Opposte congiunture. La crisi del Seicento in Europa e in America 8831756419


210 86 9MB

Italian Pages 180 Year 1992

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Opposte congiunture. La crisi del Seicento in Europa e in America
 8831756419

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Ruggiero Romano

OPPOSTE CONGIUNTURE La crisi del Seicento in Europa e in America

Saggi Marsilio

Digitized by the Internet Archive in 2028 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/oppostecongiuntu0000roma

SAGGI MARSILIO

Da

{

PI pai SDA

=

VARI

tai e:

(i

76

sq

k:

STORIA E SCIENZE

SOCIALI

ea

Ruggiero Romano

OPPOSTE

CONGIUNTURE

La crisi del Seicento in Europa e in America

Marsilio

© 1992 BY MARSILIO

EDITORI® S.P.A. IN VENEZIA

Traduzione dal francese di Vito Calabretta

ISBN 88-317-5641-9

Prima

edizione:

marzo

1992

INDICE

OPPOSTE

CONGIUNTURE

3.1. 19 2. 47 3. 81 4. 115 5. 135 6.

In guisa di introduzione: i termini della questione Il numero degli uomini Il mondo della produzione Metalli e monete, prezzi e salari Sul commercio Alcune considerazioni finali

161

Indice dei nomi

Le VER (LES n

Ti

Mit i y

;

|

i tiVI s

RINGRAZIAMENTI

Questo libro ha una storia molto lunga. Frutto di curiosità che si sono sviluppate dapprima sulla immediata linea del pensiero di Fernand Braudel (verificare quando si interrompesse la «prosperità» del xvi secolo che egli aveva dimostrato così brillantemente nel contesto mediterraneo), si è in seguito orientato, in modo autonomo (e per alcuni aspetti opposti al pensiero braudeliano) in direzione dello studio della «crisi» del xvi secolo per sfociare infine nello studio del rapporto tra la «crisi» europea e la situazione dell'America iberica nello stesso periodo. Se le due prime preoccupazioni avevano dato luogo agli articoli citati alla nota 1 del primo capitolo e ad un seminario presso quella che allora si chiamava Ecole Pratique des Hautes Etudes (Vle section) durante l’anno accademico 1960-61, l’ultimo problema (che costituisce la parte essenziale di questo libro) è stato messo a punto nel corso di una serie di seminari che ho tenuto presso l’Università di Ginevra nel 1984-85. La lista dei miei debiti è lunga. Innanzi tutto i miei Maestri: Fernand Braudel, Earl J. Hamilton, Ernest Labrousse. Li ho di certo traditi. Ma non me ne vorranno perché erano grandi Maestri, della razza di quelli che non insegnano i percorsi da seguire ma i sentieri da evitare... In seguito. Gli amici americani: Alberto Flores Galindo, Manuel Burga, Zacarias Moutoukias, Enrique Tandeter, Herbert Klein, Tulio Halperin Donghi (e ne dimentico). Gli amici italiani: Ugo Tucci, Clemente Ancona, Rosario Villari e altri

ancora. Gli amici francesi: come dimenticare il buon Jean Meuvret? E gli olandesi (Bernard Slicher van Bath); i polacchi (Marian Malowist, Antony Magzak, Bronislaw Geremek, Andrej Wirobisz, Witold Kula, Henryk Samsonovicz); gli svizzeri

(Jean Frangois Bergier, A.M. Piuz); i tedeschi (Wilhelm Abel, Herman Kellenbenz); gli inglesi (Frank C. Spooner, Hugh Trevor Roper, Eric J. Hobsbawm). La lista è certamente incompleta. Questi amici, i loro lavori, mi hanno insegnato molto. E come sempre quando si impara, ho certamente capito male. Li ringrazio

quindi per l’insegnamento e mi scuso per le deformazioni che ne ho fatto. Nicolas Sanchez Albornoz, Maurice Aymard, Marcello Carmagnani, Frédéric

Mauro, Horst Pietschmann, Thierry Saignes, Nathan Wachtel hanno letto il manoscritto di questo libro e mi hanno fatto partecipe dei loro dubbi. Ho tenuto conto di una buona parte delle loro osservazioni, non di tutte. Non mi nasconderò dietro la loro autorità di scienziati per trovarvi una protezione ai miei errori. Tengo a citarli per esprimere loro — anche se ci troviamo in disaccordo su molti punti — tutta la mia amichevole riconoscenza. IX

Sai TAI

ga

Mal

i

Me

= LAN i

ì

IN GUISA DI INTRODUZIONE: I TERMINI DELLA QUESTIONE

PIC

Fin dagli anni cinquanta e per più di venti anni non ho smesso di appassionarmi a un periodo decisivo, conosciuto per lo più con l'epiteto di «crisi del Seicento». Parallelamente, la storiografia europea ingaggiava un ampio dibattito i cui aspetti essenziali sono stati riuniti in due volumi?. Aspetti essenziali ma non esaustivi: idue volumi non tengono conto di alcuni importanti contributi slavi (soprattutto polacchi), cechi o ungheresi; inoltre, dalla loro pubblicazione nel 1965 e 1978, si sono aggiunti numerosi articoli e libri’.

! Il mio interesse per questo problema si è manifestato nei seguenti articoli: À Florence au XVIle siècle. Industrie textile et conjoncture, in «Annales. Economies Sociétés Civilisations», vi, 1952, pp. 508-12, ora tradotto in R. Romano, L'Europa tra due crisi. XVI e XVII secolo, Torino 1980; Tra XVI e XVII secolo. Una crisi economica: 1619-1622, in «Rivista storica

italiana», voay, 1962, ora in Romano, L'Europa tra due crisi, cit.; Encore la crise de 1619-22, in «Annales. Economies Sociétés Civilisations», n. 1, 1964, pp. 31-37, ora tradotto in Romano, L’Europa tra due crisi, cit.; Le déclin de Venise au XVII siècle, in collaborazione con F. Brau-

del, P. Jeannin e J. Meuvret, in aa.vv., Aspetti e cause della decadenza veneziana nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961, pp. 23-86; L'Italia nella crisi del secolo XVII, in «Studi storici», nn. 3-4, rx, 1968, e in aa.vv., Agricoltura e sviluppo del capitalismo, Roma 1970, pp. 467-82, ora in R. Romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino 1971. Prego il lettore di non

considerare queste auto-citazioni come una forma di vanità: più semplicemente, mi sembra doveroso informarlo di quale sia la mia posizione all’interno di un dibattito che, a suo tempo,

ha avuto una certa importanza. E ciò a maggior ragione dal momento che avrò più volte l'occasione, in questo lavoro, di rimettere in causa i miei lavori precedenti. ? Crisis in Europe. 1560-1660, a cura di T. Aston, London 1965, trad. it. Crisi in Europa,

‘Napoli 1968; e The General Crisis of the Seventeenth Century, a cura di G. Parker e L.M. Smith, London 1978, trad. it. La crisi generale del XVII secolo, Genova 1988. } Per esempio, cfr. P. Kriedte, Spatfeudalismus und Handelskapital. Grundlinien der Europischen Wirtschaftsgeschichte vom 16. bis zum ausgang des 18. Jabrbunderts, G6ttingen 1980; e J. De Vries, The Economy of an Age of Crisis, 1600-1750, Cambridge 1976. Ctr. anche A.D. Lublinskaja, La crisis del siglo XVII y la sociedad del absolutismo, Barcelona 1979 (trad. spagnola dal russo); I. Wallerstein, The Modern World System: Capitalist Agriculture and the

OPPOSTE

CONGIUNTURE

È possibile oggi riprendere i temi essenziali di questo dibattito? E, soprattutto, ne vale la pena?

Per rispondere a quest’ultima domanda occorre riprendere alcune delle conclusioni a cui si è giunti.

Innanzi tutto, gli studiosi si sono trovati d’accordo sulla constatazione che c’è stata davvero una crisi economica e politica, che ha interessato tutta l’Europa centrale e occidentale. Crisi politica: il gran numero di rivolte e rivoluzioni che scuotono

l'Europa, dall'Inghilterra a Napoli, dalla Francia alla Turchia, costi-

tuiscono un chiaro segno di questa crisi politica che, d’altra parte, alcuni contemporanei — come Gian Battista Birago Avogadro o

Maiolino Bisaccioni* (Venezia era ancora un buon osservatorio della grande destrutturazione dell'Europa) — vedevano con chiarezza. Crisi economica: gli indicatori di cui si dispone (dalla demografia ai prezzi, dalla produzione «industriale» alle emissioni monetarie,

passando per il commercio) mostrano in generale una netta tendenza al ribasso. Tutto sembra sprofondare. Ma una volta posti questi elementi, validi per il sistema politico come per quello economico, restano ancora diverse questioni, delle quali almeno due mi sembrano capitali: a) come (e perché) si entra nella crisi? e, soprattutto, come se ne

esce? In altri termini, se teniamo conto della geografia dei sistemi europei tra l’inizio del xvi secolo e l’inizio del xv, ci sono differenze? E se sì, di che natura?

b) e poi, la crisi fu «generale» soltanto nel senso geografico del termine? Oppure lo fu anche nel senso che coinvolse tutti, senza distinzione di gruppi o di classi sociali, senza distinzione di settori produttivi? In altri termini: il contadino francese, per esempio, ha sofferto la crisi di più o di meno del suo signore? In altri termini ancora: per chi la crisi offrì possibilità positive, aprì prospettive?

Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century, New York 1974 (trad. it. I/ sistema mondiale dell’economia moderna: agricoltura capitalista e le origini dell’economia-mon-

do europea nel sedicesimo secolo, Bologna 1978): quest’ultimo libro costituisce una vera e propria 57274 anche se mi sembra difficile accettarne tutte le tesi. Molto deludente l’ultimo (in ordine di apparizione) articolo di Ch. P. Kindleberger, The Economzic Crisis of 1619 to 1622, in «The Journal of Economic History», vol. 51, n. 1, marzo 1991.

* G.B. Birago Avogadro, Delle historie memorabili che contiene le sollevazioni di stato de’ nostri tempi, Venezia 1653; M. Bisaccioni, Historia delle guerre civili di questi ultimi tempi, Venezia 1653. Cfr. anche, in La crisi generale del XVII secolo, a cura di Parker e Smith, cit., a p. 13 la bella mappa che illustra le zone oggetto di guerre e/o di rivolte in Europa durante il corso del xvn secolo.

I TERMINI

DELLA

QUESTIONE

E su questi punti il grazioso accordo che avevamo potuto constatare a proposito del «fatto» della «generalità» della crisi si dissolve come per incanto. È dunque utile ritornare su questo problema interrogandosi sulle origini, le cause e il momento preciso in cui la crisi si è innescata.

Il problema della data è molto importante non per guadagnare qualche anno di prosperità... o per avere ragione contro qualche collega... ma per mettere in risalto i primi segni rivelatori del malessere generale. La data che in genere viene ammessa è quella del 1640-50. Io preferisco dire: 1619-22. La mia insoddisfazione rispetto alla data 1640-50 viene da due considerazioni: tu a) innanzi tutto un problema di «visione complessiva». Intendo dire che anche se per alcuni fenomeni è possibile constatare un cambiamento netto di tendenza solo intorno al 1640-50, ciò non significa gran che. Sui periodi di lunga durata non è il punto di massima di una curva che deve attirare l’attenzione, ma il momento in cui la curva comincia a manifestare un incremento decrescente. Anche

dopo una decelerazione è possibile riprendere l'ascesa... ma ciò che conta è il momento a partire dal quale il motore viene frenato”. b) in secondo luogo —- ed è il punto fondamentale — se si sceglie la data 1640-50, ci si preclude ogni possibilità di indicare la causa, le cause, l’origine di questa crisi. Con il 1640-50, la crisi è lì, «compiuta»: la si può constatare ma non la si può spiegare.

Per contro, la data 1619-22 consente in un certo senso una spiegazione d’insieme che si può articolare nel seguente modo: a) il xvi secolo è stato segnato, nell’insieme dell'Europa, da una crescita economica generale, frutto soprattutto dell’espansione agri-

cola: è quest’ultima che ha permesso lo slancio commerciale e industriale, e sostenuto il suo lungo persistere;

? Credo di poter dire (anche se al riguardo non ho nessuna prova di sostegno) che la preferenza per la data 1640-50 derivi dall’usanza di aver molto ragionato partendo dai prezzi (una fonte disponibile sotto forma di volumi numerosi, massicci e affidabili) e soprattutto dai prezzi espressi in grammi di metallo d’argento e/o d’oro. Dimenticando che i prezzi in grammi di metallo prezioso forniscono informazioni sullo stock metallico disponibile e scivolano su due fattori fondamentali: popolazione e produzione. A questo riguardo, cfr. l’importantissimo articolo di L. Einaudi, Dei criteri informatori della storia dei prezzi. Questi devono essere espressi in peso d’argento o d'oro o negli idoli usati dagli uomini?, in «Rivista di storia economica», v, 1940, ora in I prezzi in Europa dal XIII secolo a oggi, a cura di R. Romano, Torino

1967, pp. 505-17.

OPPOSTE

CONGIUNTURE

b) fin dall’ultimo decennio del xvi secolo questo sostegno agricolo comincia a venir meno ai settori commerciale e industriale. I quali si sosterranno ancora per due decenni, ma perderanno tutta la loro forza di accelerazione dopo il 1620. Sarà ancora possibile una loto «crescita», ma questa «ascesa» non riposerà più su di una vera

forza propulsiva. Insomma, mi sembra che a partire da questa crisi corta (ma distruttiva) del 1619-22 emergano in modo chiaro alcuni fenomeni: innanzi tutto la crisi strutturale dell’agricoltura fin dalla fine del xvi secolo, sulla quale si innestano le crisi corte del 1609-13 e poi, fon-

damentale, quella del 1619-22. È tutto un gioco di azione e reazione. La crisi strutturale dell’agricoltura rende più gravi le crisi cicliche; queste ultime, a loro volta, agiscono sulla struttura agraria che — ulteriormente indebolita — esercita un’influenza ancora più pesante sulla crisi congiunturale che segue. In breve, la crisi del 1619-22 non è che il momento

di verità

durante il quale esplodono tutte le contraddizioni, le debolezze, che si erano accumulate da una trentina d’anni. Niente di più e niente di meno. E non ho mai detto niente di più né niente di meno*. L’agricoltura, dunque, mi sembra il punto centrale per comprendere la crisi del xvi secolo (come del resto l'espansione del xvi).

Parliamo in modo semplice. È davvero possibile credere, ancora oggi, che le società pre-industriali trovino il loro motore economico in attività mercantili, bancarie, «industriali»? Se ciò fosse vero (cioè

possibile), una buona parte dei problemi del sotto-sviluppo odierno sarebbe risolta... Il fatto fondamentale — e che tale resta — è che queste economie trovano il loro punto reale di forza soltanto nel© Ammetto di non comprendere (o di comprendere troppo bene...) le riserve della Lublinskaja (La crisis del siglo XVII y la sociedad, cit.) espresse a p. 102: «Per quanto riguarda il punto principale della concezione di Romano — la priorità dello sviluppo dell’agricoltura rispetto allo sviluppo dell'industria — è inammissibile. La culla del capitalismo è stata propriamente l’industria che a sua volta ha portato con sé, in misura maggiore o minore, la sfera agraria» (!). Non posso fare altro che aggiungere, tra parentesi, un punto esclamativo, e rimandare la signora Lublinskaja alla lettura di W. Abel, Agrarpolitik, Gòttingen 1967, e soprattutto di P. Bairoch, Révolution industrielle et sous-développement, Paris 1963; trad. it.

Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Torino 1967, in particolare le pp. 71-113. Dallo stesso orizzonte ideologico della Lublinskaja mi giunge un’altra critica: J.V. Polisénsky (Tricetletà valka a europeské krize XVII stoleti, Praha 1970) mi attribuisce un pensiero non mio: «Mettere insieme come fa Ruggiero Romano [...] uno studio dei prezzi agricoli e conclusioni di larga portata riguardanti l’intera Europa è un modo di procedere estremamente rischioso» (la citazione è tratta dalla trad. it. La guerra dei Trent'anni. Da un conflitto locale a una guerra europea nella prima metà del Seicento, Torino 1982, p. 8). Il fatto è che io non ho mai affermato niente di simile; al contrario, ho semplicemente sostenuto che i prezzi non costituivano un canone d'’interpretazione di valore assoluto (e si veda infra la nota 5).

I TERMINI

DELLA

QUESTIONE

l’agricoltura. Parafrasando Colbert, potremmo dire che «quando l'agricoltura funziona, tutto funziona...».

Oro, argento, banche,

galere, commercio, svolgono sicuramente una parte importante: ma è l'agricoltura che mena la danza. Senza voler con ciò rinnegare il pensiero dei miei maestri di gioventù, devo ammettere di preferire il pensiero di W. Abel, di B.H. Slicher van Bath o di P. Bairoch. Dopo questa breve giustificazione delle ragioni di una scelta (ma naturalmente tornerò su questo punto in seguito), possiamo tentare di riprendere alcuni punti lasciati in sospeso: in primo luogo, l'estensione geografica di questa crisi «generale». Possiamo dire davvero che essa coinvolse tutta l'Europa? E con intensità uguale? Per ciò che riguarda l’estensione spaziale, due paesi, l’Inghilterra e l'Olanda, riuscirono, in modo certamente diverso, a difendersi

dalla crisi e anche a trionfare su di essa. Il resto del continente — nonostante i contrasti che opposero un paese all’altro (se non una regione all’altra all’interno dello stesso paese) — non riuscì a sfuggire alle sferzate di questo immenso ciclone. Alla fine della crisi (diciamo verso il 1720-40), la carta economica dell’Europa risulterà profondamente sconvolta rispetto a quella dell’inizio del xvi secolo. E per ciò che riguarda la sfera politica? Anche lì, possiamo delineare una geografia differenziale. La «soluzione» delle diverse crisi politiche non fu la stessa per ciascuno dei paesi europei: i cambiamenti politici inglesi (soprattutto) condussero a delle forme di «liberazione» (non possiamo parlare di democrazia), mentre nel resto d'Europa la cappa di oppressione si fece molto più pesante (tranne, forse, che per la Francia e la Svezia che si assestarono su posizioni intermedie).

Ma cosa significano, dopo tutto, termini come «liberazione» e «oppressione»? Semplicemente una maggiore o minore limitazione delle offensive feudali che si riscontrano un po’ dappertutto. L’intera Europa (fatti salvi, lo ripeto, l’Inghilterra e i Paesi Bassi) subì, durante il corso del xvi secolo, un fenomeno di «rifeudalizzazione»,

anche se con pressioni diverse da una regione all’altra. Questa parola, «rifeudalizzazione», è stata criticata vivacemente”. Ma queste critiche mi sembrano più di ordine ideologico (e in ? Cfr. le considerazioni di M. Gukowski e di V. Rutenburg in aa.vv., Problemy sovetsko12-14 oktjabrja 1964, Mosca 1966, pp. 320-23 e 358-60; A. De Maddalena, Vespri e mattutino in una italjanskoj istoriografii. Materialy sovetsko-italjanskoj konferentsii istorikov, Moskva,

società pre-industriale, in «Rivista storica italiana», xc1u, n. 3, 1981, ora in Id., Dalla città al

borgo. Avvio di una metamorfosi economica e sociale nella Lombardia spagnola, Milano 1982. Ringrazio A. De Maddalena per aver riconosciuto che utilizzo il termine «rifeudalizzazione» in modo «peculiare» (p. 340, nota 12).

OPPOSTE

CONGIUNTURE

certi casi di piatta obbedienza politica) che reali. Rifeudalizzazione non presuppone assolutamente un periodo precedente di defeudalizzazione (anche se il xvi secolo presenta incontestabilmente, un po’ ovunque, alcuni segni in questo senso). Rifeudalizzazione vuol dire semplicemente un rinforzo della pressione dei signori sulle classi subalterne. Se l’espressione «rifeudalizzazione» disturba, possiamo

preferire quella di «reazione signorile». Semplice questione terminologica a meno che non si voglia invocare la stessa differenza stabilita tra «rifeudalizzazione» e «offensiva dei dominatori»*. Mi si permetta di aprire una parentesi. Fernand Braudel, nella prima edizione del suo grande libro sul Mediterraneo, intitolava il paragrafo 2 del capitolo 6 della seconda parte Une réaction seigneuriale?. Nella seconda edizione, del 1966, il punto interrogativo è scomparso. Cosa voleva dire, per Fernand Braudel, réaction seigneuriale? Essenzialmente, l’altra faccia di ciò ch'egli, nel primo paragrafo, definiva fallite de la bourgeoisie. Altro aspetto, ancora più interessante: mentre nella prima edizione la fazllite de la bourgeoisie precedeva la réaction seigneuriale (e il senso, mi sembra, era che la

prima aveva consentito il verificarsi della seconda), nelle edizioni seguenti è la réaction seigneuriale che — senza punto interrogativo, questa volta — precede la faz/lite de la bourgeoisie indicando in tal modo che è l’iniziativa della reazione che porta a questo fallimento. Questa questione terminologica e di antecedenza cronologica e logica ci conduce direttamente all’ultimo punto, che mi sembra il più importante.

Insistendo sul carattere «generale» della crisi, si è stati indotti a credere che l’intero corpo sociale dei diversi paesi sia stato colpito da questa crisi. Tuttavia mi sembra che ciò non sia vero. E che sia necessario porre con insistenza la seguente domanda: quali sono i gruppi che più hanno sofferto della crisi? Non risponderò adesso a questa domanda. Ma penso che essa ci introduca davvero al cuore del soggetto di queste pagine. Al di là della «generalità» della crisi del xvn secolo, si pone — e resta in buona parte insoluto — il problema di sapere se questa abbia potuto creare delle occasioni positive per alcuni gruppi sociali. Parlo di gruppi o di classi, e lascio da parte i fatti e le gesta di singoli individui. Guerre, carestie, pesti, crisi di ogni genere, costituiscono l’oc* L'espressione è di J. Jacquart nel suo contributo a Histoire économique et sociale du

monde, a cura di P. Léon, Paris 1978, vol. 2, trad. it. Storia economica e sociale del mondo, Bari 970:

I TERMINI

DELLA

QUESTIONE

casione di arricchimento di personaggi dotati di minor scrupolo o di maggiore iniziativa. Ciò dipende dai punti di vista: è sufficiente guardarci intorno, durante la recente crisi degli anni settanta, per individuare fenomeni impressionanti di formazione di ricchezza individuale. Anche in questo caso la vera questione è di sapere se, durante la «nostra» crisi, alcuni gruppi emergenti, alcune professioni o mestieri abbiano resistito meglio di altri. Se ci siano stati dei successi d'insieme. La questione si pone negli stessi termini per il secolo xvi. Ag-

giungiamo che questi problemi di «situazione», di «condizione» possono essere individuati in una doppia prospettiva. Diamo un esempio. La storiografia italiana ha parlato a lungo di «ritorno alla terra», per il xvn secolo. Si intendeva con questa espressione che i gruppi di mercanti, di imprenditori, interni alla società italiana avevano abbandonato le antiche attività di profitto per investire nella terra e vivere di rendita. Lasciamo da parte i molti dubbi che è possibile avere (e che infatti io ho) su questi «investimenti». Ma ciò che questa storiografia ha percepito come un «ritorno alla terra», cioè come un movimento dalla città verso la campagna, nella realtà storica è stato percepito dai contadini (i quali, fino a prova contraria, hanno un qualche significato negli affari della terra) come un «ritorno dei signori»?. Non si tratta naturalmente di scendere nella psicologia del profondo, ma più semplicemente di tener presente che lo stesso fenomeno ha sempre due facce e che è necessario percepire il più esattamente possibile chi ne subisce le conseguenze: nel caso specifico, si tratta di analizzare il modo con cui il peso della crisi è stato redistribuito. Ma porre il problema in questi termini vuol dire (o cercare di dire) cosa si intenda per «crisi». Non si tratta di elaborare un modello (termine abusato...). Piuttosto il contrario! La prima constatazione sarà che le crisi lunghe delle società pre-industriali sono diverse le une rispetto alle altre. Alcuni elementi possono essere costanti (che so? per esempio la debole parte di capitali fissi nella produzione «industriale»), ma i movimenti

d’insieme delle differenti crisi

sono comunque molto vari. Così, è possibile notare che le guerre (in particolare quella dei Trent'anni) hanno esercitato un certo ruolo! ? Questa fine notazione è di S. Worms, I/ problema della «decadenza» italiana nella recente storiografia, in «Clio», x1, 1975, p. 112.

10 Sembrerebbe che gli storici si siano lasciati trascinare — in questa sopra-valutazione delle conseguenze della guerra dei Trent'anni — dalla lettura della pièce di Brecht Madre

OPPOSTE

CONGIUNTURE

È possibile (e doveroso) dunque dire a proposito delle crisi ciò che Joseph Schumpeter diceva a proposito dei cicli: «non sono come le tonsille, fenomeni separati che possono essere trattati di per

sé, ma sono come il battito del cuore, l’essenza dell'organismo che le

manifesta» !!. Un problema di specificità, dunque. E questa specificità ci permette di dire che senza dubbio la crisi del xv secolo si concluse con una più forte concentrazione di potere economico e con una insufficiente ricomposizione dei legami tra stato e società che si erano fortemente rilasciati a crisi incipiente. Ho riletto, durante questi ultimi anni, non dico tutta la letteratu-

ra che si è accumulata in più di trent'anni sulla «crisi generale», ma certamente una buona parte. Questa lettura è avvenuta dopo un decennio durante il quale mi ero disinteressato quasi totalmente di questo argomento. Certamente grazie a questo distacco sono riusci-

to a comprendere che la vera ragione di un gran numero di polemiche e di incomprensioni rimanda ad un fatto assai banale. Ciascuno parla di crisi senza definire preliminarmente cosa intenda con questo termine. Soprattutto, alcuni intendono parlare di crisi politica, altri di crisi economica, altri ancora di crisi sociale e/o culturale. Dunque, per evitare qualsiasi equivoco, dirò chiaramente che io

non mi occuperò degli aspetti politici (o meglio li affronterò solo di passaggio, per prendere in esame i rapporti che esistono tra la mia spiegazione economica e gli aspetti politici stessi) e mi atterrò per lo più agli aspetti economici. In questa prospettiva economica, che fare?

Lasciamo da parte gli schemi interpretativi di oggi (0, se li vogliamo mantenere, consideriamoli soltanto come griglie di interpretazione) e ritorniamo a quelli classici. Cosa ci raccontano questi classici a proposito delle crisi dell’epoca pre-industriale? Che le due maggiori componenti sono la popolazione (il numero degli uomini) e i beni (soprattutto — per non dire esclusivamente — agricoli) disponibili. Se la popolazione aumenta oltre le risorse alimentari, si entra in crisi. So bene che esistono altri

fattori (biologici, politici, amministrativi, igienici...) che occorre Coraggio, 0 dai due grandi romanzi di Grimmelshausen: Lebensbeschreibung der Erzbetriigen und Landstòrzerin Courasche e Abentheurlicher Simplizissimus. Con funzione di correttivo cfr. il bel saggio di R. Ergang, The Myth of the All-Destructive Fury of the Thirty years’ War, Pocono Pines (Pa) 1956. !! J.A. Schumpeter, Busirzess Cycles, New York-London 1939, trad. it., in edizione ridot-

ta, Il processo capitalistico. Cicli economici, vol. 1, Torino 1977, p. v. Il che ci ricorda l’immagine di Pigou, per il quale tutti i cicli appartengono alla stessa famiglia, pur trattandosi di una famiglia in cui non nascono mai gemelli...

10

I TERMINI

DELLA

QUESTIONE

prendere in considerazione ! e non lascerò che mi si rinchiuda in un grossolano malthusianesimo. Ma poiché il malthusianesimo esiste, occorre che ci si intenda. Se con questo termine intendiamo lo schema puro e semplice — riassunto dalle teorie del «rendimento decrescente della terra», del «potere d’acquisto crescente dei salari» e del «movimento contrario della rendita fondiaria rispetto ai salari», non vi è dubbio che rispetto ad esso è opportuno assumere un atteggiamento scettico. Occorre nondimeno ricordare l’avvertimento di un grande storico, Wilhelm Abel, che pure non è mai stato troppo accondiscendente con Malthus: «Tuttavia le teorie del “rendimento crescente del terreno”, del “crescente potere d’acquisto dei prodotti agricoli” e del “movimento contrario del salario e della rendita fondiaria” erano in una certa fase vicine alla realtà, e perciò ci sembra che lo storico dell’economia si privi di strumenti di conoscenza fondamentali rinunciando ad esse». Esaminiamo innanzi tutto l'evoluzione della popolazione e della produzione di beni alimentari. Per quanto riguarda la popolazione, vorrei indicare qui un solo elemento. Un calcolo grossolano (che riprenderò nel capitolo secondo) ci indica per l’insieme dell'Europa le seguenti cifre: Europa

Europa

(inclusa l'Europa orientale) 1500 1600 1700 1800

80.900.000 102.000.000 115.000.000 175.700.000

(esclusa l’Europa orientale) 59.800.000 75.900.000 82.800.000 118.900.000

Ora, queste cifre da un secolo all’altro ci offrono i seguenti tassi di crescita: Europa

Europa

(inclusa l'Europa orientale) 1500-1600 1600-1700 1700-1800

+26% +12% +53%

(esclusa l'Europa orientale) +27% + 9% +43%

!2 Cfr. a questo proposito E. Boserup, Évolution agraire et pression démographique, Paris

1970, p. 12.

5 W. Abel, Agrarkrisen und Agrarkonjunktur. Eine Geschichte der Land- und Ernibrungswirtschaft Mitteleuropas seit boben Mittelalter, Hamburg-Berlin 1966, trad. it.

i

OPPOSTE

CONGIUNTURE

La debole crescita del xvi secolo che emerge dal confronto tra 1600 e 1700 è nettamente evidente (e appare ancora più netta se si

considera che una grossa parte di questo 9% di «crescita» si è concentrata in Inghilterra, Paesi Bassi, Fiandre meridionali, e nei paesi

scandinavi). E l’agricoltura? Prendiamo come punto di partenza il fondamentale articolo di Slicher van Bath !4. Troveremo che, senza ombra di dubbio, vi è sta-

ta una diminuzione delle superfici coltivate (con l'eccezione olandese). Certo, una diminuzione delle superfici può essere compensata da un aumento dei saggi di rendimento. Ora, si dà il caso che questi abbiano registrato una forte percentuale di diminuzione in tutto il periodo 1600-1750. Altri segnali? Un po’ ovunque, vi è uno slittamento delle culture cerealicole verso l'allevamento tra il 1650

e il 1750 mentre, alla stessa

epoca, vi è una trasformazione di terre da coltura cerealicola a vigneti (il vino garantendo una rendita maggiore del grano in tempo di crisi). Ma, per essere completi, occorrerebbe riprodurre lo «schema delle circostanze che accompagnano i periodi di espansione e di contrazione agricola» (si veda oltre, alle pagine 47-49). Quali periodi di contrazione agricola ci indica? Il rx e x secolo; dall’inizio del xIv alla fine del xv; «1600 o 1650-1750»!

Altre testimonianze?

Prendiamo dunque Wilhelm Abel, che è ancora più categorico: «All’inizio del xvi secolo la secolare espansione dell’agricoltura s’interrompe bruscamente» !”. Agricoltura e popolazione, dunque. E qui si può a buon diritto porre una questione. Supponendo che si accetti un gioco di interazione tra questi due fattori, quale dei due agisce per primo sull’altro? Rispondere in modo categorico in favore dell’uno o dell’altro sarebbe un grossolano errore. Ad ogni modo, prima di proseguire, occorre ricordare un fattore fondamentale: le epidemie. Congiuntura agraria e crisi agrarie. Storia dell'agricoltura e della produzione alimentare nell’Europa centrale dal XVII secolo all’età industriale, Torino 1976, p. 302. E cfr. anche il saggio molto bello di E.A. Wrigley, Un modèle économique pré-industriel, in Malthus hier et aujourd'hui, a cura di A. Fauve Chamoux, Paris 1984, pp. 199-207. 4 B.H. Slicher van Bath, Les problèmes fondamentaux de la société pré-industrielle en Europe occidentale. Une orientation et un programme, in «Afdeling Agrarische Geschiedenis Bijdragen», n. 12, 1965. > B.H. Slicher van Bath, Ye/d Ratios, 1810-1820, in «Afdeling Agrarische Geschiedenis Bijdragen», n. 10, 1963. ‘0 Slicher van Bath, Les problèmes fondamentaux, cit. p. 38.

” Abel, Congiuntura agraria e crisi agraria, cit. p. 224.

la

I TERMINI

DELLA

QUESTIONE

FIG. I. Numero dei luoghi colpiti dalla peste nella regione nord-occidentale dal 1347 al 1800 (Europa tranne i Balcani, l'Ucraina, il basso Volga e il Caucaso) 150

100

50

0

Lohan,

1330 1350

1400

MTV 1450

1500

1550

1600

Ai 1650

1700

1750

1800

Fonte: J.N. Biaraben, Les bomzes et la peste en France et dans les pays européens et méditerranéens, 1, La peste dans l’histotre, Paris-La Haye 1975, p. 124.

Come qualificarle? Come eventi casuali? Non credo. Le epidemie (che, vorrei precisare, non sono sempre pesti nel senso tecnico

del termine) non giungono per caso. É su popolazioni biologicamente indebolite da un’alimentazione diventata insufficiente, poste

in condizioni igieniche deteriorate, che le epidemie trovano facile presa. Ma anche in questo caso il rapporto non è lineare: una carestia costituisce senza dubbio un terreno fertile e favorevole alla diffusione di un’epidemia, ma l'epidemia a sua volta crea — tramite le perdite umane, ma anche tramite lo scardinamento generale che introduce nelle regole della circolazione degli uomini e delle merci — le condizioni favorevoli per una nuova carestia. La ripetizione di queste concatenazioni minori: carestia — epidemia — carestia condu-

ce alle grandi crisi di «peste». Forse, tutto questo — detto in modo così rapido — è troppo categorico: ma ritornerò sul tema con maggior precisione nel secondo capitolo. Il grafico pazientemente costruito da Jean-Noél Biraben (fig. 1) mi sembra piuttosto chiaro: la peste, questa «malattia furiosa, tempestosa, mostruosa, spaventosa, raccapricciante, terribile, truce, traditrice» come la definiva Ambroise Paré, mostra nel xvi secolo un

volto terribile. Essa ha infierito a più riprese e con forza. Non vorrei che mi si facesse dire che io individuo nella peste l’origine della crisi del xvi secolo (sono stato uno dei primi a reagire, più di trent'anni fa, contro la concezione che faceva della peste del 1348-50 il motore 13

OPPOSTE

CONGIUNTURE

della crisi del xrv secolo!). Ma che essa costituisca un segno delle difficoltà demografiche e che abbia a che fare con la crisi dell’agricoltura, mi sembra-difficilmente discutibile. D'altra parte, le condizioni generali dell'economia influenzano, anch'esse, indirettamente, la demografia: così, per esempio, la crisi economica ha condotto ad un aumento dell’età del matrimonio, il che, naturalmente, si traduce in una diminuzione delle nascite. Quod scripsi, scripsi. E per porre termine a questo giro di pagine

introduttive, mi permetto di riprendere le conclusioni alle quali ero pervenuto nel 1963: 1) Il xvi secolo (che per la verità inizia verso il 1480) è stato contraddistinto, nell’insieme dei paesi europei (e anche extraeuropei) da una crescita economica generale, frutto dell’espansione agricola, che ha dato impulso ai commerci e all’industria, sostenendone il lungo sviluppo; 2) dopo il 1600, il sostegno dell’agricoltura viene a mancare ai settori commerciale e «industriale»; questi ultimi si sosterranno ancora per due decenni, ma perderanno tutta la loro forza di accelerazione dopo il 1620; 3) il xv secolo è caratterizzato da una stagnazione che colpisce l’insieme dell'economia europea, a cui sfuggono solo i Paesi Bassi — in modo del tutto particolare — e l'Inghilterra”.

Ho scritto queste parole nel 1963 e oggi non le rinnego. Tenterò di svilupparle nuovamente alla luce di ciò che la storiografia ci ha portato in un quarto di secolo abbondante.

Esordendo in queste pagine, mi sono chiesto se valesse la pena di riprendere il dibattito sulla crisi del xvi secolo. Ho risposto in modo affermativo, alla luce di ciò che la situazione interna allEuropa poteva suggerire.

Ma io penso che ci sia una ragione supplementare per riprendere questo dibattito. Analizzarlo rispetto a ciò che succede in America iberica. Cosa ne sappiamo? Poco o niente. Nel 1969, John Lynch ?° poneva, per primo, il problema in modo !# De Vries, The Economy of an Age of Crisis, cit. pp. 9-10. !° Romano, L'Europa tra due crisi, cit., p. 148. 20 Spain under the Habsburgs. Vol. II: Spain and America, 1598-1700, Oxford 1969, so-

prattutto a p. 212. E opportuno in questa sede richiamare un articolo, la cui problematica è molto fine, di N. Sanchez Albornoz, América y la economia europea postrenacentista, in «Anuario de Investigaciones Histéricas de la Universitad del Litoral», n. 2, 1957, pp. 165-74, e G. Cespedes del Castillo, Las Indias en el siglo XVII, in Historia de Espaiia y América, a cura

di J. Vicens Vives, vol. Im, Barcelona 1972, pp. 439-535.

14

I TERMINI

DELLA

QUESTIONE

corretto (anche se lo faceva con prudenza e sotto la forma di un dubbio), e si interrogava sulla trasmissione della crisi europea al-

l'America. In seguito Jonathan I Israel?! ha mostrato la resistenza dell'economia messicana a più livelli, e ha insistito sugli aspetti politici — di politica interna, messicana — della crisi. Infine, nel 1981,

Herbert Klein e John TePaske? hanno dimostrato almeno due punti fondamentali: l’attività mineraria messicana, durante il xv secolo, si

è mantenuta a livelli superiori ai massimi che aveva raggiunto alla fine del xvi secolo e una parte di questa massa di argento è rimasta — per diverse ragioni sulle quali avrò modo di tornare — in Messico. A monte di questa bibliografia limitata (ma importante), il piccolo libro di Woodrow Borah: New Spain's Century of Depression?. La sua tesi è indicata molto chiaramente fin dall’introduzione: «Indicherò come dal 1570 e fino a un secolo dopo, l'economia della Nuova Spagna ha sofferto di una contrazione» 4. Gli argomenti offerti da Woodrow Borah sono numerosi, e anche se non si appoggiano ad un apparato documentario irreprensibile, sono fino a un certo punto convincenti. P.J. Bakewell nella sua importante introduzione alla traduzione spagnola dell’opera di Borah lo mostra chiaramente, pur fornendo una chiave di lettura molto originale. Innanzi tutto: l’espressione usata da Borah di «depressione» nel caso del Messico, vuol dire essenzialmente la «diminuzione della

produzione agricola totale dovuta alla diminuzione rapida e indiscutibile della popolazione indigena» ”.

21 J.I. Israel, México y la «crisis general» del siglo XVII, in Ensayos sobre el desarrollo econbmico de México y América Latina (1500-1975), a cura di E. Florescano, México 1979, pp. 128-53 e dello stesso autore, Razas, clases sociales y vida politica en el México colonial — 1610-1670, México 1980.

2 H.S. Klein-J.J. TePaske, The Seventeenth Century Crisis in New Spain: Myth or Reality?, in «Past & Present», n. 90, febbraio 1981, pp. 116-35. Cfr. anche il dibattito che ha fatto

seguito a questo primo articolo: dibattito al quale hanno partecipato H. Kamen, J.I. Israel, J.]. TePaske e H.S. Klein in «Past & Present», n. 97, febbraio 1982 e l’importante articolo di H.S. Klein, Ultimas tendencias en el estudio de la hacienda colonial hbispanoamericana, in «Papeles de economfa espafiola», vol. 20, 1984, pp. 39-48. Questa lista sarebbe incompleta senza segnalare l'importante libro di B.H. Slicher van Bath, Spaans Amerika omstreeks 1600, UtrechtAntwerpen 1979. 2 W. Borah, New Spain's Century of Depression, Berkeley-Los Angeles 1951. 2 W. Borah, E/ siglo de la depresion en Nueva Espaia, México 1975, con una presentazione di P. J. Bakewell e un’appendice di L. B. Simpson. Salvo indicazione contraria citerò il libro di W. Borah nell’edizione messicana che è rivista e aumentata rispetto all'edizione in lingua inglese. Per una messa a punto delle tesi di W. Borah cfr. adesso il bell’articolo di J.C. Chiaramonte, Ex torno a la recuperacion econémica novobispana durante el siglo XVII, in «Historia Méxicana», xxx, n. 4, 1981, soprattutto le pp. 568-72. % P.J. Bakewell, Presentacion, in Borah, E/ siglo de la depresion, cit., p. 16.

16.

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Senza alcun dubbio, la caduta della popolazione messicana fu rapida e brutale: passò da undici milioni di abitanti nel 1520 a un milione e mezzo intornoval 1650. Ma riprese a risalire, dopo questa data (e molto probabilmente anche prima) per ritrovarsi a due milioni nel 17006. È vero che Borah esplicita altre argomentazioni. Ma sembrano meno convincenti. Per esempio, sulla base degli eccellenti lavori di G. Kubler?, egli segnala l’interruzione della costruzione di edifici religiosi in Messico, verso la fine del xvi secolo. Ma questa interruzione mi sembra normale: davanti ad una caduta enorme della popolazione, il grande progetto di creazione di una infrastruttura religiosa (conventi, chiese, cappelle ecc.) si trova compiuto ot-

tant’anni dopo la conquista... Perché dopo di allora continuare a costruire? Notate che, d’altronde, si continueranno a costruire chie-

se durante il xvi secolo (come qualsiasi turista può constatare) e soprattutto si arricchiranno di addobbi (con quadri, dorature in grande scala ecc.) quelle già esistenti. Insomma, questa «depressione» messicana (e sono convinto che essa possa essere estrapolata a tutto il continente) si riferisce essenzialmente all’aspetto demografico, copre il periodo che va dal 1570 (se non già dal momento della conquista nel 1519) al 1650 (o per meglio dire 1630) e non coincide assolutamente con la «crisi generale» europea del xvi secolo. Più recentemente questo concetto di «crisi del xvi secolo» è apparso in numerosi lavori relativi all’ America. Sul piano generale il compianto Tibor Wittman è intervenuto con un articolo importante

ma che purtroppo non è all’altezza della produzione del grande storico che egli fu?8. Josep Fontana ha scritto delle pagine illuminanti??, seguito da studi più puntuali come quelli di Luis Miguel Glave? e di Miriam Salas de Coloma?”', tralasciando il fatto che ormai

questo problema della «crisi» è sottostante a numerosi studi anche Borah, E/ siglo de la depresion, cit., p. 39. ? Cfr. in particolare G. Kubler, Mexican Architecture of the Sixteenth Century, New Haven 1948. 26

28 T. Wittman, La crisis europea del siglo XVII e Hispano-América, in «Anuario de Estudios Americanos», 1971, pp. 25-44. ? J. Fontana, Introduccion a J. Fontana, La économia espafiola al final del Antiguo Régimen, vol. n, Commercio y Colonias, Madrid 1982. 3° L.M. Glave, E/ virreinato peruano en la Ulamada «crisis general» del siglo XVII, in Las crisis econémicas en la historia del Peru, a cura di H. Bonilla, Lima 1986.

?! M. Salas de Coloma, Crisis en desfase en el Centro-Sur Este del Virreinato peruano: mineria y manufactura testil, in Las crisis economicas en la historia del Peru, a cura di Bonilla, cit.

16

I TERMINI

DELLA

QUESTIONE

se il termine non appare nel titolo. E non tutto è positivo, poiché è gia possibile percepire un abuso del termine e del concetto, come, per esempio, nei lavori di A. Carabarin Garcia? o di K.J. Andrien?., Devo anche recitare il mea culpa. Nel 1962, ho scritto un articolo? nel quale ho creduto troppo facilmente (e il fatto che altri si siano sbagliati allo stesso modo non mi arreca alcun sollievo) che la crisi europea si fosse trasmessa rapidamente al continente americano dall'Europa. Ora ciò è allo stesso tempo vero e falso. Se infatti si considerano, per esempio, le costruzioni grafiche di Huguette e Pierre Chaunu, non vi è dubbio che il commercio tra Siviglia e lAmerica spagnola si riduce considerevolmente durante la prima metà del xvi secolo. Alla stessa constatazione ci conduce il grafico classico di Hamilton sugli arrivi di metalli preziosi americani in Spagna. Mi sembrarono — a torto! — due punti forti per la determinazione della crisi americana. Ora, le forti correzioni apportate

recentemente” modificano questo punto di vista. Ma il problema va oltre questo primo fatto. Ammettiamo che Hamilton e gli Chaunu abbiano ragione. La loro verità si riferisce a delle situazioni spagnole, europee e non americane. Il grande commercio internazionale tocca alcuni gruppi sociali molto limitati numericamente: la massa della popolazione americana non partecipa di questa attività. Allo stesso modo, non sono le quantità di metalli

preziosi arrivati in Spagna (e in Europa) che interessano gli «ameri-

cani» ma le quantità che restazo in America. Ammetto dunque di essermi sbagliato partendo da grafici «falsi». Il mio errore più grave è stato di dare valore «americano» a fenomeni che non interessavano l’America iberica nel suo insieme. Per conoscere questa realtà occorre, certo, studiare prezzi e monete,

commercio e «industria». Ma soprattutto, occorre tentare di sapere cosa succede a livello di due grandi componenti: l'agricoltura e la popolazione.

32 A. Carabarin Garcia, Las crisis de Puebla en los siglos XVII y XVII. Algunos lineamientos, negli atti dell’x1 International Congress of the Latin American Studies Association, Universidad Auténoma de Puebla, Iztapalapa 1983, pp. 1-9. % K.J. Andrien, Crisis and Decline. The Viceroyalty of Peru in Seventeenth Century, Al buquerque 1985. Nonostante lo scivolamento concettuale intorno al termine «crisi» questo lavoro apporta molte conoscenze sul xvi secolo peruviano. 34 Romano, Tra XVI e XVII secolo. Una crisi, cit. % Cfr. M. Morineau, Incroyables gazettes et fabuleux métaux, Paris 1985.

17

OPPOSTE

CONGIUNTURE

In altri termini, la popolazione indigena (cioè la grande massa della popolazione) aumenta o no? Vi è o no una più grande disponibilità di beni per questa popolazione? E infine: si manifestano segni di liberazione (per timidi che siano) all’interno delle masse? Insomma, per l’America iberica del xv secolo si pone lo stesso problema che ho introdotto a proposito della «crisi generale» in Europa. Crisi: per chi? Nel contesto europeo (rifeudalizzazione o no), possiamo rispondere: per la maggior parte della gente. Non sono sicuro che si possa dire la stessa cosa per l’insieme americano. E se le cose stanno come io penso, ci troviamo davanti ad un fenomeno molto importante che, credo, non è mai stato studiato: quello delle contro-congiunture. È il problema delle congiunture opposte dell’Europa e dell’America iberica che deve attrarre la nostra attenzione. La «crisi» del xvi secolo può costituire un’eccellente pietra di paragone.

18

Da

IL NUMERO DEGLI UOMINI

Ho già sottolineato, nelle pagine precedenti, l’importanza del fattore demografico nella storia economica in generale e nello studio delle crisi lunghe in particolare. Una tendenza storiografica ha addirittura visto (esagerando) nei movimenti di popolazione la chiave di volta, il motore di tutta l’attività economica. Così, per la crisi del x1v secolo, si è fatto ricorso all’emorragia

determinata dalla peste del 1348 per spiegare l'origine di tutti i malanni che si sono abbattuti sull'Europa durante più di un secolo. Allo stesso modo, si potrebbe essere tentati di dare come spiegazione della crisi del xvn secolo la grande ondata epidemica del 162930... Ma prima di proseguire, occorre aprire una parentesi sulle cause delle grandi ondate epidemiche. Ci sono tre modi di rispondere a questa domanda: a) si considerano le pesti come dei fattori casuali, quasi l’espressione di una volontà soprannaturale («Digitus Dei hic est»...) che punisce in questo modo l’umano errare; b) si cerca un ragione «umana», «terrestre»;

c) come mi suggerisce Maurice Aymard, si può pensare ad un terzo fattore: legato alla dinamica della malattia stessa, e del suo virus o bacillo. Per definizione, ogni malattia, soprattutto epidemica, rimanda a tre serie di cause: l’uomo, la vittima che deve imparare a preservarsi; l’ambiente, un ambiente fortemente umanizzato; il virus

stesso. Circa l'evoluzione di quest’ultimo elemento nel contesto del xvixvi secolo non sappiamo niente. Per ciò che riguarda l’ambiente possiamo pensare che la creazione di ospedali, lazzaretti ecc. abbia potuto esercitare un certo ruolo positivo (anche se in modo molto limitato). Infine vengono le capacità dell’uomo di preservarsi: se con 19

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ciò si vuole intendere un’evoluzione della scienza medica, non vi è

molto da segnalare per il periodo in questione. Piuttosto, è possibile pensare ad una diffusione dell’immunizzazione contro le malattie «europee» tra la popolazione aborigena d'America. E su quest’ultimo punto tornerò più avanti. Esaminiamo quindi le prime «spiegazioni».

Eliminiamo d’ufficio la prima interpretazione, che equivale a una negazione del mestiere dello storico. Se accettiamo la seconda via di indagine, dove si può giungere? Possiamo iniziare a individuare dei fenomeni naturali come l’influenza delle macchie solari. Ma «dobbiamo renderci all’evidenza,

non vi è manifestamente alcuna relazione tra i due fenomeni, poiché le ondate di peste si verificarono indifferentemente sia durante un punto di massimo, sia durante un punto di minimo dell’attività solare»! Vi è un’altra causa naturale che potrebbe essere presa in considerazione: il clima. In questo contesto, il solo elemento certo viene dal fatto che «l’umidità favorisce l’epidemizzazione della peste attraverso la sua azione sulla biologia delle pulci»?. Ma «se il clima esercita una funzione sulla evoluzione [l’evoluzione, non l'origine]

della peste, sembra essere una funzione meramente occasionale». Questa causa «naturale» attribuita al clima ci conduce verso

qualcosa di più concreto, di più umano: i raccolti. Senza ombra di dubbio, il clima esercita una certa influenza sui raccolti e dunque — nelle società che hanno una insufficiente circolazione di prodotti pesanti come i cereali — sulla alimentazione. Ma raggiungiamo qui, mi sembra, il dominio del possibile: una carestia (o un pessimo raccolto, una serie di due o tre raccolti mediocri) indebolisce la popolazione e la rende facilmente vulnerabile. Non è finito: una carestia comporta anche delle migrazioni importanti dalla campagna verso la città dove strutture annonarie (pubbliche, religiose, private) permettono di non «morire di fame». Ma questa affluenza di uomini nelle città mette in discussione la validità delle strutture igieniche ivi esistenti, già assai precarie (quando avremo una storia delle fogne?). ! J.N. Biraben, Les homes et la peste en France et dans les pays européens et méditerranéens, 1, La peste dans l’histoire, Paris-La Haye 1975, p. 133.

? Ibid., p. 135. > Ibid. p. 139.

* A tutto ciò si potrebbe aggiungere ancora un elemento: la guerra. Ma non vi è correlazione diretta tra epidemia e guerra: si pensi alla peste del 1665 che esplose in periodo di piena pace. Peraltro, è certo che le guerre costituiscono un terreno (e un veicolo) favorevole alla diffusione delle epidemie.

20

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

Possiamo dunque immaginare la catena seguente: carestia — epidemia (e dico epidemia, non peste). Bisogna poi considerare che l'epidemia (come la carestia) comincia a ridurre il numero degli uomini; ciò compromette il lavoro dei campi e aumenta quindi i rischi di una nuova carestia. Lo schema completo (come avevo an-

ticipato nel primo capitolo) è quindi: carestia — epidemia — carestia”. Ma non finisce qui. Su una popolazione progressivamente indebolita da questa situazione meccanica di «disgrazie» si abbatte, ad un certo punto, la peste, quella vera. E quindi una ripetizione del meccanismo carestia — epidemia — carestia che porta alle grandi ondate di peste (1348, 1630, 1665...). Gli esempi non mancano*. Qualcuno controbatterà che questi 2

° Per una spiegazione più dettagliata, cfr. R. Romano-A. Tenenti, Die Grundlegung der modernen Welt, Frankfurt a. M. 1967, pp. 9-16, trad. it. Alle origini del mondo moderno (13501550), in Storia Universale Feltrinelli, Milano 1967, vol. 12. Recentemente M. Livi Bacci, Popolazione e alimentazione, Bologna 1987, ha rimesso in discussione il modello malthusiano.

Ma le sue conclusioni non mi sembrano decisive. Innanzi tutto cosa significa il fatto che «in anni di normalità» l’alimentazione non costituisce «l’elemento determinante della mortalità» (p. 160)? Quali sono (e quanti sono) questi anni «di normalità», per esempio nel periodo che va dal 1314 al 1348? La tabella (p. 55) che indica come vi sia un’influenza «minima, inesistente» tra alimentazione e peste non dice un gran che. Nessuno, infatti, che io sappia, ha sostenuto che la peste del 1348 è dovuta alle carestie di grano del 1346 e 1347. Ciò che conta è la catena ripetitiva carestia-epidemia-carestia. Una catena che è tanto più chiara se si osserva la tabella in questione, dove viene indicato che su «colera, diarrea, malattie respiratorie» l’alimentazione esercita una «influenza ben definita». Inoltre, Livi Bacci afferma che «il freno repressivo

malthusiano della scarsezza di risorse alimentari non ha operato sulla scala del lungo periodo ma piuttosto sull’onda del breve» (p. 160). Ma una serie di onde brevi costituiscono un lungo periodo, e mi sfugge come si possa sostenere il ruolo in gran parte esogeno della mortalità (trascinata dalle epidemie) dopo aver indicato la relazione tra alimentazione, da una parte, e colera, diarrea, malattie respiratorie ecc. dall’altra e aver dichiarato che «le vicende storico-

epidemiologiche della peste, del tifo, del vaiolo e di tante altre infezioni sono lontane dall’essere chiarite» (pp. 160-61). L’ultima constatazione è sicuramente vera ma non elimina l’altra, la precedente, constatazione dell’esistenza di un rapporto alimentazione-epidemie... M. Livi Bacci sembra ammetterlo quando conclude il suo libro con un «ritorno a Malthus, ma per altre vie» (titolo dell’ultimo paragrafo del libro): l’importanza delle risorse alimentari non andrebbe vista sotto il profilo della relazione alimentazione/mortalità ma in quanto «sostegno e freno del matrimonio e della formazione di nuclei familiari» (p. 161). 6 Biraben, Les homes et la peste en France, cit., pp. 147-54. Per un esempio preciso molto ben studiato, cfr. E. Charpentier, Ure ville devant la peste. Orvieto et la peste noire de 1348, Paris 1962. Questo stesso schema carestia-epidemia-carestia può essere verificato nel contesto americano. Infatti, E. Florescano, Precios del maiz y crisis agricolas en México (17081810), México 1969, p. 160, lo ha mostrato molto bene nel contesto americano e le sue con-

clusioni mi sembrano piuttosto chiare: «per lo meno dieci delle grandi pesti che decimarono la popolazione della città [di México] durante il secolo xvm sono strettamente associate a crisi agricole. Almeno stando alle indicazioni dei contemporanei, le date in cui si verificano le crisi e le epidemie comprovano questa relazione. In sette occasioni, vale a dire nella maggioranza dei casi, gli anni di crisi precedono di alcuni mesi quelli di epidemia e coincidono simultaneamente con esse». Nei tre casi nei quali l'epidemia precede la carestia, il «periodo di massima

21

OPPOSTE

CONGIUNTURE

«esempi» non consentono una generalizzazione. Acconsentirò ad

una sola condizione: che non venga generalizzato lo schema inverso: epidemia — carestia — epidemia, la cui dimostrazione è ancora più difficile di quella dello schema che ho proposto qui, per non dire impossibile. Mi si permetta di aggiungere ancora alcune considerazioni a questo proposito. Innanzi tutto insisto sul fatto che non attribuisco a questo schema carestia — epidemia — carestia (che in ogni caso

deve essere visto nella sua ripetitività) la funzione di «causa determinante» della crisi. E ciò perché sono convinto del fatto che ur4 causa determinante non esista. Voglio semplicemente dire che questa concatenazione ha contribuito alla crisi demografica laddove una crisi demografica vi è stata. Inoltre riconosco volentieri che lo schema da me proposto non è di carattere generale: possiamo infatti accettare che i grandi (e in certe regioni anche i medi) proprietari sfuggano a questo ingranaggio. Ma questo aspetto, a mio avviso, non

elimina la validità d’insieme del mio schema. Ritorniamo ora alla nostra crisi del xvn secolo. Gli anni novanta del xvi secolo mostrano come ci sia stata, un po’ ovunque in Europa, una serie di carestie molto forti: nel 1598 (in Polonia e nei Paesi Baltici), nel 1591-1597 (in Italia e nei Balcani), nel 1595 (nelle regio-

ni atlantiche), nel 1597 (in Germania e in Europa centrale). Nonostante tutti gli sforzi per organizzare l’approvvigionamento”, le carestie colpirono le popolazioni e lo fecero in modo tanto più violento che ogni carestia fu seguita da un’epidemia. È in questo momento che inizia la debole crescita (e, in alcuni paesi, il calo) della popola-

zione europea, come si può constatare dalla tabella 1.

forza coincide con la massima intensità di queste» (p. 162). Una conferma di quanto detto viene da E. Malvido, Efecto de la epidemias y hbambrunas en la poblacion colonial de México (1519-1810), in Ensayos sobre la historia de las epidemias en México, a cura di E. Florescano

e E. Malvido, t. 1, México, 1982, p. 179 che per un insieme di epidemie diverse non esita ad affermare che esse erano «l’effetto di una grave crisi agricola». Un caso soltanto messicano? E. Tandeter-N. Wachtel, Le mzouvement des prix à Potosi pendant le XVIIe siècle, in «Annales. Economies Sociétés Civilisations», n. 3, 1981 (questo lungo articolo è stato pubblicato sotto forma di libro: Precios y producciòn agraria. Potosi y Charcas en el siglo XVIII, Buenos Aires, s.d. [ma 1983]; d’ora in poi citerò questo testo nell’edizione in lingua spagnola) offrono (tab. 8) diverse indicazioni sul ritmo delle epidemie e delle «carestie» o «scarsezze» a Potost. Gli autori non ne ricavano alcuna conclusione (salvo che per il rapporto siccità/prezzi) e il tipo della documentazione, unicamente qualitativa, non permette molte considerazioni generali: eppure, emerge un certo legame tra «carestie» o «scarsezze» ed epidemie. ? Cfr. F. Braudel-R. Romano, Navîres el marchandises à l'entrée du port de Livourne (1547-1611), Paris 1951, pp. 49 ss.

22

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

TAB. 1. La polazione dell'Europa, 1500-1800 (in milioni) 1500

1600

1700

1800

1,6 6,3

2,6 9,7

3,1 12,7

5,0 202:

Ovest © Sud! Centro ©

17,0 16,4 18,5

17,9 ZAR, 24,0

20,8 ZA 245

DIRI SHRS, Do)

Totale parziale

59,8

75,9

82,8

118,9

Est! Sud-Est

12,0 91

15,0 da

20,0 1252.

36,0 20,8

Totale parziale Totale generale

PAIS 80,9

26,2 102,1

32D 115,0

56,8 59

Nord? Nord-Ovest

Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia

Isole Britanniche, Paesi Bassi, Belgio

-.

Francia

Portogallo, Spagna, Italia Germania, Svizzera, Austria, Polonia, parte ceca della Cecoslovacchia sit] > VAI "SUR < INI RI La

Russia (parte europea)

8 Slovacchia, Ungheria, Romania, Paesi Balcanici Per ciascun caso, nelle frontiere attuali.

Fonte: P. Kriedte, Spatfeudalismus und Handelskapital, Gòttingen 1980, p. 12.

Dalla tabella che segue possiamo notare che i tassi di crescita tra 1500 e 1600, da un lato, e tra 1600 e 1700 dall’altro, sono stati molto

diversi: 1500-1600

1600-1700

Nord

63%

(9-96

Nord-Ovest Ovest Sud Centro Est Sud-Est

54% 5% 32% 30% 295% 23%

310296 16 % Dio Me E 5510 Ol,

Che lezione trarne? Innanzi tutto, occorre sottolineare il fatto che tra 1600 e 1700, tranne l’Ovest (Francia) e l’Est (Russia: parte europea), i tassi di

crescita sono stati tutti inferiori a quelli riscontrabili per il periodo 1500-1600. Inoltre, i tassi di crescita sembrano essere favorevoli

soprattutto all'Inghilterra e all’Olanda (oltre che alla Russia); sfavorevoli a Portogallo, Spagna, Italia, Germania, Austria, Polonia, e alla parte ceca della Cecoslovacchia. In posizione intermedia si trovano Francia, Svezia, Danimarca e Finlandia. Ora, tutto ciò sembra con23

OPPOSTE

CONGIUNTURE

fermare quanto avevo sostenuto nel primo capitolo — in prima istan-

za — a proposito di una geografia differenziale dell'economia europea del xvu secolo (naturalmente, anche all’interno dei paesi a basso tasso di crescita è possibile trovare delle nîcchie con andamento positivo; allo stesso modo, la stagnazione — o la crescita — non sono mai assolutamente lineari e un po’ ovunque sarà possibile trovare movimenti di flusso e riflusso di ampiezza variabile). Infine, poiché si parla del peso degli uomini, vorrei far notare, al di là dei rozzi dei differenti paesi, che gli abitanti del Sud e del Centro rappresentano, in nuzzero, circa il 43% della popolazione totale d’Europa. Ma torniamo un attimo sulla tabella di Peter Kriedte. Come ogni tabella di sintesi, anche questa è fortemente criticabile. Ma tentiamo di considerarla nel dettaglio, sulla base di tre studi relativi a tre paesi: Francia, Inghilterra, Italia. Per quest’ultimo paese Bellettini* fornisce le seguenti informazioni: 1600 1700

13,3 milioni di abitanti 13,4 milioni di abitanti

cioè un tasso di aumento praticamente nullo nel corso del secolo (anche se occorre tener conto del recupero dal punto di minimo — 11,5 milioni — raggiunto nel 1650). Per la Francia, assumendo i dati di Dupàquier?, si può osservare il seguente movimento: 1610-39 1670-99

19,4 milioni di abitanti 20,8 milioni di abitanti

cioè un tasso di crescita del 7,21%.

Infine, per il caso inglese si trova!!: 1600 1701

4.109.981 abitanti 5.057.790 abitanti

con un tasso di crescita del 23%. $ A. Bellettini, La popolazione italiana dall'inizio dell'era volgare ai giorni nostri, in AAvv., Storia d'Italia, vol. 5, Torino 1973, p. 497.

° J. Dupàquier, Histoire de la population francaise, vol. n, Paris 1988, p. 68. 10 La discordanza tra il tasso di aumento che si può dedurre dalla tabella di P. Kriedte e quello calcolato da me è dovuta al fatto che P. Kriedte considera la popolazione della Francia nel periodo 1580-1609 (17,9 milioni). Ho preferito invece tener conto del dato relativo al momento in cui la popolazione era più consistente, alla fine del «lungo xvi secolo». % ! E.A. Wrigley-R.S. Schaffeld, The Population History of England, 1541-1871, London

1981, p. 209.

24

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

Vediamo così confermata la tendenza di forte espansione demografica dell'Inghilterra, la debole espansione francese, la stabilità italiana (e si potrebbe aggiungere: di tutto il Sud europeo). Alle considerazioni sviluppate nelle righe che precedono, vorrei aggiungere alcune spiegazioni supplementari. A questo fine, inizierò considerando un fenomeno assai importante: l'abbandono dei villaggi (Weistungen) e/o dei territori agricoli (Flurwiistungen). A questo proposito, non riscriverò le conclusioni di un volume miscellaneo di cui sono stato il curatore per la parte storica !. Preferisco riprendere le conclusioni a cui è giunto Slicher van Bath: Da studi storici relativi alla Francia, alla Spagna, all’Italia, alla Grecia,

alla Germania, all'Inghilterra e alla Polonia risulta che il numero di villaggi abbandonati nel xvi secolo rimase inferiore a quello del tardo Medioevo, poiché la recessione agricola del 1660 risultò nel complesso meno pronunciata. Tuttavia la contrazione della superficie arabile fu un fenomeno europeo generale, e le guerre, aggravate dall’infuriare della peste durante il Seicento non possono esserne stata l’unica causa. In quasi tutti i paesi

europei si riscontra un mutamento radicale nei rapporti dei prezzi che incide negativamente sui prodotti agricoli in generale e sui cereali in particolare. Come si è visto precedentemente, una contrazione delle superfici coltivabili accompagnata da una caduta dei prezzi si può spiegare solo in base a una fase di declino demografico come confermano d’altro canto i dati di cui disponiamo.

So bene, come qualcuno mi ribatterà, che i termini Wiistungen e Flurwiistungen hanno significati molteplici. Per riprendere lo schema di Abel!, ecco la complessità del fenomeno: abbandono temporaneo abbandono permanente abbandono dell’abitato parziale totale

abbandono dei campi parziale totale

abbandono totale 12 an.vv., Villages désertés et histoire économique, XIe-XVIIIe siècles, Paris 1965; cfr. in

particolare la prefazione di F. Braudel, p. 8. 3 B.H. Slicher van Bath, Agriculture in the Vital Revolution, in The Cambridge Economic History of Europe, vol. v, Cambridge 1977; trad. it. L'agricoltura nella rivoluzione demografica, in Storia economica Cambridge. V, Economia e società in Europa nell'età moderna, Torino

1987, p. 69.

4 Abel, Congiuntura agraria e crisi agrarie, cit., p. 120.

25

OPPOSTE

CONGIUNTURE

tas. 2. Evoluzione delle città d'Europa (senza la Russia) divise per dimensione (1000-1700) Secolo 1000

1300

1500

1600

1700

10-20 20-50 50-100 100-200 200-500

(72) 35

(150) 80

(146) 74

(177) 85

(200) 98

3 il

% 4 1

17 3, 1

21 9 1

21 7 2

totale

111

242

241

294

330

5-10 10-20 20-50 50-100 100-200 200-500 più di 500 totale

(1200) (930) 970 215 si 460 _ 3765

(2540) (1960) 2250 415 460 230 _ 7855

(2500) (1900) 2100 1090 345 225 _ 8160

(3150) (2300) 2430 1350 1120 545 10895

(3350) (2600) 2830 1540 750 410 1080 12560

popolazione totale tasso di urbanizzazione*®

(39000)

75000

76000

95000

102000

(9,7)

10,4

10,7

115

123

Ampiezza delle città (migliaia di abitanti)

più di 500

-

È

=

5

2

Popolazione delle città (migliaia di abitanti) -

è Considerando come urbana la popolazione che vive nelle città con 5000 abitanti e più. Note: Il debole grado di arrotondamento dei dati non comporta affatto un margine di errore corrispondente. I dati tra parentesi comportano un margine di errore molto più importante degli altri. Fonte: P. Bairoch, De Jéricho è México. Villes et économie dans l’histoire, Paris 1985, p. 182.

Per la grande crisi del xrv-xv secolo, conosciamo tutta una serie di percentuali di abbandoni totali che vanno da un massimo del 26% in Germania (nei confini del 1933) all'11% in Danimarca. Per il xwn secolo, invece, non siamo in grado di valutare il fenomeno in

modo altrettanto preciso. Ma il problema non è di fornire qui delle percentuali esatte; si tratta piuttosto di verificare l’esistenza del fenomeno. Bene; quel che è certo è che: a) assistiamo per lo meno a raggruppamenti della popolazione di due o più villaggi in uno solo; b) constatiamo abbandoni di terre (per lo 72ex0 temporanei); inoltre molti casi di abbandono sono permanenti. Insomma, ne consegue — all’interno del contesto della crisi del xvi secolo — che non vi è soltanto il fatto che la popolazione (soprat26

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

tutto quella rurale) diminuisce o ristagna. Molto più importante è la constatazione che all’interno della popolazione (ripeto: intesa nella sua parte determinante per la vita produttiva, cioè la popolazione agricola) si manifestano segni molto gravi di disgregazione. Per contro, durante il xvn secolo, la struttura urbana europea non solo non si indebolisce ma al contrario si rinforza, come mostra

la tabella 2. E così che «la popolazione urbana, che rappresentava il 10-12% della popolazione verso il 1500, ne rappresenta il 10-13% verso il 1600 e l’11-14% verso il 1700», con delle variazioni geografiche molto forti: la popolazione urbana rappresenta — intorno al 1700 — tra il 5% e 18% del totale nei paesi scandinavi, ma tra il 38% e il 49% in Olanda. Ovviamente esistono anche casi di città che perdono, durante il xvi secolo, una parte della loro popolazione, come per esempio Venezia e Ginevra !9, alle quali la storiografia ha spesso prestato fin troppa attenzione. E ciò è successo dopo che Botero nel suo Della ragion di Stato, pubblicata a Venezia nel 1589, si poneva il problema della interruzione della crescita demografica di Milano e di Venezia. Ora, mi sembra che più che una città o un’altra, oc-

corre prendere in considerazione — come del tutto giustamente fa Paul Bairoch — la rete urbana europea nel suo insieme. Di fatto, la rete urbana durante il xv secolo se l’è cavata molto

bene. E ciò pone un problema supplementare: come le città (grandi e piccole) hanno potuto difendersi e, in certi casi, anche prosperare? Ci saranno forse dei tassi di nuzialità, mortalità, natalità diversi tra

città e campagna? Che esistano contrasti, è certo: ma non è certo (al contrario) che tali scarti siano a vantaggio della struttura urbana”. E

5 P. Bairoch, De Jéricho à México. Villes et économie dans l'histoire, Paris 1985, p. 187. !6 Così, per esempio, il caso di Ginevra. «Lasciando da parte le crisi demografiche che la hanno investita e le forti spinte momentanee dei rifugiati ugonotti, possiamo accettare per Ginevra, con Luis Binz e Alfred Perrenoud, le valutazioni seguenti: 4.000 abitanti nel 1407,

ma già quasi 10.000 nel 1464; 16.000 un secolo dopo (1570); stagnazione nel corso di tutto il xvi secolo, poi una nuova spinta: 20.000 verso il 1720, quasi 30.000 nel 1790»: J.F. Bergier, Villes et campagnes en Suisse sous l’Ancien Régime, in «Revue Suisse d’Histoire», n. 31, 1981, ora pubblicato in J. F.Bergier, Herzzès et Clio, Lausanne 1984, p. 101. Queste considerazioni di J.F. Bergier — che io condivido pienamente e che mi sembrano le uniche valide in termini di storia economica — devono essere sfumate. Se l’evoluzione del capitale demografico è quella indicata sopra, occorre sottolineare che il processo di recupero si verifica in seguito agli anni sessanta del xvm secolo: cfr. l’importante libro di A. Perrenoud, La population de Genève: XVIe-XVII siècles, t. 1, Genève 1979, p. 30.

7 Cfr. Bairoch, De Jéricho à México, cit., pp. 298 ss. Per l'importante problema dell’urbanizzazione delle masse contadine in Inghilterra, cfr. Crisis and Order in English Towns; 1500-1700, a cura di P. Clark e P. Slack, London 1972.

27

OPPOSTE

CONGIUNTURE

quindi? La sola spiegazione che resta valida — e che certamente lo è - concerne il fatto che le città si nutrono di uomini grazie alle immigrazioni dalle zone rurali8. Su un problema come quello della demografia europea nel xvn secolo, ci sarebbe materiale sufficiente per riempire pagine e pagine. Nonostante tutto, è possibile enunciare al proposito le seguenti conclusioni: a) la popolazione globale dell'Europa occidentale è, complessivamente (ma ci sono differenze da paese a paese), stagnante, con la forte eccezione anglo-olandese; b) nonostante questa stagnazione, si è verificata una tenuta, e in di-

versi casi una crescita della popolazione delle grandi città e la crescita di un numero importante di città piccole e medie, fenomeno che compensa la caduta di altre città dello stesso ordine di grandezza; c) ciò portaa stabilire che la rete urbana «verso il 1700» è più vicina a quella che ci sarà «verso il 1800» di quella che c’era «verso il 1600»;

d) questi fenomeni si sono realizzati nel quadro di un trasferimento di abitanti, dalle campagne verso le città. Immagino che le note qui proposte sulla differenza tra stagnazione e forza della rete urbana faranno piacere a tutti coloro che credono nella virtù propulsiva (il «polo di crescita...») della città. Tuttavia, non credo che le città — nelle società pre-industriali — esercitino questo ruolo. Esse sono in maggioranza parassiti della campagna; quando non lo sono (come fu il caso di Venezia nel suo periodo aureo — diciamo fino al xvi secolo), vivono nonostante tutto da parassiti grazie alle posizioni monopolistiche che sono riuscite a conquistare sui mercati della loro epoca. In conclusione di queste considerazioni sulla popolazione europea tra xvI e xvII secolo, occorre insistere sul fatto che la stagnazione della popolazione europea nel suo insieme è incontestabile, ed è ancora meno contestabile se si pensa che questa stagnazione si traduce in una contrazione della popolazione (effettivamente) attiva: quella agricola. Se ci trasferiamo nell’ America iberica, ci troviamo di fronte a una

prima constatazione indiscutibile. La popolazione aborigena ha su!8 Cfr. a questo riguardo le fini annotazioni (proposte con riferimento alla Svizzera ma ampiamente estendibili a contesti esterni alla Svizzera stessa) di Bergier, Vi/les et campagnes en Suisse, cit.

28

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

bìto, durante tutto il xvi secolo, una perdita immensa. Le cifre che sono proposte per dimostrare questa affermazione variano molto. Così, per il Messico, si parla indifferentemente di 11 o 25 milioni di abitanti al momento della conquista. Nella folla dei dati di cui possiamo disporre, preferisco quelli ricostruiti per l'America Centrale e Meridionale da Jean-Noél Biraben nel suo articolo audace e nello stesso tempo ben fondato! Anni

Milioni di abitanti

1250 1300 1340

26 DS) 29

1400

È,

1500 1600 1700 1750 1800

36

59 10 10 15 19

Cifre sicuramente approssimative. Ma perché stupirsene? È sufficiente pensare che gli annuari dell’onu presentano, per i dati sulla popolazione attuale, delle variazioni del 5% da un'edizione all’alDEI Ai fini che qui interessano, pertanto, dobbiamo ritenere tre dati in particolare: 39 milioni di abitanti nel 1500; 10 milioni nel 1600;

ancora 10 milioni nel 1700. Occorre quindi innanzi tutto spiegare la grande caduta del xvi secolo. Quali ne sono le ragioni? Ho già fornito spiegazioni altrove?! Pur accettando in parte l’idea di genocidio volontario (cioè assassinio al filo della spada), ho insistito maggiormente su altri fattori: l’arrivo in America di malattie infettive per le quali le popola!9 J.N. Biraben, Essai sur l’évolution du nombre des hommes, in «Population», 34, n. 1,

1979, p. 16. Vorrei sottolineare un’altra stima (che va ancora oltre nella direzione della mia tesi): la popolazione passerebbe da dieci milioni e mezzo nel 1600 a undici milioni e ottocento mila nel 1700, secondo i calcoli di J. Batou, Cent ans de résistance au sous-développement, Genève 1990, p. 171. J. Batou ha effettuato i propri calcoli sulla base dei dati di Sanchez Albornoz, La poblacion de América latina desde los tiempos precolombinos al ao 2000, Madrid 19772, e C. McEvedy-R. Jones, A#las of World Population, Harmondsworth 1978. 2° Su questo problema cfr. E. Naraghi, L’étude des populations dans les pays è statistique incomplète, Paris-La Haye 1960. 21 R. Romano, Les mécanismes de la conquéte coloniale: les conquistadores, Paris 1972, pp. 17-31, trad. it. I Conquistadores: meccanismi di una conquista coloniale, Milano 1974. E cfr.

anche J. Vellard, Causas biologicas de la desaparicion de los indios americanos, in «Boletîn del Instituto Riva Agiiero», n. 2, 1953-55, pp. 77-93.

29

OPPOSTE

CONGIUNTURE

zioni aborigene non avevano alcuna forma di immunizzazione naturale, il fatto che alcune popolazioni siano state trasportate (deportate) dagli altipiani con temperature fredde o miti sulle coste (o sul fondovalle) a temperatura calda o anche tropicale (e viceversa); i ritmi (più ancora che la quantità) di lavoro imposti dagli Europei e, infine, la distruzione della società (oserei dire: strettamente della

«famiglia», nel senso culturale del termine e non solo in quello demografico) indiana. Nicolis Sanchez Albornoz nel suo grande libro precisa questo ultimo punto e introduce un elemento che mi sembra estremamente importante: «el desgano vital», la mancanza di volontà di vivere”. Egli fornisce come prova di ciò il fatto che un po’ ovunque si riscontra una diminuzione della popolazione infantile per unità familiare. Ma perché questa caduta di natalità? Sicuramente sono sopravvenute cause psicologiche e cause di ordine socio-economico, tra di loro peraltro connesse. E ciò soprattutto nelle società indigene con una stratificazione sociale insufficiente. Perché mettere al mondo figli quando il futuro —- quello prevedibile da come si vive il presente — non promette niente di buono? È ciò che indica, in modo quanto mai chiaro, un testo di José Gumilla?, il quale, nello spiegare la sterilità volontaria delle donne indiane, constata che Due ragioni, tanto più forti, quanto meglio osservate, e corroborate da ampie riflessioni, ed esperienze, convincono e provano la suddetta volontaria sterilità; perché in primo luogo, molte persone di maturo giudizio hanno osservato che nei luoghi dove il numero degli indiani diminuisce visibilmente, si trovano diverse donne che non hanno alcun bambino e che sono completamente sterili, e sono quelle maritate con indiani; d’altro can-

to, si vede negli stessi luoghi e negli stessi centri abitati che tutte le indiane maritate con europei sono tanto feconde e mettono al mondo un così gran numero di bambini, da non essere da meno delle donne ebree che producono la posterità più numerosa. Chi non resterà sorpreso da una differenza così notevole tra donne che abitano lo stesso paese e con lo stesso clima? Quale può essere la causa occulta di questo effetto? In cosa consiste la differenza? Io dico che la differenza nasce dalla causa: la differenza consiste in ciò che se l’indiana che ha sposato un indiano procrea, aumentano gli indiani di umile condizione, disprezzati dagli altri abitanti, disposti a servire anche gli stessi schiavi negri [...], e gli indiani tendono ad abbattersi a causa del loro animo naturale e della loro innata timidezza;

? Sanchez Albornoz, La poblacion de América, cit., pp. 74 ss. ? J. Gumilla, E/ Oriroco ilustrado y defendido, Caracas 1963, p. 486.

30

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

sono costretti a pagare un tributo che, pur essendo leggero, è visibilmente per loro insostenibile. «Non vorrò mai mettere al mondo bambini in questo modo», dicono le indiane delle quattordici isole Marianne (dette anche dei Ladroni), o tutt'al più, se si risolvono a farlo, come mi ha assicurato

padre Benito di Moya, religioso Cappuccino, missionario apostolico e due volte prefetto delle sue Missioni, a proposito della Nazione dei Guayanos, si fermano al primo parto e prendono erbe per rendersi sterili. È certo che la sterilità volontaria, se procurata con tali medicine è detestabile, è con-

traria alla Legge di Dio e contraria al bene del genere umano; tuttavia non si può negare che esistono mali, i quali, di per se stessi o per il timore che causano, paiono essere peggiori della sterilità, presa in sé nel suo privarci di bambini che essa comporta.

Come dice Nicolas Sanchez Albornoz nel commentare lo stesso testo 4, «La stessa donna in condizioni uguali, ma socialmente distinte, cambia comportamento. A una migliore posizione sociale corrisponde una maggiore fecondità». Per spiegare questa caduta brutale della popolazione, possiamo prendere in considerazione ancora un'ipotesi: quella dell’amenorrea. Grazie agli studi pionieri di J.V. Jawoski?, studioso degli effetti delle carestie sulle amenorree, che avevano portato alla definizione di un particolare e caratteristico tipo di questa infermità (le «amenorree dovute a guerre o a carestie»), si è giunti a definizioni più complesse che introducono una nuova variante: quella dello stress ?°. Ora, non è escluso che lo stress che derivò dalla conquista, dalla distruzione della «famiglia», dalla paura, dai cambiamenti introdottisi nello standard (e nella qualità) della vita abbia condotto alle amenorree. In attesa di ulteriori lavori, non possiamo tuttavia che considerare questa come

un'ipotesi. Una volta presentate queste diverse «ragioni» della caduta, proviamo a vedere — alla luce di qualche caso più preciso, di dimensione locale — se ne troviamo conferma.

24 Sanchez Albornoz, La poblacion de América, cit., p. 77. C. Lazo Garcia-J. Tord Nicolini, E/ movinziento social en el Peru colonial, in «Historica», 1, 1977, p. 61 indicano molto chiaramente le forme di «accién autodestructora» (suicidio, mutilazione, alcolismo, aborto)

degli indiani. 3 J.V. Jawoski, Mangelhdfte Erndhrung als Ursache von Sexualstòrungen bei Frauen, in «Wiener Klinische Wachenschrift», n. 24, agosto 1916, pp. 1068 ss. Per un resoconto bibliografico su questo problema cfr. E. Le Roy Ladurie, L'amenorrhée de famine (XVIIe-XXe stècles), in «Annales. Economies Sociétés Civilisations», xx1v, 1969, pp. 1589-1601. 2% Cfr. H. Selye, Stress. The psychology and pathology of exposure to stress, Montréal 1950; trad. it. Stress senza paura, a cura di S.B. Curi, Milano 1976.

31

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Per il centro del Messico, tra il 1519 e il 1650, la popolazione aborigena sarebbe passata da circa undici milioni di abitanti a un milione e mezzo nel 16507. Nel caso del Perù, anche se non è possibile sottoscrivere una caduta che, in qualche decennio, avrebbe condotto la popolazione della costa al 5% del suo livello del 1532 ?8, dobbiamo accettare che l’insieme della popolazione indigena sia passata da 2.738.673 abitanti nel 1530 a 601.645 nel 1630? In Colombia, dove non disponiamo di dati complessivi (se non molto controversi?°) per l’insieme del territorio, sappiamo che in certe province il numero degli indiani sottoposti al pagamento del tributo si è sviluppato in questo modo:!: — Provincia di Tunja: da 232.407 nel 1537 a 44.691 nel 1636; - Provincia di Pamplona: da 35.000 nel 1560 a 5.000 nel 1637; — Cartagena: da 15.000 nel 1537 a 69 nel 1628. Per il Venezuela, Eduardo Arcila Farias? ci ha dato prove chiare (ma poco riducibili a statistiche) della caduta demografica nella valle di Caracas tra il 1567 e il 1589 (quali che siano le cifre prese in considerazione tra quelle di cui disponiamo, troviamo una diminuzione dal 60% al 20%). Insomma, ovunque possiamo constatare questa caduta impietosa della popolazione indigena. Anche dove possiamo ricorrere solo a semplici stime e/o a prove frammentarie —

27 S.F. Cook-L. B. Simpson, The population of Central Mexico in the Sixteenth Century, Berkeley 1948, pp. 46-47. Occorre segnalare che, in seguito, W. Borah-S.F. Cook, The Indian population of Central Mexico, 1531-1610, Berkeley 1960, hanno corretto questi dati per proporre una caduta da undici milioni di abitanti nel 1519 a un milione nel 1605. Preferisco la serie «bassa». Ad ogni modo, entrambe le serie sono di sostegno alla mia tesi. 2 J.H. Rowe, Inca Culture at the time of the Spanish Conquest, in Handbook of South American Indians, vol. 2, 1946, pp. 183-330.

? Cfr. l'importante libro di N.D. Cook, Derrographic Collapse. Indian Peru,1520-1620, Cambridge 1981, p. 94. E cfr. anche C. Vollmer, Bevò/kerungspolitik und Bevòlkerungsstruktur im Vizekònigreich Peru zu Ende der Kolonialzeit, 1741-1821, Berlin-Zùrich 1967, Pibvhl:

? Cfr. J. Jaramillo Uribe, La poblacion indigena de Colombia en el monento de la conquista y sus transformaciones posteriores, in «Anuario Colombiano de Historia Social y de la Cultura», 1, 1964, pp. 241-42. ?! G. Colmenares, Historia econémica y social de Colombia, 1737-1819, Bogotà 1973, p.

91; J. Friede, Los Quimbayas bajo la dominacion espariola, Bogotà 1963, pp. 251 ss. e, dello stesso autore, A/gunas consideraciones sobre la evolucion demografica en la provincia de Tunja, in «Anuario Colombiano de Historia Social y de la Cultura», 2, n. 3, 1965 pp. 5-19. E cfr. anche J.B. Ruiz Rivera, Ewcomzienda y mita en Nueva Granada, Sevilla 1975, p. 99 e S.F. CookW. Borah, La demografia històrica de las tribus de Colombia en los estudios de ]. Friede y G. Colmenares, in W. Borah-S.F. Cook, Ensayos sobre la historia de la poblacion, México 1977, vol. 1, pp. 388 ss. è E. Arcila Farias, E/ régimen de la encomienda en Venezuela, Caracas 1979, p. 54.

32

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

come per il Cile”, Panama”, Santo Domingo”, Cuba? e in qualsiasi altro posto — la regolarità (anche se con intensità differenti) di questo fenomeno è costante. Questa diminuzione della popolazione aborigena è (molto relativamente) compensata — a livello del continente — dall’arrivo degli schiavi e dei bianchi e dalla loro capacità riproduttiva sul posto. Per ciò che è dei primi siamo ben informati dall’importante Cersus ricostruito da Philip D. Curtin”, di cui fornisco qui gli elementi in cifre espresse in migliaia: Dal 1401 al 1500

Dal 1501 al 1600

Dal 1701 al 1810

Europa Sao Thomé Isole dell’ Atlantico

25,0 1,0 ro,

America Spagnola

0

75,0

292,5

578,0

Brasile

0

50,0

560,0

1891,4

0 0 0 0

0 0 0 0

26347 155,8 40,0 4,0

1401,3 13484 460,0 24,0

DA

0

0

348,0

Caraibi Caraibi Caraibi Caraibi

inglesi francesi olandesi danesi

USA € colonie inglesi del Nord Totale

23,8 75,1 Lib

Dal 1601 al 1700

DDD

241,4

122 23.5. 0

1341,1

(0) 0 0

6051,7

Ancora una volta i numeri sono sicuramente discutibili 38. Ma la tendenza è certa e può essere riassunta nel seguente modo: tra 1526 e 1600, 125 mila schiavi sono stati portati nell’ America iberica; altri 852.500 sono stati spostati tra 1600 e 1700. 3 R. Mellafe, La introduccion de la esclavitud negra en Chile, Santiago de Chile 1959, pp. 212 ss.

# O. Jaen Suarez, La poblacin del istmo de Panama del siglo XVI al siglo XX, Panama

19792, pp. 19-22.

3 F. Moya Pons, La Espariola en el siglo XVI, 1493-1520, Santo Domingo 1978}, p. 216. E cfr. anche H. e P. Chaunu, Sévzlle et l’Atlantique, t. vi, 1, Paris 1959, pp. 495 ss.

36 LA. Wright, The early history of Cuba (1492-1586), New York 1916, p. 199 e L. Marrero, Cuba: Economia y Sociedad, Madrid 1975, vol. in, pp. 1 ss. Ph. D. Curtin, The Atlantic Slave Trade. A Census, Madison 1975?. 38 F. Braudel, Civzlisation matérielle, économie et capitalisme. XV-XVIII" siècle: Les temps du monde, vol. 11, Paris 1979, trad it. Civiltà materiale, economia e capitalismo, m, I tempi del

mondo, Torino 1982, pp. 413-19, giunge a stime diverse: 900 mila schiavi nel corso del xvi secolo; 3.750.000 durante il xvi secolo; da sette a otto milioni durante il xvi secolo. Anche se i dati di F. Braudel mi sarebbero «di comodo», preferisco la stima «bassa» di Ph.D. Curtin

perché più sicura.

35

OPPOSTE

CONGIUNTURE

È vero che i 125 mila negri del xvi secolo?’ non hanno modificato la situazione demografica di un immenso continente. Allo stesso modo, la popolazione bianca nonostante la crescita (sia naturale sia alimentata da arrivi successivi dalla penisola iberica) non giunge a compensare i vuoti della popolazione aborigena. Di fronte alla caduta di quest’ultima — di cui si sono appena illustrate le dimensioni — cosa significa il fatto che la popolazione (cosiddetta) bianca sale, tra il 1570 e il 1646, per la Nuova Spagna da 63 mila a 125 mila persone e per il Centro del Messico da 57 mila a 114 mila? 4° Allo stesso modo, in Perù, la popolazione bianca passa da circa 25 mila persone nel 1570 a 70 mila nel 1650 e Lima, negli stessi anni, passa da 10 mila

a 15 mila bianchi”. Considerazioni analoghe valgono per il Cile“ e per qualsiasi altra parte del continente. Possiamo tranquillamente affermare che, a tassi differenti di sviluppo, vi è stata una crescita della popolazione bianca dell’ America iberica, ma che questa crescita non ha compensato la contrazione molto forte della popolazione aborigena. Al contrario, occorre pensare che questo aumento della pressione (di qualsiasi genere: in tributi, in lavori, in servizi di diversa natura) sulla popolazione indigena abbia contribuito a far scendere ulteriormente il numero di quest’ultima. È quanto faceva notare, nel 1594, il viceré del Messico in una lettera al re Filippo n: «Cresce ogni giorno di tanto la gente spagnola e i lavori e gli edifici pubblici, secolari ed ecclesiastici, e gli indiani diminuiscono in così gran numero, che si patisce il gran lavoro necessario a sostenere una macchina così complessa con così poca risorsa umana» #. Occorre anche

sottolineare il ruolo essenziale della popolazione bianca ad un altro livello: è per mezzo di essa che si mette in azione il dispositivo urbano dell'America (il cui «prezzo» — non possiamo dimenticarlo — è stato pagato dalla popolazione indigena). Jorge E. Hardoy e Carmen Aranovich “, utilizzando due cronisti 3° Sanchez Albornoz, La poblacion de América, cit., p. 94 considera le cifre proposte da Ph.D. Curtin «basse». 1° Borah, E/ siglo de la depresiòn, cit., p. 70. Per la crescita urbana messicana cfr. A.C. Van Oss, Architectural activity, demography and economic diversification: Regional of colonial México, in «Jahrbuch fùr Geschichte von Staat, Wirtschaft und Gesellschaft Lateinamerikas», xvi, 1979, pp. 97-145.

#! A. Rosenblatt, La poblacion indigena y el mestizaje en América, Buenos Aires 1954, vol. I, pp. 59 e 88.

5) SE A. Barros Arana, Historia general de Chile, Santiago de Chile 1885, vol. rv, pp. Cit. da Sanchez Albornoz, La poblacibn de América, cit., p. 85. # Cuadro comparativo de los centros de colonizacion espariola existentes en 1580 y 1630, in «Desarrollo Econémico», n. 27, ottobre-dicembre 1947, pp. 349-60 e, degli stessi autori,

34

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

TAB. 3. Evoluzione della distribuzione regionale del numero di città con più di ventimila abitanti in America latina (1500-1920) 1500* REGIONE DELLE ANDE

Bolivia Colombia Ecuador Perù MESSICO BRASILE REGIONI TEMPERATE

1600

1700

1750

1800.

20

Hi

Je

13

10

_ = = -

3 c 1 3

3 1 D 5

3 3 2 5

2 d; 2 4

6 16 4 vi

10 _

3 =

4 5) _

6 4 1

8 7 2

27 47 46

-

-

1

30

= -

1 -

1 -

13 3

1

D

4

25

Argentina

CIS

Cile Uruguay

— -

ANTILLE



Si -

America latina nell'insieme» 32 Popolazione urbana (milioni) — Popolazione totale (milioni) =" Tasso di urbanizzazione (in %) —

12 = 210,0: —

1920 33

DI 29 41 207 15. 100) 29 32 :12,0:00:15,000a20:0879L0 125691 13.0 Ti 25

a Sono comprese le regioni e i paesi non segnalati nella tabella. Il debole grado di arrotondamento dei dati non implica affatto un margine di errore corrispondente. » Dati molto approssimativi. Fonte: Bairoch, De Jéricho à México, cit., p. 499.

— Lopez de Velasco e Vazquez de Espinosa rispettivamente più o meno per gli anni 1580 e 1630 — hanno mostrato in modo incontestabile come città e villaggi abbiano tutti indici di crescita molto alti da una data all'altra: la maggior parte dei centri urbani conosce un salto di «rango» ‘?. Si aggiunga a ciò il fatto che su 260 località citate, cfr. anche Escalas y funciones urbanas en América hispdnica hacia el atto 1600, in El proceso de urbanizacion en América desde sus origines hasta nuestros dias, a cura di J.E. Hardoy e RP. Schaedel, Buenos Aires 1969. Si può trovare un’analisi complementare in Slicher van Bath, Spaans Amerika omstreeks 1600, cit., pp. 29-30. Per il problema della città in America iberica cfr. il libro fondamentale di J.L. Romero, Latinoamérica: las ciudades y las ideas, México 1976.

4 Hardoy e Aranovich hanno stabilito, per il confronto tra i due dati, i «ranghi» e le ponderazioni seguenti: 1580 + 2000 «vecinos»

1630 + 9500 «vecinos»

+ 500 «vecinos» + 90 «vecinos» da 25 a 90 «vecinos» da 10 a 25 «vecinos»

da 500 a 4000 «vecinos» da 250 a 400 «vecinos» da 60 a 250 «vecinos» da 10 a 60 «vecinos»

35

OPPOSTE

CONGIUNTURE

una sola (Valdivia, in Cile) appare «despoblada» non per ragioni endogene, socio-economiche, ma per cause esogene: la città è stata attaccata e distrutta nel 1599 dagli indiani in rivolta. Le conclusioni di Hardoy e Aranovich sono confermate in modo eclatante dai calcoli (a prima vista molto audaci, ma so di quanti sforzi eruditi essi sono il frutto) di Paul Bairoch (tab. 3).Così, alla

fine del xvi secolo il tasso di urbanizzazione dell’ America iberica è del 12,5%, non lontano dall’11-14% dell'Europa (cfr. supra p. 29): ma, naturalmente, non bisogna dimenticare che, rispetto alle dimen-

sioni del continente americano, il suo tessuto urbano è infinitamente più lasco rispetto a quello europeo...

Vi è infine, nel contesto del xvi secolo, un altro soggetto che appare sulla scena demografica (e socio-economica) dell’ America iberica: il meticcio e/o il mulatto (e tutte le numerose possibilità di incrocio che noi conosciamo con il nome di «castas» — se ne contano fino a 52!...)#6.La sua importanza numerica è difficile da stabilire, poiché rapidamente la distinzione etnica tra meticci e indiani diventa una distinzione d’ordine sociale. E, come dice Magnus Mòérner, «la crescita della popolazione meticcia è particolarmente sorprendente a partire dalla seconda metà del xvi secolo». Lo si vedrà dettagliatamente più oltre. Insomma, alla catastrofe che investirà la popo4 Mi sono divertito a calcolare le probabilità (teoriche, certo, ma con non poche possibilità reali...) di mescolanza in una popolazione composta da neri, indiani e bianchi. Dopo #2 generazioni, le possibilità sono: l'+ 2459.

+2"

2m+1)=

(2m + 2)(2m + 1) 2

così, se

0 1

3 possibilità 6 possibilità comprese le precedenti)

2 15 possibilità (comprese le precedenti) 3 45 possibilità (comprese le precedenti ) 4 152 possibilità (comprese le precedenti) i 30303830383 5 561 possibilità (comprese le precedenti) # M. Mérner, Le métissage dans l’histoire de l’Amérique latine, Paris 1971, p. 119. Per capire meglio questi fenomeni di mimetizzazione etnica occorre tener conto del fatto che vi sono una condizione legale e uno status sociale e che le differenze tra i due sono enormi: Condizione legale Status sociale 1) Spagnoli 1) Peninsulari 2) Indiani

2) Creoli

3) Meticci

3) Meticci

4) Mulatti, zarzbos e neri liberi 5) Schiavi

4) Mulatti, z472bos e neri liberi 5) Schiavi 6) Indiani (tranne i cacicchi)

L'interesse degli indiani (soprattutto quelli che vivono in città) a intrufolarsi tra i meticci

è evidente: cfr. Mòrner, Le métissage dans l’histoîre, cit., p.76.

36

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

lazione aborigena d'America non corrisponde alcuna compensazione: né per mezzo degli schiavi neri, né dei «bianchi», né dei me-

ticci o dei mulatti. Ad un xvi secolo di espansione della popolazione europea fa fronte un secolo americano di contrazione demografica. Nel secolo successivo, i dati proposti da Biraben per la popolazione dell'America centrale e meridionale (10 milioni nel 1600; 10

milioni nel 1700)‘ indicano già un primo fatto: la caduta iniziata durante il xvi secolo e che sembrava irrefrenabile, si interrompe. Ma vi è stata una stagnazione o si può addirittura parlare di crescita? Tutto dipende dall’anno che si prende in considerazione come punto di partenza. Se ci si pone al 1600 si può dire che fino al 1700-20 c'è stata stagnazione. Ma il fatto è che la popolazione indigena ha continuato a scendere in America nel corso del xvi secolo. Fino a quando? Fino al 1650, o molto probabilmente fino al 1630 (con delle varianti locali, naturalmente).

Il caso messicano è il più chiaro essendo quello meglio studiato. Dopo le indicazioni di Cook e Simpson?° che avevano fissato il nadir della popolazione indigena nel 1650, la forte reazione di José Miranda?! ha riportato il punto più basso al 1630. Non posso schierarmi a favore di una di queste due differenti interpretazioni (anche se guardando alle cifre preferisco quella di José Miranda). 4 Naturalmente vi sono state eccezioni: così, per esempio, Rabinal (Guatemala), fondata da Las Casas, che è rimasta sempre sotto lo stretto controllo dei Domenicani, ha conosciuto il seguente movimento demografico: 1538: 600 1625: 700 1700: 1200 1740: 2000

Cfr. N. Percheron, Les confréries religieuses de Rabinal à l’époque coloniale, in «Cahiers de R.C.P. 500», n. 1, 1979, pp. 64-65.

# Bairoch, De Jéricho è México, cit., p. 499, propone una serie diversa: 1600: 10 milioni 1700: 12 milioni 1750: 15 milioni 1800: 20 milioni Quindi la serie di P. Bairoch ci mostra una crescita della popolazione nel corso del xvn secolo.

7? Cook-Simpson, The population of Central Mexico in the Sixteenth Century, cit., p. 39. 3 J. Miranda, La poblaciòn indigena de México en el siglo XVII, in «Historia Mexicana», vol. x11, 1962, p.185. In seguito è stato indicato addirittura nel periodo antecedente il 1620 il nadir demografico della Nuova Spagna: cfr. Ensayos sobre la historia de las epidemias, cit. 53 Borah-Cook, The Indian population, cit., p. 56. Per un esame di questa polemica cfr. Chiaramonte, En torno a la recuperacion econémica, cit., pp. 568-70. Cfr. anche B.H. Slicher van Bath, De bistorische demografie van Latijns Amerika — Probleme enresultaten van onderzoek, in «Tijdschrift voor Geschiedenis», n. 12, 1979, pp. 527-56 e in particolare p. 539.

37

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Ad ogni modo, è importante constatare che la caduta continua dopo

l’anno 1600. Quindi, anche se durante i 100 anni presi in considera-

zione da Biraben vi è semplice conservazione di un patrimonio demografico, occorre sottolineare che questa conservazione si compone di una caduta (fino al 1630-50) e di un recupero. Resta peraltro il fatto che tra il 1646 e il 1742 la popolazione totale della Nuova Spagna passa da 1.712.615 abitanti a 2.477.277”. Questi dati globali, sui quali si è riflettuto a proposito dell’insieme della popolazione messicana, sono d’altra parte confermati dai movimenti di natalità di diverse parrocchie messicane studiate negli ultimi anni

le quali, tutte, mostrano un netto movimento al rialzo che

prosegue con estrema regolarità — e questo dato mi pare molto importante. D'altronde, in uno studio purtroppo inedito C.A. Rabel Romero ha mostrato in modo molto netto che «il più alto tasso di incremento di tutto il periodo coloniale si ebbe durante il secolo xvi» ??. Senza prolungare una lista molto noiosa di dati, mi permetto di rimandare al giudizio di J.C. Garavaglia e di J.C. Grosso i quali, nell’analizzare recentemente l’insieme degli studi messicani a questo proposito, scrivono che «sembrerebbe predominare l’ipotesi di una crisi che, partendo dalla terza o quarta decade del secolo xvm, avrebbe posto fine

al processo di recupero iniziato a metà del secolo precedente»”.

% G. Aguirre Beltrin, La poblacion negra de México, México 1972?, pp. 219 e 221. Si troverà conferma di questo movimento nelle situazioni locali. Per esempio a Cholula, tra il 1643 e il 1696 si passa da 8.500 abitanti indigeni a 10.650 (e a 11.150 nel 1743): cfr. F. Hermosillo, Cholula o el desplome de un asentamiento étnico ancestral, in «Historias», n. 10, 1985, p. 25; per il vescovado di Puebla-Tlaxcala, si constata tra il 1646 e il 1742 un «ritmo di crescita lenta ma continua (tasso medio di crescita annuale: 0,45%) che comporta una crescita

della popolazione del 35%»: M.A. Cuenya, Puebla en su demografia, 1650-1850, in AA.vv., Puebla de la Colonia a la Revolucion, Puebla 1987, p. 59. E in generale cfr. l'articolo di J.C. Garavaglia e J.C. Grosso, El comportamiento demografico de una parroquia poblana de la colonia al México indipendiente: Tepeaca y su entorno agrario (1740-1850), redatto il 20 agosto 1990, di prossima pubblicazione in «Historia Méxicana». % Cfr. in particolare M. Carmagnani, Derzografia e società. La struttura sociale di due centri minerari del Messico settentrionale (1600-1720), in «Rivista storica italiana», vol. Doxa,

1970; T. Calvo, Acazzingo. Demografia de una parroquia mexicana, México 1973; C. Morin, Population et épidémies dans une paroisse mexicaine: Santa Inés Zacatelco (XVIIe-XIXe siècles), in «Cahiers des Amériques latines», vol. 6, 1972; M.A. Cuenya, La crisis de Puebla en su de-

mografia, in XL International Congress of the Latin American Studies Association. Workshop W 313: Historia Regional de Puebla, a cura di R. Vélez Pliego e J.C. Garavaglia, México 1983

(ciclostilato); E. Malvido, Factores de despoblacibn y de reposicion de la poblacibn de Cholula (1641-1810), in «Historia Mexicana», xx,

1973.

? C.A. Rabel Romero, La poblacion novobispana a la luz de los registros parroquiales:

avances y perspectivas de investigacion , México 1984, p.114.

*% Garavaglia-Grosso, E/ comportamiento demografico, cit. (il corsivo è mio). Ringrazio J.C. Garavaglia per avermi offerto l’opportunità di leggere questo testo.

38

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

Non disponiamo, purtroppo, per altri paesi d'America di studi altrettanto precisi di quelli che abbiamo per il Messico. Ma le indicazioni sparse, gli indizi, testimoniano una ripresa demografica della popolazione indigena durante il xvi secolo. Innanzi tutto, si assiste un po’ ovunque ad un fenomeno di ringiovanimento della popolazione: a Sipesipe (in Bolivia), la popolazione maschile indigena «originaria» era composta, nel 1645, per il 44% di soggetti di età inferiore ai 14 anni”; a Otavalo (Ecuador), una forte preponderanza (il 46% del totale) della popolazione giovane è attestata già nel 1582?8, Vi è anche una ripresa della natalità: per esempio, a Pamplona (in Colombia), nel 1602 il 43% delle famiglie non aveva bambini, il 27% soltanto uno e il 19% due. Venti anni dopo, le proporzioni sono diventate rispettivamente 30%, 27%, 22%”. A Végueta, sulla costa peruviana, si constata che tra il 1623 e il 1683, tredici famiglie hanno tra 3 e 4 figli nel 1683, mentre nel 1623 soltanto 7 avevano lo stesso numero di figli: l’età del primo parto passa da 17 anni nel 1623 a 15 nel 1683 (con anche un caso di 12 anni); la dimensione delle famiglie aumenta: da 23 famiglie composte di una sola unità nel 1623, si scende a 19 famiglie nel 1683 e, soprattutto, da 0 famiglie di 6 membri nel 1623 si passa a 5 nel 16839, Non sarebbe difficile aggiungere altri esempi. Ma sarà meglio insistere sui casi aberranti o sui casi che mostrano una tendenza opposta a quella or ora indicata. Un caso aberrante: quello dello Yucatan. Qui, la popolazione indigena presenta l'evoluzione seguente ®: ” Cfr. N. Sanchez-Albornoz, Migracion rural en los Andes. Sipesipe 1645, in «Revista de Historia Economica», 1, n. 1, 1983, pp. 13-36. 3. S. de Paz Ponce de Leén, Relaciòn y descripcion de los pueblos del Partido de Otavalo (1582), in M. Jiménez de la Espada, Relaciones geogràficas de Indias. Perà, vol. n, Madrid 1965, pp. 240-41.

5? Sanchez-Albornoz, La poblacibn de América, cit., p. 112. Su questo problema della composizione della famiglia nella demografia storica dell'America spagnola, cfr. R. Mellafe, Tamato de la familia en la historia de Latinoamérica (1562-1950), in «Revista Historica», rv, n. 1, 1980 e E. Gonzalez-R. Mellafe, La funcion de la familia en la bistoria social hispanoamericana colonial, in «Anuario del Instituto de Investigaciones Historicas - Universidad del Li-

toral», n. 8, 1965, pp. 56-71. 5 N.D. Cook, La poblacin indigena de Végueta 1623-1783: un estudio del cambio en

la poblacion de la Costa Central del Peri en el siglo XVII, in «Historia y Cultura», n. 8, 1974, . 86-87.

a Per tutti, cfr. Rosenblatt, La poblacion indigena y el mestizaje, cit., pp. 213-65 dove l’autore riunisce esempi «particolari» sicuramente più validi dei suoi quadri d’insieme. | MC. Garcia Bernal, Yucazdn. Poblacion y encomienda bajo los Austrias, Sevilla 1978, p. 163.

39

OPPOSTE

CONGIUNTURE

1550 1586 Leg" 1607 1639 1643 1666 1688 1700

232.516 170.000 163.625 164.064 207.497 209.188 108.060 99.060 130.000

Quindi, dopo un colpo di freno alla diminuzione rilevabile fin dall’inizio del xvn secolo e una netta risalita che segue, si assiste ad una caduta piuttosto importante. Possiamo attribuirne la responsa-

bilità alle epidemie o alle carestie? Senz'altro. Ma credo piuttosto a un altro fattore, che la signora Garcia Bernal relega all’ultimo posto e che io porrei piuttosto al primo: le migrazioni, «causa permanente de despoblacién». Vi tornerò più avanti. I casi completamente negativi. In Perù, la popolazione indigena sembra cadere da 598.026 unità nel 1620 a 401.111 nel 1754 ®; in

Colombia, nella provincia di Tunja la popolazione aborigena rivela, tra il 1636 e il 1756, una diminuzione del 44% £#.

Ad ogni modo, sembra possibile affermare che a partire dalla metà del xvi secolo la popolazione peruviana «prende a salire lentamente da quel momento in poi». Ma come si può dire — in contrasto con i dati quantitativi — che vi è aumento della popolazione? La prima questione che occorre porre è la seguente: si tratta veramente di cadute? Perché il problema è il seguente: nel xv secolo è diventato ormai pressoché impossibile (salvo che nelle zone molto arretrate) parlare di popolazione indiana senza tenere in conto la popolazione meticcia (e insieme a questa la popolazione bianca). Diminuzione della popolazione indigena in Perù? Ma simile diminuzione è compensata — almeno in parte — dall'aumento della 6 Sanchez-Albornoz, La poblacion de América, cit., p. 113. E cfr. N.D. Cook, La poblaciòn indigena en el Peri colonial, in «Anuario del Instituto de investigaciones historicas de la Universidad Nacional del Litoral», n. 8, 1965, e dello stesso autore Derzographic Collapse, cit. Ma i lavori di N.D. Cook lasciano in dubbio per la loro costante confusione tra popolazione «indigena» e popolazione «tributaria»: cfr. C. Sempat Assadourian, La despoblacion indigena en Perà y Nueva Esparia durante el siglo XVI y la formacion de la economia colonial, in «Historia Mexicana», vol. xxxvm, 1989, p. 441. “4 Sanchez-Albornoz, La poblacibn de América, cit., p. 111. © R. Mellafe, Evoluzione del salario nel Viceregno del Perù, in «Rivista storica italiana»,

Lxxvui, n. 2, 1966, p. 401 e cfr. anche R. Mellafe, Problemzas demogràficos e historia colonial hispanoamericana, in «Temas de Historia Economica Hispanoamericana, Nova Américana», Paris 1965.

40

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

popolazione meticcia. Il fatto è che, fin dal xv secolo, giudicare il movimento globale della popolazione americana a partire dalla sola popolazione «indigena» rischia di indurre in errore. Intervengono infatti altri fattori: la crescita della popolazione bianca, l’arrivo di schiavi neri, e soprattutto la formazione di strati di popolazione meticcia. Soprattutto è la formazione di strati di popolazione meticcia (biologica o per acculturazione) che fa sentire tutto il suo peso: come giustamente nota G. Kubler «la composizione del Perù è un processo sociale e non biologico» (anche se ciò è più vero per il xvm secolo; ma il processo inizia incontestabilmente durante il xv secolo). Cercare la composizione etnica della popolazione peruviana (a partire dal xvn secolo) è un’impresa vana! E ciò vale per tutto lo spazio americano. Così, assistiamo intorno al 1660 a una migrazione

di abitanti di Comalaypa (regione di Chiapas) verso il Guatemala dove, come recita un documento dell’epoca, «han corrompido su

naturaleza degenerandose en mestizos» ”. Una «degenerazione», peraltro, che non richiede necessariamente un cambiamento reale,

per via sessuale, ma un semplice cambiamento del nome di famiglia. Così, per esempio, sarebbe interessante sapere cosa è successo a Végueta, sulla costa del Perù, tra il 1623 e il 1683. Ivi, alla prima

data, vi sono 67 famiglie con nomi indiani e 8 con nomi spagnoli; sessant'anni più tardi si trovano soltanto 23 famiglie con il nome indiano e 43 con il nome spagnolo ®8. Si tratta davvero di formazione di strati di popolazione meticcia sulla base di fattori etnici o, piuttosto, a motivo di una semplice adozione di nomi, di un fenomeno socio-culturale? Il documento relativo alla «degenerazione» che ho appena citato mi sembra un documento-cerniera. In effetti, mette bene in eviden-

za due fenomeni: la formazione di strati di popolazione meticcia per acculturazione e un altro elemento al quale è difficile dare un nome, un'etichetta. E la fuga di migliaia e migliaia di indiani verso margini di ripiego, zone di rifugio, per sfuggire alle esazioni fiscali e, in generale, alle oppressioni dei bianchi. Nel 1683 il duca de la Palata, viceré del Perù, denunciava a gran voce «la facilità con la quale gli indigeni mutano il loro domicilio ritirandosi nelle città e nascondendosi dove mai li possano raggiungere i loro caciques e governatori [...] per liberarsi in questo modo da obbligazioni servili e dal paga6 G. Kubler, The Indian Caste of Peru, Washington 1952, p. 65. 6 Cit. da A. Garcia de Leén, Resistencia y utopia, México 1984, t. 1, p. 66.

6 Cook, La poblaciòn indigena de Végueta, cit., p. 89.

4l

OPPOSTE

CONGIUNTURE

mento dei tributi». E il duca de la Palata conosceva bene l’argomento di cui discorreva; era al corrente dei grandi movimenti della popolazione dalle alte terre centrali sottomesse alle corvées nelle miniere (Potosi, Huancavelica...) verso le vallate interne amazzoni-

che (da Chachapoyas a Cochabamba, Misque e Chuquisaca) e le valli esterne del litorale pacifico dove queste stesse popolazioni diventavano inaccessibili a qualsiasi forma di censimento. Insomma, possiamo chiederci se, più ancora che di contrazione

demografica, non occorra piuttosto parlare (per il secolo xvi, non certo per il xvi) di riduzione della massa tributaria”. Siamo autorizzati ad optare per questa ultima spiegazione a motivo dell’apparizione di quel gigantesco fenomeno che si manifesta in America fin dal xvi secolo, ma che si afferma davvero solo durante il xvi secolo:

il vagabondaggio”!. Si tratta di migliaia di uomini, di tutte le pigmentazioni, che errano o che, se hanno una residenza stabile, sfug-

gono a qualsiasi tipo di controllo, ad ogni tecnica censuaria (la lingua spagnola distingue accortamente tra il vagaburndo — il vagabondo - e il vago — colui che è semplicemente un «irregolare», anche se «stabile»). Questi indiani, che noi incontriamo in qualità di «foresti» (forasteros) in una zona diversa da quella d’origine, quando rimpatriano (se lo fanno...) sono «ritenuti meticci» ”. Peraltro il fenomeno presenta dimensioni di tale importanza che, piuttosto che di vagabondaggio, occorrerebbe parlare, in certe regioni, di veri e propri fenomeni migratori”. 9 Cit. da Sanchez-Albornoz, La poblacion de América, cit., p. 110.

?° Cfr. a questo proposito N. Sanchez-Albornoz, Contraccion demogréfica o disminucion de la masa tributaria?, in Indios y tributos en el Alto Peri, Lima 1978, pp. 19-34.

?! Cfr. N.F. Martin, Los vagabundos en la Nueva Espaiia, México 1957. Ma, soprattutto, cfr. l’importantissimo articolo di M. Gongora, Vagabondage et société en Amérique Latine, in «Annales. Economies Sociétés Civilisations», xx1 (1966), pp. 159-77. Questo articolo è stato rifuso in una nuova stesura arricchita: M. Gongora, Vagabundos y sociedad fronteriza en Chile (siglos XVII y XIX), «Cuadernos del Centro de Estudios Socioeconomicos - Facultad de Ciencias Economica - Universidad de Chile», n. 2, 1966. ?? Sanchez Albornoz, La poblacion de América, cit., p. 115.

® Questo insieme di problemi che riguardano le emigrazioni, le fughe, la mobilità, ha attirato l’attenzione degli storici: cfr. N. Sanchez-Albornoz, Migracion urbana y trabajo. Los indios de Arequipa, in De historia e historiadores. Homenaje è José Luis Romero, México 1982, pp. 259-81 e, dello stesso autore, gli articoli citati alla nota 57 e alla nota 70 supra; J. Ortiz de la Tabla Ducasse, Obrajes y obrajeros del Quito colonial, in «Anuario de Estudios Americanos» , xxxrx, 1982, pp. 347 ss.; N.M. Farris, Maya Society under Colonial Rule, Princeton

1984, pp. 200 ss.; I. Fernandez Tejedo-F. Gresteau, La movilidad de la poblacibn rural yucateca (1548-1643), in «Historias», n. 13, 1986, pp. 27 ss.; R. Mellafe, The Importance of Migration in the Viceroyalty of Peru, in Population and Economics, Proceedings of Section V (Historical

42

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

E, a questo proposito, ritorniamo per un momento al «caso aberrante» dello Yucatan cui abbiamo accennato sopra. Possiamo constatare che tra il 1643 e il 1666, la popolazione indigena passa da 209.188 a 108.060: quasi la metà della popolazione sparisce. Questa scomparsa, senza ombra di dubbio, deve essere attribuita in parte

all’epidemia di febbre gialla (un’epidemia «nuova», «importata» dall'Africa e contro la quale la popolazione indigena — così come quella bianca — non era immunizzata) che tra il 1648 e il 1650 devastò lo Yucatan. Ma ciò è sufficiente a spiegare la sparizione di quasi centomila persone? Proviamo difficoltà a crederlo se si pensa che nel 1653 è stato possibile recuperare 22 mila indiani che si erano nascosti nelle «zone ancora non sottomesse al dominio spagnolo»”!. In queste condizioni è difficile credere che davvero possa esservi stata una perdita demografica nello Yucatàn così importante quanto sembra essere quella denunciata dai dati numerici. E la lezione di questa regione può servire anche per altri paesi dell’America spagnola. AI di là, comunque, dei dati numerici, vi è dunque un recupero

della popolazione indigena sotto forma sia diretta — apertamente indigena — sia camuffata — meticcia — sia, infine, nascosta — indiani

che spariscono. Come è stato possibile questo recupero? Vi sono molteplici ragioni che possono spiegarlo. 1) Innanzitutto (se metto al primo posto questo aspetto, ciò non

significa che io gli attribuisca un’importanza superiore agli altri) il

Demography) of the Fourth Congress of the International Economic History Association, a cura di P. Deprez, Bloomington, 9-14 settembre, 1968; A. Wightman, Indigenous Migration and Social Change: The Forasteros of Cuzco, 1570-1720, Duke 1990; C. Sempat Assadourian, La

organizacion econémica espacial del sistema colonial, nel suo libro E/ sisterza de la economia colonial, Lima 1982; N.D. Cook, Patrones de migracion indigena en el Virreinato del Peri: mitayos, mingas y forasteros, in «Histérica», xm, n. 2, 1989; L.M. Glave, Trajinantes: caminos

indigenas en el Virreinato del Peri, Lima 1989. Mi sembra che gli studi più significativi, dotati di un sistema concettuale molto raffinato, siano quelli di Thierry Saignes. Tra i suoi numerosi lavori cfr. Los Andes Orientales: historia de un olvido, Cochabamba

1985; Caciques, Tribute

and Migration in the Southern Andes. Indian Society and the 17th Century Colonial Order, London 1985; Politique du recensement dans les Andes coloniales: décroissance tributaire ou mobilité indigene?, in «Annales. Histoire, Economie

et Société», n. 4, 1987, pp. 435-68;

Parcours forains: l'enjeu des migrations internes dans les Indes coloniales, in «Cahiers des

Amériques Latines», n. 6, 1987, pp. 33-58; L’étude démographique comme outil d'analyse des stratégies paysannes d'accès aux ressources étagées: le cas des Andes orientales dans le système colonial, in Sociétés rurales des Andes et de l’Himalaya, a cura di J. Bourliaud, J.F. Dobrener,

F. Vigny, Grenoble 1990, pp. 197-202. 7 Garcia Bernal, Yucatin. Poblacion y encomienda, cit., p.111.

43

OPPOSTE

CONGIUNTURE

fatto che deve essersi creata — nella popolazione indigena (e l’incrocio delle razze ha probabilmente aiutato il processo) — una certa

(relativa) immunizzazione alle numerose malattie (influenza, vaiolo,

tifo ecc.) portate dagli europei. Cosa significa questo fenomeno? Che i malati guariti hanno acquisito una certa immunizzazione (e che essa è trasmissibile). In tal modo, è certo che il vaiolo «è ostaco-

lato nella sua diffusione quando la proporzione degli immunizzati nella popolazione raggiunge il 40%; e che si interrompe bruscamente se questa proporzione supera il 60%»?. Mi sembra di poter dire che l’impatto delle varie epidemie che colpirono la popolazione americana fu meno grande che durante il xvi secolo. Il problema, dunque, non è tanto di ricostruire le liste di epidemie che —

secondo quanto dicono i cronisti — si sono abbattute sul continente americano. Il ruzzero di queste disgrazie conta poco; molto più importante è il loro izpatto reale, una volta tenuto conto delle immunizzazioni. Così, per esempio, è certo che nel 1611-12 un’epidemia di difterite si è abbattuta su Lima ma non se ne trova traccia profonda nella curva dei decessi della parrocchia di San Sebastian”. Molto probabilmente, in questa parrocchia a popolazione mista (e urbanizzata da molto tempo) i fattori di immunizzazione hanno esercitato il loro ruolo. 2) Occorre prendere in considerazione un’altra ipotesi. Ho indicato come durante il secolo xvi si era manifestato nella popolazione un «desgano vital». Si tratta, ora, di sapere se durante il secolo xvi si fosse manifestata una nuova volontà di vivere e riprodursi. Nuova volontà determinata da numerosi fattori: a) di ordine psicologico. E in questo caso la spiegazione potrebbe essere doppia. Cioè sarebbe intervenuta una specie di rassegnazione, di accettazione di una condizione data e la natalità si sarebbe

ripresa all’interno di questo stato di rassegnazione. Oppure, al contrario, davanti ad una situazione di inferiorità, si può immaginare

che le masse indiane abbiano conosciuto un soprassalto di vitalità e che abbiano preso coscienza del fatto che la forte procreazione è già una forma di resistenza. Questa seconda alternativa è confortata, mi sembra, dall’esempio del Perù dove assistiamo, durante il xvi se-

colo, alla ripresa di ciò che Manuel Burga chiama l’«utopia andi5 Biraben, Les hommes et la peste en France, cit., p. 130.

® Cfr. C. Mazet, Recherches historiques sur le Pérou: la population de Lima au XVleXVIle siècle: Parroquia San Sebastian (1562-1689), Mémoire de maîtrise d’histoire, Université de Nice, 1975 (ciclostilato), p. 69.

44

IL NUMERO

DEGLI

UOMINI

na»? e che Marcello Carmagnani definisce per il caso della regione di Oaxaca, nel Messico, come «il ritorno degli dei»?8; b) di ordine socio-economico. Questo fattore lo riassumerò, qui, in modo schematico (ma vi ritornerò in seguito): la condizione indiana deve esser migliorata durante il xv secolo; c) peraltro è possibile che, in seguito a ciò che ho appena indicato, lo stress della conquista sia diminuito o che, ad ogni modo, ci si sia

abituati ad esso e le amenorree siano cessate (sempre che in precedenza vi fossero amenorree); d) infine, è molto probabile anche — come mi ha suggerito Nicolàs Sanchez Albornoz — che la diffusione del consumo delle proteine animali abbia contribuito ad una rivitalizzazione delle popolazioni indigene. 2» Ad ogni modo, resta un punto fermo: la massa della popolazione dell’America spagnola è diminuita durante tutto il xvi secolo e fino alla metà del xv secolo. A cominciare da questo momento (e in certe zone, anche prima), vi è una ripresa.

Se la caduta del xvi secolo ha delle cause esogene, portate e imposte dai bianchi (la spada della conquista, le epidemie, il sovraccarico di lavoro, la destrutturazione socio-economica

della società

indiana ecc.) la ripresa non può avere che cause endogene. Caso soltanto americano? Se si pensa, per esempio, alla caduta della popolazione algerina dopo la conquista francese, e alla sua ripresa successiva, si risponderà alla domanda in modo negativo. Si tratta di un fenomeno che possiamo definire «classico». Occorre pensare ad un nuovo equilibrio all’interno del quale le popolazioni locali hanno trovato un posto (più o meno riconosciuto), che permette loro di assumere (entro certi limiti) il controllo di un ordine coloniale: esse non ne sono gli artefici, ma hanno imparato a servirsene o per lo meno a difendersene o come sfuggirne e, infine, a ridurre a proprio profitto (sempre in misura relativa) un certo numero di meccanismi messi in piedi contro di esse. Occorre inoltre pensare che non è soltanto la popolazione indiana, quella meticcia-indiana e quella meticcia che aumenta. Dobbiamo anche considerare, ora, l'apporto demografico delle popolazioni

© Cfr. M. Burga, Nacimiento de una utopia, Lima 1988 dal quale risulta in modo assai chiaro la nascita di questa «utopia» intorno alla metà del xvi secolo come risposta della «astuzia» andina alle persecuzioni degli estirpatori di idolatrie. E cfr. anche A. Flores Galin-

do, Buscando un Inca, Lima 1987?. 78 M. Carmagnani, E/ regreso de los dioses, México 1988.

45

s

OPPOSTE

CONGIUNTURE

africane. Tra il 1600 e il 1700, 292.500 schiavi sono condotti verso

l’America spagnola (560 mila verso il Brasile). Si tratta di cifre importanti. Ma diventano ancora più importanti se si prende in considerazione il fatto che si tratta in gran parte di uomini (e donne) molto giovani. Quindi, anche se non vi è equilibrio sessuale nella popolazione schiava e anche se il tasso di natalità al suo interno non è mai molto alto, questi numeri hanno dato luogo ad una crescita naturale innegabile. È a partire dal xvn secolo che si creano le fondamenta di ciò che Roger Bastide chiamava le «Amériques NoiIE

IA

L’America bianca, per parte sua, durante questo stesso lungo xvi secolo se la cava bene: essendo sempre aumentata durante il xvi secolo, continua la propria crescita, per cause endogene o per gli arrivi dall'Europa. È dunque tutta la popolazione americana — al di là delle variazioni di pigmentazione — che mostra segni molto netti di crescita cominciando, diciamo, dal 1630-50. Mentre la curva

ascendente demografica europea fino ai giorni nostri comincia a disegnarsi in modo chiaro soltanto a partire dalla prima parte del xvi secolo, l'America spagnola! ci mostra questa linea ascendente già un secolo prima, Mi sembra quindi chiaro che il xvi secolo americano riveli una tendenza della propria evoluzione demografica al rialzo, opposta a quella europea che è (fatte salve le eccezioni indicate) stagnante oppure in diminuzione. Una contro-congiuntura, insomma, sulla

quale è utile riflettere. ?_R. Bastide, Les Amzériques notres, Paris 1967.

8° Sanchez-Albornoz, La poblacion de América, cit., pp. 117-19. Un freno alla crescita naturale della popolazione bianca deriva dal fatto che una parte importante di questa era demograficamente «inerte»: i religiosi. Anche se possiamo dubitare della totale «inerzia» sessuale dei religiosi... (basti porre attenzione alle denunce dei vescovi coloniali). 81 Per il contesto brasiliano si può molto utilmente far riferimento a M. Buescu-V. Tapajos, Historia do desenvolvimiento economico do Brasil, Rio de Janeiro 1969. I due autori propongono alcune ipotesi forse un po’ troppo azzardate ma sicuramente stimolanti. Se i dati demografici che forniscono sono molto discutibili (è impossibile credere che gli abitanti complessivi nel 1690 fossero 300 mila!) (p. 63), è certo che introducono una variabile di vivo interesse quando fanno notare (p. 67) che la superficie occupata dal paese chiamato Brasile varia da 25.800 chilometri quadrati nel 1600 a 110.700 chilometri quadrati nel 1700 e a 324 mila chilometri quadrati nel 1800 (in percentuale della superficie del Brasile odierno ciò comporta rispettivamente per le tre date lo 0,3%, 1'1,3% e il 3,8%). Trovo questo approccio particolarmente interessante anche se — lo ripeto — i suoi risultati attuali sono insoddisfacenti a causa della qualità mediocre dei dati demografici. Occorre notare che il numero di arcivescovadi e vescovadi passa rispettivamente da 3 e 28 alla fine del xvi secolo a 4 e 34 un secolo dopo. E questo costituisce una prova complementare, nonché una prova d’insieme, dell'aumento della popolazione: cfr. Cespedes del Castillo, Las Indias en el siglo XVII, cit., pp. 484-85.

46

sf IL MONDO

DELLA PRODUZIONE

Come comprendere nelle sue dimensioni reali un fatto così vasto come l’agricoltura europea? Le opere di sintesi per i diversi paesi non mancano!. A queste ricostruzioni «nazionali» occorre poi ag-

giungere due opere «generali europee», compiute da due grandi storici: B. Slicher van Bath? e W. Abel}. Complessivamente questa bibliografia, salvo rarissime eccezioni, offre conclusioni spesso poco chiare. Il che non denuncia una mancanza di qualità scientifica degli autori ma la complessità stessa dell’oggetto di studio. Una complessità evidenziata dal fatto che B. Slicher van Bath — per spiegare le fasi di espansione e di contrazione della vita agricola — ha potuto determinare, sui tempi lunghi, l’esistenza di 13 fattori costanti e di 60 variabili; sui tempi brevi, 55 costanti e 18 variabili...

Sicché alla prova dei fatti disponiamo di una ricca storia «nazionale» dell’agricoltura per la Germania, l'Inghilterra e l'Olanda. Sul piano continentale europeo, disponiamo delle opere «generali» dei due grandi storici appena citati. Per il problema della crisi del xvn secolo, vorrei partire proprio da una pagina di Slicher van Bath. ! Ma esse sono di differente qualità. Due grandi esempi: quello di Deutsche Agrargeschichte, a cura di G. Franz, vol. vi, Stuttgart 1963-84 (per il tema di questo saggio cfr. in modo particolare il vol. n di W. Abel, Geschichte der Deutschen Landwirtschaft von friiben Mittelalter bis zum 19. Jabrbundert, Stuttgart 1978’) e la grande opera The agrarian History of England and Wales, a cura di J. Thirsk, 8 voll., Cambridge 1967-1989 (per il periodo trattato qui si vedanoi voll. rv, v.1 e v.2). Eccellente opera quella di J. De Vries, The Dutch Rural Economy in the Golden Age, New Haven 1974. Exemplum ad deterrendum è invece G. DubyA. Wallon, Histoîre de la France rurale, 4 voll., Paris 1975-77.

2 B. Slicher van Bath, De agrarische geschiedenis van West-Europa (500-1850), UtrechtAntwerpen 1962.

3 Abel, Congiuntura agraria e crisi agrarie, cit.

47

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Schema delle circostanze che accompagnano i periodi di espansione e di contrazione agricola Recessione

Espansione

Periodi. Ix-x secolo Inizi x1v - fine xv secolo 1600 (o 1650) 1750

Periodi.

Età carolingia xI secolo - inizi x1v Fine xv secolo 1600 (o 1650) 1750-1817

Caratteri della recessione agricola. I prezzi dei cereali diminuiscono rispetto a quelli delle altre

Caratteri dell'espansione agricola. I prezzi dei cereali salgono rispetto a quelli delle altre merci e ai salari; ragione di scatnbio favorevole ai cereali.

merci e ai salari; ragione di

scambio sfavorevole ai cereali. Fenomeni economici e sociali.

Fenomeni economici e sociali.

. La contrazione in agricoltura non significa crisi globale; tocca i cereali, mentre in altri settori può esservi prosperità. . Non vi è inversione immediata

né diffusa contemporaneamente ed ovunque. I paesi produttori ed esportatori sono toccati per primi e più gravemente che

gli importatori. Contrasto fra i paesi agricoli e quelli industriali-commerciali. Situazione difficile per gli esportatori di cereali (paesi baltici) e favorevole per gli importatori (Paesi Bassi). . Fluttuazioni acute nei prezzi dei cereali. . Aumento dei salari reali.

Caduta dei salari reali. relativamente più alti per gli operai qualificati che per la manovalanza. Aumento dei canoni. maoSituazione finanziaria favorevole ai contadini proprietari.

MESSalari

Salari relativamente più elevati per la manovalanza che per gli operai qualificati.

NA

. Diminuzione dei canoni. . Situazione finanziaria sfavore-

N

vole per i contadini proprietari.

48

IL MONDO

DELLA PRODUZIONE

Differenziazione sociale crescente nella popolazione rurale: allungamento della piramide sociale verso il basso. Aumentano i piccoli coltivatori. . Nascita del proletariato rurale senza

8. Accorciamento della piramide

sociale. Diminuiscono i piccoli coltivatori.

terra.

. Casi di passaggio dall’industria all’agricoltura.

. Nascita di industrie rurali, spe-

Fenomeni agricoli. . Aumento della superficie e col-

Fenomeni agricoli. . Diminuzione della superficie a coltura: terre e villaggi abban-

tura attraverso

cialmente tessili. . Uso industriale di cereali: birra, distillazione, amido ecc.

dissodamenti,

polder, torbiere.

donati, inondazioni. . Erosioni, movimenti di sabbia. . Caduta dei quozienti di resa. . Passaggi da coltivazioni ad allevamento; terreni coltivati tra-

. Crescita dei quozienti di resa. . Passaggi dall’allevamento alle coltivazioni; prati e pascoli convertiti alle colture.

sformati in prati e pascoli.

Ig

1%: Maggiore produzione di forag-

18.

18. Maggiore produzione di cerea-

gio per il bestiame. li poveri (orzo, avena, grano sa-

raceno). 19: Maggiore coltivazione di essenze che esigono intensità di lavoro destinate all’industria (lino, luppolo, colza, garanza ecc.). 20. Ampliamento della vigna. Ze Aumenta l'allevamento delle

19:

20. Diminuzione della vigna. 21.

pecore con conseguente maggior produzione di lana. 22: Non si acquistano concimi per

22, Concimazione abbondante, acquisto di concimi, marnature.

la cerealicoltura e non si fanno marnature. 23: Scarsità di nuovi attrezzi (ara-

255 Introduzione di molti nuovi attrezzi (aratri, macchine); nuovi utensili relativi alla

tri, macchine); nuovi utensili,

specialmente per trasformare i prodotti lattieri e conservare il foraggio; loro destinazione alla più rapida trasformazione del prodotto.

cerealicoltura; destinazione di

questi all'aumento della produzione (barrocci, attrezzi per la coltivazione in solchi).

49

OPPOSTE

CONGIUNTURE

d >

24. Maggiore ampiezza dei poderi. 25. : 26. Ristampa di vecchi trattati di agricoltura.

24. Minore ampiezza dei poderi. 25. Lottizzazione in fondi sempre più piccoli. 26. Nuovi trattati di agricoltura.

La conclusione che si può trarre a proposito del xvi secolo (Slicher van Bath esita, per la data di inizio, tra il 1600 e il 1650) è che vi sia «crisi» (anche se Slicher van Bath preferisce parlare di «depressione dalla durata insolita»‘).Tale opinione è confermata da Abel secondo il quale «all’inizio del xvi secolo, l'espansione secolare dell’agricoltura s’interrompe bruscamente». Ma - ed è questa la questione più importante — questa «crisi» (0 depressione se si preferisce) è comune a tutta l'Europa o alcune regioni se ne salvano? E difficile dare una risposta categorica. Per quanto riguarda i quozienti di resa (rapporto sementi/raccolto), l'evoluzione si presenta complessivamente nel modo seguente‘: Zona I°

Periodi

NAT

YRO

1500-49 1550-99 1600-49 1650-99 1700-49 1750-99 1800-20

15 17 DI 25 506. STAN

74 Ve. 677 95 _ 10°L,. Ii

Zona II

N

YR

16. 16% — — e 2 12563 181-700 MICA 60

Zona III

N

YR

Zona IV

N

YR

32 640 367539 37. 44200159340 142% 0.45 823 4°0 12.094 O Sx O 21 820033 57805 GO 19544 -

2 Zona I: Inghilterra, Paesi Bassi; Zona II: Francia, Spagna, Italia; Zona III: Germania, Svizzera, Scandinavia; Zona IV: Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria. N= Numero di casi osservati; YR= Quozienti di resa.

E difficile trarre conclusioni precise da questi dati, posto il numero limitato di casi che la documentazione ci offre. Ciò detto, è

altrettanto difficile imputare a semplice conseguenza di fattori ca-

Slicher van Bath, De agrarische geschiedenis, cit., p. 227. ° Abel, Congiuntura agraria e crisi agrarie, cit., p. 224.

° Slicher van Bath, L'agricoltura nella rivoluzione demografica, cit., p. 81.

50

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

suali il fatto che, durante il periodo che ci interessa, è solo la zona 1

(Inghilterra e Paesi Bassi) a registrare un aumento. Il fenomeno

dell’abbandono

delle terre (Flurviistungen?), sia

pure se con diverse intensità da paese a paese, è anch’esso generale (anche se occorre tener conto delle eccezioni inglese e olandese), come si è visto nel capitolo secondo. Un po’ ovunque si assiste alla conversione delle terre da coltura in pascolo (salvo che in Inghilterra e nella Frisia dove si assiste piuttosto a fenomeni inversi)*. Ma si verificano anche cambiamenti che possiamo qualificare come positivi. Così la conversione di terre coltivate a cereali in terre destinate alla coltivazione di piante «industriali» (lino, luppolo, guado, canapa...). Tali modificazioni trovano riscontro essenzialmente nelle regioni come lo Herz, l’Erfurt, l'Olanda, ed esclusi (quasi) tutti gli altri paesi d'Europa. Questo fenomenoè interessante, perché ci troviamo di fronte ad una specie di risposta alla crisi. Un’altra risposta — anche se posta su di un altro piano — la ritroviamo in Inghilterra dove «l'aumento del potere d’acquisto dei prodotti animali (soprattutto lana e burro) rispetto ai cereali ha favorito la coltura della piante foraggere [...]. La coltura delle piante foraggere rendeva possibile il mantenimento di mandrie di bestiame più numerose, il che a sua volta significava una maggiore quantità di letame, senza il quale era impossibile aumentare i rendimenti». E su questo punto insisto. Un po’ ovunque — anche laddove ci si trovava in periodo di crisi generale — è possibile trovare segni di cambiamenti, di miglioramenti, di innovazioni. Sono i luoghi (come nel caso del Friuli o del Veneto) in cui si consolida la coltura del mais o, altrove, quella del luppolo, il che significa creazione (o rafforzamento) dell’industria della birra; oppure i luoghi dove è il prezzo della carne che rivela segni di ripresa. Ma il fatto fondamentale è che questi segni non compensano la caduta di tutti gli altri indicatori. Insistere sui primi per eludere i secondi non significa «sfumare» o «precisare», ma semplicemente eludere la crisi agricola che devasta l'Europa (con le eccezioni indicate) durante il xvi secolo. Poiché, lo si voglia o meno, il quadro d’insieme, per molti paesi, è davvero a tinte fosche. Al punto che in Belgio si sono conosciute tra il 1650 e il 1750 «più regressioni che progressi» !°. Per la Francia, le ? 8 3 ‘0

Slicher ci Bath, Les problèmes fondamentaux, cit., p. 33. Ibid.,p Di Lia und Handelskapital. cit., p. 87. H. Van Houtte, Hzstotre 6conomique de la Belgique à la fin de l’Ancien Régime, sl.

1920, p. 403.

DI

OPPOSTE CONGIUNTURE

fini note di J. Jacquart, pur sfumando molto, portano a riconoscere

uno stato di «inerzia secolare» !!. In Italia, si possono constatare, tra

il xw e il xvm secolo, «processi di degradazione e disgregazione del paesaggio agrario» !?. Constatazioni simili vanno fatte per la Spagna®, la Germania, la Polonia. Per l'Europa nel complesso si può dunque assumere il giudizio di J. Jacquart: «l'agricoltura del xvi secolo dà risultati meno brillanti che nel secolo precedente. E, dappertutto, la fine del secolo è segnata da un sensibile cedimento. Bisogna parlare proprio di un’incapacità di sviluppo, di un’inerzia delle capacità produttive» !°. Ma interrompiamo questa lista, che potrebbe proseguire per pagine e confermarci la convinzione di questa crisi. Una crisi, d’altra parte, che trova conferma in un altro fattore. Tutti gli storici sono d’accordo nel riconoscere che l'Europa orientale conosce, a partire dal xvi secolo, un deuxième servage. Per non parlare della Polonia o della Germania orientale, dove, come sottolinea Abel, «dopo la

Guerra dei trent'anni [la condizione dei contadini] fu resa ancora peggiore dal fatto che la servitù ereditaria finì con l’imporsi» !”. Ma l'accordo storiografico si ferma qui. Perché, per il resto d’Europa, sembra che vi sia stata una stabilizzazione (se non un miglioramento) della condizione contadina. Ora — da una serie di studi particolari che non sono mai stati discussi (verazzente discussi) ma

semplicemente rifiutati — mi sembra che si possa desumere un rafforzamento dei poteri (cioè dei diritti feudali) dei signori. Così, per esempio, recentemente Domenico Sella nel suo libro L'economia lombarda durante la dominazione spagnola !8 ha rimesso in discussione il concetto (e il fatto) della rifeudalizzazione in Lombardia durante il xvn secolo. Le argomentazioni e la documentazione che egli fornisce sono incontestabilmente seri, ma a mio avviso non determinanti. Il fatto che egli abbia trovato contadini che si dichiarassero pronti ad essere infeudati (o addirittura felici di esserlo) non significa molto. Occorrerebbe infatti conoscere il contesto (pressioni !! Jacquart nel suo contributo a Storza economica e sociale del mondo, cit., pp. 375-423. !° E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961, p. 224. ” J. Vicens Vives, Manual de historia economica de Esparia, Barcelona s.d., pp. 373 ss. 14 Abel, Geschichte der Deutschen Landwirtschaft, cit., p. 272.

» J. Topolski, La regression économique en Pologne du XVle au XVIIIe siècle, in «Acta Poloniae Historica», vi, 1962, pp. 28-49. !6 Jacquart nel suo contributo a Storia econorzica e sociale del mondo, cit., I contadini alla prova, p. 392.

” Abel, Congiuntura agraria e crisi agrarie, cit., p. 272.

18 Bologna 1982.

D2

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

di ogni genere, interessi particolari ecc.) all’interno del quale sono nate quelle dichiarazioni di quei contadini. Ma il punto più importante è un altro. Mi sembra che Sella non abbia una visione chiara dei caratteri del feudalesimo economico. Siamo d’accordo sul fatto che «il feudalesimo della Lombardia spagnola ebbe un carattere essenzialmente fiscale» (p. 285). Ma questo è un tratto comune a diversi feudalesimi in diversi periodi storici, che non alleggerisce affatto il peso di tale sistema. E Sella appiattisce questo sistema quando afferma: «ciò che spettava al feudatario era il diritto di amministrare la giustizia, di riscuotere un numero esiguo di tasse ben specificate, e di esigere un'imposta per l'esercizio di alcuni servizi pubblici come il mulino, il forno per cuocere il pane, o la taverna del villaggio» (pp. 27172,1 corsivi sono miei). Evidentemente, se riduciamo 1 diritti feudali a«servizi pubblici», essere infeudati o non esserlo non costituisce una

grande differenza... Ma occorre ricordarsi che è esattamente la lotta dei contadini per il diritto di macinare per proprio conto — utilizzando delle «macine a braccio» pur di non dipendere dal «servizio pubblico» del mulino del signore — che ha costituito uno degli elementi fondamentali della lotta anti-feudale. Su questo punto tornerò. È certo che il rafforzamento della Gutsherrschaft (possesso in proprietà non condizionata) è un fenomeno che caratterizza la Germania orientale e l'Europa orientale nel suo insieme. Ma non è una ragione per dimenticare che un sistema feudale si caratterizza anche per la Grundsherreschaft (possesso fondato sulla rendita, in denaro o in natura). Non la si vuole chiamare «rifeudalizzazione»? Si potrà allora fare ricorso al termine «reazione signorile», espressione utiliz-

zata da uno storico non sospetto: Marc Bloch?! Ma ammetto di non capire dove sia la differenza. E poiché è la storiografia francese che ha insistito in modo particolare su questa differenziazione, vale la pena di insistere sul caso francese. Si potrà notare, innanzi tutto, che una volta preso atto almeno della reazione signorile, i fatti si impongono all'attenzione. Così, per esempio, i contadini cercano di sfuggire alla servitù legata all’obbligo di utilizzare i mulini del proprio signore, ricorrendo a macine manuali: e ciò succede fin dal medioevo: «la ripresa della lotta, con mezzi più potenti, fu uno degli aspetti di questa “reazione dei signori” dei secoli xvn e xvm che, nei grandi corpi della giustizia, cittadella dei privilegiati, trovò un aiuto

!9_M, Bloch, Les caractères originaux de l’histoire rurale francaise, t. 1, Paris 1960°, trad. it. I caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1973, p. 148.

53

OPPOSTE

CONGIUNTURE

così efficace» 2°. In tal modo, il parlamento e gli altri grandi corpi di giustizia si mettono alservizio dei «privilegiati» per difendere il diritto signorile. Ma perché sarebbe «signorile» nel xv secolo un diritto che, nella terminologia correttamente feudale, è semplicemente «banale» e al quale, per il medioevo, si riconosce una natura

«feudale»? L’unica obiezione valida che mi è stata presentata riguardo a questo termine (e a questo problema) della rifeudalizzazione è quella di Horst Pietschmann che in una comunicazione personale mi fa notare come nel feudalesimo classico ci troviamo di fronte a legami sociali orizzontali e verticali mentre nel feudalesimo del xvi secolo gli ultimi sono venuti meno. E riconosco volentieri questa precisa-

«zione. Ma l’assenza di legami verticali non mi sembra togliere niente, sul piano economico, a questo nuovo feudalesimo. Si è molto detto delle acquisizioni di terre, un fazzoletto di terra dopo l’altro, fino a costituire delle grandi proprietà che ci si affretta a definire «borghesi». Ma si dimentica che durante il xv secolo «soprattutto grazie a una lenta concentrazione [...] si ricostruì relle

mani dei signori [la sottolineatura è mia] la grande proprietà terriera»?!. E si dimentica pure che, per ciò che riguarda mercanti, notai e altri borghesi » questa tradizione di investimenti fondiari perdurò durante il Sei e Settecento, età in cui si estese anche alle famiglie nobili. Per il mercante arricchito annettere prati ai coltivi e vigne ai boschi significava porre la fortuna della famiglia su basi più salde di quel che non fossero le incognite del commercio [...]. Significava anche accrescere il lustro della casa: la conquista del suolo e dei diritti signorili che ad essa quasi sempre seguivano, presto o tardi, erano fonti di considerazione e preparavano l’ingresso nella nobiltà ?2.

Ora, «il signore riprese saldamente il controllo degli oneri. Quand’anche la sua signoria fosse, come spesso era, di origine recente, egli avvertiva più che mai un’anima da padrone»? Reazione signorile o reazione feudale? Ma non polemizziamo troppo. Ricordiamo almeno però che Marc Bloch stesso, a proposito M. Bloch, Reéflexions sur l’histoire des techniques, in «Annales d’Histoire Economique et Sociale», vi, n. 36, 1935, pp. 556-57. 2! Bloch, I caratteri originali, cit., p. 159.

Mb

pA625

> Ibid, p. 174.

54

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

del xvi secolo, ha parlato di «réaction féodale»?. Un lapsus significativo. Né si può controbattere il fatto che l’espressione fosse usata tra virgolette. Marc Bloch scriveva anche il termine «réaction seigneuriale» tra virgolette... Resta, indipendentemente da tutto ciò, ed è impossibile smentirla, una semplice verità per la Francia: fino alla fine del xvi secolo, «il Re, la nobiltà e il clero possedevano ancora il dominium directum, vale a dire il diritto di proprietà sovrana su tutti i beni del suolo: ed è da ciò che derivano la giurisdizione, il diritto di pretendere differenti imposte e servizi». Trascurare aspetti fondamentali come questo significa dimenticare che è alla fine del xvi secolo che si rinforzano un po’ ovunque in Francia i ritmi di corvées straordinarie (come la ricostruzione di un castello bruciato da un incendio, la costruzione di strade, canali, ponti)”.

Significa anche dimenticare che i signori esercitano con sempre maggior forza la giurisdizione signorile; e che alla loro competenza spetta l’inchiesta giudiziaria in tutti i casi che si riferiscono ai rapporti tra contadini e signori”.

So bene che ci sono differenze regionali: che la situazione in Bretagna e in Alvernia è più pesante che nel Maine o in Normandia. Allo stesso modo, è facile riconoscere che vi è una differenza tra ciò

che succede ad est dell’Elba rispetto a ciò che succede ad ovest di questo fiume. Ad est, un signore può anche giocarsi a carte i contadini e metterli in commercio o darli in pegno per coprire i debiti (tanto succede nel Brandeburgo, nel Meclemburgo, nello SchleswigHolstein) 8, Ma le differenze non ci devono far perdere di vista il punto fondamentale: l’accumulazione (feudale, e non capitalistica: perché esiste infatti un’accumulazione feudale) non si realizza soltanto grazie al gioco dei prezzi e della popolazione, della produzione e delle monete, ma a motivo di tutti questi fattori e di altri ancora: tasse,

prezzo della terra, e anche (e soprattutto) per mezzo della rendita fondiaria, della produttività del lavoro e del prelievo feudale. Quindi, alla stagnazione (se non alla recessione) della produttività 24 M. Bloch, Justices seigneuriales d’Ancien Régime, in «Annales d’Histoire Economique et Sociale», vi, n. 36, 1935, p. 514.

% J. M. Kulischer, Allgemeine Wirtschaftsgeschichte des Mittelalters und Neuzeit, 2 voll.,

Miinchen-Berlin 1928-1929 (trad. it. Storia econorzica del Medio Evo e dell'età moderna, Firenze 1955, voll. n, p. 114).

MIL pMi251 2 Ibid., p. 124. 28 Ibid., p. 143.

55

OPPOSTE CONGIUNTURE

corrisponde un rafforzamento del prelievo feudale”. Ovunque in Europa? Non credo. Vi è sicuramente stata un’eccezione: l’Inghilterra (e, in parte, per ragioni diverse, l'Olanda) dove «già da tempo si notavano segni della rivoluzione agraria che dalla metà del xvi secolo si moltiplicarono» 7°. Quali segni? Progressivamente si afferma il sistema di affitto delle grandi proprietà?! ma anche la crescita del mercato interno? insieme al fatto che l’agricoltura inglese porta a termine la propria evoluzione (una rivoluzione?) appoggiandosi — e soprattutto integrandosi — su forti modificazioni della produzione industriale”. Per comprendere questo insieme di fenomeni, occorre fare un salto indietro di alcuni secoli. Occorre ritornare alla crisi del xrv secolo e alla sua conclusione. La crisi, che aveva colpito tutta l’Europa, non aveva avuto gli stessi effetti su tutti i paesi. Alla fine della crisi, diciamo a metà del xv secolo, in Inghilterra il potere feudale ha ormai perduto una buona parte dei suoi artigli: altrove, è ancora forte. Ed è del tutto normale che la «rivoluzione borghese» del 1640-49 abbia avuto luogo in Inghilterra e non altrove. Altrove, non avrebbe potuto aver luogo ?. Altrove, non poteva esserci che una «rifeudalizzazione». Non amiamo questa espressione? Allora — e lo dico in modo molto serio — che si parli di «neo-feudalesimo» («feudal revival», come dice Slicher van Bath).

E della produzione «industriale», cosa ne è? Innanzi tutto sottolineiamo che, per fortuna, sono finiti i tempi in cui si parlava di industria non appena incontrato il primo tessitore fiorentino o fiam? Cfr. a questo proposito G. Bois, Sur le mouvement de longue durée en économie féodale, in Prestations paysannes, dimes, rente et mouvement de la production agricole à l’époque préindustrielle, a cura di J. Goy e E. Le Roy Ladurie, Paris-La Haye s.d., vol. 11, pp. 503-505. E dello stesso autore cfr. il grande libro Crise du Féodalisme, Paris 1976. ® E. Hobsbawm, La crisi del xvi secolo, in Crisi in Europa, a cura di Aston, cit., p. 45. Pagine molto belle sul «beginning of Expansion» nell’agricoltura inglese del xvi secolo in S. Pollard-A.W. Crossley, The Wealth of Britain, London 1968, pp. 125-34. 3! Kulischer, Storia economica del Medio Evo, cit., p. 113. 3 Hobsbawm, La crisi del xvIl secolo, cit., p. 61.

3 Ibid., pp. 23-24. # Posso permettermi di ricordare una verità banale? I diritti feudali sono stati soppressi, un po’ ovunque in Europa, sulla punta delle baionette francesi durante gli anni novanta del xvi secolo, e ciò vale dai Paesi Bassi all’Italia, dalla Svizzera alla Germania. Posso anche

ricordare che i diritti feudali sono stati soppressi in Francia tra il 1789 e il 1791? A coloro che lo avessero dimenticato mi permetto di consigliare molto vivamente la lettura di P. Caron-Ph. Sagnac, Le comité des droits féodaux et de législation et l’abolition du régime seigneurial, Paris 1906. So che si tratta di un vecchio libro. Ma vale più di certe «nouvelles histoires». © Slicher van Bath, L'agricoltura nella rivoluzione demografica, cit., p. 134.

56

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

mingo. Una nuova categoria? è apparsa, e permette di ragionare in

modo più chiaro e semplice: quella di proto-industrializzazione”. Fatta questa messa a punto, proviamo ad esaminare cosa è successo

in Europa, sul piano della produzione di beni non agricoli. E cominciamo con i prodotti tessili. La caduta è totale, quasi in tutte le città. La vecchia «industria» tessile scompare: a Venezia? come a Milano’, a Segovia‘, ad Augsburg, a Firenze #, a Beauvais”... Certo,

si potrebbe dire che le cadute di produzione urbana sono state compensate dalla produzione che si sarebbe sviluppata nelle piccole città e nella campagna. E in parte ciò è vero. Ma soltanto in piccola parte. Nel caso di Firenze e della Toscana possiamo verificarlo. Senza parlare dei 100.000 panni che safebbero stati prodotti nella città di Firenze

nel 1300,

stando

alla testimonianza

di G. Villani,

atteniamoci alle seguenti cifre #: 1527 1550-60 1560-72 1589-99 1600-10 1615-19 1620-29 1630-45 1717-24 1763-78

18.500 16.000 30.000 d0490 13.000 7.600 9.000 6.200 1.590 2.950

36 Proto-industrializzazione non va confusa con industria a domicilio (Verlagsyster). Ritornerò su questo punto in seguito. Cfr. soprattutto F.F. Mendels, Proto-industrialization: the First Phase of the Industrialization Process, in «Journal of Economic History», n. 32, 1972, pp. 241-61 e P. Kriedte, H.

Medick, J. Schlumbohm, Industrialisierung vor der Industrialisierung, Gottingen 1977. E piacevole constatare che questo importante lavoro attribuisce il ruolo che meritano ai grandi «vecchi» del xrx secolo e dell’inizio del xx secolo: Sombart (1891), Schmoller (1890), TuganBaranovsky (1900), Tarle (1910), Sée (1923), Kulischer (1929) e tanti altri (personalmente

rimpiango l’assenza di G. Luzzatto). Prova fatta (se mai ve ne fosse stato bisogno) che per fare storia inzovativa (e non nouvelle) non è sufficiente far ricorso a formule vuote. 38 D. Sella, Comzzerci e industrie a Venezia nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961, pp. 117-22. 3° Cfr. C. Santoro, Matricola dei mercanti di lana sottile di Milano, Milano 1940, p. 109.

4° H, Kellenbenz, The Organization of Industrial Revolution, in The Cambridge Modern History. V, cit., pp. 516-17; trad. it. L'organizzazione della produzione industriale, in Storia Economica Cambridge. V, cit. 41 Kriedte, Spdtfeudalismus und Handelskapital, cit., pp. 99-100 4. P. Malanima, La decadenza di un'economia cittadina. L'industria di Firenze nei secoli

XVI-XVII, Bologna 1982, pp. 290-305. 5 P. Goubert, Beauvais et le Beauvaisis de 1600 à 1730, Paris 1960, p. 585. 4 Malanima, La decadenza di un'economia, cit., p. 295.

Da

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Ora, la produzione totale del Gran Ducato di Toscana nel 1670 arrivava appena è 8.750 panni di lana”. In tutta evidenza la produzione «contadina» non arriva a compensare la caduta fiorentina.

Pertanto, un po’ ovunque vi è stata una contrazione della produ-

zione tessile. Ovunque, proprio? Sì, ovunque, se si fa riferimento

alla vecchia drapperia che, nella migliore delle ipotesi, può offrirci solo esempi di resistenza. Il fatto nuovo risiede nella apparizione di una nuova produzione tessile in talune regioni‘°. Il fenomeno, apparentemente, non è originale. Già i secoli xtv e xv avevano visto

dei centri rurali dotarsi di attività tessili approfittando delle difficoltà dei grandi centri urbani. Ma questo fenomeno era stato riassorbito e tutto era tornato nell’ordine: la geografia dell’attività tessile nel xvi secolo è strutturalmente ritornata ad essere quella che era all’inizio del xrv secolo. Invece, ciò che sta per succedere lascerà tracce profonde nel tessuto economico

europeo.

Un esempio?

L’Italia continua

ad

esportare (ma in quantità ridotta) più stoffe di buona, anzi ottima, qualità, ma inizia ad importare la new drapery inglese. Cosa succede esattamente? E dove? L’enorme destrutturazione della classe contadina aveva creato un po’ ovunque disponibilità di manodopera a buon mercato, peraltro localizzata al di fuori delle rigorose costrizioni corporative che imperavano nelle città. Si è dunque avuta a disposizione — e la si è sfruttata — la possibilità di ritornare alla vecchia industria rurale. Ma qui le cose cominciano purtroppo a differenziarsi regione per regione: se un po’ dappertutto vi è ricorso all’industria rurale, in certi casi quest’ultima si trasformerà strutturalmente in proto-industrializzazione, e in altri essa sarà recuperata più tardi (durante il xvm secolo) dalla vecchia industria urbana. Ma procediamo con ordine. Innanzi tutto in certi luoghi (soprattutto in Olanda), si registrano casi di resistenza nell’attività tessile urbana. Prendiamo, dall’opera

5 P. Malanima, I/ lusso dei contadini. Consumi e industrie nelle campagne toscane del Sei

e Settecento, Bologna 1990, p. 191. 4° Cfr. in particolare D.C. Coleman, Ar Innovation and its Diffusion: the New Draperies,

in «Economic History Review», xx, 1969 e Ch. Wilson, Clotb Production and International

Competition in the Seventeenth Century, in «Economic History Review», x, 1960-61. # Cfr. R.T. Rapp, The unmaking of the Mediterranean Trade Hegemony: International Trade Rivalry and the Commercial Revolution, in «Journal of Economic History», x00xv, 1975.

58

IL MONDO

DELLA PRODUZIONE

monumentale del compianto N.W. Posthumus”, la città di Leiden. Qui, la vecchia manifattura di panni di lana (/aken) resiste molto bene: il valore della sua produzione, che nel 1630 rappresenta il 27% del valore del prodotto totale, passa nel 1701 al 71%. Per contro,

il valore della produzione

della nuova

drapperia,

che

rappresentava nel 1630 il 93,7% del valore totale, nel 1701 sarà sceso al 28,9%. In questo caso, dunque, si potrebbe credere che il suc-

cesso della produzione di nuovi panni sia nullo. Senza contestare tale fallimento, occorre nondimeno rimarcare che un particolare

prodotto — i cammellotti (fatti con il pelo di cammello e di capra) — non solo si mantiene, ma vede la quantità e il valore della produzio-

ne aumentare nonostante la caduta complessiva della produzione di nuovi panni. Caduta dovuta essenzialmente alla sparizione quasi totale di fustagno, bayettes e bigelli??. Pertinente come sempre, il caso olandese mostra come fosse ancora possibile — nonostante la «crisi» e all’interno di una struttura di «crisi» — al vecchio (cioè ad una produzione industriale fondata ancora essenzialmente sul capitale mercantile) di sopravvivere e addirittura di comportarsi molto bene. Questo caso di crescita olandese diventa ancora più interessante se comparato al caso inglese dove si assiste per contro al costituirsi delle premesse di un vero sviluppo. In Inghilterra si osservano sullo scenario numerose novità. Ivi, la vecchia produzione sparisce abbastanza rapidamente per lasciare posto alla r40va. Un processo, dunque, inverso a quello che abbiamo osservato a Leiden. Ma è il modello inglese che dominerà per l’avvenire??, E ciò non soltanto per una scelta più a lungo termine, ma perché le condizioni d’insieme sono ormai diverse. Un

# NW. Posthumus, De Geschiedenis van de Leidsche Lakenindustrie, The Hague 1939, vol. 1, pp. 930 ss., 941 e vol. 11, p. 1098. # Kriedte, Spitfeudalismus und Handelskapital, cit., p.97. # (Certo, ci si può domandare perché l’Olanda in generale (e Leyden in particolare) abbia mancato la propria evoluzione industriale quando godeva di «tutte le condizioni preliminari di una rivoluzione industriale. Per quanto riguarda i dati economici, non vi era molta differenza tra l'Inghilterra e l'Olanda [...]. Ciò non di meno l’industria olandese presentava delle debolezze certe nelle sue strutture. Al di fuori del settore tessile, la maggior parte delle industrie erano direttamente asservite e subordinate al settore commerciale. Era il caso della costruzione navale come di molte industrie di finitura. L'industria tessile di Leyden era particolarmente fragile, poiché dopo aver prodotto nuovi drappi a buon mercato, era ritornata produzione di alta qualità delle antiche drapperie. Il successo spettacolare di Leyden si svolse dunque nel quadro di un tipo di produzione senza potenziali di crescita: l'antica drapperia costituiva una via chiusa»: cfr. J. De Vries, Le cas de la Hollande, in Transition du féodalisme è la société industrielle:

l’échec de l'Italie de la Renaissance et des Pays Bas du XVIle siècle, a

cura di P.M. Hohenberg e F. Krantz, Montréal 1975, p. 56.

DO

OPPOSTE

CONGIUNTURE

solo esempio sarà sufficiente: a metà del xvn secolo venne inventata in Inghilterra una nuova macchina — un telaio a maglie che permetteva di fare mille maglie al minuto anziché le cento possibili lavorando a mano. Questa macchina fu esportata in Italia?! e se ne ignora del tutto l’impatto. Ciò che è certo, è che i fabbricanti di calze milanesi ottennero il bando dell’uso di una macchina (sarà la stessa o un’altra?) per fabbricare calze”. In Inghilterra, al contrario, il meccanismo messo in piedi intorno a questa macchina si rivela complesso e importante. Alcuni capitalisti (nel senso semplice del termine), mercanti-manifatturieri, acquistarono delle macchine

e le misero in affitto (ad un tasso annuale equivalente al 10% del costo) a contadini-artigiani”. Che significato dare a questo processo? Sulla base di una tecnica nuova, inizia una fase (davvero capita-

lista, questa) di espropriazione del lavoratore dei propri strumenti di lavoro. In conclusione, siamo un’altra volta di fronte ad un notevole

cambiamento della carta economica europea. Vi è uno slittamento dell'Europa mediterranea a vantaggio del Nord’. Ma questo slittamento è di ordine essenzialmente quantitativo in alcuni paesi (soprattutto l'Olanda) mentre in Inghilterra è insieme quantitativo (prova ne sia il movimento degli incassi ottenuti a la Halle per i panni tra 1562 e 1710)” e, soprattutto, qualitativo”. Ma l’industria europea non è fatta soltanto di tessuti. Vi sono altri settori. Anche in questi assistiamo ad uno spostamento dell’asse portante dell’attività industriale: a Venezia la produzione di sapone passa da 13 milioni di libbre tra la fine del xvi secolo e l’inizio del 3! M. Dobb, Studies on the Development of Capitalism, London

1963, p. 146; trad. it.

Problemi di storia del capitalismo, Roma 1958, p. 166. 2 Sella, L’economzia lombarda, cit., Bologna 1982, p. 178. % Dobb, Problemi di storia del capitalismo, cit., pp. 143-97.

% Di questa crescita del Nord si ha un segno complementare nel fatto che questa regione comincia ormai a importare materie prime (seta, lana, cotone) dal bacino mediterraneo: cfr. L. Robert, The Merchants Mappe of Commerce, London 1638, p. 139; Sella, Comzzerci e industrie a Venezia, cit., p. 89; E. Baasch, Hollandische Wirtschaftsgeschichte, Jena 1927, p.74. % Cfr. D.W. Jones, The Hammage Receipts of the London Cloth Markets, 1562-1710, in «Economic History Review», n. 4, 1972, p. 986.

2% Occorre segnalare che se in Inghilterra i cambiamenti che si manifestarono nell’industria tessile ebbero l’appoggio dei poteri pubblici, altrove vi fu una forte protezione del vecchio sistema (rappresentato soprattutto dalle strutture corporative urbane): infatti, per esem-

pio, in Lombardia si ordina la distruzione dei telai impiantati nei villaggi: cfr. Sella, L’economia lombarda, cit., p. 238 e p. 67 nota 22; atteggiamento simile si ha a Zurigo: cfr. J.F. Bergier, Nazssance et croissance de la Suisse industrielle, Berne 1974, p. 45. In generale, su questi problemi cfr. F. Liitge, Deutsche Sozial-und Wirtschaftsgeschichte, Berlin-Heidelberg 1966?, pp. 365-69.

60

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

xv a circa 3 milioni di libbre all’inizio del xvi ??; ad Amsterdam,

per contro, la produzione (e l’esportazione) di sapone non cessa di crescere lungo il filo del secolo 8. Se l'industria navale a Venezia, a Napoli, in Spagna decade, si afferma in modo prodigioso in Inghilterra e in Olanda”. Ovviamente vi sono anche dei casi di resistenza. Genova, per esempio. Ma se si analizza bene la situazione, si vede chiaramente che si tratta di una falsa resistenza. In effetti, in questa città la com-

posizione della flotta mercantile si evolve nel modo seguente (le cifre della tabella si riferiscono a navi di portata superiore ai 1.800 cantari) °°

rt:

Anni 1655 1656 1665 1687 1688 1691 1693

Numero

Tonnellaggio complessivo

imbarcazioni

(cantari)

38 28 44 11 12 45 41

177.750 146.500 2070225 79.200 77.040 319.140 289.350

Una lettura superficiale delle cifre ci porterebbe a credere ad una buona ripresa dei cantieri liguri durante gli anni novanta del secolo. Bene, ciò non è per niente vero. Questi cantieri infatti non avevano

affatto, alla fine del xvi secolo, la forza per triplicare la flotta tra 1688 e 1691, e l'aumento è dovuto semplicemente all’acquisto o al nolo di navi straniere. Il problema di fondo è un altro: è il mondo marittimo mediterraneo nel suo insieme (uomini, tecniche, conoscenze scientifiche)

che va a rotoli: questo processo di decadimento degli equipaggi interessò quasi tutto il Mediterraneo, Genova e Venezia in particolare. In un primo momento coincise con un aumento delle navi di costruzione nordica e poi, man mano

5 Sella, Commerci e industrie a Venezia, cit., p. 133. 58 J.C. Van Dillen, Bronnen tot de Geschiedenis van het Bedrifsleven en het Gildewezen van Amsterdam, Gravenhage 1929, vol. 1., p. xx; vol. 11, p. 150, nota 270 e p. 375, nota 642. 9 Cfr. V. Barbour, Dutch and English Merchant Shipping in the Seventeentb Century, in Essays in Economic History, a cura di E.M. Carus-Wilson, London 1961. 6 P. Campodonico, La marineria genovese dal Medioevo all’Unità d'Italia, Milano 1989,

p. 204.

Altar

SEDE

61

OPPOSTE

CONGIUNTURE

che cresceva il numero degli equipaggi olandesi, inglesi, olonesi, amburghesi che battevano il Mediterraneo, si passò progressivamente al noleggio delle navi straniere per il traffico nazionale, mentre «patroni», marinai e costruttori delle coste, abbandonate le ultime grandi navi, si riducevano al traffico di cabotaggio ®.

Allo stesso modo, se l’attività editoriale in Italia o in Spagna declina in termini quantitativi e qualitativi, non cessa di progredire in Olanda, in Inghilterra, a Lipsia,

a Norimberga, a Francoforte (che

sostituisce Venezia sul mercato europeo)”. Vi è ancora un importante settore industriale da esaminare: la metallurgia e in generale le industrie estrattive. La natura della documentazione relativa a questo settore rende difficile un esame complessivo e occorrerà quindi accontentarsi di fornire soltanto degli esempi. Innanzi tutto — è evidente — il caso svedese che manifesta una forte crescita della produzione di rame e di ferro destinati soprattutto all’esportazione verso l'Olanda e l’Inghilterra 4. In quest’ultimo paese, se non conosciamo la produzione di ferro per il xvi secolo, sappiamo in compenso che quella di carbone è passata da 170 mila

tonnellate inglesi nel periodo 1550-60 a 2.500.000 nel periodo 168090%. Nell’importante contributo di Hermann Kellenbenz citato alla nota 64 non vi sono molte indicazioni globali, ma l'impressione che se ne può ricavare è che la parte essenziale dei progressi in questo settore si sia verificata nell'Europa del Nord. Se si passa in effetti all'Europa del Sud si trovano — per quanto ne sappiamo — manifestazioni di difficoltà. La produzione di allume di Civitavecchia cade come quella delle miniere di mercurio di Almadén #8. Milano, per quanto riguarda la siderurgia, attraversa il periodo definito «lo spinoso Seicento», ® Ibid., p. 180.

® Cfr. S.H. Steinberg, Cinque secoli di stampa, Torino 19824, pp. 135 ss. “ Kellenbenz, L'organizzazione della produzione industriale, cit. Ma non si può dimenticare che la produzione mineraria svedese (in particolare per quanto riguarda il rame) è in gran parte controllata dagli olandesi (i De Geer, i De Beche, i Tripp). $ Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, cit., p. 259. 6 Non è soltanto la produzione industriale dell'Europa mediterranea che crolla ma an-

che quella dell'Europa dell’Est e del Sud-Est: cfr. Topolski, La regression économique en Pologne, cit., pp. 28-49; Z.P. Pach, Diminishing share of East-central Europe in the 17th Century, in «Acta Historica», n. 16, 1970, pp. 289-306. 9 J. Delumeau, L'alun de Rome, XVIe-XIXe siècle, Paris 1962, pp.132-33. 6 Cfr. A. Matilla Tascén, Historia de las minas de Almaden, vol. 1, Madrid 1958.

© A. Frumento, Imprese lombarde nella storia della siderurgia italiana. Il ferro milanese tra il 1450 e il 1796, vol. n, Milano 1963, p. 89.

62

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

Certo, alcuni settori resistono abbastanza bene: tale, per esempio, quello dei prodotti di lusso (tessuti «auroserici», ricami, mobili, strumenti musicali, orologeria...) veneziani, milanesi, cordovesi, ge-

novesi, o ancora toledani. A questo proposito non bisogna dimenticare le considerazioni molto fini di Jean Frangois Bergier: Incontestabilmente, l’industria tessile domina tutte le altre, come ha

dominato durante il Medioevo e come dominerà ancora al tempo della rivoluzione industriale. Né l'industria, peraltro esclusivamente rurale, dei formaggi — pur essendo sempre più importante in termini di esportazioni

— né quella del libro e il suo corollario, la produzione di carta, né l’oreficeria o l’orologeria che allora stavano nascendo minacciano, durante i secoli xvi e xvi, la preminenza del tessile. La quale è evidente, nonostante il difetto delle statistiche, sia in termini di impiego che di capitale, di valore delle esportazioni come di numero di imprese”.

E mi sembra che queste considerazioni di Bergier a proposito della Svizzera possano essere applicate all’insieme della situazione europea: i prodotti di lusso, sui quali si ha troppo l’abitudine di estasiarsi, non sono, né possono essere, un motore economico”).

Questo panorama, rapidamente disegnato qui, non è certamente completo. Sarebbe, per esempio, necessario aggiungere il problema dell’attività edilizia. Il secolo xvi ha costruito molto: un semplice sguardo alle nostre città europee è sufficiente per una tale affermazione. Ma l’edilizia è sicuramente un’industria atipica e ci si troverebbe nel torto a dare eccessiva fede all’adagio quand le batiment va, tout va. Si assiste in effetti a casi di contro-congiuntura assai netti. Così, Cracovia durante la metà del secolo xvir conosce una vera e

propria febbre edilizia. Ma ciò che sappiamo per l’insieme dell’economia cracoviana ci indica che la crisi è lì, molto forte”. È pertanto

difficile trarne delle conclusioni, quali che siano. Ancora un settore che merita attenzione è certamente l’industria degli armamenti”. Ma devo dire che l'insegnamento che si può trarre dall’osservazione delle industrie di guerra mi pare assai discutibi7? Bergier, Naissance et croissance de la Suisse, cit., p.47.

? Cfr. il grande libro di W. Sombart, Luxus und Kapitalismus, Mùnchen-Leipzig 1922, trad. it. Lusso e capitalismo, Milano 1988. ?? Cfr. l'importante articolo di A. Wirobisz, Ze studiéw nad budowmictwem krakowskim

w konku XVI i w pienvszej polowie XVII wieku, in «Przeglad Historyczny», n. 4, xLIx, 1958, pp. 647-80. Per un caso inverso cfr. L. Blondel, Le développement urbain de Genève à travers les siècles, Genève-Nyon 1946, p. 69.

5 Cfr. J.U. Nef, War and Humar Progress, Cambridge (Mass.) 1950, pp. 202 ss.

63

OPPOSTE

CONGIUNTURE

le in quanto traduconò uno stato non tanto di prosperità o di depressione quanto uno stato di «necessità» imposta da un momento eccezionale: la guerra. Prendiamo un esempio: se è vero che la flotta mercantile veneziana va in rovina, è pure vero che la flotta da guerra (che nutriva l'enorme arsenale della città) non mostra affatto gli stessi segni di decadenza”.

In conclusione, possiamo affermare con certezza la realtà della cesura geografica. L’atlante industriale della metà del xvm secolo non ha molti tratti in comune con quello di 150 anni prima: «Nel xvir-xvii secolo stavano al primo posto quali paesi industriali la Francia, l’Inghilterra, i Paesi Bassi e la Svizzera». Il giudizio di Kulischer può ancora oggi essere condiviso, pur con qualche sfumatura. Si potrebbero aggiungere alcune regioni della Germania meridionale — Slesia, una parte del Wuùrttemberg, la Sassonia, che hanno resistito bene — o sottolineare che la crescita (laddove crescita vi è stata) della Francia era parzialmente legata alle Manufactures Royales (artificiali, naturalmente, dal punto di vista strettamente economico) e limitata soprattutto alla parte settentrionale del paese. È dunque il resto d’Europa — il Mediterraneo (come ho cercato di mostrare)ma anche l’Europa centro-orientale e sud-orientale” — che ormai abbandona la scena. Non bisogna tuttavia limitarsi a questa divisione, a questo slittamento territoriale. Il problema è più complicato. I paesi che Kulischer enumera sono incontestabilmente i nuovi leaders industriali europei, ma lo sono nondimeno in modo differente se ci si pone sul piano di un’analisi qualitativa. Come ho già detto (vale la pena di insistere), se per l'Inghilterra il cambiamento è quantitativo e qualitativo — stabilendo in tal modo le premesse di uno sviluppo vero — per gli altri paesi, il cambiamento è solo quantitativo e dà luogo soltanto ad una crescita. Nel contesto inglese l'industria rurale comincia durante il xv secolo a trasformarsi in proto-industrializzazione. Su questo termine «proto-industrializzazione», sarà bene soffermarsi un attimo. In effetti ho l’impressione che, dopo le ricerche # Mi si permetta di rimandare a R. Romano, Aspetti economici degli armamenti navali

veneziani nel secolo XVI, in «Rivista storica italiana», xvi, n. 1, 1954, in particolare le pp. 56-

58 e 60-63.

? Kulischer, Storia economica del Medio Evo, cit., p. 264.

7 Cfr. supra la nota 66.

64

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

pionieristiche di Joan Thirsk” e di Eric Jones”, e soprattutto del compianto Franklin F. Mendels”?, come anche di Charles e Richard Tilly®, si abbia la tendenza a confondere, da un lato, protoindustrializzazione e prima fase dell’industrializzazione, e dall’altro,

proto-industrializzazione e industria rurale. Ora, l’identificazione automatica con una prima fase dell’industrializzazione è semplicemente falsa: si possono verificare senz'altro casi di proto-industrializzazione senza che ciò metta in movimento un processo di industrializzazione 8!. Ma la confusione più grossa è quella tra proto-industrializzazione e industria rurale. Quest'ultima è sempre esistita: se ne trovano tracce importanti anche durante il Medio Evo. Ma non ha nulla a che fare con la proto-industrializzazione perché questa si distingue per le seguenti caratteristiche: a) essa si afferma accanto alla fabbrica ®;

b) laddove l'industria rurale rappresentava un'attività corzplerzentare per le popolazioni contadine, la proto-industrializzazione induce i contadini stessi a considerare l’attività industriale come attività principale; c) infine, non bisogna dimenticare che la proto-industrializzazione

significa qualcosa di diverso dall’industria rurale nella misura in cui la prima porta alla creazione di vere regioni industriali autonome mentre la seconda si sviluppa a piccole chiazze di leopardo e dipende strettamente dalla città. Si potrebbero aggiungere altri tratti di differenziazione, ma preferisco rimandare alla bibliografia esistente (piuttosto a quella da me citata che alla più recente, zeppa di confusioni). Ora, questo vero processo di proto-industrializzazione si afferma con il xvn secolo in Inghilterra, nei Paesi Bassi meridionali e in alcune regioni della Germania (ma in quest’ultima con tratti distinti). Le conseguenze della proto-industrializzazione furono enormi. Innanzitutto, provocò un «aumento della produttività agricola e, © J. Thirsk, Industries in the Countryside, in Essays in the Economic and Social History of Tudor and Stuart England in Honour of R. H. Tawney, a cura di J. Fischer, Cambridge 1961, . 70-88.

hac E.L. Jones, Agricultural Origins of Industry, in «Past & Present», n. 40, 1968. ? Mendels, Proto-Industrialization, cit., pp. 241-61. 8 Ch. e R. Tilly, Agenda for European Economic History in the 1970s, in «Journal of Economic History», n. 31, 1971, pp. 184-98. 81 Cfr. Wirtschaft-und Sozialgeschichtliche. Probleme der frufien Industrialisierung, a cura di W. Fischer, Berlin 1968. #. Kriedte, Medick, Schlumbohm, Industrialisterung vor der Industrialisierung, cit., p. 14.

65

OPPOSTE

CONGIUNTURE

conseguentemente, unà trasformazione dei rapporti di produzione». Inoltre, determinò la sparizione dei privilegi corporativi. Infine, nel modificare i rapporti tradizionali tra città e campagna, portò alla formazione di un sistema di autocontrollo del tutto diverso da quello tradizionale. È forse qui che è opportuno precisare un punto che apparentemente sembra non aver niente a che fare con l'argomento di questo libro ma che in realtà gli è fortemente connesso: il problema della genesi della rivoluzione industriale. Essa è troppo spesso legata nelle sue origini al capitalismo commerciale. Ora, io credo che il capitalismo commerciale non abbia esercitato un ruolo determinante, e

occorra piuttosto rivolgersi ad altri fattori: SAID RPISO! 84 A questo riguardo mi sembra necessario riprodurre qui la pagina illuminante di Bairoch, De Jéricho, cit., pp. 322-23: «Questa espansione commerciale ci obbliga d’altronde ad aprire una parentesi sul ruolo del commercio estero durante il decollo della rivoluzione industriale. Abbiamo dedicato, circa dieci anni fa, uno studio a questo problema ed ecco le con-

clusioni alle quali siamo giunti senza aver effettuato un’analisi empirica dei fatti: quale che sia l'approccio adottato, questa analisi porta a ridurre a una frazione molto marginale il ruolo del commercio estero nella “genesi” della rivoluzione industriale inglese. Questa analisi ha portato l’attenzione soprattutto sul periodo che va dal 1700-1710 al 1780-1790 che ingloba l’essenziale della fase di partenza di questa rivoluzione industriale. La tesi tradizionale, che vedeva

nell’espansione commerciale dei secoli xvi e xvir una causa importante, se non la causa della rivoluzione industriale, non resiste ad un esame oggettivo che ricerchi prove diverse da quelle che deducono dalla successione di due fenomeni eccezionali la prova di un legame di causalità. L'espansione commerciale non è certamente stata una causa sufficiente, perché allora l'Olanda, per non parlare che di questo paese, avrebbe dovuto precedere l’Inghilterra. Non è probabilmente stata neanche una causa necessaria, perché altrimenti la lista di paesi europei che si sono industrializzati sarebbe dovuta essere più limitata. E i profitti? E la domanda indotta dalla flotta? obietterà senz'altro il lettore. I profitti accumulati o risparmiati dal verificarsi dell’espansione commerciale, anche se erano stati integralmente investiti nell’economia inglese, non avrebbero rappresentato che il 10-20% del totale degli investimenti, e quelli realmente investiti non hanno costituito più che dal 6 o 8% del totale. D’altra parte la letteratura che tratta di questo importante legame funzionale è stata generalmente falsata dal suo approccio metodologico: occorreva analizzare l’origine dei capitali e degli imprenditori dei settori motori della rivoluzione industriale, e non cercare i casi in cui il capitale commerciale è stato investito nell’industria nascente. Ora, se utilizziamo l'approccio adeguato, emerge che il capitale originario del commercio internazionale era lungi dall’essere preponderante nelle prime fasi di industrializzazione. Vi è d’altronde una discordanza molto netta tra le aree geografiche di accumulazione del capitale commerciale e quelle dell’industrializzazione, e ciò sia che prendiamo in considerazione paesi sia regioni più circoscritte [...]. Quanto alla domanda generata dalla creazione e dal rinnovamento della flotta inglese, il cui sviluppo è pure stato rapido, essa non ha avuto che una ripercussione marginale. In effetti, su basi assai frammentafie, è vero, abbiamo potuto stimare che la domanda così generata (compresa la

marina di guerra) doveva è stata ugualmente molto il settore tessile e un 2% graficamente) e più largo

essere inferiore allo 0,5% del prodotto nazionale. E questa incidenza debole sui settori motori della rivoluzione industriale (circa l’1% per per la siderurgia). Su un piano allo stesso tempo più ristretto (geo(storicamente) O'Brien è giunto alla conclusione che, se l'Inghilterra

fosse stata esclusa tra il 1489 e il 1789 dal commercio con il futuro Terzo Mondo, ciò avrebbe

implicato una diminuzione del 7% al massimo negli investimenti inglesi».

66

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

a) una nuova agricoltura, nuova anche nelle implicazioni sociali (come ho cercato di mostrare prima); b) una nuova organizzazione industriale (il termine «organizzazione» va preso nel senso più largo); c) una nuova organizzazione commerciale (sia sul piano interno che, soprattutto, sul piano internazionale). A ciò aggiungiamo il fatto che — messo da parte il caso inglese — l’insieme dell'Europa «industriale» (tanto i paesi in crisi, quanto quelli che mostrano segni incontestabili di resistenza o addirittura di crescita) non manifesta cambiamenti né nella politica industriale né, soprattutto, nella natura del capitale impiegato, che, per parte sua, resta mercantile come ai bei tempi dell’Italia del Nord o delle Fiandre del x secolo. E ciò non è contraddetto dalle poche eccezioni settoriali che si possono incontrare. In questa ottica, si comprende agevolmente che non è per caso se

la rivoluzione industriale si è verificata in primo luogo in Inghilterra. E delle Indie Occidentali, quid? È difficile rispondere a questa questione. Sfortunatamente, non disponiamo di lavori d’insieme sui problemi agricoli e «industriali» relativi all'America spagnola. Il percorso si rivela quindi molto complicato. E — con il rischio di ripetere cose ben conosciute — bisogna riprendere le fila del discorso dall’inizio. La terra americana è terra di conquista. Certo: tutte le terre della storia umana

sono terre di conquista. Ma, nel caso americano, si

tratta di una conquista recente. Quali sono state, nel xvi secolo, le modalità della conquista? Al-

l’inizio (ma anche nel prosieguo) si è trattato soprattutto di «doni» (mercedes de tierra, sesmerias). Ma vi sono stati anche il furto di terre

(degli indiani e/o della Corona), le eredità, l’uso della terra come mezzo per il pagamento dei debiti, l'occupazione abusiva. E ancora, gli acquisti veri e propri. Dietro a tutto questo, un fatto più importante: la terra non aveva alcun valore o quasi. Si tratta di un punto importante sul quale vale la pena di insistere un poco. Si è detto che la terra non aveva un grande valore. Precisiamo. Nella realtà, si incontrano haciendas che «costano» decine e anche

centinaia di migliaia di pesos. Ora, concentrare l’attenzione su queste cifre e limitarsi al loro significato immediato vuol dire restare alla superficie delle cose, poiché la «composizione» del valore di una hacienda è molto complessa. Innanzitutto la prossimità a strade che colleghino la proprietà a un (grosso) centro di consumo. È buffo 67

OPPOSTE

CONGIUNTURE

constatare che sono soprattutto coloro che insistono sul mercato interno, sul capitalismo, sulla produzione per il mercato a trascurare questa verità essenziale che J.H. von Thiinen ha mostrata e dimostrata più di un secolo fa®. In secondo luogo, il terreno, ma anche (e soprattutto) la casa del padrone e il suo mobilio, la cappella e i suoi ornamenti, gli schiavi, gli edifici funzionali alla comunità (#-

genios, magazzini, stenditoi ecc.), le piante esistenti (senza dimenticare che il loro valore varia in funzione dell’età: un r2aguey di 14 anni non vale niente!), lo stock, gli animali per il lavoro e per l’allevamento (anche il valore di questi cambia in funzione dell’età). Se non si distinguono tutti questi elementi differenti si rischia di arrivare a conclusioni false, completamente false. Esaminiamo alcuni casi. Prendiamo la hacienda Notocacha, in

Perù: il valore totale è di 174.692 pesos®°. La terra non rappresenta che 5.216 pesos (il 2,9%)! Il resto del valore è costituito dalle vigne (51%), gli schiavi (17,5%), la casa e le diverse installazioni (22,5%).

Un caso limite? Apparentemente sì, poiché sempre in Perù è possibile incontrare haciendas nelle quali il valore della terra rappresenta una percentuale abbastanza alta. Così, la hacienda Bocanegra la cui superficie vale 38,6% e le piante (essenzialmente canna da zucchero) rappresentano soltanto il 14,83%. Ma in questo caso occorre considerare almeno due fattori: a) occorrerebbe sapere se, nella terra, non sono incorporati lavori

d’irrigazione che ne aumenterebbero il valore 88; b) un altro aspetto — che è fondamentale — è il seguente. A quale stadio del loro ciclo produttivo sono pervenute le piante al momento della valutazione del valore della bacienda? Perché infatti la stessa hacienda varrà più o meno rispetto al fatto di sapere se le «piante» (quali che siano: dalla vigna al tabacco; dal grano al mais...) si trovano alla vigilia del raccolto o ad un anno di distanza dalla aspettativa del raccolto ®. £ J.H. von Thiinen, Der Isolierte Staat, 1875. Una prima applicazione al caso messicano

in L. Waibel, Die wirtschftliche Gliederung Mexicos, in Festschrift fiir Alfred Philipson,

Leipzig-Berlin 1930, pp. 32-35. E cfr. anche U. Ewald, Estudios sobre la bacienda colonial en Mexico. Las propriedades rurales del Colegio Espiritu Santo en Puebla, Wiesbaden 1976, p. 24. Se P. Macera, Instrucciones para el manejo de las hbaciendas del Peri (ss. XVII-XVII), in «Nueva Coronica», vol. n, n. 2, 1966, tab. v.

9 Ibid. * Così, per esempio, nella bacienda Cocoyoc in Messico risultano 2.742 pesos quale valore di «opere idrauliche»: cfr. G. von Wobeser, La formacion de la bacienda en la época co-

lonial, México 1983, p.105. ® Per esempio in Guatemala, per un’azienda produttrice di zucchero, il solo valore del

raccolto è valutato 500 pesos «mentre la sola terra, che per tutta la proprietà è costituita da

68

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

Per rendere tutto ciò più chiaro, diamo un esempio utilizzando valori numerici. Supponiamo una hacienda produttrice di grano, in Perù, in due momenti diversi: Febbraio®

Giugno

cappella, schiavi, utensili

50.000 ps. (50%)

50.000 ps. (50%)

Superficie

25.000 ps. (25%)

45.000 ps. (45%)

Rimanenze di precedenti raccolti

20 10.000 ps. (10%)

0

Raccolto futuro?

15.000 ps. (15%)

5.000 ps.

Parte fissa, abitazioni,

(5%)

a In America del Sud i mesi di febbraio e giugno in termini di calendario agricolo corrispondono ai mesi di luglio e dicembre in Europa. Il valore di questo varia, naturalmente, in rapporto al numero di mesi che separano il momento di valutazione da quello del prossimo raccolto.

Quindi, in un caso il «valore» del suolo rappresenta il 25%, in un altro il 45%. E vorrei far notare che le differenze di questo ordine (e, in realtà, ancora più grandi), si ottengono quali che siano le cifre considerate. Niente di straordinario in ciò: basta aver letto qualche manuale di contabilità agricola e conoscere un po’ la «cucina» delle percentuali. A tutto ciò, occorre ancora aggiungere un fattore: qual è il valore dei prodotti immagazzinati? Prendiamo il caso della hacienda Cocoyoc in Messico (nel 1800). Il valore totale è di 169.375 pesos; il valore dei prodotti trattati e immagazzinati (essenzialmente dello zucchero) è di 11.219 pesos (6,62%) mentre le colture (cultivos) rappresentano 40.627 pesos, cioè il 23,98%. In questa stessa 4-

cienda il valore della terra in percentuale del valore totale oscilla nel seguente modo: dal 17,09% nel 1714 al 36,65% nel 1763, al 24,89% nel 1769, al 32,23% nel 1785, al 19,77% nel 1800. I motivi di queste

oscillazioni? Molto semplice. In corrispondenza del valore più alto della terra, nel 1763, semplicemente non vi sono né bestiame né «campos de cafia». Cosa sia successo con esattezza non lo so: ma la

una estancia de ganado mayor e 2 caballerias, non vale che 400 pesos»: cfr. M. Bertrand, Étude de la société rurale en Basse Verapaz (XVIe-XIXe siecles), in aa.vv., Rabinal et la vallée

moyenne du Chixoy. Baja Verapaz-Guatemala, Paris 1981, p. 64. % Wobeser, La formacion de la hacienda, cit., pp. 104-107.

69

OPPOSTE

CONGIUNTURE

sola cosa certa è che questa «assenza» permette di rendere più alta la percentuale del valore della terra”.

È

Con questi esempi voglio dire che se si prendono in considerazione tutte le variabili, si arriva a dei risultati molto particolari.

Così, in un articolo importante, Hermés Tovar Pinzén® afferma:

«solo il valore della terra sembra mantenere un'importanza notevole nel complesso del valore generale delle aziende, valore al quale si è legata la costruzione di opere infrastrutturali». Non so cosa Tovar Pinzén intenda per «opere infrastrutturali» ma constato, dai dati che egli ci fornisce, uno strano (in fondo non così tanto!) fenomeno. Le «tierras de maguey» rappresentano, come superficie, il 15% del totale, ma il loro valore arriva a 45,7% del totale”. Ma è la

terra che vale questo 45,7%? O piuttosto i rzaguey? La questione è tanto più legittima in quanto, per la coltura di questo cactus, non è necessario far ricorso a buone terre. Tovar Pinzén ha pertanto incorporato il valore delle piante in quello delle superfici sulle quali esse si trovano.

All’opposto, tutti coloro” che hanno con minuzia analizzato nel dettaglio la composizione interna del «valore» pervengono a conclusioni che sembrano più «sane». E credo che Colmenares sia colui che le ha meglio espresse, a proposito della Colombia, dicendo che «la terra rappresentava, in termini di valore economico, una frazione minima dei beni che sosteneva in quanto struttura». È su questa situazione di fondo (che amo riassumere nell’espressione di «offerta illimitata di terra») che occorre esaminare i problemi della terra in America iberica. E vediamo ora cosa è successo durante il xvir secolo, almeno a

grandi tratti. Partiamo dalla bella serie di carte costruita da E. Florescano per il Messico (figg. 2 e 3). Queste carte permettono di notare due elementi: a) innanzi tutto il fatto che nella Nuova Spagna la «conquista» continua: vi è costante espansione verso il nord;

" C. von Wobeser, La bacienda azucarera en la época colonial, México 1988, p. 21.

°° H. Tovar Pinzén, Elerzentos constitutivos de la empresa agraria iesuita en la segunda mitad del siglo XVIII en México, in Sociedad, latifundio y plantaciones en América latina, a cura di E. Florescano, México 1975, p. 157.

3 Ibid., p. 161, nota 60. % Cfr. Macera, Instrucciones para el manejo de las haciendas, cit.; Bertrand, Étude de la société rurale, cit.; G. Colmenares, Las baciendas de los jesuitas en el Nuevo Reyno de Granada, Bogota 1969. ? Colmenares, Las baciendas de los jesuitas, cit., p.157.

70

PRODUZIONE DELLA IL MONDO

8.6] SERAUDIO)

L9SI vIPqUUA US

USI,

@

opàgual

o821g IUS

x

SApuUBIo) SESTO), @

Hoovwn]]|

adzuy @ 00z1

Di 0par]® Puo @

OSSI-9ZST

®

SLIT-T8ST

PO) 2919( 6861 ®

‘© ‘914

ON |PP_Osed

®

1€91 [ted

‘9 ‘d ‘6961 ONXIN

vipe]ng ms

]9p uo19vdn30 U019121U0]0) ‘OUEISIIO]H “H 23UOH ‘eIe( “V Ip gino è ‘soa072N SVHAALT WI OCLI-TSSI ‘puvdsgq vaann dp 2140N ]2 ua vs9quOsSl 0]ANS

08SI-0SSI

ua

vudvds vAONN D[]2P PsON ]9U 2UO!2V2Z1UO]02 D]]IP addv],

mM

©

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ric. 3. L'espansione dell'agricoltura nella Nuova Spagna

BOVINI 1580

Fonte: Ibid., pp. 54, 60.

72

ir

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

b) e non si tratta soltanto di un’espansione, ma di qualcosa di più articolato poiché si vedono anche gli elementi di una certa (relativa) differenziazione: l’allevamento trionfa, certamente, ma i cereali lo

incalzano. Insomma le carte di Florescano ci rivelano l’importante fenomeno delle «terre nuove». E su queste «terre nuove» — ovunque in

America — troviamo delle colture anch’esse «nuove». I casi classici sono certamente quelli della yerba rzate, del tabacco”, del cacao *,

del chinino” che ci mostrano il passaggio di piante silvestri (e all’inizio sfruttate nella forma della semplice raccolta), al livello di coltura. D'altro canto, si assiste alla messa a coltura di piante d’ori-

gine europea. La vigna innanzitutto: -So che fin dai primi momenti della conquista si comincia a produrre vino in America. Ma è soprattutto con il xvi secolo che la vigna diventa oggetto di coltura destinata ad una vasta commercializzazione:

così, in Perù!%, in

Cile !9, nella regione di Mendoza !° si assiste ad una forte espansione della vigna. Ma chi dice vino dice anche barili, botti, bottiglie, cioè forme «industriali» nuove. Ed è così che in Perù si vedono comparire vetrerie a Ica, Lima, Cuambacho !®, Un discorso similare

può essere applicato allo zucchero. Certo, si comincia presto a coltivare la canna da zucchero: «storico», il germoglio che Cristoforo Colombo avrebbe piantato a Cuba nel 1503. Ma il fatto è che Cuba comincia le sue esportazioni regolari di zucchero verso la Spagna soltanto nel 1610!%. In

% Per il quale cfr. J.C. Garavaglia, Mercado interno y economia colonial, México 1983. ‘Per Cuba, cfr. Marrero, Cuba: Economia y sociedad, cit., vol. rv, pp. 48-51 e, naturalmente il libro classico di F. Ortiz, Contrapunteo cubano del tabaco y del azucar, La Habana 19632. Per il Venezuela, cfr. E. Arcila Farias, Econorzia colonial de Venezuela, México 1946, pp. 79 ss.

Pa Arcila Farias, Economia colonial de Venezuela, cit., pp. 87 ss. ” P.O. Girot, Resistencia indigena, auges comerciales y colonizacion: estrategias territoriales Jivaras y las fases de ocupacion del Valle del Rio Chinchipe, Cajamarca, Nororiente peruano, comunicazione (dattiloscritto) al 45° Congresso internazionale degli Americanisti, Bogotà, 17 luglio 1985, p. 11. 00 E, Romero, Historia economica del Peri, Buenos Aires 1949, pp. 124-25. !01 Cfr. M. Carmagnani, Les wécanismes de la vie économique dans une société coloniale: le Chili (1680-1830), Paris 1973, p. 237. 122 M. Del Rosario Prieto, Conseguencias ambientales derivadas de la instalacion de los

espatioles en Mendoza en 1561, in «Cuadernos de Historia Regional de la Universidad Nacional de Lujan», n. 6, 1988, pp. 21. Questo articolo mostra anche la diffusione dell’irrigazione durante il xvi secolo. 1 Sempat Assadourian, E/ sistema de la economia colonial, cit., p. 177. 104 Ortiz, Contrapunteo cubano del tabaco, cit., p. 454.

16,

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Brasile, si assiste ad un aumento regolare dei mulini (ergerbos) di zucchero !®; 1570 1585 1610 1629 1645 1710

60 130 230 346 300 528

Naturalmente a questo aumento del numero di mulini corrisponde un aumento parallelo della produzione !. Bisogna aggiungere che l’industria dello zucchero ne mette in movimento un’altra: quella dell’acquavite!”. Altrove, come nel Rio de la Plata, possiamo assistere agli inizi dell'industria di conservazione della carne (cecina) con una commercializzazione in direzione del Brasile e dell’Africa !%8, Ecco una serie di fatti. Contro di essi, si potrebbe dire che il basso livello della popolazione ha reso difficile (per non dire impossibile) una vera crescita agricola dell'America iberica. Ma credo che

in questo modo si dimenticherebbero almeno quattro fattori: 1) innanzi tutto, come ho cercato di dimostrare nel primo capitolo, la popolazione americana ricomincia ad aumentare fin dalla metà del xvi secolo (e anche prima); 2) in secondo luogo, in termini di disponibilità di energia, l’America iberica ha potuto contare sull'impiego crescente di animali (buoi, muli, cavalli) nei lavori agricoli;

3) inoltre, occorre sottolineare che rispetto all’agricoltura la caduta della popolazione in America non ha le stesse conseguenze che in Europa: infatti, per esempio, la yeld ratto del mais (cereale fondamentale nell’alimentazione americana) è sempre nettamente superiore a quella del grano; 4) infine, è esattamente durante il xvn secolo che le importazioni di schiavi cominciano ad aumentare in modo significativo !°. !© F. Mauro, Le Portugal, le Brésil et l’Atlantigue au XVlle siecle, Paris 1983?, p. 229. 10 Ibid., pp. 278-81 e C.R. Boxer, Salvador de Sd e a luta pelo Brasil e Angola, Sào Paulo 1973, pp. 192-93.

!07 J.J. Hernandez Palomo, Historia del aguardiente de cafia en México, Sevilla 1974. ! A.J. Montoya, Historia de los saladeros argentinos, Buenos Aires 1956, pp.10-11 e cfr. E. Wedowoy, Burguesia comercial y desarollo nacional, in «Humanidades», xxxv, 1960, p. 56. ‘® Cfr. Curtin, The Atlantic Slave Trade, cit., tabb. 33, 34, 35 e cfr. anche J.A. Rawley,

The Trans-Atlantic Slave Trade, New York-London 1981.

74

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

Lo ripeto: questa crescita dell’importazione di energia (che sarà destinata essenzialmente ai lavori agricoli contrariamente a quanto

era successo durante il xvi secolo, quando gli schiavi erano in gran parte indirizzati verso le miniere) traduce abbastanza bene, mi sembra, la crescita dell’agricoltura americana. È una crescita tanto più forte se si considera che i dati di Ph. D. Curtin sono certamente da correggere al rialzo !!°. Si potrebbero aggiungere altri segnali !!!, ma mi sembra che già alcuni elementi presentati qui indichino bene uno slancio dell’agricoltura dell’ America iberica durante il xvi secolo !!?. PI.

0 I dati di Ph.D. Curtin devono essere corretti al rialzo perché, per esempio, laddove per il periodo 1601-1650 egli segnala un’entrata di 127.500, E.G. Peralta, Les mécanismes du commerce esclavagiste (XVIlIe siècle), These de 3ème cycle eHESS, Paris 1977 (dattiloscritto), p. 536 ne trova tra il 1595 e il 1640, 165.864. Aggiungiamo che tra il 1641 e il 1650 l’asiento ufficiale d'importazione di schiavi in America è stato interrotto del tutto. Inoltre, non possiamo dimenticare che una buona parte degli schiavi con destinazione per le Antille inglesi e olandesi passano di contrabbando in America spagnola. 1! Infatti, ho parlato sopra di furti (sotto tutte le forme possibili e immaginabili) di terre. Ora, questi furti continuano ad esserci durante il xvi secolo. Ma vi è un fenomeno nuovo che ora si manifesta: le «composiciones de tierras». Di cosa si tratta? Lo Stato spagnolo, sempre in cerca di soldi, propone di regolarizzare la situazione irregolare dei «titoli» di proprietà relativi alle terre di origine incerta (furti, per la gran parte). È in questo modo che tra la regolazione di vecchi furti e nuove usurpazioni, la metà circa della regione centrale della provincia di Caracas si costituisce in proprietà agricola: cfr. F. Brito Figueroa, Estructura economica del Venezuela colonial, Caracas 1963, p. 157. Un po’ ovunque si assiste a questo fenomeno di «composiciones», un fenomeno talmente importante che F. Chevalier, La formaciòn de los grandes latifundios en México, s.l. 1956, p. 219, al riguardo afferma che le «composiciones» furono «come la Magna Charta di una bacserda rurale garantita e ampliata». 2 Mi si potrà sicuramente rimproverare di non essermi servito, per questo problema dell’agricoltura, in America iberica come in Europa, di una fonte che — dopo aver dato dei risultati molto importanti per la storia del Medio Evo — è stata adottata con troppo entusiasmo dai modernisti: le decime. A dire il vero ho molte riserve sul loro conto. Eccone alcune: a) nel calcolo del prodotto di una decima spesso intervengono due fattori: 1) i prezzi; 2) le quantità. Come leggerli? Un movimento che «sale», sale perché rappresenta un aumento reale della produzione o perché rappresenta un aumento dei prezzi? Certo, si può compiere un calcolo deflattivo: ma ciò non sempre è possibile e sempre è molto difficile e rischioso; b) il prodotto di una decima, inoltre, può aumentare per ragioni totalmente differenti; perché la popolazione aumenta, per esempio. Ma ciò non significa assolutamente che vi è stato un aumento della produzione per capita. Possiamo avere degli aumenti a causa delle variazioni delle superfici coltivate, oppure possono intervenire variabili pedologiche: nel sud delle Ande dopo i primi anni del xvm secolo si verifica un’estensione della decima alle parcelle delle vecchie baciendas affittate dagli Indiani foresti (forasteros, arrendires) che si installano nelle

vallate interne; c) quale è la parte degli esoneri? Per esempio, a proposito dell’ America ispanica, occorre ricordare che l’appartenenza a un ordine nobiliare comporta l’esonero dalla decima; ora, questi nobili sono anche i più grandi proprietari e il loro numero: aumenta esattamente durante il xvit secolo: cfr. G. Lohmann Villena, Los americanos en las Ordenes Nobiliare, Madrid 1947, vol. 1, pp. xxxvi-xxxvtt; d) Sappiamo che ci sono — come in qualsiasi sistema fiscale — periodi di capacità esattiva più forte e periodi di capacità esattiva meno forte: una decima può aumentare in rapporto al «vigore» con il quale la si percepisce. Senza parlare naturalmente delle frodi e di quelli che possono essere chiamati «scioperi» nel pagamento

YO

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Dall’attività agricola, passiamo a quella «industriale» !!. Cominciamo con un settore molto particolare: le costruzioni na-

vali. Il commercio tra la Spagna e l’America non si fa soltanto con battelli di costruzione spagnola. A questo traffico partecipano anche — sotto bandiera spagnola — i battelli costruiti in altri paesi d'Europa e anche d'America. Ecco il dettaglio dei diversi luoghi di costruzione delle navi che hanno partecipato ai viaggi della carrera fino al 177845 della decima. Potrei aggiungere altre riserve, ma preferisco rimandare alle fini annotazioni di G. Fréche, Dime et production agricole. Remarques méthodologiques è propos de la région toulousaine, in Les fluctuations du produit de la dîme, a cura di J. Goy e E. Le Roy Ladurie,

Paris-La Haye 1982, pp. 214-44 e di E. Morin, Le neouverzent du produit décimal et l’évolution des rapports fonciers au Mexique, XVIIIe-XIXe siècles, in Prestations paysannes, cit., vol. 1, pp. 479-87.I due volumi curati da J. Goy e E. Le Roy Ladurie costituiscono per l'Europa nel suo insieme (in particolare per la Francia) una fonte di primissimo ordine. Ma quale lezione se ne può trarre? A mio avviso, nessuna, perché i risultati mi sembrano essere contraddittori. Se si

passa all'America iberica, si dispone di una massa importante di serie di decime: per il Messico, oltre all’articolo citato di E. Morin, si può far rimando ai lavori di A. Medina Rubio, La iglesia y la produccion en Puebla (1540-1795), México 1983; W. Borah, The collection of Tithes in the Bishopic of Oaxaca during the Sixteentb Century, in «Hispanic American Historical Review», n. 21, 1941 (ma per il Messico, la bibliografia è enorme); per l’Alto Perù, cfr. Tandeter-Wachtel, Precios y producciòn agraria, cit., p. 62; per il Guatemala, cfr. M.L. Wortman, Government and Society in Central America, 1680-1840, New York 1982, p. 60; per Cuba, cfr. Marrero, Cuba: Economia y sociedad, cit., vol. rv, pp. 216-20; per il Paraguay, cfr. J.C. Garavaglia, Ur capitulo del mercado interno colontal: el Paraguay y su region (1537-1682), in «Nova Americana», 1, 1978, p. 38. E la lista è incompleta. Quindi ho rinunciato, per le riserve che ho indicato sopra, a servirmi di questa massa di dati rorostante il fatto che per lo più essi registravano un aumento durante il XVII secolo, il che mi confermava nella mia interpretazione di una crescita agricola americana. Lo ripeto, non credo a queste decime. Ma mi

sembra che si possa tirare qualche profitto dalle conclusioni alle quali pervengono gli autori, non tanto per quanto essi traggono dalle loro serie numeriche, ma per tutto ciò che essi

conoscono delle decime. Così, per esempio, la prudente conclusione di Elias Trabulse mi sembra accettabile: «la produzione commerciale campesina di tipo europeo (probabilmente bestiame) è cresciuta in termini assoluti nel corso del xvi secolo» (p. 55). Mi sembra accettabile perché l’autore in precedenza (p. 14) aveva notato che «il valore liquido delle decime del Vescovo salì da 12.239 pesos nel 1624 a 42.585 pesos nel 1694» ma si era anche subito affrettato a indicare come questo aumento in buona parte fosse dovuto «al graduale perfezionamento del sistema amministrativo» (p. 14). Nessuna ingenuità, insomma. Allo stesso modo, ci si può fidare della conclusione citata sopra perché Trabulse ha fatto la constatazione seguente: «Una superficiale comparazione sembra indicare che l’Arcivescovado di México mentre tiene il più alto valore delle decime tiene la produzione per capita meno alta mentre, il Vescovado di Oaxaca con le decime meno consistenti (il confronto è con i quattro Vescovadi principali) ha la produzione per capita più alta». !5 Per il problema nel suo insieme cfr. H. Pohl, A/gunas consideraciones sobre el desarrollo de la industria hispano americana — especialmente textil — durante el siglo XVII, in «Anuario de Estudios Americanos», xxv,

1971.

!!4 Tratto da H. e P. Chaunu, Séville et l’Atlantique, cit., vol. vi.1, Paris 1956, pp. 160-65;

L. Garcia Fuentes, E/ comzercio espatiol con América (1650-1700), Sevilla 1980, p. 206; A. Garcia-Baquero Gonzalez, Cadiz y el Atlantico (1717-1778), Sevilla 1976, vol. 1, p. 235. Il lettore noterà che le tre percentuali per le annate 1651-1700 sommate non danno il totale 100. Ciò è dovuto al fatto che L. Garcia Fuentes le ha calcolate su un totale di 930 imbarcazioni

76

IL MONDO

DELLA

PRODUZIONE

Spagnoli

Criollos

Altri

1506-1550 1551-1600

99,30% 82,50%

(0) 2,70%

0,70% 15,19%

1601-1650

59,33%

26,51%

14,14%

1651-1700 1717-1778

31,00% 22,15%

22,06% 4,26%

29,05% 73,59%

Questi dati, più che qualsiasi altra considerazione, ci indicano

chiaramente la decadenza spagnola. Ma mostrano anche come, durante tutto il xv secolo, si sia sviluppata l’attività dei cantieri americani (soprattutto a La Habana e a Guayaquil) !5. Il colpo di frusta a queste costruzioni era stato dato dalla distruzione della «Invicible Armada», il che aveva mobilitato tutte le risorse dell’«Impero». Si sarebbe potuto credere che subito dopo i cantieri spagnoli avrebbero ripreso il loro ruolo dominante. Tuttavia, per tutto il xvi secolo, non se ne trova traccia.

| Peraltro, si avrebbe torto nel credere che questa attività di costruzioni navali lungo il filo del secolo si sia concentrata a Cuba e si sia applicata unicamente ai viaggi transatlantici. Il fatto è — come si vedrà nel capitolo dedicato al commercio — che sono necessari molti battelli per assicurare le numerosissime relazioni inter-americane che si rafforzano durante il xvi secolo: da Tierra Firme a Cuba, dal — Venezuela al Messico, dal Messico al Perù, dal Perù al Cile. A ciò

occorre aggiungere le costruzioni navali fluviali sulle quali si hanno pochi ragguagli, ma che non di meno sono esistite !!°, Questa attività di costruzioni navali è doppiamente importante perché non è soltanto un’industria in sé, ma mette in movimento che comprende anche 155 imbarcazioni di origine sconosciuta. Se vogliamo fare riferimento UL a quelle di cui si conoscono i luoghi di fabbricazione avremo: spagnole 289 (37,29%) «criollos» 211 (27,22%) straniere

275

(35,48%)

15 Cfr. L.A. Clayton, Los astilleros de Guayquil colonial, Guayquil 1978; per Cuba, Marrero, Cuba: Economia y sociedad, cit., vol. 11, p. 204, situa l’inizio della costruzione navale

su scala considerevole nel 1591. E cfr. anche A. de la Fuente Garcia, La poblacion libre de Cuba en los siglos XVI y XVII: un estudio regional, Sevilla 1990 (dattiloscritto), p. 29. Anche il Brasile ha i suoi cantieri di costruzioni navali, ma — contrariamente a ciò che succede

nell’America ispanica — si tratta essenzialmente del frutto di commesse reali: cfr. J.R. do Amaral Lapa, Merzoria sobre a Nau Nossa Senhora de Caridade, in «Estudos Històricos», n. 2, 1963, pp. 33-38. E cfr. anche, naturalmente, Mauro, Le Portugal, le Brésil et l’Atlantique, cit., pp. 47 ss. che contiene molte informazioni sui cantieri di Bahia, Rio de Janeiro, Pernambuco. 116 Per esempio, per le costruzioni navali sul Parana durante il xvn secolo, cfr. Garavaglia, Mercado interno y economia colonial, cit., pp. 432-33.

Va)

OPPOSTE

CONGIUNTURE

altre attività (il tessile, per esempio, per la fabbricazione di vele e una branca particolare dell’agricoltura: lo sfruttamento delle risorse forestali !!"). A ciò occorrerebbe aggiungere ancora un’altra attività: la fabbricazione di armi, in particolare di pezzi di artiglieria per i battelli di costruzione americana e per le fortificazioni che proliferarono durante il xvi secolo !!8. Non sappiamo molto dell’attività tessile americana!!?. Gli studi di cui disponiamo non permettono in alcun modo una conclusione d’insieme. Se è vero, per esempio, che A. Carabarin !°° ci mostra la caduta della produzione tessile di Puebla (Messico), si esita però ad accettare la tesi per cui essa sarebbe da mettere in rapporto con la caduta della produzione dell’argento in Perù, che avrebbe interrotto le esportazioni di Puebla verso questo paese. E ciò per molte ragioni, di cui la più importante è che le informazioni di cui disponiamo per il Perù ci illustrano una situazione diversa. Innanzi tutto, la caduta della produzione mineraria non è così grande come si immagina (si veda il quarto capitolo) e inoltre, come si può constatare a partire dai lavori molto attenti di Miriam Salas de Coloma, ad un periodo di crisi fino agli anni sessanta, fa seguito una fortissima ripresa della produzione tessile peruviana. Miriam Salas de Coloma ha perfettamente ragione di commentare questa cronologia constatando che «questa situazione di auge [...] coinvolse tutte le manifatture del Perù e della Bolivia, e non allo stesso modo quelle della regione di Quito» 1°.

1? Così per esempio cfr. M.J. MacLeod, Spanish Central America. A Socioeconomic History, 1520-1720, Berkeley 1973, pp. 276-79. 1!8 Cfr. a questo riguardo A. Vazquez de Espinosa, Compendio y descripcion de las Indias Occidentales, Washington 1948 sub voces «Astilleros», «Armada», «Artilleria», «Fortificacio-

sat per avere una visione d’insieme sui diversi problemi che ho appena richiamato (intorno al 1630). !!° Ma cfr. il pionieristico lavoro di H. Pohl, Das Text/gewerbe in Hispanamerika wahrend der Kolonialzeit, in «Vierteljahrschrift fir Sozial und Wirtschaftsgeschichte, vol. 56, n. 4, 1969, pp. 438-77.

‘°° Carabarin Garcia, Las crisis de Puebla en los siglos XVII y XVIII, cit., pp. 1-13. Ma cfr. anche J. Bazant, Evolucion de la industria textil poblana (1544-1845), in «Historia Mexicana», xm, 1964, le cui argomentazioni mi sembrano a tutt'oggi valide. Peraltro se la produzione tessile scende a Puebla, si sviluppa in altre regioni della Nuova Spagna: cfr. J.C. Super, La vida en Queretaro durante la colonia, 1531-1810, México 1983, pp. 86-98 e J. Tutino, Guerra, comercio colonial y textiles mexicanos: El Bajio, 1585-1810, in «Historias», n. 11, 1985, pp. 35 ss.

2! M. Salas de Coloma, Crisis en desfase en el centro-sur-este del Virreinato peruano: mineria

y manufactura textil, in Las crisis econémicas en la historia del Perti, a cura di H.

Bonilla, Lima 1986, p. 148. In realtà la produzione degli obrajes di Quito è considerevole

durante il xvn secolo: cfr. A. Guerrero, Los obrajes en la Real Audiencia de Quito en el siglo

78

IL MONDO

DELLA PRODUZIONE

Contraddizioni di questo genere impediscono di vedere una linea generale. Inoltre, nella produzione tessile americana hanno peso due variabili molto importanti: a) innanzi tutto il fatto che i prodotti tessili rappresentano (non direi ovunque, ma in molte regioni) uno strumento fiscale: si paga il tributo, o qualsiasi altra prestazione di questo genere, in tessuto !?; b) in secondo luogo, sull’affermazione o sparizione temporanea della produzione tessile in un dato luogo, conta la concorrenza dei prodotti stranieri introdotti ufficialmente o clandestinamente. Sicché, è quasi certo che le importazioni in Messico di sete cinesi via Manila-Acapulco hanno condotto al declino dell'industria messicana della seta, precedentemente affermatasi nel xvi secolo !. Ma, indiscutibilmente, l'industria per eccellenza, nell'America

spagnola, è stata quella dell'estrazione mineraria !*, La tradizione storiografica aveva sancito da molto tempo la caduta di questa attività durante il xv secolo. Ora, in seguito alle ricerche di Michel Morineau !, sembra proprio che questa tradizione sia totalmente falsa. Ma per tutto ciò rimando al quarto capitolo. Ancora un’attività: l'edilizia. Non si dispone che di pochi elementi. W. Borah! — sulla base essenzialmente degli studi di G. Kubler — ha insistito sulla caduta progressiva delle costruzioni religiose nel contesto messicano. Ma, al di fuori delle considerazioni di ordine generale che ho esposto nel primo capitolo, resta il fatto che nel caso americano l’indice delle costruzioni di tipo religioso non ha grande significato. E normale che, avendo compiuto il grosso sforzo di copertura di bisogni «spirituali» durante il xvi secolo, ci sia in seguito una battuta d’arresto. Ma occorrerebbe sapere con precisione cosa è successo dopo il 1650. Non lo sappiamo. Tuttavia, chiunque abbia un po’ viaggiato in America ha visto le chiese e i conventi del xv secolo che si impongono allo sguardo; e, come mi suggerisce T. Saignes, nel Sud andino il movimento di ricostruzione di chiese XVIIy su relacibn con el Estado Colonial, in «Revista de Ciencias Sociales», vol. 1, n. 2, 1977,

pp. 65 ss. e Ch. Caillavet, Tribut textile et caciques dans le nord de l’Audiencia de Quito, in Mélanges de la Casa de Velasquez, t. xv, Paris-Madrid 1979, pp. 329-63. 122 Su questo punto cfr. il bel libro di F. Silva Santisteban, Los obrajes en el Virreinato del Perti, Lima 1964, passim. E cfr. anche L. Escobar de Querejazu, Produccion y comercio en el

espacio Sur Andino — s. XVII, La Paz 1985, pp. 50 ss. 12 Per il Messico cfr. R. Salvucci, Textiles and Capitalism in México. An Economic Hi-

story of the Obrajes, 1539-1840, Princeton 1987. 124 Cfr. W. Borah, Silk Raising in Colonial Mexico, Berkeley-Los Angeles 1943, pp. 85 ss.

123 Morineau, Incroyables gazettes, cit. !26 Borah, New Spain's Century of Depression, cit., p. 31.

19

OPPOSTE

CONGIUNTURE

(spesso finanziate dai Caciques) è in crescita durante il xvi secolo. A ciò occorre aggiungere, sempre per lo spazio meridionale andino, lo sforzo impiegato per gli ornamenti e gli affreschi di queste stesse chiese !?. Per non parlare delle costruzioni civili (pubbliche o private) o militari: il grande sistema delle fortificazioni (da Cartagena a Callao) risale al xv secolo. Con una certa monotonia, devo concludere questo capitolo atti-

rando l’attenzione del lettore sul fatto che se l'Europa (eccezione fatta per gli aspetti quantitativi e qualitativi inglesi e quelli essenzialmente quantitativi dei Paesi Bassi) accusa un incontestabile rallentamento delle sue attività produttive (soprattutto nel settore agricolo), l’America ispanica mostra per contro un incontestabile slancio.

‘7 Su questo punto, cfr. il grande libro di T. Gisbert, Iconografia y mitos indigenas en el Arte, La Paz 1980 e J. de Mesa-T. Gisbert, Ho/guin y la pintura colonial en Bolivia, La Paz 1977, e degli stessi autori Monumentos de Bolivia, La Paz 1978.

80

4. METALLI E MONETE,

PREZZI E SALARI

Per ciò che riguarda i metalli preziosi, due fantasmi ossessionano la storiografia europea. Il primo è rappresentato dal grafico costruito, più di mezzo secolo fa, da E.J. Hamilton.

FIG. 4. Importazioni totali di metalli in pesos (1 peso = 450 maravedis)

QAS Gav vt No) mò

29 1596-001606-10 1621-25 1576-80 | 1581-85 1586-90 [___ - CEchtl 15915 Fonte: E.J. Hamilton, American

n n e in 0 dr

DÌ || 1656-60

Treasure and the Price Revolution in Spain, 1501-1650,

Cambridge (Mass.) 1934, p. 35.

81

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Nei confronti di Hamilton provo un sentimento di immensa gratitudine per tutto ciò che egli mi ha insegnato e un enorme rispetto per la sua tempra di scienziato e di uomo. Senza negare, perciò, i meriti che egli si è conquistato con il suo lavoro di pioniere, occorre tuttavia constatare che il suo grafico deve essere rivisto e corretto. È,

soprattutto, devono essere riviste e corrette le conseguenze abusive che dalla sua opera sono state tratte (in particolare, quella che ha estrapolato la diminuzione degli arrivi dei metalli preziosi a tutta la fine del xvn secolo). Per rileggere questo grafico, occorre far ricorso agli studi fatti da D.A. Brading e H. Cross!, senza dimenticare gli sforzi originali di A. Jara?. Ma è a Michel Morineau che siamo debitori della correzione definitiva, che possiamo osservare nella figura 5. FIG. 5. Arrivi di metalli preziosi provenienti dall'America spagnola 1580-1720 (in milioni di piastre) (I Totale conosciuto o stimato

80

Totale secondo E.J. Hamilton (inferiore ai 20 milioni di piastre dopo il 1631-35)

70

Arrivi in territorio extra-spagnolo

60

50

40

30

20

Re DRhZITIIARRIFIARRFIRRERRRSIZIc 0 n No) ON Si 0 eo NdT si Ue + ia

IAS

TInTerLALS

(©)

SIA

Sira

a

l'io)

RERLETETIICGI 3 COS

.

No)

Leni

Leni

Fonte: M. Morineau, Incroyables gazettes et fabuleux métaux, Paris 1985, p. 321.

! D.A. Brading-H.E. Cross, Colonial Silver Mining. México and Pert in «The Hispanic American Historical Review», Lu, n. 4, 1972.

° A. Jara, Tres ensayos sobre economia hispanoamericana, Santiago de Chile 1966. Peraltro, non bisognerebbe dimenticare che anche l'Europa continua a produrre metalli preziosi: cfr. a questo proposito l’importante saggio di M. Mérner, Some comparative remarks on colonial silver mining in Lapland and Spanish America during the XVII century (dattiloscritto)

82

METALLI

E MONETE,

PREZZI E SALARI

Le correzioni di Morineau sono troppo evidenti: non vi è diminuzione (al contrario!) negli arrivi di metalli preziosi in Europa durante il xvi secolo. L'altro fantasma è ancora più fastidioso: parlo della produzione di argento nelle miniere di Potosi, rappresentata nella figura 6. Credo che questo grafico sia grosso modo valido (se non per il livello assoluto, almeno per la tendenza)’. Valido, però, per Potosi*. L’errore che ho io stesso commesso in passato inizia con la pretesa di estrapolare al Perù nel suo complesso il movimento che è possibile individuare a Potosi. Procedere in questo modo significa dimenticare che altre miniere, nuove, sono state messe in stato di

sfruttamento in Perù dopo la caduta della produzione di Potosi: Oruro (a partire dal 1606), il Cerro di Camana (1606), Chila (1613),

San Antonio de Esquilache (1619), Caylloma (1626), Uspallata (1638), Laicacota (1657). E soprattutto il Cerro de Pasco, che co-

mincia a fornire quantità notevoli di minerali fin dal 1630”. Non si tratta di semplici supposizioni: una prova indiretta di questo slittamento della produzione di Potosî a favore di altri centri sta nel fatto che durante il xvi secolo le esportazioni di muli di Cordoba verso l'Alto Perù conoscono i seguenti cambiamenti di destinazione”: ? Cfr. a questo proposito Brading-Cross, Colonial Silver Mining, cit., e P.J. Bakewell, Registered Silver Production in the Potosi District, 1550-1735, in «Jahrbuch fiir Geschichte von Staat, Wirschaft und Gesellschaft Lateinamerikas», x11, 1975, pp. 68-103.

4 Vorrei aggiungere ancora alcune considerazioni sulla caduta di produzione di Potosi. Tutte le informazioni di cui disponiamo — statistiche o descrittive, quantitative o qualitative — concordano nel confermare questa caduta di produzione. Ma... e la frode? Ritornerò su questo punto più avanti. Fin da ora possiamo indicare che il xvi secolo ha presentato nel commercio internazionale un momento magico per il contrabbando. Perché non dovrebbe esserci frode a Potosî? Una cosa è certa: la ripresa si annuncia a partire dal 1737 che, guarda caso, è l’anno

della riduzione dell'imposta dal «quinto» al «diezmo» della produzione. So bene che mi si può obiettare che la caduta di produzione è confermata dalla diminuzione del consumo del mercurio a Potosî. Ma il fatto è che il minerale estratto durante il xvn secolo fu trattato soprattutto per amalgama di sale e di un «magistrale» (rame, ferro o anche semplice pirite estratta a Potosi stesso): cfr. G. Arduz Eguîa, Ensayo sobre la historia de la mineria altoperuana, Madrid 1985. ? Cfr. M. Bargallé, La reineria y la metalurgia en la América Espariola durante la época colonial, México 1955, pp. 215-19. Sulle nuove miniere messe in funzione in Messico durante il xvi secolo, ibid., p. 209. Il punto cruciale della produzione di argento in Messico fu Zacatecas: cfr. l'importante libro di P.J. Bakewell, Silver Mining and Society in Colonial México: Zacatecas, 1546-1700, Cambridge 1971. Certo, non dimentico che la produzione di alcune di

queste nuove miniere crolla nel corso del xv secolo, per esempio a Caylloma: cfr. N. Manrique, Colonialismo y pobreza campesina. Caylloma y el Valle del Colca (Siglos XVI-XX), Lima 1985, pp. 113 ss., e in particolare p. 129; J. Varallanos, Historia de Huinuco, Buenos Aires 1959, pp. 243 e 257 ss. 6 Cfr. C. Sempat Assadourian, Potosiyel crecimiento econémico de Cordoba, in Homenaje al Doctor Ceferino Carzon Maceda, Cordoba 1973, p. 183 e Z. Moutoukias, Contrabando y control colonial en el sigio XVII, Buenos Aires 1988, p. 53.

83

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ric. 6. Produzione d'argento a Potosi (1556-1737) (milioni di pesos) 1.600 1.400 1.200 1.000

1556 1560 1565 1570 1575 1580 1585 1590 1595

1600 1605 1610 1615 1620 1625 1630 1635 1640 1645

Fonte: M. Moreyra y Paz-Soldano, Entorno a dos valiosos documentos sobre Potosi, Lima

1953, p.59.

Potosi Oruro Potosi/Oruro Lima

Jauja

Jauja/Cuzco

1630-1660

1661-1680

1681-1695

TACD: 6 17,0% 11,5% a

7,8% 65,2% 14,7% INS

_ 21,9% ca

-

x

72,0%

-

-

6,1%

Ora, i muli costituivano (assieme agli uomini, certo!) il «motore»

delle attività minerarie. Senza muli, niente argento. E lo slittamento delle esportazioni verso Oruro e Jauja la dice lunga sulla sostituzione di altre miniere a Potosi. Il fatto è che la produzione di argento slittò dal centro «mostruoso» di Potosî, verso centri più piccoli dove la frode fiscale era certo più facile”. Dopo molti altri storici, sono anch’io andato a Potosî, ho ammirato le strade, le piazze, le chiese, la monumentale zecca, la gente.

Ma il mio amore per questa bella montagna non mi pare una buona ragione per imputarle la responsabilità dei destini economici del mondo intero (0, per lo meno, dell'Europa). Carico che alcuni con-

tinuano *— anche dopo le correzioni apportate in questi ultimi anni — ad attribuire alla «montagna magica» che Potosî — nella loro fantasia — rappresenta ancora. ? A questo proposito cfr. Bakewell, Registered Silver Production, cit., p. 81. 8 «Continuano», perché se il libro di M. Morineau è del 1985, il suo primo articolo nel

quale egli anticipava i risultati salienti della sua ricerca è del 1969: cfr. M. Morineau, Gazettes

84

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

A —_—_+ __t_t__+t Ft ++*_t_Trr/ti 1650 1655 1660 1665 1670 1675 1680 1685 1690 1695 1700 1705 1710 1715 1720 1725 1730 1735

Su quale punto di appoggio iniziale possiamo fondare — intorno ai metalli preziosi — un ragionamento globale e di lunga durata? Bisogna prendere spunto dal grafico proposto da M. Morineau. Lo sforzo di Morineau deve essere recepito da tutti gli storici (come pure dagli economisti) perché permette di cominciare a ragionare in modo diverso. Ma diverso, rispetto a cosa? Innanzi tutto, rispetto ad una terminologia abusiva presa a prestito da Frangois Simiand °: le famose, troppo famose, «fase A»,

«fase B» ecc. Per ciò che è del rapporto tra moneta (=metalli americani) e prezzi in Europa, sarà difficile d’ora innanzi credere ingenuamente alla veridicità di queste fasi. Ora, restiamo nei metalli e nelle monete europei. E poniamoci due domande. Vi è o non vi è correlazione tra gli arrivi di metalli e le emissioni monetarie? E inoltre, cosa ne è dello stock monetario europeo?

Per ciò cheè delle emissioni monetarie, disponiamo, che io sappia, dei dati per Milano, Londra, IRE RL Vienna e la Francia!° bollandaises et trésors américains, in «Anuario de historia econémica y social», t. 11, 1969, pp. 289-362; t. n, 1970, pp. 403-21. Dovrei qui recitare il 7zea culpa, perché ho anch'io creduto

al grafico di Hamilton e a quello relativo a Potosf: cfr. Romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, cit., p. 522. Posso soltanto, per scusarmi, suggerire che, nel 1962, non avevo a

disposizione i lavori di Morineau. ? Vorrei sottolineare qui che laterminologiaèabusiva al di là di quanto vada direttamente imputato a F. Simiand. Non c’è di peggio chei cattivi allievi. !0 Cfr. C.M. Cipolla, Mouvements monétaires dans l'État de Milan (1580-1700), Paris 1952; J.D. Gould, The Royal Mint in tbe early Seventeentb Century, in «Economic History Review», 11 s., v, 1952; J. Craig, The Mint. A History of the London Mint from A.D. 287 to 1948, Cambridge 1953; Mauro, Le Portugal, le Brésil et l’Atlantique, cit.; F.C. Spooner,

85

OPPOSTE

CONGIUNTURE

FIG. 7. Arrivi di tesori dall'America dal 1503 al 1805 per periodi quinquennali (in milioni di piastre) 1503-05

L

Brasile

1506-10

DITO 1516-20

SR. 1531-35 1536-40 1541-45 1546-50 1551-55 1556-60 1561-65 1566-70 1571-75 1576-80 1581-85 1586-90 1591-95 1596-1600 1601-05 1606-10 1611-15

1616-20 1621-25 1626-30 1631-35 1636-40 1641-45 1646-50 1651-55

1656-60 1661-65 1666-70 1671-75 1676-80 1681-85 1686-90 1691-95 1696-1700 1701-05 1706-10 1711-15 1716-20 1721-25

1726-30 1731-35 1736-40 1741-45 1746-50 1751-55 1756-60 1761-65 1766-70 1771-75 1776-80 1781-85 1786-90 1791-95 1796-1800 1801-05

Fonte: Morineau, Incroyables gazettes, cit., p. 563.

86

spagnola pas

ES

America

fai

Arrivi secondo le stime

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

Questo insieme di documenti suggerisce un certo numero di considerazioni. Prima di affrontarle, occorre stabilire un punto: una curva di emissioni monetarie deve essere osservata con particolare attenzione poiché risente di tutta una serie di fattori che ne intralciano la lettura. In primo luogo le rifusioni di vecchie monete alterano l'andamento del movimento. Si aggiunga a ciò il fatto che se, dal lato governativo, vi è erzissione, dal lato dei singoli, vi è distruzione di

moneta perché sappiamo che un po’ ovunque — in certi momenti — gli individui hanno tendenza a fondere le monete per trarne metalli preziosi in lingotti. In queste condizioni, la quantità di monete in circolazione si riduce. Per far fronte a questa riduzione, lo Stato può lanciare un «appello ai possessori di metallo per una politica del prezzo del marco» di metallo !!. Ma tutto ciò, evidentemente, altera

artificialmente la lettura della curva di emissione. Viste queste perturbazioni mi sembra difficile abbozzare una conclusione complessiva dai dati a nostra disposizione. Se infatti, per esempio, ci si basa sull’ottimo lavoro di F.C. Spooner!, è

possibile rilevare nel caso francese le seguenti fasi: a) 1493-1540/1550 = diminuzione delle coniazioni b) 1540/1550-1580 = aumento delle coniazioni c) 1580-1625 = diminuzione delle coniazioni

d) 1625-1680 = leggero aumento delle coniazioni

Questa lettura — in particolare della fase d) — diverge da quella che si può fare alla «vista» della curva del grafico perché questa «vista» è corretta dalle considerazioni dello stesso F.C. Spooner! riguardo alla riforma del biglione e delle conversioni monetarie del 1578, 1640, 1651-53 e anche dall’esame del grafico !4 che contiene i corsi della lira tornese e del valore legale dello scudo d’oro. Stando così le cose, è più prudente astenersi da qualsiasi conclusione definitiva, anche se mi sembra che le coniazioni non aumen-

tino in rapporto agli arrivi di metalli preziosi americani in Europa. L’altro sentiero per tentare di ritrovarsi in un terreno tanto compliL’économie mondiale et les frappes monétaires en France, 1493-1680, Paris 1956; S. Becher, Das òsterreichische Munzwese vom Jahre 1523 bis 1838, in Historischer, statistischer und legislativer Hinsicht, Wien 1838, 2 voll.

!! M, Morineau, Des métaux précieux américains au XVIIe et au XVIIle siècles et de leur influence, in «Bulletin de la Société d’Histoire Moderne», n. 1, 1977, p. 26.

!2 Spooner, L’économzie mondiale, cit., pp. 322-23. 3 MZ, SIR 5 Mario

I)

87

OPPOSTE

CONGIUNTURE

cato è forse quello della valutazione dello stock monetario. Molti autori ! si sono dedicati a questo gioco difficile e ammetto che le loro conclusioni mi paiono del tutto azzardate. Cosa scegliere? E perché? Certo, lo stock sale se si prende come ipotesi che nel 1500 era 1.000 e si aggiungono anno dopo anno quantità più o meno

fisse, dimenticando che i metalli preziosi sono (più o meno) deperibili come ogni bene materiale; che i metalli preziosi possono servire per battere moneta ma anche (soprattutto?) per essere tesaurizzati in lingotti; che vi sono utilizzi industriali dei metalli... Dunque, devo dire che la curva crescente quasi in modo verticale disegnata da Michel Morineau '! non riesce a convincermi del tutto. La curva dello stock di metalli preziosi sale. E sia. Ma con ciò? Ciò che conta non è lo stock dei metalli preziosi, ma lo stock monetario. Perché si tratta di due fenomeni diversi. Vediamo per esempio due casi. Lo stock monetario francese calcolato da Spooner! non è affatto lineare come lo stock dei metalli calcolato da Morineau. Allo stesso modo, il movimento molto forte al ribasso dello stock mone-

tario (e metallico) in Inghilterra tra il 1688 e il 1698 calcolato da Gregory King! rappresenta una bella eccezione all’ottimismo suggerito dalla crescita progressiva dello stock metallico... Di certo, lo stock metallico va letto alla luce di altre due curve

che presento nella figura 8. Ma qui la bella ascesa lineare sparisce. E se si prende in esame il tasso di approvvigionamento o quello di sedimentazione (pari al tasso di approvvigionamento meno le uscite), il discorso si fa diverso. In questo caso, che lo si voglia o meno, la depressione, la «crisi» del xvn secolo appare in tutta la sua evidenza: il vecchio livello della fine del xvi secolo non sarà mai raggiunto; una depressione piuttosto profonda si delinea fino al 1670, quando si verifica una breve ripresa che ha termine in una nuova depressione dalla quale si esce verso il 1730. ” Da D. Hume, Treatise on money, London 1732 (trad. it. in D. Hume, Saggi e trattati morali letterari politici e economici, Torino 1974, pp. 472-86) a F. Braudel-F.C. Spooner, Prices in Europe from 1450 to 1750, in The Cambridge Economic History of Europe. IV, Cambridge 1967, pp. 444-48, trad. it. I prezzi in Europa dal 1450 al 1750, in Storia Economica Cambridge. IV, Torino 1975, passando per W. Jacob, Ar historical inquiry into the production and consumption of the precious metals, London 1831, vol. 1, p. 53 e A. von Humboldt,

Mémoire sur la production de l’or et de l’argent considérée dans ses fluctuations, in «Journal des Economistes», vi, 1843, pp. 7-38. ! Morineau, Incroyables gazettes, cit., p. 585, grafico 41. F.C. Spooner, The International Economy and monetary Movements in France, 1493-

1725, Cambridge (Mass.) 1972, p. 306.

!8 G. King, Two Tracts, a cura di G.E. Barnett, Baltimore 1936.

88

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

FIG. 8. Tassi di approvvigionamento e tassi di sedimentazione dello stock dei metalli preziosi in Europa % tasso di approvvigionamento dello stock ----

tasso di sedimentazione dello stock

iene

rtene/=ti=il=}--AeMelii=shko-k-ke-WneS=}-TehoteTeletestesAMeliete=t=

mi

ni

DESIO IAS CERRO AnnnQunnnidiitk ui

ni

TUO AR ISICIO IT ITIVERTO ERRE 2a to e © Sd 0 vd 0 0 I 0 IARSNNANENKEKKKNKNeiu uan IL HIKHMHIMAMM HH HH A in vw D I = i

Fonte: Morineau, Incroyables gazettes, cit., p. 585.

Il tasso di approvvigionamento dello stock monetario così come il movimento delle emissioni monetarie (almeno laddove disponiamo dei dati) mostrano che l'Europa non ha avuto, durante il xvi secolo,

un’enorme disponibilità di metallo circolante’. Si potrebbero aggiungere altri segni e in particolare il degrado delle monete europee in termini reali (peso e lega) rispetto alla moneta di conto?0, 19 In effetti, un fatto rimane sovrano: l'economia del xvi secolo mostra un ritorno molto

forte verso forme di economia naturale. Darò di ciò alcuni esempi: nell'Impero, in occasione di una nota presentata dal Parlamento all’Imperatore nel 1667 si fa notare la mancanza di metalli preziosi per la coniazione di monete e si propone che i mercanti locali «acquistino non con moneta contante ma con merci indigene per mezzo del baratto» i prodotti che l'Impero deve importare: cfr. V. Schwinkoski, Die Reichsmunzreforbestrebunen d. Jabre 1655-1670, in «Vierteljahrschrift fir Sozial-und Wirtschaftsgeschichte», n. 14, 1919, p. 19. Per la Francia rimando alle grandi pagine del compianto J. Meuvret, Etudes d'Histoire Economique, Paris 1971, pp. 131-32. Per l’Italia, cfr. Econorzia naturale, economia monetaria, a cura di R. Romano

e U. Tucci, Torino 1983. Per il Portogallo, cfr. Mauro, Le Portugal, le Brésil et l’Atlantique, cit., p. 496, che segnala una «penuria di denaro numerario dopo il 1640». E cfr. anche Hobsbawm, La crisi del XVII secolo, cit., p. 63. Al di là di tutto quanto si possa enumerare in termini di quantità di metalli preziosi e di moneta sono queste le realtà che sussistono e che contano. 20 Agli esempi e alla bibliografia che avevo indicato nel mio articolo, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, cit., p. 523, possiamo aggiungere, adesso, per la Slovacchia, S. Kazimir,

89

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Ma lasciamo il campo quantitativo e passiamo a quello qualitativo. Dove scopriamo che un po’ ovunque in Europa il xvn secolo mostra segni innegabili di una demonetizzazione assai generale. Ovunque, a livelli diversi, si assiste a ritorni assai forti verso forme

d’economia naturale. Il fenomeno è chiaro nell’insieme dell’Europa? e lo si può ripercorrere dettagliatamente nei diversi paesi ??. E approfitto dell’occasione per ricordare che economia naturale non significa economia chiusa, autarchica, ma economia nella quale gli scambi si basano sul baratto. E il baratto, per quanto ciò possa dispiacere a qualcuno, si manifesta non soltanto nelle piccole transazioni ma anche in quelle su grande scala”. E non vi è soltanto un «ritorno all'economia naturale» ma — nello stesso senso — una messa a punto di formule che permettono di minimizzare l’utilizzo delle specie metalliche e di evitare che si vadano a perdere o tesaurizzare. Queste formule si appoggiano sull’utilizzo di debiti e di crediti, liquidati qualche volta in natura, altre volte in denaro (significativi a questo proposito sono i rapporti tra contadini e proprietari). AI di là di tutto ciò che si può quantizzare in termini numerici sono queste le realtà che restano, che contano e che caratterizzano una buona parte della vita economica dell'Europa del xv secolo. Vyvoy realney hodnoty drobnjch striebornich minci na Slovenku y rokoch 1526-1711, in «Numismaticky», Sbornîk, vin, 1964, in particolare le pp. 213-15; per Ginevra, A.M. Piuz, Recherches sur le commerce de Genève au XVIle siècle, Genève 1964, pp. 403-405; per l’Ungheria, I.N. Kiss, Money, Prices and Purchasing Power from the XVIth to the XVIIth Century,

in «The Journal of European Economic History», 4, n. 2, 1975, pp. 399-402; D. Danyi-V. Zimanyi, Soproni drak és béréek a Kozépkortb' 1750-IG, Budapest 1989; per la Polonia, M. Bogucka, The Monetary Crisis ofthe XVIIth Century and its Social and Psychological Consequences in Poland, in «The Journal of European Economic History», 4, n. 1, 1975, pp. 137-52; per l'Impero ottomano, R. Mantran, Istanbul dans la seconde moitié du XVlle siècle, Paris 1962,

pp. 233 ss. e grafico 5; L. Berov, Dviz enieto na cenite na Balkanite prez XVI-XIX v. i evropejskata revoljucija na cenite, Sofia 1976 (il riassunto in lingua inglese è alle pp. 317-22) e dello stesso autore ChangeinPrice Conditions in Trade between Turkey and Europe in the 16th-19th Century, in «Etudes Balkaniques», 10, 1978, pp. 168-78; O.L. Barkan, Le mouverent des prix en Turquie entre 1490 et 1655, in Mélanges en l’honneur de Fernand Braudel, vol. 1, Toulouse 1973, pp. 65-79. E cfr. anche H. Antoniadis-Bibicou, Griechland (1350-1650), in Handbucb der europaischen Wirtschafts- und Sozialgeschichte, a cura di H. Kellenbenz, vol. m, 1986.

2! Il rimando obbligatorio è al grande libro di A. Dopsch, Naturalwirtschaft und Geldwirtschaft in der Weltgeschichte, Wien 1930. Ma cfr. anche Slicher van Bath, L'agricoltura

nella rivoluzione demografica, cit., p. 124: «specialmente durante la depressione del xv secolo, quando la moneta era scarsa in molti paesi, le transazioni frequentemente si trasformavano in pagamenti in beni». 2 Cfr. le note 19 e 20. ? Cfr. Sella, Commerci e industrie a Venezia, cit., pp. 13-14 che dà esempi di mercanti veneziani che «lavorano» nel Medio Oriente essenzialmente «a baratto». Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi a migliaia.

90

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

Quanto abbiamo fin qui esaminato concerne le esportazioni di metalli preziosi verso l'Europa, ma non la produzione di questi stessi metalli in America. Quindi, occorre porre una prima questione. Vi è coincidenza tra metalli prodotti e metalli esportati? È certo che vi è differenza: minima, se si vuole, ma comunque differenza. Ho sem-

pre insistito sul carattere «naturale» e non «monetario» dell’economia dell'America iberica ma non ho mai negato l’esistenza di uno stock monetario in America iberica, utilizzato in alcune grandi transazioni e per l’oreficeria (fenomeno al quale non viene mai prestata l’attenzione che merita). Vi è dunque, deve esserci, differenza tra la quantità di metalli prodotti e la quantità di metalli esportati. Ma qui si pone una seconda questione: questa differenza è costante o presenta delle variazioni da un’epoca all’altra? Riprendiamo nel contesto americano i problemi che abbiamo già esaminato a proposito dell'Europa: le emissioni monetarie e lo stock disponibile. Procediamo con ordine. I periodi di funzionamento delle zecche durante l'epoca coloniale in America spagnola sono stati i seguenti ”*: México Santo Domingo Lima

(1536-1821) (1542-1595) (1568-1824)

La Plata

(1573-1574)

Potosi

(1575-1821)

Santa Fé

(1622-1820)

Cuzco Guatemala Santiago de Chile Popayan

(1697-1824) (1733-1821) (1749-1817) (1758-1822)

Per il Brasile, le emissioni cominciano alla fine del xvi secolo ?: Bahia Pernambuco Rio de Janeiro Ouro Preto

(dopo (dopo (dopo (dopo

il il il il

1695) 1702) 1703) 1724

% Cfr. J.T. Medina, Las monedas coloniales hispano-americanas, Santiago de Chile 1919. % Cfr. O. Onody, Quelques aspects historiques de l’or brésilien, in «Revue internationale d’histoire de la banque», 4, 1971, pp. 272-73 e cfr. anche N.C. da Costa, Historia das moedas do Brasil, Porto Alegre 1973. Occorre sottolineare che le emissioni di Bahia, Pernambuco,

Ouro Preto furono molto irregolari e durarono pochi anni: la sola zecca con una produzione abbondante e regolare fu quella di Rio.

91

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Cosa sappiamo della produzione di tutte queste zecche? Dal punto di vista statistico, pochissimo prima del xvm secolo. Ma, nonostante tutto, ecco un primo punto forte: le emissioni messicane

(in pesos) suddivise per «reinado» °°: 1536-1556 1556-1598 1598-1621 1621-1665 1665-1700 1700-1746 1746-1759 1759-1788 1788-1808 1808-1821

38.400 122.300.000 74.300.000 161.500.000 145.691.486 369.092.354 166.821.062 466.742.317 452.322.925 169.057.647

Per vedere più chiaro in queste cifre è utile ricostruire le medie annuali (in pesos) per ciascuno di questi «reinados»: 1536-1556 1556-1598 1598-1621 1621-1665 1665-1700 1700-1746 1746-1759 1759-1788 1783-1808 1808-1821

1.920 2.904.762 3.230.434 4.750.000 4.162.137 8.023.747 12.632.339 16.094.562 22.616.146 13.004.433

Cifre approssimative (ma non è superfluo notare che, per il periodo 1690-1803, questi dati coincidono abbastanza bene con quelli forniti da A. von Humboldt). Ad ogni modo, ciò che ne risulta in modo chiaro è che, durante il xvi secolo, la zecca di

=

ha conosciuto emissioni monetarie superiori a quelle del xvi

secolo ?8. 2 Cfr. E. Rosovsky Fainstein, Introduccion a F. de Elhuyar, Indagaciones sobre la amonedacion en Nueva Espafia (1818), México 1979, pp. xm-xvr. Ringrazio Pedro Canales di avermi segnalato questa edizione dell’opera di Fausto de Elhuyar. ? A. von Humboldt, Ensayo politico sobre el Reino de la Nueva Espatia (1808), México

1966, p. 386. Inoltre, «aderiscono» molto bene alle cifre di produzione dell’argento in Messico, per le quali cfr. Klein-TePaske, The Seventeenth Century Crisis in New Spain, cit., tab. 1, per i quali «la produzione di argento non declina come in genere si assume» (p. 134). Cfr. A.M. Barriga Villalba, Historia de la Casa de Moneda, 3 voll., Bogotà 1969.

92

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

Un'altra zecca che conosciamo bene è quella di Santa Fé di Bogota che manifesta una buona tenuta. Buona tenuta che non ci deve indurre in errore perché un testimone dell’epoca afferma senza dubbi che le emissioni non rappresentavano neanche il 20% dell’oro estratto dalle miniere colombiane! 5° Insomma, i due soli punti che conosciamo in modo soddisfacente mostrano (contrariamente alle zecche europee di cui ho parlato prima) un movimento sostenuto delle loro emissioni. Ecco dunque che il dossier strettamente statistico per il xvi secolo?!si è concluso. Non ci resta per il momento che passare al qualitativo. Cosa ci dice la ricostruzione qualitativa? A guardare la lista che ho dato sopra sulle date ufficiali del funzionamento delle zecche in America iberica si ha l'impressione che l'America spagnola abbia risolto in gran parte il problema della fabbricazione delle monete fin dal xvi secolo (per il Brasile, occorre attendere la fine del xv secolo e anche l’inizio del xv). Ma si tratta solo di un’apparenza. In effetti, se la Casa de Moneda di Messico ha una vita regolare e continua; se Potosî segue la stessa strada (con una produzione di moneta di pessima qualità), non accade lo stesso per quella di La Plata (due anni di funzionamento) né per quella di Santo Domingo, dove le emissioni furono insufficienti e discontinue. Anche la zecca di Lima comincia a funzionare nel 1568 per fermarsi nel 1571, riprende tra il 1575 e il 1588 e il suo inizio reale di attività (una vera e propria ri-fondazione) data al 1683”. Se quindi si ricompone il calendario sulla base del funzionamento effettivo, durante il xvi secolo, México e Potosi si rivelano essere

i perni della coniazione di moneta per tutto il continente. Nel xvu secolo si aggiungono Santa Fé di Bogota (dal 1622) e Lima (dal 1683). È dunque durante il xvu secolo che il numero di zecche fun-

zionanti raddoppia realmente: una vera (ri)strutturazione (che sarà perfezionata e completata durante il xvi secolo). Quanto all’ Ame-

2 In rapporto alle emissioni di pezze d’oro, quelle d’argento diminuiscono. Ma non bisogna stupirsene. Siamo in Colombia, zona produttrice essenzialmente di metallo giallo. 3° Colmenares, Historia economica y social de Colombia, cit., p. 232. 3! Per il xv secolo la situazione è la seguente: per il Messico cfr. le note 26 e 27; per Lima, cfr. A. Flores Galindo, Aristocracia y Plebe. Lima, 1760-1830, Lima 1984, p. 253; per Santiago de Chile, cfr. R. Romano, Una economia colonial: Chile en el siglo XVII, Buenos

Aires 1965; per Bogotà cfr. la nota 28; per il Brasile, cfr. Onody, Quelques aspects historiques de l’or brésilien, cit.; per il Guatemala, Wortman, Government and Society in Central America, È,

32 Cfr. Medina, Las monedas coloniales hispano-americanas, cit., pp. 157 ss. e 139 ss.

55)

OPPOSTE

CONGIUNTURE

rica portoghese, essa garantirà — fino alla messa in moto delle proprie zecche — la circolazione interna grazie all’importazione di moneta portoghese” e al drenaggio delle monete peruviane”. Per il momento, non traggo «conclusioni» da tutto ciò. È possibile, nonostante tutto, delineare già un primo quadro della situazione: a) non è vero che la produzione di metalli preziosi sia diminuita in America spagnola durante il xvn secolo; b) per quanto riguarda la moneta, laddove si dispone di elementi statistici, si assiste durante questo secolo ad un aumento delle coniazioni monetarie in America;

c) la struttura produttiva delle Casas de Moneda si rafforza considerevolmente lungo il filo del xvn secolo. Si tratta di punti saldi. Ma occorre comunque riconoscere che non rispondono alle domande poste precedentemente, e non servono a sapere qual è la differenza tra le quantità (in verghe di metallo e in monete) prodotte e quelle dei metalli esportati. In altri termini: è vero che, durante il xvi secolo, uno stock monetario più grande è stato lasciato a disposizione delle colonie ispano-americane? Per rispondere, occorre far ricorso agli studi fondamentali di Herbert S. Klein e di John J. TePaske?. E la lezione che se ne ricava è che con il tempo resta sempre più denaro sul luogo, per far fronte alle diverse necessità locali di amministrazione e difesa: «I conti delle casse ispano-americane recentemente ricostruiti mostrano in

realtà che la Corona teneva una proporzione maggiore delle sue entrate fiscali nelle colonie di quanto non ne inviasse in madrepatria» °. E questa quantità accresciuta di monete che restano in Ame-

rica che permetterà (come vedremo nel capitolo successivo) un aumento delle importazioni di beni manufatti. Ciò detto, quali conclusioni si possono trarre per il nostro studio parallelo, in Europa e in America, della crisi del xvi secolo? Alcuni segni di opposizione già appaiono. Per meglio rispondere, occorre integrare agli elementi presentati fin qui a proposito dei metalli preziosi e delle monete un altro fattore: i prezzi. ? Onody, Quelques aspects historiques de l’or brésilien, cit., pp. 270 ss. 4 Cfr. il libro classico di A. Pfiffer Canabrava, O commercio portugues no Rio da Prata (1548-1640), Sao Paulo 1944, e Moutoukias, Contrabando y control colonial, cit., pp. 46 ss. ? Cfr. H.S. Klein-J.J. TePaske, Royal Treasury of the Spanish American Empire, 3 voll., Durham (Car.) 1982, e degli stessi autori, Ingresos y egresos de la Real Hacienda en México, 3 voll., México 1985. ? Klein, Ultimas tendencias, cit., p. 43; il corsivo è mio. Certo, vi è il problema del tipo

sociale di circolazione di questi capitali che restano in America. Tenterò in seguito di rispondere a questa questione.

94

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

Quando si parla di prezzi europei il punto di partenza obbligatorio sono attualmentei grafici ricostruiti da Fernand Braudel e Frank C. Spooner: In cosa differiscono questi due grafici? Il primo è calcolato in moneta di conto; il secondo in grammi d’argento. Se prendiamo in considerazione quest’ultimo grafico possiamo scegliere tra due svolte, quella del 1590 o quella del 1630, per far cominciare il xvi secolo e il suo calo secolare. Per contro, se si con-

sidera il primo grafico, occorre prendere atto di come tutto cambi con la grande crisi del 1619-22. Bene, io preferisco iprezzi in moneta di conto. La mia sceltaè dovuta al fatto che ci troviamo in-&%onomie poco monetarizzate. La questione è la seguente: l’acquirente di pane, di farina, con che mezzo pagava? E soprattutto, in quali termini calcolava il prezzo? Per ciò che riguarda il calcolo, la risposta è semplice e categorica: in lire (intese come lire di conto), soldi e denari. In moneta di conto,

insomma. Quanto alle modalità di pagamento, la risposta è ugualmente semplice e si potranno trovare elementi per ottenerla negli esempi forniti nella nota 19 di questo capitolo” È dunque chiaro. Se davvero ci si volesse divertire a fare le famose conversioni in metallo, occorrerebbe farle in grammi di rame o di

biglione perché — che lo si voglia o meno — la maggior parte delle transazioni è regolata esattamente in piccola moneta. Ma vi è ancora un altro elemento contro i prezzi espressi in grammi di metallo prezioso: la curva che si ottiene non traduce altro che la realtà dei movimenti dei metalli presi in considerazione, ed elimina completamente tutti gli altri fattori che contribuiscono all'effettiva composizione di un prezzo8 Abbiamo quasi pudore a ricordare alcune verità basilari: la formazione dei prezzi si effettua — soprattutto nelle società pre-industriali — essenzialmente con l’offerta (in gran parte locale) di beni e la domanda, cioè il numero di persone che passano realzzente at37 Per considerazioni critiche supplementari su questi grafici e la loro lettura mi sia permesso rimandare a R. Romano, Some Considerations on the History of Prices in Colonial America, in Essays on the Price History of Eighteenth Century Latin America, a cura di L.L. Johnson e E. Tandeter, Albuquerque 1990, pp. 63-65. # Credere che i prezzi dipendano dalle quantità di metalli preziosi che esistono sul

mercato e che, pertanto, i prezzi rivelano questa quantità costituisce un processo assai ingenuo contro il quale A. von Humboldt metteva in guardia già nel x1x secolo; cfr. Humboldt, Memotre sur la production, cit.

9

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ric. 9. Prezzo del grano in Europa (in moneta di conto)

-

;

i

n)

Ù

A î Ò i Va A

PESI

NEE28) a”

'

sa: Ù

+ x

A

AI

“i

x

ta

10

DR

9

Di F

8 %

bi

ù

\b

n

ù

sb

i

----

-—— e

È

prezzi massimi aan: 2

2 4

prezzi minimi

3

media aritmetica

2

:

1 1440

1500

1600

1700

1760

Fonte: F. Braudel-FC. Spooner, Prices in Europe from 1450 to 1750, in The Cambrige Economic History of Europe. IV. Cambridge 1967, p. 475, trad. it. I prezzi in Europa dal 1450 al 1750, in Storia Economica Cambridge. IV, Torino 1975.

traverso il mercato: e non la popolazione considerata in modo generale (anche se questa variabile esercita una certa influenza sull’offerta). Questo rapporto offerta/domanda si esprime in segni monetari (di conto e/o fisici). Anche supponendo — ma si tratta di un esercizio accademico — che la mediazione tra offerta e domanda sia effettuata attraverso l’intermediazione di sonanti monete metalliche, se si tra-

sforma il prezzo in grammi di metallo, si opera un escazzotage (impossibile trovare un termine più appropriato) sui due elementi fondamentali dell’offerta e della domanda. Soprattutto dell’offerta: infatti, per spiegare la forte discesa dei prezzi del grano un po’ ovunque in Europa tra il 1650 e il 1660, non vi è bisogno di fare appello ai metalli preziosi. Più semplicemente, si presterà attenzione alla serie di raccolti eccezionalmente buoni di questi stessi anni??. Morineau, Incroyables gazettes, cit., p. 257.

96

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

FIG. 10. Prezzo del grano in Europa (in grammi diargento) 100

1400

----

prezzi massimi



media aritmetica

n

prezzi minimi

1500

STR

)

/

sli

I

x

Sol

1600

1700

1760

Fonte: Braudel-Spooner, Prices in Europe from 1450 to 1750, cit., p. 470.

Grande la saggezza di W. Abel che in conclusione del suo libro scriveva: «All’inizio della ricerca sono state poste le fasi secolari dei prezzi dei cereali. Non è stato possibile spiegarle in modo soddisfacente con le fluttuazioni della circolazione monetaria» ‘. Sed de hoc, satis est.

Con maggiore sicurezza si può dire che i prezzi dei cereali — un prodotto-pilota — a partire dagli anni venti del xvi secolo fino al 1740 (grosso modo, e con delle differenze geografiche) sono in Europa all’insegna della stabilità, e anche al ribasso, mentre i prezzi dei prodotti manufatti manifestano una maggiore resistenza. E dal lato americano? ‘! Disponiamo di alcuni elementi. Ma prima di parlarne, occorre stabilire una distinzione che mi pare fondamentale: nell’ America iberica è sempre necessario distinguere tre gruppi di prodotti (e di prezzi): 4° Abel, Congiuntura agraria e crisi agrarie, cit., p. 437. 4! Per avere maggiori dettagli sul problema dei prezzi in America mi permetto di rinviare a R. Romano, Quelques considérations sur l’histoire des prix en Amérique Coloniale, in «HIsLa», n. 7, 1986, pp. 65-103.

97

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ric. 1. Prezzi dei prodotti locali, americani ed europei a Cordoba 200 190 180 170 160 150 140 130 120 110 100 90 80 70 60 50

locali americani

europei

15

20

25

30

35

40

45

50

55

60

Fonte: A. Arcondo, Los precios en una economia en transicion. Cordoba durante el siglo XVIII, in «Revista de Economfa y Estadîstica», xv, 1971, p. 15.

a) prezzi di prodotti di origine locale (per esempio, prezzo del mais consumato in uno spazio prossimo al luogo di produzione); b) prezzi dei prodotti di origine americana ma non locale (per esempio i prezzi dello zucchero prodotto in Perù ma consumato in Cile);

c) prezzi dei prodotti di origine europea. Il movimento dei prezzi di questi tre gruppi di prodotti può essere concorde nella tendenza generale, ma con velocità e a livelli

diversi 4. Anibal Arcondo ha dato una prova clamorosa di questo fenomeno in un grafico che qui ripropongo (fig. 11). Questo grafico, mi sembra, mostra molto chiaramente come i prezzi dei prodotti «locali» continuano ad aumentare, a Cordoba,

dal 1711 al 1730 per poi diminuire, mentre i prezzi dei prodotti d’origine europea e americana iniziano a diminuire precedentemente. 4° Naturalmente, se non si tiene conto di questa triplice distinzione, gli indici «generali» che si calcolano in seguito rischiano di essere gravemente alterati.

98

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

Proseguiamo. Prudenza vuole che si guardino le serie di prezzi prodotto per prodotto o per gruppi di prodotti omogenei (soprattutto prodotti agricoli). Cominciamo con i prodotti alimentari di base: mais e grano, in paesi diversi (figg. 12-15). Ecco dunque quattro grafici che coprono abbastanza bene l’insieme dell’America spagnola, anche se restano scoperti spazi importanti come il Venezuela, il Rio de la Plata, la Colombia, l’Ecuador,

il Guatemala. Il difetto di questi quattro grafici è di coprire male il xvi secolo. Occorre così accontentarsi di ciò di cui si dispone. Cominciamo con il Messico. Le figure 12 e 13 mostrano abbastanza bene, per il xvm secolo, la tendenza stagnante dei prezzi del mais, nonostante alcuni soprassalti verso l’alto. E. Florescano ha non di meno ragione nel dire che «la curva dei prezzi del mais si trova costantemente schiacciata a causa di cadute profonde che impediscono la formazione di una tendenza al rialzo continuo. L’assenza di un rialzo di lunga durata si conferma peraltro con la lettura dei numeri indice degli anni di minimo ciclico e delle medie cicliche» 4. Procediamo a ritroso, sempre in Messico. Con l’aiuto in particolare della figura 12. Essa ci presenta innanzi tutto un fenomeno sul quale vale la pena di fermarsi un attimo: tracciando una linea intorno ai 25 reales, ne verrà fuori che tutti i punti di massimo che superano i 25 reales fanno parte del xvi secolo (tranne la punta eccezionale della grande carestia del 1786 — e/ ario del bambre). Inversamente, la più forte concentrazione di prezzi inferiori ai 10 reales si manifesta dopo il 1740. Possiamo dunque affermare che — al di là della ricerca di tendenze al rialzo o al ribasso — il xvi secolo

# Florescano, Precios del maiz, cit., pp. 180-81. Ai prezzi presentati da Gibson e Florescano, occorre aggiungere le serie pubblicate da C.L. Guthrie, Colonza/ Economy: Trade, Industry and Labor in Seventeenth Century México City, in «Revista de Historia de América», n. 5, aprile 1939 e R.L. Gardner, Prix et salatres à Zacatecas, in «Cahiers des Amériques Latines», n. 6, 1972; S. Galicia, Precios y produccion en San Miguel el Grande, 1661-1803, México 1975;

cfr. anche per il xvi secolo, R.L. Gardner, Prices and Wages in Eighteenth Century México, in Essays on the Price History, cit., pp. 73-108. La curva disegnata da C.L. Guthrie nel suo primo articolo rivela senza dubbio una tendenza alla stagnazione; ma vorrei far notare che questa curva è costruita basandosi su prezzi ufficiali, i prezzi stabiliti dal Cabildo: contengono dunque, per la loro stessa natura, una forza che li trascina verso il basso. L'articolo di R.L.

Gardner è molto interessante: ma le sue conclusioni (favorevoli ad una certa tendenza al rialzo) sono viziate da due elementi: innanzi tutto, l'estrema insufficienza delle fonti (soltanto 14 anni di prezzi del mais tra il 1753 e il 1819) e, inoltre, il fatto che R.L. Gardner non considera mai che per stabilire una tendenza al rialzo, non è necessario sapere se ci sono punte di picco verso l’alto ma vedere se, dopo questi picchi, non vi è una caduta vertiginosa che trascina con sé tutta la tendenza.

99

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ric. 12. Prezzo del mais a Mexico (1525-1810) 50

x

40

Pf;

i

È ® °

°

.

se

.

è

so

D)

30

È

ta

, e

°

co

°

ceo

DD)

° è.

°

. oe

:

vo

è

co

®

20



o.

o

0

co

ee

di

ce e

è.

co e

.

cocsceo e

e ®

sad ceo

Pe

ce

°

°

°

onto)

hi

È

2

0

10

0

1520

1540

1560

1580

1600

1620

1640

1660

1680

1700

1720

1740

1760

1780

1800

1820

Fonte: Ch. Gibson, The Aztecs under Spanish Rule, Stanford 1964, p. 314.

ric. 13. Prezzo del mais nella «Albbndiga» di México (1721-1814)

1720

1730

1740

1750.

1760

1770

1780.

1790

1800

1810

1815

Fonte: E. Florescano, Precios del maiz y crisis agricolas en México (1708-1810), México 1969, CIS PALIO:

100

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

FIG. 14. Indice annuale dei prezzi agricoli a Potosi 200 1

100

1670

1700

1750

1800

Fonte: E. Tandeter-N. Wachtel, Precios y produccion agraria. Potosi y Charcas en el siglo XVHI, Buenos Aires, s.d. [ma 1983], p. 72.

FIG. 15. Medie quinquennali dei prezzi del grano e della farina a Santiago de Chile (in reales) 50

©

farina

[] grano

(ce)

(c.0)

00

PERRLBERRSSIIRRBER AQ.

(Odio

—_

Leni

mi

gio n

ITIO

oo

tesi

—_

so

Coni

ro =

CC

(CN

|

RD

RISO

e

099

Sp

ea

ti

Leni

ui

i

_m

a

n

Trrsrk

dg

terleZnbn

—_

tomi

tomi

beni

Li

2

$ $

toni

rain

o)

0

TRON: i

i

tomi

ONT

a

o

vl

el

Fonte: elaborazione dei dati da A. Ramon e J.M. Larrain, Origeres de la vida economica chilena, Santiago de Chile 1982, pp. 402-405.

101

OPPOSTE

CONGIUNTURE

FIG. 16. Prezzo di una pecora a Potosi (1680-1810)

di 1680

1690

1700

1710

1720

1730

1740

1750

1760

1770

1780

1790

1800

1810

Fonte: devo questo grafico alla cortesia di E. Tandeter e di N. Watchel.

si presenta come un secolo di prezzi alti mentre il xvm (a partire dal 1730-40) è all'insegna di prezzi bassi. Questa stessa impressione è confermata dai prezzi del grano e della farina a Santiago del Cile (fig. 15), quali che siano le riserve che possiamo esprimere al riguardo #. Anche qui, è chiaro che il periodo di prezzi alti è quello che si riferisce al xv secolo. Passiamo a Potosî. Qui, la fig. 14 ci mostra, a partire dal 16824 4 Come non esprimere riserve quando, per esempio, si trova che per gli anni 1659-63, l’indice per il grano è 17,48 e quello della farina è 17,37? I rudimenti del mestiere (ma anche semplicemente il buon senso) insegnano che il prezzo del grano ron può essere superiore a quello della farina, a meno che non capiti di incontrare un mugnaio filantropo. Ma ciò appartiene all’ordine dei miracoli. 4 Tandeter-Wachtel, Precios y produccion agraria, cit., pp. 50-51.

102

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

— per la quinoa, il mais rzorocho, la patata e il chufo — una costellazione di prezzi alti fino al 1712; questi prezzi alti si trasformano in una fase di netta crescita fino al 1760, alla quale segue una ricaduta. Ma sempre a Potosi, un prezzo deve attrarre la nostra attenzione perché è nel suo genere esemplare: quello delle pecore. In questo caso è piuttosto facile constatare che i prezzi sono stabili tra il 1680 e il 1725 per scendere in seguito fino al 1750; a partire da questo momento il movimento assume un andamento a denti di sega la cui parte più alta raggiunge il livello della fase iniziale. Mi pare interessante, per un prodotto di base come la pecora, il fatto che i prezzi pid alti durante la seconda metà del xvi secolo corrispondano a quelli rorrzzali del periodo 1680-1730. Ho detto che la figura 16 mi pare esemplare. Questo per la buona ragione che non sono interessato tanto alle vette (per non parlare degli abissi) cicliche ma sono molto più interessato — nel contesto di questo studio — ad individuare periodi di prezzi alti rispetto a periodi di prezzi bassi. Tale prospettiva mi permette di servirmi di un lavoro sui prezzi ad Arequipa“ tra il 1627 e il 1767. Si tratta di un dossier più che di un saggio (non contiene neanche una presentazione, ma soltanto

tabelle) nel quale gli autori hanno raccolto dati riferiti a molteplici prodotti. Che cosa se ne può trarre? In questi centoquarant’anni,

per i prezzi del mais, ci sono due lacune totali di documentazione: tra il 1689 e il 1722 e tra il 1748 e il 1754. Restano dunque 101 anni per i quali abbiamo 46 indicazioni di prezzo. Inutile, dunque, pensare di costruire un grafico. Ma possiamo utilizzare questi dati e mettere a profitto anche il loro carattere aleatorio. Ecco come: a) tra il 1627 e il 1686, il prezzo massimo che appare è di 72 reali per una farega mentre il minimo è di 32 reali; tra il 1723 e il 1767 il prezzo più alto è di 47 reali per farega, il minimo essendo di 20,66; b) il valore modale dei prezzi, per il periodo 1627-88 si trova tra i 45 e i 55 reali (13 prezzi su 24); per il periodo 1723-67, il valore modale si pone tra 25 e 35 reali (13 prezzi su 24). Ecco dunque che questi modesti esercizi ci rivelano come ancora una volta siamo di fronte ad un periodo iniziale di prezzi alti contrapposti ad un secondo periodo di prezzi bassi.

4 R. Boccolini-P. Macera, Precios de los Colegios de la Compatita de Jesus: Arequipa (1627-1767), Lima s.d. (dattiloscritto), p. 23. Esiste un altro dossier dello stesso genere per Lima, compilato da R. Jiménez e P. Macera, ma il periodo considerato è troppo breve e le lacune invero troppo frequenti perché io me ne possa servire qui. Ringrazio P. Macera di avermi fornito questi due preziosi strumenti di lavoro.

103

OPPOSTE

CONGIUNTURE

FIG. 17. Indici economici a Bahia

1000

100



D

A: indice generale dei prezzi basato su un paniere di 11 prodotti (non ponderato). Anno 1751=100.

DETZET

B: indice generale dei prezzi basato su un paniere di 15 prodotti (non ponderato). Anno 1811=100.

—— e 1750

C: curva dell’indice dei prezzi deflazionata (mediana u=139). D: fluttuazione dei tasso di scambio (£/1$000). Anno 1811=100. 1800

1850

1900

Fonte: K. de Queirés Mattoso, Os pregos na Bahia de 1750 a 1930, in aa.vv., L’histotre

quantitative du Brésil de 1800 è 1930, Paris 1973, p. 179.

Sempre per il mais (e non solo per il mais) uno studio recente e molto più importante di K.W. Brown ci mostra parimenti una forte concentrazione di prezzi alti durante il xvi secolo. I dati relativi ai prodotti agropecuarios raccolti da A. Arcondo # per Cordoba sono, a causa della loro periodizzazione (1711-61),

scarsamente utilizzabili per considerazioni contestuali al mio lavoro. Nonostante tutto, vorrei attirare l’attenzione sul seguente fatto: se si

applica alla serie cordobana lo stesso procedimento che ho applicato ai prezzi del mais ad Arequipa, si arriva alla conclusione che — per l’insieme dei prodotti agricoli e di allevamento di origine locale — la zona di prezzi alti si situa tra 1711 e 1740 mentre i prezzi bassi appaiono soprattutto tra 1740 e 1761. E passiamo ora al Brasile. E ancora un volta cominciamo dal xvm 7 K.W. Brown, Price Movements in Eighteenth Century Peru-Arequipa in Essays on the Price History, cit., pp. 176-77.

4 Oltre all’articolo citato di A. Arcondo cfr. dello stesso autore, Cordoba: une ville coloniale. Etude des prix au XVIlIe siècle, Thèse de 3è cycle de ’E.P.H.E. (vie section), Paris 1968 (dattiloscritto).

104

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

FIG. 18. Prezzo del riso, del grano,

della farina di manioca e dei fagioli a Rio de Janeiro Indice 500

——_

head

400

Riso

=

Farina di manioca

-—

Fagioli

— —

Grano

1765

1770

350

300 250

200

150

100

50

1760

1775

1780

1785

1790

1795

1800

1805

1810

1815

1820

1825

Fonte: H.B. Johnson jr., Money and Prices in Rio de Janeiro, in aa.vv., L'histoire quantitative du Brésil, cit., p. 46.

secolo. Qui, disponiamo di un indice generale (11 prodotti) dei prezzi a Bahia tra il 1751 e il 1950. Devo ammettere di non essere troppo convinto di questo grafico, perché non capisco come è stato costruito. Nondimeno, mi sembra confermare una tendenza certa alla stagnazione dei prezzi durante tutta la seconda metà del xvi secolo. Questa stessa impressione è rafforzata dalla figura 18. Il grafico mostra i prezzi del riso, della farina di manioca, dei fagioli e del grano a Rio de Janeiro tra il 1780 e il 1820. Qui la stagnazione appare chiaramente almeno fino al 1780-85. E una lettura prudente che faccio, perché lo stesso H.B. Johnson jr., per l’insieme dei tre prodotti che costituiscono la base essenziale dell’alimentazione brasiliana (farina di manioca, carne secca, pancetta affumicata), afferma «l’apparente irregolarità di anno in anno, 105

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ric. 19. Prezzi dello zucchero e degli schiavi (1620-1720) 140

1620

----

zucchero (50 arròbas)

E

SMESCHIavi

1630

1640

1650

1660

1670.1680

1690

1700.

1710

1720

Fonte: S.B. Schwartz, Free Labour in a Slave Economy: the Lavoradores de Caria of Colonial Habia, in Colonial Roots of Modern Brazil, a cura di D. Allen, Berkeley 1973, p. 194.

con la possibilità di individuare una tendenza di lungo periodo, e il fatto che nel caso di farina di cereali e bacon il livello generale dei prezzi alla fine del periodo (1820 ca.) non è più alto che all’inizio». E veniamo al xvi secolo. Pochi gli elementi a nostra disposizione. Innanzi tutto i prezzi dello zucchero e degli schiavi (fig. 19). Dal 1620 al 1680 i prezzi non fanno che salire?°: dopo di che, si ha una brusca caduta fino al 1690; poi ancora la ripresa è netta fino

al 1700. Dopo questa data, una nuova caduta fino al 1720 (ma notiamo che i prezzi di questi ultimi anni si mantengono ai livelli alti del massimo raggiunto nel 16807!). Una conferma sia per i prezzi

* H.B. Johnson jr., Money and Prices in Rio de Janetro, in AA.vv., L’histoire quantitative du Brésil de 1800 à 1930, cit., pp. 47-48.

°° A questo proposito cfr. anche Mauro, Le Portugal, le Brésil et l’Atlantique, cit., 1983”,

p. 282.

? Considererò i prezzi degli schiavi più oltre, quando parlerò delle merci che erano oggetto di commercio internazionale.

106

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

degli schiavi che per quelli dello zucchero tra il 1690 e il 1769 ci viene da uno studio recente di Dauril Alden”, Le mie considerazioni appariranno monotone al lettore. Devo ammettere che alle mie orecchie sono come una musica soave: essa conferma questo aspetto — fondamentale a mio avviso — della congiuntura inversa americana rispetto alla congiuntura europea. Che

sia per il xvi secolo (un xvi secolo che arriva grosso modo fino al 1740) o per il xv secolo, il movimento dei prezzi agropecuarios presenta un andamento inverso rispetto agli stessi prezzi europei. Ci restano ancora da esaminare due altri aspetti relativi ai prezzi: a) il problema del prezzo dei prodotti inseriti in un circuito commerciale inter-regionale; b) il problema attinente ai prodotti europei in America. Cominciamo dal punto a). Le serie numeriche di cui si dispone non sono numerose. E innanzi tutto possibile stabilire un parallelo tra i prezzi dello zucchero in Perù (centro di produzione)? e in Cile (centro di consumo)”. In Perù, i prezzi mostrano una caduta assai netta tra la metà del xvi secolo e l’inizio del xvi. Ed è normale: prodotto «nuovo», lo zucchero subisce la stessa sorte dei cavalli o delle vacche o del grano. Occorre del tempo (relativamente poco) perché i prezzi alti, dovuti alla «novità» della merce, si stabilizzino. Degno di maggiore attenzione è il fatto che all’interno di questa stabilizzazione si notano spinte ad alti prezzi durante il xv secolo: alti prezzi che non saranno più raggiunti durante il xvi secolo. A Santiago del Cile, il movimento dei prezzi segue quello dello zucchero peruviano e sembra (non ci si può permettere di essere categorici) che il calo a Santiago durante il xvi secolo sia — rispetto al xvi — ancora più forte di quello che si può rilevare per il Perù. Esistono altri prodotti a circolazione inter-regionale che possono essere seguiti, in particolare i tessili. A Potosi?, i prezzi del sayalete 5 D. Alden, Price Movements in Brazil before, during and after the Gold Boom, with special reference to the Salvador Market (1670-1769), in Essays on the Price History of Eighteenth Century Latin America, a cura di Johnson e Tandeter, cit., p. 344. 5 Cfr. N.P. Cushner, Lord of the Land-Sugar,

Wine and Jesuite Estates Coastal Peru,

1600-1767, Albany 1980, p. 122. E cfr: anche S. Ramirez-Horton, Land Tenure and the Economics of Power in Colonial Peru, Tesi sostenuta presso The University of Wisconsin-Madi-

son, 1977 e — dello stesso autore — The Sugar Estates of the Lambayeque Valley, 1670-1800, Research Paper of The University of Wisconsin-Madison, 1979. % A. Ramon-J.M. Larrain, Origenes de la vida economica chilena, Santiago de Chile 1982, . 160.

car Tandeter-Wachtel, Precios y producciòn agraria, cit., pp. 36 ss.

107

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Fic. 20. Prezzo dei prodotti europei a Cordoba 180 170 160 o ci,i

150

D HSu

:

nr

Sn ;

120

“i

|

90 80 70

60 50

40

> S M

——

tendenza lineare

——

valori naturali

mi

Î

EZIO media mobile su 15 anni

vecenno tendenza (aggiustata con una curva di 3° grado)

30 20 10

77:15

67208861725.

1730

1735

1740.

1745

1750

1755

1760 1762

Fonte: Arcondo, Los precios en una economia en transicion, cit., p. 13.

e del tocuyo tra il 1670 e il 1810 accusano una diminuzione continua; per il seya/ un rialzo fino a circa il 1700è seguito da una diminuzione continua. Ora, occorre notare che— durante il xvn secolo — i prezzi dei prodotti tessili sono quelli che, in Europa, mostrano la resistenza più forte. Sempre a Potosi, altri prodotti come lo zucchero, la yerba, il vino, il congro accusano una tendenza alla stagnazione per tutto il

periodo compreso tra il 1676 e il 1816”. L’ultima verifica può essere effettuata a Cordoba dove i prezzi dei beni di produzione americana (ma non locale), dopo aver manifestato una certa tendenza al rialzo tra il 1711 e il 1720, mostrano in seguito una fortissima tendenza al ribasso, come indica la figura 11. Resta il problema dei prodotti europei. Innanzi tutto, il caso di Cordoba. Qui, come mostra la figura 20, la caduta è molto netta per

tutto il periodo. Prendiamo un caso particolare: quello della carta. Il suo prezzo, in Spagna, aveva subito tra il 1650 e il 1700 una netta stagnazione (e 3 Ibid.

108

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

anche un calo tra il 1680 e il 1700). Poi, a partire dai primi anni del nuovo secolo, manifesta una tendenza alla crescita assai regolare (interrotta, a dire il vero, tra il 1749 e il 1752) che si prolunga fino

al 1800”. Bene, cosa succede a Potosi con il prezzo della carta (certamente di origine spagnola)? Ancora una volta, una congiuntura inversa: dal 1676 al 1706 una crescita assai pronunciata e in seguito,

fino al 1800, una stagnazione (e anche delle forti riduzioni) interrotta da bruschi sprazzi dovuti evidentemente a difficoltà di approvvigionamento?*. Infine, un altro prodotto: gli schiavi, oggetto di un commercio internazionale e che si possono considerare, in un certo senso, come

d’origine europea visto che il loro approvvigionamento passa attra‘ verso l’intermediazione di mercanti europei. La sola serie nella quale si possa avere fiducia (per lo meno a quanto io sappia) è quella rappresentata dalla figura 19. Bene, anche in questo caso si assiste, dopo una crescita tra il 1620 e il 1645, ad una forte diminuzione fino al 1680, e in seguito, nuovamente ad una crescita fino al 1715??.

A ciò che ho appena detto sui prezzi è possibile aggiungere qualche considerazione sui salari.

In Europa - fatte salve eccezioni molto precise — abbiamo il seguente movimento di salari reali: xvi secolo: xvi secolo: xvm secolo:

diminuzione aumento diminuzione

Evidentemente, si tratta di una lettura schematica. troviamo in America, rispetto a questo schema?

Ma cosa

È impossibile parlare del xvi secolo: i dati sono troppo insufficienti per pervenire ad una conclusione, per grossolana che possa essere. Ma, per il xv e il xvm secolo disponiamo di tre casi molto chiari. In Messico, la stabilità dopo un periodo di crescita è netta fin dal 1650, come indica la figura 21. Ora, noi sappiamo che il xvi secolo è stato un secolo di prezzi Cfr. EJ. Hamilton, War and Prices in Spain, 1651-1800, Cambridge (Mass.) 1947, Appendix n. 1, pp. 233-57.

#8 Tandeter-Wachtel, Precios y produccion agraria, cit. pp. 12-14. © Occorre peraltro sottolineare, per contrasto, che il prezzo degli schiavi in America spagnola aumenta dopo la metà del xvi secolo: cfr. R. Mellafe, Breve historia de la esclavitud

en América Latina, Buenos Aires 1973”, p. 92.

6 Morineau, Incroyables gazettes, cit., p. 101.

109

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ric. 21. Salari giornalieri dei lavoratori indiani Hacienda Oficiales

Oficiales

5

_____Meeeetde”eMltd>®*

———————»

Oficiales in private hire

4

A Hacienda Oficiales ______————_—_—_—_t—_tl-

—____—_—_—__>»—

Oficiales in private hire

3 maravedis) 34

Peones

O_

*

Repartimiento Oficiales

Most hacienda peones

Reales real (1

Peones, cowherds, helpers Desagie peones

P

eones, shepherds, youths

Repartimento peones

Early unskilled labor 1520

1550

1600

1650

1700

1750

1800

Fonte: Gibson, The Aztecs under Spanish Rule, cit., p. 251.

alti e che per contro il xvm ha mostrato un livello elevato: possiamo dunque concludere che vi è stata del potere d’acquisto durante il xvi secolo e un relativo) per il xvm. A Potosi, è possibile fare le stesse osservazioni: un peon ristagna durante tutto il xvm secolo, ma

6! Tandeter-Wachtel, Precios y produccibn agraria, cit., p. 85.

110

dei prezzi meno una diminuzione aumento (certo, qui, il salario di sappiamo anche

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

che i prezzi sono al ribasso: abbiamo dunque una crescita del potere d’acquisto dei salari. i Considerazioni simili sono possibili nel caso del Norte Chico del Cile. Qui, tra il 1690 e il 1729, l'evoluzione dei salari dei minatori è

la seguente ®: Anni

Salario (pesos)

Indice

6 9 Si 10

100 150 166

1690-1699 1700-1709 1710-1719 1720-1729

Si potrebbe dunque dire che c’è — contrariamente al caso messicano e di Potosi indicati sopra — una crescita (come in Europa). Ma

il fatto è che «tra il 1680-89 e il 1700-1709 i prezzi agricoli conobbero un aumento del 64,2%, si mantennero a questo livello fino al 1720-29, e scesero solo tra il 1730 e il 1739»®: sicché, in termini reali, il livello dei salari non solo non aumenta ma al contrario accu-

sa una forte diminuzione. Possiamo in tal modo chiudere questo minuscolo dossier «salari». Ma prima, facciamo un'ultima annotazione: vi sono davvero salari in America nel xvi secolo? Lasciamo

da parte il lavoro degli schiavi, lasciamo da parte anche le forme costrittive di lavoro che persistono ancora lungo tutto il corso del secolo, in modo massiccio. Consideriamo i lavoratori detti «liberi».

E restiamo nel quadro dell’aristocrazia operaia rappresentata dai minatori: nel Norte Chico del Cile il loro indebitamento in articoli

di consumo giunge a coprire fino a sei mesi di salario4.In queste condizioni, occorre riconoscere che il senso del termine salario è

molto particolare (e limitato). Da questo insieme di «fatti» su metalli e monete, prezzi e salari, quali insegnamenti possiamo trarre?

AI di là delle diverse lezioni che prezzi, monete, salari possono dare (e, in generale, danno quando li si tratta senza la pretesa di 6 M. Carmagnani, E/ salariado minero en Chile colonial, Santiago de Chile 1963, p. 81. ® Carmagnani, Les mécanismes de la vie économique, cit., p. 217. Per il periodo 1750-99 il salario reale di un apire (lavoratore non qualificato), scende mentre quello dei barreteros dopo essere aumentato fino al 1789 scende durante l’ultimo decennio del secolo: cfr. Carmagnani, E/ salariado minero en Chile colonial, cit., p. 83. $4 Carmagnani, E/ salariado minero en Chile colonial, cit., p. 87. E cfr. anche per il Perù, Mellafe, Evoluzione del salario nel Viceregno del Perù, cit., pp. 404-405.

LIL

OPPOSTE

CONGIUNTURE

volerne trarre troppe conclusioni) mi sembra che l’insegnamento principale sia il seguente: mentre, per il xvH (grosso modo: 16201740) e xvi (grosso modo: 1740-1815) secolo europeo ci troviamo

davanti ad un movimento, rispettivamente, di diminuzione e di cre-

scita dei prezzi, nei corrispondenti periodi «americani» siamo di fronte a movimenti inversi, opposti. Ho sostenuto questa tesi (che non ha l'ambizione di essere una teoria) già dalla fine degli anni cinquanta partendo dalle esperienze cilena e argentina. Ora questa tesi è stata contestata: «è chiaro che la storia dei prezzi presentata da Romano nel 1963 è fondamentalmente fallace [{laved]» 6. Ma non capisco perché. Se guardo l’indice generale dei prezzi a Santiago trovo che il movimento è al ribasso tra il 1700 e il 1770; dopo questa data la crescita ci porta da circa 100 a 125%. Ciò succede con un indice generale. La stessa cosa se si guarda l’indice dei prodotti agricoli. E allora? Dove sta l’imperfezione, la deficienza, il difetto (flaw)? Mi sembra piuttosto «flawed» il «price index» costruito da L.L. Johnson: mescolare prezzi vari che provengono da fonti diverse, applicando loro ponderazioni di cui non conosciamo il criterio di elaborazione, significa far dire tutto e il contrario di tutto a qualsiasi «price index» ®. Peraltro la «storia dei prezzi offerta da Romano» trova conferma nel caso di Arequipa («questi risultati sono in generale simili a quelli di Tandeter e Wachtel, Prices and Agricultural Production, e Romano, Movimiento»?) e di Potosi («il movimento dei prezzi in Potosî durante il diciottesimo secolo differisce chiaramente dalla congiuntura generale dell’Europa»”!). Quella della congiuntura con© Mi sia permesso rimandare a Romano, Ura economia colonial, cit., e Movimiento de los precios y desarollo economico (1962), in Cuestiones de historia econémica americana, Caracas ‘ 1966. 66

L.L. Johnson, The Price History of Buenos Atres during the Viceregal Period in Essays

on the Price History, cit., p. 164. 9 J.M. Larrain, Gross National Product and Prices. The Chilean Case in the Seventeenthb

and Eighteenth Century, in Essays on the Price History, cit., p. 118. $ Ibid., p. 119. Peraltro se si guarda al movimento dei prezzi dei prodotti di origine straniera (p. 123), questa impressione è a maggior ragione confermata.

© La mia sfiducia nei confronti degli indici dei prezzi (non soltanto quello di L.L. Johnson ma anche quello di J. Larrain e altri ancora) si fonda sulle considerazioni di C.E. Labrousse: Le mouvement des prix au XVIIIe siècle: les sources et leur emploi, in «Bulletin de la Société d’Histoire Moderne», marzo 1937, pp. 234 ss.; e, dello stesso autore, Observation complémentaire sur les sources et la méthodologie pratique de l'histoire des prix et des salaires au XVIIIe siècle, in «Revue d’Histoire Economique et Sociale», xx1v, n. 4, 1938, pp. 289 ss. ® Brown, Price Movements in Eighteenth Century Peru-Arequipa, cit., p. 200. ? E. Tandeter e N. Wachtel, Prices and Agricultural Production Potosi and Charcas in the Eighteenth Century, in Essays on the Price History, cit., p. 264.

112

METALLI

E MONETE,

PREZZI

E SALARI

trapposta tra prezzi europei e prezzi americani non è una teoria ma

semplicemente la lezione di fatti che ricerche successive confermano progressivamente ’2. Se insisto su questo punto non è per uno spirito di polemica nei confronti di Johnson ma semplicemente perché il

tema è importante. Detto questo, resta un problema. Che significato hanno i prezzi nell’America coloniale? Come anche per i salari, possiamo domandarci se una crescita (o una diminuzione) dei prezzi in America spagnola abbia lo stesso senso che in Europa. Il problema è generale: un movimento dei prezzi traduce situazioni economiche d’insieme soltanto in rapporto al fatto più importante di conoscere qual è la parte di beni che passa real/zzente per il mercato. È la ragione per la quale i prezzi del grano, per esempio, durante il medioevo hanno un senso totalmente differente dai prezzi dello stesso prodotto nel xvi

secolo. Ora, senza ombra di dubbio, durante il xvi secolo

americano gli articoli (soprattutto i prodotti di prima necessità) che passano per il mercato non sono molto numerosi: la parte di autoconsumo è molto forte e quella che passa per il baratto anche. La parte che, nel passaggio per il mercato, e quindi per il (vero) prezzo, si trasforma in moneta è marginale. Di questa situazione possiamo trovare una grande quantità di testimonianze. Ma un fatto predomina, e di molto, sugli altri: la

mancanza di moneta. E non solo mancanza di moneta in generale ma mancanza di piccola moneta in particolare. Un’assenza che ci è confermata dalla presenza facile da constatare (a condizione di avere gli occhi aperti) di se7zas, Hacos, fichas, pilones, in cuoio, legno, sa-

pone, piombo, rame. Laddove, in Europa, è possibile, in una certa misura, parlare — come faceva magistralmente Jean Meuvret — di tipi sociali di circolazione della moneta con uno spettro che dalle monete d’oro arrivava a quelle di rame (passando attraverso monete piccole e grosse di argento e di biglione), in America la varietà è molto più ristretta: si passa dall’oro alle grosse unità d’argento. La parte monetaria quindi non coinvolge che una piccola parte della popolazione; il resto ne è escluso e farà ricorso alle fiches , ai gettoni di cui ho parlato. Qualcuno le può chiamare «quasi-monete»,

?2 Il mio saggio pubblicato in Essays on the Price History, cit., è la traduzione (con qualche aggiunta) di un articolo pubblicato in spagnolo in «ISLA», n. 7, 1986. Quest'ultimo aveva un’appendice (che non è stata pubblicata nel libro in questione) nella quale fornivo indicazioni sui prezzi in India, Cina, Giappone che mostrano una congiuntura opposta a quella europea anche in questi spazi. Una ulteriore prova (se bisogno vi è) dell'importanza del problema.

113

OPPOSTE

CONGIUNTURE

«semi-monete» o che so altro ancora. Ma in realtà queste fiches,

questi gettoni non sono che segni concreti di un'economia naturale.

È all’interno di essa che occorre leggere i fenomeni monetari (prezzi, emissioni ecc.) di cui ho parlato in questo capitolo”.

SRI . i Mi sia permesso rimandare a R. Romano, Fondements du fonctionnement du système économique colonial (l'articolo apparirà prossimamente in spagnolo, a Lima, in un volume nel quale saranno riuniti alcuni dei miei articoli recenti dedicati all'America spagnola)

114

s. SUL COMMERCIO

Qual è la situazione del commercio internazionale europeo tra la fine del xvi e l’inizio del xv secolo? Purtroppo non è possibile, a questo riguardo, giungere — come si è fatto con i prezzi — alla ricostruzione di curve complessive. Occorre entrare nel dettaglio. Cominciamo ad esaminare questi «dettagli». Poniamoci al centro di ciò che è stato, nel corso dei secoli, il

cuore motore del commercio internazionale: il Mediterraneo. Se consideriamo le vecchie «capitali» (da Venezia a Barcellona, da Marsiglia a Genova, da Napoli a Ragusa), la caduta è forte. È vero che appaiono nuovi centri, come, e soprattutto, Livorno!. Ma

non credo che l’attività di questi nuovi centri riesca a compensare le perdite che caratterizzano i grandi centri tradizionali. Inoltre, dobbiamo ricordarci che la loro vita prospera nella sola misura in cui essi riescono ad «agganciarsi» ai nuovi padroni: inglesi e olandesi”. Il Mediterraneo, un mare morto, quindi?

Se con questa espressione si vuol dire che i paesi mediterranei non sono più soggetti ma oggetti di storia è certo vero. Prendiamo l’esempio classico di Venezia?. Il suo commercio internazionale era ! Cfr. Braudel-Romano, Navires et marchandises, cit. ? Cfr. in particolare C. Ciano, Uno sguardo al traffico tra Livorno e l'Europa del Nord verso la metà del Seicento, in Atti del Convegno Livorno e il Mediterraneo nell'età medicea, Livorno 1978, pp. 141-68; R. Romano, Rapporti tra Livorno e Napoli nel Seicento, ivi, pp. 202. 205; G. Pagano De Divitiis, Galere e fondachi in Europa e fuori d'Europa, in Storia d'Italia, a cura di R. Romano, vol. v, Milano 1989, pp. 1-24; Id., L'arrivo dei Nordici in Mediterraneo, ivi, . 49-72.

cia? Cfr. aa.vv., Aspetti e cause della decadenza economica veneziana nel secolo XVII. Atti del Convegno, 27 giugno-2 luglio 1957, Venezia-Roma 1961. Una revisione della «decadenza» veneziana è stata effettuata da R.T. Rapp, Industry and Economic Decline in Seventeenth-

EI

OPPOSTE

CONGIUNTURE

stato fondato, secoli prima, su un principio molto semplice: mettersi - in posizione di quasi-monopolio — al centro degli scambi tra il Medio Oriente (dei prodotti che le forniva: spezie e droghe) e il resto d'Europa. In cambio, ridistribuiva verso il Medio Oriente (e oltre) i prodotti europei. Ora, senza ombra di dubbio, Venezia, nel corso del xv secolo,

non è più al centro di questo tipo di traffici. Ma ciò non significa assolutamente l’interruzione degli scambi tra Europa del Nord e Mediterraneo“. Soltanto, sono gli olandesi e gli inglesi che ormai trattano direttamente questi scambi’. Crisi, dunque, non tanto del commercio mediterraneo, ma crisi

degli attori mediterranei dello stesso commercio‘. Oggetto di storia, ho detto. Occorre precisare questa espressione. Un esempio. Ciò che cambia in modo assai evidente nel commercio con gli scali del Levante è il fatto che inglesi e olandesi non trattano più le spezie”. Se i vecchi fondaci veneziani di Aleppo e di Tripoli (in Siria) emanavano essenzialmente profumi di cannella, chiodi di garofano, pepe, niente (o quasi) di tutto ciò si ritrova nei nuovi depositi olandesi e inglesi. E ciò per la semplice ragione che, non appena olandesi e inglesi si sono installati in prima persona nelle Indie Orientali, le spezie non arrivano più (o arrivano in quantità modeste) attraverso le strade delle carovane terrestri e ancora meno attraverso il Mar Rosso. Anche i francesi — che pure compiono uno sforzo ingente per «piazzarsi» negli scali del Levante — non

Century Venice, Cambridge (Mass.) 1976, trad. it. Industria e decadenza economica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986. Ma i suoi argomenti e la sua documentazione non sono convincenti: cfr. il bell’articolo di J.A. Marin, La crisi di Venezia e la New Economic History, in

«Studi storici», n. 1, 1978, pp. 79-107. Il caso di Istanbul — studiato nel libro classico di Mantran, Istanbul dans la seconde moitié du XVIle siècle, cit. — è estremamente chiaro in

questo senso. E cfr. anche B. McGowan, Ecororzie Life in Ottoman Europe. Taxation, Trade and the Struggle for Land, 1600-1800, Cambridge 1981, pp. 15-44. 4 Cfr. i contributi di L. Beutin e H. Davis in aa.vv., Aspetti e cause della decadenza economica veneziana, cit. ? Cfr. — oltre allo studio di J.S. Corbett, England in the Mediterranean, 2 voll., London

1904 — G. Pagano De Divitiis, I{ Mediterraneo nel XVII secolo: l'espansione commerciale inglese e l'Italia, in «Studi storici», n. 1, 1986, pp. 109-48 e, della stessa autrice, I/ comzzercio inglese nel Mediterraneo dal Cinquecento al Settecento, Napoli 1984 e soprattutto il suo recente libro Mercanti inglesi nell'Italia del Seicento, Venezia 1990. © A questo riguardo cfr. le bellissime considerazioni di U. Tucci, Ligisons commerciales et mouvement de navires entre la Méditerranée orientale et occidentale, in Actes du Ile Colloque

International d'Histoire, Athènes 1985, p. 13: «ce qui apparait en déclin, c'est la participation des puissances commerciales méditerranéennes». ? Cfr. CH.H., The Changing Pattern of Europe’s Pepper and Spice Imports, c.a 1400-1700, in «The Journal of European Economic History», vm, n. 2, 1979, pp. 361-403.

116

SUL COMMERCIO

FIG. 22. Indicatori di scambio europei

a 1590

1600

1610

1620

1630

1640

1650

1660

1670

1680

1690

1700

1710

1720

1730

1740

1750

1760

1 Grano trasportato a occidente del Sund (espresso in medie decennali). Scala: 10.000 last di grano; ogni last è uguale approssimativamente a 2 tonnellate). 2 Navi

passate attraverso

il Sund,

in direzione

est o ovest;

dati annuali.

Scala:

migliaia di navi.

3 Entrate dei «convooien» percepite sulle navi entrate ed uscite da Amsterdam; dati annuali. Scala: 100.000 guilders. Fonte: J. De Vries, The Economy of Europe, in An Age of Crisis 1600-1750, Cambridge 1976, pp. 14-15.

riescono a rifornirsi. Come è indicato da un bel documento* del 1628, «adesso che gli inglesi e gli olandesi sono nelle Indie, occorre che [tiriamo fuori] le spezie dai loro paesi». L’agonia del Mediterraneo è dunque solo apparente: possiamo constatare una specie di

circolazione extra-corporale garantita dai Nordici. Ma la crisi non è meno forte per i paesi del «mare interno». Più che a serie di dati numerici, che mi sarebbe facile presentare, possiamo rivolgerci a casi di ordine qualitativo. Così, per esempio, mentre la seta (non lavorata) di Sicilia e di Calabria costituiva tradizionalmente un ogget8 Citato in Romano (in collaborazione con Braudel, Jeannin, Meuvret), Le déclin de Ve-

nise, cit., p. 59. E cfr. anche, The Dutch East India Company as an institutional innovation, in Dutch Capitalist and World Capitalism, a cura di M. Aymard, Cambridge (Mass.)-Paris 1982,

pp. 235-57.

117

OPPOSTE

CONGIUNTURE

to di esportazione verso Genova, Venezia, Napoli, Firenze (da dove

poi veniva nuovamente esportata verso l’Eutopa del Nord e anche verso il Medio Oriente sotto forma di prodotti manufatti), ora la seta greggia prende soprattutto la strada del nord veicolata da imbarcazioni non mediterranee?. E passiamo al Nord. Cosa constatiamo? Anche qui, i grandi indicatori sono al ribasso. Infatti, come indica la figura 22, il numero di imbarcazioni che passa per il Sund (curva numero 2) mostra una diminuzione continua dal 1590 al 1713. Il transito del grano (curva numero 1), sempre per il Sund, manifesta anch'esso, con oscillazioni, una tendenza al ribasso. Bene, si tratta di due grandi indicatori.

Se passiamo ad Amsterdam e guardiamo il movimento dei «convooien» (curva numero 3) troviamo nuovamente una linea stagnante. Proseguiamo il viaggio. Verso l'Inghilterra, questa volta. Prima constatazione (ma ce la potevamo aspettare): il numero di imbarcazioni inglesi che transitano per il Sund accusa una diminuzione!9. Sarebbe facile presentare altre serie di dati per Gdansk!!, per la Prussia Orientale e per Riga !°: i risultati sarebbero simili. Rivolgiamoci verso l’interno delle regioni: le esportazioni di bestiame dai grandi centri d’allevamento verso i centri di consumo mostrano segni di diminuzione !. Per la Svizzera, Anne-Marie Piuz lo afferma chiaramente: «il nostro secolo ginevrino, preso isolatamente, corrisponde perfettamente allo schema classico di una diminuzione di lunga durata» !4. Certo, vi sono anche settori o paesi che mostrano indicatori di attività in aumento. Infatti, per esempio, le esportazioni di ferro svedese aumentano considerevolmente!. Altri segni positivi non mancano e ci ritornerò in seguito. Ma, per il momento, poniamoci il

? Cfr. la nota 54 del capitolo 3. !° R.V.K. Hinton, The Eastland Trade and the Common Wealth in the Seventeenth Century, Cambridge 1959, pp. 227-29. !! Cfr. A. Szelagowski, Pieniadz i prsewrét cen XVI i XVII vieku w. Polsce, Lwow 1902, pp. 126-27.

4 !° R. Rybarski, Handel i polityka hbandlowa Polski w XVI stuleciu, Warszawa 1938, vol. 1, pass ” H. Wiese-J. Bolts, Rinderbandel und Rinderhaltung in Nordwseuropdischen Kiinsgebieten vom 15 bis zum 19. Jabrbundert, Stuttgart 1966, pp. 61-63. E cfr. anche Abel, Congiuntura agraria e crisi agrarie, cit. 14 Piuz, Recherches sur le commerce de Genève, cit., p. 399.

> Kriedte, Spatfeudalismus und Handelskapital, cit., p. 121.

118

SUL COMMERCIO

seguente quesito: come fare per stabilire l’esistenza di una crisi commerciale? Frédéric Mauro, in un articolo veramente importante! mostra

(dimostra) con intelligenza come le relazioni commerciali europee durante il xvi secolo siano all'insegna della stagnazione. E sono d’accordo con lui. Ma si pone a questo punto una domanda legittima. All’interno dell'Europa, esistono situazioni diverse?

Tentiamo di rispondere seguendo un percorso diverso da quello dei pochi indicatori che ho mostrato prima. Ho detto che il commercio di Venezia durante il xvi secolo è alla deriva. E una contro-prova si ritrova nel tracollo delle sue costruzioni navali: una caduta che la Serenissima cerca — senza riuscirci — di compensare con l’acquisto di imbarcazioni di costruzio-

ne straniera (soprattutto inglesi e olandesi) !. La crisi commerciale veneziana, dunque, viene ad essere confermata da questa crisi dell'armamento navale. Se si volge lo sguardo verso la Prussia, si trova non soltanto una caduta dei traffici ma anche una crisi della costruzione navale, come è stato dimostrato dal compianto Ludwig Beutin!8. Se passiamo verso l'Inghilterra, constatiamo, come abbia-

mo visto, molteplici segni di una contrazione dei traffici europei, ma il tonnellaggio di cui l'Inghilterra dispone passa da 50 mila tonnellate nel 1572 a 115 mila nel 1629 e a 340 mila nel 1686! La sola spiegazione possibile di questa (apparente) contraddizione sta nel fatto che sono soprattutto i traffici intercontinentali inglesi ad esigere la gran parte di questa crescita di tonnellaggio. Senza fare appello, almeno per ora, all'America, basterà pensare che il commercio europeo con l'Asia? evolve in modo continuo a partire dal xvi secolo, come mostra chiaramente la figura 23. 6 F. Mauro, Toward an «International Model»: European Overseas expansion between 1500-1800, in «The Economic History Review», xrv, n. 1, 1961, pp. 1-17. Lo schema di F. Mauro è stato ripreso e semplificato da I. Wallerstein, Y a-4/ une crise du XVlle siècle?, in «Annales Economies Sociétés Civilisations», xxx1v, n. 1, 1979, p. 132. ! Cfr. Sella, Comzzerci e industrie a Venezia, cit., pp. 103 ss.

!8 L. Beutin, Der Deutsche Seehandel Mittelmeergebiet bis zum den Napoleonischen Kriegen, Neumiinster 1933. Per la flotta nel suo insieme resta sempre valida (noriostante le correzioni che si possono apportare sulla base degli studi successivi) W. Vogel, Zur Grosse der Europaischen Handelsflotte im 15. 16. und 17. Jabrbundert, in Forschungen und Versuche zur Geschichte der Mittalalters und der Neuzett, Jena 1915.

!9 Cfr. R. Davis, The rise of the English shipping industry in the seventeentb and eighteenth centuries, London 1962, p. 27. Per i problemi dell’inizio della espansione commerciale inglese e per la successiva «Supremacy», cfr. Pollard-Crossley, The Wealth of Britain, cit., pp. 148-73. 20 K. Glamann, Dutch-Asiatic Trade, 1620-1740, Copenhagen-The Hague 1958; J. Schoffer-F.S. Gaastra, The import of bullion and coin into Asia by Dutch East India Company

EE)

OPPOSTE

CONGIUNTURE

FIG. 23.. Traffico marittimo tra Europa e Asta dal 1491 al 1701 (navi in direzione dell'Asia per paese) Navi

Totale 400

— — —

Portogallo

———

Olanda

— — —

Inghilterra

-----:

Francia

300

200

100

50

1491/92 1500/01

1541/42 1550/51

1591/92 1600/01

1641/42 1650/51

1691/92 1700/01

Fonte: Kriedte, Spatfeudalismus und Handelskapital, cit., p. 110.

Se la partecipazione portoghese è in ribasso e quella francese stagnante, quella inglese e soprattutto quella olandese sono fortemente in rialzo. Ci si trova dunque di fronte a due Europa. La prima (Inghilterra e Olanda) che, grazie al commercio asiatico (e occorre-

rebbe aggiungere quello africano e americano) migliora nettamente in the seventeenth and eighteenth centuries, in Dutch Capitalist and World Capitalism, a cura di Aymard, cit., pp. 215-33; K.N. Chaudhuri, The Trading World of Asia and the English East India Company, 1660-1760, Cambridge 1978, e, dello stesso, The Econorzic and Monetary Problem of European Trade with Asia during the Seventeenth and Eighteentb Centuries, in «The Journal of European Economic History», vol. 4, n. 2, 1975, pp. 323-58.

120

SUL COMMERCIO

la propria posizione; la seconda Europa (il Mediterraneo, ma non solo il Mediterraneo) che perde progressivamente terreno. Precisiamo questo punto. La crisi non coinvolge soltanto i grandi porti mediterranei ma anche i centri «classici» del Baltico. Prendiamo il caso di Gdansk (Danzica): al passaggio dal Sund non solo il numero di navi che proviene da questo porto diminuisce ma, soprattutto, si assiste ad

un aumento progressivo del numero di imbarcazioni con bandiera olandese?!. E non si tratta solo di Gdansk ma dell’insieme di città della Hansa e della parte alta della Germania che si trovano coinvolte in questo turbine: la potenza olandese riduce, per esempio, Colonia e altre città del Basso Reno a ricoprire un ruolo essenzialmente interno. Soltanto Amburgo riuscirà a mantenere il proprio ruolo (ma anche nel suo caso il motore dell’attività è costituito soprattutto dall’interesse che olandesi e inglesi le dedicano). Le città dell’interno della Germania (Ulm, Ravenburg, Norimberga e molte

altre) non sono in condizioni migliori, anche se bisogna riconoscere l'emergere di due centri: Frankfurt e Leipzig. Assistiamo insomma a tutto un riequilibrio delle funzioni commerciali in Europa; e non si manifesta soltanto sull’asse Nord/Sud in generale ma seguendo la dialettica: Insierze dell'Europa (compreso l’Impero ottomano)/Europa del Nord-Ovest (cioè Olanda e Inghilterra). I centri tradizionali sono in grande maggioranza tutti perdenti e quando riescono a sopravvivere, è soltanto perché la «pompa» olandese e inglese garantisce la circolazione. Si potrebbe quasi dire che è il peso della tradizione che trascina verso il basso questi vecchi porti, queste vecchie città che avevano fondato nel medioevo e ancora nel xvi secolo la reputazione del loro nome. Questa affermazione non è arbitraria: basti pensare al destino di Anversa la cui sorte periclita nonostante il fatto di trovarsi all’interno stesso dell'Europa del Nord-Ovest, regione in ascesa. In breve. Quale che sia l'angolo sotto il quale si osserva la vita commerciale europea, si incontra una grande cesura: un'Europa me-

diterranea (intendendo però un «grande» Mediterraneo che comprende l'Impero ottomano, il Portogallo, i Balcani) in crisi e un'Europa del Nord (Olanda e Inghilterra) che pur subendo gli effetti di questa crisi, riesce a compensarla e a superarla grazie ai traffici inter21 N. Ellinger Bang, Tabeller over Skibsfart og Varetransport gennen oresund 1497-1660, t. 1, Kobenhaven-Leipzig 1906; cfr. C. Biernat, Statystika obrotu towarowego Gdanska w latach 1651-1815, Warszawa 1962.

L21

OPPOSTE

CONGIUNTURE

continentali. Resta... il resto: Polonia, Impero, Svizzera, Francia...

Per quest’ultima si può dire che resiste più o meno bene sul lato

atlantico e nel Nord; nell'Impero e in Svizzera, alcuni isolotti di

prosperità mercantile persistono, ma si tratta di meri isolotti; la Svezia — grazie al suo ferro e rame (e alla sua industria metallurgica),

all’argento — resiste anch'essa; per la Polonia la crisi è certa. Il problema di fondo era stato ben posto da Colbert. Egli valutava, nel 1669, che «il commercio marittimo di tutta l'Europa è ef-

fettuato da 20 mila navi di cui tra le 15 mila e le 16 mila sono olandesi, tra le 3.000 e le 4.000 sono inglesi e tra le 500 e le 600 francesi» 2. I numeri sono certamente discutibili, nonostante il fatto

che Colbert ragionasse — almeno per ciò che riguardava la Francia — sulla base di un Inventaire des Bàtiments francais du commerce, che egli aveva avuto l’iniziativa di realizzare e che malgrado i difetti? doveva ben riflettere la situazione reale nel complesso. È questa la «crisi» del commercio del xvi secolo: la caduta dei centri tradizionali e l'emergenza dei due paesi «nuovi»: Olanda e Inghilterra. Nel 1669, la preponderanza olandese è ancora netta; dopo, le cose cambieranno progressivamente a vantaggio degli inglesi. Passiamo ora dal lato dell’ America. E cominciamo con una esposizione «classica»: cioè con l'esame

dell'insieme (tonnellaggio delle imbarcazioni) del commercio «ufficiale» tra Vecchio e Nuovo Mondo tra il 1510 e 1778. Le figure 24-26 sono a nostra disposizione. Questi grafici sono stati criticati (in particolare quello di Huguette e Pierre Chaunu) 24, ma ad ogni modo la tendenza che si manifesta sulla base di queste curve resta valida. Possiamo riscontrare: a) una prima fase di crescita regolare fino al 1620; una caduta che le succede fino al 1680; (@

un recupero moderato fino agli anni 1740-50; una vivace fiammata fino al 1778 (e anche oltre)?.

PARDACD KO

? Cit. in C.M. Cipolla, Storia economica dell'Europa pre-industriale, Bologna 1974, p. 305. ? Cfr. M. Morineau, Flottes de commerce et trafics francais en Méditerranée au XVIle siècle (jusqu@en 1669), in «XVIle Siècle», nn. 86-87, 1970, pp. 13 ss.

2 Cfr. in particolare M. Morineau, Jauges et méthodes de jauge anciennes et nouvelles, Paris 1966. © A dire il vero, occorrerebbe prendere in considerazione anche un altro traffico: quello

che collega Acapulco con Manila. Ho esitato a farlo per molteplici ragioni di cui una mi sembra fondamentale: la bibliografia di cui disponiamo — W. Schurs, The Manila Galleon, New York 1939; P. Chaunu, Le galion de Manille, in «Annales Économies Sociétés Civili-

sations», n. 4, 1951, pp. 447-62; M.L. Diaz-Trechuelo Spînola, Dos nuevo derroteros del ga-

122

SUL COMMERCIO

FIG. 24. Tonnellaggio del traffico tra Siviglia e l'America spagnola (1500-1650, andate e ritorni totali = 143) Ricapitolazione per quinquenni

300.000 ss =

numero di navi

L] =

tonnellaggio

Tonnellaggio

100.000

IR

ta pe ° p E 5 di

400

Tonnellaggio medio di una nave

200

1500

1550

1600

1650

Fonte: H. et P. Chaunu, S@ville et l’Atlantique (1504-1650), vol. vi, Paris 1957, p. 47.

123

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ric. 25. Tonnellaggio del traffico commerciale ufficiale spagnolo con l'America spagnola (1650-1700) tonnellate x 1000

[>ese

i

—Rene © ne lemina =>

IPA

AZE

SEE | ESS

i >

re ee]

==" fan

Sail

MO —sscorse e

1] SEI eg mr

1650

1660

1670

1680

SA Poe

Sh

1670

Fonte: L.Garcia Fuentes, E/ comercio espafiol con América (1650-1700), Sevilla 1980, p. 234.

Vero in Spagna. Ma se ci si situa dall’altro lato dell’Atlantico, queste fasi sono discutibili, fortemente discutibili. In effetti, queste imbarcazioni, questi tonnellaggi, cosa rappresentano? I principali porti americani che ospitano il commercio spagnolo sono i seguenti: Veracruz, Porto Belo, Cartagena. A questi, occorre

aggiungere le spedizioni eccezionali in direzione di altri porti (soprattutto Buenos Aires). € essenzialmente a partire da questi porti che si organizza la re-distribuzione dei beni (e degli uomini, cioè degli schiavi) verso la massa continentale ?6, e allo stesso modo leon de Manila (1730-1733), in «Anuario de Estudios Americanos», xm, 1956, pp. 1-83; P.

Chaunu, Les Philippines et le Pacifique des Ibériques (XVIe, XVIIe, XVIIIe siècles), Paris 1960 — non mi sembra che permetta di avventurarsi troppo in là. Resta che questo traffico ha per l'America spagnola un significato doppio: a) rappresenta una possibilità di approvvigionamento in prodotti che altrimenti avrebbe avuto la più grande difficoltà a procurarsi: porcellana, seta, spezie; b) ma apre anche la strada a una enorme emorragia di denaro contante

e di metallo prezioso in barre verso il continente asiatico. 26 Mi sia consentito rimandare a R. Romano, A/guras consideraciones sobre los problemas

del comercio en Hispanoamérica durante la época colonial, in «Boletin del Instituto de Historia Argentina y Américana Dr E. Ravignani», s. m, 1, n. 1, 1989, pp..23-49.

124

SUL COMMERCIO

Fic. 26. Tonnellaggio del traffico commerciale spagnolo con l'America spagnola (1717-1778) 35.000

[GA

tonnellaggio conosciuto direttamente

2g

tonnellaggio conosciuto indirettamente

30.000

25.000

20.000

7772091725

IE)

65)

1740.

1745

175:

0/5

5RI60,

1765

1770

Fonte: A. Garcia-Baquero Gonzales, Cadiz y el Atlantico (1717-1778), Sevilla 1976, vol. n, grafico 8.

è in questi porti che si organizzano le partenze delle merci (soprattutto dei metalli preziosi) americane verso la Spagna. Uno schema grossolano, certamente. Ma uno schema valido nonostante tutto. Osserviamo dunque cosa succede a Buenos Aires.

Dal prezioso lavoro di Zacarias Moutoukias” sappiamo che tra il 1648 e il 1702 vi sono 34 imbarcazioni ufficiali che arrivano. Mezza nave per ogni anno. Calcoliamo globalmente: 100 tonnellate di merci. Bene, Buenos Aires a quell'epoca non è che un grosso borgo ?8 e 100 tonnellate potrebbero essere sufficienti. Ma è anche un porto che serve per approvvigionare tutto lo spazio fino a Cordoba, Asuncién, Tucuman, Mendoza e, in parte, l'Alto Perù. In realtà,

questo spazio enorme è stato rifornito meglio di quanto non sia possibile con mezza nave per anno. Sappiamo, sempre grazie a

2 Moutoukias, Contrabando y control colonial, cit., pp. 81-82. 28 La sua popolazione è, grosso modo, di 3.359 abitanti nel 1658 e di 8.908 nel 1720: cfr. N. Besio Moreno, Buenos Aires. Estudio critico de su poblacion (1536-1936), Buenos Aires 1939, pp. 384 e 388.

125

1775

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Moutoukias?, che oltre ai 34 battelli arrivati ufficialmente, vi sono state alrzeno 124 «arribadas maliciosas» di imbarcazioni straniere e

spagnole. In somma, per 34 imbarcazioni ufficiali, se ne aggiungono 124 ufficiose. In totale, le prime non rappresentano che il 21,11%.

Ritorniamo sulle 124 imbarcazioni ufficiose. Troviamo: Olandesi: Portoghesi:

62 30.

Francesi:

TE

Spagnole: Inglesi:

13. 12

(50%) (24,2%) (15,64%) (10,49%) (9,64%)

Innanzi tutto cosa sono queste «arribadas maliciosas»? Si tratta di scali ai quali una imbarcazione si trova costretta a causa di maltempo e/o di avarie. Si domandava — secondo gli usi del mare e sulla base degli articoli di numerosi trattati di navigazione e di commercio — l’autorizzazione ad accostare. Siamo dunque, in qualche misura, in presenza di una forma di contrabbando semi-legale. O, se si preferisce, di un contrabbando effettuato con l'accordo compiacente (e interessato) delle autorità locali?°. Ritorniamo a queste imbarcazioni. Tutte, ufficiali e ufficiose, assommano

a 158 navi; quelle

spagnole — ufficiali e ufficiose — non sono che 47, cioè non rappresentano che il 29,74%. Questa situazione che ho presentato per il caso di Buenos Aires, la si può ritrovare in altri contesti regionali. Così, per esempio, cosa fanno, tra il 1695 e il 1726, 148 imbarcazioni francesi sulle

coste del Perù??! Durante lo stesso periodo, quante sono le navi spagnole sulle stesse coste? Tra il 1689 e il 1705, ci sono state soltanto due flotte mercantili spagnole in rotta verso il Perù! Per il periodo 1701-25, Carlos Malamud ha calcolato che i reforzos francesi dalle coste del vice reame del Perù sono stati di circa 47 milioni di pesos contro i 27.767.287 per i retornos effettuati dagli

? Moutoukias, Contrabardo y control colonial, cit., p. 128. Esempi di «arribadas maliciosas» in Venezuela in Arcila Farias, Econorzia colonial de Venezuela, cit., pp. 136 ss. 3© Ma le forme di questi commerci sono molteplici e più che di contrabbando, occorre rebbe parlare di «commercio diretto»: cfr. il bel saggio di C. Malamud, Espa#a, Francia y el «comercio directo» con el espacio peruano (1685-1730), in La economia espanola al final del Antiguo Régimen, vol. n, Comercio y Colonias, a cura di J. Fontana, Madrid 1982 e soprat-

uu dello stesso autore, cfr. C4diz y Saint Malo en el comercio colonial peruano (1698-1725), adiz 1986.

?! Malamud, Esparia, Francia y el «comercio directo», cit., p. 27.

126

SUL COMMERCIO

spagnoli: vale a dire che il commercio del Perù era assicurato dalle navi francesi per circa il 70%”, Ancora: cosa fanno le 50 navi francesi davanti a Veracruz tra il 1701 e il 1707? Non parlo che di francesi. Ma ci sono innumerevoli tracce di olandesi, inglesi, danesi: corsari, pirati, mercanti (dove sta

la frontiera?) che progressivamente invadono lo spazio americano, dando luogo a questa forma particolare di commercio che è il silent trade. Riassumendo, a cominciare dalla metà del xv secolo (e anche prima) il «monopolio» spagnolo è più una petizione di principio che non una realtà. Come si può pretendere che esista un «monopolio» se durante la seconda metà del xvn secolo si invia a Tierra Firme soltanto il 40% delle flotte previste e alla Nuova Spagna soltanto il 60%?” Occorre aggiungere che i carichi di queste imbarcazioni spagnole sono in buona parte di origine straniera: analizzando le tele presenti in Nuova Spagna tra il 1663 e il 1673 si trova che su un totale di 746 varas di tele, 301 erano di origine francese, 105 inglesi, 85 olandesi

e solo 2 spagnole: un buon specchio della geografia dell’industria tessile europea del momento”. Nel 1634, gli olandesi occupano Curagao, St. Eustatius e Tobago; nel 1640 i francesi si installano a Tortuga (il che nel 1659 porterà alla divisione tra Francia e Spagna della Espafiola che diventa, per la parte francese, Haiti e per la parte spagnola Santo Domingo); nel 1655 gli inglesi annettono la Giamaica; nel 1671 i danesi occupano St. Thomas”. In genere, la storiografia considera questi

3? C. Malamud, E/ commercio directo de Europa con América en el siglo XVIII, in «Quinto Centenario», 1981, p. 45; cfr. P.T. Bradley, The Lure of Peru. Maritime Intrusion into the South Sea, 1598-1701, London 1989.

# Garcia Fuentes, E/ commercio espanol, cit., p. 164. 34 M. de los Angeles Romero Frizzi, Commercio de la Mixteca Alta, Oaxaca, Mexico. Los Flujos de mercancias, s.l., s.d., p. 14 (dattiloscritto).

3 Su questo insieme di problemi la bibliografia è abbastanza vasta. Cfr. in particolare J. Van Klaveren, Europaische Wirtschaftgeschichte Spaniens im 16. und 17. Jabrbundert, Stuttgart 1960, pp. 144-76; H. Kellenbenz, St Thomas, Treffpunkt des Karibischen Handels, in «Lateinamerika Studien», 11, 1982; dello stesso, Die beziehbungen Hamburgs zu Spanien und des

Spanischen Amerika in der Zeit von 1740 bis 1806, Wiesbaden 1963, in particolare le pp. 23546; E. Cordova Bello, Compaztias holandesas de navegacion, agentes de la colonizacion neerlandesa, Sevilla 1964; M. Gutierrez de Arce, La colonizacion danesa en las Islas Virgenes, Sevilla

1945; R.B. Sheridan, Sugar and Slavery. An economic history of the British West Indies, 16231775, Aylesbury 1974; C.Ch. Goslinga, The Dutch in the Caribbean and on the Wild Coast. 1580-1680, Assen 1971; J.I. Israel, Dutch Primacy in World Trade, 1585-1740, Oxford 1989. K.G. Davies, The North Atlantic World in the Seventeenth Century, Oxford 1974; M. Devèze, Antilles, Guyanes, la Mer des Caraibes de 1492 à 1789, Paris 1977.

127

OPPOSTE

CONGIUNTURE

insediamenti di francesi, inglesi ecc. come il risultato di guerre europee. E questo è sicuramente vero in termini politico-diplomatici. Ma si dimentica assai spesso di indicare che se nei «grandi» trattati di pace sono inseriti territori che la Spagna è costretta a cedere ai suoi avversari europei, è pur vero che gli stessi territori sono già di fatto da molto tempo più o meno occupati e che ad ogni modo la presenza di pirati, corsari e commercianti inglesi, francesi, olandesi è da molto tempo effettiva. Queste isole, grandi o piccole, costituiscono non solo un focolaio

di infiltrazione di potenze straniere all’interno dell’«Impero» spagnolo, ma anche delle basi riconosciute dalle quali, sotto tutte le forme possibili, si organizza il contrabbando (nel senso stretto o in senso lato) verso l’America spagnola?*. Rivolgiamo da vicino l’attenzione a una di queste basi di contrabbando: la Giamaica tra il dicembre 1718 e il settembre 1719. Un’imbarcazione spagnola che trasportava del cacao tra La Guayra e Veracruz naufraga nel settembre 1718 sulle coste della Giamaica. Il suo capitano è fatto prigioniero ma ha la possibilità di osservare cosa succede nell’isola. A Port Royal, conta un movimento di 391 imbarcazioni nello spazio di dieci mesi. Alzzezo 201 sono destinate verso l'America spagnola”. E limitiamoci alle 201 imbarcazioni di cui sappiamo con pertinenza che sono state destinate alle relazioni commerciali con l'America spagnola. 201 navi, quindi. Il movimento globale — andata e ritorno — tra Cadice e l'America per 24 mesi consta dei seguenti dati: 1718 id

23 navi 14 navi

37 navi in 24 mesi contro almeno 201 in dieci mesi... Una testimonianza inglese degli anni sessanta che evoca l’isola di Barbado — occupata dagli inglesi fin dal 1625 — afferma che dalle sue coste «si esportano tante tonnellate di merci quante ne esportano i due imperi del Messico e del Perù». Esagerazione? Non si direbbe, se si pensa che Gregorio de Robles ha visto partire dalla Giamai?° Un esempio di come una «riqueza sin flotas» porta al contrabbando più sfrenato e quindi alla annessione da parte degli inglesi in F. Morales Padron, Jamaica Espanola, Sevilla 1952; e cfr. anche V.L. Brown, Contreband Trade. A factor in the decline of Spain’s Empire in America, in «The Hispanic American Historical Review», vin, n. 2, 1928, p. 182.

7 G. de Robles, América a fines del siglo XVII. Noticias de los lugares de contrabando, Valladolid 1980. * Citato in S.B. Liebman, Los judios en México y América Central, México 1971, pp. 22829, 232. La prosperità delle isole inglesi e olandesi era anche legata al fatto che un buon

128

SUL COMMERCIO

ca, nello spazio di un mese, dieci battelli con destinazione Europa «carichi dei frutti delle colonie di Sua Maestà, ottenuti con i vietati

traffici che inglesi e olandesi mantengono nelle Indie»??. Restiamo sempre in Giamaica in compagnia di questo straordinario perso-

naggio che è Gregorio de Robles: in una «estancia» di un ebreo, egli vede delle donne ebree e dei bambini seduti davanti a monete (di conio americano) ammonticchiate, in atto di separarle: i pezzi grossi e quelli buoni da un lato per essere inviati verso l'Inghilterra, i piccoli e i cattivi destinati al commercio locale‘, Peraltro, si avrebbe

torto a credere che queste isole inglesi fossero soltanto delle basi commerciali o che limitassero la loro funzione di produzione alla mera loro... superficie. Infatti si vedono partire, sempre dalla Giamaica, dei battelli carichi di schiavi armati di asce che si recano

verso le coste dello Yucatan per tagliarvi legno di Campeche! “! Le cifre e le considerazioni che ho presentato qui, che potrei agevolmente moltiplicare, ci aiutano a comprendere non tanto la debolezza spagnola e la forza inglese e olandese (argomento importante ma che non concerne tuttavia la storia interna dell’ America)

quanto la capacità di assorbimento del mondo ispano-americano. Infatti tutto il problema è questo. L’«Impero spagnolo» d'America mostra un appetito straordinario durante tutto il xv secolo. Se la Spagna non è capace di soddisfarlo, è per riflesso della crisi spagnola del xvi secolo e non di una crisi americana. Insisto: per ciò che riguarda il commercio internazionale, l America spagnola non mostra, durante il xvi secolo, alcun segno di crisi‘.

numero di ebrei del Messico e del Perù si rifugiarono qui, soprattutto durante le grandi persecuzioni della fine della prima metà del xvn secolo. Su questa presenza ebrea per esempio in Giamaica cfr. Robles, Arzérica a fines del siglo XVII, cit., p. 33. 3 Robles, América a fines del siglo XVII, cit., p. 33. 0 Ibid. SpA: 4 Il caso brasiliano non è tanto diverso da quello dell'America spagnola anche se l’occupazione olandese di una buona parte del paese complica considerevolmente i calcoli. Nonostante ciò possiamo dire che questa occupazione spinse i portoghesi a intensificare la produzione nelle regioni rimaste sotto il loro controllo. I dati sul numero di battelli che collegano il Brasile con il Portogallo (una volta terminato il periodo di occupazione olandese) di cui si dispone per la fine del secolo, sono considerevolmente più consistenti di quelli che troviamo (per i legami con il Portogallo e l'Olanda) per il periodo precedente. A ciò occorre aggiungere che il valore di queste esportazioni aumenta e non soltanto perché dalla fine del secolo intervengono le spedizioni d’oro, ma anche perché nella composizione delle esportazioni compare un altro prodotto «ricco»: il tabacco. Per quanto ho appena detto, rimando a Mauro, Le Portugal, le Brésil et l’Atlantique, cit., pp. 265 ss. Ma cfr. anche C.R. Boxer, Os Holandeses no Brasil,

1624-1654, So Paulo 1961 (in particolare l’appendice n); Buescu-Tapajos, Historia do desenvolvimiento economico do Brasil, cit., pp. 127 ss.; Boxer, Salvadorde Sd, cit., pp.88 ss. e 193 ss.

129

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Ma non vi sono soltanto le relazioni internazionali. È essenzialmente a partire dal xv secolo che si mettono definitivamente in piedi i legami commerciali inter-americani*. Così, per esempio, la grande linea che si stabilisce tra il Venezuela e il Messico. Qui, tutto ruota intorno al cacao. Il Messico — grande consumatore di questo prodotto — è costretto ad importarne: uno dei grandi fornitori sarà esattamente il Venezuela ma anche Cuba, Santo Domingo, Cartage-

na“. È evidente che questi invii di cacao mobilitano dei «ritorni» in termini economici: argento dal Messico, oro da Cartagena, tabacco

da Cuba. Quest'ultima, peraltro, costituisce un bell’esempio di centro di legame inter-regionale. Intorno all’isola si costituisce una vera e propria rete. All’incirca, tutti gli anni tra le 7 e le 8 imbarcazioni vanno a Cartagena in Colombia, cariche di tabacco. Ma l'isola è legata con il Messico (da dove si importa soprattutto farina), Honduras, Maracaibo, Santo Domingo, Campeche ecc. Di contro a questi forti traffici, tra il 1639 (75 giorni), il 1640, il 1641 e il 1642 (74 giorni), abbiamo, ufficialmente, i seguenti arrivi: 2 dalla Spagna 1 dalle Canarie#5.

Certo: le imbarcazioni utilizzate nella navigazione dei Caraibi sono di un tonnellaggio inferiore a quelle del traffico internazionale. Ma occorre anche aggiungere che il contrabbando di queste navi a circolazione inter-regionale è certo molto forte. Vorrei insistere ancora un attimo su questo problema dei legami inter-regionali presentando il caso del commercio di un prodotto pesante: il grano. E alla fine del xvn secolo che si mette in moto il grande traffico Callao-Valparaiso. Tra questi due porti, le relazioni commerciali erano antiche‘ e si articolavano intorno al grasso d’animale, alle

% La bibliografia su questo argomento è pressoché inesistente. Ma cfr. D. Ramos-M. Rubio Sanchez, Commercio terrestre de y entre las provincias de Centroamérica, Guatemala 1973. # Cfr. E. Arcila Farias, Commercio entre Venezuela y México en los siglos XVII y XVIII, México 1950, pp. 53 e 71 ss. e cfr. anche il bel saggio di M. Bertrand, Sociétés secrètes et finances publiques: fraudes et fraudeurs à Veracruz au XVII et XVIII siècles, in «Mélanges de la casa Velasquez», xv1.2, 1990.

# Marrero, Cuba: Economia y sociedad, cit., vol. rv, p. 54.

% Ibid, p. 163.

SID:d: 1 I Macis, Cuba en la primera mitad del siglo XVII, Sevilla 1978, pp. 171 ss. * H. e P. Chaunu, Séville et l’Atlantique, cit., t. vin.1, pp. 1169-74.

130

SUL COMMERCIO

pelli, ai sartiami. Il ruolo preponderante degli scambi sarà presto assunto dal grano. Altri prodotti ancora indicano la formazione di una rete molto densa di comunicazioni commerciali. Così, durante il xvi secolo si

avvia il traffico di muli tra Salta (in Argentina) e l'Alto Perù: si passa da qualche decina alla metà del xv secolo, a 22.797 nel 1694”. Questa importante attività mette in moto tutta una serie di persone per l'allevamento, l'addestramento, il trasporto. In effetti, non si

tratta soltanto di un fatto commerciale ma anche di un fatto di allevamento di grande portata, il solo. fatto d’allevamento verificatosi nel Rio de la Plata dell’epoca coloniale; occorre avere animali mansos per poterli condurre fino all’altopiano peruviano. E non si tratta soltanto di muli ma di un considerevole movimento di bestiame che dal Rio de la Plata va verso l'Alto Perù. Senza credere a B. Vicufia Mackenna che individua un movimento di un milione di ovini all’anno verso la fine del xvi secolo, si può facilmente accettare il passaggio di un certo numero di capi dalla pianura in direzione dell'Alto Perù. Vi si aggiunge una corrente di esportazione di bovini. Così, da 7.050 capi tra il 1596 e il 1600, si passa a 42.626 tra il 1641 e il 1645 e a 69.027 tra il 1681 e il 1685 ?2: e si tratta delle sole esportazioni che partono da Cordoba. Ora, senza ombra di dubbio,

altri capi dovevano cominciare il loro viaggio in partenza da altre località della parzpa?”. Un altro prodotto, oggetto di fortissimi scambi inter-regionali: le foglie di coca. Resta la yerba rate. Si tratta — come si sa — di una pianta la cui produzione è concentrata in Paraguay. La diffusione del suo utilizzo tra i bianchi e i meticci fu molto rapida e si estese al di fuori del Paraguay per toccare tutto il Rio de la Plata, il Cile e il Perù e ancora più lontano. Sono dunque quantità crescenti di yerba che progressivamente partono dal Paraguay in tutte le direzioni. Un commercio sempre più importante: tra il 1637 e il 1682, si passa da 2.500 arrobas annuali a una media di 25 mila”. E non è finito, poiché occorrerebbe aggiungere le quantità esportate dalle riduzioni gesuitiche che, spedite direttamente a Bue50 P, Ramos, Navieros del Callao y hacendados limefios entre la crisis agricola del siglo XVII y la comercial de la primera mitad del XVIII, Madrid 1967. 53 E.B. Toledo, E/ comercio de mulas en Salta: 1657-1698, in «Anuario del Instituto de Investigaciones Historicas», Universidad Nacional del Litoral, 8, 1965, p. 275. 3 Sempat Assadourian, Potost y el crecimiento, cit., pp. 175-76. 3 Z. Moutoukias, Contrabando y conirol colonial en el siglo XVII. Buenos Atres, el At lantico y el espacio pernano, Buenos Aires 1988, p. 266. % Garavaglia, Mercado interno y economia colonial, cit., p. 70.

131

OPPOSTE

CONGIUNTURE

nos Aires, ci sfuggono totalmente. Anche se non si accetta il dato di 100 mila arrobas che un:documento suggerisce per il 1681”, occorre convincersi che si tratta di quantità ingenti. Queste considerazioni che ho appena fatto a proposito della circolazione di merci non devono naturalmente far credere alla formazione di un mercato interno (né tanto meno «nazionale» e/o «capitalistico») come si ha la tendenza (ingenuamente) a credere. Marcello Carmagnani, al quale sono dovuti gli studi più importanti sul tema, nota del tutto correttamente e con grande finezza che si può «tutt’al più parlare di un processo di aggregazione dei diversi mercati regionali, ma non dell’avvio della formazione di un mercato coloniale unico». Nonostante queste giuste limitazioni,

è comunque importante

notare che questo fenomeno di «avvio di un processo di aggregazione di diversi mercati regionali» si manifesta nel corso del xvn secolo, segno indiscutibile di una vita economica animata da una certa tensione.

Si ha sempre voglia di chiarezza e da ciò viene la preoccupazione di separare nettamente gli argomenti. Dovrei dunque passare al caso della circolazione locale, all’interno della stessa regione. Ma è diffi-

cile trovare prodotti con circolazione strettamente locale. Sicuramente esistono: che ne so, frutta, legumi, in generale beni di difficile

conservazione, che non lasciano tracce sfuggendo a qualsiasi controllo fiscale. Certo, seguendo il filo della lettura dei testi di viaggiatori o di cronache se ne trovano esempi. Si possono vedere barche cariche di limoni, di legumi, che vanno da Gibilterra (località all’in-

terno della laguna di Maracaibo) a Maracaibo per ritornare con carne”. Ma questi fenomeni sparpagliati permettono difficilmente di trarre considerazioni d’insieme. Il solo esempio (a mia conoscenza) valido è quello del pu/gue (una bevanda fermentata che si ottiene da un cactus). Un prodotto povero, il cui consumo è essenzialmente popolare. Ma un prodotto del quale — dopo il 1668, con l’istituzione dell’asiento — è possibile seguire i redditi (e, quindi, il consumo) che la Corona ricava dalla commercializzazione. Bene, questi redditi del

«ramo de pulque» passano nella Nuova Spagna da meno di 50 mila pesos durante gli anni sessanta e settanta del secolo a circa 150 mila durante gli anni venti e trenta del xvm secolo?8, Mo

TA

°° Carmagnani, Les mécanismes de la vie économique, cit., p. 265.

7 A.O. Exquemelin, Los piratas de América (1678), Santo Domingo 1979, p. 110. °% J. J. Hernandez Palomo, La renta del pulque en Nueva Espatia (1663-1810), Sevilla 1979, pp. 367 ss.

152

SUL COMMERCIO

FIG. 27. Composizione del mercato di Potosi nel 1733

Aguardiente

Fonte: J.C. Garavaglia, E/ yzercado interno colonial y la yerba mate, in «Nova Americana», n. 4, 1981, p. 200.

Come concludere? Tentare di pesare davvero i diversi tipi di commercio: internazionale, inter-americano, regionale, locale è un'impresa importante, ma impossibile. Eppure, per avere un’idea sia pur approssimativa sul peso dei diversi settori commerciali, esaminiamo un caso: quello del mercato di Potosî nel 1733. In questo grande «polo di sviluppo» (comeè stato battezzato), in questo grande centro di economia capitalistica (?), la maggior parte dei beni consumati e commercializzati sono d’origine americana, di origine lontana (yerba, tabacco, acquavite ecc.) o prossima (mais). E per ultimi si incontrano i prodotti che provengono dal famoso commercio internazionale. Ricapitoliamo. Non credo affatto al ruolo motore del commercio nell'economia delle società pre-industriali: un ruolo che porterebbe ad un preteso e non ben identificato capitalismo commerciale. Ciò detto, si può difficilmente contestare che il commercio (in133

OPPOSTE CONGIUNTURE

terno e internazionale) costituisce un termometro della situazione economica generale. 3 Ora, da ciò che abbiamo appena indicato nelle pagine precedenti, si possono trarre le seguenti conclusioni che riguardano l’Europa: 1) vi è un declino degli scambi cerealicoli (sensibile soprattutto nel Mediterraneo e nel Baltico) legato alla interruzione di una crescita urbana rapida e al rafforzamento dell’approvvigionamento a corta distanza;

2) una deviazione della via mediterranea delle spezie (iniziata nel xvi secolo, definitiva soprattutto a partire dalla seconda metà del xvi secolo) ma accompagnata in compenso dal progresso dei traffici tra l'Europa (soprattutto Inghilterra e Olanda) e l'Asia per la via atlantica e l'Oceano Indiano, accompagnata da una partecipazione (sempre olandese e atlantica) al commercio intra-asiatico;

3) una certa de-industrializzazione (soprattutto tessile) del Mediterraneo che diventa un luogo d’importazione di prodotti manufatti, importazione compensata (in termini di valore ma non certo di dinamica economica) dall’esportazione di prodotti grezzi o semilavorati soprattutto in direzione dell'Europa del Nord-Ovest (seta, filati di seta) e dell'Europa centrale e orientale (drappi di seta di lusso);

4) un certo rilassamento del tessuto commerciale interno: le varie fiere (almeno, quelle che si conoscono) non sembrano più avere (al di là dell'evoluzione quantitativa) la dinamica che le aveva animate durante il xvi secolo. Ecco il quadro europeo: molto modesto tranne che per ciò che riguarda i Paesi Bassi e l'Inghilterra. In America iberica, d’altra parte, si assiste a un progresso quantitativo del commercio Europa/America soprattutto con la partecipazione inglese e olandese (e francese) e ad un regresso spagnolo. Ancora, occorre sottolineare il rafforzamento considerevole dei le-

gami interni al continente americano: senza che si possa parlare della formazione di un mercato interno, è certo che è nel corso del

xvi secolo che ha inizio l'aggregazione di taluni mercati regionali. Insomma, anche nel capitolo del commercio, assistiamo a una contro-congiuntura Europa/America. Naturalmente, quando si parla di Europa, si fa eccezione di Inghilterra e Olanda (temo che il

lettore inizi a stancarsi di questo distinguo che inserisco ad ogni passo, ma è necessario).

134

6.

ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI

Dico bene: alcune considerazioni finali e non semplicemente «conclusioni», perché questo termine chiuso, esclusivo, perentorio

non mi sembra adatto. I fatti che ho presentato finora si articolano, su piani geografici diversi, intorno a popolazione e produzione agricola (insieme a quella «industriale»), a monete e prezzi, metalli preziosi e commercio. Il tutto si presenta, a prima vista, come un po’ sconnesso, senza

legami apparenti. Ma si tratta di un'impressione. In realtà, la ricerca è sempre un labirinto e mai una linea retta. Tentiamo dunque di trovare il filo di questo labirinto. A grandi linee, molto a grandi linee, cosa possiamo ricavarne? Innanzi tutto, un fatto che mi pare fondamentale: a) la crisi europea del xvi secolo è fuori di dubbio. Ma all’interno di questa crisi, occorre mettere in rilievo una gradazione, delle sfumature che corrispondono al grande slittamento che si è manifestato dal Mediterraneo verso l'Europa del Nord (Inghilterra — soprattutto Inghilterra — e Olanda: ma con differenze strutturali nei due paesi: ritornerò ancora una volta su questo punto); b) l'America presenta segni di congiuntura inversa rispetto all’Europa. Segni, questi, di interpretazione certamente difficoltosa. Ma cerchiamo di fare un bilancio più preciso. Mi sembra che sia possibile riassumere i dati contenuti nei capitoli precedenti a condizione espressa di separarli in due categorie: a) dati quantitativi; b) dati qualitativi. i Quelli quantitativi, evidentemente, sono quelli più facili da maneggiare. Cominciamo dunque da questi. 155

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Ecco lo schema che possiamo ottenere: Europa

America

Popolazione Stagnante (o in ribasso)

Ripresa

Monete

Stock monetario stagnante

Stock monetario crescente

Metalli

Arrivi in aumento

Produzione in

preziosi

(ma ingenti partenze

crescita

verso l’Estremo Oriente) Prezzi

In diminuzione o stagnanti

In crescita

Commercio

Contrazione del commercio europeo: espansione del commercio intercontinentale (soprattutto europeo e olandese)

Contrazione del commercio ufficiale; espansione del commercio diretto; strutturazione del commercio interno

Se traducessimo questo schema con dei + (più) e dei — (meno) l'opposizione apparirebbe netta quanto mai (cfr. oltre alla pagina 156) !. Questo per quanto riguarda i fenomeni che abbiamo potuto cogliere (più o meno bene) dai dati quantitativi. Vale a dire che la produzione (agricola e dei beni non-agricoli) in buona parte ci sfugge. Meglio: possiamo seguirla soltanto con dei segni di ordine qualitativo. A questo riguardo, constatiamo un po’ ovunque una contrazione della produzione agricola europea e una forte destrutturazio! Cipolla, Storia economica, cit., p. 287 contiene un grafico sulle tendenze economiche generali nei diversi paesi europei tra il 1500 e il 1700; grafico che, grosso modo, combacia con quanto io affermo:

Inghilterra Paesi Bassi sett. Paesi Bassi mer. Francia

Italia Spagna Germania Polonia

Depressione

{

Ristagno [___]

136

Espansione [___]

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

ne delle forze lavoro di questo stesso mondo agricolo (fatta l’eccezione inglese). In America, in agricoltura, i segni non mostrano certo una grande ripresa ma sicuramente una certa strutturazione, un netto consolidamento delle circostanze incerte, precarie, a erano maturate

durante il xvi secolo. Al secolo della conquista animata essenzialmente dalla ricerca di metalli preziosi, fa seguito un xv secolo della terra (il che non significa, evidentemente, che ci si disinteressi del-

l’oro e dell’argento). Opposizione, dunque, tra una congiuntura americana e una con-

giuntura europea. Ma prima di proseguire, vale meglio precisare ancora una voltai caratteri salienti di questa congiuntura «europea». So bene:è possibile trovare una città, un villaggio, una regione dove la popolazione aumenta; il comportamento della dinamica dei prezzi non è rigorosamente lo stesso per il grano o il burro, i tessuti o i metalli; in alcune zone d'Europa, si potranno trovare colture di

piante industriali promettenti. Ma il «fatto» resta: l'Europa attraversa una crisi secolare. La struttura agricola europea cede verso la fine del xvi secolo: su questa crisi strutturale si abbatte la grande crisi congiunturale del 1619-22 e la crisi generale prosegue tranquillamente fino al 1730-40. Sfumature, in questa prospettiva? Certo. Ma l’insieme è ben quello che mi sono sforzato di mostrare. Con le eccezioni che ho indicato: Olanda e Inghilterra. E non si tratta di uz4 eccezione ma di due eccezioni: mentre l’espansione olandese non è altro che la ripresa — in grande scala — di un vecchio sistema (grosso modo, quello veneziano), quella inglese rappresenta un fenomeno nuovo. In cosa la crescita olandese è vecchia? Nel fatto che il suo percorso è fondato su una «“feudal business” economy», per riprendere l’espressione di Eric Hobsbawm?. L'espressione può essere accettata o no: ma resta il fazio. E il fatto è molto semplice: gli affari (commercio, banca ecc.) si adattano molto bene a qualsiasi struttura, quale che sia. Vedere un commercio (o una banca) crescere e

2 Insisto sulla contrazione agricola dell'Europa. E ciò malgrado le osservazioni mossemi da J. Topolski, Narodziny kapitalizmu w Europie XIV-XVII wieku, Warzsawa 1965, pp. 159

ss. Sorvoliamo sui dettagli, ma trovo strano che il signor]. Topolski citi W. Abel e B.H. Slicher van Bath per la crisi del xrv secolo (e la relativa contrazione agricola) e ignori completamente questi due autori per il xvn secolo. Potremmo definire questo modo di procedere come un «sapiente equilibrio» nelle citazioni? } Hobsbawm, La crisi del XVII secolo, cit., p. 58.

157

OPPOSTE

CONGIUNTURE

tirarne conclusioni di cambiamento reale della struttura dominante

è un grave errore (purtroppo frequente) perché questa crescita rappresenta essenzialmente l’arricchimento di un gruppo di per. sone, la prosperità di diversi gruppi sociali, di una città. Un punto, tutto qui. Certo, la moltiplicazione delle attività di «affari» può costituire anche un motore (parziale, d’altronde) di crescita ma a condizione che il capitale accumulato da questi «affari» si diriga in seguito verso investimenti produttivi e non di nuovo verso attività speculative e/o parassitarie. E la chiave di ogni sviluppo è la produzione, non la speculazione. Infatti, per esempio, insisto nel credere

nella crisi veneziana nonostante il fatto che i «capitalisti» di questa città investissero capitali nella Compagnia delle Indie olandese*. Non bastano i soldi per fare il capitalismo moderno. Ora, la novità inglese consiste esattamente nel fatto che ormai viene data priorità alla produzione: «Il futuro industriale molto probabilmente stava più dalla parte degli stati “moderni”, come quello britannico, che dalla parte di quelli “all’antica” come le Province Unite». Ma torniamo al caso americano. E proviamo per un attimo a

contrapporlo non all'Europa ma alla Spagna. La contro-congiuntura appare ancora più netta.

La decadenza della Spagna (e particolarmente della Castiglia) durante il xvi secolo è un fatto certo. Le cause: espulsione dei moriscos?” guerre continue con il relativo loro carico? conseguenze della grande rivolta catalana del 1640? caos monetario?? Oppure occorre fare appello a stereotipi come la indolencia degli spagnoli !° o il rifiuto delle attività mercantili e industriali sacrificate all’ideale

4 V. Barbour, Capitalism in Amsterdam in Seventeenth Century, Baltimore 1950, p. 57. ? Hobsbawm, La crisi del XVII secolo, cit., pp. 58-59. ° I tentativi di negare o almeno sfumare fortemente questa crisi spagnola esistono ma

sono assai poco consistenti: cfr. per esempio H. Kamen, The Decline of Spain: A historical Myth, in «Past & Present», n. 81, novembre 1978.

' H. Lapeyre, Géographie de l’Espagne moresque, Paris 1959. * Cfr. il grande libro di J.H. Elliott, Revolt of Catalans. A study in the Decline of Spain (1598-1640), Cambridge 1963.

? EJ. Hamilton, La decadencia espanola en el siglo XVII, in El florecimiento del capitalismo y otros ensayos de historia economica, Madrid 1948. ‘0 I riferimenti sono innumerevoli. Ma occorre ricordare che questa «indolencia» è universale? I lavoratori inglesi del xvi secolo non erano dei campioni di produttività: cfr. D.C. Coleman, Labour in the English Economy of the Seventeenth Century, in «The Economic History Review», vin, 1956, pp. 280-95 e J.H. Elliott, The Decline of Spain, in Crisis in Europe, a cura di Aston, cit., p. 171.

138

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

aristocratico? Mi sembra che sia meglio accettare la tesi di John H. Elliott !!, secondo il quale Sembra improbabile che una qualche spiegazione della decadenza della Spagna possa sostanzialmente mutare l’interpretazione comunemente ac-

cettata della storia spagnola del xvn secolo, perché si tratta sempre delle stesse carte, comunque le rimescoliamo: manomorta e vagabondaggio, inettitudine governativa, e diffuso disinteresse per la dura realtà della vita economica. Comunque invece di lasciarle sparse a casaccio può essere data ad esse una linea di sviluppo ed una coerenza. Tuttavia anche quando il rimescolamento è finalmente esaurito e tutte le carte sono regolarmente distribuite, resta dubbio se sia possibile dissentire dal giudizio di Robert Watson sulla Spagna, nella History of the Reign of Philip III, pubblicata nel 1783: «La sua potenza non corrispondeva alla sua inclinazione»: o dal giudizio ancora più severo di un contemporaneo, Gonzalez de Cellorigo: «È come se qualcuno avesse desiderato ridurre questi regni ad una repubblica di esseri stregati, viventi al di fuori dell’ordine naturale delle cose» — una repubblica della quale il più famoso cittadino fu Don Chisciotte della Mancia.

Crisi spagnola, quindi. Ma — è evidente — la crisi, l’indebolimento, della metropoli conduce a un rilassamento del controllo esercitato sulle colonie. La contro-congiuntura americana traduce essenzialmente questa indipendenza, questo affrancamento. Il monopolio commerciale spagnolo — che aveva rifornito al contagocce l'America durante il xvi secolo — non funziona durante il xvn secolo: e il contrabbando (il commercio «diretto», con inglesi, olandesi, fran-

cesi ecc.) prospera. Lo Stato è debole? Le rimesse fiscali in direzione della Spagna diminuiranno e l America manterrà per sé maggiori quantità di denaro. Sul piano militare e internazionale la Spagna non è più quella che era stata durante il xvi secolo. Sarà allora costretta ad indirizzare risorse monetarie (provenienti, certo, dall’America) verso la difesa (fortezze, armate, uomini, «armada de Barlo-

vento») dell'America: il che significa, ancora una volta, soldi che restano in America. Ma l’indebolimento dello stato spagnolo non si comprende soltanto per il fatto che resta una maggiore quantità di denaro in America. Più importante, lungo il filo del xvi secolo (un secolo che dura fino alle «riforme» del xvi secolo che rappresentano semplicemente l’ultimo tentativo di riprendere in mano

!! Elliott, The Decline of Spain, cit., p. 264.

139

OPPOSTE

CONGIUNTURE

l’«impero»), la vita americana è ancora più autonoma. Vorrei darne una e una sola prova. Nel 1680, esce la Recopzlacion General de las Levyes de Indias. A prima vista, niente di più significativo per mostrare che lo Stato tiene solidamente in mano le proprie colonie. Ma guardiamo le cose più da vicino. Dunque, Madrid proclama una

Recopilacibn general nel 1680. Ma nel Perù ci si affretta (1685) a contrapporle una Recopilacion provincial*, una raccolta nella quale - per lo più — sono riunite delle disposizioni, delle ordinanze dei viceré, fin dal Toledo. È evidente che questo grosso libro rappresenta non soltanto una forma di autonomia rispetto a Madrid (in fondo, questa autonomia esisteva rei fatti da lungo tempo) ma molto di più: la codificazione ufficiale — a livello provinciale, certamente — di tale autonomia. Ma come spiegare la debolezza dello Stato spagnolo? Da Machiavelli in poi, è chiaro che in sostanza vi sono quattro variabili che occorre prendere in considerazione quando si parla del fatto Stato. Uno Stato può essere forte o debole, rigido o flessibile. Quattro fattori, dunque. E possono comporsi tra di loro. Ora, lo Stato spagnolo del xvi secolo era — allo stesso tempo — debole e rigido. Rigido vuol dire casuista, pignolo, autore di leggi a qualsiasi proposito, burocratizzato fino all’estremo, sempre in atto di decidere tutto e il contrario di tutto. Debole, significa che non esisteva alcuna forza per fare applicare i principi che gli erano ispirati dalla sua rigidità. Certo: nel contesto americano, le cariche supreme (di viceré, per esempio) sono sempre nelle mani degli spagnoli originari della Penisola. Ciò non impedisce la strutturazione in corso di una classe dirigente «criolla». Alcune prove. Innanzi tutto, la concessione di titoli di ordini nobiliari ad americani !:

xvi secolo xvIIr secolo xvi secolo

San-. tiago

Calatrava

Alcantara

Mon-. tera

Malta

Carlos m

Totale

11 281 198

3 100 51

2 38 28

0 0 5

0 3 4

0 0 123

16 422 409

!° Cfr. S. Zavala, E/ servicio personal de los Indios en el Peri, México 1979, t. 11, p. 153

ss. Sulla diffusione dei «comentarios» e altre «notas» a la Recopilacion del 1680 in Nuova Spagna cfr. il saggio introduttivo di D. Bernal de Bugeda a P.A. de Palacios, Notas a la recopilacion de Leyes de Indias, México 1979, p. 14. ) Cfr. Zavala, E/ servicio personal de los Indios, cit., pp. 153 ss.

140

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

È dunque nel corso del xvn secolo che vi è il più gran numero di concessioni nobiliari (almeno — come mi fa notare Horst Pietschmann — per gli ordini nobiliari «inferiori», perché il maggior numero di concessioni di titoli di «alta» nobiltà — conti, duchi... — si veri-

fica durante il xvi secolo !4). Si avrebbe torto a liquidare questo fenomeno della elevazione alla nobiltà trattando questi nobili con l'epiteto derisorio di «nuovi ricchi» che coprono le origini modeste con titoli pomposi. Questo aspetto non può essere negato. Ma c’è dell’altro. In effetti, non si può dimenticare che la Corona spagnola era da principio contraria alla formazione di un’aristocrazia americana. Il suo programma, a questo proposito, era piuttosto di provocare la nascita di ciò che G. Lohmann Villena chiama con un buon termine una «mesocracia», vale a dire una aristocrazia in tono minore. Le concessioni (gli ac-

quisti, se preferiamo) di titoli di ordini nobiliari rappresentano dunque una vittoria americana contro la volontà della Corona spagnola. Parallelamente a questa formazione di un’aristocrazia formale, si assiste ad un altro fenomeno: l’enorme diffusione del maggiorasco, il che contribuisce alla formazione di quello che G. Cespedes del Castillo chiama la aristocracia rural". Ma non è soltanto a questi livelli «nobiliari», «aristocratici» che appaiono i segni di questa strutturazione americana, confermata anche dalla creazione (a Messico nel 1592; a Lima nel 1613) dei

Consulados de Mercaderes! la cui funzione anti-Siviglia e in seguito anti-Cadice è indiscutibile, anche se diversa.

!4 Così, per esempio, per la concessione di titoli di alta nobiltà in Messico cfr. D. Ladd, The Mexican Nobility at Independance, 1780-1826, Austin 1976, in particolare le pp. 13-23. 5 Lohmann Villena, Los americanos en las Ordenes Nobiliares, cit., pp. voxv-1xxv e x. !6 Cespedes del Castillo, Las Indias en el siglo XVII, cit., p. 469. E opportuno ricordare qui che i maggioraschi non sono soltanto un fatto di ordine economico. Hanno un valore politico e sociale. Innanzi tutto, un individuo non decide della creazione di un maggiorasco: è il re (e soltanto il re) che concede il diritto di fondarlo ma questa concessione si accompagna al «juramento y pleito homenaje» e ad un cerimoniale (termini, formule, gesti, rituali che — è ancora necessario ricordarlo? — per gli uomini dell’epoca erano cose concrete) che, per riprendere le parole di un testimone non sospetto (Cespedes del Castillo, Las Indias en el siglo XVII, cit., p. 469) «recuerdan el usado en la Edad Media entre vasallos y sefiores». A tutto ciò occorre aggiungere le possibilità di carriera che si offrirono ai «soldados de fortuna» in America in particolare durante il xvn secolo: cfr. J. Marchena Fernindez, Oficiales y soldados en el ejército de América, Sevilla 1983, p. 30.

!7 R.S. Smith, The institution of the Consulado in New Spain, in «The Hispano American

Historical Review», xx1v, 1944, pp. 61-83; Id., E/ Indice del Archivo del Tribunal del Consu-

lado de Lima con un estudio historico de esta institucion, Lima 1948.

141

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Aggiungiamo la vendita di uffici a un buon numero di criollos*. Questa non è certamente benefica per l'America spagnola. Ma non si tratta, qui, di giudicare di ciò che è male e di ciò che è bene, di ciò che è meglio e di ciò che è peggio. Ciò che conta, è il processo di «americanizzazione» progressiva dell'America spagnola. So bene che questa americanizzazione dell’amministrazione locale per il mezzo della vendita di uffici non ha cambiato la struttura tradizionale di questa stessa amministrazione ma, nonostante ciò, questo

passaggio di competenze resta molto importante. Proseguiamo. Mi sembra molto interessante, per confermare il processo di americanizzazione, seguire la creazione delle università !; — xvI secolo:

4

-— xv secolo:

8

- xv

4

secolo:

(Santo Domingo, 1538; Lima, 1551; México, 1551; Bogota, 1580); (Cordoba, 1629; Guatemala, 1625; Sucre, 1624; Merida-Yucatan, 1624; Ayacucho, 1677; Santiago de Chile, 1685; Quito, 1681; Cuzco, 1690); (La Habana, 1721; Panama, 1749; Guadalajara, 1791; Caracas, 1721).

Questa lista — quale che sia il senso che si attribuisce al termine «università» — giustifica pienamente le considerazioni di A.M. Rodriguez Cruz per il quale «il xvi secolo vive la gestazione delle università. Il xvn assiste alla loro proliferazione. È in quest'epoca che cominciano ad affermarsi alcune istituzioni di primario rilievo»?0. Qui, non è tanto la loro «grandeur» (incontestabile, d’altra parte,

per alcune di esse) quanto la loro «proliferazione» che testimonia, a mio avviso, questa volontà «criolla» di darsi strumenti locali e non dipendere più dalla capitale. Il modello, certo, resta la grande Università di Salamanca”, ma la proliferazione è ben americana. !8 Letteratura amplissima. Ma cfr. K.J. Andrien, The sale of fiscal offices and the decline of Royal Autority in the Viceroyalty of Peru, 1633-1700, in «The Hispanic American Historical Review», 62, n. 1, 1982.

!° Cfr. A.M. Rodriguez Cruz, Historia de las universidades hispanoamericanas. Periodo hispanico, voll. ru, Bogotà 1973. E cfr. anche Id., Les universités hispano-américaines de la période hispanique (1538-1812), in Historical compendium of European Universities, a cura di L. Jilek, Genève 1984 e Slicher van Bath, Spaans Amerika omstreeks, cit., p. 60. Tengo a sottolineare che non ho preso come base per la costruzione della mia tabella le date di «fondazione» ma soltanto quelle degli atti che autorizzano la concessione di titoli universitari. Infatti, molto spesso, la prima «fondazione» non fe riferimento che a collegi che non assegnano titoli universitari. Vorrei anche indicare che in alcune città (per esempio a Quito) si registra la presenza di due università: non tengo in alcun conto questi doppioni. 2° Rodriguez Cruz, Les universités hispano-américaines, cit., p. 68. 2! A.M. Rodriguez Cruz, Salamantica docet. La proyeccion de la Universidad de Salamanca en Hispanoamérica, Salamanca 1977, vol. 1.

142

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

A questo capitolo delle università, occorrerebbe aggiungere quello dell’editoria. I fatti sono più delicati da interpretare. Per cominciare, occorrerebbe stendere una lista? che fornisca la data della

e stamperia istituita in ciascun paese (e città) dell'America spagnola: — xVI secolo: — xvI secolo: — xv secolo:

2 (México, 1539; Lima, 1584); 2 (Puebla de los Angeles, 1640; Guatemala, 1660); 14 (Paraguay, 1705; La Habana, 1707; Oaxaca, 1720; Bogota, 1739; Ambato, 1754; Quito, 1760; Nueva Valencia, 1764; Cordoba, 1766; Santiago de Chile, 1776; Buenos Aîres, 1780; Puerto Espafia, 1786; Guadalajara, 1793; Veracruz, 1794; Santiago de Cuba, 1796).

Qui, in tutta evidenza, il xvi secolo non ha una posizione di rilievo particolare. Ma a ciò vi è una spiegazione: la metropoli ha esercitato (anche con la collaborazione del braccio armato del Tribunale dell’Inquisizione) un controllo molto stretto su tutto ciò che si pubblicava e si leggeva nella colonia: dal xvi secolo fino al xvi secolo si insiste, con successo, sull’interdizione di pubblicare in

America qualsiasi cosa che concernesse le Indie!... E per questo che si è verificato il paradosso della creazione di una università di primo ordine come quella di Cordoba nel 1629, ma nella stessa città, la

prima stamperia entrerà in funzione nel 1766. Si possono dunque trarre dal tema dell’editoria poche cose. Piuttosto, occorrerebbe seguire la pubblicazione (in Spagna) di libri che avevano un soggetto «americano» di autori «americani» o «americanizzati». Ma ciò costi-

tuisce l'oggetto di una immensa ricerca che non posso affrontare qui. A questo proposito mi concederò soltanto di ricordare che è nel 1629 che Léon Pinelo pubblica il suo Epitorze de la Biblioteca Oriental y Occidental che costituisce in un certo senso l’atto di nascita della bibliografia americanista e, per ciò stesso, una presa di coscienza di indiscutibile valore. Ancora: a distanza di più di tre secoli, le lotte nei conventi messicani per sapere chi — tra spagnoli e crio/los — deve ricoprire l’incarico di padre superiore possono sembrare manifestazioni folkloristiche. In realtà, si tratta di un fatto storico di grande importanza; come 22 Questa lista è costruita sulla base dei lavori complessivi di quel grande studioso che è stato José Toribio Medina. Per il complesso di questi lavori, cfr. la raccolta in cui è stata riunita la parte essenziale della sua opera sulla storia della stamperia: Historia de la imprenta en los antiguos dominios espatioles de América y Oceania, Santiago de Chile 1958, 2 voll.

143

OPPOSTE

CONGIUNTURE

ha mostrato J.I. Israel ??. Di tale importanza che il papa Gregorio xrv nel 1623 stabilirà l'alternativa, cioè che la direzione di una provincia

per un Ordine sarà assicurata a turno dai fratelli metropolitani (che avevano fino a quel momento il monopolio) e criollos (e ciò malgrado la resistenza dei metropolitani, soprattutto francescani). Molto oltre la vendita degli uffici o maggioraschi, ordini nobiliari o conventi, come dimenticare che se il mondo indiano del Perù

ricostituisce la propria leggenda alla fine del xvi secolo con il grande testo che è la Tragedia del fin de Atabualpa, il mondo bianco e meticcio del Perù stesso (e anche al di fuori del Perù) vede la canonizzazione nel 1671 della prima santa americana: Santa Rosa de Lima? E non è a partire dal 1648 che si istituzionalizza in Messico il culto della Virgen de Guadalupe? Quest'ultima sarebbe apparsa il 9-12 dicembre del 1531, ma è solo a metà del xvi secolo che il culto

vero comincia quando «la delusione dei creoli di sentirsi “coloni”, come a dire che tutto viene “di là” e nulla dipende “da qui”, cominciò a sentire sua questa devozione, questo miracolo di origine nettamente indigena, ma di fioritura creola, nuova e senza radici europee, propria del Messico solamente» ”. Insomma, è il mondo «americano» che a partire dal xvi secolo vuol fare ascoltare la propria voce e che, in una certa misura, ci

riesce. Per meglio capire occorre fare un passo indietro. Noi diciamo la Spagna. Gli spagnoli dicevano «las Espanias», al plurale. Per tre secoli, il sovrano si proclama «Hispaniarum et Indiarum Rex». Non è questione di alcun «Impero» (dei re di Spagna, solo Carlo v sarà imperatore, ma del Sacro Romano Impero). L'insieme di queste Spagne (al plurale!) e di queste Indie costituisce la «Monarquia Universal Espafiola». Perché il plurale? Per una ragione abbastanza semplice che attiene ai diversi modi di accogliere le diverse province della Penisola all’interno della Monarquia: a) per incorporazione al Rezzo o alla Comunidad, il che implica la fusione completa, con la perdita dei tratti originari (così, per esempio, è successo nel caso di Granada); b) per incorporazione alla Corona de Castilla, e in questo caso si ha una semplice unione di due regni (quello incorporato e quello incorporante) nella quale ciascuno dei due mantiene la propria specificità (tale, per esempio, il caso dell'Aragona)”. % Israel, Razas, clases sociales, cit., pp. 108-11. F. de la Maza, E/ guadalupismo mexicano, México 1984, p. 40.

? Cfr. J.M. Ots de Capdequi, E/ Estado espafiol en las Indias, México 1957, pp. 9 ss.

144

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

A quale titolo le province americane fanno parte della Monarquia Universal Espariola? Ufficialmente, sono incorporate alla Corona de Castilla. Ma, come sempre, la differenza tra «hecho y derecho» (realtà e diritto) è enorme. Nei fatti, la Monarchia ha avuto

tendenza a considerare le Indie come dependientes (il termine è di Filippo 1) ?° dalla Castiglia. E, per contro, l’America ha sempre mostrato forti inclinazioni centrifughe e ha avuto tendenza a considerarsi dotata di totale autonomia. Sempre, ho detto. Ma questo fenomeno assume una forza incomparabile esattamente durante il xvi secolo. Autonomia: come una colonia può manifestare la propria autonomia? Quali ne sono i mezzi? Essenzialmente (ma non esclusiva-

mente) attraverso la non osservanza delle leggi. Come nota finemente G. Cespedes del Castillo??: è chiaro che tale sistema offrirà in seguito ampio spazio al gioco degli interessi economici e sociali, e andrà separando, in beneficio di questi, la legislazione dalla realtà storica. Possiamo giungere a dire che il principio della inosservanza della legge conserva nel secolo xvi il suo ruolo di strumento per adattare le leggi alle circostanze tipiche del Nuovo Mondo. In cambio, durante il secolo xvi, questo principio si estese al punto da snaturarlo dei fini per i quali si era costituito, e rimane piuttosto al servizio dei singoli interessi locali o dei gruppi, sia di tipo sociale che di tipo economico: il grado di intensità della sua applicazione nella fase di decadenza è il più preciso indice della progressiva decentralizzazione politica e della crescente autonomia delle Indie spagnole; autonomia e decentralizzazione che aumenteranno senza sosta fino a quando i sovrani borboni — già a ‘ secolo xvm avanzato — non si applicarono a mettere in atto la loro politica di riforme del centralismo e della uniformità.

Cosa significa «crescente autonomia»? Dopo le indicazioni che ho fornito prima, risponderò in modo quasi paradossale (ma meno di quanto possa sembrare). Con alcune considerazioni sulla corruzione”. Un fenomeno studiato troppo spesso sotto l’angolazione 26 Citato in Cespedes del Castillo, Las Indias en el siglo XVII, cit., p. 491. 2 Ibid., pp. 524-25. Il corsivo è mio. 28 La bibliografia di partenza si compone, certamente, dei pionieristici lavori di J. Van Klaveren, Die historische Erscheinung der Korruption, in ibren Zusammenhang mit der Staats und Gesellschaftsstruktur betrachtet, in «Vierteljahrschrift fiir Sozial-und Wirtschaftsgeschichte», 44, 1957; Die historische Erscheinung der Korruption. II. Die Korruption in den Kapi-

talgesselschaften, besonders in den grossen Handelskompanien, ivi; III. Die internationalen Aspekte der Korruption, ivi, 45, 1958; Fiskalismus, Merkantilismus, Korruption. Drei Aspekte

der Finanz-und Wirtschaftspolitik waihbrend des Ancien Regime, ivi, 47, 1960.

145

OPPOSTE

CONGIUNTURE

dell’etica. Ma la corruzione, nelle sue conseguenze, è un importante segno di autonomia. Il fatto di poter agire al di fuori — e anche contro — gli interessi del potere centrale rappresenta sicuramente un'autonomia ?°. Perché, in tutta evidenza, la corruzione è una cosa

sul piano del potere centrale e un’altra cosa sul piano del potere periferico. Soprattutto quando il centro è rappresentato da uno Stato rigido e debole allo stesso tempo come è certamente il caso dello Stato spagnolo. Non si può ridurre la corruzione ad aspetti aneddotici poiché in realtà si tratta di un fenomeno molto articolato. A monte, vi è la venalità degli uffici. E già questa, come nota Horst Pietschmann?° «permise ai creoli la penetrazione nell’amministrazione spagnola». La corruzione, figlia della venalità degli uffici, raggiunge il proprio apogeo nel xvi secolo?!.Ma non consiste soltanto nell’avvento di funzionari disonesti. Sarebbe troppo semplice. Infatti, la loro possibilità di esercitare questa disonestà è legata (tranne che nel caso delle sacche più alte della burocrazia) all'accordo — l’autorizzazione si avrebbe voglia di dire — dei gruppi oligarchici?. È così che in America la venalità e la corruzione permisero ulteriormente una maggio-

re mobilità sociale attraverso l'ascesa di elementi di modesta origine sociale alla oligarchia burocratica. Si verificò quindi in America #/ contrario di quanto accadde in Europa dove il ceto burocratico [...] chiuse i ranghi costituendosi in gruppo sociale distinto che non ammetteva con grande facilità, come invece nel secolo precedente, elementi nuovi. Questo percorso inverso si deve probabilmente al fatto che in Spagna il guadagno degli impiegati — almeno nei ranghi dell'alta burocrazia — non giunse ad avere — come in America — una importanza tanto grande”.

Nel caso messicano ciò è stato provato con forza da Mark A. Burkholder e D.S. Chandler in un libro il cui titolo è rivelatore: From Impotence to Autority?* nel quale gli autori hanno mostrato come durante il periodo di impotenza dello Stato spagnolo (1687-1750) i

? H. Pietschmann, Burocracia y corrupcion en Hispanoamérica colonial. Una aproximacion tentativa, in «Nova Americana», 5, 1982, p. 29: un articolo magistrale, malgrado il sottotitolo di estrema modestia. 30 Ibid., p. 26. MI0Idi PAZ: AMINA 3 Ibid., p. 26. Il corsivo è mio.

# Cito dall’edizione spagnola: De la impotencia a la autoridad, México 1984, passim e in particolare alle pp. 47 e 203.

146

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

ministri creoli nominati nel Messico rappresentano il 44% mentre quelli di origine peninsulare sono il 51% (il 5% che manca è costituito da casi dall’origine non nota); al tempo della ripresa delle redini (le famose «Riforme») la proporzione sarà rispettivamente di 23% e 75%. Tra il 1687 e il 1750 non solo si tratta di criollos nel senso generico del termine ma un buon numero di questi funzionari sono originari del luogo stesso dove esercitano la loro funzione. Si assiste quindi ad una forte localizzazione degli impieghi pubblici. Le conseguenze saranno malefiche, certamente, perché questo fenomeno conduce alla corruzione; ma anche benefiche, perché in tutta

evidenza questo processo di creolizzazione delle funzioni amministrative conduce ad un rilasciamento dei legami con la metropoli. Insomma, quali che siano gli oggetti di ricerca (vita nei conventi o ordini nobiliari, burocrazia o università) si assiste ad una creoliz-

zazione dell’ America. La cosa è oggi di una chiarezza accecante nel caso del Perù grazie ai lavori di B. Lavallé: tutti gli aspetti che ho indicato e altri ancora (la categoria spazio, per esempio) mostrano

bene l’affermazione di uno spirito creolo che sostituisce il semplice spirito del colono”. Se ciò è molto chiaro nel caso del Perù, numerosi segni sembrano confermare la stessa tendenza in altri paesi dello spazio americano. Vorrei qui fare allusione alle ammirevoli intuizioni di Octavio Paz in quello che è a mio avviso il suo miglior libro. Nel Laberinto de la soledad (prima edizione 1950) egli indicava in mezzo ad altri illuminanti passaggi che «Dalla fine del xvn secolo [ma si potrebbe anticipare la data] i legami che univano Madrid coi suoi possedimenti avevano cessato d’essere quei vincoli armoniosi

che uniscono le parti di un organismo vivente. L'impero sopravvive grazie alla perfezione e alla complessità della sua struttura, alla sua grandezza fisica e all’inerzia»°. Il lettore mi vorrà permettere di aprire una parentesi. Ho detto fin dall’inizio che in queste pagine pongo deliberatamente l'accento

» B. Lavallé, Recherches sur l’apparition de la conscience créole dans la vice-royauté de Lima, Lille 1982, 2 voll. e, dello stesso autore, De l’esprit colon è la revendication créole, in

Esprit créole et conscience nationale, Paris 1980, pp. 9-36; Conception, représentation et ròle de l'espace dans la revendication créole du Pérou, in Espace et identité nationale en Amérique Latine, Paris 1981; Exaltation de Lima et affirmation créole au Pérou, in Villes et nations en

Amérique latine, Paris 1983; Les ordres religieux et l'affirmation de l’identité créole dans la Vice-Royauté du Pérou (XVle et XVIle s.), in Église et politique en Amérique Hispanique, Bordeaux 1984. 36 O, Paz, El laberinto de la soledad, México 19697, trad. it. I/ labirinto della solitudine,

Milano 1982, pp. 149-50. Ma cfr. anche le pagine precedenti.

147

OPPOSTE

CONGIUNTURE

sugli aspetti economici della crisi europea del xvn secolo. Inevitabilmente, ho dovuto fare a meno di alludere agli aspetti politici. Ma evidentemente vi sono altri aspetti che ho lasciato da parte. Mea culpa, mea maxima culpa... E dunque, per farmi perdonare almeno in parte, farò allusione a questi altri «aspetti». Pensandoci bene, esaminarli comporta un problema molto grave. La crisi economica porta ad una crisi sociale, alla crisi «cultu-

rale», per dirla in una parola, 0, inversamente, è quest’ultima che è il vettore della crisi economica? Se ci atteniamo ad una semplice cronologia non ci sono dubbi che la crisi sociale, culturale, precede la crisi economica. Nei paesi cattolici, la contro-riforma ha certamente avuto un ruolo importante nel generale ripiegarsi sul piano religioso, è evidente, ma anche sul piano sociale e culturale. Quello che Braudel ha chiamato «tradimento della borghesia» è certamente anteriore alla crisi economica. Il malessere politico che esploderà con un punto di massimo vigore un po’ ovunque nell’Europa durante gli anni quaranta del secolo xvII, comincia a manifestarsi in diversi paesi (Spagna, Italia ecc.) fin dalla fine del secolo xvi. Gli investimenti in beni-rifugio cominciano anch'essi prima del secolo xv. Tutto porterebbe quindi a ritenere la «crisi» (laddove crisi vi è stata) economica quale conseguenza delle incertezze, dei dubbi, dei rivolgimenti in altri settori della vita collettiva. Eppure, non riesco ad accettare il primato dell’influenza (l’uovo) di questi fattori sullo scoppio della crisi economica (la gallina). Non riesco a convincermi di questa priorità. E ciò per la semplice ragione che nonostante tutto, mi sembra che le strutture sociali, culturali,

«spirituali» continuino a tenere ancora per lungo tempo. Così, per esempio, è certo che il malessere politico — come ho detto sopra - si manifesta già durante l’ultimo terzo del xvi secolo, ma lo scoppio (sotto forma di rivolte e anche di una rivoluzione, la prima vera rivoluzione: quella inglese) avrà luogo soltanto durante gli anni quaranta del xv secolo. Per contro riconosco volentieri che la crisi economica è stata resa più grave anche dagli effetti che derivavano dalla «crisi» degli altri aspetti. Ad ogni modo, tengo a sottolineare qui che l’obiettivo principale di questo libro è la crisi economica europea in opposizione alla situazione dell’ America iberica.

Mi domando se ho avuto ragione di lanciarmi in questa avventu-

ra di una comparazione della vita economica dei due continenti per 148

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

un periodo così lungo. So infatti che queste pagine non mi procureranno, per lo più, che attacchi. Eppure mi sembra che — anche se non si dovessero accettare le mie conclusioni — ciò che ho appena detto abbia il merito di incoraggiare la riflessione su alcuni problemi rilevanti. Taluni di ordine ormai «classico» e largamente studiati, come la crisi «generale» del xvn secolo. Malgrado le negazioni che vengono da parte di certi storici che pensano di dire qualcosa di nuovo affermando (ma senza prove) il contrario di ciò che altri (gli Hobsbawm, i De Vries, gli Hill, i Kriedte e tanti altri) hanno sostenuto e, mi

pare, dimostrato con la forza di argomenti e documenti, una crisi generale è ben esistita in Europa. E questa «generalità» esiste quali che siano i significati che si attribuiscono al termine «crisi». Vi è stata crisi politica in Inghilterra come in Spagna o nell'Impero ottomano e ciò è successo quale che sia lo sbocco di queste crisi indiscutibilmente diverse tra di loro. Vi è stata una crisi economica tanto in Italia che in Inghilterra e ciò anche se, in un caso, la crisi è stata

mortale e, nell’altro, la si può definire come una crisi di sviluppo. E impossibile negare che questo secolo sia stato scosso dalle rivolte: dalla Catalogna a Napoli, da Messina alla Turchia, dalla Russia all’Inghilterra, le tensioni si sono manifestate con violenza. Da questa deflagrazione, un solo paese uscirà totalmente rinnovato: l’Inghilterra. Quali che siano le «ragioni» della Rivoluzione inglese e della sua evoluzione, è certo che l'Inghilterra del 1700 non ha più niente in

comune con quella del 1639. Altrove, vi sono situazioni diverse da paese a paese. Ma, quali che siano queste differenze, resta che la struttura profonda di questi paesi non è cambiata totalmente durante il xvi secolo. Ci si può — se si vuole — entusiasmare davanti allo stato assoluto di Luigi x1v, ma resta il fatto che la struttura nobiliare (erede della tradizione feudale: si vorrà bene accordarmi questo!)

dello Stato e della società francese prospera. Altrove, si crea un netto ritorno al servaggio ovvero una rifeudalizzazione. Termine maledetto! Non rinnego di aver usato questo termine circa quarant'anni fa. Per me voleva indicare d’un tratto, mettere sotto la stessa etichetta, un insieme di fenomeni. Così, per esempio,

mi sembra che si possa definire rifeudalizzazione il fatto che nel 1633 il Senato veneziano vieti l'emigrazione dei contadini della Repubblica (anche se non portano con sé i propri attrezzi e il bestiame). E allo stesso modo, mi sembra che si possa ricondurre sotto il

termine rifeudalizzazione il fatto che si verifichi ciò che è stato pomposamente definito un «ritorno alla terra» del patriziato veneto. Ho 149

OPPOSTE

CONGIUNTURE

affermato altre volte che avevo dubbi (e più che dei dubbi) sugli «investimenti» in denaro che questi patrizi avrebbero fatto nelle loro proprietà e che, piuttosto, il vero investimento era fondato su uno sfruttamento più crudo dei contadini. E mi sembra ancora che la disposizione del 1633 e questo famoso «ritorno alla terra» formino un tutt'uno che merita di essere definito come rifeudalizzazione. È per ciò che si è creduto possibile dire che ero «un intellettuale che si è avvicinato al marxismo negli anni recenti»? A dire il vero non ho mai fatto parte di quella che si suole chiamare storiografia marxista, nella quale occorre riconoscere che si ritrovano alcuni dei migliori storici della seconda metà del nostro secolo. Ho letto Marx; lo ho anche studiato. Ma non vedo in cosa questo studio mi abbia reso «marxista». Ho anche letto la Surzzza Theologiae di San Tommaso (e penso che sia un libro la cui lettura dovrebbe essere resa obbligatoria per qualsiasi aspirante-storico) ma non credo per questo di essere diventato tomista! E ancora possibile essere semplicemente se stessi, senza essere costretti a portare un’etichetta?

Il termine «feudale» (e tutto ciò che vi è collegato) sembra avere la conseguenza di far rizzare il pelo di certi storici che non trovano altra argomentazione che definire marxista la persona a cui viene in mente di servirsi di questo termine. Notate che questa strana allergia è recente perché non si capirebbe altrimenti come uno storico quale E. Coornaert — che non era certamente marxista e che aveva una solida conoscenza della storia economica del Nord d’Europa dal medioevo fino al xvm secolo — potesse scrivere le righe seguenti: Le compagnie privilegiate accettavano la sovranità feudale dei loro governi; adempivano ai loro obblighi di vassalli, e ancora nel xvi secolo cedevano a loro volta dei feudi secondo le forme tradizionali. La occupazione francese del Canada fu in gran parte organizzata applicando un regime signorile rimasto quasi intatto. E nel xvm secolo la Compagnie de la Louisiane continuò a costituire ducati, marchesati, contee e baronie, sog-

getti alla sanzione reale. Gli inglesi fecero altrettanto in molte delle loro colonie americane, Walter Raleigh creò parecchi feudi in Virginia e le due Caroline furono degli stati feudali. Ma erano le compagnie olandesi a fornire gli esempi più tipici di questa tendenza”.

7 G. Procacci, Le cas de l’Italie. Commentaire, in Transition du féodalisme, cit., PI25I

E. Coornaert, European Economic Institutions and the New World: the Chartered Companies, in The Cambridge Economic History of Europe, vol. rv, Cambridge 1967, trad. it. Le istituzioni economiche europee e il Nuovo Mondo. Le compagnie privilegiate, in Storia Economica Cambridge, IV, p. 262.

150

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

Si noti che l'affermazione è di peso: parlare di feudalità a proposito delle compagnie di commercio che sarebbero secondo alcuni segno indiscutibile dell’affermazione del capitalismo! Potrei molto facilmente allargare la lista degli studiosi che in nessun modo hanno radici marxiste e che, ciò nonostante, riconoscono che durante il xvi secolo (e ancora durante il xvi), molte imprese, che corrente-

mente sono presentate come vivaio del capitalismo, in realtà non lo erano. Se potevano affermare una cosa simile (un vero e proprio sacrilegio!) è solo perché non si fermavano ai proventi favolosi, alle somme «investite», ma riflettevano sulle condizioni reali di produzione e sapevano vedere che i decantati investimenti non erano tali: i veneziani che piazzavano soldi nelle compagnie olandesi si aspettavano in cambio una rendita e non un profitto. La crisi generale, dunque, è certa: una crisi che ha per sbocco un servaggio manifesto o una rifeudalizzazione secondo le diverse regioni europee. Soltanto in Inghilterra, la rivoluzione ebbe conseguenze prodigiose. Non affronterò qui il complesso problema delle cause, per il quale rinvio al piccolo libro classico di Lawrence Stone? la cui pagina finale mi sembra degna di essere interamente riprodotta: Nonostante il fallimento della rivoluzione, nonostante la restaurazione

della Monarchia, dei Lords e della Chiesa anglicana, nonostante il totale arresto delle riforme del sistema elettorale, del diritto, dell’amministrazio-

ne, della Chiesa e dell’istruzione per quasi duecento anni a venire, nonostante dopo la rivoluzione la struttura sociale divenisse assai più gerarchica e immobile che non prima, qualcosa comunque sopravvisse. Sopravvissero le idee sulla tolleranza religiosa, sui limiti del potere dell’esecutivo centrale nei suoi interventi contro la libertà personale delle classi abbienti, su una vita politica fondata sul consenso di un settore sociale molto ampio. Queste idee ricompaiono negli scritti di John Locke, e trovano espressione pratica nel sistema politico vigente nei regni di Guglielmo m ed Anna. I suoi aspetti caratterizzanti furono un elettorato molto ampio e rumoroso, orga-

nizzazioni di partito ben sviluppate, e il trasferimento dei poteri decisivi al Parlamento. Il Bill of Rights (Legge sui diritti), il Toleration Act (Decreto sulla Tolleranza) e un Mutiny Act (Decreto sulle sommosse) annuale limitarono i poteri repressivi dell'esecutivo e, insieme con le altre conquiste strappate dai giudici del diritto consuetudinario, fecero della libertà personale e politica delle classi abbienti inglesi l'invidia di tutta l'Europa sette-

3? L. Stone, The causes of the English Revolution (1529-1642), London 1972, trad. it. Le cause della rivoluzione inglese, Torino 1982, pp. 182-83.

151

OPPOSTE

CONGIUNTURE

centesca. Questi benefici non toccavano i poveri, che rimasero alla mercé di chi li sovrastava nella scala sociale, ma l'affermarsi di quelle idee come patrimonio comune della nazione politica fu un fatto assolutamente nuovo. Si apriva così la strada ad un ampliamento di quei privilegi verso gli strati inferiori, e si stabiliva un modello da utilizzare in altri luoghi, in altri momenti. E proprio questo lascito ideale ci permette di affermare che la crisi inglese del secolo xv è la prima «Grande Rivoluzione» nella storia del mondo, e costituisce dunque un avvenimento di fondamentale importanza nell’evoluzione della civiltà occidentale.

Niente di simile altrove, in nessun luogo. Discutere sulle differenti forme di assolutismo considerandole come l’espressione di non so quali cambiamenti in direzione di uno Stato «moderno» significa non capire che la celebre frase di Luigi xrv: «L’Etat, c'est moi» indica semplicemente che lo Stato, nei fatti, era debole e, come ogni

Stato debole, era un buon ricettacolo per la feudalità (sia pure una feudalità di corte).

La crisi generale economica appare quindi in Europa in modo netto. Due paesi se ne salvano. Il primo: i Paesi Bassi. Ma il suo successo è di ordine quantitativo. La struttura profonda della sua economia resta la stessa, simile a quella delle città del medioevo: commercio, banche. Certo, ci sono innovazioni tecniche ma lo spirito ‘° resta lo stesso. Le quantità di merci trattate sono infinitamente

più grandi che in qualsiasi città del medioevo ma l’«animus» è lo stesso che per il passato. D'altronde, occorre essere giusti. Come si può domandare ad un paese di appena due milioni di abitanti di fare di più di ciò che ha fatto? L’altro paese: l'Inghilterra. Qui, i cambiamenti quantitativi esistono. Non sono altrettanto importanti che nei Paesi Bassi ma i segni di una crescita si manifestano. E, in più, ci sono anche i segni di uno sviluppo fondato su principî nuovi. È in Inghilterra, e soltanto in Inghilterra, che si assiste nel corso del xv secolo all’incubazione del capitalismo, quello vero, senza aggettivi complementari (commerciale, per esempio) né avverbi (pre-, proto-...). Altrove, vi è depressione o stagnazione quantitativa e, soprattutto, non si vede alcun segno di cambiamento qualitativo. È ciò anche nelle oasi che è dato trovare qua e là. Perché pur affermando che la crisi è stata «generale», riconosco che vi sono delle regioni (e degli

‘ L'uso di questo termine mi varrà l’epiteto di «idealista»: una etichetta che mi è già stata appiccicata da A. Molho, Le cas de l’Italie. Commentaire, in Transition de féodalisme, cit., p. 16.

152

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

uomini) che ad essa sono sfuggiti. So benissimo che i banchieri genovesi continuano a fare buoni affari (il che permetterà loro di costruire i mirabili palazzi della Via Nuova che, iniziata a metà del

secolo xvi, sarà completata durante la seconda metà del xvi secolo). Ma il problema è il seguente: stiamo facendo una storia dell’economia o una storia delle ricchezze? Perché infatti non sono la stessa cosa. La ricchezza di un gruppo sociale limitato in numero non significa assolutamente prosperità di un’economia nel suo insieme (vi sono casi di ricchezze favolose accumulate da certi gruppi sociali nei paesi sotto-sviluppati di oggi). Allo stesso modo, so bene che vi sono dei successi a livello artigianale qua e là, nell'Italia del Nord per esempio. Ma gonfiarle ad arte non serve a niente. Peggio: ci fa dimenticare che queste stesse

crescite hanno costituito un elemento di freno per gli sviluppi futuri (il grande ritardo accumulato per il processo di vera industrializzazione per la stessa Lombardia mi pare significativo). Questo insieme di considerazioni conduce ad un problema maggiore: il capitalismo. L’opera di Immanuel Wallerstein è a mio avviso uno dei libri più importanti della seconda metà del secolo xx. Lo dico in tutta sincerità anche se non ne condivido le tesi fondamentali. Ed ecco perché. Wallerstein afferma”: Volgiamoci ora alla nostra interpretazione della contrazione tra il 1600 ed il 1750. Se si analizza il periodo 1450-1750 come una lunga «transizione» dal feudalesimo al capitalismo, si rischia di materializzare il concetto di transizione, perché così facendo noi riduciamo continuamente i periodi di feudalesimo «puro» e di capitalismo «puro» e prima o poi arriveremo a zero, restando solamente con una transizione. Niente male: tutto è transizione; ma ogni volta che facciamo di un partitivo un attributo universale,

spostiamo soltanto il problema terminologicamente. Vogliamo sapere quando, come e perché avvennero notevoli alterazioni delle strutture sociali.

E sono totalmente d’accordo. Il solo dubbio è il seguente: le «majors alterations» in quale proporzione devono intervenire? Uno per cento di capitalismo e 99% di sistema feudale formano cosa? Dove si situa la linea di frontiera:

a 50%, a 759%, a 90%? Si può

rispondere che il problema è quello di vedere anche dei segni appena percettibili nell’insieme del sistema feudale come elementi del futuro sviluppo. Non sono d’accordo, ma mi sta bene di accettare 41 Wallerstein, I/ sisterza mondiale dell'economia moderna, cit., vol. 11, pp. 138-40.

153

OPPOSTE

CONGIUNTURE

questa proposizione. Ma ad una condizione: che questo cambiamento costituisca davvero una pre-condizione di uno sviluppo futuro continuo. Vale a dire che ciò che mi interessa non è di vedere segni positivi se questi abortiscono rapidamente. È ciò che succede con la maggior parte dei pretesi segni premonitori. Per me, le vere pre-

condizioni si situano nell’Inghilterra del xvn secolo seguite dalle «majors alterations» nello stesso paese durante il xvm secolo. Quali erano queste pre-condizioni? a) un cambiamento reale nella struttura politica (la rivoluzione politica);

b) un cambiamento nelle forme di produzione agricola (l’Inghilterra alla fine del xvi secolo giungerà ad essere esportatrice di una quantità importante di cereali nonostante l'aumento della popolazione);

c) un cambiamento nella produzione «industriale» (la proto-industrializzazione). Riassumo, naturalmente. Ma mi sembra che questi tre fattori si manifestino congiuntamente soltanto in Inghilterra. Per concludere, mi sembra che si possa dire che il fatto indiscutibile che l'Olanda durante il xvn secolo sia stata il «magazzino del mondo», non ha condotto questo paese a niente o quasi. Per contro, è durante il xvn secolo che l'Inghilterra, pur essendo un buon «magazzino», mette in piedi le pre-condizioni per diventare (come in effetti diventerà) «l'officina del mondo». Ed è il fatto di produzione che conta e non il fatto commerciale. O, per meglio dire, i fatti commerciali contano quando riflettono fatti produttivi e non quando si limitano ad essere puramente parassitari. In quest’ultimo caso, ci si può anche domandare se non sono magari nocivi per uno sviluppo ulteriore. Tutto ciò concerne l'Europa. A questa crisi generale (con le eccezioni che ho indicato) cosa corrisponde nell'America spagnola? Cominciamo con il politico. Prima constatazione d’insieme: se l'Europa è agitata da tutta una serie di movimenti più o meno violenti (e da una grande rivoluzione: quella inglese), in America niente o quasi di tutto ciò. Alcune lotte tra diversi gruppi regionali spagnoli (soprattutto la coalizione di tutti o quasi contro i baschi) a Potosi* o in Messico #. Oppure, lotte # A. Crespo, La guerra entre Vicuiias y Vascongados, La Paz 1975. 4 Cfr. Israel, Razas, clases sociales, cit., pp. 116 ss.

154

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

sorde tra partigiani e avversari della politica «riformatrice» di alcuni viceré (come a México nel 1624, nel 1642-49, e nel 1660-65)#. O

alcune sommosse molto «congiunturali» (per esempio il «motîn del pan» a México nel 1692) #. Ma nell’insieme il secolo è tranquillo. È talmente tranquillo che la popolazione indigena praticamente non si muove. Certo, si possono trovare qua o là accenni di cospirazione,

generiche aspirazioni alla rivolta che non oltrepassano le intenzioni. D'altronde, i testi sono abbastanza chiari: durante il xvn secolo, la

popolazione sembra cercare — sul piano dell’azione — delle soluzioni strettamente individuali ai suoi problemi. Un secolo di pace. E questa caratteristica persiste nonostante le poche scosse che ho appena indicato. Piuttosto, occorre segnalare l’esistenza di altre tensioni: penso ai grandi movimenti anti-ebraici che si sono manifestati soprattutto a México (1642-49), a Lima (1635-39)#, e un po’ ovunque in America‘. Senza ombra di dubbio, la componente religiosa esiste: la «purezza» dell'ambiente impone che i cripto-ebrei siano eliminati. Ma questi cripto-ebrei sono anche (e soprattutto) degli stranieri (essenzialmente portoghesi, ma anche fiamminghi e italiani), mercanti e — non tutti, ma in buona misura — ricchi: a Lima,

gli (ebrei) portoghesi «erano padroni del commercio», «erano padroni del paese, spendendo e trionfando»?°. Il grande autodafé del 1639 a Lima, come quello di México nel 1649 («il più grandioso e costoso che abbia mai avuto luogo fuori dalla penisola iberica»?!) risolveranno il problema. Vi saranno ancora dei «judaizantes» che saranno perseguiti, torturati, bruciati durante il xvi secolo ma — a 4 Ibid., pp. 139 ss., 220 ss., 250 ss. 6 Ibid., pp. 134 ss. 4 Se vi è un movimento sociale è piuttosto da parte dei meticci: ma conosciamo male questo mondo emergente dei meticci. Ad ogni modo, cfr. A. Ascota, Conflictos sociales y politicos en el sur peruano (Puno, La Paz, Laicacota), in Primeras Jornadas de Andalucia y América, La Rabida 1981. 4 Israel, Razas, clases sociales, cit., pp. 130 ss. E cfr. anche S. Alberro, Inquisition et société au Mexique, México 1988, pp. 269 ss. 4. Cfr. J. Toribio Medina, Historia del Tribunal de la Inquisicion de Lima, Santiago de Chile 1956, vol. 11, pp. 495-146. E cfr. anche G. de Reparaz, Os portugueses no Vice-Reinado do Peru, Lisboa 1976, pp. 29 ss. Cfr. anche T. Saignes-T. Bouysse-Chassagne, Dos identidades confundidas: criollos y mestizos en Charcas (siglo 17), in Mestizaje y religion en los Andes, a cura di L. Millones e H. Tomoeda, Osaka 1991. 4. Come punto di partenza occorrerà riferirsi all’opera complessiva di J. Toribio Medina: oltre al lavoro indicato alla nota 48 si vedano anche i volumi dedicati al Messico (Santiago de Chile 1905), al Cile (Santiago de Chile 1890, 2 voll.) e quelli dedicati alle province del Rio de la Plata (Santiago de Chile 1899). 5 Toribio Medina, Historia del Tribunal de la Inquisicion, cit., p. 46. 31 Israel, Razas, clases sociales, cit., p. 135.

155

OPPOSTE

CONGIUNTURE

cominciare dalla metà del secolo — la fede è salva. Il monopolio creolo anche”.

Insomma, nello spazio americano, ci si imbatte più in un conso-

lidamento del sistema che nella sua messa in discussione. Tutti (bianchi e indiani) sembrano tentare di trovare il loro posto all’interno di questo sistema: gli uni occupano dei posti amministrativi, gli altri (gli indiani) trovano grazie al rilasciamento generale la possibilità di «sparire» (un modo come un altro — anche se relativo — di

garantirsi la libertà). La creolizzazione del continente si afferma in forme diverse un po’ ovunque nel continente stesso. Naturalmente anche questo non modifica le caratteristiche profonde della dominazione, ma ciò che voglio dire è che nel corso del xvn secolo, questa

dominazione non sembra essere messa in discussione. Durante il xvmi secolo, le rivolte fiscali dei bianchi e la grande ribellione di Tupac Amaru e di Tupac Katari mostreranno bene come il passaggio dal periodo dell’impotenza dello Stato centrale (e dunque la «libertà» locale) al periodo dell’autorità sia insopportabile. Sul piano economico la situazione americana, in termini quanti-

tativi, è chiaramente positiva come ho cercato di mostrare. Ma è forse giunto il momento di mettere a confronto in una piccola tabella sinottica, che riprende ciò che è stato illustrato sopra, la situazione europea e quella americana: a) b) c) d)

e)

f) g) h) i)

popolazione popolazione agricola occupazione dei suoli prezzi agricoli prezzi industriali salari circolazione monetaria ?? produzione industriale produzione mineraria ’4

j) commercio interno k) commercio trans-oceanico

Europa — > = —

America spagnola

+

+++++

-

++++

_

+0o0o090090+t+o0

++++4+1

°° La mia insistenza sui movimenti anti-ebraici come espressione di tensione sociale non

deve stupire: ovunque e sempre e a tutti i livelli le tensioni sociali hanno trovato una «soluzione» nell’antisemitismo: cfr. a questo proposito la grande opera di Léon Poliakov, Histoire de l’antisémitisme, Paris 1955-61, 2 voll., trad. it. Storia dell’antisemitismo, Firenze 1974-76.

In particolare, cfr. vol. n, De Mabomet aux Marranes, pp. 278 ss. #.Alludo, evidentemente, alla massa monetaria in Europa senza considerare le monete (e,

più in generale, i metalli preziosi) esportati verso l’Estremo Oriente. % Forse per quanto riguarda l'Europa potremmo mettere un segno positivo (+), qualora

prendessimo in considerazione l'aumento dell’estrazione di carbone e di ferro in Inghilterra.

156

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

Insomma in tutti i settori (tranne l’ultimo) assistiamo ad una congiuntura inversa tra i due assi continentali. E la messa in luce di questo problema mi sembra giustificare le pagine che presento qui al lettore: anche se egli dovesse rifiutare le mie conclusioni, sarà portato a riflettere su un problema maggiore sul quale ritornerò più avanti. Ma prima di parlarne, occorre segnalare che a questo gruppo di segni occorre aggiungerne due: il volume e il tasso di prelievo (feudale e statale). Il volume, in se stesso, non ha grande significato.

Ciò che conta è il tasso di prelievo, cioè la pressione esercitata sugli individui per effettuare questo prelievo. Ora, durante il xvi secolo questa pressione, in Europa, è cresciuta: è ciò che io chiamo rifeudalizzazione. E a questo riguardo occorre precisare che si tratta ormai di un «feudalesimo centralizzato» ”. E in America? I segni sono tutti (tranne uno) inversi rispetto a quelli che ho

indicato per l'Europa. D'altra parte, cosa succede del prelievo? Il volume aumenta certamente, ma il tasso unitario di prelievo diminuisce (il controllo sugli indiani diventa più difficile). Qui, nel contesto americano, nessun feudalesimo centralizzato. Ma ciò non

significa la liquidazione del sistema feudale non centralizzato il quale — con intensità diverse — ha sempre caratterizzato la vita coloniale americana. Resta un problema al quale facevo allusione precedentemente. Nella tabella, il commercio transoceanico indica tanto per l'America quanto per l'Europa un segno di aumento. Perché? E qual è il significato? Il perché è legato alla espansione olandese einglese (e più tardi francese) nel mondo: in Oriente, Estremo Oriente come pure in America; lo si è indicato nel quarto capitolo. Questa pressione espansionista si traduce in un aumento delle trattazioni commerciali. Se l’Europa (ma un’Europa limitata geograficamente perché anche la Spagna— pur detentrice di un monopolio!—perde colpi) vede aumentare il suo commercio transoceanico, l'America partecipa di questa crescita. E si giunge al problema del significato. Si potrebbe credere che si tratti dell’inserimento dell'America nell’economiamondo. Confermo qui la mia sincera ammirazione per l’opera di Immanuel Wallerstein ma confermo anche i miei dubbi.

Ma, per l’indicazione negativa (-) mi riferisco soltanto ai metalli «nobili» (fino al rame). 5 Bois, Crise du Féodalisme, cit., p. 364.

157

OPPOSTE

CONGIUNTURE

Ho a lungo lavorato su prezzi e monete; su commercio e banche. Non rinnego una riga di queste vecchie ricerche. Ma devo dire che ho capito ad un certo momento che il punto principale della vita economica era costituito dal fattore produzione e non (per usare un solo termine) dalla distribuzione. È il complesso della produzione che conta e non la parte commercializzata. Quest'ultima, nelle economie pre-industriali, non rappresenta che poca cosa... Ho anche capito che se si vuole comprendere qualcosa della vita economica di un continente come quello americano, bisogna vederlo dall’interzo e non esaminandolo dall’osservatorio europeo. È la ragione per la quale non credo all’«economia-mondo», poiché questa, per come è stata teorizzata da Wallerstein, Braudel e altri, è troppo fondata sul commercio estero, la banca, i problemi

monetari, per poter dare un’idea reale dell’evoluzione interna dell’insierze dell'economia del mondo e mi sembra che dietro a questa economia-mondo vi sia — ad un livello infinitamente più elevato — la vecchia storia coloniale. Lasciamo da parte il fatto che con un po’ di buona volontà si possa parlare di economia-mondo a proposito dell’Impero romano: il bel libro di J. Innes Miller? mostra bene quali connessioni esistano nel commercio di lontananza fin dall’antichità. Lasciamo da parte anche il fatto che per il medioevo, Fritz Rorig aveva parlato di un’economia-mondo”. Quello che conta, è il fatto di sapere, per esempio, cosa rappresenta la presenza di imbarcazioni europee nei mondi nuovi (come l'America o anche l'Asia, che si può considerare terra nuova nella misura in cui, a partire dal xvi secolo, la si può raggiungere per via di mare) per l’insieme dell'economia di questi continenti. Non oso rispondere per ciò che è dell’ Asia ma, per l’America, sarò categorico: quasi niente. L'impatto delle imbarcazioni spagnole, francesi, inglesi, olandesi (le medesime alle quali io stesso ho fatto allusione nel quarto capitolo) è quasi nullo sulle strutture profonde americane. Costituisce soltanto un buon termometro per misurare la capacità di certi gruppi sociali (non possiamo chiamarli «classi» né in senso marxista né in altro senso) di assorbire i prodotti europei. E il resto? Credere, per esempio, che l’arrivo di tessuti europei abbia contribuito alla de-industrializzazione dell’America spagnola fin dal xv secolo, significa applicare al xvn modelli validi (e non del tutto) per il x1x secolo.

°° J.I. Miller, The Spice Trade of the Roman Empire 29 B.C. to A.D. 641, Oxford 1969.

7 F. Rérig, Mittelalterliche Weltwirtschaft, in «Kieler Vortrage», 1933, Pez!

158

ALCUNE

CONSIDERAZIONI

FINALI

Per riprendere ciò che ho detto qualche pagina sopra, vorrei sottolineare ancora una volta che l’espressione «fabbrica del mondo» applicata all'Inghilterra del xx secolo è relativamente accettabile, l’altra espressione «magazzino del mondo» applicata all’Olanda del xvi è certamente esagerata. Messa da parte l’integrazione dell'America spagnola in questa pretesa economia-mondo capitalistica, resta il fatto più importante della congiuntura inversa tra America e Spagna (e l'Europa nel suo insieme, fatta eccezione per l’Inghilterra e l'Olanda).

159

INDICE DEI NOMI

Abel, W., rx, 6n, 7, 11 en, 12en,25en, 47.en,50'en,52 en, 97 en, 118n, 137n

Aguirre Beltran, G., 38n Alberro, S., 155n Alden, D., 106 e n Amaral Lapa, J.R. do, 77n Ancona, C., rx Andrien, K.J. 17 e n, 142n Angeles Romero Frizzi, M. de los vedi Los Angeles Romero Frizzi, M. de

Anna Stuart, regina d'Inghilterra, 151 Antoniadis-Bibicou, H., 90n Aranovich, C., 34, 35n, 36 Arcila Farias, E., 32 e n, 73n, 126n, 130n Arcondo, A., 98, 104 e n Arduz Egufa, G., 83n Ascota, A., 155n Aston, T., 3n, 56n, 138n Aymard, M., rx, 19, 117n, 120n

Baasch, E., 60n Bairoch, P., rx, 6n, 7, 27 e n, 36, 37n, 62n, 66n

Bakewell, P.J., 15 e n, 83n, 84n Barbour, V., 61n, 138n

Bargall6, M., 83n Barkan, O.L., 90n

Bellettini, A., 24 e n Bergier, J.F., x, 27n, 28n, 60n, 63 e n

Bernal de Bugeda, D., 140n Berov, L., 90n Bertrand, M., 69n, 70n, 130n Besio Moreno, N., 125n Beutin, L., 116n, 119 en Biernat, C., 121 n Binz4es27n Biraben, J.N., 13, 20n, 21n, 29 e n, 37-38, 44n

Birago Avogadro, G.B., 4 e n Bisaccioni, M., 4 e n Bloch, M., 53 e n, 54 en, 55 en

Blondel, L., 63n Boccolini, R., 103n

Bogucka, M., 90n Bois, G., 56n, 157n

Bolts, J., 118n Bonilla, H., 16n, 79n Borah, W., 15 e _n, 32n, 34n, 37n, 76n, 79 en Boserup, E., 1ln Botero, G., 27

Bourliaud, J., 43n Bouysse-Chassagne, T., 155

Barriga Villalba, A.M., 92n

Boxer, C.R., 74n, 129n Brading, D.A., 82 e n, 83n Bradley, P.T., 127n

Barros Arana, A., 34n

Braudel, F., rx, 3n, 8, 22n, 25n, 33n, 88n,

Barnett, G.E., 88n

Bastide, R., 46 e n Batou, J., 29n Bazant, J., 78n

Beche, famiglia, 62n Becher, S., 87n

95, 115n, 117n, 148, 158

Brecht, B., 9n Brito Figueroa, F., 75n Brown, K.W., 104 e n, 112n Brown, V.L., 128n

INDICE

Buescu, M., 46n, 129n Burga, M., x, 44, 45n Burkholder, M.A., 146

Caillavet, Ch., 79n Calvo, T., 38n Campodonico, P., 61n Canales, P., 92n Carabarin Garcia, A., 17 e n, 78en Carlo v, imperatore, 144

DEI NOMI

Deprez, P., 43n

Devèze, M., 127n De Vries, J., 3n, 14n, 47n, 59n, 149 Diaz-Trechuelo Spinola, M.L., 122n Dobb, M., 60n Dobrener, J.F., 43n Dopsch, A., 90n Duby, G., 47n

Dupàquier, J., 24 e n

Carmagnani, M., rx, 38n, 45 e n, 73n, 111n, 152le n Caron, P., 56n Carus-Wilson, E.M., 61n

Einaudi, L., 5n Elhuyar, F. de, 92n

Casas, B. de las vedi Las Casas, B. de Cespedes del Castillo, G., 14n, 46n, 141 e

Ergang, R., 10n

n, 145 en

Ellinger Bang, N., 121n Elliott, J.H., 138, 139 e n Escobar de Querejazu, L., 79n Ewald, U., 68n

Chandler, D.S., 146 Charpentier, E., 21n

FExquemelin, A.O., 132n

Chaudhuri, K.N., 120n Chaunu, H., 16-17, 33n, 76n, 122, 130n Chaunu, P., 17, 33n, 76n, 122 e n, 124n,

Farris, N.M., 42n

130n

Chevalier, F., 75n Chiaramonte, J.C., 15n, 37n Ciano, C., 115n

Cipolla, C.M., 85n, 122n, 136n Clark, P., 27n Clayton, L.A., 77n Colbert, J.B., 7, 122 Coleman, D.C., 58n, 138n Colmenares, G., 32n, 70 e n, 9n Cook, N.D., 32n, 39n, 40n, 41n, 43n Cook, S.F., 32n, 37 e n Coornaert, E., 150 e n

Corbett, J.S., 116n Cordova Bello, E., 127n Costa, N.C. da, 9ln

Craig, J., 85n Crespo, A., 154n

Fauve Chamoux, A., 12n

Fernandez Tejedo, I., 42n Filippo 1, re di Spagna, 34, 145 Fischer, J., 65n Fischer, W., 65n Flores Galindo, A., rx, 45n, 93n Florescano, E., 15n, 21n, 22n, 70 e n, 73, Solein

Fontana, ]., 16 e n, 126n Franz, G., 47n Fréche, G., 76n Friede, J., 32n Frumento, A., 62n Fuente Garcia, A., de la vedi La Fuente

Garcia, A. de Gaastra, F.S., 119n

Galicia, S., 99n Garavaglia, J.C., 38 e n, 73n, 76n, 77n, 131n

Cross, H.E., 82 e n, 83n

Garcia-Baquero Gonzalez, A., 76n

Crossley, A.W., 56n, 119n

Garcia Bernal, M.C., 39n, 40, 43n Garcia de Leén, A., 41n Garcia Fuentes, L., 76n, 77n, 127n Gardner, R.L., 99n

Cuenya, M.A., 38n Curi, S.B., 31n

Curtin, Ph.D., 33 e n, 34n, 74n, 75 en Cushner, N.P., 107n Danyi, D., 90n Davies, K.G., 127n Davis, H., 116n Davis, R., 119n

De Beche, famiglia vedi Beche, famiglia De Geer, famiglia vedi Geer, famiglia Del Rosario Prieto, M., 73n Delumeau, J., 62n De Maddalena, A., 7n

Geer, famiglia, 62n Geremek, B., x Gibson, Ch., 99n Girot, P.O., 73n Gisbert, T., 80n Glamann, K., 119n Glave, L.M., 16 e n, 43n Gongora, M., 42n Gonzalez, E., 39n Gonzalez de Cellorigo, M., 139 Goslinga, C.Ch., 127n

INDICE

DEI NOMI

Goubert, P., 57n Gould, J.D., 85n

Kriedte, P., 3n, 24 e n, 51n, 57n, 59n, 65n,

Goy, J., 56n, 76n

Kubler, G., 16 e n, 41 e n, 79 Kula, W., x Kulischer, J.M., 55n, 56n, 57n, 64 e n

Gregorio x1v, papa, 144 Gresteau, F., 42n

118n, 149

Grimmelshausen, H.J., von, 10n Grosso, J.C., 38 e n

Labrousse, C.E., x, 112n

Guerrero, A., 79n

Ladd, D., 141n

Guglielmo m d’Orange, re d'Inghilterra,

La Fuente Garcia, A. de, 77n La Maza, F. de, 144n

J51

Gukowski, M., 7n Gumilla, J., 30 e n

Guthrie, C.L., 99n Gutierrez de Arce, M., 127n

Halperin Donghi, T., x Hamilton, E.J., rx, 17, 81-82, 85n, 109n, 138n

Hardoy, J.E., 34, 35n, 36 Hermosillo, F., 38n Hernandez Palomo, J.J., 74n, 132n

Lapeyre, H., 138n Larrain, J.M., 107n, 112n Las Casas, B. de, 37n » Lavallé, B., 147 en Lazo Garcia, C., 31n Léon, P., 8n

Leopoldo 1, imperatore, 89n Le Roy Ladurie, E., 31n, 56n, 76n Liebman, S.B., 128n Livi Bacci, M., 21n Locke, J., 151

Hill, J.E.C., 149

Lohmann Villena, G., 75n, 141 en

Hinton, R.V.K., 118n

Lopez de Velasco, J., 35 Los Angeles Romero Frizzi, M. de, 127n Lublinskaja, A.D., 3n, 6n

Hobsbawm,

E.J., rx, 56n, 89n, 137 e n,

138n, 149

Hohenberg, P.M., 59n Humboldt, A. von, 88 e n, 92 e n, 95n Hume, D., 88n

Luigi xrv, re di Francia, 149, 152 Lutge, F., 60n Luzzatto, G., 57n

Lynch, J., 14 Israel, J.I, 15 e n, 127n, 144 e n, 154n, 155n

Jacob, W., 88n Jacquart, J., 8n, 52 e n Jaen Suarez, O., 33n Jara, A., 82 en Jaramillo Uribe, J., 32n Jawoski, J.V., 31 e n Jeannin, P., 3n, 117n Jilek, L., 142n Jiménez, R., 103n

Jiménez de la Espada, M., 39n Johnson, H.B. jr., 105, 106n Johnson, L.L., 9n, 106n, 112 e n, 113 Jones, D.W., 60n Jones, E.L., 65 e n Jones, R., 29n Kamen, H., 14n, 138n Kazimir, S., 89n

Kellenbenz, H., rx, 57n, 62 e n, 90n, 127n Kindleberger, Ch.P., 4n King, G., 88en Kiss, ILN., 90n Klein, H.S., rx, 15 e n, 92n, 9 en Krantz, F., 59n

Macera, P., 68n, 70n, 103n McEvedy, C., 29n McGowan, B., 116n

Machiavelli, N., 140 Macis, I., 130n

MacLeod, M.J., 78n Magzak, A., rx Malamud, C., 126 e n, 127n Malanima, P., 57n, 58n Malthus, T.R., 11, 21n Malvido, E., 22n, 38n Manrique, N., 83n Mantran, R., 90n, 116n Maolwist, M., rx

Marchena Fernandez, J., 141n Marin, J.A., 116n

'

Marrero, L., 33n, 73n, 76n, 77n, 130n

Martin, N.F., 42n Marx, K., 150 Matilla Tascén, A., 62n Mauro, F., rx, 74n, 77n, 85n, 89n, 106n, 119"

n; 129n

Maza, F. de la vedi La Maza, F. de Mazet, C., 44n Medick, H., 57n, 65n Medina, J.T., 91n, 9n, 143n, 155n

INDICE

DEI NOMI

Raleigh, W., 150

Medina Rubio, A., 76n Mellafe, R., 33n, 39n, 40n, 42n, 109n, 11ln Mendels, F.F., 57n, 65 en Mesa, J. de, 80n Meuvret, J., rx, 3n, 89n, 113, 117n Miller, J.I., 158 e n Millones, L., 155n Miranda, J., 37 e n Molho, A., 152n Montoya, A.J., 74n Morales Padron, F., 128n Morin, C., 38n Morin, E., 76n Morineau, M., 17n, 79 e n, 82-83, 84n, 85 e

Ramirez-Horton, S., 107n Ramon, A., 107n Ramos, D., 130n Ramos, P., 131n Rapp, R.T., 58n, 115n Rawley, J.A., 74n

Reparaz, G. de, 155n Robert, L., 60n Robles, G. de, 128 e n, 129 en Rodriguez Cruz, A.M., 142 e n Romano, R., 3n, 5n, 6n, 14n, 16n, 21n, 22n, 29n, 64n, 85n, 89n, 93n, 9n, 97n, 112 e n, 113n, 114n, 115n, 117n, 124n

Romero, E., 73n Romero, J.L., 35n

n, 87n, 88 e n, 96n, 109n, 122n

M6rner, M., 36 e n, 82n Moutoukias, Z., rx, 83n, 94n, 125 e n, 126

Ròrig, F., 158 e n

Rosa da Lima, santa, 144

e n, 131ln

Rosenblatt, A., 34n, 39n Rosovsky Fainstein, E., 92n

Moya, B. de, 31 Moya Pons, F., 33n

Rowe, J.H., 32n

Rubio Sanchez, M., 130n Ruiz Rivera, J.B., 32n Rutenburg, V., 7n Rybarski, R., 118n

Naraghi, E, 29n

Navarra y Rocafull, M. de, 41-42 Nef, J.U., 63n O’Brien, P., 66n

Onody, O., 91n, 9n, 9n Ortiz, F., 73n Ortiz de al Tabla Ducasse, J., 42n

Sagnac, Ph., 56n Saignes, T., rx, 43n, 80, 155n Salas de Coloma, M., 16 e n, 78en Salvucci, R., 79n Samsonovicz, H., rx

Ots de Capdequi, J.M., 144n

Sanchez Albornoz, N., rx, 14n, 29n, 30 e n,

Pach, Z.P., 62n Pagano De Divitiis, G., 115n, 116n Palacios, P.A. de, 140n Palata, duca de la vedi Navarra y Rocafull, M. de

31 e n, 34n, 39n, 40n, 42n, 45, 46n Santoro, C., 57n

Schaedel, R.P., 35n Schaffeld, R.S., 24n Schlumbohm, J., 57n, 65n Schmoller, G., 57n Schoffer, J., 119n Schumpeter, J.A., 10 e n Schurs, W., 122n Schwinkoski, V., 89n

Paré, A., 13

Parker, G., 3n, 4n Paz, O., 147 en Paz Ponce de Leén, S. de, 39n Peralta, E.G., 75n Percheron, N., 37n

Perrenoud, A., 27n Pfiffer Canabrava, A., 94n Pietschmann, H., rx, 54, 141, 146 e n Pigou, A.C., 10n Pinelo, L., 143 Piuz, A.M., rx, 90n, 118 en Pohl, H., 76n, 78n, 127n Poliakov, L., 156n

Sée, H.E., 57n Sella, D., 52-53, 57n, 60n, 61n, 90n, 119n

Selye, H., 31n Sempat Assadourian,

C., 40n, 43n, 73n,

83n, 131n

Sereni, E., 52n Sheridan, R.B., 127n

Polisensky, J.V., 6n

Silva Santisteban, F., 79n Simiand, F., 84 e n

Pollard, S., 56n, 119n

Simpson, L.B., 15n, 32n, 37 e n

Posthumus, N.W., 59 e n

Slack, P., 27n Slicker van Bath, B.H., x, 7, 12 e n, 15n, 25

Procacci, G., 150n

e n, 35n, 37n, 47 e n, 50 e n, 51n, 56 e n, 90n, 137n, 142n

Rabel Romero, C.A., 38 en

Smith, L.M., 3n, 4n

164

INDICE

DEI

Smith, R.S., 141n Sombart, W., 57n, 63n Spooner, F.C., rx, 85n, 87 e n, 88 e n, 95 Steinberg, S.H., 62n Stone, L., 151 en Super, J.C., 78n Szelagowski, A., 118n

NOMI

Van Oss, A.C., 34n Varallanos, J., 83n Vazquez de Espinosa, A., 35, 78n Vélez Pliego, R., 38n Vellard, J., 29n Vicens Vives, J., 14n, 52n Vicuna Mackenna, B., 131 e n

Vigny, F., 43n Tandeter,

E., rx, 22n, 76n, 95n,

102n,

Villani, G., 57 Villari, R., x Vogel, W., 119n Vollmer, C., 32n

106n, 107n, 109n, 110n, 112 en

Tapajos, V., 46n, 129n Tarle, E.V., 57n Tenenti, A., 21n TePaske, J.J., 15 e n, 92n, 9 en Thirsk, J., 47n, 65 en Thunen, J. von, 68 e n Tilly, Ch., 65 e n Tilly, R., 65 en Toledo, E.B., 131n

È Wachtel, N., rx, 22n, 76n, 102n, 107n, 109n, 110n, 112 en

Waibel, L., 68n Wallerstein, I., 3n, 119n, 1593 e n, 157-58 Wallon, A., 47n Watson, R., 139

Tommaso d'Aquino, santo, 150 Tomoeda, H., 155n Topolski, J., 52n, 62n, 137n Tord Nicolini, J., 31n

Wedowoy, E., 74n Wiese, H., 118n Wightman, A., 43n Wilson, Ch., 58n Wirobisz, A., rx, 63n Wittman, T., 16 en Wobeser, G. von, 68n, 69n, 70n

Tovar Pinz6n, H., 70en

Trabulse, E., 76n Trevon Roper, H., rx

Tripp, famiglia, 62n

Worms, $., 9n Wortman, M.L., 76n, 93n Wright, LA., 33n

Tucci, U., rx, 89n, 116n

Tugan-Baranovsky, M.I., 57n Tutino, J., 78n

Wrigley, E.A., 12n, 24n

Van Dillen, J.C., 6ln Van Houtte, H., 51n Van Klaveren, J., 127n, 145n

Zavala, S., 140n

Zimanyi, V., 90n

165

Finito di stampare nel mese di marzo 1992 per conto di Marsilio Editori® in Venezia da La Grafica & Stampa editrice, s.r.l., Vicenza

i ni

(4

LI

Na

Ph

IR

#

nni

de

iu sli

P

LL Mo ina SUL) :

N) |

#

no Ì

ì

III

da De I dn NE tri

W

i

iuN i y

sia

#Doo: Muli Li

{

| PRIMI |

ALII

|

TAI

i ) I

Fal

dI

i i

n Zi

II0IAI ITMu ICH IRTUITIMAIRZIIAT i(ti uiNitti

il

TRI,

ii

(RETITI

UIRTN, io

iio SURI fi 1a

IH (Nt

MIRFINI

ORTA CI

Lie

i

. Îi

i

intilNino

i

(dirti

HI

SIIT

un

EITMAITÀ

CLRSO RI

IICI

MANILA

ALT

ite

ILL]

il (A De

Î

MMC

}

{ tiMbattini

hi

î n li

i

|

TIC) Ji ATI

I It iaji

ti il Li. Hi

|

» ia

Ì

î

INIL MI[a Hi; RI

tiff Hi

ai

HLA

4

NI

pat]

Ta

}

134PRRORI CIMITI

La cosiddetta «crisi» del Seicento ha costituito, negli ultimi decenni, uno dei

luoghi più frequentati nella discussione tra gli storici dell’età moderna. Su molte questioni inerenti quella discussione si può considerare raggiunto un sostanziale accordo: l’Europa centro-occidentale si trovò, attorno alla metà del secolo, effettivamente interessata da una crisi economica e politica di dimensioni vaste e generali. Ma una volta fissati i punti certi di queste comuni risposte, le strade delle interpretazioni si divaricano di nuovo, attorno ad alcune fondamentali questioni. Come e perché si entrò nella crisi? Come se ne uscì? E ancora: la crisi fu «generale» soltanto nel senso geografico del termine, oppure lo fu anche nel senso che investì l’intero universo sociale, senza distinzione di classi, di gruppi, di settori produttivi? In particolare su quest’ultima domanda si concentra questo nuovo libro di Ruggiero Romano; che riprende ed elabora in modo originale il proprio autorevole punto di vista sulla questione. «AI di là della generalità della crisi del xvi secolo — scrive Romano - si pone il problema di sapere se questa abbia potuto creare delle occasioni positive per alcuni gruppi sociali». Si tratta, in altri termini, di capire quali soggetti sociali sopportarono il peso maggiore della crisi, e quali altri viceversa se ne avvantaggiarono,

quanto meno

nel senso di vedere

migliorata la loro posizione relativa. Un simile approccio al tema della crisi rivela la propria utilità quando allarga ulteriormente lo sguardo storico, coinvolgendo nella valutazione generale della fase seicentesca non solo l’Europa, ma la sua interfaccia d’Oltre Atlantico. Pure, anche dall’altra parte dell’Oceano, la crisi non è uguale per tutti: essa offre ai differenti gruppi, e nella diversità delle situazioni, esiti disastrosi o allettanti opportunità. Ruggiero Romano, nato a Fermo nel 1923, è titolare della cattedra di problemi e metodi di storia economica della École Pratique des Hautes Etudes di Parigi fin dal 1952. Numerosissimi sono i suoi lavori di storia economica dell’età moderna, sulla circolazione delle merci, sul commercio marittimo, sui prezzi e le loro oscillazioni nel contesto europeo e mediterraneo. E altrettanto numerose e cospicue sono le ricerche che hanno interessato la storia economica del Nuovo Mondo. Alla pratica di ricerca nel campo della storia economica e dell’antropologia economica tra Europa e America Latina, Romano ha accompagnato una importante e multiforme attività di organizzatore intellettuale, dando vita a importanti cantieri di lavoro editoriale, quali la Storia d'Italia e l’Enciclopedia Einaudi.

In l copertina: Antonie Van Dyck, San Martino e il pove-

Li

L. 25.000

ISBN

88-317-5641

Il| | 56 9 "788831"75641 9

\\l s