gli mandò in nota, et parimente farlo col granduca, perché non si sia adempiuto quanto egli haveva autorità di fare !”.
Segue quindi la minaccia di una punizione esemplare fatta sospendere sul capo dei comici, e in parte anche del loro padrone: non so quale espediente sia per trovare sopra di ciò l’Altezza Sua, la quale però si dà ad intendere che in qualsivoglia risolutione si verrà, nor sia Vostra Eccellenza per haverlo a male, essendo ella così bene impegnata di parola col granduca, come egli col re; anzi, che dovrà haver per bene che conoschino che cosa è mancare a’ padroni.
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Queste parole erano la risposta alla lettera con cui don Giovanni poneva fine alla trattativa dopo un lungo tergiversare. Una lettera che ritarderà ancora la partenza degli italiani per la Francia, riproponendo la concorrenza tra Andreini, Cecchini e Martinelli. Ritroveremo questi attori più avanti, nel corso di questo libro, senza Scala e don Gio-
vanni, impegnati fino all’ottobre del 1620 nella lotta per la conquista di un posto di rilievo alla corte parigina. La lettera di don Giovanni, quasi il testamento di un impresario sui generis, guardava più avanti e pit in alto. Riconosceva l'assoluta dignità della professione comica e il suo diritto a esistere, anche al di fuori del sistema delle tutele aristocratiche, come esercizio di libertà e
autonomia. La lettera fu scritta dal rifugio dell’isola di Murano il 21 marzo 1620, con uno stile elevato, pacato, degno di pit alti negozi, sfiorando qua e là principî universali di filosofia morale: «Insomma, signor Marliani, il dominio delle volontà non è cosa terrena, né da lontano si possono rimediare gli inconvenienti » ‘*. E non sappiamo se notare più la sorridente parodia del filosofare, l'autentica serietà dell’intellettuale dilettante o il divertito buon senso del diplomatico che, avendo molto vissuto, invita il segretario mantovano a una misurata
pazienza. L'atteggiamento di don Giovanni, contrassegnato da dignità e fermezza degne di un principe regnante, suona di lezione nei confronti dello stesso duca di Mantova: «Però creda Vostra Signoria ch’io stimo che sia servitio di Sua Altezza che di questo negozio non se ne tratti, perché non è proporzionato alla sua grandezza». Non senza qualche allusione insolente: «Se adunque lo Scala non viene, Vostra Signoria scusi me et non lui, perché egli, come buona persona, veniva a toccare una nasata, et io, che hoggi mai ho la barba più bianca che nera, ho stimato che sia meglio così et rimetter tutto nella prudenza di Vostra Signoria, che saprà con la conveniente circuspezzione et riverenza ritenere alquanto con dolcezza certi impeti vivaci soliti a regnare nelle menti de’ gran principi, che dai buoni servitori devon esser desiderati quieti e conforme all’honesto». ’ AI di là dei filosofemi tardorinascimentali don Giovanni ha tuttavia deciso di abbandonare il linguaggio cifrato, e si esprime più scopertamente del solito, essendo «necessario parlar chiaro et senza maschera, se ben si tratti de comedianti, perché non siamo in commedia». Intanto è convinto che la difesa dell’unità dei Confidenti contro qualunque tentativo di smembramento è giustificata più da ragioni materiali ed economiche che dall’ideologia. Gli attori sono per lui uomini meccanici che badano solo all'interesse: «vedevo quasi tutti alborottati et con molte difficultà nel mantenersi uniti, come è solito
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de’ commedianti, et io gli lasciavo (come si dice) cuocer nel lor grasso; ma è venuta la quaresima che le minestre son più magre, quando l’uno e quando l’altro cominciorno a venirmi a rompere gli orechi, ma tutti a una non domandavano se non ‘Unione, unione!’ (...) perché
vedevono la loro manifesta rovina mentre si disunissero, et dovendo
rovinare col dividersi, più tosto harebbono eletto di fare ogni vil mestiero che più recitare; e tutto hanno fondato, secondo me, sul vedere il
buon guadagno che hanno fatto quest'anno». Si tratta di leggi ferree a cui non è dato sottrarsi. Una volta disuniti e passati i migliori in altre formazioni, anche se per un periodo limitato, i rimanenti avrebbero avuto problemi di sopravvivenza. Don Giovanni non avrebbe potuto sostenere la spesa per il mantenimento degli attori rimasti, in attesa del ritorno degli emigrati: come povero cavaliero di spada et cappa non ho il modo a dare a ciascun di loro 500 scudi per ciascuno, ilvitto e ’lvestire per loro e le loro famiglie per tutto l’anno, come ognuno di loro quest'anno s’è guadagnato, che prima che scriverlo, creda pur Vostra Signoria che l’ho voluto molto ben vedere e toccar con mano.
A differenza dei comici ducali, che evidentemente potevano contare sullo stipendio connesso con qualche mansione cortigiana, durante il periodo di inattività teatrale (residuo della natura dilettantesca delle
loro professioni), gli attori dei Confidenti non godevano di un’analoga previdenza. Da questo passo, come dall’assenza, lungo tutto il carteggio di don Giovanni, di riferimenti a prestiti o anticipi da parte del loro protettore, risulterebbe una completa autosufficienza economica della compagnia. Don Giovanni è tuttavia abile a trasformare, dall’alto della retori-
ca, quello stato di necessità in statuto simbolico di una professione esemplare: Troppo dolce suona negli orecchi il nome della libertà , et etiam gli animali vivuti qualche poco insieme non si sanno dividere quando si viene all’atto et al fatto. Sono, signor mio, notissimi et conosciuti i Lelii, le Florinde, le Flamminie, i Frittolli-
ni et gli Arlichini, tutti huomini desiderosissimi et ambiziosi di dominio et d’impero, talché questi poveri huomini usi a una fratellanza fra di loro, mai si ridurrebon con essi in una servità pacifica et quieta, et questi altri mai si divezzerebono dal voler dominare et comandare, perché si san troppo usi, et hanno rotte troppe scarpe in quel mestiero, et io gli ho per scusati, perché ancor io più volentieri ho comandato che ubbidito, et questo è desiderio innato in ciascun huomo, et però ardisco di dire immutabile, anzi che cresce con gli anni.
«Libertà» e «fratellanza» sono contrapposte ad «ambizione», « dominio», «impero » e «serviti». Parole grandi che rivelano la volontà di don Giovanni di far risuonare quei modesti eventi di più profondi
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significati. E a sé, il principe senza regno, attribuisce il compito di garante del patto sociale e civile. Avrebbe compiuto un atto di ingiustizia, irrispettoso dell'autonomia della corporazione comica, se si fosse arrogato il diritto di selezionare gli attori che dovevano partire e quelli che dovevano restare: Et per vita sua la prego a dirmi come potevo io dire: «Tu hai da andare, tu hai da restare. Tu che se’ primo diventar secondo », et fra buorzini dove è libertà et compagnia persuadere per accettabile la superiorità et la suggezzione? Che carità christiana harei hauta verso questi poveri huomini et loro famiglie? Che atto di cortesia o di gratitudine harei io dimostrato a costoro che per sette anni continui mi hanno obbedito al cenno, se io gli havessi rovinati et sprofondati come loro tengano d’essere quando saranno disuniti?
E alla fine, prendendo personalmente in mano la penna che il copista aveva tenuto fino a quel momento, esprime un voto che si colora di utopia". I suoi comici non sono sudditi né stipendiati. Sono liberi e non obbediranno mai alla costrizione del sovrano: (...) lassare godere a questi poveri Confidenti quella libertà che pare che conceda Iddio benedetto a tutti quelli che non nascano sudditi; ché certo sarà di somma lode il non violentare le volontà, ché, per dirla alla libera, non si uniranno mai di buon core con cotesti comici di costà, et il farglielo fare per tema non mi pare (et sia detto reverentemente) cosa da chi ha con simil gente tanta sproporzione, oltre che niuna cosa fatta per forza ha mai il fine che si presuppone.
Accanto alle ragioni economiche don Giovanni ha cosî introdotto principî più generali in difesa dei comici: il richiamo al consenso contro la subordinazione per forza rimanda alla pratica, a lungo esperita, del « consiglio » di compagnia. Il tentativo di ritagliare a se stesso e ai suoi attori un margine relativo di autonomia non è sostenuto da una visione politica o da un programma ideologico, ma solamente dalla volontà e dalla capacità di rifiutare ogni forma di sottomissione individuale all’interno di un sistema di cui sono tuttavia pienamente accettate le idee e l’organizzazione politica e sociale: Pif che un vero e proprio antagonismo sociale o politico le parole di don Giovanni riecheggiano alla lontana, e con prudenza, certe forme del banditismo secentesco, che non ebbe mai la pretesa di rovesciare l’ordine, né di contestare l'oppressione del ricco sul povero, del potente sul debole, ma solo di ricondurre il divario entro limiti ragionevoli. Un banditismo che mirava non a contrapporre ma a rendere compatibili organizzazioni sociali diverse”. E tali erano infatti le strutture gerarchiche cortigiane e le prestazioni d’opera professionali. Grazie a don Giovanni e al suo potere, la professione libera riusci a salvaguardare la sua autonomia. Per la prima volta il teatro degli
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istrioni vide tutelato il rispetto dei valori artistici in un mondo che adoperava il teatro professionale come strumento di governo, regalia o pressione diplomatica. Le ultime parole di don Giovanni sono un riconoscimento di questa autonomia: La compagnia de’ Confidenti invero (se ben cotesti et altri la disprezzano) ha gran fama, et per tutto hoggi è stimata più d’ogn’altra, onde il romperla sarrebbe proprio (come si suol dire) quasi peccato.
Parole d’amore che avrebbe potuto dedicare al figlio o a Livia. Come il figlio e la moglie da poco legittimati, la compagnia dei «poveri Confidenti» era l’incarnazione del suo esistere. Accettare che questa venisse smembrata per ubbidire alle convergenti volontà dei Medici, dei Gonzaga e di Richelieu, avrebbe significato ammettere che lui, il principe impresario, non esisteva, non era mai esistito. Proprio allora
che a Murano, nel suo estremo ridotto, sentiva le forze venire ogni giorno meno, attaccato da un male oscuro alla gola, che lo avrebbe presto ucciso, mentre un negozio d’importanza da lui proposto veniva rigettato dall’invidia dei cortigiani fiorentini *. La trama dei Medici che dall’estate del 1619 avevano cominciato a istruire un processo
| per far riconoscere la validità del primo matrimonio di Livia (e quindi la nullità di quello con don Giovanni) era cosa ben più grave di quella ordita ai danni dei Confidenti. L’una cosa però richiamava l’altra. Il soprassalto d’orgoglio era dettato dall’istinto di conservazione. In prossimità della morte, che sarebbe sopraggiunta l’anno seguente, durante l’estate, era bene tenere in vista la bandiera per cui si era battuto. Anche se tutto lasciava pensare che le cose sarebbero andate diversamente. Già solo qualche mese dopo il gran rifiuto opposto ai mecenati cortigiani, don Giovanni doveva registrare il primo segnale della controffensiva nemica. Giungeva da Mantova. Egli aveva chiesto per il comico ebreo Simone Basilea una « patente » che lo esentasse dal portare sugli abiti il distintivo giallo della sua razza. Il duca rispondeva freddamente: «Si è andata ogn’hora più restringendo agl’hebrei per degni rispetti la facoltà di andare senza il consueto segno, onde adesso ciò non si permette né meno a quei ch’effettivamente mi servono» ”. Don Giovanni sarebbe morto il 19 luglio 1621. Già nel giugno del 1622, venne emanata la sentenza che, decretando nullo il matrimonio
con la Vernazza e spurio il figlio Francesco Maria, nominava erede di tutti i suoi beni don Lorenzo dei Medici. Livia e il bambino furono
trasferiti a Firenze, in una condizione di semilibertà '’. Quanto ai comici si sa che, a Milano, un mese dopo la morte di don Giovanni, ave-
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vano ricevuto la tempestiva offerta di protezione del duca di Mantova, el’avevano rifiutata per «far conossere al mondo che lo essere stati protetti da l’eccellentissimo signor don Giovanni ci ha insegnato come riverire ancora le sue ossa, per rispetto delle quali piacendo a Dio, e questo et altri anni ci conserveremo uniti» ”*.
6. Parole nobili quelle dei Confidenti, ma forse avventate. Nel giro di alcuni mesi, a poco a poco, quasi tutte le grandi individualità della compagnia (soprattutto i due zanni Mezzettino e Scapino, ma anche Ortensio e Lavinia, e Domenico Bruni, Nicolò Barbieri, Mar-
c’Antonio Romagnesi, e la stessa Celia) ” finirono per disperdersi secondo itinerari divergenti. Molti, in tempi successivi, andarono a finire nella compagnia più importante, i Fedeli di Giovan Battista Andreini, che per tanto tempo li aveva corteggiati. In questo modo le grandi «parti» dissiparono non senza gloria e prestigio personali (penso soprattutto a Scapino, la figura di maggior rilievo degli anni Venti e Trenta) un’esperienza irripetibile, cercando invano di ritrovare l’asilo perduto, la societas ideale che l’energia isolata e geniale di don Giovanni aveva costituito: la formazione tutelata dalla disciplina del duca di Mantova, e diretta da un capocomico autorevole come l’Andreini, poteva apparire il ricambio più rassicurante. Intanto Flaminio Scala era tornato a fare il profumiere nella sua bottega di Venezia. In questo modo il modello organizzativo e disciplinare creato dal Medici non ebbe seguito e morf con lui. L’unica traccia durevole che esso lasciò va cercata altrove. Forse nell’opera di Nicolò Barbieri che seppe raccogliere e valorizzare la lezione straordinaria assorbita nella lunga convivenza con i Confidenti, trasmettendone testimonianze dirette e indirette nella 5472724 teorica della Supplica (1634) o nella trascrizione drammaturgica della commedia L’inavertito (1629), dove dette forma letteraria ai principî di equilibrio collettivo che erano stati la pratica costante del gruppo. Sono noti i caratteri consuntivi e commemorativi (rispetto all'esperienza dei Confidenti) della drammaturgia del Barbieri"; qui basta sottolineare che l’ordine ideale, quasi immobile, con cui l’attore trascrisse a memoria le «parti» che furono a suo tempo recitate dai suoi colleghi in carne e ossa, in una specie di rappresentazione ideale, lascia trasparire quello che dovette essere il progetto della compagnia. Equilibrata miscelazione delle «parti» secondo coppie contrarie e opposte (innamorati vincenti e perdenti; personaggi furbi e inavvertiti; patetici e umoristici), leggerezza del collante narrativo, simmetria dei segnali scenotecnici. In-
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somma la trascrizione testuale dell’opera di armonizzazione collettiva a cui lo Scala e il Medici avevano costretto a fatica solisti come Celia,
Lavinia e Scapino. Un riflesso meno certo, ma non del tutto improbabile, del gusto di don Giovanni dei Medici per una drammaturgia equilibrata, domina-
ta da una sceneggiatura ferrea e da preoccupazioni linguistiche, letterarie e addirittura ortografiche che sfiorano l’eccesso di zelo, si trova anche nella Flarzinia schiava di Pier Maria Cecchini che sappiamo era stata dedicata al potente principe fiorentino nella speranza, poi rivelatasi vana, di una assunzione in servizio ”: l’opera a lui offerta doveva essere lo specchio delle sue concezioni drammaturgiche (accademiche e disciplinate) che probabilmente il Cecchini aveva conosciuto durante il periodo di residenza francese. I riflessi testuali della rigida normativa di don Giovanni sono addirittura evidenti nella commedia di Flaminio Scala, I/finto marito, che il Medici fece dare alle stampe a
Venezia, presso l’editore Baba, nel 1618. Sappiamo che lo Scala era allora a Firenze, che era naturalmente entusiasta dell'edizione, anche
perché sperava di «fare un poco di entratura» a corte, dove aveva da vincere la concorrenza di letterati e dilettanti famosi come Jacopo Cicognini che, maestro di recitazione di un gruppo di giovani che di lf a poco avrebbe dato vita all'Accademia degli Incostanti, si dilettava a fare «professione di suggetti» . Ma è probabile che tutta la confezione editoriale fosse stata subita dal comico e supervisionata da don Giovanni che scelse l'editore, il destinatario della dedica (il cardinale
Carlo, suo nipote e figlio del granduca Ferdinando I, a quell’epoca impegnato a trattare segretamente il rientro a Firenze di don Giovannie Livia, e la loro conciliazione con la famiglia medicea), forse com-
pose personalmente la poesia encomiastica premessa alla commedia, e probabilmente commissionò la redazione di un Prologo per recitare che venne aggiunto al Prologo per leggere’. Mentre il primo difende le ragioni dei comici contro quelle dei letterati, il secondo è una pleonastica enunciazione della liceità morale del teatro comico, quasi esposta per tranquillizzare i destinatari illustri della letterata Firenze. Tutto il testo è poi una palinodia della libertà creativa che Scala aveva manifestato con I/ teatro delle favole rappresentative edito nel 1611. Rispetto al canovaccio, di cui costituisce lo svolgimento disteso, la commedia si rivela inerte nella tessitura, ma conforme ai canoni della re-
golarità letteraria. Va tenuto presente che, al di là della particolare congiuntura che doveva accentuare le preoccupazioni regolarizzatrici di don Giovanni e Flaminio Scala, opere come questa, per esplicita confessione degli attori che ne firmarono le edizioni, erano destinate
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a una diffusione prevalentemente cortigiana: un pubblico di spettatori-lettori (una minoranza di alfabetizzati in una platea di analfabeti),
dilettanti del teatro, ricchi acquirenti, ma anche possibili divulgatori e ‘ripetitori’ di quegli spettacoli in un bricolage teatrale domestico e cortigiano”. A quel pubblico pensava don Giovanni quando concedeva l’imprimatur allo Scala, con la stessa presumibile severità con cui aveva represso le liti delle dive, le insubordinazioni del «portinaro» Battistino, le ambizioni individuali di chiunque. Anche il repertorio consueto della compagnia era stato censurato e adattato alle circostanze e, nell’intento di venire incontro alle attese dei committenti, lo
Scala aveva provveduto a far recitare un classico ‘alto’ come l’Arzinta del Tasso”. In questo modo l’attività impresariale di don Giovanni, che sul piano organizzativo segnò un decisivo passo avanti sulla strada (anche se utopica) dell’emancipazione professionale dei comici, sul versante drammaturgico si tradusse forse in un puro e semplice adeguamento del teatro dell'Arte alle esigenze convenzionali del pubblico di corte. Era uno dei risultati possibili di una mercatura teatrale paralizzata dai compromessi con la committenza cortigiana. Un risultato analogo, reso diverso solo dalla qualità letteraria del capocomicoscrittore, fu raggiunto da Giovan Battista Andreini. Anche lui fu capace di conciliare il repertorio dei buffoni e delle amorose con le esigenze del collettivo, ridusse al minimo gli imprevisti nel cast e nel copione, cercò di contenere gli sprechi (in denaro e in fatica) e di conservare stabilità alla compagnia, regolarizzò le tournées, concentrando gli sforzi a favore della committenza cortigiana. In altre parole, sia don Giovanni che Giovan Battista Andreini (il primo tramite la me-
diazione di Flaminio Scala, il secondo direttamente e con il supporto del padre Francesco) requisirono la ricca dotazione individuale dei loro attori e la riordinarono ai fini di una possibile riproduzione seriale. Trasformarono l’arte del teatro improvviso inì una disciplina. La resero rigida. Cosî facendo la trasformarono in tradizione. Non a caso entrambi erano fiorentini di formazione e proprio a Firenze lo spettacolo si era, da tempo, imposto nella duplice valenza di evento effimero e prototipico. Destinato a consumarsi in breve ma, nonostante
questo, anche a fondare una tradizione e a inaugurare una trasmissione a futura memoria. L’improvvisazione eta stata fortemente attenuata. La previdenza
di Flaminio Scala aveva ridotto quasi a zero le possibilità combinatorie delle diverse «parti» e l’astuzia dell’improvvisazione (variare, a seconda degli interlocutori o degli intrecci stabiliti, la parte di cui cia-
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scun attore era portatore) si era progressivamente spenta. Il confine
fra premeditazione e improvviso in passato non era mai stato sottolineato, risultando vago e mutevole; nella pratica solo qualche volta si era accennato alla necessità di imparare a memoria la parte o almeno la fabula. Frequenti sono invece i richiami fatti da don Giovanni in questo senso. Si intravedono dalle risposte e assicurazioni di ubbidienza che arrivano regolarmente da attori evidentemente accusati di intemperanze improvvise. Cosi il dotatissimo Scapino aveva tranquillizzato don Giovanni circa la stabilità del repertorio, il rispetto della nuova serietà comica che imponeva di imparare a memoria le proprie battute e di non aggiungere parole al testo fissato: Qui non si son fatte se non tre comedie nuove le quali si sono non solo per miei affari ma per altri lette particolarmente, havendosi contentato chi le ha fatto durare questa fatica; né per cagion mia né di altri vi è stato detto [aggiunta] pure una parola. Del recitare alla peggio io non lo fo poi che sarebbe un offendere me stesso per far dispetto ad altri.
E Domenico Bruni, nel valutare Spinetta (moglie di Scapino), aveva
sottolineato i limiti dell’attrice nell’apprendimento delle parti a memoria: «non è buona per tanta fatica. Il che è vero, però le faremo imparare parte di quelle parti che vano nelle opere che facciamo, talché tutti ci affatticheremo non solo per mantenerci, ma per aquistare» ”. Mentre Francesco Antonazzoni giustificava, sullo stesso argomento,
la moglie Lavinia che non aveva imparato il prologo che lo stesso principe aveva spedito alla compagnia: Escusi Vostra Eccellenza mia moglie se non l’ha subito imparato, perché oltre a lo esser stata indisposta, gli èconvenuto far una bagatella di una Pazzia e però, occupata in ciò, non ha potuto haver compìto gusto d’impararlo. Hora satisferà e al debito e al suo desiderio, riducendolosi a memoria, e cosî faranno gli altri ch’in esso intervengono !*.
Abbastanza rapidamente comunque, l’improvvisazione, che fino a quel momento era stata quasi sinonimo dell’arte teatrale professionistica, diventò un’eccezione di pochi e tanto più preziosa se affiancata alla capacità di «premeditare» con prontezza: Celia al premeditato et improviso è la prima donna che reciti, poiché se la compagnia od altri mettono fuori opere o comedie nove lei subito le recita, che la Lavi-
nia né altra donna lo farà, se prima di un messe non si hanno premeditato quello che nel soggietto si contiene”.
Sono parole dello specialista ed esperto Scapino, e risalgono al 1627, pochi anni dopo la fine dell'esperienza dei Confidenti. Sono passati quasi dieci anni dalla contesa di Celia con lo Scala e fa impressione
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notare come la più obbediente Lavinia, onore del collettivo, abbia perduto, nella considerazione di Scapino, il confronto con l’indisci-
plinata e inventiva Celia. Il fatto è che la capacità di quest’ultima di portare un contributo di personale invenzione alla commedia, è diventata più utile, in un quadro generale di prevalenza della premeditazione. Nella stessa lettera il celebre zanni insiste infatti su precetti pedagogici che vanno in questa direzione, esortando i giovani studenti che cercano una scrittura in compagnia affinché entrino in scena «con speranza ch’habbino da riuscire mercé el studio (...) e quel che
importa senza prettensione, né giunta [interpolazione] alcuna». L’improvvisazione, nel teatro dei professionisti, rimase un lusso pet pochi eletti, mentre per una legge di compensazione divenne oggetto di culto nel teatro dei dilettanti, come nel caso delle esercitazioni sce-
niche di Jacopo Cicognini, in cui si impose come tramite fra il mondo degli attori e la drammaturgia. Senza scambiarsi le parti i primi ridussero l'improvviso a vantaggio del premeditato, mentre i secondi fecero il contrario”. Restando ai comici di mestiere è bene precisare che, fatte salve occasioni speciali come l’allestimento dell’Arzizta o della Filli in Sciro di cui parla Scala, il premeditato non ebbe mai il sopravvento e il teatro dell'Arte continuò a fare a meno di testi preventivi allo spettacolo. I testi si formano di volta in volta per addizioni di parti, per incastri e sottrazioni. Sono variabili che dipendono esclusivamente dagli attori. Dopo lo spettacolo, il testo rifluisce, partitamente, nel corredo dei singoli e si adagia nella memoria debitamente ruminato, senza speranza di poter essere ricostituito tale e quale fu recitato. Su questi depositi di testi personali il capocomico voluto da don Giovanni esercita la sua funzione di concertatore della compagnia prevedendo e riducendo il numero delle varianti possibili per ognuna delle «parti» a sua disposizione. Cosî facendo induce i solisti a diventare attori di compagnia. Si ripete sul piano della drammaturgia quanto abbiamo visto realizzarsi sul terreno dell’organizzazione. La vita di relazione degli attori è delimitata dall’orizzonte della compagnia, e anche la loro memoria professionale si riduce secondo le possibilità date da quel perimetro. La navigazione non è libera. Scapino inventa secondo quanto gli concede Mezzettino e viceversa, Arlecchino deve arrangiarsi in mezzo a un equipaggio ingombrante, e cosî fan tutte le amorose obbedienti a don Giovanni. Anche questo è premeditazione. Per un attore che si solleva al rango di capocomico, molti altri sacrificano il loro libero arbitrio. Il testo-spettacolo costruito dalla compagnia professionale non
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equivale ancora alla commedia letteraria. Non preesiste come entità unitaria, fissata una volta per tutte ze varietur. È però riconoscibile a posteriori, quando non si tratti di un mosaico del tutto arbitrario,
come traccia plausibile di un evento reso possibile dalle «parti» preesistenti, e quindi teoricamente ripetibile. Le edizioni a stampa dei principali capocomici del primo Seicento tentarono di lasciare testimonianze dei loro mosaici, e quindi del loro lavoro di concertatori di «parti». Si tratta di testi che non pretendono di essere eseguiti con fedeltà e che non aspirano a restaurare una rappresentazione già avvenuta. Insieme alla nobilitazione letteraria di un mestiere ancora marginale, quei libri fissano e ingrandiscono sulla carta il trapasso dalla improvvisazione alla premeditazione. Dalla selva degli infiniti canovacci possibili, Scala, Andreini, Cecchini, Barbieri estrassero alcuni intrecci, repertori di lazzi, di situazioni, di ‘assolo’; non furono mai copioni normativi, preventivi, quelli che vennero divulgati, ma schemi sintomatici, allusivi, esemplari, consuntivi. La trascrizione de
L’inavertito del Barbieri cosî come fu data alle stampe nel 1630 prevedeva un cast meno storico che perfetto. Tutti quei primi attori riuniti assieme forse non recitarono mai quel canovaccio nella medesima — compagnia. La loro riunione in un unico cartellone obbediva a criteri strategici e non documentari. È più un quadro di genere che un disegno dal vero. Rinvia a uno schema di rappresentazione ideale, mai avvenuta, una specie di 4// star sbow di valore pubblicitario. La drammaturgia dei capocomici-organizzatori del primo Seicento non permette quindi di ricostruire la Commedia dell'Arte cosî come era una volta. Essa fu uno strumento di intervento, anche polemico, comunque tendenzioso, con cui i nuovi ‘autori’ tesero a invecchiare e irrigidire, dall’improvviso al premeditato, con tanto di aggiunte letterarie degne dell’imzprizzatur, i materiali isolati che gli attori contemporanei mettevano a loro disposizione. I loro copioni assomigliano più a ‘note di regia’ che a trascrizioni stenografiche. Eppure a pu- . lirle bene, quelle pareti imbiancate e incrostate di falsi stucchi e di sculture dipinte, lasciano vedere, al di sotto, le travature sconnesse che esse pretendono di riordinare. Sotto sotto non c’è il tutto tondo,
in pietra serena o bugnato, di parti finite, ma scomposti e fossilizzati detriti. Non le «parti», i ruoli, le buffonerie cosî come furono, o co-
me avrebbero voluto essere. Ma i ruoli già sottomessi all’autorità di capocomici, intralciati dagli stucchi e dalle giunture letterarie. Restaurati quei relitti, qualora non si vogliano considerare sotto il punto di vista della bella letteratura (sia pure drammatica) o non si preten-
da di innalzarli a livello di testimoni fededegni della incontaminata
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Commedia dell’Arte delle origini, possono tuttavia consentirci di intravvedere, non ancora soffocata, l'impronta ultima dei buffoni prima della loro scomparsa definitiva. Dopo quella fase storica i due universi del teatro scritto e del teatro agito tornarono spesso a essere incomunicabili. E la cosiddetta riforma goldoniana di cent'anni dopo
ripartirà da dove erano arrivati Andreini, Scala, Cecchini, Barbieri e i Confidenti di don Giovanni. Dalla rivoluzione che aveva garantito
agli attori l’accesso alla scrittura teatrale. E l’avvocato veneziano si comportò con Truffaldino e con la primadonna Medebac come avevano fatto Scala e Andreini con i loro zanni e le loro amorose. Nei prossimi capitoli ci avvicineremo di più a questi comportamenti e ai loro esiti testuali, guardando dappresso lo zanni più illustre (Arlecchino) e il capocomico che scrisse meglio e di più (Andreini). Sono lo-
ro, opposti e complementari, gli artefici esemplari della drammaturgia dell'Arte.
! Si veda, al riguardo, la creazione dell’Ordine del Redentore celebrata da Vincenzo I in occasione del matrimonio del figlio Francesco con Margherita di Savoia (1608). Il duca di Mantova assegnava alla reliquia del sangue di Cristo il merito di avergli salvato la vita nel corso delle sue spedizioni contro i Turchi, per la verità mai contrassegnate da indiscutibili successi. La creazione del nuovo Ordine voleva manifestare la gratitudine di Vincenzo Gonzaga ai più fedeli cavalieri che lo avevano accompagnato nelle tre campagne militari (1595, 1597 e 1601) in Croazia e Ungheria; ma era anche il prodotto di un sogno letterario che, sulla scia dei versi della Gerusalemme Liberata, ambiva a fornire l’élite aristocratica di corte di un alone guerresco mitico e teatrale. La pratica per l’istituzione dei nuovi cavalieri ebbe un posto importante, ma un disbrigo assai lento a causa delle obiezioni avanzate da papa Paolo V. Poi la messa in scena della creazione del nuovo Ordine, nella chiesa di Sant'Andrea (16 maggio 1608), ebbe un successo spettacolare notevole, davanti ai principi sposi, al clero e al popolo, come si può rilevare alla lettura di F. Follino, Compendio delle sontuose feste cit., pp. 20-24. Ma per una ricostruzione dell’episodio si vedano anche C. Cottafavi, L'Ordine cavalleresco del Redentore, in «Atti e Memorie della R. Academia Virgiliana di Mantova», nuova serie, vol. XXIV (1935), pp. 171-255; Mantova. La Storia, a cura di L. Mazzoldi, R. Giusti e R. Salvadori, Istituto Carlo D’Arco per la Storia di Mantova, Mantova 1963, vol. III, p. 46 (che riproduce parzialmente lo statuto dell'Ordine del Redentore, copie del quale sono in ASMN, busta 3349). Sulla terza, e pit catastrofica, spedizione militare del Gonzaga cfr. V. Errante, «Forse che sì, forse che no». La terza spedizione del duca Vincenzo Gonzaga în Ungheria alla guerra contro il Turco (1601) studiata su documenti inediti, in «Archivio Storico Lombardo», serie V, XLII (1915), pp. 15-14. n
-
ES
Per un’iconografia quasi completa di don Giovanni cfr. K. Langedijk, The portraîts of the Medici xvIth-xvmth centuries, Spes, Firenze 1981-87, vol. II, pp. 1020-26. ; Cfr. rispettivamente lettera di don Giovanni, da Udine, 18 novembre 1617, in ASF, Carte Alessandri, £. 2, c. 252r, e lettera di don Giovanni del 21 marzo 1620, cit., ora in Appendice, III Cfr. D. Landolfi, Don Giovanni de’ Medici cit., p.137; ma cfr. anche Corrispondenze, I, Scala, lett. 33, nota 7. Autore del testo e del disegno era stato Gabriello Ughi, pittore e ingegnere fiorentino al servizio di don Giovanni come tesoriere dal 1608 al 1619 e al suo seguito durante la campagna del Friuli. Il testo manoscritto si trova in ASF, Carte Alessandri, f. 10, cc. 2157-2271, ma è stato edito come anonimo da A. Battistella, Giornale della guerra di Gradisca,
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in «Archivio Veneto», serie V, vm (1929), pp. 179-85. Su tutta la campagna militare si veda
va
Corrispondenze, I, Scala, lett. 7-23. L'immagine che lo raffigura in abito guerriero guarnito delle insegne dell’Ordine di Malta, munito dello scettro del comando (spesso presente nei ritratti di don Giovanni), si trova nel quadro dedicato a L’arrivo di Maria dei Medici a Marsiglia (Parigi, Louvre). Eseguita tra il 49 1622 e il 1627 per il Cabinet Doré del Luxembourg, l’opera (come tutti gli altri dipinti del ciclo), pur all’interno di una reinvenzione fantastica e memoriale, si attiene al rispetto dei dati documentari, secondo la supervisione della stessa regina che doveva certo vedere con piacere la rievocazione dello scomparso zio don Giovanni campeggiare sul lato sinistro della tela, protagonista non secondario dell’evento nella qualità di comandante della spedizione marina. Don Giovanni comandò la flotta, che era fra l’altro composta di galere degli Ordini di Santo Stefano e di Malta, a bordo della galera reale su cui viaggiava la sposa regina. La posizione di rilievo che egli occupa, subito al di sotto dell’emblema mediceo, inferiore solo a quella tenuta dalle dame della casa principesca, la granduchessa Cristina, la sorella Eleonora moglie di Vincenzo Gonzaga e, naturalmente, Maria, rafforza questa identificazione. È inoltre ravvisabile una certa somiglianza tra l’idealizzato cavaliere di Rubens e alcune incisioni raffiguranti don Giovanni. In particolare cfr. il ritratto inciso da Francesco Allegrini su disegno di Giuseppe Zocchi in epoca tarda (circa 1767), ora in BMF, Incisioni, vol. 92 bis, n. 4; ma si veda anche il ritratto a olio su tavola di Cristofano Dell’Altissimo che coglie don Giovanni forse un po’ oltre i quarant’anni, secondo K. Langedijk, The portraîts cit., vol. II, p. 1020 (l’opera è agli Uffizi di Firenze, inv. 1890, n. 128). Vestito di corazza lo ritrae un anonimo pittore (cfr. Firenze, Uffizi, inv. 1890, n. 42533). Databile in epoca non lontana dal 1600 è l’inci- 47, 48, sione eseguita ad Augusta da Dominicus Custos, per la quale si sono reperite copie assegna- 50 bili al 1595 (ii4., p. 1024). Circa i documenti epistolari che possono servire a conoscere meglio la genesi del ciclo rubensiano e ad approfondire la sua interpretazione, cfr. J. Thuillier, La Galerie des Médicis de Rubens et sa genèse: un document inédit, in «Revue de l'Art», n. 4
(1969), pp. 52-62; J. Thuillier eJ. Foucart, Rubens. La Galerie des Médicis au Palais du Luxembourg, Laffont, Milano-Paris 1969; J. Thuillier, La Galerie de Marie de Médicis: peinture, poétique et politique, in Rubens e Firenze, a cura di M. Gregori, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 249-66. Sulla missione di don Giovanni tra Livorno e Marsiglia cfr. S. Mamone, Firenze e Parigi cit., pp. 99-106. CN Cito dal diario manoscritto del Maestro di Casa che sovrintendeva tutto il cerimoniale mediceo e che si era imbarcato a Livorno sulla galera di don Giovanni. Cfr. Memorie di Giovanni del Maestro, maestro di casa del granduca, del battesimo del gran principe Cosimo e della principessa Leonora e delle nozze della regina Maria di Francia, ms. in ASF, Carte Strozziane, serie I, n. 27, c. 550. Ma riporto per intero, ringraziando Sara Mamone che melo ha segnalato, il documento che testimonia il carattere puntiglioso, protocollare e inconcludente di don Giovanni: «In questo viaggio sì come interviene necessariamente dove concorre quantità e diversità di gente è corso qualche disgusto degno di mentione, et in particolare sendo ricerche in Portofino le galere di Santo Stefano di dare un cavo per rinburchio del pasacavallo che portava le vettovaglie e sin quivi stato rimburchiato dalle galere di Malta, non volsono acconsentire scusandosi aver le galere vechie e snervate e, ricerchi di pigliare una certa quantità di colli e una parte delle gente che tropo imbarazavono le nostre galere, similmente negorno di volerlo fare mostrando di essere troppo carichi. Onde il signot don Giovanni eccellentissimo rispose alteratamente al signor cavaliere Magalotti, figliolo del comendatore Magalotti, luogotenente generale di quelle galere, che per esser malato faceva negotiare esso suo figliolo, e sopra di ciò ci furno fastidiose dispute e per ultimo ci allegerirno di non so che poche robe. (...) mentre che si facevanole cerimonie in sul ponte dello sbarco essa capitana di Malta bellamente se ne passò per prua alla nostra reale e prese il posto che li fu avertito e la mattina si trovò alla man dritta dello stendardo reale in mezo a quello et alla nostra reale che restò in luogo inferiore come detto. Il che considerato dal signor don Giovanni eccellentissimo, se ne dolse e ne fece risentimento allegando che questa nostra nuova galera non era galera della religione ma del Granduca di Toscana al quale doveva cedere la capitana di Malta e non volendo un cavaliere spagniuolo generale di esse galere né essi cavalieri, come ricercava il signor don Giovanni eccellentissimo, di levarsi di quel posto e porsi fra la nostra reale e la nostra capitana, ci corsono parole di molta mala sodisfazione e quelle di Malta accenorno di volersi partire
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parendoli aver conseguito la precedenza con il nostro stendardo ducale. Onde il signor don Giovanni eccellentissimo fece la sera sagliare le nostre galere il canone a prua e tornare ogni uomo a galera facendo diligente sentinelle con ordine che se quella capitana, che non poteva uscire senza passare sotto prua delle nostre, faceva motivo nessuno, che se li si sparassi il canone e li altri tiri e si cercassi di metterla in fondo — e nel medesimo tempo essi cavalieri imbarcorno 200 archibusieri di Marsiglia sopra la lor capitana» (ivi, c. 557). sv vw
S. Mamone, Firenze e Parigi cit., p. 37.
Cfr. Diario del viaggio fatto dal cardinal Pietro Aldobrandini nell’andar legato a Firenze per la celebrazione del sponsalizio della regina di Francia et in Francia per la pace, ms. in BNP, Manuscrits Italiens, 1323, c. 37r-v: «cone loro livree innanzi, che furono le più belle di tutte e massimamente quelle del duca di Mantova e di don Giovanni ch'era di velluto paonazzo tutta ricamata con fogliamidi tela d’oro». Per l’importanza della testimonianza dell’ Aldobrandini cfr. S. Mamone, Feste e spettacoli a Firenze e in Francia per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV, in Il teatro dei Medici, in
v
«Quaderni di Teatro», n. 7 (1980), pp. 206-28.
Per il 1579 cfr. lettera di don Giovanni al granduca, da Venezia, n luglio 1579, in ASF, Mediceo, f. 5154, c.133r; G. Sommi Picenardi, Don Giovanni de’ Medici cit., fasc. 25, pp. 108-13; G. De’ Ricci, Cronaca (1532-1606) cit., pp. 266-67, 270 e 273. Per il1581, cfr. ibid., p. 352 e G. Pieraccini, La stirpe cit., p. 217. Per le altre ambascerie cfr. C. Baroncelli, Discorso cit., cc. 1837-1840 e 1957-1977; M. Del Piazzo, Gli ambasciatori toscani del Principato (1537-1737), in «Notizie degli Archivi di Stato», XII (1952), nn. 1-3, p. 60. Per queste notizie cfr. C. Baroncelli, Discorso cit., c. 1837; C. Promis, Don Giovanni cit., pp.
748-50; P. Bacci, Don Giovanni de’ Medici architetto cit. In particolare sul concorso del 1602 si vedano: D. Moreni, Descrizione della Gran Cappella delle Pietre dure a San Lorenzo, Carli e c., Firenze 1813; L. Berti, Matteo Nigetti, in «Rivista d'Arte», serie III, xXVI (1950), pp. 157184; F. Borsi, Don Giovanni de’ Medici, principe architetto cit., pp. 352-58; C. Cresti, Matteo Nigetti e il nuovo corso dell’architettura fiorentina nella prima metà del Seicento, in Un episodio del Seicento fiorentino. L'architetto Matteo Nigetti e la cappella Colloreda. Documenti e disegni, catalogo della mostra a cura di M. Falciani Prunai e G. Orefice, Centro Di, Firenze 1982, pp. 13-34. Ma si legga quanto scrive L. Berti, I/ Principe dello Studiolo. Francesco I dei Medici e la fine del Rinascimento fiorentino, Editrice Edam, Firenze 1967, p. 206: «Nel 1602, infine, la scelta del progetto dell’edificio si restrinse, in un altro apposito concorso, tra un modello suo [del Buontalenti] e uno del principe Don Giovanni. A giudicare furono chiamati diversi artisti, tutti un po’ pratici d'architettura anche se eccellenti altrimenti, quali Giambologna, Caccini, Francavilla, Santi di Tito, Cigoli, Allori, Passignano, e perfino il romano Baglione; inoltre lo specialista in pietre dure Costantino dei Servi, il Vasari nipote, Alessandro Pieroni e altri. (...) Vinse così il modello di Don Giovanni, ancora però sensibilmente diverso (...) da quello poi messo in esecuzione nel 1604». Lettera di Emilio de’ Cavalieri al granduca Ferdinando, da Roma, 7 ottobre 1600, in ASF, Mediceo, £. 899, cc. 4151-4171, poi edita in A. Solerti, Laura Guidiccioni e Emilio de’ Cavalieri. I primi tentativi del melodramma, in «Rivista Musicale», 1x (1902), pp. 818-20. Sulla rappresentazione (e relativa bibliografia) cfr. S. Mamone, Firenze e Parigi cit., pp. 81-98. Mi riferisco alle feste del 1608 per le nozze di Cosimo II e Maria Maddalena d’Austria a cui don Giovanni partecipò ma in veste di semplice spettatore o di addetto all'ammissione degli ospiti nella sala durante la rappresentazione della commedia principale. Nel 1613 partecipò invece con un ruolo rilevante alla Barriera svoltasi agli Uffizi in onore del principe d’Urbino. Cfr. ibid., p. 98, nota 20. Ma per le fonti si veda: C. Baroncelli, Discorso cit., c. 213r-v; C. Rinuccini, Descrizione delle feste fatte nelle reali nozze de’ serenissimi principi di Toscana Don Cosimo de’ Medici, e Maria Maddalena arciduchessa d’Austria, Giunti, Firenze 1608, p. 4; G. Villifranchi, Descrizzione della barriera, e della mascherata, fatte in Firenze a’ xv. et a’ x1x di
febbraio MDcxI, Sermartelli, Firenze 1613. Sul funzionamento delle macchine cfr. Diario del viaggiofatto dal cardinal P. A. cit., c. 370: «non sempre il movimento delle macchine è riuscito
Ielice».
® Livia Vernazza (1590-1654) era nata a Genova, nel 1605 era stata costretta a sposare un compa-
gno di mestiere del padre, il materassaio Battista Granara, ma l’anno dopo era fuggita con un
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amante, il milanese Francesco Buono. Rinchiusa nel monastero delle Malmaritate era stata di nuovo liberata dal Buono (1607), finché non era approdata a Lucca e poi a Firenze. Qui «al
canto al Galeone» esercitando la prostituzione aveva conosciuto il Medici. Sulla sua vita, oltre alla bibliografia citata a proposito di don Giovanni, si veda F. Mazzei, La Macine a Montughi. Villa storicamente illustrata, Le Monnier, Firenze 1885. Sulle vicende matrimoniali, ma in definitiva sull’intera storia della donna, utile è la consultazione degli atti processuali relativi alla validità del matrimonio con Battista Granara in ASF, Mediceo, ff. 5159, 5160, 5161, 5162. La professione del padre e del marito lasciano pensare che Livia potesse essere ebrea, essendo l’attività di materassai praticata, almeno in Italia, quasi esclusivamente da giudei: questo almeno secondo quanto afferma B. Ramazzini, Le malattie dei lavoratori (De morbis artificum diatriba), a cura di F. Carnevale, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1982 (1° ed. 1700), cit. in P. Camporesi, La miniera del mondo. Artieri inventori impostori, Il Saggiatore, Milano 1990, p. 165.
Cfr. la deposizione di Benedetto Blanis nel citato processo, in ASF, Mediceo, f. 5159, c. 1500. Lettera di don Giovanni a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 15 febbraio 1620, ivi, Carte Ales-
R
sandri, £. 2, c. 4731. Contatti con l’ambiente veneziano erano stati stabiliti subito dopo l'abbandono della corte francese, in cui aveva soggiornato, in mezzo a congiure e trame oscure, dal luglio 1606 all’aprile 1608. Nel maggio successivo si presentò a Venezia e si dichiarò disposto a servire la Repubblica; contemporaneamente aveva scritto al granduca manifestando la sua intenzione di lasciare Firenze. Cfr. lettera di don Giovanni al granduca di Toscana, da Augusta, 20 aprile 1608, ivi, Mediceo, £. 5157, cc. 7601-7620; lettera del granduca a don Giovanni, da Firenze, 21
maggio 1608, ivi, Carte Alessandri, £. 3, c. 8or. Una condotta militare fu ottenuta nel novembre del 1610 (cfr. C. Baroncelli, Discorso cit., cc. 212r-2187), eppure fino al giugno del 1615 don Giovanni rimase prevalentemente a Firenze, trattenuto soprattutto dal nipote, nel frattempo divenuto granduca con il nome di Cosimo II, e da altri affari correnti della corte medicea; la condotta gli fu rinnovata nel dicembre di quell’anno. Cfr. la lettera di Carlo d’Austria di Borgau a don Giovanni, da Innsbruck, 3 marzo 1591, in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. 264r. EJ Sull’ebreo Blanis, compagno di studi, dottore in teologia, versato nello studio dell’alchimia e della cabala, si veda D. Landolfi, Don Giovanni de’ Medici cit., pp. 128-30. 4e-) Sul palchetto di proprietà di don Giovanni si veda A. M. Evangelista, I/ teatro dei comici delL’Arte cit., p. 78. Ma cfr. anche la lettera del Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 25 dicembre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5147, cc. 252r-254r: «Il signor cardinale hebbe fino l’anno passato la chiave dello stanzino dell’Eccellenza Vostra e mai l’ha resa; et, havendola chiesta quest’anno per accomodarla al signor residente, me la fece rimandare e la tenni due sere, e poi rimandò per essa et al signor residente fece accomodare uno stanzino di quelli che sono al secondo piano sopra quello del serenissimo granduca. Si servi dello stanzino ne’ primi giorni monsignor Corsini, che era qua, e di poi l’ha hauta il signor Tommaso Medici quasi senpre, eccetto che negl’ ultimi otto o dieci giorni, l’hebbe il signor Lione Nerli per sua moglie con la quale è andata alcune volte la mia ancora a udire le commedie, e con quest’occasione ho veduto che molte donne, che sono andate nello stanzino del signor Antella, sono passate per quello di Vostra Eccellenza con tutta la libertà, cioè sono passate per la medesima strada e scala di Vostra Eccellenza Illustrissima». Si vedano anche lettera di Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 12 gennaio 1619, ivi, c. 263r e lettera di don Giovanni, da Cerreto Guidi, 1° novembre 1619, ivi, Carte Alessandri, £. 2, c. 30r. 20 Sulle complicate vicende della condotta militare a Venezia si veda G. Sommi Picenardi, Don Giovanni de’ Medici cit., fasc. 25, pp. 127-29, 136-42 e fasc. 26, pp. 94-136. La copia della patente di governatore generale delle forze armate veneziane si trova in ASF, Carte Alessandri, f. 10, c. 1457. 21 Lettera di Niccolò Sacchetti a ignoto, da Venezia, 5 ottobre 1619, ivi, Mediceo, f. 3006, c. 4637. Il processo durò dal marzo al giugno 1619, l'appello dall’agosto 1621 al giugno 1622. Per la documentazione relativa cfr. supra la nota 13.
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Lettera di don Giovanni al Baroncelli, da Venezia, 9 gennaio 1621, in ASF, Mediceo, f. 5183,
24
Cfr. le lettere di Annibale Turchi al Baroncelli, da Venezia, 23 febbraio e 22 marzo 1613, ivi,
c. 250.
25 26
sj
Carte Alessandri, £. 7, cc. 1851 e 187r-v. Lettera di Annibale Turchi del 23 febbraio 1613, cit. Le prime lettere che documentano il servizio di Scala presso i Confidenti sono dell’estate 1615 (cfr. lettera di Giovan Battista Austoni forse a Flaminio Scala, da Milano, 8 luglio 1615, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 65r e lettera di Francesco Gabrielli a don Giovanni, da Milano, 12 agosto 1615, ivi, c. 677). Secondo Landolfi (Corrispondenze, I, Scala, lett.1, nota 4) Scala avrebbe potuto cominciare l’attività al seguito della compagnia già nell’estate del 1614. Ai primi di giugno del 1615 aveva trovato, insieme a un agente fiorentino, una casa per Livia e don Giovanni a Venezia (cfr. lettera di Francesco Accolti a don Giovanni, da Venezia, 3 giugno 1615, in ASF, Mediceo, £. 5135, c. 22r-v). Per un profilo di Flaminio Scala cfr. F. Marotti, Introduzione a F. Scala, Il teatro delle favole rappresentative, a cura di F. M., Il Polifilo, Milano 1976, 2 tomi, e R. Tessari, La Commedia dell'Arte nel Seicento cit., in particolare alle pp. 109-35. Sugli studi di don Giovanni in campo chimico si veda D. Landolfi, Don Giovanni de’ Medici cit., pp.127-33; circai«secreti» e gli esperimenti dello Scala notizie si ricavano da Corrispondenze, I, Scala, lett. 84,106, oltre che dalle lettere che gli indirizza Ercole Marliani (29 marzo e
17 aprile 1619, in ASF, Mediceo, f. 5141, c. 433r-v e £. 5143, c. 5247); in una lettera di don Giovanni al Marliani (da Paluello, 25 aprile 1619, in ASMN, Gonzaga, busta 1551, 1 c.n.n.) si accenna a un «segreto di cavare il mercurio dal piombo» che il Medici fornirà al segretario mantovano. Anche l’abitudine del Medici di scrutare gli astri era nota allo Scala che la utilizza per ottenere la fornitura di «un ochiale lungo » da parte di un «maestro » specializzato, in cambio di acque di Lucca destinate a Livia Vernazza (cfr. Corrispondenze, I, Scala, lett. 44). L'espressione è di Luigi Zambeccari nella lettera a Flaminio Scala, da Bologna, 14 gennaio 1620, in ASF, Mediceo, £. 5143, c. 721r-v. L’inefficienza delle truppe provocò rovesci militari che coinvolsero anche la responsabilità di don Giovanni: cfr. F. Moisesso, Historia della ultima guerra del Friuli cit., vol. II, pp. 33 sgg. In particolare sull’indisciplinato contingente olandese cfr. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini cit., pp. 162-64. »Ò La lettera di Orazio Del Monte (che può essere letta in Appendice, II.5) è stata citata e discussa nel corso del terzo capitolo, alle pp. 89 e sgg. Perle notizie biografiche di questi Confidenti cfr. nel capitolo terzo, rispettivamente le note 85 (per Scapino e Bruni), 88 (per Mezzettino), gi (per Lavinia e Ortensio), 100 (per Marc’Antonio Romagnesi). » dai Lettera di Giuseppe Zongo Ondedei a Camillo Giordani, da Bologna, rr novembre 1615, cit. È questa la prima apparizione, oltre che di Mezzettino e Scapino, anche di Beltrame (Nicolò Barbieri), di Spinetta (la moglie del Gabrielli) e di Lavinia (Marina Dorotea sposata Antonazzoni). Un’intelligente dimostrazione di Domenica Landolfi (Corrispondenze, I, Scala, lett. 3, nota 1) consente di assegnare la parte di Claudione a Flaminio-Scala. ww Nel 1591 è segnalato come attore a Mantova, insieme al Cecchini. Conlo stesso risulta svolgere il ruolo di portinaio almeno dal 1605 (cfr. A. Bertolotti, Musici alla corte dei Gonzaga cit.., pp. 70-71 e 80; lettera di Giovan Paolo Agucchia a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 5 novembre 1605, in ASMN, Gonzaga, busta 734, 1 c.n.n.). w”à
Lo stesso Jacques de Fonteny pubblicò in quel 1608 la traduzione e adattamento francese delle Bravure del Capitano Spavento di Francesco Andreini: Les Bravacheries du Capitaine Spavente divisées en plusieurs discours en forme de dialogue, de Francois Andreini de Pistoie, co-
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médien de la compagnie des Jaloux, Le Clerc, Paris. Su questa traduzione si veda ota F. Decroisette, Les versions frangaises de «Le bravure del Capitan Spavento » de Francesco Andreéini, negli atti del convegno La circulation des hommes et des ceuvres entre la France et l'Italie è l’époque de la Renaissance, Paris, 22-24 novembre 1990 (in corso di stampa). Lettera di Traiano Guiscardi a Vincenzo Gonzaga, da Parigi, 19 marzo 1608, in ASMN, Gorzaga, busta 666, 2 cc.n.n. Sull’episodio cfr. A. Baschet, Les comédiens cit., pp. 169-71;J. Fran-
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sen, Documents cit., pp. 323-25; S. W. Deierkauf-Holsboer, Le tbédtre de l’Hétel de Bourgogne cit., vol. I, pp. 72-74. S. Mamone, Firenze e Parigi cit., p. 161. 3 ae] Cfr. ibid., passim; C. Baroncelli, Discorso cit., cc. 201r-212r. Per il carteggio di don Giovanni con Firenze, in quel periodo, si veda ASF, Mediceo, f. 5154, cc. 2871-3400; f. 5157, cc. 626r-767v; Carte Alessandri, £. 7, cc. 482r-588v. Sul celebre maresciallo d’Ancre si veda il recente H. Duccini, Concini. Grandeur et misère du favori de Marie de Médicis, Albin Michel, Paris 1991. 38 Lettera di Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Parigi, 7 maggio 1608, in ASMN, Autografi, busta Io, c. 1007, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 26. 3 o) Lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 15 agosto 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 162r-1637, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 21. Si tratta, evidentemente, di due attori specializzati nel ruolo di secondo zanni, visto che il primo zanni doveva essere lo stesso Frittellino; in seguito Scapino si sarebbe specializzato nella parte di primo zanni per poter coesistere con Mezzettino. 40 Lettera di Annibale Turchi a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 22 marzo 1613, in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. 187r-v. Lettera di Cecchini a don Giovanni, da Venezia, 6 aprile 1613, ivi, f. 5, cc. 617r-618r, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 56. 42 «Gli accidenti, che sinora m'hanno impedito il rivedere Vostra Eccellenza in Italia, non m'hanno però levata la memoria delle molte grazie da lei ricevute in Francia, né tolto il modo di ricordarle, e celebrarle ovunque mi sono ritrovato»: cfr. P. M. Cecchini, La Flaminia schiava. Dedica, in Id., Le Commedie cit., p. 55. La prima edizione della commedia fu stampata a Milano dall’editore Bordoni, nel 1610. 4 Tutte le citazioni riportate sono tratte dalla lettera del Cecchini del 6 aprile 1613, cit. Sulla pessima opinione di Frittellino nei confronti di Battistino cfr. anche la sua lettera a un segretario ducale, da Padova, 10 agosto 1613, in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 59: «La lettera vuol esser di buono inchiostro, poiché quel Battistino che fa il tirano di quella compagnia non stima nissuno, et Sua Altezza serenissima ne ha molta capara, non havendo egli voluto obbedire ad una dell’Altezza Sua mandatali in Parma per servicio di Florinda». Cecchini avrà modo di scrivere di lui, nel libro Delle lettere facete et morali cit., p. 73, che «conserva il nome che si è acquistato d’huomo che non ha altro fine che di contendere, strepitare e farsi tenir bestiale». Lettera di Lorenzo Giustiniani a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 3 gennaio 1614 rv [1615], in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. 1sr-v. 4 di Lettera di Lorenzo Giustiniani a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 15 febbraio 1613 720 [1614], cit. Lettera di Lorenzo Giustiniani del 3 gennaio 1614 720 [1635], cit. 4i Cfr. supra a p. 142. Già nell’estate dell’anno precedente la prima notizia della presenza di Flaminio Scala nella compagnia (cfr. lettera di Francesco Gabrielli del 12 agosto 1615, cit.) coincide con un raffreddamento dei rapporti con Battistino: « Vostra Signoria Illustrissima mi perdona se prima d’hora non gli ho scritto: ma ne dia la colpa a lei perché non ho hauto risposta di certe lettere ch’ io li scrissi quando me ne andai alla Santa Casa, et così credendo non mi volese far gratia più de sue lettere mi son fermato di scriverli per non noiarlo; mi son hora risolto di provar con questa mia per veder s’io potessi impetrar gratia da Vostra Signoria di haver risposta. Siamo a Milano, et tutti sani, ecceto il Capitano don Lopez, ché la sua gotta lo travaglia; credo che le facende sarano come l’anno passato, e prego Iddio che sia vero. Tra noi vi è un poco de desgusto ma ne è causa quelli che doveriano star più chetti degli altri» (cfr. lettera di Giovan Battista Austoni dell’8 luglio 1615, cit.). Il termine ante quer del licenziamento di Battistino è il 17 aprile 1618, data di una lettera dello stesso Austoni a don Giovanni, nella quale egli esplicitamente dichiara «non sono più nella compagnia de’ comici quali Vostra Eccellenza Illustrissima favoriva» (ASF, Mediceo, £. 5143, c. 3347). La parabola di questo operaio del teatro
Capitolo quarto
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si concluderà qualche anno dopo e sarà lo stesso Scala a informare don Giovanni il 31 luglio 1619: « Vostra Eccellenza saperà che mio compare spagnolo scrive da Napoli la morte di sua moglie, et anco che Battistino Austoni è divenuto cieco e matto»
(ivi, f. 5150, c. 536r-v, ora in
Corrispondenze, I, Scala, lett. 76). Alla notizia don Giovanni reagî con sarcastico cinismo: «Alla moglie di vostro compare piaccia a Dio di rendere la luce agli occhi et la sanità al cervello, et Battistino Austoni requiescat in pace» (è il testo di un appunto lasciato dal Medici nel margine sinistro del recto della lettera citata). Quanto a Valeria sappiamo che, dopo avere seguito il marito a Napoli, si sarebbe risposata con un altro comico, Gian Geronimo Favella, destinato poi a diventare gazzettiere ufficiale del Regno; rimasta di nuovo vedova, l’Antonazzoni avrebbe ereditato l’attività del secondo marito e l’avrebbe proseguita con un terzo uomo, Emilio Saccano, arrivando a stampare, a partire dal 1642, gli « Avvisi di Roma». Per queste notizie cfr. :bid., nota 4. 4 Una società che ricorda, per certi versi, lo schema di funzionamento di gruppi di dissenters militari come i pirati, secondo gli studi di Christopher Hill. 50 La prima frase si trova nella lettera di Nicolò Barbieri a don Giovanni, da Genova, 16 luglio
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1616, in ASF, Mediceo, f. 5143, cc. 181r-182v, ora in Corrispondenze, I, Barbieri, lett. 1; la seconda nella lettera di Domenico Bruni a don Giovanni, sempre da Genova, dello stesso giorno (ASF, Mediceo, £. 5143, c. 1917). Cfr. lettera di Pantaleo Balbi a don Giovanni, da Genova, 30 aprile 1636, ivi, c. 1577. Lettera di Nicolò Barbieri a don Giovanni, da Genova, 16 luglio 1616, cit. Lettera dei Confidenti a don Giovanni, da Lucca, 8 settembre 1616, in ASF, Mediceo, f. 5143,
c. 2027. Lettera di Scala a don Giovanni, da Bologna, 10 ottobre 1677, ivi, f. 5150, c. 4767, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 22. Lettera di Domenico Bruni a don Giovanni, da Genova, 30 luglio 1616, in ASF, Mediceo, £. 5143, c. 196r-v. È la citata lettera collettiva dell’8 settembre da Lucca. Maria Malloni era figlia d’arte, sua madre Virginia avendo militato tra gli Uniti e i Gelosi. Su di lei cfr. F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani che fiorirono intorno all'anno MDL fino a’ giorni presenti, Conzatti, Padova 1781-82, tomo II, pp. 11-18; L. Rasi, I corzici italiani cit., vol. II, pp. 63-65. La lettera di ringraziamento indirizzata da Celia a don Giovanni, in occasione dell’ingresso in compagnia, è improntata al massimo rispetto e ossequio formale: cfr. lettera del 21 aprile 1618, da Bologna, in ASF, Mediceo, £. 5143, c. 354r. Sulla successiva sfida a Lavinia si vedano i documenti contenuti in vecchi scritti: A. Neri, Dietro le scene del 1618, in «Illustrazione Italiana», x1 (1884), n. 30, p. 59; Id., Rivalità e dissidi della scena, in «La Scena Illustrata», 1° agosto 1887; Id., La Lavinia dei Confidenti cit. Lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 25 dicembre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5147, cc. 2527-2547, pubblicata da A. M. Evangelista, I/ teatro dei comici dell’Arte cit., pp. 85-86. La donna, fatta forte dagli anni e dal lavoro, si sarebbe poi messa in proprio e avrebbe fatto fortuna, anche dopo la scomparsa del vecchio protettore (cfr. lettera di Vincenzo Gonzaga i Carlo dei Medici, da Mantova, 23 settembre 1622, in ASF, Mediceo, f. 5187, c. 1607).
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Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 23 ottobre 1636, ivi, f. 5150, c. 483r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 4. La notizia della « particella» inviata da don Giovanni è invece nella lettera che si cita alla nota seguente. Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 2 dicembre 1616, in ASF, Mediceo, £. 5150, c. 618r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 7. Subito dopo la consacrazione, Lavinia ebbe
l’onore di recitare un prologo scritto appositamente per lei da don Giovanni (cfr. lettera di Marina Dorotea Antonazzoni a don Giovanni, da Genova, 15 giugno 1618, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 360r e lettera di Francesco Antonazzoni allo stesso, da Genova, 27 luglio 1638, ivi, 61
£. sr41, c. 847). Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 13 ottobre 1638, ivi, f. 5150, cc. 519-520v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 39.
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Ibid. Ibid.; il corsivo è nostro. Flaminio Scala si era anche mosso presso le autorità cortigiane: «Io andai dal Ciolli e li narrai il caso; lui mostrò sentirne fastidio e si stabbilì che lui li scrivesse e la facesse venire quando non venisse con la compagnia, ma non hoccorse perché gli fu fatto un hordine da parte de’ Signori che dovessero subbito sfrattare di Lucca, e mi pare intendere che di ciò fusse causa il signor Stefano Bonvisi per rispetto d’un suo nipote capo delli abbotinati et amici» (ibid.). Sulla funzione da ‘poliziotto’ svolta da Flaminio Scala si veda ancora la lettera citata qui sopra: «Qui di novo vi è che il Dottore de Pelistrina, per una antica rissa per quanto intendo, ier matina tirò con il pugnale un colpo per sfrigiare il fratello vittuperoso della Celia, ma lui parò con il braccio manco eli tagliò vicino alla mano, nel qual taglio vi è andati doi punti over tre, et lui se l’è preso senza pur dire una parola. Io per carità lo feci medicare, et ier sera il signor cardinale mandò per me per intendere quello fusse, ma quando io fui a Pitti, Sua Signoria illustrissima era con il granduca et parlai con il signor Averardo Medici suo mastro di camera, quale si mostra molto servitore di Vostra Eccellenza, e m’inpose da parte di sua Signoria illustrissima di veder d’accomodar questo fatto, qual io tengo facilissimo per tutti i modi; e per il gusto del signor cardinale et bene del Dottore, qual Vostra Eccellenza sa quanto io l’ami, spenderò quello potrò. Intorno a questo anco io so una parola di Vostra Eccellenza accomodare il tutto». Anche le esigenze dell’allestimento degli spettacoli erano soddisfatte, per quanto possibile, dalla cooperazione dei diversi membri del collettivo, che si dedicavano anche, come nel caso di Mezzettino, all’ideazione e realizzazione dell’« architettura » e del «superbissimo apparato » (cfr. lettere di Scala a don Giovanni, da Firenze, 25 agosto e 1° settembre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5150, rispettivamente cc. 582r-v e 4857-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 33 e 34).
Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 20 ottobre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 5457-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 40. La citazione è tratta dalla lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 3 novembre 1618, in ASF, Mediceo, £. 5150, cc. 6081-6097, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 42. In realtà il cardi-
nale, nella lettera scritta nella stessa data (ASF, Mediceo, f. 5139, c. 2027), giustificava il suo intervento a favore della famiglia Malloni per «non havere potuto mancare a’ mia amici» e aggiungeva di rimettersi «in tutto e per tutto in Vostra Eccellenza». Nella sua risposta del 13 novembre seguente (ivi, f. 5262, c. 23) don Giovanni replicava al nipote prelato: «La vita della signora Celia, di sua madre et del fratello mi sono note di lunga mano, et le loro azzioni, et io non ho altro desiderio se non che siano tali che possino giovare a loro medesimi; né i comici mi hanno date sinistre relazioni, né io credo se non al vero, col quale mi governo»; lo stesso giorno aveva rimproverato il maggiordomo Cosimo Baroncelli (ivi, Carte Alessandri, £. 2, c. 3347) per non avere fatto il suo dovere presso il cardinale, assicurandolo tuttavia che non avrebbe mutato la sua posizione di fermezza: «io rispondo reverentemente al signor cardinale, ma alla fine sto saldo nella mia resoluzione». Il cardinale Carlo dei Medici (15961666), a cui Scala dedicò I/finto marito (Baba, Venezia 1618), era nipote di don Giovanni e figlio di Ferdinando I. Uomo pit di mondo che di chiesa, frequentatore di feste e conviti, « curioso de comedie » (Dedica, ibid.), in affettuosi rapporti con lo zio lontano, si interessò probabilmente per favorire un rientro di questi in Firenze. 6 Sd
Lettera di Scala a don Giovanni del 20 ottobre 1638, cit.
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Le citazioni sono tratte dalle lettere dello Scala del 20 ottobre e del 3 novembre 1638, cit. Lettera di don Giovanni a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 20 ottobre 1618, in ASF, Carte Alessandri, £. 2, cc. 323v-324r. Lettera di don Giovanni a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 3 novembre 1638, ivi, c. 3270. Sulle difficoltà incontrate da don Giovanni con le truppe venete e sulla sua indole iraconda, si veda la lettera di Scala allo stesso da Venezia del 1° marzo 1617, ivi, Mediceo, f£. 5150,
6v
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c. 448r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 9: «Dicano anco, et i più, che Vostra Eccellenza
si puol malamente fidare della soldatesca, non solo perché la sia poca e mal pratica et inesperta, ma che ve siano anco delle inteligenze con i nemici. Dicano che dopo il successo di San Martino Vostra Eccellenza cade spesso in alcune scandiscenze che non solo spaventa li solda-
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Capitolo quarto ti, ma intepediscano quella benevolenza et osequio che li portavano per lo passato, e questo par che dispiacia assai a quelli che amano la Eccellenza Vostra; non già che questi tali non conoscano che Vostra Eccellenza à gran parte di ragione, ma desiderarieno che conla sua solita dolcezza e prudenza andasse coregiendo li altrui difetti e mancamenti». Sul ricorso alle esecuzioni sommarie si veda quanto gli scriveva Livia Vernazza il 24 luglio e il 28 agosto 1617, in ASF, Mediceo, £. 5145, cc. 1617 e 1777. «Popolo et merda (come diceva il granduca mio padre) è tutt'uno»: lettera a Baroncelli, da Venezia, 31 marzo 1618, ivi, Carte Alessandri, f. 2, c. 285r.
7 te) xà
Lettera di don Giovanni a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 24 novembre 1638, ivi, c. 3437. Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 25 novembre 1618, ivi, Mediceo, f. 5150, c. 5497, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 45. Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 15 dicembre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 6177, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 48. Lettera di Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 25 dicembre 1618, in ASF, Mediceo, £. 5147,
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cc. 2520-2537, ora in A. M. Evangelista, I/ teatro dei comici dell’Arte cit., pp. 85-86. Lettera di Scala a don Giovanni, da Milano, 7 maggio 1619, in ASF, Mediceo, £. 5150, c. 5427, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 66. La citazione è tratta da un avviso da Milano del 14 agosto 1619 (BNF, Magliabechiano, CI. XXIV, cod. 25, c. 8r) pubblicato e commentato in Corrispondenze, I, Scala, lett. 66, nota 5. Un sonetto di Giovan Francesco Materdona e uno di Giovan Paolo Fabri, dedicati alla illibatezza di Celia, si possono leggere in F. Bartoli, Notizze istoriche de’ comici italiani cit., tomo II, pp. 16-18. Di una «rancida» verginità dell’attrice parla una lettera di Antonio Calegari a Ercole Marliani, da Bologna, 15 gennaio 1627, in ASMN, Gonzaga, busta 1174, 2 cc.n.n. Si veda, sul tema della diva «modesta e devota», il ritratto che di Eularia de’ Bianchi traccia C. Molinari, La Commedia dell’Arte, Mondadori, Milano 1985, pp. 161-64. Lettera di Nicolò Barbieri a don Giovanni, da Bologna, 22 ottobre 1619, in ASF, Mediceo, £. 5143, c. 638r, ora in Corrispondenze, I, Barbieri, lett. 3; il corsivo è nostro. Cfr. N. Barbieri, La supplica cit., p. 85. C. Ciano, La politica marinara, nel catalogo della mostra Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del Cinquecento. I Medici e l'Europa 1532-1609. La corte il mare i mercanti, Edizioni Medicee, Firenze 1980, p. 115, sottolinea che lo scopo per cui Cosimo I fondò (1562) l'Ordine fu «non solo di combattere gli islamici con i loro stessi sistemi e ricavarne i medesimi benefici, ma altresì di dotarsi di una squadra autosufficiente dal punto di vista finanziario». Per un quadro d’assieme dell'Ordine mediceo di Santo Stefano, è indispensabile rifarsi agli studi documentati, anche se agiografici, di G. Guarnieri, I Cavalieri di Santo Stefano nella storia della Marina Italiana, Nistri-Lischi, Pisa 1960; Id., L'Ordine di Santo Stefano nei suoi aspetti organizzativi tecnico-navali sotto ilgran Magistero Mediceo, Giardini, Pisa 1965. Per un inquadramento del fenomeno all’interno della guerra di corsa si veda S. Bono, I corsari barbareschi cit., pp. 125-35. og Cfr. la lettera di don Giovanni al duca di Mantova, da Paluello, 6 aprile 1619, in ASMN, Gonzaga, busta 1551, 1 c.n.n.: «Non negherò ancora, Serenissimo Signore, che, amando io Flamminio Scala et desiderandogli ogni bene, né potendo io come povero cavaliero farli di quei benefizii che i principi grandi sanno et posson fare a’ loro cari servitori, ho cercato col tener questa compagnia insieme che egli possa sostentarsi cavandone utile, che veramente mi rincresce che resti tolto a questo povero galant’huomo, che sempre è vissuto in maniera da capir per tutto ». Ma cfr. anche la lettera dello stesso, da Venezia, 21 matzo 1620, cit., che si può leggere per intero più avanti in Appendice, III Lettera di Scala a don Giovanni, da Bologna, 15 ottobre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 6227, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 79. Lettera di Scala a don Giovanni, da Bologna, 20 ottobre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 4537, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 81. Per le autorizzazioni principesche che accompagnano, d’obbligo, i reclutamenti si veda anche ibid., lett. 64, del 24 aprile 1619: «E perché la compagnia à de necessità de una parte tosca, si suplica a Vostra Eccellenza de una lettera
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per Cintio a Napoli, quale sappiamo che a un suo cenno volerà alla compagnia». Cfr. anche la lettera di Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 30 ottobre 1618, in ASF, Mediceo, £. 5147,
cc. 2157-2171: «io non potevo, né havevo autorità di licenziarla, né di raffermarla, ma che vedendo nella lettera che Vostra Eccellenza scrive a me che la dice che vuole che la stia in conpagnia a suo dispetto, non sapevo se l’Eccellenza Vostra intendeva per insino al carnevale o per senpre mentre starà la conpagnia insieme, e che però attendesse a servire la sua conpagnia e fare quello che conviene e che gl’è da” conpagni ragionevolmente ordinato, e che poi, al tenpo del carnovale, si lasciasse intendere che l’Eccellenza Vostra gl’havrebbe fatto comandare la sua volontà». 8A Si veda in particolare la lettera di Baroncelli a don Giovanni citata nella nota precedente. % Cfr. lettera di Nicolò Barbieri a don Giovanni, da Genova, 16 luglio 1616, in ASF, Mediceo, £. 5143, c. 1817, ora in Corrispondenze, I, Barbieri, lett. 1: «Per esser io di setemana, toca a me a scriver quello che occorre per la compagnia, però Vostra Eccellenza compatirà il segretario». 8 Le citazioni sono tratte dalla lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 30 ot-
tobre 1618, cit., che contiene il resoconto completo del ‘processo’; per le reazioni degli ‘imputati’ si vedano le lettere di Andrea Malloni e Maria Malloni a don Giovanni, da Firenze, 2 novembre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5141, cc. 6211-6227 e 2251-226v. 8 Memorie di Giovanni del Maestro cit., c. 55v. ® Lettera del capitano Alessandro Fabbroni a don Giovanni, da Firenze, 10 novembre 1638, in ASF, Mediceo, £. 5141, c. 2587; il corsivo è nostro. ® Cfr. D. Landolfi, Don Giovanni [...] e la compagnia cit., pp. 265-66. % Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 27 ottobre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 517r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 41. ® Lettera di Scala a don Giovanni, da Mantova, 10 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 581r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 50. NI Lettera di Scala a don Giovanni, da Mantova, 23 maggio 1618, in ASF, Mediceo, f. 5150,
c. 4747, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 27. % Ricordiamo un altro Giustiniani presente nel carteggio di don Giovanni: si tratta del podestà di Verona, Giulio, a cui il Medici scrive nel 1620 per ottenere una licenza a favore dei Confidenti (cfr. la lettera di risposta del Giustiniani al Medici, da Verona, 18 marzo, in ASF, Mediceo, f. 5136, c. 5857). © Cfr. la lettera di Scala a Ferdinando Gonzaga, da Venezia, 7 luglio 1618, in ASMN, Gonzaga, busta1550, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 30, dove si apprende che don Giovanni avrebbe «trattato et procurato » con il doge Antonio Priuli «suo particularissimo amico et signore fin dal principio della sua creatione di fargli haver licenza» perché i suoi attori «possino recitare» a Venezia. Si ricorda che il figlio del doge, Michele, fu compare di battesimo, insieme al duca di Mantova, rappresentato dall’ambasciatore Battaino, del figlio di don Giovanni. Si veda la lettera di Scala a don Giovanni, da Venezia, 7 settembre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 5087, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 78: «È stato qui hora da me lo illustrissimo signor Michel Priuli a domandarmi con grandissima istanza se Vostra Eccellenza vol battezare questa settimana che viene. E cercando io la causa di questa sua curiosità, mi à detto che alcuni suoi amici lo vorebbero menar fuora per stare tutto giovedì e che venere matina senza fallo lui sarebbe in Venezia, ma sapendo che Vostra Eccellenza vogli battezare, per tutto l’oro del mondo non parteria, perché si reputa a grandissimo honore lo aver riceuto questo favore da Vostra Eccellenza illustrissima». % Sui rapporti con questa famiglia, la cui influenza in Senato poteva facilitare la concessione delle licenze teatrali, cfr. le seguenti lettere: Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 16 aprile, 18 giugno 1616, 17 marzo 1618, in ASF, Mediceo, f. 5146, cc. 2317, 285r e f. 5147, c. 48r; Balbi a don Giovanni o a Baroncelli, da Genova, 30 aprile, 6e x giugno, 16 e 30 luglio 1616, 23 marzo, 30 marzo, 14 aprile 1638, ivi, f. 5143, CC. 1577, 1757, 1777, 1927, 198r-v, 3227, 3257, 3317; don Giovanni al duca di Mantova, da Venezia, 2 aprile 1618, in ASMN, Gonzaga, busta 1550, 1 c.n.n.
Si vedano le lettere di don Alfonso d’Este a don Giovanni, da Modena, 25 marzo 1616, 23 no-
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vembre 1619, n aprile, 5, 12 e 20 maggio 1620, inASF, Mediceo, £. 5138, cc. 1967, 1777, 1987, 1997,
2007, 2027.
Cfr. le lettere scritte da Milano da Flaminio Scala, in Corrispondenze, I, Scala, lett. 64-76. Si vedano a titolo esemplificativo ibid., lett. 80, 82, 90, 91, e anche la lettera del cardinale Giacomo Serra a don Giovanni, da Ferrara, 30 agosto 1620, in ASF, Mediceo, f. 5139, c. 3497. Si vedano le lettere del cardinale Luigi Capponi a don Giovanni, da Bologna, del10 ottobre, 30 dicembre 1615, 21 maggio 1616, 4 ottobre 1617, 3 aprile e 19 ottobre 1679, ivi, cc. 57-67, 177, 56r, 1r, 2547, 2657; lettera di Domenico Bruni a don Giovanni, da Bologna, 17 ottobre 1617,
ivi, f. 5143, c. 2857. Rapporti di collaborazione teatrale vi furono anche con il cardinale Giulio Savelli, sempre a Bologna: cfr. lettere del cardinale a don Giovanni, da Bologna, 30 settembre e 4 dicembre 1620, ivi, f. 5139, cc. 4257 € 356r; ma cfr. anche Corrispondenze, I, Scala, lett.
97. 10) (=
Si vedano le seguenti lettere di Alfonso Pozzo da Parma: 19 ottobre 1616 (a Scala), 12 marzo, 21 agosto, 8 ottobre 1618 (a don Giovanni), 8 novembre 1619 (a Scala), in ASF, Mediceo, £. 5143,
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Cfr. rispettivamente la lettera di Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 4 maggio 1638, ivi, f. 5147, cc. 80r-83v e la lettera di Scala a don Giovanni, da Mantova, 16 maggio 1638, ivi, f. 5150, c. 5867, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 25. Lettera di Scala a don Giovanni, da Mantova, 22 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 515r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 52. Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 5 ottobre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 516r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 38. Lettera di Scala a don Giovanni, da Milano, 15 maggio 1619, in ASF, Mediceo, £. 5150, c. 5411-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 67. Cfr. le lettere di Scala a don Giovanni rispettivamente del 24 aprile, 1° maggio, 4 giugno e 24 luglio 1619, tutte da Milano, in ASF, Mediceo, £. 5150, cc. 570r-v, 5137, 5091-v, 5697, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 64, 65, 69 e 75. Biglietto di don Giovanni a Cosimo Baroncelli, forse da Venezia, senza data, in ASF, Carte Alessandri, £. 2, c. 331. Lettera di Scala a don Giovanni del 24 luglio 1619, cit. Cfr. inserto cifrato nella lettera di don Giovanni a Ferdinando I, da Parigi, 29 marzo 1606, in ASF, Mediceo, £. 5154, c. 323v: «io non lasserò mai di avvisarle quelle cose, ancora che il re me
cc. 147-V, 3201-V, 3671, 731, 6647.
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lo prohibisca, che toccheranno al servitio suo dirittamente, sì come delle altre che il re mi conferirà». Lettera di don Giovanni a Cosimo II dei Medici, da Venezia, 19 marzo 1636, ivi, f. 5152, cc. 226r-2277.
Lettera dello Zambeccari del 14 gennaio 1620, cit. Lettera di Scala a don Giovanni, da Bologna, 29 ottobre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 619r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 82. > Ibid. Lettera di Scala a Ercole Marliani, da Bologna, 6 novembre 1619, in ASMN, Gonzaga, busta 1172, I c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 84. Lettera di Scala a don Giovanni, da Mantova, 1 dicembre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 486r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 92. Cfr. lettera di Scala a don Giovanni, da Bologna, 3 dicembre 1619, in ASF, Mediceo, £. 5150, c. 620r, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 90; lettera di Domenico Bruni a don Giovanni, da Ferrara, 20 dicembre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 6951-v. Questa citazione e la seguente sono tratte dalla lettera di Ercole Marliani a don Giovanni, da Mantova, 25 marzo 1620, ivi, cc. 7527-7537; il corsivo è nostro. Qui e di seguito tutte le citazioni sono tratte dalla lettera di don Giovanni del 2r marzo 1620, cit. (per la quale cfr. anche Appendice, III); il corsivo è nostro.
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Perla postilla autografa cfr. ilpost scriptum: «Dopo haver dettato quanto fin qui ho scritto a Vostra Signoria, mi è parso di soggiugnerle da me proprio queste quattro righe». Cfr. E. J. Hobsbawm, I banditi cit., pp. 19-21. Un progetto per un «negozio di molta conseguenza, utile et honorevole», presentato al granduca nel marzo del 1620, fu respinto dai funzionari di corte. Cfr. su questo il carteggio conservato in ASF, Carte Alessandri, £. 2,. cc. 466r-4697; 5571-5597; 416r-418r; 4651-v; Mediceo, £. 5147, Cc. 5211-5237 € 540r. Lettera del duca di Mantova a don Giovanni, da Mantova, 27 agosto 1620, ivi, f. 5138, c. 2057. Sull’eredità si vedano, oltre agli atti del processo citato: C. Baroncelli, Discorso cit., cc. 2271-233v; ASF, Mediceo, £. 5158, cc. 146r-147v e 81r-954v. Lettera dei Confidenti a Ercole Marliani, da Milano, 10 agosto 1621, in ASMN, Gonzaga, busta 1752, 1 c.n.n. È probabile che Scapino, Domenico Bruni, Francesco e Marina Dorotea Antonazzoni, Nicolò Barbieri si siano uniti ai Fedeli già a partire dal dicembre 1622 come risulta dalla documentazione su quella tournée contenuta nella lettera di Luigi XIII a Ferdinando Gonzaga, da Saint-Germain-en-Laye, 6 agosto 1623, ivi, busta 628, c. 3287, oltre che nella lettera di Francesco Antonazzoni a un segretario ducale, da Bourges, 7 settembre 1624, ivi, busta 674, 1 c.n.n. Per quanto riguarda Celia cfr. la lettera di Vincenzo Gonzaga al cardinale Carlo dei Medici, da Mantova, 23 settembre 1622, in ASF, Mediceo, f. 5187, c. 160r. Per le successive tournées cfr: A. Baschet, Les comédiens cit., pp. 332-33; la lettera di Domenico Bruni a un segretario del duca di Mantova, da Torino, 13 novembre 1623, in ASMN, Gonzaga, busta 736, 1c.n.n.; la lettera di G. B. Andreini a un segretario del duca di Mantova, da Torino, 12 novembre 1623, ivi, Autografi, busta 10, c. 457, ora in Corrispondenze, I,Andreini, lett. 47. Ma si vedano anche la lettera di Francesco Gabrielli ad Antonio Costantini, segretario del duca di Mantova, da Ferrara, 6 gennaio 1627, cit. inL. Rasi,Icorzici italiani cit., vol.I, pp.964-65, elalettera dei Confidenti a Lorenzo dei Medici, da Genova, 17 luglio 1627, in ASF, Mediceo, f. 5176, c. 464r-v. Cfr. N. Barbieri, L’inavertito cit., per l'edizione del 1630 (Salvadori, Venezia); per l'edizione
del1629 (s.i.t., Torino) cfr. Commedie dei comici dell’Arte cit., pp. 367-513. Sulla drammaturgia del Barbieri cfr. C. Burattelli, L’eccezzione e la regola nella Commedia dell'Arte: «L'Inavertito» di Nicolò Barbieri, in «Ariel», 11 (1987), n.1, pp. 42-61; S. Ferrone, in Corzzzedie dell’Arte cit., vol. I, pp. 32-34 e vol. II, pp. 110-13. Cfr. supra, p. 147 e nota 42. Sullo zelo normativo di questa commedia, sorprendente in Cecchini (si veda, per contrasto, la sua commedia successiva, L’arzico tradito, Bona, Venezia 1633), cfr. C. Molinari, Prefazione a P. M. Cecchini, Le Commedie cit., p. 41. Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 25 agosto 1618, in ASF, Mediceo, £. 5150, c. 582r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 33. Sull’Accademia degli Incostanti si veda ora D. Landolfi, Su un teatrino mediceo cit. Per il Cicognini cfr. A. M. Crinò, Documenti inediti
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sulla vita e l’opera di Iacopo e Giacinto Andrea Cicognini, in «Studi Secenteschi», vol. II (1961), pp. 255-86, ma anche la tesi di laurea di S. Castelli, La drammaturgia di Iacopo Cicognini, da me discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze nell’anno accademico 1988-89. Sulla lunga preparazione e stampa dell’edizione Baba, e sul relativo prologo, notizie utili si possono desumere da Corrispondenze, I, Scala, lett. 27 e 33-37 e note relative. Ma si vedano anche D. Landolfi, Dor Giovanni [...] e la compagnia cit., pp. 295-308; S. Ferrone, Introduzione a Commedie dell’Arte cit., pp. 23-25. Se L’autore a’ cortesi lettori, in F. Scala, Il teatro delle favole rappresentative cit., tomo I, p. 4, aveva presentato l’opera offrendola tanto ai teatranti quanto ai dilettanti («potrà secondare gli appetiti e gusti di molti intelletti, li quali di simil cose, 0 per ricreamento, o per loro professione, si dilettano»), Pier Maria Cecchini rivolgendosi A: cursosi lettori della Flaminia schia-
va (P. M. Cecchini, Le Commedie cit., p. 56) esprimeva concetti analoghi: «Ma perché in tuttiitempi, e in tutti i luoghi non si può così commodamente di essa [commedia] godere, per lo poco numero di quelli, che virtuosamente la rappresentano, mi è perciò parso dopo l’aver composto questa picciola operetta, di farne affettuoso presente a quelli, che si compiacciono
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Capitolo quarto
di legger sceniche favole». Il passaggio del testo dalle mani dei professionisti a un più largo e non esperto pubblico esigeva precauzioni, cautele e rigidità. Per lo stesso motivo Andreini dotò le sue commedie di istruzioni meticolose circa i lazzi, la scenografia e le «robbe» che in esse si dovevano utilizzare (cfr. più avanti capitolo sesto) al fine di evitare margini di errore agli eventuali apparatori dilettanti. 13 hi Cfr. lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 27 ottobre 1618, in ASF, Mediceo, £. 5150, c. 517r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 41: «Sin hora la compagnia dà il maggior gusto ch’abbi mai dato altra compagnia. Il signor cardinale per trovarsi alquanto indisposto son molti giorni che non ci viene; ier matina io lo invitai al’Azzinta del Tasso, qual fu recitata iersera. Sua Signoria illustrissima mi disse non potervi venire per sentirsi indisposto, et mi hordina che io facessi eletione d’un bel suggetto per fare a Pitti al granduca». 13 he) Lettera di Francesco Gabrielli a don Giovanni dei Medici, da Milano, 12 agosto 1615, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 677, cit. in L. Rasi, I corzici italiani cit., vol. I, p. 962. Ma, sempre sul ricorso alla memoria, si veda il significativo accenno in una lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 25 agosto 1618, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 582r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 33: «Dio sa il contento ch’io sento che la tragedia vada avanti; li comici son pronti (come me scrivano) con la memoria». 153ivi
bà
13:VI 56 13 I
Lettera di Domenico Bruni a don Giovanni dei Medici, da Genova, 30 luglio 1616, in ASF, Mediceo, £. 5143, c. 196r-v. Lettera di Francesco Antonazzoni a don Giovanni, da Genova, 27 luglio 1618, ivi, f. 5141, c. 84r, edita da A. Neri, La Lavinia dei Confidenti cit., p. 155, nota 20. Lettera di Francesco Gabrielli ad Antonio Costantini, da Ferrara, 6 gennaio 1627, cit. Ibid.
A fronte della prontezza con cui i professionisti si adattarono alle esigenze della produzione seriale espresse dal mercato dei dilettanti, delle accademie e dei consumatori di « commedie ridicolose», i dilettanti cercarono di introdurre elementi di improvvisazione ‘programmata’ non solo nella loro pratica scenica, ma addirittura anche nella loro tecnica di composizione drammaturgica. Sulla pratica dell’improvvisazione fra gli accademici si veda in particolare L. Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di professione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento. Storia e testi, Bulzoni, Roma 1978; ma sulla concreta esperienza in questa direzione della citata Accademia degli Incostanti e sulla funzione svolta in essa dal Cicognini si vedano D. Landolfi, Su un teatrino mediceo cit., pp. 65-71, e S. Castelli, La drammaturgia cit., pp. 235-38. Quest'ultimo lavoro, in particolare, prende in considerazione alcuni documenti che rivelano il singolare metodo di composizione drammaturgica del Cicognini, ispirato a una imitazione della tecnica improvvisativa dei professionisti. Stando sul palcoscenico, il Cicognini avrebbe dettato a un copista, incaricato di registrarle con rapidità tachigrafica, le battute cosî come uscivano dalla bocca dei suoi attori; di qui sarebbe poi nato il testo destinato alla successiva rappresentazione e alla memoria letteraria. In un anonimo testo, manoscritto sull’ultima carta del suo Bivio d'Ercole. Scherzo fanciullesco e morale, ms. in BRF, cod. n. 2792, c. 1200, il
drammaturgo accademico è definito «inventore accorto e dell’inventato |all’altrui obbediente penna che si |slanci a seguirlo |velocissimo dettatore ardito ardente |e instancabile».
Capitolo quinto
Arlecchino rapito
I. Arlecchino pubblicò un solo libro di cui possediamo una sola copia. S'intitola Compositions de Rbetorique, opera di «Monsieur Don Arlequin, comicorum de civitate Novalensis, corrigidor de la bonna langua Francese et Latina, Condutier de Comediens, Connestable de Messieurs les Badaux de Paris, et Capital ennemi de tut les laquais inventeurs desrobber chapiaux»'. Ma Arlecchino non si atteggia ad autore, e neanche ad attore, appare soltanto un foo/. Il suo legame con l’antica tradizione dei buffoni rinascimentali è suggerito dalla scherzosa indicazione tipografica («imprimé de là le bout du monde») che ricorda i fantastici e inferici viaggi del veneziano Zuan Polo e di altri comici”. Gli stessi epiteti con cui Arlecchino apostrofa il re di Francia («secretaire secret du plus secret Cabinet de Madama Maria di Medici, Reina du Louvre») lasciano intendere che ci trovia-
mo in un clima, come si suol dire, «carnevalesco »?. Attore e sovrano possono stare sullo stesso piano perché la situazione è eccezionale, fittizia. Ma la follia del buffone contiene anche delle verità. Ossessivamente nel corso di tutto il suo «livre simulé » (l’espressione è di Baschet) il comico non perde occasione per ricordare ai reali di Francia la natura del rapporto tra lui e loro. Propone uno scambio alla pari: Ha REINE, Colana Quantumque donné moy, Autrement m’en iray cert
ROY Medaglia per la morbin in Itaglia.
Che gli diano una collana e una medaglia, altrimenti se ne tornerà in Italia. In cambio, lui offre il suo buon cuore: ET HARLEQUIN DONNERÀ A V. M.
Un mezzo (c) Niente Con un (0) Niente entiero,
Accompagnato con un (RE).
All’inizio del suo Livre second de Rhetorique, il baratto è ammesso con franchezza:
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Capitolo quinto Ha Roy et Reina donnez me la pesanta Si vous volî que iour et nuict ie chanta.
Arlecchino fornisce la buffoneria, il re e la regina devono pagarla in moneta pesante d’oro zecchino. Quasi mai nei testi (se si escludono le lettere) che i comici dei seco-
lixvi e xvIi ci hanno lasciato, troviamo ammesso con tanta evidenza il rapporto economico che intercorre con i committenti. Il libro del
Martinelli vide la luce nel corso del viaggio che gli attori italiani intrapresero tra l'autunno del 1600 e la primavera del 1601 sulle orme di Maria dei Medici che andava sposa a Enrico IV in terra di Francia. Alla stessa tournée risalgono due opere, anch’esse molto rare e assai poco lette, che altri due attori italiani facenti parte della medesima compagnia, dettero alle stampe a Lione sulla strada di Parigi. Pier Maria Cecchini pubblicò un Trattato sopra l’arte comica, cavato dall’opere di San Tomaso e da altri santi, aggiuntovi il modo di ben recitare (Roussin, Lyon 1601); Flaminio Scala curò l’edizione de I/ Postumio, comedia del signor I. S. (Roussin, Lyon 1601) ‘. A differenza di Arlec-
chino i due attori nascondono il vero significato dello scambio. Si fingono rispettivamente un moralista e un letterato. Dilettanti, non mercanti. Eppure il destinatario della dedica di Flaminio Scala è, letteralmente, un finanziere, Sebastiano Zametti, figura determinante per il soggiorno lionese e parigino degli attori italiani’. Ma lo Scala finge che non sia vero. Il nomadismo professionale viene esibito da lui coine un «vago desio di veder variate genti». La trascrizione, edizione e confezione della commedia sono gesti disinteressati che pertengono al dilettantismo dell’anima pit che alla pratica teatrale: «a caso m’incontrai in povera ma nobil orfanella, la quale miserabil giacea, senza esser conosciuta, ond’io che nel primo affissar d’occhio, la conobbi d’alto genitore, pronto la raccolsi, e diligentemente l’esaminai: et tro-
vatola compita di tutte quelle parti, che si richiedono a ben nata figliola, la tenni sì cara, ch'io deliberai da me non discostarla, sin tanto
ch'io non l’avessi provisto di nuovo padre, degno dell’eccelenti sue qualitadi». Abilmente, l'eventuale sospetto di appropriazione indebita viene respinto grazie al ricorso alle virtù dell’altruismo e della genetosità: «E perché non l’ho sin qui trovato ho giudicato non poter trovar appoggio, che più la possi sostentare, e far risplendere, anzi immortalare, che quello di Vostra Signoria Illustrissima, al valore et ai meriti della quale la raccomando, con ferma certezza che se lei non si allontanerà dal sentiero, che con tanta gloria tengono le sue invitte attioni, verrà inalzata dalle ali della prottetione sua insino al cielo».
Arlecchino rapito
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Il libriccino del Cecchini era dedicato a Ruggero di Bellegarde «Gran Scudiero di Sua Maestà Cristianissima» ‘ con vena altrettanto propiziatoria. Come lo Scala anche lui non pubblica per vanità ma «per dare qualche segno d’uomo ch’abondi di buona volontà», anzi per vincere l’ozio: «L’ozio che secondo le più approbate opinioni è il portinaro dei vizi, facilmente avrebbe aperto in me lo ingresso all’invidia, alla mormorazione, alla gola, o ad altro più scelerato vizio, sio non l’avessi levate le chiavi, e datele in mano della fattica». La scrittura appare nelle sue parole ancora pit nettamente separata dal mestiere del comico; più che un necessario prolungamento di quello, quasi una correzione postuma, voluta per attenuare il sospetto che gli attori facciano un uso illecito del tempo. L’opera ricomponendo l’equilibrio tra tempo dell’ozio e tempo del negozio, rivela che il movente del comico professionista è morale. Il Postumio e il Trattato enunciarono quindi gloriosamente la loro ‘eteronomia’, alla ricerca di una legittimazione che al professionismo teatrale poteva derivare solamente da discipline autorevoli come letteratura e teologia. Le carte stampate dal Roussin per i due attori erano, come le Corzpositions de Rbetorique del Martinelli, delle vere e proprie carte di credito esibite in cambio di una protezione quasi regale. Certificati di garanzia (morale, letteraria, artistica) mostrata ai probabili compratori, sostenitori e ‘abbonati’. La differenza tra Arlecchino, da una parte, e Scala e Cecchini, dall’altra, consiste nel fatto che la carta-moneta del primo rinvia a una ricchezza che ha un corso effettivo, al mestiere concreto di buffone, mentre le banconote degli altri due per poter avere validità devono fare ricorso a ingenti prestiti dalle banche centrali della letteratura e della teologia. Le Compositions, su settanta pagine, ne hanno molte bianche, altre ornate di incisioni anche replicate, pochissime riempite da pochissimo testo. Più che un libro sono il suo capovolgimento parodico. Un contenitore senza contenuto. La beffa di un foo/ che applica lo scetticismo denigratorio proprio laddove gli altri attori esercitano l’ipercorrezione. Il metodo di Arlecchino è lo stesso che dobbiamo adottare noi quando ci avviciniamo a commedie o trattati come quelli di Scala e Cecchini. Sottrarre morale, letteratura e teologia dal testo a stampa; cercare in esso le tracce di uno scambio economico brutale ma vero; analizzare la ricchezza dello scambio in atto secondo i metri della tecnica teatrale. 2. Laletteratura fu, per i comici, un additivo, una droga a cui fecero ricorso credendo, in questo modo, di apparire migliori. Spesso
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Capitolo quinto
le loro edizioni furono dei veri e propri ‘falsi in atto pubblico’, ammantati di una auctoritas illegale. Nel 1587, a Parigi, presso l’editore Chevillot, un comico ferrarese, Bernardino Lombardi, «poneva in
luce» La Gismonda, tragedia del signor Torquato Tasso, facendola precedere da una propria epistola dedicatoria. Era ovviamente un falso. L’anno dopo, lo zelante Gherardo Borgogni correggeva l’affronto fatto al grande poeta. Già due anni prima egli si era schierato a difesa del Tasso, allora incarcerato in Sant'Anna, pubblicando la Parte quarta delle Rizze e prose; quasi un manifesto per la sua liberazione”. Adesso a Bergamo, presso l’editore Comino Ventura, restituiva un
padre e un titolo legittimo alla tragedia apocrifa. Era questa il Tazcredi del conte Federico Asinari di Camerano *. Nella dedica al conte Giovan Battista Borromeo, il Borgogni illumina, anche se con un ra-
pido flash, la storia di quel testo teatrale, come molti altri esposto alle tentazioni dei falsari, sospeso sul vuoto di una fragile tradizione manoscritta: frammento di una letteratura d’uso (a cui appartenevano anche i canovacci), solo in parte documentata dalle stampe: ho procurato sempre di leggerne [di tragedie] quante me ne capitavano alle mani, così stampate come a penna. Però avendo già gran tempo fa inteso che n’andavano a torno alcune copie a mano, d’una del molt’illustre signor Ottaviano [sta per Federico] Asinari, conte di Camerano, cavaliere e poeta di famoso e glorioso nome, e di sempre grata e felice memoria, e procurando anch’io d’esserne fatto partecipe, mi fu finalmente fatto intendere che due n’erano qua in Milano, l’una delle quali era presso l’illustre signor Claudio Albano (...). Finalmente fui molto cortesemente compiaciuto d’ambe le suddette copie, le quali furono da me lette e rilette con mio grandissimo contento, sì per l’altezza e maestà dello stile, com’anco per la molta gravità delle sentenze. Ben è vero ch’erano alquanto manchevoli e difettose in molti luoghi, perciò che l’una era senza la divisione degli atti, e in quella del signor Albano mancavano poi molte cose ch’erano nell’altra. Finalmente d’ambedue formai e ridussi alla sua vera lezione la presente. La cui fatica feci con molta mia sodisfazione, e d’altri virtuosi e nobilissimi signori di questa città, che del continuo ne bramavano aver copia?.
Si può ipotizzare che il Borgogni e il Lombardi abbiano proceduto con metodi se non identici almeno analoghi. Si sono appropriati entrambi di un manoscritto liberamente circolante in più copie, alcuni anni dopo la morte dell’autore (Federico Asinari mori infatti nel 1575), e gli hanno attribuito una firma a loro pit ‘utile’. Alla base dell'operazione editoriale ci fu sicuramente, per entrambi, un movente economico. Fin dalla prima metà del Cinquecento, è noto, si era diffusa ovunque l’abitudine di vendere libri altrui, traduzioni di testi classici, edizioni di classici volgari, a uso e consumo di un fiorente mercato di lettori borghesi‘. Per l’editore teatrale la:messa in com-
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mercio di un libro poteva accompagnarsi alla rappresentazione, a pagamento, di quel testo, mentre l’attribuzione a Torquato Tasso doveva riverberare una certa nobiltà sul lavoro dei comici. Altri episodi di editoria teatrale della stessa epoca fanno pensare che un simile lavoro di seconda e terza mano fosse diffuso regolarmente presso gli attori che si misero a stampare commedie, pastorali, tragedie e poesie. Lo stesso Lombardi era falsario recidivo. La tradizione inaugurata da Girolamo Baruffaldi junior vuole che egli abbia pubblicato la «Fi/lide, favola pastorale, sotto il nome d’Accaderzico Acuto Rinovato, impressa in Ferrara, per il Baldini» nel 1579". Di questo libro purtroppo nessuna traccia all’Estense di Modena come altrove. Si può invece rintracciare l'edizione più tarda di una pastorale che reca l’identico titolo, che era del resto caro alle attrici professioniste e ai loro cantori: è la Fi/lide di Camillo Della Valle, pubblicata a Ferrara nel 1584 dallo stesso stampatore ducale Vittorio Baldini che, nella dedica, accusa il plagiario e difende la qualità del suo prodotto: il quale perché altra volta sia stato dato alle stampe, non per questo de’ Vostra Signoria averlo men caro, perché tanto ha acquistato egli nella presente impressione sopra quello ch’egli avea di buono nell’altra, ch'egli non si può veramente chiamar cosa nova, si può certamente chiamar cosa rinovata e di molto migliorata: e s’in altro questa favola non si fosse avanzata, ella va pure segnata del vero nome dell’autore, il che per ancora non aveva ella potuto conseguire; e quanto importi questo ad accrescerle, o almeno a restituirle quella riputazione ch’altri, stampandola sotto nome finto, l’avea scemata, ne farà fede l’uso, e la commune opinione degli uomini, ch’è di aver in pochissima stima, e quasi in abnominiatione, i figli nati d’incerto padre ”,
La metafora è identica a quella adoprata, per il Postuzzio, da Flaminio Scala. Conservandola, potremmo immaginare i nostri comici come dei pirati rapaci che incrociarono il misterioso mare dei manoscritti. L’uso e il riuso di quei figli di nessuno rimase anonimo finché si restò in alto mare, in viaggio, presi dalla pratica del palcoscenico. Fu al momento di ritornare sulla terraferma, sul punto di richiedere il conferimento dei diritti civili, che bisognò restituire un’anagrafe a quei figli. L’adozione corrispondeva all’edizione e, come nelle commedie del
tempo, prevedeva, per. giovani rapiti dai turchi e poi ritrovati, l’agnizione finale. Pubblicando i cinquanta scenari del Teatro delle favole rappresentative Flaminio Scala riconosce che «in tal maniera sarà levata a molti l'occasione di appropriarsi le mie fatiche, poiché so che spesso compariscono di questi soggetti nelle scene, o tutti intieri nella maniera che qui li vedete, o in qualche parte alterati e variati. Sono miei parti,
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mia è l’opera, qualunque ella sia, e mio parimente deve esser quel bia60
simo, o quella lode, che merita»
”. Nicolò Barbieri avverte, pubbli-
cando L’inavertito, che «Tra quei pochi soggetti di comedie che sono usciti dal mio debol ingegno, (...) è quello ch’ha avuto sorte d’esser stato gradito più degli altri, e d’esser accettato da tutti i comici, ove che ognuno ne ha copia e tutti lo rappresentano. Ben è vero che nella diversità degl’umori v’è chi, per adornarlo, l’ha tirato a forma tale ch'io che gli son padre quasi non lo conosceva per mio. Ingelosito
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perciò del mio frutto, per mostrarlo al mondo quale lo generai, ho preso questa fatica di spiegarlo» “. L'autorità, quando non sia presa in prestito da auctores ricevuti, viene ossessivamente reclamata a posteriori come da genitori redivivi. Cosî fece, per ben due volte, Giovan Battista Andreini, pubblicando La veneziana e La Campanaccia. La prima apparve nel 1619 sotto il nome di «Sier Cocalin dei Cocalini daTorzelo Academico Vizilante dito el Dormioto », in due successive
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tirature distanti pochi giorni l’una dall’altra”. La seconda fu edita a Parigi, nel 1621, come opera di Giovanni Rivani detto il Dottor Campanaccio da Budri; due anni dopo l’Andreini ripristinò i suoi diritti di padre legittimo: Con l’occasione di trovarsi in Vinezia il signor Gioan Battista Andreini tra’ comici del Serenissimo Signor Duca di Mantova detto Lelio, dallo stesso intesi come questa comedia detta la Carzpanaccia era suggetto suo, e dicitura sua, benché sott’altro nome stampata in Parigi nel tempo che serviva alla Maestà Christianissima del Re Luigi presente col nobilissimo trattenimento della Comedia, e che aveva fatto questo per giovare a un suo compagno detto Giovanni Rivani, che ’n teatro faceva la parte del Graziano, e tuttavia la fa, detto Campanaccio. Parimenti favellando seco intesi la Venetiana comedia esser suo ridicoloso capriccio, e che si compiacque di mandarla fuori sotto nome di Coccalino Accademico Vigilante detto il Dormiotto per gusto particolare ch’egli aveva di rappresentar alcuna volta la parte di Coccalino Vecchietto allegro *.
A guardarli bene i comici editori non appaiono mai esenti da sospetti, sono dei discutibili padri naturali. Danno sempre l'impressione di adottare o riscoprire le loro creature con qualche ritardo. Come nei confronti di certi padri di famiglia pirandelliani non sappiamo se credere alle loro dichiarazioni autorevoli. Il periodo più vitale della commedia dell’arte ebbe luogo prima dei loro gesti di affiliazione, nell’interregno tra due auctoritates: in quella fase in cui, venuta meno la fortuna degli scrittori della grande tradizione, e non ancora istaurata l’autorità dei nuovi drammaturghi, il repertorio fu una grande terra di nessuno. Un incrociarsi di manoscritti e testimonianze orali, in assenza di edizioni a stampa, soggetti «in qualche parte alterati e variati», rappresentati da compagnie di-
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verse in modi diversi; adattamenti di testi ricevuti anonimi, adatta-
menti di adattamenti, plagi parziali e prestiti occasionali. Esplorare quella terra di nessuno vuol dire individuare per via di congetture il metodo segreto adottato dai comici per la formazione dei loro copioni. 3. Alla base dell’attività ‘creativa’ degli attori nell’età aurea esiste un principio di comunismo, il quale, a sua volta, si fonda sul postulato che nessuno è padrone di nessuna proprietà particolare. Le materie prime sono tutte ricevute, illavoro degli attori consiste nella selezione e rielaborazione del già dato. Cosî racconta l’amoroso Domenico Bruni per bocca di Ricciolina: «La matina la Signora mi chiama: ‘Olà Ricciolina, portami la innamorata Fiarzzzetta che voglio studiare’. Pantalone mi dimanda le Lettere del Calmo. Il Capitano le Bravure del Capitan Spavento. Il Zanni le Astuzie di Bertoldo, il Fugilozio e Ore di ricreazione. Graziano le Sentenze dell’Erborenze e la Novissima Poliantea, Franceschina vuole la Celestina per imparare di far la ruffiana. Lo Innamorato vuol l’opere di Platone» ”. Anche Nicolò Barbieri sottovaluta l'invenzione per elogiare la ‘ruminazione’ di seconda mano: «I comici studiano e si muniscono la memoria di gran farragine di cose, come sentenze, concetti, discorsi d'amore, rimproveri, disperazioni e delirii, per averli pronti all’occasioni»; «Non vi è buon libro che da loro non sia letto, né bel concetto che non sia da essi tolto, né descrizzione di cosa che non sia imitata, né bella sentenza
che non sia colta, perché molto leggono e sfiorano ilibri. Molti di loro traducono i discorsi delle lingue straniere e se ne adornano, molti inventano, imitano, amplificano»”. Ed è naturale che i recitanti si trovassero a maneggiare, senza im-
barazzo alcuno, le stesse porzioni di testi, senza sentirsi in colpa di appropriazione indebita. La comune ‘povertà’ li autorizzava a farlo, essendo il legittimo autore talmente alto o lontano nel tempo da risultare inesistente. Essi continuavano a operare come se la stampa non fosse stata inventata, adoperando i segmenti delle opere altrui con la disinvoltura che era appartenuta alla tradizione orale. La nostra abitudine a ragionare, consciamente o inconsciamente, secondo i principî
del diritto d’autore (e che sarebbe giustificata se si applicasse, pochi anni dopo, alle edizioni dell’ Andreini, del Cecchini, dello Scala e del
Barbieri) è conseguenza di un difetto di conoscenza a cui solo in parte possiamo rimediare. i Si prenda il Trattato sopra l’arte comica, cavato dall'opera di San
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Tomaso e da altri santi che il Cecchini pubblicò nel 1601. Un’opera dallo stesso titolo è stata di volta in volta attribuita a Giovan Battista Andreini e a Nicolò Barbieri: il primo l’avrebbe pubblicata nel 1604, a Firenze, presso Volcmar Timan Germano; il secondo l'avrebbe stampata separatamente nel 1627 a Genova, presso Pavoni, e poi in appendice al Discorso famigliare intorno alle comedie moderne, a Venezia,
presso Pinelli, nel 1628. Sotto lo stesso titolo esiste inoltre un’opera anonima pubblicata nel 16m a Viterbo dall’editore Discepolo ”. La consultazione diretta del raro opuscolo del Cecchini consente di rilevare che le differenze sostanziali tra queste edizioni sono pochissime. Il testo del Cecchini 1601 (contenente una scelta di brani di san Tom-
maso, di sant’ Antonino, di Raniero Giordani da Pisa, di Giovanni Viguerius, del cardinal Caietano e di altri, seguiti da un breve commen-
to in volgare) è molto più sintetico dell’ Andreini 1604, che tuttavia ricalca lo stesso schema e propone gli stessi luoghi, solamente citati per un'estensione maggiore. Identico a quello dell’ Andreini è il testo (silloge e commento) offerto dall'editore viterbese nel 1611. Quanto all’autore dell’operina, mentre il Cecchini si limita a parlare di «autoritadi e di S. Tomaso e d’altri sacri Dottori, studiate e molte volte rive-
dute, e fedelmente disposte dal molto reverendo Padre maestro Ippolito da Pistoia de l'ordine de’ Servi», l’Andreini fin dal frontespizio precisa trattarsi dell’opera «d’un molto reverendo Padre teologo degl’ Andreini», aggiungendo nella dedica che quel «picciolo trattato» era stato «composto molti anni sono da un teologo degli Andreini, mio zio, dopo la morte del quale, essendomi capitato nelle mani detto trattato per esser cosa egregia e santa, lo inserii con questo mio dialogo, a guisa di quello accorto agricoltore che rende feconda quella pianta che già era sterile, col mezzo di cost fatto inesto»”. Passati pochi anni, a Viterbo, il trattato era poi diventato anonimo conservando inalterato il testo dell’Andreini 1604, pronto per essere accolto, senza varianti di rilievo, dal Barbieri nel Discorso famigliare
del 1628. Nel frattempo lo stesso Andreini lo aveva ripreso e con qualche integrazione lo aveva inserito in Lo specchio, composizione sacra e
poetica, nella quale si rappresenta al vivo l’imagine della comedia, quanto vaga e deforme sia albor che da comici virtuosi 0 viziosi rappresentata viene (Callemont, Paris 1625)”. Lo stesso procedimento fu adottato qualche anno dopo dallo stesso Barbieri che trasformò il Trattato da appendice a parte integrante della Supplica, nell’edizione del 1636: l'antologia tomista diventò in quel caso il cinquantanovesimo e ultimo capitolo del libro che recava nel frontespizio il solo ed esclusivo nome del Barbieri.
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Al termine di questo complicato viaggio si sono persi di vista, non solo le massime auctoritates, i santi e i cardinali, ma anche il più modesto padre teologo di Pistoia. I lacerti dell’antologia hanno viaggiato da soli, anonimi, come i florilegi di Petrarca o Platone, di Andreini o di Boccaccio, di Calmo o di Bandello. Sono stati poi ‘giuntati’ ad altri lacerti, secondo quel principio d’innesto che lo stesso Giovan Battista Andreini ci ha esposto con chirurgica autocoscienza. Dall’innesto, per le impercettibili vie del signore autore, si è passati all’inclusione diretta di quell’antico materiale nel corpo vile del testo volgare, fino alla nascita di un nuovo autore molto autorevole. Il metodo adottato dal Cecchini e dall’Andreini nei confronti dell'antologia «cavata» da san Tommaso non fu molto diverso da quello applicato da Bernardino Lombardi e da Gherardo Borgogni alla tragedia del conte di Camerano. Anche loro devono essersi serviti di un manoscritto probabilmente circolante in più copie come « generico » in difesa dei comici dell’Arte, destinato a esser esibito nelle sedi più esigenti dei loro itinerari comici. Non è escluso che le prime due edizioni del Trattato (1601-604) discendessero attraverso due rami diver-
si dal ceppo più nobile della professione comica, quello appunto dell’Andreini padre. E non è illecito pensare che la diffusione del testo avvenisse, invece che di edizione in edizione, per le linee trasversali
della tradizione comica: ne erano veicoli gli attori che, emigrando da una compagnia all’altra, trasferivano o mutavano le ricchezze del loro povero sapere ricevuto. L'andamento sintetico e la veste ridotta del Cecchini 1601, che pur precede di tre anni l’Andreini 1604, si spiega con una trasmissione segreta (manoscritta) del medesimo documen-
to, nelle forme ‘portatili’ adeguate alle necessità del comico itinerante”. È invece probabile che la tradizione a stampa abbia preso a funzionare, per il Trattato, dal 1604 in poi, stante la quasi perfetta corrispondenza di questa «impressione», dell’edizione 1611, e del Barbieri 1628: queste ultime due si discostano quasi esclusivamente per le sviste tipografiche che poi lo stesso Barbieri sovente correggerà, nella stampa del 1634, basandosi sull’edizione Andreini 1604. Il metodo, oltre che a san Tommaso e a Torquato Tasso, potè essere applicato anche a più modesti beni dotali: le «parti», i «generici», i lazzi, icanovacci. Dal disordinato intersecarsi dell’asse eredita-
rio verticale, legittimato spesso dalla stampa e dal sangue paterno, con le mutuazioni trasversali della tradizione manoscritta (ma anche
orale), nacquero i repertori di molte compagnie e anche di molti attori singoli. Cosî le edizioni a stampa di canovacci o di commedie scritte per esteso furono da una parte il prolungamento di una tradizione
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pluriennale di intrecci e di tipi ricevuti dalle generazioni precedenti e dalle edizioni cinquecentesche; dall’altra quei libri furono anche la registrazione, sotto il nome di un autore, del patrimonio accumulato grazie ai prestiti di singoli attori: i quali, per parte loro, non potevano dirsi, rispetto a un lazzo e a una tirata, più proprietari e autori di quanto non lo fossero rispetto alle sentenze di san Tommaso o alle tragedie del conte di Camerano. Le opere del secolo xviI, sebbene firmate, conservano tracce evi-
denti di addizioni successive eseguite per linee trasversali. E tali addizioni quasi sempre dipendono da banali accidenti. Non sono il risultato di una strategia compositiva, studiata a tavolino, rispondente a criteri d'autore. Anche qui l’autore non c'entra. Mette solo la firma. I modi e i tempi delle addizioni dipendono da fattori esterni, da incidenti di percorso delle compagnie, da opportunità pratiche, da meschini calcoli. La Commedia dell’Arte conferma la miseria della sua genesi. 4. Torniamo per un attimo alla compagnia degli Accesi impegnata nella tournée al seguito di Maria dei Medici. I tre libri che, allora, tra la fine del 1600 e l’inizio del 1601, furono pubblicati dallo Scala, dal Cecchini e dal Martinelli, non interferirono reciprocamente. Rimase-
ro testimonianze parallele. Nessuno dei tre ‘autori’ menzionò mai gli altri due nelle varie apostrofi rivolte ai lettori. Come se la compagnia di cui facevano parte fosse, in terra di Francia, una confederazione di
clan che si rivolgevano ciascuno al rispettivo protettore (Zametti, il signor di Bellegarde, i sovrani). Cecchini esibî, in quell’occasione, un’indipendenza di movimenti che lo portò addirittura a separarsi dalla compagnia nel seguito del viaggio; lo Scala manifestò una certa complicità professionale con Diana Ponti, detta Lavinia «Comica Desiosa», pubblicandone un sonetto encomiastico nelle prime pagine del suo Postuzzio; Arlecchino nelle illustrazioni delle Composti tions concesse ospitalità alle parti di Pantalone e del Capitano, le uniche che egli ritenne degne di figurare al suo fianco. I contrasti che portarono allo scioglimento della compagnia durante l’estate, e che riguardarono soprattutto l’incompatibiltà di Frittellino e di Arlecchino, erano latenti durante il soggiorno invernale e diventarono espliciti nelmomento in cui, esaurita la parte centrale dei festeggiamenti per Maria, gli attori si trovarono nella necessità di sfruttare il soggiorno francese per ulteriori itinerari”. E anche le tre edizioni devono essere lette come una avveduta preparazione della «campagna pubblicita-
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ria» dei diversi artisti e delle diverse consorterie. Quei libri saranno sempre meno da leggere come ‘disinteressata’ esibizione di virtù let-
teraria o teologica, sempre pit come pratica rivendicazione dei propri meriti professionali. Furono anzi dei veri e propri cataloghi delle produzioni di ciascun gruppo, esposizioni temporanee dei prototipi offerti al commercio futuro. La pubblicità, anima del commercio, era stata del resto la probabile destinazione dei frammenti iconografici che vengono oggi conservati come galleria di figurine, affiches, volantini, nella cosiddetta Raccolta Fossard. Le opere che i primi comici Confidenti avevano dato alle stampe tra il 1583 e il1588 erano state la conseguenza della medesima necessità. Erano nate tutte, dall’ A/chirzista del Lombardi all’Angelica di Fabrizio de’ Fornaris, dalla Fiammella di Bartolomeo Rossi alla Gismonda già citata fino alle Lettere facete e ghiribizzose di Vincenzo Belando, in occasione della missione parigina dei comici *. Si è visto che cosî era stato per molte altre edizioni, e in particolare per La Flamzinia schiava del Cecchini nel 1610, e per I/ finto marito ancora dello Scala nel 1618-19”. Ma il comico autore che più di tutti utilizzò, da grande stratega, la stampa di commedie come strumento di autopromozione nella gara d’appalto sostenuta con le altre compagnie, fu Giovan Battista Andreini. Le sue stampe sono il frutto di un assemblaggio che è nello stesso tempo estemporaneo e meditato: fatte apposta per dare a conoscere le ultime novità del suo magazzino comico, ma capaci anche di suggerire al lettore la continuità di un repertorio collaudato nel tempo. stato dimostrato, attraverso le vicende esterne del libretto, come l’edizione de La turca di Giovan Battista Andreini si sia venuta formando per via di addizioni e di sottrazioni “. Materialmente il volume fu confezionato due volte; il frontespizio del 1613 e la dedica a Carlo di Nevers, datata da Parigi, furono cuciti al corpo della commedia in occasione della tournée francese dell'autunno di quell’anno. Il colophon («In Casale, per Pantaleone Goffi, 161») scopre l’inganno che lo stesso Andreini qualche anno dopo rivendicò a suo vanto, ricordando al duca «tre cose che sono passate tra Vostra Altezza Serenissima e me in Francia (...). La prima fu in Parigi dedicando a Vostra
Altezza Serenissima la Turca mia commedia che mi disse in grazia sua che io stracciassi tutta la intitolazione di quella» ”. Come si vede, le addizioni furono incongrue e contradittorie. Le varianti successive si sommarono senza produrre contraccolpi secondari, e quindi correzioni di riequilibrio. Anche le scene del quinto atto (la battaglia fra cristiani e turchi con il passaggio dei due eserciti a cavallo; la sfilata
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del carro trionfale che celebra la vittoria sugli infedeli) sembrano fortemente ricalcate sulla kerzzesse beroigue inventata da Vincenzo Gonzaga il 31 maggio del 1608 per le nozze del figlio Francesco con Margherita di Savoia. Mi riferisco alla battaglia sul Mincio tra cristiani e turchi, notturna e illuminata da fuochi d’artificio come quella della commedia. Il legame non è pretestuoso se si pensa alla partecipazione della compagnia di Giovan Battista e Virginia Andreini ai principali avvenimenti teatrali di quel ciclo nuziale, non esclusa la recita dell’Arianna del Monteverdi”. È probabile che il canovaccio da cui sarebbe poi nata La turca fosse stato recitato durante quelle feste”, rimanendo poi incorporato nel più largo tessuto del testo definitivo, come un reperto di cronaca decontestualizzato, poco comprensibile per i lettori parigini del 1613. La tecnica dell’ Andreini, forse non rispettosa dei principî della classica armonia, è cosi attenta alle sollecitazioni del presente, cosî attaccata alla difesa del peculio accumulato dalla sua memoria, che ci restituisce con buone garanzie di fedeltà i connotati dello spettacolo materiale. Altri episodi possono essere rievocati a conferma”. Le complesse vicende editoriali della Veretiana, apparsa negli ultimi mesi del 1619 a Venezia, in ben due ristampe consecutive, dimostrano che cronaca politica, tradizione comica, polemiche locali entravano in maniera
pesante nella miscela compositiva della commedia dell’ Andreini, per l'occasione spogliato del costume di innamorato e travestito da vecchio. Non è neppure da escludere l’ipotesi che nel costruire la parte del vecchio Cocalino l’autore abbia largamente saccheggiato i « generici» di qualche maschera locale”. Procedimento analogo a quello probabilmente messo in atto con il Graziano Giovanni Rivani, protagonista e autore fittizio della Camzpanaccia di cui si è già detto. Nella pagina A’ benigni lettori del Lelio bandito, VAndreini scriveva: de Che molti di vari paesi concorrano in quest'opera non sia (per grazia) alcuno che 7l noti per errore, dovendosi queste rappresentazioni sceniche rappresentarsi in una sol lingua, poiché, per non uscir anch'io dal dovuto e necessario decoro di farinello, capo di parte che dee raccoglier varie genti, in vari modi fo che parlino ancora”.
Il capocomico doveva essere come il capo dei briganti: capace di guidare la sua truppa rispettando la diversità dei suoi membri, valorizzando le particolarità di ognuno. L’imprimatur del libro fu concesso il 16 luglio 1620, la dedica indirizzata all’ambasciatore mantovano in Milano è datata 5 agosto 1620; una lettera di Giovan Battista Andreini
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a un ignoto destinatario mantovano, spedita il 18 luglio 1620, scopre le ragioni di quell’edizione e i nessi sotterranei che la tengono in vita: L’avviso poi come la nostra compagnia (a voce popoli) dispiace tanto tanto, che gli è un morbo; et ch'io non menta ogn’huomo ci ha rimesso passa 15 ducatoni sino ad hora. Graziano solo et Arlecchino buorzini di corso non ci rimettono, poiché l’uno va alla busca, l’altro va in casa dell’illustrissimo signor ambasciatore; ma noi altri, che facciamo i grandi per la reputazione della compagnia, per non parer tutti affamati, siamo ipit piccioli et i più bisognosi, cioè tutti Pantaloni in gibbone. Che vuoi tu dir Lelio? L’allegoria qual è, il senso mistico? Vuol dire che se non
vi è la nuova di Francia si farà un bel diviserunt, e già Odoardo ha cominciato a segnar il calle. Mi veggo al verde con le speranze e con la borsa, carico d’intrichi, e più ch'io sto a far questa resoluzione più m’intrico ”.
Abbiamo ritrovato il nostro miraggio d’Eldorado («se non vien la nuova di Francia»): il famoso viaggio a Parigi che dal 1618 teneva in agitazione le compagnie, la cancelleria del duca di Mantova, del re di Francia e del granduca di Toscana. Ritiratisi don Giovanni e i Confidenti, l’agitazione si era ristretta ai soli comici stipendiati dal duca di Mantova, ma non si era placata. La compagnia si trovava a Milano in attesa di notizie precise sulla missione da compiere, sulla composizione del suo organico, sull’anticipo per il lungo viaggio. Era divisa e indebitata. La pubblicazione del Lelio bandito sembrava all’Andreini un modo per uscire dalla situazione di stallo, per provocare l’attenzione dei mecenati. Il paragone istaurato dal capocomico tra sé e il capobrigante della commedia («farinello capo di parte che dee raccoglier varie genti»), l’allusione agli «huomini di corso»
(corsari) e alla
«busca» banditesca in cui sarebbe impegnato Graziano come risulta dalla lettera citata, confermano anche in questo caso la stretta dipendenza del testo teatrale dalla cronaca e l’immagine di una troupe di ventura, sbandata, raccogliticcia, disperata. Visto che la cronaca determina fortemente la drammaturgia e la vita di compagnia, non è inutile individuare meglio i componenti del-
la formazione arenata in Milano e indirettamente riflessa nel copione della commedia. Possiamo farlo agevolmente grazie alle lettere che i principali protagonisti della spedizione inviarono al duca di Mantova. Accanto ad Andreini e Martinelli il corrispondente più attivo fu Pier Maria Cecchini, impegnato in tutti imodi a combattere il potere capocomicale di Andreini. Dalle lettere apprendiamo che erano presenti le mogli dei due contendenti (Florinda e Flaminia) e anche una
terza possibile amorosa, Virginia Rotari, in arte Lidia, moglie di Baldo Rotari, accusata da Cecchini di essere l'amante di Lelio e la sua indegna favorita”. Da una di quelle lettere pare che in compagnia ci fos-
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se anche il vecchio Francesco Andreini”. Ma c'erano soprattutto gli attori che, un mese dopo, il 28 settembre 1620, avrebbero sottoscritto, approvandola, una lettera di Tristano Martinelli in cui si chiedeva l’esclusione del polemico Frittellino dalla compagnia in partenza per l’agognata Francia. Firmarono la lettera, oltre a Lelio, Giovanni Rivani (che è quindi da identificare con il Graziano della lettera del 18 luglio) e il Capitan Rinoceronte Gerolamo Garavini *. Da altre lettere si capisce che facevano inoltre parte del gruppo gli amorosi Aniello Testa (Aurelio), che poi avrebbe disertato” e Stefano Castiglioni (noto
con il doppio nome d’arte di Fulvio e Odoardo) *, la servetta Urania Liberati (Bernetta)”, il Pantalone Federigo Ricci, il «portinaro» Moiada, l’uomo di fiducia Gallotta *.
Vedremo meglio più avanti alcuni riscontri possibili fra i personaggi del Lelio bandito e le identità anagrafiche o teatrali dei componenti della compagnia dell’ Andreini *. Per ora ci limitiamo a osservare un solo personaggio: Venturino « che quasi Proteo si mutava in varie forme», «nato per far tutti i volti ridibondi» “. Più che un personaggio dunque, o un carattere, un attore allo stato puro, che porta in scena le sue bravure tecniche, l’arte stessa del recitare, fatta essenzial-
mente di gesti. Ma anche di parole. Gli sproloqui di cui dà prova nel testo non sono molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto nelle Compositions de Rhetorique: VENTURINO (...) Fontana, fontana, o fontana puttana, dove diavolo se’? TEODORO Udite come la chiama. VENTURINO Orsù al sicuro questa fontana è razza di grillo. Si sarà ficcata in alcun buco, o vero che le sarà venuto voglia d’andar a bere all’osteria, e però l’ostel’averà cacciata tutta nelle sue botti. Olà olà signor Teodoro, ecco la fontana che cammina. Oh cancaro la bell’acqua da stomaco. Madonna dove avete la fontana? TEODORO Oh che furbo. MARINELLA Qual fontana? su; vENTURINO La fontana nascosta, la coperta, quella ch’ha-per siepe tante erbette pelosette; la fontana che spesso per l’inondazione trabocca. TEODORO Eh madonna, ’1 dirò io. VENTURINO Pob, siete pur fastidioso. Costei or ora mi mostrava la fontana, e m’avete interrotto. TEODORO Vuol dir questo mio servitore quella fontana... vENTURINO Quella così larga. Poh tu non intendi. Quella che sta in una certa velena sotto d’un monticello. Oh che diamberne! È così grossa di legname costei; LELIO Com'è ridicoloso costui. Com’hai nome? VENTURINO Chiamatemi. LELIO.
E come?
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VENTURINO Come vi piace. Ho trecentosessantasei nomi. Ogni giorno muto nome. A dirvela ho nome Venturino. x LELIO (...) Dove se’ nato, ch’esercizio, è ‘l tuo, donde vieni, hai danari? VENTURINO Fra le gambe d’una donna, sono spia, vo in calca, vengo da monteforcoli, e non ho un lugagno ®.
L’antologia buffonesca potrebbe continuare con molte citazioni che oscillano tra ilpenchant escrementizio e il dirupo demenziale. Pausa e sperpero rispetto alla fabula, l'inserto aggiunto per vie trasversali, senza essere amalgamato nell’intreccio, è una scoria residua del repertorio comico non sublimato in alta letteratura. Triviale, ma proprio per questo, letteralmente, documento di una pratica e di un uso. Fra itravestimenti di cui Venturino dà prova c’è quello di «un povero mantovano»: VENTURINO Son da Mantoa me, e sont nassud in le cinche rezoli me. LELIO Piglia questa dobla, vivo molto obbligato a cotesta serenissima patria, solio d’eroi, ricetto di mecenati, asilo delle virtù, museo delle maraviglie, teatro delle maggiori cose drammatiche, e coro celeste dove Talia cantando fa della melodia gli ultimi sforzi*.
Le allusioni alla corte gonzaghesca, cosî favorevole ai comici dell’Arte e ai Fedeli in particolare, sono esplicite. Altre battute contengono ulteriori ammiccamenti storici e toponomastici. E di mantovani, nella formazione dell’ Andreini, ce n’era uno solo, il più celebre Proteo comico che girasse allora l’Italia. Nient’altri che il nostro Tristano Martinelli. Venturino parla spesso di sé in terza persona, e una volta parla anche di Arlecchino. Non è escluso che lo faccia pensando a se stesso: SOFISTICO (...) che ufficio tenevi apud, cioè appresso questo signore? VENTURINO Di maggiordomo. soFIsTIco D’architiclino? vENTURINO Che d’Arlecchino? Arlecchino è stato un famoso comico fra’ ridicoli, e chiamossi cugino di tutti iprincipi, e di tutti ire del mondo; è stato la civetta degli uomini, l’allegrezza dei teatri, né chi l’arrivi si trovò, si trova, o troverassi giamai. Ma de’ pari miei centomila ce ne sono nella guardia degli sbirri, per condur voi legato alla galera ©.
Elogio che poteva ben stare alla fine di una carriera gloriosa, quando la maschera occupava un posto del tutto speciale nella comunità comica di Lelio, come abbiamo potuto capire dal suo vivere separato dai compagni, ospite non a caso dell’ambasciatore mantovano in Milano, quel Francesco Nerli a cui il capocomico Lelio aveva dedicato proprio il Lelio bandito. Era quindi comprensibile un’altra concessione alla cronaca: lasciare che il mantovano Martinelli trasparisse in tut-
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ta evidenza con il suo bagaglio di «mattaccino ». Quel fool era molto ben voluto a corte, aveva entrature tali a Mantova e Parigi che era opportuno esibirlo.
5. Venturino parla di sé come di uno che ha lo stomaco « da civetta, da corbo, da aquilone», e di Arlecchino come della «civetta degli uomini». Uno zanni della commedia Lo schiavetto si chiama Nottola. Costui è un «finto conte, guercio e gobbo», capo riconosciuto di una masnada di scrocchi‘“.Nella scena quarta del secondo atto del Lelio bandito, quando Venturino si finge «povero mantovano», Andreini precisa, nelle istruzioni scenotecniche aggiunte in appendice, che saranno necessari «molti stracci per vestir da scrocco Venturino » e an-
che un «boccalaccio o pignataccia per appiccarsi al fianco» : quest'ultima notazione rimanda in particolare alla figurazione arlecchinesca contenuta nelle Corzpositions de Rbetorigue. Non dimentichia52
mo che il nostro Arlecchino Martinelli, oltre a essere un comico mercenario, era anche il sovrintendente di tutti i ciarlatani del Monferra-
to e del mantovano: superiore, ma competente della materia, affine ai suoi sottoposti, che erano appunto una strana gentaglia molto più somigliante ai fraudolenti scrocchi che ai comici professionisti. I primi, d’altra parte, non erano attori inferiori ai secondi, e tutta la prima parte della commedia è dedicata a celebrare la loro abilità istrionica. Lo schiavetto era stato dedicato ad Alessandro Striggi, ambasciatore mantovano in Milano. La dedica è datata 6 ottobre 1612 ‘. Quello stesso giorno l’Arlecchino Martinelli scriveva al duca Gonzaga con il solito stile buffonesco: Esendo noi in carozza a Mantova per partire per Fiorenza con la compagnia, arivò un coriero con un plico della comadre cristianissima indrizatta alla nostra persona”.
ù
La lettera era di Maria dei Medici che dalla Francia reclamava il suo comico prediletto, conosciuto e apprezzato al tempo delle nozze con Enrico IV. La richiesta era stata avanzata da tempo e riguardava un'intera compagnia che Arlecchino avrebbe dovuto raccogliere e condurre oltre le Alpi. Giovan Battista Andreini e la moglie Virginia (a quel tempo ben più famosa e richiesta del marito) si erano fatti
avanti, e fin dall’agosto avevano cercato una buona raccomandazione presso il cardinale Ferdinando Gonzaga e presso lo stesso duca Francesco:
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Più volte hammi chiamato la fortuna verso le parti di Francia come dalle lettere di favore fattemi dalli suoi serenissimi genitori (che Dio habbia in gloria) si può vedere; hora di novo colà sono chiamato, pertanto m'è caro sì servir l’Altezza Vostra, ma punto non m'è discaro l’andare ancor colà a provar mia fortuna”,
La dedica della commedia al rappresentante ufficiale dei Gonzaga in Milano rientrava perfettamente nella strategia di autopromozione. Lo schiavetto dovrà essere considerato come lo specizzen di una produzione scenica che si vuol dimostrare all'altezza degli scambi internazionali e diplomatici che sono richiesti. Arlecchino, Lelio, Florin-
da, e gli attori presenti in quel momento tra i Fedeli dovevano trovare nella trascrizione a stampa della commedia una veritiera descrizione dei loro meriti. Come avverrà nel 1620”. Nonostante le interferenze dell’ambiziosa Florinda, fu Arlecchino a condurre la trattativa. E lo fece secondo la schiettezza e la brutalità che gli abbiamo riconosciuto fino dal 1600: la mia cara comadre Galina (...) mi consolla sempre in el ultimo delle sue reggie letere dicendomi et più volte replicandomi: « Venite signor Arlechino da noi che vogliamo incatenare il nostro comparagio». O belle parolle, et in tute le sue letere che la mi scrive la si aricorda di meterci questa bellissima clausa che tanto piace et diletta alla nostra persona (...) aricordandovi che l’amore vien da l’utile, et se voi non mi avesti più volte vesitatto con pavoni, nedrazzi, caponi, formaggi, lonze de
vitello, bulbari et quel che più importa certe doble ongare et altre gentileze, se non avesti fatto così la nostra micicia non sarebbe andatta inanti, perché delle
chiachiere et delle parolle non ò bisogno, perché io ne fo mercancia, et le vendo a bon mercato a una barbarina ogni sera, che ce ne volle tre hore ”.
A lui che vende parole e chiacchiere, le parole e le chiacchere non interessano. Fatti ci vogliono, e cioè molti regali e molte doble e, soprattutto, la solita indimenticabile catena d’oro con cui incatenare il comparaggio”.
Quando poi il viaggio «nel bel regno dalle doble et scudi del sole»” ebbe corso, il Martinelli tenne il conto dei ducati e dei ducatoni con molta attenzione: a Torino «ci habbiamo fatto sette commedie,
et in capo di tredici giorni, con molte cerimonie di complimenti, con un affronto di ducatoni quatrocenti, e cento ne diedi il signor duca di Bel Humore»; a Chambéry ci fu «un altro affronto di ducatoni cinquanta per una comedia » e il pagamento di «tute le spese cibatorie »; a Lione furono recitate in pubblico quattro commedie: «la prima si è fatto ducatoni sesanta e cinque, la seconda trenta e cinque, la terza per essere festa, settanta, et la quarta sesanta, senza la manza che si aspetta da questi signori»”. Ma il trionfo di Arlecchino fu naturalmente in Parigi:
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oltra a molte belle parolle che Sua Maestà mi disse, la mi menò nel suo gabinetto e mi mise una colana di sua mano al collo che pesa duicento doble con la sua medaglia in favore dil nostro comparadico *.
Era la «medaglia, attachée à una grossa chaina», la mitica «pesanta» chiesta nel 1600. Almeno tre, di collane, ne esibisce Nottola nel primo atto dello Schiavetto in un calcolato delirio d’oro e diamanti. Egli è, tra gli scrocchi, un principe. Guarda con disprezzo i suoi compagni ciurmadori: Orst vedete, furfanti, quanto avete me caricato di pugna, tanto ho voluto caricar voi altri d’oro. Ora andate alle forche, canaglia, ché bene solamente siete degni d’abitare i cagnardi, le bettole, e di morire su la paglia, cibo di piattole e di gualdi! Non meritavate di stare appresso un principe come io sono”.
Anche Arlecchino, buffone parveny, durante il viaggio aveva trovato il tempo per reclamare il rispetto del suo titolo di re dei ciarlatani scrivendo al duca di Mantova: costi n’è stato usato un affronto, che non vogliono ubedire il previlegio che per vostra gratia mi havete donato; però commandate alli signori del Magistrato che faciano ubbedire, et im particulare quel molto bestia fututa et mio carissimo inemico di quel Riva, che à la piaza affito, che non vole che i ciarlatani metono i suoi banchi nella piaza ordinaria, ove la soliono metere sempre, senza pagare mai niente se non a noi: però se desiderate che il previlegio guadagnia qualche cosa fate che detto Magistrato facia giustitia, che sia ubedito il vostro previlegio, se non lo potremo adoperare da fare un bastone da comedie ”. SI
E sappiamo con quanta avidità e precisione Arlecchino amministrava i suoi lauti guadagni, investendoli in beni immobili nel mantovano o depositandoli a interessi vantaggiosi, concessi in via eccezionale dal granduca, al Monte di Pietà di Firenze. La sicurezza di Arlecchino era una rendita parallela al mestiere comico ”. Il potere di Nottola è l’oro: Mirate, che dite? Il folgorar dell’oro e delle gemme non v'abbagliano? Non vi par di mirare (disceso in terra) il sole?
Come principe fasullo e buffonesco distribuisce «una catena d’oro di quelle grosse» a Succiola, aggiungendovi poi «venticinque piastre fiorentine». E ripete il gesto in una iterazione folle e patologica: Vi getto al collo questa catena di cinquecento scudi d’oro.
Or pigliate questa catenuccia di diamanti, con questo gioiello di settanta libre, gettateglielo al collo. Mettete colà a’ piedi suoi tutto quello argento, o così. Signora Prudenza, tutto quello argento, che raccogliendo da terra potrete portare in casa, tutto è vostro, tutto io vi dono. Paggi, immaginatevi ch’io sia un cielo, nel cielo vi è il sole, ch'è giallo, e la luna, ch’è bianca. Dal cielo né il sole né la luna giamai si partono, similmente voi altri da
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me non v’allontanate giamai, ma l’uno alla destra, l’altro alla sinistra mi stia, con
queste due sottocoppe grandi, larghe e pesanti. L’un sarà il tondo del sole, e sarà questa dove sono gli scudi d’oro, l’altra sarà il tondo della luna, e sarà questa con tanta moneta d’argento ®.
Nottola è l’officiante della « celebrazione rituale del diluvio » © di origine medievale e carnevalesca, che rovescia sulla scena pantonime, gags, giochi di parole, oro, dobloni, ininterrotte serie di cibi, e natu-
ralmente tutti i depositi del basso ventre:
NOTTOLA Olìà, olà! a chi dich’io? Canaglia, canaglia, venitemi a slacciare or ora le calce! Presto, presto, ché mi si è mosso il corpo! GRILLO Son qui, son qui, signore. RAMPINO Vedete, signore, questo, che in casa parla, è il principe tanto glorioso. NoTTOLA Furfante, adesso se’ venuto, eh? GRILLO Nostra signoria s'è cacato addosso, non è così, signore? NOTTOLA Nonlo senti? Piglia qua, ché ti dono questi calzoni. RAMPINO Insomma signore, egli è il più liberale uomo del mondo. ALBERTO E che bei doni profumati. NOTTOLA Da’ qua quegli altri bragoni. GRILLO Eccoli signore. NOTTOLA E pure in questi cacai l’altro giorno ancora! To’ non li voglio. ALBERTO Signor maggiordomo, dicami, in grazia, come s'addimanda questo
prencipe? Il prencipe cacone? £.
Venturino
«mezzo pazzo» non era da meno nel Lelio bandito:
VENTURINO Sf, ma se m’atrabbio la prima volta che me la cavate, vi mangio in pezzi, e poi vi caco in bocconi.
VENTURINO torno. SARDELLINO VENTURINO
Signori ho voto di non bere, se prima non piscio una volta. Or ora No, no, pisciati addosso. Pur ch'io non vi cachi ancora, o povero me ®.
La figura fisica di Nottola è accostata esplicitamente al corifeo del Giovedî Grasso, a Berlingaccio: Non è troppo bello ma ricco tanto, tanto che istupisco: egli è mezo zopito, va caminando a tentone, a tentone; ha un certo viso di grifo; egli è zacconato e caputo;
è gozzuto e naticuto come una mosca culaia; si scorubbia per nulla; ha un certo tintinno d’una voce fastidioso; è lercio e più che isciudicio; ha il piede bovino, la mano a uncino, l'orecchio caprino, l’occhio porcino e le ciglia congiunte; è gobbo, guercio, e ha quattro fontanelle, e il brachiere; senza quegli abiti pare uno che nato sia per guardar zebe, ma con que’ panni d’oro, pare il Berlingaccio vestito da festa”.
Figurazione che ricorda il Bertoldo di Giulio Cesare Croce °, ma anche il proto-Arlecchino, mezzo diavolo e mezzo bestia, capo della masnada infernale, principe del mondo alla rovescia, re del carnevale
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Capitolo quinto
e della follia. Appartengono al medesimo repertorio connotativo la voce e la gobba animalesche che ricordano i tratti tutt'altro che raffinati che lo stesso Martinelli aveva attribuito al suo Arlecchino, curvo,
dal viso bestiale, prolifico generatore di una masnada di Arlecchini, nelle incisioni delle Compositions de Rbetorique. Aggiungerei anche
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le danze sfrenate in cui Nottola si esibisce alla fine del terzo atto, la battaglia di pugni della fine del secondo, le acrobazie sul tetto alla fine del quinto, le cascate (il Martinelli fu, fino a tarda età, un provetto
cascatore) come quella che egli compie dal trono dopo essersi addormentato in piena «udienza»: «Oh con quanta maestà stravacante riposa, tenendo l’una e l’altra gamba sui manichi della seggiola» “. È questo il punto da cui lo studioso potrebbe proseguire per collazionare altri tratti pertinenti del proteiforme Nottola-VenturinoArlecchino con quelli che la tradizione assegna al popolo di buffoni carnevaleschi del folklore romanzo”. Ci accorgeremmo allora che l'attore mantovano mantiene stretti legami con i tricksters e conserva molte prerogative del briccone divino: il suo frenetico trasformismo (che comprende anche la capacità di assumere sembianze animali), la mobilità quasi soprannaturale e l’instabilità viatoria (che apparteneva all’attore Martinelli come all’Arlecchino de civitate Novalensis, come al turbinoso Venturino) “, l’inclinazione a un linguaggio enigmatico e profetico (si ricordi la divinazione del foo/
«insomniato » nelle Cor-
positions), la capacità di fomentare discordie e disordini, la sua doppia natura di sovrano e servo, metà regale e metà buffone, aereo e inferico, sapiente e stolto, raziocinante e paralogistico. Sembra che Arlecchino-Venturino-Nottola in questo modo opponga un’istintiva estrema resistenza alla modernizzazione indotta dalla mercatura teatrale. La perfetta integrazione nel collettivo della compagnia professionistica, cosi come era voluta da don Giovanni o dall’Andreini, avrebbe signiticato abbandonare quella doppiezza che lo faceva essere, nello stesso tempo, un re arlecchinesco e unì comico regale, l’oggetto e il soggetto della parodia, lo spettacolo e lo spettatore. Una totalità di funzioni ormai rara tra i comici professionisti nell’esercizio delle loro « parti» in commedia, per cui il citato sberleffo al «principe cacone», le allusioni irriverenti alla « comadre gallina regina dei galli», al «compare gallo dalla testa rossa», lasciavano sempre vedere, dietro all’innalzamento burlesco del buffone, la più importante degradazione del sovrano. A differenza della drammaturgia generale in cui è inserito, e in cui Andreini darà alle metafore di volta in volta proiettate in scena una direzione e un senso, Arlecchino, quando è in azione da solo (ma anche nelle lettere che scrive personalmente al reo
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alla corte mantovana) non lascia mai capire se la metafora di cui è au-
tore e interprete mette in scena un demente bestiale fatto re o un re che è bestia e pazzo. Per quanto posto sotto tutela dalla cattività andreiniana, proprio Nottola confermava al nonsense di Arlecchino un’inedita connotazione politica fortemente determinata dal contesto storico mantovano. Lo stesso cerimoniale rovesciato con cui Nottola viene fatto sedere sul trono, accompagnato fuori scena dal corteo delle «ventaiole », dopo essere stato omaggiato di doni e di regali dai sudditi paurosi e servili, insieme a tutto l'apparato cortigiano che lo circonda, lasciano pensare a un attento esercizio parodico in sintonia con i riti festivi della corte mantovana. Si pensi anche alla decisione di Nottola di mandare a cercare la Fenice per procurarsi degne «ventaiole» (1.7.59), allusione comica alle manie di Vincenzo Gonzaga di collezionare rarità esotiche; il riferimento ai «cani levrieri» (1.5.20-21) forse
vuole mettere in ridicolo gli stravaganti scambi di donativi in uso a corte. Si veda ancora (in III.5) la comica investitura di Alberto con-
te, che può ricordare l'ambizione del vecchio duca Vincenzo di costituire, con modi ormai desueti, quasi donchisciotteschi, un ordine ca-
valleresco come quello del Redentore inaugurato nelle feste del 1608”. Ma non è da trascurare neppure l'abbondante intrusione della cronaca e del costume che l’autore-scrittore accetta volentieri per impinguare la sua trama, quando sceneggia la satira degli ebrei (II.6-11) che proprio nel 1612 furono rinchiusi nel loro ghetto mantovano e quindi potevano utilmente essere adoperati come materiale comico di facile e vile successo. 6. Una maschera unica dunque l’Arlecchino delle Corpositions, il Nottola dello Schiavetto e il Venturino del Lelio bandito, di cui possiamo, una volta analizzate con minuta pazienza le « parti», ricostrui-
re il profilo: conosceremo cosî non solo il personaggio, ma anche l’attore, con la sua tecnica e il suo repertorio. Il confronto con l’epistolario di Tristano Martinelli, protratto con maggiore puntigliosità di quanto non abbiamo fatto, consente di restituire un’inedita e rara figura d’autore, il cui unico difetto, rispetto a chi dette alle stampe commedie scritte per esteso, fu quello di badare solo a se stesso. « Voglio che sia tutto al contrario » ” è la battuta-epigrafe di Nottola, ma è anche il senso unico delle Corzpositions. Un nonsenso, o se si vuole, un senso esclusivamente parodico, difficilmente riducibile all’economia della fabula, alla serietà letteraria e teologica a cui andavano in-
ata
Capitolo quinto
contro le operazioni editoriali di Andreini, Cecchini o Scala. E dobbiamo quindi al rapizzento di Martinelli ad opera dell’Andreini, alla cattura dell’arte del buffone, documentata almeno in due opere, se
siamo adesso in grado, per via di labili ma provate congetture, di restaurare un frammento dello spettacolo del secolo xVII. Nel 1600 l’attore-buffone, l’attore-teologo, l’attore-letterato avevano agito separatamente. Il buffone Martinelli aveva parodiato l’autore con un libretto che era il rovesciamento della presunzione scrittoria, offrendo al re di Francia un’opera che era il contrario di se stessa. Il Cecchini aveva annesso la teologia al mondo dei comici saccheggiando san Tommaso e i suoi chiosatori vicini e lontani, per dimostrare la serietà della sua arte. Lo Scala aveva rapito un manoscritto letterario per avvalorare la dignità del mestiere. Tutti e tre, in parallelo, avevano seguito la loro strada. Andreini riuscî invece a conciliare il buffone, san Tommaso e la letteratura. La teologia l’aveva già incorporata con l’innesto del Trattato, edito nel 1604, nella Saggia egiziana, il territorio letterario era stato occupato con l’accademica tragedia La Florinda, con le rime de I/ pianto d’Apollo e de Lo sfortunato poeta, con La Maddalena”.Ilbuffone era il più difficile da domare ma anche
il più importante da sottomettere. Con le edizioni del 1611 e del 1612 I’Andreini compî il primo tentativo. E nel farlo operava come un nuovissimo drammaturgo. Non metteva quasi niente di suo, non si faceva demiurgo, creatore e inventore come i grandi predecessori cinquecenteschi. Scopriva che per restaurare l’autore bastava procedere a un lavoro di raccolta, selezione, unificazione dei dati esistenti. A suo modo era un realista. Si atteneva al presente, accettava i suggerimenti, componeva a richiesta. Un vero riformatore ha la personalità che gli consentono di avere gli altri. Andreini era un riformatore e, come tutti gli attori, un conformista. La sua invenzione fu presa in prestito dalla poetica d’Aristotele, dopo essere stata collaudata da alcuni decenni di esperienza scenica. Era la fabula. Lo avrebbe detto anche un altro attore-autore, Nicolò Barbieri: «una ben ordinata favola è il vero gusto dello svegliato intelletto»”. Flaminio Scala aveva esaltato quella virtà pubblicando un libro di soli intrecci, I/ teatro delle favole rappresentative: ovverosia, parafrasando Barbieri, come dare ordine e disciplina verosimile al disordinato mondo dei buffoni e dei comici. Andreini pubblicava anche per dimostrare che il vero comico era nettamente diverso dal buffone e dal ciarlatano ordinario: Ora, da questo, e da altri suggetti miei (...) conoscer ciascuno potrà che que’ comici, che tali favole annodarono e disciolsero, furono gente che s’affaticarono in
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conoscer l’arte del comporre, e in sapere quanto più dell’altr’uomo quello sia, che la virtù, che l’onore, seguita”.
Un buffone come Arlecchino era tanto indispensabile per aprire le frontiere di Francia, quanto refrattario all'arte del comporre. Questa presupponeva il rispetto delle regole (letterarie e morali), la prevalenza dell’utile sullo spreco comico, il senso (se non il contenuto) di una storia. Tutti legami e valori estranei ad Arlecchino, il quale del resto era attore, ma anche autore di se stesso, autosufficiente interprete di un non personaggio, di un non senso, sovvertitore di qualunque ruo-
lo definito. Tanto è vero che la cucitura delle parti, la stesura della commedia, sarebbero riuscite compiutamente all’ Andreini solo più tardi, almeno dieci anni dopo, quando si sarebbe sbarazzato di questo e di altri zanni, e quando al centro delle sue storie avrebbe potuto piazzare i ruoli degli «amorosi». L’estendersi della loro zona d’influenza dette unità alle pièces, tolse inutili sprechi comici, assegnò il primato della commedia all’intreccio letterario e al senso morale. Lelio bandito fu forse l’ultima commedia che nacque sotto il segno del patto sociale con il buffone, ma anche la prima a intraprendere la nuova convenzione di tipo /armzoyant e mediano. Ma questa è un’altra avventura di cui parleremo pit avanti. Per ora ci fermiamo qui a osservare, ancora incerto, il duello tra lAndreini e Arlecchino, tra l’autore e la tradizione degli zanni e dei buffoni che mai scrissero e stamparono le loro «parti». Costoro furono servi dei loro padroni, ma padroni del loro mestiere. Autori e organizzatori di se stessi, gelosi della loro solitaria indipendenza, anche quando il rinunciarci avrebbe potuto significare una maggiore solidarietà corporativa. Giovan Battista Andreini seppe rapire quel buffone, quei buffoni, alla loro indipendenza, li incastonò come fossili nelle sue opere, e li esautorò di qualunque potere.
Andreini aveva anche capito che il lavoro drammaturgico dei capocomici dell’arte era soprattutto un fatto organizzativo. Scrivere una storia dipendeva dagli attori che si avevano a disposizione, mentre dalla storia dipendeva la possibilità di quegli attori di coesistere tutti insieme sullo stesso plateau. L'autore avrebbe potuto dominare la fabula solo dominando la compagnia. Alla figura mercenaria del buffone egli aveva contrapposto le virtii teologiche e letterarie. La presa del potere avrebbe potuto essere completa quando il capocomico, il vero capo della ditta, si fosse collocato al di sopra delle parti, disinteressato come individuo, investito di un compito sociale. Salendo al trono Andreini si servi della sua Lady Macbeth:
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Capitolo quinto il carico di far la compagnia lo debba aver io e mio marito, per non perdere l’ordine che in queste parti abbiamo di farle, come al presente io ho la meglio compagnia che reciti, dov'è pur Arlecchino, perché l’aver Arlecchino mendicata l’autorità di far lui la compagnia non piace ad alcuno. E quando lui farla dovesse, alcun comico seco non avrebbe, sapendo che è troppo interessato ”?.
Queste parole furono scritte nel 1611 e non ebbero subito l’effetto sperato. Per molti anni il Martinelli rimase l’uomo di fiducia per le spedizioni d'oltralpe. Quando venne il tempo della partenza del 1620 Giovan Battista Andreini aveva meglio imparato la lezione. Arlecchino venne tollerato come capocomico associato nella fase preparatoria
milanese quando la sua alleanza e il suo prestigio potevano facilitare il varo della compagnia e la sconfitta del comune nemico FrittellinoCecchini. Ma dopo, una volta in Francia, Arlecchino non avrebbe più avuto scampo: essere rapito e imprigionato dentro alla compagnia, e
quindi dentro la commedia, di proprietà degli Andreini oppure scappare dalla compagnia e dalla commedia: Arlecchino, che sempre si cavò i suoi gusti con i disgusti altrui (...) disse di volersene fuggire per non ubbidire, e così ha fatto cinque giorni sono, essendo già partito e avendo lasciato detto fra” compagni che Vostra Altezza gli crede ogni cosa, e che ha dalle sue la serenissima padrona, l’eccellentissimo principe e l’eccellentissima principessa, e che a tutte vie l’imbroglierà ”.
Era il destino comune a tanti altri zanni senza autore, ai manoscritti
fantasma vaganti anonimi e figli di nessuno, al di là delle mura del testo. Quella lunga teoria di ombre che con il loro petulante fracasso costituirono la tradizione muta della commedia italiana.
! La prima edizione moderna, e integrale, del libro, il cui originale unico è conservato nella Réserve della Biblioteca Nazionale di Parigi, fu curata da A. Beijer, Recuezl de plusieurs fragments des premières comédies italiennes qui ont été représentées én France sous le règne de Henry IV. Recueil dit de Fossard, conservé au Musée National de Stockholm [...] suivi des Compositions de Rhetorigue de M. Don Arlequin, présentées par P. L. Duchartre, Duchartre et Buggenhoudt, Paris 1928 (ristampa anastatica Librairie Théatrale, Paris 1982). Riproduzioni parziali si trovano in L. Rasi, I corzici italiani cit. vol. I, pp. 97-101; P. L. Duchartre, The Italian Comedy, Dover Pub., New York 1966, pp. 123-34 e 313-48 (è la ristampa anastatica della traduzione inglese, datata 1929, del libro apparso nel 1925 con il titolo La Corzzzedia dell’Arte, Librairie de France, Paris: solo questa edizione comprende la riproduzione delle planches dedicate ad Arlecchino; una versione ampliata dell’opera è apparsa nel 1955, a Parigi, per le Éditions d’Art et Industrie, con il titolo La Commedia dell'Arte et ses enfants, ma non contiene che sporadiche riproduzioni del libretto); F. Taviani e M. Schino, I/ segreto cit., pp. 46-47. Si vedano anche A. Baschet, Les comédiens cit., pp. 116-18; D. Gambelli, Arlecchino dalla preistoria a Biancolelli, in «Biblioteca Teatrale», n. 5 (1972), pp. 53-55. ? Perla verità S. Mamone, Firenze e Parigi cit., p.137, ha scoperto che quell’indicazione poteva forse alludere, molto più prosaicamente, alla toponomastica di Lione, e in particolare al quar-
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tiere (detto appunto Le bout du monde) in cui risiedeva la maggior parte degli stampatori della città. L'eventuale ambiguità del connotato non attenua comunque l’allusione inferica. w Altri indirizzi burleschi di Arlecchino si trovano nelle numerose missive da lui scritte ad altri potenti. Si veda la soprascritta della lettera a Ferdinando Gonzaga, da Lione, 26 agosto 1613, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 183v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 32: «Al nostro compadre carissimo don Ferdinando Gonzaga, primo cittadino di Mantova, signor di Marmirolo, priore della Montada et parone absoluto del ponte di Marcheria, in la città di i bulbari, trivoli, invidia e luvini, dove sta monsù Arlechin». FS Il raro Trattato, di cui una copia è conservata alla Biblioteca dell'Arsenal di Parigi, è segnalato da S. e P. H. Michel, Répertoire des ouvrages imprimées en langue italienne au xvIr siècle, Olschki, Firenze 1970, vol. I, pp. 136-37. Su Il Postumio cfr. A. Baschet, Les comédiens cit., p. 120. I) Sappiamo che Maria dei Medici arrivò a Lione il 3 dicembre, che re Enrico la raggiunse il 9, che il Legato pontificio sopraggiunse il 14, e che il matrimonio fu celebrato il 17; nella Dedica del Trattato il Cecchini parla dei «trentasei giorni di vacanza che ha avuta la compagnia per attender la venuta felice della singolare in virtii et in bellezza, regina Maria». Gli attori sarebbero quindi arrivati nella città francese il 29 ottobre. Secondo quanto si legge nel Diario del viaggio fatto dal cardinal P. A. cit., lo Zametti avrebbe avuto un ruolo molto importante nelle accoglienze lionesi e parigine della sposa regale. Non solo l’ospitò nel suo hétel particulier in attesa che fossero sistemati gli appartamenti reali al Louvre, ma proprio a Lione si dette da fare per metterla a suo agio: «la menò l’altra sera a cena dal Zametti, in casa del Bonvisi dove si recitò una commedia e si stette con molto piacere ma i nostri si sono scandalizzati che si facesse il banchetto la vigilia di San Tommaso» (ivi, cc. 2000-2017). Per una trascrizione parziale e un commento al Diario cfr. S. Mamone, Feste e spettacoli a Firenze e in Francia cit., pp. 206-28. Sebastiano Zametti (nato a Lucca nel 1549 e morto a Parigi nel 1614) fu un provetto arrampicatore sociale. Da addetto al guardaroba di Entico III arrivò a essere uno dei più influenti finanzieri della corte di Enrico IV; rispettato da Sully, temuto dagli altri, faccendiere, mezzano del re, politico abile, svolse un ruolo di mediazione tra cattolici e ugonotti, ottenendo anche titoli nobiliari e incarichi di grande rilievo. Lo troviamo più volte destinatario di opere a stampa dovute a comici italiani: le Lettere facete e ghiribizzose di Vincenzo Belando (L’Angelier, Paris 1588) che fu al suo servizio fin dal 1580, le Rizze di Isabella Andreini (Monstr’ceil, Paris 1603), oltre al già citato Posturzio dello Scala. Le citazioni che seguono so-
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no tratte appunto dalla dedica della commedia, datata 1° gennaio 1601; la dedica del Trattato del Cecchini, da cui sono tratte le citazioni seguenti, è invece del 20 dicembre 1620. Roger de Saint Lary, duca di Bellegarde (1563-1646), soprannominato Monsieur Le Grand, dopo essere stato un fedele di Enrico III, passò al servizio di Enrico IV, che assecondò nelle
avventure di pace e di guerra. Brillantissimo cortigiano, assiduo nella vita festiva e galante, fu scelto dal re quale suo rappresentante nelle nozze per procura di Firenze. Accompagnò Maria nel viaggio a Marsiglia e a Lione, ed era quindi all’epoca della dedica del Cecchini ilpersonaggio più in vista dell’enzourage reale. Dopo la morte di Enrico IV, avversato dal Concini, perse quota, fino al momento in cui l'ascesa al trono di Luigi XIII gli restituî (1617) i titoli che gli erano stati tolti durante la Reggenza. In seguito dovette subire l’ostilità di Richelieu prima di concludere di nuovo in auge la sua vita nel 1646. N Cfr. Delle rime e prose del sig. Torquato Tasso nuovamente poste in luce. Parte quarta, Tini, Milano 1586. Su Gherardo Borgogni (1526-1608 circa) e i suoi rapporti con Tasso, gli attori e le attrici si vedaF. Taviani, Bella d’Asta cit. CO) Cfr. Il Tancredi. Tragedia del signor conte di Camerano dal signor Gherardo Borgogni di nuovo posta in luce. All’illustrissimo signor conte Giovan Battista Borromeo, Ventura, Bergamo 1588. Sul conte di Camerano, Federico Asinari (1527-75), si vedano: G. F. Galeani Napione, Vita di Federico Asinari conte di Camerano, in Vite ed elogi d’illustri italiani, Capurro, Pisa 1818; F. Neri, Federico Asinari conte di Camerano, poeta del secolo xvII, in
«Memorie della R. Acca-
demia delle Scienze di Torino», serie II, tomo LI (1902); C. Mutini, alla voce relativa in DBI,
vol. IV, pp. 392-93. Sulla questione della tragedia pseudotassiana hanno scritto: A. Zeno, Annotazioni, in G. Fontanini, Biblioteca dell’eloguenza italiana, Pasquali, Venezia 1753, vol. I, p. 381; G. M. Crescimbeni, Comentari intorno alla sua istoria della volgar poesia, Basegio,
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Capitolo quinto Venezia 1731, vol. I, p. 309; G. B. Parisotti, Discorso sopra il Tancredi tragedia del conte di Camerano, in A. Calogerà, Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, Zane, Venezia 1741, vol. XXV, pp. 339-48; A. Zeno, Lettere, Sansoni, Venezia 1785, vol. III, pp. 239 sgg.; F. Rizzi, Tra i lirici parmensi del Cinquecento, in «Aurea Parma», v (luglio-agosto 1927), p. 226; V. Cian, Le lettere e la cultura letteraria in Piemonte nell'età di Emanuele Filiberto, in Studi pubblicati dalla R. Università di Torino nel IV centenario della nascita di Emanuele Filiberto, Tip. F. Villarboito, Torino 1928, pp. 395-97.
Il confronto dell'edizione pseudotassiana di Parigi con la bergamasca non rivela varianti di rilievo. Le più significative discordanze sono da addebitare a errori meccanici del tipografo francese. È dunque ipotizzabile che le due stampe derivino da un’unica tradizione. Non ci sarebbe quindi stato nessun intervento del Lombardi, come sembrerebbe invece attestato, stando alle accuse raccolte, per l’altro suo plagio, la Fi/lide, di cui si parla poco oltre. Cfr. F. Taviani e M. Schino, I/ segreto cit., pp. 355-60 e 482-83, nota 42. A(A Cfr. Notizie istoriche delle Accademie letterarie ferraresi, scritte dall'abate Girolamo Baruffaldi secondo, aggiunti in fine alcuni sonetti dello stesso autore, Rinaldi, Ferrara 1788, pp. 21-22: «Bernardino Lombardi stampò la sua Fi/lide, favola pastorale, sotto il nome d’Accaderzico Acuto Rinnovato, impressa in Ferrara, presso il Baldini, 1579, e dello stesso autore si hanno alle stampe: Discorsi recitati nell'Accademia de’ Rinovati di Ferrara a favore della Lingua, in Ferrara, per Benedetto Mamarello, 1583». La notizia fu raccolta da L. Ughi, Dizionario storico degli uomini illustri ferraresi, Rinaldi, Ferrara 1804, vol. II, p. 43, e da M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Cappelli, Bologna 1926-30, vol. IV, pp. 462-63. Ma cfr. anche, per una tradizione parallela, F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Agnelli, Milano 1741, vol. II, parte seconda, p. 242 e ivi 1744, vol. III, parte seconda, p. 400, e L. Allacci, Drammaturgia cit., col. 352. LS] Fillide, egloga pastorale di Camillo Della Valle, Baldini, Ferrara 1584, c. 20; la dedica è indirizzata alla signora Lodovica Pepola Poggi ed è datata 17 agosto 1584. Dello stesso autore si veda l’altra pastorale Gelosi amanti, Baldini, Ferrara 1585. Secondo F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia cit., vol. II, parte seconda, p. 242, la Fi/lide sarebbe stata dedicata all’attrice Vittoria Piissimi; la notizia è ripresa senza ombra di dubbio da L. Rasi, I corzici italiani cit., vol. II, pp. 287-88. F. Scala, I/ teatro delle favole rappresentative cit., tomo I, p. 4 (L'autore a’ cortesi lettori). Cito dall'edizione moderna in Commedie dell’Arte cit., vol. II, p.115 (dedica Alla serenissima Madama Cristiana di Francia, principessa di Piemonte). v
Cfr. La venetiana.
Comedia de sier Cocalin dei Cocalini da Torzelo, Academico Vizilante dito el
Dormioto. Dedicà al molto ilustre signor Domenego Feti, depentor celeberimo, Polo, Venezia 1619 (la dedica è in versi e risale forse all’inizio di novembre); La venetiana. Comedia de sier
Cocalin dei Cocalini da Torzelo Academico Vizilante dito el Dormioto. Dedicata al molto ilustre signor Francesco Arrighi. Nuovamente data in luce, Raimondi, Venezia 1619 (la dedica, datata 20 dicembre 1619, è firmata dall'editore). Sui problemi relativi alle due ristampe si veda A. Bardi, Appunti su «La Venetiana» di Giovan Battista Andreiniin «Quaderni di Teatro», n. 24 (1984), pp. 40-49; ma cfr. anche G. Cozzi, Tra un comico-drammaturgo e un pittore del Seicento: Giovan Battista Andreini e Domenico Fetti, in «Bollettino dell’Istituto di storia della società e dello stato veneziano», I (1959), pp. 193-205. Lo stampatore a chi legge, in La Campanaccia, comedia piacevole e ridicolosa del signor Giovan Battista Andreini comico Fedele detto Lelio, Salvadori, Venezia 1623. Pet la prima edizione
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cfr. La Campanazza. Comedia di Giovanni Rivani detto il Dottor Campanaccio da Budri, [Della Vigna, Paris] 1621. Grazie alle ricerche di A. Zinanni, «La Campanaccia» di Giambattista Andreini: Graziano in commedia, tesi di laurea da me discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze (anno accademico 1984-85), sappiamo che quella stessa edizione venne messa in circolazione con tre diversi frontespizi opportunamente modificati: uno contiene la dedica al duca di Guisa, pari di Francia e legato alla fazione filomedicea; un altro si rivolge al re Luigi XIII; un terzo, sempre dedicato al re, è però datato 1622. D. Bruni, Prologhi. Parte seconda cit., pp. 388-89. N. Barbieri, La supplica cit., pp. 23 e 34.
Arlecchino rapito
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! L’accenno alla stampa genovese del Trattato è fatto da Taviani, ibîd., p. 135, dove l’operetta viene senz'altro attribuita al Barbieri. Nessuno cita invece la pubblicazione del Trattato in appendice al Discorso famigliare del ‘28, e lo stesso Taviani, che riproduce il commento alla silloge (cfr. idid., pp. 135-37), non lo menziona. Di quello stesso anno è la stampa apparsa in Ferrara, presso l’editore Suzzi. Per le altre edizioni cfr. rispettivamente: Trattato sopra l’arte comica cavato dall’opere di S. Tomaso, e da altri santi, d’un M. R. P. teologo degli Andreini, Timan, Firenze 1604 (l’operina fu stampata congiuntamente a La saggia egiziana. Dialogo spettante alla lode dell’arte scenica di Giovan Battista Andreini fiorentino comico Fedele, ed è, come quello, dedicata a don Antonio dei Medici); Trattato sopra l’arte comica cavato dall’opere di S. Tomaso e da altri santi, Discepolo, Viterbo 1611. L’unico a essersi accorto dell'edizione viterbese, e a mettere in dubbio la paternità di Andreini o Barbieri, è stato L. Mariti, Corzzzedia ridicolosa cit., p. CKLVI, nota 4r. 2 Nonostante numerose ricerche condotte sull'argomento, non è stato possibile raccogliere notizie più precise circa questo illustre parente degli Andreini. Si segnala comunque, per completare l’informazione, che un altro Andreini, Pietro Paolo, fratello di Giovan Battista, monaco vallombrosano, risulterebbe autore di un altro trattato di argomento teatrale: Quaestiones de re histrionica ritu theologali pertractata, in quibus disputatur, sit ne morale peccatum histrionem agere (cfr. Dizionario storico biografico di scrittori letterati ed artisti dell'Ordine di Vallombrosa, compilato da T. Sala e pubblicato per le stampe da F. Fedele Tarani, Tip. dell’Istituto Gualandi Sordomuti, Firenze 1929, vol. I, p. 22). 21 Il Trattato venne inglobato dall’Andreini dopo l’amputazione della parte centrale (cadono quattro pagine, da p. 5 a p. 8 fino al penultimo capoverso), con ritocchi minimi negli altri luoghi. L’inserimento del Trattato è segnalato da una formula: « Additur pro veritatis elucidatione ex diversis Doctoribus Ecclesiae Sanctae Dei et aliis gravissimis patribus». 2 Segnalo che già Vito Pandolfi aveva riprodotto un manoscritto del Trattato, ma senza rendersene conto. In La Commedia dell’Arte. Storia e testo, a cura di V. Pandolfi, Le Lettere, Firenze 1988 (ristampa anastatica a cura di S. Ferrone dell'edizione del 1957-61), vol. IV, pp. 78-90, egli pubblicò il Discorso sopra l’arte comica con il modo di ben recitare, trascrivendo una copia manoscritta (dell’originale un tempo giacente alla Biblioteca Nazionale di Torino e oggi perduto) conservata per merito di Luigi Rasi alla Biblioteca del Burcardo di Roma. La copia Rasi, pur modificando il titolo dell’operina edita a Lione nel 1601, non si distingue dalla stampa Roussin che per la dedica. Lo stesso Trattato confluisce identico nei Brevi discorsi intorno alle comedie, comedianti et spettatori, che il Cecchini stampò nel 1616 (Roncagliolo, Napoli) e nel 1621 (Pinelli, Venezia).
2 Cfr. A. Baschet, Les comédiens cit., pp. 14-15 € 122-23, dove si menzionano la lettera di Cecchini al duca di Mantova, da Parigi, 3 luglio 1601 (in ASMN, Autografi, busta 10, c. 707, ora anche in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 4) e quella della contessa Marie de Boussu allo stesso, del 20 ottobre 1601, da Parigi.
Per questo ciclo di edizioni rimando alla mia Introduzione a Commedie dell'Arte cit., vol. I, pp. 14-20. Quando parlo di necessità e conseguenza non intendo ovviamente un rapporto meccanico di causa ed effetto in un periodo di tempo molto ridotto. L'occasione di una tournée, e quindi di una partecipazione dell’élite di governo, locale o internazionale, agli spettacoli dei comici, può avere spinto alcuni finanziatori (come lo Zametti) a mettersi in mostra e a
pagare le spese di stampa di opere altrimenti destinate a una scarsa circolazione (le citate Fiammella e Gismonda, l’Angelica di Fabrizio de’ Fornaris, edita da L’Angelier, Paris 1585) cosî come può avere invogliato gli attori-autori a tesaurizzare la ricaduta degli investimenti cortigiani in vista della futura carriera, anche non teatrale. Cosî nacque forse l'edizione ferrarese dell’A/chimzista di Bernardino Lombardi, curata nel 1583 dallo stampatore ducale Vittorio Baldini, poco prima della spedizione parigina; cosî le Lettere facete e ghiribizzose cit., furono per Vincenzo Belando il viatico per una lunga carriera di cortigiano: cfr. C. Meldolesi,
Les siciliens: da Vincenzo Belando allo Scaramouche dei pittori, in Scritti in onore di Giovanni
Macchia, Mondadori, Milano 1983, vol. II, pp. 653-68. » Anche/ teatro delle favole rappresentative dello Scala (1611) obbediva alla medesima strategia esibendo solide referenze: la protezione del duca di Mantova e il legame con il cele-
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bre Capitan Spavento, Francesco Andreini marito di Isabella, autore della prefazione al libro. Cfr. A. Zazo, «La Turca» di Giovan Battista Andreini. Un caso di editoria teatrale nel Seicento cit.
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Lettera di G. B. Andreini a Carlo Gonzaga Nevers, da Praga, 29 gennaio 1628, inASMN, Gonzaga, busta 495, 1 c. n. n., ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 53. Andreini avrebbe utilizzato nel 1613 îl testo che aveva già stampato nel 1611 in occasione di una breve permanenza della sua compagnia a Casale Monferrato, limitandosi a sostituire al primitivo frontespizio uno nuovo fatto imprimere per l'occasione parigina e privo di indicazioni editoriali. Per le situazioni più chiaramente allusive alla naumachia notturna cfr. G.B. Andreini, La turca, comedia boscareccia et maritima, Goffi, Casale 161, IV. 10-V.re V. 8. Sulla battaglia navale, che fu il clou degli spettacoli mantovani, cfr. G. Bertazzolo, Breve descrittione della battaglia navale, et del castello de fuochi trionfali cit. Per una bibliografia delle cronache delle feste nuziali rimandiamo alla nota 66 del capitolo tetzo. Sulla partecipazione degli Andreini agli spettacoli cfr. capitolo sesto, nota 75. Nella dedica a Carlo Gonzaga Nevers, nell'edizione citata, si allude alla prima origine del canovaccio: «Passando l’Eccellenza Vostra da Mantova, al tempo del Serenissimo Duca Vincenzo di felice memoria, che sia in Cielo, mi rimembra d’averle rappresentato, con Florinda mia consorte, alcune commedie. Onde veggendo che così ne godeva, volli che da quelle parti di Manto alle Galliche riducendosi, pur seco portasse alcuna di queste nostre italiche composizioni sceniche: quindi elessi di donarli a penna un mio suggetto detto la Turca»; Carlo Gonzaga fu in Italia nel novembre del 1608 per un'importante ambasceria presso il papa Paolo V, per conto di Enrico IV, dopo la quale transitò da Mantova. Non è tuttavia improbabile che avesse partecipato alle feste nuziali della primavera dello stesso anno; in ogni caso, nel corso della sua visita autunnale, è probabile che l’Andreini gli offrisse dei canovacci debitamente collaudati. La dedica della sacra rappresentazione Adarzo «Alla Maestà Christianissima di Maria de’ Medici, Reina di Francia» il 12 giugno 1613, valorizza ancora una volta la prontezza di Lelio nell’adeguarsi ai committenti del momento. Cfr. G. B. Andreini, L’Adarzo, sacra rapresenta-
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tione, Bordoni, Milano 1613, Dedica: «Io non poteva in questo mondo esser più favorito dalla mia sorte, Reina Cristianissima, che nel tener ordine di passarmene in Francia con Florinda Da,e con questi compagni nostri a servire a Vostra Maestà col virtuoso passatempo delle comedie». Cfr. A. Bardi, Appunti su «La Venetiana» cit.; in particolare le pp. 43-46 che ricostruiscono alcune tappe della storia della tradizionale maschera di Cocalino.
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G. B. Andreini, Lelio bandito cit., p. 8.
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Lettera di Andreini a un segretario ducale, da Milano, 18 luglio 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, c. 843r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 38; i corsivi sono nostri. Per questo carteggio si vedano le lettere indirizzate a Ferdinando Gonzaga da Andreini, da Milano, 5 agosto 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, cc. 858r-8617 da Martinelli, da Due Castelli, Mantova, Milano, 28 settembre, m e 19 ottobre 1620, ivi, Autografi, busta 10, cc. 198r-200r; da Cecchini, da Milano, 15 e 22 luglio, 26 e 28 agosto, 17 ottobre 1620, ivi, Gonzaga, busta 1751, cc. 8377-8387, 849r-v, 8747, 876r-8777, 9377. Le stesse lettere si possono leggere in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 39; Martinelli, lett. 46-48; Cecchini, lett. 75-79. Cfr. ibid., Cecchini, lett. 78, cit.: «Florinda già tre giorni fuggì, et piangendo se ne andò in una chiesa dove si facceva tenir per spiritata, et voleva mandar per una carrozza per venirsene a Mantova, quando suo suocero, un suo compare et il Moiada nostro portinaro corsero a rimediarvi, et la feccero rimanere»; i corsivi sono nostri. Cfr. :bid., Martinelli, lett. 46, cit. Aniello Testa, napoletano, attivo dal 1610, lavorerà con il Cecchini, e poi ancora a Napoli, fin-
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ché non verrà ucciso (intorno al 1626) pare da un sicario di Vincenzo Capece, proprietario del Teatro dei Fiorentini (cfr. U. Prota-Giurleo, I teatri cit., pp. 213-17). Pet un giudizio su di lui cfr. la lettera di Francesco Gabrielli del 6 gennaio 1627, cit.
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Cfr. la sua lettera al duca di Mantova, da Milano, 15 luglio 1620, in ASMN, Gonzaga, busta
1751, c. 840F. 39
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Si vedano le sue lettere, da Milano, 25 luglio 1620, al duca Ferdinando e a un segretario ducale, ivi, cc. 847r-848r. Su di lui ci soffermeremo pit avanti nel capitolo settimo, pp. 296-98. La compagnia definitiva che partî per la Francia fu composta dal Martinelli, dall’Andreini e
dalla moglie (Lelio e Florinda), da Virginia Rotari (Lidia), Giovanni Rivani (Dottor Campanaccia), Girolamo Garavini (Capitan Rinoceronte), Federigo Ricci (Pantalone), Urania Liberati (Bernetta), Lorenzo Nettuni (Fichetto) e Benedetto Ricci (Leandro), figlio di Pantalo-
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È
ne; gli ultimi due avevano sostituito Aurelio e Frittellino, mentre il posto di Orsola Cecchini (Flaminia) era stato preso da Lidia. Se si confronta questa formazione con quella che aveva probabilmente recitato Lo schiavetto nel 1612 (cfr. lettera-supplica indirizzata al duca di Mantova da Martinelli e compagni, da Firenze, il 26 novembre 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 1677-1687, ora in Corrispondenze I, Martinelli, lett. 29) poche sono le variazioni: allora c’era in più Giovanni Pellesini (Pedrolino) e mancavano solo i due Ricci, il Nettuni e la Liberati. G. B. Andreini, Lelio bandito cit., III.3.24 e III.5.23. Per le citazioni cfr. ibid.,1.3.13-22;1.5.36-41. Il tema dei molti nomi di Arlecchino, in parallelo coni richiami alla sua natura di Proteo, allude a uno dei tratti caratterizzanti il personaggio in tutta la tradizione romanza e anche oltre. Sul tema del trasformismo e dei nomi infiniti assegnati ad Arlecchino, si veda quanto scrive, collegando il personaggio buffonesco al mito del briccone divino e alla figura di Odino, D. S. Avalle, Le maschere di Guglielmino, Ricciardi, Milano-Napoli 1989. G. B. Andreini, Lelio bandito cit., II.5.10-11. Su questo passo si sofferma anche G. Schizzerotto, Sette secoli di volgare e di dialetto mantovano, Publi-Paolini editore, Mantova 1985, pp. 196-202.
G. B. Andreini, Lelio bandito cit., 1.5.30-33. Cito dall’edizione moderna, Id., Lo schiavetto, in Commedie dei comici dell'Arte cit., p. 63: la
definizione si trova nell’elenco degli interlocutori. Cfr. L’ordine delle robbe, in Lelio bandito cit., p. 207. Nel 1612 una seconda edizione (o tiratura), sempre stampata da Pandolfo Malatesta, era stata dedicata al conte Ercole Pepoli, in data 26 settembre 1612. È un’altra conferma della disinvolta e frenetica attività editoriale dei nostri comici che con i loro libri intendevano ingraziarsi più protettori nello stesso tempo. La commedia ebbe un’altra edizione nel 1620 (a Venezia, presso Giovan Battista Ciotti) con varianti numerose ma di poco conto; le più interessanti riguardano lo sviluppo concesso ai lazzi che, appena accennati nel 1612, vengono analiticamente descritti nel 1620. Lettera di Martinelli a Francesco Gonzaga; da Bologna, 6 ottobre 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 1747, ora in Corrispondenze,I, Martinelli, lett. 24. Per tutta la trattativa condotta dalla regina di Francia si veda naturalmente A. Baschet, Les comzédiens cit., pp. 191-233, e S. Mamone, Firenze e Parigi cit., pp. 247-56. Lettera di G. B. Andreini a Francesco Gonzaga, da Milano, 28 agosto 1612, in ASMN, Autografi, busta ro, c. 25r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 20. vi Ricordiamo che nel 1620 anche il Lelio bandito fu dedicato a un altro ambasciatore gonzaghesco in Milano (Francesco Nerli). Lettera di T. Martinelli al cardinale Ferdinando Gonzaga, da Firenze, 26 ottobre 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 176r-1777, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 27. La «barbarina» era una moneta d’argento coniata a Mantova dai duchi Guglielmo e Vincenzo. NIe Sulla catena d’oro come simbolo del riconoscimento cortigiano agli attori si veda anche la testimonianza dell’uso in area anglosassone («rich chain of gold») inJ. Limon, Gentlemen of a Company cit., p. 8. La collana torna spesso nell’epistolario di Arlecchino: cfr. Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 21, 27, 33, 34, 36, 49; 51, 58 («una catena d’oro che pesa honze 19 e meza»), 60. Ma cfr. anche sbid., Andreini, lett. 43. Si veda infine il lamento di Fiorillo che con-
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Capitolo quinto ferma il valore, anche simbolico, di quel dono regale: «Mi dispiacque molto d’intendere che lei [Orsola Cecchini] havesse una collana, non già per invidia c’havesse del suo bene com’ella hebbe d’Aurelio, ma per vedermi io solo privo delli favori et gratie di Vostra Altezza » (lettera a Ferdinando Gonzaga, da Napoli, 1 maggio 1621, in ASMN, Gonzaga, busta 828, cc. 3441-3457, ora in Corrispondenze, I, Fiorillo, lett. 14).
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»I(N
Cfr. lettera di T. Martinelli al duca Francesco Gonzaga, da Milano, 14 agosto 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 170r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 20. Le citazioni sono tratte dalla lettera di T. Martinelli al duca Ferdinando Gonzaga, da Lione, 26 agosto 1613, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 182r-183r e dalla lettera dello stesso ad Ales-
sandro Striggi, stesso giorno, stesso luogo, ivi, c. 179r-v: entrambe le lettere sono ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 31 e 32. Lettera di T. Martinelli al conte Alessandro Striggi, da Fontainebleau, 4 ottobre 1613, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 185r-v; ma cfr. anche la lettera dello stesso al duca Ferdinando Gonzaga, da Fontainebleau, 10 ottobre 1613, ivi, cc. 188r-189r: entrambe ora in Corrisponden-
ze, I, Martinelli, lett. 33 e 34. 58 59
G. B. Andreini, Lo schiavetto cit., I.1.16. In Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 32, cit.
Circa ibenefici di Tristano Martinelli si vedano le lettere di Maria dei Medici a Cristina di Lorena del 13 dicembre 1612, da Parigi (ASF, Mediceo, £. 4729, c. 298r) e al duca di Mantova del 9 ottobre 1613, da Fontainebleau (ASMN, Gonzaga, busta 628, c. 1707), citate in A. Baschet, Les comédiens cit., pp. 228 e 237. Il primo deposito di Arlecchino al Monte di Pietà (settecento ducatoni) risale al 1597 ed è documentato nelle lettere da lui scritte a Ferdinando I dei Medici, rispettivamente dell’ marzo da Milano (ASF, Mediceo, £. 878, c.154v) e del 20 marzo da Mantova (ivi, f. 870, c. 264r-v); altri duemila scudi risultano versati nel 1600 (lettera a Belisa-
rio Vinta, da Mantova, 18 marzo 1600, ivi, f. 896, c. 2997); nel 1612 i risparmi risultano depositati all'interesse del 5 per cento anche dopo le misure restrittive applicate ai depositi bancari dei non fiorentini (cfr. lettera a Belisario Vinta, da Bologna, 4 gennaio 1612, ivi, f. 977, c. 3197; lettera di Cosimo II dei Medici a Francesco Gonzaga, da Firenze, 14 maggio 1612, ivi, f. 2948,1 c.n.n.); un altro versamento di 1000 scudi venne effettuato nel 1627 (lettera a Ferdinando II dei Medici, da Mantova, 22 agosto 1627, ivi, f. 1403, cc. 180r-v e 182r-v). Per queste fonti cfr. ora Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 2, 3,9, 19, 58. Sull’acquisto di un podere in località Due Castelli cfr. ibid., lett. 1, nota 2; sulla proprietà delmolino di Bigarello, cfr. ibid., lett. 40; ma
sull'argomento torneremo nel corso del settimo capitolo. Sull’abilità diplomatica del Martinelli nell’estorcere benefici si veda ancora A. Baschet, Les comédiens cit., p. 284. La ricchezza di Arlecchino traspare anche dai suoi frequenti testamenti: ASMN, Notarile, notaio Sinforiano Forti, 17 maggio 1604, 18 maggio 1606, 6 settembre 1612; notaio Cristoforo Battaleoli, 30 maggio 1624. Per tutte le citazioni riportate cfr. G. B. Andreini, Lo schiavetto cit., rispettivamente: I.1.32; I.2.29 e 34; I.7.84; I.8.27; 1.8.37; II.5.1. 6
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L'espressione è tratta da P. Camporesi, La maschera di Bertoldo, Ta C. Croce e la letteratura
carnevalesca, Einaudi, Torino 1976, p. 144. A questo volume (in particolare al capitolo su I/ rituale del diluvio e la trasgressione verbale) rinvio per un'estesa trattazione del linguaggio carnevalesco. G. B. Andreini, Lo schiavetto cit., 1.7.1-12. Id., Lelio bandito cit., rispettivamente: I.3.42 e 48 e 1.4.3-5. Id., Lo schiavetto cit., V.4.12; nella stampa del 1620 (cfr. qui sopra la nota 48) Andreini aggiunge a questa tirata un molto significativo «egli è il Principe di Mezo il Mondo». La prima edizione di G. C. Croce, Le sottilissime astuzie di Bertoldo è del 1608 (Malatesta, Milano) e contiene questa descrizione del protagonista: «Prima era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, la bocca grande e alquanto storta, con il labbro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all’insù, con le nari larghissime, i denti in
Arlecchino rapito
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fuori come il cinghiale, con tre ovvero quattro gozzi sotto la gola, i quali mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollissero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, ipiedi lunghi e larghi, e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio e tutte rappezzate su le ginocchia; le scarpe alte ed ornate di grossi tacconi. Insomma, costui era tutto il rovescio di Narciso » (cito dall’edizione moderna a cura di P. Camporesi, Einaudi, Torino 1978, p. 7). Lo stesso Camporesi, in La maschera di Bertoldo cit., p. 36, scrive: «Bertoldo e Arlecchino — secondo una lucida intuizione di Ferdinando Neri [F. Neri, La maschera del selvaggio, in Letteratura e leggende, Chiantore, Torino 1951, p. 168] — derivano entrambi dallo stesso seme, ambedue ‘eredi della rustica progenie’ dei demoni agrari: Arlecchino è lo spirito inferico che guida l’esercito pauroso scaturito dalle tenebre sotterranee (la ‘mesnie Hellequin’) nella notturna ‘caccia selvaggia’, armato della mazza erculea (...); Bertoldo, a sua volta, appartiene alla stessa famiglia, quella degli esseri dotati di ‘corpi mostruosi”, deformi e contraffatti come gli antichi fauni pilosi, gli bomunciones dal ‘naso adunco, cornuti e capripedi’ ». € La citazione è tratta dalla stampa del 1620 (III.5.2) che sviluppa un lazzo che era solo sottinteso nell’edizione 1612 (III.5.37-45). Nel suo furtivo gioco di appropriazione indebita l’astuto Lelio inglobò molti altri fossili dello spettacolo dentro allo Schizvetto: la scena en travesti di Florinda e Rondone (II.2) con la burla delle « corregge»; il recipe ridicoloso; ilazzi zanneschi di Rondone che lasciano pensare a certificati d’autore attribuibili ad altri zanni che fino al 1612 furono compagni di Martinelli, come Pedrolino o Frittellino; la rappresentazione ciarlatanesca, con la vendita di antidoti e la recita di piazza (IV.8); la messinscena di una commedia con dieci personaggi, ma farcita di detti memorabili, allestita dallo stesso Lelio (Faceto) in V.9. 6N Oltre al citato saggio di Avalle, si ricordano qui almeno: A. N. Veselovskij, Alichino e Aredodesa, in GSLI, vol. XI (1888), pp. 325-43; P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Einaudi, Torino 1955; F. Nicolini, Vita di Arlecchino, Ricciardi, Milano-Napoli 1958; L. Lazzerini, Preistoria degli zanni: mito e spettacolo nella coscienza popolare, in Scienze, credenze occulte, livelli di cultura. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firenze, 26-30 giugno 1980), Olschki, Firenze 1982, pp. 445-75; L. Zorzi, La maschera diArlecchino, in Id., L'attore, la Commedia, il drammaturgo cit., pp. 154-66 (il saggio è però del 1979). # Siveda la descrizione del movimento incessante e rapinoso di Arlecchino nel racconto di Andreini, in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 43, cit., per la quale si rinvia all’Appendice, I.2. Ma anche Venturino, quando parla di sé o viene descritto (Lelio bandito cit., III.3.14 e 21-24) èun animale veloce e mutevole: «vENTURINO (...) el ghe xe in particolar un furbazo, che se chiama Venturin, che ’1mua pì abiti, che no fa la bissa scorze, e sì else dà vanto de vegnir anca a parlar con la signoria vostra, e far anca de pezo, col darve de le frignocole»; «VENTURINo Salva salva. BARGELLO Signuri, core chillu comu lu ventu, assai le vanno retu, io scaricai lu soffiuni, ma non potté prenderi focu. (..) RINIERO Certo costui è quel Venturino, che disse che quasi Proteo si mutava in varie forme, e che in una di quelle si vantava di parlarmi». 4 In una lettera di Enrico IV a Ferdinando Gonzaga della fine del 1606, riportata dal Baschet (Les comédiens cit., pp. 157-58), si scopre la predilezione del Gonzaga proprio per i pregiati cani da caccia: «Mandés moy còme vous estes trouvé des levryers et chyens que nous avez
amenés dicy et sy mon cousin le duc de Mantoue les a trouvés bons et syldesyre que ie luy en anvoye d’autres ou quelque autre chose quy soyt en mon royaume». ® Cfr. nota 1 del capitolo quarto. ? G. B. Andreini, Lo schiavetto cit., IV.3.60. ? Cfr. Il pianto d’Apollo. Rime funebri in morte d'Isabella Andreini comica Gelosa, ed Accademica Intenta, detta l’Accesa, di Giovan Battista Andreini suo figliolo, con alcune rime piacevolisopra uno sfortunato poeta, dello stesso autore, Bordoni e Locarni, Milano 1606; La Florinda, Bordoni, Milano 1606; La Maddalena, poemetto, Somasco, Venezia 1610. Ma per la coltivazione teologica si veda anche La divina visione, in soggetto del Beato Carlo Borromeo, cardinale di
Santa Prassede et arcivescovo di Milano, Timan, Firenze 1604. 2 N. Barbieri, La supplica cit., p. 23. % G. B. Andreini, Dedica, in Lo schiavetto cit., p. 59.
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Capitolo quinto
» Lettera di Virginia Andreini al cardinale Ferdinando Gonzaga, del 14 dicembre 1617, da Bologna, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 60r, pubblicata in A. D'Ancona, Lettere di comici italiani del sec. xv, Nistri, Pisa 1893, pp. 1-12. * In Corrispondenze, I, Andreini, lett. 43, cit., nonché nell’Appendice, I.2 in questo volume.
Non fu, questa, la sola fuga di Arlecchino. La stessa lettera accenna ai precedenti delle due spedizioni del 1601 e del 1614: «Sempre fece così in queste parti; ruppe già la compagnia a Frittellino, recitando divisi, benché uniti il serenissimo suo signor padre di gloriosa memoria [Vincenzo Gonzaga] in Francia loro mandasse. Sett'anni sono ruppe similmente la nostra compagnia, accioché più lungamente non istesse in questi paesi, conducendo seco il ra. il Capitano e la signora Lidia; et hoggi, seguitando questo fuggitivo costume, ha fatto l’istesso».
Capitolo sesto Lelio bandito e santo
1. Trascurando la vittima, guardiamo adesso il rapimento dalla parte del rapitore, anzi dalla parte di Lelio bandito, come recita il titolo della «tragicommedia boschereccia» in cui è stato imprigionato Arlecchino. Andreini ama esibire le tracce di spettacolo che costituiscono la sedimentazione drammaturgica della sua tessitura letteraria. A differenza di altri comici editori (Scala, Cecchini, Fiorillo, Barbieri)
che con i copioni dovevano conseguire un’autorevolezza a lui conferita dai genitori e dalle opere letterarie, egli non nasconde i materiali attorici e scenotecnici allo stato puro. Anzi li sfoggia con la stessa ossessione accumulativa con cui Martinelli esibiva i figli, le proprietà fondiarie o i depositi al Monte di Pietà di Firenze. Andreini è l'editore più attento a munire le sue commedie di istruzioni per l’uso, e forse il primo a preoccuparsi della fruizione pratica dei testi più che della loro conservazione in biblioteca. Essi costituiscono il campionario utile alla illustrazione e vendita di un mestiere. A partire dalla sua prima pubblicazione (La turca del 1611), in appendice alla commedia figura L’ordine delle robbe posto per facilitare il modo di recitarla (...) senza che l’autore [colui che dovrà rappresentarla] si vada stempiando in raccorle dalla stessa opera e, quello che più importa, tutte ancora per ordine, non solo d’atto in atto, ma di scena in scena. Che,
per dire il vero, troppa gran fatica ci vuole, avendo una infinità di cose avanti gli occhi, a sapere per l'appunto qual cosa vada ora addoprata e quale in altro tempo. Ma così potrà ciascuno con grande agevolezza ogni grand’opera recitare '.
C'è una lista degli attrezzi: dallo «spago alla finestra (...) per tirar su una borsa» al « cinabro stemprato con aceto per ferite sul volto e su le mani» (ma nel successivo Lelio bandito si spiega con precisione il modo da seguire per ottenere l’effetto: « Averà Teodoro una spugnetta in mano, tinta nel cinabro, et allor che si fingerà ferita, potrà bagnar con quella il fazzoletto, mostrando d’asciugarsi la ferita; però la stessa spugna potrà tener chiusa nello stesso fazzoletto ») °. Ci sono i consigli per le luci («tutte le finestre si dovranno illuminare con lanternini di
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Capitolo sesto
carta dipinta e cosî il monte tutto») e le pedanterie ‘registiche’ del Trionfo che va nel fino della Turca: Carro bello, adorno di molte armi turchesche, tulpanti e bandierette, con delle lune in quelle dipinte. Sopra vi sarà il Capitano, armato di bellissima armatura, con gran penne nel murione e bellissimo scudo et una mazza dorata nella destra mano. Occhialì e Mehemet dovranno tirare il carro a mani legate et altri turchi dalli fianchi pur lo spingeranno. Vi sarà una gran bandiera tutta a lune, archi e frecce, che si strascinerà per mano di Trulla e quella sarà seguita da turchi legati et isolani a piedi et a cavallo, inghirlandati d’alloro e con facelle accese, quali al suono di trombe e tamburi e schioppi dovranno spasseggiare due volte la scena. Poi, posto il carro in mezo e de’ vinti e de’ vincitori, quali sovra la scena formeranno una mezza luna, dovranno cessar le trombe et altri strepiti, fin ch’è disciolto il nodo della favola. Finito il tutto, con la stessa ordinanza ma però disciolti i turchi et inghirlandati, si dovrà tirare il carro sovra il quale vi saranno il Capitano, Occhialì e Mehemet. Così, due volte spasseggiato il palco, finirà il trionfo e la comedia’.
La memoria consuntiva seleziona tra gli allestimenti sperimentati quello destinato a fissarsi nel testo. Tornando al Lelio bandito, subito dopo il prologo, si prevede che « caderà una tela dipinta al rumor d’una archibugiata», dopo di che apparirà al centro della scena una grotta «et in quella si vedrà sopra una cassa coperta di bellisimi tappeti Lelio che dorme, coperto d’un bellissimo drappo d’oro, in gesto che si vegga ch’egli tenga sotto a quel panno l’arcobugio; così tutti i farinelli al numero di dodici dovranno in diversi gesti dormire, tenendo l’armi alle mani, sotto il capo et in altri vari modi» ‘. La didascalia è minuziosa e vincolante. Più elastiche diventeranno le istruzioni per l’uso nelle opere francesi del 1621-22. Il gigantismo della Centaura «suggetto diviso in commedia, pastorale e tragedia», concepita per un allestimento cortigiano in grande scala, dovrà subire adattamenti in formato minore nel momento in cui l’opera verrà immessa, tramite le stampe, sul mercato della produzione seriale. E allora Lelio moltiplicherà le avvertenze: «volendosi recitare, ho trovato il modo d’abbreviarla, e per scemar la fatica ad altrui, questa sarà la maniera: cioè tutto quello che sarà segnato d’una stella e di virgola [virgolette], tutto si potrà tralasciare»’. Particolarmente accurate le istruzioni sui mutamenti di scena del Prologo e degli atti: «Dovrà l'apparato fingere una città bella a piramidi, a colonne (...). Questo sarà coperto d’una bella e colorata antiscena la qual a tre tocchi di trombe distanti un
poco l’un dall’altro dovrà con ingegno rapido e maraviglioso sparire»; «S'apriranno due parti di gran porta in mezo del palazo, e colà nel mezo dell’andito reale si vedrà il superbissimo letto di Cercàfo, pur per uno sfondro dell’altra porta dello stesso andito, faccia fronte
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| a quella che s’aperse dinanzi e dovrà veder un’amenità di bellissimo giardino», conlaprecisazione che «il letto sarà su le ruote: ma prima dovrà esser veduto nel lontano, e poi farsi portar vicino alla porta». In un’altra opera francese, La sultana, si forniranno dettagli tecnici sui lazzi più coreografici: «In quello che ’1 Capitano china il viso per tor la scrittura, Sulpizio essendo il setaccio mezo di fior di farina,
Ji darà forte con la man di sotto, e così tutto ilviso e l’abito del Capitano infarinerà; il Capitano fingendo d’esser acciecato anderà in qua in là; in quello Fegatello, Merluccio et altri con armi salteran fuori, e gridando ‘dalli, dalli’, fuggiranno impauriti, e nel portar via quelle robbe faran varie cadute»; «tutti tre in un tempo fuggiranno in un groppo e faranno vista, giunti alla porta tutti tre, di non poter entrare, e subbito dentro, porran fuora i capi in diverso modo: cioè li duo ch’eran con i capi di sopra li porran di sotto, e quello ch’era solo di sotto lo porrà di sopra»’. Altri segreti del mestiere ed effetti speciali sono messi in vendita nell’Azzor nello specchio, soprattutto nelle scene di magia: «Una cassa dorata, o inorpellata, con vetri in modo che sem-
brino gioie; dovrà la stessa aver nel fondo tanta finestra, per la quale possano uscir degli spiriti. Il palco nel mezo averà altrettanta finestra, sopra la quale si porrà la cassa, sì che per di sotto il palco, uscendo gli spiriti, paiano uscir dalla stessa cassa. E qui pur dal di sotto si getterà fuor di quella istessa cassa fiamme infinite, accogliendo sovente fra le stesse fiamme quelli ch’usciranno, per far la cosa più ridicolosa ». La didascalia aggiunge che «nel di sotto del palco si farà rumor di tamburo, di fischi e di catene» ”. Un effetto, questo, particolarmente
spettacolare e gradito dal pubblico, se già aveva fatto la sua apparizione suggestiva nelle illustrazioni dell’ Adazzo. Era questa un’eco minore del successo recente che nella scenotecnica fiorentina aveva avuto il disvelamento degli spazi inferici ottenuto con un sapiente e innovativo sfruttamento del sottopalco, nel Rapimento di Cefalo (1600) e nell’intermezzo della Fucina di Vulcano (1608) *. Come il dato tecnico diventa spettacolo, l’informazione sullo spettacolo entra nelle stampe. Cosî le didascalie puntuali dell’Andreini innovano le abitudini tipografiche. Agli inizi del Seicento sono rare non solo le appendici contenenti istruzioni per l’uso dei costumi, dell’attrezzeria e delle scene, ma anche le didascalie inserite, in corsivo,
all’interno del dialogato, che suggeriscano gesti e azioni dei personaggi. La consuetudine, destinata a durare fino ai nostri giorni, fu introdotta, forse per la prima volta e con una particolare maturità, proprio da Andreini nel periodo parigino. Prima e dopo questa data una mag-
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Capitolo sesto
giore attenzione alle descrizioni dei gesti e delle azioni si nota nelle stampe del Cecchini, mentre altri comici editori come lo Scala e il Barbieri ignorano del tutto il problema: si preoccupano di trasmettere in modo esauriente la tessitura della trama e del dialogo e non introducono niente che possa disturbare la connessione letteraria dell’enunciato. Andreini arriva addirittura a subordinare il dialogo alle esigenze scenotecniche e si sforza di suggerire, anche attraverso le battute, accanto alla lettura concettuale (se non concettosa) delle parole, la suggestione visiva e musicale dello spettacolo. Sono didascalie implicite nel dialogo, che rendono possibile la materializzazione della scena nella mente del lettore disposto a lasciarsi guidare dalla voce narrante. È come se la commedia si svolgesse dietro una parete e gli attori ne facessero la cronaca a chi non può vederli. Che l’autore intenda fare questo uso delle battute è confermato dalla precisazione introdotta a proposito di una scena dello Schiavetto: «In questa scena non accaderà che tutto quello che si nomina si veda » ”. La precisazione lascia intendere che, di norma, Andreini vuole che il lettore (o l’apparatore eventuale) usi le battute per desumere la scenotecnica e che quindi,
alcune di queste, non debbano essere recitate ma servano a ‘far vedere’ i lazzi. Come nel caso di Florinda: ARMINIA [FLORINDA] to io l’apro”.
Ecco, signori, che la bocca alle parole chiudendo, al can-
Come nei casi del nostro citatissimo Arlecchino: RAMPINO
Oh come passeggia sbattendo il capo e sbuffando.
succioLA (...) Oh comeride cotesto principe de’ scrocchi, oh come si getta via, oh come strabuzza quegli occhi di struzzolo! *.
O di altri zanni rappresentati in pantomima: POETA (...) Via, Fringuello, vola come allodola, come aghirone, come girfalco, via che fai? Vola, vola! FRINGUELLO Io volo, io volo, per gradi di stelle. POETA Vedete come dibatte le braccia (...). FRINGUELLO Il desiderio di servirvi mi fa diventare un uccello. Vedete come più del solito dibatto l’ali?”.
Talvolta i lazzi sono elencati a consuntivo, quasi a integrare l’oscurità delle battute: RAMPINO (...) s'è caduto è stato perch’ella era avanti la porta, e io (per venir presto) uscendo con le spalle a dietro da la stessa porta, l’urtai, ond’ella cadde *,
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Lo stesso avviene per azioni concitate, narrate dal vivo: GELINDA
(...) e perché m'è così odiosa la presenza vostra ecco mi parto sdegno-
sa, e strepitosa la finestra in faccia vi chiudo”,
Quando si descrive una danza acrobatica, l'elenco dei movimenti alga più alle possibilità dell’attore che a una registrazione dell’accaUto:
FRINGUELLO (...) Oh guardate un poco queste partite, questi fioretti, questo perlotto, questa capriola, quest'altra, quest'altra *.
Altre volte i rumori fuori scena paiono portare i suoni di un allestimento lontano: CAPITANO
Ma che rumore è questo di voci, di trombe e di schioppi? Chi dice
ammazza ammazza? ”.
I ricordi della macchineria, delle luci e delle coreografie: CURENIO
(...) Or che son chiuse le cortine d’oro gemmate, chiudansi queste
porte, accomodate in modo sovra i cardini, che minimo strepito d’esse non av-
verrà che s’ascolti. Alla tua gran presenza Reale Artalone s’inchiniamo, e da te licenza ottenendo le due porte chiudiamo ”. PARSENIO O che bestie! Comincia a oscurarsi. Che diavolo è quello che qui viene? Per mia fè sono duo camelli, e sopra vi sono duo mori; e duo altri neri li conducono. Oh uno d’essi vuol sonare una cenamella, l’altro duo timpani colà sopra stando. Oh quanti fanciulli seguitano! ?,
È questo un saggio indicativo dei fossili dello spettacolo che possono essere estratti dalle commedie di Andreini. Un materiale drammaturgico di tipo performativo che la trascrizione editoriale ingloba ma non annulla nella sua ‘rappresentazione’ a stampa. Se avesse indirizzato i suoi libri ai colleghi nel mestiere, Andreini sarebbe stato meno pedante nelle didascalie e nelle ‘istruzioni per l’uso’; se avesse badato alla reputazione presso i letterati avrebbe dato meno peso ai detriti del teatro materiale. I suoi destinatari sono i dilettanti, gli apprendisti del mestiere comico, quel pubblico di teatranti che non scrive la storia del teatro ma interpreta, magari mediocremente, le abitudini sociali del suo tempo. Lelio vende a costoro le abilità degli artefici, le bravure degli allestitori, gli ‘specifici’ della corporazione, le bravure di cui è proprietario o ricettatore. Mercante di questi tesori anche rubati, Lelio li conserva alla nostra memoria, pur se appiattiti e semplificati, pronti alla riproduzione in serie. A differenza di Arlecchino, che vendeva solo se stesso, egli vende tutta la macchina scenica, la sua bravura d’apparatore, l'efficienza della compagnia. Da queste premesse di ordine empirico discende la presenza in
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Capitolo sesto
quasi tutte le opere di Giovan Battista Andreini del cosiddetto tema del ‘teatro nel teatro’. Anche se più giusto sarebbe dire ‘teatro del teatro’ adeguandosi alle abitudini semantiche più antiche per cui il primo termine sta per ‘mostra, esposizione, raccolta ordinata, esibizione’. In questo caso l’esposizione di bravure tecniche, performances attoriche o di allestimento, occupa uno spazio maggiore delle didascalie dirette o indirette, aprendo parentesi lungo la trama della commedia. Veri e propri intermezzi musicali, accompagnati da canto e da ballo, si trovano in quasi tutti i copioni di Andreini, quasi sempre d’intonazione buffa. Canta più volte nella Turca il poeta-dottore Laurindo, accompagnandosi con il « chitarrone » e avviando con «il ballo del piantone» le figurazioni grottesche a coppie della più antica tradizione dell'Arte: il dottore e l’amorosa, l’amorosa e il Capitano, gli amorosi tra loro, l’amorosa e lo zanni, lo zanni e la servetta. A loro si
aggiungono sei ballerini e sei ballerine «alla genovese vestite». E la pantomima prevede scambi di partner, variazioni delle figure di ballo, allusioni oscene, improvvisazioni acrobatiche di vecchi e giovani ”. Nello Schiavetto il canto solista e l'apertura delle danze spetta alla servetta; la coreografia posta alla fine del terzo atto, e quindi a metà dell’opera, vede in azione, oltre a lei, anche Florinda vestita da schiavet-
to e lo zanni: eseguono danze popolari (il «villan di Spagna», una «sfessaina», una «bergamasca») accompagnati da «sonatori da pastori vestiti», e lo fanno davanti alla corte burlesca di Nottola ”. Canzoni comiche di zanni e servette sono ancora nella Su/taz4, nell’ Azzor
nello specchio, nei Duo Lelti simili*. A un repertorio appena pit alto appartengono le due o più arie «alla spagnola» assegnate alle protagoniste delle Due corzedie in comedia e della Sultana”. Su toni di elegia è il canto solista esibito da Lucrino, «amoroso Orfeo » ne La Campanaccia*, mentre il mago Astianante de La centaura sfodera probabilmente una voce da ‘basso’ a cui si adeguano i cori dei pastori armati del secondo atto e dell’epilogo ”; le figurazioni allèégoriche del Dolore, della Perdita e della Giustizia «potrebbono cantare nello stil recitativo» alla metà dell’atto terzo”. La massima concentrazione di virtuosismo musicale si trova poi nella Ferinda, che fin dal prologo l’autore vuole far competere scherzosamente con le «opere recitative e musicali» udite in Firenze e Mantova, adottando un registro completamente buffo, variato a seconda della lingua delle maschere «accioché l'eccellente musico avesse occasion di monstrar il suo valore in questi differenti modi scherzando. Parimente sì come l’opere già dette sono quasi ripiene e vaghe, oltre la testura di versi ordinari, di canzonette alla pindarica, così di queste anch'io ne resi adorna la mia, et
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in particolar in bocca de’ ridicoli, come in occasion di far serenate; e perché a ogni or di così fatte cose è quasi ottimo condimento il balletto, e pur qui dentro il balletto ci posi» ?. Il trionfo delle bravure prosegue con i virtuosismi dell’improvvisazione: ciarlatani e montinpanca fanno vedere mirabilie nella Su/tana, e nello Schiavetto, Lelio, sotto le spoglie di Faceto, mette in scena da solo, impersonando iruoli più diversi, come facevano un tempo Zuan Polo, Giovanni Gabrielli e altri buffoni, una commedia, una pastorale e una tragedia”. Nelle Due comzedie in comedia è ancora Lelio a comporre e allestire le due opere che sono recitate dagli accademici e dai professionisti”. Nella Centazra l'esibizione dell’istrionismo investe tutti icomici che indossano, in successione, i panni dei personaggi da commedia, da pastorale e da tragedia. I lazzi sono registrati nelle edizioni forse per rammentare ai lettori l’abilità del maestro concertatore: scazzottate, duelli, schiaffi e sganassoni a catena, pantomime animalesche, baruffe di servi e di innamorate, solenni bastonature, fino ad arrivare alle scene di battaglia, alle parate turchesche o burlesche, alle cerimonie di cotte strampalate ”; altre volte valorizzano il virtuosismo dell’attore impegnato a sdoppiarsi (in tutto l’arco della commedia dei Duo Letti simili e in alcune scene di ottima fattura dove l’ubriaco dialoga con la sua ombra e il maschio si trasforma in femmina, e viceversa)”; altre volte ancora i lazzi pagano un tributo alle convenzioni del genere concedendo spazio agli scampoli di pazzia vera o presunta”, alle tirate grazianesche”.
2. La registrazione a stampa delle memorie degli spettacoli equivale, per Andreini, alla firma di un atto di proprietà. Un grande deposito di arnesi del mestiere, di seconda o terza mano, senza legittimi proprietari, abbandonati o perduti da comici generosi e distratti, qualche altra volta (come nel caso di Venturino-Arlecchino) rapiti con astuzia: l’autore usa tutto come fosse suo, senza ammettere i me-
riti, i prestiti, le cessioni degli altri, i suoi rapimenti; quando arriva dalla prima alla seconda edizione, o alla terza, arricchisce il testo con le trovate sceniche che si sono accumulate nel frattempo, anche per merito di altri comici. Giovan Battista, non a caso, si paragona (anche in virti del suo nome d’arte) all’apocrifo commediografo della tradi-
zione latina: quel « Lelio, cavalier romano, che di tanta eloquenza era, che le comedie di Terentio, per l’elegantia e leggiadria del dire, furono reputate sue». Di conseguenza non ha difficoltà a dichiarare spudoratamente che «tutti quelli che di questo nome di Lelio vanno
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Capitolo sesto
adorni, déstino in tutti i cuori amore e sieno uomini di grandissima stima»”. L’analogia è dunque stabilita fra due falsari onesti, ma anche tra due ‘virtuosi’. All’autocelebrazione fanno riscontro rare men-
zioni del valore di altri comici. Da buon mercante, Andreini rende
qualche isolato omaggio ai grandi del passato (la madre Isabella e il padre Francesco, il mitico Adriano Valerini, il vecchio Flaminio Scala, i santi coniugi Garavini)”, ma non concede ad altri attori della sua compagnia di figurare con il loro autentico nome d’arte nelle sue commedie stampate (diversamente si comportarono invece Barbieri, Cecchini e Scala). Il privilegio è riservato a se stesso, alla prima (Florinda) e alla seconda moglie (Lidia). In Lelio bandito affida ad alcuni
inserti metateatrali del suo ‘doppio’ Lelio il compito di esprimere parole di stima per le buffonerie di Venturino-Arlecchino-Martinelli: O Venturino mio, o re delle invenzioni più sottili *.
Mal’elogio interessato è rivolto pit all’ombra di Arlecchino che al comico mantovano Tristano Martinelli, riguarda le funzioni sceniche del personaggio pit che la fisionomia dell’attore in carne e ossa. Si citano le virtà ma si nasconde il virtuoso. L'inedito nome di Venturino (Nottola nello Schiavetto) spersonalizza le qualità comiche dell’attore
Martinelli, trasformando la citazione in un omaggio astratto e generico alla pratica materiale del teatro, tanto è vero che abbiamo dovuto utilizzare quasi tutto il quinto capitolo e un buon periodo di tempo per scovare il nascondiglio in cui Andreini teneva sequestrato l’attore mantovano. Un’eccezione a questo comportamento parrebbe la già ricordata commedia La Campanaccia che Lelio fece pubblicare nel 1621 a Parigi 54
a nome di Giovanni Rivani, in arte Dottor Campanaccio. Costui è l’e-
roe eponimo e il protagonista. I lazzi, le tirate disseminate nella commedia a stampa, sono altrettanti volantini pubblicitari e un imprudente riconoscimento del primato artistico del perforzzer rispetto alla tessitura della fa24/a. Una sorprendente rivincita del recitante sul drammaturgo, e proprio in casa dello scrittore capocomico. Per breve tempo, tuttavia. L’occhiuto egoismo mercantile di Lelio ebbe il tempo di ravvedersi e la successiva edizione veneziana della commedia restituî lustro al suo prestigio, pur non potendo evitare che il titolo dell’opera e l'elenco delle dramzatis personae rivelassero i meriti del suo collaboratore. Poco tempo dopo, dall’interno della compagnia dei Fedeli, un fedelissimo di Giovan Battista, Giovan Paolo Fabri, prefatore obbediente di alcune sue stampe, avrebbe scritto al duca di Mantova, su incarico dello stesso Andreini («scrivo il vero più per al-
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trui ordine che per proprio volere») per chiedere l'esclusione del Ri-
vani dalla compagnia, insieme al Martinelli, con la solita accusa di non rispettare l’interesse collettivo: fanno « quel che lor viene in pen-
siero, non guardando all’esterminio degli altri compagni (...). Cominciando da messer Tristano, cioè da Arlechino, egli si partì da Padova non guardando a’ molti interessi e a’ molti debiti della compagnia fatti pure mentre ch'egli partecipava degli utili che alla giornata venivano», mentre il Dottore «Non è mai dì che non martelli la compagnia
col dire di voler montare in banco, ha fatto stampar ricette, dona pelle e scatole, va a mangiar in qua e in là, s'ammala, la compagnia patisce, perché bene spesso per capriccio più che per indisposizione riman di recitare com’appunto l’altrieri, che prese scusa d’aver la febre, e bisognò che recitassimo senza lui»”. Lelio vuol fare apparire gli egoismi del Dottor Campanaccio e di Arlecchino simili a quelli di Venturino che, nel Lelio bandito, per sete
di denaro, vuole tradire e uccidere il capobrigante giusto e generoso. La replica del masnadiere Lelio, nella commedia, è quella che il
Fabri e l’Andreini si aspettano dal duca di Mantova: LELIO (...) o non mera io posta (come dir si suole) la serpe nel seno, o l’istrice nella tana? Voler al vostro capo torre il capo? Beh prima che questo capo reciso a terra vada, fatto Lelio Alcide novello, con la clava del favor celeste a ogn’'Tdra infesta spezzerà i superbi rinascenti capi ‘.
I principî morali del capobrigante sono gli stessi che il capocomico aveva espresso per lettera al duca di Mantova: La somma è, Serenissimo Signore, che dove gli animi non sono uniti, poco di bene si può sperare ‘. ORAZIO
(...) Nacquero tutti gli uomini da un sol uomo e da una sol donna, ac-
cioché essendo tutti nati d’un medesimo sangue, concetti d’un istesso seme, pattoriti da un solo ventre, fossero senza scusa alcuna in caro vincolo di perpetua pace legati”.
Involto quotidianamente nella pratica del teatro materiale come in un destino ferreo, ‘armato’, Lelio aspira da sempre ad allontanarlo da sé. Anzi, aspira a riformarlo. E la riforma riguarda proprio gli attori. Espellendo chi non serve ed educando chi resta. La parola scritta è il suo principio regolatore. Le lettere al duca di Mantova, le edizioni delle commedie, la pioggia di scritti teorici, appartengono alla medesima strategia. Se è pur vero che il teatro è una metafora del mondo, per Andreini il mondo può essere letto come la metafora del teatro. È quest’ultimo l’unico oggetto della passione di Lelio. Tutta la sua drammaturgia è un gran-
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Capitolo sesto
de saggio, svolto per via metaforica, sul teatro e, in particolare, sulla condizione degli attori e delle attrici del secolo xvII (e di sempre), e
anche sulla psicologia degli spettatori. Un saggio che non distingue sempre l’analisi del teatro corz’è dal progetto riformatore di un teatro
come deve essere. Il teatro materiale, fatto di attori e buffoni straordinari come Arlecchino, di artifici scenotecnici, lazzi, travestimenti, sollecita i sensi a elaborare visioni, mediante l'accostamento e la con-
fusione di immagini diverse ma somiglianti. In poche parole, sviluppa metafore (ad esempio i comici visti come un manipolo di soldati, di banditi o di vagabondi). Rispetto a queste comparazioni, somiglianze, confronti raccorciati, di cui gli attori sono i portatori, Giovan Bat-
tista Andreini, servendosi anche della mediazione del suo alter ego recitante, Lelio, introduce la parola a orientare, spiegare, ordinare, e
soprattutto selezionare, le metafore possibili. Insomma affianca al fascinoso inganno della visione e dell’ascolto delle bravure (di cui abbiamo dato un approssimativo catalogo di reperti), una spiegazione ragionevole, quasi un’ulteriore didascalia. Si mette dalla parte dello spettatore e suggerisce, tramite attori-delegati, come leggere e razionalizzare l'enigma e il mistero dello spettacolo che compare, come uno straniero giunto da fuori, dall’ombra del palcoscenico. Riprendendo quanto dicevamo, nel capitolo dell'invenzione viaggiante, sulla scena dell'Arte come messa a fuoco e identificazione del diverso e dell’estraneo, possiamo considerare alcune rappresentazioni metaforiche di quel processo disseminate all’interno dei testi dell’ Andreini. Nelle Due comedie in comedia, alla fine dell'atto secondo, gli spettatori assistono all’arrivo annunciato di una compagnia di comici in Venezia; anche l’oste Fisolera li vede, ma li scambia per una compagnia di sbirri, e reagisce da «bulo», sfoderando una tirata degna del Capitano Spavento. Il teatro scolora sulla realtà, significati metaforici e significati letterali si scambiano di posto. Ilflash s’interrompe quando la parola cessa di essere agita e torna a farsi analitica rompendo il velo delle apparenze: «Comedianti, comedianti, signori comedianti,
fermève e aldìme. No ve partì, cari signori, no ve cognosceva. Un de vu m’ha messo in sospetto, che somegia tuto tuto a un di nostri zafi» “.In un altro momento della stessa commedia, l'apparizione dello straniero provoca lo sconcerto pauroso. Ma subito la paura diviene mitopoietica. L’attore appare come un guerriero, un bandito, forse uno sbirro: FILINO
(...) Ma chi son costoro con tant’oro in dosso, con tante piume in capo?
Sono tutti signori? (...) Saranno forse una compagnia di sbirri, o pavesi, o cremonesi, perché già su quelle piazze passeggiavano in cotal foggia.
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Gli sguardi smarriti dei cittadini leggono la visione in modo letterale, i comici ripropongono invece una lettura metaforica della stessa scena. Qualcosa che ricorda la « militia» cristiana evocata da Francesco Andreini o i corsari virtuosi del Barbieri: FABIO Alfieri di virtù che in candida bandiera, entrovi affisse note vere, facciamo al comparir di quelle radunar per piazze e per cantoni genti diverse, intente al mirarne ed ammirarne.
L’enigma lascia sospesi gli astanti fino alla spiegazione nobilitante fatta dagli attori. Dall’immagine alla parola ermeneutica che scioglie la metafora: FABIO (...) Il candido stendardo, entrovi affisse note nere, sono que’ cartelli di commedie che si veggono per le città, i quali, mentre son letti e per piazze e per cantoni, riducono alle stanze gran numero di popolo. Siamo alfieri di virtù, poiché al vagar di queste insegne per la città invitiamo gente molta a vederne *.
Nello Schiavetto il piano performativo è dominato dagli abiti, dai gesti, dai lazzi della banda degli «scrocchi» vagabondi che si incrociano, nelle strade e in una locanda di Pesaro, con gli ebrei, i viaggiatori, i ciarlatani, i buffoni. Le parole, quando si placa lo spettacolo delle
buffonerie e dei travestimenti, scoprono nella banda di Nottola la metafora delle povere compagnie comiche itineranti: RAMPINO [4 Nottola]
(...) Un manigoldo se’ tu, che n’hai tutti trappolati, facen-
do ad ognuno lasciare il suo camino dicendo: « Vien meco, ch'io ti farò ricco! » L’uomo, non sapendo altro, s’è fidato ed è venuto e ancora molto teco più averebbe trascorso, ma il sentir dir: « Venite allegramente, ché come siamo a Roma mi voglio fermare», poi, a Roma giunti, dire: «Andiamo, ché vi prometto, come siamo a Viterbo, che colà riposarmi intendo », come siamo a Viterbo dire: «Andiamo, ché dadovero come siamo a Siena si rinfrancheremo del viaggio», e così menarne a Pesaro, voler ancora più oltre passare ‘.
Cosî Lelio e Florinda, una volta appagato con le loro esibizioni teatrali lo sguardo degli spettatori, dismettono gli abiti, rispettivamente di attore girovago e di ciarlatano, per scoprire le autentiche identità. Il racconto della loro storia segreta, una novella in piena regola, li distingue dai vili compagni di Nottola e nobilita anche il mestiere. Sotto le miserevoli vesti dello schiavetto si nasconde l’anima eletta di Florinda, giovane donna napoletana tradita dal perfido amante e impegnata nella ricerca di lui. Sotto l’abito di Faceto, comico solista, batte il cuore generoso di Lelio, smanioso di lavare l'onore della famiglia macchiato dalla sorella Florinda. Proviamo a leggere le autodifese che la sospirosa Florinda e il capocomico Lelio fanno dei loro personaggi segreti. Troveremo, trascritte in forma di ‘aria’, le argomentazioni per la difesa morale dell’arte comica:
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Capitolo sesto SCHIAVETTO [FLORINDA]
(...) Pensa deh, pensa or tu, a quante calamità di lun-
ga e incerta peregrinazione si avventurò donna, che per natura altro conoscer
non dee che gli angusti confini della sua casa! Ahi quante volte (0 crudo) inaccessibil monte incontrandomi, tutta mi sgomentai, divenni sasso dal piede al capo in rimirarlo, misera creder non potendo di colà su poter portare questa mia vita inferma. Pensa, pensa, come dalla pioggia molle, dalla grandine percossa, dal vento trafitta, dai lampi abbagliata, dai tuoni assorda, dalle tenebre tenebrata, più volte fu la misera peregrina Florinda, la quale, in tanta fiera sventura, il ricovrarsi sotto un’arbore fronzuta fu gran ventura. Pensa, pensa, o
spensierato, quante fiate l’ira de’ ladroni, l’ulular de’ lupi, il corso de’ rapidi torrenti, le arricciasse il crine, tremar la facesse dal capo alle piante! ‘.
Le asperità del viaggio sono un vero e proprio martirio che santifica l’attore-saltimbanco. Con toni analoghi il concetto verrà ripetuto nel trattato La ferza: chi più di queste del mondo erranti viatrici travagliate saranno? Queste ogn’ora, ogni momento con una continua e discommoda agitazione solcano i fiumi, s°espongano ai mari, poggiano ai monti or rapidi, or procellosi et or precipitosi. Or quante volte, e quante credi tu, o viatore, che mirino il terrore e la morte in faccia?
Quante preghiere ti fai a credere ch’al Cielo inviino delle più belle e delle più vivaci in perigli così gravi? Quante fiate s’espongano per le foreste or all’alba, or al meriggio, or alla sera, or alla notte, or serena et or oscura, a cadute gravi non solo,
ma a svaligi di ladroni imperversati? (...) Quante altre volte poi assiderati nell’algente bruma, sovra ignudi ghiacci cavalcando, dalle grandini e dal flagello delle nevi gelate a occhi serrati per aperte ruine errando miserabili, e perdute attendono tra le nevi profonde, di profondo vallo, algentissimo sepolcro. Quante volte ancora dentro rapido fiume navigando, entro sassi coperti, entro marmorei ponti incontrando, si sdrucirono i legni quasi tutte due volte sommersione provando l’una nel pianto, l’altra nell’onde? #.
Florinda e Lelio, dietro le maschere di amanti sfortunati, sono at-
tori. A Florinda viene perdonato il mercato di sé sulla pubblica piazza perché «tanto peregrinò, tanto patf e tanto fece» per generosità e onestà; Lelio chiede perdono per «l’aver (...) vestito questo abito con supposito nome, per poter con questo mezo di comico, e comico solo, esser chiamato in tutte le case» ‘. Allo stesso modo nel Lelio bandi-
to giustificano i loro comportamenti, in apparenza indecenti, le due amorose che fanno da cornice a Lelio. Doralice si spoglia dell’abito
maschile di Teodoro («questa che ’n abbito d’uomo si vede è gentildonna nobilissima ancora »), Florinda di quello rusticale di Marinella
(«contadina all’abito però, ma all'aspetto non solo degna di cittadi ma di dominio»)”. Entrambe sono impegnate, come tutti gli eroi di Andreini, a smentire le ingannevoli apparenze di donne vili imboscate suimonti, in mezzo ai malviventi: la parola celebra l’apologia delle attrici oneste:
Lelio bandito e santo
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MARINELLA [FLORINDA] L’aver mutato, o signora, con la fortuna il nome, i palazzi, in questo affumicato luogo, le vesti d’oro in povero lino, i cibi in sospiri, le lagrime in bevanda, cagiona perché l’imagine del dolore io rappresenti. RINIERO Donna? Nonè donna, è demone, non è femmina, è una furia. E come, licenziosa, tanto osasti, che dimenticandoti i confini della casa, l’esser donna contrafacesti, adulterasti il sesso tuo, vestendo abito d'uomo, non fra donne essercizi feminili facendo, ma tra farinelli alla campagna assassinando? (...). LELIO Signore, uccidi il corpo conle tue funi, e non la fama altrui con la tua lingua. Torno a ridire ch’è d’illustrissima famiglia, e sotto fede maritale giva peregrina, amorosa di me cercando certa novella.”
La parola, ancora la parola, attraverso l’agnizione e i monologhi narrativi, spoglia Lelio degli abiti di capobrigante. La sua vita errante, sui monti dell'Abruzzo, nella microsocietà separata e marginale dei banditi, ha una lontana causa in un torto ingiustamente subito che lo ha spinto all'esilio dalla lontana Firenze. Egli è in realtà un nobile borghese che ha peccato per amore. È dotato di virti taumaturgiche (guarisce la ferita di Doralice) ” ed esibisce una generosità che ricorda
tanto Robin Hood quanto un bravo capocomico che « con gentilezza infinita (...) d’argento, d’oro, di gemme e di grosse catene d’oro a ciascuno, non conforme al merito ma conforme al suo generoso cuore,
ricchi doni dispensa»”. Qui il capocomico si autorappresenta, da una parte, come «capo de’ ladri» e, dall’altra, come « Mastro di Giu-
stizia», come «Farinello capo di parte, che dee raccoglier varie genti» e come buon conoscitore della lingua latina”. Appare nello stesso tempo nobile e furfante, capitano e uomo di pace, generoso e severo, amato dai suoi compagni e perseguitato dalla società civile. Nelle Due comedie in comedia Lelio e Arminia conducono, in casa di mercanti veneziani, un’esistenza appartata, contrapposta al vagabondare militaresco dei comici professionisti: dopo essere stato «peregrino (...), paggio, soldato»”, Lelio è anche attore e drammaturgo dilettante; Arminia è musica e cantante. Fin dal loro primo apparire (II. 1) la nobile origine, che gli abiti nascondono, è rivelata; quando va in scena lo
spettacolo ed essi vestono i panni di Graziano e della Pace, i connotati si confondono di nuovo, ma solo il tempo di una pur lunga azione teatrale; nel bel mezzo di quella, la parola interviene per bocca di Lelio a rivelare un altro segreto: Lidia, attrice dilettante tra gli Accademici, è in realtà un’antica infelice amante di Lelio. Ma un nobile cuore
innamorato si nasconde anche sotto l'identità di Fabio, chiamato Al-
fesimoro in commedia e Parsenio nella vita. Egli ce lo confessa prima di confondere la sua identità nei costumi e negli artifici teatrali: gentiluomo romano, si è aggregato ai comici vaganti per miseria, anche lui | alla ricerca di una perduta amata”. Subito dopo, la nuova lunga rap-
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Capitolo sesto
presentazione allestita dai teatranti professionisti sfrangia i connotati dei personaggi e li ricompone definitivamente per rivelare le loro nascoste identità di mercanti borghesi. Ritorna qui la seconda metafora cara ai comici polemisti (e per primo a Francesco Andreini), quella che fa della mercatura, purché cristiana, la professione più vicina, tra le più ambite ed emulabili, al teatro di mestiere. E anche il Lelio de La sultana, malvivente tra i malviventi dell’angiporto di Napoli, acquisisce un certificato di rispettabilità per essere figlio di Ginorio Arnauti «mercante di seta», mentre per la protagonista femminile la riabilitazione è stabilita dal fatto di essere «figlia di sultana principalissima di Costantinopoli (...) e di famosissimo padre otomano, per terra guerriero strenuo e formidabile, e per mare corsale terribile et insuperabile»”. Imercanti e ifigli, al pari dei sovrani corsari e delle principesse, lasciano cadere le maschere di teatro e, come farfalle che si liberano della crisalide, ritrovano le loro anime belle momentaneamente smar-
rite. Attori mercanti corsari: le tre professioni scoprono di nuovo la loro contiguità, almeno nell’apparire della scena. 3. Ipersonaggi erranti che appaiono sul palco come soldati, vagabondi, furfanti, avventurieri, schiavi levantini, capitani di ventura, ciarlatani, istrioni, si rivelano alfieri di virti, missionari del bene, pel-
legrini della verità morale, eroi ed eroine in via di redenzione, i quali, a loro volta, non sono altro che metafore di Lelio, Florinda e dei loro
compagni Fedeli. La commedia è quindi la messa in scena di una rivelazione ininterrotta. L’alternarsi di immagine e di parola, di travestimento e verità, il continuo cadere delle pellicole superficiali, come nello svuotamento di una cipolla senza nocciolo, sono la traduzione in testo scritto di quell’esercizio di messa a fuoco della coscienza che doveva prodursi ogni sera negli spettatori stanziali (come nel caso dell’oste delle Due commedie in comedia) quando gli stranieri teatranti venivano a sorprendere le loro abitudini, i vizi consuetudinari, i pregiudizi. E lo spettacolo durava il tempo necessario alla percezione
dell'inganno e al suo svelamento. Spogliarsi, denudarsi, vestirsi. Il movimento è comune a tutti i
ruoli, maggiori e minori. Può essere ossessivo e delirante nella Turca,
dove si assiste a travestimenti multipli: cristiani in abiti da mugnai, da spazzacamini, da schiavi turcheschi; guerrieri turchi in abiti pastorali; pastori in abiti guerreschi. Ognuno cambia più volte identità. Quattro volte Florinda è camuffata da Candida in abito di turca, con qualche ritocco simula Nebî suo gemello, poi si spoglia per apparire
e O
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quale autentica Florinda, di nuovo si riveste per simulare il gemello Florindo; si aggiunga poi che c’è una quinta immagine di lei, il falso simulacro creato per noi spettatori da uno zanni che la imita in un lungo lazzo*. La peripezia degli occultamenti e delle metamorfosi, l’incerta ambiguità di vero e falso, cessano quando, alla fine della commedia, la turca protagonista torna a essere la cristiana Florinda, e quando la stessa conversione colpisce il gemello di lei Nebî, mentre tutt'intorno è un tripudio di battesimi e si scoprono fratelli, e quindi cristiani, anche Rosildo e Rosmondo, che nel corso della commedia
erano stati il turco Occhiali e il Capitano Corazza, corsari di opposta fede. Il parossistico travestitismo si ripete nello Schiavetto dove, sull’esempio martirologico degli etranti Lelio e Florinda, l’ingaglioffimento in abiti di categorie giudicate ‘spregevoli’ (ebrei, becchini, vagabondi) ha un vago sapore penitenziale. Il denudamento finale assume il senso di un rito battesimale e purificatorio. Da non dimenticare che, come nella Su/tana, la catena di vestizioni e denudamenti si con-
clude con la conversione di tutti imusulmani al cristianesimo. A un battesimo neoplatonico più che cristiano (secondo la lezione del Cratilo) rimanda anche il delirio nominalistico che accompagna le metamorfosi dei personaggi delle Due comzedie in comedia. Da principio sappiamo da un servo che Zelandro è il « gelo ch’ha posto tanto fuoco d’amore nel mio padrone che perciò si chiama Rovenio»; ma Arminia ribattezza uno dei due vecchi: «il suo nome non è Rovenio, poiché si chiama Durante Ginebri furlano, duro certo assai più che ’1diamante, pungente molto più che lo stesso ginebro ». Cosî Dardenia diventa Solinga: «Dardenia, da l’amoroso dardo ferita, doveva Solinga nomarsi per esser a ognora meco soletta». E la stessa Arminia rivela di essere in verità Florinda: «Né io mi chiamo Arminia, che tal nome
m’imposi volontaria, per quest'arma acuta che meco serbai a questa dovuta e memoranda vendetta; ma sì ben Florinda, fiore sfogliato, fiore inlanguidito, fiore dall’orto di mia verginità spiantato, perché nel campo di disonestà io divenissi fiore assai più disprezzabile dei fiori che producono le ortiche e i velenosi virgulti»”. Triplice battesimo, come itinerario in tre stazioni verso la salvezza, si impartisce nella Centaura. Gli attori che recitano come innamorati da commedia nel primo atto, salgono alla pastorale nel secondo, e alla tragedia nel terzo. Solo qui il rito si compie. Colei che è stata, nella prima stazione comica, la povera pazza Filenia, diventa Filli, e infine Florinda, figlia di Teucro, re di Cipro. Riletto all’inverso, l’abnorme copione è nello stesso tempo un gioco di virtuosismo per la
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Capitolo sesto
prima donna Virginia Ramponi e una via crucis purificatrice: fugge dall’ospedale dei pazzi per arrivare alla reggia amica. Torna la metafora della riabilitazione cristiana del mestiere comico. Lo stesso avviene per il personaggio della seconda amorosa, Lidia, che, attraverso il martirio (è ferita a morte) scopre, anche lei, di essere figlia di re e sorella della mitica Centaura, ritrovando il suo vero nome di Trinea. E anche il ‘cattivo’ Capitano Rinoceronte si pente e si redime nel terzo atto, nel momento in cui dismette il nome posticcio e ritrova quello autentico del nobile Fidimarte. Del resto sappiamo (tramite lo stesso Andreini) che lo stesso avvenne all’attore che portò per una vita quel nome d’arte e che dopo morto fu venerato come santo: (...) a Parigi parlo, dov’è nota di Girolamo Garavini ferrarese detto Capitan Rinoceronte, la divotissima vita, e dove alfine in questa terza servitù reale alli duo d’ottobre 1624, con mio grandissimo dolore diede alla terra tributo della carne, et al cielo dell’anima. O non è egli noto a’ comici tutti quante elemosine et astinenze faceva? Non si sa egli (come gli istessi, che ’n Parigi il servivano affermano) che più erano l’ore della notte che spendeva in pianti e ’n discipline che quelle che riposando dormiva? Nell’inventariar le sue vestimenta forse non si trovò, oltre le aspre discipline, di piastre di ferro pungente un largo et aspro ciliccio, che e recitando, e quasi i giorni tutti della settimana portando, non gli dirò il martirizava, ma si ben divotamente sosteneva? ©.
Il cilicio nascosto sotto il costume di capitano da Gerolamo Garavini riassume bene la concezione dualistica di Andreini che abbiamo visto fare dell’attore un eroe e un bandito, un martire e un falsario, un
peccatore e un santo, se stesso e il suo contrario. Sotto le spoglie del teatro materiale vigila la virtù celeste. La memoria imperitura può germogliare dal concime della cronaca quotidiana del teatro. Nella selva dei lazzi osceni, nella vile bellezza del palcoscenico si possono conoscere, o meglio riconoscere, verità morali profonde. Perché questo avvenga occorre che il poeta scavi con la parola al di sotto delle apparenze, cavando dagli attori il bene morale in essi nascosto. Più volte in brevi inserti, pronunciati con la lingua media quotidiana che è propria della commedia, l’Andreini ha ricordato di sfuggita il suo progetto riformatore: «è difficilissimo che velo di povertà copra la serenità di volto nobile»; «sì come non è alcuno animale che per trovar le sostanze corporee e nutritive vada della terra più al profondo che ’1 porco, così i poeti sieno tutti porci, poiché questi veramente sono quelli che, rumando, vanno al profondo della vera intelligenza delle cose»; «né mi sdegni credendo che da abito così vile uscir non possano se non vili pensieri, perché da le siepi di sole spine spuntano ancor le rose»“. Il manifesto estremo di questa doppiezza è la struttura della
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Centaura, opera mostruosa ma vitale, anzi vitale perché mostruosa, che trae energia dal suo essere metà terrena e metà celeste. Come gli attori e le attrici, «le centaure nel corporeo velo |Son nel mondo regine e dive in cielo» ”. Il viaggio che gli attori della Centaura percorrono dal vile ospedale dei pazzi (nel primo atto) all’isola tragica e allegorica del terzo atto, segna la massima estensione possibile delle ambizioni dell’ Andreini. Come lascia già intendere la dedica a Maria dei Medici, datata gennaio 1622, l’opera fa riferimento all'avvenuta pacificazione (27 gennaio) tra la regina madre e il figlio Luigi XIII e contiene non poche allusioni al contesto politico di conciliazione tra le diverse parti impegnate nel conflitto religioso e ideologico. Vi si possono leggere vari temi di carattere pedagogico-politico: la legittimità dinastica (la prodigiosa serie di agnizioni e affiliazioni a cui si assiste nel terzo atto), la celebrazione dei meriti di Maria”, il ricordo della morte e delle esequie del gran re Enrico IV (adombrato dalla figura di Cercàfo, tradito e ucciso), le allusioni al tradimento, usurpazione e supplizio di Concino Concini (rappresentato da Artalone)“, la riconciliazione del re con il partito degli italiani (la riabilitazione finale di Artalone), gli accenni alle doppie nozze spagnole dei figli di Maria (gli imenei che chiudono lo spettacolo), il ruolo-chiave di Richelieu (Astianante). E
in più, forse, a guardarla bene, la struttura stessa della Cenzaura, con-
tiene l’elogio del metodo politico di Richelieu, basato sulla mediazione dei contrasti, la resecazione delle estreme, la conciliazione degli opposti‘. I casi infimi di due coppie di amanti infelici servono a traghettare gli spettatori nel cielo della storia dinastica.
4. Prestando ascolto ad Andreini abbiamo rispettato la natura doppia delle sue commedie. Come fossero tutte quante centaure, le abbiamo descritte da due punti di vista opposti. Nel primo caso, guardando la materialità delle performzaces scenotecniche e degli attori, seguendole nel loro svolgimento apparente; nel secondo, adeguandoci all'ideologia dell’editore e scrittore, che ci invitava ad «andare al profondo della vera intelligenza delle cose», e quindi a leggere le sue commedie alla rovescia, senza badare troppo alle apparenze. Il primo punto di vista ci ha collocato dalla parte degli spettatori, al di qua della scena; l’altro ci ha proiettato dall’altra parte, dietro il palcoscenico, a fianco dell’autore. Volendo seguire la seconda via, potremmo avanzare ulteriormente sulle tracce dei distinguo e dell’intelligenza, approfondendo gli elementi neoplatonici, gnostici e cristiani che, in sin-
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tonia anche con quanto si stava elaborando in terra di Francia, l’Andreini accumula soprattutto nelle opere successive al 1620, e potremmo magari collegarle con il ricorrente tema, teatrale e letterario, della Maddalena. Ma vogliamo restare al teatro e non dobbiamo sciogliere la metafora, tanto più trattandosi qui di un attore-autore che di quella metafora ha fatto l’oggetto della sua rappresentazione. Volendo restaurare, utopicamente, l’unità dello spettacolo, cerchiamo di osservare i nuclei drammaturgici in cui la metafora (la comparazione raccorciata, i cui due termini di confronto possono sostituirsi reciprocamente) è adiacente al suo scioglimento (la separazione e allontanamento degli stessi termini di confronto). In altre parole se, per Andreini, «le centaure nel corporeo velo |Son nel mondo regine e dive in cielo», andiamo con il nostro capocomico in caccia di quel « corporeo velo », decifrando il punto in cui animale e uomo si sovrappongono, laddove il «cielo» si confonde con il «mondo», quando doppiezza e unità convivono nell’emozione della scena, prima di sciogliersi nella chiarificazione morale e intellettuale del libro. Guardiamo il ricorrente trasformismo, che finora abbiamo spiegato come ossessione dell’autore, dal punto di vista degli attori principali, lasciandoci guidare dai nomi d’arte inconfondibili. Lelio si sdoppia nei Duo Lelii simili, e diventa addirittura triplo quando sembra uscire di senno; Florinda si moltiplica per quattro (due volte donna e due volte uomo) ne La turca mentre una quinta copia di lei è messa in scena da uno zanni er travesti; ancora Florinda si sdoppia in maschio ne Lo schiavetto; tripla femmina torna a essere nelle Due corzedie in comedia, e come lei fa anche Lidia; ancora doppiamente donna la ritroviamo nella Sultana e nel Lelio bandito; di nuovo si fa maschio e gemello nell’Azzor nello specchio; torna a sdoppiatsi in una gemella femmina, mentre Lelio fa altrettanto con il suo fratello-copia, nella Centaura, senza contare le scene di pazzia del primo atto e le trasformazioni allegoriche del terzo. L'attenzione con cui Andreini evita meticolosamente la compresenza in scena dei doppi conferma che quelle parti erano recitate da un unico interprete: e questo aumentava
l’alone di magia e di illusionismo dello spettacolo “. Lelio e Florinda, ma anche Lidia (che sappiamo esser stata promossa da Andreini al rango di «seconda amorosa»), davano prova di un’abilità straordinaria, mutando abito e sesso, variando intonazioni e movenze, nel giro
di poche scene. Un tema, che la tradizione letteraria fa parere convenzionale e banale, diventa in questo modo oggetto di stupore e di meraviglia. Emozioni teatrali che non possono essere restituite né avvicinate dagli spenti fossili di cui disponiamo: come i versi dei poeti
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che vollero tramandare ai posteri i trionfi di Florinda Quando veste habito da huomio o quando « Cangia [... ]i panni in sula scena», sottolineando la forte dose di ambiguità sessuale presente nel suo repertorio”.
Si legga con attenzione come viene orchestrata una scena della Turca in cui Florinda passa dal personaggio femminile a quello maschile. È il punto di sutura dei due elementi del doppio, il momento emozionante in cui l'attrice smarrisce l’identità ed è sospesa tra essere e non essere. Siamo verso la fine della commedia, la sequenza prevede la rapida successione sul palco, a distanza di poche battute, dei due gemelli Candida (Florinda) e Nebî (Florindo). Quando appare Candida-Florinda, il poeta Laurindo crede che si tratti del figlio Florindo vestito da donna, Florinda si risente, il suo innamorato Lelio la fa fuggire in casa: POETA (...) questi è uomo e mio figliolo. FLORINDA [1 abito da donna) * Lasciatemi stare, che modo di fare è questo? Che seccaggine è questa vostra? (...). POETA Vedete questo bricconcello come s’infinge donna. Vien qua. LELIO Entrate là. [La spinge in casa]. POETA Dove vai? FLORINDA [corze sopra] Or lo vedrete. [Entra în casa].
A questo punto il poeta e Lelio si picchiano. Il pubblico conosce l’equivoco, ride e aspetta il colpo di teatro. Le battute che seguono bastano a consentire una rapida trasformazione dell’attrice in uomo. Oggi diremmo ‘alla Fregoli?: POETA LELIO
Doh, corpo del mondo, con questo bronco ti voglio accoppare. Mena pur le mani, che anch'io n’ho uno.
LARDELLO Ferma là, ferma là. LELIO Lasciane fare. POETA Lascia ch’io mi scapricci. LARDELLO Ferma là, dico. i FLORINDA [ix abito da uomo, uscendo] Olà, a questa foggia? Fermatevi là, se non con questo ferro vi uccido! A mio padre, a mio padre questo?
Il capovolgimento è improvviso, la scena si accende di emozione. Quale inganno è questo? Quale magia? È questo il vero volto di Florinda o di Florindo? Le battute seguenti ricalcano il metodo delle didascalie implicite (sono quelle che ci hanno consentito di introdurre
nel testo le opportune parentensi quadre). Lelio e il poeta descrivono l’azione e certificano gli effetti prodotti sul pubblico dalla performzance di Florinda: POETA LELIO
Ohimè, stupisco e per lo freddo tirzore semimorto mi stimo. Et io rimango confuso: questa mi par Candida. Ohimè, e come?
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Capitolo sesto PoEeTA
Non se’ tu ora entrato in casa del signor Lelio, al mio dispetto, in abiti
femminili? Non dir di no, perché siamo in duo che t’abbiamo veduto ®.
Stupore, timore e confusione. È faticoso e inadeguato il percorso di risalita dagli indizi del testo al calore dello spettacolo. Ma risiedono in questi poveri resti le tracce del fascino dell’attrice. In questo suo essere una e doppia, uomo e donna, illusoria alla vista quanto abile nella tecnica, magica ed efficiente. Ben esercitata nel teatro materiale e attenta al suo superamento fantastico. Come le centaure, le attrici sono capaci, con il loro corporeo velame, di creare stupore e magia, fascino e smarrimento.
Il teatro materiale, con i suoi marchingegni messa di un trasumanare leggero, di un viaggio intuire. Agli indizi microscopici fin qui forniti quelli ampi ed esibiti, sostenuti dai mutamenti
scenotecnici, è la preche lo storico può solo potremmo aggiungere a vista della scenogra-
fia e dei costumi come all’inizio del secondo atto della Certaura, quando i cittadini si vestono da pastori e appare la spiaggia della favola boschereccia e marinara. Anche qui, se si guarda a Florinda e Lelio, si assiste a una grande prova d’attori; hanno fatto le scene di pazzia, d’amore e di fuga, da amorosi convenzionali, nel primo atto; adesso, mediante l’espediente dei gemelli (uno pastorale, l’altro cittadino), possono dare vita a duetti multipli: Florinda pastorella con Lelio cittadino; Lelio pastore in coppia con Florinda che si è intanto mutata in cittadina; i due insieme, vestendo di nuovo i costumi pastorali. Si può
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ottenere in questo modo un continuo saliscendi di toni recitativi, lungo tre pianerottoli e i due attori sono raramente situati allo stesso livello. Analoghe sono le suture che fanno trapassare, con crescente accelerazione, Lelio al suo doppio (Li duo Lelti simili), oppure le parentesi di erotismo er travesti che si aprono quando l’attrice recita la parte maschile in duetti etero e omosessuali ”. Sempre alla ricerca di indizi per poter percepire meglio, e restaurare, la materia sensibile della doppiezza, può servire rileggere il lazzo trascritto nella Campanaccia, quando il protagonista, ubriaco, si imbatte in un finto doppio di sé. notte, il Dottore non riconosce il Capitano camuffato da Dottore. Delira: L’è la mia ombra, e perché l’è l’ombra della sira lame par cusì granda. Deh, diambarna! Mi toc el nas all’ombra, e l’ombra me’l tocca a mi, mi ghe’l tir, liè me’l tira... ohu, ohu!”.
Comincia un gioco davanti allo specchio, un contrappunto di suoni e movimenti del protagonista e del suo doppio. I due attori replicano i
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gesti e le parole. È un’esibizione di bravura mimetica, di virtuosismo fine a se stesso. Ancora magia e illusionismo. L'emozione della vista e dell’udito nella notte della mente. Il delirio schizofrenico e il sogno demenziale. La scena cammina, in equilibrio instabile, tra l'abisso della patologia e il sicuro governo dell’artificio. Ancora una volta la terra e il cielo. 5. Qualche frammento percettivo ulteriore per capire la doppiezza recitativa degli Andreini può essere desunto dalle fonti iconografiche. Tasselli difficili da identificare, e comunque da inserire con una certa prudenza nello schema congetturale di restauro dello spettacolo. Alle rare immagini che accompagnano le edizioni delle commedie fa riscontro una maggiore abbondanza di figurazioni relative alle opere classificate nel registro più ‘alto’ dell’Andreini: La Florinda, La Maddalena(il poema e la sacra rappresentazione), L’Ada4zzo. Opere più volte ristampate con un buon corredo di incisioni ”. E anche opere in cui si celebra la prima donna Virginia Ramponi che dalla tragedia Florinda ricavò il nome d’arte di tutta la vita, e dalla Maddalena e dall’ Adamo la nobilitazione letteraria e morale che le commedie non arrivarono mai a darle. A opere di genere alto fanno riferimento infatti i componimenti poetici con cui la celebrarono scrittori illustri e non. Né i versi arrivarono da soli, accompagnandosi spesso ai più solidi monumenti lasciati dai pittori. Giovan Battista Marino, ne La Galeria, ritrasse proprio Florinda nell’atto di posare per un ritratto di Cristofano Allori purtroppo perduto”. E normale che la pittura usi la bellezza e la celebrità di un’attrice per accentuare la vitalità della riproduzione di un mito, ed è altrettanto normale che quel mito sia per l'attrice l'occasione per un innalzamento dal teatro materiale a quello della fama: «molti stati ce ne sono che per galerie, e per luoghi più rari, hanno volute in pittura immagini loro, in forme di varie deità, come apporta la delicatezza dell’arte, e la grandezza del luogo dipinto; non solo per gloriarsi in mostrando que’ luoghi colorati dell’eccellen-
za del pittore, dell’invenzion mirabile: ma per dir quella fu l’affettuosa, e dotta Vittoria, quegli Orazio il saputo e grazioso, e via discorrendo»”. Non è improbabile che l’Arianna dipinta da Domenico Fetti accanto a Bacco, nel quadro Arianna e Bacco nell'isola di Nasso riproduca proprio le fattezze di Florinda, assurta agli onori di una vertiginosa immensa fama durante le feste mantovane del 1608 che l'avevano vista protagonista inattesa ma subito mitizzata dell’Arianna di Montever-
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di”. Tenuto conto che il committente fu, probabilmente tra il 1611 e il 1613, il cardinale (e futuro duca) Ferdinando Gonzaga, grande protettore della compagnia degli Andreini”, non è del tutto fuori luogo pensare che in quella figura dai capelli biondo fulvo, discinta, il colore smaltato della pelle, in procinto di calcare la marina dell’isola di Nasso, ci fosse un’eco della celebrata cantante e attrice. La disposizione dei personaggi è teatrale, con l’allusione appunto a una favola marittima, sul genere della Turca o della Centaura, con la nave solo accennata dal particolare degli alberi che svettano, di scorcio, oltre l'orizzonte del fondale, ornati da tralci di vite, dal gusto spettacolare e simbolico. Lo schema, comprendente anche le divinità assiepate sulla nuvola, ricalca il canone fissato dagli intermezzi buontalentiani della Pellegrina”, ma è anche analogo alla disposizione della scena-prologo del secondo atto della Centaura che descrive l’imbarco e poi lo sbarco degli attori cittadini sul lido che accoglierà la pastorale: «Qui di dietro si farà rumor di catene, si mostrerà un albero di nave. Marinari
grideranno ‘Alla barca, alla barca’ più volte, e tutti partiranno» ”. E se anche quella figura femminile non fosse Virginia Ramponi, sarebbe comunque l’istante recitativo da lei fissato a interessarci, per quell’insistere su un gesto di sospensione, la mano e il piede levati, poco prima di scendere sulla spiaggia della sua rigenerazione. Principessa abbandonata errante, da regina fatta povera, sul punto di ritrovare con Bacco l’empito che la innalza di nuovo al cielo. Sia Arianna che Bacco dispongono le braccia come interpreti che amministrano i fiati di un canto che si spegne o si leva. A ben guardare, i rapporti degli Andreini con il Fetti non furono solo ipotetici. A lui Giovan Battista dedicò la prima stampa de La venetiana tra l'ottobre e il novembre del 1619, con toni di grande confix denza; a lui fece forse disegnare l’immagine della Maddalena da cui fu tratta l’incisione per il frontespizio dell’edizione dell’omonima sacra rappresentazione del 1617”. Secondo un recente studio parrebbe (ma non vengono, per la verità, addotte prove certe) che un quadro eseguito dal pittore per il monastero mantovano di Santa Maria della Presentazione, detto della Cantelma, fosse stato eseguito « su deside24,33, rio di un componente della famiglia» Andreini”. Lo stesso studio,
39. grazie al facile confronto con altre immagini del personaggio, ha finalmente identificato in Francesco Andreini, padre di Giovan Battista (e non, come finora ritenuto, in Tristano Martinelli), l'anziano at-
s tore raffigurato dal Fetti nello splendido ritratto conservato all’Ermitage di Leningrado”. Autorizzati dalle relazioni amicali degli Andreini con il pittore,
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frughiamo ancora tra le sue opere, seguendo il filone dei personaggi teatrali, teatrabili, o meglio, teatralizzati *. Dopo Arianna, Maddale-
na. Il relativo tema iconografico, tra i pit diffusi all’epoca, viene svolto dalle incisioni che accompagnano le diverse edizioni del poema e della sacra rappresentazione di Andreini che si succedettero dal 1610 al 1652: immagini convenzionali che denunciano punti di contatto, nella figura della protagonista, anche con Eva, l'eroina femminile dell’Adamo che l’Andreini dette alle stampe a partire dal 1613 *; comune ai due personaggi è il motivo dell’erranza, del romitaggio pastorale, della fuga dal mondo, del transito salvifico *. Motivo che compare,
potenziato dall’alta qualità del dipinto, in una celebre opera del Fetti, documentata da due esemplari autografi e da molte copie, e nota sotto il titolo di Malinconia”. Non possiamo qui affrontare i numerosi problemi a cui l’interpretazione del quadro ha costretto i critici d’arte, ci limitiamo a raccogliere l'opinione di Klibansky, Panofsky e Saxl, che hanno visto nell’atteggiamento della donna e negli attributi sim-
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bolici che la circondano (da una parte il teschio che richiama alla va-
nità della vita; dall’altra gli attrezzi delle attività teoriche e pratiche dell’uomo) un punto d’arrivo della cultura figurativa rinascimentale
che aveva assegnato al motivo della Melanconia un doppio significato («la fusione dell'immagine della Melanconia con quella rappresentante la Vanità») accentuato dal « contrasto tra il contenuto lugubre della meditazione e la giovanile bellezza del soggetto meditante». L'evoluzione in Fetti è cosî marcata da spingere alla conclusione che «La Melanconia (...) assomiglia al tipo della Maddalena penitente»”.
Un quadro anfibio, dunque, che sposa la messinscena concreta di una figura dai tratti popolari alla sua astrazione simbolica. Il viso sensuale della donna contrasta con il fondale boschereccio che, appena intravisto, crea un clima di raccolta sospensione, uno stato di passaggio. L’attitudine è meditativa e sensuale, l'ampio nastro giallo che scende lungo la schiena allude allo stato di cortigiana”, gli attrezzi tutt'intorno accennano al sapere, alle arti, alle professioni. Il viso di questa Malinconia-Maddalena somiglia in modo sorprendente a quello di Arianna: le labbra carnose, gli occhi esoftalmici, il disegno dell’orecchio, le pieghe del collo, mentre la penombra scurisce i capelli, acconciati tuttavia con il medesimo nodo. Piacerebbe poter dire che i due quadri ebbero la stessa modella e suffragare la dimostrazione con il riscontro del ritratto di Virginia Ramponi Andreini eseguito da Cristofano Allori nel 1603 (ma potrebbe servire anche l’incisione inserita nell’edizione della Maddalena del 1617) *.
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La somiglianza più importante non dipende dall’anagrafe della modella. Non è l’attrice, ma il personaggio che ora interessa con i suoi tratti pertinenti. In particolare la doppia natura di peccatrice e penitente, l'ambiguità di una solitudine che si fa posa scenica, la fusione di malinconia e sensualità, rinviano all’armonia dei contrari che abbia-
mo visto disciplinare tra virtà e peccato lo spettacolo degli Andreini. La messa in scena pittorica concilia gli opposti con un metodo analogo alla rappresentazione teatrale. Entrambe guardano alla doppia natura delle cose. La rivelazione della verità nascosta sotto le apparenze peccaminose, che sta tanto a cuore all’Andreini, è possibile grazie alla virtà delle donne attrici: costoro infatti, contrariamente a quanto sembra, « non son nate alle conocchie, ai naspi: ma sì bene ai libri, alle
penne, alle vigilie et alle noie; spesso premeditar dovendo con fatica in privato quello che ’n pubblico poi con tanto tremore, ma con altrottanto onore rappresentar debbono» ”. La Melanconia-Vanità-Cortigiana-Maddalena del Fetti rappresenta la trascrizione visiva del progetto morale che lAndreini assegna all’attrice: donna pubblica ma virtuosa, sensuale e intellettuale, professionista. Non quindi il ritratto-reportage di un’attrice dal vivo, come saremmo indotti a fare solo se avessimo avuto la ‘sfortuna’ di identificare la modella del Fetti con la celebre Florinda-Maddalena, ma piuttosto il ritratto di un’attrice ideale, quale ‘avrebbe dovuto essere’
secondo i canoni della riforma andreiniana. I canoni con i quali egli guardava, e voleva che fosse guardata, la sua interprete, possono servire da didascalia al dipinto: «vaga d’onore, sprezzatrice di biasmi, e per lo proprio interesse di non esser ignorante schernita e scornata entro foro publico, (...) in retirata camera retirandosi, altro non fa che dottrinar se stessa, con que? savi discorsi che di recitar se le aspetta; e corregger l’azzioni sue, col mortificarsi e nella poca e nella molta lubricità del gestire, per arricchir se stessa di quella tanto singolare e preclara parte nell’oratore tre volte dal savio detta actio»”. Un training severo e solitario, di tipo virginale, puritano, che spiega forse anche la storia personale e professionale di altre attrici penitenti, come la vergine Celia la cui trasfigurazione abbiamo conosciuto tra i Confidenti di don Giovanni. Trasfigurazione che il Fetti offre alla scena dell’occhio nell’istante del suo prodursi, fissando l’istante del trasumanare dal profano al sacro. L’erotismo si ricompone tramite l’eroismo. Andreini coglie l'emozione del momento intenso che l’attrice vive prima della rappresentazione, quando si spoglia del suo velame terreno ed ‘entra in parte’. I due artisti ci aiutano a capire la medesima
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ossessione. È il mito della centaura che ritorna attraverso il dualismo delia donna santa e cortigiana, simbolica e terrena. L’uso, da parte di Fetti, di tipologie femminili identiche in quadri diversi (qualora non sia dimostrabile il ricorso alla medesima modella), oltre a rinviare a un archetipo esterno”, denota una tecnica di
messa in scena che può essere accostata a quella di Andreini. Se non altro può aiutarci a capirla. Come i gemelli del teatro di Giovan Battista, Arianna, la Melanconia, Maddalena si somigliano; e a quelle figure femminili se ne può aggiungere un’altra (che la critica ha giustamente accostato, per la posa e i connotati, alla Malinconia) in una grande tela raffigurante La moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Come i gemelli delle commedie, queste eroine si offrono a replicati travestimenti, giocano sull’inganno e sul suo riconoscimento. Un’emozione per noi perduta non solo per l’ovvia constatazione della natura effimera del teatro. La visione dei quadri dispersi di uno stesso autore, come lo spettacolo delle repliche di uno stesso repertorio, chiedono allo storico d’oggi uno sforzo artificioso di confronti, rinvii, citazioni che per gli spettatori contemporanei costituiva invece un naturale gioco di società. Quel gioco era assecondato dagli artisti. Attraverso i mutamenti e le ripetizioni di un medesimo soggetto, in diverse messe in scena, in contesti diversi, il pubblico scopriva le possibilità di estensione mimetica, spinta fino alla doppiezza, di una stessa figura umana. Al di là del soggetto (storico mitologico o comico) rappresentato, l'oggetto dell’interesse e dell’attenzione era l’attore, il modello, il ‘rappresentante’. E grazie a lui, e a tutti i suoi gemelli, lo spettatore misurava la distanza che intercorre tra reale e immaginario. Due gemelli (o se preferiamo due doppi) di Giovan Battista e Francesco Andreini ci offrono una replica di questa funzione, intermedia fra il mondo sociale dei visitatori-spettatori e il mito, interpretata dagli attori andreiniani. Nel Chiostro Maggiore della chiesa della Santissima Annunziata in Firenze, in una delle lunette affrescate da
Bernardino Poccetti e narranti le storie e le vite dei padri fondatori dell'Ordine dei Servi di Maria (in particolare quella che raffigura il beato Gherardino Sostegno, vicario generale in Parigi, nell’atto di incontrare, nel 1270, il re Filippo di Francia), si trova quello che potremmo definire il ‘manifesto’ di questo progetto drammaturgico. Ancor giovane Lelio, era stato il padre Capitano Spavento a installarsi nel celebre santuario, prestandosi a fare da modello al pittore impegnato con altri nella realizzazione degli affreschi. Sarà il figlio a ricordarlo ne La ferza, attribuendo quel successo più alle insistenze dell’artista che alle premure del genitore: «Parli Firenze di Francesco An-
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dreini meritissimo consorte di così meritevol moglie, alor che celebre pittore i claustri della Santissima Nunziata dipingendo, pregò lo stesso Francesco padre mio a farlo degno d’esser da lui colà dipinto; più stimandosi (così lo stesso dicendo) di farsi glorioso per la imagene sola di lui, che per le altretante che colà dipinte avea» ”. Sul lato destro della lunetta, il giovane cavaliere può essere identificato con il figlio Giovan Battista grazie al confronto con le immagini effigiate nei frontespizi di alcune sue opere. Fornendo il programma iconografico e agiografico agli artisti che avrebbero dovuto affrescare il chiostro, il padre servita Arcangelo Giani, nel 1604, distingueva nettamente il piano occupato dall’agiografia e quello riservato al colore locale. Esigeva che nelle scene dedicate ai padri fondatori dell'Ordine, ci si attenesse a criteri di « gravità, esempio e decoro religioso », lasciando invece alla discrezione degli artisti la rappresentazione dei personaggi di contorno: «La corte del re, baroni, todeschi, sala, prospettive ad
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arbitrio del pittore nella città di Parigi, salvo sempre il luogo e punto principale al concetto dell’istoria predetta» ”. I due attori sono cosî in primo piano, a destra e a sinistra della scena principale, un po’ slontanata sul fondo, indifferenti a quanto sta in essa accadendo, d’età più giovanile di quanto l’anagrafe vorrebbe (se il dipinto è databile, come convincentemente è stato proposto, all’inverno tra il 1607-608)”. Il più giovane cerca con gli occhi il padre, il quale, a sua volta, si perde con lo sguardo oltre il margine della lunetta, malinconoso e sognatore, quasi astraendosi dalla folla che lo circonda; il particolare del suo piede destro, appoggiato su un gradino squadrato, allude a uno degli elementi simbolici che l’iconologia del tempo assegnava all’uomo «malenconico per la terra» *. Colpisce la presenza, tra le dame che osservano la scena sulla destra, di una figura (anch’essa malinconica e pensosa) dai lineamenti nobili e dall’abito
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elegante. Ricorda curiosamente la moglie e madre-dei due uomini, la celebre Isabella, i cui tratti ci sono stati tramandati da medaglie e da stampe”. Ma è solo una suggestione forse, l'ombra di quel fantasma che gli Andreini ovunque e comunque non persero l’occasione di celebrare: siamo del resto a pochi anni dalla sua morte (1604) e pur non potendola sistemare nei primi piani di un affresco a soggetto religioso, è lecito pensare che i suoi esecutori testamentari volessero comunque ricordarla. Tornando verso i lati del dipinto, si deve rilevare che da lî, grazie alle posizioni speculari che occupano, i due comici sottolineano l'impianto teatrale dell'insieme, il cui punto di fuga coincide, secondo la migliore tradizione spettacolare toscana, con la figura del sovrano; lo sfondo ha la leggerezza di un décor dipinto e accompagna-
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to da elementi effimeri, l’edificio che si vede sulla destra non è dissi-
mile da una quinta prospettica. Gli abiti, particolarmente vistosi e fastosi, rinviano probabilmente ai costumi di scena delle « parti» di Capitan Spavento e di «innamorato », in cui padre e figlio erano specializzati, ma servono altresi a innalzare i due attori al rango dei dignitari
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«baroni, todeschi» evocati dal Giani: la «militia» cristiana che Fran-
cesco Andreini aveva posto ai vertici del suo sistema sociale. Alla base della lunetta è dipinto un emblema araldico. Dovrebbe, come di consueto, segnalare la famiglia che ha commissionato l’opera. Cosî è infatti. In questo caso sappiamo che l’affresco era stato eseguito a spese del «Signor Lorenzo Usimbardi secretario del serenissimo Gran Duca Ferdinando» ”. E lo stemma raffigura infatti quello dell’illustre famiglia, come si può del resto facilmente verificare tramite il riscontro di fonti accessibili”. Si tratta di quello che l’araldica definisce un «troncato, nel primo d’azzurro, al monte di sei cime all’italiana d’oro, sormontato da tre gigli dello stesso, posti tra i quattro pendenti di un lambello di rosso; nel secondo di rosso, a tre pugnali d’argento, posti in banda, le punte in basso » ‘°. Ma quello stemma, ai nostri fini, suggerisce anche altro. Sorprendentemente ricorda le ar‘mi che vengono esibite proprio dagli Andreini nelle incisioni che accompagnano le edizioni de La divina visione del 1604, della Florinda del 1606, delle Bravure del Capitano Spavento del 1607, e dell’Adazzo del 1610". Si tratta naturalmente di stemmi in bianco e nero, di cui non possono essere quindi confrontati i colori oro, azzurro e rosso presenti nell’Usimbardi; una corrispondenza innegabile esiste però per quanto riguarda le sei cime all’italiana, i pugnali con le punte in basso (anche se disposti non in banda, ma rispettivamente in banda, in sbarra e in palo). La struttura «disarticolata» delle figure araldiche, estratte dallo scudo e distribuite ai quattro lati della figura, nel caso dell’Ada47z0, non sorprende in un’epoca in cui un simile uso è particolarmente diffuso '”. Scompare invece del tutto il lambello rosso a quattro pendenti, mentre i tre gigli in esso contenuti vengono so-
stituiti da stelle. E non si sarebbe potuto fare diversamente dal momento che il lambello e i gigli costituivano i tratti distintivi dell’aristocrazia guelfa («il capo d'Angiò») che non avrebbero mai potuto figurare in uno stemma borghese come quello Andreini. L’unico elemento aggiunto rispetto all’araldica degli Usimbardi è lo scaccato (che doveva contenere i colori argento e rosso, come si può ipotizzare dal sistema di tratti usati dall’incisore). Non a caso esso segnala la città di Pistoia, luogo natale di Francesco. È curioso notare come la fioritura di questi emblemi nelle stampe
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degli Andreini avvenga in un arco di anni molto breve, tutt'intorno alla data presumibile di esecuzione dell’affresco. Tutto dimostra la stretta derivazione dello stemma dei comici da quello Usimbardi. Si può forse sospettare un altro rapimento, sul genere di quelli messi in opera da Lelio ai danni di Arlecchino, del Dottor Campanaccia e di altri ancora. Solo che stavolta sarà bene parlare di prestito autorizzato, visto il lignaggio e l’autorità della fonte a cui gli Andreini hanno attinto. La partecipazione dei due attori alle ‘pose’ del Poccetti potrebbe ricevere una illuminazione diversa dal riscontro e, in attesa di ac-
quisire altre prove dei rapporti fra gli Andreini e il potente segretario granducale, suggerire l’ipotesi di una protezione stesa dal secondo sui primi nel periodo compreso fra il 1604 e il 1610 (donde deriverebbe la partecipazione dei due comici alla realizzazione ‘scenica’ della lunetta Usimbardi). A pochi anni dalla morte di Isabella, mentre la fami-
glia dei commedianti, gravemente segnata dalla tragedia, era in cerca di un tranquillante rifugio, quell’aiuto doveva essere ritenuto indispensabile dai due uomini. Dopo il 1612, quando la compagnia di Lelio diverrà la favorita dei Gonzaga, non ci sarà più interesse a lasciar sopravvivere lo stemma apocrifo. AI di là delle congetture narrative, è il metodo che colpisce. La tecnica dei prestiti e della contazzinatio, che abbiamo già conosciuto nella fabbricazione del trattatello in difesa dell’arte comica cavato da san Tommaso, implica qualche lieve attentato alla verità documentaria: là si era notata l’attribuzione (mai confermata) della paternità del
trattato a uno zio di Giovan Battista, qui si dà corpo a una affiliazione nobiliare che tutto lascia credere possa essere più fantastica che legale. A conferma della quale lo stesso Lelio non esitava a far circolare la voce, opportunamente raccolta da un suo prefatore, Giovan Maria Pietro Belli, che, nella Dedica della Maddalena del 1610, affermava che Francesco sarebbe « de’ Cerrachi da Pistoia, ora detti dal Gallo», ag-
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giungendo che il figlio avrebbe spiegato «la cagione perché sin ad ora si seno chiamati degli Andreini» ‘’. Mai quella spiegazione ebbe corso, forse perché il progetto di invenzione nobiliare venne lasciato cadere. A suffragio però, già qualche anno prima, l’edizione delle Bravure del padre Francesco, che abbiamo già avuto modo di citare, ospitava nello stemma derivato dagli Usimbardi un’aggiunta che pare inequivocabile: un maiale e un pino italico, chiaramente desunti dallo stemma dei Cerracchi Del Gallo '*. Era un esperimento destinato a cadere, del tutto estemporaneo, ma indicativo di un metodo combi-
natorio che poteva applicarsi ora ai trattatelli in difesa dell’arte comica, ora ai canovacci, e ora all’architettura di un albero genealogico. E
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se l'avere interpretato per una vita la parte di un Capitano Spavento poteva autorizzare Francesco Andreini a presentarsi quale degno eroe della milizia cristiana, e a trasformare la metafora da teatrale in storica, trasferendola ai tempi alti del beato Sostegno, altre ragioni che a noi sfuggono potevano autorizzarlo a esibire blasoni inesistenti come ideogrammi pubblicitari. Quelle immagini non dovevano avere conseguenze pratiche immediate (questa sarebbe stata piuttosto la strategia rapinosa di Arlecchino), erano per certi versi immagini celibi destinate a fornire radici storiche, o meglio mitiche, senza tempo, ai loro portatori. La forza della strategia riformatrice degli Andreini risiede proprio in questo. Non confonde l’utile pratico immediato con il progetto morale e letterario. Nella lettura degli artifici nobiliari e delle posture storiche il pubblico dei visitatori e dei lettori non era obbligato a scegliere fra una chiave letterale e una metaforica. Poteva tenerle compresenti entrambe: riconoscere l'attore contemporaneo in carne e ossa, proiettato nella lontana Parigi in cui del resto si sapeva che aveva vissuto con la moglie Isabella una stagione gloriosa e bellissima, e unirlo, mediante un anacronismo legittimato dalla leggenda, ad altri eroi cristiani come il beato Sostegno o il re Filippo di Francia, fino a innalzarlo nel cielo della fama. Divo e terreno, come le centaure”. L’Annunziata, oltre che un santuario, era un vero e proprio teatro
della fede. Se gli affreschi del Chiostro Grande celebravano le glorie spirituali dei padri fondatori dell'Ordine, gli ex voto documentavano nella chiesa le gesta di numerosi soldati di Cristo, appartenenti all’ordine cavalleresco di Santo Stefano, miracolati in punto di morte. Santi e soldati si davano la mano in un pantheon che era insieme popolare e patrizio. Popolare per la partecipazione, patrizio per le elargizioni. Eroi della dinastia medicea e sconosciute comparse della vita quotidiana erano accomunati dall’esposizione permanente al culto dei fiorentini e dei viaggiatori '”. Qui Giovan Battista e Francesco Andreini entravano a far parte della mitologia popolare grazie a un’arte meno effimera del teatro, e anche più reticente. La pittura affermava l’apparenza senza doverla dimostrare, come se si trattasse di una citazione perentoria, libera dall’obbligo della dimostrazione. Come avviene ne La ferza, quando Lelio allude alle origini nobilmente militari del padre (« disceso prima da soldati antenati suoi, di venti anni, fu soldato in mare, preso dal turco, otto anni colà dimorò») ‘” lasciando intravedere, dietro la metafora scenica del Capitano, la consistenza di un’av-
ventura antiturchesca reale. E lf, sulla scena del Poccetti, quel nobile cavaliere, in compagnia del beato Sostegno, poteva essere visto come
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un attore esibizionista o scambiato per il suo gemello ‘teatrale’, eroe dell’epopea cristiana dei cavalieri di Santo Stefano. È lo stesso sdoppiamento dichiarato nel quadro dell’Ermitage, dove ancora Francesco rappresenta, grazie al Fetti, una pit esplicita nobilitazione del mestiere: la maschera tenuta fra le mani, la posizione eretta del corpo, la malinconia non nuova dello sguardo, il decoro dell’abito. La doppia natura di comico e gentiluomo, messa in scena dal Fetti e interpretata da Andreini padre, ebbe tanto successo che un collezionista d’arte, spettatore distratto, vide nella posa sapiente dell’istrione nient’altro che il Ritratto del duca Gonzaga”®. Come nella Maddalena, l’attore ha ricomposto felicemente la peccaminosità del mestiere in eroismo figurativo. Una volta entrato nel chiostro, o anche solamente nel quadro del Fetti, il comico è salvo. Nasce a una nuova vita. È la stessa procedura adottata da Lelio con Arlecchino e i personaggi minori, ribattezzati, rapiti e allontanati dal loro corpo ingombrante, assunti nel cielo del libro stampato, muniti di tutte le qualità sceniche primigenie, tuttavia astratte e rigenerate. All’Annunziata la pompa di sé, il gesto nobile, la postura adeguata, la finzione narrativa, l’acconcia vestizione, insomma, il teatro, consen-
tono il transito dalla terra al cielo, dalla cronaca alla fama imperitura. I colori della lunetta, la limpida partizione del coro, la nobiltà del gestire, staccano «i capitani» come in un limbo superiore. Il rapimento e l'assunzione in cielo sono un atto di superiore serenità. Come la cortigiana-diva, il capitano-gentiluomo trionfa per via dell’inganno, sfrutta un equivoco, uno scambio di persona che lo sostituisce a un dignitario cristiano del passato e lo pone a far da scorta a un re e a un santo. Gli affreschi lasciano il pubblico degli spettatori-visitatori nel bel mezzo dell’equivoco, lontani dalla rivelazione. I due termini di confronto che si nascondono dentro la metafora (il capitano di Cristo el’attore-modello) restano confusi l’uno nell’altro. Qui non c’è, come nei testi delle commedie, la didascalia di un attore che stabilisca la lettura corretta da dare alla visione. E Andreini sapeva che solo la parola poteva svelare l’inganno: « Demostene saggiamente parlando anch’egli disse: ‘Parla, se vuoi che ti vegga”. E che forse no vedeva quel giovine con cui parlava? Certamente no, poiché alor diciamo di veder uno che l’intendiamo con l’orecchie. Poiché sì come al tocco si conosce l’eccellenza del metallo, così al tocco della lingua o della penna vediamo e conosciamo l’intendente dall’ignorante; e con ragione poiché la bellezza esterna con l’occhio si mira, ma la virtù interna con l’orecchio si vagheggia. Così de’ Comici virtuosi dir si potrebbe, cioè: ‘Parla, se tu vuoi che ti vegga» '”. Per fortuna dell’ Andreini, l'affresco del
C t i
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ra salva.
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non parlava. E la trasfigurazione da attore in cavaliere era
6. Siamo di nuovo tornati dove gli Andreini volevano. Al culmine dell’ascesa sociale a cui li ha menati il teatro, attraverso successivi passaggi di rapimenti, vestizioni e battesimi. Come nelle commedie di Giovan Battista. Procediamo ora all’inverso: spogliando, sbattezzando, smascherando i personaggi alti e nobili creati dalla mitografia andreiniana, torniamo alla base della scala, a prima dello spettacolo. Superiamo l’ingombro del teatro materiale ed entriamo nella compagnia dei Fedeli. Ci serviamo di alcune delle tante lettere che i comici si scambiavano durante le fasi di composizione delle loro compagnie. Da queste missive si ricavano notizie sulla vita privata, sul mestiere, sulle opinioni artistiche dei diversi attori. Sappiamo che, nella drammaturgia consuntiva, le variazioni dell’organico finiscono per determinare mutamenti nei testi attraverso il sistema di autoregolazione dei ruoli”. Quando la documentazione è più ricca, come nel caso di Giovan Battista Andreini, possiamo arrivare a scoprire relazioni più sottili e complesse tra vita teatrale e vita privata. In questo modo, anche la cosiddetta Commedia dell'Arte può prestarsi a letture che non siano solo strutturali o quantitative. E senza ricadere in una mera analisi della letteratura drammatica. Torniamo all’epoca del Lelio bandito, l’edizione milanese fatta con fini promozionali, per dimostrare il valore della compagnia in vista della tournée francese. L’imprimatur è del 16 luglio, la dedica del 5 agosto 1620. Una lettera polemica, scritta dall’interno dei Fedeli da Pier Maria Cecchini, è datata 15 luglio 1620. Le confidenze dell’attore sui segreti della compagnia coincidono con i dati forniti dal testo a stampa. Egli si lamenta che «in molti suoi suggetti» Lelio «facia fare le prime parti ad Arlechino». E protesta anche «che la Baldina non sia la fantesca della compagnia ma la seconda donna nei suggeti di Lelio, levando o scemando quelle parti che toccano a mia moglie» e «che l’istesso Lelio facia astutamente far le seconde parti dei morosi al Capitano, per levar alei il parlar con l’altro innamorato» ". I conti tornano: nel Lelio bandito le parti principali sono riservate, oltre al già citato Arlecchino-Venturino, all’autore-attore Lelio, alla moglie di lui Florinda travestita da Marinella e a una seconda amorosa (Do-
ralice) travestita da uomo; il secondo amoroso è proprio un Capitano (Lepido) e forse dietro questo nome si nasconde l’attore dei Fedeli specializzato nel ruolo di Capitan Rinoceronte, il già citato Gerolamo
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Garavini. Che in questo periodo la servetta fosse stata promossa di fatto a «seconda amorosa», risulta anche dal confronto con le edizioni delle commedie immediatamente successive (La centaura, Amor
nello specchio, La sultana, Li duo Lelii simili, Le due comedie in come-
dia) in cui appare, fregiandosi del nome di Lidia (fu quello da allora in poi il suo nome d’arte), con regolarità e dignità pari a quelle di Lelio e
Florinda. Contemporaneamente il ruolo della servetta, che aveva oc-
cupato un posto di rilievo nelle commedie precedenti, deperisce. E la solita drammaturgia che dipende dall’organizzazione”. Le ragioni del trionfo di Lidia (ricordiamo che era sposata a Baldo Rotari) sono spiegate con tono calunnioso dal Cecchini: Orsi, io non mi posso tenire. Lelio è innamorato di Baldina, et fa spropositi tali che dà una vita infernale a quell’infelice di sua moglie; et quella sgratiatela ne gode et ride in modo che si comprende lei essere di un vituperosissimo intragno, né vi serà mai pace mentre costei sta in compagnia. Vi è anco questo, che Baldo, puoco curante, più tosto si gonfia, et è mezo tirano della compagnia, ma qui sopra non voglio discorere, ché vi sarebbe molto che dire. Quello poi che più mi confonde è che Lelio, nel dir che vuol far da sé, dice ch’egli sa quello che può fare, quasi che l’Altezza Vostra serenissima l’habbia prestato il consenso.
Il rimedio è, per l’attore, altrettanto semplice: «levi Baldina di compagnia (...), et così levarà questo cordoglio a Florinda, l’occasione a Lelio, et meterà in pace la compagnia, non solo andando in Francia ma rimanendo anco in Italia» ". Andando a cercare un riscontro nella commedia contemporanea a questa lettera, si può ipotizzare che la seconda donna protagonista del Lelio bandito, Doralice non ancora battezzata Lidia, sia proprio la Rotari. Fatta di Florinda la sua sorella in scena, il drammaturgo faceva dell'amante presunta la sua amante teatrale, però celata in abiti maschili: in quella commedia, se le cose stanno cosî, la scena d’amore ex travesti (a chiusura d’atto) e il bacio
declamato (in IV.7.24-25), insieme alla solidarietà femminile che le due donne celebrano nella stessa scena, acquistano un particolare valore di ‘doppio’. Citano l’esperienza biografica, replicandola la allontanano, la riordinano e quindi aspirano a superarla. Andreini cerca di combattere le disavventure familiari anche scrivendo al duca Ferdinando Gonzaga per respingere le accuse di Frittellino circa il suo «mal governo et pazzo procedere » ‘. Difende l’onore suo e dei compagni, precisa che «benché l’innamorarsi sia alcuna volta sforzo imperioso di stella, nondimeno, se la elezione e ’1 giudicar della cosa amata non ci concorre, poco o nulla si fa di buono»; accusa la gelosia degli altri, le debolezze «proprio di femminuccia» di Florinda che avrebbe per due o tre giorni aperto «le cateratte al
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pianto e la bocca agli improperi», e conclude: «Ond’io, con quella croce pesante che porto con mia moglie, incurvandomi tacito sotto il peso, tacqui paciente. Hor sia lodato Iddio benedetto, è svanito questo sospetto balduinesco come picciolissima nebbia a somma luce di verità; ma non però questo mar ligustico è stato molto in calma, poiché, al vento di nuova leggerezza gonfiandosi, s'è fatta a credere, con lo star sovente fuor di casa, ch’io sia incapricciato d’una bellissima giovanetta spagnola, quasi che ’n altro luogo Amore non sappia chiuder il suo volo che ’n me» *. È il 5 agosto; pochi giorni dopo, il 28 dello stesso mese, Frittellino riscrive al duca per dimostrare il contrario di quanto affermato da Lelio. Sempre la Baldina sotto accusa: « Florinda già tre giorni fuggì, et piangendo se n’andò in una chiesa dove si facceva tenir per spiritata, et voleva mandar per una carozza per venirsene a Mantova, quando suo suocero, un suo compare et il Moiada nostro portinaro corsero a rimediarvi, et la feccero rimanere. Di queste cose ce ne sono ogni giorno, et questa sgratiatuzza ride et gode sott'occhio, havendo ridotto questo negotio con una tal volpagine che l’istessa Florinda prega che lei non si disgusti, accioché il marito non li facia qualche burla. Dico signore che si tratta di cose concernenti alla vita, et da queste che Vostra Altezza intende ne sieguono poi di quelle che la prudenza sua si puol imagginare» ”’. Le conseguenze di quel dibattito furono che Lelio ebbe più credito di Frittellino, che quest’ultimo fu lasciato in Italia, e che la spedizione francese si svolse sotto il segno del dramma coniugale, come riconobbe retrospettivamente lo stesso Arlecchino che pure nel corso delle dispute preliminari si era astenuto o schierato dalla parte di Andreini: «Per conto poi della compagnia di questi comici, mai dopoi che io son al mondo non vidi mai tal descordia; dirò poi a boca a Vostra Altezza il tutto, et gli dirò la verità. Io son sempre statto d’acordo con tutti et mai ò cridatto con nisuno, ancora che mile volte mi àno dato l’ocasione; basta, Vostra Altezza lo saperà anco da altri che da me, che la si fa-
rà maraviglia quando la lo saperà, et che la intenderà questa gran descordia ch’è in questa compagnia, in particulare tra il signor Lelio et la signora Florinda » '*. Non ci interessa ovviamente appurare il grado di adulterio commesso da Lelio, seguendo in questo le orme del Rasi che nel raccontare la biografia dei tre attori insiste nel rilevare con puntiglio da avvocato matrimonialista che di lî a qualche anno Lelio e Lidia sarebbero stati concubini e, una volta scomparsa l’ingombrante Florinda, anche sposi‘, e che, in precedenza, il disinvolto mérage à trois era stato esibito senza pudore in documenti ufficiali ’. A noi interessano le conseguenze artistiche. Come aveva scritto Pier Maria
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Cecchini, «si tratta di cose concernenti alla vita, et da queste che Vo-
stra Altezza intende ne sieguono poi di quelle che la prudenza sua si puol imagginare » ”. Di alcune conseguenze abbiamo le prove a stampa. Le commedie parigine sono infatti tutte incentrate sul primato artistico dei tre e sulla rappresentazione dei loro complicati legami sentimentali ed erotici. E come le prime commedie a stampa dell’ Andreini possono essere considerate un unico ciclo dedicato a Florinda, queste ultime potrebbero benissimo essere consacrate a entrambe. Ne La centaura Lelio è conteso da due donne, ugualmente innamorate di lui. Hanno vari nomi, ma tra questi spiccano quelli di Lidia e Florinda. La prediletta è la seconda, la prima cade vittima di un agguato e si salva miracolosamente dalla morte. I duetti tra Lelio e Florinda (travestiti in varie guise, soprattutto pastorali) vengono replicati a suggerire il tema amoroso dell’opera ”; Lidia è di necessità la fanciulla sfortunata e perseguitata ed è l’infelice partrzer del Capitano Fidimarte (probabilmente interpretato dal solito Capitan Rinoceronte); e non è un caso che i due amanti principali, che già erano stati fratello e sorella nel Lelio bandito, anche qui debbano difendersi dall’accusa di incesto. Florinda è la moglie-sorella, Lidia è l'amante out sider. Altrove (Li duo Lelii simili) Andreini mette in scena la sua completa scissione affettiva incarnando le oscillazioni in un doppio Lelio: uno che ama Florinda, l’altro che ama Lidia. Entrambi sinceri e incol-
pevoli. Sono gli altri che li credono la stessa persona. L’espediente consentiva all’attore, interprete dei due ruoli gemelli, di praticare nella finzione la performance della vita in un tour de force acrobatico e scattante. Andreini si districava nel groviglio dell’adulterio mediante espedienti diversi e contrari. Non la scissione in due dell’uomo amante di due donne, ma la fusione in una sola figura delle due donne rivali. Nell’Azzor nello specchio, il sogno teatrale mette in scena la pacificazione femminile attraverso l’intreccio di un esplicito amore omosessuale tra Lidia e Florinda. Ne La sultana l'alleanza delle due donne rivali (Tirenia e Sultana) porta alla punizione di Lelio che si confessa infame «puttaniero » ”. Il tema dell’offesa e della lite coniugale, il richiamo al figlioletto e al suocero, registrano la solidarietà femminile, davanti alla quale Andreini celebra il suo pentimento ir effigie: «Signori, s'alcuno è reo, s’alcuno va castigato, io sono. Io ch’avvezzo a ingannare in altro non mi diletto, e mi diporto, che ’n tesser insidie e
lacci»'*; «alla presenza tua oggi si ritrova il più ingrato uomo che giamai sotto il suo manto l’Ingratitudine accogliesse» ”. E se abbiamo già assegnato la «parte» della sultana a Florinda, grazie a considera-
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zioni di tecnica teatrale“, non sarà difficile scoprire occultata sotto il nome di Tirenia anche Lidia: perché fa coppia, come già ne La centaura, con un Capitano (il solito Garavini) e perché il suo nome è l’anagramma imperfetto di Trinea, uno dei nomi assunti proprio da Lidia in quell’altra commedia, e anche il nome che il tipografo le assegna erroneamente a pagina 184 dell’edizione. Se Sultana-Florinda è la moglie offesa, Tirenia-Lidia è la cortigiana redenta. Dei temi amorosi mancherebbe ancora la gelosia se, con la medesima tecnica di slittamento, Andreini non ce la proponesse nelle Due comedie in comedia quando, dopo essersi confessato amante di Lidia («mi feci amante mirandola e ammirandola») ” davanti alla stessa Florinda, lascia che
costei si sfoghi con un canto appassionato contro chi le «leva l’amante e ’l marito». È gelosia d’amante e di attrice: «Sappiasi adunque ch’al fin della commedia, ad altrui cagion di gioia, a me sola di tormento, invaghita costei dell’affettuose lodi (...), sembrava in quell’atto col piede essere nel mondo e col capo in cielo». Sembra che Florinda osservi dalle quinte la rivale che si trova in proscenio, nell’atto di ricevere gli applausi, metà « nelmondo » e metà «in cielo», centaura e diva. Andreini-Lelio ha avuto però l’accortezza di assegnare il ruolo di nemico-marito a un altro e quello di diva-rivale a un personaggio diverso da Lidia. Le ‘arie’ della gelosia sono quindi raffreddate e ‘straniate’. L’autobiografia viene successivamente eccitata e delu-
sa, accesa e allontanata. Si tratta infatti di un’autobiografia teatrale. Dove non ci si limita alla banale registrazione a consuntivo di una esperienza sentimentale e personale osservata secondo un punto di vista soggettivo. Lelio raccoglie nel deposito del testo le tracce di storie altrui, si fa «erario dei (...) più interni, angosciosi tormenti » di Florinda ‘’, arriva ad assume-
re, da vero drammaturgo, il punto di vista degli antagonisti: ARMINIA [FLORINDA] (...) se così vi piacesse di metter in atto tragico le mie sfortune, benché regina io non sia se non di tormenti, m’apparecchierei, tanto v’a-
mo, di narrarvele in pochissimo giro di parole. LELIO Come? Promettasi pur di Lelio ogni impossibil cosa. Ah, ben più volte nel foglio della vostra fronte, da velo di travaglio coperta, lessi, benché con fatica, i vostri dolori: quasi lettere, ancorché ben formate, nondimeno per esser coperte da vetro sottile ma polveroso, quelle legger ben bene non si ponno» !.
La storia teatrale riflette cosî la storia reale senza spiegazioni retrospettive. Ne conserva intatto il disordine, quasi in presa diretta. Più che le azioni o i fatti («i casi»), riproduce le emozioni salienti, i rapporti segreti («i cuori»). Che sono stati o che potrebbero essere: «Sappiate, signori, che la commedia alfine altro non è ch’un epilogo
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di ravoglimenti umani, ond’avviene che sovente, sotto la scorza di quella favola, si rappresentano or di questo, or di quello, i casi più veri. (...) nel caso finto della commedia mi son posto a cuore l’istoria ve-
race che di quella infelice potrebbe in Bologna esser succeduto». Le conseguenze saranno terapeutiche, taumaturgiche. La messa in
scena potrà conciliare il trio Lidia-Florinda-Lelio, che il mondo ha separato: ROVENIO
(...) Commedie fortunate, poiché a voi sole è conceduto in teatro
scherzando toccar al vivo i fatti più occulti delle cose, anzi de’ cuori, disponendo talora pietà i più dispietati, e con gioia unir quelle cose che parevano più disunite e disperate.
Il romanzo di Lelio-Lidia-Florinda viene rivissuto, nelle possibili varianti, come un gioco combinatorio che rispetta i presupposti della biografia psicologica e sentimentale dei tre, e li sviluppa secondo verosimiglianza. È l'aspetto più moderno del teatro di Lelio. Ai personaggi ‘tipici’ della drammaturgia preventiva e letteraria, subentrano i personaggi sperimentali. Alla metafora si sostituisce l’empirismo scenico di cui il testo costituisce il referto. Andreini mette in causa se stesso, non un personaggio astratto suggerito da un copione ricevuto.
Gli attori non sono interpreti delle anime di altri (cioè dei personaggi); sono essi stessi, almeno nei casi dei tre ruoli principali degli «innamorati», degni di essere considerati come proprietari di un’anima, dotati di una profondità psichica che le figure nobili della letteratura drammatica non avevano mai esibito. Dalla inconfondibile psicologia di Virginia Ramponi, Virginia Rotari e Giovan Battista Andreini, Lelio muove per costruire i suoi personaggi fittizi. L'azione teatrale non avrà solo un effetto mentale, verbale: occorre che le «cose sieno più intese dall’intelletto con que’ mezzi che a’ sensi s’aspettano », in modo da «farne spettatore il (...) cuore» ”. L’azione.teatrale avrà effetti
quasi fisiologici: «con ardente affetto di carissime afmicizie fintamzente parlando senti veracemente distruger in te i ghiacci antichi di nimicizia intestina» '*. Uno psicodramma che svolge una funzione catartica: «perciò gli antichi savi trovarono questo modo di corregger i nostri vizi sotto ’l manto d’una persona incognita, e con l’essempio di personaggi suppositi piacque loro non solamente di farci ravedere de’ nostri falli, ma vollero anche ammaestrarci e insegnarci ad andar più cautamente nei nostri negozi» ‘. Il teatro è, conformemente alla tradizione classica, uno specchio, un «tersissimo vetro (...) degli umani
diffetti espurgatore» "*. Nella commedia che inalbera il titolo programmatico di Arzor nel-
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lo specchio si riprende il medesimo motivo. L'affermazione teorica del teatro come «Specchio, nel quale ciascuno rimirando» può «le macchie de’ cattivi costumi levarsi» ” si scioglie in una performance esemplificativa: la favola rappresentativa viene utilizzata per dimostrare la forza maieutica del teatro. Florinda vive solitaria, chiusa nel presuntuoso amore di sé, fugge l’amore dell’uomo, è cieca e sorda al mondo: «abborisco tanto questo sesso maledetto dell’uomo, che per non vederlo, che per non udirlo, mi contenterei d’esser nata, e cieca, e sorda». Rifugge i sensi (la vista, l’udito) che governano la vita del teatro e il sesso. Sesso e teatro sono respinti dall’egoismo solipsistico. E l’egoismo è un fiume di parole che soffoca i sensi. Nel regno delle parole Florinda esorcizza la seduzione di Lelio. In un lungo dialogo pseudofilosofico, che ricorda la giovanile Saggia egiziana, e in un lungo monologo davanti allo specchio, la donna tratteggia, all’inizio del secondo atto, una sua idea d’amore tutta letteraria e artificiosa, destinata a restare sconfitta nel corso dell’azione scenica: se amar Florinda dovesse, amar vorrebbe senza fatica; s'amar Florinda dovesse, amar vorrebbe uno, ch’acquistato conservar suo a ogn’or potesse senza sospetto; se amar Florinda dovesse, la verginità cosî cara a ogn’ora illesa conservar vorrebbe; s’amar Florinda dovesse, unqua non vorrebbe con tirrano consorte di libera felice, farsi cattiva dolente; e questo petto supporre al duro incarco della gravidanza; infortunio nel quale spesso la misera donna doppo aver lasciato patria, padre, madre, parenti, lascia ancor la vita. (...) [Rivo/gendosi allo specchio] Quest’è colui, che amando illeso conserverammi il fior verginale, quest’è colui che ’1 petto al mio petto aggiungendo, dall’angoscia del parto mi farà viver sicura !’.
Un amore di carta, di vetro, di fantasia. Un amore da palcoscenico, dove ci si innamora, si è abbandonati, si fanno figli e si muore solo per
finzione. Lo specchio è, come il teatro, il recinto dell'amore impalpabile, senza rischi. Quasi un carcere. Poi però quel carcere si trasforma. Nello specchio (e nel teatro, forse su un’edicola praticabile, probabilmente con un seguito di effetti illuminotecnici) appare Lidia. Florinda la vede nel teatro dello specchio, ne è colpita, la cerca nel teatro della scena. Lidia scompare. Il gioco si ripete più volte. Tra secondo e terzo atto, la scena si anima di effetti magici. Florinda cerca Lidia nello specchio, Lidia appare viva sulla scena. Finché, con l’aiuto della serva Bernetta, il dialogo a distanza si fa ravvicinato. Lo specchio si chiude, Florinda e Lidia escono dal carcere di vetro, sono l’una di fronte all’altra, e siinnamorano:
«FLORINDA
(...) dalla vostra
bocca di rose un sol bacio io chiedo. LIDIA S’altro che un bacio non brama, sola medicina al suo male, uniamo petto a petto, e bocca a bocca». Per Florinda lo specchio-teatro è la porta della prigione e
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conduce verso il mondo: e il copione suggerisce il pretesto per una magnifica figurazione scenica. L'amore trionfa grazie al teatro e viceversa. Poi, tra colpi di scena, effetti speciali, travestimenti e magie, l’educazione teatrale e sessuale di Florinda e Lidia procede all’epilogo.
Un fratello gemello di Lidia consente il transito
«ermafrodito » ‘ dal-
l’amore omosessuale (che ha avuto il merito, per Lelio, di conciliare Lidia e Florinda) all'amore eterosessuale (che ha il merito di concilia-
re tutti gli attori). Attraverso copie imperfette, gemelli, immagini riflesse, Florinda, Lidia, Lelio e gli altri, arrivano alla verità. Attraverso
il fondo ingannatore dello specchio (l’artificio del teatro) risalgono all’armonia. Dalla chiusa individualità si innalzano alla pace universale. Un viaggio d’iniziazione che ha non pochi riferimenti alla pedagogia platonica, già del resto evocata da Andreini fin dagli esordi giovanili nello schema dialogico della Saggia egiziana”. La scena, come anche lo specchio, è il luogo in cui si mettono in comune gli immaginari individuali. Dove si attua l’equilibrio dei singoli egoismi, la mediazione dei punti di vista e dei desideri particolari. La finzione può consentire, attraverso un’esposizione pubblica delle storie private, il superamento dell’egoismo delle passioni in una pacificazione generale. L’erotismo, prima dissonante poi concertato, è il motore principale dell'armonia collettiva. Si basa infatti sulla mutua, generosa, offerta di sé ed è una delle manifestazioni di quella «conversazione» che nobilita, anche secondo san Tommaso, la vita umana
14,
:
LELIO (...) se uno nel cielo salisse, e di là su considerasse la natura delle cose di questo mondo, la bellezza delle stelle, l’ampia faccia e l’irreparabil corso del sole, il moto concorde delle discordi sfere, e l'influenza de’ pianeti, non gli parrebbe soave se non avesse un amico e compagno col quale potesse conferirlo '#,
EGIZIANA E giusto è dir che l’uom, uomo non sia Cui il conversar l’umana gente spiace: Che per altro al mortale il Ciel non diede Se non per conversar la propria lingua 9.
Appartengono alla civile conversazione tutte le attività dello scambio. Dal dialogo morale e filosofico alla pratica della mercatura cristiana, dall'amore al teatro. Il loro felice e armonico esercizio costituisce la base della convivenza, la fonte della felicità individuale e sociale. CE
La saggia egiziana è del 1604, l’anno della morte della madre Isabella e del ritiro dal palcoscenico del padre Francesco. Quasi incarnazione di quest’ultimo, l’ex attore Ergasto si presentava in quel dialogo
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come nemico del mondo e del teatro, difensore dei valori dell'anima e della morale. Gli replicava l’egiziana sostenendo la tesi opposta di un teatro che è tanto più degno di lode quanto pit è capace di inserirsi nell’ordine civile delle città. Le critiche pit aspre colpivano l’attore isolato nella sua buffoneria solitaria, gli elogi andavano ai commedianti che con la loro arte sono capaci di guarire i turbamenti affettivi della vita coniugale e familiare, riuscendo nello stesso tempo a vivere onestamente del denaro guadagnato in pubblico. L’attore riformato da Andreini è l'esatto contrario del comico egoista incarnato da Martinelli. Nel suo programma c’è un eros riordinato, una mercatura teatrale legittima e rispettosa dei diritti altrui, la fine del nomadismo e l’insediamento in una città tollerante: Ma si dee da ciascun cortesemente Per omaggio del lor nobil valore
Porger di poco premio un picciol segno. Acciò coi figli e le famiglie loro (Ch’or espongono al mare irato et ora A le nevi, agli ardori, ai piani, ai monti,
Ai pericoli sommi, che di rughe In rimembrarli sol empio la fronte) Giunger possino ai regni, e a le cittadi '*.
Il progetto potè realizzarsi solo sulla carta. Nelle teorie generali e nella drammaturgia. Non nel teatro della vita. L’Arzor nello specchio e le altre commedie sono infatti la sceneggiatura esemplare di un itinerario verso la Civitas Dei di eroi sbandati, di emigranti fuggitivi e di ribelli redenti. Ma i drammi intimi di Andreini (incentrati sugli «inter-
ni contrasti» della vita familiare, coniugale e quotidiana) erano in anticipo di almeno un secolo sul primo dramma borghese e presupponevano un’udienza, una società, non ancora esistenti. In particolare un teatro che si basasse (come avveniva nel suo caso) sull’ambizione
di mettere in vendita, più che i generici casi umani, la propria personale esperienza biografica, trasfigurata però in lezione morale di interesse collettivo. Il capolavoro teorico non ebbe un’adeguata ricaduta storica. Il tentativo di fondare, dall’alto del potere demiurgico e dittatoriale del capocomico, un teatro che fosse insieme comunitario e intimo, spirituale e mercantile, morale e cittadino, appassionato e ordinato, sfiora
l’utopia. Per svolgersi quel tentativo aveva infatti bisogno di un forte potere politico che garantisse la tutela dell’ordine urbano, lo spazio in cui esercitare la vendita legale del teatro, la civitas in cui radicatsi. Cercò pertanto, l’Andreini, il consenso, in tempi diversi o simulta-
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neamente, presso la corte medicea, la gonzaghesca e la parigina, sfruttando ilegami dinastici che facevano di quelle tre corone un unico sistema mecenatesco. A differenza di altri grandi artefici dei teatri nazionali (Lope de Vega e Molière) non poté dare attuazione e radici
alla sua riforma che si trasformò cosî in un monologo solitario, praticabile nel delirio e nel sogno. Il comico, accortosi di non poter essere
utile nella storia presente, cercò di diventarlo (almeno nella sua auto-
suggestione) nella storia futura. Nacque cosî l'estrema messa in scena del Teatro celeste, la raccolta di componimenti che egli dedicò agli attori martiri e santi. Solo lî la vita materiale dei comici trovò modo di conciliarsi con il programma interiore del riformatore incarnandosi in figure del mito cristiano, da San Genesio a Lelio”: Felici Voi, ch’armoniosi al canto Ne’ Theatri Histrion, Santi nel Cielo, D’un gemino valor alzaste il vanto.
Deh potess’io al variar del pelo Spoglie d’oro mutar in aspro manto, E dir con Voi Comico anch’io m’incielo !£.
Questa avvertenza si trova subito dopo l’elenco dei personaggi; per L'ordine delle robbe che vanno nella Turca cfr. invece G. B. Andreini, La turca cit., pp. 180-82. [SI Id., Lelio bandito cit., L'ordine delle robbe, p. 157. (S Id., La turca cit., pp. 183-84. FS Id., Lelio bandito cit., p. 154. > Id., La centaura, Della Vigna, Paris 1622, pp. 17-18; ma cfr. anche ibid., pp. 6-7: «Quello che v’arrecherà forse più noia sarà la cosa di stabilir un sol luogo una sola udienza a queste tre composizioni dovendosi in vari luoghi rappresentare ». Varianti a soggetto, o a gusto dell’apparatore, sono previste anche per le parti musicate e cantate (ibi4., p. 123: «Ad uno ad uno -
usciranno, e tutte queste parti si potrebbono cantare nello stil recitativo»). Cfr. ancora #014.,
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Ordine per ricitar quest'opera incominciando dal prologo sino alfine, p. 159: «il volger due volte le scene ormai è cosa tanto facile che non occorre parlarne, però questo si lascia in balìa del giudizioso artefice [allestitore]». Ride Ibid., pp. 1159-60. Cfr. pure :bd., pp. 45-46: «Qui di dietro si farà rumor di catene, si mostrerà un albero di nave. Marinai grideranno ‘Alla barca, alla barca’ più volte, e tutti partiranno (...). Qui di nuovo i marinai dentro faranno lo stesso rumor di catene e di voci, e tutti andaran via, suoneran le trombe, l'apparato comico sparirà comparendo il pastorale». Ibid., rispettivamente, pp. 169 e mo. Accurate prescrizioni riguardano l’azione del prologo (pp. 159-61), l'epilogo (pp. 156-57), la pompa funebre di IILo (pp. 170-71), nonché l’apparizione delle divinità cantanti (III.5) i cui abiti sono descritti meticolosamente alle pp. 169-70. Meno protratte le precisazioni scenotecniche in altre commedie. Cfr. Id., Lo schiavetto cit., pp. 212-13: «una tela che si finga una prospettivetta, la quale si tirerà avanti la casa d’Alberto. Pure, per occasione di questa commedia, sarà congegnata di sopra una prospettiva che finga una pastorale, la quale in cadere coprirà la prospettivetta comica. Più, colà sopra pure a quelle prospettive, vi sarà congegnato un panno nero, che da l’alto cadendo coprirà similmente la prospettiva pastorale»; e cfr. anche Id., Le due comedie in comedia, in Commedie dell'Arte cit., vol. II, p. 103: «Qui sha d’avvertire che mentre si faranno musiche per lo fine dell’atto
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secondo che nello stesso tempo si caleranno certe congegnate tappezzarie, le quali sparendo
scopriranno il teatro, dove si dovrà recitar la Comedia in comedia degli Accademici, ed alor
riasi scoprirà questo apparato compariranno senza parlare, a finestre e sopra le case, genti verse». * Id., La sultana, Della Vigna, Paris 1622, pp. 81-82. Del lazzo della farina saranno vittime an-
che Nottola ne Lo schiavetto cit., V.10.42, e Orimberto in Arzor nello specchio, Della Vigna, Paris 1622, IIL.1o.
? Id., La sultana cit., p. 121 (è l'indicazione contenuta nell'Ordine per recitar la Sultana con gran facilità), ma cfr. anche ibd., IV.3 (pp.102-3): «Qui tutti tre in un tempo potranno fuora i capi dalla porta, duo in alto, cioè un di qua un di là da l’uscio, e l’altro di sotto per linea retta nel mezo degli altri duo capi». !° Id., Arzor nello specchio cit., Ordine per recitar Amor nello specchio, pp. 166-68. Altri espedienti illusionistici sono esposti, soprattutto in riferimento al terzo atto della commedia, alle pp. 164 e 166. In particolare sugli effetti speciali dei lazzi di magia si veda ancora Id., La ferza cit., pp. 25-26: «se i maghi de’ nostri tempi lampi formano, son fuochi aerei e finti; se oscurità, nascondimenti di facelle, se tuoni, palle di legno che sovra gli alti solai rotolare e strepitar si fanno; se pioggie, son gravide spugne, che spremute cagionano dell’acque l'abbondanza; se grandinar si veggano le tempeste importune, son confetti dolcissimi, che per l’appunto a’ nembi diluviar si fanno; finti alfine gli incanti, come finte l’ombre, come finti i sepolcri, e tutta finta la tela della drammatica finzione». Per una analoga scena di fiamme, diavoli e ombre si veda Lo schiavetto cit., V.9.172-78. "! Cfr. quanto scrive sull’uso del sottopalco e sulla documentazione iconografica coeva (ad esempio nell’incisione di Remigio Cantagallina, La fucina di Vulcano, GDSU, n. 95767), S. Mamone, Firenze e Parigi cit., pp. 95-96. 2 G. B. Andreini, Lo schiavetto cit., L’ordine per recitare, p. 209. 4 Id., Le due comedie in comedia cit., II.3.29. 4 Id., Lo schiavetto cit., 1.1.17 e I.2.26. 5 Id., La turca cit., III.6.21-26. Ma cfr. anche l’autoritratto di Cocalino in Id., La venetiana cit., V.1.13-15:
FANEL
«COCALIN
A la fè che anca nu semo carghi d’arme, se ben le xe antighe (...). sTE-
Tista’ fresco; te porastu mover? cocaLIN
Co diavolo, se me porò muover; varda
mo sta stocada? varda mo sto retiramento? sto spassizar? sto farme avanti? sto avrirme? sto
serarme? sta chiamada? sto cortelizar furioso? sto verigolar resoluto? che distu no parevio un molin da vento? ». 4 Id., Lo schiavetto cit., III.8.39. Ma cfr. pure ibid., V.4.5: «BELISARIO. (...) io son un poco sordotto, e non avendo udito rispondermi, i’ volli battere di novo col bastone, e vi detti su ’1 capo»; Id., La Campanaccia cit.,I.5.5:«GELINDA Doh sposo insolente, non solo voi faceste moto di baciarmi, sfacciato, ma d’alzarmi i panni, vergognoso »; Id., Li duo Lelti simili, Della Vigna, Paris 1622, I.5.1: «TRINCHETTO (...) Oh diamberne, tò, tò; mentre ho posta in seno tra ’l giubbone e la casacca questa lettera, perché son allacciato largo, m’era in terra caduta, e se non mi guardo a’ piedi, io non la veggo; or su la piglio, e di nuovo la ripongo». 7 Id., Lasultana cit.,1.6.2. Cfr. anche, traicasi pi esemplari: «MASENETTA (...) Ohimei, che pugnazzi, par che i sona tamburi! (...) LARDELLO (...) ecco ch’io vado per la spada e ti voglio infilzare, per di dietro» (Id., La turca cit., I1.4.21-23); «corte Ah ah? Tu cadesti alfine! Vedi, che nel tirarmi io ti presi la gamba» (Id., Lo schizvetto cit, IV.9.24); «RAMPINO
8 ! 2 2
Férmati Grillo. succioLA .Uh! Una guanciata? Férmati, stàccati. ALBERTO Furbo, pugna nel ventre? morsiconi nelle mani?» (:b1d., 1.7.23-25). Id., La turca cit., II.8.72. Ibid., II.8.92; ma cfr. anche IV.8.8: «MEHEMET Senti il fragor dell’armi che già s’avvicina. (...) Senti le squille, i tamburri, i bellici metalli! ». Id., La centaura cit., III.4.20. Id., La sultana cit., IV.1.25. Cfr. pure Id., La turca cit., V.1.1-2: «COLONNELLO (...) miriamo in questa parte con queste facelle accese se alcuno inimico vi fosse (...). Or, vedete voi come queste case, avendo le finestre illuminate, fanno che, malgrado della notte, il giorno qui ri-
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splende. PASTORE (...) oh veggasi, in grazia, come il monte illuminato sembra d’essere un monte di fuoco! ». Si citano inoltre a titolo indicativo altri casi. L'attore che descrive la macchina che scende dalla ‘soffitta’ del teatro: «PLAGEONE Ohimé che veggo? Qual braccio ignudo dalle nubi uscendo regge corona d’oro, che sopra il capo della centaura mia consorte pende? » (Id., La centaura cit., I1.1.32); l'attore che fa la cronaca della pompa funebre come un cronista cortigiano:
«AURANTE
(...) Oh quai neri stendardi strascinar vediamo, oh
quante di torchi neri tralucenti faci. Ecco la centaura reale coronata, ecco il centauro consorte, i centaurini figli, Trinea, Fidimarte, una Florinda coronata d’oro, i duo Lelii tutti di nero lagrimosamente ricoperti. (...) il sacerdote Orintio che ’n panni sacerdotali e funerabili gravemente adornato si diporta nel mezo di duo, che su le spalle sostentano in nero ordigno alta fiamma ardente; di duo altri ch'a mano a mano portano picciolo tavolino pur di tappeto lugubre ricoperto, con isoliti e cibi e bevande reali, in essequie reali. Ecco delle rauche trombe e de’ tamburi discordi il flebil suono»
(ib:4., III.9.16). L'attore che descrive i particolari della
(...) Oh che alegrezza, Oh quanti cimbani, gnacare, campanescena dipinta: «vENETIANA le, lauti; Oh quanta festa; Oh i ha stalà de sonar, i voga de schena, Oh che bele gondole tute iluminae, Oh come el splendor in aqua de quele luse fa parer che in ste aque salse sia vegnù le stele a nuar. (...) Oh che bele barche; da seno che sti amisi de i morosi fa la cosa con tutti i so ordeni; oh quanta zente se fa a i balconi, Oh quanti Pantaloni vien qua su la riva» (Id., La venetiana cit., V.7.12; da notare che questa commedia è del tutto priva di didascalie e non contiene la solita appendice attrezzistica finale, che è quasi di norma nelle altre edizioni andreiniane).
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24
Cfr. Id., La turca cit., II.7-8; nella stessa commedia c’è un altro accenno (I.5.35-38) a un ballo acrobatico, accompagnato da «trombetti», eseguito da uno zanni e dal Capitano. Cfr. Id., Lo schiavetto cit., I.2 e III.8. Da notare che il repertorio della servetta Succiola è in parte ispirato alla tradizione letteraria più colta, come La Fiera e La Tancia del Buonarroti: cfr. le note di L. Falavolti in Commedie dei comici dell’Arte cit., pp. 75 e 138. Cfr. G. B. Andreini, La sultana cit., I.2 e II.6 (canta Momolo); II.8 e IIT.2 (canta Fegatello); Id., Amor nello specchio cit., V.4 (canta Bernetta); Id., Li duo Lelii simili cit., V.x (Trinchetto
canta da «bravo»). Cfr. Id.; Le due comedie in comedia cit.,1I.3.23-30:«ROvENIO (...) voglio che per amor mio Arminia canti una spagnoletta. (...) ARMINIA. Ecco, signori, che la bocca alle parole chiudendo, al canto io l’apro. Qui si canterà un'aria, 0 più, a suo capriccio. zeLaNDRO Ohbello certo, che pari alla bellezza del volto è andata la dolcezza del canto»; come si vede, anche qui fanno la loro comparsa le didascalie implicite, a restituire la cronaca di un evento che si vuole memorabile. Cfr. anche Id., La sultara cit., I1.6, pp. 62-63:
«Qui canterà a suo capriccio
un'aria alla spagnuola, e sapendone, alcuna alla schiavona, o vero alla turchesca, pur non starebbe male: e mentre canterà potranno diversi dire: ‘Buono’, o ‘Canta bene”, ‘Val ogni danaro’, e finito il canto seguirà Momolo suonando: avvertendo che il primo tocco di tromba, or lo suonerà nell’orecchio dell’uno, or dell’altro comperatore». La somiglianza del repertorio avvicina i due personaggi e ci consente di ipotizzare che Virginia Ramponi (in arte Florinda) fosse stata l'interprete anche della «parte» di sultana, dal momento che per Arminia non ci sono dubbi: è lei stessa a dichiarare (cfr. Id., Le due comedie in comedia, I. 1.12) espressamente che il suo nome è falso e che la sua vera identità è quella di Florinda. D'altra parte era difficile che Andreini destinasse a una donna diversa dalla moglie «parti» cosî rilevate, quasi inserti speciali che si giustificavano, nell'economia dell’opera, con l'opportunità di offrire l’occasione di un explott individuale a colei che con la sua bella voce era diventata celebre (quasi
la comica-cantante per antonomasia) in seguito alla mirabile prova offerta nell’Arianna di Monteverdi nel 1608 (su cui cfr. più avanti la nota 75 di questo stesso capitolo). Anche prima di quella data le doti canore e musicali di Florinda furono molto apprezzate: sappiamo che, nel 1606, «ben speso va ad intratener l’Eccellenza Sua [il conte di Fuentes, governatore di Milano] con cantare et sonare» (cfr. lettera di Lelio Belloni ad Annibale Chieppio, da Milano, 25 settembre 1606, in ASMN, Gonzaga, busta 1730, 1 c.n.n.). 26
Cfr. G. B. Andreini, La Campanaccia cit., IV.1.2-3.
27
Cfr. Id., La centaura cit., rispettivamente II; IL1o-1; I.n. Riportiamo qui di seguito la didascalia dell’epilogo (pp. 156-57): «Coro di pastori cantando, e qui si potrà fare che ’1 coro
T S
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de’ musici del re di Rodi cantando con quello de’ pastori faccia la melodia maggiore; però lascieranno cantar prima gli stessi soli pastori; poi mostrando d’aver intese e le lodi e la musica, potranno alor con doppio coro terminar l’opera, conducendo in bell’ordine fuor di teatro la centaurina». ® Ibid., p. 123. ? Id., La Ferinda, Della Vigna, Paris 1622, A’ benigni lettori. ® Cfr. Id., Lo schiavetto cit., IV.8 e V.9; Id., La sultana cit., Il.6. ? = Cfr. Id., Le due comedie in comedia cit., III.3-8 e V.2-10. ? Per i vari tipi di baruffe si vedano: Id., La turca cit., 1I.4.19-25; 1II.3.48-60; III.5.12-15; IV.3.39-49; Id., La Campanaccia cit., 1.5.5-17; Id., Amor nello specchio cit., IV.7; Id., La sultana cit., Lx e 8; Id., Li duo Lelii simili cit., I1.4; III.5-6. Per le coreografie più ampie, oltre alla battaglia campale già citata della Turca, alla corte parodica dello Schiavetto, alle pompe funebri della Centaura, al corteo carnevalesco esotico della Su/tara, si ricordi la clownesca e surreale parata dei bravacci in Li duo Leliî simili cit., IV.7. % Cfr. rispettivamente Id., La Campanaccia cit., II1.6 e Id., La turca cit., V.8.3-25. # Cfr. Id., La centaura cit., 1.5 e 10; in particolare per gli accessi di pazzia di Lelio si veda il ‘tormentone’ dello scambio d’identità in Li duo Lelii simili cit. * Ovvio il riferimento alla serie di generici esibiti dall’Andreini nella Carzpanaccia cit., ma cfr. anche Id., La sultana cit., IV.2. # Id., La turca cit., II.3.15. Appena meno smaccato è l’elogio che Zelandro pronuncia nei confronti dei canovacci del figlio Lelio in Le due comedie in comedia cit., V.1.3: «Signori Accademici, per mia fé che la vostra commedia è stata benissimo recitata. Non parlo poi di quel grazioso filo fatto da mio figliuolo, qual, convertito in catena d’oro, doveva così dolcemente stringer cuori nemici». Ma cfr. anche :bid., 1.2.2. 7 AJ padre si riconosce, oltre ai valori morali più alti, il merito tecnico di avere inventato il soggetto de Li duo Lelii simili: cfr. Id., La centaura cit., [Ai] lettori cortesissimi, p. 20: «Duo Lelti stampati pur in Parigi, suggetto di Francesco Andreini mio padre, e dicitura mia»; Flaminio Scala è rievocato nella figura del Pasticciero in Id., Le due comedie in comedia cit., V.10.44; Adriano Valerini è rammentato dall’Andreini ne La turca cit., IV.1.1r e 14 (il madrigale che vi figura è opera del poeta-attore, come lo stesso Andreini confesserà nell’edizione della Turca del 1620, edita a Venezia da Guerigli, p. n). Isabella, la madre di Giovan Battista, viene più volte glorificata nei testi teorici, da sola e in compagnia del padre («grandi idee de’ teatri» vengono definiti in Id., Lo specchio cit., p. 10), ma anche celebrata, ne La turca cit., IV.7.26, come «la regina delle scene, l’amica delle muse, di volto sì, ma più di un casto core bella»; quanto ai due Garavini sono santificati soprattutto in Id., La ferza cit., pp. 37-39 3 Id., Lelio bandito cit., II.5.19.Ma si vedano anche altri passi :24.: «l’umor di costui mi piace» (1.5.12); «Com'è ridicoloso costui» (I.5.36); «O caro il mio Venturino, certo, certo, che tu se’ un dolcissimo trattenimento » (I.5.69). 3:v Lettera di Giovan Paolo Fabri al duca di Mantova, da Verona, 27 agosto 1623, in ASMN, Axtografi, busta 10, cc. 122r-123r. Vissuto fra il 1567 e il 1627, friulano di Cividale, specializzato nella «parte » di innamorato, il Fabri fece parte delle compagnie degli Uniti, dei Gelosi e infine dei Fedeli. Fu autore, oltre che di tre altri prologhi per Andreini (precisamente per ilLelio bandito, Le due comedie in comedia e La turca), delle seguenti opere: Due suppliche e ringraziamenti alla bernesca, Gelmini, Trento 1608; Quattro capitoli alla carlona, Gelmini, Trento 1608; Quattro sonetti spirituali, Stamperia Augusta, Perugia 1610; Rime varie, Malatesta, Milano 1613. Cfr. L. Rasi, I corzici italiani cit., vol. I, pp. 840-46. 4 Cfr. G. B. Andreini, Lelio bandito cit., III.5.26: «Or mi risolvo, poiché ne’ travagli si fa cervello, che noi tagliamo il capo al Capo, e ’n questo modo guadagneremo molti scudi, ci libereremo et altrui ancor liberar potremo». 4 Ibid., III.8.3. ‘ Lettera di G. P. Fabri del 27 agosto 1623, cit. 5 G. B. Andreini, Lelio bandito cit., V.7.29.
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Capitolo sesto
“ Id., Le due comedie in comedia cit., II.5.13. 5 Ibid., IV.2.2-4, 10 e 18. 4 Id., Lo schiavetto cit., 1.1.7; cfr. anche la prima battuta della commedia:
«rRaMPINO
Vi dico,
messer Nottola, che l’andar giravoltando tutto il mondo, senza un guadagno alcuno, non fa per me». 9 Ibid., V.8.27. 4 Id., La ferza cit., pp. 36-37. 4 ® 3 ® 5
Cfr. Id., Lo schiavetto cit., V.10.200 e 201.
Cfr. Id., Lelio bandito cit., rispettivamente V.10.16 e IV.7.64. Ibid., rispettivamente IV.7.67 e V.10.13 e 29.
Cfr. ibid., III.10.33-37. Ibid., IV.2.16. Ogni compagno del capobrigante «al seno porta (vessillo del suo amore) grossissima catena, chi s'adorna d’un suo ricco vestimento, e chi numero d'’infiniti scudi fa risonar felice. Onde ben posso dire ch’egli stesso da se stesso si sia impoverito, per arricchire e premiar noi altri». % Cfr. ibid., rispettivamente II.4.19 e 26; L'apparato, pp. 8-9; IV.7.18-22. 5 Id., Le due comedie in comedia cit., III.8.82. * Cfr. ibid., IV.1.13: «Or mentre nel mar del pianto mi scorgo navicella sdrucita, privo d’ogni umano soccorso, ecco discopro voi, veri Castori, veri Polluci di vertù, che scintillando benigni a voi m’invitate con richieste cortesi. Ond’io vi seguo, e con voi in bel legame comico mi lego». 5? Id., La sultana cit., 1.1.5. ® Peri camuffamenti cfr. Id., La turca cit., III.9; IV.5;IV.8; IV.9; V.5. Per il travestimento del-
lo Zanni da Florinda, I.6.14-41. ? Cfr. rispettivamente Id., Le due comedie in comedia cit., I.1.51; II.1.12; I.2.10 e II.1.12. Il gioco
delle etimologie, sempre nel segno del cratilismo, viene applicato a quasi tutti ipersonaggi. © Id., La ferza cit., pp. 37-38. Il nobile esempio del Garavini fu naturalmente ripreso da N. Barbieri, La supplica cit., pp. 27-28. 8 I brani citati sono tratti da G. B. Andreini, Le due comedie in comedza cit., 1.2.9; La turca cit., II.2.18; Lo schiavetto cit., IV.5.19. Si veda anche ibid., V.9.41-42:«NOTTOLA (...) Ma gli abiti poi, pare a me che non sieno conformi a quelle tante signorie. FACETO La virtù, altissimo signore, è quella che fa l’uomo meritevole del nome del signore; anzi la virtù è quella che rende pari al maggiore del mondo il più basso uomo che viva». Id., La centaura cit., II.12, vv. 8-9. La citazione di questi versi finali è il punto di partenza per l’analisi dell’opera dell’ Andreini in F. Taviani, Centaura, in Viaggi teatrali cit., pp. 200-33. Su un tema analogo si è soffermato, partendo dalla lettura del fregio che pare ornasse l'insegna dei comici Gelosi, R. Tessari, O Diva o «Estable è tous chevaux».L'ultimo viaggio di Isabella
Andreini, ibid., pp. 128-42.
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6 Pare rivolta a una riabilitazione di Maria, rientrata in quegli anni a Parigi dopo l’esilio a cui l’aveva forzata il figlio Luigi XIII, e tuttavia sospettata di trame oscure, ‘fiorentine’, avverse alla nazione francese, la frase ‘solenne’ del mago Astianante in G. B. Andreini, La centaura cit., Il.1.34: «Quest’è quella vil centaura che tu disprezzi: ma coronata d’oro e di gemme; quest’è l’ancella vile tale in terra da te stimata: ma regina dagli alti dèi nel cielo destinata; sollevativi tutti, inchinatela ancora umili, e poi da me state attendendo chi sia (...) non solo il cie-
lo, che degli innocenti ha cura, la preservò in vita, ma d’invisibile corona le tenne ad ognor coronata la fronte, com’ella pur (segno di nascita reale) tien coronato il petto ». Si ricordi che La centaura era dedicata a Maria dei Medici. Per la ricostruzione della tormentata storia, privata e politica (oltre che culturale), dei conflitti e delle pacificazioni tra Maria e Luigi XIII si possono consultare molte memorie (tra le altre, quelle di Bassompierre, Lomenie de Brienne,
Fontenay Mareuil), ma si veda in particolare Richelieu [A.-J. du Plessis], Mérotres, édition Michaud et Poujolat, Didot, Paris 1837, tomo I. Cfr. inoltre: Extraits des raisons et plaintes que la Reine-Mère du Roi fait au Roi son fils, s.i.t., Paris 1619; F. E. Mezeray, Histoire de la Mè-
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re et du Fils, s.i.t., Paris1730. Tra gli studi più recenti F. Kermina, Marie de Médicis, Reine régente et rébelle, Perrin, Paris 1979, con la relativa bibliografia. Alla vicenda di Maria e Luigi XIII si è fatto cenno nel capitolo terzo, nota 84. Cfr. la confessione di Artalone in G. B. Andreini, La centaura cit., IIl.1.30: «(...) per osar di salirtropp’alto alle grandezze, delle più profonde ruine trovai le bassezze, e ’n quelle l’infamia e la morte. Incrudelite pur pietosi, o voi in me, non solo iferri, ma le fiere più dispietate escano dalle selve, dalle grotte affamate, e mi lacerino, e di me s’empiano, e si satollino, poiché nacqui di fere, e ben da fera divorato esser dovrei». Cfr. F. Taviani, Centaura cit., pp. 228-29. Proprio nella Centaura cit., pp. 18-19 e167-68, Andreini si era posto ilproblema della messa in scena dei gemelli nell’indirizzo A’ lettori cortesissimi e nell'Ordine per ricitar quest'opera, intitolando un paragrafo di questo Vestimenti dei simili ,ma senza toccare il problema dell’interpretazione di due parti diverse da parte dello stesso attore. Cfr. il madrigale anonimo Quando veste habito da huomo («Donna qualhor vegg’io |Ch’or >
DIS
.
.
.
furi al’huomo hor a la donna in scherzo |Gl’habiti e i vestimenti |Venere e amor mi sembri a i portamenti. |Così di madre, e figlio |Fingi in habito terzo |Le tue gratie il tuo ciglio. |Ahi ch’in sì strani modi |Fingendo stringi i cori in mille nodi») e il sonetto anonimo che inizia: «Cangia Florinda i panni, in su la scena |D’un garzon finge il portamento, e ’1 volto |Ch’ha con sì bell’arti incolto, |Che tesse ai cori amanti aurea catena » (in BBM, Raccolta Morbio, codice n. 1: Poesie di diversi in lode dei comici Gio. Battista Andreinîi, detto Lelio, e la moglie Vir-
ginia, nata Ramponi, detta Florinda, nn. 4 e 30). Alcuni componimenti del codice Morbio furono pubblicati da E. Bevilacqua, Giambattista Andreini e la compagnia dei Fedeli, in GSLI, vol. XXIII (1894), pp. 76-155, e vol. XXIV (1894), pp. 82-165, e da L. Rasi, I corzici italiani cit., vol. I, pp. 144 sgg. Ho corretto, rispetto al testo a stampa, qui e in seguito, il nome degli interlocutori (da Candida a Florinda, da Nebî a Florinda) precisando solamente quando il personaggio è vestito da uomo o da donna, per evidenziare gli aspetti performativi dell’attrice Florinda, messi in ombra dall’abitudine di Andreini (e di tutti gli editori dei testi teatrali) di privilegiare — come è
anche ovvio, tenuto conto della destinazione ‘di lettura’ del libro — il ruolo dei personaggi rispetto a quello dei recitanti. 69
G. B. Andreini, La turca cit., V.8.7-25; i corsivi sono nostri.
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Cfr. il duetto tra Rondone e Schiavetto (ma è Florinda che recita la parte maschile) in Id., Lo schiavetto cit., II.3; quello tra Orimberto ed Eugenio (e questa volta è Lidia che recita la parte del suo gemello) oppure tra Lidia (che recita appunto nel ruolo di Eugenio) e Florinda in Id., Amor nello specchio cit., rispettivamente IV.5 e V.5. Id., La Campanaccia cit., III.6.4. Dall’ottimo stampatore Bordoni di Milano furono edite La Florinda, tragedia, nel 1606, e le prime due edizioni de L’Adamo, sacra rapresentatione (1613 e 1617); una successiva, vivente l’autore, fu stampata a Perugia, da Bartoli nel 1641. Il poema dedicato a La Maddalena fu edito prima a Venezia, da Somasco (1610), poi a Firenze dagli eredi Marescotti (1612) e infine, con aggiunte e correzioni, a Praga da Leva (1628). La sacra rappresentazione dello stesso soggetto La Maddalena fu stampata dai prestigiosi editori Aurelio e Lodovico Osanna di Mantova nel 1617 e dal milanese Malatesta nel 1620; lo stesso Malatesta ne pubblicò una nuova ver-
72
sione nel 1652 dal titolo La Maddalena lasciva e penitente, azzione drammatica, e divota in Mi73
lano rappresentata. Cfr. G. B. Marino, La Galeria, a cura di M. Pieri, Liviana, Padova 1979, tomo I, p. 239: «Bronzin, mentre ritraggi |questo fior di beltà, beltà gentile, |che co’ detti e co’ raggi |degli occhi vaghi e del facondo stile |spetta i duri pensier, doma i selvaggi, |se non ardi d'Amore | hai ben di bronzo il core». Non si conosce la data esatta del componimento, anche se F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani cit., tomoI, p. 38, lo assegna al 1603, subito dopo l’esibizione dell’attrice presso gli Accademici Spensierati e prima della stesura fiorentina della Florinda (1604). Sia il Bartoli che la voce relativa in ES attribuiscono il quadro ad Alessandro Allori, che però in quell’anno era al termine della vita e praticamente inattivo; bisognerà quindi pensare a Cristofano Allori la cui vita sfiorò spesso, e anche da vicino, il mondo del
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Capitolo sesto teatro, delle cantanti e dei mecenati (tra costoro vi fu don Giovanni dei Medici): su di lui cfr.
C. Pizzorusso, Ricerche su Cristofano Allori cit.; Cristofano Allori: 1577-1621, catalogo a cura di M. L. Chappell, Centro Di, Firenze 1984. Del nostro ritratto comunque nessuna traccia. Per altri riferimenti del Marino a Florinda cfr. anche Adone, VII, 88. In una lettera di Virginia Ramponi a Ferdinando Gonzaga, da Torino, 4 agosto 1609, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 577-580, l'attrice menzionava le « cento ottave e quaranta sonetti fatti dal cavalier Mari74
7Vi
no» in suo onore. G. B. Andreini, La ferza cit., p. 67.
L’Arianna di Ottavio Rinuccini e Claudio Monteverdì era stata rappresentata a Mantova il 28 maggio 1608 durante le feste per il matrimonio di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia. L’improvvisa morte, per vaiolo, della cantatrice romana Caterina Martinelli aveva reso necessaria la sostituzione della protagonista con la sorprendente giovane attrice Virginia Ramponi: «la Arianna, che per la morte della povera Caterina era morta, è ravivata, perché havendo volsuto questa sera Madama sentire la Florinda, che ne haveva imparata la parte la più dificile, la dice di maniera che ne è restata stupita, talché sarà mirabile» (lettera di Carlo Rossi a Vincenzo Gonzaga, da Mantova, 14 marzo 1608, in ASMN, Gonzaga, busta 2712, fasc. 20, lett. 8); «Sua Altezza si affatica in far mettere all'ordine la commedia cantata, et era dispe-
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ratissima dopo la morte della povera signora Catherina, (...). Finalmente Iddio ha inspirato in far prova se la Florinda fusse habile a far questa parte, la quale in sei giorni l’ha benissimo a mente, et la canta con tanta gratia et con tanta maniera et affetto che ha fatto meravigliar Madama, il signor Rinuccini et tutti questi signori che l’hanno udita» (lettera di Antonio Costantini a Vincenzo Gonzaga, da Mantova, 15 marzo 1608, ivi, fasc. 4, lett. 7). Cfr. anche lettera di G. B. Andreini a Carlo II Gonzaga Nevers, s.l., s.d., ivi, busta 2370, c. 336r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 76. L'attrice fu utilizzata anche nel Ba/lo delle Ingrate (4 giugno), mentre tutta la compagnia di Lelio recitò l’Idropica del Guarini (2 giugno). Sull’episodio cfr. un classico della storiografia positivista A. Ademollo, La bell’Adriana ed altre virtuose del suo tempo alla corte di Mantova. Contributo di documenti per la storia della musica în Italia nel primo quarto del Seicento, Lapi, Città di Castello 1888, pp. 42-44 € 71-75. Il personaggio di Arianna fu interpretato anche da altre comiche dell'Arte, tra cui Celia Malloni e Marina Dorotea Antonazzoni; un testo intitolato L’Arianna, commedia, e attribuito all’Antonazzoni, si trova manoscritto in BBM, Raccolta Morbio, codice n. 2 (n. inv. 100906): è probabilmente la trascrizione della cosiddetta Pazzia di Arianna che l’attrice era solita recitare nelle sue serate speciali. Un soggiorno romano di Lelio e Florinda nel 161 è probabile secondo quanto risulta dalla lettera di Cecchini a Cosimo II dei Medici, da Mantova, 15 gennaio 161, in ASF, Mediceo, f. 970, c. 166r, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 47, e dalla lettera di Vincenzo Gonzaga a Juan Fernandez de Velasco, da Mantova, 19 marzo 1611, in ASMN, Gonzaga, busta 2275, 1 c.n.n.: nella Pasqua del 1611 i Fedeli sarebbero statia Roma e Frittellino a Milano. Per la datazione del dipinto, l’ipotesi della committenza e la connessione con l’Arianza di Monteverdi cfr. comunque E. Safarik, Feti, Electa, Milano 1991, pp. 245-47. Per il mecenatismo di Ferdinando Gonzaga verso gli attori Fedeli cfr. Corrispondenze, I e II, passim. Sull’importanza dei canoni buontalentiani nella scenografia e nel gusto teatrale fiorentino cfr. il fondamentale A. R. Blumenthal, Giulio Parigî’s Stage Designs. Florence and the Early Baroque Spectacle, Garland, New York - London 1986. Ma cfr. anche S. Mamone, Firenze e Parigi cit., pp. 87-96; A. M. Testaverde Matteini, L'officina delle nuvole. Il Teatro Mediceo nel1589 e gli «Intermedi» del Buontalenti nel «Memoriale»di Girolamo Seriacopi, in « Musica e Teatro. Quaderni degli Amici della Scala», vu (1991), pp. 1-12. Sarebbe comunque utile una rilettura di altre opere del Fetti secondo un’ottica scenografica: si vedano ad esempio le tre tavole Andromeda e Perseo, Leandro e Ero, Galatea e Polifemo, riprodotte nel catalogo di E. Safarik, Fetti cit., nn. 1-13: Sulla loro connessione con I /azento di Leandro di G. B. Ma-
rino, musicato da Monteverdi, cfr. C. Donzelli e G. M. Pilo, I pittori del Seicento veneto, Edizioni Remo Sandron, Firenze 1967.
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G. B. Andreini, La centaura cit., p. 45. La scena svolge la funzione di intermezzo fra i due atti e si prolunga fino agli effetti di macchineria e all’apparizione della corona regale che fanno da prologo al secondo atto (II.1).
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Per la dedica, indirizzata A l’ilustre signor che col penelo se fa creder, fra nu, Zeusi novelo, cfr. Id., La venetiana cit., pp. 21-37; una seconda stampa fu fatta qualche giorno dopo, con dedica mutata, presso l’editore Raimondi (si riveda al riguardo la nota 15 del capitolo quinto). Presso Ciotti e presso Guerigli, sempre a Venezia, Andreini farà ristampare nei primi mesi del 1620
rispettivamente Lo schiavetto e La turca, a conferma di un intenso periodo di recite veneziane. Per La Maddalena, sacra rappresentatione, cfr. l'edizione Osanna, cit. Sui rapporti dell’Andreini con Fetti si veda G. Cozzi, Tra un comico-drammaturgo e un pittore del Seicento: Giovan Battista Andreini e Domenico Fetti cit.: qui si trova l’ipotesi circa la datazione al 1617 del primo incontro tra i due. Si veda anche A. Bardi, Appunti su «La Venetiana» cit. Gli storici dell’arte non hanno mai affrontato la questione dell’incisione per La Maddalena. E. Safarik, Fetti cit., p.153; il titolo del quadro è Cristo nell'orto, il dipinto si trova attualmen-
te alla Narodnî Galerie di Praga. Dal 1597 nel monastero della Cantelma viveva, con il nome di suor Fulvia, Lavinia Andreini. Il merito dell’identificazione va al citato saggio di Safarik (pp. 284-87, cat. n.127) che fornisce un prezioso catalogo delle numerose copie del ritratto, disseminate a Parigi, a Manchester, Venezia e Vienna, a testimonianza, oltre che della qualità del dipinto, anche della fortuna del soggetto. Sulle precedenti interpretazioni del quadro cfr. almeno P. Askew, «Portrait of an Actor» Reconsired, in «Burlington Magazine», n. 899, vol. CKX (1978), pp. 59-65, e F. Taviani e M. Schino, I/ segreto cit., pp. 452-53, nota 4. Trale possibili relazioni con gli Andreini si può ricordare il rapporto documentato tra un fratello di Giovan Battista, Domenico, militare di professione al servizio dei Gonzaga e il pittore, in occasione di un incidente in cui rimase coinvolto il Fetti (cfr. lettera di Domenico Fetti
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al duca di Mantova, da Venezia, 10 settembre 1622, in ASMN, Gonzaga, busta 1554, c. 5017). Su nia Andreini si veda Corrispondenze, I, Andreini, lett. 33 e nota 3 (a cura di C. Burattelli). Oltre alle edizioni che abbiamo citato più sopra alla nota 72, si ricorda che al tema della santa l’Andreini dedicò anche una raccolta di nove madrigali sotto il titolo Le lagrizze, Charles, Paris 1643, e che alla sacra rappresentazione del 1617 furono dedicate musiche di accompagnamento da parte di Muzio Efrem, Alessandro Ghivizzani, Claudio Monteverdi e Salomone Rossi (cfr. Musiche da alcuni excellentissimi musici composte per la Maddalena, Sacra Rappresentazione di Gio. Battista Andreini fiorentino, Gardano, Venezia 1617). Per una riflessione generale sul tema della Maddalena cfr. E. Male, L'art religieux après le Concile de Trente. Étude sur l’iconographie de la fin du xvf siècle, du xvir siècle, du xv siècle, Colin, Paris 1932; L. Réau, Iconographie de l’art chrétien, Puf, Paris 1955-59, tomo III, pp. 846-59; E. Mîle, SaznteMarie-Madeleine et Sainte Marthe dans l'art du Moyen Age au xvur siècle, in «La Revue des deux mondes», nn. 14-15 (1956), pp. 193 sgg. Tra i contributi più recenti: M. Anstett-Janssen, Maria Magdalena, in Lexicon der Christlichen Ikonographie, Herder, Rom-Freiburg-BaselWien 1974, ad vocem, coll. 516-41; La Maddalena tra sacro e profano, catalogo della mostra, Firenze, 24 maggio - 7 settembre 1986, a cura di M. Mosco, Mondadori - La casa Usher, MilanoFirenze 1986; La Madeleine dans l’art, la littérature et la critique en Europe de 1450 è 1650, Actes de la table ronde international (Grenoble, 14-15 octobre 1988), édités parJ.Chocheyras, Université Stendhal - Grenoble III, Grenoble 1988. In particolare sulla Maddalena dell’Andreini cfr. S. Fabrizio-Costa, Les pleurs et la gràce: «La Maddalena» de G. Andreini, in Théétre en Toscane. La comédie (xvî, xvIr et xvi siècles), Presses Universitaires de Vincennes,
Paris 1991, pp. 113-56.
Cfr. G. B. Andreini, L’Adamo cit., pp.150-51: «A voi dunque mi volgo, o verdi rami, |Che su
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le terga qui portai sudando; |Difendetemi voi, voi qui v’alzate, |Fra voi ricetto date |Ad Eva sì dolente». Il quadro si trova oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia ed è databile al 1618; un altro esemplare, anch’esso giudicato autografo da molti, è conservato al Louvre di Parigi. Pit di venti copie sono sparse in tutto il mondo. Per una scheda sintetica e riassuntiva dei problemi sollevati dal dipinto cfr. E. Safarik, Fetti cit., pp. 271-78. Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky e F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi, Torino 1983, pp. 361-64.
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8 Su questo particolare, spesso trascurato dai critici, cfr. Il gioco dell'amore cit., p.121 (scheda a cura di F. Pedrocco). 88
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Cfr. anche la Santa Maria penitente del 1618-19, catalogata dal Safarik (Fett cit.) con il n. 100, già appartenente alla collezione del conte Alessandro Zeno, e oggi non reperibile (una copia d’autore si trova tuttavia al Museum of Fine Arts di Boston). G. B. Andreini, La ferza cit., p. 30. Ibid., p. 34. Si è parlato di una filiazione dalla Melancolia I di Diirer; per una precisa analisi iconologica si rinvia a E. Panofsky, Albrecht Direr, University Press, Princeton 1948, vol. I, pp. 156-71. Cfr. E. Safarik, Fezti cit., pp. 139-40, tav. 32 (particolare), ma anche C. Perina, La pittura, in E. Marani e C. Perina, Mantova. Le Arti, Istituto Carlo D'Arco per la Storia di Mantova, Mantova 1965, vol. III, tomo I, pp. 457-58, eJ. M. Lehman, Domenico Fetti. Leben und Werk des ròmischen Malers, tesi di laurea, J. W. Goethe-Universitàt, Frankfurt am Main 1967, pp. 203-4. La tela si trova ora in Palazzo Ducale a Mantova. G. B. Andreini, La ferza cit., p. 69. La notizia fu ripresa da F. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani cit., tomo I, pp. 9-10, senza citare la fonte; fu il Bartoli però ad aggiungere il nome del Poccetti, omesso dall’Andreini, facilitando l’identificazione della lunetta. Dal Bartoli in poi nessuno (tranne F. Taviani, Bella d’Asia cit., pp. 38-39 e nota 91) rievoca la prima testimonianza diretta dell’ Andreini che, per quanto riguarda le parole del Poccetti, riferisce evidentemente un suo ricordo personale. Dopo Bartoli, si veda anche L. Rasi, I corzici italiani cit., ad vocem, che entra nel dettaglio e identifica nel secondo personaggio il figlio Giovan Battista. A. Giani, Idea del Chiostro della Nunziata di Firenze [...], 1604, ms. in BNF, Conventi Soppressi, G.8.1483, cc. 57 e 450. La datazione, insieme a molte altre pertinenti osservazioni, è avanzata da M. C. Fabbri, Due interventi artistici nel complesso servita della Santissima Annunziata a Firenze (1588-1618), tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze (relatrice Mina Gregori), anno accademico 1988-89, pp. 312-21. Ringrazio la dott.ssa Fabbri per le utili informazioni che ha voluto darmi sull'argomento. Non si riscontrano dati a favore (ma neanche contrari) alla datazione nella corrispondenza attualmente nota di Giovan Battista. I due attori avevano allora circa sessanta e trentadue anni. C. Ripa, Iconologta [...], Tozzi, Padova 161, pp. 88-89. Ritratti dell’attrice si trovano nei frontespizi delle sue opere: I. Andreini, Mirtilla, Dalle Donne e Franceschini, Verona 1588; Id., Rizze, Bordoni e Locarni, Milano 1601; Id., Lettere, Zaltieri, Venezia 1607. Ma si veda anche la medaglia che fu fatta incidere, forse a Lione, in occasione della sua morte, e conservata oggi in quattro copie: due in bronzo rispettivamente a Milano e a Londra, una d’argento (pit piccola di 38 mm. di diametro) e una in ottone entrambe a Parigi. Secondo M. Jones, French Medals 1600-1672. A Catalogue of the French Medals în the British Museum, British Museum Publications, London 1988, p. 61, l’autore sarebbe addirittura il più importante incisore di corte, Guillaume Dupré, produttore di replicate immagini del re e della regina. Per un’attenta lettura della medaglia e delle esequie cfr. anche]. Tricou, La Medaille d'Isabella Andreini, in «Revue numismatique », VI série, tome II (1959-60). ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese, n9, 54, Ricordanze segnate D (1603-1640), cc. 40-45, cit. in M. C. Fabbri, Due interventi artistici cit., p. 313. Lorenzo Usimbardi (1547-1636) fu il terzo dei cinque figli di Simone, tutti destinati a carriere brillanti: vescovi, giureconsulti, segretari medicei. Nato a Colle Val d’Elsa, fu dapprima Capitano di Giustizia a Siena (1587-90), poi tra i segretari della corte granducale a partire dal 1591. Ricopri moltissime altre cariche, tra le quali ricordiamo quelle di auditore delle riformagioni, di senatore (fu eletto nel 1615), di primo segretario di stato del duca Cosimo II. Per queste e altre informazioni cfr. ASF, Raccolta Sebregondi, ad vocem «Usimbardi», fasc. 5359. Schizzi di questi stemmi si possono vedere in Sepoltuario fiorentino ovvero descrizione delle chiese, cappelle e sepolture, loro armi et inscrizioni della città di Firenze e suoi contorni fatta da Stefano Rosselli, MDCLVII, ivi, Manoscritti, 625, tomo II, pp. 919 e 921, che menziona stemmi
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situati nella cappella del Maestro Luca e nella cappella Usimbardi in Santa Trinita in Firenze.
Ma cfr. anche gli stemmi in pietra posti sulle facciate dei palazzi vescovili di Arezzo (Pietro Usimbardi vi fu vescovo dal 1592 al 1612) e di Colle Val d’Elsa. Per tutte queste notizie cfr. ivi, Raccolta Ceramelli Papiani, fasc. 4765, serie F, Usimbardi Colle Volterra, cc.n.n. "0 Leggo questo e gli altri stemmi secondo i suggerimenti fornitimi gentilmente dal dott. Luigi Borgia, che qui sentitamente ringrazio.
1 Il primo a notare questa somiglianza fu il Rasi che giunse ad attribuire lo stemma dell’Annunziata agli stessi Andreini, senza pensare che una simile proposta significava assegnare agli Andreini la funzione di committenti del Poccetti. Ipotesi questa assai poco probabile. A parte la fonte citata dalla Fabbri (cfr. qui nota 98), anche secondo O. Andreucci, I/fiorentino istruito
nella chiesa della Nunziata di Firenze. Memoria storica, Tip. M. Cellini, Firenze 1897, p. 220, i committenti furono le famiglie dei fondatori e altre illustri casate. Merita comunque ricordare che il nome degli Andreini figura un’altra volta nella chiesa madre dei frati Serviti, a proposito di una committenza pit tarda, relativa a un quadro raffigurante un miracolo, posto sulla parte alta, di destra, della navata centrale, e realizzato da Cosimo Ulivelli, pare «a spesa del signor Andreini»: il quadro raffigura «un soldato caduto spirante a terra, risanato dalle ferite: ‘Bernardini Sardi Militis Spirantia Vulnera Medetur' » (I/ santuario della Santissima
Annunziata di Firenze. Guida storico-illustrativa, compilata da un religioso dei servi di Maria, Ricci, Firenze 1876, p. 52; ma si veda anche Scelta d’alcuni miracoli e grazie della Santissima Nunziata di Firenze descritti da P. F. Giovanni Angiolo Lottini dell'ordine de’ Servi, Cecconcelli, Firenze 1619, pp. 235-36, tav. a p. 234). Riguardo a questa committenza O. Andreucci, I/ fiorentino cit., p. 220, parla di un «marchese Colloredo-Andreini». La strada per arrivare alla ‘scena’ del Chiostro Grande dell'Annunziata poteva essere anche un’altra. Senza spendere i denari di una committenza o senza ricorrere alla ‘sponsorizzazione’ di nobili autentici, gli Andreini vantavano entrature non secondarie. Come quella del «molto reverendo padre teologo degli Andreini», zio di Giovan Battista e autore del Trattato sopra l’arte comica cavato dall’opere di San Tomaso, e da altri santi di cui abbiamo già riferito. 102 Cfr. L. Borgia, Ornamentazione araldica in tre monumenti funebri romani: brevi considerazioni storiche e blasoniche, in «Archivio Storico Italiano», CXLVII (1989), n. 541, pp. 509-24. ‘> G. B. Andreini, La Maddalena cit., p. 4r. L’accenno non ha mai trovato conferme attendibili. Secondo ricerche svolte da A. Zinanni, «La Campanaccia» cit., p. 255, la parentela non sarebbe suffragata da fonti archivistiche, anche se nella famiglia Dal Gallo (o Del Gallo) si se-
gnalano due figure, tal cavaliere di S. Stefano, Angelo diJacopo di Gerolamo Dal Gallo e un dottore teologo Amerigo d’Alessandro Dal Gallo, vissuti nello stesso periodo di Francesco Andreini e implicati in avventure militari e teologiche analoghe a quelle evocate per gli Andreini. Sull’argomento cfr. tuttavia quanto osserva la Burattelli in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 15, nota 2. 14 Cfr. G. Mazzei, Stemmi ed insegne pistoiesi con note e notizie storiche, Fedi, Pistoia 1907, sub voce (ristampa anastatica Forni, Bologna 1980): «D'oro, al pino italico al naturale, movente da una campagna di verde, con un maiale passante di nero, cinghiato d’argento, attraversante sul tronco; col capo d’Angiò». 1 Sulla strategia pubblicitaria e sull’innalzamento mitico di Isabella e degli Andreini si è già avuto l’occasione di rinviare a F. Taviani, Bella d’Asia cit. In particolare è preziosa la ricostruzione del ruolo di modella (chiamata a rappresentare la Fama e la musa Calliope) assunto da Isabella Andreini alla fine del 1593 in Roma, per la realizzazione di una statua che doveva figurare accanto alle immagini di Tasso e Petrarca; la tecnica di riabilitazione, in virtà di un trucco ottico e logico, è analoga a quella che abbiamo osservato per Francesco (Giovan Battista sfruttò abilmente entrambi gli episodi in passi contigui de La ferza cit., pp. 68-69) e per Florinda, se è lei la modella anche lontana delle dive mitologiche dipinte dal Fetti. 106 Cfr, E. Casalini, La SS. Annunziata nella storia e nella civiltà fiorentina, in Tesori d’arte dell’Annunziata di Firenze, catalogo della mostra a cura di E. C., M. G. Ciardi Dupré Dal Poggetto [e altri], Alinari, Firenze 1987; E. Casalini, La SS. Annunziata di Firenze. Studi e documenti sulla chiesa e il convento, Convento della SS. Annunziata, Firenze 1971, vol. I, e vol. II 1978.
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G. B. Andreini, La ferza cit., p. 41. Si tratta di Yves Le Moyne, proprietario del pastello messo all’asta in una vendita all’Hòtel Drouot di Parigi nel 1912 (cfr. E. Safarik, Fetti cit., p. 287). G. B. Andreini, La ferza cit., pp. 14-15. Alludo qui alle tesi da me esposte nell’Introduzione a Commedie dell’Arte cit., in Da Ruzante a Andreini cit., e in Drammaturgia e ruoli teatrali cit., ma anche al saggio di F. Taviani, La
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composizione del dramma nella Commedia dell'Arte cit. Lettera di P. M. Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 15 luglio 1620, in ASMN, Goxzaga, busta 1751, cc. 8377-8387, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 75. L'attore deplora anche che Lelio «habbia tolto in compagnia et vi mantenghi un Pantalone [Federico Ricci] dispiacciuto honiversalmente a tutti, e vi si dia una parte intiera», e che l’altra servetta, la Bernetta, «quasi sempre se ne sta a casa per non entrarvi [in commedia] ». Un ruolo rilevante è assegnato anche al pedante Sofistico che poteva essere recitato dal Graziano Giovanni Rivani il cui rilievo all’interno della compagnia abbiamo già ampiamente notato.
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Nel 1615 il personaggio di «Lidia da fantesca» è segnalato nella compagnia di Lelio da una lettera di Tristano Martinelli a Maria de’ Medici, da Mantova, 30 giugno 1615, in BTB, Raccolta Rasi, Autografi, 1/ Cart. 44, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 38. La sua presenza, insieme al marito, sempre nei Fedeli è attestata fin dal 1612 (cfr. lettera di Martinelli a Francesco Gonzaga, da Firenze, 26 novembre 1612, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 167r-168r, ora in Corrispondenze, 1, Martinelli, lett. 29). Ibid., Cecchini, lett. 75, cit. Lettera di Cecchini a un segretario mantovano, da Milano, 22 luglio 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, c. 849r-v, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 76.
Lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 5 agosto 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, cc. 858r-861r, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 39. Lettera di Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 28 agosto 1620, in ASMN, Gonzaga,
busta 1751, cc. 876r-8777, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 78. Lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Parigi, 8 maggio 1621, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 2057-2067, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. s1. Cfr. L. Rasi, I corzici italiani cit., vol. I, pp. 151-57. Lidia e Lelio saranno sicuramente conviventi, una volta diventati entrambi vedovi, intorno al 1633 (cfr. le due lettere del Cecchini a un segretario mantovano, da Verona e Venezia, del 28 giugno e del 26 novembre 1633, in ASMN, Gonzaga, busta 1567, cc. 4891-4907 e 5827, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. gr e 93); il matrimonio è antecedente al 1652 perché la donna figura come moglie in occasione della rappresentazione e stampa della Maddalena lasciva e penitente di quell’anno. Cfr. lettere di G. B. Andreini del 16 e 23 novembre 1628, entrambe da Vienna, in ASMN, Gonzaga, busta 495, lett. 6 e 7, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 54 e 55. La prima lettera è firmata da Lidia, ma è scritta per intero da Lelio, e invoca la protezione della duchessa di Mantova per la figlia Leonora; nella seconda, indirizzata a un segretario ducale mantovano, le riverenze di Lelio sono unite a quelle delle due donne: «e così fan Florinda e Lidia serve devotissime sue». Ibid., Cecchini, lett. 78, cit. Cfr. soprattutto i duetti pastorali nelle scene 3-4, 6-7, 1-12 del secondo atto.
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G. B. Andreini, La sultana cit., 1.8.1.
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Ibid., V.9.6.
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S Ibid., V.11.15. Cfr. la nota 25 di questo stesso capitolo.
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Id., Le due comedie in comedia cit., IL.1.19.
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Ibid., IV.4.9.
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3 Ibid., Il.1.4. Anche in Id., Arzor nello specchio cit., V.8.2., la finzione teatrale viene spiegata come ricaduta di vicende reali: «GOVERNATORE (...) Siamo a parte di questo caso amoroso et improviso, et è ben tale, e così pellegrino ch'io voglio farne di mia mano un poco d’abbozzo per farlo poi recitare alla nostra Accademia e intitolarlo Arzor nello specchio». 0 Id., Le due comedie in comedia cit., Il.1.2-3. 31 a Ibid., V.10.54. 13.N Ibid., V.10.64. 133 Id., L'Adamo cit., [pp. 4-5], dove si delinea un teatro capace di riprodurre in «immagini e voci, pur tutte umane» gli «interni contrasti». Mi sono servito per questi riscontri dell’ottimo lavoro di M. Lombardi, La «Saggia Egiziana» di Giovan Battista Andreini e il teatro nel teatro, in «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», vol. XXXIX, fasc. 4 (1986), p. 275. 4 G. B. Andreini, Lo specchio cit., p. 5; i corsivi sono nostri. 55 G. P. Fabri, Prologo, in G. B. Andreini, Le due comedie in comedia cit., p. 21. 6 (o Id., Lo specchio cit., Dedica, p.1. 153N Id., Amor nello specchio cit., Dedica, [p. Iv]. Lallbrd- 30. 59 wo Ibid., Il.1.24. 10 Ibid., III.1.44-45. 141 3] Ibid.,V.8.4:«BERNETTA Etio vengoavestirvi, non già a dispogliarvi, poiché in questo dispogliamento la mia padrona è rimasta colta da quell’ermafrodito, che sta in parte nascosta». 14.N Prestiti dal platonismo (dal Corvito e dalla Repubblica in particolare), oltre che da un più diffuso platonismo cristiano, sono stati notati nel dialogo dell’ Andreini da Marco Lombardi (La
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«Saggia Egiziana» cit., p. 277), che vi ha sottolineato le suggestioni del tema luce-ombra (anche in chiave scenotecnica) in sintonia con il coevo gusto europeo, da L’i/lusion comique di Corneille al Sai Gerest di Rotrou. Cfr. Trattato sopra l’arte comica cit., p. 8: «Ludus, sicut dictum est supra, est necessarius ad conversationem vitae humanae: ad omnia autem, quae sunt utilia conversationi humanae, deputari possunt aliqua officia licita et ideo etiam officium histrionum, quod ordinatur ad solatium hominibus exhibendum, non est secundum se illicitum». G. B. Andreini, Lelio bandito cit., 1.1.70. Id., La saggia egiziana cit., p. 43. Thid:, pi 35.
47 Si Per considerazioni sul mito di san Genesio in alcune riletture europee coeve all’Andreini (in
particolare E/fingido verdadero di Lope de Vega e il Saint Genest di Rotrou) si vedano F. Taviani, Né profano né sacro: prospettive teatrali, in Luoghi sacri e spazi della santità, Atti del Convegno di studi (L'Aquila, 27-31 ottobre 1987), a cura di S. Boesch Gajano e L. Scaraffia, Rosemberg & Sellier, Torino 1990, pp. 225-39 e M. Lombardi, La «Saggia Egiziana» cit. 1 G. B. Andreini, Lodando î theatri, vv. 9-14, inId., Teatro celeste. Nel quale si rappresenta come
la Divina Bontà habbia chiamato al grado di beatitudine e di santità comici penitenti e martiri [...], Callemont, Paris [1625], p. 8.
Capitolo settimo
Il pirata senza terra
1. La partenza per Parigi come capo assoluto della compagnia degli italiani invitati alla corte di Francia fu, per Giovan Battista Andreini, il coronamento di una sapiente strategia familiare e di una prudente condotta personale, durate almeno un decennio. Insomma un traguardo lungamente desiderato e finalmente raggiunto. La sua autorità, teatrale e morale, aveva prevalso, dopo una tormentosa storia di
trattative, su quella di Flaminio Scala e di Pier Maria Cecchini. Confidenti e Accesi erano stati battuti dai suoi Fedeli. L’unico rivale al se-
guito, Arlecchino, si sarebbe curato solo del suo personale successo. Il duca di Mantova e, con questo, il granduca di Toscana e i cortigiani italiani di Parigi, lo avevano di fatto nominato rappresentante del-
l'Arte comica in una delle capitali più prestigiose dello spettacolo europeo. Qui avrebbe lavorato, se si esclude qualche rientro in Italia durante l’estate, per tutte le stagioni invernali fino al 1625. La conqui-
sta del capocomicato corrispondeva a una investitura ricevuta dalla storia e dai potenti. I cui favori Lelio ricambiò componendo, tra il 1621 e il 1624, i capolavori della sua drammaturgia consuntiva. Mutando di nuovo il punto di vista, e tornando dalla parte dei perdenti, il trionfo dei Fedeli appare diversamente colorato. I Confidenti si erano dapprima adattati a percorrere un circuito di ripiego, limitato a piazze minori dell’entroterra veneto ';poi, in seguito alla morte di don Giovanni, molti di loro finirono per confluire proprio nella formazione di Lelio, grazie alla quale ottennero la consacrazione internazionale a Parigi. Peggiore sorte toccò a Frittellino, costretto a guardare la partenza dei Fedeli attraverso le sbarre del carcere in cui lo
avevano fatto rinchiudere Lelio e Arlecchino. Eppure, aveva sperato di essere lui il vincitore. Dopo l'abbandono della trattativa da parte di don Giovanni, il duca di Mantova aveva prontamente accettato la sua offerta di collaborazione”. Proprio allora era cominciato l’ultimo duello con Lelio, a cui erano seguite le umiliazioni, le recriminazioni. Aveva dovuto accorgersi che lui e la moglie Flaminia sarebbero stati
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di complemento a una compagnia imperniata sui Fedeli: Andreini «operò ch’io rimanessi senza tutti gli miei compagni per puter egli rimaner con la sua compagnia»’; la moglie era chiamata a occupare, come seconda donna, il posto lasciato libero dalla Lavinia dei Confidenti e lui stesso avrebbe sostituito Scapino. Poi c’era stata la promozione di Baldina da soubrette ad amorosa, con il relativo scandalo che
abbiamo rievocato. Inutilmente Frittellino aveva tentato di testimoniare, oltre alla sua personale obbedienza al duca, «la scambievole amorevolezza che passa tra Flaminia e Florinda, la quale chiaramente fa credere ch’elle si siano scordato di esser donne» ‘. Andreini fu più
abile di lui nel difendere la promozione della Baldina, che rendeva superflua la presenza di Flaminia (sappiamo quanto fosse giudicata dannosa dagli attori e dai mecenati l’eccedenza dell'organico), e nel dimostrare, con l’aiuto di Martinelli, che era capace di tenere «unite, e non divise» le compagnie”. Alla fine di settembre il destino di Frittellino e Flaminia era stato segnato dalla deliberazione collegiale della compagnia, certificata al duca di Mantova con una lettera di Arlecchino, recante le firme autografe degli attori più autorevoli (Lelio, il Dottore, il Capitano): «tutta la compagnia suplica Vostra Altezza Serenissima di lasiarne andar noi con la nostra compagnia, la quale darà mile volte più satisfacione che la non farebe con questto mal homo»; un attore qualunque avrebbe sostituito Frittellino £. Qualche giorno dopo Arlecchino aveva addirittura chiesto alle autorità gonzaghesche di arrestarlo per permettere agli emigranti di giungere indisturbati a Torino. I capi d’accusa erano numerosi: l’insubordinazione’, la sua amicizia «se non de ladri et gente cative», la complicità con un cognato violento che «l’à uto a dire ch’el vol venire alla strada a mazzar Aurelio e queli che averà fatto dispiacere a Frittellino», il presunto tentativo di sottrarre lo stesso Aurelio alla compagnia « facendolo nascondere in casa di un cavaliero », il sequestro di lettere di cambio *. Non tutte le accuse erano fondate e che il povero Aurelio non fosse stato trattenuto a Milano da Frittellino ma da una grave malattia sarà riconosciuto più tardi: «s’è apestato et s’è ridotto a grave pericolo di cancrena in testibus, con febre gagliarda et altri fastidiosissimi mali»’. Ma non importa. La cattura del Cecchini e la ricerca di Aurelio vennero puntualmente eseguite dal residente Francesco Nerli, la più alta autorità gonzaghesca in Milano. Il quale si ha l'impressione ricevesse informazioni direttamente dal Martinelli che, nella sua veste di «sovrintendente dei ciarlatani», aveva un sia pur limitato potere nel governo dell’ordine pubblico. La prigione stroncò ogni pretesa di Frittellino. L’arresto era per
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un attore il peggiore dei mali possibili: l'interruzione forzata di quel movimento che abbiamo visto costituire la base della sua relativa libertà ed anche il richiamo perentorio alla sudditanza nei confronti dell’autorità territoriale. Il duca di Mantova gli ricordava che il viaggiare era, più che un diritto, una concessione del sovrano. E quella concessione poteva essere rilasciata soltanto ai sudditi fedeli. Per questo la sconfitta subita apparve a Frittellino meno il risultato di una meschina controversia fra attrici, mogli e amanti, e più il segno di una esclusione sociale. Prima dell’arresto si era affrettato invano a promettere « che servirà come deve, e si portarà come buon amico e compagno a tutti, e massime d’Arlechino» °. Dopo, non smise mai di sottolineare, a suo modo, la gravità economica e morale del ‘licenziamento’ dai ruoli granducali a cui aveva sacrificato l’interesse personale e della sua impresa commerciale: Ecco a che termine mi ha finalmente ridotto la mia divotione et la mia obbedienza. Lasciai per ordine di Vostra Altezza Serenissima questa Pasqua gli miei compagni, et hora per ordine suo mi bisogna comportare di esser abbandonato da questi, talché ritrovandomi senza gl’uni et gl’altri sono in coscequenza senza compagnia, essendo di più stato con tanto mio cordoglio priggione, et di più speso in birri, carcere, massari, manze, viaggi di mia moglie, ritorno nostro in Milano, 60 duccatoni. (...) restringendomi nelli miei guai goderò di havermi rovinato solo per servire a Vostra Altezza, alla quale (inchinandomi) non addimando risposta, sf
perché le mie non sonno mai state favorite, com’anco perché mi parto senza saper dove mi voglia andare".
L’orgoglio no difficili a Lodi con pahuomo ella vita:
ferito, la solitudine improvvisa, l'incertezza del futuro, soda sopportare all’età di cinquantasette anni («Io vado non so che puochi a recitare, come s’io fussi il più infedel mondo») e spingono l’attore a redigere il consuntivo
Serenissima Altezza
Sono 35 anni ch’io vado per il mondo. Incominciai le mie prime comedie in servitio del serenissimo Guglielmo suo gloriosissimo avo. Seguitò sempre per ordine il mio servitio nella serenissima sua Casa, né mai, mai m’intervenne un danno, un
scherno et un obrobrio come quello ch’hora mi è intervenuto. Scacciato; biasimato; querellato; et hora osurpato.
Pier Maria Cecchini non accetta di essere dichiarato «rubello», mentre il bugiardo Lelio e il buffone Arlecchino vengono riconosciuti seri e fidati capocomici: (...) ne l’aprir ch'io faccio la bocca, subito mi dicchiarano come rubello di Vostra Altezza, et mi hano vituperato come ho detto, et ecco il fine del mio servire.
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et gl’altri, ch'io son sicuro che non l'hanno servito con quella fede che ho fatt’io, se ne vano agl’utili di Francia, e pur so che hano preso persone nemiche et rubelle del servitio di Vostra Altezza. Che più? Nimici suoi particolari.
La vittoria era andata all’attore che era stato più pronto ad agire come un efficiente funzionario di corte. E bravo era stato l'ambizioso figlio di Capitan Spavento a certificarsi come Andreini più che come Lelio. Pier Maria Cecchini non era invece riuscito a far dimenticare il suo Frittellino, insidioso servo intrigante e autosufficiente. Proprio con la pubblicazione del Lelio bandito Andreini aveva tradotto in simbolo la sottomissione che aveva costantemente manifestato alla corona ducale. Ricordiamo che in quella commedia, edita appunto durante l’estate del 1620, l’attore drammaturgo aveva celebrato la redenzione di se stesso (Lelio) da bandito a gentiluomo. Ricordia-
mo ancora che la dedica di quel libro era già esplicitamente rivolta all'ambasciatore Nerli, il futuro carceriere di Frittellino, e che in essa si
compiva metaforicamente, a ulteriore illustrazione del contenuto simbolico dell’azione drammatica, un atto di resa incondizionata: Per liberarsi alcuni del bando della patria, sogliono presentare banditi, e così tornar nella patria, e nella grazia del principe *.
Il Lelio catturato dallo scrittore Andreini e consegnato al principe era il suo stesso personaggio, «un bandito fra’ boschi, non forzato o malvagio, ma volontario e valoroso »; ma era anche l'attore che, una volta rapito alla scena (come nel caso di Arlecchino), poteva essere offerto,
dentro a una commedia stampata, come pegno di obbedienza dal suddito al sovrano. La distinzione fra attore-bandito e attore-suddito era uno degli espedienti più frequentemente adoperati nella difesa del mestiere comico, come aveva ricordato Nicolò Barbieri nella sua celebre distinzione fra corsari e pirati del teatro ”. Il pirata faceva risaltare, per contrasto, la natura del buon corsaro “. Andreini riusciva a dare una serietà ideologica alla sua vita mercenaria, consegnandosi metaforicamente alla giustizia con pose edificanti degne della lunetta dell’ Annunziata. Passando dalla metafora alla vita reale, Andreini faceva lo stesso con Cecchini: Lelio giustiziere consegnava all’autorità il bandito Frittellino. Per Frittellino fu quello l’ultimo tentativo di impossessarsi della patente ducale che aveva ottenuto con relativa facilità in anni lontani (almeno fino al 1612). La vittoria di Andreini lo respingeva nella mi-
schia infamata degli attori pirati e banditi. Ed egli diventava, più di sempre, vittima di una classificazione particolarmente comoda per i comici d’élite che avevano bisogno di un termine di confronto biasi-
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mevole con cui offrire schematicamente al mondo la misurazione della loro eccellenza. E Frittellino temeva anche che la condanna fosse irrimediabile. Tutta la sua vita era stata vissuta metà da pirata e metà da corsaro. E sempre la condizione di pirata gli era apparsa, allo stesso tempo, minacciosa e inevitabile, mentre l'approdo al porto dei corsari-funzionari era risultato, più che una salvezza certa, una speranza
precaria. Messa a confronto con l’esistenza degli altri comici che abbiamo finora rievocato, la sua vita professionale, proprio perché instabile e soggetta a frequenti improvvise sfortune, riflette bene le molteplici e contrastanti tensioni di un’arte che era ancora, per molti, un mezzo per sopravvivere e, per pochi altri, uno strumento espressi-
vo. Il corsaro Andreini, fatto forte delle garanzie regali ducali e granducali, si recava in Francia con una compagnia di attori quasi tutti fedelissimi con i quali avrebbe rappresentato opere destinate a immortalarlo come autore; Cecchini si trovava costretto a reinventare, senza
soldi e in prigione, una strategia pratica per la propria sopravvivenza. Andreini era il capostipite di una tradizione della Commedia dell’Arte in cui, con un fraintendimento semantico, la parola ‘Arte’ verrà fatta collimare con l’assoluto dell’invenzione creativa; il Cecchini invece
il rappresentante, non ultimo, di un’Arte intesa in senso medievale come mestiere, corporazione, disciplina. Il primo, insieme ad altri, ci ha lasciato l'eredità testuale di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente; il secondo fu, in ultima analisi, un proletario del teatro e ha lasciato dietro di sé solamente un'eredità tecnica. La sua vita è, per noi, il suo lascito più importante. È la prima volta che una biografia totalmente segnata dal mestiere teatrale entra nella storia della cultura, e senza il lasciapassare del mito letterario e artistico. 2. La differenza che corre tra Pier Maria Cecchini e Giovan Battista Andreini risiede nella distinzione di realtà e metafora. Se Andreini
è un bandito per procura, grazie al personaggio metaforico di Lelio, Cecchini è un bandito reale: Pietro Maria Cecchini si trova essere bandito in contumatia dalla città di Turino per la morte di un Carlo De Vecchi anch’esso comico.
Reale e non metaforica è anche la conseguente resa del comico all’autorità, che egli «humilmente supplica resti servita concedergli amplo salvocondotto acciò possa sicuramente dimorare in questa città secondo il solito ad attendere al suo officio di comico» ”. Bandi, minacce di prigione e di morte, riempiono molti periodi della vita di Pier
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Maria Cecchini. Certo pit di quanto capiti agli altri attori di nostra conoscenza “. Nel 1615 «da sett’anni» egli risultava «bandito dallo stato del Serenissimo di Parma» ”. Più spesso era stato coinvolto, direttamente o indirettamente, in azioni criminali: quando aveva fatto minacce di «violenta morte (...) senza occasione alcuna» alla moglie Flaminia; quando aveva lasciato che un suo servitore, su istigazione
della moglie, assalisse un attore della compagnia; quando si era servito della complicità di un cognato che aveva « micicia se non de ladri et gente cative» per tramare intrighi, quando aveva rischiato il carcere e anche, a sua volta, la morte". Partendo da questi e da altri documenti, gli storici e i cronisti hanno avuto buon gioco, al pari dei suoi contemporanei, nel dipingerlo come l’essenza stessa del ‘maledettismo comico’, come il campione di quella trasgressione che da sempre provoca brividi di piacere nel ceto medio della critica conformista. Pier Maria Cecchini fu più conformista di quanto non piaccia. Ci fu un momento della sua vita in cui tentò addirittura di diventare un funzionario, un ufficiale al servizio del duca. Se non ci riuscî, e visse più da pirata che da corsaro, il merito non fu solo suo. I formulari stereotipi che egli prese a usare (dichiarandosi, quale « prontissimo servo», incapace di « far comedie se non al servicio di Sua Altezza ») fino
dai primi anni di attività presso i Gonzaga, sono comunia tutti gli epistolari cortigiani del tempo. Del tutto originali e inedite sono invece le proposte, da lui avanzate qualche anno dopo, e in due momenti diversi (1605 e 1609), per la costituzione di una stabile compagnia mantovana che avrebbe dovuto essere da lui diretta. Non conserviamo purtroppo il testo del progetto, ma solo accenni contenuti in alcune lettere”, da cui si comprende che l’attore compiva un esplicito atto di sottomissione al duca accettando di trasferire la sua residenza dalla natale Ferrara a Mantova, sostituendo cioè la sudditanza stabilita dalla nascita con una elettiva. Atto di sottomissione particolarmente rilevante se si pensa che il Cecchini, a differenza di altri comici, non aveva obblighi di vassallaggio nei confronti della dinastia gonzaghesca, non disponendo di beni immobili o fondiari nel mantovano. Verso la fine della vita avrebbe fatto notare la schiettezza della sua dedizione confrontata con quella dell’Andreini sottolineando che costui se «non havesse beni su il mantovano che non ci starrebbe un’ora, che se n’andarebbe qua o là» ”. Insieme alla sottomissione Cecchini proponeva quello che egli chiamava «il tratenimento ordinario per l’ordinario obligo della compagnia», o se si vuole «l’ordine» con cui si sarebbe razionalizzato il sistema teatrale mantovano (e non solo quel-
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lo) senza nessun aggravio di spesa «con la medesima spesa che [il duca] fa hora in comici». La proposta del Cecchini riveste un’importanza straordinaria. È la prima volta che compare, in maniera esplicita, la concezione organizzativa di un teatro di stato destinata a prevalere, nei secoli seguenti, nella pratica e nella teoria, sul territorio italiano ed europeo. Anche se il probabile regolamento che Cecchini dovette redigere e spedire al duca e al suo segretario Chieppio è andato perduto, dai pochi ma perentori accenni rimasti si capisce che l'ambizione del comico si rivolgeva a tutti gli attori più importanti d’Italia («Le migliori parti del’Italia goderà questo mio pensiero et restarà obgligata a Sua Altezza») e mirava a interessare tutti i centri dello spettacolo controllati dalle corti («non vi serà principe che non gli passi per le mani volendo tai gusti»). Il «tratenimento ordinario» prevedeva, probabilmente, l'impegno del duca di Mantova a vincolare, con molto anticipo, a una regolare presenza in città icommedianti più ricercati, e avrebbe avuto come conseguenza immediata una riduzione dei conflitti che ogni anno si scatenavano nel periodo di quaresima quando si trattava di accaparrarsi le diverse ‘piazze’. La sicurezza della prestigiosa committenza mantovana avrebbe finito per regolarizzare il resto del calendario, imponendo di fatto un monopolio dei Gonzaga anche sulle altre corti Si avrebbero potuto servirsi degli attori ‘mantovani’ su licenza del uca: con la medesima spesa che fa hora in comici, serà servita lei meglio che non è, si renderà obligato qual principe vorrà lei, ne gustarà meza Italia, et quello che più importa, anzi che par impossibile, introdurà pace et unione tra comici ”.
È la formula della compagnia nazionale che raccoglie il meglio degli attori esistenti e che, in conformità con le caratteristiche italiane, al-
terna un periodo stanziale e uno di tournées. Cosî funzioneranno,
grosso modo, nell'Ottocento, compagnie statali come la Reale Sarda e la Reale di Parma. A fondamentale integrazione di questo progetto
(1605) qualche anno dopo (1609) il Cecchini preciserà che al vincolo eventuale di stanzialità doveva corrispondere, almeno per il direttore (e cioè per lui), oltre a un salario fisso, anche la garanzia di una pensione per la vecchiaia: E quando Sua Altezza gusti.pure d’haver compagnia obgligata, la tenghi in Mantova, ché sotto il suo governo non si sentirà mai scandoli; ma temerei che havendo sempre li medesimi non li venissero a fastidio, onde il mio pensiero è questo: che quando Sua Altezza faccesse delliberacione di volere ch'io la servissi stando fermo, che quella provisione che intendesse di darmi fosse sicura in qualche luoco, ch’io la potessi poi anche godere quando non sarò più buono d’andar in volta.
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Perché sarebbe puoca prudenza l’haver fatto ridere da Frittellin giovine, et poi piangere da Piermaria vecchio *.
Conla pianificazione la compagnia dei comici avrebbe lavorato in modo continuativo, superando il precario regime carnevalesco tipico degli spettacoli cortigiani, mentre gli attori non sarebbero più stati costretti a periodi di inattività, con il conseguente endemico indebitamento dopo la quaresima e con la ricerca individuale di scritture e committenti in terre lontane. Il progetto avrebbe trasformato Cecchini in un funzionario di ruolo, una specie di direttore artistico della Stabile di Mantova. A sottolineare l'attitudine più da suddito che da istrione egli aggiungeva che si sarebbe trasformato anche in imprenditore della filatura della seta. E questo non tanto per significare un investimento a vantaggio della fragile economia mantovana, ma per esibire la conversione emblematica dal nomadismo, proprio degli attori, alla rassicurante stanzialità del cittadino residente, sottoposto all’autorità e alla disciplina del potere territoriale: «poich’io ordinariamente, anzi etternamente, volevo con la mia famiglia vivere sotto l’ombre dell’alle delle sue aquile» ”. Qualche anno dopo, la legittima recriminazione del funzionario respinto insisterà proprio sulla leale scelta di «stabilità» che egli aveva fatto: « desiderarei che si mettesse a mente ch’io ho datto molti segni di stabilità, ma che Sua Altezza non li ha favoritti»”. In realtà il progetto di Cecchini era troppo moderno e impegnativo per una corte che era in parte ancorata a una visione antiquata dei
comici e del teatro. Nei ruoli ducali non era previsto lo status di funzionario per il commediante. Il regime economico dei Gonzaga, come quello di molte altre corti italiane, escludeva una tutela costante del professionismo attorico. I comici dovevano guadagnarsi per conto loro la sopravvivenza nei periodi in cui la corte non offriva protezione, sfruttando le tradizioni più conservative del regime. Cosî sappiamo che il duca, pur di garantirsi la disponibilità permanente di un attore come Tristano Martinelli, aveva acconsentito a concedergli,
praticamente a vita, l'antico privilegio di «sovrintendente» ai ciarlatani e montimpanca. Eta un residuo, quello, della cultura medievale e municipale di Mantova, come lo era la pratica semiprofessionale di Arlecchino, che infatti fu un acerrimo avversario di chi volle riformare in senso moderno l’ordinamento della piazza, proibendo l’accesso dei «zaratani» (Arlecchino li chiama invece «poveri vertuosi») che
erano soliti vendervi «i loro medicamenti» ”. Il comico si oppose al sequestro delle loro mercanzie e all'obbligo che venne loro fatto di
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vendere i «secreti o medicamenti» all’interno della farmacia e alla presenza dei medici secondo piti moderni criteri di igiene e salute pubblica”. Martinelli, cui il duca rinnovò pit volte quel privilegio, fece della stanzialità personale nel protettivo porto mantovano il fondamento di tutta la sua esistenza, la base che gli consenti di aspettare con paziente obbedienza l’inizio e lo svolgimento delle tournées predatrici che iGonzaga periodicamente organizzavano in Italia e all’estero: fu dunque un perfetto corsaro. Cecchini, a cui il duca non dette mai una risposta sul progetto di compagnia stabile, rinunciò verso la fine del 1611 alla stanzialità mantovana, che per lui si era rivelata esclusivamente un’occasione di debiti. Pur continuando anche in futuro a chiedere ai Gonzaga la concessione di lettere patenti che lo autorizzassero, anche in via straordinaria, a fregiarsi del titolo di comico ducale, aveva mantenuto la libertà di movimento resa necessaria dalla mancanza di un rifugio permanente e sicuro: fu dunque un corsaro imperfetto e un pirata per necessità. L’attività corsara richiedeva infatti doti non comuni di abilità, prima fra tutte la capacità di destreggiarsi nell’alternanza di corvées e di libertà. Pier Maria Cecchini fu in questo senso il meno ‘virtuoso’ dei comici, e perciò meritevole di quella cattiva fama che lo accompagnò per tutta la vita. Fu, in un certo modo, impari al compito che gli presentava il ‘sistema teatrale’ vigente, e si trovò spesso respinto ai matgini, come nel caso della spedizione parigina del 1620. Andreini, Martinelli e lo stesso Scala furono pit abili, riuscendo a nascondere ai protettori la loro ansia di libertà imprenditoriale, accettando in buon ordine i controlli che derivavano dalle tutele godute, senza perdere di vista, con un tempismo degno della migliore improvvisazione teatrale, le offerte di lavoro che giungevano da altri committenti. Eppure anche la loro professione, come quella di Cecchini, fu vissuta all’insegna di una lotta continua e stremante. Lo stesso Andreini, per quanto tutelato in parte dal nome e dai consigli del padre Francesco, doveva fare ricorso a tutte le sue capacità (anche teatrali) di persuasione per tenere a freno le dispotiche richieste del duca”; e quando non riusciva a ottenere la licenza, l’utile si volgeva rapidamente in danno grave”. Viceversa, una volta avuta l'autorizzazione a lasciare la tutela ter-
ritoriale del signore e padrone, la guerra di «corsa» era vissuta come un'occasione da cogliere con furiosa rapacità, i cui frutti venivano elencati, con doveroso puntiglio, a dimostrazione dell’opportunità della licenza rilasciata”. Dai resoconti che Arlecchino spediva al suo duca trasuda l'entusiasmo di chi affonda le mani nel forziere saccheg-
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giato, l’appagamento sinistro per la scorreria felicemente compiuta, la contemplazione estatica del bottino predato: Di più, subito mi donò un abito di suoi, quasi bello come quello che Vostra Altezza donò al bufon spagnolo questa Senssa pasatta, et di più à ordinatto una medaglia et un centurino da capello gioielati, et di più à ordinato un bel cavalo ala nostra partenza, et per la compagnia poi si va vociferando de mile ducatoni; et di più Madama moglie del prencipe mi à fato di gran careze menandomi per tuti i suoi apartamenti et mi à promesso una gioia, et il prencipe suo maritto à di già ordinato una colana de doble cento per me, et mi à ordinato che io facia tenire la mia creatura che naserà a batesimo a suo nome, tanto che bisognarà fare alla francese che si piglia dui compadri et una comadre sola. Et di più il signor don Manuel, figliollo naturale di Sua Altezza, mi à donato un bel vestito di scarlato tutto carico di pasamano d’oro, et un altro marchese un altro vestitto m’à promeso (...). In diece comedie si à fatto ducatoni 250, ma quasi tutti entrano con i prencipi a gratis. Il prencipe Tomaso à donato a Lelio un vestito di scarlato nuovo, ma bello non è, fatto con duecento doble, et un gioielo è stato donato a Florinda et un vestito a la Lidia, et Sua Altezza à promiso una vesta a Florinda et il prencipe gli à promeso un vestitto, sì che siamo statti ben regalati da questi signori, ma io più di tutti, et così è stato sempre al despeto degl’invidiosi ”.
Cosî Arlecchino visto dall'interno. Dall’esterno «gl’invidiosi» compagni lo ritraggono ancora pit trafelato nella sua personale guerra corsara: « picchia a ogni uscio, saglie ogni scala, fa tombole per ogni sala, mangia a ogni tavola, fa aprir ogni gabbinetto, spalanca ogni guardarobba, e pratico saccheggiatore rapisce se non si dona», traffica per «usurpare una catena d’oro», manovra «un suo servitore, il quale, avvido al paro del suo signore, svaligiando ogni sera le mense di vetovaglia e di vino, empiendone sacchetti e boracchie, la mattina, senza attavolarsi, godeva delle notturne rapine per non ispendere», finché, «giunto a Parigi, colà (...) non c’era pietra, né porta, né camino, che non sia stata segnata dal suo piede, picchiata dalla sua mano, e che sopra non vi sia un Arlecchino » ”. Poco si curava però Arlecchino di queste maligne dicerie, purché tra gli invidiosi non ci fosse il suo duca, e badava a tranquillizzarlo sulla sua gratitudine. La sua avventura non doveva apparire quella di un volgare pirata, ma di un nobile corsaro con tanto di autorizzazione signorile: ò da ringratiar prima il Signor Idio, et poi Vostra Altezza serenissima che mi fa guadagnare et mi fa avere questi presenti per forzza, perché io non mi sarei mai partito da casa mia se Vostra Altezza non mi avese fatto partire, dove sin hora me ne trovo contento”.
Uguale pazienza e prudenza non dimostrò invece Cecchini. A differenza di Arlecchino-Martinelli edi Lelio-Andreini, una volta indos-
sato l’abito di Frittellino, egli non seppe aspettare il rilascio dell’apposito certificato di libera « corsa»; se lo prese, quel permesso, senza
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aspettarlo, e si trovò a sommare, in questo modo, le gelosie del duca,
dei funzionari ducali, dei comici concorrenti, tra cui gli stessi Martinelli e Andreini che non potevano tollerare che lui facesse quello che essi stessi facevano ma senza pagare il dovuto tributo alle forme e alle sostanze del vassallaggio; e anche Flaminio Scala e il suo impresario don Giovanni videro in lui un pericoloso avversario della gerarchia militare da loro rispettata. A dire il vero, per un periodo di tempo alquanto lungo, negli anni immediatamente precedenti al suo coraggioso tentativo di farsi funzionario e commmediante ordinario, riuscî a
mantenere un atteggiamento faticosamente rispettoso delle prerogative signorili. Lo «stanciar a Mantova» e «lo andare atorno » ebbero alterna fortuna. Gli era capitato di amare «più la quiete che l’utile», fino al punto (settembre 1602) di desiderare l’allontanamento da Mantova e dal teatro, benché la città del duca gli offrisse «comodi» non trascurabili”; viceversa un mese dopo (ottobre 1602) aveva di-
chiarato di non vedere «l’hora di pigliar porto, per non far più vella, il qual porto ho fato dissegno che sia Mantova che così piacerà a Sua Altezza» “. Eppure, sebbene avesse «formata la casa» in città”, all’epoca dell'estensione del progetto «ordinario», si era messo in cerca di protettori in altre città, per i periodi non coperti dalla serviti gonzaghesca, raccogliendo in cambio periodiche minacce di sfratto dal duca e molte velenose calunnie dai suoi colleghi”. Aveva precisato però all'autorità competente (pit che il duca in persona, la cancelleria e i funzionari di corte) di non agire «se non sotto i suoi cenni» ”. Intanto Cecchini aveva scoperto di non avere la forza di opporsi agli attori che, in nome dell’utile, si procuravano altre scritture durante i vuoti della stagione mantovana: non disponeva di capacità finanziarie tali da poterli dominare come, in altri periodi, riusciranno a fare gli Andreini, Martinelli e, per conto di don Giovanni, Flaminio Scala *. Si era accorto anche di non potere più tollerare a lungo le costrizioni mecenatesche: « Orsù, non mi bisogn’altro che pacienza, come mi ha bisognato sempre tre anni, anco quatro continui, per mantenir il suo
servicio » “. Dopo avere avanzato la seconda proposta di riforma della compagnia ducale, la rottura (almeno temporanea) fu inevitabile verso il 1610 quando i mercati liberi di Venezia e di Napoli presero a funzionare con rinnovata energia. La richiesta di congedo fu dapprima avanzata con prudenza e con giustificazioni: «a Napoli ho promesso a tempo nuovo, poiché non vego come reffarmi di tanti danni et riscuoter tanti pegni ch’io ho se non mi allargo di Lombardia (...) io andarei in questo viaggio con questi che istantemente mi pregano, et
il carnoval che viene sarei poi anch’io a servire con compagni nuovi
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napoletani che per gusto dell’ Altezza Sua mecco condurei» tono di lamentosa autocommiserazione:
‘. Poi con
Io non so d’haver scritto a Sua Altezza lettera che signiffichi mancamento, ma sì
ben supplica che nottiffica il danno ch'io patisco da molti mesi in qua, et l’utile che per via di Roma et di Napoli mi veniva offerto, e so che il fine d’ogni mia dimanda era questo: che non intendevo di far nulla senza la buona gracia di Sua Altezza. Et se nel dir ch’io mi rimmetto a’ suoi comandi la rendo sdegnata, che farei
poi quando negassi il suo servicio appertamente? (...) Né mi facia vuotar la casa, ma mi avisi ch'io mandarò a levar via il tutto, et farò il carnovale dove piacerà a Iddio (poi ch’io sono di qua dai monti). Vega Vostra Signoria illustrissima gran stravaganza, bisognarmi trat il vitto con il mezo di trattar cose allegre et convenirmi star sempre avolto nei timori, circondatto da mille dubii, et non haver mai un’ora di bene. Dio buono, mo’ chi farebbe mai ’sta vitta? #.
Infine con spazientita decisione: Per la mala fortuna ch’io ho sempre havuta con l’Altezza Sua, et particolar quest’anno, che senza haverla già mai offesa neanche col pensiero mi ha fatto minaciar malissimamente, né so perché; et per esser troppo sotoposto ai sdegni dell’Altezza Sua, o per il mio mal governo, o per la mia mala fortuna, concludo che, essendo impossibile che in questa ettà io mi emendi, overo ch’io conseguischi da Sua Altezza quello che sin qui non ho mai conseguito, concludo (dico), con buona gracia dell’ Altezza Sua, di voler seguir altra fortuna, poiché lodato Iddio me se n’offeriscono diverse *.
Mentre Andreini aveva l'abitudine di calare da neoplatonici sistemi le giustificazioni dell’agire e i significati del suo pensare, Pier Maria Cecchini spiegava se stesso e la sua vita con le ragioni materiali. E
questo non poteva piacere a chi leggeva le sue lettere, a chi di lettere e parole e discorsi aveva fatto l’essenza stessa della propria vita, come i cortigiani, i segretari, iduchi. Fu l’errore tattico del comico ferrarese,
la ragione della sua incompatibilità con il sistema: Tolsi una possessione ad afito, nella quale in quest'anno ho perso più di scudi 180, né è il primo anno, la quale per non mi rovinar affato ho rinonciato. To ho speso ogn’anno del mio più di cento scudi da quindeci anni in qua in vitto stando in Mantova, e tutte queste cose con pensiero di starvi et che Sua Altezza mi aiutasse; e quando Sua Altezza non lo credesse, io farò che i banchi degl’ebrei gli mostrarano le mie partitte, poiché ogni anno ho impegnato per sostentarmi ‘.
Da quel momento, fino alla battaglia dell’estate del 1620, Pier Maria Cecchini divenne per tutti imecenati d’Italia un comico sospetto e un capocomico inaffidabile, da trattare « criminalmente ». Per noi invece è la cavia preziosa per fare un bilancio nel panorama italiano dei varchi aperti dalla mercatura teatrale nel sistema cortigiano. Le difficoltà economiche e le costrizioni pratiche aguzzarono il suo ingegno, il suo fiuto si mise in cerca di mercati liberi (Venezia, Napoli) o stra-
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nieri (Vienna), di attori estranei al sistema codificato e vincolato dalle
corti centro-settentrionali. In mezzo a molti corsari nemici il pirata Frittellino fu costretto, per sopravvivere, a perfezionare la sua arte e la sua organizzazione, e anche la sua crudeltà. Se gli attributi di Lelio (bandito e santo) paiono costituire un oxyzzoror, quelli con cui ci piace ribattezzare Frittellino sembrano assai meno antitetici: bandito e mercante.
3. La modernità di Frittellino-Cecchini fu istintiva e si spense non appena la vitalità del presente cominciò a essere sostituita dall’insicurezza del futuro. Le frasi tronche, incidentali, brevi come imprecazioni, che abbiamo carpito e schedato nelle sue corrispondenze non rimandano ad analisi circostanziate della società del tempo, e si limitano a registrare, per via di frammenti sparsi, le trappole che le serviti stanziali avevano teso a una libera circolazione del teatro. Quei frammenti potrebbero essere ricomposti per altro uso, per comprendere meglio, ad esempio, l'equilibrio o squilibrio esistente fra un'economia di mercato, un’economia agraria e le rendite di posizione. Una più capillare storia delle professioni minori è ancora da fare. A noi basta rilevare, attraverso le avventure del nostro piccolo eroe, che il viaggio e la migrazione permanente erano gli unici rimedi praticabili per superare i ricatti del sopravvivente potere che qui si continua a definire, per comodità, ‘feudale’. I ricatti coincidevano, non a caso, con i privilegi, essendo la concessione della proprietà o dell’affitto di una casa, di un podere, di una bottega, di un opificio, fonte di benessere per il beneficato ma anche strumento di controllo pet l’elargitore. I modesti privilegiati, come nei casi degli attori, erano incatenati da quei beni, la cui sopravvivenza e floridezza sapevano dover dipendere dalla protezione giuridica, poliziesca e militare del sovrano territoriale. Questi beni potevano essere: il mulino di Bigarello che Tristano Martinelli comprò nel 1618 fissandone per noi la memoria con una lapide che lo ritrae appunto, glorioso e geloso proprietario, legato al suo bene da una inviolabile catena; il possedimento dei Due Castelli, acquistato dallo stesso Arlecchino fin dal 1602 in una zona del mantovano in cui si trovavano le terre di altri comici, come Francesco Andreini e Vittoria e Orazio Nobili ‘’; i terreni che furono comprati e amministrati per Giovan Battista Andreini, a più riprese, ora dalla suocera Tommasina Ramponi ora dall’ebreo Aron Forlano “; le duecento biolche di pascolo e di campi che, insieme a due case coloniche, gli Andreini possedevano a Ca” Mandraghi, sempre nel
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mantovano °; la bottega di profumiere e speziale che Flaminio Scala gestiva, insieme a un laboratorio, nel quartiere di Rialto in Venezia,
grazie naturalmente ai buoni uffici del principe don Giovanni”. Ma erano beni analoghi a questi anche le protezioni presso conventi e presso reggimenti militari che gli attori ottenevano, con l’intercessione dei signori mecenati, per fratelli, sorelle, figli e parenti”; oppure quelle speciali assicurazioni sulla vita, a vantaggio dei figli, che furono stipulate da Tristano Martinelli mediante l’affiliazione delle neonate creature a padrini e madrine illustri come i reali di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, e altri ancora”. E anche i depositi di capitale che lo stesso Martinelli ottenne di mettere a frutto, al 5 per cento di interesse, presso il Monte di Pietà di Firenze, grazie alla garanzia presentata per lui dal granduca Ferdinando I, rientrano nella categoria dei privilegivincoli. Grazie alle utopie di Giovan Battista Andreini (leggibili nella Saggia egiziana e nell’intera opera drammaturgica), il riconoscimento ai comici di un posto stabile nella società, mediante la riconciliazione del loro operare con quello degli altri uomini, fu un’acquisizione del mondo delle idee. Invece nella società materiale, il mestiere teatrale rimase una funzione instabile, non riconciliata: una condizione che
agli occhi degli stessi suoi operai apparve come uno stato di passaggio, un transito mediante il quale si potevano guadagnare ricchezze e sicurezze, non solo economiche, altrimenti irraggiungibili. Tutti gli attori che abbiamo incontrato nella nostra inchiesta, tranne gli Andreini (che coltivarono appunto un risarcimento ideologico più raffinato), provarono, in varie circostanze, la tentazione di abbandonare
l’Arte e di vivere d’altro, ma non ci riuscirono mai”. Il teatro fu quindi, anche, un punto di fuga dalla condizione di sudditi, servitori, contadini, verso un’autonomia che consisteva più che nel mestiere, nella
possibilità che questo offriva di accumulare denaro, di comprare un pezzo di terra, di mettere su una bottega, sistemare fratelli, sorelle e figli grazie ai favori, non solo economici, che con il mestiere si potevano raccogliere presso potenti laici e religiosi: in altre parole di essere, sia pur faticosamente, liberi in una società di sudditi. Don Giovanni, che sapeva bene quale spinta muoveva gli attori, chiedeva di «lassare godere» loro « quella libertà che pare concedere Iddio benedetto a tutti quelli che non nascano suddditi», e Flaminio Scala gli faceva eco dichiarandosi pronto a trasformarsi per lui «in qualsivoglia cosa, da cortigiano in poi [tranne che da cortigiano]» *. Gli attori erano giudicati dalla mentalità corrente l'esatto contrario dei cortigiani e dei sudditi disciplinati come dovette constatare di
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persona Nicolò Barbieri al momento di fare accettare il proprio figlioletto nel collegio dei Gesuiti di Firenze: «quando i padri sentirno che era commediante, gli dettero l'esclusione»; diversamente sarebbero andate le cose se l’attore avesse accettato di cambiare il suo abito comico con uno pit servile, come suggeriva il cortigiano di turno: «io sarei andato da’ padri e condotto il putto, e consegnatolo loro per parte di Vostra Eccellenza con dire che era figlio di un suo servitore, e non ci occorreva altro» ”. Dall’episodio si capisce quanto era fragile e precario il teatro come asilo della libertà personale. Perciò ogni attore vedeva urgente oltrepassarlo, andando oltre fino a raggiungere la condizione di salariato di corte, letterato, gentiluomo, proprietario terriero, artigiano. Come già sognavano i proletari di Ruzante *, tuttii nostri attori videro allora nel possesso della terra un bene sicuro e durevole. Era la terra, tangibile, immota, ripetitiva, materna, l’esatto contrario del vivere comico. Una garanzia di tutela che metteva al riparo dalle insidie di un mestiere sradicato. Quanto questo era incerto e rischioso per l’irrinunciabile costrizione al viaggio che implicava, tanto la piccola proprietà stanziale appariva come madre certa di un cibo necessario per il presente e forse per il futuro. Nessuna terra appartenne mai a Pier Maria Cecchini. A quanto risulta dai documenti in nostro possesso egli non fu proprietario di poderi, né a Mantova né altrove. Non fu neanche titolare di depositi bancari. Fu padrone di una casa nella natale e matrigna Ferrara, e forse nella libera Venezia, mentre a Mantova, quando vi risiedette, fu ospite precario e tollerato del duca. In generale, tuttavia, ben consapevole dei vincoli impliciti in ogni proprietà stanziale” e, più preoccupato di patirli che di sfruttarli, tentò di superarli. E si servî, per questo, del loro esatto contrario, il movimento, il viaggio, quello che abbiamo visto essere il principale strumento di liberazione e affrancamento concesso alle popolazioni inferiori, del resto congenito al funzionamento del mestiere comico. Alla rendita fondiaria e feudale dei suoi colleghi preferî la mobilità dei beni, dei capitali e dei prodotti. Alla soggezione verso la madre-terra preferî il disincantato commercio con l’amico-nemico denaro. Era la maniera più audace e crudele di vivere la libertà sospetta dei comici. Mentre gli altri cercavano garanzie conformi all’uso nella piccola rendita fondiaria, Cecchini ebbe per anni, almeno dal 1599 al 161, l’ardimento di affiancare la professione teatrale con iniziative nel campo dell'industria e del commercio. Avanzò proposte ai Medici e ai Gonzaga sull’introduzione di nuovi brevetti circa la lavorazione della seta, la produzione del sapone, la fabbricazione in serie di im-
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probabili «mulini, quali macinano senz'acqua e senza vento » ” inventati da uno strano bolognese residente a Napoli, secondo un costume assai diffuso al tempo fra ciarlatani e maestri d’ogni arte e mestiere, di pessima o mediocre qualità. Svolse in questo una funzione da importatore-esportatore di brevetti analoga a quella assunta nel campo dell’arte comica, tessendo relazioni commerciali più o meno credibili,
eppure durature, fra Bologna, Napoli, Genova, Toscana e Mantova ”. Ma fece anche di pit, se è vero quanto più volte affermò davanti ai segretari del duca, investendo capitali propri e ducali a favore di avventurosi imprenditori insolventi: Son stat’io che ho introdotto il filatorio alla bolognese in Mantova, et se ben altri hanno speso, non potevano (sì come mai non potetero) far venir niuno a lavorare come ho fatt’io, intorno alla qual venuta ho speso anch'io de molti denari e travagliato molto. Per impiegarmi in qualche cosa che faccesse fede a Sua Altezza della mia stabilità, diedi denari da travagliar in seda all’Anechino, dove che subito havutegli è stato posto priggione, né ho potuto haver un soldo ©.
Non si ha notizia di quanto fosse forte la malleveria offerta per queste operazioni, più o meno velleitarie, da parte del potere ducale. Forse si limitava alla sottoscrizione di una licenza per lo svolgimento di una libera attività mercantile, come quando, il 30 marzo 1600, gli era stata concessa, in virtà della sua (allora) buona reputazione l’esclusiva del-
la vendita, nel territorio mantovano, di prodotti di profumeria: « pezzetta di Levante o di Firenze, bombaletti, belletti di qualsivoglia sorte et corde da sonare fatte di budelli» . Commerci minuti questi ultimi, che potevano servire a sanare i debiti minori del suo bilancio personale, come avveniva per il buon Flaminio Scala il quale tutte le volte che i Confidenti glielo consentivano si dava un gran daffarre per distribuire, spedire, smistare, confezionare pacchetti profumati, guarnizioni d’abito, squisitezze gastronomiche, acque salutifere, canocchiali, ai suoi padroni e ad acquirenti di vario genere ©. Era questo un modo per arrotondare lo stipendio di servitore di casa Medici. Pier Maria Cecchini trattava di preferenza affari di grande momento, dovendo garantirsi il finanziamento necessario per ‘armare’ e mantenere le sue costose spedizioni comiche. Pirata senza terra, Cecchini non poteva quindi contare su un por-
to ospitale e protettivo, né su retrovie floride. Il sostegno al suo viaggio dovette cercarlo nel viaggio stesso. Lungo le rotte di navigazione e sul filo del mestiere giacevano le risorse economiche necessarie per affrontare i pericoli e le incognite di una navigazione che abbiamo visto essere comunque dispendiosa. Il denaro doveva essere razziato rapidamente e subito riusato. Come gli abiti che venivano regalati agli
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attori dai sovrani e subito si trasformavano in costumi di scena. Come i successi letterari del tempo che trovavano immediata eco o parodia nei canovacci dell'Arte. Il frenetico, angoscioso, quotidiano problema dei soldi era, per Cecchini, la conseguenza inevitabile del suo coerente tentativo di vivere, non già da suddito, ma da mercante («più peota [pilota] che marinaro»), in una società in cui il mercato del teatro, appena nato, già minacciava di morire. Visto secondo questa prospettiva Pier Maria Cecchini rappresenta la versione più inerme e
meno ‘garantita’ dei grandi capocomici del suo tempo, ma anche il caso più illustre e documentato dello strato più debole della sua professione. Grazie a lui ci è consentito di intravvedere da un osservatorio privilegiato e pacato le ombre di un universo efferato e crudele, sofferente e meccanico, di comici poveri dal destino immutabile. Come tutti gli altri capocomici Cecchini doveva anticipare le spese relative all’armamento della flotta, ma non poteva contare, come
Flaminio Scala, Martinelli e Andreini sugli esborsi cospicui che le grandi corti erano disposte a fare nell’imminenza delle grandi tournées. Questo lo rendeva perentorio, sgradevole, insolente, ma realistico quando si trattava di rispondere alle chiamate estemporanee del signore di Mantova. Voleva, prima di impegnarsi, sentire suonare i denari. Il denaro valeva più della parola: «non basta solo lo scrivere, ma ci vuole la scorta del denaro per aiuto all’esecucione della scrittura» “. Riaffioravano gli antichi rancori per i mecenati velleitari (« che mai mi diedero espedicione de dinari per andar a tor compagni, et mi vene per risposta che il tempo era breve per esser detti compagni in Bologna et parte in Fiorenza, et rotto il camino») ‘, i tormenti patiti
per tenere insieme compagini scompaginate dai pressanti bisogni, l’ansia puntigliosa e velenosa con cui verificava debiti e crediti in compagnia “.
D'altra parte quell’attaccamento al denaro‘era una specie di malattia professionale. Durante la lontananza da Mantova era sempre stato lui, in prima persona, a fare l’ufficiale pagatore, non il tesoriere del re di Francia come succedeva per le grandi spedizioni d’Oltralpe. In quei casi un versamento al momento della partenza, seguito da un secondo a metà strada (a Lione), consentiva agli italiani di non antici-
pare neanche uno scudo di tasca propria. Cecchini invece, soprattutto operando nei centri minori, non dotati di quelle che noi oggi chiameremmo le infrastrutture logistiche, doveva sborsare in anticipo per la fabbrica del palcoscenico e per la sistemazione dei compagni in alloggi e in locande”. Più frequente che in altri comici è la richiesta che lui avanza di essere «alloggiato et spesato » per proteggersi « dall’in-
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giurie che suol far il tempo alla borsa» *. Una volta che i sussidi man-
tovani si saranno trasformati da certi in saltuari, lo spettro più pauroso diverranno proprio gli osti, gli ebrei dei banchi dei pegni, e i loro sinistri compari, gli usurai, pronti in ogni dove a succhiare il sangue dalle compagnie indebitate. In tarda età (1626) il Cecchini, quale capocomico, si troverà ad anticipare le spese, senza alcuna sicurezza di
recupero:
L’esser poi venut’io per la Sensa a Mantova, dopo 40 giorni di spesa, con sette boche su l’osteria, solo per ricever icomandamenti di Sua Altezza, farà fede quanto io gl’istimassi. Né haverei creduto di havere un’esclusione del suo servitio con gl’intermedii apparenti com’hebbi, il che fu con il farmi fare una comedia a porte apperte senza pur darmi un soldo, et con il negar di pagar l’oste di una tal puoca suma, che diventò poi grande in me, che mi bisognò pigliar dall’ Avelani denari in prestito per sodisfare a quanto dovevo per tutti. Hora, signore, io mi ritrovo creditore dalla compagnia di scudi 648 venetiani, né vego come putermi riscuotere se non con il carnovale di Venetia ”.
Anche gli altri capocomici subiscono le stesse vessazioni, ma riescono con il conforto di un retroterra di differenti alleanze o con la cospicua sicurezza di beni di riserva a superare i momenti drammatici. Arlecchino è spaventato dagli speculatori che minacciano il suo guadagno”, e questo arriva spesso in ritardo anche per Andreini a sanare solo una parte dei debiti che si sono accumulati ”. Gli anticipi servivano allora a pareggiare i conti, e se ne andavano via tutti, appena inta-
scati. Come i pirati, che gli armatori pagavano in anticipo nelle locande dei porti di mare dove aspettavano il reclutamento, gli attori cominciavano cosî le loro tournées con le tasche vuote e, una volta con-
cluso il giro, erano di nuovo indebitati fino al collo, pronti a subire nuove vessazioni di nuovi usurai. E questi ultimi erano spesso gli stessi impresari che, disponendo di capitali provenienti da altre fonti, riuscivano a tenere in pugno, praticamente schiavi, gli attori che si erano indebitati con loro. È il caso del già citato Vincenzo Capece che teneva in scacco a Napoli il povero Cinzio invano reclamato dai Confidenti: mi ànno mandato una lettera de Cintio, per la quale lui si lascia intendere di aver bisogno di centoquaranta scudi, quali dice averli a dare a quel Capece, e di più aver bisogno lettere di favore de Vostra Eccellenza illustrissima per farlo liberare da quel Capece.
In quel caso fu Flaminio Scala, capocomico evidentemente dotato di risparmi sicuri, a pagare il ‘riscatto’, utilizzando una specie di partita di giro, dei capitali anticipati per lui da altri mercanti, con i quali era probabilmente in rapporto permanente d’affari: «Io ho fatto che cer-
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ti mercanti miei amici li facessero pagare trenta scudi per il viaggio, a
quali fo scrivere (se sarrò a ttempo) che non li dieno, se lui non è in
procinto per partire»”. E anche il liberatore (questa volta Scala, ma
altre volte il duca di Mantova) poteva diventare l’aguzzino che, con
l'estinzione del debito, s’impadroniva del destino dei poveri comici ?. C'era chi, come Andreini, poteva impegnare « duo diamantini» o addirittura i costumi di scena, per resistere nelle stagioni avverse e nella quaresima; in cambio degli aiuti in denaro poteva sempre promettere di restituire in natura, con qualche prodotto delle sue terre. È la situazione esemplare dell'economia mista, mercantile e agraria, su cui si basava la vendita del teatro: l’anno passato m’andò così sinistro, che per me e per miei compagni, per sollevarli, feci denari sopra i migliori miei vestimenti; e perché hoggi mi trovo in Vicenza poco fornito di adornamenti spettanti alla mia professione, supplico riverente l’Altezza Vostra serenissima a farmi degno che risquoter quelli io possa, facendomi grazia che qui in Vicenza mi sieno pagati 30 ducatoni, quali alle vindemmie in tanto vino darò al signor conte Lanzone per uso delle cantine dell’Altezza Vostra serenissima ”!.
Il pirata senza terra non poteva concedere altrettanto. Da quando aveva cominciato a essere trattato «criminalmente», doveva fronteggiare quasi una congiura permanente”. Era perciò andato in cerca di alleanze, che in altri tempi forse non avrebbe accettato, con compagnie minori (« certi comici») e per periodi limitati (« per otto o dieci giorni»), operando in circuiti secondari nelle vicinanze di Venezia, dove dal 1612 aveva stabilito un rapporto contrattuale con i Tron”, 0 intorno alla natale Ferrara dove poteva contare sulla complicità del nobile Enzo Bentivoglio”. Per tenere insieme queste occasioni di lavoro frammentarie, dovette trattare continuamente con fermezza i suoi committenti, lasciando che prevalesse la legge della domanda e dell'offerta anche quando questo significava disattendere promesse già fatte o coinvolgere altri attori in trattative poco chiare, se non menzognere ”. Il privilegio da lui assegnato all’utile rispetto alle convenienze morali aumentò il numero dei nemici e aggravò l’ostilità dei suoi detrattori nelle piazze tradizionali. Nella primavera del 1614 la compagnia di don Giovanni sottrasse all’ultino momento ai comici di Frittellino la patente per recitare a Milano nel periodo compreso fra aprile e giugno, contro quanto precedentemente stabilito ”. Nella primavera del 1616 il desiderio di vendetta del maggiordomo di don Giovanni, Cosimo Baroncelli, fu frenato soltanto dal contratto che col Cecchini avevano firmato i nobili Tron nella libera Venezia: l’ha campata buona a Venezia, perché Vostra Eccellenza, per il riguardo che ha auto di non mettere alle mani la causa de’ Giustiniani, nella stanza dei quali recita-
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vano i Confidenti, con quella de’ Troni, dove recitava Fritellino, non gl’ha fatto un servizio che li sarà fatto se verrà qua, perché dubitava che i Troni potessero credere che Vostra Eccellenza, in grazia de’ Giustiniani, per sviare la stanza a’ Troni, l’havesse fatto fare. Ma qua dove non sarà questo rispetto, aspettesi pure una saracinesca addosso che li chiuderà la bocca per sempre ®..
Nell’autunno dello stesso anno, il cardinale legato di Bologna, Luigi Capponi, pur avendogli promesso da tempo la stanza, tramò ai suoi danni «una segnalata burla», ancora per ingraziarsi don Giovanni *; nella primavera del ’17, pur avendo ceduto ai Confidenti la licenza della piazza di Milano, lo stesso Frittellino si vide aggredire da don Giovanni in maniera infastidita: «Fra tanti strepiti di tamburi non ha tralasciato Frittellino con la sua insolentia, e tanto grande che è gionta sin qua, importunarmi, anzi mandarmi uno a posta con patente del governatore di Millano, qual non ho stracciato, ma che le ho risposto per le rime» ”. Il «sassinamento » e «la mala creanza di Fritellino (...)
da tutto il mondo benissimo conosciuto » ” divennero presto luoghi comuni, rendendo facile la diffamazione anche dei suoi valori artisti-
ci: «avendo Frittellino cosî forfante compagnia, e tale che in Firenze non guadagna il pane e li fanno un continuo chiasso »; «Frittellino con la sua compagnia intendo che dà una poca satisfazione, e dura delle fatiche a poter finire le commedie per le strida et fistiate del popolo ». Calunnie se si ascolta il diretto interessato che in quel periodo sosteneva di avere ottenuto un «honesto guadagno et molto gusto di questo popolo » *. Ma è probabile che la scorrettezza fosse reciproca, oltre che obbligatoria. Per sopravvivere ai debiti e ai nemici, Cecchini fece appello alle risorse estreme. I pegni non potevano bastare. Non sappiamo se nella sua compagnia si facevano le «riffe» di anellini e oggetti preziosi, praticamente preamboli o succedanei della prostituzione, che si praticavano, non senza qualche imbarazzo, fra i Confidenti, per rimediare in qualche modo all’endemico indebitamento dei comici”. Certo di altri attori dalla borsa vuota imitò la scelta di emigrare verso il sud, a Napoli, nella città dei loschi usurai-impresari alla Capece. L’esodo dal centro-nord era un evento eccezionale per i comici «lombardi», determinato da condizioni economiche particolarmente disperate, come nel caso dei coniugi Antonazzoni i quali «avendo ogni cossa inpegnatta, né manco dinari da far Quadragesima e da far viaggio per Loretto», «havendo moglie in casa, debiti in quantità e sorella in monistero, anzi sopra le spalle» pensavano di andare a Napoli, dove erano chiamati”. Nella quaresima del 1616 si apprende che Pier Maria
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Cecchini «vuol poi passare a Napoli, non tanto per recitare, quanto per cercare di tirare nella sua compagnia una parte di un Dottore e di un Coviello che sono là eccellentissimi» ”. Fu un soggiorno breve che, accompagnato dalla ristampa di un suo libro “, doveva servire ad aggirare la campagna denigratoria e a reclutare mano d’opera libera dai ricatti gonzagheschi e medicei. Il buon pirata senza terra, era «reso pioniere dalle necessità » ”: rompeva decisamente gli schemi monotoni dei circuiti settentrionali, importava nuovi tipi comici e di fatto riconosceva alla piazza napoletana un ruolo analogo a quello di Venezia: le due città diventavano sempre pit chiaramente i poli antagonistici e periferici del sistema cortigiano ruotante intorno a Firenze e a Mantova. Ma Napoli era un paradiso minaccioso. Vi si poteva arrivare pieni di speranze, e non più partire, come era successo a Battistino « dive-
nuto cieco e matto» ” e al povero Cinzio fatto prigioniero da Capece. Le storie di quegli attori si sarebbero sapute però solo nel 1619, e quando Frittellino tornò, per la seconda volta, nel golfo, si era appena nel maggio del 1618, e forse le necessità erano cosî stringenti da non far sospettare troppo l’emigrante. L'accoglienza del pubblico napoletano non fu calorosa. La rappresentazione del Pastor fido fatta « dalli comici Lombardi» il 3 maggio deluse le aspettative: a detta dei testimoni «l’opra riusci fredda; e si smozzò in molte parti» ”. Dopo avere pubblicato un altro libro per rafforzare la credenziale colta”, Cecchini firmò imprudentemente un contratto di un anno e mezzo proprio con il malfamato Capece, e con il compare di costui, Ottavio Sgambati, legandosi ai destini del costruendo teatro dei Fiorentini. Si trattava di una trappola. «Sebbene simile nella forma a quello del ’12 con Ettore Tron, nella sostanza questo contratto è assai diverso, e piuttosto
rischioso. Il circuito napoletano è molto chiuso, almeno rispetto a quello centro-settentrionale in cui gli Accesi si sono mossi finora, e una cosî lunga permanenza presso un solo teatro è difficilmente sostenibile da una troupe abituata a soste non superiori ai tre-quattro mesi. Il contratto con il Tron lasciava poi liberi numerosi periodi dell’anno, e l'entroterra veneziano — anche volendosi limitare a esso — offriva numerose piazze, minori ma vivaci. Napoli invece non consente
altrettante libertà di movimento»”. Che fosse una trappola quella bella città risulta dall’affanno con cui Frittellino e la moglie cercarono di fuggire, pochi mesi dopo, liberandosi da vincoli che, seppur non dichiarati, hanno tutta l’aria dei soliti pegni: «per haver molt’interes- | si in Napoli bisognava ch’io lassiassi che mia moglie ritornasse pet riaver le sue puoche gioie che per partirsi bisognò ch'ella lassiasse, et
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che per riaverle era neccessario il suo ritorno» *. Proprio per questo aveva dovuto rivolgersi al diffidente duca di Mantova perché «levasse ogn’intoppo che [lo] potesse trattenere » nella capitale del Regno e lo liberasse dall’«obligo che innavertito» aveva contratto”. Pier Maria Cecchini era giunto quindi provato e combattivo, diffidente e aggressivo, alla trattativa del 1620. Pronto a tutto. Con orgoglio aveva ribadito le sue riserve; avrebbe anche accettato di sottomettersi di nuovo ai Gonzaga «in stato però di puterl’obbedire senza pentirmi d’essermi posto a servirlo», aggiungendo poi, tanto per fare il difficile, a proposito della spedizione di Francia: «io non mi porrei a far viaggio così longo (...) quand’io non habbia le mie sodisfationi». Poi, anche dopo la decisione che lo aveva escluso dalla compagnia, aveva continuato a lamentarsi e a protestare senza paura. Aveva fatto ricorso a ogni mezzo, anche illegale, pur di fermare i suoi rivali. Da buon pirata aveva sequestrato la lettera di cambio spedita alla compagnia dall’abate Rucellai (rooo ducati che dovevano servire per le spese di viaggio), minacciando di restituirla solo se riammesso nella spedizione. Aveva abbassato però la testa, quando la reazione dei potenti si era abbattuta su di lui, come risulta dalle relazioni dell’ambasciatore al duca di Mantova: Fritelino è impertinente nel parlare, e non vorei mi mettesse in necessità, fatto in-
solente per l'appoggio di Sua Eccellenza [il governatore spagnolo] di fargli rompere la testa, e che fosse imputato a mio capriccio. (...) per obedire a Vostra Altezza s’è lassato persuadere di cedere ad ogni pretensione, né disturbar diretta o indirettamente la compagnia, massime per non sentir l’effetto delle minacce che gli ho fatte in ogni caso che osasse contravenire al gusto dell’ Altezza Vostra”.
Naturalmente aveva restituito subito il denaro, anzi la lettera mal-
tolta. L’aggressività, per quanto pervicace e crudele, non poteva durare
verso l’alto e anche verso i suoi pari grado, gli altri capocomici di rango. Restavano i comici inferiori, quelli reclutati in terre lontane che egli angariava in ogni maniera fino a indurli, prima o poi, a fuggirlo come la peste. Come Cinzio che lo aveva abbandonato, « anch'egli satio delle sue malvaggie opperationi», o come Silvio Fiorillo che, una volta liberatosi di lui, credeva di rinascere: «et stiamo in Paradiso senza che ci voglia fare il patrone adosso né ’?lpedante»; «lui ècome il lupo, che cangia il pelo et non il vitio» ”. Odiato e maledetto, Frittellino se non stava contro i potenti, era un loro alleato; in ogni caso non stava dalla parte dei suoi colleghi. I precedenti non deponevano a suo favore. Il vizio di rubare le lettere era antico. Gli era servito a suo tem-
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po (1605) per prevenire gli ordini del duca di Mantova” oppure (1619) per spiare le mosse dei rivali'*; costoro avevano imparato a diffidare e, in occasione del 1620, accusarono il comico di avere sequestrato, ol-
tre alle missive, anche le persone”. L’insinuazione era falsa ma non inverosimile, dato che il Cecchini aveva dimostrato di sapersi trasformare in efferato rapitore di comici. Proprio nell’estate del 1620, incalzato dalla strenua concorrenza di Arlecchino e Lelio, aveva fatto ri-
corso a ogni mezzo pur di dimostrare al duca di Mantova la sua capacità di rimpiazzare i vuoti della compagnia. Da mercante di schiavi 0, se vogliamo, da «mercante di carne umana» '. Quando Frittellino espone il suo piano (fare uscire, con uno stratagemma, un attore da Venezia, dove gode dell’immunità territoriale, attirarlo in Mantova, e quindi costringerlo a partire con la compagnia) sembra che pronunci il prologo di una commedia nera, in abito da Shylock: Costui si ritrova in Venetia con una compagnia non sottoposta a protetione di nis-
suno, se ben lui è schiavo di una tal femina che recita la parte di una fantesca, dalla quale si potrebbe levare con l'autorità di Vostra Altezza, accompagnata da una qualch’inventione di scrivere ad un nobile d’autorità che solo lo mandasse a Mantova mostrando di voler dar gusto a qualche forestiero, et far che secco portasse le sue scritture, et poscia con ordine esposto mandarlo da noi, che lo conduriamo in Francia!®.
Anche il suo rivale, Arlecchino, non era certo un’anima candida se, in vista della stessa tournée, aveva preteso dal vecchio Federico Ricci
(Pantalone) una tangente sul reclutamento del giovane figlio, Benedetto (in arte Leandro) '*. Era in questo modo che i comici pit deboli si indebitavano, anche a vita. Sono tracce, barlumi di una vita segreta, fatta di compromessi tra-
gici (quel padre Pantalone vedrà morire il figlio d’arte per cui aveva pagato la tangente, durante la traversata delle Alpi), di lotte tenaci per la sopravvivenza. E traspaiono appena dagli ‘epistolari che ci restano, leggibili nelle cancellerie di stato, e quindi reticenti, impegnati come sono a delineare trame rispettabili o giustificazioni attendibili per lettori molto educati alla convenzione. Ma non tali da celare del tutto l’efferata crudezza e cattiveria che doveva regolare il mercato dei comici, affidato a una tradizione orale, gestuale, materiale, che
doveva farsi sempre più meccanica e brutale mano mano che scendeva verso i faccendieri e i sensali infimi. Uno di questi appare e scompare dalle lettere che abbiamo sfogliato, si chiamava Gallotta ed era,
probabilmente, un infaticabile cavalcatore, oltre che un mediatore esperto. Sappiamo che una volta aveva fatto anche il secondo zanni ”, ma si era trattato di una soluzione di ripiego. Mediocre attore, lo tro-
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viamo invece molto attivo e richiesto come messaggero di fiducia (è lui che insegue a spron battuto il fuggiasco Arlecchino; che va e viene dalla Francia per risolvere il problema della composizione della compagnia), come furiere di compagnia e quindi delegato alle delicate trattative con gli osti circa la prenotazione delle locande, ma soprattutto come reclutatore e ingaggiatore di comici quando viene «mandato a tore» d’urgenza «un personaggio» da Milano a Venezia "*. Maneggiava denaro e aveva un buon potere discrezionale di mediazione, sia con gli osti che con gli attori '”. Curiosamente il suo nome compare anche in una commedia di Pier Maria Cecchini. Nella F/4minia schiava: Lupo Mi chiamano Lupo, ma il mio nome è Galotta, la mia patria è Gaietta, e la mia professione si è di comprare, e rivendere schiave.
cINzIO _ E poi fargli il ruffiano. Non è così?
LUPO È così, e non è così, perché lo faccio solo a quelle dalle quali non ne spero altro frutto. Ma dove pretendo più giusta mercede non lo faccio, né io son ruffiano universale, come tali che fanno l’uomo da bene in particolare. E poi i ruffiani, che sono veri ruffiani non sono mal vestiti come son io, né corrono dietro al pane com’io corro, ma l’aspettano a casa, e tirano un motto di un vestito vec-
chio a persona, che sanno che glilo farà nuovo, e così godendo il mondo coi loro riposi lasciano le fatiche a chi vuol essere uomo da bene '®.
Sotto il velame delle dramzatis personae, Cecchini fa parlare, come anche faceva Andreini, un’ombra di realtà, e quell’ombra riflette un’idea. In questo caso la difesa del mestiere comico. L’attore-autore assume il punto di vista del pubblico, guarda se stesso e i comici come li guardavano i suoi contemporanei che confondevano capocomici e ruffiani, attrici e prostitute. Le repliche di Cinzio consentono a LupoGallotta, e al Cecchini, di smontare, per brevi allusioni, le accuse. Il
suo discorso tocca esattamente alcuni dei temi che abbiamo visto più ricorrenti nella vita pratica dei commedianti. L'opposizione tra coloro che «corrono dietro al pane» e coloro che «l’aspettano a casa» rimanda alla distinzione fondamentale da noi stabilita fra il mestiere errante e il mestiere stanziale; il riferimento all’importanza dei vestiti e ai donativi d’essi ci riporta a una delle rapine preferite dai comicicorsari; l’allusione alle schiave ricorda, a noi che siamo andati in cerca di lettere compromettenti, certe confidenze di Scala sui traffici illeciti di Celia, i debiti di Lavinia e di Cinzio. Proprio in apertura di commedia era stato lo stesso doppio dell’autore, il servo Frittellino, a fornire molto esplicitamente le istruzioni per l’uso del personaggio Gallotta: FRITTELLINO
(...) Né crediate di meritar poco castigo, avendo levato di Pisa
Flaminia a quel povero mercante [Lupo-Gallotta], il quale, chi potesse vedere,
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Capitolo settimo non doveva aver altro capitale, che costei, e, quello che più importa, senza avergliela pagata, ch'è quasi una truffa. Truffa non è, come non è manco mercante colui, ma sì bene un ruffiano orazio disonorato.
FRITTELLINO
E perché? Non è egli mercante di carne umana? !°.
Ecco qua, in commedia, riproposta la metamorfosi sociale, il battesimo teatrale che fa risiedere nella mercatura il carisma della rispettabilità. Con la medesima disinvoltura anche Orazio, in calore per la schiava Flaminia, indebitato al monte dei pegni, viene promosso alla dignità morale di un «accorto mercante» !°. E del resto la vertenza economica fra i due pseudomercanti (Orazio e Gallotta), entrambi
poveri, davanti ad Arrigo, padre di Orazio e «ricco mercante» fiorentino, più che alla fonte letteraria di tipo terenziano, rimanda alla quotidianità del teatro mercenario. Vi allude un paio di volte il capocomico Frittellino che mette in scena se stesso e i comici a lui sottoposti con inserti metateatrali: « FRITTELLINO (...) Ma chi adoprerò io,
che fingendo Cinzio riscuota la lettera da messer Arrigo? Vi è Trappola ch'è lesto, ma è uomo da non se ne fidare. Scaramuccia? No. Il guercio Tamburino? Né ancor questo è buono. O vi è Aniello neapolitano, che sarà a proposito mio» ". Il pirata senza terra si sdoppia, si guarda recitare e fa descrivere Frittellino dagli altri personaggi: «di mezzana statura. (...) Grosso. (...) Barba castagna. (...) Naso schiac-
ciato, e faccia bruna. (...) Ha egli la voce alquanto grossa, e un poco rauca»; oppure si confessa: «FRITTELLINO Tante fatiche di corpo, tanti travagli di mente, tante invenzioni, travestimenti, mutazioni di nome, variar di costumi, proferte all’uno, donativi all’altro, perico-
li di vita, rischi d’amici» '. E il ritratto del capocomico pirata senza terra in mezzo ad altri pirati, a cui si aggiungono, isolati nelle battute convenzionali che parlano di amori, denari, inganni, pochi fram-
menti di verità morale, non a caso incentrati sull’ossessiva povertà: LUPO (...) la povertà, la qual è la prima a dar nei piedi allo sventurato, non istà molto ch’è sopragiunta dalla fatica, accompagnata dal disagio, e spesso la calamità eredita i frutti della malattia, onde chi nacque povero, e morì ricco, o che
la fortuna seco scherzò da principio, o che il suo fine è una nascita più sventurata dalla prima!®.
Gli fa eco, nell'altra commedia L’arzico tradito (1633), lo stesso Frit-
tellino, più vecchio di ventitre anni: Se la robba se ne va, la vita riman tribulando, e un corpo tribulato dalla povertà, non serve all’onore per altro, che per una carcere segreta, che non lo lascia venir mai alla luce!".
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L’onore. E che cos'era l’onore per il comico Cecchini, tanti anni dopo il carcere che lo aveva fermato in partenza per la Francia? Era forse soltanto la fama, anzi la fama del suo mestiere. Quel mestiere che era stato l’unico vero mezzo di sopravvivenza che aveva conosciuto nella vita, e quindi l’unico fine a cui aveva dedicato il suo tempo. Non diviso fra bottega di profumiere, servizi da cameriere e capocomicato come Flaminio Scala; non ossessionato dalla trasmissione ai posteri dei beni mobili e immobili della famiglia, come Tristano Martinelli; non gravato da responsabilità di maggiorascato, circondato da memorie gloriose, fratelli indigenti, sogni d’immortalità letteraria, come Andreini. Pier Maria Cecchini fu l’unico dei grandi comici a giocarsi la fama e l’onore con l’esclusiva carta del teatro. Coltivò quindi una memoria che doveva basarsi solo sul successo nell’arte. Unico tra i grandi comici volle trasmettere a un discendente diretto, il figlio Lorenzo (in arte Virginio), nato solo nel 1622, quando lui aveva già quasi sessant’anni, il suo stesso mestiere, senza cercare più como-
di ricoveri tra monaci o capitani, come avevano fatto altri teatranti. Edè per questo che a una vita tanto travagliata e sconnessa, disperatamente ondivaga, fatta di arroganze e di pentimenti, orgogli e umiliazioni, corrispose un’etica professionale implacabile, un rigore artistico mai domo, una serietà capocomicale che assomigliava alla ragion di stato. Nell’epoca in cui, in Europa, i letterati e i militari, gli artisti e i cortigiani scoprivano il piacere ‘serio’ della vita funzionaria al servizio degli apparati anonimi della nazione, liquidando come anticaglie gli sprechi bizzarri del dilettantismo rinascimentale (e certo, questo pit all'ombra delle monarchie francese, spagnola e inglese, che nel chiuso dei recinti principeschi italiani), anche le corporazioni si riordinavano con l’energia caparbia degli uomini che si erano fatti da soli. Per Cecchini erano queste le conseguenze estreme delle scelte piratesche. Conseguenze in parte preterintenzionali. E perciò più drammaticamente seducenti per lo storico del teatro. Il suo destino di perseguitato e fuggiasco lo poneva in una stazione non definitiva, sul limitare di un sistema cortigiano che ancora non lo escludeva e anzi lo tentava con gli splendori della sua ricchezza, ma anche praticamente sospeso nel vuoto, al di sopra del sottomondo dei vagabondi senza nome, senza mestiere, senza arte né parte. Lo minacciava lo spettro di
un'esistenza comica derelitta, al fianco della torma dei miseri ciarlatani, che lo avrebbe ingoiato se solo non avesse saputo difendere il suo
valore. La mancanza di tutele lo costringeva a un’autodisciplina tecnica assoluta, a una dedizione monomaniacale al mestiere. Gli altri
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potevano dire che la sua compagnia era un’accozzaglia di scarti, e che raccoglieva «fistiate», ma lui doveva dimostrare dal palco che non era vero. Da questa molla di necessità erano nati i replicati progetti della compagnia stabile mantovana, la cura meticolosa che aveva sempre mostrato nella preparazione delle tournées, i dosaggi delle «parti» secondo gli equilibri drammaturgici che abitualmente vengono da lui spiegati partendo dalle analisi sommarie della tecnica dei singoli attori, più che dalle brutali esigenze economiche. Un argomentare che qualche volta, e solo in parte, le lettere ufficiali o ibiglietti frettolosi riescono a trattenere. È lo schedario del capocomico: Da mio cognato ho havuto avviso che Barille et la moglie si sonno iscusati, né vogliono venire; onde laudarei che più tosto che mettergl’in riputatione con il mostrar gran bisogno di loro, che se li scrivesse che tenissero a mente il mancamento usato (...). Non mancano parti di coloro se gli vogliamo, ma bisogna far presto, anzi subito, et mandar uno a posta, et serà buono il Moiada, et che faccia come
qui addietro intenderà. Vi sono in que’ contorni di Cento, Modona, Finale o Carpi, una tal compagnia dove vi è Flaminio, che tante volte servì a Mantova con il Braga, qual è morto; nella qual compagnia vi è una donna detta Silvia, che per seconda [amorosa] intendo che non è ingratta. Questa è moglie di un tal Giovan Maria Bachino detto Fortunio, huomo che fa uno innamorato concorrente (et forsi la perde) con il signor Adriano; il qual Fortunio è mantovano, onde in virtù dell’autorità che Sua Altez-
za tiene sopra di lui, non putrà di meno di non andar con la moglie a Mantova. Con questi vi è un tal bolognese, il quale fa un Magnifico, per quello ch’io intendo dal Capitano Mattamoros, assai buono; et quello che più importa ha la moglie che fa una fantesca bonissima, per la qual cosa lasciaremo questa nostra Oliveta, la quale s'intende che la Serenissima [duchessa] non vorrebbe in Mantova per le sue disonestadi, le quali non niego!.
Da buon impresario aveva sempre difeso come altri capocomici gli interessi della compagnia dagli arbitri cortigiani, respingendo le corvées che interrompevano gli itinerari più fruttuosi. Non sarà stato il solo a dover sopportare le angherie dei duchi di Savoia, pronti ad arrestare ogni compagnia di qualità che transitasse dal loro territorio, diretta in Francia o di ritorno, ma fu l’unico (insieme a Martinelli) a
far sentire fino alla noia le sue vibrate proteste, a trasformare l’incidente in un’occasione per rivendicare la libertà della mercatura teatrale'“. Naturalmente aveva anche cercato di risparmiare come ‘produttore’ di spettacoli, abbassando i salari dei comici e anche cercando di mettere gli uni contro gli altri i pretendenti a un posto ”. Tuttavia aveva anche dimostrato di essere attento a non considerare il denaro come unico valore di scambio del suo mestiere. Da buon capo-
comico (attore e impresario nello stesso tempo) si preoccupava del
capitale rappresentato dalla forza lavoro dei suoi uomini e cercava di
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aumentarlo: l'acquisto di un buon attore poteva valere quanto gli incassi di una buona tournée interrotta. È quanto dice, in una esplicita trattativa, al duca di Mantova che pretendeva di distogliere la compagnia dai suoi lucrosi programmi: la compagnia si ritrova qui con un concorso tanto grande che a voler trattar di moverla senz’offerirli uno equivalente sarebbe un rivolger il mondo sosopra. In Verona siamo parimenti aspettati et si spera facende migliori, ond’io non vego senza un qualche modo estraordinario di poter dispor gl’animi a dover venir volontieri. Sua Altezza Serenissima sa molto bene che stravaganza d’umori è tra comedianti, che molte volte neanche i prencipi possono se non con molte difficultà domazrli, ond’io, ch'io sono povero par loro (quanto all’officio), non saprei fargli venire se non con uno delli doi mezi. O con il prometergli a porcione quello che lasciono d’utile, overo che piglino quello che la bontà di Sua Altezza li darà accompagnato dal personaggio di Scapino, del quale farei più capitale, per la speranza del gusto delli signori veniciani per il carnovale, ch'io non farei di qual si voglia suma di denari.
Qui Frittellino passa a spiegare le ragioni di quel baratto. E non può fare a meno di lasciar cadere un tono di ironica degnazione sul pubblico dei patrizi veneziani. Esperto uomo di teatro, egli conosce le virtù di Scapino, ma sa anche che i vecchi senatori un po’ rimbambiti, che prendono in affitto ipalchi per mettere in mostra se stessi e le loro donne, non sono all’altezza di gustare le vere doti artistiche degli attori. Saranno invece beati di godersi alcune «baiuzze» di sapore municipale. É un modo come un altro per affermare la sua superiorità nei confronti dei mecenati ignoranti e facoltosi. E per riaffermare le doti di esperto conoscitore dei segreti, anche meno nobili, dello spettacolo: Anci, ch'io giuro a Vostra Signoria illustrissima che, sparsa la voce per Venecia che lo Serenissimo di Mantova havesse fatto che detto Scapino fossi andato a dar gusto a quella nobiltà, che ne conseguirebe una benivolenza maggiore che se l’havesse mandato qual si voglia gran cosa; et questi che ne tragono tal gusto sonno di quei senatori più vecchi et di maggior autorità, i qualli hanno cento palchetti ad affito per loro et per le sue donne; et questo non per l'eccellenza del personaggio nel rappresentare, ma per la piacevolezza d’alcune sue canzoni che canta sopra Venecia, et altre baiuzze che amano quei signori !*.
Un’antologia ragionata del pensiero «frittellinico » (come lui stesso lo chiama)” intorno all’organizzazione delle compagnie, alle specializzazioni degli attori, alle caratteristiche dei diversi mercati o piazze, costituirebbe un piccolo manuale del perfetto teatrante in anticipo di qualche secolo sulle memorie del teatro all’antica italiana. Meno cinico di Andreini ”, che era invece disposto a molti compromessi pur di avere garantita la committenza necessaria alla vita della com-
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pagnia, da cui avrebbe potuto trarre l'occasione per scrivere, stampare e diffondere opere a stampa (il vero scopo della sua vita), Cecchini lasciò un’eredità testuale in cui le commedie a stampa sono nettamente sopraffatte da volumi e volumetti teorici contenenti preziose riflessioni sulla recitazione. Quasi tutte scritte dopo il 1611. Ed è qui che la ‘differenza’ di Cecchini produce i suoi frutti migliori. Dove l’ossessione perfezionista del capocomico sprofonda decisamente dentro se stessa, si libera dai veleni della lotta per la sopravvivenza, conservan-
do di quella la lezione per uno sguardo disincantato e non ideologico del teatro. Il suo tecnicismo si riscatta in sapienza empirica. Come quando si scopre critico radicale degli attori che non sanno separare il teatro dalla vita. Nel saggio dedicato ai Frutti delle moderne comedie, un’opera distaccata e rasserenata dall’ironia, a proposito delle «parti gravi» sottolinea il suo dissenso rispetto al modo tenuto dagli spagnoli nell’interpretarle: «né ci è di loro che rappresenti un re che oltre il vestirsi d’abiti regi il corpo, non si vesta anche di fumo reggio la mente (...) e quello che di più si trova in questo personaggio è che li rimane, dopo l’aver finita la rappresentazione, una tal reliquia di sussiego che, malamente per otto giorni si può trattar seco domesticamente» ”!. Tutta l'ammirazione del Cecchini va invece a chi, anche dilettante, amministra il tempo del recitare e il tempo del vivere come due distinte autonomie. Con gioia egli racconta un'illuminazione che, ai nostri occhi, anticipa di oltre un secolo il Paradosso di Diderot: E Dio, ch’io non posso tacere quello che l’anno 1626 con mio grande stupore vidi ed udii nella famosissima città di Venezia, e fu un tal profumiere, per nome messer Marco, il quale nel rappresentar il Tancredi s'incorporò così bene con la natura ispagnuola, che quasi pareva ch’egli fosse stato maestro a tutti loro, e tanto si allontanò dalla propria sua condizione e si allontanò con l’arte dalla natura che non si poteva scorgere se la natura foss’arte, o se pur l’arte aveva potere di superar la natura; e quello che poi sommamente mi piacque fu che finito il corso dell’opera non si dementicò la bottega, ma più che mai rigoroso nel tagliar guanti non lasciò — che il re contaminasse lo stato del profumiere, né che il profumiere gareggiasse punto con la reggia maestà.
Una memoria che fa giustizia del romanticismo asfissiante che tuttora circonda la cosiddetta Commedia dell'Arte, e che facendoci andare
con il pensiero a un altro profumiere attore, e veneziano (Flaminio Scala), rivela semmai, al fondo del ragionamento del Cecchini, l’aspi-
razione a una professione comica equiparata agli altri mestieri della città, capace di convivere con le altre botteghe artigiane, al di qua dei luoghi marginali che gli avevano assegnato i pregiudizi, in uno stato di armonica divisione del lavoro. Anzi, più che una professione, il tea-
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tro assomiglia, in questo esempio formulato da Cecchini, all’esercizio dilettantesco di un buon borghese, che pratica con perizia il teatro ma ricava il necessario per vivere dalla sua bottega di artigiano. Sono anni tardi. Nei sogni del comico professionista Frittellino si fa strada l’idea di una fuga dal teatro viaggiante e riappare il miraggio di un approdo stanziale per il vecchio Pier Maria. Ma l’utopia poteva manifestarsi con serena distensione solo nelle pagine teoriche, dove la cordialità era resa obbligatoria dalla destinazione stessa dell’opera. Diversamente, nella pratica quotidiana, la «bottega» di Cecchini non fu mai, neanche in tarda età, distinta dal teatro. E fu invece contaminata dal mestiere, a sua volta avvelenato
dalle ragioni della «bottega». Quando era stato descritto dalle cronache degli attori rivali, il comportamento del comico era risultato l’esatto contrario di quello del profumiere commediante, anche se nel primo piano delle accuse la protagonista era stata la moglie Orsola. Cost li descrive Giovan Battista Andreini: Et l’altr’hieri apunto, facend’ella in comedia una parte come di cortigiana, per modo faceto le dissi: «Mo’ signora, voi siete molto all’huomo», (costei l’intese
forse che quell’huomo fosse Cinzio) et mi disse: «Io non sono di quelle donne come sono in casa vostra». Io ne fece passaggio, perché come Lelio io non havea famiglia, se ben so ch’ella parlò meco come Giovan Battista. Tutto il popolo odia e l’uno [Cecchini] e l’altra [la moglie] per le poche parole che usano ne’ miei soggetti et per la molta freddezza loro in quelli '?.
La vita entrava a contaminare il teatro, annebbiando le idee nate dalla
pagina. Le rivalità di «bottega» spingevano l’attore, in coppia con la moglie, a sabotare il rivale togliendogli il contributo della sua improvvisazione per il solo fatto che il capocomico non era lui, ma l’odiato Lelio. Consiste in questo la sofferta testimonianza trasmessa da Cecchini (ognuno dei nostri comici ha un patrimonio personale d’idee, nonostante il nostro sforzo di appiattirli a testimoni di un identico mestiere): giungere, per somma di esperienze e per intelligenza teatrale, a una sapienza teorica e pratica di grande modernità, e non riuscire a darle respiro, a farla durare nel tempo, fra i suoi contemporanei, atterrato come tutti i suoi compagni dalla quotidiana materialità della scena. Gli altri capocomici ambivano ad altro, si è detto, e Cecchini fu l’unico che aveva fatto il capocomico perché voleva fare il capocomico. Per riuscirci era d’obbligo essere letteralmente un capo. Un mestiere difficile, anzi impossibile per i suoi tempi. Eppure egli tentò. E fu giudicato dai suoi attori un insopportabile dittatore. In ogni momento, con la stessa pervicacia con cui aveva sempre disobbedito ai
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capi, si impegnò per obbligare la sua soldatesca di fortuna a marciare in linea retta, agitando lo spettro della condanna al sottomondo dei vagabondi senza nome, senza mestiere, senza arte né parte. Lo abbiamo visto lesinare salari, ordire deportazioni e rapimenti. A rileggere le norme per l’arruolamento nella compagnia ducale, da lui proposte, troviamo elencate per i suoi comici poche promesse e molte discipline. Si tratta di volontari «che hanno del loro et amano il suo servicio »: Far che uno in nome di Vostra Altezza produchi un foglio bianco da sottoscrivere, con ordine di dire che questo è per servire all’Altezza Vostra stando fermi in Mantova con le provisioni promesse, et che non intende di violentar niuno, ma di lasciar nel suo arbitrio ciaschuno e pigliar quelli soli che spontaneamente vogliono servire. Vedutti quelli che servono et vogliono servir volentieri, far provisione poi del rimanente, perché in hogni caso non puol mancare la sottoscrita compagnia et adesso et per sempre, per esser di persone che hanno del loro et amano il suo servicio '*,
Come dittatore fu simile a don Giovanni, che si era trovato a occupare la stessa zona franca del teatro provenendo però dallo stato sociale più alto. Se il principe era nato capo, Cecchini dovette diventarlo. Ebbe in comune con lui la tensione riformatrice nei confronti dei comici più infimi: Questi forniranno il numero, et serano di gusto per quello che può essere in questo tempo, et forsi, chi sa?, serà questa una prova per vedere se in coscequenza di tanti ciarlatani che sonno riusciti, vi potessero ancor capir questi, quali stano tra il comico et lo ciarlatano ?.
In questo modo anche Cecchini partecipava, suo malgrado e a sua insaputa, al movimento di classificazione e autocensura che stava ordinando lo spettacolo nel mondo cattolico e occidentale. Ma nello stesso tempo, e per le stesse ragioni, può essere considerato il primo attore di antico regime capace di sostenere i diritti e l'autonomia del lavoro e della competenza teatrale rispetto al potere politico: sarebbe ottimo consiglio che Sua Altezza lassiasse fare et disfare le compagnie ai comedianti, et pigliar per suo diporto del carnevale quella che intendesse esser migliore,
4. Dunque sulla rotta del pirata Frittellino i margini di manovra erano molto ridotti, minacciato com'era il suo procedere dalla forza dei grandi agguerriti corsari, da una parte, e dalle torme degli straccioni ciarlatani, dall'altra. Dopo il 1620, la rotta si fece ancora più difficile. In realtà la lunga assenza dall’Italia della compagnia di Giovan
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Battista Andreini, che resterà in Francia, salvo qualche breve rientro in periodi carnevaleschi o estivi lungo la direttrice Torino-MantovaVenezia, fino all’autunno del 1625, avrebbe potuto lasciare grande spazio alle altre compagnie. Invece non fu cosî. Anzi, l'arruolamento sotto le bandiere francesi fu forse prolungato in conseguenza della non felice situazione italiana, trasformandosi in una quasi-emigrazione che preannuncia i futuri e massicci insediamenti dei comici italiani a Parigi. Si facevano anche sentire gli effetti della depressione economica. Problemi dinastici arrestavano la fioritura ulteriore del teatro fiorentino, soprattutto ostacolato dalla politica retriva delle due Reggenti, Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria ”, subentrate al governo del granducato dopo la morte di Cosimo II (1621). A Mantova l’ombra crescente dei problemi di successione aveva da tempo indebolito la stessa politica del duca Ferdinando, per parte sua protettore alquanto prodigo dei comici; la sua morte (1626) costituirà l’inizio della fine del ricco mecenatismo gonzaghesco, destinato a crollare al passaggio di ben altri corsari durante il sacco del 1630. Alle truppe comiche si sarebbero sostituite quelle militari che avrebbero inflitto alla città e alle sue campagne devastazioni e massacri inesorabili. Sarebbe stata quella la fine di una centralità dinastica, politica e militare e, di conseguenza, anche artistica e teatrale. Già prima di quella data, nel corso degli anni Venti, Venezia e Napoli si sostituirono alle corti dando vita a un nuovo bipolarismo dello spettacolo, basato sulla vendita del teatro più che sulla sua elargizione. Non a caso Pier Maria Cecchini, che con i suoi contratti con i
Tron e il Capece era stato buon profeta del nuovo assetto del sistema teatrale italiano, dopo il fallimento della sua partecipazione alla spedizione francese, si stabilî a Venezia: qui lavorò al teatro San Moisè dei Giustiniani” e alla nuova stanza dei Vendramin a San Salvador ’’, dando alle stampe altre opere; si allontanò dalla Repubblica poche volte, e una di queste (1631) per tornare a Napoli, ancora alla ricerca di un mercato in cui vendere il suo mestiere. Vi trovò invece l’eruzione del « diabolico monte Visuvio » che lo mise in fuga «puoco meno che ignudo con tutta la famiglia». Ma la rottura con Mantova non poté essere definitivo, Frittellino aveva continuato, per tutti gli anni Venti, a guardare al ducato come a un possibile porto di felicità, obbedendo a una consuetudine della memoria oltre che a un residuo vincolo personale con l’antica casa regnante. Appena perduta la contesa con Lelio per il viaggio francese, non aveva smesso di chiedere «aiuto di denari» ” al duca, e anche interventi a sostegno della sue stagioni veneziane. La nascita del figlio Lorenzo (1622) aveva acuito il
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bisogno di protezione tanto che, comunicando al duca la notizia del lieto evento, il Cecchini l’accompagnava con l’esplicita dichiarazione di sottomissione, chiedendo di potere aggiungere al suo vanto di « antichissimo servitore» della casa Gonzaga la nuova veste di «perpetuo vassalo»'. È questa un’autentica ritrattazione dell’indomito pirata. La parola «vassallo» indicava chiaramente il passaggio dalla condizione dell’attore nomade a quella stanziale. Anche se avrebbe continuato a vagare per i mari del teatro, con altri scatti di indisciplina, puntualmente denunciati dallo zelante Lelio ‘’, e ricambiati dal controveleno delle sue accuse moralistiche '*, il pentimento era dichiarato. Era subentrata, evidentemente, una visione più realistica e rasse-
gnata del mestiere, che lo spingeva a rinunciare alle ambizioni del capocomico per badare solo a se stesso e alla moglie: «rissolsi di non più trattar con niuno, ma solo con mia moglie offerire il mio servitio all’ Altezza Sua» ”. Erano anche i segni di una crescente insicurezza generale che inducevano Cecchini ad ammainare la bandiera pirata e a chiedere di nuovo la patente per l’attracco definitivo nel porto mantovano. Da altre parti giungevano notizie di abbandoni. Arlecchino, dopo essere scappato dalla compagnia di Lelio nel giugno 1621, aveva recitato ancora ma, senza arrischiarsi in perigliosi viaggi, si era piuttosto dedicato alla cura della famiglia, alla sua riproduzione, alla revisione del testamento, non perdendo di vista né il mulino di Bigarello né la piazza
dei ciarlatani. Abbiamo detto come buona parte dei Confidenti, morto don Giovanni, avesse rinunciato ai rischi dell’autonomia per ricoverarsi sotto le ali della compagnia ducale. Sotto le ali dei Gonzaga si era rifugiato anche Flaminio Scala. Orfano di don Giovanni, lasciati partire i comici più giovani, si era ritrovato, all’età di settant'anni a dover contare i suoi beni rimasti: accanto a una raccolta di commedie, aveva le « casse piene di fiaschi d’aque di Lucca preciosissime», «guanti con ricami d’oro e seta, con animali e fiori del.naturale di bellissima fattura», «pelle da colletti», «ventaline di Napoli e Milano», «odori d’ogni sorte perfettissimi et altre merce di stima e bellezza » **. L’armamentario insomma di un buon profumiere che desiderava vivere in pace, senza il solito maledetto «moto perpetuo », quale cortigiano stipendiato. E aveva trattato perciò con il segretario ducale Ercole Marliani il trasferimento di se stesso, del caro giovane di bottega, e di tutta la merce, a Mantova, con il titolo di « profumiere del signor duca». La trattativa prevedeva che la corte mantovana si facesse carico del trasporto, mediante barche prepagate e munite di salvacondotto, di tutta la merce nella nuova bottega che avrebbe dovuto essere,
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secondo le richieste dell'anziano ex capocomico, «in vista vicino le piazze»; la casa, con «comodità per la concia delle pelle e saponi» avrebbe dovuto trovarsi vicino alla bottega. Pare di capire che lo Scala, nonostante le promesse del Marliani, dovette invece accontentarsi di una bottega «alquanto picciola», senza comodo di abitazione, situata lungo il portico di piazza delle erbe”, oltre che di una procedura molto pasticciata che ritardò la sua partenza da Venezia. Visse da cortigiano due soli mesi. Morf infatti il 9 dicembre 1624. Il 20 agosto di quell’anno era morto, sempre a Mantova, il grande Francesco Andreini. Il 1° marzo 1630 sarebbe morto, nella sua casa mantovana, l’Arlecchino Tristano Martinelli. Dopo una vita vissuta da viaggiatori da mercanti da corsari, questi comici riuscirono a morire da cortigiani pensionati e a farsi seppellire nel porto materno dell'Arte. Presto le piaghe della guerra, della peste e della carestia avrebbero impoverito ulteriormente quel rifugio, derubandolo delle sue ricchezze migliori: i boschi, le biolche e i mulini che, nella fertile terra pianeggiante, avevano nutrito i loro sogni quaresimali. Ma il sacco di Mantova è per la nostra storia meno importante di quel rosario di morti ravvicinate. Esse lo precedono e lo preannunciano. Come spesso avviene per le catastrofi che giungono a segnalare, con un’evidenza e un clamore quasi simbolici, il destino mortale di una civiltà, fenomeni apparentemente superflui e ininfluenti come l’arte del teatro offrono segnali più esatti per diagnosticare la metastasi devastante. Cosî l’annientamento del sistema teatrale uscito dal Rinascimento. Il sopravvivente Frittellino, tardivamente pronto a rientrare nei ranghi di un capocomicato ortodosso e supino, verificò quanto fosse ormai impossibile restaurare in Mantova la figura del comico cortigiano, servitore fedele e, come lui pretendeva di dire, «perpetuo vassallo». Le profferte, i progetti, anche meticolosi, che egli venne facendo in un gruppetto di lettere finali, ancora rivolte a qualche segretario ducale, hanno i contorni di un sogno senile. Il sogno del funzionario finalmente integrato a corte, dimentico delle scorrerie di una vita. E come un sogno iperrealista sono ricche di particolari, e di illusioni: Et per haver subito luoco ove posarmi desiderarei (compiacendossi l’Altezza Sua) che mi venisse per ordine della medesima una lettera che diccesse: « Alvostro arivo andarete con le vostre robbe a smontare al luoco delle comedie (fabriccato per chi ci serve), et vi pigliarete l'appartamento di sopra con le comoditadi di cantina et altro per vostro bisogno, ché così vogliamo per esser più pronto all’ore del nostro servitio»; overo Vostra Signoria lo scrivi in nome di Sua Altezza che tanto mi
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Capitolo settimo
basta. Et quando il tutto sia concluso, far pratica di un barato di quelle puoche mie gioie, per finir di accomodare et stabilire le mie cose in quel servitio !*.
Qui (0 poco pit in là) si perdono le tracce di lui, inghiottito dal silenzio dei documenti. Anche in questo Frittellino era destinato, tristemente, a essere un precursore. Impoverite le corti minori, rafforzati i centri dotati di teatri impresariali, prevalendo la pratica dei grands spectacles nelle residue corti italiane (Roma e Firenze), le compagnie
itineranti sarebbero state sottoposte a una selezione brusca. Gli artisti migliori si sarebbero arruolati sotto le bandiere francesi, gli altri sarebbero deperiti in una cruenta lotta per la sopravvivenza, il divario tra i pochi eletti e imolti pirati della scena sarebbe diventato enorme. Tra affollati mercati urbani e piatte consuetudini di provincia il teatro dei professionisti sarebbe sopravvissuto a se stesso. Una cesura im-
placabile avrebbe allontanato nel tempo i grandi comici della stagione d’oro dagli epigoni ripetitivi. Tra Cecchini, Andreini, Scala, Martinelli e i loro immediati successori ci sarebbe stato un intervallo più lungo di una generazione. Il decennio che va dalla più gloriosa spedizione in terra di Francia al sacco di Mantova, osservato secondo il
senno di poi dello storico, assume quindi il significato di un lungo congedo, in cui i maneggi e i progetti dei comici, vissuti dai protagonisti come un’ossessiva ripetizione delle frénesie giovanili, hanno il sapore di una citazione stanca. Molti di loro, preceduti spesso da Cecchini, si dettero a pubblicare (o a ristampare) commedie consuntive e trattati. Spesso si tratta di ristampe con poche varianti tranne che nelle dediche. La replicazione vince l'improvviso. Le ultime opere che conservino traccia di una drammaturgia viva e sperimentale sono quelle edite in Francia da Andreini oppure, per ragioni linguisti-
che e geografiche, le composizioni date alle stampe dal Fiorillo. Per il resto è un deposito ingente di testamenti. Gli attori hanno paura che non resti traccia di loro. Sul limitare della morte, le leggi del mestiere e della vita comica giacciono allora come teoremi'”. Sono, più che strumenti d’uso o tracce di vita, monumenti a futura memoria. Tramite una rappresentazione decorosa di sé, i comici vogliono apparire
degni di attraversare il tempo e di accedere al giudizio benevolo dei letterati. Cosî facendo i sopravvissuti pit illustri (Giovan Battista Andreini, Nicolò Barbieri) traghetteranno oltre il 1630 un'immagine dell’attore e della Commedia dell'Arte troppo ordinata, ‘scritta’, lodevole, per essere vera. Per questo il nostro viaggio si arresta prima che il loro inganno trionfi.
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! Carteggi vari relativi a questa tournée di ripiego dei Confidenti si trovano in ASF, Mediceo, £. 5136, cc. 5917, 5921, 5951, 6317, 6587, 6617, 7027; £. 5138, cc. 1981-2007, 2027; f. 5139, cc. 3497,
3567, 4257; £. 5143, c. 8987; £. 5150, cc. 4437, 4551-4567, 5717, 5727.
? Cfr. lettera di Cecchini al duca di Mantova, da Bologna, 30 marzo 1620, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 1167, orain Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 72; per la convocazione del comico, si veda la lettera di Ercole Marliani a don Giovanni, da Mantova, 1° aprile 1620, in ASF, Medi-
ceo, £. 5143, c. 7587. ? Cfr. lettera del 15 luglio 1620, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 75, cit. 4 Ibid. Cfr. anchela lettera del 22 luglio 1620, ibid., lett. 76, cit.: «iersera Florinda parlando con Medoro l’hebbe a dire le precise parolle: ‘Io amo tanto Flaminia, et sono tanto sodisfata delle sue maniere, che per Dio mi creparà il cuore nel dovermi separar da lei’, il che serà senz'altro non si andando in Francia». ? Cfr. lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 5 agosto 1620, in ASMN, Gonza-
ga, busta 1751, cc. 858r-861r, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 39: «tutti e’ miei compagni più volte dissero: ‘Non si può star così; siam troppi; tante parti ci distruggono; andando in Francia bene, non ci andando male’, anch'io soggiunsi che mancando la cosa di Francia, per la quale era fatta la compagnia, ch’ogn’huomo era di libertà». 6 Cfr. lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Due Castelli, 28 settembre 1620, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 198r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 46. ? Cfr. ibid. * Cfr. lettere di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Mantova, nr ottobre, e da Milano, 19 ottobre 1620, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 1997 e 2007, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 47 e 48. ? Lettera di Francesco Nerli, residente gonzaghesco in Milano, a un segretario mantovano, 17 ottobre 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, cc. 4721-473v. 1° Lettera di Francesco Nerli a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 10 ottobre 1620, ivi, cc. 460r-461v. Anche la lettera del 17 ottobre seguente, del Nerli, cit., conferma il mutamento d’umore del Cecchini: «per obedire a Vostra Altezza s°è lassato persuadere di cedere ad ogni pretensione, né disturbar diretta o indirettamente la compagnia, massime per non sentir l’effetto delle minacce che gli ho fatte in ogni caso che osasse contravenire al gusto dell’Altezza Vostra. Havea fatto un sequestro nelle mani al mercante che deve dar il denaro perché non lo dasse fuori senza lui, ma rinontiarà a tutto». Per la vicenda cfr. anche la lettera del Nerli al duca di Mantova dell’ ottobre, da Milano, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, c. 4631. 1 Questa e le successive tre citazioni sono tratte dalle lettere che Cecchini scrisse a Ferdinando Gonzaga, da Milano, il 17 e il 21 ottobre 1620 (ivi, rispettivamente Gonzaga, busta 1751, c. 9377 e Autografi, busta 10, c. 187, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 79 e 80). G. B. Andreini, Lelio bandito cit., p. 5. 5 N. Barbieri, La supplica cit., p. 85. 1 Quella stessa estate del 1620 Andreini aveva definito Martinelli e Rivani «huomini di corso» e, l'estate seguente, definirà Martinelli un «pratico saccheggiatore». Cfr. lettere di Andreini del 18 luglio 1620 e del 2 luglio 1621, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 38 e 43, cit. 5 Questa citazione e la precedente sono tratte dalla supplica indirizzata dal Cecchini a Pedro Enriquez de Agevedo, 3 giugno 1610, in ASM, Cancelleria, Carteggio generale, busta 397, 4 cc. n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 36. Secondo l'oroscopo del Cecchini il delitto sarebbe avvenuto per causa della moglie Orsola, del resto arrestata insieme al marito e all’altro comico Cinzio. La scarcerazione avvenne per interessamento della corte mantovana e del duca di Nemours. Cfr. sull’argomento C. Burattelli, Borghese e gentiluomo cit., pp. 4344, nonché le lettere di Ciro Spontoni a Vincenzo Gonzaga e a un segretario mantovano, da Torino, 15, 23, 27 e 30 settembre e 1° ottobre 1609, in ASMN, Gonzaga, busta 735, 13 cc.n.n., e le minute di Vincenzo Gonzaga a Carlo Emanuele I di Savoia, 7 settembre, 29 ottobre 1609 (ivi, busta 2271, 2 ce.n.n.).
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Capitolo settimo Nella vita dell’Andreini rari sono gli accenni a episodi malavitosi, che lo vedono comunque stare dalla parte della giustizia. A Parigi nel 1613 è lui stesso a denunciare che «il Campeggio, col mezo d’uno Sforza Palavicino, ha tentato di farmi ammazzare nel venir la sera a casa dalla comedia; Dio non ha voluto, ond’è preso, e già Sua Maestà cristianissima termina che sia rotato » (lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Parigi, 25 dicembre 1673, ivi, busta 671, c. 690r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 25). Diverso è il caso del personaggio Lelio che troviamo spesso coinvolto in trame ai limiti della legalità. Per quanto riguarda Flaminio Scala, a parte alcune scaramucce sul palco e qualche incidente veneziano, si segnala soprattutto il bando di un anno che contro di lui emise, per il ducato di Modena, il cardinale legato Bonifacio Caetani il 24 marzo 1610 (lettera di Bonifacio Caetani a Cesare d’Este, da Ravenna, in ASMO, Archivio per materie, Comici, busta unica, 2 cc.n.n.). Alquanto tranquilla la carriera di Arlecchino se si esclude un giovanile « gran pericolo della vitta» corso per colpa del fratello Drusiano quando alcuni nemici «mandorno alla strada per amazarne» (cfr. lettera di Martinelli a Vincenzo Gonzaga, da Modena, 2 maggio 1598, in ASMN, Gonzaga, busta 1294, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 5).
Lettera di Cecchini forse a Enzo Bentivoglio, da Mantova, 15 luglio 1615, in BEMO, Autografoteca Campori, Cecchini, Pier Maria, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 63. Cfr. rispettivamente lettera di Orsola Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Milano, 9 settembre 1602, in ASMN, Gonzaga, busta 1726, 1 c.n.n.; lettera di G. B. Andreini a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 14 agosto 1609, ivi, Autografi, busta 10, cc. 231-240, ora in Corrispondenze, I, An-
dreini, lett. 11. Il giudizio sul cognato di Cecchini si trova b:d., Martinelli, lett. 47. Le minacce di morte contro il Cecchini furono mosse, a detta dello stesso interessato, proprio dal Martinelli («è dietro per farmi amazzare»: cfr. lettera di P.M. Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Parigi, 3 luglio 1601, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 70r, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 4). I rischi di finire in prigione sono accennati nella sua lettera a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 15 febbraio 1602, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 721-737, ora in Corrispondenze, I, è
Cecchini, lett. 5. Cfr. le lettere di Cecchini, da Torino, del 17 dicembre 1605, a Vincenzo Gonzaga e Annibale Chieppio, del 25 dicembre 1605 e del 14 agosto 1609 ancora al Chieppio, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 80r-827, 847 e 1031-1047, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 12, 13, 14 e 32. Lettera di Cecchini a un segretario mantovano, da Verona, 28 giugno 1633, in ASMN, Gonza-
ga, busta 1567, cc. 4891-4907, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. gx. Ibid., lett. 12 e 13, cit. Ibid., lett. 13, cit. Ibid., lett. 12, cit. Ibid., lett. 32, cit. Ibid., lett. 12, cit. Lettera di Cecchini a un segretario mantovano, da Firenze, 29 novembre 161, in ASMN,
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Gonzaga, busta 1128, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 49. Lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Mantova, del 3 ottobre 1614, in ASMN, Goxzaga, busta 2731, fasc. 10, lett. 168, 1 c. n.n., ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 37: «i signori medici, invidiosi delle sprienzze forestieri, àno datto terzo asalto di un’archobusata alli zaratani, con dire che Vostra Altezza non vole che questi poveri vertuosi vendano più i loro medicamenti che sempre àno venduto per li tempi pasati per tutto il mondo». Lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 15 agosto 1618, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 194r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 40: «Prima, ante omenia, voi mi avete sfracassato il mio privilegio che mi dava almeno scudi cento l’anno: al povero privileggio gli avete dato una cortellata in el far segilare le valice alli zaratani et volere che faciano ilo-
ro secreti de medicamenti nelle speciarie persente i medeci». Cfr. lettera di Andreini a Vincenzo Gonzaga, da Milano, 17 giugno 1609, in ASMN, Autograo” busta 10, c. 19r: «Serenissimo signore, si vesta di pietà, conforme l’uso suo, e consideri ch'io sono un povero giovine, et ho la moglie gravida, la madre sua, una sorella, io, et un servo, et non ho dinari, e tutto il giorno vendo; pertanto le chiedo grazia di potermi provedere
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d’un poco di compagnia per potere rimediare alli calamitosi miei bisogni. Piacendo poi al-
l’Altezza Vostra, questo carnevale la verrò a servire». Ma si vedano, sempre dell’Andreini, le lettere a Vincenzo Gonzaga, da Milano, 20 settembre 1606, ivi, Gonzaga, busta 1730, 1c.n.n.;
ad Annibale Iberti, da Milano, 26 giugno 1636, ivi, Autografi, busta 10, c. 2327: «mi si conceda ch'io possa andare a guadagnar de? vestiti, delle catene et de’ dinari, et non ch'io habbia da stare a consumare quello c’ho guadagnato in Francia miseramente per questi paesi». Per tutte queste lettere si veda ora Corrispondenze, I, Andreini, lett. 7, 2, 27. ?° Lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 3 agosto 1616, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 27r-v, ora in Corrispondenze, I,Andreini, lett. 29: « Hoggi alli 3 d’agosto ho refiutato mille e ducento scudi per lo viaggio di Fiandra, poiché havendo condizionata la proferta ch'era con grazia di Vostra Altezza serenissima, ogni cosa è andato in scompiglio quella non v'essendo. Taccio i doni proferti, e taccio quanto m’era promesso di utile, poiché servo a signore al quale non fui giamai fastidioso per possedere ». Nel 1606, per non irritare il governatore di Milano, conte di Fuentes, il duca di Mantova aveva fatto perdere ai suoi comici la ‘piazza’ di Bologna (cfr. lettera di Annibale Chieppio a Vincenzo Gonzaga, da Mantova, 21 ottobre 1606, in ASMN, Gonzaga, busta 2704, fasc. 1, lett. 64). ? Lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Firenze, 13 dicembre 1672, ivi, busta 1128, 1
c.n.n.: «prima che a Pisa siano andate, queste serenissime Altezze hano regalata la Florinda, cioè la serenissima arciduchessa d’un drappo di cinque ducati il braccio, numero braccia 20, ma bellissimo, con 60 ducati per la guarnizzione d’oro; né questo s’è procacciato, ma spontaneamente le ha fatto il regalo. 600 ducati ha donato il serenissimo signor duca alla compagnia, et a me et ad Arlecchino una medaglia d’oro di 25 ducati» (cfr. Corrispondenze, I, Andreini, lett. 24). 3;N
Lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Torino, 5 novembre 1620, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 2017-2027, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 49; cfr. anche le lettere
di Martinelli allo stesso e ad Alessandro Striggi, del 26 agosto e del 4 e 10 ottobre 1613, ibi4., lett. 31-34. % Lettera di Andreini del 2 luglio 1621, ibid., Andreini, lett. 43, cit., ora in Appendice, 1.2. # Lettera di Martinelli del 5 novembre 1620, ibi4., Martinelli, lett. 49, cit.
* Per lo «stanciar» cfr. lettera di Cecchini a un segretario ducale, da Bologna, 24 settembre 1602, in ASMN, Gonzaga, busta 1167, c. 276r, otra in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 7. 3% Lettera a un segretario mantovano, da Bologna, 30 ottobre 1602, in ASMN, Gonzaga, busta 1167, c. 288r, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 9. 3 Ss
Cfr. la lettera del Cecchini del 17 dicembre 1605, a Vincenzo Gonzaga, :bid., lett. 12, cit.
3 Oltre alle memorabili accuse dell’Andreini, che abbiamo avuto già modo di ricordare, nemi-
co proverbiale del Cecchini fu anche l’attore Giovan Paolo Agucchia (specializzato nella parte del Dottore) che pit volte si accanî contro Frittellino (cfr. le sue lettere a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 15 ottobre, 5 e 27 novembre, 6 dicembre 1605, in ASMN, Gonzaga, busta 734, 4 cc.n.n.). Sugli sfratti periodici subiti cfr. lettera di Frittellino a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 15 gennaio 1606, ivi, Autografi, busta 10, c. 88r: «Hor hora mi è cappitata una del Belino, che tiene la chiave d’una delle stanze concessemi da Sua Altezza serenissima, la quale mi dà nova come l’Altezza Sua ha dato ordine al signor medico Brusco che mi siano getate le mie robbe in strada quando il detto Belino non le levi per amore»; ma cfr. ancora la lettera allo stesso, da Parigi, 7 maggio 1608, ivi, c. 10or: «Se mi ha levato la casa non si volendo più servir di me, la supplico farmene dar robbe in luoco ov'io non habbi ra a un segretario del duca, da «Né mi facia vuotar la casa, ma
aviso, poich’io manderò persona aposta che conduchi le mie a temere che mi manca nulla»; oppure si veda ancora la lettePianoro, 19 dicembre 1610, ivi, Gonzaga, busta 995,1cn.n.: mi avisi ch'io mandarò a levar via il tutto, et farò il carnovale
dove piacerà a Iddio (poi ch'io sono di qua dai monti) ». Per tutte queste lettere cfr. ora Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 16, 26, 45. Lettera di Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Milano, n settembre 1606, in ASMN, Gonzaga, busta 1730, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 20.
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4è
4N 4
Capitolo settimo Nei confronti degli umori dei comici Cecchini confessò spesso al duca la sua impotenza: si vedano le lettere a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 13 e 29 luglio 1609, in ASMN, Gonzaga, busta 735, 3 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 28 e 30. Ma cfr. anche la lettera a un segretario mantovano, da Vicenza, 29 agosto 1613, in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 60: «la compagnia si ritrova qui con un concorso tanto grande che a voler trattar di moverla senz’offerirli uno equivalente sarebbe un rivolger il mondo sosopra. In Verona siamo parimenti aspettati et si spera facende migliori, ond’io non vego senza un qualche modo estraordinario di poter dispor gl’animi a dover venir volontieri. Sua Altezza serenissima sa molto bene che stravaganza d’umori è tra comedianti, che molte volte neanche i prencipi possono se non con molte difficultà domarli, ond’io, ch'io sono povero par loro (quanto all’officio), non saprei fargli venire se non con uno delli doi mezi». Lettera di Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 31 gennaio 1606, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 90r-v, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 17. Lettera del 14 agosto 1609, sb:d., lett. 32, cit. Lettera di Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Firenze, 30 novembre 1610, in ASMN, Autografi, busta 10, c. I1or-v, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 44. Circa la medesima funzione
svolta dall’altra lucrosa piazza di Venezia, cfr. la lettera di Cecchini a un segretario mantovano, da Cremona, 12 ottobre 1626, in ASMN, Gonzaga, busta 1757, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 88: «Hora, signore, io mi ritrovo creditore dalla compagnia di scudi 648 venetiani, né vego come putermi riscuotere se non con il carnovale di Venetia». Lettera di Cecchini a un segretario mantovano, da Pianoro, 19 dicembre 1610, cit. 4oi
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Lettera di Cecchini a un segretario mantovano, da Firenze, 29 novembre 16, in ASMN, Gonzaga, busta 1128, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 49; la solita richiesta, formale, di licenza, attenua solo in parte la durezza del congedo: «Ma perché non voglio im-
piegar la parola senza licenza in iscritto da Sua Altezza, supplico adunque Vostra Signoria illustrissima farmi gracia ch'io la ottenghi, raccordandoli però che lo scrivermi ambiguo, overo inrissoluto, non mi servirebe se non a confondermi, perché quando Sua Altezza diccesse volermi prima parlare, questo non si può fare se non a Quadragesima, et io sono astreto a rispondere a chi mi chiama prima di Natale, sì che non sarei né a piedi né a cavallo». Ibid. Lo aveva comprato nel 1602, come risulta dal già citato testamento del 1604. Il mulino fu spesso causa di apprensioni per Arlecchino: «Et più per mio magior dano avete fato fare una grida in pergiudicio et in rovina dil mio molino, a volere che i masenanti faciasi fare un boletino al vicario: prima vi era solo che rubava i molinari, adesso mo? vi avete gionto il vicario, dove che il fitadro che à il molino che mi pagava ducati 450 l’anno me l’à renonciato et li molinari se ne voglieno andare. Sì che se Vostra Altezza non mi mantiene la parola che tante volte mi à promesso, di protigiare il mio molino in quello che mi farà bisogno, io son mezo in rovina; però la suplico, per quanto amore el porta alla mia signora comadre vosita moglie serenissima, di farmi gratia ch’el mio molino non abia quello agravio difar'detti bolettini, ma lasiarlo lavorare in el termine ch’el lavorava quando lo comprai» (lettera di Martinelli a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 15 agosto 1618, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 1947-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 40). Sui possedimenti di Francesco Andreini cfr. il testamento del 9 giugno 1607, in ASMN, Notarile, notaio Sinforiano Forti; sui beni dei due Nobili cfr. lette2adi Vittoria Nobili al Cecchini, da Due Castelli, 18 aprile 1608, ivi, Gonzaga, busta 2710, ett. 125. Sulle attività della Ramponi cfr. ivi, Notarile, notaio Giulio Cesare Pallini, 21 ottobre 1620, 15 settembre e ro dicembre 1621; supplica redatta da Moisè Pontremoli, 18 marzo 1621, ivi, Mîscellanea, busta 9, 1 c.n.n. Per il Forlano cfr. ivi, Notarile, notaio G. C. Pallini, 5 giugno 1620, 22 novembre 1622, 22 dicembre 1623.
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Su questa proprietà cfr. ivi, notaio Lodovico Bartolini, 5 gennaio 1655. Di molte proprietà fondiarie e immobiliari pare fosse detentore l’attore Tiberio Fiorillo, figlio di Silvio e interprete famoso (specialmente in Francia) del personaggio di Scaramouche: sul suo patrimonio cfr. G. Checchi, Debiti e ricchezze di un attore cit.
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Della bottega, come dei relativi aiutanti profumieri, Scala parla spesso nelle sue lettere, e particolarmente nelle ultime quando ha ormai deciso di trasferire l’attività a Mantova, nei pressi della corte. Ma cfr. il suo testamento in ASV, Notarile testamenti, notaio Fabrizio Beacian, busta 56, n. 236, 3 cc.n.n. (28 settembre 1616). La bottega doveva essere un luogo d’incontro e di conversazione, da cui lo Scala attingeva notizie da trasmettere al suo padrone (cfr. lettera di Scala a don Giovanni, da Venezia, 21 maggio 1617, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 4771-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 13).
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b)N
Sistematica fu l’azione protettiva svolta da G. B. Andreini nei confronti dei fratelli Domenico, Pietro Paolo, Virginio, Giacinto e delle sorelle Caterina e Lavinia; lo zelo paterno si estese ai figli della seconda moglie Virginia Rotari. Cfr. ibid., Andreini, lett. 14, 23, 33, 54 € 55. Impressionante l’elenco dei padrini e delle madrine di battesimo (quasi sempre operanti per procura) dei figli di Arlecchino: Ferdinando I e II dei Medici, Francesco e Ferdinando Gonzaga, Maria dei Medici, Luigi XIII di Francia, Cristina, Carlo Emanuele I e Vittorio Amedeo di Savoia, il cardinale Borghese e altri ancora. Tanto che una volta ebbe a esclamare: «questi anni ò autto un bonissimo racolto de compadri et comadri illustrissimi» (lettera di Martinelli a Maria dei Medici, da Mantova, 30 giugno 1615, in BTB, Raccolta Rasi, Autografi, /Cart. 44, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 38). Per sua esplicita ammissione Arlecchi-
no raccoglieva le lettere che documentavano le sue relazioni altolocate: «più di cento altre lettere che io tengo, tute de gran signori prencipi et re che si sono dignati di scrivermi» (lettera a Andrea Cioli, da Mantova, 6 novembre 1625, in ASF, Mediceo, f. 2949, 1c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 54). Per tutte queste trame cfr. ora ib14., lett. 13, 16, 19, 27, 33,
34, 35, 36, 49, 53, 58. 5.i
Per analoghe considerazioni, poi sviluppate in riflessioni generali sull’attore si veda F. Taviani, Né profano né sacro cit., p. 232.
5à
La frase di don Giovanni si trova nella lettera del medesimo del 21 marzo 1620, cit. (cfr. anche Appendice, III); quella di Scala nella sua lettera ad Atanasio Ridolfi, da Venezia, 30 marzo
5:n
5 CA
1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 538r, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 58. Lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 19 marzo 16185f [1619], in ASF, Mediceo, f. 5147, cc. 312r-3137. Cfr. Ruzante, La Piovana, IV.x.1, in Id., Teatro cit.: «BERTEVELO (...) Andarè a ca’, e belamen a’ torè combiò dal me paron, e sî dirè che a’ no vuò pî star con altri, mo che a’ vuò deventar me omo. Andarè po de longo in Pavana, e belamen a’ comperarè ciesure, tere, a’ farè ca’ de muro, a’ me marierè, a’ farè figiuoli, arleverè el me parentò, che a’ vorò che se ciame el pa-
rentò d’i Berteviegi, che serà ancora la prima massaria de Pavana. A’ comprerè del teren assé. A’ farè de le ca’, tanto ch’a’ farè una vila, che se ghe dirà ancora la vila de Bertevelo ». Il sogno del poveraccio è di congedarsi dal padrone e mettersi per suo conto. La libertà coincide con l’affrancamento dal lavoro subordinato. E subito dopo con il possesso delle terre e delle case, su cui possa campeggiare, come nella lapide fatta murare da Arlecchino nel suo mulino di Bigarello, il nome riabilitato del poveraccio. 5 Ss Dimostra di capirlo bene quando spiega le ragioni per cui Andreini è cosî zelantemente obbediente all’autorità mantovana (lettera a un segretario del duca di Mantova, da Verona, 28 giugno 1633, cit., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 91). 58 Il documento di questa attività (datato 24 dicembre 1618) è in U. Prota-Giurleo, I teatri cit., p. 76: «Et perché esso Jacovo vuole che il tutto passi sotto il suo nome tantum come inventore di quelli; benvero detto Jacovo si contenta che il detto Pier Maria nello Stato Ecclesiastico, Veneto, Orbino, Mantua, Savoya, Fiorenza, et altri Stati, ove il detto Pier Maria potesse giongere con li suoi mezzi, eccettuato però li Regni del Nostro Re Cattolico, possi in ogni luoco fabricare quelle machine che saranno necessarie secondo il bisogno di detti Paesi, sotto però li sottoscritti patti, conditioni et conventioni». 59 Cecchini si interessò più volte della filatura della seta e della sua possibile industrializzazione. Nel 1599 (lettera al granduca Ferdinando dei Medici, 8 maggio, da Bologna, in ASF, Mediceo, f. 891, c. g1r, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 2); nel 1605 (lettera a Vincenzo Gonzaga, 17 dicembre, :b:4., lett. 12, cit.); nel 1609 (lettere a Vincenzo Gonzaga, da Mantova, 10 ottobre e 24 novembre, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 1057 e 1077, ora in Corrispondenze, I, Cec-
314
Capitolo settimo chini, lett. 33 e 35); nel 16n (lettera a un segretario mantovano, 29 novembre, 114. ; lett. 49, cit.). Sulla fabbricazione del sapone cfr. la lettera a un segretario mantovano, da Milano, 22
luglio 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, c. 849r-v, ora in Corrispondenze, I,Cecchini, lett. 76. Su queste invenzioni e sui loro spacciatori, cacciatori di soldi e inventori di fumo, ciarlatani non privi d’ingegno, tra cui Frittellino era una figura di secondo piano, cfr. P. Camporesi, La miniera del mondo cit. Lettera di Cecchini del 29 novembre 161, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 49, cit. (utile anche la nota 1 a cura di C. Burattelli). Si tratta del filatoio a seta idraulico la cui introduzione
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era stata per molti anni osteggiata dai setaioli mantovani, soprattutto ebrei. La prima installazione fu del 10 ottobre 1609, ad opera del bolognese Giovan Battista Cortellini; della stessa data è una lettera del Cecchini (i4:4., lett. 33, cit.): l’attore risulta essere in contatto con un altro ‘industriale’ della seta (appartenente alla famiglia Torre e tesoriere del duca di Mantova) che il 22 dicembre 1610 otterrà una nuova concessione da parte dei Gonzaga. È in questa occasione che probabilmente erano intervenute le finanze ducali: cfr. G. Zacchè, L’introduzione del filatoio «alla bolognese» nella città di Mantova (secoli xvi-xvI1), in Mantova e i Gonzaga nella civiltà del Rinascimento, Atti del convegno organizzato dall'Accademia Nazionale dei Lincei e dall'Accademia Virgiliana (Mantova, 6-8 ottobre 1974), Comune di Mantova Accademia Virgiliana, Mantova 1978, pp. 471-78. Cfr. ASMN, Decreti, vol. 52, c. 1512. Descrizioni accurate di prodotti venduti da parte di un imbonitore discreto si trovano in Corrispondenze, I, Scala, lett. 4, 5, 1, 20, 33, 36, 38, 40, 42, 44-49, 55, 61, 69, 82, 83, 93, 96. Lettera di Cecchini forse a Ercole Marliani, da Roma, 1 maggio 1619, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 113r-1147, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 70. Lettera di Cecchini a un segretario mantovano, da Padova, 28 giugno 1613, in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 58.
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Lettera di Cecchini ad Annibale Chieppio, da Torino, 25 dicembre 1605, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 847, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 14. Lettera di Cecchini a Vincenzo Gonzaga, da Mantova, 10 ottobre 1609, cit.:
«Nel tempo ch'io sono stato in Torino et Lelio in Milano, ho sempre datto a lui et a sua moglie le sue parti, tanto che sono assese alla suma quasi di cento scudi, et questo non per altro che per havermegli l’Altezza Vostra serenissima consegnati per compagni, se ben detto Lelio, con una sua ch'io risserbo nelle mie robbe, si licenciò dalla compagnia caso che pet tutta l’Ottava del Corpus Domini non si fosse ritrovata in Milano. Ma io, che volsi haver più risguardo agl’ordini dell'Altezza Vostra che alle sue discrepanze, non volsi mai lassiar di cavar le parti, le qualli al suo arivo in Torino gli sborsai di mia mano. Hora intendo (non so se sia per ordine dell’Altezza Vostra, né lo posso credere) che recitano senza mia moglie et senza Cintio di nuovo in Torino, et dicono di non voler più recitar né con loro né mecco, cose che mi par che non si possino fare senz’ordine di Vostra Altezza; onde, se gli parerà giusto ch'io habbia quello che mi si deve et ch’io ho datto a loro, la supplico non mi mancar di giusticia». Quando si presentava in piazze minori, meno attrezzate in quelle che oggi chiameremmo infrastrutture logistiche, Cecchini aveva da spendere per la fabbrica del palco, per l’affitto di un alloggio o di una locanda per i suoi compagni: «l’esset io gionto in Padova, fabricato un palco, et pigliato ad affitto un gran palazzo per comune abbitacione mi è stato di gran spesa» (lettera a un segretario mantovano, da Padova, 28 giugno 1613, cit.). Sui suoi anticipi cfr. anche la lettera a Ferdinando Gonzaga, da Ferrara, 4 aprile 1621, in ASMN, Gonzaga, busta 1270, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 83: «Piglio barca a posta (non ce ne essendo d’altre), facio il servitio, spendo il mio». Lettera di Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Ferrara, 19 aprile 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1270, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 73. Lettera di Cecchini del 12 ottobre 1626, ib:4., lett. 88, cit. Anche in anni lontani aveva dovuto
affrontare, insieme alla moglie, gli stessi problemi: «La spesa fatta sin hora è così grande che mi bisogna far un grossissimo pegno per levarmi di Torino » (lettera a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 30 novembre 1607, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 90r); «havendo fatto scudi 350
di debito (et sono scudi d’oro) con mulatieri o condutieri che hanno condotto le robbe (et
Il pirata senza terra con mia madre un’altra delle nostre donne) sino a Leone»
315
(lettera a Vincenzo Gonzaga, da
Torino, ro dicembre 1607, ivi, c. 987); «mi ha anco bisognato lasciar pegno in Mantoa questo
settembre, mentre eravamo in servitio di Sua Altezza, per molti scudi» (lettera di Orsola
Cecchini a Vincenzo Gonzaga del 25 novembre 1610, ivi, c. 687); « quando Sua Altezza non lo
credesse, io farò che i banchi degl’ebrei gli mostrarano le mie partitte, poiché ogni anno ho impegnato per sostentarmi» (lettera a un segretario ducale, da Firenze, del 29 novembre 16, ivi, Gonzaga, busta 128, 2 cc.n.n.). Per queste lettere cfr. ora in Corrispondenze, I, Cecchini,
lett. 24, 25, 44 (nota 2), 49.
:
°° Cfr. ibid., Martinelli, lett. 2 e 3, cit. " Di Cfr. ibid., Andreini, lett. 6, 7, 8 e 36. 7:N
Lettera di Scala a don Giovanni, da Milano, 4 giugno 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 509t-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 69.
? Trai personaggi minacciati da questa speciale cattività va ricordata Lavinia (al secolo Marina Dorotea Antonazzoni) sempre impegolata in questioni di miseria, debiti e prestiti. Nel 1618 la sorprendiamo in un sussulto di orgoglio mentre respinge le minacce degli usurai di cui riferisce le ignobili trame. Essi pensano che gli attori «come serrà quadragesima e che non si vedrano dinari, averano di gracia di noi e bisognerà che facino a nostro modo»; ma Lavinia e il marito Ortensio non sono disposti a cedere (cfr. lettera di Marina Dorotea Antonazzoni a
don Giovanni dei Medici, da Ferrara, 3 marzo 1618, in ASF, Mediceo, f. 5143, cc. 3151-3167). Ritroviamo Lavinia, l’arino dopo, a Milano, insieme a Scapino, che «ànno bisogno de mille e cinquecento scudi» per pagare «l’usura de’ suoi debiti» e vengono perciò avvicinati da un
emissario del duca di Mantova che li vuole togliere alla compagnia. Un prestito che li liberasse dai debiti li getterebbe in mano al misterioso personaggio (lettere di Scala a don Giovanni, da Milano, del 10, 17 e 24 luglio 1619, ivi, f. 5150, cc. 484r-0, 5431-v, 5697, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 73, 74, 75). Un altro caso in cui gli attori vengono ricattati per mezzo di anticipi che li liberano dai debiti accumulati si può riscontrare nella lettera del Sordi del 16 dicembre 1613, cit.: «questa compagnia è in debito di 2000 lire di queste al hoste del Salvatico, le quali quando anco si risolvessero di venirci bisognarebbe pagarli, e non havendoli loro, ne patirebbe la borsa di Sua Altezza, essendo costoro falliti in modo miserabile, che l’aiutarli importerebbe non puoco»
(cfr. Appendice, II 1).
74 In Corrispondenze, I, Andreini, lett. 69 (lettera di Andreini a Carlo I Gonzaga Nevers, da Vicenza, 12 aprile 1636, in ASMN, Gonzaga, busta 1568, c. 3137). % Abbiamo già evocato nel capitolo quarto l’avversione personale di don Giovanni che egli aveva dovuto registrare al momento della nascita della compagnia dei Confidenti. 7 Pier Maria Cecchini si era impegnato con Ettore Tron a recitare nel suo teatro per due anni, e «cioè il San Martino prossimo sino a quadragesima, et la Pasqua de l’anno 1613 sino all’Asensa, et il seguente San Martino sino a quadragesima» (lettera di Camillo Sordi al duca di Mantova, da Venezia, 9 giugno 1612, in ASMN,
Gonzaga, busta 1544, 1 c.n.n.).
? Sono indirizzate forse a Enzo Bentivoglio le lettere del Cecchini che contengono le citazioni appena riportate: cfr. la lettera del 15 luglio 1615, da Mantova, in BEMO, Autografoteca Campori, Cecchini, Pier Maria, 1 c.n.n., e quella dell’ dicembre 1616, da Bologna, in ASFE, Bentivoglio, Lettere sciolte, mazzo 88**, 1 c.n.n., dalla quale si evince la maggiore precarietà del lavoro comico in questo periodo: «la stanza non è all'ordine, anzi che non faremo nulla». Le due lettere sono ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 63 e 67.
78 «Essendo stato sopragionto da un ordine duplicato di Sua Maestà cesarea a dover andar a Linz con la compagnia non posso effetuare il pensiero ch'io havevo di venir per doi mesi a servirla» (lettera forse diretta al Bentivoglio, da Brescia, 15 luglio 1614, in BEMO, Autografoteca Campori, Cecchini, Pier Maria, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 62). Per
trame più contorte si veda la lettera del 15 novembre 1616, forse allo stesso, ibid., lett. 64, cit. 79 Si veda, a riscontro, la lettera di Vincenzo Gonzaga a Juan Fernandez de Velasco, da Mantova, 11 marzo 1614, in ASMN, Gonzaga, busta 2275, 1 c.n.n.
Capitolo settimo
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Lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 5 marzo 1615 sf [1616], in ASF, Mediceo, f. 5146, cc. 1950-1960. Lettera di Scala a don Giovanni, da Firenze, 5 novembre 1636, ivi, f. 5150, c. 452r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 5. Si tratta di appunti di don Giovanni, tracciati su una lettera di Scala a lui indirizzata da Venezia e datata 14 gennaio 1617, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 464v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 8; cfr. anche ibid., Cecchini, lett. 68, nota 2. Lettera di Martinelli a don Giovanni, da Ferrara, 22 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 487r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 43. Le critiche al Cecchini sono in una lettera di Scala a don Giovanni, da Bologna, del12 novembre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5150, c. 5917, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 85, e in una lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Scarperia, 26 ottobre 1619, in ASF, Mediceo, f. 5147, cc. 4631-4640. Per altre testimonianze avverse a Cecchini si vedano le lettere di Scala a don Giovanni, del 20 e 29 ottobre 1619, da Bologna, ivi, £. 5150, cc. 4537 e 619r-v, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 81 e 82: «si dubbita di Frittillino, quale si trova a Firenze senza far nulla rispetto alla cattiva compagnia ch’àè»; «avendo sentito in Firenze Frittellino e sua compagnia, qual dice non valer nulla». La versione di Cecchini è nella lettera a un segretario mantovano, da Firenze, 20 ottobre 1619, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 115r-v, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 71. Per capire come funzionassero le «riffe» si può leggere cosa scriveva Cosimo Baroncelli a don Giovanni, a proposito di Lavinia: «Sento anco che il signor principe don Lorenzo la sera istessa gli fece domandare un anellino e glelo arriffò per venticinque zecchini, e gli fu poi ridonato l’anello e danari, e si vede in effetto che hanno dato gusto grandissimo » (lettera del 25 dicembre 1618, da Firenze, in ASF, Mediceo, £. 5147, cc. 2521-2547). Anche Scala, in una lettera a don Giovanni, da Milano, 24 luglio 1619 (ivi, £. 5150, c. 5697, ora in Corrispondenze, I, Sca-
la, lett. 75), sempre a proposito di Lavinia e dei suoi compagni, racconta che «si vanno mantenendo con qualche riffa». Anche su Celia ci sono informazioni del genere: cfr. lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni, da Firenze, 30 ottobre 1618, in ASF, Mediceo, f. 5147, cc. 2157-2177: «Gli rinfacciò Pantalone che ell’havesse fatto delle riffe contro le constituzioni della conpagnia, le quali ell’haveva promesso di osservare, e però io gli dissi assolutamente che non pensassi a farne più. Lei si scusa con dire che è poveretta e che ha debito in conpagnia passa cento scudi e non ha il modo a pagarli, e però mi pregò di operare che i conpagni gli dessino licenza, caso che qualche gentil’homo di quelli che vanno a trattenersi da lei li domandasse anelli o altra cosa da riffare, per fare la riffa fuore delle stanze della conpagnia e della scena, di maniera che lei, senza contraffare alle constituzioni e alla promessa, potesse havere questo poco di utile per satisfare i suoi debiti, di poterglela dare, et io li promessi di fargli havere questa licenzia se lei si porterà come conviene». Cfr. le lettere a don Giovanni dei Medici, rispettivamente, di Marina Dorotea Antonazzoni, da Ferrara, 3 marzo 1638, ivi, f. 5143, cc. 3157-3167, e di Francesco Antonazzoni, da Ferrara, 4 marzo 1638, ivi, f. 5141, cc. 3897-3900. n Lettera di Cosimo Baroncelli a don Giovanni dei Medici, da Firenze, 5 marzo 1615 sf [1616], ivi, £. 5146, cc. 1950-1967. È l'edizione Roncagliolo (1616) dei Brevi discorsi [...] cit.
C. Burattelli, Borghese e gentiluomo cit., p. 49. Lettera di Scala a don Giovanni, da Milano, 31 luglio 1619, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 76, cit.
F.Zazzera, Narrazioni tratte dai giornali del governo di don Pietro Girone duca d’Ossuna viceré di Napoli, in «Archivio Storico Italiano», tomo IX (1846), p. 533. Citato anche in B. Croce, I teatri di Napoli cit., p. 63. 93
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È l'edizione Vitale (1618) Delle lettere facete cit. C. Burattelli, Borghese e gentiluomo cit., p. 49.
Lettera di Cecchini forse a Ercole Marliani dell’ maggio 1619, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 70, cit.; il corsivo è nostro.
Il pirata senza terra 95
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Ziù
Lettera di Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Napoli, 3 ottobre 1618, in ASMN, Gonzaga, busta 828, c. 2227, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 69. Ibid., rispettivamente lett. 70 e 71, cit.
Le citazioni sono tratte dalle lettere del Nerli dell’ e 17 ottobre 1620, cit. alle note 9 e 10 di questo stesso capitolo, a cui si rimanda per precisazioni sull’episodio. Per le citazioni cfr. rispettivamente la lettera di Martinelli a don Giovanni, da Ferrara, 22 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, f. 5143, c. 487r-v; la lettera di Silvio Fiorillo forse a Ercole Marliani, da Venezia, 3 aprile 1626, in ASMN, Gonzaga, busta 1557, 2 cc.n.n. Per tutto si veda ora Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 43; Fiorillo, lett. 15.
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Cfr. lettera di Martinelli a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 26 dicembre 1605, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 150r-v, ora in Corrispondenze, I, Martinelli, lett. 10: «Il giorno io incontrai
Frittelino, et io gli disi che avevamo da venire a Mantova, ma senza lui, la moglie e Fulvio per ordine di Vostra Altezza; lui mi dise che li mostrase la letera perché non lo credeva, io ce la
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mostrai presente il nostro Capitano, et lui la lesse et poi se la mise nelle calce con dire che me l’arebe resa subito, ma prima voleva scrivere a Vostra Altezza per discolparsi di alcune cose che era in detta letera. Il bon compagno voltò via, et portò la letera a monsur di Moretta et la fecero vedere a Sua Altezza; et io sapendo questo vene quasi ale mane con lui, dicendoli che aveva fato male a mostrar detta letera inanti che il signor conte Alessandro l’avese veduta. Insuma mi rese la letera, et subitto monsur di Moretta mi mandò a chiamare, et mi mandò dal signor conte Alessandro dicendomi che lui aveva ordine di avisarne ciò che avevamo a fare. Io gli andai et li mostrai la letera di Vostra Altezza, dove che lui mi fece una bravatta, et con ragione, perché dovevo portarla prima a lui inanti che altri la vedesse; basta: io mi scusai dicendoli che Frittelino mi aveva fatto uno di suoi trati di comedia ». Una versione analoga dei fatti è riportata nella lettera di Alessandro da Rho a Vincenzo Gonzaga, da Torino, 25 dicembre 1605, in ASMN, Gonzaga, busta 734, 1 c.n.n. Cfr. Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 70, cit.: «Le dette lettere mi furono date a me in Roma alli 15 d’aprile incitca (come ne farà fede l’illustrissimo signor vescovo d'Alba), et vedend’io quelle esser scritte da Lelio a persone mie contrarie in tempo ch'egli trattava meco, non mi parve male l’aprirle, anzi tanto neccessario quanto Vostra Signoria so che comprende». È la storia del comico Aurelio (Aniello Testa) che alcuni volevano rapito da Frittellino ma
che i medici scoprirono appestato. Cfr. bi4., Martinelli, lett. 47 e 48, cit. L'espressione è in P. M. Cecchini, La Flaminia schiava cit., 1.1.4. Lettera di Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Milano, 28 agosto 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1751, cc. 876r-8777, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 78. Cfr. ibid., Andreini, lett. 43, cit. (Appendice, 1.2): «Perché venga Leandro (che Dio habbia in gloria) alla compagnia, chiede 50 ducatoni al povero suo padre, et egli alhora ne dà 20 alla mano, acciò che possa pagar la fattura d’un essercito d’Arlecchini dipinti, che, quasi tanti cannoni da batteria, haveva fatti gettare in Milano per condurli all’assalto de’ palazzi di Parigi». Che queste ‘tangenti’ o «mance», come si diceva allora, sulle transazioni teatrali, fossero abituali si può notare da altri segnali, ad esempio dalle giustificazioni che Scala deve dare circa i suoi comportamenti di capocomico: «Quanto più io raggiono con questi giovani, tanto
più vò vedendo che il signot duca mi à tagliato li panni adosso: la minima parola io essere un traditore de’ miei compagni, et che io ho auto da lui cento ducatoni in Firenze per la Lavinia, e mille altre infamità. E se io non mi risolvevo alla presenza de tutti far comfessare alla Lavinia la verità del fatto, il comico, qual è più dedito a credere il male che il bene, sicurissimamente mi teneva per reo; Dio laudato, mi son difeso con la inocenza mia, et loro ànno tocco con mano la verità» (lettera dello Scala a don Giovanni, da Milano, 1° maggio 1619, in ASF, 105 106
Mediceo, f. 5150, c. 5137, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 65). Cfr. ibid., Andreini, lett. 36, cit. Per questi episodi della vita di Gallotta si vedano le seguenti fonti: lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Parigi, 12 maggio 1621, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 33r-34v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 42; ibid., Cecchini, lett. 75 e 78, cit; ibid., Andreinîi, lett. 43,
cit. («Gallotta, perché si trova la moglie seco, per avanzar quella spesa sino a Parigi, si stabili-
Capitolo settimo
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sce volontario foriero agli alloggiamenti, onde gli osti facciano andar sovra prezzo la moglie»). 107
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Quale potesse essere questo potere discrezionale si capisce dal resoconto che Andreini (cfr. ibid., lett. 43, cit.) fa delle trattative con gli osti francesi e con l’attore reclutato in quella circostanza, anche se per la verità il capocomico accusa di irregolarità solo il Martinelli. Ma dalle accuse si capisce che la materia era delle più delicate e anche delle più lucrose, e si prestava a infiniti sotterfugi e irregolarità. P. M. Cecchini, La Flaminia schiava cit., 1.5.25-27. Ibid.,1.1.2-4. Ibid., II, 1.9. La fictio della mercatura duplica un riferimento biografico e professionale autentico. Frittellino con distacco autoironico si specchia nel personaggio messo in scena. Il mercante fallito è il doppio del capocomico. Frittellino scrittore e Frittellino attore sono le due parti di questo doppio: «FLAMINIA Orazio, non è egli gentiluomo? FRITTELLINO Signora sì, eve n’appare in molte scritture. FLAMINIA Ma che occorre dubitarne se nella frontelo porta scritto? FRITTELLINO È ancora scritto sul monte della pietà, e per ilibri di diversi Ebrei, che tuttitengono del suo pegno nelle mani. FLAMINIA E che? Non ha forsi danari? FRITTELLINO Le soverchie spese, e le poche entrate lo tengono asciutto, e svegliato della mente, e gli somministrano i più bei pensieri, che mai facesse accorto mercante fallito per sua disgrazia» (2:d., IL 1.4-9). Ibid., 1.7.7. Per l’identificazione degli attori cfr. la nota di Molinari 4id., p. 76. Ma cfr. anche l’allusione alla miseria delle paghe teatrali ibid., III.2.64: «Tacerò ancor che me lo pagaste [il silenzio] di quello, che pagate vengono quelle de’ comedianti». Ibid., IL 6.7-15 e M.ra. Ibid., 1.5.1. P. M. Cecchini, L'amico tradito, in Id., Le Commedie cit., Il.14.2. Lettera di Cecchini a Ercole Marliani, da Piacenza, 5 dicembre 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1383, 2 cc.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 82.
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Lettere del Cecchini ad Annibale Chieppio e Vincenzo Gonzaga, da Torino, del 22 novembre, 10 dicembre 1607 e 13 luglio 1609, rispettivamente in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 94re 98r, e Gonzaga, busta 735, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 23, 25, 28. Cfr. ibid., Fiorillo, lett. 15, cit. Ibid., Cecchini, lett. 60, cit. Cfr. ibid., lett. 30, cit. Cinica era la motivazione con cui Andreini si dichiarava disposto, pur di essere messo a capo di una tournée oltralpe, ad accettare una distribuzione inconsueta delle «parti» in compagnia, con uno zanni in soprannumero: « Ver è ch’a far una cosa ottima ci manca Arlecchino, come quello ch’è chiamato con particolari lettere di Sua Maestà cristianissima. Pertanto l’Eccellenza Sua il riceva, poiché si contenta di far tutto quello che vuol'Mezettino, essendosi nelle buone compagnie veduto et Arlecchino, e Burattino, e Francatrippa, e mill’altri cadenti, come Coli, Bagattini et simili; poi per ricever un utile come quello ch’alla compagnia s’appresenta non si dee guardar così al minuto, che pur si vede nella stessa compagnia di Sua Eccellenza tollerarsi 3 zanni e 2 fantesche, benché paiono i zanni ciascun per sé da l’altro diferente» (lettera di Andreini a don Giovanni dei Medici, da Ferrara, 29 gennaio 1619, in ASF, Mediceo, £. 5141, c. 763r-v, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 35). P. M, Cecchini, Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita cit., p. 29. Ibid., pp. 30-31. Lettera di Andreini a Ferdinando Gonzaga, da Torino, 13 agosto 1609, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 217-220, ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 10. Ibid., Cecchini, lett. 30, cit. Ibid., lett. 82. Ibid., lett. 32, cit.
Il pirata senza terra
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1? Sulla vedova reggente cfr. E. Galasso Calderara, La Granduchessa Maria Maddalena d'Austria, Sagep editrice, Genova 1985. 2* Lettera di Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Ferrara, 4 aprile 1621, in ASMN, Gonzaga, busta 1270, I c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 83: «Aurelio mi ha fatto partire di Mantova otto giorni prima ch'io non volevo, protestandomi che la mia negligenza ci farebbe rimanere senza la stanza di Venetia. Piglio barca a posta (non ce ne essendo d’altre), facio il servitio, spendo il mio, do sicurtà di andar per Pasqua». 1° Le recite per iVendramin cominciarono subito dopo l’Ottava di Pasqua del 1622 e durarono
due anni svolgendosi soprattutto nel periodo compreso fra San Martino e carnevale. Cfr. lettera di Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Venezia, 30 marzo 1622, in ASMN, Gonzaga, bu-
Sta 1554, C. 3427, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 85; ma cfr. anche N. Mangini, I teatri di Venezia cit., pp. 49-50. be Lettera di Cecchini a Carlo I Gonzaga Nevers, da Roma, 6 marzo 1632, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 119r, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 90.
31 Lettera di Cecchini a Ferdinando Gonzaga, da Piacenza, 14 novembre 1620, in ASMN, Gorzaga, busta 1383, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 81.
52 L’atto di obbedienza è :0:d., lett. 85, cit. Il duca aveva ricevuto la richiesta di essere padrino del piccolo Lorenzo (lettera di Francesco Battaino, residente mantovano a Venezia, a Ferdi-
nando Gonzaga, 13 marzo 1622, in ASMN, Autografi, busta 10, c. 2397). Da grande Lorenzo Cecchini fu a sua volta attore. A 14 anni era già nella compagnia di Scapino (cfr. supplica di Francesco Gabrielli alla Dogana di Firenze, 7 marzo 1635 5f [1636], in ASF, Dogana di Firen-
ze, £. 237, supplica n. 112). Su di lui si veda G. Checchi, Debiti e ricchezze di un attore cit. 53 «Promisi di scrivere a Vostra Signoria illustrissima alhor ch’io vedessi che Frittellino (al solito) facesse delle sue», è l’epigrafe ideale di questo sparso carteggio denigratorio: cfr. lettera di Andreini a un segretario ducale, da Cremona, 20 settembre 1626, in ASMN, Gonzaga, busta 1757, I c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Andreini, lett. 50.
34 Invecchiato l’adulterio, sarà l’irregolare concubinaggio tra Lelio e Lidia ad attirare le attenzioni di Cecchini: «Vi è una guerra continua tra lui et la Lidia non volendola più sposare (quantunque egli dormi con lei ogni notte) ch’io lascio giudicare a Vostra Signoria illustrissima come si vive, et se non foss’altro che il peccato continuo et il mal essempio, e come si può star bene? »; «essendo rimasto disgustato dalle buggie di Lelio et Lidia, i quali havendo datto ad intendere all’Altezza Sua (anzi all’Altezze delle serenissime) di essersi pigliati per marito et moglie con una finta cirimonia di un prete et non essendo ciò stato vero (ma vivendo nella medesima dissolutezza di prima, e peggio) »: cfr. lettere di Cecchini a un segretario mantovano, rispettivamente, da Verona e da Venezia, 28 giugno e 26 novembre 1633, ibid., Cecchini, lett. 91 e 93, cit. 13:VI Lettera di Cecchini a un segretario mantovano, da Venezia, 28 febbraio 1626, in ASMN, Gonzaga, busta 1557, 1 c.n.n., ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 87. 56 Lettera di Flaminio Scala a Ercole Marliani, da Venezia, 16 marzo 1624, in ASMN, Gonzaga,
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busta 1556, c. 2067, ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 103. Le altre lettere citate qui di seguito sono tutte indirizzate al Marliani, sempre da Venezia, rispettivamente in data 13 aprile, 9 maggio, 20 luglio 1624, e si trovano nella busta citata, alle cc. 2467, 2747, 338r. Vedile ora in Corrispondenze, I, Scala, lett. 104, 106, 109. Le risposte da Mantova registrano un progressivo ridimensionamento delle pretese di Scala: «Ho parlato al spadaro che deve sbarattare la casa e bottega perché ella possa venirvi ad habitare in conformità della volontà di Sua Altezza Serenissima, ma perché la casa è sua, e le pretensioni di lui sono gagliarde, non ho ancora potuto stabilire cosa alcuna»; «Ho ritrovato una bottega per Claudione [Scala], ch’è la seconda nel portico grande quando dalla Porta della Guardia si va verso Sant'Andrea; ben è vero ch’è alquanto picciola, non però tanto che se vi stava commodamente un merciaio, non vi possa anche habitare un profumiere. Ma in ogni caso per haverne una contigua uguale dove sta un cappellaro, essendo l’una separata dall'altra con una tramezina di legno solamente, si vedrà di proveder d’altro luogo il cappel-
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Capitolo settimo laro, così farà la stanza più capace per Claudione, al quale dimani con l’ordinario di Venezia darò di ciò raguaglio, avvertendolo che bisognerà che si provegga d’una casa per Mantova, poiché è impossibile trovar bottega in sito tale c’habbia insieme la casa congiunta, eccettuata quella dello spadaro»: cfr. le lettere di Alessandro Striggi, da Mantova, a Ferdinando Gonzaga (che si trovava all’epoca a Firenze), del 16 luglio e 13 agosto 1624, in ASMN, Gonzaga, busta 2766, pezzi 103-4 € 134-35.
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Lettera del Cecchini a un segretario mantovano, del 28 giugno 1633, ora in Corrispondenze, I, Cecchini, lett. 91, cit. Diamo qui di seguito, come un epilogo, la lista delle opere che accompagnarono la fine della nostra stagione, cominciando dagli anni dei fortunati successi francesi di Andreini e finendo poco dopo il 1630: I. Andreini, Fragmenti di alcune scritture raccolte da F. Andreini [...] date in luce da F. Scala, Combi, Venezia 1621; D. Bruni, Prologbi, s.i.t., Torino 1621; P. M. Cecchini, Brevi discorsi intorno alle comedie, comedianti et spettatori [...], Pinelli, Venezia 1621; S. Fiorillo, Li tre Capitani vanagloriosi comedia [...], Maccatano, Napoli 1621; G. B. Andreini, La centaura, Della Vigna, Paris 1622; Id., La Ferinda, Della Vigna, Paris 1622; Id., Azzor nello specchio, Della Vigna, Paris 1622; Id., La sultana, Della Vigna, Paris 1622; Id., Li duo Lelii simili, Della Vigna, Paris 1622; P.M. Cecchini, Lettere facete e morali [...] et alcuni brevi discorsi intorno le comedie, comedianti, e spettatori [...], Pinelli, Venezia 1622; G. B. Andreini, La Campanaccia, Salvadori, Venezia 1623?; Id., Le due comedie in comedia, Imberti, Venezia 1623; D. Bruni, Faziche comiche, Callemont, Paris 1623; S. Fiorillo, Li tre Capitani vanaglorio-
si comedia [...], Malatesta, Milano 1623; F. Andreini, Le bravure del Capitano Spavento ag-. giunta la seconda parte [...], Somasco, Venezia 1624‘; G. B. Andreini, Lelio bandito, Combi,
Venezia 1624; S. Fiorillo, La cortesia di Leone e di Ruggiero, con la morte di Rodomonte, suggetto cavato dall’Ariosto [...], Malatesta, Milano 1624; Id., La ghirlanda, egloga in napolitana e toscana lingua, Combi, Venezia 16249; Id., Il mondo conquistato, Malatesta, Milano 1624 (?); G. B. Andreini, Teatro celeste [...], Callemont, Paris [1625]; Id., La centaura, Imberti, Venezia 1625%; Id., Le due comedie in comedia, Imberti, Venezia 1625”; Id., Lo specchio, composizione sacra e poetica [...], Callemont, Paris 1625; Id., La ferza. Ragionamento secondo contra l’ac-
cuse date alla commedia, Callemont, Paris 1625; S. Fiorillo, L’amzor giusto, egloga pastorale in napolitana e toscana lingua, Beltrano, Napoli 1625‘; Id., L’Ariodante tradito e morte di Poli: nesso da Rinaldo paladino, Rossi, Pavia 1625 (2° ed.: 1627; 3° ed.: 1629); Trattato sopra l’arte comica cavato dall’opere di S. Tomaso e da altri santi, Pavoni, Genova 1627‘; G. B. Andreini, La Campanaccia, Salvadori, Venezia e Malatesta, Milano 1627 (4° ed. e 5° ed.); Id., La Maddalena, Leva, Praga 1628; N. Barbieri, Discorso famzigliare [...] intorno alle comedie moderne, dov’egli
dice la sua opinione, come fanno que’ virtuosi che scrivono o ragionano in publico et in privato di tal professione, Suzzi, Ferrara 1628 (altra ed. Pinelli, Venezia 1628); P. M. Cecchini, Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita, Guareschi, Padova 1628; N. Barbieri, L’inavertito, s.i.t., Torino 1629; P.M. Cecchini, La Flaminia schiava, Usso, Venezia 1629’; S. Fiorillo, La
Lucilla costante, con le ridicolose disfide e prodezze di Policinella, s.i.t., Pavia 1629; N. Barbieri, L’inavertito, overo Scappino disturbato e Mezzettino travagliato, Salvadori, Venezia 1630%; G. B. Andreini, I/ penitente alla Santissima Vergine del Rosario, Ferroni, Bologna 1633; Id., Le due comedie in comedia, Imberti, Venezia 1632); Id., La Rosella, tragicomedia boschereccia, Ferroni, Bologna 1632; Id., La centaura, Sonzonio, Venezia 1633}; P. M. Cecchini, L’4mico tradito, Bona, Venezia 1633; N. Barbieri, La supplica [...], Ginammi, Venezia 1634; S. Fiorillo, La Lucilla costante [...], Malatesta, Milano 1632”; N. Barbieri, La supplica [...], Mon-
ti, Bologna 1636°.
Personaggi ed episodi già ricostruiti nel corso del libro, vengono rievocati in questa sezione finale mediante la restituzione diretta di alcune fonti, senza contorni di conversazioni critiche, e con il solo uso
del montaggio. Nel primo caso è esposto il ritratto dell’attore corsaro: colui che dispone della patente che lo autorizza a taglieggiare i comici deboli, e che lo lascia libero di saccheggiare le altre piazze all'ombra della bandiera ducale. Il secondo gruppo di carte rappresenta il dialogo delle parti impresariali, comiche e cortigiane al momento della fondazione del Teatro di San Moisè a Venezia: la nascita del teatro vincolata a una compagnia, la concorrenza di un impresario e di un sovrano, la scrittura finale dei Confidenti. La terza stazione propone la lettera-manifesto con cui don Giovanni dei Medici descrive la dignità possibile del mestiere comico.
IL ARLECCHINO
CORSARO.
1. La patente ducale.
Sapendo noi l’informattioni che ha Tristano Martinelli cognominato Arlechino di tutti li comici mercenarii, zaratani, cantinbanco,
bagattiglieri, postiggiatori, et che mettono banchi per vender ogli, balotte, saponeti, historie et cose simili, lo elleggiamo per superiore ad essi in questo nostro stato et nell’altro anchora del Monferato. Sì che alcuno di loro, o solo o accompagnato, sia di che paese esser si voglia, non habbia ardire de recitare comedie, o cantar in banco vendendo
ballotti, far bagatelle, posteggiare in terra o metter banco senza licenza di detto Martinelli in scrito, né d’indi partirsi senza la medesima li-
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Appendice
cenza, sotto pena d'essere spogliati di ciò ch’avranno così comune come proprio, da essere diviso in tre parti, l’una de quali sia applicata al fisco nostro, l’altra al Magistrato, ove vogliamo che si faccia essecutione sommariamente et rimessa l’appellatione, et la terza parte ad esso superiore, al quale concediamo facoltà di dar le sudette licenze, havendo però havuto il consenso in voce da noi, et in assenza nostra da quel luogo dal Magistrato in scritto ov’'è Magistrato, et nell’altri luoghi dalli giusdicenti per noi deputati, potendo egli deputar uno o più luoghitenenti secondo il bisogno, et di più di poter tant’esso quanto li luoghitenenti confermar le licenze col sigillo del suo ufficio della maniera che qui abasso è inserto. Et per sua mercede vogliamo che egli possa conseguire dalli sudetti, cioè dalli comici che reciteranno comedie, una meza parte come s’usa fra loro, o mezo ducatone come a lui più piacerà, per ogni comedia che reciteranno, eccettuata la compagnia dei comici che ci serve di presente et ci servirà nell’avvenire, la quale non vogliamo che sia tenuta ad altro che a tenerlo in compagnia dandogli la sua parte intera. Dalli bagattiglieri quello che consentirà con essi; dalli zaratani, posteggiatori che vendono in terra, et da quelli che metono banco per vender ogli, balle, saponeti et simili cose come sopra, soldi sei per cadauno di loro et per ogni giorno che esercitaranno l’arte sua. Inoltre concediamo a esso Martinelli ch’egli possa riscuotere da tutti quelli che faranno festini in questa nostra città, dalle feste di Nattale per sino al primo giorno di Quadragesima, mezo scudo da sei lire da ogni capo di detti festini, con questo però, che egli habbia d’andare soprasedendo tutti i festini et procurare con ogni diligenza che non segui scandolo né disordine alcuno, et che siano osservati gli ordini che sopra ciò saranno posti, et occorendovi sia obligato a ragualiar il magnifico nostro colaterale delli inconvenienti che in ciò alla giornata si scopriranno, deputando esso a questo effetto quelle persone in suo aiuto che li paressero atte et oportune a tal bisognio, dandoli noi inoltre facoltà di poter fare un festino essente da ogni sorte di pagamento a chi si sia durante il sudetto tempo dal Nattale alla Quaresima, soggiacendo però nel resto anch'esso alli ordini nostri, comandando a tutti li ministri dell'uno et dell’altro stato, a’ quali respetivamente spetta, o vero aspettarà nell’avenire, che osservino et faciano osservare inviolabilmente queste nostre, le quali sa-
ranno firmate di nostra mano et sigillate del nostro maggior sigillo. Di Mantova li 29 aprile 1599. Decreto del duca di Mantova del 29 aprile 1599, in ASMN, Decreti, vol. 52, cc. 1441-1457; trascrizione di C. Burattelli.
Appendice
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2. La pirateria di Arlecchino raccontata dai suoi rivali. (...) Sappia adunque l’Altezza Vostra Serenissima che da quel punto che la compagnia terminò d’ubbidir all’Altezza Vostra con l’andare in Francia, fu ancora da quest’huomo tanto interessato tirraneggiata. Da Milano la promette taccito e soletto all’Altezza di Savoia s’a lui dona un cavallo, una collana et un vestimento, facendo credere alla
stessa Altezza che, ancorché la compagnia havesse imposizione di non passar da Torino, ch’a lui dava l’animo il condurla. Giunto a Torino picchia a ogni uscio, saglie ogni scala, fa tombole per ogni sala, mangia a ogni tavola, fa aprir ogni gabbinetto, spalanca ogni guardarobba, e pratico saccheggiatore rapisce se non si dona; e seminando il sale per ogni luogo, leva la speranza ad ogni povero compagno di beneficio alcuno. Hor dal minore al maggiore sagliendo, pensi l’Altezza Vostra Serenissima se tra cavalieri tanto fa, quanto poi far debba con l’Altezze, non ve ne lasciando alcuna d’intentata. Opera ch’alla stanza si reciti per havere tempo lungo di trafficare, perché in altro modo, per quattro o ver sei giorni stando in Torino per passaggio, non meritava triplicato il dono, né poteva scuoter le tignole dai vestimenti di que’ cavalieri, né poteva a molti di noi usurpare una catena d’oro; testimonio di ciò l’illustrissimo signor conte d’Agliè. Perché venga Leandro (che Dio habbia in gloria) alla compagnia, chiede 50 ducatoni al povero suo padre, et egli alhora ne dà 20 alla mano, acciò che possa pagar la fattura d’un essercito d’Arlecchini dipinti, che, quasi tanti cannoni da batteria, haveva fatti gettare in Milano per condurli all’assalto de’ palazzi di Parigi. Gallotta, perché si trova la moglie seco, per avanzar quella spesa sino a Parigi, si stabilisce volontario foriero agli alloggiamenti, onde li osti facciano andar sovra prezzo la moglie; et Arlecchino, inteso Ùutile, lo precorre, e togliendo questo beneficio a Gallotta dà l’investitura a un suo servitore, il quale, avvido al paro del suo signore, svaligiando ogni sera le mense di vetovaglia e di vino, empiendone sacchetti e boracchie, la mattina, senza attavolarsi, godeva delle notturne rapine per non ispendere. Giunto a Parigi, colà (credami pur l’Altezza Vostra Serenissima) non c’era pietra, né porta, né camino, che non sia stata segnata dal suo piede, picchiata dalla sua mano, e che sopra non vi sia un Arlecchino.
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Appendice
Anzi, rubbando agli occhi il sonno, il cibo alla bocca, la quiete agli an-
ni, e non dorme, e non si ciba; e la notte barbe tessendo, precursore
del gallo, se ne sta alle porte, immoto, accorto petardiero, per appiccar a un uscio d’una guardarobba il petardo d’un Arlecchino, e far lo scoppio e ’l guasto in un vestito profumato. Supplica costui Vostra Altezza Serenissima in Mantova che non si doni a que’ grandi da’ quali s’aspettano e catene e salario; e quand’è certo dell’ubbidienza altrui, di segreto cava una catena dalla regina
madre et una dalla regina regnante; taccio a Vostra Altezza il modo,
perché questo inchiostro non divenga vermiglio. Insomma costui qui ha vendemmiato e spigolato, poiché è suo costume di sveller le herbe da l’ultime radici; e quasi penna d’aquila, che posta fra ’l numero d’altre penne le dissecca, così lo stesso, posto fra la schiera de’ suoi compagni, ha per suo proprio d’impoverir tutti per arricchire sé solo. Sua Maestà cristianissima vuol la compagnia per un altro verno, et egli bugiardo dice ch’io l’ho proposta, et ingrato non ha voluto servir Sua Maestà. Non manca però il signor abbate Ruccellai d’imporli (pena la disgrazia di Vostra Altezza Serenissima e quella di Sua Maestà Cristianissima) che non parta sin al ritorno di Gallotta, et egli, sordo alle voci reali e cieco nel suo interesse, stabilisce tutto il contrario, e mendicando lettere ne vien corriero a Vostra Altezza serenissima.
Dal campo Sua Maestà torna a fargli scrivere che non parta; costui mostra renitenza grandissima. Alfin, posta la compagnia in istato di credenza di ubbidire, pigliato il giubileo, l’ultima sera della sua cena in queste parti m’invita commensale (novello Giuda per tradire), e poi la mattina, senza pur dirne addio, se ne fugge. Lascia però una lettera piena d’ipocrisia, dicendo: hor ch’è rinato, ha fatto voto di non far più commedie. E pur istuccicava noi di ritornar a Torino, et andar il carnovale a Vinezia, protestando i danni che in Mantova riceve, obliando, l’ingrato, l’utile da Vostra Altezza serenissima ministratoli, e di festini, e di ceratani, e del piatto, e delle tan-
te importune suppliche ch’alle Altezze Vostre appresenta, havendo egli solo trovato il moto pepetuo nell’inquietare. Alfine, serenissimo padrone, egli è poco buono, e che sia vero,
credendo che l’Altezza Vostra serenissima gli habbia a imporre che rimanga alla servitù, et egli soggiunge che, per non haver occasione d’ubbidir l’Altezza Vostra, non vuol aspettar Gallotta; et altra volta, dicendo d’aspettarlo, gioca con finte per venir poi alla stoccata resoluta
di questa fuga indegna, e cotanto da tutti i francesi biasimata, dicendo: «Hora che ha rubbato l’argento nella Francia, il traiter se ne fugge».
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Sempre fece così in queste parti; ruppe già la compagnia a Frittellino, recitando divisi, benché uniti il serenissimo suo signor padre (di gloriosa memoria) in Francia loro mandasse.
Sett’anni sono ruppe similmente la nostra compagnia, accioché più lungamente non istesse in questi paesi, conducendo seco il Dottore, il Capitano e la signora Lidia; et hoggi, seguitando questo fuggitivo costume, ha fatto l’istesso. Lasciando poi in disparte una infinità d’altre sue giunterie, più tosto ree di silenzio che degne di racconto, non rimarrò di raccontar questa ancora, cioè che per la fiera di San Germano, per esser sempre in fiera a chieder sempre, non volle recitare, dicendo che per la fiera e per lo freddo non si sarebbe fatto cosa alcuna. E perché la compagnia sa che, al contrario dell’api, egli porta il pungolo nella lingua, pungendo quando vuole e grandi e piccioli, supplica per tanto che Vostra Altezza li presti quella fede ch’un bugiardo mordace merita. Qua terminarei questa mia, scritta a voce popoli di tutta la compagnia. Ma in questo tempo l’agente di Vostra Altezza serenissima m’ha inviato un piego, nel quale ci sono lettere per il signore abbate, per lo stesso agente, per Arlecchino e per me, favorito da Vostra Altezza serenissima d’una sua. Ma che? Intempestivo è stato l’arrivo, poiché Arlecchino, che sempre si cavò i suoi gusti con i disgusti altrui, aspettando queste lettere disse di volersene fuggire per non ubbidire, e cosi ha fatto cinque giorni sono, essendo già partito, havendo lasciato detto fra compagni che Vostra Altezza gli crede ogni cosa, e che ha dalla sua la serenissima padrona, l’eccellentissimo principe et l’eccellentissima principessa, e che a tutte vie l’imbroglierà. Temerario parlare, pessimo operare. L’Altezza Vostra serenissima, subbito arrivato (piacendole), subbito ancora a sue spese l’invii, e così mortifichi un
temerario; o vero dal giustissimo giudizio di Vostra Altezza li sia dato quel castigo che merita un tanto ardimento. Né creda a lettere sue, poiché per haverle saprà poi quello che di indiretto haverà fatto; la certa è che il re è disgustatissimo. E qui, per mostrare che da tutti i compagni sono stato forzato a scrivere tutte queste accuse, tutti ancora saranno sottoscritti; e da
Nostro Signore augurandole il colmo d’ogni felicità, le m’inchino e finisco.
Di Parigi il dì 2 luglio 1621. Io Giovan Battista Andreini scrissi e sottoscrissi, dannando le spese tante che per Arlecchino fa questa povera compagnia, poiché non solo s'è mandato in Italia, ma al campo ancora due volte.
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Io Gierolamo Garavini affermo Io Giovanni Rivani affermo
— Nel tempo ch'io conosco Arlechino sempre lo conobbi interessatissimo e di danno a’ suoi compagni —. Io Fedrigo Rizzi detto Pantalon Io Et Io Io
Lorenzo Nituni affermo io Urania Liberati il simile Lidia Rotari affermo Florinda comica affermo
Lettera di G. B. Andreini al duca Ferdinando Gonzaga, da Parigi, 2 luglio 1621, in ASMN, Autografi, busta 10, cc. 351-387.
II. CARTEGGIO
DI UNA MERCATURA
TEATRALE.
1. Un teatro costruito per la compagnia. L’impresario
nell’imbarazzo. Illustrissimo signor mio signor osservandissimo, Sua Altezza mi comisse che dovessi far officio che la compagnia di Vittoria venisse a servirlo in questo carnevale, et col corriero li dissi che la Vittoria e Fabritio che deve essere suo marito, in compagnia del Capitano Mattamores si dimostravano pronti di servirlo, ma che li altri compagni restavano ancora perplessi per haver come datto parolla all’Illustrissimo signor Lorenzo Giustiniani, et dicono hora liberamente questo, di non poter venire, sì come quelli tre restano fermi di venire ogni volta che Sua Altezza habbi bisogno del opera loro, et Farina è quello che impedisce questo servitio, et riduce anco li altri a esser renitenti. Il signor Giustiniani con tutto ciò vedendo che questa scisma fra questi comici l’impedisse il suo dissegno, mi ha questa mattina pregato a voler far officio con Sua Altezza in suo nome, et supplica che li vogli far gratia di lasciarli questa compagnia, a parolle e promesse della quale è caduto in grossa spesa nel fabricarli una stanza con li suoi palchi, che riconoscerà questo sollavamento dalla mano di Sua Altezza dal quale se ben non è conosciuto, professa di haver come esso dice qualche merito, accenando di haver fatto la sua parte in Senato nelli suoi interessi. Io li ho promesso di far l’officio, et l’ho assicurato che Sua Altezza darà segno della stima che fa della sua perso-
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na, li cui meriti sono benissimo noti, se bene questi comici parte di lo-
ro li havevano datti parolla di servirlo, desiderandoli solamente per recreatione del popolo di Mantova, per allieviarli in parte delle fatiche fatte, et del spiacer patito in queste aversità (per levarli quel pensiero, et l'occasione di dire che Sua Altezza deve havere altro in testa che comedie in questi tampi tanto disastrosi) come pur haveva hieri
acennato a Fabritio, quasi rimproverandolo che in queste congionture aplicasse ancora l’animo a questi piaceri, molto sproportionati al stato presente nel qual si ritrova Sua Altezza che mi spiacque oltra modo a sentirlo, con tutto ciò questi signori nel parlare sonno molto liberi, e bisogna haver patientia, questo gentilhomo è di gran qualità e di casa, e di valore, e di parentado, poiché oltre che è scenatore di
Pregadi, et che camina a ogni ascendenza, è ristretto in parentado con la casa Cornara e Contarina, e Grimani, che tutte insieme asorbano
dua terzi del Pregadi, in modo che stimarei bene che Sua Altezza lo consolasse in questa dimanda, e tanto più volontieri quanto che non può havere di questa compagnia se non li tre personaggi detti di sopra, li quali restano inutili senza li altri compagni. Tutto ciò ho volsuto far sapere a Vostra Signoria Illustrissima acciò lo rapresenti a Sua Altezza la cui mente starò attendendo per poterla eseguire a pieno. . Fratanto bacio a Vostra Signoria Illustrissima le mani, et li auguro felicità. Di Venetia alli 16 decembre 1613. Di Vostra Signoria Illustrissima devotissimo servitor Camillo Sordi
Mi scordavo di dirli di più che questa compagnia è in debito di 2000 lire di queste al hoste del Salvatico, le quali quando anco si risolvessero di venirci bisognarebbe pagarli, e non havendoli loro, ne patirebbe la borsa di Sua Altezza, essendo costoro falliti in modo miserabile, che l’aiutarli importerebbe non puoco. Lettera di Camillo Sordi ad Annibale Iberti, da Venezia, 16 dicembre 1613, in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 2 cc.n.n.
2. La contesa fra duca e impresario.
Serenissimo signor signor colendissimo, ho parlato con Farina comediante, et avanti che lui me dica le sue raggioni l’ho fatto una bonissima passata con cominatione, il quale
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Appendice
m’ha detto esser pronto a venir a servir Vostra Altezza Serenissima quando però io faccia che il signor Giustiniano lo liberi dalla parola data già molto tempo. Io l’ho risposto che non voglio interpormi a far questo ufficio, et lho detto che se non si rissolverà a venir a servire l’Altezza Vostra Serenissima sarà da me trattato come merita un furfante par suo, et così lo lassiai che pensase a casi suoi, et mentre io havevo dato ordine di far effetuar il pensiero de Vostra Altezza Serenissima contro costui, fui sopra gionto dal signor Giustiniano, et signor Giulio Contarini pregandomi uno e l’altro con grande instanza a volere retardar ogni pensiero contra Farina et suoi compagni fin tanto che havessero fatto rapresentar a Vostra Altezza l’obligo de questi verso di lui, et il dispendio che lui resta quando questi partissero havendo sopra la sua parola fabricato certo luogo. Essendo questi due gentilhuomeni miei amicissimi et congionti non ho potuto far di meno de non darli questa poca satisfatione di ritardar quanto haveva disegnato contro Farina, fin tanto che haveranno con sue lettere rapresentato all’ Altezza Vostra Serenissima quanto l’ho detto di sopra, et quando essa non restasse satisfata m’avisi che non mancarò d’eseguir et contro Farina, et contro altri, quello me sarà da Vostra Altezza Se-
renissima imposto, che sarà per fine baciarli humilmente le mani agurandoli da Nostro Signore il bon capo d’anno con molti et felicissimi apresso. Di Venetia lì 28 decembre 1613. Di Vostra Altezza Serenissima humilissimo et devotissimo servitore Alvise Donato Lettera di Alvise Donato al duca di Mantova, da Venezia, 28 dicembre 1613, in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 1 c.n.n.
3-4. Gli attori obbediscono al duca. Uno è renitente. Serenissimo signor signor colendissimo,
ricevo quella di Vostra Altezza Serenissima dalla quale ho inteso il suo desiderio. Saranno però già capitati costì Matamores, Fabritio, et
Vitoria per servire Vostra Altezza. Farò ogni possibile aciò se ne ven-
ga Farina, et quando farà la solita resistenza non mancarò d’usare contra di lui quel termine che si conviene, et ne darò poi particolar
Appendice
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conto a Vostra Altezza Serenissima et racordandomeli al solito servitore le bacio humilmente le mani.
Di Venetia lì 4 gennaro 1613 Di Vostra Altezza Serenissima humilissimo et devotissimo servitore Alvise Donato
Serenissimo signor signor colendissimo,
il non haver dato aviso a Vostra Altezza Serenissima di quanto dopo il scritto habbia operato con quel forfante di Farina, non creda lAltezza Vostra che sia perché non habbi a core li suoi ordini, et comandamenti ma è avenuto perché questo s'è reterirato in casa delli signori Giustiniani, né più ho potuto parlarli, et va molto circonspetto, né si vede se non la sera in la comedia condoto da detti signori. L’ho però posto cani dietro all’orechie che al sicuro non andarà fuori carnevale, che costui sarà colto, et con castigo meritato alla sua rebaldaria. Intanto ho voluto avisar l’Altezza Vostra Serenissima aciò la sapia ch’io non manco d'esser vigilante alli suoi comandi come farò in cosa - di maggior momento, che sarà per fine baciarle humilmente le mani. Di Venetia lì 13 gennaro 1613. Di Vostra Altezza Serenissima humilissimo et devotissimo servitore Alvise Donado Lettere di Alvise Donato al duca di Mantova, da Venezia, 4 e 13 gennaio 1613 mv [1614], in ASMN, Gonzaga, busta 1545, 2 cc.n.n.
5. L’impresario sul mercato.
Molto illustre signor mio osservandissimo, all’illustrissimo signor Lorenzo Giustiniani occorre un favore che
son securissimo che lei che le professa molti oblighi non mancarà di mettere ogni spirito per farli ottenere il suo desiderio. È stato fatto un teatro in questa città per recitar comedie migliori, più commodo et ornato di quello che Vostra Signoria sa che è a San Cassano, et è stato raccomandato alla protettione di Sua Signoria Illustrissima. Hora, havendo questo anno havuto concorso pienissimo, per l’anno venturo desidera la compagnia che si dice esser hoggi costà, che è di Batti-
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sta Austoni, sua moglie, Ortensio, Marc'Antonio Romagnese, Ful-
vietto e tutto il resto. Et se non havessero le parti ridicole egli ne offerisce due bonissime, che sono Farina e Cortellaccio. Di utile offerisce vantaggiar quella academia a l’utile che hanno dal teatro di San Cassano, che ciascuno di loro sa che in questa città si avanza più che altrove. Et se essi vorranno questo luogo per tre o quattro anni et più
Sua Signoria Illustrissima glene concederà. Hora io prego Vostra Signoria caldissimamente oprarsi con il suo valore perché sia servito questo Illustrissimo Signore, il quale so che ama Vostra Signoria particolarmente; et se vi occorresse il favore dell’Eccellentissimo Signor suo e degl’Eccellentissimi principi ve l’adopri, acciò si consegua questo intento. Io ho scritto di questo al Signor Ottavio Rinuccini, a Signor Nero mio germano; però si ricerca il potente aiuto di Vostra Signoria, securissimo che lei farà riuscir questo negotio compitamente. Io devo andare governator in Candia hora; però la sarà contenta lei medesima scrivere a l’Illustrissimo Signor Lorenzo Giustiniano a San Moisè et informarlo et raguagliarlo alla speranza che potrà havere. Et se occorresse il favor del Signor residente veneto Vostra Signoria ne tratti anco seco, perché tiene ordine di adoprarsi sopra ciò. Et io, vivendoli il solito servitore la prego a conservarmi suo, a degnarsi di comandarmi, et le bacio le mani. Di Venetia, 18 gennaio 1613.
Di Vostra Signoria molto illustre obligatissimo servitore Oratio dal Monte Lettera di Orazio del Monte a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 18 gennaio 1613 720 [1614], in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. 1051-v.
6. Bozza di contratto per la nuova compagnia. Molto illustre signor mio osservandissimo,
io non ho parole che possino bastar per esprimere l’obligo che io devo a Vostra Signoria per l’affezione et diligenza colla quale l’adopera con cotesti Signori comici di Lucca in mio servizio. Basta; ché se mi presenterà occasione colla quale io possi con effetti comprobarli l’ottima disposizione della mia volontà non la lascierò cadere al sicuro. Nel resto poi, acciò possino li comici venir allegramente, potrà Vostra Signoria molto Illustre dir loro che io li avantaggierò assai da quello che hanno quelli che qui recitano in San Cassano, poiché darò loro il loco libero, li darò l’utile delle sedie et scagni, et delli palchi farò loro
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quella porzione che sarà giudicata ragguardevole, assicurando Vostra Signoria che vorrò che in ogni modo restino sodisfatti, sendo in questo negozio il mio oggetto non tanto il guadagno, quanto il gusto. Ben vorrei, sapere se vorrano in loro compagnia Farina et Cortellazzo, ac-
ciò possi o tenerli o licenziarli, perché è in mano mia il fare o l’[uno] o l’altro, o si anco vorrano un solo di loro, che è quanto posso dire a Vostra Signoria in risposta delle sue humanissime lettere, et li bacio la
mano. Di Venezia, a 8 febbraio 1613.
Di Vostra Signoria molto illustre servitore obbligatissimo Lorenzo Giustiniano
Saprei volentieri se essi haverano volontà di servire anco questo carnovale venturo. Lettera di Lorenzo Giustiniani a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 8 febbraio 1613 720 [1614], in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. mor.
7-8. Il perdono. Ringraziamenti. Serenissimo signore.
Il signor Giustignano per servir Vostra Altezza Serenissima m’ha dato parola di perdono contro tutti quelli che si partirono di qua, e che possino a suo beneplacito tornarsene qui, o altrove, dove a lloro tornerà più comodo, senza dubio d’esser molestati da lui; m’ha ben detto che desiderarebe che Giovanni Farina non fusse levato de qua questa quadragessima, ma che quando così sia la volontà di Vostra Altezza Serenissima, che sarà pronto a far quanto la comandarà. E questo è quello ch’ho operato per il comando di Vostra Altezza Serenissima, come farò in ogni altra occasione che si valerà dell’opera mia, che sarà il fine de baciarle humilmente le mani. Di Venetia, lì 8 febraro 1613. Di Vostra Altezza Serenissima humilissimo e devotissimo servitore Alvise Donato Lettera di Alvise Donato al duca di Mantova, da Venezia, 8 febbraio 1613 720 [1614], in ASMN, Gonzaga, busta 1545, I c.n.n.
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Molto illustre signor mio osservandissimo,
io non intendo di pagar con parole grazia che supera et il mio merito, et il mio credere, ma dirò bene che, come io conosco non haver
altro merito con Vostra Signoria molto Illustre che di buona volontà, così procurerò di meritare per l’avenire con gli effetti se ella, che è così pronta in favorirmi, mi darà anco occasione, non voglio dire di disobligarmi, ma di consolar me stesso impiegandomi in suo servizio. Io se sto contentissimo et sodisfatissimo che li comici Confidenti si trattenghino questa estate ove lor pit piace, anzi, che offerirò loro et Farina et Cortellazzo et la Bernetta, quando ne habbino bisogno, che
sono hoggidî stimate le maggiori et le migliori mascare che venghino in scena. Nel resto poi se veniranno questi, come ella mi scrive, procurarò che restino sodisfatti (...).
Di Venezia, a 15 febbraio 1613.
Di Vostra Signoria molto illustre
Aspetto li comici con gran desiderio et Vostra Signoria li mandi pure et li fermi per il principio di novembre fin tutto carnovale, ché qui procurarò che restino sodisfatti. Ho scritto in fretta, mi iscusi della confusione. Servitore affezionatissimo Lorenzo Giustiniano Lettera di Lorenzo Giustiniani a Cosimo Baroncelli, da Venezia, 15 febbraio 1613 720 [1614], in ASF, Carte Alessandri, £. 7, c. 109r-v.
III. IL
«MANIFESTO » DI DON
GIOVANNI.
Illustre signor, (...) In quanto però appartiene alla compagnia de’ Confidenti, che sta ancora sotto la mia protezzione, essendosi unitissimamente rista-
bilita, nella quale ancor egli si ritrova, et che quanto a altri comici che Sua Altezza fa trattenere costì, soggiunsigli che non vedevo quello che egli vi havesse che fare, et dissigli di più che mi maravigliavo che, essendo egli informatissimo della rissolutissima volontà et stabilimento de’ compagni, pensasse a venir costà con le mani piene di vento. Et soggiugnendomi egli che si muoveva per ubbidire, io gli repli-
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cai che, già che egli sapeva non poter servire a cosa alcuna nel concertato seco con Sua Altezza, che mi pareva prima di dovere io scrivere a Vostra Signoria quanto passava, acciò egli non facesse un viaggio a
sproposito, et così lo fermai di testa. Dico adunque a Vostra Signoria che, al ritorno di Monferrato del detto Scala con la lettera di Sua Altezza Serenissima, io risposi all’Altezza Sua, come ella può sapere, che per all’hora haverebbe la compagnia satisfatto all'obbligo che haveva qui in Venezia, e che poi a quaresima harei procurato, per quanto potevo, di servire all’Altezza Sua. Et in vero credetti poterlo fare, perché vedevo quasi tutti alborottati et con molte difficultà nel mantenersi uniti, come è solito de’ commedianti, et io gli lasciavo (come si
dice) cuocer nel loro grasso; ma è venuta la quaresima che le minestre son più magre, quando l’uno e quando l’altro cominciorno a venirmi a rompere gli orechi, ma tutti a una non domandavano se non « Unione, unione! » Ét poi tutti insieme non una volta, ma ben quattro, mi son venuti a dire et protestare che ressolutissimamente non si volevon disunir di sieme, et havendogli io più volte detto et ridetto che non mi volevo impiacciare di questo affare, ma che gli farei sapere quanto mi pareva bene per utile loro et il mio desiderio, mi tornorno tutti a dire con humilissime preghiere di non gli abbandonare, ché erono rissolutissimi di non si voler disunire, né separare in modo alcuno, et che però in tal modo io gli comandasse, che erano prontissimi ad ubbidire,
ma altrimenti più tosto harebbono eletto di andare dispersi, perché vedevono la loro manifesta rovina mentre si disunissero, et dovendo
rovinare col dividersi, più tosto harebbono eletto di fare ogni vil mestiero che più recitare; e tutto hanno fondato, secondo me, sul vedere il buon guadagno che hanno fatto questo anno. Io, signor Hercole mio, per parlar con Vostra Signoria alla libera, vedendo in quel che consiste e da quel che depende la loro risoluzione, non ho saputo, né anche voluto (per dire il vero) fargli forza, perché come povero cavaliero di spada et cappa non ho il modo a dare a ciascun di loro cinquecento scudi per ciascuno, il vitto e ’lvestire per loro e per le loro famiglie per tutto l’anno, come ognuno di loro quest'anno s'è guadagnato, che prima che scriverlo, creda pur Vostra Signoria che l’ho voluto molto ben vedere e toccar con mano. Et per vita sua, la prego a dirmi, come potevo io dire: «Tu hai da andare, tu hai da restare. Tu che se’ primo diventar secondo», et fra huomini dove è libertà et compagnia persuadere per accettabile la superiorità et la suggezzione? Che carità christiana harei hauta verso questi poveri huomini et loro famiglie? Che atto di cortesia o di gratitudine harei io dimostrato a costoro, che per sette anni continui mi hanno obbedito al cenno, se io gli havessi
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rovinati et sprofondati come loro tengano d’essere quando saranno disuniti? Signor mio, son povero sì, ma son generoso et, confesso il
vero, son persona dolce, né so far male a chi mi riverisce. Vostra Signoria sa che il mondo si governa con l’opinione. Questi poveri huomini pensano col disunirsi di rovinarsi: onde io, per le ragioni dette, non ho saputo trovar parole da principiare non che da persuaderglielo. Però gli ho risposto che faccin bene, che io gli aiuterò sempre, e così li ho licenziati. Mi son ben fatto promettere da ciascuno in particolare che sempre che per qualsivoglia accidente si disunischino, ognuno di loro farà quel ch'io vorrò. Vostra Signoria vede ch'io non ho lasciato di fare quel che potevo, ma, visto che non bastava per complire a quel che harebbe voluto Sua Altezza, ho fatto alla cortigiana, et più tosto volevo tacermi che scriver cosa di poco gusto. Nondimeno, perché la lettera di Vostra Signoria presupponeva le cose in altro stato, ho giudicato bene dargliene parte acciò Sua Altezza ne resti informata, confidando che la distrezza di Vostra Signoria gliene porgerà in quella maniera che è proporzionata al sommo desiderio che ho sempre di servire a Sua Altezza in ogni cosa. Io, che conosco i nobilissimi concetti dell’Altezza Sua et la sua molta prudenza, non ho creduto veramente ch’egli habbia a voler premere tanto in questo negozio ch’egli habbia a volere mandare spersi questi poveri huomini senza suo servizio particolare, perché credami Vostra Signoria che questi, separati, non darebbono né in ciel né in terra, anzi che Sua Altezza manderebbe in Francia la torre di Babel e non una compagnia de comici, se disunendo questi gli mescolassi con altri. Troppo dolce suona negli orecchi il nome della libertà, et etiam gli animali vivuti qualche poco insieme non si sanno dividere quando si viene all’atto et al fatto. Sono, signor mio, notissimi et conosciuti i Lelii, le Florinde,
le Flamminie, i Frittollini et gli Arlichini, tutti huomini desiderosissimi et ambiziosi di dominio et d’imperio, talché questi poveri huomini, usi a una fratellanza fra di loro, ma si ridurrebbon con essi in una servitù pacifica et quieta, et quegli altri mai si divezzerebbono dal voler dominare et comandare, perché ci son troppo usi et hanno rotte troppe scarpe in quel mestiero. Et io gli ho per scusati, perché ancor io più volentieri ho comandato che ubbidito, et questo è desiderio innato in ciascun huomo et però ardisco di dire immutabile, anzi che
sempre cresce con gli anni. Però creda Vostra Signoria che io stimo che sia servizio di Sua Altezza che di questo negozio non se ne tratti, perché non è proporzionato alla sua grandezza che quattro commedianti si allontanino dal suo gusto et che, lasciando in parte il dovuto rispetto, non stiano mai d’accordo insieme, come al certo non stareb-
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bon questi, et tanto meno in Francia nel teatro di sì gran corte; e Vostra Signoria tenga per certo che io non mi inganno, perché mi ricor-
do degli esempi de’ casi seguiti al tempo della felice memoria dell’ Altezza del Signor duca Vincenzo, padre dell’ Altezza Sua. Insomma, signor Marliani, il dominio delle volontà non è cosa terrena, né da lontano si posson rimediare gli inconvenienti. Non voglio anche tacere a Vostra Signoria un mio pensiero: che io tengo per sicurissimo che la prudenza di Sua Altezza conosca tutte queste cose molto meglio di me, ma che l’importunità di tutti cotesti comici di cotesta compagnia trattenuti costì gli faccia per stracco dare orecchie et dar qualche ordine in queste materie. Nel qual caso poi, per dirgliela confidentemente, io non mi curo punto di rompere una compagnia che depende da me per dar gusto a commedianti che per invidia hanno concertato et vorrebbono urtarla, cozzarla et disfarla. La compagnia de’ Confidenti invero (se ben cotesti et altri la disprezzavano) ha gran fama
et per tutto hoggi è stimata più d’ogn’altra, onde il romperla sarrebbe proprio (come si suol dire) quasi peccato, e tanto pit senza cavarne il profitto che forse si spera. Sono stato lungo, ma era necessario parlar chiaro et senza maschera, se ben si tratta de commedianti,
perché non siamo in commedia et io dico da buon senno. Se adunque lo Scala non viene, Vostra Signoria scusi me et non lui, perché egli, come buona persona, veniva a toccare un nasata, et io, che hoggi mai ho la barba più bianca che nera, ho stimato che sia meglio così et rimetter tutto.nella prudenza di Vostra Signoria, che saprà con la conveniente circuspezzione et riverenza ritenere alquanto con dolcezza certi impeti vivaci soliti a regnare nelle menti de’ gran principi, che dai buon servitori devon esser desiderati quieti et conforme all’honesto. Qui fo fine, se bene harei dovuto farlo molto prima, ma la verità et il desiderio che tutto passi con flemma e con gusto mi ha fatto arrivar fin a questo segno et terminare hora, col baciar la mano a Vostra Signoria et ricordarmegli desiderosissimo di servirla. Di Venezia, a 21 marzo 1620.
Di Vostra Signoria Illustre
Dopo haver dettato quanto fin qui ho scritto a Vostra Signoria, mi è parso di soggiugnerle da me proprio queste quattro righe pregandola caramente a vedere che questo negozio pigli la fine che al sicuro è la più honesta et la più ragionevole, cioè di lassare godere a questi poveri Confidenti quella libertà che pare che conceda Iddio benedetto a tutti quelli che non nascano sudditi; ché certo sarà di somma lode il non violentare le volontà, ché, per dirla alla libera, non si uniranno
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Appendice
mai di buon core con cotesti comici di costà, et il farglielo fare per tema non mi pare (et sia detto reverentemente) cosa da chi ha con simil
gente tanta sproporzione, oltre che niuna cosa fatta per forza ha mai il fine che si presuppone, et io ne resterò ancora, certo, con obligo a Vostra Signoria et maggiore dove si conviene. Et di nuovo mi ricordo affezionatissimo et per servire a Vostra Signoria Don Giovanni Medici Lettera di don Giovanni dei Medici a Ercole Marliani, da Venezia, 21 marzo 1620, in ASMN, Gonzaga, busta 1552, 2 cc.n.n.
Indice dei nomi e dei luoghi
capri
go
Abruzzo, xIx.
Accolti, Francesco, 182 n. Agevedo, Pedro Enriquez de, 309 n. Ademollo, Alessandro, 268 n. Agliè, Filippo, conte d’, 325. Agucchia, Giovan Paolo, 182 n, 31 n. Aikema, Bernard, 87 n. Alba, vescovo d’, 317 n. Albano, Claudio, 194. Albino, Pasquale; 86 n. Albizi, Eleonora degli, 137. Alcalà de Henares, 59, 60: corral, 59, 60, 83 n. Albodrandini, Pietro, 180 n. Aleotti, Giovan Battista, 43 n. Alessandro I, duca di Mirandola, 45 n. Alfonso II, duca d’Este, 98-101, 129 n. Alfonso III, duca d’Este, 45 n, 127 n, 162, 187 n. Allacci, Leone, 85 n, 216 n. Allegra, Luciano, 34 n. Allegri, Marco, xxvI n. Allegrini, Francesco, 179 n. Allen, JohnJ., 82 n. Allori, Alessandro, 180 n, 267 n. Allori, Cristofano, 243, 245, 267 n. Alpi, 17, 39 n, 206, 296. Amedeo di Savoia, vedi Vittorio Amedeo I, duca di Savoia. Amsterdam, 75-77: teatro, 76.
Ancre, maresciallo d’, vedi Concini, Concino. Andreasi, Ippolito, 128 n. Andreini, famiglia, 79, 198, 217 n, 218 n, 244, 249-51, 253, 269 n, 271 n, 284, 286, 287.
Andreini, Caterina, 313 n.
Andreini, Domenico, 269 n, 313 n. Andreini, Francesco, XIX, XXI, XXVI n, XXVII N, 9; 2I, 23, 30, 43 n, 66, 102-4, 115, 118, 122, 130
n, 134,135 n, 174, 182 n, 199, 203, 218 n, 230, 233, 236, 244, 247-52, 260, 265 n, 271 N, 277, 282, 286, 307, 312 N, 320 N.
Andreini, Giacinto, 313 n. Andreini, Giovan Battista, xIX-XXI, XXIII, XXVI n, 9, 29, 35N-370,39N, 4I N, 42 N, 44N-47
n, 49 n, 66, 105, I13, II5, 17-21, 125 N - 127 N, 129 N, 13I N, 133 N- 135 n, 150, 158, 168, 172, 174, 177; 178, 189 n, 190 n, 196-99, 20I-7, 210, 212-I4, 217 N - 22I N, 223-73, 274-79, 282-87,
290-92, 296, 297, 299, 301, 303, 305, 306, 308, 309 n - 3Ir n, 313 N - 3I5 N, 3I7 Nn-320N,
327; 328.
Andreini, Isabella, xIX, XXI, xxVI n, XXVII n, 9, 66,104, 118, 129 n, 215 n, 218 n, 230, 248, 250,
251, 260, 265 n, 270 n, 271 n, 320 n.
Andreini, Lavinia, 269 n, 313 n. Andreini, Pietro Paolo, 217 N, 313 n. Andreini, Virginio, 313 n. Andreini Ramponi, Virginia, xVIII, xXx, XXI, XXIII, 36 n, 38 n, 45 n, 66, 105, 113, 18, 134 n, 150, 158,183 n, 202, 206, 207, 218 n, 219 n, 22I
n, 226, 228, 230, 233, 234, 236-38, 240-46, 253-58, 264 n, 266 n - 268 n, 271 n, 272 n,
275, 283, 309 n, 311 n, 328.
Andreucci, Ottavio, 271 n.
Angeloni, Filippo, 40 n. Anstett-Janssen, Marga, 269 n. Antonazzoni, Francesco, 35 n, 38 n, 48 n, 90,
121-23,124 N, 130 N, 135 N, 136 n, 144, 148, I5I, 152, 165, 172, 175, 182 n, 184 n, 189 n, 190 n,
268 n, 293, 315 n, 316 n, 332. Antonazzoni, Marina Dorotea, 48 n, 121-23, 124 N, 130 N, 135 N, 136 n, 144, 151-55, 165, 172, 173, 175, 176, 182 n, 184 n, 189 n, 268 n, 275,
293, 297; 315 N - 317 N.
Antonino, santo, 198. Aosta, 15, 16.
Apollonio, Mario, xxvII n. Appennini, 6, 7. Aragona, Isabella d’, duchessa di Milano, vedi Isabella d'Aragona. Arcaini, Roberta Giovanna, 37 n, 87 n, 127 n. Arezzo, 271 n. Aristotele, 212.
342
Indice dei nomi e dei luoghi
Arlecchino, vedi Martinelli, Tristano. Arno, 7.
Asburgo, dinastia, 138, 165. Asburgo, Massimiliano d’, vedi Massimiliano
d’Asburgo. Asburgo, Mattia d’, imperatore, vedi Mattia
d'Asburgo. Asburgo, Rodolfo II d’, imperatore, vedi Rodolfo II d'Asburgo. Ascari, Tiziano, 43 n. Askew, Pamela, 269 n. Assandri, Bartolomeo, 76, 87 n. Aston, Trevor, xxVI n. Atlantico, 23. Augusta, 179 n, 181 n. Aurelio, vedi Testa, Aniello. Austoni, Giovan Battista, 35 n, 90, 124 n, 4I,
143-51, 153, 174, 182 n - 184 n, 294, 332.
Austoni Antonazzoni, Salomè, 35 n, 90, 124 N,
I4I, 143, 144, 147, 150-53, 184 N, 332.
Avagnina, Maria E., 81 n.
Avalle, D’Arco Silvio, 219 n, 221 n.
Baschet, Armand, 84 n, 134 n, 182 n, 189 n, I9I, 214 N, 215 N, 217 N, 2I9N- 22I N. Basilea, Simone, 171. Bassompierre, Frangois de, 1, 266 n. Battaino, Francesco, 187 n, 319 n.
Battaleoni, Cristoforo, 220 n. Battistella, Antonio, 178 n. Battistino, vedi Austoni, Giovan Battista. Beacian, Fabrizio, 313 n.
Beccaria, Alessandro, 38 n. Bedmar, Alonso de la Cueva y Benavides, marchese di, 164. Beijer, Agne, 214 n. Belando, Vincenzo, 201, 215 n, 217 n.
Belgrano, Luigi T., 37 n, 38 n. Bellegarde, Roger de Saint-Lary, duca di, 39 n, IM, 193, 200, 215 N. Belli, Giovan Maria Pietro, 250.
Belloni, Lelio, 45 n, 264 n. Beltrame, vedi Barbieri, Nicolò. Bentivogli, Prospero, 166. Bentivoglio, Enzo, marchese di Gualtieri, 37 n, 38 n, 43 n, 45 n, 46 n, 11, 127 N, 129 N, 133
Babelon, Jean-Pierre, 83 n. Bacci, Peleo, 124 n, 180 n. Bachino, Giovan Maria, 300. Bachino, Silvia, 300. Baglione, Giovanni, 180 n. Balbi, famiglia, 18, 79, 162, 163. Balbi, Pantaleo, 38 n, 40 n, 150, 162, 163, 184 n, 187 n.
Baldina, vedi Rotari Andreini, Virginia. Baldini, Vittorio, 195, 216 n, 217 n. Ballesteros, Juan S., 82 n. Bandello, Matteo, 199. Barbarigo, Agostino, 79. Barbieri, Nicolò, xxIv, xxv, xxvIm n, 11, 14-16,
23, 24, 35 D; 37 N, 38 n, 40 N, 4I N, 44 DI, 53, 130 N, 134 N, 135 N, 150, 158-60, 162, 172, 177,
178, 182 n, 184 n, 186 n, 187 n, 189 n, 196-99,
212, 216 n, 217 n, 221 n, 223, 226, 230, 233, 266 n, 277, 288, 308, 309 n, 320 n.
Barbolani dei conti di Montauto, Francesco di Federico, 126 n, 127 n. Barcellona, 71, 74, 75, 86 n. Bardi, Andrea, 216 n, 218 n, 269 n.
Baroncelli, Cosimo, 35 n, 40 n, 48 n, 89, 90,124 n - 128 N, 133 N, 134 N, 140-43, 145, 149, 153,
154, 156, 157, 160, 162-64, 180 n - 189 n, 292,
313 N, 316 n, 332-34.
Barozzi, Nicolò, xxvI n. Bartoli, Francesco, 133 n, 184 n, 186 n, 267 n,
270 n. Bartolini, Lodovico, 312 n.
Baruffaldi, Girolamo jr, 195.
n, 292, 310 n, 3I5 n. Bentley, Gerald E., 82 n. Benzoni, Gino, 125 n. Berchet, Giovanni, xxvI n. Bergamo, 194. Bernetta, vedi Liberati, Urania. Bertani, Giovan Battista, 128 n. Bertazzolo, Gabriele, 132 n, 218 n.
Bertelli, Sergio, 84 n. Berti, Luciano, 180 n. Bertinoli, famiglia, 166. Bertolotti, Antonio, 40 n, 182 n. Bevilacqua, Bonifacio, 162.
Bevilacqua, Enrico, 267 n. Bianchi, Eularia de’, 186 n. Biffoli, Francesco, 48 n, 70, 71, 85 n, 104, 126 n,
130 n, 132 n. Bigarello, 220 n, 286, 306, 313 n. Blanis, Benedetto, 140, 141, 181 n. Blumenthal, Arthur R:, 132 n, 268 n. Boccaccio, Giovanni, 199.
Boesch Gajano, Sofia, 273 n. Bologna, 4 6-8, 31, 35 N - 40 N, 42 N, 45 N, 105,
IM-13, 125 N, 127 N, 130 N, 132 N - 134 N, 148, 162, 182 n, 184 n, 186 n, 188 n, 219 n - 221 N,
258, 289, 290, 293, 309 n, 31 n, 313 N, 3I5 N, 316 n.
Bono, Salvatore, 44 n, 186 n. Bonvisi, famiglia, 215 n. Bonvisi, Stefano, 185 n.
Borghese, cardinale, 313 n. Borgia, Luigi, 271 n. Borgogni, Gherardo, 194, 199, 215 n.
Indice dei nomi e dei luoghi Borromeo, Carlo, santo, 13, 134 n. Borromeo, Giovan Battista, 194. Borromeo, Pirro Visconte, 36 n, 126 n, 133 n. Borsi, Franco, 124.n, 180 n.
Boston, 270 n. Bourges, 189 n. Boussu, Marie de, 217 n. Bragadin, Antonio, 36 n, 41 n, 42 n, 46 n. Branca, Vittore, 87 n.
Braudel, Fernand, 42 n - 44 n, 87 n. Brescia, 36 n, 37 n; 44 n, 47 n, 3I5 n. Briccio, Giovanni, xxVI n.
Brunelleschi, Filippo, x1. Bruni, Domenico, 18, 19, 35 n - 37 n, 39 n, 41n, 42 D, 90, 120, I24 N, 134 N - 136 N, 144, 148,
150; 158, 172, 175,182 n, 184 n, 188 n-190 n,
197, 216 N, 317 N, 320 N, 332. Brusantini, Paolo, 129 n. Bruxelles, 75, 77. Buonarroti, Michelangelo, 264 n. Buono, Francesco, 181 n.
Buonomo, Ambrogio, 35 n, 36 n, 73, 74, 85 n, 86 n.
Buontalenti, Bernardo, 69, 70, 138, 139; 143, 180 n.
Burattelli, Claudia, xxvI n, 34 n, 38 n, 48 n, 84 n, 128 n, 132 n, 189 n, 269 n, 271 n, 309 n,
314 n, 316 n, 324.
Burbage, James, 59, 82 n. Caccini, Giovanni Battista, 180 n. Caetani, Bonifacio, 48 n, 310 n.
Caietano, cardinale, 198. Calabi, Donatella, 81 n, 87 n. Calcese, Andrea, 74, 86 n.
Calcese, Francesco, 35 n. Calcese, Vincenzo, 35 n. Calegari, Antonio, 132 n, 186 n. Callot, Jacques, 138. Calmo, Andrea, 197, 199. Calogerà, Angelo, 216 n. Calore, Marina, 127 n. Ca’ Mandraghi, 286. Camerano, Federico Asinari, conte di, 194,
199, 200, 215 N. Campeggi, Girolamo, 310 n. Camporesi, Piero; 42 n, 80 n, 181 n, 220 n, 22I
n, 314 n.
Candia, 332. Canigiani, Bernardo, 40 n, 102. Canossa, Giovan Tommaso, 36 n. Cantini, Lorenzo, 84 n.
Capaldo, Giulio, 86 n. Capece, Vincenzo, 35 n, 73; 74, 86 n, 218 n, 291,
293, 294, 305.
343
Capitan Matamoros, vedi Fiorillo, Silvio. Capitan Spavento, vedi Andreini, Francesco. Capo d’Orlando, 15. Cappello, Bianca, duchessa, 166. Capponi, Francesco, 36 n, 41 n. Capponi, Luigi, 38 n, 113, 132 n, 133 n, 162, 188
n, 293. Caracciolo, Alberto, 87 n. Carlo d'Austria di Borgau, 181 n. Carlo Emanuele I, duca di Savoia, 45 n, 110,
145, 164, 309 N, 313 n, 325.
Carlo I Gonzaga-Nevers, duca di Mantova e del Monferrato, 40 n, 131 n, 201, 218 n, 315 n, I9 n. Carlo II Gonzaga-Nevers, duca di Mantova e del Monferrato, 268 n. Carmona, Michel, 134 n. Carnevale, Francesco, 181 n. Carpaccio, Vittore, xxXVI n.
Carpani, Roberta, 37 n. Carpeggiani, Paolo, 37 n, 128 n, 132 n.
Carpi, 300. Carpiani, Marc’Antonio, 46 n. Carpiano, Orazio, 106.
Carunchio, Tancredi, 81 n. Casale Monferrato, 7, 39 n, 40 n, 128 n, 164, 166, 218 n.
Casalini, Eugenio, 271 n. Casal Maggiore, 16. Cascetta, Anna Maria, 37 n. Castelli, Silvia, 189 n, 190 n. Castelnuovo Garfagnana, 129 n. Castiglia, 71. Castiglione, Giovan Battista, 40 n. Castiglioni, Leonora, 130 n. Castiglioni, Stefano, 130 n, 203, 204. Catalogna, 74. Caterina de’ Medici, duchessa di Mantova, ro. Catrani, Alessandro, 129 n. Cavalchino, G. M., 132 n. Cavalieri, Emilio de’, 139, 180 n. Cecchini, Lorenzo, 299, 305, 319 n. Cecchini Posmoni, Orsola, 44 n, 117,134 n, 148,
150, 203, 219 N, 220 N, 274, 275, 279; 303, 309 n, 310 N, 315 n.
Cecchini, Pier Maria, XIX-XXI, XXIII, 9, 25, 29, 35n-42N,44N-47N,49N,66,73,81n,84n, 85 n, 113-15, 117, I19, 120, 124 n, 126n-128 n, 130 n, 136 n, 144-50, 166, 168, 173, 177, 178,182 n, 183 n, 189 n, 192, 193, 197-201, 203, 204,
212, 214, 215 N, 217 N- 219, 22IN, 222 N, 223, 226, 230, 253-56, 268 n, 272 n, 274-86, 288-
299, 301-8, 309 n - 320 n, 327.
Celia, vedi Malloni, Maria. Cento, 300. Cerracchi Del Gallo, famiglia, vedi Del Gallo.
344
Indice dei nomi e dei luoghi
Cerreto Guidi, 126 n, 181 n. Cervantes Saavedra, Miguel de, 59. Cesare, duca d’Este, 310 n. Cevini, Paolo, 87 n. Chambers, Edmund K., 82 n. Chambéry, 17, 207. Chandler, Frank W., 80 n. Chaplin, Charles Spencer, 1. Chappell, Miles L., 268 n. Chartier, Roger, 80 n, 83 n. Chatelet, 63.
Checchi, Giovanna, 35 n, 312 N, 319 n. Cherea, vedi Nobili, Francesco de. Chieppio, Annibale, 39 n, 40 n, 45 n, 127 n, 164, 264 n, 280, 310 n, 30 n, 314 N, 318 n. Chocheyras, Jacques, 269 n. Cian, Vittorio, 216 n.
Ciancarelli, Roberto, 34 n, 43 n. Ciano, Cesare, 186 n.
Ciardi Dupré Dal Poggetto, Maria Grazia, 271 n. Cicognini, Jacopo, 173, 176, 189 n, 190 n. Cigoli, Ludovico Cardi, detto il, 180 n.
Cinzio, vedi Fidenzi, Jacopo Antonio. Cioli, Andrea, 185 n, 313 n. Ciotti, Giovan Battista, 219 n. Cipolla, Carlo Maria, xxvI n. Cipro, 90. Cividale, 265 n. Clemente VII, papa, 43 n. Cocco, Emilio, 130 n. Codogno, Odoardo, 34 n. Colle Val d’Elsa, 270 n, 271 n. Colloredo, Fabrizio, 133 n. Colloredo-Andreini, marchese, 271 n. Comino, Francesco, 114. Concino, Concini, 65, 84 n, 1, 133 n, 134 N,
139, 145, 146, 183 n, 215 n, 239.
Concini, Giovan Battista, 70.
Consalvo, Natale, 73, 85 n, 86 n. Contarini, famiglia, 95, 329. Contarini, Giulio, 95, 330. Contreras, Alonso de, 21, 42 n. Corbellini, Aurelio, 132 n. Cornaro, famiglia, 95, 329. Cornaro, Alvise, 100. Corneille, Pierre, 66, 273 n.
Corrozet, Gilles, 83 n. Cortellaccio, 93, 96, 144, 332-34. Cortellini, Giovan Battista, 314 n. Cortese, Giulio Cesare, 85 n.
Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana, 36 n, 4I n, 89, 137, 186 n.
Cosimo II de’ Medici, granduca di Toscana, 32, IO, 134 N, 139, 140, 165,167,179 n - 181 N, 188 n, 203, 220 n, 268 n, 270 n, 275, 305.
Coso Marîn, Miguel Angel, 82 n. Costantini, Antonio, 42 n, 135 n, 189 n, 190 Nn, 268 n.
Coster, Samuel, 75. Cotignola, Giovan Battista, 85 n. Cottafavi, Clinio, 178 n. Cozzi, Gaetano, 125 n, 182 n, 216 n, 269 n. Craik, Thomas W., 82 n. Crema, n4. Cremona, 16, 36 n, 37 n, 126 n, 131 N, 133 N, 312
n, 319 N. Crescimbeni, Giovan Mario, 215 n. Cresti, Carlo, 180 n. Crinò, Anna Maria, 189 n.
Cristina di Francia, duchessa di Savoia, 313 n. Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana,
I10, 179 N, 220 N, 305. Croazia, 178 n.
Croce, Benedetto, 34 n, 85 n, 316 n. Croce, Giulio Cesare, 209, 220 n.
Crodario, notaio, 87 n. Custos, Dominicus, 179 n.
D'Agostino, Guido, 80 n. Dal Gallo vedi Del Gallo Dallington, Robert, 64, 83 n. Damasco, 125 n. Damerini, Gino, 81 n. D’Amico, Masolino, 82 n. D'Ancona, Alessandro, xx, 37 n, 41 n, 81 n, 82
n, 129 N -132 n, 222 n. Davico Bonino, Guido, 42 n. Davis, Charles, 82 n. Decroisette, Francoise, 182 n. De Divitiis, Giovan Leonardo, 85 n, 86 n. Defoe, Daniel, 44 n. Deierkauf-Holsboer, S. Wilma, 83 n, 84 n, 183 n.
Del Gallo, famiglia, 271 n. Del Gallo, Amerigo d’Alessandro, 271 n. Del Gallo, Angelo di Jacopo di Gerolamo, 271 n. Del Gallo, Cerracchi, famiglia, 250. Delia, vedi Rocca Nobili, Camilla. Dell’ Altissimo, Cristofano, 179 n. Della Rovere, Francesco Maria II, duca d’Urbino, vedi Francesco Maria II della Rovere. Della Valle, Andrea, 35 n, 73, 86 n. Della Valle, Camillo, 195. Del Monte, Orazio, 89, 90, 125 n, 128 n, 143, 182
n, 332.
Del Piazzo, Marcello, 180 n.
De Melo, Antonio, 34 n. Demostene, 252. De’ Ricci, Giuliano, 41 n, 180 n. De Vecchi, Carlo, 278.
Indice dei nomi e dei luoghi De Zuani, Ettore, 42 n. Diana, 12. Diderot, Denis, 302. Diez Bor N i
345
130 N, 133 N, 138,173, 180 n, 181n,185n,188 n, 220 N, 249, 287, 313 n. 82 n.
Donati, Claudio, 131 n.
Donato, Alvise, 94-96, 128 n, 330, 331, 333,
334.
Donzelli, Carlo, 268 n.
Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana, 39 n, 47 n, 48 n, 131 n, 220 n, 313 n. Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova e del
Monferrato, 36 n, 38 n- 40 n, 44n-47n,84 n, 94, 96, 104, 107, 108, I1O, 119-23, 124 N, 125 n, 127 n, 128 n,130n-133n,135 n, 136 n, 162,
Dottor Campanaccia, vedi Rivani, Giovanni. Drake, Francis, 26.
163, 165-68, 172,183 n, 186 n, 187 n, 189 n, 196,
Duccini, Hélène, 183 n. Duchartre, Pierre Louis, 214 n. Due Castelli, 48 n, 218 n, 220 n, 286, 309 n, 312 n.
292, 295, 305, 309 N - 314 n, 317 N, 320 N, 328,
Dupré, Guillaume, 270 n. Direr, Albrecht, 270 n.
203, 206, 208, 215 n, 218 n - 221 N, 230, 231, 244, 254, 265 n, 268 n, 269 n, 272 n, 274-76,
330, 331, 334.
Feria, duca di, vedi Figueroa, Gomez de. Ferrara, xIV, XIX, 6, 7,12, 27,37 N- 40 N, 43N,
45 n, 46 n, 92, 98, 100, 102, 103, 109, III, 114,
Efrem, Muzio, 269 n. Eleonora de’ Medici, duchessa di Mantova, 110, 132 N, 179 N. Enrico III, re di Francia, 129 n, 215 n. Enrico IV, re di Francia, 61, 62, 64, 65, 83 n,
127 n, 129 N-13In,135 n, 162, 188 n-190 n, 195, 216 n, 217 n, 279, 288, 292, 314 n - 319 N:
mo, 165, I9I, 192, 206, 212, 215 n, 218 n, 22IN,
Ferrone, Siro, XXVI n, XXVII n, 81 n, 124 N, 129
239. Errante, Vincenzo, 178 n.
Espinosa, cardinale, 57. Este, Alfonso II, duca d’, vedi Alfonso II, duca d’Este. Este, Alfonso II, duca d’, vedi Alfonso III, duca d’Este. Este, Cesare, duca d’, vedi Cesare, duca d’Este.
Europa, 23, 51, 78, 142, 162, 299.
Evangelista, Anna Maria, 34 n, 36 n, 37 n, 48n, 84 n, 126 n, 127 n, 181 n, 184 n, 186 n.
Fabbri, Mario, 132 n. Fabbri, Maria Cecilia, 270 n, 271 n. Fabbri, Paolo, 37 n.
teatri:
— di Palazzo Ducale, 43 n. — presso San Lorenzo, 43 n. n, 189 n, 217 n.
Fetti, Domenico, 243-47, 252, 268 n, 269 n, 271
n. Fiandre, 45 n, 137, 30 n. Fidenzi, Jacopo Antonio, 35 n, 130 n, 134 n 136 n, 187 n, 291, 294, 295; 297, 303, 309 N,
314 N.
Figueroa, Gomez de, 11, 122, 123,136 n, 162-64.
Filippo II, re di Spagna, 56, 57, 71. Filippo III, re di Francia, 247, 251. Filippo III, re di Spagna, 75, 76, 82 n, 138, 164. Finale, 300. Fiorillo, Beatrice, 40 n. Fiorillo, Giovan Battista, 40 n. Fiorillo, Silvio, 9, 35 n, 36n, 45 n, 46n,72,85n, 86 n, 94,95, 106, 114, 127 N, 129 N,130 N,133 N,
Fabbroni, Alessandro, 187 n. Fabregas, Xavier, 86 n. Fabri, Giovan Paolo, 186 n, 230, 231, 265 n, 273 n. Fabrizio, vedi Piissimi, Fabrizio. Fabrizio-Costa, Silvia, 269 n. Faccioli, Emilio, 37 n, 132 n. Falavolti, Laura, 41 n, 264 n. Falciani Prunai, Maria, 180 n.
Firenze, XIV, XX, XXVI n, 4, 6-8, 28, 31, 32, 34N -
Fani, Andreano, 85 n. Farina, Giovanni (Zan), 44 n, 93-97, 135 N, 144,
183 n-190 n, 198, 206, 208, 215 n, 216 n, 219 N,
328-34.
Farnese, famiglia, 162. Farnese, Odoardo, 162. Farnese, Ranuccio I, duca di Parma e Piacenza, vedi Ranuccio I Farnese.
Favella, Gian Geronimo, 184 n. Fenlon, Jain, 37 n, 132 n. Ferdinando I de’ Medici, granduca di Tosca-
na, XX, 36 n, 47 n, 48 n, 67, 85 n, 10, 126 n,
219 N, 223, 295, 308, 312 n, 317 N, 320 n, 328, 330.
Fiorillo, Tiberio, 312 n. 48 n, 55, 56, 68-71, 79 80 n, 85 n, 89-91, 93,
96, 97, 102, 104, 108, 112, 114, 124 N, 126 n, 127 n, 129 n,130n,132n-136n,138-42, 148, 153-
55,157, 162,163, 166, 171,173, 174,179 n, 181 N, 220 n, 228, 247, 267 n, 270n- 272 n, 287-90, 293, 294, 308, 310 n - 313 n, 316 n, 317 N, 319 n, 320 N: teatri: — della Dogana (o di Baldracca), 6, 18, 68, 70, 9I, 93, 97; 113, 124 N, 140, I4I.
— di Parione, 97, 128 n. — Mediceo degli Uffizi, 69, 97, 139. Fisher, Godfrey, 44 n.
346
Indice dei nomi e dei luoghi
Flaminia, vedi Cecchini Posmoni, Orsola. Flavio vedi Scala, Flaminio. Florescu, Ileana, 41 n. Florinda, vedi Andreini Ramponi, Virginia. Follino, Federico, 132 n, 178 n. Fontainebleau, 65, 131 n, 220 n. Fontanini, Giusto, 215 n, Fontenay, Mazeuil, Francois Duval, marchese
di, 266 n. Fonteny, Jacques de, 144, 182 n. Forlano, Aron, 286, 312 n. Fornaris, Fabrizio de’, 201, 217 n. Forti, Sinforiano, 220 n, 312 n.
Foucart, Jacques, 179 n. Foucault, Michel, 80 n, 83 n. Francavilla, Pierre Francheville, detto il, 180 n. Francesco I, re di Francia, 61, 65, 83 n.
Francesco IV Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, 32, 44 n, 46 n, 125 n, 131 N, 145, 178 n, 202, 206, 219 n, 220 n, 268 n, 272 n,
313 n. Francesco Maria II della Rovere, duca d’Urbino, 180 n.
Francesco Maria de’ Medici, granduca di Toscana, 71, 141, I7I. Francia, xXII, 12, 17, 26-28, 30, 39 n, 45 N, 51,
65, 84 n, no, 18-23, 134 N, 135 n, 138, 145, 146, 159, 164-68, 183 n, I9I, 192, 200, 20I, 203, 204,
206, 207, 213, 214, 218 n, 219 n, 222 N, 240,
254, 274, 277; 278, 287, 290, 295, 297, 299, 300, 305, 308, 309 N, 311 n, 312 n, 326, 327, 336, 337.
Francolino, xvi, 41 n.
Fransen, Jan, 84 n, 86 n, 87 n, 182 n.
Fredi, Carlo, 35 n, 72, 73, 85 n. Frittellino, vedi Cecchini, Pier Maria. Friuli, 125 n, 140, 156, 178 n. Fuentes, Pietro de Agevedo, conte di, 76, 264 n, 30 n. Fulin, Rinaldo, xxvI n. Fulvio, vedi Bruni, Domenico; Castiglioni, @tefano.
Gambelli, Delia, 214 n. Garavini, Gerolamo, 204, 219 n, 230, 238, 253, 254, 256, 257, 265 n, 266 n, 275, 328. Garbero Zorzi, Elvira, 124 n, 132 n. Garboli, Cesare, 134 n.
Garfagnana, 98, 129 n. Garfagnini, Giancarlo, 85 n. Gasparo, 12. Gaudioso, Marcello, 86 n. Genesio, santo, 262, 273 n. Genova, 4, 6, 7, 18, 24, 37 n - 4I N, 55,79, 87, 104, 129 N, 130 N, 135 n, 138, 150, 162, 163, 184 n, 187 n, 189 n, 190 n, 198, 289:
Osteria del Falcone, 18, 79. Geremek, Bronislàw, 8o n, 83 n.
Germania, 47 N, SI. Gerusalemme, xxvI n. Ghivizzani, Alessandro, 269 n.
Giambologna, Jean de Boulogne, detto, 180 n. Giancarli, Gigio Arthemio, 129 n. Gian Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, XXVI N. Giani, Arcangelo, 248, 249, 270 n. Giordani, Camillo, 105, 130 n, 182 n. Giordani da Pisa, Raniero, 198. Giovannetti, Marzia, 37 n, 132 n. Giusti, Giovan Battista, 36 n. Giusti, Renato, 178 n.
Giustiniani, famiglia, 89, 95, 97, 109, 125 n, 142,
293, 305.
Giustiniani, Giulio, 36 n, 187 n. Giustiniani, Lorenzo, 43 n, 89-91, 93-97, 99, 105, 109-II, 115,125 n, 128 n, 140, 144, 161, 162, 183 n, 328, 330-34.
Goldoni, Carlo, xxvI.
Gonzaga, famiglia, 6, 28, 46 n, 92, 94, 96, 97; 106, I1O, 119, 120, 122, 123, 130 N, 145, 159; 171, 207, 250, 269 n, 279-82, 288, 295, 306, 314 N.
Gonzaga, Ferdinando, duca di Mantova e del Monferrato, vedi Ferdinando Gonzaga. Gonzaga, Francesco IV, duca di Mantova e del Monferrato, vedi Francesco IV Gon-
Gaeta Bertelà, Giovanna, 132 n. Galasso Calderara, Estella, 319 n. Galeani Napione, Gian Francesco, 215 n. Galigai Concini, Eleonora, 65.
zaga. Gonzaga, Guglielmo, duca di Mantova e del Monferrato, vedi Guglielmo Gonzaga. Gonzaga, Manuel, 283. Gonzaga, Vincenzo I, duca di Mantova e del Monferrato, vedi Vincenzo I Gonzaga. Gonzaga-Nevers, Carlo I, duca di Mantova e del Monferrato, vedi Carlo I Gonzaga-Nevers. Gonzaga-Nevers, Carlo II, duca di Mantova e del Monferrato, vedi Carlo II Gonzaga-Nevers.
Gallotta, 44 n, 204, 296, 297, 377 n, 325, 326.
Goodman, Jordan, 85 n.
Gabrielli, Francesco, 48 n, 96, 105, 120-23, 124 n, 128 n, 134 n- 136 n, 144, 146-49, 154, 165,
166, 172, 173, 175, 176, 182 n, 183 n, 189 n, 190
n, 218 n, 275, 301, 315 n, 319 n. Gabrielli, Giovanni, 134 n, 229. Gabrielli, Spinetta, 105, 121, 134 n, 144, 175, 182 n.
Indice dei nomi e dei luoghi Gradisca, 125 n. Granara, Battista, 180 n, 181 n. Graziano, vedi Rivani, Giovanni.
Graziano da Francolino, vedi Partesana, Graziano. Greenblatt, Stephen, xxvII n.
Greenwich, 75. Gregori, Mina, 179 n, 270 n.
Grimaldi, famiglia, 163.
Grimani, famiglia, 74, 95, 125 n, 329.
Grimani, Vincenzo; 36 n, 1.
Grossi Bianchi, Luciano, 87 n. Guarini, Alessandro, 43 n. Guarini, Giovan Battista, 43 n, 98. Guarino, Raimondo, 81 n. Guarnieri, Gino, 186 n. Guastalla, 6, 37 n. Guglielmo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, 219 n, 276. Guisa, Carlo di Lorena, duca di, 216 n. Guiscardi, Traiano, 182 n. Gurr, Andrew, 82 n. Gutton, Jean-Pierre, 80 n, 83 n.
Guzman, Diego Felipez de, m. Haro, conte di, 130 n. Henne, Alexandre, 86 n.
Hernando, Josep, 85 n. Hill, Christopher, xxvI n, 44 n, 184 n. Hinojosa, Juan Hurtado de Mendoza, marchese della, 124 n. Hobsbawm, Eric J., 42 n, 189 n. Hosley, Richard, 82 n. Iberti, Annibale, 128 n, 131 n, 31m n, 329. Indie, 162.
Inghilterra, 75, 82 n, 287. Innamorati, Giuliano, xxvIm n, 129 n. Innsbruck, 181 n. Ippolito da Pistoia, 198, 199. Isabella, vedi Andreini, Isabella. Isabella, 151. Isabella d'Aragona, duchessa di Milano, xxVI n.
Israel, J. I, 47 n. Italia, 15, 27, 34 n, 36 n, 42 n, 45 n, 51, 76, 80 n, 90, 109, 113, 115, 117-19, 134 N, 142-44, 146, 153, 159, 181 n, 183 n, 191, 218 n, 255, 274, 280, 282,
304. Ivaldi, Armando F., 37 n, 87 n.
347
Laderchi, Giovan Battista, 129 n.
L’Aja, 76, 79:
teatri del Buitenhof, 79. Landolfi, Domenica, xxvI n, 34 n, 35 n, 38 n, 43n, 86 n,124n,128 n,133n-135n,178 n, 181 n, 182 n, 187 n, 189 n, 190 n.
Langedijk, Karla, 178 n, 179 n. Lanza, Domenico, 37 n, 127 n, 129 n, 130 n. Lanzone, (Lanzoni), Lodovico, 292. Larivaille, Paul, 81 n. Lavinia, vedi Antonazzoni, Marina Dorotea. Lawner, Lynne, 81 n. Lazzerini, Lucia, 221 n. Leandro, 151. Le Bris, Michel, 44 n. Leech, Clifford, 82 n.
Le Goff, Jacques, 85 n. Lehman, Jirgen M., 270 n. Le Laboureur, Jean S., 86 n. Lelio, cavaliere romano, 229. Lelio, vedi Andreini, Giovan Battista. Le Moyne, Yves, 272 n.
Leningrado, 244. Leon, Francisco de, 86 n. L’Estoile, Pierre de, 84 n.
Leyda, 76, 86 n, 87 n. Liberati, Urania, 204, 219 n, 328, 334. Lidia, vedi Rotari Andreini, Virginia. Liebrecht, Henry, 86 n. Limon, Jerzy, 34 n, 43 n, 219 n. Lione, 17, 28, 39 n, 40 n, 46 n, 48 n, 192, 207, 214
n, 215 n, 217 N, 220 N, 270 N, 290, 315 N. Lisbona, 164. Litta, Pompeo, 125 n. Livorno, 6, 24, 41 n, 70, 85 n, 133 n, 138, 179 n. Lodi, 276.
Lombardi, Bernardino, 194, 195, 199, 201, 216 n, 217 n. Lombardi, Daniela, 80 n. Lombardi, Marco, 273 n.
Lombardia, 24, 35 n, 36 n, 41 n, 69, 284. Lomenie de Brienne, Henry A., 266 n. Lonati, Antonio, 77. Londra, 56, 59, 125 n, 270 n: Theatre, 59. Lorena, Cristina di, granduchessa di Toscana, vedi Cristina di Lorena. Lorenzi, Giovan Battista, 81 n. Loreto, 293.
Lucca, 6, 36 n, 38 n, 39 n, 41 n, 53, 139, 154, 181 n, 182 n, 184 n, 185 n, 215 n, 306, 332.
Jones, Mark, 270 n.
Lucchesino, vedi Pierretti, Vincenzo. Lugaresi, Luigi, 43 n.
Kermina, Frangoise, 267 n. Klibansky, Raymond, 245, 269 n.
Luigi XIII, re di Francia, 65, 66, 120, 133 n, 134
Kraemer, Erik von, 80 n.
n, 167, 189 n, 196, 203, 215 n, 216 n, 239, 266 n, 267 n, 313 n.
348
Indice dei nomi e dei luoghi
Luna, Alvaro de, 163.
Marotti, Ferruccio, 35 n, 182 n.
Luna, Pietro de, 163. Lutio Fedele, vedi Fredi, Carlo. Luzio, Alessandro; xx.
Marri, Giulia, 124 n. Marsiglia, 137, 179 n, 180 n, 215 n.
Madrid,56-60, 67, 71, 72, 77, 79, 164:
Martinelli, Drusiano, 40 n, 129 n, 310 n.
corrales: — de Burguillos, 56. — de la Cruz, 56, 57, 59, 60. — de la Pacheca, 56. — de la Puente, 56.
— del Principe, 56, 57, 82 n. — del Sol, 56. — de Valdivieso, 56. Magagnato, Licisco, 81 n, Malanima, Paolo, 84 n. Malatesta, Pandolfo, 219 n. Mîàle, Emile, 269 n. Malherbe, Frangois de, 84 n. Malloni, famiglia, 154, 185 n. Malloni, Andrea, 187 n. Malloni, Maria, 41 n, 152-58, 160, 172, 173, 175, 176, 184 n - 187 n, 189 n, 246, 268 n, 297, 316 n.
Malloni, Virginia, 151, 152, 184 n. Malta, 179 n. Mamone, Sara, xXVII n, 40 n, 41 n, 48 n, 83 n, 84 n, 145,179 n, 180 n, 183 n, 214 n, 215 N, 219 n, 263 n, 268 n.
Manchester, 269 n. Mangini, Andrea, 127 n. Mangini, Nicola, 87 n, 88 n, 123 n, 124 n, 126 n,
129 N, 132 N, 319 n. Mantova, xI, xx, 6-8, 11, 17, 24, 26-28, 31, 32, 37
n-40n,42n,45n-48n,72,84n,85n, 9295, 98, 106, 108-10, 114, 121, 123,127 n -136 n, 145, 157, 162, 171, 182 n, 184 n, 187 n-189n, 205, 206, 215 n, 218 n - 220 n, 228, 255, 267 n, 268 n, 270 n, 272 n, 279-81, 284, 285, 288-901,
294, 296, 300, 304-8, 309 n - 311 n, 313 N - 3I5
N, 317 N, 319 N, 320 N, 324, 326, 329.
Martani, Ercolano, 270 n.
Maria de’ Medici, regina di Francia, 64-67, 83 n, 84 N, 110, 120, 133 N, 134 n, 138, 139, I4I,
145, 167, 179 N, I9I, 192, 200, 206, 215 N, 218 n - 220 n, 239, 266 n, 267 n, 272 n, 313 n.
Margherita di Savoia-Gonzaga, duchessa di Mantova e del Monferrato, 145, 178 n, 202, 268 n.
Martin, Roland, 83 n. Martinelli, Caterina, 268 n. Martinelli, Tristano, XVIII, XX, XXI, XXIII, 9, II,
27-29, 39 N, 40 n, 42 n, 44N- 49, 65-67, 72, 84 n, 106-10, 115, 118-2I, 124 N, 127 N-13I N,
133 n-135 n, 146, 147, 166, 168, 176, 178,183 N,
191-222, 223, 227, 230-32, 244, 250-53, 255;
261, 272 N, 274-77, 281-84, 286, 287, 290, 291,
296, 297, 299, 300, 306-8, 309 n - 313 n, 316 n - 318 n, 323-25, 327, 328.
Marulo, Marco, 85 n.
Massimiliano d'Asburgo, imperatore, 54. Masson, Giorgina, 81 n. Materdona, Giovan Francesco, 186 n. Matteoni, Dario, 85 n.
Mattia d'Asburgo, imperatore, xIx. Maylender, Michele, 216 n. Mazzei, Francesco, 181 n. Mazzei, Giovanni, 271 n.
Mazzoldi, Leonardo, 178 n. Mazzoni, Stefano, 81 n, 128 n. Medici, famiglia, 6, 31, 32, 110, 138, 139, 141, 171, 288, 289.
Medici, Antonio de’, 48 n, 127 N, 133 n, 217 n. Medici, Averardo, 185 n. Medici, Carlo de’, mn, 127 n, 155, 173, 184 n, 185 n, 189 n.
Medici, Caterina de’, duchessa di Mantova,
vedi Caterina de’ Medici. Medici, Cosimo I de’, granduca di Toscana, vedi Cosimo I de’ Medici. Medici, Cosimo II de’, granduca di Toscana,
vedi Cosimo II de’ Medici. Medici, Eleonora de’, duchessa di Mantova,
vedi Eleonora de’ Medici. Medici, Ferdinando I de’, granduca di Toscana, vedi Ferdinando I de’ Medici. Medici, Ferdinando II de’, granduca di Toscana, vedi Ferdinando II de’ Medici. Medici, Francesco Maria de’, granduca di Toscana, vedi Francesco Maria de’ Medici. Medici, Giovan Carlo de’, 40 n. Medici, Giovanni de’, xx, 24, 25,35n- 40 n, 42 n - 49 n, 89, 90, 93, 94, 96, 97, 99, 104, 105,
Maria Maddalena d'Austria, granduchessa di Toscana, mo, 139, 180 n, 305.
I09-II, 113, II5, 117-23, 124 n - 128 n,130 N, I3I
Marino, Giovan Battista, 243, 267 n, 268 n. Mariti, Luciano, 190 n, 217 n.
274, 284, 287, 292, 293, 304, 306, 309 N, 313
Marliani, Ercole, 40 n, 42 n, 46 n, 47 n, mm, n4, 123,125 N, 130 N, 132 N, 135 N, 136 n, 163, 167, 168,182 n, 186 n, 188 n, 189 n, 306, 307; 309 N,
314 n, 316 n - 319 N, 335, 337, 338.
n, 133 n -136 n, 137-90, 203, 210, 246, 268 n, n, 315 n- 318 n, 323, 334, 338.
Medici, Giovanni de’, detto Giovanni dalle Bande Nere, 137. Medici, Lorenzo de’, 39 n, 130 n, 135 N, 171, 189 n, 316 n.
Indice dei nomi e dei luoghi Medici, Maria de’, regina di Francia, vedi Ma-
ria de’ Medici. Medici, Mattias de’, 126 n. Medici, Tommaso de’, 181 n.
Mediterraneo, 23, 159. Meijers, Dulcia, 87 n. Meldolesi, Claudio, 217 n. Menato, Marco Aurelio Alvarotto, detto, xv, XVIII, XXV. Mentessi, Baldassarre, 98. Merlin, Pierpaolo, 37 n. Messina, 5, 35 n. Mezeray, Frangois E., 266 n. Mezzettino, vedi Onorati, Ottavio. Michel, Paul-Henry, 215 n. Michel, Suzanne, 215 n. Michiel, famiglia, 78, 89, 102, 109, 123 n. Michiel, Alvise, 103. Middleton, Thomas, 82 n.
349
n, 46 n, 55, 56, 71-73, 77, 86 n, 92, 106, 108, 127 N, 130 n, 184 n, 187 n, 218 n, 220 n, 284,
285, 289, 291, 293, 294, 305, 306, 317 N: teatri: — dei Genovesi, 72-74. — di Castelcapuano, 18, 73. — di Porta Capuana (o Porta della Calce), 18, 73. — di San Giovanni dei Fiorentini, 73, 218 n, 294. — San Bartolomeo, 72, 73. Nasso, 244. Nelli, Ercole, 130 n. Nemours, duca di, 309 n. Neri, Achille, 37 n, 184 n, 190 n. Neri, Ferdinando, 215, 221 n. Nerli, Francesco, 205; 219 N, 275, 277; 309 N,
87 n, 9I, 92, III, 122,124 N,126n-128n,130N,
317 n. Nerli, Leone de’, 157, 181 n. Nero, Fabritio, 135 n. Nespola, 144, 148.
131,134 n-136 n,158,162,164, 171,182 n, 183
Nettuni, Lorenzo, 219 n.
n, 186 n, 188 n - 190 N, 194, 202, 203, 205-7, 218 n- 220 n, 264 n, 268 n, 270 n, 272 n, 275,
Nevers, duca di, vedi Carlo IGonzaga-Nevers. Nevers, duca di, vedi Carlo II Gonzaga-Ne-
292, 293, 297; 306, 309 n - 312 n, 314 N- 317 N, 325.
Nicolini, Fausto, 221 n.
Milano, 4, 6,7, 36n-38 n, 44n- 49,71, 76,77,
vers. Nobili, Francesco de’, detto Cherea, 53-55, 78,
Mincio, 202.
Mirandola, 6, 38 n.
Miselli, Giuseppe, 34 n. Modena, 6, 7, 37 N, 45 n, 46 n, 92, 98, 110,127 N, 129 N, 132 Nn, 162, 187 n, 300, 3I0 n.
gI n.
Nobili, Orazio, 286, 312 n. Nobili, Vittoria, 286, 312 n.
Novalesa, 17, 191.
Moiada, 204, 218 n, 255, 300. Moisesso, Faustino, 125 n, 182 n.
Molière, Jean-Baptiste Poquelin detto, xxIv, 66, 262.
Molinari, Cesare, 81 n, 84 n,133 n, 186 n, 189 n, 318 n.
Molmenti, Pompeo Gherardo, 81 n.
Monferrato, Monferrino, Mongredien, Monteverdi,
94, 164, 206, 323, 335. il, 15, 16. Georges, 84 n. Claudio, 202, 243, 264 n, 268 n,
269 n.
Monticone, Alberto, 80 n. Monza, 87 n. Morachiello, Paolo, 81 n, 87 n. Moreni, Domenico, 180 n.
Morinello, Cesare, 134 n. Mosco, Marilena, 269 n. Mousnier, Roland, 83 n. Murano, 168, 171.
Odoardo, vedi Castiglioni, Stefano. Onorati, Ottavio, 105, 121-23, 124 N, 135 N, 136 n, 144, 146-48, 154, 157, 162, 172, 176, 182 D,
183 n, 185 n, 318 n.
Orazio Flacco, Quinto, 165. Orefice, Gabriella, 180 n. Ortalli, Gherardo, 42 n. Ortensio, vedi Antonazzoni, Francesco.
Ottonelli, Gian Domenico, 4, 5; 7, 34 n. Padania, 10. Padoan, Giorgio, 81 n, 82 n. Padova, xv, 6, 36, 41 n, 42 n, 46 n, 125 n,132 N, 183 n, 231, 314 N.
Paesi Bassi, 51, 71, 75.
Nagler, Alois M., 131 n.
Pagani, Gentile, 37 n, 40 n. Paglicci Brozzi, Antonio, 37 n, 40 n, 87 n, 127 N. Palavicino, Sforza, 310 n. Palladio, Andrea, x1, 80 n. Pallini, Giulio Cesare, 312 n. Palomeras, Luis de, 42 n. Paluello, 125 n, 136 n, 182 n, 186 n.
Napoli, 5, 10, 15, 18, 27, 33, 34 n - 36 n, 42 N, 45
Pandolfi, Vito, 217 n.
Muraro, Maria Teresa, xxVII n, 124 n. Mutini, Claudio, 215 n.
350
Indice dei nomi e dei luoghi
Panofsky, Erwin, 245, 269 n, 270 n. Pantalone, vedi Romagnesi, Marc’ Antonio. Paolo V, papa, 178 n, 218 n. Parigi, 27, 28, 48 n, 56, 61-67, 79 83 n, 84 0,133
n -135 N, 139, 145, 146, 179 n, 182 n, 183 n, 188 N, 192, 194, 196, 20I, 203, 206, 207, 214 N - 217 n, 220 n, 238, 247, 248, 251, 266 n, 269 n, 270
n, 272 N, 274, 283, 305, 310 N, 30 N, 317 N,
325, 327, 328:
Foire Saint-Germain, 62, 63, 65, 66.
Hòtels: — de Bourgogne, 61-67, 83 n, 84 n, 144. — de Flandres, 61, 83 n. — de la Trinité, 61.
Place de la Grève, 65-67. Pont Neuf, 65. Théatre du Marais, 66. Parisotti, Giovan Battista, 216 n.
Parker, Geoffrey, 42 n. Parma, 6, 36 n, 43 n, 134 n, 162, 183 n, 188 n, 279, 280:
Pistoia, 249. Pizzorusso, Claudio, 125 n, 268 n. Platone, 197, 199. Platter, Thomas jr, 83 n. Plauto, 81 n, n6. Po, 16.
Poccetti, Bernardino Barbatelli, detto il, 247,
250, 251, 253, 270 N, 271 N. Poggi Cellesi, Giovanni, 126 n, 127 n. Poleggi, Ennio, 87 n. Ponti, Diana, 200. Pontremoli, Moisè, 312 n. Portioli, Attilio, 132 n.
Portofino, 179 n. Portogallo, 164. Pozzo, Alfonso, 162, 188 n. Praga, Prato, Prato, Priuli,
218 n, 267 n, 269 n. xXVIII n.
Gianfranco, 124 n. Antonio, 141, 162, 187 n. Priuli, Gerolamo, mn, 124 n.
teatro ducale, 43 n. Parma, Girolamo, 133 n.
Priuli, Michele, 187 n. Promis, Carlo, 124 n, 180 n.
Partesana, Graziano, XVII, 4I n. Passignano, Domenico Cresti, detto il, 180 n. Pavia, 163. Pavoni, Giuseppe, 129 n.
Pullan, Brian, 47 n, 80 n, 87 n.
Pedrocco, Filippo, 270 n.
Prota-Giurleo, Ulisse, 34 n, 35 n, 85 n, 86 n, 218
n, 313 n. Puppi, Lionello, 81 n.
Pedrolino, vedi Pellesini, Giovanni. Peiresc, Nicolas-Claude Fabri de, 84 n. Pellesini, Giovanni, 13, 14, 45 N, 79, 99-101, 103,
Quadrio, Francesco Saverio, 133 n, 216 n. Quazza, Guido, xxVI n.
106, 107, 109, 118, 129 N, 130 N, 153, 219 N, 221 n. Pepola Poggi, Lodovica, 216 n. Pepoli, Ercole, 1, 219 n. Perina, Chiara, 270 n. Perugia, 267 n.
Ramazzini, Bernardino, 181 n. Ramponi, Tommasina, 286, 312 n. Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza,
Pesaro, 105. Petrarca, Francesco, 199, 271 n.
n. Ravaillac, Frangois, 65. Ravenna, 310 n. Rayén, José Antonio, 83 n.
Petrioli Tofani, Anna Maria, 132 n. Piacenza, 6, 36 n, 37 n, 40 n, 318 n, 3I9 n. Pianoro, 129 n, 130 n, 30 n, 312 n. Piemonte, 17, 39 n. Pieraccini, Gaetano, 124 n, 180 n. Pieri, Marzio, 267 n. Pieroni, Alessandro, 180 n.
Pierretti, Vincenzo, detto il Lucchesino, 122, 136 n.
Piissimi, Fabrizio, 94, 95, 328-30. Piissimi, Vittoria, 71, 79, 94, 95, 99-101, 106, 129 n, 130 N, 153, 216 n, 328, 330.
Pilo, Giuseppe M., 268 n. Pio, famiglia, 166. Pio, Carlo Emanuele, 162. Pio, Giampaolo, 166. Pisa, 7, 13, 14, 36 n, 41 n, 138, 3 n.
43 n.
Rasi, Luigi, 48 n, 134 n, 184 n, 189 n, 190 n, 214 n, 216 n, 217 n, 255, 265 n, 267 n, 270n- 272
Réau, Louis, 269 n.
Reggio Emilia, 129 n. ‘ Rho, Alessandro da, 39 n, 317 n. Ricci, Benedetto, 219 n, 296. Ricci, Federigo, 204, 219 n, 272 n, 296, 328. Rich, Edwin E., xxvI n. Richelieu, Armand-Jean du Plessis de, 1, 171, 215 n, 239, 266 n.
Ridolfi, Atanasio, 38 n, 313 n. Rigon Barbieri, B., 81 n. Rinuccini, Camillo, 180 n. Rinuccini, Ottavio, 268 n, 332. Ripa, Cesare, 270 n. Rivani, Giovanni, 36 n, 196, 202-4, 219 n, 222 N,
230, 231, 250, 272 N, 275, 309 n, 328.
Indice dei nomi e dei luoghi Rizzi, Fortunato, 216 n.
Rizzi, Gualtiero, 37 n. Rocca Nobili, Camilla, 135 n. Rodolfo II d'Asburgo, imperatore, 137.
Roma, 5, 35 n, 36 n, 43 n, 86 n, 135 n, 180 n, 217 n, 268 n, 271 n, 285, 308, 314 N, 317 n, 319 n.
Romagnesi, Agostino, 136 n. Romagnesi, Marc’Antonio, 38 n, 45 n, 90, 123, 130 N, 134 n-136 n, 144, 154, 158, 160, 172, 182 n, 316 n, 332.
Romano, Ruggero, xxvI n. Romei, Giovanna, 35 n. Rossetti, Giovan Battista, 129 n. Rossi, Bartolomeo, xxvI n, 201. Rossi, Carlo, 268 n. Rossi, Pietro, 80 n. Rossi, Salomone, 269 n. Rossi, Vittorio, xX, XXVII n, 129 n.
Rotari, Baldo, 203, 254. Rotari, Leonora, 272 n. Rotari Andreini, Virginia, 203, 219 n, 222 n, 230, 240, 253-58, 267 n, 272 N, 275, 283, 313
n, 319 n, 328.
Rotrou, Jean de, 273 n. Roulland, Léon, 83 n. Rubens, Pieter Paul, 138, 179 n. Rucellai, Luigi, 46 n, m, 295, 326. Ruzante, Angelo Beolco, detto il, xv, xvI, XVIII, XXV, XXVII N, 4I n, 100, 288, 313 n.
Saccano, Emilio, 184 n. Sacchetti, Niccolò, 181 n. Sacco, Ottavio, 35 n. Safarik, Eduard A., 268n-270n,272 n. Saint-Germain-en- Laye, 189 n. Sala, Torello, 217 n. Salimbeni, Girolamo, detto Piombino, 70, 85 n, 132 n. Salvadori, Rinaldo, 178 n. Sanchez, Francisco, 59, 60. Sanchez-Pardo, Mercedes H., 82 n. Sand, Maurice Dudevant detto, 133 n. Sandri, Ascanio, 40 n. Sansovino, Francesco, 87 n. Santi di Tito, 180 n. Sanuto, Marin, XV, XVII, XXVI n, 52, 8I n.
Sapori, Giuliana, 41 n. Savelli, Giulio, 188 n. Savena, 8. Saviotti, Alfredo, 130 n. Savoia, 12, 313 N. Savoia, casa, 300.
Savoia, Carlo Emanuele I, duca di, vedi Carlo Emanuele I. Savoia, Cristina di Francia, duchessa di, vedi Cristina di Francia.
351
Savoia, Vittorio Amedeo, principe di, vedi Vit-
torio Amedeo, principe di Savoia. Savoia-Gonzaga, Margherita di, duchessa di
Mantova e del Monferrato, vedi Margherita di Savoia-Gonzaga. Saxl, Fritz, 245, 269 n. Scala, Flaminio, xIX, XXI, 9, 19, 24, 29, 36 n - 40
n, 42 N, 45 N - 49 N, 53, 66, 113, 115, 18-23, 125 n, 127 N, 133 n-136 n, 142, 149-64, 166, 168, 172-78, 180 n - 182 n, 192, 193, 195, 197; 200, 201, 212, 215 N - 217 N, 223, 226, 230, 265 n, 274, 282, 284, 287, 289-92, 297, 299, 302,
306-8, 310 n, 313 N, 315 N - 317 N, 319 N, 320N, 335, 337.
Scapino, vedi Gabrielli, Francesco.
Scaraffia, Lucietta, 273 n. Scarperia, 316 n. Schino, Mirella, 40 n, 129 n, 134 n, 214 n, 216 n, 269 n.
Schizzerotto, Giancarlo, 219 n. Schonhorn, Manuel, 44 n. Scriba, Giovanni, vedi Belgrano, Luigi T. Segarizzi, Arnaldo, 128 n.
Senesi, Alessandro, 38 n, 127 n. Senna, 63, 66.
Serra, Giacomo, 38 n, 162, 188 n.
Serrano y Sanz, Manuel, 42 n. Servi, Costantino dei, 180 n. Settimani, Francesco, 84 n.
Sgambato, Ottavio, 74, 86 n, 294. Shergold, Norman D., 82 n. Sicilia, 5,15, 35 n.
Sieber, Ludwig, 83 n. Siena, 6, 126 n, 270 n.
Simonsohn, Shelomo, 47 n.
Solerti, Angelo, xx, 37 n, 127 n, 129 n, 130 n, 180 n.
Sommi Picenardi, Guido, 124 n, 180 n, 181 n. Sordi, Camillo, 128 n, 129 n, 131 n, 315 n, 329. Sostegni, Gherardino, 247, 251. Spaccini, Giovan Battista, 132 n.
Spagna, 5, 56, 58, 71, 73, 165, 287. Spontoni, Ciro, 309 n. Stefani, Federico, xxVI n. Sterpos, Daniele, 34 n.
Striggi, Alessandro, 40 n, 1, 206, 220 n, 30 N,
320 N. Strong, Roy, 132 n. Sully, Maximilien de Béthune, duca di, 64, 215 n. Taiacalze, Domenico, xxvII n. Taiacalze, Stefano, xxvI n. Tassini, Giuseppe, 81 n. Tasso, Torquato, 98, 102, 174, 190 N, 194, 195, 199, 215 N, 271 N.
352
Indice dei nomi e dei luoghi
Tassoni, Ferrante Estense, 129 n. Tassoni, Niccolò, n. Taviani, Ferdinando, xxVII n, XXVII n, 40 n, 129 N,133 N,134N, 214 n - 217 n, 266 n, 267 n, 269 n - 273 n, 313 n.
Tenenti, Alberto, 44 n. Terenzio Afro, Publio, 229. Tessari, Roberto, 42 n - 44 n, 52, 81,130 N, 182 n, 266 n.
Testa, Aniello, 35 n, 73, 85 n, 86 n, 204, 218 n,
219 N, 275, 317 N, 3I9 N. Testaverde Matteini, Anna Maria, 268 n. Thais, Jean, 83 n. Thuillier, Jacques, 179 n. Tinghi, Cesare, 127 n. Toledo, 56. Tomaso, principe, 283. Tommaso d'Aquino, santo, 39 n, 198-200, 212, 250, 260.
Tommaso di Chobham, 77.
Torino, 6, 7, 9, 12, 37 n, 39 n, 40n, 44 n, 46 n, 47 N, 92, 108, I1O, 127 N, 131 N, 134 N, 162, 164,189 n, 207, 217 n, 268 n, 275, 278, 305, 309 n - 312
n, 314 n, 315 N, 317 N, 318 n, 325, 326. Torre, famiglia, 314 n. Toscana, 6, 10, 26, 97, 143, 289.
Toschi, Paolo, 221 n. Toussaint, Auguste, 44 n, 86 n.
Trevor-Roper, Hugh, xxvI n. Tricou, Jean, 270 n.
Tron, famiglia, 78, 89-91, 97, 109, 123 n, 125 n,
149, 292, 293, 305.
Tron, Ettore, 99-101, 11, 125 N, 129 N, 294, 315 N. Turchi, Annibale, 48 n, 124 n, 147, 147, 182 n, 183 n.
Vega Carpio, Felix Lope de, 262, 273 n. Velasco, Juan Fernandez de, 87 n, 130 n, 268 n, 315 n. Vendramin, famiglia, 91, 132 n, 305, 319 n. Venezia, XIV-XVI, 4-8, 12, 14, 18, 33, 34 n, 36 n,
38n-4on, 42n- 44n, 46n-48n, 52-56, 74, 78, 80 n, 81 n, 89, 93, 94, 98, 102, 103, 105,
106,108, 109, I12-14, 124 N -130 N,133 N, 134N, 136 n, 138, I40-43, 153; 162, 165, 172,173; 180n
-183 n, 185 n-188 n, 198, 202, 219 n, 232, 267 n, 269 n, 272 n, 284, 285, 287, 288, 291, 292,
294, 296, 297, 30I, 302, 305, 307, 312 N, 313 N,
315 N - 317 N, 319 N, 320 N, 323, 326, 329-35, 337; 338: teatri:
— San Cassiano, 78, 79, 90, 9I, 102, 103,
149, 31-33.
— San Luca, g1. — San Moisè, 89, 92, 93, 96, I4O, 142, 149,
305, 323.
— San Salvador, 132 n, 305. — «stanza» di San Cassiano, 52-54, 81 n. Venier, Maffeo, 43 n. Ventura, Cosimo, 194. Vercelli, 9 Vernazza, Livia, 134 n, 139-41, 171, 173, 180 n 182 n, 186 n. Verona, 6, 12, 36 n, 38 n, 40 n, 128, 131,133 n,
187 n, 265 n, 272 N, 301, 310 N, 312 n, 313 N, 319 n. Veselovskij, Alexander N., 221 n. Vesuvio, 5, 305. Viani, Antonio Maria, 128 n. Vicenza, 6, 80 n, 126 n, 292, 312 N, 3I5 N:
Teatro Olimpico, 80 n, 81 n. Vienna, 269 n, 272 n, 286.
Udine, 178 n. Ughi, Gabriello, 178 n. Ughi, Luigi, 216 n. Ulivelli, Cosimo, 271 n. Ungheria, 137; 178 n. Urbino, 105, 313 n. Usimbardi, famiglia, 249, 250. Usimbardi, Lorenzo, 249, 270 n. Usimbardi, Pietro, 271 n. Usimbardi, Simone, 270 n.
Utrecht, 76. Valeria, vedi Austoni Antonazzoni, Salomè.
Valerini, Adriano, 230, 265 n. Valleran le Conte, 87 n. Varchi, Benedetto, 84 n. . Varey, John E., 82 n. Vasari, Giorgio il Giovane, 180 n. Vayssière, B., 82 n.
Vigevano, 163. Villari, Rosario, 42 n. Villifranchi, Giovanni, 180 n.
Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, xx, 27, 31, 32, 34 N, 39 n, 40 N, 44-46 n, 48 n, 102, 110, 113, 18,126 n, 127 N,
129 N-13IN,133 0,137 n, 144-46,178n-180n, 182 n - 184 n, 189 n, 202-211, 217 N - 219 N, 222 n, 268 n, 290, 296, 301, 309 N - 315 n, 317 D,
318 N, 324, 337.
Vinta, Belisario, 40 n, 127 n, 132 n, 220 n.
Violina, 151. Virginia, vedi Malloni, Virginia. Viterbo, 198. Vito, 27. Vittoria, vedi Piissimi, Vittoria.
Vittorio Amedeo, principe di Savoia, 39 n, 313 n. Wauters, Alphonse, 86 n. Wickham, Glynne, 82 n.
Indice dei nomi e dei luoghi Wilson, Charles H., xxvi n. Worp, Jacob A., 86 n.
Zacchè, Gilberto, 314 n. Zambeccari, Luigi, 182 n, 188 n. Zametti (Zamet), Sebastiano, 1, 192, 200, 215
n, 217 N. Zanotti, Paolo, 130 n. Zapperi, Alfredo, 86 n, 135 n. Zazo, Alessandra, 40 n, 218 n. Zazzera, Francesco, 316 n. Zecca, Giovan Battista, 130 n. Zecca, Livia, 130 n.
Zeno, Apostolo, 215 n, 216 n. Zeno, Alessandro, 270 n. Zinanni, Anna, xXVII n, 216 n, 271 n. Zinzani, Ercole, 129 n.
Zito, Bartolomeo, 35 n, 36 n, 73, 74, 85 n, 86. Zocchi, Giuseppe, 179 n. Zongo Ondedei, Giuseppe, 130 n, 182 n. Zorzi, Elio, 81 n. Zorzi, Ludovico, XIV, XXVI n - XXVII n, 34 N, 37 n, 52, 81 n, 87 n, 124 n, 129 N, 131 N, 132 N,
221 N. Zuan Polo, xxvu n, 191, 229. Zuccaro, Federico, 132 n. Zumthor, Paul, 86 n.
353
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Stampato per conto della Casa editrice Einaudi dalla Fantonigrafica - Elemond Editori Associati nel mese di marzo 1993 C.L. 13183 Ristampa
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struiscono di sé, disseminando immagini e metafore nei loro carteggi, nelle commedie, nelle incisioni che ornano i libri,
nelle pitture dei contemporanei. Il comico, che i detrattori assimilavano al pirata e al bandito, si offre allora alla vista dei
suoi spettatori letterati e analfabeti come mercante onesto dell’ Arte e come corsaro cristiano. Le attrici, a lungo classificate come «puttane erranti», possono innal-
zarsi al cielo della santità. L'analisi dei testi scritti e dell’iconografia diventa cosî il punto d’arrivo del libro e dell'avventura teatrale ricostruita. Il riscontro estremo della doppia natura, immaginaria e materiale, di una forma di teatro che ha segnato la storia moderna d’Europa. Siro Ferrone ha scritto volumi sulla storia dello spettacolo rinascimentale, settecentesco e ottocentesco; ha curato l’edizione di testi (I/ teatro italiano.
V: La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, Torino
1979, voll. 3; Comzzzedie dell’Arte,
1985-86, voll. 2; Corzici dell’Arte. Corrispondenze, 1993, voll. 2). Tra le sue commedie rappresentate: La casa dell’ingegnere (1983), Mosche volanti (1984), Sogno di Oblomov (1986), Le smanie per la
rivoluzione (1989). Insegna Storia dello Spettacolo nell'Università di Firenze.
e mito, il teatro dal punto di vista degli attori.
ISBN 88-06-13183-4_
Lire 54000
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