Nuove scenografie del collezionismo europeo tra Seicento e Ottocento: Attori, pratiche, riflessioni di metodo 9783110795370, 9783110737684

La storia del collezionismo nell’età moderna è caratterizzata da una progressiva diversificazione degli interessi, l’int

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Table of contents :
Sommario
Prefazione
Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger. Reinterpretazione di una fonte d’archivio
Prelati, principi, agenti. Viaggi di uomini e beni tra Napoli, Monaco e la corte imperiale
Principi in affari. Don Giovanni Valdina imprenditore e collezionista siciliano del Seicento
«Torcimanni e barattieri»: agenti, intermediari, periti, mallevadori e mercanti nella Bologna di primo Seicento
«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla». La formazione della collezione dei Mattei di Paganica attraverso i carteggi inediti di Guercino, Francesco Albani e dell’architetto Guido Antonio Costa
Una collezione nella collezione: i «Pittori in atto di dipingere» dei principi Hercolani di Bologna. Nuove risultanze d’archivio
Raccolte di quadri di musicisti celebri nella Roma del Seicento
Austrian networks in Papal Rome as interpretation key (XVII-XVIII century). Envoys, agents, and the arts
Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo. Spunti critici, connoisseurship e circolazione di opere
Il disegno come strumento di diff usione di modelli da Roma al Nord Europa
Les correspondances érudites : une source d’information sur les collections de « petites antiquités » en France au XVIIIe siècle
La riforma del 1749, una linea di crinale nel rapporto fra Museo, tutela e mercato dell’arte nella Roma del diciottesimo secolo
Tra l’antico e il nuovo regime: la collezione del XIV duca d’Alba, Carlos Miguel Fitz-James Stuart, un Grande di Spagna nell’esilio
Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung. Drei Fallbeispiele
Autori
Crediti fotografici
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Nuove scenografie del collezionismo europeo tra Seicento e Ottocento: Attori, pratiche, riflessioni di metodo
 9783110795370, 9783110737684

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Nuove scenografie del collezionismo europeo tra Seicento e Ottocento

SAMMLER, SAMMLUNGEN, SAMMLUNGSKULTUREN IN WIEN UND MITTELEUROPA FORSCHUNGEN AUS DEM VIENNA CENTER FOR THE HISTORY OF COLLECTING

Herausgegeben von Sebastian Schütze

Band|4

A cura di Cecilia Mazzetti di Pietralata, Sebastian Schütze

Nuove scenografie del collezionismo europeo tra Seicento e Ottocento Attori, pratiche, riflessioni di metodo

DE GRUYTER

ISBN 978-3-11-073768-4 e-ISBN (PDF) 978-3-11-079537-0 ISSN 2701-9810 Library of Congress Control Number: 2022941695

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. © 2022 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Coverabbildung: Giovanni Lanfranco, Venere che suona l’arpa, Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica – Palazzo Barberini Covergestaltung: Kerstin Protz, Berlin Satz: LVD GmbH, Berlin Druck und Bindung: Beltz Grafische Betriebe GmbH, Bad Langensalza www.degruyter.com

Sommario

Cecilia Mazzetti di Pietralata, Sebastian Schütze Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

VII

Orsolya Bubryák Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger. Reinterpretazione di una fonte d’archivio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1

Antonio Ernesto Denunzio Prelati, principi, agenti. Viaggi di uomini e beni tra Napoli, Monaco e la corte imperiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

21

Vincenzo Abbate Principi in affari. Don Giovanni Valdina imprenditore e collezionista siciliano del Seicento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

43

Raffaella Morselli «Torcimanni e barattieri»: agenti, intermediari, periti, mallevadori e mercanti nella Bologna di primo Seicento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

63

Francesca Curti «Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla». La formazione della collezione dei Mattei di Paganica attraverso i carteggi inediti di Guercino, Francesco Albani e dell’architetto Guido Antonio Costa . . . . . . . . . . . . . .

83

Barbara Ghelfi Una collezione nella collezione: i «Pittori in atto di dipingere» dei principi Hercolani di Bologna. Nuove risultanze d’archivio . . . . . . . . . . . . . . . . . .

107

Elisabetta Frullini Raccolte di quadri di musicisti celebri nella Roma del Seicento . . . . . . . . . .

119

VI

Inhaltsverzeichnis Cecilia Mazzetti di Pietralata Austrian networks in Papal Rome as interpretation key (XVII–XVIII century). Envoys, agents, and the arts . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

135

Linda Borean Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo. Spunti critici, connoisseurship e circolazione di opere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

161

Simonetta Prosperi Valenti Rodinò Il disegno come strumento di diffusione di modelli da Roma al Nord Europa . .

177

Patrick Michel Les correspondances érudites : une source d’information sur les collections de « petites antiquités » en France au XVIIIe siècle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

195

Paolo Coen La riforma del 1749, una linea di crinale nel rapporto fra Museo, tutela e mercato dell’arte nella Roma del diciottesimo secolo . . . . . . . . . . . . . . . . .

211

Gonzalo Redín Michaus Tra l’antico e il nuovo regime: la collezione del XIV duca d’Alba, Carlos Miguel Fitz-James Stuart, un Grande di Spagna nell’esilio . . . . . . . . . . . . . . . . . .

231

Anna Frasca-Rath Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung. Drei Fallbeispiele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

251

Autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

267

Crediti fotografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Cecilia Mazzetti di Pietralata, Sebastian Schütze

Prefazione

Con Nuove scenografie del collezionismo viene pubblicato il quarto volume della serie Sammler, Sammlungen, Sammlungskulturen in Wien und Mitteleuropa, Forschungen aus dem Vienna Center for the History of Collecting dedicata agli studi sul collezionismo artistico centroeuropeo, un fenomeno che mostra Vienna come cuore cosmopolita di un territorio ben più esteso e collegato con le corti e i centri artistici di tutta Europa. In tale prospettiva, il dialogo tra studiosi promosso dalle attività del Vienna Center for the History of Collecting ambisce ad estendere lo sguardo sulle diverse realtà storiche in un ambito potenzialmente globale e a verificare sul campo i nuovi orizzonti di metodo nella lettura delle fonti e nella ricostruzione delle collezioni. Nello studio della collezione come messa in scena di un organismo significante e come espressione identitaria, di volta in volta dinastica, di gruppo sociale, professionale o “nazionale” entrano in gioco competenze multidisciplinari e domande complesse circa la funzione degli spazi, la coscienza delle dimensioni pubbliche o private, ma anche discorsi critici sulla fortuna o la storicizzazione di determinati autori o epoche artistiche. Inoltre, appare indispensabile tenere conto dei fattori dinamici, ovvero delle acquisizioni e delle vendite, delle mutevoli strategie di conservazione e presentazione negli spazi deputati. Le reti di relazioni tra le corti e all’interno di queste, le diramazioni tra diplomatici, funzionari, agenti, comunità nazionali, fazioni politiche e le diverse connessioni con i professionisti delle arti (artisti e mercanti) permettono di comprendere le strutture sociali e le dinamiche culturali che presiedono alla circolazione delle opere d’arte tanto nelle fasi di formazione quanto nella dispersione delle collezioni. Tale complessità richiede l’utilizzo di strumenti di classificazione ed elaborazione dei dati, ma anche una riflessione sull’apporto delle Digital Humanities alla storia del collezionismo. Nuove scenografie del collezionismo raccoglie alcuni contributi presentati ad un convegno internazionale organizzato dall’Istituto di storia dell’arte dell’Università di Vienna in collaborazione con l’Istituto Storico Austriaco di Roma e proprio lì svolto il 17 e 18 ottobre 2019. In quella sede ci si era riproposti di aprire in grandangolo la prospettiva, per dibattere sui metodi, gli strumenti e le prospettive degli studi sul collezionismo, un ambito disciplinare che negli ultimi anni si è andato velocemente rinnovando, sia nella selezione degli oggetti di indagine che nell’adozione di strumenti digitali.

VIII

Cecilia Mazzetti di Pietralata, Sebastian Schütze Anche il libro che ne è scaturito presenta ricerche originali e nuove proposte di lettura su una varietà di argomenti e di cronologie, che traggono linfa dal terreno comune dello scambio culturale innescato dalle pratiche del collezionismo: dal Cinquecento veneziano nella raccolta del ricco mercante di Augusta Hans Steininger, alla circolazione di opere e artisti tra Napoli e le terre tedesche, alle corrispondenze intorno al collezionismo erudito in Francia, alle raccolte centroeuropee di disegni italiani, ad un caso inedito di collezionismo spagnolo nella delicata fase di passaggio dall’antico al nuovo regime. Il quadro storico di riferimento assegna nell’età moderna ancora un ruolo primario agli stati italiani, da Venezia, a Napoli, alla Sicilia, oltre naturalmente allo Stato Pontificio esteso tra Roma, le Marche, l’Emilia; un susseguirsi di dinamiche ed episodi rilevanti nel corso del Seicento e Settecento è dunque prevalente nei contributi qui pubblicati. L’interesse della ricerca sul collezionismo risiede inoltre nella necessità di maneggiare materiali diversi in ottica diacronica e all’interno di un campo d’azione vasto anche sotto il profilo geografico: i fili interni che collegano alcuni dei saggi qui raccolti, come le opere e le fonti sulla scuola bolognese, l’interazione tra meccanismi di mercato, canoni estetici e indirizzi stilistici, ma anche la linea accademica, sono emersi quasi naturalmente. I saggi toccano ambiti e approcci differenziati, la cui considerazione integrata si profila come necessaria per gli studi sulle singole collezioni (è il caso del principe siciliano Valdina o dei fratelli romani Gaspare e Giuseppe Mattei Paganica) e sul fenomeno del collezionismo nel suo complesso: dalla legislazione sulle esportazioni, al mercato dell’arte, alla questione delle professioni coinvolte (agenti, intermediari, diplomatici, militari), alle dinamiche di scambio e trasporto, alle indagini sul significato di collezioni fortemente connotate come quelle dei musicisti romani del Seicento o come la singolare raccolta di autoritratti di pittori di Filippo Hercolani, all’accompagnarsi del fenomeno del collezionismo con la storia critica delle arti come mostra la vicenda sei-settecentesca della visione di Raffaello a Venezia. Ciò che soprattutto accomuna gli studi presentati è prima di tutto un approccio sistemico, che insieme alle opere indaga la storia attraverso i documenti. Tra le fonti documentarie, oltre agli inventari – sui quali gli studi hanno già molto ragionato – emergono nel volume con singolare rilievo i carteggi, che al loro indubbio fascino nel far parlare le carte accompagnano nuove questioni di metodo nella teoria come nella pratica quotidiana della ricerca, richiedendo una gestione efficace di scritti e informazioni così abbondanti. Tra gli indirizzi innovativi degli anni recenti rientra la piena integrazione delle ricerche sulle reti sociali nelle discipline storiche: la necessità di considerare le reti – documentabili anche dalle corrispondenze superstiti – appare utile e promettente anche per la storia dell’arte e del collezionismo. In questo contesto metodologico era importante esplorare anche i nuovi approcci digitali, volti soprattutto alla ricostruzione e visualizzazione di complessi ora dispersi.

Prefazione Tra le sessioni del convegno celebrato in due limpide giornate romane e la pubblicazione di questo libro abbiamo vissuto due anni di pandemia che – tra le tante prove – ci hanno anche posti di fronte ad una grande accelerazione della riflessione e della pratica nel campo della “Digital Art History”; dunque la conciliazione delle apparenti discrasie tra necessità matematica degli algoritmi e indeterminatezza o per meglio dire approssimazione progressiva delle ricostruzioni storiche (basate su fonti di per sé mai interamente esaustive), tema del saggio che chiude il libro, era allora ed è ancora di più oggi, il ponte che ci conduce sulla sponda delle nuove esigenze della ricerca umanistica, che sempre di più va richiedendo anche un esito applicativo. Un particolare ringraziamento va a tutto l’Istituto Storico Austriaco di Roma, in particolare al suo direttore Andreas Gottsmann, partner del progetto Habsburgische Gesandte in Rom, 1619–1740: Kunstsammeln als Mittel des Kulturtransfers (Lise Meitner Projekt M2474-G25) finanziato dal Wissenschaftsfonds FWF (Fonds zur Förderung der wissenschaftlichen Forschung) e all’Istituto di storia dell’arte dell’Università di Vienna, che ha ospitato il progetto promuovendo uno scambio fruttuoso con i collaboratori e i borsisti del Vienna Center for the History of Collecting. In occasione del convegno tutto il team ha avuto la possibilità di viaggiare a Roma e incontrare i relatori e i colleghi italiani e stranieri intervenuti. Siamo inoltre molto grati a tutti gli autori del volume per aver rielaborato per la stampa i loro contributi al convegno, che abbiamo potuto così consegnare alle mani esperte di Katja Richter, responsabile delle pubblicazioni di Storia dell’Arte delle edizioni De Gruyter, e di Luzie Diekmann. Siamo a entrambe molto grate per la cura editoriale. Il volume ha visto la luce grazie al generoso contributo del FWF (Lise Meitner Projekt M2474), del Vienna Center for the History of Collecting e della Historisch-Kulturwissenschaftliche Fakultät dell’Università di Vienna.

IX

Orsolya Bubryák

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger. Reinterpretazione di una fonte d’archivio

Nel presente contributo esporrò una nuova ricostruzione di una serie di dipinti che furono di proprietà di Hans Steininger (1552–1634), un ricchissimo mercante di Augusta. Della raccolta di Steininger, che comprendeva soprattutto dipinti e statue antichi, finora erano noti solamente i quadri di Paris Bordone. Allo stato attuale della ricerca, si ritiene che Steininger abbia ottenuto il gruppo di sei dipinti dal lascito di Christoph Fugger, morto nel 1579, e successivamente il suo erede lo abbia venduto all’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria. Alcuni quadri sono anche stati identificati nelle collezioni imperiali di Vienna e Praga. Secondo la mia ipotesi, invece, Hans Steininger non aveva posseduto i dipinti a lui collegati dalla critica, e neppure li aveva acquisiti da Christoph Fugger. Non furono le opere di Paris Bordone ad essere vendute dal suo erede a Vienna, e nemmeno fu l’arciduca Leopoldo Guglielmo ad averle acquisite.

L’inventario perduto Il punto di partenza della mia ricerca è una fonte scritta, più volte scoperta e in seguito andata perduta. Il documento si trova nell’Haus-, Hof- und Staatsarchiv di Vienna ed elenca opere d’arte provenienti dalle dimore di alcuni cittadini di Augusta: Jeremias Steininger, David Milbinger, Abraham Thelott e Georg Lotter.1 Dà le misure approssimative ed anche il valore stimato delle opere, quindi era stato preparato presumibilmente con lo scopo di venderle. È scritto in italiano, senza data e firma. Secondo l’annotazione sul verso dell’ultima pagina, il materiale era allegato a un documento ricevuto dall’amministrazione imperiale nel 1643, ma l’atto originale non è più reperibile. Da altre fonti si sa che nell’aprile del 1642 l’Hofzahlamt pagò 1100 fiorini per «vari dipinti» a Jeremias Steininger; l’atto potrebbe dunque essere stato redatto in relazione a questo pagamento.2 Pertanto, ritengo probabile che la lista risalga all’inizio del 1642 o anche prima, nel corso del 1641. Tra le quattro collezioni di Augusta spicca la raccolta Steininger, contenente gli acquisti del padre di Jeremias, Hans Steininger, che a quel tempo era già morto. Della Kunstkammer, un tempo famosa, del mercante di Augusta, vengono qui elencate 66 voci per un totale di 100 opere d’arte (principalmente dipinti, ma anche sculture, disegni, maioliche).

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Orsolya Bubryák Albrecht Krafft fu il primo a scoprire l’elenco dei dipinti, ma morì prima di poterlo sfruttare: venne pubblicato solo il primo volume del suo catalogo delle collezioni imperiali, anni dopo la morte dell’autore. Qui lo studioso citava solo tre descrizioni dei quadri di Bordone, quelli che credeva di avere identificato nella collezione del Belvedere.3 Krafft sosteneva che i dipinti fossero stati comprati dall’arciduca Leopoldo Guglielmo, ma non è chiaro se quest’affermazione fosse basata su fatti o solo ipotesi. (Ovvero se aveva collegato il documento all’Arciduca perché lo aveva trovato negli archivi di quest’ultimo, o perché Leopoldo Guglielmo era l’unico degli Asburgo a lui noto come collezionista d’arte, e di conseguenza nessun’altra persona gli era venuta in mente). In seguito, non resta più traccia del manoscritto per molto tempo. Solo all’inizio del XX secolo Alexander Hajdecki, ignorando la citazione di Krafft, riscoprì il documento,4 per concludere anch’egli che il manoscritto era stato redatto per l’arciduca Leopoldo Guglielmo. Riconosciuto l’eccezionale valore di fonte dell’elenco, Hajdecki preparò una trascrizione del testo intesa per la pubblicazione. La sua ambizione sicuramente arrivò fino alle bozze all’inizio del 1905, perché una copia accuratamente corretta del testo è ancora negli archivi accanto al documento originale, ma alla fine non apparve in stampa. Inoltre, il manoscritto sparì nuovamente.5 Nel 1987, Klára Garas ha preso atto delle informazioni fornite da Krafft e le ha incluse nella sua ricerca su Bordone.6 La storica dell’arte ungherese ha collegato il proprietario dei quadri con i Fugger, noti come committenti di Bordone, supponendo che Steininger avesse acquisito i dipinti da questa famiglia. Ha riesaminato i suggerimenti di identificazione proposti da Krafft e ha infine tentato di ricostruire la serie. Tuttavia, non conoscendo il testo originale della fonte, poteva solo affidarsi all’estratto di Krafft, che, come vedremo, si è rivelato fuorviante sotto vari punti di vista.

La serie mitologica di Paris Bordone Krafft ha pubblicato una descrizione dei dipinti al n. 5, 7 e 9 dell’elenco; la descrizione del n. 5 forniva il maggior numero di dati: «Pezzi sei di Paris Bordone quattro de’ quali sono p[almi] 6 a ogni parte in circa. Nel primo de’ quali è un Pastore con una Ninfe et un Cupido che li corona». Tutto ciò che sappiamo del dipinto n. 7 è che raffigura «Venere, Marte e Cupido», ma non conosciamo esattamente in quale composizione essi siano ritratti. La descrizione della nona voce è di nuovo più esauriente: «Marte che toglie l’arco e la frezza a Cupido con Venere ed un altra Donna, sono mezze figure del naturale».7 Sfortunatamente, conoscendo solo questi passi, non possiamo trarre conclusioni corrette né sul numero dei dipinti, né sulle loro dimensioni o sulla loro relazione reciproca. In realtà, nella casa di Steininger non furono censiti sei dipinti di Bordone, bensì nove, dei quali solo i quattro in formato quadrato (nn. 5–8) costituivano una serie.8 Pertanto, una delle tre opere qui menzionate (n. 9) non era più tra queste.

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger

«Un Pastore con una Ninfe et un Cupido che li corona» La composizione del pastore e della ninfa incoronati da Cupido è stata identificata da Krafft nel Venere e Adone del Kunsthistorisches Museum, proveniente dalla collezione dell’arciduca Leopoldo Guglielmo (fig. 1).9 Krafft non poteva sapere ciò che è emerso in seguito, fra l’altro, dalla ricerca di Klára Garas, secondo la quale l’arciduca aveva acquisito questo dipinto dalla collezione del duca di Hamilton nel 1649. Inoltre, ora si conosce anche l’origine precedente del quadro: pervenne a Hamilton dalla raccolta di Bartolomeo della Nave nel 1638.10 (Si credeva anche che il dipinto attualmente conosciuto fosse solo una copia dell’originale dapprima conservato nella collezione arciducale,11 che era in formato orizzontale, come si può vedere nella riproduzione del Theatrum pictorium, una selezione a stampa della galleria di Leopoldo Guglielmo).12 Pertanto, l’ipotesi secondo la quale l’arciduca abbia acquistato il dipinto da Steininger nel 1642 può essere chiaramente esclusa. Tuttavia questa non è l’unica versione dell’opera. Una variante, considerata di bottega, è conservata nel Palazzo dei Rettori di Ragusa di Dalmazia.13 Quest’ultimo dipinto era di proprietà del veneziano Giovanni Alvise Raspi alla fine del Seicento e, in cambio di un suo debito, pervenne agli eredi del canonico ragusano Bernardo Orsatto di Giorgi. Nel 1713 si trovava già nella casa di Giancarlo Marino Sorgo, un patrizio di Ragusa, e in seguito giunse nel Palazzo dei Rettori.14 Inoltre, è nota anche una variante autografa, conservata a Londra (fig. 2).15 Essa differisce dai precedenti per un dettaglio della figura femminile, che non regge un arco con frecce ma tiene in mano una siringa. Di conseguenza, nel museo non è stato definito come una scena di Venere e Adone, ma come la storia pastorale di Dafni e Cloe (recentemente Coppia di amanti).16 Il dipinto è rintracciabile per la prima volta in una raccolta parigina a metà del XIX secolo, e poi viene acquistato da Charles Lock Eastlake nel 1860.17 Visto che la provenienza delle pitture di Londra e di Ragusa è sconosciuta dalla prima metà del Seicento, in teoria una qualunque di esse può provenire dalla collezione Steininger. Sia le dimensioni che il formato corrispondono in entrambi i casi a quelli del dipinto di Augusta. Ciò che fa pendere la bilancia a favore dell’esemplare di Londra è che, secondo l’elenco di Steininger, il dipinto che andiamo cercando raffigurava un pastore e una ninfa, quindi la descrizione si adatta meglio a Dafni e Cloe.18

«Marte che toglie l’arco e la frezza a Cupido con Venere ed un altra Donna» È stato lo stesso Albrecht Krafft a identificare il dipinto Marte, Venere, Cupido e Flora (anche conosciuto come Il disarmo di Cupido) nel Kunsthistorisches Museum (fig. 3)19 con la voce 9 dell’elenco di Steininger: «Li doi altri Pezzi sono di grandezza P. 7 ½ e 4 ½ circa in uno de quali e dipinto Marte, che toglie l’Arco e la frezza a Cupido con Venere, et un altra Donna sono mezze figure del Naturale». L’identificazione di Krafft è stata ac-

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Orsolya Bubryák

Fig. 1

Paris Bordone (bottega), Venere e Adone, Vienna, Kunsthistorisches Museum

cettata anche da Klára Garas.20 L’opera proviene sicuramente dalla collezione dell’arciduca Leopoldo Guglielmo: il suo inventario (1659), ne contiene una descrizione accurata.21 Il dipinto ha un pendant a Vienna, raffigurante Marte, Venere, Cupido e la Vittoria alata (L’incoronazione di Venere e Marte),22 che Krafft e, sulla sua scia, anche Garas, hanno identificato come il terzo pezzo della serie (la settima voce dell’elenco): «Il terzo, è una Venere Marte e Cupido».23 Allo stesso tempo, hanno supposto che entrambi i dipinti avessero la stessa origine, sebbene, come ha notato Garas, L’incoronazione di Venere e Marte fosse rintracciabile nella Galleria Imperiale solo dal 1783, e non ve ne siano tracce nella collezione dell’arciduca Leopoldo Guglielmo.24 In questo dipinto però non si vedono solo Marte, Venere e Cupido, ma anche una Vittoria, fatto che sarebbe stato senz’altro notato nell’elenco di Steininger. (Anche nella descrizione della voce 9 si menziona la quarta figura, come «ed un altra Donna»). Inoltre, come abbiamo già accennato nella lista era indicato lo stesso formato per le prime quattro voci dei dipinti, (cioè i nn. 5, 6, 7, 8 dell’elenco), conseguentemente il n. 7, cioè Venere, Marte e Cupido, dovrebbe avere le stesse dimensioni non del n. 9 (cioè Il disarmo di Cupido, dal formato orizzontale), ma dei nn. 5, 6, e 8 dal formato verticale (tra i quali il summenzionato Pastore e Ninfa).

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger

Fig. 2 Paris Bordone, Coppia di amanti (Dafni e Cloe), Londra, The National Gallery

Fig. 3 Paris Bordone, Marte, Venere, Cupido e Flora (Il disarmo di Cupido), Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Orsolya Bubryák

Fig. 4 Paris Bordone, Marte, Venere e Cupido, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage

«Una Venere, Marte e Cupido» Se cerchiamo invece un dipinto raffigurante Venere, Marte e Cupido, approssimativamente quadrato, e supponiamo che il quadro cercato abbia fatto parte di una serie che includeva il londinese Dafni e Cloe, dovremmo trovare un dipinto di dimensioni simili. Sono sopravvissute due varianti di una composizione di Bordone, il Marte che coglie un melograno con Venere e Cupido, che soddisfano del tutto le nostre aspettative. Di questi, il dipinto della collezione Doria Pamphilj di Roma25 è leggermente più largo di quello londinese, e allo stesso tempo è anche più basso, quindi è una soluzione meno probabile. La versione dell’Ermitage di San Pietroburgo (fig. 4),26 invece, è solo di pochi centimetri più piccola del quadro londinese, e inoltre i due hanno lo stesso formato. Non trovo inconcepibile che il dipinto sia stato tagliato: rispetto alla versione romana, la sua composizione in alto e a sinistra risulta incompleta. La provenienza è rintracciabile fino al

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger 1665, quando Agostino e Giovan Donato Correggio lo acquistarono a Venezia dal medico Ottone Rivago.27 Nel 1674 il dipinto apparteneva ancora alla famiglia Correggio e viene elencato nel palazzo di San Cassiano.28 Nel Settecento fu acquistato da John Udney, per divenire poi proprietà di Caterina la Grande e già nel 1783 fu inventariato nell’Ermitage.29

La ricostruzione della serie di Bordone Dal momento che Albrecht Krafft aveva riferito di sei dipinti in totale, Klára Garas ha tentato di identificare le tre pitture mancanti di Paris Bordone.30 Sul loro tema non aveva a disposizione alcun dato. Garas presumeva che anche i quadri mancanti fossero giunti nella Galleria Imperiale e ha tenuto conto del fatto che quattro dei sei dipinti avevano le stesse dimensioni. Ha dimostrato che Venere e Adone di Vienna proveniva dalla collezione del duca di Hamilton, e dunque non poteva corrispondere all’esemplare di Steininger, che riteneva perduto.31 Inoltre, ha associato a quest’ultimo le due allegorie di grande formato del Kunsthistorisches Museum tuttora esistenti e ha cercato un quarto quadro di formato simile. La Diana cacciatrice con due ninfe della Galleria di Dresda, distrutta nella seconda guerra mondiale, sembrava una buona scelta da ogni punto di vista. Oltre alle dimensioni, anche la sua provenienza lo rendeva adatto: l’opera era precedentemente nella collezione imperiale di Praga e fu acquistata nel 1749 da Augusto III re di Polonia, elettore di Sassonia.32 Sembrava evidente che anche i due dipinti «mancanti» di Bordone andassero cercati a Praga. Gli inventari del Seicento casualmente comprendevano altre due opere di Paris Bordone nel Castello di Praga: una composizione con Apollo tra Marsia e Mida, anche questa poi giunta a Dresda, dove si trova tuttora,33 e un quadro della stessa dimensione, raffigurante due donne, di cui in seguito si perdono le tracce.34 Tutti questi presupposti sono chiaramente smentiti dall’elenco di Steininger: né Diana cacciatrice, né Apollo e Marsia, né il dipinto di Bordone con le due figure femminili erano nella raccolta di Augusta. In alternativa alle opere precedentemente considerate, in base alle descrizioni del riscoperto elenco di Steininger si offre una nuova opportunità di ricostruzione. Secondo l’elenco, al gruppo di formato quadrato del Pastore e Ninfa (n. 5) e Marte, Venere e Cupido (n. 7) appartenevano altri due dipinti mitologici: uno raffigurante il Ratto di Proserpina (n. 6) e un Vulcano e Minerva (n. 8). Il pendant del Disarmo di Cupido, in formato orizzontale (n. 9), era un dipinto di tema biblico raffigurante Maria Maddalena che si mira nello specchio (n. 10).

«Un Ratto di Proserpina o altra Donna» Il Ratto di Proserpina di Paris Bordone (fig. 5),35 descritto nell’elenco come «Il secondo, è un Ratto di Proserpina o altra Donna», si inserisce bene nella serie di opere finora identi-

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Orsolya Bubryák

Fig. 5 Paris Bordone, Ratto di Proserpina, Tolosa, Fondation Bemberg

Fig. 6 Paris Bordone, Vulcano e Minerva, University of Missouri, Museum of Art and Archaeology

ficate. Senza conoscere i dati che fanno pensare alla stessa provenienza dei pezzi, e basandosi sull’analisi dello stile, Giordana Canova riteneva che il Ratto di Proserpina fosse correlato al dipinto di Londra.36 Il dipinto si conserva nella collezione della Fondazione Bemberg di Tolosa dal 1994, precedentemente aveva fatto parte di una raccolta privata negli Stati Uniti, prima ancora in Inghilterra. La prima menzione risale all’asta di James Green nel 1835 a Londra.37 Secondo la mia ipotesi lo stesso quadro era stato presentato anche all’asta di William Morland nel 1804 a Londra.38 È stata avanzata anche l’ipotesi secondo cui l’opera potesse essere una delle storie ovidiane menzionate dal Vasari, eseguite per il visconte Asorga (Pedro Álvarez Osorio).39 Vasari però non elenca singolarmente i quadri commissionati da Osorio, e circa la loro sorte successiva sapeva solo che il visconte li portò con sé in Spagna, perciò non si può ancora associare questo dato al Ratto di Proserpina.40

«Vulcano e Palladè» Il quarto pezzo della serie (voce 8 dell’elenco) può essere riconosciuto nel dipinto della collezione di Samuel H. Kress, raffigurante Vulcano e Minerva (fig. 6),41 conservato oggi all’Università del Missouri: «Il Quarto, è Vulcano e Palladè». Qui sono stati indicati anche i prezzi di stima dei dipinti precedenti: «Stima questi quattro pezzi F. 1000». Le sue misure sono solo di 2–3 cm più grandi di quelle precedentemente menzionate. La sua provenienza è al pari del precedente nota solo dal XIX secolo: il quadro era già documentato nella raccolta di Edward Solly, in seguito aveva fatto parte di collezioni

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger

Fig. 7 Paris Bordone, Due cortigiane alla toletta, Edimburgo, Scottish National Gallery

private inglesi e italiane nel corso del XIX secolo, ed è stato infine acquistato da Samuel Henry Kress nel 1937.42 Secondo l’opinione tradizionale della critica il pendant di questo dipinto è il Giove e Io di Bordone, il quale, secondo Vasari, venne eseguito – insieme ad un Ecce homo e altri quadri di tema sconosciuto – per Carlo di Guisa, Cardinale di Lorena.43 Non abbiamo però nessuna fonte scritta che indichi un’origine comune per i quadri, visto che Vasari non menziona il Vulcano e Minerva tra le opere acquistate dal cardinale, né tantomeno l’elenco di Steininger cita il Giove e Io tra i quadri di Bordone.

«Una Madalena, che si mira nello specchio, con doi altre Donne appresso» Il quadro della decima voce dell’elenco di Steininger («L’altro è una Madalena, che si mira nello specchio, con doi altre Donne appresso, tutte sono mezze figure del Naturale, li prezza F. 500») è riscontrabile nell’opera di Paris Bordone: un dipinto di questo soggetto si trova nella Scottish National Gallery di Edimburgo, oggi intitolato Due cortigiane alla toletta (fig. 7).44 Il dipinto è di circa 20 centimetri più stretto rispetto a quello misurato da Steininger («palmi 7 ½ e 4 ½ circa»), ma la composizione corrisponde esattamente alla descrizione ivi fornita, quindi, nonostante questa differenza, può valere la pena considerare se i dati possono corrispondere a questo esemplare. Il dipinto sembra esser già stato a Venezia alla metà del Seicento e, secondo la critica, Carlo Ridolfi lo aveva descritto nel 1648, come di proprietà di Giovanni Paolo e Lodovico Widmann: «Hanno in Venetia gli Signori Vidmani una femina col seno scoperto, che si mira in ispecchio, tenutole da una vecchia con una bella giouine à canto».45 Nel 1659 era uno dei quadri stimati nel palazzo Widmann di San Canciano.46 La famiglia Widmann lo mise in vendita nel 1667.47 In seguito per un certo periodo non si hanno tracce dell’opera, che riappare alla fine del Settecento come proprietà di Giovanni Bat-

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Orsolya Bubryák tista Grimaldi a Genova. L’erede di questi, la contessa Teresa Grimaldi, vedova di Alessandro Pallavicini, vendette il dipinto nel 1830 ad Andrew Wilson. Sin dal 1859 è proprietà della Scottish National Gallery di Edimburgo.48 Il tema venne rielaborato diverse volte da Bordone, pertanto la descrizione sopra ricordata corrisponde bene anche a una versione di formato approssimativamente quadrato, della quale sembra perduta la versione originale del pittore, ma se ne conoscono una copia e una variante di bottega in collezioni private.49 Steininger però non possedeva una versione di formato quadrato, visto che le misure del suo elenco si riferiscono chiaramente a un quadro largo, in formato orizzontale. Il fatto che l’autore dell’elenco abbia definito la figura centrale come Maddalena orienta verso il quadro di Edimburgo, visto che lì accanto alla figura principale si vede l’attributo di Maria Maddalena, ovvero il vasetto di unguento, mentre nell’altra versione manca tale riferimento.50 Comunque la supposta provenienza Widmann non esclude che l’opera provenga da Steininger, visto che l’elenco di Augusta fu redatto probabilmente intorno al 1641– 1642, e presso Widmann il quadro si può identificare per la prima volta nel 1648. La famiglia Widmann era strettamente legata ad Augusta tramite la famiglia Ott, in servizio per i Fugger, e un antenato cinquecentesco della famiglia, Ulrich Widmann, era originario della città.51 È inoltre documentato che alcuni pezzi della collezione Widmann – come un quadro raffigurante il Ritratto di Frate che scrive di Paris Bordone – provenivano dalla proprietà della famiglia Ott.52 Riassumendo i miei suggerimenti per la ricostruzione della serie di Bordone: a mio avviso, i quadri citati nell’elenco di Steininger sono identificabili con il Dafni e Cloe di Londra, il Marte, Venere e Cupido di San Pietroburgo, il Ratto di Proserpina della Fondazione Bemberg e con il Vulcano e Minerva della collezione Kress. L’ipotesi secondo cui tali dipinti un tempo si trovavano insieme è supportata anche dal fatto che essi sono datati più o meno coerentemente dalla critica, sebbene in precedenza siano stati considerati come opere separate (o anche come coppie di altre composizioni): Il Vulcano e Minerva attorno al 1559–1560,53 il Ratto di Proserpina nella seconda metà degli anni Cinquanta del Cinquecento.54 Nel caso di Dafni e Cloe, Nicolas Penny ha recentemente sostenuto in modo convincente che questo dipinto avrebbe potuto essere realizzato tra il 1555 e il 1560 invece degli anni Quaranta suggeriti in precedenza.55 E la datazione di Marte, Venere e Cupido è solitamente uniformata al Vulcano e Minerva.56 Nel caso dei due dipinti di formato orizzontale è più discutibile che Il disarmo di Cupido di Vienna e le Donne veneziane di Edimburgo siano registrati nell’elenco di Steininger. I due dipinti hanno infatti oggi dimensioni differenti: quello di Edimburgo (cm 94 × 141) è più piccolo del dipinto di Vienna (cm 110 × 176). Sebbene le loro misure nell’elenco di Steininger siano solo approssimative (circa cm 101 × 169), i due quadri sono chiaramente descritti come di uguali dimensioni. Considerando le proporzioni, le misure corrispondono meglio alla composizione viennese. Il dipinto di Edimburgo potrebbe essere preso in considerazione solo presumendo che sia stato tagliato su due lati. La loro

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger datazione è compatibile con la serie dei dipinti di formato quadrato. I dati di provenienza noti non escludono l’origine di Augusta per nessuna delle pitture sopra menzionate.

La provenienza Fugger La precedente provenienza dei dipinti di Bordone è altrettanto problematica. Le prime notizie sugli acquisti di Steininger risalgono al 1610: Philipp Hainhofer, che apprezzava molto la perizia di Steininger, lo riteneva prima di tutto un collezionista di opere moderne.57 Joachim von Sandrart però, che visitò la casa di Steininger nel 1629, ci vide già dipinti di Tiziano, Veronese, Bassano ecc.,58 e anche nell’elenco in esame predominano soprattutto opere cinquecentesche. Possiamo dunque supporre che negli anni 1610– 1620 Steininger acquisisse un gran numero di dipinti, soprattutto opere antiche. E anche se non possiamo escludere un acquisto effettuato direttamente in Italia, dati i suoi rapporti commerciali, è più logico ricercarne la provenienza nella collezione di una notabile famiglia patrizia di Augusta. È da escludere un’eredità familiare: Steininger non proveniva dalla borghesia ricca di Augusta, vi era giunto all’età di dodici anni da Braunau, dove era impiegato presso la casa commerciale Oesterreicher.59 Acquisì la cittadinanza attraverso il matrimonio e iniziò la propria attività nei primi anni del 1600. Secondo la sua dichiarazione dei redditi nel 1618 era già tra i cittadini più benestanti di Augusta, infatti nella fascia di tassazione superiore alla sua si trovavano solo i Fugger.60 Cercando il presunto collezionista precedente, Klára Garas è giunta alla conclusione ipotetica che il gruppo di dipinti di Bordone provenisse dalla famiglia Fugger.61 I dipinti del pittore in possesso dei Fugger sono riportati in due documenti, purtroppo senza indicazione dei soggetti. Pietro Aretino vide «diversi quadri» di Bordone nella casa veneziana di Christoph Fugger nel 1548.62 Due decenni dopo, nella vita di Tiziano, il Vasari riferì che Bordone, «in Augusta fece in casa de’ Fuccheri molte opere nel loro palazzo, di grandissima importanza, e per valuta tremila scudi».63 Garas ha collegato i quadri Steininger con questi ultimi, la critica successiva invece con i dipinti di casa Fugger a Venezia.64 Tuttavia, nell’inventario ereditario di Christoph Fugger redatto nel 1579 non si trova nessun dipinto attribuito a Bordone e nemmeno opere che possano essere tematicamente correlate ai quadri di Steininger.65

L’acquisizione a Vienna Poiché la provenienza dalla collezione Steininger delle opere viennesi di Paris Bordone è diventata altamente discutibile, sorge la domanda se dalla raccolta del mercante augustano sia stato acquistato qualcos’altro per la Galleria Imperiale. La circostanza dell’acquisto può essere considerata abbastanza certa: come ho detto prima, nel 1642 l’Hofzahlamt pagò a

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Orsolya Bubryák Jeremias Steininger per «vari dipinti» una somma molto elevata, di 1100 fiorini. In base all’informazione (senza riferimento) di Klára Garas, sinora questa compravendita è stata segnalata con la data del 1639.66 La sua fonte presumibilmente era un dato fornito da Johann Evangelist Schlager, in cui il pagamento a Steininger – a causa di una svista – figura infatti con questa data.67 L’autore però aveva messo il dato in ordine cronologico tra gli anni 1642 e 1652, e in un registro alla fine del saggio addirittura lo corresse: «Stainninger 1639 (recte 1649)».68 Stranamente sembra che non sia precisa neanche questa correzione, visto che Emma Schwaighofer ha ritrovato la stessa voce tra gli Hofzahlamtsrechnungen come un pagamento del 12 aprile 1642: «Jeremien Staininger, Handelsmann von Augspurg für Ihr. Khayl. Matt dargebene unterschidlichen Mallereyen, 1100 fl».69 Dalla notizia reperita da Schwaighofer possiamo inoltre sapere che l’aquirente non fu l’arciduca Leopoldo Guglielmo, bensì suo fratello maggiore, l’imperatore Ferdinando III. Di conseguenza, dovremmo cercare queste opere nella collezione imperiale.

«La Natività di Giesu Christo con due Ale» Gli inventari della collezione imperiale di Praga registrano un’opera la cui descrizione coincide con una voce dell’elenco di Steininger: un trittico, dipinto su rame, di Joseph Heintz il Vecchio, raffigurante la Natività al centro, e la Crocefissione e la Resurrezione sugli sportelli. Si tratta dell’ultima e più costosa voce dell’elenco di Steininger: «66. Un altare di P. 7 p(er) ogni parte di un pezzo di Rame intero dipinto a olio è la Natività di Giesu Christo con due Ale o Porte in una e il Crocefisso e sotto Moisè con i serpenti e nel altra la Resurretione di Christo di mano di Gioseppe hainz. Stima 1000». A Praga un’opera con la stessa descrizione è documentata tra il 1663 e il 1763. Mentre i primi censimenti descrivevano l’opera solo sinteticamente,70 nel 1737 l’altare fu smantellato e le tre parti furono inventariate separatamente: «no. 321. Natività. A(ltezza). 2 bracci, 20 pollici, L(arghezza). 2 bracci 20 pollici. Senza cornice. Rame, orig. Il vecchio Hainz.»; «no. 545. Resurrezione di Cristo come uno sportello. A. 2 bracci 20 pollici, L. 1 braccio, 20 pollici. Senza cornice, rame. Heinz.»; «no. 573. L’altro sportello su rame, la Crocefissione di Cristo, A. 2 bracci 20 pollici, L. 1 braccio 20 pollici. Senza cornice, rame. Hainz».71 Nell’ultimo inventario in cui figura l’altare (1763), viene annotato che esso si trova in pessime condizioni («sehr ruinirt»).72 Sebbene l’opera sia stata distrutta poco dopo (non vi è traccia nell’inventario del 1782), un’incisione e un disegno ne restituiscono l’immagine approssimativa.73 La Natività venne incisa in rame da Lucas Kilian ad Augusta nel 1600, molto prima che andasse a Praga (fig. 8).74 L’incisione è stata dedicata da Kilian a Wolfgang Paller, senatore di Augusta, dunque l’opera originale si trovava probabilmente in possesso di quest’ultimo a quel tempo.75 E per lo sportello della Resurrezione, il disegno preparatorio di Heintz sembra essere sopravvissuto a Gottinga (fig. 9).76

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger

Fig. 8 Lucas Kilian da Joseph Heintz il Vecchio, Adorazione dei pastori, Brunswick, Herzog Anton Ulrich-Museum

Fig. 9 Joseph Heintz il Vecchio, Resurrezione, Gottinga, Georg-AugustUniversität Grafische Sammlung

«Giove e Venere nudi abbracciati con due cani e due Putti» Un’ulteriore voce dell’elenco Steininger, («45. Giove e Venere nudi abbracciati con due cani e due Putti in rame di P. 2 e 1 con cornice di pero di mano di Gioseppe Haynz stima -- 100.») è stata identificata da Alexander Hajdecki con un’opera di Joseph Heintz il Vecchio nel Kunsthistorisches Museum, Vienna (fig. 10).77 Nei cataloghi moderni il quadro compariva ancora come raffigurazione di Venere e Adone, ma alcuni studiosi hanno notato che la presenza dell’attributo dell’aquila si riferisce piuttosto a Giove.78 Attualmente il dipinto è designato come raffigurazione di Giove e Callisto. Tuttavia, anche in questo caso esistono diverse versioni che si prestano ad una possibile identificazione. Secondo i cataloghi del museo, l’opera originale dovrebbe provenire dalla Kunstkammer di Rodolfo II, con l’annotazione però che essa è documentata nelle raccolte imperiali soltanto dal 1783.79 Jürgen Zimmer ipotizza che l’opera sia già segnalata alla voce 137 dell’inventario della Schatzkammer di Vienna del 1747–1748: «Ein Ovidisches stuckh mit zweien grossen und zwei kleinen füguren von Josephus Hainz».80 Ma neanche questa informazione risale a un periodo precedente al Settecento. Alla fine del Seicento, tuttavia, un dipinto molto simile apparve a Praga, di proprietà del conte Francesco Antonio Berka (František Antonín Berka z Dubé a Lipé), un noto

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Fig. 10 Joseph Heintz il Vecchio, Giove e Callisto, Vienna, Kunsthistorisches Museum

collezionista d’arte.81 Intorno al 1700 fu realizzato un «catalogo» costituito da disegni tratti dalla raccolta di Berka; su uno di questi fogli possiamo riconoscere la composizione di Heintz.82 Il dipinto che è servito da modello per il disegno potrebbe essere stato registrato nell’inventario del conte Berka, che cercò di vendere la sua collezione nel 1692: «no. 37. Venere ed Adonis sub rame».83 La critica identifica quest’esemplare con una copia contemporanea di altissima qualità del quadro, che è apparsa ad un’asta del Dorotheum nel 1973.84 L’inquadratura del disegno è effettivamente più vicina a questa, ma le minuscole differenze compositive tra i dipinti del Kunsthistorisches Museum e del Dorotheum (la corona d’alloro sulla testa di Venere, le pieghe dell’abito sulle cosce della donna, il fogliame dietro Giove) rendono il disegno più affine all’opera della collezione imperiale. Presumo pertanto che l’originale di Heintz fosse di proprietà del conte Berka, e che esso sia entrato nella collezione imperiale solo nel XVIII secolo. Il che esclude che il dipinto si trovasse tra le opere acquistate direttamente da Jeremias Steininger per la Casa Imperiale. (Ma ciò non contraddice la possibile derivazione del quadro da Augusta.) In relazione a nessun’altra opera della collezione imperiale si è sospettata finora la provenienza da Steininger, anche se è quasi sicuro che l’importo pagato dal Hofzahlamt non riguardasse solo l’altare dipinto su rame di Heintz: il prezzo di acquisto di 1100 fiorini poteva includere due o tre quadri più piccoli in aggiunta. L’identificazione di questi ultimi sarà compito di ricerche successive.

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger 1 L’edizione del testo integrale con l’identificazione di altre opere ivi elencate è in preparazione. La ricerca è supportata dal NKFIH, progetto K 129362. 2 E. Schwaighofer, Auszüge aus den Hofzahlamtsrechnungen in der Nationalbibliothek, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», n. s. 12, 1938, pp. 227–237, alla p. 232, reg. 372. 3 A. Krafft, Historisch-kritischer Katalog der K. K. Gemälde-Gallerie im Belvedere zu Wien, 1. Abtheilung, Italienische Schulen, vol. i, Wien, Kaiserlich-Königliche Hof- und Staatsdruckerei, 1854, pp. 118–119. 4 A. Hajdecki, Neues Kunstgeschichtliches Quellen-Material aus Wiener Archiven. Zur Geschichte der Gemäldepreise, ms, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Wien 1905. 5 Anche A. Ritter von Perger, Über das Herkommen verschiedener Gemälde in der k. k. Gemäldegallerie im Belvedere, in «Mittheilungen der k. k. Central-Commission zur Erforschung und Erhaltung der Baudenkmale», 10, 1865, pp. 203–236, alla p. 209, conosceva solo l’estratto di Krafft; in seguito la provenienza da Steininger non è più emersa nelle trattazioni sui dipinti di Bordone. Cfr. E. Ritter von Engerth, Kunsthistorische Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses. Gemälde. Beschreibendes Verzeichniss, vol. i, Italienische, Spanische und Französische Schulen, Wien, Selbstverlag der Direction 1882; H. Dollmayr, A. Schaeffer e W. von Wartenegg, Kunsthistorische Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses. Führer durch die Gemälde-Galerie. Alte Meister, vol. 1, Italienische, Spanische und Französische Schulen, Wien, Selbstverlag 1895; L. Baldass (a cura di), Katalog der Gemäldegalerie (Führer durch das Kunsthistorische Museum, 8), Wien 1938; V. Oberhammer et al., Katalog der Gemäldegalerie, 1. Teil, Italiener, Spanier, Franzosen, Engländer (Führer durch das Kunsthistorische Museum, 3), Wien 1965; S. Ferino-Pagden, W. Prohaska, K. Schütz, Die Gemäldegalerie des Kunsthistorischen Museums in Wien. Verzeichnis der Gemälde (Führer durch das Kunsthistorische Museum, 40), Wien, Brandstätter, 1991. 6 K. Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, in Paris Bordon e il suo tempo, Atti del convegno internazionale di studi, Treviso, 28–30 ottobre 1985, a cura di G. Fossaluzza, E. Manzato, Treviso, Canova, 1987, pp. 71–78; K. Garas, Die Fugger und die venezianische Kunst, in Venedig und Oberdeutschland in der Renaissance. Beziehungen zwischen Kunst und Wirtschaft (Centro tedesco di studi veneziani. Studi, 9), a cura di B. Roeck, Sigmaringen, Thorbecke 1993, pp. 123–129. 7 Krafft, Historisch-kritischer Katalog, cit., pp. 118–119. 8 Gli altri dipinti attribuiti al Bordone nell’elenco di Steininger e qui non trattati sono: «4. Una Donna mezza nuda, mezza figura di mano del Bordone di grandezza di P. 3 e 2 ½ ne vuole F. 200»; «12. Una Venere di Paris Bordone figure intera e nuda del Naturale giacente in un Prato con prospettiva di loggie di P. 6 e 10 in circa – la stima F. 500»; «31. Ritratto di homo vestito di nero con un Orologio da Polvere sotto la mano sinistra, mezza figura di Paris Bordone – Dimanda F. 40». 9 Kunsthistorisches Museum, Vienna (in deposito a Salisburgo), inv. GG 17. Olio su tela, cm 115 × 131. 10 E. K. Waterhouse, Paintings from Venice for Seventeenth-Century England. Some Records of a Forgotten Transaction, in «Italian Studies», , 1952, 1, pp. 1–23, alla p. 17, n. 95; K. Garas, Die Entstehung der Galerie des Erzherzogs Leopold Wilhelm, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», , 1967, pp. 39–80, alla p. 78, n. 106; K. Garas, Das Schicksal der Sammlung des Erzherzogs Leopold Wilhelm, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», , 1968, pp. 181–278, alla p. 210, n. 126; Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., p. 74; A. Donati, Paris Bordone. Catalogo ragionato, Soncino, Edizioni dei Soncino 2014, cat. 121.2. 11 G. Canova, Paris Bordon (Profili e saggi di arte veneta, 2), Venezia, Alfieri, 1964, p. 105; Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., p. 74. Tuttavia, il dipinto Venere e Adone dell’Arciduca è

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continuamente documentato nelle collezioni imperiali dal 1659, e neanche allora le misure di larghezza risultano maggiori dello stato attuale. David Teniers, Theatrum pictorium, Antwerp, sumptibus autoris 1660, fol. 187. Dubrovački Muzeji, Kulturno-Povijesni Muzej, Ragusa, inv. SL-26. Olio su tela, cm 136 × 121. Canova, Paris Bordon, cit., p. 105; K. Prijatelj, Le opere di una collezione veneziana della fine del Seicento a Dubrovnik (Ragusa), in «Arte Veneta», 33, 1979, pp. 167–168, alla p. 168; K. Prijatelj «Venere e Adone» di Paris Bordon nel Palazzo dei Rettori di Dubrovnik (Ragusa), in Paris Bordon e il suo tempo, cit., pp. 119–123, alla p. 119; G. M. Pilo, Paris Bordon sacro e profano. I dipinti del lascito Orsatto Giorgi a Ragusa, in Umjetnički dodiri dviju jadranskih obala u 17. i 18. stoleću (Biblioteka knjiga mediterana, 49), a cura di V. Marković, I. Prijatelj-Pavičić, Spalato, Književni Krug, 2007, pp. 231–242; Donati Paris Bordone, cit., cat. 121.1. The National Gallery, Londra, inv. NG 637. Olio su tela, cm 139 × 122. I quadri sopra menzionati figuravano nelle fonti sempre come Venere e Adone. Sebbene un tempo la copia di Vienna fosse intitolata Ninfa e pastore (A. Berger, Inventar und Kunstsammlung des Erzherzogs Leopold Wilhelm von Österreich. Nach der Originalhandschrift im fürstlich Schwarzenberg’schen Centralarchive, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», , 1883, pp. lxxix–clxxvii, alla p. xciii, n. 126), in seguito fu anche designata come Venere e Adone. Canova, Paris Bordon, cit., p. 105; N. Penny, The National Gallery, London. The Sixteenth Century Italian Paintings, vol. ii, Venice 1540–1600, London, National Gallery, 2008, pp. 56–61; Donati, Paris Bordone, cit., cat. 121. Il dipinto di Londra è ipoteticamente proveniente da Steininger anche in Donati, Paris Bordone, cit., pp. 53, 333. Kunsthistorisches Museum, Vienna, inv. GG 69. Olio su tela, cm 110 × 176. Krafft, Historischkritischer Katalog, cit., p. 118. Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., p. 74. Berger, Inventar und Kunstsammlung des Erzherzogs Leopold Wilhelm, cit., p. cvi, n. 350; Canova, Paris Bordon, cit., p. 116; Donati, Paris Bordone, cit., cat. 133. Kunsthistorisches Museum, Vienna, inv. GG 120. Olio su tela, cm 109 × 176 (allargata di cm 4 in alto). Canova, Paris Bordon, cit., p. 115; Donati, Paris Bordone, cit., cat. 132. Krafft, Historisch-kritischer Katalog, cit., p. 118; Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., pp. 74–75. C. von Mechel, Verzeichniß der Gemälde der Kaiserlich Königlichen Bilder Gallerie in Wien, Wien, Rudolf Gräfer Ä. Dr., 1783, p. 71, n. 16; Collezione Doria Pamphilj, Roma, inv. FC 321. Olio su tela, cm 118 × 151. Firma sul tronco dell’albero: «O PARIDIS / bordono». Canova, Paris Bordon, cit., p. 86; Donati, Paris Bordone, cit., cat. 126. Museo Statale dell’Ermitage, San Pietroburgo, inv. 7758. Olio su tela, cm 127,5 × 119. Donati, Paris Bordone, cit., cat. 126.1. L. Borean, La quadreria di Agostino e Giovan Donato Correggio nel collezionismo veneziano del Seicento, Udine, Forum, 2000, p. 186. Borean, La quadreria di Agostino e Giovan Donato Correggio, cit., 2000, p. 203; Donati, Paris Bordone, cit., p. 338. Canova, Paris Bordon, cit., p. 104; Donati, Paris Bordone, cit., p. 338. Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., pp. 75–76. Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., p. 74.

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger 32 Già nel 1685 figurava nell’inventario del castello: Inventarium der Röm. Kayserl. Maytt. Mahlerey auff dem khönigl. Praager Schloß, Praga 1685 (ms), (fotocopia nella Pinacoteca del Kunsthistorisches Museum, Vienna), n. 198. Si presume che i dipinti ricordati in questo elenco fossero nella galleria già nel 1663. Cfr. J. Neumann, Die Gemäldegalerie der Prager Burg, Prag, Academia 1966, p. 28; E. Fučíková, Zur Geschichte der Gemäldegalerie auf der Burg, in Meister werke der Prager Burggalerie, catalogo della mostra, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Milano, Skira, 1996, pp. 11–19, alla p. 14; G. Swoboda, Die Wege der Bilder. Eine Geschichte der kaiserlichen Gemäldesammlungen von 1600 bis 1800, Wien, Brandstätter, 2008, p. 74. 33 Staatliche Kunstsammlungen, Dresda, inv. Gal.-Nr. 203. Olio su tela, cm 98 × 81,5. Donati, Paris Bordone, cit., cat. 117. 34 Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., p. 76, ha attirato l’attenzione sul fatto che gli inventari di Praga menzionano costantemente un dipinto raffigurante due donne. Questo, tuttavia, viene spesso identificato con due diversi dipinti di Bordone, ognuno dei quali rappresenta una donna. Engerth, Kunsthistorische Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses. Gemälde, cit., p. 70; Oberhammer et al., Katalog der Gemäldegalerie, 1. Teil, cit., p. 23; Ferino-Pagden/Prohaska/ Schütz, Die Gemäldegalerie des Kunsthistorischen Museums in Wien, cit., p. 34; Donati, Paris Bordone, cit., p. 53. Il dipinto potrebbe essere stato il pendant di Apollo e Marsia: i due quadri avevano le stesse dimensioni e si trovano descritti l’uno di seguito all’altro nei primi inventari (1685, 1718). Inventarium […] Praager Schloß, cit., nn. 359–360; K. Köpl, Urkunden, Acten, Regesten und Inventare aus dem K. K. Statthalterei-Archiv in Prag, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses in Wien», x, 1889, pp. lxiii-cc, alla p. cxxxvii, nn. 359–360; Ibid. p. clvii, n. 409. 35 Fondation Bemberg, Tolosa, inv. 1063. Olio su tela, cm 137 × 124,3. Firma sulla seduta del cocchio: «O PARIDIS BORDONO». 36 Canova, Paris Bordon, cit., p. 51. 37 B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance. Venetian School, 2 voll., London, Phaidon, 1957, vol. i, p. 49, vol. ii, tav. 1133; Canova, Paris Bordon, cit., p. 120; Donati, Paris Bordone, cit., cat. 135. 38 A Catalogue of a Capital and Valuable Collection of Italian, French, Flemish and Dutch Pictures, the Property of an Eminent Collector [= William Morland] (cat. d’asta Christie’s Londra), London 1804, lot. 31. Il collezionista, indicato nel catalogo solo come «eminent collector», è stato identificato da Getty Provenance Index®, Sale Catalogue Br-238 con William Morland. 39 G. Mariani Canova, Paris Bordon. Problematiche cronologiche, in Paris Bordon e il suo tempo, cit., pp. 137–157, alla p. 149; Donati, Paris Bordone, cit., p. 48. 40 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori ed architettori. Con nuove annotazioni e commenti, vol. vii, a cura di G. Milanesi, Firenze, G. C. Sansoni editore, 1881, p. 465. 41 Museum of Art and Archeology, University of Missouri, inv. 61.78, Coll. Samuel H. Kress, n. K-1112. Olio su tela, cm 139,4 × 127,7. Firma a sinistra: «O PARIDIS BORDONO». 42 Per la provenienza si veda Donati, Paris Bordone, cit., cat. 116. 43 Vasari, Le vite, cit. p. 464; C. Ridolfi, Le Maraviglie dell’arte, ovvero Le vite degli illustri pittori veneti e dello stato. Parte seconda, a cura di D. Fh. von Hadeln, Berlin, G. Grote, 1924, p. 233; Donati, Paris Bordone, cit., pp. 56, 332. 44 Scottish National Gallery, Edimburgo, inv. NG 10. Olio su tela, cm 94 × 141. Firma nell’angolo in basso a sinistra: «RIS B». 45 C. Ridolfi, Le Maraviglie dell’arte, cit., p. 234.

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Orsolya Bubryák 46 F. Magani, Il collezionismo e la committenza artistica della famiglia Widmann, patrizi veneziani, dal Seicento all’Ottocento (Memorie. Classe di scienze morali, lettere ed arti, 41, fasc. 3), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1989, p. 34. Per l’elenco vedi The Getty Provenance Index® Archival Inventories, n. I-3378. 47 L. De Fuccia, «Dilettazione», tradizione e aperture al contemporaneo. La dispersione della collezione Widmann tra Mantova e Venezia, in «Rivista d’arte», ser. 5, i, 2011, pp. 255–281, alle pp. 267, 272. 48 P. Humfrey, T. Clifford e M. Bury, Age of Titian. Venetian Renaissance Art from Scottish Collections, catalogo della mostra, Edimburgo, Royal Scottish Academy Building, a cura di A. WestonLewis, Edinburgh, The Trustees of the National Galleries of Scotland, 2004, cat. 48 (Peter Humfrey); Donati, Paris Bordone, cit., cat. 157. 49 Donati, Paris Bordone, cit., cat. 236-236.1. 50 L’identificazione della figura con Maria Maddalena è apparsa anche nella critica recente: Humfrey/ Clifford/ Bury, Age of Titian, cit., p. 148, cat. 48 (Peter Humfrey), ma l’autore è giunto alla conclusione che il vasetto di unguento ha un carattere funzionale (è cioè parte della toeletta). 51 Magani, Il collezionismo e la committenza artistica, cit., pp. 9–10. Per le attività della famiglia Ott si veda A. J. Martin, Quellen zum Kunsthandel um 1550–1600: die Firma Ott in Venedig, in «Kunstchronik» , 1995, n. 11, pp. 535–539; S. Backmann, Kunstagenten oder Kaufleute? Die Firma Ott im Kunsthandel zwischen Oberdeutschland und Venedig (1550–1650), in Kunst und ihre Auftraggeber im 16. Jahrhundert. Venedig und Augsburg im Vergleich (Colloquia Augustana, 5), a cura di K. Bergdolt, J. Brüning, Berlin, Akademie Verlag, 1997, pp. 175–197. 52 Magani, Il collezionismo e la committenza artistica, cit., p. 35. 53 Donati, Paris Bordone, cit., cat. 116. 54 Donati, Paris Bordone, cit., cat. 135. 55 Penny, The National Gallery, cit. p. 56–58. 56 T. D. Fomicheva, Venetian Painting, I. Fourteenth to Eighteenth Centuries (The Hermitage catalogue of Western European paintings, 2), Firenze-Moscow, Giunti-Iskusstvo Publishers, 1993, p. 105; Donati, Paris Bordone, cit., cat. 126.1. 57 O. Döring, Des Augsburger Patriciers Philipp Hainhofer Beziehungen zum Herzog Philipp II. von Pommern-Stettin. Correspondenzen aus den Jahren 1610–1619 (Quellenschriften für Kunstgeschichte und Kunsttechnik des Mittelalters und der Neuzeit, n. s. 6), Wien, Graeser, 1894, p. 8. Per le acquisizioni di Steininger si veda, Ibid. pp. 15, 17, 39–41, 44–45, 47, 58, 60, 61, 65, 90, 92–93, 101, 118, 121, 128–129, 141, 147, 153, 175. 58 Joachim von Sandrarts Academie der Bau-, Bild- und Mahlerey-Künste von 1675. Leben der berühmten Maler, Bildhauer und Baumeister, a cura di A. R. Peltzer, München, Hirth, 1925, p. 25. 59 R. Poppe, Die Augsburger Handelsgesellschaft Oesterreicher (1590–1618) (Abhandlungen zur Geschichte der Stadt Augsburg), Augsburg, Selbstverlag der Stadt Augsburg, 1928. 60 A. Mayr, Die großen Augsburger Vermögen in der Zeit von 1618 bis 1717 (Abhandlungen zur Geschichte der Stadt Augsburg), Augsburg, Selbstverlag der Stadt Augsburg, 1931, p. 115. 61 Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., p. 77; Garas, Die Fugger und die venezianische Kunst, cit., pp. 125–126. 62 P. Aretino, Il Quinto Libro delle Lettere di M. Pietro Aretino, vol. v, in Parigi, appresso Matteo il Maestro, nella strada di S. Giacomo, alla insegna de i quattro elementi, 1609, fol. 64v. 63 Vasari, Le vite, cit., p. 464.

Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger 64 A. J. Martin, Dürers Rosenkranzfest und eine Fuggergrablege mit einem Gemälde von Battista Franco in San Bartolomeo di Rialto. Zu den verwirrenden Angaben in Francesco Sansovinos Venetia città nobilissima et singolare (1581), in «Studia Rudolphina», , 2006, pp. 59–63, alla p. 62; A. J. Martin, I rapporti con i Paesi Bassi e la Germania. Pittori, agenti e mercanti, collezionisti, in Il collezionismo d’arte a Venezia. Dalle origini al Cinquecento, a cura di M. Hochmann, R. Lauber, S. Mason, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 143–163, alle pp. 154–158; Donati, Paris Bordone, cit., p. 53. 65 I ritratti registrati nell’inventario del 21 agosto 1579 («2 Weyber Contrafect», «2 Contrafect von weybsbildern», «1 Venetiana»), che Andrew John Martin attribuisce ipoteticamente a Bordone, sono riportati nell’inventario senza il nome dell’artista. Martin, Dürers Rosenkranzfest, cit., p. 62; Martin, I rapporti con i Paesi Bassi e la Germania, cit., pp. 157–158. 66 Garas, Opere di Paris Bordon di Augusta, cit., p. 78. 67 J. E. Schlager, Materialien zur österreichischen Kunstgeschichte, in «Archiv für Kunde österreichischer Geschichtsquellen», 2, 1850, n. 3–4, pp. 1–120, alla p. 25. 68 Schlager, Materialien zur österreichischen Kunstgeschichte, cit, p. 113. 69 Schwaighofer, Auszüge aus den Hofzahlamtsrechnungen, cit., p. 232. reg. 372. 70 Inventarium […] Praager Schloß, cit., n. 493; Köpl, Urkunden, Acten, Regesten, cit., p. cxxxix, n. 493. 71 Köpl, Urkunden, Acten, Regesten, cit., pp. cliv, clxiv. Come si rivela già dalla loro numerazione (nn. 321, 545, 573) le voci si sono separate. Jürgen Zimmer ha riconosciuto giustamente che le tavole laterali sono collegate, ma non pensava che la tavola centrale fosse la Natività, ma una raffigurazione di Maria con Bambino e angeli. J. Zimmer, Joseph Heintz der Ältere als Maler, Weissenhorn, Konrad, 1971, pp. 152–153, nn. D20, D26, D28, D29. 72 Köpl, Urkunden, Acten, Regesten, cit., p. clxxv, nn. 98–99 e clxxx, n. 235. 73 Zimmer, Joseph Heintz der Ältere, cit., p. 127, n. B1; Ibid. p. 153, n. D29; J. Zimmer, Joseph Heintz der Ältere. Zeichnungen und Dokumente, München, Deutscher Kunstverlag, 1988, p. 153, n. A85; Welt im Umbruch. Augsburg zwischen Renaissance und Barock, vol. i–ii, catalogo della mostra, Augsburg. Städtische Kunstsammlungen, Augsburg, Augsburger Druck- und Verlagshaus 1980, vol. ii, cat. 625 (Heinrich Geissler). 74 Lucas Kilian/Joseph Heintz il Vecchio: Adorazione dei pastori, 1600, mm 481 × 387. Firmata «S. C. M. pi[c]tor Iosephus Heintz pinxit. Lucas Kilia[n]. augs. scalps. ao. 1600». Dedica al «NOBILI ET AMPLISSIMO VIRO DN. WOLFGANGO PALLERO AB HAMMEL ett. R. P. AVG.ae VINDEL. SENATORI.» 75 Sulla base dei dati biografici si tratta di Wolfgang Paller il Giovane (1545?–1624). 76 Grafische Sammlung, Georg-August-Universität, Gottinga, inv. H 550. Sanguigna, mm 323 × 199. 77 Kunsthistorisches Museum, Vienna, inv. GG 1105. Olio su rame, cm 40 × 31; Hajdecki, Neues Kunstgeschichtliches Quellen-Material, cit., p. 33. 78 L. Slavíček, Příspěvky k dějinám nostické obrazové sbírky. Materiálie k českému baroknímu sběratelství, in «Umění», 31, 1983, n. 3, pp. 219–253, alla p. 224; T. DaCosta Kaufmann, The School of Prague. Painting at the Court of Rudolf II, Chicago 1988, University of Chicago Press, cat. 7–43. 79 Mechel, Verzeichniß der Gemälde, cit., p. 269, n. 18; Engerth, Kunsthistorische Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses. Gemälde, cit., 1886, pp. 121–122, n. 1563; A. Schaeffer, G. Glück, Kunsthistorische Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses. Führer durch die Gemälde-Galerie. Alte Meister, vol. 2, Niederländische und deutsche Schulen, Wien, Selbstverlag, 1906, p. 270, n. 1520; Baldass (a cura di), Katalog der Gemäldegalerie, cit., p. 76, n. 1520; Oberhammer et al.,

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Katalog der Gemäldegalerie, 1. Teil, cit., p. 67, n. 197; Ferino-Pagden/Prohaska/Schütz, Die Gemäldegalerie des Kunsthistorischen Museums in Wien, cit., p. 67; Zimmer, Joseph Heintz der Ältere, cit., pp. 108–109, n. A24; Prag um 1600. Kunst und Kultur am Hofe Kaiser Rudolfs II., catalogo della mostra, Wien, Kunsthistorisches Museum, 1988–1989, a cura di I. Bodesohn-Vogel, G. Kugler, vol. ii, Freren 1988, cat. 559 (Karl Schütz); DaCosta Kaufmann, The School of Prague, cit., cat. 7–43. H. Zimerman, Inventare, Acten und Regesten aus der Schatzkammer des Allerhöchsten Kaiserhauses, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses», , 1889, pp. 201–324, p. ccxlv, n. 137; Zimmer, Joseph Heintz der Ältere, cit., p. 109. Per il collezionista vedi: L. Slavíček, Paralipomena k dějinám berkovské a nostické obrazové sbírky, in «Umění», 43, 1995, n. 5, pp. 445–471; L. Slavíček, Dvě podoby barokního šlechtického sběratelství 17. století v Čechách. Sbírky Otty Nostice ml. (1608–1665) a Františka Antonína Berky z Dubé (1649–1706), in Život na dvorech barokní šlechty (1600–1750) (Opera historica, 5), a cura di V. Bůžek, České Budějovice 1996, Jihočeská univerzita, pp. 483–513. Sbírka grafiky a kresby, Národní galerie v Praze, Praga, inv. DK 5730. Iscrizione aggiuntiva sul disegno: «Antonio Correggio». Riprodotto in Slavíček, Příspěvky k dějinám nostické obrazové sbírky, cit., p. 233; Š. Vácha, The School of Prague or Old German Masters. Rudolfine Painting in the Literary and Visual Discourse of the 17th and 18th Centuries, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 77, 2014, pp. 361–384, alla p. 365. F. Wilhelm, Neue Quellen zur Geschichte des fürstlich Liechtensteinschen Kunstbesitzes, in «Jahrbuch des Kunsthistorischen Institutes der k. k. Zentral-Kommission für Denkmalpflege», 1911, n. 1–4, pp. 87–142, alla p. 117; Slavíček, Příspěvky k dějinám nostické obrazové sbírky, cit., p. 232. Olio su rame, cm 47,7 × 31. Ölgemälde, Aquarelle, Miniaturen, Zeichnungen und alte Graphik, Ikonen (cat. d’asta Dorotheum, Vienna, n. 602, 4/7 dicembre 1973), Wien 1973, n. 58, tav. iii. e fig. 4; J. Zimmer, Joseph Heintz der Ältere. Neue Ergebnisse zum Werk des Malers, in «Alte und moderne Kunst», 24, 1979, n. 163, pp. 9–13, pp. 11–12; Zimmer, Joseph Heintz der Ältere. Zeichnungen und Dokumente, cit., n. E16.

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Prelati, principi, agenti. Viaggi di uomini e beni tra Napoli, Monaco e la corte imperiale

Questo contributo intende approcciare un tema poco frequentato negli studi e ripercorrere brevemente circostanze e propositi che accompagnarono, tra l’ultimo scorcio del Cinquecento e i primi anni del Seicento, lo spostamento di uomini e beni tra il Sud e il Nord dell’Europa, tra Napoli, le terre tedesche e la corte imperiale, una circolazione di dimensioni decisamente più contenute rispetto a quella che interessò per ragioni storiche altre regioni europee (la Spagna e le Fiandre) ma comunque di non minore interesse.1 Il materiale disponibile, ancora troppo esile, non consente di individuare consapevoli interessi culturali o strutturati intenti collezionistici né vengono purtroppo in supporto alla ricerca le fonti archivistiche, mancando quasi del tutto corrispondenze diplomatiche della corte cesarea o dei principi tedeschi con la capitale del viceregno. Una sede vicereale come quella di Napoli non contemplava infatti la presenza di un ambasciatore; i principi italiani inviavano semplici agenti o rappresentanti («residente» la denominazione dell’incaricato veneziano) per curare i propri interessi economici o per avvalersi di un canale con il potere spagnolo in Italia da cui trarre benefici nelle relazioni con la corte di Madrid. La città, tuttavia, era pur sempre una importante capitale amministrativa e politica, che per numero di abitanti non aveva eguali nell’Italia e in gran parte dell’Europa del tempo, nonché una importante piazza economica e un attivo centro di produzione culturale che poteva fregiarsi di antiche vestigia, meta frequente pertanto di viaggiatori o agenti di ogni provenienza. Un posto significativo in queste riflessioni occupa la città di Monaco, tappa obbligata di quanti dall’estremo Nord dell’Europa continentale scendevano nella penisola,2 e la corte dei duchi di Baviera, i Wittelsbach, essi stessi non di rado in visita al di là delle Alpi. È solo il caso di ricordare il viaggio del 1585 del duca Guglielmo V di Baviera, recatosi in incognito a Loreto3 e poi accolto a Urbino del duca Francesco Maria II della Rovere, con cui in seguito mantenne lunghe relazioni, ricevendone consigli circa artisti italiani da invitare alla corte di Monaco.4 Sono noti i rapporti della casa di Baviera con i principi italiani, veicolati da una accorta strategia matrimoniale, e la predilezione del duca per l’arte e la cultura della penisola. La rara presenza in ambito italiano di un ritratto di Gugliemo V (fig. 1), riferibile ad Hans von Aachen e recentemente individuato, lascia pensare a un dono diplo-

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Fig. 1 Hans von Aachen, Ritratto di Guglielmo V di Baviera, Collezione Intesa Sanpaolo

matico per una corte italiana.5 Le notizie pertinenti relazioni dei Wittelsbach con il Sud Italia finora si limitavano essenzialmente alla presenza a Monaco di poeti, musicisti, attori, buffoni, comici, alcuni dei quali di origine napoletana (è il caso di Massimo Troiano, tenore, compositore, attore e scrittore, autore della descrizione dei festeggiamenti delle nozze di Guglielmo V con Renata di Lorena) o passati in città per un periodo di formazione (come il fiammingo Orlando di Lasso). Tali figure contribuirono in modo fondamentale alla cultura musicale e alla produzione di feste e spettacoli della corte bavarese.6 In questo contesto assume un certo rilievo il breve soggiorno napoletano del figlio del duca Guglielmo, Massimiliano. Il giovane, che intraprendeva il suo viaggio a fini di studio, lasciò Monaco nel marzo del 1593 portando con sé un certo numero di oggetti preziosi di cui far omaggio a persone di riguardo;7 passato per Innsbruck e Venezia arrivò a Roma nell’aprile di quell’anno e di lì a poco si spinse a Napoli, dove dimorò nel Palazzo della Nunziatura Apostolica lungo via Toledo. Alcune lettere del nunzio, Jacopo Aldobrandini, aggiungono particolari interessanti alle scarne notizie finora note di quel soggiorno.8 L’arrivo del principe veniva anticipato al nunzio dal Segretario di Stato, il cardinale nipote Cinzio Passeri Aldobrandini che, evidentemente in virtù della fedeltà al cattolicesimo della corte di Baviera, comunicava quanto «S. S.tà desidera talmente che il S.r Principe sia trattato da lei con ogni honore et splendore, ch’ella non potrà far cosa che avanzi il suo desiderio. Serva in parti.re et accompagni S. A. personalmente di continuo che con ciò V. S. l’honorerà molto, et mostrarà quanto debba esser caro à N.S.re che altri l’honorin pure. Et circa la spesa facciala senza alcun risparmio, et ordini che se

Prelati, principi, agenti ne tenga conto perché S. B.ne vuole che tutta le sia rimborsata».9 A Napoli Massimiliano volle vedere i luoghi più importanti della città, le chiese e i palazzi di maggior pregio, e si spinse, come la maggior parte dei viaggiatori, anche a Pozzuoli e nel territorio flegreo, non senza qualche segno di intemperanza giovanile, rifiutandosi di seguire le indicazioni del nunzio e mettendosi al seguito di un «tedesco che abita qua» non meglio precisato.10 Il Principe mostrò inoltre particolare «inclinazione nel vedere credentioni reliquie et altre cose sacre»,11 in particolare quelle di san Gennaro, ed ebbe modo di assistere al miracolo della liquefazione del sangue «di cui fino in Germania, gli era molto tempo prima pervenuta la fama all’orecchio».12 Massimiliano, come suo padre, fu avido collezionista di reliquie e non è da escludere che approfittasse della larga disponibilità che di esse vi era in città acquisendone per sé.13 Difficile dire se Massimiliano portò via altro da Napoli; di certo la produzione degli artisti attivi nella capitale del viceregno in quegli anni e ancora per quelli successivi non godeva di grande fama né doveva esercitare particolare richiamo. Sappiamo piuttosto che di lì a poco dalla Baviera venivano inviati materiali di grande interesse nel Sud Italia, una circostanza che ha dimensioni e caratteri di originalità tali da rendere necessari futuri maggiori approfondimenti. A beneficiarne fu la chiesa di Santa Maria degli Angeli a Brindisi, raro esempio di un intero complesso in Italia pressoché interamente commissionato e finanziato da una corte straniera. L’edificio con annesso monastero fu voluto sul luogo della casa paterna da san Lorenzo da Brindisi, originale figura di religioso, colto e abile predicatore, che ebbe incarichi di rilievo nell’Europa del tempo – non ultimo quello di inviato straordinario della città di Napoli a Filippo III14 – che lo portarono anche a spostarsi, in maniera emblematica a fini di quanto qui si argomenta, tra Praga, la corte di Baviera, Napoli e il Sud Italia.15 Accolto in diverse occasioni a Monaco, dove fu anche legato papale, il frate esercitò con il suo carisma grande influenza su Massimiliano di Baviera, ormai divenuto duca; ne fu consigliere e stretto collaboratore sia per questioni politiche che religiose, nel segno di un’amicizia confidenziale che si mantenne per tutta la vita. Alla morte di Lorenzo nel 1619 Massimiliano si impegnò per ottenerne la santificazione e nel contempo sostenne la costruzione del complesso brindisino, ponendolo sotto il patronato della Casa di Baviera, come attestano tutt’oggi i numerosi stemmi dei Wittelsbach disseminati nell’edificio. Durante la costruzione della fabbrica il progetto originale fu rimodulato su indicazioni provenienti direttamente da Monaco, da dove giunsero nel 1615 anche numerose reliquie, tra cui quattro teste delle compagne di sant’Orsola, custodite in reliquiari di ebano, avorio, argento, oro, internamente rivestiti di tessuti, finemente lavorati forse a Colonia16 (figg. 2, 3). Era tale l’importanza riservata a questi oggetti di devozione che il duca ottenne un breve papale di scomunica per coloro che avessero toccato o sottratto le reliquie «da me e da Madama mia mandate» a Brindisi.17 Già in vita Massimiliano aveva donato a Lorenzo alcune reliquie della sua ricca collezione e tra esse, soprattutto, quella contenente granellini della terra del Golgota bagnata dal sangue

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Fig. 2 Maestranze tedesche, Reliquiario, Brindisi, Chiesa di Santa Maria degli Angeli

di Cristo, di cui a sua volta Lorenzo si privò per farne omaggio alla regina di Spagna, Margherita d’Austria.18 Con le reliquie giungevano a Brindisi anche due opere di particolare rilievo di cui solo una è ampiamente registrata e ricordata nelle fonti. Si tratta di un crocifisso eburneo di grande qualità, riferibile all’ambito di scultori attivi a Monaco tra fine Cinquecento ed inizi Seicento, forse opera di Georg Petel che realizzò numerosi prototipi analoghi19 (figg. 4, 5). Consegnato da Lorenzo ai suoi confratelli a Monaco perché lo portassero a Brindisi, di lì a qualche tempo il crocifisso sarebbe stato interessato da un piccolo evento miracoloso, la comparsa di alcune gocce di sangue in prossimità della spalla.20 Sulla seconda opera al silenzio delle fonti antiche21 si aggiunge quello parziale degli studi moderni che, salvo occasioni episodiche, non le hanno dedicato l’attenzione che

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Fig. 3 Maestranze tedesche, Reliquiario, Brindisi, Chiesa di Santa Maria degli Angeli

pur la sua qualità e la sua collocazione avrebbero richiesto. Si tratta della grande pala dell’altare maggiore raffigurante l’Immacolata, contornata da angeli e simboli del culto mariano (fig. 6), la cui datata attribuzione a un generico ambito veneto,22 spesso soluzione di comodo per opere in terra di Puglia di cultura non strettamente meridionale, è stata rivista in occasione di una più meditata riflessione sulle vicende dell’edificio religioso e sul suo legame con la corte di Baviera. Tale indagine ha consentito di ricondurre più correttamente la tela ad ambienti nordici e di riferirla a Christoph Schwartz, pittore attivo a Monaco per i Wittelsbach fino alla morte nel 1592. Per evidenti motivi cronologici la pala non sarebbe stata commissionata per la chiesa, la cui costruzione risale al primo decennio del Seicento, ma destinata solo successivamente ad essa.23 Un successivo ripensamento a favore di Peter de Witte (Pietro

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Fig. 4 Maestranze tedesche, Crocifisso, Brindisi, Chiesa di Santa Maria degli Angeli

Candido),24 non affermatosi ancora pienamente nella letteratura sul pittore,25 appare forse più convincente non solo sul piano stilistico ma anche per le circostanze storiche che vedono il pittore, al servizio dei duchi di Baviera, realizzare per la chiesa dei Cappuccini a Monaco una Sacra Famiglia con santa Elisabetta e san Giovannino che ebbe fama di aver parlato più volte a Lorenzo da Brindisi. Pertanto il frate, d’accordo con Massimiliano, potrebbe aver voluto un’opera dello stesso Candido per l’erigenda fabbrica brindisina.26 Un altro viaggio che si presta a riflessioni di qualche conseguenza è quello che sul finire del secolo portò a Napoli Luigi Zenobi, virtuoso suonatore di cornetto tanto da meritarsi l’appellativo «Cavalier Luigi del Cornetto». Originario di Ancona, pittore, miniaturista, poeta e autore di madrigali oltre che musicista, fu attivo alla corte dell’imperatore Massimiliano II che lo creò cavaliere per i suoi meriti. Insoddisfatto comunque del trattamento riservatogli si trasferì a Ferrara per poi rientrare alla corte imperiale, stavolta a Praga presso Rodolfo II. Trascorse gli ultimi anni a Napoli dove ebbe un ruolo nella Cappella Reale fino al 1602, anno in cui presumibilmente morì.27 Qui importa maggiormente che, appena giunto nella capitale del viceregno, nel 1599 Zenobi vendette un cospicuo numero di quadri alla principessa di Conca, Juana de Zúñiga, cognata del VI conte di Miranda del Castanar, Juan de Zuñiga Avellaneda

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Fig. 5 Maestranze tedesche, Crocifisso, particolare, Brindisi, Chiesa di Santa Maria degli Angeli

y Cárdenas, viceré di Napoli dal 1586 al 1595, nonché moglie del principe di Conca, Matteo di Capua, forse il più munifico patrono delle arti e delle lettere nella Napoli del tempo. Nel lotto di quadri venduto da Zenobi alla moglie del principe figurano diversi artisti tedeschi e, soprattutto, molte opere ritenute di Albrecht Dürer, un San Girolamo, uno Sposalizio di santa Caterina, una Madonna «a guazzo» e vari ritratti, tra cui uno dell’imperatore Massimiliano II.28 L’episodio è significativo per varie ragioni, prima tra tutte quella relativa alla rarissima presenza di opere del maestro tedesco, o almeno ritenute tali, nelle collezioni napoletane del tempo a causa di una loro scarsa reperibilità e disponibilità. Solo qualche decennio più tardi, nel 1641, un’altra collezione registra esemplari assegnati a Dürer, quella del duca di Medina de las Torres (viceré di Napoli dal 1637 al 1644) e di sua moglie Anna Carafa, e la loro provenienza è probabilmente da ricondurre direttamente ai territori dell’Impero. Quella collezione infatti, che vantava anche alcuni ritratti dell’imperatore altrettanto rari nel contesto napoletano, aveva ereditato attraverso vari passaggi familiari quanto appartenuto a Vespasiano Gonzaga, duca di Sabbioneta.29 Questi intrattenne stretti legami con la corte imperiale (Massimiliano II lo innalzò al rango di principe e Rodolfo II gli conferì quello di duca nel 1577) e in occasione del suo viaggio a Praga, tra il 1588 e il 1589, ebbe modo di approvvigionarsi di opere e oggetti raffinati.30

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Fig. 6 Pietro Candido (?), Immacolata, Brindisi, Chiesa di Santa Maria degli Angeli

Anche i dipinti venduti a Napoli da Zenobi nel 1599 (per buona parte di artisti del Nord dell’Europa) verosimilmente giungevano da Praga e facevano parte del bagaglio con cui il musicista aveva lasciato la corte imperiale qualche tempo prima. Lo confermerebbe anche la notizia che lo vede possedere una rara idra artificiale,31 circostanza che rimanda ancora agli interessi collezionistici in voga presso Rodolfo II e la sua corte. Che poi i dipinti di cui sopra siano stati venduti alla principessa di Conca e al suo consorte forse non è senza significato. Matteo di Capua era infatti cugino del cardinale Filippo Spinelli, esponente di una antica famiglia del patriziato napoletano, i principi di Cariati e duchi di Seminara, nunzio apostolico proprio a Praga dal 1598 al 1604.32 Il cardinale ebbe un ruolo importante nella corte imperiale e fu interlocutore della locale comunità gesuitica alla cui chiesa del Salvatore donò un dipinto raffigurante sant’Ignazio. A Praga sostenne e diffuse il culto delle reliquie dei santi, preoccupandosi

Prelati, principi, agenti di inviarne anche a Napoli, a suor Orsola Benincasa, tramite gli stessi padri della Compagnia di Gesù.33 Il cenno sul cardinale Spinelli mi consente di segnalare che un aspetto non trascurabile nel tema di cui trattiamo è quello pertinente agli spostamenti per incarichi diplomatici di prelati e uomini di chiesa. È il caso di Stanislao Reszka, illustre religioso che ebbe mansioni di rilievo per conto della corte polacca. Ambasciatore di Sigismondo III Vasa con il compito di recuperare le somme che Bona Sforza, moglie di Sigismondo Jagellone il Vecchio, aveva prestato nel 1556 alla corona di Spagna, Reszka giunse a Napoli nel giugno 1592 e vi si trattene fino alla morte nel 1600. Qui ebbe stretti contatti con un altro prelato la cui vicenda è altrettanto significativa: Annibale di Capua, membro di una della maggiori famiglie aristocratiche del Regno, arcivescovo di Napoli e, ancora prima, nunzio in Polonia, tra il 1586 e il 1591, e a Praga, tra il 1576 e il 1577, dove ottenne in dono da Rodolfo II oggetti di grande pregio, tra cui «un oriolo […] sopra certe zampe assai grande et ben lavorato», poi rimasti nella sua eredità.34 Durante il soggiorno partenopeo il religioso polacco riuscì a ritagliarsi un ruolo non marginale nella vita culturale della città e la sua abitazione, meta ricorrente di connazionali di passaggio, fu un punto di ritrovo di uomini di lettere e circoli umanistici. Pubblicò un’antologia del suo epistolario in due volumi, dedicandone una copia al nunzio Jacopo Aldobrandini, poi suo esecutore testamentario, e fu in amicizia con Torquato Tasso, che a lui indirizzò un sonetto e fece dono di una copia della Gerusalemme liberata, accompagnata da una dedica e da un’ottava autografe. Per conto di Sigismondo Vasa, Reszka a Napoli si dedicò inoltre a ingaggiare musicisti per la Cappella Reale e procurare dipinti per decorare la residenza di Varsavia, dove il sovrano si era trasferito nel 1596,35 notizia quest’ultima di grande interesse ma priva di qualsiasi altro dettaglio. Una ricerca condotta nell’Archivio Storico del Banco di Napoli, pur non avendo sortito esito a tal stretto riguardo, ha consentito tuttavia di rintracciare il conto del prelato e le sue movimentazioni. Riservandomi futuri approfondimenti, segnalo soltanto come una iniziale ricognizione concentrata nel primo semestre del 1598 ha evidenziato movimenti e disponibilità di grosse somme di denaro, il più delle volte destinate all’amministrazione della casa e al pagamento di stipendiati, non senza acquisti di argenterie e vino, quest’ultimo forse, come prassi ricorrente in quegli anni, destinato anche ad essere oggetto di dono. Merita di essere menzionata la transazione di una grossa somma di denaro che dalla Polonia veniva accreditata a Reszka attraverso la piazza di Roma, convertita poi in valuta napoletana, a conferma che le vie del denaro seguivano quelle degli uomini e si rivelano traccia utile nel tentativo di ripercorrerle.36 Se, come abbiamo visto, la presenza presso la corte imperiale di napoletani illustri – e ai nomi di Annibale di Capua e Filippo Spinelli vorrei aggiungere, sia pur solo marginalmente, almeno quello di Carlo Theti37 – fu tutt’altro che rara, va allo stesso tempo rilevato che, dal canto suo, l’imperatore poteva contare su qualche interlocutore privilegiato nel viceregno. Abbiamo fatto cenno del rapporto di Rodolfo II con Vespa-

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Antonio Ernesto Denunzio siano Gonzaga e forse proprio in omaggio alla memoria del duca di Sabbioneta l’imperatore concesse nel 1592 importanti privilegi giuridici alla figlia di questi Isabella Gonzaga e a suo marito, Luigi Carafa IV principe di Stigliano, «in considerazione delle benemerenze acquisite».38 Questi, dal canto suo, cercò invano di trattare il matrimonio del suo unico figlio, il duca di Mondragone, con una figlia naturale di Rodolfo II, Carolina.39 Alla luce di tali premesse, è altamente probabile che i principi di Stigliano si preoccupassero, secondo un costume diffuso, di inviare omaggi di varia natura alla corte cesarea: sappiamo per certo soltanto che nel 1599 il principe di Stigliano donava magnifici esemplari di cavalli da guerra40 mentre più avanti negli anni, nel 1623, sua moglie spediva all’imperatrice Eleonora Gonzaga, moglie di Ferdinando II, muli recanti un carico non meglio precisato.41 In direzione contraria viaggiavano emissari dello stesso Rodolfo che raggiungevano Napoli con l’incarico di procurare proprio i celebri e apprezzati cavalli42 o per trattare l’estrazione di un cospicuo numero di botti di vino.43 Vale la pena altresì ricordare l’interesse dell’imperatore per la magia, le arti sperimentali e i fenomeni naturali o la sua ammirazione per Giovan Battista Della Porta a cui scrisse più volte. Nel 1592 due opere del napoletano, il Pomarium e l’Ulivetum, già apparse da qualche anno, venivano ristampate a Francoforte con privilegio di Rodolfo II. Questi, nel 1604, inviava a Napoli il proprio cappellano Cristiano Harmio, per consegnare in dono a Della Porta un proprio ritratto (ancora un’effige dell’imperatore giungeva così in città), una collana d’oro44 e soprattutto una lettera con la richiesta di avere a Praga almeno un allievo che potesse istruirlo sull’arte alchemica e aggiornarlo sugli studi sulla pietra filosofale. A Rodolfo II Della Porta dedicava la sua Taumatologia poi rimasta incompiuta e bloccata dalla censura. A tale contesto di relazioni è probabilmente da ricondurre la presenza nell’inventario della Kunstkammer di Rodolfo a Praga di numerosissimi esemplari di vasellame di «pasta di Napoli» di diverse fogge,45 evidenza finora mi risulta mai rilevata né considerata con la dovuta attenzione. Ritengo possa essersi trattato degli stessi vasi e corredi ceramici, di raffinata fattura, in uso nelle antiche e numerose spezierie e farmacie napoletane, collegate, se non talvolta annesse, a luoghi di studio scientifico come il museo di storia naturale di Ferrante Imperato o lo studio dello stesso Giovan Battista Della Porta.46 L’interesse di Rodolfo II per gli studi e l’attività di quest’ultimo è un ulteriore elemento a sostegno di tale possibilità e fornisce una traccia anche per l’individuazione dei canali di approvvigionamento del vasellame, a cui forse, anche alla luce di quanto fin qui sia pur sommariamente delineato, non furono estranei i principi di Stigliano, che con Della Porta e i suoi fratelli ebbero uno lungo sodalizio.47 Ma ritornerei brevemente alla figura del cardinale Spinelli, per segnalare che al rientro del prelato da Praga a Napoli nel gennaio del 1604, accolto con ogni onore dal viceré,48 il pittore fiammingo Luis Finson ne eseguiva un ritratto, oggi disperso.49 Come è noto, Finson fu tra i più precoci interpreti e seguaci di Caravaggio con cui ebbe un rapporto di conoscenza e di familiarità, se non di diretta collaborazione. Agli studi re-

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Fig. 7 Louis Finson, Autoritratto, Roma, Accademia Nazionale di San Luca

centi egli è noto soprattutto come copista e mercante di opere del maestro lombardo, nonché tra i principali responsabili della diffusione del linguaggio caravaggesco nell’Europa del Nord. La vicenda biografica e formativa di Finson è ancora per gran parte oscura. Dalla notizia relativa all’incarico per il ritratto del cardinale Spinelli si è ritenuto di poter desumere una traccia sui suoi spostamenti prima della sua comparsa in Italia50 La scelta di commissionare a Finson un ritratto del prelato potrebbe aver origine in un rapporto tra i due nato già anni prima, nella Praga di Rodolfo II, una circostanza che ben spiegherebbe quella familiarità mostrata dal pittore, in diverse prove, con le forme del tardo manierismo rudolfino. Rimanda alle atmosfere della capitale boema anche quello che solo qualche anno fa è stato proposto come un autoritratto di Finson, del 1613 (fig. 7), dove egli si raffigura in atto di piegare con una mano la tesa di un cappello la cui foggia risulta piuttosto frequente nella moda asburgica al tempo di Rodolfo II.51 Agli anni napoletani appartiene il dipinto forse più noto del pittore, di certo quello di maggiore qualità e singolarità: I quattro elementi, firmato e datato 1611 (fig. 8).52 L’opera può essere messa in relazione con gli interessi filosofici e naturalistici coltivati in ambito partenopeo da vari personaggi, tra cui il già menzionato Ferrante Imperato, che nel 1599 pubblicava un trattato, Dell’Historia Naturale, incentrato proprio sui quattro elementi fondamentali della fisica aristotelica, aria, acqua, terra, fuoco.53 Il soggetto appare quasi del tutto assente nella produzione del primo naturalismo napoletano, anche se nel palazzo Spinelli dei principi di Tarsia (ritorna il nome di questa famiglia) nel 1654 sono attestate quattro piccole tele di Aniello Falcone, dedicate ai singoli elementi.54 Il precedente per la rutilante composizione finsoniana di corpi intrecciati in un perenne movimento sembra da cercare ancora una volta nel repertorio del tardo manierismo olandese e rudolfino, in particolare nella produzione di Cornelis Cornelisz van Haarlem.

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Fig. 8 Louis Finson, I Quattro Elementi, Houston, Sarah Campbell Blaffer Foundation at the Museum of Fine Arts

È il caso de La caduta dei Titani (fig. 9), affollata scena di corpi nudi in complesse torsioni, o della serie di dipinti raffiguranti Icaro, Fetonte, Tantalo e Issione,55 nota soprattutto attraverso le incisioni che ne trasse Hendrick Goltzius (fig. 10). Non è forse un caso che due pannelli in alabastro ora al Castello di Ambras dipinti fronte-retro da Hans von Aachen, durante il suo soggiorno alla corte di Rodolfo II dal 1595 fino alla morte nel 1615, e rappresentanti varie scene mitologiche, tra cui la caduta di Fetonte, siano stati interpretati come allegorie dei quattro elementi.56 Di recente è stato rilevato come Giovan Battista Marino nelle Rime segnali la presenza nella collezione del principe di

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Fig. 9 Cornelis Cornelisz van Haarlem, La caduta dei Titani, Copenaghen, Statens Museum for Kunst

Conca di due dipinti di «Cornelio Fiammingo», di cui uno raffigurante una Caduta di Fetonte. Finson allora potrebbe aver avuto modo di vedere quell’opera, ritrovando un autore con cui doveva avere acquisito una certa familiarità nel suo probabile soggiorno praghese. L’occasione potrebbe essersi presentata alla morte del principe, nel 1607, quando la sua collezione fu posta in vendita e periziata per conto del duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, interessato all’acquisto, da Frans Pourbus; questi potrebbe aver condotto con sé Finson di cui era concittadino, entrambi nativi di Bruges.57 Non sono da escludere comunque anche contatti diretti tra Matteo di Capua e Finson. Nella residenza del principe a Vico Equense nel 1607 è registrata la presenza di un ritratto del cardinale Spinelli:58 non possiamo affermare che si tratti di quello eseguito dal pittore fiammingo ricordato poc’anzi tuttavia la circostanza genera una certa suggestione.59 Ad ogni modo, tornando brevemente alla Caduta di Fetonte attestata nella collezione del principe e provando a spingerci oltre, è verosimile che il dipinto giungesse a Napoli attraverso uno di quei sentieri che collegavano il viceregno all’Europa settentrionale e alla corte imperiale, sentieri percorsi dal cardinale Spinelli e Luigi Zenobi. Proprio

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Fig. 10 Hendrick Goltzius da Cornelis Cornelisz van Haarlem, Fetonte, 1588, New York, The Metropolitan Museum of Art, Harris Brisbane Dick Fund, 1953

Fig. 11 Ercole seduto su una roccia, I – II sec. d.C., replica romana di un originale greco del IV – II sec. a.C., New York, The Metropolitan Museum of Art

quest’ultimo potrebbe aver ceduto il quadro a Matteo di Capua o a sua moglie, in una circostanza diversa da quella già ricordata e di cui abbiamo notizia. Anche la citata incisione trattane da Goltzius, che risale al 1588, forse ebbe circolazione a Napoli, magari da lui stesso portatavi. Il grande artista olandese infatti fu tra i viaggiatori che muovendosi dal Nord Europa percorsero la penisola fino alla capitale del viceregno: da ottobre del 1590 alla fine del 1591 fu a Venezia, Bologna, Firenze e Roma, dove rimase circa sei mesi.60 Alla fine di aprile del 1591 si spostò brevemente a Napoli, con due compagni di viaggio: l’amico orafo Jan Mathijsz e Philip van Winghen, giovane e dotto antiquario. Karel van Mander ci restituisce qualche dettaglio del viaggio napoletano dei tre amici: essi partirono da Roma abbigliati in modo umile per non attirare l’attenzione dei numerosi ladri che affollavano il tragitto. Durante il soggiorno destarono la loro ammirazione i fenomeni naturali dell’area flegrea, meta immancabile di ogni viaggiatore, e le opere d’arte in città, tra le quali una pregevole statua antica di Ercole seduto che Goltzius ebbe modo di disegnare, probabilmente, secondo Van Mander, nel palazzo vicereale. La circostanza è significativa in quanto la figura del semidio, come è noto, attirò ripetutamente l’attenzione del maestro.61 La scultura, forse individuabile in un torso antico di Ercole oggi al Metropolitan Museum di New York (fig. 11),62

Prelati, principi, agenti potrebbe essere appartenuta al viceré del tempo, il già menzionato conte di Miranda, e costituirebbe dettaglio importante di una raccolta antiquaria posseduta dal nobile spagnolo.63 Per concludere, non resta che segnalare come episodi di un certo rilievo diventino più frequenti man mano che ci si addentra nel XVII secolo, complice anche la fama e la notorietà di alcuni maestri napoletani. Sappiamo per certo che opere di Luca Giordano, ormai sul finire del Seicento, raggiungevano Augusta, destinate a tale Francesco Huber, o Vienna, per i Bartolotti von Partenfeld.64 Altre circostanze di una certa importanza sono relative alla dispersione della raccolta di Gaspar de Roomer, mercante e collezionista fiammingo che trascorse gran parte della vita a Napoli. All’indomani della sua morte, nel 1674, alcuni principi tedeschi riuscirono ad acquisire per le proprie collezioni opere appartenute al ricco uomo d’affari. È il caso, in particolare, del principe di Braunschweig alla cui azione si deve probabilmente la presenza di molte opere napoletane oggi nell’Herzog Anton Ulrich-Museum di quella città.65 Ma un discorso analogo è stato tentato di recente anche per alcune opere ora nelle collezioni dell’Alte Pinakothek di Monaco.66 La pertinenza di diversi dipinti alle raccolte storiche di Düsseldorf, poi trasferite in varie riprese nella citta bavarese, ha incoraggiato qualche riflessione su una loro possibile più antica e comune provenienza. La collezione di Düsseldorf, infatti, vantava un cospicuo numero di dipinti, soprattutto fiamminghi, acquistati da Giovanni Guglielmo II, Elettore Palatino dal 1690 al 1716, che, qualche anno prima di ricevere il titolo di Elettore, in veste soltanto di duca di Jülich e Berg (circostanza maggiormente significativa in quanto da Jülich proveniva la famiglia di Gaspar de Roomer) aveva soggiornato a Napoli insieme ai suoi fratelli. Ad accoglierli fu il viceré del tempo, don Gasparo de Haro y Guzmán VII marchese del Carpio, che a sua volta acquistava per le proprie raccolte opere appartenute al mercante fiammingo.67 Evidentemente a quelle date alcuni esemplari della rinomata raccolta erano ancora disponibili sul mercato napoletano e suscitavano curiosità e interessi collezionistici anche fuori d’Italia.

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Antonio Ernesto Denunzio 1 Desidero ringraziare per vari consigli e suggerimenti Luigi Abetti, Katiuscia Di Rocco, Giovanni Muto, Giuseppe Porzio, Renato Ruotolo, Štěpán Vácha. 2 T. Vignau-Wilberg, In Europa zu Hause. Niederländer in München um 1600, München, Hirmer, 2005, p. 39. Sui percorsi e l’organizzazione del viaggio in Italia la letteratura è naturalmente molto ricca; qui si rimanda unicamente a A. Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale dal XVI al XIX secolo, Cinisello Balsamo, Pizzi, 1987. 3 Francesco Maria II Della Rovere. Diario, a cura di F. Sangiorgi, Urbino, QuattroVenti, 1989, p. 6. Ne è notizia anche nella lettera di Marcantonio Ricci al duca Ottavio Farnese a Parma, Praga 26 marzo 1585: «Di novo il Duca Guglielmo di Baviera s’è partito con li cavalli soli sconosciuto per la Mad.na di Loreto e si crede passarà a Roma» (Archivio di Stato di Napoli – d’ora in avanti ASNa – Archivio Farnesiano, fascio 172 II, c. 393). 4 Pieter de Witte /Pietro Candido: un pittore del Cinquecento tra Volterra e Monaco, a cura di M. Burresi, A. Cecchi, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2009, p. 70. 5 A. E. Denunzio, A Newly Rediscovered Portrait of William V of Bavaria by Hans von Aachen, in «Studia Rudolphina», 15, 2015, pp. 126–131. Nel gennaio del 1579 il principe Ferdinando di Baviera, figlio del duca Alberto V e fratello di Guglielmo, soggiornava in Italia per le nozze di Margherita Gonzaga con il duca di Ferrara Alfonso II d’Este e manifestava il proposito, poi non attuato, di spingersi fino a Napoli (ASNa, Archivio Farnesiano, fascio 172 I, c. 117, Giovanni Maria Agaccio a Giovan Battista Pico segretario del duca di Parma, Praga 4 gennaio 1579). 6 D. Vianello, L’arte del buffone. Maschere e spettacolo tra Italia e Baviera nel XVI secolo, Roma, Bulzoni, 2005. Negli intrecci qui soltanto delineati vale la pena segnalare che nel 1596 Hans von Aachen sposava la figlia di Orlando di Lasso. 7 Vignau-Wilberg, In Europa zu Hause, cit., p. 45. 8 Su Jacopo Aldobrandini, nunzio a Napoli dal 1592 al 1605, si veda L. Firpo, Aldobrandini, Iacopo, in Dizionario Biografico degli Italiani, ii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960, p. 107 e il più recente V. Sorrentino, Precisazioni sulla committenza di Jacopo Aldobrandini, nunzio apostolico a Napoli (1592–1605), in «Confronto», 2019, pp. 89–104. 9 Archivio di Stato di Firenze (d’ora in avanti ASFi), Carte Strozziane, I serie, filza 194, lettera del cardinale Cinzio Aldobrandini al nunzio, Roma 25 aprile 1593. La lettera continua così: «Con S. A. alloggieranno in casa di V. S. sei persone in circa; mà quattro saranno principali, et due mangieranno seco. A gl’altri che in tutto non eccedranno il numero di 40 provederanno li Ministri di S. A. ad un Hosteria d’un Tedesco che come riferiscono tiene l’insegna dell’Aquila al quale non sarà farsi male di farne dire due parole». 10 ASFi, Carte Strozziane, I serie, filza 211, minuta di lettera di Jacopo Aldobrandini a Cinzio Aldobrandini, Napoli 4 maggio 1593. 11 Ivi, lettera del 2 maggio 1593. Sulla figura del giovane principe, H. Dotterweich, Der junge Maximilian, München, Süddeutscher Verlag, 1962. 12 T. Costo, Del compendio dell’istoria del regno di Napoli, di Tomaso Costo napolitano. Parte terza. Aggiuntovi in questa ultima editione il quarto libro che supplisce per tutto l’anno 1610 …, Venezia, Giunti, 1613, p. 136. 13 Anche il viceré del tempo, il VI conte di Miranda, che ritroveremo più avanti, era impegnato nell’acquisto di reliquie e ne dà notizia, singolarmente, lo stesso nunzio in una lettera al cardinale Cinzio Aldobrandini (A. E. Denunzio, Copie per i viceré di Napoli. Doni diplomatici e collezionismo tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento, in Las copias de obras maestras de la pintura en

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las colecciones de los Austrias y el Museo del Prado, atti del convegno Madrid 2017, a cura di D. García Cueto, Madrid, Museo Nacional del Prado, 2021, pp. 177–187). A. M. da Carmignano di Brenta, Missione diplomatica di Lorenzo da Brindisi alla corte di Spagna in favore della Lega cattolica tedesca (1609), Padova, ex Officina typographica seminarii, 1964; I. Mauro, «Mirando le difficoltà di ristorare le rovine del nostro honore». La nobiltà napoletana e le ambasciate della città di Napoli a Madrid, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2014, n. 1, pp. 25–50. Sulla figura di san Lorenzo da Brindisi si rimanda a: A. M. de Rossi da Voltaggio, Vita del Venerabile servo di Dio padre Lorenzo da Brindisi, Generale dei Frati Minori Cappuccini di S. Francesco, Roma, Bernabò, 1710; B. da Coccaglio, Vita del Beato Lorenzo da Brindisi, Roma, nella stamperia del Casaletti nel palazzo Massimi, 1783 e D. Busolini, Lorenzo da Brindisi, santo, in Dizionario Biografico degli italiani, lxvi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2006 , pp. 64–67. Si veda anche il recente volume San Lorenzo da Brindisi doctor apostolicus nell’Europa tra Cinque e Seicento, atti del convegno Venezia 2019, a cura di G. Ingegneri, Padova, San Leopoldo, 2021. M. P. Pettinau Vescina, Gli «addobbi» per le reliquie delle socie di S. Orsola nella chiesa di S. Maria degli Angeli a Brindisi, in «Itinerari di ricerca storica». Dipartimento di Studi Storici dal Medioevo all’Età Contemporanea, Università degli Studi di Lecce, Galatina, 2, 1988, pp. 313–321, alle pp. 316 e 321 per il dettaglio dei materiali giunti a Brindisi. Per un’antica descrizione di reliquie e arredi sacri custoditi nella chiesa si veda De’ Rossi da Voltaggio, Vita del Venerabile, cit., 1710, pp. 265–267. Pettinau Vescina, Gli «addobbi» per le reliquie, cit., p. 315. Carmignano da Brenta, Missione diplomatica, cit., pp. 43–44. Devo questo parere a Massimo Guastella che ringrazio per la sua amabile disponibilità. Archivio Storico Diocesano di Brindisi, Fondo Santa Maria degli Angeli, Cartella SA 21, Cause, fascicolo 1, informazioni sul crocifisso eburneo delle cappuccine, lettera di frate Macario da Verona, Brindisi 24 aprile 1617. Sul crocifisso si veda A. Della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi …, Lecce, appresso Pietro Micheli, 1674, p. 692; sul suo arrivo a Brindisi, Pettinau Vescina, Gli «addobbi» per le reliquie, cit., p. 315. In un documento del 1611 si parla di reliquie ma anche di generici «paramenti e quadri» mandati a Brindisi da san Lorenzo (R. Jurlaro, S. Lorenzo da Brindisi e la sua patria, Roma, Miscellanea Francescana, 1959, p. 9). R. Jurlaro, Le chiese di Brindisi: S. Maria degli Angeli, in «Pastorale Diocesana», 2, 1974, pp. 54– 55. L. Galante, La pala dell’altare maggiore della Chiesa di S. Maria degli Angeli a Brindisi, in Virgo Beatissima, a cura di M. Guastella, Brindisi, Editrice Alfeo, 1990, pp. 133–138. N. Barbone Pugliese, La ritrovata «Assunzione della Vergine» di Aert Mytens, in «Napoli Nobilissima» 1991, pp. 161–171, alla p. 161 annunciava un intervento di Vincenzo Pugliese su un’attribuzione a Candido poi mai apparso. Lo stesso V. Pugliese, Giacomo de Vanis: una rara figura di nobile dilettante di pittura del Cinquecento pugliese, in «Brundisii res», 1986, pp. 3–55, alle pp. 28–30 aveva per primo individuato nel dipinto «i modi di certi pittori del Nord Europa acclimatatisi nelle calli veneziane». Non se ne trova menzione infatti in B. Volk-Knüttel, Peter Candid (um 1548–1628). Gemälde, Zeichnungen, Druckgraphik, Berlin, Deutscher Verlag für Kunstwissenschaft, 2010 e Pieter de Witte, cit. Pieter de Witte, cit., p. 77.

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Antonio Ernesto Denunzio 27 Per un profilo biografico di Zenobi si veda B. J. Blackburn, E. E. Lowinsky, Luigi Zenobi and his letter on the perfect Musician, in «Studi Musicali», 1993, pp. 61–114. 28 Il documento è pubblicato in Arti e lettere a Napoli tra Cinque e Seicento: studi su Matteo di Capua, a cura di A. Zezza, Milano, Officina libraria, 2020, Appendice II, n. 355. Il volume curato da Andrea Zezza, che ringrazio, è apparso mentre questo contributo era in corso di pubblicazione. 29 A. E. Denunzio, Sull’antica provenienza de Il Trionfo della Morte di Pieter Brueghel il Vecchio del Museo del Prado: le collezioni di Vespasiano Gonzaga tra Sabbioneta, Napoli e Madrid, in «Boletín del Museo del Prado», 29, 2011, n. 47, pp. 6–15. 30 P. Sanvito, Collezionismo imperialregio e collezionismo a Sabbioneta: l’influenza del modello asburgico, in Vespasiano Gonzaga e il ducato di Sabbioneta, atti del convegno Sabbioneta-Mantova 1991, a cura di U. Bazzotti, D. Ferrari, C. Mozzarelli, Mantova, Publi Paolini, 1993, pp. 181– 205. A quanto noto aggiungiamo la notizie contenuta nella lettera inviata da Marcantonio Ricci da Praga alla corte di Parma, 28 febbraio 1589: «Il Sig.r Duca di Sabioneta partì hieri per Italia regalato da S. M.tà Ces.a d’un horologio di valore di mille scudi e d’un belliss.mo caval turco oltre a un privilegio ottenuto da lei di poter far in ogni tempo à suo beneplacito tre mila cavalli nell’Imp.ro et nel licentiarsi de S. M.tà ella l’ha anche honorato di titulo d’Ill.mo facendolo sedere nella sua camera» (ASNa, Archivio Farnesiano, 172 II, c. 123). 31 G. Olmi, Lettere di Fra Gregorio da Reggio, cappuccino e botanico del tardo Rinascimento, in Musa musaei, a cura di M. Beretta, P. Galluzzi, C. Triarico, Firenze, Istituto e Museo di Storia della Scienza, 2003, pp. 117–139, alla p. 135. 32 Sul cardinale L. Orabona, Vescovi e società in Aversa. Religiosità meridionale del Cinque e Seicento tra riforma cattolica e controriforma. Documenti inediti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2003, pp. 129–144; sulla sua attività alla corte di Praga, K. Stloukal, Papežská politika a císařský dvůr pražský na předělu XVI. a XVII. věku. La politica papale e la Curia Imperiale a Praga alla fine del Cinquecento ed al principio del Seicento, Praha, Nákl. Filosofické fakulty University Karlovy, 1925 e J. P. Niederkorn, Die Geheimverhandlungen des Prager Nuntius Spinelli über die Abtretung von Modena und Reggio an den Heiligen Stuhl (1600/1601), in Kaiserhof – Papsthof (16.–18. Jahrhundert), a cura di R. Bösel, G. Klingenstein, E. Garms-Cornides, Wien, Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2006, pp. 33–43. 33 F. M. Maggio, Vita della venerabil madre Orsola Benincasa napoletana …, Roma, nella stamparia d’Ignatio de’ Lazzari, 1655, p. 431. 34 Sorrentino, Precisazioni sulla committenza, cit., p. 89 e p. 100 nota 7. 35 Tutte le notizie sono tratte da J. W. Woś, Stanislao Reszka segretario del card. S. Hozjusz e ambasciatore del re di Polonia a Roma e a Napoli (n. 1544–m. post 1600,) in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 8, 1978, pp. 187–202, a cui si rimanda anche per la bibliografia dettagliata. La data di morte di Reszka si evince dalla lettera di Giovan Carlo Scaramelli, residente veneziano a Napoli, al Senato, 4 aprile 1600, in Archivio di Stato di Venezia – d’ora in avanti ASVe, Senato, Dispacci Napoli, filza 16 (7) in A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli, Dispacci, vol. iii, 27 maggio 1597 – 2 novembre 1604, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1991, p. 285. Alla morte di Reszka, la corte polacca inviava a Napoli come internunzio monsignor Giovan Andrea Prochnicki, discendente del ramo polacco della famiglia Carafa (Korckzak) (Giovan Carlo Scaramelli al Senato, Napoli 23 gennaio 1601, in ASVe, Senato, Dispacci Napoli, filza 16 (62) in Barzazi, Corrispondenze diplomatiche veneziane, cit., p. 356). Sulle diramazioni polacche dalla famiglia Carafa, B. Aldimari,

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Historia genealogica della famiglia Carafa, divisa in tre libri, Napoli, nella stamperia di Giuseppe Roselli, 1691, p. 40. Archivio storico del Banco di Napoli – Fondazione, Banco dell’Annunziata, giornale di cassa 1598, matricola 26. Segnalo qui anche l’inedito testamento del prelato in ASNa, Archivi dei Notai del XVI secolo, Marco Antonio De Vivo, scheda 265, protocollo 42, documento che non fornisce particolari dettagli su beni posseduti. Nato a Nola nel 1529, illustre architetto, ingegnere e trattatista militare fu al servizio prima dell’imperatore Massimiliano II a Vienna per 10 anni e poi del duca di Baviera Guglielmo V. Morì a Padova nel 1589 e sull’epigrafe posta sulla sua tomba è ricordato come antico consigliere del Serenissimo Duca di Baviera (P. Manzi, Carlo Theti da Nola, ingegnere militare del sec. XVI, Roma, Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio, 1960, p. 20). Segnaliamo la notizia in ASNa, Archivio Farnesiano, 172 I, c. 140, lettera di Gio. Maria Agaccio da Praga a Giovan Battista Pico segretario del Duca di Parma, 15 maggio 1579: «Venne qua il s.r Carlo Theti Napolitano servitore di S. M.tà che serve in Fiandra l’Arcid. Mathias, il quale racconta di quella guerra molte cose degne di sapere». J. Mazzoleni (a cura di), Regesto delle pergamene di Castelcapuano: a. 1268–1789, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1942, pp. 20–21. Lettera di Giovan Carlo Scaramelli al Senato, Napoli 7 dicembre 1599, in ASVe, Senato, Dispacci Napoli, filza 15 (50) in Barzazi, Corrispondenze diplomatiche veneziane, cit., p. 264. Lettera di Giovan Carlo Scaramelli al Senato, Napoli 13 aprile 1599, in ASVe, Senato, Dispacci Napoli, filza 15 (7) in Barzazi, Corrispondenze diplomatiche veneziane, cit., pp. 212–213. Lettera inviata da Vincenzo Zucconi al duca Ferdinando Gonzaga a Mantova, Vienna 26 luglio 1623, in Archivio di Stato di Mantova (d’ora in avanti ASMn), Archivio Gonzaga, busta 493, f. IV, cc. 522–523, in E. Venturini, Le collezioni Gonzaga. Il carteggio tra la Corte Cesarea e Mantova (1559–1636), Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2002, p. 289. Nel 1584 Ferrante Celso, «cavalcatore di sua maestà», si spingeva a Napoli per «condurli cavalli» (lettera di Giovanni Kintzkij, consigliere imperiale, al duca di Mantova Guglielmo Gonzaga, Praga 4 marzo 1584, in ASMn, Archivio Gonzaga, busta 462, f. III, cc. 273–274, in Venturini, Le collezioni Gonzaga, cit., p. 274). Ancora sui cavalli è la lettera di Philipp Lang al duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga, Praga 26 luglio 1604 (ASMn, Archivio Gonzaga, busta 483, f. III, cc. 563–564, in Venturini, Le collezioni Gonzaga, cit., p. 557). Lettera di Giovan Carlo Scaramelli, residente veneziano a Napoli al Senato, Napoli 15 agosto 1599, in ASVe, Senato, Dispacci Napoli, filza 15 (29) in Barzazi, Corrispondenze diplomatiche veneziane, cit., pp. 238–239. A. Bulifon, Giornali di Napoli dal MDXLVII al MDCCVI, a cura di N. Cortese, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1932, p. 98; G. Gabrieli, Giovan Battista della Porta Linceo. Da documenti per gran parte inediti, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1927, pp. 360–396 e 423–431, alle pp. 424, 430; L. Muraro, Giambattista Della Porta mago e scienziato, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 21–22. R. Bauer, Das Kunstkammerinventar Kaiser Rudolfs II. 1607–1611, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», 72, 1976, 11–191, alle pp. 63–64 ma anche in altre parti dell’inventario. G. Donatone, I vasi di maiolica delle antiche spezierie napoletane, Napoli, Guida, 2018. Si veda ad esempio la lettera del 7 aprile 1612 in cui Della Porta, scrivendo a Federico Cesi, principe dell’Accademia dei Lincei di cui il napoletano dal 1610 era membro, «tratta di fare

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Linceo» il principe di Stigliano (Gabrieli, Giovan Battista della Porta Linceo, cit., 1927, p. 375 nonché p. 424 per il rapporto di Luigi Carafa con un fratello di Della Porta). Ricordiamo anche che entrambi furono membri dell’Accademia napoletana degli Oziosi. Lettera di Anton Maria Vincenti e Pietro Bartoli, residenti veneziani a Napoli, al Senato, 2 novembre 1604, in ASVe, Senato, Dispacci Napoli, filza 20 (60) in Barzazi, Corrispondenze diplomatiche veneziane, cit., p. 584. G. Porzio, Louis Finson a Napoli. Le tracce documentarie, in Giuditta decapita Oloferne. Louis Finson interprete di Caravaggio, catalogo della mostra, Napoli, Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano, a cura di G. Capitelli, A. E. Denunzio, G. Porzio e M. C. Terzaghi, Napoli, Arte’m, 2013, pp. 53–68, alle pp. 54, 66. G. Capitelli, Louis Finson tra Europa e Mediterraneo, in Giuditta decapita Oloferne, cit., pp. 15– 27, alla p. 16. A. G. De Marchi, Finson: Business and Painting, in A. G. De Marchi, G. Capitelli, Louis Finson. Business and Painting, Firenze, Centro Di, 2014, pp. 9–26, alla p. 11. È da segnalare negli stessi anni la presenza a Napoli del pittore bavarese Jakob Ernst Thomann von Hagelstein, compagno e copista di Adam Elsheimer a Roma. Thomann, la cui vicenda nel viceregno intreccia quella di Tanzio da Varallo, nel 1610 attesta di essersi formato ad Alagna presso il fratello del pittore valsesiano, Melchiorre, poi spostatosi tra Augusta e Praga. Lo stesso pittore bavarese, dopo la sua esperienza italiana, avrebbe raggiunto Praga per prestare servizio alla corte di Ferdinando II (G. Porzio, Tanzio da Varallo e la sua cerchia. Documenti per gli anni meridionali, in Tanzio da Varallo incontra Caravaggio. Pittura a Napoli nel primo Seicento, catalogo della mostra, Napoli, Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano, a cura di M. C. Terzaghi, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2014, pp. 51–59, alle pp. 53–57). Sul dipinto P. H. Janssen, «The Four Elements» by Louis Finson: a rediscovered masterpiece, in Louis Finson. The Four Elements, a cura di P. Smeets, Milano, Rob Smeets, 2007, pp. 13–26 e G. Porzio, Los cuatro Elementos, scheda in Caravaggio y los pintores del norte, catalogo della mostra, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, a cura di G. Jan van der Sman, Madrid 2016, p. 190. Può essere utile soltanto segnalare come l’ambiente scientifico napoletano ebbe frequenti contatti con uomini di scienza dell’area tedesca (G. Olmi, Per la storia dei rapporti scientifici fra Italia e Germania: lettere di Francesco Calzolari a Joachim Camerarius II, in Dai cantieri della storia. Liber amicorum per Paolo Prodi, a cura di G. P. Brizzi e G. Olmi, Bologna, CLUEB, 2007, pp. 343– 361). G. Labrot, Collections of paintings in Naples: 1600–1780 (Documents for the history of collecting. Italian inventories, 1), München/London/Paris/Londra/New York, Saur, 1992, p. 80. Ci è pervenuto il dipinto con la Caduta di Issione, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen (P. J. J. Van Thiel, Cornelis Cornelisz van Haarlem: a monograph and catalogue raisonné, Doornspijk, Davaco, 1999, p. 148). J. Jacoby, Hans von Aachen 1552–1615, München/Berlin, Deutscher Kunstverlag, 2000, pp. 143–145. G. Porzio, Los cuatro Elementos, cit. per il collegamento tra il dipinto di Finson e le due opere di «Cornelio Fiammingo» attestate nella collezione del principe di Conca. Sulla presenza di Pourbus a Napoli e per un riepilogo dei contatti avuti con Finson, ben noti agli studiosi di vicende caravaggesche, si veda R. Morselli, Le collezioni Gonzaga. L’elenco dei beni del 1626–1627, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2000, pp. 52–54.

Prelati, principi, agenti 58 Arti e lettere a Napoli, cit., Appendice. Altrettanto singolare, in virtù dell’intreccio di relazioni considerate, è ritrovare nello stesso luogo anche una «catena» donata a Tasso dal duca di Baviera. 59 In realtà per quel ritratto Finson veniva pagato dal principe di Cariati (Porzio, Louis Finson a Napoli, cit., p. 66), nipote del Cardinale e ugualmente congiunto di Matteo di Capua. 60 K. Van Mander, Het Schilder-Boeck, Haarlem, Van Wesbusch, 1604, ff. 283r-v; K. Van Mander. The lives of the illustrious Netherlandish and German painters, from the first edition of the Schilderboeck (1603–1604), edizione a cura di H. Miedema, 6 voll., Doornspijk, Davaco, 1994–1999, vol. vi, pp. 392–393. 61 B. L. Holman, Goltzius’ Great Hercules: mythology, art and politics, in «Nederlands kunsthistorisch jaarboek», 42/43, 1991–1992, pp. 397–412. 62 M. J. Zaparaín Yáñez, J. Escorial Esgueva, Los VI Condes de Miranda y sus relaciones artísticas con Italia. Poder, memoria y Piedad. Aproximación a su estudio, in Coleccionismo, mecenazgo y mercado artístico: su proyección en Europa y América, a cura di A. Holguera Cabrera, E. Prieto Ustio e M. Uriondo Lozano, Sevilla, Universidad de Sevilla, 2018, pp. 618–633, alle pp. 627–628, ripropongono l’ipotesi, non corroborata da particolari riscontri, di J. González Marañón, Un torso griego interesante, in «Boletín del Seminario de Estudios de Arte y Arqueología», 5, 1936–1939, pp. 102–104, circa una possibile pertinenza alle collezioni dei conti di Miranda del torso del Metropolitan Museum of Art di New York (accession number 11.55). Sulla scultura si veda anche A. García y Bellido, Esculturas romanas de España y Portugal, 2 voll., Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 1949, pp. 92–93, che registra una provenienza da Valladolid. 63 Purtroppo non si possiede abbondanza di riscontri sulle collezioni raccolte a Napoli dal viceré. Nel 1848 il casato si integrò con la Casa d’Alba dove confluì, insieme a tutti gli altri beni, anche l’archivio di famiglia, poi in gran parte distrutto. Sappiamo per certo soltanto che rientrando in Spagna una delle galere al seguito del viceré affondò con quanto vi era traportato: A. E. Denunzio, Accoglienze illustri e doni diplomatici alla corte vicereale di Napoli (1586–1616), in Fiesta y ceremonia en la corte virreinal de Nápoles (siglos XVI y XVII), a cura di G. Galasso, J. V. Quirante e J. L. Colomer, Madrid, CEEH, 2013, pp. 195–234, alla p. 197. Per altre notizie sulle raccolte del conte di Miranda si rimanda a A. E. Denunzio, Brevi considerazioni intorno a due ambiti della committenza dosiana: la corte farnesiana di Roma e quella vicereale di Napoli, in Giovan Antonio Dosio da San Gimignano, architetto e scultor fiorentino tra Roma, Firenze e Napoli, a cura di E. Barletti, Firenze, Edifir, 2012, pp. 139–146 e Denunzio, Copie per i vicerè, cit. 64 G. Medugno, I mercanti veneziani Guglielmo e Giuseppe Samuelli e la diffusione della pittura napoletana fuori dal Viceregno, in «Ricerche sull’Arte a Napoli in Età Moderna. Saggi e documenti», Napoli, Arte’m, 2016, pp. 78–101, alla p. 86. 65 R. Ruotolo, Mercanti-collezionisti fiamminghi a Napoli: Gaspare Roomer e i Vandeneynden, Ricerche sul ’600 napoletano, Massa Lubrense, Scarpati, 1982, p. 9. 66 A. E. Denunzio, Napoli-Anversa: formazione, dispersione e ritorno della collezione Vandeneynden, in Rubens, Van Dyck, Ribera. La collezione di un principe, catalogo della mostra, Napoli, Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano, 2018–2019, a cura di A. E. Denunzio, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2018, pp. 13–23, alla p. 18. 67 L. de Frutos Sastre, El templo de la Fama. Alegoría del Marqués del Carpio, Madrid, Fundación Arte Hispánico, 2009, p. 661.

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Principi in affari. Don Giovanni Valdina imprenditore e collezionista siciliano del Seicento

[Palermo], Nov. 1689 Per il Sig.r D. Marcello Cremona, Roma Persona che desidera piantare la di lui casa dal Regno di Sicilia per abitare in Roma, brama sapere individualmente quale genere di mobile dell’infrascritto deve condurre seco, che sia all’uso di quella corte. Oltre la quantità di sedie di vacchetta di fiandra con suoi chiodi dorati, ne tiene da 12 di esse di velluto cremesino con sua frangia d’oro a torno, e chiodi all’usanza spagnola come il Sig. D. Marcello Cremona ben sa, ed altrettante di velluto cremesino lavorato con chiodi dorati e frangia di seta. Vi sono varie boffette, e cioè due famosissime fabbricate in Roma d’intaglio dorato di p(rez)zo di > (onze) 700 con suoi boffettini di pietra di paragone = altri con piede dorate e intagliate fatte in Palermo = altre di ebbano ed avorio grandi e picciole. Trabacca di granatino con rame dorato grande alla spagnola ed altra di riposo del med(edesim)o granatino = altra di legno ritorta ad imita(zio)ne di ebbano nero con i suoi tramezzi di legno bene dorati. Scrittorij di tartaruca guarnuti con rame dorato con suoi piedi di legno intagliati dorati. Uno studiolo di barzì sandalino ed avorio lavorato per tenerci scritture, con la sua scrivania. Specchi grandi con sue cornici di ebbano negro. Due cimbali, uno di Geronimo de Zentis [sic] con suo artificio di abbassare ed alzare i toni – altro fabbricato in Palermo di mediocre voce con pitture di fuori e piedi dorati. Quantità di matarazzi per il Princ(ipe) e servitori. Vi sono quantità di armi da fuoco cioè scopetti da caccia, carrabbine corte e lunghe, pistole da cavallo, da fianco e da stacco. Diverse selle di colore per la campagna. Mediocri guarnimenti di carrozza, perché d(ette) carrozze non si pongono in nota a riguardo che debbono restare come pose sedersi e rollanti; la fabbrica delle quali in Roma, si sa, che sia celebre più d’ogni altro paese. La sedia con aste a braccio di dentro di domasco violetto e di fuori incerata verde e galloni di seta avorio e bianco della quale in Palermo la persona sopracennata se ne suole servire nei giorni che si trova aggravato da sbuffioni(?) di podagra. Tiene quantità di quadri li maggiori di p(al)mi 12 e 8 e gli altri di varie misure tutti di mano di Alonzo Pittore messinese Antico le cui opere stanno in qualche stima e la ris(olu)zione circa se si devono condurre potrà concertarsi col S.r Agostino Scilla, che si trova in Roma, dando il modo del trasporto per venire ben condizionati, come pure di qualunque altro quadro che la persona stimerà di non essere disprezzabile in quella corte.

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Vincenzo Abbate Concernente à cortinaggi ed altri apparati di seta, come di panni di arazzo non si distinguono, né si fa nota per essere robba che viene apprezzata in qualunque parte del mondo; ma solo si desidera sapere quale sorte di apparati per està sono in uso in detta corte di Roma, e di essi mandarne qualche mostra, per potervi provedere di persona prima di partire. Si desidera un ragguaglio della famiglia cavallerizza che la persona deve mantenere, con la distinzione della quantità dei cavalli e se si stima portarsi da qui qualche paranza di mule belle, oltre di essi. Tocco [= quanto nda] a’ servitori, già è ben noto, che se ne condurranno quanto meno sia possibile di quei di Sicilia per più ragioni e la maggiore sarà quella di non sentire, né vedere più genti nati sotto questo cielo.1

A Roma, a Roma, a cambiar aria! La persona che, ormai decisa a trasferirsi nell’Urbe, chiedeva lumi e «savij pareri» all’amico monsignore circa l’arredo confacente «all’uso di quella corte» per non sfigurare era don Giovanni Valdina, principe di Valdina e marchese della Rocca (l’odierna Roccavaldina in Provincia di Messina). Lo scoraggiamento per la salute malferma (la podagra e «una grave flussione al collo») si univa infatti ad uno stato generale di malessere e di totale disillusione per via di vicende personali patite nel corso degli ultimi due decenni: la sospetta complicità con i francesi durante la rivoluzione di Messina che lo aveva portato esule in Francia e poi a Genova per ben dodici anni, dal 1676 al 1688; l’impotenza di fronte alla corruzione imperante tra i ministri del regno, viceré per primi; il sentirsi rifiutato e odiato nella sua terra, che dico, nella sua stessa casa per via della lunga causa di nullità della professione di fede di sua sorella Anna che, monacata di forza dal padre a soli dodici anni presso il monastero delle Stimmate di Palermo (1647), vicina ora ai sessanta chiedeva il ritorno allo stato laicale con una serie di «scritture» e di atti giudiziari contro il fratello erede universale, definito uomo collerico e violento; non ultima infine, per «il ruvinato e vituperoso stile siciliano», l’accusa di furto riguardante la gestione dell’archivio della Regia Gran Corte di cui era Mastro Notaro, che «con totale discapito del mio decoro» – come ebbe a scrivere – gli costò gli arresti domiciliari per quasi cinque mesi e una «pleggeria bancale» di 10.000 scudi.2 L’alta carica ereditabile di Mastro Notaro gli era pervenuta dal nonno paterno Pietro, primo marchese della Rocca e primo principe di Valdina, sin da quando – come primogenito – era stato investito formalmente del titolo il 13 aprile 1660 a circa un anno dalla morte del padre Andrea IV Valdina del Bosco, cavaliere di Alcantara, deceduto a Palermo il 2 maggio 1659.3 Nonostante il feudo – antica terra baronale col mero e misto Impero del Val Demone, alle spalle di Milazzo, ripartita tra i due centri collinari di Rocca e di Valdina con sbocco a mare nel casale di Fondachello – orbitasse topograficamente e commercialmente su Messina, i Valdina preferirono risiedere sempre a Palermo, impartendo la

Principi in affari giustizia nei loro stati e curando da qui i loro interessi economici che legati in toto alla città dello Stretto e al suo territorio furono prevalentemente mirati nel corso di tutto il XVII secolo alla coltura del gelso, del baco e quindi al commercio della seta. È codesta l’attività che – diffusasi lungo tutta la costa tirrenica da Cefalù al Faro e in particolare nell’area nebroidea – sviluppa una mole imponente di traffici internazionali e polarizza l’intera società messinese,4 dando vita a quella «nobiltà cittadina» che per Rosario Villari ha per l’appunto «le sue basi nel commercio della seta e del grano o nei traffici finanziari sulle dogane, ma che deve la sua forza e la sua ricchezza ai suoi privilegi nei confronti di quel vasto feudo circostante che è la zona siciliana e calabrese di produzione della seta».5 Un establishment destinato a crollare inesorabilmente con il fallimento della rivoluzione di Messina del 1674–1678, definita giustamente un «tentativo confuso e velleitario di distacco della città dalla corona di Spagna» (Saverio Di Bella). Il mancato appoggio della Francia di Luigi XIV, seguito alla Pace di Nimega, segnò l’inizio della catastrofe perché la punizione inflitta dalla monarchia iberica fu durissima soprattutto quando nel 1679 il viceré Francisco de Benavides Dávila conte di Santisteban del Puerto la condannò alla pena della confisca di tutti i beni, la dichiarò morta civilmente e ordinò che venisse privata di tutti i suoi privilegi grazie ai quali si era assicurata per secoli una posizione di preminenza rispetto ad altre città dell’Isola.6 Gli esuli non si contarono e tra costoro – con personalità di primo piano come Carlo Gregorio, Giovanni Alfonso Borelli, Agostino Scilla, il visconte di Francavilla Giacomo Ruffo – il nostro Valdina, di cui già da tempo si vociferavano oscure manovre contro la Spagna da parte della sua famiglia stimata di «genio francese».

Il principe imprenditore In Giovanni Valdina convivevano ad onor del vero due anime, per così dire, due sentimenti connaturati nella sua indole e nella mentalità barocca. D’un canto il senso pieno di appartenenza alla casta, al ruolo, all’apparire, a quanto ereditato ex officio dal lato paterno, col portamento e lo stile di vita tipici dell’aristocrazia d’Ancien Règime, il culto della cavalleria in primis e degli «esercizii cavallereschi» – lui, che tra gli avi vantava quel don Mariano Valdina abile giostratore ad inizio secolo della nobile «Academia» palermitana7 – e di conseguenza la predisposizione al bello, al buon gusto e quindi l’amore per il collezionismo, il teatro e la musica. Dall’altro tutto quanto gliene derivava, ex ingenio – per natura congenita o spiccato interesse –, dal lato materno. La madre Paola, di cui aveva interamente ereditato il patrimonio, era infatti figlia di Agostino Vignolo ricco mercante genovese e di Caterina Papè, primogenita di quell’Adriano Papè originario di Anversa che già a fine Cinquecento importava in Sicilia arazzi e pitture di Fiandre. Anche nonna Caterina s’era presto interessata al mercato dell’arte, se già per tempo commissionava al fiammingo Gaspar de Momper dipinti destinati alla vendita e

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Vincenzo Abbate si occupava di raffinati oggetti in cristallo di rocca, forte di un’esperienza maturata di sicuro a Milano dove la famiglia aveva soggiornato prima di trasferirsi definitivamente a Palermo.8 Anche il nostro principe confermerà in pieno la vocazione familiare al commercio e all’investimento finanziario con l’attenta gestione del patrimonio e l’organizzazione economica e sociale dei territori di Rocca e di Valdina, paesi notoriamente dediti all’allevamento del baco da seta. Lo farà a distanza, da Palermo dove abita e hanno sede le sue attività di imprenditore e di Mastro Notaro della Regia Gran Corte. Orietta Salamone, che ha catalogato e studiato attentamente le carte dell’archivio gentilizio Papè di Valdina, non ha mancato di evidenziare come i Valdina da sempre rilevassero dai contadini seta grezza per poi lavorarla e rivenderla ai mercanti, soprattutto attraverso il porto di Messina: D’altra parte anticipando ai contadini le somme loro indispensabili per iniziare e mantenere l’attività di allevatori di baco e produttori di seta si assicurano grandi quantità di prodotto finito che viene reso a saldo del denaro ricevuto in prestito.9

Gli interessi ad ampio raggio del principe si possono cogliere in pieno grazie a due registri di «lettere, missive, istruzioni, ordini e ricordi per varie parti» con amici, agenti, curatori, mercanti, amministratori dei suoi feudi, conservati nell’archivio privato (voll. 1202 e 1203) ma ahinoi attinenti solamente al 1689–1690 e 1691, vale a dire gli anni immediatamente successivi alla fine della rivoluzione e del suo esilio. Basta scorrere con attenzione le carte lungo l’avvicendarsi dei mesi per rendersi immediatamente conto del momento di grave incertezza e del perdurare della crisi, evidenziata dalla difficoltà di piazzare con buon margine di guadagno le balle di seta lavorata negli importanti scali mediterranei con cui intrattiene contatti attraverso una fitta rete di conoscenze: a Genova con Francesco Maria Spinola e Bartolomeo Crocco; a Venezia con Aurelio e Quintiliano Rezzonico, suo procuratore; a Livorno con la Compagnia dei Sigg. Gamberini, del Poggio e Benassai. Nel giugno del 1691 – per dire – scriveva a Bartolomeo Crocco: «la raccolta in quest’anno tanto di sete, grani et ogli sarà la più fertile che mai s’abbia veduta […] tutte le sete sottili vengono da Messina e le dette balle si sono lavorate nella Rocca»; ma il 9 agosto successivo soggiungeva con una punta di amarezza: Nella presente fiera di Messina vi concorrerà gran quantità di sete, ma resteranno la maggior parte invendute per non haver venuto in quella galera alcuna trovandosi quella piazza abandonata da tutti i negozianti forestieri e scarsissima di denaro per le continue atti di ostilità che si patiscono.

Emerge con evidenza l’assenza totale di mercanti soprattutto fiamminghi che pure nei decenni precedenti avevano garantito con la loro numerosa presenza le vendite, gli scambi, i guadagni lauti e quindi lo stesso successo della Fiera di Mezzagosto di Messina,

Principi in affari quando «oltra della venuta de’ vicini popoli vede(va)si ancora la quantità di Mercanti venuti alla compera delle sete, con le galee del Papa, del Gran Duca di Toscana, della Repubblica di Genova», là, in quella «strada della marina fabricandosi d’ambe le parti le botteghe e le loggie d’assi assai ornate e belle, e ripiene di ricche merci e d’ogni cosa desiderabile trasportata da mercanti Cittadini dalla vicina e popolata strada di Banchi».10 Per quell’anno, nelle «Istruttioni che si donano dal Sig. Prencipe Valdina nella terra della Rocca a D. Andrea Vaiola e Ant(oni)o Passalacqua per osservarsi in condurre in fiera d’agosto in Messina due raccolti di seta vecchia per procurare la vendita di maggior vantaggio di d(ett)o signore» suggeriva pertanto di «portare le sole mostre di seta che non eccedono la quantità di quattro fangotti portandole nella baracca di Ant. Lazzara e Compagni», raccomandando di «procurare che la vendita sortisca per contanti e perché sarà quasi impossibile doverete con tutta attenzione procurare che i compratori sieno delle case più poderose di quella città non curandovi d’allargare il tempo uno o dui mesi più nelle paghe».11 La situazione, del resto, non era rosea sin dal 1689 quando al Vaiola scriveva: «da Genova mi avvisano che le sete non si trovano né a vendere, né a dare, nulla di meno vi do licenza di andarne comprando qualche quantità, procurando ogni mio vantaggio nel prezzo altrimenti sarebbe un negozio da perdere».12 Alle dirette dipendenze del principe, Vaiola e Passalacqua ne curano direttamente gli interessi a Rocca con l’organizzazione del lavoro nel filatoio alla stregua di un’azienda moderna, l’immagazzinamento della seta, le entrate di prodotto grezzo e le uscite di seta lavorata, mentre a Messina «protettore delle vendite» è il «Sig. Don Luiggi [sic] Moncada, principe di Larderia», col quale Valdina è in stretti rapporti di affari. Sarà sempre lui infatti a seguire personalmente nei laboratori della città la materiale messa in opera delle varie tipologie di tessuti che al principe vengono commissionati dal giro ristretto della sua facoltosa clientela. A Larderia nell’estate del 1689 scriveva: Perché [da Genova] il Sig. Duca di Tursi [Giovanni Andrea Mariano Doria del Carretto] mi commette che con tutta diligenza e prestezza gli facessi fabbricare costà un tappeto di felba di cottone e seta di lunghezza di palmi quarantatre e di larghezza di palmi venti di bel disegno e di buona armonia di colori, […] che sia ben fatto, forte e folto di per lo più dell’ordinario e conoscendo io l’ottimo gusto che dispone V. S., la prego con tutta confidenza a prendervi questa briga ordinando ai migliori maestri che costì si trovano di farlo con d(ett)a conformità e soprattutto si desidera la sollecitudine.13

E per la commessa l’anno successivo da parte dello stesso Tursi di «canne 120 di domaschello cremesino […] che abbia tutto il lustro possibile […] e il disegno sia moderno il migliore ch’in Messina si potrà trovare» suggeriva al suo Passalacqua d’impiantare per la celerità d’esecuzione i telai nella stessa Rocca servendosi «di due mastre di tutta perfettione e non essendo presenti in cotesta terra li farete venir da Messina»; gli ribadiva altresì di servirsi della sua seta «carmisina» in magazzino e nell’insufficienza acquisirne altra nelle «parti convicine» comperando a Messina il «coccio» (la cocciniglia) e soprat-

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Fig. 1 Pianeta (part.), damasco gros de Tours broccato a liage répris, inizi sec. XVIII Messina (?), Piazza Armerina, Cattedrale

tutto «facendo tingerla con persona prattica con segretezza per la causa che voi ben sapete».14 Quanto dire i segreti del mestiere! Come si evince dal carteggio, a Messina suo tessitore di fiducia fu don Domenico Migliorino: sarà lui ad «accomodare» nel suo laboratorio i «pezzi di panna di arazzo» che gli fa giungere da Palermo e a realizzare i velluti, i damaschi, i broccati (fig. 1), il terzanello forte ondeggiante, il «mezzo damasco» cremesino, i «portali di felba col campo torchino, e in giro un festone di fiori di varij colori purchè non ci sia il giallo» destinati al duca di San Mauro, la «tovaglia di taffità o terzanello leggiero à color torchino tutta rabescata d’argento con qualche filetto di seta bianca e che il disegno sia grande» e soprattutto quel drappo «primavera» di oro carmesino «dei medesimi colori che sono nella mostra tanto nel fondo quanto dei fiori», commissionatogli da don Bartolomeo del Castillo, marchese di Sant’ Onofrio.15 Tra il 1690 e il 1691 riprendeva altresì i contatti di affari e di cordiale amicizia con l’aristocrazia messinese, alcuni frattanto come lui rientrati dall’esilio: don Vincenzo Di Giovanni duca di Saponara (vol. 1202 dell’Archivio Papè di Valdina, cc. 127r e 133v), don Diego Brunaccini, giudice della Corte Stratigoziale di Messina e Avvocato fiscale della Regia Corte, il principe di Venetico Spadafora, la principessa di Calvaruso, possessori tutti peraltro di ben note quadrerie.16 Del resto anche a Palermo, ancor prima degli infausti eventi della rivoluzione, il suo ruolo di Mastro Notaro lo aveva visto in rapporti con don Ercole Branciforti, principe di Scordia (†1687) pure lui interessato come suo padre al commercio della seta prodotta nei feudi di Martini e Motta Camastra (Messina)

Principi in affari ed entrambi gravitanti per affari tra la capitale e la città dello Stretto, dove avevano la «domus magna angulata sita et posita in hac Not. Urbe Messanae in contrata Sti Tomae».17 Ma i rapporti confidenziali venivano ora intrattenuti soprattutto lontano dalla Sicilia: a Genova con il marchese Gio. Francesco II Pallavicino, del ramo primogenito della famiglia (era figlio «del quondam Signor Paolo Geronimo»), di sicuro conosciuto durante l’esilio in Liguria e con cui instaura una fitta corrispondenza a vario titolo, specialmente sulla incerta situazione dei tempi;18 a Venezia con Bartolomeo Varisano Grimaldi con missive mirate a soddisfare i suoi interessi scientifici;19 e maggiormente a Roma, con gli abati Francesco e Gio. Bernardino Noceti, prelato domestico della Santa Sede Apostolica, o ancor più con il loro nipote monsignor Marcello Cremona che più tardi ne avrebbe addirittura assunto il cognome, chiamato a governare la ricchissima Prelatura Valdina fortemente voluta dal principe – celibe e senza eredi diretti – con lo scopo di rappresentare la Sicilia presso la Santa Sede. A tale istituto sarebbe stato destinato il suo ingente patrimonio fuori dall’Isola, vale a dire: i capitali e le rendite dei Monti esistenti a Roma, quelli esistenti in Venezia nell’ufficio del Magistrato della zecca e del sale, quelli esistenti in Parigi sopra l’ospedale della città e tutti i crediti esistenti nella stessa Roma e nella città di Genova.20

Nella città pontificia infatti erano stati investiti con accorto tempismo i lauti proventi del commercio della seta e dei tessuti pregiati con l’acquisto di «luoghi di Monte» (ossia titoli di debito pubblico) presso il «nuovo Monte di S.to Pietro», il Banco di Santo Spirito, gestiti «in Alma Urbe» da procuratori formalmente nominati «ad petendum, exigendum, recipiendum, recuperandum» i relativi «frutti», gli interessi.21 È a Roma che adesso – stufo della sua terra – voleva trasferirsi chiedendo consigli al Cremona «per non sfigurare»; lui molto attento al portamento, alla sua persona, che all’agente genovese Crocco chiedeva per sé «perucche […] fatte alla moda presente di Francia di capello il più lungo che si potrà havere, e del colore simile all’ingionta mostra», dandogli facoltà di ordinarle persino a Parigi o a qualche «perucchiere francese», purché non fossero molto care di prezzo; lui che, avvezzo alle prelibatezze, da Genova si faceva periodicamente mandare «cacao del più fresco e buono, cannella finissima, avaniglie». Nella lettera del 14 aprile 1691 lo ringraziava altresì per «la cesta con 12 scatole di pruni di Francia, et una grande di cotesti frutti posti in zuccaro d’ogni esquisita bontà».22

Il principe collezionista e i suoi interessi I gusti e gli interessi collezionistici di Valdina traspaiono interamente già dalla lettera inviata al Cremona nel 1689 laddove parla di arredi, parati, arazzi, pitture, strumenti musicali, armi, cavalli e carrozze. Ma l’intero suo patrimonio mobile si tocca con mano grazie al dettagliato inventario riportato nel Libro di tutto il Mobile de la Casa in Palermo

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Fig. 2 Copertina del Libro di tutto il Mobile…1665, pergamena, Palermo, Archivio di Stato, Archivio Papè di Valdina, vol. 1201

§ An: 1665 § (vol. 1201 dell’Archivio Papè) (fig. 2), redatto a sei anni di distanza dalla morte del padre (1659). I beni vengono elencati non come di norma secondo la distribuzione nei vari ambienti del palazzo, ma per categorie, rigorosamente in ordine alfabetico: dall’argento «dorato» e «bianco» alle armi, alle «boffette» e alla «biancaria»; dai «chiomazzi», «matarazzi» e «cortinaggi» alle «carrozze e loro guarnimenti», ai «drappi diversi in pezza» (quelli di sua produzione?), alla «dispenza»; dalle «gioie lavorate e ingastate in oro» ai «letti diversi», «letteri e trabacche», ai libri; dai «panni di razza» ai «paramenti», «pavigliuni», «portali diversi con soi ferri, cortine e sopratavole»; dai «quadri» alle «seggie», agli «scrittorij», ai «servizi di ramo»; dai «tappeti e paramenti» e «toselli» alle «tovagli e taffità diverse», ai vestiti. Ogni cosa viene registrata sul foglio di sinistra, mentre a fronte – a destra – vengono annotate le «uscite» ovviamente in progress, come lasciano dedurre le date e la diversa grafia; si ha pertanto subito l’idea di una collezione in continua evoluzione che però – guarda caso – si arresta bruscamente al 1674, anno d’inizio della Rivoluzione, quando tra agosto e ottobre vengono segnate le ultime acquisizioni di gioie (cinque «fili di catena d’oro alla portuesa» (portoghese?) e argenti («una pampina di viti cisillata con racine», «una crocchiola»). Molto presto i tempi del resto sarebbero cambiati a sfavore del principe, ben «consapevole delle interne inclinazioni» sue per la Francia. Già nel 1672, evidentemente alle prime avvisaglie di crisi, con prudente tempismo egli aveva provveduto ad un primo massiccio trasferimento di «robba» da Palermo al

Principi in affari

Fig. 3

Ala cinquecentesca del cortile, Castello di Roccavaldina (Messina)

feudo, soprattutto di quadri, come annotano gli «Introiti»: 35 dipinti nel Casino di Fondachello il 16 marzo e ben 81 il 3 aprile nel Castello della Rocca (fig. 3), distribuiti tra la Sala e le camere dell’«appartato [sic] vecchio» e dell’«appartato [sic] novo». Sempre a Fondachello, il 21 ottobre dell’anno successivo, ne venivano inviati con la «barca di Padron Stefano Salamone» altri 41 «incassati dentro una cassa lunga», trattandosi di «quadri con figure della Sacra Scrittura miniati e con sua cornice di sopra bislunghi piccoli», ed ancora nel 1674 un ulteriore lotto di 32 «con la filuca di Francesco Maiorana di Milazzo». Gli eventi sarebbero poi precipitati nella primavera del 1676 con la fuga del principe «molto odiato in Palermo e stimato di genio francese» e il bando, come annotano i Diari dell’Auria: «Giovedì, 30 d’aprile 1676. In Palermo si buttò bando contro il prencipe di Valdina, ordinando a qualsivoglia persona, che sapendo tutti i suoi beni, denari e robbe dove fossero, dovesse rivelarle alla regia Gran Corte».23 Di roba in casa ce n’era davvero tanta; ma dei dipinti, in parte già presenti nell’ «Inventario di tutto il mobile fatto nell’anno 1659 a 12 maggio dopo la morte del fu Principe D. Andrea Valdina», suo padre, si annotano in genere solo le misure ma non l’autore. C’è una sola eccezione in esso per quello descritto al n. 8, dettata evidentemente da notorietà e valore consolidati: «Un Christo con croce in collo del Carauaggio della grandezza di so(pr)a e cornice negra et oro». Le dimensioni si rilevano da quelle di due

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Vincenzo Abbate dipinti riportati immediatamente prima nell’elenco: «6. Altro di Giuditta di 5 e 4 con cornice negra toccata d’oro; 7. Altro di Ecce homo c(om)e quello di s(opr)a di grandeza con cornice tutta negra». Maurizio Marini, che verosimilmente collegava l’opera ad una delle «quattro scene della Passione di Gesù» commissionate al Merisi tra la primavera e l’estate del 1609 dal patrizio messinese Nicolò di Giacomo, ha supposto che i due dipinti a pendant fossero entrambi del Merisi.24 Di certo anche dopo il trasferimento dei quadri nel castello di Rocca (1672), dovuto con evidenza alle vicissitudini personali del principe, ancora insieme essi comparivano – unitamente ad «un quadro bislongo di S. Geronimo cornece nera» – nella seconda camera dell’ «appartato novo»: «32. Quadro di Nostro Sig(nor)e con la cr(oce) in le spalle mediano in pami 4 e 5 cornece nero piro; 33. quadro come sopra dello Ecce homo». Nessuna attribuzione veniva però annotata né riferimenti specifici ci sarebbero stati anni dopo anche nella citata lettera del 1689 al Cremona: una scelta più che oculata in quei frangenti per lui affatto tranquilli? Originali o piuttosto copie, derivazioni, due delle tante presenti ancora oggi in Sicilia? (fig. 4)25 In quella missiva egli stesso ricordava «quantità di quadri li maggiori di p(al)mi 12 e 8 e gli altri di varie misure tutti di mano di Alonzo Pittore [Rodriguez] messinese Antico le cui opere stanno in qualche stima»; e lo si comprende perché l’artista messinese «che rendette immortali quanti ritratti e figure egli avea fatti vivere nelle sue tele» fu a lungo a Rocca ospite dei Valdina suoi committenti.26 Potrebbe essere questa una buona pista per spiegarci pure la presenza di altri quadri dai temi particolarmente cari a Caravaggio: la Giuditta, mandata nel 1672 nel Casino di Fondachello, il «quadro bislongo cornece nera, sacca mole» (il cavadenti) del salone, o ancor più un altro «quadro mezano bislungo cornece nera di S. Geronimo con la mano nella mascella, che studia» nella prima camera. Certo ci sarebbe tanto piaciuto appurare gli autori dei numerosi quadri a soggetto sacro e profano, specialmente di quelli grandi come il «Muisè e populi morsicati da serpenti, L’inventione di Moise Bambino nel fiume», il «San Lorenzo martirizzato» o di «Racchel grande» oppure di «Noè imbriaco». C’era connessione tra questo dipinto e l’omonimo Noè inebriato che dorme nudo alla presenza dei tre figli di Andrea Sacchi mandato da Roma per la galleria messinese di don Antonio Ruffo principe della Scaletta (†1678), che Valdina sicuramente dovette conoscere per tempo? È riferibile ad essi il soggetto della sciupata sanguigna di Palazzo Abatellis (fig. 5), riconducibile verisimilmente al palermitano Pietro Aquila (Dell’Aquila, 1630 ca.–1692)?27 I «tre quadri bislunghi senza cornice, cioè il bagno di Diana, Castigo d’Amore e Rebecca», portati nel 1672 a Fondachello ci ricordano tanto quelli di altrettanto effetto che stavano nella «Sala» del palazzo palermitano del suo amico Ercole Branciforte principe di Scordia, già appartenuti alla quadreria di suo padre don Antonio: «4 quatri grandi uno di Alexandro Magno e Diogene dentro la botte; l’altro del med(esim)o Diogene con lanterna in mano che sta cercando l’huomini; l’altro di Caccia di Nimphe

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Fig. 4 Mario Minniti, Cristo portacroce (copia da Caravaggio), Milazzo (Messina), Fondazione Lucifero

Fig. 5 Pietro Dell’Aquila, attr., Ebbrezza di Noè, sanguigna, Palermo, Galleria Regionale della Sicilia, Palazzo Abatellis, Gabinetto Disegni e Stampe, Coll. Sgadari di Lo Monaco, Autori del Seicento, n. 107

del Domenichini [sic], e l’altro delli figli di Jobe [sic] saiettati di Ger.mo Flamengo»,28 ossia quel Geronimo Gerardi amico a Palermo di Van Dyck negli anni Venti. «Il quadro bislongo Delacrito e Democrito filosofi senza cornice, uno ride, e l’altro piange» del salone parrebbe portarci a temi particolarmente cari ad Agostino Scilla, aduso a tali soggetti (fig. 6). Di lui, suo amico e referente a Roma, c’era in particolare

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Fig. 6 Agostino Scilla, Epicuro, Torino, Galleria Giamblanco

quel «mio ritratto senza cornice fatto di Agostino Scilla», parte di una serie che, assieme ad un altro «del S.r Principe D. Giovanni Valdina mezza persona», comprendeva pure quelli del padre «il principe d. Andrea del corpo in su» e dei nonni paterno e materno a figura intera. E poi i «quadri di genere», da sbizzarrirsi: «cinque quatri di prospettive con cornice dorata» erano stati acquistati direttamente da Pietro Rodino (o Rendino), uno specialista del tema a noi oggi sconosciuto;29 c’erano le «vedute» («quadri di carta à stampa in rame intelarati sopra tela n. 7, cioè Napoli, Madrid, Genova, Firenze, Algieri, Marsiglia e Candia»), nove «quadri di battaglia» che l’inventario indica come «fiamenghi» e persino tre «quadri burleschi con Schiavo, con scimie, et l’altro d’Erodiade». E degli arazzi che dire? A serie di otto, di sei, di cinque ce n’erano di «usati» («paesaggi con alcuni figurini piccoli»), «vechi» («con personaggi, comprati dalla Principessa di Calvaruso») e «novi» come quegli «otto pezzi di panni di razza novi figurati con soi motti in ogni pezzo», tutti in latino e dettagliatamente trascritti ma che non riporto per motivi di spazio. Credo fossero ispirati a proverbi antichi, di grande edificazione morale e perenne saggezza, stando a quello col motto «oculus domini pascit equum» che ben

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Fig. 7 Atelier di Jacques Nauwincx o Pieter de Cracht, Gouda o Schoonhoven, su disegno di Karel van Mander II, Morte di Cleopatra, arazzo, 1625–1650, Palermo, Collezione privata

Fig. 8 Pietro Dell’Aquila, attr., Madonna col Bambino, olio su rame, Palermo, Galleria Regionale della Sicilia, Palazzo Abatellis

gli si addiceva. Non mi meraviglierei se i temi fossero stati suggeriti per tempo dallo stesso Valdina che in biblioteca aveva un volume in 32°, Scielta di proverbij siciliani.30 Una mera questione di gusto, lontana dai grandi temi di «storie» che da sempre avevano contraddistinto la celebre arazzeria fiamminga costantemente presente in Sicilia presso tutti i palazzi nobiliari; basti ricordare solo la sua «tapezaria con la storia di Sanzuni in pezi n. 6» comprata a Messina nel 1672 o quel «paramento di panni d’arazzo con l’istoria di Cleopatra consistente in pezzi n. 11» delle collezioni dell’amico Ercole Branciforti, più volte ricordato. Dall’unico esemplare rimasto a Palermo con La morte di Cleopatra (fig. 7) possiamo oggi asserire con certezza che si trattava della serie contraddistinta (quasi marchio di collezione) da corona e scettri sulla targa del festone superiore, tessuta tra il 1625 e il 1650 a Gouda o a Schoonhoven nell’atelier di Jacques Nauwincx o di Pieter de Cracht, su cartone di ignoto maestro fiammingo del Seicento da disegni di Karel van Mander II.31 Dalle annotazioni sul registro, piccoli indizi ci immettono inoltre nel giro delle sue dirette conoscenze con artisti – Scilla compreso – orientati verso esiti di classicismo seicentesco: con Gaspare Serpotta per esempio, padre di Giacomo, intagliatore di sicuro della fontana in pietra inviata a Fondachello, o con Pietro Aquila (Dell’Aquila) che gli regala «un quatretto di capizzo della Madonna e San Gio.e» sul tipo di quello reso noto di recente dalla De Castro (fig. 8).32 Mi vado convincendo sempre più che sia stato lo

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Vincenzo Abbate stesso Valdina a farsi da tramite per l’importante commessa di dipinti al pittore da parte del marchese Pallavicino, ricordata dal Mongitore: Fece pure in Palermo per il Principe [sic] Pallavicino di Genova il Sileno, e mandatogli in Genova l’ebbe in tal gradimento che gli rese molte grazie, el collocò a canto dell’opera del Maratti, non facendo distinzione tra l’opera dell’uno e dell’altro. Al detto Principe Pallavicino dipinse la storia di Clorinda, riferita da Torquato Tasso nel canto […] della sua Gerusalemme, esprimendo in tela quei due versi: Esser fiscella alla sua greggia a canto ed ascoltar […] il canto.33

E poi ci sono le frequentazioni con alcuni viceré e i doni ripetuti, non so quanto spontanei, di certo per ingraziarsene i favori. Particolarmente preziosi quelli del 1667 al viceré duca d’Albuquerque insediatosi in quell’anno: una corona di vetro torchino, […] una tazza di cristallo di roccha con il suo piede ingastato in oro con sua investa rossa toccata d’oro, […] una cassetta d’annivaturi con tre bocci di vitro con collo d’argento, catinelli d’argento intagliato, maniglie e piedi

e soprattutto quel «[quadro] di reinaldo e armida di (spazio vuoto per annotarvi dopo le misure) con cornice bianca intagliata».34 È nota d’altronde l’avidità di alcuni di essi nell’accaparrarsi opere d’arte, specie se collezionisti; a detta del pittore Carlo D’Anselmo, Albuquerque (1667–1670) fu famoso «per la sterilità che lassau».35 Ma ben più sfrontate furono le richieste del duca d’Uceda (in carica dal 1687 al 1696) che insistentemente pretese dal nostro Valdina alcuni preziosi vasi cinquecenteschi d’Urbino della famosa farmacia di Roccavaldina, pertinente alla sua giurisdizione anche se in realtà di proprietà della Chiesa Madre (fig. 9). Informandone i procuratori e raccomandando loro un accurato imballaggio, con una punta di amarezza egli scriveva: «tali comandamenti non si può sfuggire d’eseguirli ma conviene ubbidirli alla cieca facendo detto signore presentemente una raccolta dei migliori quadri che si trovano nel regno».36 Maggiormente temeva per il suo (o i suoi?) presunto Caravaggio? I suoi veri interessi furono in realtà mirati alla scienza, alla matematica, alla cosmografia, pienamente coinvolto nel clima di svecchiamento culturale, soprattutto scientifico, promosso a Messina dal gruppo dei «galileiani» dell’Accademia della Fucina, fondata nel 1639 dal marchese Di Gregorio suo amico ma soppressa nel 1678.37 Inceppi tra l’infinite linee l’ingegno un matematico, perda e la vista, ed il sonno al freddo, ed al gielo nelle osservazioni celesti l’astronomo.

Così declamava nelle Prose degli Accademici della Fucina il cugino Giovan Battista Valdina, accademico «fucinante» detto l’Instabile,38 che per tempo dovette instradarlo al glorioso sodalizio di intellettuali. Già nel luglio del 1668 il nostro principe aveva provveduto all’acquisto di «Instrumenti mattematici dalla moglie del quondam D. Gio(sepp)e d’Ares», ma molto più consistente era la «nota» di quelli che nell’ottobre

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Fig. 9 Marco Antonio Patanazzi (Urbino), 1580, Vaso da mostra, Roccavaldina (Messina), Farmacia del Santissimo Salvatore

Fig. 10 Lodovico Cortesi, Il Clearco, favola musicale, Roma 1661, frontespizio, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale

successivo riceveva dalla principessa della Cattolica tra quadranti, bussole, compassi, squadre «proporzionali», «una pantometra» e orologi come quello «di rame, nominato triangolo generale con li suoi perpendicoli» o la «palla d’avorio figurata di fuori con numeri e dentro è orologio con la bussola».39 Ben presto si era messo pure in contatto con l’Accademia degli Argonauti di Venezia per ricevere periodicamente le carte geografiche aggiornate, deluso però della mancata puntualità e soprattutto del fatto che «li due globbi terreno e celeste li consegnano senza meridiano, e piede, inganno invero troppo sordido ai quali per metterli in opera è di bisogno spenderci più di quanto vagliono». Se ne lamentava nel 1690 con quell’abate Francesco Noceti, amico e suo corrispondente da Roma,40 che per altri versi sappiamo pure in contatto epistolare con don Antonio Ruffo cui procurava opere di Giacinto Brandi.41 Ma non possiamo chiudere senza un cenno veloce al suo amore sviscerato per la musica e il melodramma, al pari dell’amico Pallavicino, testimoniatoci non solo dagli strumenti elencati nell’ inventario («un cimbalo plano, una chitarra di legno, una chitarra d’ebano aluinato, un cimbalo grande romano […] dentro cassa, una spinetta venetiana regalatomi dal Marchese Pallavicino, un concerto di viole tutti n.6 con soi archi»), ma soprattutto dai libretti d’opera presenti nella sua «libraria» già nel 1665: da «Il Clearco Favola Musicale in 12» (fig. 10) di Lodovico Cortesi su musica di Antonio

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Vincenzo Abbate Francesco Tenaglia dedicata ad Agostino Chigi nipote di Alessandro VII, ai drammi musicali di Francesco Sbarra (Lucca 1611 – Vienna 1668) che dovettero essergli particolarmente cari dato che di lui troviamo L’Alessandro vincitore di sé stesso (1651), L’Erminia, La Tirannide dell’Interesse comedia musicale (1653). Forse qualcuna di esse fu pure rappresentata nella sua dimora, se tra gli arredi accatastati in «despenza» comparivano «alcuni pezzi di legniami remasti dalla scena q(uan)do si fece la comedia»: un interesse appassionato condiviso tra amici e conoscenti di quel secolo ormai avanzato nel raffinato ambiente musicale – di intensa creatività – della Messina dei Ruffo e della Palermo del viceré Uceda.42 Purtroppo il «sogno» romano del principe non si sarebbe mai realizzato! Già alla fine del 1688 a Palermo «in tempo di gravissima infermità», meticoloso com’era, aveva provveduto a far redigere testamento e codicillo, dopo la morte dati addirittura alle stampe:43 un articolato trattato di lasciti e donazioni in 42 pagine da cui emerge l’indole e la pietas del principe per la parte destinata ad opere di pubblica beneficenza (prima fra tutte l’Ospedale di Rocca). Delle ingenti sue sostanze ne avrebbero goduto soprattutto gli eredi particolari: il cugino Giovan Battista e la Prelatura Valdina di Roma, là nella sede in Campo Marzio.44 Sarebbe morto il 22 maggio 1692, partecipe nonostante tutto delle aspirazioni di magnificenza di una Palermo ormai unica capitale incontrastata del Viceregno di Sicilia dopo la disgrazia di Messina.

Principi in affari 1 Archivio di Stato, Palermo (da ora in poi ASPa), Archivio Papè di Valdina, vol. 1202, cc. 37r.–38r. 2 Sulle alterne vicende relative al principe Valdina si rimanda all’attenta analisi di L. Salamone, L’Archivio privato gentilizio Papè di Valdina, «Archivio Storico Messinese», 79, Messina, Società messinese di storia patria, 1999. 3 F. M. Emmanuele di Villabianca, Della Sicilia Nobile, vol. i, parte ii, libro i, Palermo 1754, ed. an. Bologna, Forni, 1986, pp. 115–116. 4 Si rimanda in merito ai vari saggi del catalogo della mostra La seta e la Sicilia, Messina, Teatro Vittorio Emanuele, Messina, Sicania, 2002, a cura di C. Ciolino, ed in part. al saggio della stessa, La Seta e la Sicilia, Storia e Arte, pp. 17–48; sul commercio in particolare si veda N. Gozzano, From Flanders to Sicily: the network of Flemish Dealers in Italy and the International (Art) Market in the Seventeenth Century, in Moving Pictures. Intra-European Trade in Images, 16th–18th Centuries, a cura di N. De Marchi, S. Raux, Turnhout, Brepols, 2014, pp. 151–187. 5 R. Villari, La rivolta di Messina e la crisi del Seicento, in La Rivolta di Messina (1674–1678) e il mondo mediterraneo nella seconda metà del Seicento, a cura di S. Di Bella, Cosenza, L. Pellegrini 20012 (1a edizione 1979). 6 Sul vivace ambiente socio-economico messinese e la tormentata vicenda della Rivoluzione cfr. S. Bottari, Post Res Perditas. Messina 1678–1713, Messina, A. Sfameni, 2005, con bibliografia; ma cfr. anche M. C. Calabrese, I Ruffo a Francavilla. La corte di Giacomo nel Seicento, Messina, A. Siciliano, 2001, in part. pp. 19–26. 7 V. Di Giovanni, Palermo Restaurato, ed. a cura di M. Giorgianni e A. Santamaura, Palermo, Sellerio, 1989, p. 216. 8 Cfr. G. Mendola, Un approdo sicuro. Nuovi documenti per Van Dyck e Gerardi a Palermo, in Porto di mare 1570–1670. Pittori e pittura a Palermo tra memoria e recupero, catalogo della mostra, Palermo, S. Giorgio dei Genovesi, a cura di V. Abbate, Napoli, Electa, 1999, pp. 88–105, in part. p. 88). Sui Papè (Papen, Papes) originari di Anversa cfr. Emmanuele di Villabianca, Della Sicilia Nobile cit., vol. ii, pp. 147 e 152. Su Caterina Papè committente di cristalli di rocca cfr. in part. M. C. Di Natale, scheda 57 in Splendori di Sicilia, Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostra, Palermo, Albergo dei Poveri, a cura di M. C. Di Natale, Milano, Charta, 2001, pp. 393–395. 9 Salamone, L’Archivio privato gentilizio Papè, cit., p. 47. Già nel 1635 la famiglia aveva comprato, per 1440 onze, la gabella del tarì uno per ogni libbra di seta uscita dai mangani dei due territori, cui s’era aggiunta nel 1638 quella di un carlino. 10 Il brano citato è di G. Bonfiglio e Costanzo, Messina città nobilissima, Venezia 1606, riportato da C. Ciolino, La seta e la Sicilia. Storia e Arte, in La seta e la Sicilia cit., pp. 17–40, in particolare p. 38. 11 ASPa, Archivio Papè di Valdina, vol. 1203, c. 57r. Antonino Lazzara era discendente diretto dei mercanti Lazzari committenti a Messina della Resurrezione di Lazzaro (1609) del Caravaggio. 12 Ibidem, vol. 1202, c. 2r. 13 Metri 10,75 × 5,00 circa, essendo il palmo siciliano di cm. 25. 14 Ibidem, vol. 1202, c. 10r. 15 Ibidem, vol. 1202, c. 51v. (15 febbraio 1690): «Tra i fiori se ne desidera alcuno più grande, e rilevato anche nei medesimi sì grandi, come piccoli e precisamente nelle rame verdi con qualche poco di oro più della mostra, e che l’oro in tutto rilievo un poco più». 16 Per il collezionismo messinese del Seicento cfr. O. Moschella, Il collezionismo a Messina nel secolo XVII, Messina, Edas, 1977; S. Di Bella, Il collezionismo a Messina nei secoli XVII e XVIII, in «Archivio Storico Messinese», 74, 1997, pp. 5–90; T. Pugliatti, Antiquariato e collezionismo. Fonti

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di recupero di un patrimonio disperso, in MOANT, II Mostra Nazionale dell’Antiquariato, Messina, Litografia G. Faccini, 1989. Cfr. ASPa, Carte Trabia, ii Serie, vol. 122, c. 69. A Messina Branciforti era stato pure in rapporti con don Antonio Ruffo della Scaletta per la vendita di numerosi pezzi in argento; cfr. R. De Gennaro, Per il collezionismo del Seicento in Sicilia: L’Inventario di Antonio Ruffo principe della Scaletta, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003, passim. Pallavicino lo aggiorna costantemente sulla situazione economica e le guerre «di Piamonte e Savoja»; Valdina sfoga con lui senza mezzi termini la triste situazione di malcostume imperante in Sicilia ai tempi di Uceda. Su Pallavicino cfr. Gli Archivi Pallavicini di Genova, a cura di M. Bologna, Genova/Roma, Società ligure di storia patria, 1994, in particolare p. 20 sgg. Sull’esilio genovese del principe, l’ambigua condotta in un clima da intrigo internazionale e la stesura di quel suo Manifesto a discolpa, affidato alla penna di Noceti e dato alle stampe si veda D. Pizzorno, Propaganda, spionaggio e intrighi politici nell’Italia del XVII secolo. La vicenda del principe Giovanni Valdina, in «Dimensioni e problemi della Ricerca Storica», Rivista del Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo della Sapienza Università di Roma, 2019, n. 2, pp. 85–99. A Grimaldi chiedeva «due stromenti coi quali si pondera la leggerezza dell’acqua e due altri che si chiamano caraffine di temperamento con cui si misurano i gradi del calore dell’aria»; vol. 1202 cit. c. 125v. Salamone, L’Archivio privato gentilizio Papè, cit., p. 12. Si vedano ad es. le procure fatte in Roma l’8 marzo 1690 a Paolo Antonio Campione (vol. 1202, c. 62r.) e il 5 marzo 1692 ai «Sig.ri Michele Mattei (o Maffei) e Francesco Boni essendo deceduto Antonino Campione» (vol. 1203, c. 114v). Ma sui «luoghi di Monte» cfr. L. De Matteo, Il Banco di Santo Spirito dalle origini al 1960, Roma, Banca di Roma, 2001. Cfr. rispettivamente vol. 1202, c. 161r e vol. 1203, cc.7v–8r. Diari della Città di Palermo dal secolo XVI al XIX, in Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, Palermo 1870 (ed. an. Sala Bolognese 1973), vol. vi, p. 21; ma cfr. pure Bottari, Post Res Perditas cit., p. 77. Cfr. M. Marini, Michelangelo da Caravaggio in Sicilia, in Sulle orme di Caravaggio tra Roma e la Sicilia, catalogo della mostra, Palermo, Palazzo Ziino, a cura di V. Abbate, G. Barbera, C. Strinati, R. Vodret, Marsilio, Venezia 2001, pp. 3–23, in part. pp. 9–16 e la scheda 4, pp. 114–117. Cfr. D. Spagnolo, Riflessi del Caravaggio nei temi della Passione di Mario Minniti. Il «Cristo portacroce», in Karta, Quaderno 2, Messina, Magika 2017, pp. 21–27 con ampia bibliografia. Lo ricorda F. Susinno, Le Vite de’ Pittori Messinesi, ed. a cura di V. Martinelli, Firenze, Le Monnier, 1960, p. 139: «Uditasi la risoluzione del Rodriguez che voleva passare a Roma, dal principe Carlo di Valdina, vago delle sue opere, fello passare nella vicina terra della Rocca, ed in tal guisa dolcemente il divertì con impieghi di lavorare». Palermo, Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, Gabinetto Disegni e Stampe, Coll. Sgadari di Lo Monaco, Autori del 600, n. 107, sanguigna mm. 275 × 410. Per il quadro Ruffo cfr. V. Ruffo, Galleria Ruffo nel secolo XVII in Messina, in «Bollettino d’arte», 3, 1916, fasc. 1–2, pp. 21–64, in part. p. 34. Cfr. ASPa, Carte Trabia, ii Serie, vol. 122, Inventario ereditario del 1687, c. 42r; i quadri, «cornice larga nigra e oro», misuravano palmi 11 × 8, ossia cm 275 × 200 ca. Cfr. V. Abbate, Per il collezionismo siciliano del Seicento: La quadreria mazzarinese dell’Ecc.mo Signor Principe di Butera, in L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli in Sicilia e a Malta, a cura di M. Calvesi, Siracusa/Palermo, Ediprint, 1987, pp. 293–314.

Principi in affari 30 Cfr. ASPa, Archivio Papè di Valdina, vol. 1201, c. 40r; la «libraria» del principe non era ricca (annota solo 63 titoli) ma nella scelta è particolarmente consona ai suoi gusti e alla mentalità barocca. 31 La serie già figura nell’inventario dei beni tessili di don Antonio Branciforti (†1658), che suo figlio Ercole fa redigere nel 1660, affidandolo al «custoriero» «Magister Joseph Ciancio sartor et jnstimator intus Urbis Cathanea come prattico et esperto estimatore» (ASPa, Carte Trabia, ii Serie, vol. 122, cc. 195r. e sgg. Cfr. V. Abbate, Collezioni siciliane del Seicento: gli arazzi con Storie di Cleopatra di don Antonio Branciforti, primo principe di Scordia, in corso di pubblicazione. Circa la paternità si veda H. Hubach, Tales from the Tapestry Collection of Elector Palatine Frederick V and Elizabeth Stuart, the Winter King and Queen, in Tapestry in the Baroque. New Aspects of Production and Patronage, a cura di T. P. Campbell, E. A. H. Cleland, The Metropolitan Museum of Art Symposia, New Haven, Yale University Press, 2010, pp. 104–133, in particolare p. 119. 32 Palermo, Galleria Regionale della Sicilia, olio su rame cm 37,5 × 31,5, inv. 772; cfr. E. De Castro, Dipinti di Pietro Aquila e Antonino Grano a Palazzo Abatellis, in Giacomo Amato. I Disegni di Palazzo Abatellis. Architettura, arredi e decorazione nella Sicilia Barocca, a cura di S. De Cavi, Roma, De Luca, 2017, pp. 119–127, fig. 8, p. 123. 33 A. Mongitore, Memorie dei Pittori, Scultori, Architetti, Artefici in cera siciliani, ed. a cura di E. Natoli, Palermo, Flaccovio, 1977, pp. 123–124. Per l’ambiente artistico palermitano di quegli anni rimando a V. Abbate, La città di Amato, Aquila e Serpotta: coralità delle arti e dinamiche di gruppo in Serpotta e il suo tempo, catalogo della mostra, Palermo, Oratorio dei Bianchi, a cura di V. Abbate, Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2017, pp. 35–55. 34 Ma i regali furono anche per la viceregina («un bacile adovato d’argento biancho cisillato e ingagliolato di peso lib. 4 e 8») e persino per il suo segretario don Gabriel Madrigale («due profumiere fatte con l’argento di una conca disfatta»). Per motivi di spazio tralascio la ricca collezione di gioie e di argenti, spesso dati al pubblico incanto nella piazza della Loggia di Palermo, ancora particolarmente attiva nel tardo Seicento, talora venduti pure in Francia («un orologgio di oro smaltato di torchini con figuri con sua imbesta di sagì e fibij di argento e chiave di ramo: si vendì in Francia per mano di Fran.co Fabris francese per > (onze) 12)» o molto più spesso fusi per realizzarne di altri anche a Messina o forse addirittura a Napoli. Cito per tutti l’esempio di quei «sei candileri grandi all’imperiale» che «si guastaro e si rifecero incannolati alla romana» o di quello «zaino(?) con labra grossi di peso once 7» e due «bocaletti piccoli senza coperchi» che «si guastaro da M(astr)o Minico di Napole per li quatro grasti di fiori grandi a 11 aprile 1665» (Libro di tutto il Mobile della Casa, in ASPa, Archivio Papè di Valdina, vol. 1201, cc. 12 e 42). 35 Lettera dell’8 maggio 1671 a don Antonio Ruffo della Scaletta per cui cfr. Ruffo, Galleria Ruffo cit., pp. 293–294. 36 Cfr. Salamone, L’Archivio privato gentilizio Papè cit., p. 54; V. Abbate, Collezionismo e cupidigia: le illecite acquisizioni messinesi del duca di Uceda, Viceré di Sicilia (1687–1696), in Dalla tarda Maniera al Rococò in Sicilia. Scritti in onore di Elvira Natoli, a cura di E. Ascenti, G. Barbera, Messina, Magika, 2019, pp. 127–131, in particolare p. 128. 37 Sull’Accademia della Fucina si veda D. Montoliu, La modernité de l’Académie de la Fucina de Messine entre révolution scientifique et revendication politique (1639–1678), in «Cahiers du Celec», 6, 2013, con ampia bibliografia [accesso 17. 03. 2021]. 38 L’Auria (Diari della Città di Palermo cit., vol. vi, p. 21) conferma che fosse «figlio bastardo d’un zio del prencipe», a lui molto vicino come curatore degli interessi durante l’esilio (Salamone, L’Archivio privato gentilizio Papè cit., p. 59) e subito dopo la morte (1692), quando addirittura

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– coabitando nella stessa sua casa – non mancò di sottrarre con falsificazioni e ruberie «somme di denari, gioie, argenti, mobili, libri e scritture di gran rilievo» (Salamone, L’Archivio privato gentilizio Papè cit., p. 12). Scambiato spesso con il nostro principe per l’omonimia del nome, divenne nel 1693 – ritengo grazie al temporaneo status economico-sociale raggiunto – raffinato committente dell’architetto Giacomo Amato e di Giacomo Serpotta, i due artefici del nuovo volto della Palermo capitale di fine Seicento. Cfr. S. De Cavi, I volumi 3-6 della collezione di disegni di Giacomo Amato: la piena maturità a Palermo, in Giacomo Amato cit., pp. 147–156, in particolare pp. 153, 156, note 42–43. ASPa, Archivio Papè di Valdina, vol. 1201, c. 45. Ibidem, vol. 1202, c.80r. A lui chiedeva pure di essere aggiornato sulle «pasquinate» e sulle novità «curiose» del momento, trovandocisi in sede vacante per la morte di Innocenzo XI Odescalchi (ivi, c. 16v.). Ruffo, Galleria Ruffo cit., in particolare pp. 290–291. Per Messina si rimanda ai numerosi contributi di Alba Crea, in particolare Aspetti della cultura musicale nel Seicento messinese, in Cultura Arte e Società a Messina nel Seicento, atti del convegno, Messina/Gesso 1983, a cura di G. Barbera, Messina, Industria poligrafica della Sicilia, 1984, pp. 135–144; e Tra Rinascimento e barocco. Teatro e musica a Messina, Messina 2012. Per Palermo cfr. in particolare A. Tedesco, La serenata a Palermo alla fine del Seicento e il Duca di Uceda, in La serenata tra Seicento e Settecento: musica, poesia, scenotecnica, atti del convegno, Reggio Calabria, 2003, a cura di N. Maccavino, vol. ii, Reggio Calabria, Laruffa, 2007, pp. 547–598; Eadem, Musica, architettura e arti figurative nella Palermo di Giacomo Amato, in Giacomo Amato cit., pp. 103–118. L’ambiente musicale di Valdina è il medesimo dei Ruffo che peraltro avevano in casa un cembalo di Gerolamo Zenti (Viterbo, 1609 ca. – Parigi 1668). Cfr. in merito R. De Gennaro, Spigolature sulla famiglia Ruffo con due caricature di Pierluigi Ghezzi, in «Archivio Storico Messinese», Messina, 2015, pp. 41–50. In Palermo, per Pietro Coppula Stamp(atore) Cam(eral)e della SS. Inquisizione 1694. Per quanto concerne il nostro argomento, al primo venivano assegnati «tutti i quadri esistenti nel castello della Rocca e casino di Fondachello». Tutte le gioie, gli arazzi e gli apparati venivano divisi equamente tra il cugino e il prelato (il primo fu per l’appunto Marcello Cremona) designato a reggere la sua Fondazione romana con sede verosimilmente a Campo Marzio, nel palazzo Capilupi noto poi anche come palazzo Valdina Cremona. Una clausola specifica stabiliva che a lui, tenuto a «prendere il cognome e l’armi di casa Valdina», fossero destinati «de’ i migliori arazzi & apparati».

Sono vivamente grato per le segnalazioni e gli scambi d’opinione alla baronessa Francesca Nastasi De Spucches e alle amiche studiose Orietta Salamone e Donatella Spagnolo; per alcune immagini a Dario Di Vincenzo, Salvatore Giamblanco, Alessandro Mancuso, Mimmo Papa.

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«Torcimanni e barattieri»: agenti, intermediari, periti, mallevadori e mercanti nella Bologna di primo Seicento

Carlo Cesare Malvasia, nella Felsina Pittrice, pubblicata a Bologna nel 1678, afferma che Guido Reni, verso il 1610, dopo aver discusso con il tesoriere di Paolo V Borghese, avrebbe deciso non solo di abbandonare Roma per Bologna, ma di rinunciare all’esercizio del pittore professionista per darsi al commercio d’arte. Guido, infatti, qui sparse la voce di non essere più pittore né voler più operare che di capriccio e per se stesso, e più tosto attendere alla mercatura e traffico di pitture antiche e disegni, che con vantaggiose rivendite osservava passare ogni ora per meno de’ dilettanti, e finalmente terminare fra studi e nelle galerie non solo di Roma, ma della Francia, dell’Olanda, dell’Inghilterra, con esorbitante guadagno de’ trafficanti medesimi che vi si arricchivano, come un Mastri, un Manzini, un Grati.1

In poche parole lo storiografo riassume tutta la grande effervescenza di una nuova imprenditoria che, già dalla fine del secolo precedente, stava affermandosi con progressiva e veloce prepotenza sulla scena della produzione artistica italiana; lo fa con termini che certo Guido non avrebbe usato nel 1610 – mercatura, rivendite, dilettanti, trafficanti – perché i lemmi sono più consoni ad un lessico di metà secolo, il suo, che a quello di Guido di inizio Seicento. D’altra parte lo storiografo poteva, dalla sua altezza cronologica, misurarsi già con mezzo secolo di analisi del mercato dell’arte, di cui lui stesso era parte attiva. Era in grado di verificare la gamma delle sfumature che caratterizzavano quella moderna occupazione, e valutare l’impatto che questa aveva già avuto sulle compravendite. Le leggi della domanda e dell’offerta, perlomeno a Bologna, erano state scandite proprio da Guido Reni e perfezionate da Guercino, almeno fino alla morte di quest’ultimo nel 1661. Da quel momento Felsina diventava pittrice proprio perché ciò che era stato prodotto in città si trasformava in oggetto di valore su tutti i mercati nazionali e internazionali. Guido aveva fiuto e sensori di abilità mercantile, e forse proprio per questo, apparentemente, disprezzava il lavorare per profitto a favore di ricompense per le proprie idee e il proprio status, salvo poi saper bene come chiedere a qualsiasi livello di committenza. Il pittore doveva aver percepito, già nel primo decennio e soprattutto dopo l’esperienza romana, che si poteva essere intendenti d’arte e mercanti senza per forza essere pittori. Per la vecchia guardia postridentina, questo nuovo approccio non era consono allo statuto che la categoria dei pittori si era assegnata per tutto il

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Fig. 1 Michelangelo Merisi da Caravaggio, La negazione di Pietro, New York, Metropolitan Museum of Art

Cinquecento e così Malvasia, alla notizia della decisione di Guido, fa reagire in questo modo il suo primo maestro, l’arcigno Denis Calvaert: «con libertà paterna sentì sgridarsene dal suo già maestro Dionigi: non convenirsi per verun modo al suo valore simile applicazione, propria solo di torcimanni e barattieri».2 L’episodio non deve essere una iperbole malvasiana, poiché proprio Reni nel 1613 entra nell’affare dell’acquisizione della Negazione di Pietro (New York, Metropolitan Museum) di Caravaggio (fig. 1): il suo agente a Roma, Alessandro Albini, paga 240 scudi per il quadro del Merisi all’incisore, e sodale di Guido, Luca Ciamberlano, ma probabilmente il quadro non giunse mai a Bologna per rimanere sul mercato romano.3 Se quest’ultimo l’abbia rivenduto traendone un profitto e abbia spartito il guadagno con Reni, o se si sia tenuto la parte di Guido a risarcimento di qualche prestito, non è dato saperlo. Ciò che qui conta è che la narrazione malvasiana ha un fondo di verità documentale e che il divino Guido avesse pensato a intraprendere la professione di rivenditore, anche solo per una volta, forse proprio in spregio delle fatiche della sua professione. Attingendo dalle parole di Malvasia, il mercato è composto da differenti tipologie di prodotti: alti e bassi. A Bologna i grandi pittori, con le loro botteghe, o le loro accademie cinquecentesche e poi con i loro studi nel Seicento, sono affiancati da centinaia

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Fig. 2 Annibale Carracci, Venditore di quadri (da Le Arti di Bologna, Bologna 1660)

di produttori di immagini sacre, di ventagli dipinti, di stampatori che vendono al dettaglio sulla pubblica piazza. Prova ne è il Venditore di quadri, un’incisione da un disegno di Annibale Carracci che fa parte della serie delle Diverse figure al numero di ottanta, ovvero le Arti di Bologna, edizione curata da Giovanni Antonio Massani nel 1646 con incisioni di Simon Guillain (fig. 2).4 Tra i mestieri per strada, Annibale immortala un uomo che porta su di sé un armamentario fatto di piccoli e grandi quadri con cornici a cassetta decorate con angoliere a borchie, di soggetto sacro, come la Vergine con Bambino, ma anche teste di Cristo e soggetti profani. Si tratta di un venditore ambulante, che camminava per la città o stazionava in un punto in attesa di clienti, al pari dei venditori di sedie, scarpe, cappelli, formaggio. Oltre alla tipologia degli oggetti, interessa qui sottolineare la posizione del piazzista: alle sue spalle si riconosce distintamente la chiesa di San Petronio, proprio vicino alle stanze dei Carracci che si trovavano dietro la basilica, e di fianco all’Ospedale della Morte, dove i pittori affittavano le stanze grandi per dipingere le pale d’altare, dinanzi alla sede della Compagnia dei pittori.5 Nell’ottavo decennio del Cinquecento, epoca in cui si colloca il disegno di Annibale utilizzato per l’incisione, era normale aspettare i clienti occasionali in piazza, magari durante gli affollati venerdì in cui si svolgeva il mercato dei bozzoli di seta che richia-

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Raffaella Morselli mava in città gran parte del contado.6 Il mondo dei committenti passava però altrove, nelle botteghe dei maestri più affermati, che gestivano in maniera professionale contratti per pale e polittici, allievi e garzoni, libri di cassa e giornali di casa.7 È da questo mondo che Denys Calvaert sgrida il giovane Guido Reni, senza accorgersi che era ormai avvenuto un cambiamento di rotta senza precedenti: dal 1598 la scissione della corporazione dei pittori dai bombasari rivaluta, infatti, la professione dell’artista stesso, la società in cui lavora e offre una nuova identità del prodotto artistico.8 Come ha dimostrato Olivier Bonfait, dall’inizio del Seicento prende corpo una nuova coscienza del valore economico dell’opera d’arte diffondendosi così l’uso di stabilire un prezzo per la pittura.9 Il sensale e/o l’intermediario diventa la figura cardine nella formazione e nello sviluppo del mercato collezionistico felsineo e extra felsineo dei decenni successivi all’accademia dei Carracci e, nella società dei pittori, artisti e mercanti convivevano in reciproco sostentamento dando il via a una rete di produzione e circolazione delle opere che si autoalimentava. A inizio del Seicento l’artista, divenuto consapevole del valore commerciale della propria pittura, vuole «vendere per reputazione»: caso esemplare è la richiesta dei Carracci a Pompeo Vizzani, che stava trattando per l’acquisto della Nascita di san Giovanni Battista di Ludovico Carracci (Bologna, Pinacoteca Nazionale), eseguita per monsignor Ratta nel 1593 per la chiesa di San Pietro Martire a Bologna, a causa di di un prezzo ritenuto esorbitante (fig. 3)10. Scrive Pompeo Vizzani da Bologna al fratello Giasone a Roma quanto alla pittura della tavola, io ho parlato con i Carracci, e li ho fatti parlare anco da altri per disponergli, e si sono risoluti, che serviranno; ma venuto a trattare del prezzo non mi è piaciuta la loro risoluzione, poiché hanno detto di volere duecento scudi, che mi pare un gran pagare, avendo essi fino ad ora fatto le loro tavole per sessanta e settanta, ma vogliono cominciare a vendere per reputazione; ho poi inteso, che sono soliti a calar molto poco della prima domanda, e che tengono i lavori molto tempo nelle mani, prima che finiscano […] da che potrà far conto se le torna meglio farle fare in Roma.11

I due fratelli Pompeo e Giasone Vizzani sono agenti dei Carracci a Roma. Pompeo svolge la funzione di mediatore con monsignor Dionigi Ratta, prelato bolognese inserito nella curia romana, oltre che per il quadro sopracitato anche per la Trasfigurazione di Ludovico nella chiesa di San Pietro, mentre Giasone cerca dei dipinti di Annibale Carracci da acquistare e si indirizza così a Onofrio Santacroce: quanto alle sue vere pitture di mano di messer Annibale Carrazza, ci vuole termine et coppia, essendo assai carico di quadri promessi; […] però vanno essi ritenuti hora accettare imprese et sono pochi giorni che io ricercai messer Annibale per un quadro dove andava una historia per Pesaro et di una ancona per qua di un amico mio et delle historie mi addimandarono scudi 150 per mercede, et dell’ancona 200, mostrando anco in parte ciò fare, credendo di fare a me servitio.12

Entrambi avevano rapporti diretti con Ludovico, Agostino e Annibale, e nel 1593 ricoprivano un ruolo che ora è meglio definire con più chiarezza.

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Fig. 3 Ludovico Carracci, Nascita di san Giovanni Battista, Bologna, Pinacoteca Nazionale

Sul crinale del nuovo secolo, infatti, appaiono ruoli di corteggio dei pittori che hanno declinazioni diverse per cui vale la pena distinguere: l’intermediario o sensale o mezzano è colui che media tra un venditore e un acquirente percependo una percentuale. L’agente è colui che agisce per conto di terzi, o tratta affari altrui; il perito è persona che, per la sua competenza in una determinata materia, è chiamata a compiere un’indagine tecnica sia per conto di privati sia, in un processo penale, per incarico del giudice, cui riferisce mediante dichiarazione giurata. Il mallevadore è il garante dell’adempimento di una obbligazione da parte di terzi. Il semplice mercante è invece chi esercita la mercatura, cioè commercia o acquista per rivendere. Non è quindi lecito utilizzare questi termini come sinonimi, poiché ognuno indirizza verso una differente posizione commerciale. È vero, tuttavia, che molti di quegli attori che si affacciano sulla piazza bolognese, o che da questo osservatorio gestiscono compravendite per altri com-

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Raffaella Morselli mittenti o acquirenti, non sono, fin da subito, dei professionisti. Molto spesso sono nobili, letterati, musicisti, amici degli artisti che sanno dialogare con loro e intrattengono relazioni epistolari ramificate fuori dal perimetro delle mura urbane; poi arriveranno i banchieri e i finanzieri che acquistano debiti e emettono cedole di cambio, infine, verso la metà del secolo, si assiste alla codificazione della professione, con esperti che compaiono fiduciari di uno o più pittori e che trattano per loro conto. Parallelamente a questa rivoluzione della professione, e del suo mercato, l’arte dei pittori, ancora impostata secondo regole che si tramandavano dall’antica mercatura trecentesca, sente la necessità di riformarsi sotto la spinta di novità sostanziali sia dal punto di vista dell’istruzione di alcuni di loro – Lavinia Fontana si laurea nello Studio bolognese di cui Giovanni Antonio Valesio era calligrafo, Agostino Carracci era poeta e artista – sia dalla prospettiva della nobiltà della professione che viene codificata in un nuovo statuto societario nel 1598, in cui anche i periti interni hanno un ruolo molto importante. La nuova Compagnia dei pittori incede prepotentemente verso il cambiamento ad un ricambio generazionale, cioè nel momento stesso in cui, il 28 giugno 1582, entra in consiglio Ludovico Carracci, allievo di Prospero Fontana, seguito da Cesare Baglione nel 1583, da Pietro Agnesina, da Ercole Luchini e da Bartolomeo Cesi, eletto nel 1586 massaro delle arti.13 Contemporaneamente, nel 1583, Annibale Carracci, pittore nella bottega di Ludovico ma non membro del consiglio della corporazione poiché era ammesso, da statuto, che uno solo rappresentasse in consiglio il proprio atelier, a ventitré anni esegue una Crocifissione (Bologna, Pinacoteca Nazionale) che produce una reazione violenta nei vecchi maestri della gilda (fig. 4).14 Si trattava di un problema di buona pittura, di decoro, di rapporto tra colore e disegno, ma soprattutto la pala indicava una nuova strada verso il naturale e l’autonomia che la vetusta corporazione non poteva più gestire. Dopo altri quindici anni di sfilacciamento interno tra l’Arte dei pittori e bombasari, a cui erano associati, e gli iscritti, si arrivò ad un nuovo statuto nel 1598. La transizione, tuttavia, fu lenta e piena di insidie: per prima cosa era necessario separarsi dai trasformatori del cotone, i bombasari, che ancoravano i pittori al mondo della produzione meccanica. A tal proposito il documento presentato al Legato per la scissione recita: «Non conviene che i pittori […] stiano in comunione con uomini di arte diversa, ignari e inesperti della medesima nobilissima arte della pittura».15 L’eccellenza studiosa di quest’ultima non poteva mischiarsi con il mondo dei telai e delle macchine per la trasformazione di una materia prima. La partita si giocava così su una contrapposizione: l’intelletto contro il materiale. Bartolomeo Cesi si adoperò più di ogni altro nella secessione: fece una colletta per ottenere una somma importante al fine di sostenere la lite giuridica e acquistare una nuova residenza, rintrodusse le obbedienze, fece vestire con abiti imperiali e la corona di lauro il promassaro, spendendo più di 200 scudi, e ricominciò a tenere tutti i registri come primo sindaco e depositario di tutte le entrate di quella Universitas, oggi pur-

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Fig. 4 Annibale Carracci, Crocifissione, Bologna, Pinacoteca Nazionale

troppo dispersi ma che Malvasia aveva consultato, trascrivendo «In nome della SS. Trinità, della B:V: Maria e di San Luca Protettore della Magnifica compagnia dei pittori, a dì primo ottobre 1599 Libro primo nel quale si terrà giustissimo conto di tutte l’entrate e spese della magnifica compagnia dei pittori».16 I primi tre pittori con nomine furono, oltre a Cesi, Ludovico Carracci e Ercole Lucchini. Primo massaro del collegio fu Giovan Battista Cremonini, eletto il 9 gennaio 1600. I senatori Camillo Bolognini e Ferdinando Fantuzzi furono nominati protettori della compagnia e fu aggregato Ottavio Bargi, maggiordomo del cardinal legato Montalto, e Torquato Monaldino.17 Già nel proemio dello statuto viene dichiarato che la «Pittura è antichissima tra le arti liberali» e, a quei tempi, a Bologna esistevano molti pittori che avevano servito re e papi con molta gloria e dunque era necessario che la Compagnia dei pittori si disgiungesse dalle altre arti con cui era stata aggregata con poca convenienza. Il consiglio eleggeva un massaro per tre mesi, due consoli e un sindaco per sei mesi: questi rappresentavano

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Raffaella Morselli l’esecutivo. A loro era affidato il compito di far valere l’autorità della corporazione su tutti quei mestieri che avevano a che fare con la categoria professionale: i fabbricanti di pennelli, gli speziali, i decoratori, i produttori di carte da gioco, i fabbricanti di maschere.18 Dovevano riscuotere i contributi e eliminare ogni forma di concorrenza. Per esempio, era proibito subentrare al capocantiere o al maestro in un’opera senza aver ottenuto il permesso dalla Compagnia o l’autorizzazione del consiglio.19 È interessante notare che lo statuto, suddiviso in capitoli che normavano tutte le declinazioni della disciplina, ne avesse uno, il 7, intitolato Dei periti dell’arte. Questi avrebbero dovuto accordare le dispute sopra le opere e, una volta eseguita la perizia da parte di un membro della Compagnia regolarmente incaricato, nessun altro avrebbe potuto emettere giudizio differente, pena una multa di 25 lire bolognesi, pari a cinque scudi. Il perito, inoltre, avrebbe dovuto farsi pagare dalle parti e la Compagnia avrebbe governato su questa funzione. Uno tra gli incarichi più remunerativi era, senz’altro, la valutazione e la stima delle collezioni che da lì a pochi anni sarebbero andate incontro allo smembramento tra gli eredi. Solo un pittore della Compagnia aveva il permesso di esercitare tale lavoro e, soprattutto, era in grado di nominare, attraverso le varie attribuzioni, i singoli quadri, i pendant, le copie, le derivazioni. Una importante selezione di inventari di quadrerie cittadine collocate su tutto il Seicento, ha dimostrato la presenza di periti specializzati nella metà dei casi analizzati, segno che la professione si era affermata, e che il capitolo 7 dello statuto era stato emesso con giusta causa dato che ha permesso di fare arrivare fino a noi stime e valutazioni attendibili.20 In ogni sistema c’è sempre un’eccezione: è il caso della perizia stesa alla morte dello scultore Giulio Cesare Conventi (1640), maestro di Alessandro Algardi, amico di Ludovico Carracci. Il suo inventario viene stilato dall’amico e collega Guido Cagnacci, un forestiero. Definito nel documento notarile familiare della moglie e dei figli, il suo occhio dà conto non solo della situazione della casa-bottega ma anche del modo in cui la guarda: oltre alle pitture, nomina «lavori in avorio cominciati non finiti», opere in «marmo bozzato» ebano, pietra, opere di «basso rilievo», terrecotte, riflesso di una formazione come scultore, attestata dalle fonti, di cui oggi non rimane nulla.21 Una campionatura delle varie funzioni merceologiche più sopra espresse passa per forza attraverso la letteratura artistica e i documenti, ma soprattutto attraverso i pittori che sono il perno attorno cui tutto questo sistema ruota vorticosamente a partire dal nono decennio del Cinquecento, quando cioè i Carracci, tutti e tre, stabiliscono nuovi canoni e nuovi meccanismi di committenza. I primi ad essere interessati da questo sistema sono gli amici: persone come il musico Adriano Banchieri o il poeta Cesare Rinaldi, attraverso il florilegio delle loro Lettere, dimostrano come essere stati intellettuali, accademici, attori del panorama culturale della città possa aver spalancato loro le porte degli studi dei pittori come quelle di Ludovico e di Guido Reni, ma anche quelle delle collezioni cittadine, diventando un punto di riferimento per quanti ambissero ad essere presentati agli artisti e essere introdotti per

«Torcimanni e barattieri» ottenere un quadro o una pala. Consigliano, suggeriscono, trattano i prezzi, indirizzano verso le iconografie, comparano le valutazioni.22 Non è chiaro se fossero dei mezzani e percepissero una percentuale, ma è certo che per i loro servigi richiedevano in cambio disegni e quadri, influenzando così fortemente il mercato e rendendosi garanti dei prezzi che esigevano i pittori. Il caso del poeta-collezionista Cesare Rinaldi è emblematico.23 In una lettera a Pellegrino Lintrù scrive: «Taccio il desiderio che ella tiene d’ottenere dal sig. Guido Reni nuova meraviglia: ma perché desiderare senza chiedere? L’acquisto consiste nella dimanda, conseguirà vostra Signoria per merito quel ch’io più volte ho conseguito per gratia».24 Con Cesare Rinaldi si affaccia sulla scena italiana ed europea un nuovo tipo di collezionista, il letterato intellettuale che colleziona disegni e quadri talvolta commissionandoli talvolta richiedendoli in dono da artisti in cambio di composizioni elogiative. La sua esperienza precede quella di Marino e apre la lista dei bolognesi Agucchi, Dolcini, Carli, Manzini e Malvasia. L’abilità di Rinaldi, nel 1620, si affina ancora di più quando, ad un ignoto committente che gli scrive da Ferrara egli risponde: S’inganna Vostra Signoria credendo di pagare al signor Guido Reni un quadro di più figure grandi sessanta scudi e mi parrebbe d’avvilirlo di condizione, s’io facessi così debole offerta. L’invenzione da lei proposta è nobile, il pittore è d’animo nobilissimo, e ’l negozio va trattato con nobiltà. Compiacciasi pure che ’l prezzo sia di cento zecchini e poi anche chiamisi favorita.25

In questo caso calmiera i prezzi ed è garante del mercato che ruota attorno al celebre pittore. Gli agenti sono più pressanti: hanno una missione da compiere per conto di duchi, principi, re e assillano i committenti con le loro relazioni. Sono solitamente nobili che hanno un incarico a corte e che raccolgono notizie fuori e dentro gli studi, propagano chiacchiere, creano reti di conoscenze, usufruiscono di entrature privilegiate. Proprio per questo loro ruolo non sono i garanti del mercato interno poiché al loro passaggio tutto si trasforma, le valutazioni si gonfiano. È il caso di Cornelio Lambertini, che agisce presso i Carracci per conto del segretario di Cesare D’Este, Giovanni Galeazzi.26 Un altro agente sotto traccia è Leandro Persico, emissario di Maffeo Barberini, che rimane a Bologna dopo il ritorno dalla legazione del prelato, negli anni 1614–1623. Il loro rapporto è stato attestato da dieci lettere rinvenute nell’archivio Barberini da Sebastian Schütze, che dimostrano come gran parte dei dipinti bolognesi della sua collezione fu commissionato negli anni della sua legazione (1611–1614).27 Gli agenti di un regnante potevano essere più di uno sulla stessa piazza, provocando dei cortocircuiti di committenza. Uno tra i più attivi fu Rinaldo Ariosti, agente del duca Cesare d’Este a Bologna dal 1618, collezionista a sua volta e sostenitore della scuola bolognese di quadratura. Aveva un legame con Lucio Massari, che raccomanda al Dentone per alcuni lavori presso il duca; è citato soprattutto nell’affare sull’acquisto dell’Amore dormiente (Collezione privata) di Guido Reni (fig. 5) e sull’Arianna dello stesso (conosciuta in due versioni, Lacma e Roma, collezione Torlonia).28 Rinaldo aveva intessuto relazioni con

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Fig. 5 Guido Reni, Amore dormiente, Bologna, Banca Popolare dell’Emilia Romagna

gli altri agenti estensi a Bologna, relazioni non sempre pacifiche, come per esempio con Girolamo Graziani, con il quale si sfidò a duello con la spada nel 1640. Il motivo della contesa era l’elezione a cardinale di uno dei principi estensi: Graziani appoggiava Obizzo, di cui era segretario, ma venne eletto Rinaldo, appoggiato da Francesco I. Graziani propose «il loco ove si sarebbe trovato con spada, et pugnale in compagnia di un Gentilhuomo suo amico» e Ariosti vi «si trasferì col signor Cornelio Malvasia da lui a ciò pregato nel loco destinatoli ad effetto di battersi col signor Gratiani», ma quest’ultimo non si presentò. Al di là della cronaca, l’episodio certifica quanto fosse fitta la rete dei due consulenti artistici bolognesi, talmente fitta che fu Cornelio Malvasia a essere designato come «gentilhuomo» ad assistere Rinaldo nel duello. Una rete in cui fu implicato oltre a Graziani, futuro estensore del programma iconografico del palazzo di Sassuolo e committente di Jean Boulanger, anche il senatore Nicolò Tanara, pagato dalla tesoreria ducale nel 1637 per un dipinto di Reni.29 I mallevadori sono molto più semplici da tracciare, avendo ben chiaro che il loro scopo era il denaro: Andrea Cattalani, per esempio, è un banchiere bolognese, commerciante di bestiame, con una casa in via Mascarella in cui era collocata un’importante quadreria, tuttavia taciuta dal Malvasia, quasi lo storiografo volesse apertamente ignorarlo per chissà quale motivo di agone collezionistico. Per lui i quadri sono un investimento: commissiona infatti dipinti che poi rivende, o anticipa somme per commissioni esterne. Emblematica è la nota nel Libro dei conti di Guercino che recita: «Dalli signori Cattalani Banchieri si è ricevuto ducatoni 200», anticipo a favore di una «signora di Reggio» che aveva chiesto a Guercino un quadro con «Sant’Apollinare con una gloria d’angeli nella parte di sopra», oggi non identificato.30 Cattalani è anche uno dei committenti di Elisabetta Sirani a cui ordina nel 1658 «una tavolina con i dieci martiri crocifissi per il sig. Andrea Cattalani […] una Giuditta mostrante la testa di Oloferne

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Fig. 6 Elisabetta Sirani, Timoclea, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

(oggi Stamford, Burghley House) […] figure dal naturale per il sig. Andrea Cattalani» e nel 1659 una «Timoclea grande del naturale gettante il capitano nel pozzo, per il sig. Andrea Cattalani» oggi a Napoli, Museo di Capodimonte (fig. 6).31 Tutti questi quadri non erano solo per la sua collezione, ma per una propria compravendita. Ludovico Mastri è, invece, un vero e proprio mercante d’arte e banchiere che svolgeva la sua attività tra l’Italia e la Francia, e forse aveva un accordo commerciale con Guercino, vista la sua assiduità nelle carte del centese a partire dalla metà del quarto decennio. Abile e veloce nelle trattative, doveva disporre di importanti somme di denaro che gli permettevano di chiudere velocemente le transazioni commerciali: si arricchì trafficando anche nella stessa Bologna, dove commerciò opere di Reni e di Guercino. Era chiamato da Malvasia «trafficante» poiché guadagnava enormemente giocando al rialzo con i quadri commissionati ai due artisti. Il 17 agosto 1634 propose di allogare la Pala di san Giobbe, già contrattualizzata a Guido Reni proprio da lui, in qualità di rettore dell’arte della seta, a Guercino, che si trovava ospite a casa sua a Bologna in quanto aveva portato la pala per i signori Lumaghi di Lione raffigurante Cristo appare

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Fig. 7 Guercino, Cristo appare a santa Teresa, Aix en Provence, Musèe Granet

a santa Teresa (Aix en Provence, Musèe Granet) (fig. 7).32 È lo stesso Guercino a parlare a Francesco I della trattativa con Ludovico Mastri per la Salomè in una lettera del 4 agosto 1637 indirizzata al duca di Modena: il duca avrebbe voluto l’opera per la sua collezione, ma questa, già iniziata, era destinata al banchiere. L’affare dovette concludersi velocemente poiché Mastri, onorato di servirlo, gliela cedette.33 A questo punto, nel 1638, il pittore realizzò un’altra versione per il banchiere, pagata appena 105 scudi contro i 225 spesi dal duca di Modena, ma si trattava forse di un pagamento parziale, mentre la tela per Francesco I venne saldata il 4 agosto 1639.34 Ludovico Mastri, e suo figlio Giovanni, che ereditò dal padre l’attività professionale, aveva cominciato a trattare opere di Guercino nel 1634, con il già citato Cristo appare a santa Teresa agendo da banco per Bartolomeo Lumaga di Lione e, nello stesso anno, per Amedeo I duca di Savoia, garantendo per lui il pagamento di 393 scudi per il Ritorno dalla fuga in Egitto (Chicago, Loyola University Museum of Art) (fig. 8). Per lo stesso committente, Mastri versò al Guercino, tra il 1637 e il 1638, 785 scudi per la pala con La Vergine del Rosario (Torino, chiesa di San Domenico). A queste date Mastri doveva essere tanto vicino all’attività di Guercino poiché un collezionista bolognese di altissimo rango come il senatore Ludovico Ratta, chiese la sua assistenza per ottenere dal pittore una Sibilla Cimmeria (Reggio Emilia, Credito emiliano) che doveva costituire un pendant con la sua Sibilla Cumana di Domenichino (collezione privata).35 Ludovico Mastri è stato intermediario anche della Flora (Roma, Palazzo Rospigliosi), pagata la ragguardevole

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Fig. 8

Guercino, Ritorno dalla fuga in Egitto, Chicago, Loyola University Museum of Art

cifra di 190 ducatoni da Giovanni Orio di Rimini il 9 luglio 1642. Quest’ultimo, già committente di Paolo Antonio Barbieri nel 1639 e nel 1640 per un quadro di animali e uno di frutti, in questa occasione richiese al Guercino un quadro di collaborazione tra lui e il fratello che, secondo la critica, eseguì i fiori e la ghirlanda che cinge il capo della fanciulla. Ancora nel 1651 il figlio Giovanni Mastri fungeva da banco per conto del conte Giovanni Domenico Falcombelli per una Vergine con il Bambino (Torino, Galleria Sabauda), saldata con 237 scudi. Con l’approcciarsi al duca di Modena, Mastri allargava la sua clientela altolocata. Francesco I acquisì anche altri quadri di Guercino comprando in blocco lotti provenienti da altre collezioni: fu così che pervenne nelle raccolte ducali il San Paolo (Parigi, Musèe du Louvre), già di proprietà del commendatore Luigi Manzini, bolognese, un mercante che lavorava soprattutto vendendo quadri facili, come teste devozionali di maddalene e santi.36 Dal punto di vista dei singoli artisti o delle botteghe, il rapporto con i vari intermediari poteva assumere connotazioni diverse a seconda della tipologia di committenza ma anche dallo stato di necessità: se i Carracci ebbero rapporti di pura mediazione con vari agenti, altrettanto non si può affermare nei casi di Guercino e Guido Reni, la cui attività fu costellata da una serie di figure con cui stabilirono rapporti molto più complessi: Barbieri, come si è visto, affidandosi spesso a figure che funsero da banco di credito per agevolare e velocizzare l’acquisto da parte dei collezionisti, Reni facendo gestire ad altri

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Raffaella Morselli ogni aspetto della trattativa, in qualche caso per necessità finanziaria, più in generale per astrazione. L’elenco degli intermediari che entrarono in contatto con la bottega del Guercino è deducibile dal Libro dei Conti, approfonditamente studiato da Olivier Bonfait37 che individua ottantadue nomi, comprensivi anche di agenti e mediatori. Dipanare le vicende di questi ultimi e incrociare i lavori per cui furono coinvolti è un’impresa certosina, ma, in generale, si possono tracciare delle linee comuni: la maggior parte aveva una provenienza emiliano-romagnola e agì da banco, vale a dire anticipò somme di denaro per conto dei destinatari delle opere, committenti nobili e illustri già dal primo periodo di attività a Cento. Il primo grande protettore di Guercino fu padre Antonio Mirandola, canonico della chiesa di San Salvatore a Bologna trasferitosi nel 1612 presso il monastero dello Spirito Santo di Cento, di cui fu successivamente superiore: agì come procuratore per il giovane Guercino già dal 1613, facendogli ottenere la commissione per la sua prima pala d’altare, il Trionfo di tutti i santi (perduta) per la chiesa di Santo Spirito, pagata dall’allora superiore padre Biagio Bagni. Mirandola fu il diretto responsabile di alcuni tra gli incontri più fruttuosi che il maestro centese ebbe l’occasione di avere durante i primi anni della propria carriera: tre dei Quattro Evangelisti dipinti per il canonico (1615) furono acquistati, su consiglio di Ludovico Carracci, dall’arcivescovo di Bologna Alessandro Ludovisi, il futuro papa Gregorio XV, che nove anni dopo, nel 1621, chiamò il pittore per la decorazione della Loggia delle Benedizioni in Vaticano (mai compiuta per la prematura morte del pontefice). Non solo, quando, nel 1618, Guercino ebbe l’idea di eseguire una serie di disegni anatomici a scopo didattico per gli allievi dell’Accademia che aveva istituito due anni prima presso la propria casa, padre Mirandola li fece tradurre in incisione da Oliviero Gatti e riuscì a mostrare il lavoro a Ferdinando Gonzaga, VI duca di Mantova e Monferrato, cui è dedicata la pubblicazione, edita nel 1619, dal titolo Primi elementi per introdurre i giovani al disegno.38 Padre Mirandola svolse un ruolo di vero e proprio agente, deus ex machina per il repentino volano che in questi primi anni sancì la carriera del prodigioso centese: è il canonico che, nel 1617, scrisse al marchese Enzo Bentivoglio per confermare la disposizione di Guercino a decorare il suo palazzo a Gualtieri, ma limitatamente al tempo che gli rimaneva, poiché l’artista era a quel tempo impegnato in «dodici ancone e undici quadri da terminare». Quando Guercino tornò da Roma, a seguito della morte di papa Gregorio XV, i mediatori si moltiplicarono velocemente: nel 1629, per esempio, il nobile reggiano Giuliano Fossa fece ottenere al centese la committenza per l’Annunciazione destinata all’oratorio dell’Invenzione della Santa Croce di Reggio Emilia.39 Finanche l’eminente cardinale Bernardino Spada, committente del Guercino per il proprio ritratto, funse da intermediario per la committenza della Morte di Didone, per conto della regina di Francia Maria de’ Medici (dipinto che rimase al cardinale a seguito dell’esilio cui fu costretta la sovrana dal figlio: Roma, Galleria Spada).40 Il 4 luglio 1632, Cesare Goretti pagò la caparra per il dipinto con San Francesco da destinare alla chiesa delle

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Fig. 9 Benedetto Gennari, Ritratto di Guercino con Giovan Battista Manzini, Cento, Pinacoteca Civica

Stimmate di Ferrara, per conto del conte Cesare Estense Mosti, governatore della compagnia delle Sacre Stimmate.41 Due anni dopo, Luigi Spontoni anticipò, in vece del conte Antonio Maria Sartorio, il saldo per la pala dell’oratorio di Nonantola raffigurante una Madonna con Bambino in gloria e i santi Rocco e Sebastiano (commissionata come ex voto per essere scampato alla peste). Accanto agli intermediari e mallevadori, Guercino era in contatto anche con mercanti: il riminese Francesco Manganoni, per esempio, per il quale eseguì Sant’Antonio da Padova con il Bambino Gesù (Rimini, Museo civico, già chiesa di San Francesco di Paola). Alla fine del quinto decennio, tra il 1648 e l’anno successivo, appena deceduto il fratello Paolo Antonio, i banchieri e affaristi Pietro Antonio Davia e Giacomo Marchesini si fecero avanti e anticiparono denaro, come agenti, per le sette opere commissionate da Don Antonio Ruffo di Messina.42 La gestione degli affari di Guido Reni fu dettata spesso dal bisogno economico e dalla totale fiducia concessa ad un’accolita di agenti e amici che stabilivano vere e proprie strategie di vendita. Almeno in un caso documentato, però, Guido aveva riposto male la propria fiducia: è il caso di Luigi Manzini. Astuto e senza scrupoli, era il padre di Giovanni Battista, che nel 1633 curò la pubblicazione Il trionfo del pennello. Raccolta d’alcune composizioni nate a gloria d’un Ratto di Elena di Guido: un compendio di ékfrasis in onore del dipinto di Reni. La confidenza che i Manzini avevano con i pittori più affermati della loro generazione è manifesto nel doppio ritratto, eseguito da Benedetto Gennari, che raffigura Guercino con Giovanni Battista (fig. 9). Il rapporto tra il pittore bolognese e il commendatore Luigi Manzini fu, per un periodo, di vero e proprio sfruttamento: rovinosamente indebitato per il vizio del gioco, Reni dovette sottostare alle clausole fortemente penalizzanti di un accordo stabilito con l’abile mercante, vale a dire dipingere per quattro ore al giorno, a fronte di una paga giornaliera di quaranta scudi, mirabili teste che venivano rivendute dal Manzini a cinquanta scudi l’una. Superato il

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Fig. 10 Simone Cantarini, Agar e l’angelo, Fano, Fondazione Cassa di Risparmio

momento del bisogno, Guido si affrancò dal giogo capestro e Manzini, per non perdere la numerosa clientela, dovette ripiegare su Simone Cantarini. Il pesarese accettò di buon grado l’ospitalità dell’intermediario e il ruolo che precedentemente aveva avuto Guido Reni, ma ben presto si accorse della trappola in cui era incappato, ossia l’impossibilità di dipingere altro da ciò che il suo protettore-padrone imponeva.43 Più fruttuoso e paritetico fu il rapporto d’affari che Guido Reni ebbe con Giovanni Andrea Sirani: egli aveva il consenso di mediare tra Reni e alcuni collezionisti ma anche di vendere copie e disegni tratte dalle opere del famoso maestro, lavori che, laddove non originali, venivano pagati a caro prezzo per la nota vicinanza tra i due pittori.44 Come è noto, il Sirani fu il principale agente della virtuosa figlia Elisabetta, ma anche consigliere d’arte di collezionisti come il banchiere Andrea Cattalani. Più occasionali furono i contatti che Reni ebbe con altri mediatori: Giovanni Paolo e Giovanni Battista Boselli, per esempio, due mercanti di olio che nel 1619 commissionarono la pala per l’altare maggiore per la chiesa del convento cappuccino di Monte Calvario; oppure il sensale «monsù Gazino», che si occupò della vendita di un’Adorazione dei Magi per un convento di suore e di un Ratto di Cassandra, entrambi non rintracciabili e comunque non alienati direttamente da Reni ma acquisiti da collezionisti privati.45 In una carrellata così polisemica di trattative tra artisti e mercanti è degna di attenzione la figura di Matteo Macchiavelli: speziale, proveniente da una famiglia fiorentina non nobile, è figura centrale del mercato artistico felsineo poiché era il proprietario della più rifornita drogheria di Bologna. Collezionista e mercante, acquistò e fece fare delle copie dei lavori più richiesti di Cantarini, ma era in contatto anche con Reni, Guercino e Elisabetta Sirani. La sua bottega sotto il Pavaglione, in cui si vendevano l’azzurro oltremarino, vernici, lacche, polveri, fungeva da luogo di scambio tra artisti e collezioni-

«Torcimanni e barattieri» sti. Il rapporto tra lo speziale e Simone Cantarini non era frutto di frequentazioni occasionali, perché i due intrattennero una vera relazione commerciale: Macchiavelli ordinava un quadro al pittore, pagandoglielo come un bene di qualsiasi tipo, e lo rivendeva a prezzo maggiorato. Caso emblematico è quello del dipinto su rame Agar e Ismael; eseguito per il mercante veneziano Gaspare di Luca, il quadretto percorse due volte la strada tra Bologna e Venezia (fig. 10).46 Giunto nella città lagunare, il committente lo aveva respinto adducendo il prezzo troppo alto (Macchiavelli pretendeva quindici doppie: dodici per il quadro e tre di commissione).47 Sostiene lo storiografo che, una volta rientrato a Bologna, venne nuovamente richiesto a Venezia da un nobile. Non contento dell’affare andato a buon fine, Macchiavelli pretese da Cantarini una nuova copia su tela, al costo di dodici doppie, quindi lo rivendette a Bartolomeo Musotti, che a sua volta lo cedette ai Sampieri. Basta quest’ultimo esempio per giustificare tanto movimento commerciale attorno agli artisti e alle loro opere: la commissione di Macchiavelli era pari al venti per cento e rimaneva uguale anche per un’altra versione su tela, e forse un’altra ancora, aumentando enormemente il suo guadagno. D’altra parte sono giunte fino a noi solo due versioni su tela di questo quadro di Simone Cantarini (Pau, Musée des Beaux-Arts e Fano, Collezione Cassa di Risparmio) e manca ancora all’appello quella iniziale, su rame, che tanta strada aveva percorso in attesa di un acquirente. Alla metà del secolo Bologna era diventata una piazza importante per il mercato dell’arte, alimentata dalla produzione dei golden boys – a cui deve aggiungersi quello delle golden girls, visto il lavoro internazionale di Lavinia Fontana e quello mitico di Elisabetta Sirani – e da un collezionismo interno che si era sostenuto con la loro produttività.

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Raffaella Morselli 1 C. C. Malvasia, Felsina Pittrice, Bologna, Tipografia Guidi all’Ancora, 1841 [1678], i, p. 174. 2 C. C. Malvasia, The life of Guido Reni, a cura di L. Pericolo, E. Cropper, Brepols, Turnhout 2019, pp. 52–54. 3 M. Nicolaci, R. Gandolfi, Il Caravaggio di Guido Reni. La Negazione di Pietro tra relazioni artistiche e operazioni finanziarie, in «Storia dell’Arte», 2011, n. 130, pp. 41–64. 4 G. Sapori, Il libro dei mestieri di Bologna nell’arte dei Carracci, Roma, Artemide, 2016, p. 16, in corso di pubblicazione. 5 R. Morselli, Dal Liber Matricolarum Artium agli Statuti, Cedole e Bandi. La definizione del ruolo del pittore nella Bologna del Cinquecento, conferenza nell’ambito del progetto Pictor, Barcellona 2016. 6 Una città in piazza. Comunicazione e vita quotidiana a Bologna tra Cinquecento e Seicento, catalogo della mostra, Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio, 2000, a cura di P. Bellettini, R. Campioni, Bologna, Editrice Compositori, 2002, p. 167. 7 R. Morselli, Artisti a Bologna nel Seicento: patrimoni personali ed eredità di bottega, in Riflessi del collezionismo, tra bilanci critici e nuovi contributi, a cura di G. Perini Folesani, A. M. Ambrosini, Firenze, Leo S. Olschki editore, 2014, pp. 189–206, figg. 77–83. 8 F. Malaguzzi Valeri, L’arte dei pittori a Bologna nel XVI secolo, in «Archivio storico dell’arte», 3, 1897, pp. 309–314 e G. P. Cammarota, Cronache della compagnia dei pittori, in Dall’avanguardia dei Carracci al secolo Barocco, catalogo della mostra, Bologna, Museo Civico Archeologico, a cura di A. Emiliani, Bologna, Nuova Alfa Edizioni, Bologna 1988, pp. 53–68. 9 O. Bonfait, Il pubblico del Guercino. Ricerche sul mercato dell’arte nel XVII secolo a Bologna, in «Storia dell’arte», 1990, n. 68, pp. 71–94. 10 Malvasia, Felsina Pittrice, cit., i, p. 174; Ludovico Carracci, catalogo della mostra, Bologna, Pinacoteca Nazionale, Museo Civico Archeologico, Fort Worth, Kimbell Art Museum 1993–1994, a cura di A. Emiliani, Bologna, Nuova Alfa editoriale, 1993, Regesto della vita e delle opere, anno 1592, pp. 217–218. 11 Malvasia, Felsina Pittrice cit., i, p. 174; Ludovico Carracci, cit., anno 1593, pp. 217–221. 12 Archivio Storico Capitolino, Corrispondenza Santacroce, busta 266, n. 74: R. Zapperi, The summons of the Carracci to Rome: some new documentary evidences, in «The Burlington Magazine», 128, 1986, pp. 203–205. 13 Cammarota, Cronache della compagnia dei pittori, cit., pp. 53–68; G. Feigenbaum, Per una storia istituzionale dell’arte bolognese 1399–1650: nuovi documenti sulla corporazione dei pittori, i suoi membri, le sue cariche e sull’accademia dei Carracci, in Il restauro del Nettuno, la statua di Gregorio XIII, e la sistemazione di Piazza Maggiore nel Cinquecento: contributi anche documentari alla conoscenza della prassi e dell’organizzazione delle arti a Bologna prima dei Carracci, Bologna, Minerva, 1999, pp. 353–377. 14 Per la scheda più aggiornata, anche sulla recezione del dipinto riportata da Malvasia, si veda D. Benati, in Annibale Carracci, catalogo della mostra, Bologna, Museo Civico Archeologico, Roma, Chiostro del Bramante, 2006–2007, a cura di D. Benati, E. Riccomini, Milano, Electa, 2006, pp. 136–137. 15 Documento del 28 dicembre 1598, decreto del Legato rogato dal Notaio Flaminio Macchelli in data 13 maggio 1602: M. Gualandi, Memorie originali italiane risguardanti le belle arti, Bologna, Jacopo Marsigli, 1840, iv, pp. 164–165. 16 R. Zapperi, La corporation des peintres et la censure des images à Bologne au temps des Carrache, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 38, 1991, n. 3, pp. 387–400.

«Torcimanni e barattieri» 17 Copia dello Statuto dei Pittori e dei Capitoli dell’Accademia Clementina, 20 aprile 1602 in Archivio di Stato di Bologna (d’ora in avanti ASBo), Assunteria d’arti, Notizie sopra le arti, b. 1. 18 La lista compresa nell’articolo 12 dello Statuto comprende tutti coloro che utilizzano «oro, pennelli, colori». 19 ASBo, Capitano del popolo, Società d’arti, b, iv, Bombasari. 20 R. Morselli, Collezioni e quadrerie nella Bologna del Seicento. Inventari 1640–1707, (Documents for the history of collecting. Italian inventories, 3), a cura di A. Cera Sones, Los Angeles, Provenance Index of the Getty Information Institute, 1998. 21 Morselli, Collezioni e quadrerie, cit. 22 A. Banchieri, Lettere Armoniche, Bologna, Girolamo Mascheroni, 1628; C. Rinaldi, Lettere, Bologna, Bartolomeo Cochi, 1617. 23 R. Morselli, G. Iseppi, Gli «incanti» di Cesare Rinaldi (1558–1636), poeta e intellettuale nella sperimentale Bologna, tra letterati, artisti e musicisti, in corso di pubblicazione. 24 Rinaldi, Lettere, cit., ii, pp. 219–220; G. Perini Folesani, Perchè desiderar senza chiedere? Committenza e commercio di opere d’arte, in La pittura in Emilia e in Romagna. Il Seicento, i, a cura di A. Emiliani, Milano, Electa, 1994, pp. 383–404. 25 Rinaldi, Lettere, cit., ii, pp. 222–223. 26 A. Venturi, La biblioteca estense di Modena, Modena, Treccani, 1882, p. 126; S. Cavicchioli, La decorazione di Palazzo dei Diamanti di Ferrara al tempo di Cesare d’Este, in La Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Catalogo generale, a cura di J. Bentini, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1992, pp. xxv–xliii; Ludovico Carracci, cit., pp. 214–215. 27 S. Schütze, Kardinal Maffeo Barberini, später Papst Urban VIII., und die Entstehung des römischen Hochbarock, Römische Forschungen der Bibliotheca Hertziana XXXII, München, Hirmer, 2007, pp. 27–31. 28 R. Morselli, Il «Lamento di Arianna» di Guido Reni, in «Storia della Critica d’Arte», 2018, pp. 239–275, 315. 29 F. Tarzia, Graziani, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, lviii, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2002. 30 Malvasia, Felsina Pittrice, cit., ii, p. 340. 31 Malvasia, Felsina Pittrice, cit., ii, pp. 397–399; R. Morselli, Guido Reni. I collezionisti, gli allievi, le copie, in La scuola di Guido Reni, a cura di M. Pirondini, E. Negro, Modena, Artioli, 1992, pp. 17–25. 32 M. Gualandi, Ricordo dell’accordo fatto con il Signor Guido Reni, in Gualandi, Memorie originali, cit., i, pp. 118–140, nn. 30–40. 33 L. Salerno, I dipinti del Guercino, Roma, Bozzi, 1988, p. 256, n. 169. 34 B. Ghelfi (a cura di), Il Libro dei conti del Guercino, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1997, p. 318. Turner propone che un frammento con la sola testa della Salomè corrisponda al dipinto oggi a Londra, collezione Schoepper: N. Turner, The paintings of Guercino: a revised and expanded catalogue raisonné, Roma, Ugo Bozzi, 2017, p. 531, n. 242. 35 B. Ghelfi, scheda n. 37 in: Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, catalogo della mostra, Forlì, Musei San Domenico, a cura di D. Benati, A. Paolucci, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2008. 36 R. Morselli, Il desiderio di tutti. Guercino tra i suoi collezionisti, agenti, intermediari e banchieri, in Il Guercino. Opere da quadrerie e collezioni del Seicento, catalogo della mostra, Aosta, Forte di Bard, a cura di L. Berretti, B. Ghelfi, Aosta, Forte di Bard Editore, 2019, pp. 45–57.

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Raffaella Morselli 37 Bonfait, Il pubblico del Guercino, cit., pp. 71–94. 38 G. L. Betti, Note sulle opere di Antonio Mirandola, scopritore del Guercino, in «Strenna storica bolognese», 40, 1990, pp. 91–102. 39 A. Mazza, N. Turner, Guercino a Reggio Emilia. La genesi dell’invenzione, Ginevra, Skira, 2011, pp. 106–109. 40 Ghelfi, Il Libro dei conti, cit., pp. 61, 63. 41 Ghelfi, Il Libro dei conti, cit., p. 67. 42 Malvasia, Felsina Pittrice, cit., pp. 141, 343; Ghelfi, Il Libro dei conti, cit., pp. 424, 480, 486, 491. 43 R. Morselli, Da Guido Reni a Cantarini. L’arte di ben copiare e ritoccare al servizio del mercato felsineo, in Fano per Simone Cantarini. Genio ribelle 1612–2012, catalogo della mostra, Fano, a cura di A. M. Ambrosini Massari, Fano, Fondazione Cassa di Risparmio, 2012, pp. 141–151. 44 B. Bohn, The construction of artistic reputation in Seicento Bologna: Guido Reni and the Sirani, in «Renaissance Studies», 25, 2011, 4, pp. 511–537. 45 Malvasia, The life of Guido Reni, cit., p. 74. 46 Malvasia, Felsina pittrice, cit., Vita di Simone Cantarini, p. 380. Si veda anche: Morselli, Da Guido Reni a Simone Cantarini, cit., pp. 141–151. 47 R. Morselli, Protettori, mercanti, collezionisti: la Bologna di Simone Cantarini, in Simone Cantarini detto il Pesarese 1612–1648, catalogo della mostra, Bologna, Pinacoteca Nazionale, a cura di A. Emiliani, Electa, Milano 1997, pp. 50–69; R. Morselli, Matteo Macchiavelli 1661, inventario legale, in Morselli, Collezioni e quadrerie, cit., pp. 297–302, n. 55.

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«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla». La formazione della collezione dei Mattei di Paganica attraverso i carteggi inediti di Guercino, Francesco Albani e dell’architetto Guido Antonio Costa La famiglia dei Mattei di Paganica risulta meno nota agli studi storico-artistici rispetto a quella dei cugini, i Mattei di Giove, sebbene avessero antenati comuni e condividessero l’area posta sulla metà settentrionale del teatro di Balbo, nei pressi dell’odierna via delle Botteghe Oscure, chiamata appunto insula Mattei (fig. 1). Trasferitisi da Trastevere al rione S. Angelo intorno al Quattrocento, spinti probabilmente dalla necessità di intensificare i loro traffici commerciali in una zona all’epoca trainante per l’economia della città, i Mattei riuscirono ben presto, nel giro di una generazione, ad affermarsi nello scacchiere politico cittadino.

Fig. 1 Planimetria dell’insula Mattei con l’evidenziazione dei resti del Teatro di Balbo. Elaborazione di C. F. Giuliani sulla ricostruzione di C. Varagnoli

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Fig. 2

Palazzo Mattei di Paganica, Roma

A seguito della divisione del casato in due rami, i Mattei detti di Giove (dal feudo in provincia di Terni, vendutogli dai Farnese nel 1597), grazie al prestigio derivante dalla carica cardinalizia ottenuta nel 1586 da Girolamo (1545–1603), figlio di Alessandro I, e alle accorte politiche di amministrazione del patrimonio familiare messe in atto dai fratelli Ciriaco (1542–1614) e Asdrubale (1554–1638), si imposero tra le famiglie aristocratiche più in vista della città. Il potere raggiunto dai Mattei di Giove si rifletteva anche nell’ostentazione della lussuosa dimora familiare arricchita di una quadreria che annoverava, com’è noto, accanto a capolavori del Rinascimento anche dipinti: degli artisti più quotati dell’epoca come Caravaggio, di cui possedevano quattro dipinti: la Presa di Cristo nell’orto (Dublino, National Gallery of Ireland), il San Giovanni Battista (Roma, Musei Capitolini), la Cena in Emmaus (Londra, National Gallery) e un San Sebastiano.1 L’altra linea dei Mattei, che soltanto nel 1612 si poterono fregiare del titolo di baroni di Paganica grazie all’acquisto del feudo abruzzese, avviarono, invece, un processo di ascesa sociale più lento che si consolidò soltanto nel Seicento inoltrato, sebbene la famiglia fosse ben inserita nel tessuto dell’antica nobiltà romana, come dimostrano i matrimoni con i Del Bufalo, i Frangipani, i Capizucchi, i Capranica e gli Orsini. Forse proprio perché affacciatisi più tardi su palcoscenici importanti, le vicende familiari dei Mattei Paganica si svolsero all’ombra dei più noti cugini e sono state ricostruite solo recentemente grazie alle ricerche svolte dalla storica Simona Feci sulla vita dei personaggi più illustri del casato.2 Ad esse vanno aggiunti i rilevanti studi di Renata Sampieri,

«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla»

Fig. 3

Guercino e bottega, Muzio Scevola davanti a Lars Porsenna, Roma, Palazzo Sforza Cesarini

Susanna Finocchi Vitale e Claudio Varagnoli sulla storia edificativa del palazzo Mattei Paganica, oggi sede dell’Enciclopedia Treccani (fig. 2), che hanno portato alla luce le diverse dinamiche di evoluzione sociale dei due rami Mattei.3 Anche la collezione d’arte, che pure annoverava autentici capolavori di maestri del Cinque-Seicento come Guercino, Francesco Albani, Giovanni Battista Bolognini, Perugino, Guido Reni, Annibale Carracci, Domenichino, Guido Cagnacci, Pietro da Cortona, Giovanni Francesco Romanelli, il cavalier d’Arpino, Paul Brill e Gerrit van Honthorst, ed è stata oggetto di uno studio preliminare da parte di chi scrive, ha seguito lo stesso destino dei suoi creatori; i percorsi della sua formazione e della sua dispersione, infatti, si sono smarriti nei meandri del tempo, riemergendo confusamente dal passato in maniera frammentaria solo in questi ultimi anni attraverso l’individuazione di alcuni dipinti appartenenti alla raccolta, come il Muzio Scevola di Guercino e bottega (fig. 3) rinvenuto da Elisa Debenedetti nelle collezioni della famiglia Sforza Cesarini, erede dei Mattei di Paganica, e ora in collezione Lampronti.4 Una serie di carteggi inediti, di cui in questa sede si presentano alcune

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Fig. 4 Anonimo, Ritratto di Gaspare Mattei, bulino, Roma, Biblioteca Casanatense

missive risalenti agli anni 1648–1650,5 ha contribuito in maniera rilevante ad approfondire le ragioni culturali della nascita di questa quadreria e il programma identitario che guidò l’acquisto di ogni singola opera per realizzare il quale venne modificato a metà Seicento l’assetto cinquecentesco del palazzo, con la creazione di una galleria appositamente dedicata affrescata nel 1654 dal pittore fiorentino Lattanzio Niccoli.6 Artefici di questa ascesa sociale nel panorama della corte pontificia ed europea e della costituzione della quadreria di famiglia furono i fratelli Gaspare e Giuseppe Mattei Paganica, che portarono a compimento il progetto di nobilitazione iniziato dal padre, Mario. Questi, infatti, come era uso nelle famiglie aristocratiche romane, con acume politico, destinò il primogenito Gaspare (fig. 4) alla vita ecclesiastica e istituì la primogenitura a favore del secondogenito Giuseppe.7 Gaspare svolse una brillante carriera in curia. Negli anni seppe, infatti, guadagnarsi la fiducia di Urbano VIII, adempiendo con successo ai difficili incarichi nel Ferrarese, come commissario generale durante la peste nel 1630–1631, ad Urbino come vice-legato dal 1632 al 1635, a Perugia come legato nel 1636, e soprattutto a Vienna presso l’imperatore Ferdinando III come nunzio apostolico dal 1640 al 1644. Le lettere di questi anni raccontano le difficoltà di comunicazione e trattazione dei negozi a causa della scarsa conoscenza che in genere il personale della Segreteria aveva della Germania e dell’impegno profuso da Gaspare nello svolgere al meglio il suo lavoro, che gli valsero la meritata porpora nel 1643 e gli consentirono di tornare a Roma, dove rimase fino alla morte nel 1650.8

«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla» Giuseppe, invece, intraprese la carriera militare al servizio dell’imperatore, traendone numerosi riconoscimenti anche in patria: si distinse infatti nella guerra dei Trent’anni al fianco di Ferdinando III che lo ricompensò concedendogli il titolo di duca, di cui però la famiglia poté fregiarsi solo dal 1663. Successivamente, grazie ai rapporti privilegiati con i Barberini fu governatore delle armi del Patrimonio a Civitavecchia e nel 1638 sposò Lucrezia Massimo che gli portò una dote di 22.000 scudi. Più tardi, a partire dal 1642 si trasferì a Ferrara come generale delle armi. Nell’agosto del 1649, durante la seconda fase della guerra di Castro, ebbe luogo un episodio che mise in luce le sue qualità militari e che procurò a Giuseppe grande fama in tutto lo Stato pontificio. Si tratta della vittoria nella battaglia di San Pietro in Casale dell’esercito pontificio contro quello di Ranuccio II Farnese, che fu costretto a ritirarsi nel Modenese.9 È in questi anni di missione a Ferrara che venne creato il nucleo più importante della quadreria Mattei di Paganica, come si evince dalla fitta corrispondenza scambiata tra Giuseppe, suo fratello Gaspare, i pittori Guercino e Francesco Albani e una serie di agenti sparsi tra Bologna e il territorio emiliano, tra cui l’architetto Guido Antonio Costa.10 Tali missive sono di grande interesse perché permettono di seguire quasi giornalmente le trattative messe in atto dai due fratelli Mattei per gli acquisti e le commissioni dei quadri, nonché le diverse modalità di approccio e di lavoro utilizzate dai pittori emiliani per vendere le loro opere. Rivestono, inoltre, un indubbio valore le lettere di Costa che gettano luce sulle dinamiche del mercato di quadri nella Bologna di metà Seicento, consentendo anche, attraverso le sue considerazioni personali sui pittori contattati dai Mattei, di avere un punto di vista inedito e fuori dal coro, rispetto alle biografie ufficiali, della personalità di questi protagonisti dell’arte del Seicento. Dal carteggio tra i due fratelli Mattei si intuisce il ruolo svolto da entrambi negli acquisti delle opere d’arte: Gaspare da Roma, dove faceva le veci del fratello occupandosi dell’amministrazione familiare e della cura dei figli di Giuseppe nati dal matrimonio con Lucrezia Massimo, Prudenzia, Mario e Laura,11 dava direttive e consigli sui quadri da comprare a Giuseppe che a Ferrara, tramite suoi agenti sparsi sul territorio, si occupava materialmente di reperire e commissionare le opere. Gaspare e Giuseppe sembrano essere sempre in sintonia e molto attivi nel comune intento di completare la collezione di famiglia. Entrambi puntano ad avere il meglio che possa offrire il mercato. Giuseppe sembra molto meticoloso e interessato soprattutto all’iconografia dei quadri, prediligendo soggetti mitologici o della storia romana inerenti la virtù militari mentre Gaspare si dimostra competente e attento a verificare che le opere acquistate siano degli originali, benché sul significato di questo termine ci sarà da ragionare, come vedremo meglio più avanti. Di ogni quadro mandatogli da Giuseppe fa eseguire una perizia da esperti ed esorta il fratello a comprare in particolare dipinti di Guercino perché, secondo lui, a Roma opere del pittore avrebbero riscosso gran successo. In una lettera del maggio 1648, infatti, Gaspare informa Giuseppe di aver ricevuto alcuni quadri che questi gli aveva mandato da Ferrara ma lo avverte che «sono stati stimati qui da molti per copie

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Francesca Curti onde per questo nessuno ha voluto stimarli […] stimarei perciò bene che Vostra Eccellenza procurasse di haver qualche pezzo di quadro del Guercino il quale farebbe del certo assai romore».12 Giuseppe ascoltò le raccomandazioni del fratello perché nell’inventario del 1721, il primo noto con indicati i nomi degli autori (pubblicato nel 1994 da Francesca Cappelletti e Laura Testa), in cui viene descritta la quadreria di suo nipote Giuseppe Mattei di Paganica, figlio di Mario, sono presenti ben diciassette quadri attribuiti al pittore centese e cioè, oltre al già citato Muzio Scevola, un Giuseppe con la moglie di Putifarre, una Sibilla con Angelo e un’altra «Sibilla con libri in mano in atto di guardare una tavola sostenuta da un putto», un’Erminia e Tancredi, una Susanna e i vecchioni, una Presa di Cristo nell’orto, una «Santa martire», il Marte del Cincinnati Art Museum e il suo pendant una Venere con Cupido e Marte, un Lot con le figlie, un San Francesco, una Santa Maria Maddalena, una Sant’Agata, un San Giovanni nel deserto, e infine un David con la testa di Golia.13 Ad essi va aggiunto un Ratto delle Sabine, citato nel carteggio tra i due fratelli e presente soltanto nell’inventario della guardarobba di Gaspare ante 1650.14 È possibile che i Mattei avessero cominciato a collezionare opere dell’artista centese già prima dell’arrivo di Giuseppe a Ferrara. L’interesse del cardinale per Guercino e probabilmente anche l’attenzione per gli originali, infatti, risalivano a molti anni addietro, almeno al 1634, quando Gaspare ricopriva la carica di vice-legato a Urbino, come si evince da una lettera inviatagli da Pesaro da un suo agente, Cesare Calderini, il 15 ottobre di quell’anno. Nella missiva, infatti, l’agente narra un episodio accaduto a Guercino riguardante proprio la questione delle produzioni di copie che rappresentava un serio problema per lo stesso centese, a cui la situazione sembra già all’epoca essere sfuggita di mano.15 Al cardinale Mattei era stato proposto l’acquisto di un dipinto attribuito al pittore emiliano raffigurante Giaele e Sisara, e, approfittando della presenza a Pesaro di Guercino, che di ritorno da un viaggio a Loreto era stato ospitato in casa di Giovanni Mosca (colui che pochi anni prima gli aveva commissionato la pala con la Madonna e santi per la chiesa dei Cappuccini di Pesaro),16 inviò il Calderini con il dipinto presso il pittore affinché ne certificasse l’autenticità. Ma l’artista riconobbe il quadro come copia. Forse si trattava di una delle copie tuttora esistenti tratte dall’originale perduto.17 Tuttavia il prelato non fu l’unico a ritrovarsi con un falso Guercino, perché il pittore, nel visitare le dimore più prestigiose della città, bollò come copie anche una grande quantità di opere a lui attribuite conservate con tutti gli onori nelle gallerie dell’aristocrazia pesarese, cosicché «molti che credevano haver originali si sono trovati con copie in mano». Guercino aveva chiesto, inoltre, di poter visionare le opere che la famiglia Bonamini aveva appena venduto all’ambasciatore dei Savoia per il tramite di un padre barnabita esperto d’arte.18 Ma, i Bonamini che, secondo Calderini, erano «tenuti per la città per matti, mostrorno in questo d’aver cervello», e, vista la piega che stava prendendo la situazione, si rifiutarono di mostrarglieli. Non volle collaborare neanche il padre barna-

«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla» bita, che «per mantenersi nella sua opinione d’intendersi di questa scienza non volse bere a questo nappo (calice)».19 Non è questa la sede per approfondire quali fossero i quadri di Guercino di proprietà Bonamini che forse finirono in collezione Savoia, semmai la compravendita ebbe seguito, tuttavia, si fa presente che nell’inventario della quadreria Savoia del 1635 redatto dal pittore Antonio Della Cornia,20 un anno dopo la presunta consegna dei quadri Bonamini, compaiono tre dipinti di Guercino, il Ritorno del figliol prodigo (Torino, Galleria Sabauda), Giove e Semele e una Santa Caterina con corona (Torino, Galleria Sabauda), ora ritenuto della maniera del pittore centese, e che di questi soltanto il primo ha una provenienza certa, essendo stato realizzato nel 1617 per il cardinal Ludovisi, poi papa Gregorio XV, che in seguito probabilmente lo regalò al cardinale Maurizio di Savoia.21 Le trattative tra Guercino e Giuseppe Mattei dovevano essere iniziate forse subito dopo il suo arrivo a Ferrara, ma non è stato possibile ancora stabilire una data certa perché il lavoro di spoglio delle centinaia di lettere del carteggio di Giuseppe Mattei è tuttora in corso. Per seguire da vicino le questioni pratiche riguardanti gli acquisti e i rapporti con i pittori il generale si avvalse dei servigi dell’architetto e ingegnere militare bolognese Guido Antonio Costa (1599?–1662), nominato da Urbano VIII sin dal 1630 «ingegnere delle […] fortificationi che si fanno e faranno conforme il bisogno» ai confini emiliani dello stato pontificio e impegnato agli inizi degli anni Quaranta del Seicento nell’edificazione del Forte Urbano nelle vicinanze di Castelfranco Emilia, con il quale il barone Mattei entrò probabilmente in contatto per motivi legati al comune coinvolgimento nelle questioni relative alla difesa dei confini dello stato pontificio.22 Oltre a Costa, il nobile sembra riporre la sua fiducia nel giovane e colto sacerdote Achille Luzi residente a Bologna, che mandava periodicamente nelle botteghe di Albani e Guercino per verificare lo stato di esecuzione dei suoi quadri, e in alcuni suoi sottoposti, come il capitano forlivese Paolo Mattei di stanza a Cento.23 Dal tenore delle lettere di Costa scritte a Giuseppe, l’architetto si è rivelato figura chiave nell’introdurre il nobile romano nell’ambiente artistico bolognese nonché il vero artefice delle sue scelte artistiche. Per Mattei, infatti, fu consigliere infaticabile, abile diplomatico nel condurre i negoziati per le commissioni dei quadri e valido sostegno per tutte le questioni pratiche riguardanti il trasporto dei dipinti. Dalle sue parole, infatti, emerge una personalità forte, sicura di sé, a tratti ironica, con una elevata cultura e una profonda conoscenza dell’arte e dei pittori dell’epoca, che egli ostenta in più di un’occasione al suo padrone, quando questi richiede il suo parere. A questo proposito, assai interessanti sono, ad esempio, le sue considerazioni sulle qualità artistiche del pittore Giovanni Battista Bolognini, a cui il nobile aveva intenzione di commissionare l’esecuzione di un quadro di sua invenzione, espresse in una lettera del 10 ottobre 1648: sappia che io, quale ho praticato i primi maestri dell’arte, et ho fatto in altri tempi accademia per mia delitia del disegno et ho sino da miei teneri anni hauto buon gusto delle opere eccellenti, posso anco farle servire in eccelenza, quando si faccia riflessione a miti sentimenti, dico

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Francesca Curti dunque che non stimerei a proposito far servire il Bolognini di pittura di sua inventione perché egli non ha idea di concertarla bene, né di far buone attitudini né di far belle faccie, copiando riuscirà tanto che basti, per esser egli assai esercitato nel colorito e per ornare un quadro con paesaggio anco riuscirà.24

Ben altre sono invece le parole che spende a proposito di Francesco Albani in un’altra lettera del 21 novembre dello stesso anno: «il signor Albani è il miglior pittore che viva, nell’historiare è stato molto più eccellente di Guido Reni e le sue figure esprimono bene et io lo stimo compito pittore»; per tanto, con senso pratico, esorta Giuseppe a comprare i suoi quadri e anche in tempi brevi perché «egli è in età assai inoltrata, se veramente vuol esser servita, è bene concludere sino che egli si conserva in vigore».25 Mentre l’artista che ama di meno è Guercino, ma non perché non apprezzi la sua pittura, di cui anzi riconosce il valore, ma piuttosto per via del suo carattere e del costo, a suo dire, estremamente elevato dei suoi quadri. In una missiva del 7 ottobre 1648 così parla dei suoi rapporti con l’artista: «non pratico alla stanza del Guercino acciò non mi venga voglia del suo lavoro tanto caro»,26 e in un’altra di qualche mese prima lo descrive come «un huomo assai rustico, discosto e resoluto di vendere la sua mercatura con la sola propria sodisfatione e però io ho poco genio a domesticarlo».27 Tale insofferenza era forse stata causata dal fatto che Costa si era sentito offeso dal comportamento di Guercino il quale, a differenza degli altri artisti citati, non aveva riconosciuto la sua figura di mediatore per conto del generale, essendo il pittore abituato a trattare direttamente con i committenti e non sopportando forse l’ingerenza dell’architetto nell’indirizzarlo sul lavoro da compiere. Infatti, come riferisce Costa al Mattei in una lettera del 29 maggio 1648: Circa il Guercino mostra genio di trattare direttamente con V. E. stimandosi fosse fatto che non gl’occorra avertimento alcuno che pure mi par necessario, impiegando V. E. molte centinaia di scudi, io gl’ho fatto intendere che sono in ordine a servire V. E., gl’ho detto quello che ella stessa mi ha scritto, e servirò come mi comanderà.28

Il quadro per cui Costa era stato mandato dal generale a negoziare con Guercino era probabilmente un San Matteo, citato nel libro dei conti del pittore, per il quale egli ricevette una caparra di 44 scudi il 19 febbraio 1648.29 Grazie ad alcune lettere inedite scritte da Guercino al barone Mattei, possiamo seguirne ora l’iter di realizzazione: in data 7 aprile Guercino scrive di aver fatto fare il telaio al quadro «del San Matteo ordinatomi da V. E. Ill.ma» ma che, secondo lui risulta troppo basso in altezza perché dovendo servire per una cappella o stimato bene, prima di far fare la tela per darle l’imprimitura il dargliene parte con la presente a fine che quando si possi cresser di sopra la misura mandatami almeno un brazzo (come spero quando l’ornamento non fosse fatto) riuscirebbe la proportione assai bella et a proposito.30

«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla»

Fig. 5

Guercino, San Matteo, già Dorotheum, Vienna

L’opera dovette essere conclusa in breve tempo perché a settembre dello stesso anno Guercino è impegnato con un nuovo quadro commissionatogli dal Mattei, risultato essere da un’ulteriore lettera del 7 ottobre una Venere con Cupido e Marte.31 La notizia riportataci da Guercino che il San Matteo era stato concepito per una cappella è di una certa importanza, perché l’opera sembra non essere mai stata collocata in una chiesa né essere presente negli inventari Mattei.32 Un dipinto con questo soggetto è recentemente comparso sul mercato antiquario ed è stato riconosciuto autografo da Nicolas Turner, Daniele Benati e Andrea Emiliani (fig. 5).33 Quest’ultimo ritiene che il dipinto possa essere quello Mattei mentre gli altri due studiosi ritengono più probabile che il quadro appartenuto al generale romano sia un’altra versione dello stesso conservata in collezione privata, esposta nel 1993 presso la Matthiesen Gallery di Londra e

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Francesca Curti pubblicata da Barbara Ghelfi,34 sebbene in realtà, poiché entrambi i dipinti presentano le medesime misure (cm 118 × 97 il primo, 118 × 94,5 il secondo) e sono stati datati allo stesso anno, risulta a mio avviso difficile stabilire in mancanza di ulteriori informazioni in merito quale sia quello Mattei. Il quadro raffigurante Venere con Cupido e Marte, invece, come si evince dal libro dei conti e dalla testimonianza di Malvasia, fu saldato il 7 ottobre 1648 per la somma di 153 scudi.35 Dalla lettera di Guercino a Giuseppe del 26 settembre, apprendiamo che l’opera era già finita ma che non era stato possibile darle la vernice sopra a causa del brutto tempo: «Questi giorni passati ne quali è piovuto quasi sempre hanno tardato che non possi prima d’hieri dar la vernice al quadro di V. E.».36 Il 7 ottobre, come confermato anche dal libro dei conti, il pittore scrive al Mattei di aver consegnato ad un uomo di fiducia del nobile «il quadro della Venere che ho fatto per lei, et dal signor Domenico Ottaviani son stato pienamente soddisfatto per il prezzo e spese di esso, al quale gline ho fatto la riceuta». Afferma, inoltre, di aver usato «ogni diligenza» e di avervi aggiunto «un paese per renderlo più vago e compito del quale intendo di fargliene un donativo e se in altre occasioni mi conosce buoni a poterla servire mi troverà sempre prontissimo ad eseguire i suoi comandamenti».37 Il barone Mattei non se lo fece ripetere, perché, come emerge dal libro dei conti, già a febbraio del 1649 dava una nuova caparra di 37 scudi per un altro dipinto compagno della Venere: il Marte (fig. 6), consegnatogli il 15 ottobre dell’anno successivo.38 Si tratta del quadro oggi conservato a Cincinnati presso il Cincinnati Art Museum, sebbene la critica identifichi il barone Mattei citato nel libro dei conti con Luigi Mattei, marchese di Belmonte, figlio di Asdrubale Mattei di Giove, anch’egli impegnato nella guerra di Castro.39 Il quadro, invece, fu commissionato a Guercino da Giuseppe Mattei per la quadreria di famiglia, dove si trovava ancora nel 1721 come si evince dall’inventario della collezione del nipote Giuseppe: «Un quadro grande rappresentante il Marte con putto con un assalto in lontananza d’una fortezza con diverse figure piccole alto palmi 8 ½ largo palmi 10 ½ del Guercino dell’ultima maniera con cornice dorata e intagliata».40 La figura di Marte, colta in un momento di riposo durante la battaglia che imperversa sullo sfondo, come fanno supporre l’armatura e la spada e l’elmo poggiati a terra, rappresenta chiaramente un’esaltazione delle qualità militari di Giuseppe Mattei, di cui forse il dio riprendeva idealizzati anche i tratti somatici. Si potrebbe anche ipotizzare che la scena di battaglia rappresenti proprio l’assalto finale a Castro, che capitolò il 2 settembre 1649, oppure che raffiguri la riuscita offensiva dell’agosto 1649 contro le truppe Farnese che procurò grande fama al Mattei. D’altronde, come si evince da una lettera inviatagli dal poco noto pittore Gregorio Grossi, Giuseppe, neanche un anno prima, a maggio 1648, si era già fatto ritrarre in posa da generale «a cavallo, in atto di comando con il baston da generale e vi è un lacchè moro areto che tiene l’elmo et una carta nella quale vi è l’impresa di Lago Oscuro»,41 sebbene in questo caso Mattei volesse

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Fig. 6

Guercino, Marte con Amorino, Cincinnati, Cincinnati Art Museum

probabilmente esaltare, più che le sue doti militari, i suoi meriti di buon amministratore in materia di infrastrutture. È possibile, infatti, che per «impresa di Lago Oscuro» si intenda l’edificazione avvenuta proprio nel 1648 della via Coperta, un lungo porticato utilizzato con funzioni magazzino per consentire lo stoccaggio delle merci che giungevano risalendo il Po, che potrebbe essere stata promossa proprio dal Mattei come indurrebbe a credere il riferimento al foglio di carta tenuto in mano dal servitore da intendersi come progetto per l’opera di ingegneria edilizia.42 Il Marte fu realizzato, come accennato, quale pendant della Venere, che nell’inventario sopra citato viene descritta come: «Un quadro grande in tela bislungo rappresentante una Venere con putto e prospettiva in atto di specchiarsi col dio Marte del Guercino dell’istessa grandezza con cornice dorata intagliata».43 Il quadro della Venere doveva forse ricordare il celebre capolavoro dal medesimo soggetto realizzato dal pittore per Francesco d’Este nel 1633 (Modena, Collezione Estense) molti anni prima (1633–1634), anche se nella descrizione del dipinto Mattei si afferma che la Venere è colta mentre si rimira allo specchio.44 Oltre che con Guercino, Giuseppe Mattei nello stesso periodo era in trattative anche con Francesco Albani, al quale si era rivolto probabilmente su consiglio del Costa. Infatti da una lettera dell’architetto del novembre 1648, apprendiamo che egli si era recato nell’atelier del pittore per conto del duca. A differenza di Guercino, Albani sembra aver accolto l’architetto nella sua bottega con cordialità, mostrandogli tutti i dipinti in essa presenti. Costa riferisce al barone di essere rimasto colpito da un quadro raffigurante la Toletta di Venere, che però era già stato venduto da Albani al conte Ranucci:

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Francesca Curti Ho veduto quanto ella comanda circa alla scelta nota de quadri del signor Francesco Albani, quali sono tutti di sua mano; gli ho di novo riveduti e veramente il miglior conforme al mio gusto sarebbe quello delle tre gratie che conciano il capo a Venere, ma non si può havere perché ieri il signor conte Ranucci si ricordò haverne richiesto il signor Francesco e con grande instanza lo necessitò a prometterli di finirlo.

L’architetto, quindi consiglia al Mattei di far rifare il medesimo […] con qualche diversità, sì che non sarebbe copia se gli facesse alcune diversità e stimarei fosse cosa degna se si facesse sopra un gran lastrone di rame che il colore resterebbe più fresco e l’opera più perpetua che sopra tela e quando si spenda denaro di consideratione torna a far tutto compitamente, sono tanto nobile e degne le figure di questo quadro, che non saprei chi li havesse saputo far migliori, essendosi unite dentro le maniere di Titiano e Correggio.

Egli poi passa a descrivere il quadro: La dispositione delle figure è in questa forma: Venere sta a sedere in bellissima forma et attitudine mezza ignuda, si mira in uno specchio sostenutoli avanti da un Amorino, le tre Gratie gli stanno dietro e la conciano facendo bellissimi moti, dietro alle gratie o per dir meglio in lato vi sono tre amorini che somministrano diverse cose occorenti al servitio, dall’altra parte doi altri amori a piedi ad un fonte, quali fanno scelta di fiori che hanno in un cesto per ornarne Venere. Quest’attioni campeggiano in un paese che rende graditissima vaghezza.45

Il dipinto riprende un tema molto frequentato da Albani. Se ne conoscono, infatti, numerose versioni, dalla più antica, realizzata intorno al 1611, conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, in cui la scena è ambientata in un bucolico paesaggio nei pressi di una fontana a quella più monumentale del Louvre databile intorno al 1630, in cui la toletta si svolge sul pronao di un imponente tempio classico, a quelle degli anni Trenta-Quaranta dalle scenografie egualmente amene, nelle quali Venere, le Grazie e gli amorini attendono alle loro attività immersi in una lussureggiante vegetazione nei pressi di fontane, cascate o corsi d’acqua, come nel caso dei dipinti del Museo del Prado e della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia (fig. 7), che sembrano essere le versioni più vicine a quella descritta da Costa, sebbene in entrambe manchino i due amorini con il cesto di fiori.46 È interessante notare che l’architetto sembra ritenere copia anche un dipinto di mano dello stesso Albani che fosse identico ad un altro e valutare, invece, l’originalità dell’opera dalla sua unicità rispetto alle altre, unicità che si realizza anche solo aggiungendo un particolare differente nel quadro. Per questo consiglia a Mattei di inserire «un Marte fra certi cespugli che d’ascosto oserverà l’abigliamento di Venere».47 Giuseppe Mattei, alla fine, decise di seguire solo in parte i suggerimenti di Costa perché commissionò ad Albani un grande quadro che era sì in rame ma non rappresentava la Toletta di Venere bensì la favola di Aci e Galatea. Per tale motivo nei primi mesi

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Fig. 7

Francesco Albani, La toletta di Venere, Brescia, Musei Civici

del 1649 Giuseppe iniziò uno scambio epistolare con il pittore bolognese. Le lettere di Albani testimoniano delle varie fasi di esecuzione dell’opera, del suo modo di lavorare e della concezione che egli aveva della sua arte. All’inizio di agosto del 1649, infatti, Albani scrive al barone: «vado tirando avanti il gran rame di V. E. […] assicurandola che se ubidirà la mano al desìo che vivo ho di servirla posso sperare che non sia per riuscire inutile la mia fatica che al vero dire in ciò sta nel mio genio».48 Quasi un anno dopo, il 13 luglio 1650, Albani rassicura Giuseppe che il quadro è quasi finito: «Il rame si trova in perfettione tale che […] dentro questa settimana sarà verniciato e perché dopo della vernice si perfettiona con qualche pennellata spero che nella futura sarà compito del tutto».49 Il barone Mattei è ansioso di avere l’opera e vuole sapere quando potrà far venire a prendere il quadro, Albani replica in una lettera del 19 luglio che si dovrà aspettare ancora una settimana perché: «essendo verniciato è stato opportuno ritoccarlo e darvi ancora la seconda vernice». Nella stessa lettera, il pittore risponde anche in merito ad un nuovo quadro, di cui non abbiamo per ora altre notizie, commissionatogli dal barone sul genere di un altro dipinto non specificato realizzato da Guido Reni, che ci illumina della perizia e meticolosità con cui Albani svolgeva il proprio lavoro. In merito al dipinto, infatti, il pittore chiede a Giuseppe se esso dovrà avere un’estensione orizzontale o verticale, inserendo per maggiore chiarezza anche uno schizzo delle due tipologie di formato, quale dovrà essere il numero delle figure, se dovranno essere mezze o intere e perfino dove dovrà essere collocata l’opera e da dove proviene la luce:

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Fig. 8 Lettera di Francesco Albani a Giuseppe Mattei di Paganica, 19 luglio 1650, Archivio di Stato di Roma, Archivio Santacroce

Ho di già considerato le misure e trovo che una è longa palmi otto e l’altra di palmi sei ne posso capire se vadi per questo verso ovvero per quest’altro essendomi necessario sapere il numero delle figure e se sono meze del naturale (come mi persuado) come anco che istorie furono fatte dal signor Guido Reni, ciò per non incontrare nelle istesse e dove anderà collocato, accenarci anche da qual parte viene il lume50 (fig. 8).

Grazie ad una dettagliatissima missiva inviata a Giuseppe in data 28 agosto 1649 dal suo agente a Bologna, il sacerdote Luzi, che era andato personalmente nella bottega di Albani per conto del barone per riferire le sue impressioni sulle opere in corso di esecuzione, sappiamo esattamente come il pittore avesse deciso di rappresentare la tragica favola mitologica di Aci e Galatea. Dalle magniloquenti e poetiche parole del sacerdote, apprendiamo che Albani aveva voluto «con allegorico senso da vero intendente de più giuditiosi pensieri e concetti rappresentare come il più delle volte agli estremi contenti succedano inopinati disastri» effigiando una «vezzosissima Galatea» adagiata sopra «un

«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla» carro formato di marine conche e bizzarre nicche», e trainato da «due tripudianti delfini che turgidetti strisciano per l’onde» ed «il purpureo velo gli fa vela» mentre un amoretto con la sinistra regge la fere ardente che va scotendo per destare incendi fra l’acque e con la destra serve alla Bella di Pronabo reggendoli il delicato braccio […] doi [amori] a nuoto reggendo i freni agl’impetuosi delfini guizzano rimburchiando per l’onde […] altri volando per l’aere vibrano per ogni lato aurorate saette

altri, «essendo proceduti forieri alle desiate nozze», preparano il «ricco padiglione e letto al riposo degli amanti», e, infine, altri amori «van schierando superba credenza dei più industriosi vasi d’argento et oro che escano dalla fabbrecia dell’industrioso Vulcano». Ad attendere Galatea «non molto lungi si spicca il leggiadrissimo garzoncello Aci che […] sulla punta di un moscoso scoglio si accinge ad accogliere la già vicina semidea» mentre su «quel monte distante, un altro monte di carne adusta, quel mostro geloso iniquo Polifemo» è in atto di scagliare un grosso masso che schiaccerà il pastore Aci. Sempre secondo quanto riportato da Luzi, nell’angolo inferiore era raffigurata una Venere dormiente o «la parente Siringa», alla quale da un amorino «ingiustamente sono bendati gli occhi».51 Dalla descrizione del sacerdote, l’opera sembra essere pressoché identica al dipinto conservato presso la Pinacoteca Ambrosiana, un tempo considerato appunto una Galatea, che in seguito Catherine Puglisi ha ritenuto fosse più corretto identificare, per le allusioni nuziali in esso presenti, con le Nozze di Peleo e Teti (fig. 9).52 Con questo dipinto, datato anch’esso intorno alla metà del secolo, il quadro Mattei condivide sia il supporto in rame che le dimensioni, poiché, secondo quanto riportato nell’inventario del 1721, esso era alto 4 1/3 e largo 6 1/3 cioè quindi esattamente dello stesso formato di quello dell’Ambrosiana che misura cm 95 × 140.53 Il dipinto milanese, di cui si hanno notizie soltanto a partire dal suo ingresso nella pinacoteca nel 1827 a seguito della donazione del conte Eduardo De Pecis, si differenzia, però, per un piccolo ma fondamentale particolare: sul monte in fondo alla composizione non vi è Polifemo in atto di scagliare il masso, ma una figura femminile sdraiata. Non è un dettaglio da poco perché con l’eliminazione del gigante dalla scena viene meno l’elemento essenziale che permette di riconoscere chiaramente l’opera come la favola di Aci e Galatea. Inoltre, la composizione in questo modo risulta priva di quel senso allegorico moraleggiante dal risvolto tragico che, a detta di Luzi, era alla base del progetto artistico di Albani, e si configura semplicemente come un inno gioioso all’amore, prestandosi a diverse interpretazioni riguardo al tema rappresentato, che, infatti, è stato ritenuto una raffigurazione delle Nozze di Peleo e Teti. Alla luce di quanto affermato da Costa a proposito dell’inserimento di dettagli che garantissero l’originalità delle opere e permettessero di distinguerle da altre dello stesso autore affinché non fossero giudicate copie, è probabile che il quadro milanese possa

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Fig. 9

Francesco Albani, Aci e Galatea, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

essere un’altra versione del dipinto Mattei. Tale ipotesi è avvalorata dal fatto che in una descrizione che dovrebbe riferirsi al dipinto Mattei presente in un inventario ottocentesco della famiglia Santacroce, erede dei Mattei di Paganica, viene confermata la presenza di Polifemo nella composizione perché l’opera è indicata come «Aci e Galatea col ciclope Polifemo».54 Ma andiamo con ordine: è stato possibile accertare che l’Aci e Galatea rimase presso i Mattei di Paganica fino al 1772, quando morì Faustina, ultima discendente della famiglia.55 Successivamente il patrimonio della nobildonna passò ai Santacroce, essendo la Mattei vedova di Valerio V Santacroce, dal quale non aveva avuto figli.56 In precedenza Faustina era stata sposata con Marcantonio Conti, alla cui famiglia destinò, per volontà testamentaria, i quadri presenti nella donazione dotale del 1721 per onorare gli accordi stabiliti con vari atti notarili al momento del suo primo matrimonio.57 Tali dipinti sono elencati in un registro, risalente al 1773, intitolato «Libro dei quadri ricaduti all’eccellentissima casa Conti dall’eccellentissima casa Mattei Paganica» e tra essi compare anche l’Aci e Galatea, valutato ben 3.000 scudi, che però in una nota a margine si dice venduto.58 È possibile che l’opera sia stata ricomprata dai Santacroce stessi perché, come accennato, un «Aci e Galatea col ciclope Polifemo» è presente nell’inventario del 1802 di casa Santacroce e successivamente, nel 1841, Giuseppe Antonio Guattani, nel descrivere le opere d’arte di palazzo Torlonia, si sofferma su una Galatea attribuita ad Francesco Albani, che egli afferma provenire dalla collezione Santacroce, la quale sembra corrispondere esattamente al quadro Mattei delineato da Achille Luzi quasi due secoli prima:

«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla»

Fig. 10 Lattanzio Niccoli, Decorazione del soffitto della galleria, Roma, Palazzo Mattei di Paganica

Trionfa nel mezzo della parete un quadro grande traverso con Galatea che scorre il mare sopra conchiglia trainata da delfini, diversi amoretti di eleganti forme la corteggiano e chi gli vola al lato, chi nuota e chi gli sorregge il gran velo che in arco gli passa sul capo. Fugge essa lo sdegno di Polifemo che in gran distanza si vede da uno scoglio gittare un gran masso sopra Aci amante di Galatea e suo rivale.59

Da allora dell’opera si sono perse le tracce. Essa, infatti, non può essere identificata, come proposto da Claudia Pazzini, con la Galatea attribuita ad Albani, in deposito presso Palazzo Barberini, perché questo quadro raffigura la fanciulla in mare trainata da delfini e da ninfe, mentre dei numerosi amorini descritti sia da Luzi che da Guattani non ve ne è che uno.60 È, a mio avviso, da escludere anche l’ipotesi di Rossella Vodret, per la quale la descrizione di Guattani sia da riferirsi al dipinto raffigurante la Fuga di Galatea della scuola di Guido Reni conservato in Palazzo Barberini e proveniente dalla collezione Torlonia, in quanto in questo dipinto non è presente la figura di Polifemo in atto di buttare il masso che Guattani afferma di aver visto nel quadro Torlonia.61 Dopo la morte di Gaspare nel 1650, Giuseppe tornò a Roma e prese le redini dell’amministrazione familiare, dedicandosi alla sistemazione del palazzo ed in particolare a quella parte del piano nobile destinata alle esigenze di rappresentanza. Il progetto prevedeva l’adattamento a salone di ricevimento della grande sala cinquecentesca (ora sala di consultazione della biblioteca Treccani) dal quale si giungeva, attraverso un’enfilade di stanze, nella galleria, luogo scelto dal generale per celebrare i fasti della famiglia Mattei e le sue glorie militari. Il barone, infatti, volle che il pittore Lattanzio Niccoli ne affrescasse il soffitto con scene tratte dalla Gerusalemma liberata di Torquato Tasso, ac-

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Francesca Curti compagnate da motivi decorativi che riprendessero lo stemma Mattei e i simboli del valore militare (fig. 10).62 In questa sala probabilmente Mattei sistemò gran parte dei quadri che aveva fatto realizzare negli anni ferraresi e non è difficile immaginare che le sue preferenze andassero alle opere di Guercino raffiguranti il Ratto delle Sabine, il Muzio Scevola o il Marte, che incarnavano a pieno quegli ideali di onore e coraggio esaltati dalla tradizione classica che Giuseppe Mattei aveva cercato di fare propri durante la sua carriera e che gli erano pubblicamente riconosciuti se anche Albani, in una lettera del 23 luglio 1650, si rivolge a lui definendolo «heroe veramente romano».63

«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla» 1 Sui Mattei di Giove e sulla loro collezione cfr. F. Cappelletti, L. Testa, Il trattenimento dei virtuosi, le collezioni seicentesche di quadri nei Palazzi Mattei di Roma, Roma, Argos, 1994; Caravaggio e la collezione Mattei, catalogo della mostra, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, a cura di R. Vodret, Milano, Electa 1995. Sul San Sebastiano cfr. L. Sickel, Der Schneider und die Maler: Giuseppe Cesari, Pulzone und Caravaggio im Vermächtnis des Antonio Valentini, in «Marburger Jahrbuch für Kunstwissenschaft», 41, 2014, pp. 53–81. Sul palazzo Mattei di Giove, cfr. C. Varagnoli, Eredità cinquecentesca e apertura al nuovo nella costruzione di palazzo Mattei di Giove a Roma, in «Annali di architettura», 10/11, 1998/1999, pp. 322–334. 2 S. Feci, I Mattei «di Paganica»: una famiglia romana tra XV e XVII secolo, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 11, 2011, pp. 82–113; S. Feci, I Mattei di Paganica: storia di una famiglia romana tra XV e XVII secolo, in Palazzo Mattei di Paganica sede dell’Enciclopedia italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, pp. 19–46. 3 S. Finocchi Vitale, Conclusione e trasformazione del palazzo Mattei di Paganica, in Palazzo Mattei Paganica e l’Enciclopedia italiana, a cura di G. Spagnesi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, pp. 220–234; C. Varagnoli, I palazzi dei Mattei: il rapporto con la città, ivi, pp. 135–189; R. Samperi, Il palazzo di Ludovico Mattei nel Cinquecento, ivi, pp. 191–214; R. Samperi, Palazzo Mattei di Paganica e il suo contesto urbano, in Palazzo Mattei di Paganica sede dell’Enciclopedia, cit., 2015, pp. 49–90. 4 Sulla quadreria Mattei di Paganica e sulla decorazione del palazzo di famiglia a cui, oltre Niccoli, partecipò anche il pittore marchigiano Giovanni Maria Mariani cfr. F. Curti, Gaspare e Giuseppe Mattei Orsini: sfarzo nobiliare nel palazzo Mattei di Paganica, in In praesentia mei notarii. Piante e disegni nei protocolli dei Notai Capitolini (1605–1875), a cura di O. Verdi, (Pubblicazioni degli archivi di Stato, Strumenti clxxxvii), Roma, Tipografia Mura, 2009, pp. 69–90; ead., «Con bona pittura ad uso d’arte». Collezionismo e decorazione in Palazzo Mattei di Paganica nel Seicento, in Palazzo Mattei di Paganica sede dell’Enciclopedia, cit., pp. 175–213. Sul Muzio Scevola, cfr. E. Debenedetti, Collezionismo in casa Sforza Cesarini: Luca Giordano e Guercino, due quadri ritrovati, in Cultura nell’età delle Legazioni, atti del convegno, Ferrara, 2003, a cura di F. Cazzola, Firenze, Le Lettere, 2005, pp. 451–475; E. Debenedetti, Quadreria e decorazione in Palazzo Sforza Cesarini, in Palazzo Sforza Cesarini, a cura di L. Calabrese, Roma, De Luca, 2008, pp. 69–98; Ospiti graditi: Guercino e bottega, Muzio Scevola davanti a Lars Porsenna, catalogo della mostra Cento, Pinacoteca civica, 2008–2009, Cento, Arte e grafica centese, 2008; N. Turner, The Paintings of Guercino, Roma, Ugo Bozzi, 2017, p. 624; F. Giannini, in Da Artemisia a Hackert: la collezione di un antiquario, catalogo della mostra, Reggia di Caserta, 2019, a cura di V. Sgarbi, M. Di Martino, Roma, Etgraphiæ, 2019, pp. 76–77, in cui l’autore però non riporta in bibliografia gli studi della scrivente a proposito del quadro e della collezione Mattei di Paganica, pur servendosene per redigere la scheda. Debenedetti ipotizzava che il dipinto fosse stato commissionato da Orazio II Mattei, appartenente ad un altro ramo dei Mattei di Paganica, quello dei discendenti di Ludovico Mattei e Laura Frangipane, ma la presenza del quadro nell’inventario della guardaroba di Gaspare Mattei, morto nel 1650, ha permesso di appurare che l’opera fu in realtà richiesta per la quadreria dei fratelli Gaspare e Giuseppe Mattei, appartenenti al ramo principale dei Mattei di Paganica, cfr. Curti, Gaspare e Giuseppe Mattei Orsini, cit., pp. 72–73; ead., «Con bona pittura ad uso d’arte», cit., pp. 176–177. Sull’identificazione del Muzio Scevola, presente a fine Settecento nelle collezioni della famiglia Conti, cfr. anche C. Benocci, Gli ultimi splendori di una grande famiglia: l’inventario dei quadri del cardinale Innocenzo Conti, in «Ricerche di storia dell’arte», 77, 2003, pp. 85–99. Per il passaggio di quadri Mattei nelle quadrerie della famiglia Conti si veda più avanti.

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Francesca Curti 5 Il carteggio, conservato presso il fondo Santacroce in Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR) e composto da migliaia di lettere inviate da principi, imperatori, cardinali, familiari, pittori, agenti vari a Mario e ai suoi figli Gaspare e a Giuseppe in un arco temporale che va dagli inizi fino alla metà del Seicento, è ancora in corso di spoglio e sarà oggetto, insieme ad un approfondito studio sulla quadreria Mattei di Paganica e sulle sue vicende ereditarie, di una pubblicazione appositamente dedicata. 6 Curti, Gaspare e Giuseppe Mattei Orsini, cit.; ead., «Con bona pittura ad uso d’arte», cit. 7 Feci, I Mattei «di Paganica»: una famiglia romana, cit., p. 93. 8 Feci, I Mattei «di Paganica»: una famiglia romana, cit., pp. 93–94; F. Crucitti, Mattei, Gaspare, in Dizionario Biografico degli Italiani, lxxii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009, pp. 153–156. 9 S. Feci, Mattei di Paganica, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, lxxii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009, pp. 160–162; ead., I Mattei «di Paganica»: una famiglia romana, cit., pp. 93–98. 10 Sul collezionismo delle opere di Guercino e sul vasto giro di agenti e intermediari intorno al loro commercio, cfr. R. Morselli, Il desiderio di tutti. Guercino tra i suoi collezionisti, agenti, intermediari e banchieri, in Il Guercino. Opere da quadrerie e collezioni del Seicento, catalogo della mostra, Aosta, Forte di Bard, a cura di L. Berretti, B. Ghelfi, Aosta, Forte di Bard Editore, 2019, pp. 45–57. 11 Feci, I Mattei «di Paganica»: una famiglia romana, cit., p. 100. 12 ASR, Archivio Santacroce, b. 408, cc. nn.; Feci, I Mattei «di Paganica»: una famiglia romana, cit., p. 100. 13 Cappelletti/Testa, Il trattenimento dei virtuosi, cit., pp. 300–306. Quest’inventario, pubblicato senza commento, si riferisce in realtà ad un contratto di donazione dotale in vista delle nozze tra Faustina Mattei, figlia di Giuseppe, e Marcantonio Conti. L’atto originale è stato rinvenuto sia da Debenedetti in ASR, Trenta Notai Capitolini, uff. 26, vol. 286, cc. 364 e ss., cfr. Debenedetti, Collezionismo in casa Sforza Cesarini, cit., pp. 460 e 474, n. 45, sia da chi scrive in ASR, Trenta Notai Capitolini, uff. 2, vol. 462, cc. 190–251, cfr. Curti, Gaspare e Giuseppe Mattei Orsini, cit., p. 72, perché esso venne rogato in solidum da entrambi i notai. Sono stati, inoltre, rinvenuti da Claudia Pazzini altri due inventari appartenenti a Faustina Mattei Paganica, ultima discendente della famiglia, cfr. C. Pazzini, Il collezionismo della famiglia Santacroce nella Roma del XVII secolo: i dipinti, in «Roma moderna e contemporanea», 13, 2005, 2–3, pp. 245–247. Si segnala, infine, la presenza sul sito internet www.getty.edu/provenance/index/databases/archival documents di un altro inventario del 1772 dei beni della stessa. 14 Per il quadro del Ratto delle Sabine e la sua presenza nell’inventario della guardaroba di Gaspare cfr. Feci, I Mattei «di Paganica»: una famiglia romana, cit., p. 100. Sull’inventario post mortem e il collezionismo di Gaspare Mattei, cfr. Curti, «Con bona pittura ad uso d’arte», cit., p. 178. Per il testamento del prelato, cfr. M. G. Paviolo, I testamenti dei cardinali: Gaspare Mattei Orsini (1598–1650), Morrisville NC, Lulu Press, 2019. Per l’approfondimento in merito ai dipinti attribuiti a Guercino, le cui descrizioni sembrano riferirsi ad opere note del pittore, si rimanda, come accennato, ad uno studio specifico a cura di chi scrive di prossima pubblicazione. 15 ASR, Archivio Santacroce, b. 500, cc. nn. Sulla questione delle copie e delle diverse versioni di dipinti noti di Guercino e sul ruolo della sua bottega cfr. D. Mahon, Guercino, catalogo critico dei dipinti, ed. anast., ii, Bologna, Minerva, 2013; D. Stone, Guercino, catalogo completo dei dipinti, Firenze, Cantini, 1991; B. Ghelfi, Il libro dei conti del Guercino, 1629–1666, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1997, p. 24; E. Negro, M. Pirondini, N. Roio, La scuola del Guercino,

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Modena, Artioli, 2004; R. Vodret, Opere di Guercino a Roma, in Guercino 1591–1666. Capolavori da Cento e da Roma, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Barberini, Firenze, Giunti, 2011, pp. 30–49; F. Gozzi, Guercino visto da Cento, in Guercino. La luce del Barocco, catalogo della mostra, Zagabria 2014–2015, Roma, Gangemi, 2014, pp. 17–34, soprattutto le pp. 29–34; Turner, The Paintings of Guercino, cit., pp. 211–223, 224–240; M. G. Bernardini, «San Giovanni Battista visitato in carcere da Salomè» del Guercino: fortuna di una leggenda, in Originali, repliche, copie, uno sguardo diverso sui grandi maestri, a cura di P. Di Loreto, Roma, Ugo Bozzi, 2018, pp. 154–159; R. Morselli, Dalla bottega di Cento allo studio di Bologna. L’azienda di Giovanni Francesco e Paolo Antonio Barbieri, in «Storia dell’Arte», 1, 2018, pp. 77–88; Morselli, Il desiderio di tutti, cit.; B. Ghelfi, Il Libro dei conti e la bottega del Guercino tra Cento e Bologna, in Il Guercino. Opere da quadrerie e collezioni del Seicento, catalogo della mostra, Aosta, Forte di Bard, a cura di L. Berretti, B. Ghelfi, Aosta, Forte di Bard Editore, 2019, pp. 59–67. F. Bisogno, A fragment of Guercino’s Pesaro Altarpiece, in «The Burlington Magazine», 17, 1975, pp. 338–342; Ghelfi, Il libro dei conti, cit., nn. 32 e 56; Stone, Guercino, cit., p. 153; A. M. Ambrosini Massari, Guercino e Co.: bolognesi nelle Marche del Seicento, appunti per un’altra mostra, in Guercino a Fano, tra presenza e assenza, catalogo della mostra, Fano, Grapho 5, 2011, pp. 27– 41, alle pp. 27–28. Morselli, Il desiderio di tutti, cit., p. 51; Turner, The Paintings of Guercino, cit., p. 342 (con bibliografia precedente). Non si hanno ulteriori notizie riguardo questo personaggio, tuttavia è possibile che sia da identificarsi con l’architetto barnabita Giovanni Ambrogio Mazenta (1565–1635), legato da stretti rapporti con Cassiano Dal Pozzo, con il quale fu in contatto anche per le note vicende riguardanti i manoscritti di Leonardo da Vinci, cfr L. Gramatica, Le memorie su Leonardo da Vinci di don Ambrogio Mazenta, Milano, Alfieri & Lacroix, 1919, pp. 21 e ss.; E. Carusi, Lettere di Galeazzo Arconato e Cassiano dal Pozzo per lavori sui Manoscritti di Leonardo da Vinci, in «Accademie e Biblioteche d’Italia», 3, 1970, 6, pp. 503–518. Su Mazenta, cfr. G. Mezzanotte, Gli architetti Lorenzo Binago e Giovanni Ambrogio Mazenta, in «L’arte», 60, 1961, pp. 231–294; M. Pigozzi, Giovanni Ambrogio Mazenta architetto a Bologna, in «Arte lombarda», 134, 2002, 1, pp. 63–78; V. Milano, Mazenta, Giovanni Ambrogio, in Dizionario Biografico degli Italiani, lxxii, Roma 2008, pp. 459–462. È interessante notare come negli stessi anni anche il marchese Amedeo Dal Pozzo fosse interessato all’acquisto di quadri di Guercino, cfr. A. Cifani, Amedeo dal Pozzo: marchese di Voghera, committente e collezionista di Guercino a Torino, in Studi di storia dell’arte in onore di Denis Mahon, a cura di M. G. Bernardini, S. Danesi Squarzina, Milano, Electa, 2000, pp. 226–236. ASR, Archivio Santacroce, b. 500, cc. nn. La famiglia Bonamini, tra le più in vista di Pesaro, era originaria di Brescia e si stabilì intorno al 1490 nella città marchigiana, dove, grazie agli ingenti proventi derivanti dalla fiorente attività nel campo della speziaria, riuscì ad acquistare numerosi immobili. Tra il 1539 e il 1542 Simone Bonamini, maestro di casa di Guidobaldo della Rovere, eresse lungo la via del Corso il palazzo di famiglia ricordato per una famosa quadreria allestita nel 1796 da Domenico Bonamini, autore dell’Abecedario degli architetti e dei pittori pesaresi, pubblicato nel 1996, cfr. A. Ciaroni, I ritrovamenti a palazzo Bonamini, in Maioliche del Quattrocento a Pesaro: frammenti di storia dell’arte ceramica dalla bottega dei Fedeli, a cura di A. Ciaroni, Firenze, Centro Di, 2004, pp. 12–14. Sul collezionismo pesarese del Seicento, cfr. G. Patrignani, C. Barletta, Collezioni e collezionisti a Pesaro: inventari di quadrerie dal Cinquecento all’Ottocento, in «Pesaro, città e contà», 8, 1998 e su quello dei Bonamini, cfr. Patrignani, ivi, pp. 55–97.

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Francesca Curti 20 A. Baudi di Vesme, La Regia Pinacoteca di Torino, in «Le Gallerie Nazionali Italiane», 3, 1897, pp. 33–68, pp. 43 (214), 47 (318), 50 (383). 21 Sul Figliol prodigo, cfr. A. Uccelli, scheda in Le meraviglie del mondo: le collezioni di Carlo Emanuele I di Savoia, a cura di A. M. Bava, E. Pagella, Genova 2016, p. 282, n. 171; Stone, Guercino, cit., 1991, p. 51; Turner, The Paintings of Guercino, cit., p. 301, n. 41 (con bibliografia precedente); sul Giove e Semele, andato disperso, di cui si conservano un disegno autografo del pittore (Windsor Castle, Royal Library) e un’incisione di Giovanni Battista Pasqualini, cfr. N. Turner, C. Plazzotta (a cura di), Drawings by Guercino from British collections: with an appendix describing the drawings by Guercino, his school and his followers in the British Museum, London, British Museum Press, 1991, p. 86. 22 A. Russo, Disegni di Giovanni Battista Mola, Giulio Buratti e Guido Antonio Costa per il Forte Urbano a Castelfranco Emilia, in «Bollettino d’arte», 97, 2012, pp. 91–110. Per la nomina papale cfr. A. Bertolotti, Artisti bolognesi, ferraresi ed alcuni altri del già Stato Pontificio in Roma nei secoli XV, XVI e XVII: studi e ricerche negli archivi romani, Bologna, Zanichelli, 1885, p. 129. 23 ASR, Archivio Santacroce, bb. 409, 412, 413. 24 Ibidem, b. 395, cc. nn. 25 Ibidem. 26 Ibidem. 27 Ibidem, b. 397, cc. nn. Lettera del 29 maggio 1648. 28 Ibidem, b. 397, cc. nn. 29 Ghelfi, Il libro dei conti, cit., pp. 137–138 (385). 30 ASR, Archivio Santacroce, b. 401, cc. nn. 31 Ibidem, b. 395, cc. nn. 32 In realtà in un registro del 1773 redatto in occasione del passaggio di parte della collezione Mattei di Paganica alla famiglia Conti sono descritti quattro dipinti rappresentanti i Quattro Evangelisti (di grandi dimensioni, 7 palmi e mezzo), di cui però non viene specificato l’autore, cioè due sono detti di Romanelli e gli altri di altri pittori non specificati. In base a tale citazione, chi scrive (Curti, Gaspare e Giuseppe Mattei Orsini, cit., p. 72) non aveva escluso che uno di questi quadri potesse essere il San Matteo commissionato a Guercino. Sulla questione della consegna di parte della quadreria Mattei alla famiglia Conti, si veda più avanti. 33 I tre studiosi hanno confermato l’attribuzione con comunicazione scritta, in occasione della vendita all’asta del dipinto presso Dorotheum in data 6 ottobre 2009, lotto n. 51, cfr. www. dorotheum.com; Turner, The Paintings of Guercino, cit., p. 642. 34 Ghelfi, Il libro dei conti, cit., p. 281, tav. 18. 35 Ibidem, p. 140 (396). G. C. Malvasia, Felsina pittrice, Vite de’ pittori bolognesi, ii, Bologna, per l’erede di Domenico Barbieri, 1678, p. 376, ricorda «Una Venere con Amore per il Generale Baron Mattei» eseguita nel 1648. 36 ASR, Archivio Santacroce, b. 397, cc. nn. 37 Ibidem, b. 395, cc. nn. 38 Ghelfi, Il libro dei conti, cit., pp. 141 (402), 143 (412). 39 Stone, Guercino, cit., n. 240; Turner, The Paintings of Guercino, cit., p. 649 (359). 40 Cappelletti/Testa, Il trattenimento dei virtuosi, cit., p. 302, n.42. 41 ASR, Archivio Santacroce, b. 397, cc. nn. 42 G. Bedani, Memorie storiche di Pontelagoscuro, Ferrara, Tip. commerciale, 1905, ad annum. Il quadro è citato anche nell’inventario della guardarobba di Gaspare, cfr. Feci, I Mattei di Paganica: storia di una famiglia romana, cit., p. 100.

«Et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla» 43 Cappelletti/Testa, Il trattenimento dei virtuosi, cit., p. 302, n. 49. 44 Stone, Guercino, cit., n. 139; Turner, The Paintings of Guercino, cit., p. 489 (con bibliografia precedente); N. Roio, Guercino, la sua scuola e gli Estensi, in Guercino «Giuseppe e la moglie di Putifarre», a cura di N. Turner, F. Gasparrini, Modena 2013, pp. 65–76. 45 ASR, Archivio Santacroce, b. 395, cc. nn. 46 C. R. Puglisi, Francesco Albani, New Haven, Yale University Press, 1999, cat. 33, cat. 71.ii, cat. 84, cat. 84v. a. Si ricordano, inoltre, il tondo, facente parte di un ciclo di quattro raffiguranti le Quattro stagioni e aventi come tema la vittoria della casta Diana su Venere acquistati nel 1617 dal cardinale Scipione Borghese, e l’affresco in palazzo Giustiniani a Bassano Romano, cfr. Puglisi, Francesco Albani, cit., cat. 36 ix, 48 ii. 47 ASR, Archivio Santacroce, b. 395, cc. nn. 48 Curti, Gaspare e Giuseppe Mattei Orsini, cit., p. 74. Per approfondimenti su altri carteggi noti di Francesco Albani cfr. R. Morselli, Bologna and Rome: Francesco Albani’s correspondence and his reflections on art (1637–59), in Reframing seventeenth-century Bolognese art, a cura di B. Bohn, R. Morselli, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2019, pp. 29–50 e R. Morselli, Nostalgia di Roma: pensieri critici di Francesco Albani attraverso le sue lettere, in Il carteggio d’artista, a cura di S. Rolfi Ožvald, C. Mazzarelli, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2019, pp. 72–91. 49 ASR, Archivio Santacroce, b. 402, cc. nn. 50 Ibidem, b. 402, cc. nn. 51 Ivi, b. 412, cc. nn. 52 Puglisi, Francesco Albani, cit., p. 204 53 Cappelletti/Testa, Il trattenimento dei virtuosi, cit., p. 302: «un quadro dipinto in rame rappresentante Galatea e Aci istoriato con quantità di putti e figure largo palmi 6 1/3 alto palmi 4 1/3 originale dell’Albani con cornice dorata intagliata». Sul dipinto dell’Ambrosiana, cfr. L. Caramel, S. Coppa, Pinacoteca Ambrosiana, ii, Milano, Electa, 2006, pp. 18–19. 54 Pazzini, Il collezionismo della famiglia Santacroce, cit., p. 231. 55 Ivi, p. 246. 56 Ivi, pp. 226, 234. 57 ASR, Archivio Sforza Cesarini, reg. V 341, cc. nn. cfr. Debenedetti, Collezionismo in casa Sforza Cesarini, cit., pp. 460–461; Curti, Gaspare e Giuseppe Mattei Orsini, cit., p. 72; Curti, «Con bona pittura ad uso d’arte», cit., p. 176. 58 ASR, Archivio Sforza Cesarini, reg. V 341, cc. nn. 59 Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Fondo Vittorio Emanuele, ms. 708, G. A. Guattani, Descrizione degli oggetti d’arte esistenti nel palazzo di Don Giovanni Torlonia, 1817–1821, pp. 32–33, n. 12; Pazzini, Il collezionismo della famiglia Santacroce, cit., p. 239, n. 41. 60 Ivi, pp. 239–240, n. 41 (fotografia ICCD numero E 18731). 61 R. Vodret, scheda in L. Mochi Onori, R. Vodret (a cura di), Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, i dipinti, catalogo sistematico, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2008, p. 327. 62 Curti, Gaspare e Giuseppe Mattei Orsini, cit., pp. 77–79; Curti, «Con bona pittura ad uso d’arte», cit., pp. 178–196. 63 ASR, Archivio Santacroce, b. 409, cc. nn.

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Barbara Ghelfi

Una collezione nella collezione: i «Pittori in atto di dipingere» dei principi Hercolani di Bologna. Nuove risultanze d’archivio

Negli ultimi anni la collezione Hercolani di Bologna è stata oggetto di un rinnovato interesse da parte della critica; occorre ricordare in questa sede i contributi di Giovanna Perini, di Ilaria Bianchi e quelli della Scrivente, incentrati sullo studio degli inventari e dell’allestimento della raccolta.1 Da qualche tempo ho indirizzato la mia attenzione anche verso le lettere scambiate dai principi con un manipolo di corrispondenti, per lo più artisti, collezionisti, intellettuali e mercanti. Il materiale rinvenuto, ad oggi inedito, consente di fare luce sulla ricerca e l’acquisto di opere d’arte destinate ad arricchire la prestigiosa raccolta e di ricostruire un’articolata vicenda che vede intrecciarsi la passione collezionistica dei principi, le dinamiche del mercato e il gusto complessivo di un’epoca fra il tardo Settecento e gli albori del nuovo secolo. Alla fine del Seicento, le stanze di palazzo Hercolani di Strada Maggiore ospitavano un’ottantina di quadri, nucleo ampliato in misura significativa prima da Filippo di Alfonso Hercolani (1663–1722), creato principe del Sacro Romano Impero dall’imperatore Leopoldo I, poi, soprattutto, dal nipote Marcantonio di Astorre (1709–1772) e dal figlio di questi, Filippo (1736–1810). Marcantonio fece incetta di dipinti al punto che, nel 1773, la collezione ne contava non meno di 1800. Le opere provenivano sia da raccolte private sia da edifici di culto; questi ultimi, chiusi o oggetto di rifacimenti e ammodernamenti, erano le collocazioni originarie delle pale d’altare, soprattutto di scuola emiliano romagnola del Quattro e Cinquecento, entrate nella collezione bolognese. Nel preludio alla Descrizione de’ Quadri di Sua Eccellenza il Signor Marchese Filippo Hercolani, del 1774, Luigi Crespi celebrava la sceltissima raccolta di quadri «unica e numerosa di cose antiche e per la maggior parte grandiose»,2 eloquente attestazione del «fino discernimento» e del «virtuoso genio per le belle Arti»3 caratteristici di Filippo. Ancora nel 1816 Petronio Bassani, redigendo la sua Guida di Bologna,4 ricordava Filippo Hercolani che, inesausto, passava in rassegna opere d’arte su opere d’arte per acquistarne la più gran parte. In questa sede presento i primi risultati di una ricerca, ancora in corso, su un nutrito corpus di autoritratti e ritratti di pittori, che Filippo acquistò sul mercato tra il 1778 e i primi anni Novanta del Settecento e che costituiscono una vera e propria «collezione

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Barbara Ghelfi nella collezione». È mio intento dimostrare, sulla base delle notizie tratte dai carteggi inediti, incrociate con i dati ricavabili dagli inventari, come lo sviluppo e l’incremento della raccolta abbia seguito strade più complesse di quelle fin qui tracciate: oltre ai quadri sacri e di storia e a un cospicuo nucleo di ritratti di principi, prelati e membri della famiglia, ben noti alla letteratura, la raccolta comprendeva disegni, stampe, sculture e, appunto, la serie dei ritratti di pittori acquistati da Filippo. Fin dal primo Cinquecento il ritratto e l’autoritratto di artista hanno goduto di notevole fortuna nella storia del gusto, a cominciare dal celebrato esempio di Paolo Giovio, che aveva radunato nella villa museo di Borgo Vico sul Lago di Como oltre quattrocento effigi di uomini illustri, per proseguire con la collezione di ritratti allestiti nelle case di Giorgio Vasari a Firenze e Arezzo, fino alle collezioni più emblematiche del secolo: la granducale, allestita negli spazi degli Uffizi nel 1591 e quella dell’Accademia di San Luca a Roma,5 promossa da Federico Zuccari. Il gruppo romano, attraverso effigi derivate dalle xilografie delle Vite del Vasari, intendeva attirare l’attenzione sugli illustri membri dell’istituzione e sul suo prestigio. Lo scopo era dunque di celebrare la dignità dell’artista che entrava a pieno diritto nella storia, mostrando di avere un volto da ricordare.6 A conferma della loro fortuna le serie fiorentina e romana vennero accresciute negli anni.7 Tra il 1664 e il 1675 il cardinal Leopoldo de Medici, con la consulenza di Filippo Baldinucci, incrementò la collezione di autoritratti – «strumento di pubblico elogio del Granducato»8; nel 1768 la serie si arricchì grazie all’acquisto dei pezzi appartenuti al medico della corte granducale Tommaso Puccini, poi acquisiti dall’abate Antonio Pazzi. Un acquisto controverso, a causa della qualità discontinua delle opere, che tuttavia completò con autori mancanti la famosa raccolta, rendendola storicamente completa.9 Il cosiddetto Gabinetto dei pittori, che in quell’anno comprendeva 230 pezzi, fu per secoli un luogo mitico, ammirato da appassionati e viaggiatori, al punto che artisti di grido fecero a gara per donare le loro effigi pur di far parte della rinomata collezione.10 L’incremento consistente della raccolta con opere di autori contemporanei è anche la spia di una più consapevole autorappresentazione dell’artista che andava di pari passo con una sua accresciuta autostima e il desiderio di assicurarsi memoria eterna.11 Nello stesso periodo la fama della collezione fiorentina si espanse ulteriormente grazie alla pubblicazione del Museo Fiorentino, che contiene i ritratti de’ pittori […] che esistono nell’Imperial Galleria di Firenze (1731–1762), opera che corredava i 220 compendi delle vite degli artisti con pregevoli incisioni dei loro autoritratti, e della Serie degli uomini i più illustri nella pittura, scultura e architettura, pubblicata in 12 volumi nel 1769 con le effigi che il pittore e collezionista Enrico Hugford (1703–1778) trasse dal Vasari.12 Tali poderose imprese erano la prova dell’inossidabile fortuna del modello vasariano durante il Settecento. Ispirandosi ai modelli fiorentino e romano, e non dimentiche dell’esempio gioviano, le iconoteche di artisti ebbero fortunati sviluppi anche al nord della Penisola. A Verona,

Una collezione nella collezione dove il collezionismo d’arte si presentava quanto mai vivace, Raffaello Mosconi mise insieme nel primo trentennio del Settecento una galleria di 262 autoritratti e ritratti di pittori italiani e oltramontani in ovato,13 la metà dei quali vennero probabilmente commissionati ad artisti contemporanei. Questa prima serie veronese doveva avere soprattutto una funzione decorativa e ne ispirò una seconda, composta da 93 ritratti di artisti veronesi, voluta intorno al 1760 dall’allora direttore dell’Accademia di Belle Arti Giambettino Cignaroli. Di qualità discontinua, come emerge dalle fonti, le due serie avevano lo scopo di celebrare la solida tradizione artistica delle città scaligera attraverso le effigi degli autori.14 A Venezia, nel 1762, uscì il Compendio delle Vite de’ Pittori Veneziani istorici…con suoi ritratti tratti dal naturale delineati ed incisi da Alessandro Longhi,15 mentre a Milano, qualche anno più tardi, vide la luce il Museo milanese (1775), una raccolta di 46 disegni per incisioni con i ritratti di artisti milanesi, dal Quattrocento al Settecento, in buona parte ricavati da dipinti conservati nell’Accademia Ambrosiana.16 Si inserivano entro questo filone i ritratti e autoritratti di artisti, in prevalenza lombardi, riuniti a Milano a inizio Ottocento da Giuseppe Bossi, segretario dell’Accademia di Brera, con lo scopo didattico di promuovere la conoscenza degli antichi maestri della scuola locale.17 Nel comporre il suo nucleo Bossi si riferì alle Memorie per servire alla storia de’ pittori, scultori e architetti milanesi di Francesco Antonio Albuzzi (1776) e, appunto, al Museo Milanese (1775). Aveva invece un respiro internazionale la celebre collezione del conte Franz Laktanz di Firmian (1712–1786),18 dilettante di disegno e famelico collezionista, che aveva messo assieme oltre 300 ritratti di pittori allestiti nel palazzo Leopoldskron di Salisburgo.19 Nel 1755 il nobiluomo aveva commissionato al citato Giambettino Cignaroli un Autoritratto, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna e all’epoca entrato anch’esso nella raccolta di Leopoldskron. Andrà ricordato lo stretto rapporto che legava il conte Carlo Firmian, fratello di Laktanz e dal 1758 al 1782 ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, all’architetto bolognese Carlo Bianconi, autore del Catalogo delle Pitture della Galleria Firmian (1782) e del Gabinetto Firmiano (1782),20 amico e assiduo corrispondente di Filippo Hercolani. Possiamo supporre che questi fosse tenuto aggiornato da Bianconi sulle novità della pittura nella Milano austriaca e che dovesse aver sentito parlare della celebre galleria di ritratti di Laktanz.21 Nella Bologna di Filippo Hercolani era possibile ammirare la «copiosa e scelta Pinacoteca di tutti i compositori e celebri dilettanti di musica d’ogni nazione»,22 cioè la serie di 300 ritratti di personalità del mondo della musica radunata a partire dagli anni Settanta del Settecento da padre Giambattista Martini.23 La celebre raccolta, un’ulteriore prova del diffondersi in questi anni di iconoteche specialistiche, veniva segnalata anche nelle guide della città, mentre i musicisti contemporanei più ambiziosi fecero a gara per inviare la loro effige a Martini. Il legame di quest’ultimo con Hercolani è testimoniato dagli studi recenti: i due ebbero fruttuose relazioni24 oltre che poter contare sulla stessa cerchia di amici e corrispondenti.

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Fig. 1 Francesco Arriguzzi, Busto del Guercino, Terracotta, Cento, Pinacoteca Civica

Fig. 2 Bartolomeo Nazari, Autoritratto, olio su tela, Bologna, collezione Molinari Pradelli

Per i suoi acquisti Filippo si affidò, come era accaduto per i grandi collezionisti che gli erano di esempio, a una fitta rete di corrispondenti che erano per lo più collezionisti anch’essi, eruditi e artisti. Le prime notizie dell’acquisto di ritratti di pittori risalgono al 1778: grazie al carteggio con Carlo Gennari, ultimo erede del Guercino, si apprende che il nobiluomo acquistò, oltre al Libro dei conti, che farà pubblicare da Jacopo Alessandro Calvi nel 1808, anche il Busto del Guercino di Francesco Arriguzzi (Cento, Pinacoteca Civica, fig. 1), disegni e quadri provenienti dalla bottega dell’artista.25 Tra questi gli autoritratti del Guercino, di suo fratello Paolo Antonio Barbieri, quest’ultimo in atto di dipingere, e di alcuni dei Gennari.26 A giudicare dalle lettere dei corrispondenti fu dai primi anni del nono decennio che la ricerca di autoritratti di pittori, preferibilmente in atto di dipingere, si intensificò. Gli esempi sono numerosi, pertanto, considerando i limiti di spazio concessi dalla presente pubblicazione, vengono esposti solo i casi più significativi.27 L’esplorazione, che doveva essere iniziata a Bologna, come sembra adombrare una lista autografa di Filippo, venne condotta con sistematicità tra Venezia, Milano e Firenze, quindi si allargò ad altre località come Modena, Cento, Ferrara e Roma. Tra le personalità coinvolte nel reperimento dei ritratti c’era Jacopo Alessandro Calvi, non solo autore della prima biografia moderna del Guercino, ma anche pittore di fiducia di Filippo e suo consulente per l’acquisto e il restauro di dipinti. Questi, il 22 settembre 1781, scriveva da Venezia dopo aver fatto visita all’abate Filippo Farsetti e aver visto le principali pitture della città. Presentava a Hercolani un autoritratto di Veronese, che precisava, è senza mani e senza tavolozza, proponendosi di acquisirlo se il prezzo fosse stato buono.28

Una collezione nella collezione Negli anni Venezia sarà una delle piazze più battute da Filippo che qui acquisterà numerosi pezzi per la sua collezione di pitture.29 Nel 1784 il pittore Marco Bosso, discepolo di Calvi, lo informava di aver rintracciato una ventina di ritratti di pittori del Settecento fatti «tutti dal celebre abate Longhi ritrattista famoso»;30 qualche anno più tardi, nel marzo del 1789, Girolamo Ascanio Molin si premurava di comunicargli: Vorrei poter anche compiacerla quanto alli ritratti di pittori da lei desiderati, ma siccome da lei si ricerca che siano di pittori in atto di dipingere io di tali non ne ho in vista. Uno ne avevo veduto supposto forse di Piazzetta fatto da se, ma non è questo […] ben esemplato.31

Sempre da Venezia, nell’ottobre dello stesso 1789, che fu un anno di fitte esplorazioni sul tema degli autoritratti dei pittori, David Antonio Fossati, professore dell’Accademia di Venezia e dell’Accademia Clementina, ma anche intermediario e mercante (di lui si è detto che intrattenesse un lucrosissimo commercio di quadri),32 inviava a Bologna un ritratto del pittore lombardo Bartolomeo Nazari, di sua proprietà, segnalando la presenza di entrambe le mani e del toccalapis. L’opera in base alla descrizione potrebbe essere messa in relazione con quella di proprietà Molinari Pradelli (fig. 2). Nella lettera di accompagnamento al ritratto Fossati comunicava di essersi informato presso il conte Faustino Lechi di Brescia, per ritrovare ritratti di pittori, ma questi gli aveva risposto che a Brescia scarseggiavano.33 Per quanto riguarda Venezia Fossati segnalava almeno due nuclei degni di nota: la serie di ritratti e autoritratti di pittori del medico e collezionista Giampietro Pellegrini, che tuttavia era riluttante a cederli, e la celebre raccolta di ritratti del fu Bonomo Algarotti, fratello di Francesco, che però non era in vendita.34 Mentre, nello stesso anno, Filippo tentava di accaparrarsi il raro autoritratto di Marco Palmezzano che gli eredi del pittore romagnolo non erano disposti a vendergli, lo storico e numismatico parmense Ireneo Affò si complimentava con lui: Bella impresa certamente sarebbe dell’Eccellenza Vostra il poter adunare tanti ritratti di pittori formati di loro mano, che incominciata si vedesse una seconda serie dopo la fiorentina ma essendomi informata se Parma abbiane alcuni onde gettare i fondamenti di sì desiderabile collezione nulla ho potuto ricavarne di buono. E in vero né di antichi né di moderni pittori si sa che in Parma sieno Ritratti.35

Dalle pochissime minute di mano di Filippo e dagli indizi contenuti nelle risposte dei corrispondenti si comprende che egli richiedeva autoritratti di pittori di qualche fama, se possibile in atto di dipingere (o con qualche strumento spettante alla professione, quale la tavolozza). Com’è evidente sfogliando il catalogo della collezione fiorentina, anche i pittori settecenteschi, le cui effigi erano parte della raccolta granducale, si ritraevano in atto di dipingere o con gli strumenti del mestiere o mostrando una loro opera.36 Filippo dunque pare avere assecondato la moda del momento, imitando l’illustre modello. Il prezzo doveva essere adeguato mentre, per assicurare una certa uniformità

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Barbara Ghelfi nell’allestimento, erano necessarie le misure dei dipinti. Non era raro da parte di Filippo rispedire al mittente taluni di questi, lamentandosi della loro bassa qualità o del loro precario stato di conservazione. Il passare dei mesi e le crescenti difficoltà nel rintracciare quadri antichi con pittori in atto di dipingere o con gli strumenti del mestiere spinsero il nobiluomo bolognese a commissionare autoritratti ad autori contemporanei. Per Venezia Fossati gli suggerì di coinvolgere Pietro Novelli (1729–1804), Vincenzo Guarana (1742–1815) e Francesco Galimberti (1755–1803), che si mostrarono onorati di entrare a far parte della neonata Galleria. Nel marzo del 1790 Fossati descrisse con orgoglio i ritratti fatti eseguire a Novelli e Guarana e costati 3 zecchini ognuno: Il ritratto del Novelli con penello nella destra e tavolozza nella sinistra appoggiata sul Libro Rime degli Arcadi, con appresso una carta musicale, da lui s’allude alla musica e poesia ch’egli esercita oltre la pittura. E Guarana siccome l’anno passato ha dipinto in figura intera grande al naturale il ritratto del regnante Ser.mo Doge Lodovico Manin, egli si è perciò effiggiato con in mano lo schizzo del d.o ritratto, additando con l’altra pittorici strumenti.37

L’esistenza del perduto ritratto del Doge Manin era nota tramite la segnalazione contenuta nella Gazzetta Urbana Veneta del 16 dicembre 1789.38 È evidente che quelli di Novelli e Guarana erano autoritratti con riferimenti espliciti alle capacità degli artisti e alle loro prestigiose imprese, segno di una raggiunta consapevolezza del loro talento e delle conquiste professionali. A Venezia nel Settecento i pittori godevano forse più che altrove di un nuovo e più elevato status: il loro mestiere si trasformò nel corso del secolo in una professione liberale.39 Hercolani, in genere molto severo nel giudizio, si mostrò qui sinceramente soddisfatto del risultato ottenuto dai pittori veneziani ed elogiò in un breve scritto i loro ritratti: «Quello del Sig.r Novelli per la franchezza maestrevole ond’è dipinto, e per la vivezza dell’espressione. Quello del Sig.r Galimberti per l’attitudine pittoresca, per l’accordo, e per la diligenza del dipinto. Quello del Sig.r Guarana per la bella carnagione, per le belle mani, e per la vivezza de’ colori».40 La soddisfazione fu tale che, nella primavera del 1790, commissionò altre effigi, questa volta a Giovanni Scaggiaro (1726–1792), Domenico e Francesco Maggiotti e Giacomo Guarana (1720– 1808), padre di Vincenzo.41 Il 12 giugno le opere dei Maggiotti erano completate e Fossati si accingeva a spedirle, informando Filippo che nel «ritratto del giovane Maggiotti con tavolozza e pennelli nelle mani nel campo della libreria composta di libri di vari studi che si diletta, vi è posta la boccia di Legden strumento elettrico notissimo, per dimostrare che si diletta di tal studio», mentre nell’altro il padre «addita con la destra un quadro e tiene con la sinistra carte disegnate e ha sopra un basamento alcuni ordigni indicanti ch’egli dipinge anche a fresco».42 Va detto che la ricerca di pezzi di autori antichi non accennava a fermarsi – nel 1790 giungeva da Modena l’autoritratto di Elisabetta Sirani in atto di dipingere il padre Giovanni Andrea (fig. 3),43 mentre da Firenze Alfonso Jocoli inviava a Filippo

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Fig. 3 Elisabetta Sirani, Autoritratto dell’artista in atto di dipingere il padre Giovanni Andrea, olio su tela, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage

una nutrita lista di ritratti di autori fiorentini con l’indicazione del proprietario e del prezzo; ciò nondimeno dai primi anni Novanta tale ricerca andò di pari passo con la commissione di opere ad artisti contemporanei. Uno dei corrispondenti più assidui di Filippo, e certamente tra tutti il più competente nell’indirizzarlo all’acquisto dei pezzi, era il già citato Carlo Bianconi, all’epoca direttore dell’Accademia di Brera. In breve tempo Bianconi procurò una trentina di autoritratti di pittori antichi e contemporanei, tra questi Giulio Campi, Sofonisba Anguissola, Giovan Battista Moroni, Pietro Tempesta, Spadarino, Pietro Bellotti, che, assicurava il gentiluomo, erano pezzi di alta qualità e sicuri perché si erano avuti dagli eredi degli artisti.44 Sei ritratti provenienti dalla raccolta del fratello di Carlo, Giovan Antonio Bianconi, andranno ad arricchire nel 1806 il nucleo di effigi messo insieme da Bossi, il quale tuttavia rifiutò alcuni dei pezzi proposti dal bolognese sollevando critiche sullo stato di conservazione e sulla qualità.45 A giudicare dai documenti anche i ritratti dei pittori di proprietà Hercolani, in linea con quanto si osserva nelle altre iconoteche, dovevano presentare una qualità discontinua. Lo si comprende, oltre che dalla fredda accoglienza di Filippo registrata da alcuni corrispondenti, anche dalle note di un inventario topografico, nel quale i ritratti dei

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Barbara Ghelfi pittori sono ricordati «fuori opera», cioè presumibilmente non allestiti, e vengono citati genericamente: ventisei «passabili» accanto a 166 «meno passabili» e 67 «scarti» (un numero che si conferma anche nell’inventario che fotografa la collezione prima della sua dispersione nel 1835).46 Va puntualizzato che non esiste nell’archivio Hercolani un inventario specifico del nucleo che, come si è appena visto, viene citato solo genericamente, mentre è possibile recuperare delle liste parziali di gruppi di pezzi, una delle quali di mano di Calvi.47 A quanto si deduce dalle fonti, Filippo era impegnato a creare una «Galleria di Ritratti», che collocò nei mezzanini del palazzo di Strada Maggiore.48 Egli deve aver pensato di accompagnarli con camei biografici allo scopo di celebrare i principali pittori antichi e moderni, non solo bolognesi, ma con respiro più ampio rivolto verso altre scuole. Come aveva già fatto padre Martini con la sua Pinacoteca musicale, anche per Hercolani l’acquisizione di un ritratto doveva essere accompagnata da una nota biografica, che in alcuni casi richiese a Pietro Zani, autore con Ireneo Affò e Carlo Bianconi della Enciclopedia metodica critica ragionata delle belle arti che vedrà la luce nel 1817. Zani, in risposta alle richieste di notizie biografiche sugli artisti, si complimentava con Filippo: «per la premura con la quale forma la bella Raccolta de Pittori che sarà un perenne monumento del di lei ottimo gusto».49 L’interesse di Filippo per i ritratti di pittori sembra scemare intorno alla metà degli anni Novanta quando, dopo un decennio di fitte ricerche, decise di cambiare genere e si orientò, come scrive nel dicembre del 1794 al tipografo piacentino Gaetano Del Maino, suo agente fidato, su «ritratti originali e di buon autore per l’impiedi e al naturale che rappresentino non già pittori ma guerrieri o altre persone, siano uomini o siano donne, con bel vestiario, desidererei ch’ella me ne facesse la descrizione e me ne facesse sapere il prezzo».50 Anche in questo caso l’obiettivo del bolognese era formare una Galleria «di ritratti per l’impiedi […], devono essere di buon pennello e che siano ben conservati ne ritoccati». Il principe, nell’incaricare Del Maino di condurre la ricerca, si preoccupò di rassicurarlo precisando: «Non mi importa che siano delli guerrieri più mi preme che siano di primo autore e che abbiano un bel vestiario».51 In effetti, scorrendo gli inventari topografici del palazzo di Strada Maggiore, stesi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, è possibile individuare nell’anticamera che dava accesso all’appartamento padronale una nutrita serie di ritratti di guerrieri, gentiluomini e gentildonne a figura intera. Si trattava di una collocazione di spicco nel sistema di allestimento della raccolta a conferma del fatto che il principe Filippo nutriva una vera e propria passione per i ritratti dipinti. La storia si conclude con un’appendice degna di interesse. Il 29 gennaio 1803 Angelika Kauffmann scriveva a Filippo una lettera che, nei suoi toni affettuosi, rivela un sentimento di famigliarità tra l’artista e il nobiluomo. Dopo averlo ringraziato per «le gentilezze con le quali V.a Ecc.za si è compiaciuta onorarmi e ricolmarmi durante la mia dimora in Bologna», Angelika afferma di sentirsi lusingata dal desiderio che

Una collezione nella collezione Filippo ha di avere un suo ritratto «per la raccolta de’ ritratti che tiene de pittori». E aggiunge: vorrei solo che il mio pennello fosse tanto felice da potere produrre un’opera degna d’essere da lei posseduta. Sensibile di tanta bontà che V.ra Ecc.za si degna avere per me vorrei almeno in questa occasione poterle dare un picciolo attestato della mia gratitudine e della rispettosa stima con la quale ho l’onore di ripetermi.52

La pittrice svizzera, all’epoca all’apice della fama, doveva essere stata poco tempo prima ospite di Filippo che avrebbe colto l’occasione di chiederle di eseguire un autoritratto per la sua raccolta. Sulla questione si tornava l’anno successivo quando, il 14 agosto 1804, da Bergamo, il conte Antonio Pezzoli, tra i corrispondenti di Antonio Canova e committente della Kauffmann negli ultimi anni di vita, informava Hercolani che la pittrice tardava a consegnare il suo autoritratto a causa della «sua poca salute» e per «essere stata affollata d’anteriori impegni», ma ella si impegnava a mantenere la promessa e pregava Pezzoli di ringraziare Filippo dell’onore che le faceva ad annetterla nella sua raccolta di ritratti dei migliori pittori.53 Dell’autoritratto di Angelika Kauffmann non si trova traccia negli inventari Hercolani segno che, nonostante le premure di Filippo, che doveva essersi dimostrato entusiasta all’idea di entrare in possesso di un’effigie tanto preziosa, forse non venne mai consegnato, probabilmente a causa dei ricorrenti malesseri che la Kauffmann soffrì nei suoi ultimi anni di vita, prima di spegnersi a Roma nel novembre del 1807.

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Barbara Ghelfi 1 B. Ghelfi, Vicende collezionistiche di casa Hercolani. La quadreria di Maria Malvezzi Hercolani nelle carte dell’archivio di famiglia, in La quadreria di Gioacchino Rossini. Il ritorno della Collezione Hercolani a Bologna, catalogo della mostra, Bologna, Palazzo di Re Enzo e del Podestà, 2002–2003, a cura di D. Benati, M. Medica, Cinisello Balsamo, Silvana editoriale 2002, pp. 15–18; B. Ghelfi, Un nuovo inventario della Galleria Hercolani, in «L’Archiginnasio. Bollettino della Biblioteca Comunale di Bologna», 102, 2007, pp. 405–469; G. Perini Folesani, La collezione dei dipinti di Filippo di Marcantonio Hercolani nel catalogo manoscritto di Luigi Crespi, in Bologna crocevia e capitale della migrazione artistica: forestieri a Bologna e bolognesi nel mondo (secolo XVIII), a cura di S. Frommel, Bologna, Bononia University Press 2013, pp. 109–128; I. Bianchi, La collezione di Filippo di Alfonso Hercolani principe del Sacro Romano Impero (1663– 1722), ivi, pp. 85–108; G. Perini Folesani, La collezione di Filippo di Marcantonio Hercolani: una tipologia della documentazione disponibile per la sua ricostruzione, in Inventari e cataloghi: collezionismo e stili di vita negli stati italiani di antico regime, a cura di C. Maria Sicca, Pisa, Pisa University Press, 2014, pp. 277–293; I. Bianchi, Gli inventari del Principe Filippo di Alfonso Hercolani (1663–1722) e della sua famiglia, ivi, pp. 257–275; B. Ghelfi, La nascita di una collezione. Gli Hercolani di Bologna (1718–1773), Bologna, Bononia University Press, 2021. 2 L. Crespi, Descrizione de’ quadri di Sua Eccellenza il Signor Marchese Filippo Hercolani, Principe del Sacro Romano Impero, Marchese di Florimonte, Ciamberlano delle Maestà Loro Imperiali Regi ed Apostoliche e Cavalier Principe dell’Ordine Palatino di Sant’Uberto Publicata nell’Occasione delle sue Nozze con Sua Eccellenza la Signora Donna Corona Cavriani, 1773, Bologna, Archivio privato Hercolani (da ora in avanti APHBo), b. 16, c. 2v. 3 Crespi, Descrizione de’ quadri, cit., c. 2v. 4 P. Bassani, Guida agli amatori delle belle arti architettura, pittura, e scultura per la città di Bologna, suoi sobborghi, e circondario, Bologna, Tipografia Sassi, 1816, p. 206. 5 G. Incisa della Rocchetta, La collezione dei ritratti dell’Accademia di San Luca, Roma 1979. 6 T. Casini, Gallerie di ritratti, biografie di artisti e la nascita delle Accademie e dei Musei, in Giorgio Vasari e la nascita del museo, a cura di M. Wellington Gahtan, Firenze, Edifir, 2012, pp. 89–97 (p. 96). 7 Ivi, pp. 93–94. 8 S. Osano, La collezione di autoritratti della Galleria degli Uffizi: una storia ammantata di luci e ombre, in Autoritratti dalla collezione della Galleria degli Uffizi, catalogo della mostra, Tokyo/ Osaka 2010–2011, Tokyo, The Asahi Shinbun, 2010, p. 14. 9 G. Leoncini, Antefatti della collezione Pazzi, in «Paragone. Arte», 345, 1978, pp. 103–118; Osano, La collezione di autoritratti, cit., pp. 18–19. 10 Ivi, pp. 19–20. 11 L. Borean, L’artista e il suo doppio. Ritratti di pittori del Seicento veneziano, in «Artibus et Historiae», 35, 2014, pp. 61–82; T. Casini, Ritratti parlanti, collezionismo e biografie illustrate nei secoli XVI e XVII, Firenze, Edifir, 2004, p. 166. 12 T. Casini, La voluttà della stampa: pittori e architetti illustri nei libri di ritratti e biografie; breve «excursus» da Giorgio Vasari a Ignazio Enrico Hugford, in «L’Erasmo», 32, 2006, pp. 68–75. 13 G. P. Marchini, Il collezionismo d’arte a Verona nel Settecento: la Pinacoteca Mosconi, in «Studi storici veronesi Luigi Simeoni», 30–31, 1980–1981, pp. 222–249; E. M. Guzzo, La fortuna della pittura italiana, non veneta, nelle collezioni veronesi, in Il collezionismo a Venezia e nel Veneto ai tempi della Serenissima, a cura di B. Aikema, R. Lauber, M. Seidel, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 304–306.

Una collezione nella collezione 14 Per la serie dell’Accademia si veda la scheda di D. Arich de Finetti in Il Settecento a Verona. Tiepolo, Cignaroli, Rotari, la nobiltà della pittura, catalogo della mostra, Verona, Palazzo della Gran Guardia, 2011–2012, a cura di F. Magani, P. Marini, A. Tomezzoli, I. Turri, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2011, pp. 203–205. 15 Compendio delle vite de’ pittori veneziani istorici più rinomati nel presente secolo con suoi ritratti tratti dal naturale, delineati ed incisi da Alessandro Longhi veneziano. Aggiuntovi tre brevi trattati di pittura, Venezia 1762 [ma post 1764], P. Delorenzi, Il «Compendio» di Alessandro Longhi nella storiografia artistica veneziana, in «Ateneo veneto», 20, 2013, pp. 333–342. 16 S. Coppa, Gli Accademici Ambrosiani, il Museo Milanese di Francesco Albuzzi, il «Gabinetto dei ritratti dei pittori» di Giuseppe Bossi. Raccolte iconografiche di artisti a Milano: tracce per una storia, in Giuseppe Bossi, il Gabinetto dei ritratti dei pittori (1806), catalogo della mostra, Milano, Pinacoteca di Brera, a cura di S. Coppa, M. Olivari, Milano, Electa, 2009, pp. 23–52, alla p. 32. 17 Ivi, p. 23. 18 Desidero ringraziare Gernot Mayer per le preziose segnalazioni. 19 E. Garms-Cornides, Diventare collezionista, appunti sulla formazione del conte Carlo Firmian, in Le raccolte di Minerva, le collezioni artistiche e librarie del conte Carlo Firmian, a cura di S. Ferrari, Trento, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, 2015, pp. 13–16. 20 C. Geddo, La galleria firmiana, il filone dei lombardi, in Le raccolte di Minerva, cit., p. 58. 21 R. Pancheri, La pittura veneta nella collezione di Carlo Firmian, in Le raccolte di Minerva, cit., pp. 106–107. 22 G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna. Stamperia di S. Tommaso d’Aquino, 1781– 1794, v, 1786, pp. 345 e 344 nota 3. 23 A. Mazza, «Al maggior ornamento di cotesta insigne libreria musicale» l’iconoteca di padre Giambattista Martini nel convento di San Francesco, in Lorenzo Bianconi et al., I ritratti del Museo della musica di Bologna: da padre Martini al Liceo musicale, Firenze, Leo S. Olschki, 2018, pp. 1–54. 24 Mazza, «Al maggior ornamento…», cit., p. 22. Nel 1780 Filippo Hercolani fece eseguire a Padre Martini diversi disegni degli strumenti musicali riprodotti nei dipinti della sua collezione. 25 B. Ghelfi, scheda in Emozione barocca. Guercino a Cento, catalogo della mostra, Cento, Pinacoteca San Lorenzo e Rocca, 2019–2010, a cura di D. Benati, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2019, n. 85, pp. 212–213. 26 APHBo, Inventari, b. 16, Inventario, p. 12 bis; Perini Folesani, La collezione di Filippo di Marcantonio Hercolani, cit. 27 Per la trattazione completa si rimanda a un volume di cui mi sto occupando sui carteggi tra Filippo Hercolani e diversi corrispondenti per l’acquisto di opere d’arte. 28 APHBo, Corrispondenza, b. 99, Lettere a Filippo Hercolani. 29 Per il ritratto a Venezia nel Settecento si veda P. Delorenzi, La galleria di Minerva, il ritratto di rappresentanza nella Venezia del Settecento, Venezia, Venezia barocca, 2009. 30 APHBo, Corrispondenza, b. 103, Lettere a Filippo Hercolani. Notizie su Bosso, allievo dell’Accademia di Venezia tra il 1775 e il 1803, si ricavano dagli atti e dai registri degli studenti della stessa: L’Accademia di Belle Arti di Venezia. Il Settecento. II. Documenti, a cura di I. Miarelli Mariani, Crocetta del Montello, Antiga, 2015. Nel 1777 e nel 1786 frequenta la scuola di Francesco Maggiotto, nel 1778 quella di Ludovico Gallina. Sono grata a Paolo Delorenzi per le preziose informazioni. 31 APHBo, Corrispondenza, b. 112, Lettere a Filippo Hercolani. 32 I. Cecchini, Davide (David) Antonio Fossati, in Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Settecento, a cura di L. Borean, S. Mason Rinaldi, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 268–269.

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Barbara Ghelfi 33 APHBo, Corrispondenza, b. 113, Lettere a Filippo Hercolani. 34 Per la raccolta Algarotti si vedano: G. A. Selva, Catalogo dei quadri dei disegni e dei libri che trattano dell’arte del disegno della galleria del fu Sig. Conte Algarotti in Venezia, Venezia 1776; H. Krellig, Francesco e Bonomo Algarotti, in Il collezionismo d’arte a Venezia, cit., pp. 239–240. 35 APHBo, Corrispondenza, b. 112, Lettere a Filippo Hercolani. 36 C. Caneva, Il Corridoio vasariano agli Uffizi, Firenze, Banca Toscana – Milano, Silvana Editoriale, 2002, p. 179. Si veda anche il catalogo delle opere di autori contemporanei, ivi, pp. 203– 217. 37 APHBo, Corrispondenza, b. 114, Lettere a Filippo Hercolani. 38 Ringrazio Paolo Delorenzi per la preziosa segnalazione. 39 Per il ruolo dell’artista a Venezia si vedano P. Del Negro, Dal mestiere alla professione di pittore nella Venezia di Giambattista Tiepolo: l’Arte, il Collegio e l’Accademia, in Giambattista Tiepolo nel terzo centenario della nascita, atti del convegno, Venezia/Vicenza/Udine/Parigi 1996, a cura di L. Puppi, Padova, Il Poligrafo, 1998, pp. 83–91; Borean, L’artista e il suo doppio, cit., pp. 76, 78, 79. 40 APHBo, Corrispondenza, all. lettera 20 marzo 1790, b. 114. 41 APHBo, Corrispondenza, b. 114, Lettere a Filippo Hercolani, 1790, 17 aprile, Fossati: Scaggiaro, Domenico e Francesco Maggiotti si sono impegnati a servire Filippo nella fattura dei propri ritratti per 14 scudi e di darli terminati in 3 o 4 mesi; APHBo, Corrispondenza. b. 115, Lettere a Filippo Hercolani, 1790, 22 maggio, Fossati: Giacomo Guarana dipingerà il suo ritratto al prezzo e nella misura degli altri. 42 APHBo, Corrispondenza, b. 115, Lettere a Filippo Hercolani. 43 Ghelfi, La nascita di una collezione, cit., p. 109; P. Stenta, Appendice documentaria, ivi, n. 443, pp. 255–256. 44 APHBo, Corrispondenza, b. 115, Lettere a Filippo Hercolani. 45 Coppa, Gli Accademici Ambrosiani, cit., pp. 29, 32. 46 Ghelfi, Un nuovo inventario, cit. 47 APHBo, Inventari, b. 17, Elenco de’ ritratti de’ pittori più singolari, autografo di Jacopo Calvi: Perini Folesani, La collezione di Filippo di Marcantonio Hercolani, cit. 48 Bassani 1816, p. 206. 49 APHBo, Corrispondenza, b. 116, Lettere a Filippo Hercolani. 50 APHBo, Corrispondenza, b. 124 Lettere a Filippo Hercolani. 51 APHBo, Corrispondenza, b. 124, Lettere a Filippo Hercolani. 52 APHBo, Corrispondenza, b. 140, Lettere a Filippo Hercolani. 53 APHBo, Corrispondenza, b. 143, Lettere a Filippo Hercolani.

Elisabetta Frullini

Raccolte di quadri di musicisti celebri nella Roma del Seicento

Nel 1641 fu rappresentato al teatro di palazzo Barberini un dramma per musica intitolato Il palazzo incantato, ovvero La guerriera amante. L’opera, messa in musica da Luigi Rossi su testo del cardinale Giulio Rospigliosi,1 si apre su una scena non finita dove appaiono le personificazioni di musica, pittura e poesia. Tra di esse nasce una disputa nella quale ognuna proclama la propria autonomia. A riappacificare gli animi, dando così avvio alla trama vera e propria, sopraggiunge la magia che le esorta ad unire le loro forze, mossa dal desiderio di «vagheggiare uniti con triplicato vanto i [lor] fregi».2 Per quanto evidente l’unione di poesia, musica e pittura appaia nel caso di un melodramma, questo ci porta a valutare anche il rapporto tra musicisti, pittori e letterati che s’instaurava non solo per via della collaborazione che i grandi eventi festivi richiedevano loro, ma anche per la comune frequentazione degli stessi ambienti di corte. Vorremmo mettere in luce, partendo dalle raccolte di quadri di quattro musicisti della Roma barberiniana, proprio il rapporto tra musica e pittura, partendo dalla lettura degli inventari dei beni e di due liste inedite di dipinti. I musicisti in questione sono Loreto Vittori, celebrato soprano; Marco Marazzoli, noto arpista e compositore di alcuni dei maggiori drammi barberiniani degli anni Quaranta e Cinquanta del Seicento; Orazio Michi, tra i maggiori virtuosi d’arpa della prima metà del secolo; e Marc’Antonio Pasqualini, senz’altro il più importante cantante castrato attivo negli anni Trenta e Quaranta. Essi furono tra i musicisti di maggiore fama della loro epoca, ascritti ai ruoli di grandi mecenati – come il cardinale Antonio Barberini – e, in quanto tali, coinvolti nei grandi eventi teatrali promossi durante il pontificato di papa Urbano VIII Barberini (1623–1644).

Loreto Vittori Il soprano Loreto Vittori3 fu uno dei più acclamati cantanti della sua epoca, che a Roma godeva di entrature importanti grazie al suo ruolo presso le corti del cardinale Ludovico Ludovisi ed in seguito del cardinale Antonio Barberini. Fu amico di grandi letterati ed eruditi tra cui Giano Nicio Eritreo, che gli dedica una biografia nella sua Pinacotheca,4 e gli accademici lincei Giovanni Ciampoli e Virginio Cesarini. A Roma, dove abitava

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Elisabetta Frullini vicino alla Chiesa Nuova, il Vittori possedeva una raccolta che contava circa settanta quadri. L’abitazione era composta da tre appartamenti: il primo occupato dal musicista, un altro riservato alla servitù e l’ultimo adibito a magazzino.5 Nella seconda stanza dell’appartamento dove abitava il Vittori erano inventariati un claviorgano, un clavicembalo, uno spinettone e diversi quadri. A sottolineare l’importanza di questa stanza è il fatto che vi si trovassero almeno la metà degli otto dipinti che il musicista decide di lasciare in legato a protettori ed amici; quindi se non i più importanti, quelli più carichi di significato e che meglio lo rappresentavano. Si tratta di un dipinto della Maddalena, lasciato ad un padre oratoriano della Chiesa Nuova; di una Cleopatra del Lanfranco destinata al cardinale Lorenzo Raggi; del suo ritratto ad opera di Ottavio Leoni, che lascerà al collega soprano della Cappella Sistina Bonaventura Argenti;6 di una «testina» dell’Albani che destina alla principessa Ippolita Ludovisi, sorella del primo importante mecenate a Roma del Vittori, il cardinale Ludovico Ludovisi. I pittori nominati nel testamento dal musico erano tutti suoi contemporanei, artisti che egli dovette conoscere personalmente. Questo è il caso di Giovanni Francesco Romanelli – pittore favorito dal cardinale Francesco Barberini – di cui il Vittori possedeva una Galatea lasciata in legato al cardinale Francesco Albizzi. Il soggetto rimanda ad un dramma per musica scritto dal Vittori e intitolato, per l’appunto, La Galatea che ebbe un’importanza non marginale nella vita del musico.7 Altro pittore che il Vittori molto probabilmente conobbe a Roma tra il 1623 e il 1625 è Francesco Albani a cui attribuiva, oltre alla «testina» destinata ad Ippolita Ludovisi, un altro dipinto, ovvero «un quadro in tela di testa che significano le tre Arie».8 Il Vittori doveva reputarlo importante, al punto da lasciarlo in legato al suo principale mecenate, il cardinale Antonio Barberini. Si tratta di un dettaglio ripreso dal tondo che raffigura l’elemento dell’Aria (Torino, Galleria Sabauda), uno dei Quattro elementi (1625–1628) che l’Albani dipinse per il cardinale Maurizio di Savoia e che il Vittori presumibilmente vide nella collezione del porporato a Roma.9 Le tre Arie, passato con la morte del musicista in collezione Barberini, vi rimase almeno fino al 1730, dove è menzionato nell’inventario del principe Francesco Barberini come «Tre Grazie sopra le nuvole copia dell’Albani».10 Un dipinto di questo soggetto si trova oggi a Burghley House nella collezione dei marchesi di Exeter ed è di misure simili a quello Vittori/Barberini (fig. 1). È stato comprato nella seconda metà del Settecento dal IX conte di Exeter a Venezia. Considerando il periodo in cui il dipinto Barberini esce dalla collezione e la data in cui quello di Burghley House viene acquisito si può ipotizzare che si tratti dello stesso quadro un tempo appartenuto al Vittori.11 Tornando all’inventario, interessante è soprattutto la scelta dei soggetti che Loreto Vittori colloca nella sala con gli strumenti musicali. Entrando doveva saltare subito all’occhio la Cleopatra del Lanfranco in tela d’imperatore, uno dei dipinti più grandi della sala. Il quadro, come già accennato, fu lasciato in legato dal cantante al cardinale Lorenzo Raggi, grande amante della musica, nonché protettore della Cappella

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Fig. 1

Francesco Albani (scuola di), I tre elementi, Stamford, Burghley House Collection

Pontificia.12 È interessante notare che anche un altro musicista – Marco Marazzoli – possedeva un dipinto di Cleopatra di mano del Lanfranco, anche questo lasciato in legato ad un mecenate e sul quale torneremo. A destare l’interesse di musicisti per questo tema doveva contribuire il successo che questo tipo di soggetti riscuoteva anche in musica. All’inizio degli anni Quaranta del secolo iniziano a diffondersi sempre più le scene patetiche ed i grandi lamenti degli eroi e soprattutto delle eroine abbandonate che traevano spunto dalle Heroides di Ovidio – molto diffuse grazie alle versioni in volgare dell’epoca – e dal Lamento di Arianna di Claudio Monteverdi.13 Nel caso del Marazzoli sappiamo che egli aveva perfino composto un Lamento di Cleopatra, mentre Loreto Vittori fu un grandissimo interprete di questo tipo di brani patetici che richiedevano al cantante grandi doti espressive. È l’Eritreo il più dettagliato nel descrivere le straordinarie qualità vocali di Loreto Vittori. Egli ricorda in particolare un’interpretazione della Maddalena rappresentata all’Oratorio dei Filippini in cui il Vittori diede espressione ai patimenti della santa con «un ardore dell’anima, una forza vocale, con flessioni del canto tanto molli quanto delicate, che, se la Maddalena fosse tornata in vita, avrebbe riconosciuto […] i suoi veri dolori e lutti e ne sarebbe rimasta ammirata».14 Forse non è un caso che nella stessa sala in cui si trovavano gli strumenti musicali e dove era esposta la

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Elisabetta Frullini Cleopatra fossero presenti anche due dipinti della Maddalena, gli unici per altro di questo soggetto presenti nella raccolta del Vittori. Oltre alla Cleopatra e alle raffigurazioni della santa Maria Maddalena – che possono ricondurre ai brani interpretati dal Vittori e quindi alle sue doti di cantante – erano poi esposti nello stesso ambiente quattro dipinti rappresentanti ognuno una figura femminile: si tratta verosimilmente di quattro quadri di Sibille lasciatigli in legato dal rinomato arpista Orazio Michi che il Vittori assistette negli ultimi giorni di vita risultando anche firmatario di un codicillo testamentario.15 Le Sibille sono anch’esse soggetti che potevano rimandare alla sfera musicale: in un testo teorico abbastanza diffuso quale il Generale invito alle Grandezze e Meraviglie della Musica di Ludovico Casali, edito nel 1629, le Sibille sono descritte come coloro che «nel pronuntiar le cose avvenire, nol facevano se non cantando».16 In casa del Vittori i quadri del Michi trovano dunque una collocazione nella sala del claviorgano e del clavicembalo rappresentando così un ulteriore rimando al mondo musicale, non solo attraverso un tema specifico, ma anche attraverso il ricordo dell’amico musicista che li aveva lasciati.

Orazio Michi Orazio Michi17 fu un grandissimo virtuoso d’arpa inizialmente al servizio del cardinal Montalto ed in seguito, si presume, del cardinale Maurizio di Savoia. Come ci ricorda Vincenzo Giustiniani il Michi suonava l’arpa doppia «quasi miracolosamente»,18 mentre il Maugars lo mette al primo posto tra i suonatori d’arpa attivi a Roma negli anni Trenta del Seicento.19 Morì molto ricco lasciando principale beneficiaria della sua eredità la Chiesa Nuova. Nella sua casa vicino via di Panico il Michi teneva le Sibille del Vittori a sua volta esposte nella sala – là dove si trovava il suo cembalo – insieme a vari altri dipinti. Tra questi uno ve n’era con «l’effigie di Orfeo che suona l’arpa con gli animali attorno».20 Questo dipinto nel testamento del musicista è descritto come «abozzo di Paolo Brillo» e sarà lasciato in legato al cardinale Antonio Barberini. Il dipinto negli inventari Barberini è presente fino al 1730 come «un Paese per longo con Orfeo, che suona, con tutti gl’Animali che lo stanno a sentire». Si collocava, evidentemente, nella tradizione dei paesaggi nordici, come quelli di Roelandt Savery, in cui Orfeo rappresenta il potere magico della musica in grado di incantare gli animali feroci; tema privilegiato nei drammi per musica nel XVII secolo in cui rivive il topos umanistico del potere delle arti sulla natura. Come nel caso del Vittori anche per Orazio Michi è il testamento a fornirci i nomi degli artisti dei dipinti più importanti. Uno dei quadri di maggior pregio doveva essere un’Orazione nell’Orto del Cavalier d’Arpino, lasciato alla sagrestia della Chiesa Nuova. Probabilmente una delle tante versioni di questa fortunata composizione, di cui una delle più note è quella proveniente dalla collezione Barberini oggi all’Allen Memorial Art Museum di Oberlin (fig. 2). Tra i legati del Michi si trova anche una copia da un

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Fig. 2

Cavalier D’Arpino, Cristo nell’orto, Oberlin, Allen Memorial Art Museum

dipinto del Cavalier d’Arpino ovvero un Ecce homo.21 È interessante l’importanza che il Michi attribuisce a questo artista, perché costui fu non solo promotore di accademie in casa sua, ma anche attivo come pittore di scene per drammi musicali, di cui il più importante fu La catena d’Adone (D. Mazzocchi/O. Tronsarelli) rappresentato nel 1626. Anche nel caso del Michi e del Cavalier d’Arpino si può quindi immaginare una conoscenza nata dalla frequentazione degli stessi ambienti culturali, nell’ambito di grandi eventi festivi che richiedevano le competenze di entrambi.

Marco Marazzoli Un altro celebre virtuoso d’arpa, nonché compositore dei principali drammi per musica degli anni Quaranta e Cinquanta del Seicento, fu Marco Marazzoli,22 già noto anche alla storia dell’arte per essere stato il primo proprietario di alcuni dipinti di Giovanni Lanfranco, il più celebre dei quali è senz’altro la Venere che suona l’arpa oggi a Palazzo Barberini (fig. 3).23 Dall’inventario dei beni del Marazzoli apprendiamo come la «sala» dell’appartamento principale fosse finemente arredata e adibita a stanza della musica: un luogo di rappresentanza dove intrattenere gli ospiti.24 Dei cinque dipinti lasciati in legato da Marco Marazzoli ai suoi protettori tre si trovavano in questa stanza. Uno è l’Allegoria della poesia che, non a caso, il musicista lascerà in legato al cardinale Giulio Rospigliosi, autore dei testi dei principali drammi per musica barberiniani e con il quale il Marazzoli spesso collaborò in quanto compositore. Un altro è un’Erminia tra i pastori

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Fig. 3 Giovanni Lanfranco, Venere che suona l’arpa, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini

destinata al cardinale Carlo Barberini – anche questa una scelta ben ponderata, poiché il padre di Carlo, Taddeo Barberini, aveva patrocinato forse il più importante dramma per musica del Seicento incentrato su questo tema, ovvero L’Erminia sul Giordano (1633, G. Rospigliosi/M. Rossi). Infine vi è una Cleopatra che sarà lasciata al secondogenito di Taddeo, il principe Maffeo Barberini. Come nel caso del Vittori anche nella sala del Marazzoli prevalgono dipinti di soggetto profano, molti dei quali rappresentano figure femminili mitologiche o storiche: tra cui Venere, Lucrezia, Galatea, Cleopatra. Abbiamo già accennato al diffondersi dei «Lamenti», le cui protagoniste spesso erano eroine abbandonate, ed al fatto che il Marazzoli fu compositore di cantate da camera e di lamenti tra cui uno incentrato proprio sulla morte di Cleopatra.25 La Cleopatra del Lanfranco (fig. 4) – di recente acquisita per le Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini – è un esempio lampante di come interpretazioni sceniche potessero tradursi in pittura. Qui la teatralità è evidente non solo per la presenza del drappo rosso che avvolge la figura, ma soprattutto per la gestualità

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Fig. 4

Giovanni Lanfranco, Cleopatra, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini

della protagonista: un gesto molto espressivo che sembra manifestare un doloroso abbandono, una resa alla morte, come denota anche lo sguardo rivolto verso l’alto. I gesti che accompagnano le rappresentazioni teatrali e musicali saranno codificati solo a partire dal tardo Seicento e poi nel Settecento. Proprio però con il diffondersi del teatro in musica si inizia a delineare l’importanza dei passi, dei gesti e della mimica che accompagnano la voce e quindi la musica e il testo.26 Già ad inizio Seicento l’autore della prefazione alla Rappresentatione di Anima et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri scriveva: «il cantante […] accompagni [le parole] con gesti et motivi non solamente di mani, ma di passi ancora, che sono aiuti molto efficaci a muovere l’affetto».27 Angelo Berardi, diversi decenni più tardi, tornerà sull’argomento con maggior enfasi, notando come: «La Musica Teatrale [riceva] la sua forza dal gesto, [… come] il moto nel canto sia l’animo della parola» e citando gli antichi prosegue ricordando che «Pindaro pose nel medesimo grado il cuore, e la mano […] poiché quei moti che stanno racchiusi nel gabinetto segreto del cuore la mano, qual lingua loquace, li propaga al Mondo. I suoi pregi sono meravigliosi».28 Probabilmente la scelta di determinati quadri nelle stanze dove ci si riuniva per fare musica non era solamente dovuta al fatto che essi potessero rimandare in vario modo alla musica e, in particolare, a brani musicali in voga nella Roma di quegli anni di cui i musicisti in questione furono interpreti o autori; possiamo infatti andare oltre e immaginare

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Elisabetta Frullini il dialogo che si instaurava tra pittura e musica nel momento in cui, durante l’interpretazione di un pezzo, lo sguardo dello spettatore cadeva su un dipinto come quello del Lanfranco. Se si pensa che nel Seicento il coinvolgimento di tutti i sensi – in primis vista ed udito – rivestiva un ruolo centrale nei grandi eventi festivi, si può presumere che anche in una dimensione più intima l’esperienza sinestetica trovasse una ragione di essere.29 D’altronde il rapporto tra musica e pittura si ravvisa anche in altre forme d’intrattenimento più quotidiano, che aiutano a comprendere la scelta di esporre determinati dipinti nelle stanze adibite alla musica, creando così un vero e proprio dialogo tra le arti. Le poesie per musica ispirate a dipinti sono una chiara testimonianza di come queste diverse discipline traessero ispirazione l’una dall’altra e di come lo scambio tra artisti, musicisti e – aggiungiamo – poeti fosse fertile e soprattutto frequente. Tra le poesie di Sebastiano Baldini – grande amico di Marco Marazzoli, nonché inizialmente anch’egli al servizio del cardinale Antonio Barberini in qualità di segretario – si ritrova per esempio una poesia per musica ispirata ad un dipinto con Giuditta ed Oloferne.30 Un’altra testimonianza di questo tipo di interscambi ce la offre Girolamo Tezi che nella Aedes Barberinae narra di come il celebre soprano Marc’Antonio Pasqualini avesse un giorno messo in musica (forse improvvisando) alcuni versi del poeta Giovanni Lotti, a loro volta ispirati ad un ritratto.31

Marc’Antonio Pasqualini Il cantore della Cappella Sistina Odoardo Ceccarelli definiva il suo collega Marc’Antonio Pasqualini32 «uno dei più famosi virtuosi del nostro Collegio, anzi di tutta la Cristianità […] miracolo in questa professione del nostro secolo».33 Musicista favorito del cardinale Antonio Barberini, il Pasqualini fu protagonista di quasi tutti i drammi per musica degli anni Trenta e Quaranta del secolo. Le ricchezze che riuscì ad accumulare gli permisero di comprare un intero palazzetto situato sulla via Salaria, non lontano da palazzo Barberini, dove probabilmente teneva una collezione non trascurabile di dipinti. La mancanza di un inventario dei beni del Pasqualini non dà la possibilità di conoscere l’entità della sua raccolta, ma due elenchi di quadri appartenuti al musico dimostrano che egli possedeva opere di artisti celebri.34 Questi documenti non permettono di fare lo stesso tipo di osservazioni consentite dagli inventari topografici trattati finora, ma ci danno modo di tornare sul rapporto tra pittori e musicisti. Le due liste di dipinti sono conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana ed attestano la vendita di alcuni quadri del Pasqualini passati dopo la morte del musico per breve tempo nella collezione Barberini. I quadri elencati nei due documenti sono in parte gli stessi, con la differenza che una lista è più lunga e annovera alcuni dipinti che sono stati tralasciati nell’altra (probabilmente alcuni quadri vennero esclusi nell’arco della trattativa). Il primo dipinto citato è un «Apollo d’Andrea Sacco» al quale viene dato un valore che oscilla tra i 900 scudi della lista più lunga e i 1000 di quella più breve. Il soggetto,

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Fig. 5 Andrea Sacchi, Ritratto allegorico di Marc’Antonio Pasqualini, New York, The Metropolitan Museum of Art

Fig. 6 Andrea Sacchi, Ricordo della Pala con la Visione di san Romualdo, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini (dalla quadreria dal Pozzo)

come anche l’ingente somma, ci rivelano che doveva trattarsi del celebre ritratto allegorico del Pasqualini incoronato da Apollo (fig. 5), di cui per primo parlò il Bellori lodandolo come un «vaghissimo componimento».35 Il dipinto era finora documentato per la prima volta a partire dal 1714 nella collezione del marchese Niccolò Maria Pallavicini,36 ma non si sapeva come vi fosse giunto, né chi ne fosse stato il committente. Dalle liste di quadri dell’archivio Barberini apprendiamo che il dipinto fu in possesso del Pasqualini ed è verosimile che egli stesso lo avesse commissionato all’amico pittore. Il cantante era morto nel 1691 lasciando i suoi beni in eredità ad un fratello, Giovanni Antonio Pasqualini. Questi donò in seguito la casa ed i beni in essa contenuti al principe Urbano Barberini – nipote del cardinale Antonio Barberini – che a sua volta li vendette dopo pochi anni.37 Dalle liste di quadri del Pasqualini apprendiamo che il celebre musico possedeva anche altri dipinti di Andrea Sacchi oltre al ritratto, ovvero un «Inverno», una «Testa di San Pietro» ed un «San Romoaldo». Che i due personaggi fossero legati da stima ed affetto reciproci ce lo rivelava già il Bellori che definiva il cantante «amicissimo [di Andrea Sacchi] nella medesima corte del cardinale Antonio Barberini».38 Il «San Romoaldo» doveva essere una versione del celebre dipinto (fig. 6) per la chiesa dei camaldolesi

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Fig. 7 Andrea Sacchi, Allegoria dell’Inverno, Kedleston Hall

Fig. 8 Salvator Rosa, Un filosofo, Kedleston Hall

a Roma ed oggi conservato presso la Pinacoteca Vaticana; opera giovanile del Sacchi che lo consacrò subito tra i grandi artisti dell’epoca. Il quadro del Pasqualini rimase nella collezione Barberini – come si evince dagli inventari settecenteschi39 – contrariamente all’Inverno e alla Testa di san Pietro che passarono in collezione Pallavicini.40 L’Inverno (fig. 7) si ritrova insieme ad un altro quadro del Pasqualini – un Filosofo di Salvator Rosa (fig. 8) – a Kedleston Hall, dove giunse in seguito all’acquisto effettuato per conto di Sir Nathaniel Curzon dall’agente William Kent nel 1758.41 Quanto alla Testa di san Pietro se ne perdono le tracce dopo il 1750 quando è menzionata in un inventario della famiglia Tolomei a Firenze.42 È possibile che i tre dipinti entrassero in possesso del Pasqualini dopo la morte del Sacchi (1661), poiché dei quadri analoghi si ritrovano nell’inventario post mortem del pittore.43 Se quest’ipotesi fosse corretta, dovrebbe essersi trattato di una disposizione verbale, forse concordata insieme al Pasqualini, dato che nel testamento di Andrea Sacchi non se ne fa menzione. Marc’Antonio Pasqualini è citato nel testamento del pittore che lo nomina «speciale esecutore» con il permesso di vendere i suoi mobili per provvedere al sostentamento di persone a lui care.44 Forse i tre quadri erano una sorta di ricompensa per l’incarico che gli era stato affidato e al contempo una dimostrazione di affetto e gratitudine, come spesso erano i lasciti di opere d’arte. Il Pasqualini potrebbe però anche averli acquisiti per sé dopo la morte del pittore in quanto amministratore dei beni mobili.

Raccolte di quadri di musicisti celebri nella Roma del Seicento Sarebbe interessante sapere in base a quale criterio furono scelti questi quadri. Nel caso del San Romualdo non può non essere presa in considerazione l’importanza che questo dipinto ebbe sia per Andrea Sacchi, sia per i suoi mecenati, i Barberini. Con questo dipinto si delineava infatti lo stile aulico che avrebbe caratterizzato il Sacchi negli anni a seguire e che lo avrebbe contrapposto a Pietro da Cortona ed ai suoi seguaci.45 A sottolineare il valore invece che questo dipinto ebbe per i Barberini vi è il fatto che essi ne inviavano nel 1658 una copia a papa Alessandro VII insieme ad una versione della Divina Sapienza46 a evidente dimostrazione del loro patronage artistico. Assume dunque un significato importante la presenza di un tale dipinto in possesso del Pasqualini, simbolo dell’appartenenza ad un medesimo entourage culturale ed allo stesso circolo mecenatesco, ma anche un’opera estremamente significativa nella produzione del Sacchi con la quale egli s’impone sulla scena romana e che lo contraddistingue come poche altre. Il caso di Marc’Antonio Pasqualini e Andrea Sacchi ben rappresenta dunque l’importanza dei sodalizi tra persone di formazione diversa, quali musicisti e pittori, che s’instauravano nell’ambito delle corti e di cui ritroviamo traccia anche nelle raccolte di quadri che possedevano Loreto Vittori, Orazio Michi e Marco Marazzoli. Non sempre è possibile rintracciare i dipinti che facevano parte di queste raccolte, tuttavia dalla lettura degli inventari si evincono interessanti informazioni: i rapporti tra gli artisti, le opere che scaturivano da queste interrelazioni, il significato che alcuni dipinti assumevano all’interno di un preciso contesto – quale la dimora di un musicista e, più precisamente, le sale in cui ci si radunava per fare musica. Essi ci danno ancora una volta la misura di come le arti fossero in strettissimo rapporto le une con le altre. Come ricorda Giulio Rospigliosi nel prologo de Il Palazzo incantato le arti necessitavano l’una dell’altra, perché si potessero lodare «con triplicato vanto i [loro] fregi». Appendice Biblioteca Apostolica Vaticana Arch. Barb. Indice II. 1563 c. 76 Apollo d’Andrea Sacco S. 1000 Inverno d’Andrea Sacco S. 250 S. Pietro di Andrea Sacco S. 150 Filosofo di Salv. Rosa S. 50 Prospettiva di Filippo Gagliardi S. 70 _______ _______ 1 520 Biblioteca Apostolica Vaticana Arch. Barb. Indice II. 1563 c. 78 Apollo dell’And.a Sacco S. 900. Inverno di And.a Sacco S. 250

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Elisabetta Frullini Testa di S. Pietro di And.a Sacco + S. Romoaldo dell’Andrea Sacco Un Filosofo di Salvat.re Rosa + Un quadro del Rosso Genovese47 [?] con diversi nomi [?] + Un Battesimo di N[ostro] S[ignore] della Scola del Carracci + Una Madonna con due altre figure + Un Presepio di Michelangelo Prospettiva di Filippo Gagliardi con Figure di Carlo Magnone48

S. 100. S. 150 S. 50. S. 60 S. 150 S. 300 S. 150 [200 cancellato] S. 50

[Sul retro del foglio: c. 79r] Quadri di Marcan. Pasqualini

Raccolte di quadri di musicisti celebri nella Roma del Seicento 1 Il cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX, scrisse quasi tutti i drammi per musica patrocinati dai Barberini. Sulla sua figura di librettista cfr. M. Murata, Operas for the papal court 1631–1668, Ann Arbor, UMI Research Press, 1981. 2 G. Rospigliosi, Il palazzo incantato, a cura di D. Romei, [s.l.] Lulu 2013, p. 6. 3 Per Loreto Vittori e per la sua raccolta di quadri si veda il contributo di chi scrive a cui si rimanda anche per la bibliografia precedente: E. Frullini, Il Cavalier Loreto Vittori «musico famoso». Mecenatismo, raccolte ed eredità di un grande cantante del Seicento, in «Spoletium» n. s. 12, 56, 2019, pp. 33–67. 4 G. N. Eritreo, Pinacotheca altera imaginum illustrium, doctrinae vel ingenii laude, virorum, qui auctore superstite, diem suum obierunt, Colonia [Amsterdam], apud Iodocum Kalcovium, 1645, pp. 215–221. La vita del Vittori scritta dall’Eritreo è riportata in R. Gigliucci, Loreto Vittori, Castrato, Musico e Poeta, in Ludicra, a cura di M. Chiabò, M. Gargano, A. Modigliani, Roma, Roma nel Rinascimento, 2009, pp. 235–239. 5 I musicisti più facoltosi appartenevano ad una classe sociale che si può definire – riprendendo un termine utilizzato da Giulio Mancini – il «ceto mediocre»: G. Mancini, Considerazioni sulla pittura, a cura di A. Marucchi, L. Salerno, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956. Ne facevano parte avvocati, mercanti, detentori di uffici di curia di livello inferiore, artisti, artigiani di successo. Vivevano in dimore che contavano tra i due e i tre appartamenti, posti uno sopra l’altro e composti a loro volta da tre stanze principali e alcuni vani più piccoli. Solitamente uno di questi appartamenti era destinato alla servitù. Nell’appartamento principale è abbastanza facile riconoscere alcune sale «di rappresentanza» che si distinguono da quelle ad uso privato (studi o camere da letto). In queste sale di rappresentanza una ve n’era in cui si trovavano gli strumenti musicali – quasi sempre era presente almeno un cembalo. Cfr. R. Ago, Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, Roma, Donzelli, 2006, p. 60. 6 Bonaventura Argenti fu anch’egli un grande collezionista di dipinti. Si veda a tal proposito F. Gaspari, La musica e i quadri: Bonaventura Argenti, in «Bollettino d’arte», s. vi, 93, 2008, 143, pp. 129–142. 7 L’opera fu scritta nel 1639 durante un periodo d’esilio seguito ad uno scandalo nel quale il Vittori si ritrovò coinvolto e che destò grande scalpore: il musico del papa si era reso colpevole di aver rapito una giovane sposa. Per sfuggire alle ire del pontefice egli si rifugiò a Spoleto – sua patria – dove compose il dramma con l’intento di rientrare nelle grazie dei suoi mecenati. Egli si occupò personalmente anche di farlo pubblicare dedicandolo al suo protettore, il cardinale Antonio Barberini. Si veda F. Antolini, Il «lieve error di giovanil desio» del Cavalier Loreto, in «Spoletium», 1978, 70–75. Su la Galatea vedi l’introduzione di Thomas Dunn in: L. Vittori, La Galatea, [1639], a cura di T. D. Dunn, Middleton (Wis.), A-R Editions, 2002, pp. vii–xiii. 8 L’inventario è trascritto parzialmente in B. M. Antolini, Loreto Vittori musico spoletino, in «Quaderni di Spoletium», 1984, pp. 85–88 e in Frullini, Il Cavalier Loreto Vittori, cit., pp. 65–67. 9 Il cardinale Maurizio di Savoia risiedette a Roma per qualche mese nel 1621, poi nel 1623–1627 ed infine nel 1635–1638. Il fratello Vittorio Amedeo morì nel 1637 lasciando vacante la reggenza e obbligando il cardinale Maurizio a tornare a Torino dove intraprese la guerra contro Madama Reale. Sul collezionismo di Maurizio di Savoia vedi M. Oberli, Magnificentia Principis. Das Mäzenatum des Prinzen und Kardinals Maurizio von Savoyen (1593–1657), Weimar, VDG, 1999, p. 161. 10 Getty Provenance Index Database, Archival Inventory i-1.

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Elisabetta Frullini 11 Per le diverse versioni di questo soggetto e per le voci negli inventari Barberini cfr. C. R. Puglisi, Francesco Albani, New Haven/London, Yale University Press, 1999, pp. 145 e 223. 12 Lorenzo Raggi scrisse una raccolta di versi e di canti di cui compose egli stesso la musica e che suscitò grande apprezzamento da parte di Urbano VIII. Egli fu protettore della Cappella Pontificia alla fine del quinto decennio. Cfr. A. Rivoallan, Entre Gêne et Rome: le cardinal Lorenzo Raggi, amateur éclairé et home d’affaires averti, in «Bulletin de L’Association des Historiens de l’Art Italien», 11, 2005, pp. 42–80, alla p. 46 e J. Lionnet, La musique de la chapelle Borghese au 17eme siècle, in «Studi musicali», 12, 1983, pp. 97–119, alla p. 109. 13 L. Bianconi, Il Seicento, Torino, Edit, 1991, pp. 219–235. 14 «[…] Sed interdum Romae, per hyemem, in sacello Patrum Congregations Oratorii exaudiebatur. Ubi eum ego, nocte quadam, Magdalenae, sua deflentis crimina, seque ad Christi pedes abjicientis, querimoniam, canentem audivi: qui eo ardore animi, ea vi vocis, iis tam mollibus tamque delicatis in cantu flexionibus, Magdalenam nostri pene oculis subjiciebat, ut, si revixisset, in illa ejus, poenitentiae ipsius, imitazione suos veros luctus doloresque agnovisset atque admirata esset»: Gigliucci, Loreto Vittori, cit., p. 236. 15 Nel suo testamento Orazio Michi scrive «It. al S.r Cavalier Loreto Vittorio lascio quattro quadri di Sibille et una Annuntiata con un Christarello e San Domenico legati con la fettuccia gialla»: in A. Cametti, Orazio Michi dell’Arpa, virtuoso e compositore di musica della prima metà del Seicento, Estratto dalla «Rivista Musicale Italiana», 21, 1914, pp. 58–59. Nell’inventario del Vittori sono descritte come: «Un altro [quadro] con cornice indorata, e rabescata d’oro di tela di tre palmi con ritratto di una Donna. Un altro tela e cornice simile, rappresentante un’altra Donna. Dui altri simili, e alla simile rappresentanti altre due Donne»: Archivio di Stato di Roma (da ora in avanti ASR), 30 Notai Capitolini, Notaio Carlo Lamperini, 23 Aprile 1670, vol. 275, c. 510r. 16 «[le sibille] nel pronuntiar le cose avvenire, nol facevano se non cantando; per Gratia del Cielo a loro infusa; e tutto questo è il frutto della vera armonia»: L. Casali, Generale invito alle grandezze e meraviglie della Musica, Modena, per Gio. Battista Gadalino, 1629, pp. 118–119. 17 A. Morelli, Michi, Orazio in Dizionario Biografico degli Italiani, lxxiv, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010. 18 V. Giustiniani, Discorso sopra la musica de’ suoi tempi [1628 circa], in A. Solerti, Le origini del melodramma, Torino, Fratelli Bocchi, 1903, p. 110. Per la collezione di quadri e l’eredità di Orazio Michi si veda Cametti, Orazio Michi dell’Arpa, cit., pp. 58–59. 19 J. Lionnet, André Maugars, Risposta data a un curioso sul sentimento della musica d’Italia, in «Nuova Rivista musicale italiana», 19, 1985, pp. 681–707, alle pp. 688–691. 20 Il dipinto nell’inventario del 1644 del cardinale Antonio Barberini è descritto come: «Un quadro soprafinestra di p.mo 4, e 3 1/2 inc.a rappresentante Orfeo che suona l’arpa Con Diversi Animali, Con Cornice Nera filettata d’oro no. 1 – 40 –». In quello di Maffeo Barberini del 1686 è menzionato come «Un Paese p. longo con Orfeo, che sona con tt.i gli Animali, che lo stanno á sentire lungo p.i 5 1/2 alto p.i 4 in circa con cornice liscia nera filettata d’oro». Infine in quello del Francesco Barberini juniore del 1730 vi è «Un Paese per longo con Orfeo, che suona con tutti gl’Animali, che lo stanno a sentire longo p.mi 5 incirca alto p.mi 4 con cornice liscia nera filettata, e rabescata d’oro, mano di […] 50». Cfr. Getty Provenance Index Database, passim. 21 «It. lascio come sopra un quadro con l’Ecce homo al Padre Fabritio Ronca al presente curato di S. Celso, che viene dal cavalier Gioseppe, cioè copia»: Cametti, Orazio Michi dell’Arpa, cit., p. 59.

Raccolte di quadri di musicisti celebri nella Roma del Seicento 22 A. Morelli, Marazzoli, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, lxix, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2007, pp. 466–471. 23 F. Trinchieri Camiz, Una «Erminia», una «Venere» ed una «Cleopatra» di Giovanni Lanfranco in un documento inedito, in «Bollettino d’arte», s. vi, 76, 1991, 67, pp. 165–168. 24 L’inventario di Marco Marazzoli si trova in ASR, Notai RCA, Notaio M. Vannuccini, vol. 2082, cc. 35r–46r. 25 Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in avanti BAV), Archivio Chigi, Q.VI.81, cc. 41–45. 26 Bianconi, Il Seicento, cit., p. 20; vedi anche P. Besutti, «Pasco gli occhi e l’orecchie»: la rilevanza dell’«actio» nella produzione e nella ricezione musicale tra Cinque e Seicento, in Il volto e gli affetti. Fisiognomica ed espressione nelle arti del Rinascimento, atti del convegno, Torino 2001, a cura di A. Pontremoli, Firenze, L. S. Olschki, 2003, pp. 281–300. 27 A. Guidotti, Prefazione alla rappresentazione di Anima e Corpo di Emilio de’ Cavalieri [1600], in Solerti, Le origini del Melodramma, cit., p. 5. 28 A. Berardi, Ragionamenti musicali composti dal Sig. D. Angelo Berardi professore armonico, e maestro di cappella nel Duomo di Spoleti, Bologna, Giacomo Monti, 1681, pp. 137–138. Uguale importanza viene data al portamento della testa: «Il Cantore, incontrando parole che ricordino la Patria de’ Beati, Stelle, Monti basta che alzi la testa [etc.]»: Ivi, pp. 139–140. 29 Cfr. C. Volpi, The display of knowledge: «studioli», «camerini» and libraries, in Display of art in the Roman palace, a cura di G. Feigenbaum, Los Angeles, Getty Research Institute, 2014, pp. 250– 263. 30 La poesia è presente sia nell’archivio Barberini (BAV, Barb. Lat. 3889, cc. 206–297) – dove è segnata come «Recitativo per musica a 2: Iuditta e la Serva. Sopra una Iuditta dipinta in atto di uccidere Oloferne» – sia in quello Chigi dove invece è intitolata «L’Olofernicida. Dialogo, Iuditta e la Serva che uccide Oloferne» (BAV, Chig. L.IV.94, cc. 78–81). Le poesie per musica nei codici della Biblioteca Apostolica Vaticana. Sebastiano Baldini, incipitario e fonti musicali, a cura di G. Morelli, Roma, Istituto di bibliografia musicale, 2000, p. 95. 31 G. Tezi, Aedes Barberinae ad Quirinalem descriptae, a cura di L. Faedo, T. Frangenberg, Pisa, Edizione della Normale, 2005, pp. 360–363. 32 M. Murata, Pasqualini, Marcantonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, lxxxi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2014, p. 580. 33 Cit. in A. Cametti, Musicisti celebri del Seicento in Roma. Marc’Antonio Pasqualini, in «Musica d’oggi», 3, 1921, pp. 69–71, 97–99, alla p. 69. 34 Vedi Appendice. Margaret Murata è la prima a rendere note le liste di dipinti, ma i documenti non sono stati presi in considerazione in ambito storico-artistico: Murata, Pasqualini, Marcantonio, cit. 35 Sul ritratto di Marcantonio Pasqualini, a cui si rimanda anche per la letteratura precedente, cfr. M. Papiro, «Vaghissimo componimento», Andrea Sacchis Inszenierung des Sängerkastraten Marc’Antonio Pasqualini, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 73, 2010, 2, pp. 211–236. 36 «(381) Un altro quadro in tela di nove, e dodici in piedi con Apollo che incorona un Pastore […]», S. Rudolph, Niccolò Maria Pallavicini. L’ascesa al tempio della virtù attraverso il mecenatismo, Roma, Bozzi, 1995, p. 229. 37 Dalle carte d’archivio emerge dettagliata la vendita del palazzetto del Pasqualini. F. Grampp, Eine anonyme Kollektion römischer Oratorienkantaten und Oratorien, 2 voll., Roma, Pontificio Istituto di musica sacra, 2002, doc 7. Per quanto riguarda i beni mobili nel Giornale II (1686–1691) del principe Urbano Barberini è menzionato per l’anno 1691: «Eredità del q[uonda]m Marc’Antonio Pasqualini Sc[udi] Mille m[one]ta rescossi per pro[fitto?] di quattro pezzi di quadri ven-

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d[ut]i»: BAV, Archivio Barberini, Computisteria, 482c, c. 847. Il giornale di Urbano Barberini attesta anche la vendita nel 1693 di un numero imprecisato di quadri «ordinari» (di poco valore) del Pasqualini per una somma modesta, ovvero 56 scudi. BAV, Archivio Barberini, Computisteria 482e, c. 1188. G. P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, [1672] a cura di E. Borea, 2 voll., Torino, Einaudi, 2009, ii, p. 568. Nell’inventario del 1730 di Francesco Barberini, principe di Palestrina, è menzionato per la prima volta «Un Quadro p[er] alto rappresenta S. Romualdo, che predica alli suoi religiosi con Anime de’ medesimi che vanno in Gloria alto p[al]mi 3, largo p[al]mi 2 1/4 con cornice tutta intagliata, e dorata, si dice mano di Andrea Sacchi 500». Francesco Barberini era fratello ed erede di Urbano Barberini. Egli ne fece stilare l’inventario post mortem che rimase incompiuto. Probabilmente questo è il motivo per cui il quadro non è menzionato nell’inventario di Urbano Barberini: Getty Provenance Index Database, Archival Inventory i-1. I dipinti in collezione Pallavicini sono inventariati come «(136) Altro [quadro] dell’istessa misura rappresentante S. Pietro […]»; (423) Un altro quadro in tela d’Imperatore rappresenta un Vecchio che significa l’Inverno […]», Rudolph, Niccolò Maria Pallavicini, cit., pp. 218, 230. Rudolph, Niccolò Maria Pallavicini, cit., p. 239. Il dipinto è menzionato insieme al suo pendant con il Ritratto di un violinista in un elenco di dipinti archiviato insieme a diversi inventari appartenenti alla famiglia Tolomei: «Catalogo di quadri e stima di essi, fatta nel 1750 da Francesco Conti maestro di disegno nella Real Galleria di Firenze, e da Ignazio Rabbuiati, professore di pittura nell’Accademia di Belle Arti», Firenze, Biblioteca Nazionale, Ms. II.III.501, inserto 28: Getty Provenance Index Database, Archival Inventory i-145. L’inventario di Andrea Sacchi è trascritto in A. Sutherland Harris, Andrea Sacchi. Complete edition of the paintings with a critical catalogue, Oxford, Phaidon, 1977, pp. 119–122. I dipinti in questione potrebbero essere: «(11) Un Quadro con l’effigie di San Pietro Tela da testa […]»; «(148) Un quadro senza cornice con San Romualdo, et altri frati»; «(185) Un quadro senza Cornice con vecchio rappresentante l’Inverno». «Item vuole e dispone che sin tanto che si venderanno li suoi mobili, si farà il rinvestim(en)to se la Casa dove esso habbita non sarà appigionata […] p[er] gli alim(ent)i necessarij di Marcantonio di Eufrasia Mannucci e di Franc(es)co et di Gio(vanni) Batt(ist)a della q(uondam) Vittoria, e p(er) supplim(en)ti di essi si possi vendere quella quantità di d(ett)i mobili che sarà necessaria et come meglio parerà al Sig(no)re Marcantonio Pasqualini che a questo effetto deputa speciale Essecutore della pr(esen)te disposit(ione) [etc.]» in Sutherland Harris, Andrea Sacchi, cit., p. 118. Cfr. H. Posse, Der römische Maler Andrea Sacchi. Ein Beitrag zur Geschichte der klassizistischen Bewegung im Barock, Leipzig, Seeman, 1925, pp. 1–3. Le «giustificazioni» dell’Archivio Barberini, i, Le Giustificazioni dei Cardinali, a cura di L. Cacciaglia, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2014, p. 169. Rosso Genovese è l’appellativo dato al pittore olandese Jan Roos che fu attivo soprattutto a Genova. Su Carlo Magnoni – allievo di Andrea Sacchi e attivo per i Barberini – cfr. B. Savina, Copisti di Caravaggio attivi per i collezionisti romani: note inedite su Carlo Magnoni al servizio della famiglia Barberini, in Dal Razionalismo al Rinascimento. Per i quaranta anni di studio di Silvia Danesi Squarzina, a cura di M. G. Aurigemma, Roma, Campisano, 2011, pp. 303–307.

Cecilia Mazzetti di Pietralata

Austrian networks in Papal Rome as interpretation key (XVIIXVIII century). Envoys, agents, and the arts

The role of diplomats, which implies the travelling of many actors and the displacement of objects, constitutes a main issue in the field of European art collecting. The present paper focuses on the practice of networking among Habsburg envoys at the papal court between the reigns of Ferdinand II and Karl VI and tries to analyse the framing discourse through selected examples of its influence on cultural exchange, which will be singularly deepened in future contributions. The imperial faction in Rome was not strongly prominent in that period; an indirect consequence was a relative lack of fortune in historiography, especially in art-historical studies.1 However, this situation underwent various changes in the long term, according to the different balances between empire, papacy and European states. For instance, it is significant that after the Treaty of Westphalia (1648) and the almost coincident death of Federico Savelli (1649), until 1691 only extraordinary ambassadors were sent to Rome by the Habsburgs. Apart from the envoys, either “residential” or extraordinary, and the “national” cardinals, the Austrian emperor in Rome could rely on more established structures, by tradition representing the crown and its religious, political and economic interests. Among these was the Collegio Germanico-Ungarico, where German clergy as well as young nobles from Austria, Bohemia, Moravia, Hungary, Bavaria, resided and studied.2 A considerable step for a career in the ranks of the papal administration was the figure of auditore, i. e. a judge, in the Tribunal of the Rota.3 One of the auditors, of Austrian or German birth, had to be proposed by the Emperor and appointed by the Pope. In this way such “private” or “freelance” agents as Cornelis Motmann or Petrus Mandera could find an institutional framework for their parallel activity.4 On the contrary, not always or even rarely the cardinals protector and vice-protector of the “German nations and Habsburg lands”, who were entrusted with the care of the German and Austrian catholic affairs among the college of cardinals, had German or Austrian birth.5 Successful military campaigns, anniversaries, birthdays or funerals of the Austrian Habsburgs were sumptuously celebrated in the church of the German brotherhood in Santa Maria dell’Anima.6 An official statement of the emperor in 1699, intended to put it under the

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Cecilia Mazzetti di Pietralata protection of the imperial ambassador in Rome, declares that the German hospice, church and confraternity at the Anima had been established by the “augustissimi caesari”. Instead of strengthening Habsburgs’ presence, it caused more turbulence by the turn of the century. During count Martinitz’s appointment as ambassador, a harsh controversy had indeed taken place, and the Habsburgs – while reinforcing their role in the German church – ended up giving special protection also to the confraternity of the Santissimo Nome di Maria, whose seat from the 1694 had been established in the church of San Bernardo alla Colonna Traiana. Finally, there was one more German-speaking enclave in Rome, i. e., the brotherhood of the Camposanto Teutonico at Saint Peter.7 Among and around these structures there were secretaries, agents, intermediaries, factioneers, who acted at different levels as a sort of parallel agency, as usual in early modern diplomacy. Furthermore, two main professionals in cultural exchange practices, i. e. bankers and publishers, still wait for a precise examination in relationship to the imperial faction. Sources allow us to shed light on new names of people who intertwined on such a network through their daily activity, consisting in diplomats, officers, and agents of various nature both Austro-Bohemian and Roman. The latter are perhaps of greater interest because of the minority position of the imperial party in Rome. Above all, we should emphasize their long-lasting loyalty, or in other words, the fact that a few Roman families remained faithfully adherents to the imperial faction through several generations. Such a continuity of the networks in action emerges clearly from the cross-checking of the official sources (diplomatic correspondence) with private sources of family archives (correspondence and inventories of goods) from both courts of Rome and Vienna. For this reason, the paper will proceed through examples, classifying topics according to dynasties, figures and appointments or functions, and only secondarily by chronology.

The network of support Throughout the seventeenth century, German presence was certainly not lacking in Rome. In fact in December 1674 count Ernesto Melchiorre di Nuvolara, hofmeister and companion of the prince Anton Florian von Liechtenstein, once arrived incognito with his pupil in Rome, wrote to the latter’s father, Hartmann: “La qualité du Monsieur le Prince Antoine ne se peut aussi cacher, il y à ici trop d’Allemands qui l’ont vue à Vienne”.8 Actually, Nuvolara refers to young noble travellers who came to Rome for a few months during their Kavalierstour in the occasion of the 1675 Jubilee. At that time, cardinal protector Friedrich von Hessen-Darmstadt was in charge of imperial representation, with a not unusual overlapping of ecclesiastical and lay functions.9 It was only twenty years later that such an appointment would be carried out again in full term, precisely by Anton Florian von Liechtenstein, with new splendour and resonance. Nevertheless, the lack of favour in regard to the Empire in Roman so-

Austrian networks in Papal Rome as interpretation key ciety is still outlined by one of Liechtenstein’s successors, count Georg Adam von Martinitz. Although animated by his polemical spirit, his words appear more truthful than Nuvolara’s past flattery: Non vi è in Roma anima vivente che accudisca con zelo agl’interessi dell’Augustissimo Padrone ove all’incontro i Francesi hanno quantità de cardinali, prelati, ed altri stipendiati, e fattionarij, ed in questa forma si puole ben servire, e stare vigilante. Non vi è un principe al Mondo, fuori che l’Imperatore, il quale non habbia molte dipendenze in Roma, gente stipendiata, e quattrini per gasti segreti, spie, ed altri, e questo è un requisito tanto necessario quanto difficile il riuscir bene nella mancanza delle cose sopradette.10

Italian voices also complained that the situation had become difficult for imperial factionarists in Rome: two years later the embassy secretary abbot Dominici, describing the misfortunes of prince Giulio Savelli, one of the most loyal “imperials”, lamented: “Qual stimolo possono avere i Romani d’ossequiare Cesare nella persona del suo ambasciatore se la Cesarea Maestà Sua non li protegge dall’ira di chi li perseguita per esser suoi feudatarij e fattionarj”.11 Except for short favourable periods such as the pontificate of Innocent XI Odescalchi, the support for the imperial interests in Rome appears therefore to have been that of a small minority. However, for this very reason, it had been solidly convinced and supported by a few faithful families reciprocally related over the span of several generations, enticed with career paths and titles, but rarely with fiefs and concrete benefits. The most explicit sources wherein recurring names are to be found are the lists of aristocrats to whom each new ambassador was instructed to pay tribute. They belong to families that at the beginning as well as at the end of the seventeenth century had been active in the great military campaigns on behalf of the Emperor and the Pope as the custodians of the Catholic religion: first the Savelli, the Conti, the Mattei di Paganica,12 later the Santacroce, or the nobility coming from an area across Emilia, Lombardy and Veneto where Habsburg influence had deep roots, such as the Odescalchi, the Pio di Savoia and a few others. When observed from the opposite perspective – that is the visits received from the newly appointed envoy – similar evidences are offered for instance by diplomatic reports from the embassy of Anton Florian von Liechtenstein: Informazione sopra la pretensione, che hanno i Baroni romani Capi delle case Pontificie di non visitare gl’Ambasciatori regij […] per causa di che si rende maggiormente stimabile la prontezza con che D. Livio [Odescalchi], il quale è stato Generale di S.ta Chiesa, et il Principe Savelli, han visitato il Principe Antonio di Linchtestein, senza pretendere uguaglianza di trattamento in casa sua.13

Such long lasting loyalty, as well as the possibility of relying on magnificently furnished residences and established relations, allowed some members of the most faithful families

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Cecilia Mazzetti di Pietralata to receive the appointment of imperial envoy. Among the most notable there were the Savelli, whose loyalty did not allow them any party oscillation but led inexorably to ruin. Even when they had completely lost their financial wealth, their political influence and their propulsive cultural taste, prince Giulio Savelli, the last of his family, was honoured by the Austrian ambassadors upon arrival in Rome according to instructions from Vienna. In the same way, the Conti and the Santacroce declared their inclination towards the imperial party by claiming their ancient origins, in opposition to the more recent nobility represented by popes’ relatives or by whom could afford a fief; to such behaviours and strategies – perhaps also thanks to family ties that had strengthened in the meantime – the Mattei seem to adapt, also deriving their fortunes from the military presence in the imperial ranks. The proximity of the Odescalchi to the imperial party was on the contrary more recent (the title of prince of the Holy Roman Empire had been conferred to Livio – the nephew of Innocent XI – by Leopold I in 1689), having taken advantage of papal politics; Livio Odescalchi had for some respects a more ambiguous position towards the Habsburg’s faction, but the network pattern on a long duration is also valid for his lineage, so much that Livio’s heir Baldassarre Erba was in Vienna when Livio died, and later on a branch of the family would have settled in Austria-Hungary.14 Moving from the diplomatic sources to the private ones, i. e. family archives, the results coincide and integrate effectively. In fact, the presentation of the credentials was followed by a real and lasting correspondence of interests and acquaintances, which constituted the very substance of the imperial party. To confirm the starting hypothesis, letters and other signs of courtesy and reciprocal support can be adduced, – for instance – between cardinal Ernst Adalbert von Harrach or cardinal Franz von Dietrichstein and Paolo Savelli, and decades later, between others Harrachs, (Ferdinand Bonaventura, his son Aloys Thomas Raimund, future viceroy in Naples and his nephew Johann Ernst von Harrach), and the Santacroce, or between them, the ambassadors Anton Florian von Liechtenstein and Leopold Joseph von Lamberg, and again, between Liechtenstein and Livio Odescalchi.

Some examples of Harrachs’ network: Giovanni Battista Barsotti, Nicolò del Giudice The Harrachs are without doubt one of the Austrian lineages to have had the best relations with Italy. The family had already experienced diplomatic service for the Habsburgs in Italy, since Leonhard V von Harrach had been imperial ambassador to Rome between 1581 and 1594 and Karl von Harrach in Venice in 1618. Cardinal Ernst Adalbert von Harrach – in his youth a student of the German College in Rome – in 1632 had arrived in the Papal city as extraordinary envoy. Like

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Fig. 1 Marc’Antonio Pasqualini after Guercino, Caritas, engraving, Rome, Biblioteca Casanatense

cardinal Franz von Dietrichstein, cardinal Harrach apart from having been a protagonist of the Counter Reformation in Bohemia,15 was also great friend of the Savellis and often a guest in their Roman palace.16 Such a relationship must have been strengthened by common artistic interests: the engraver Marcantonio Pasqualini dedicated to cardinal Harrach a print after Guercino’s Caritas (fig. 1), apparently conceived in series with the Voluntas, Intellectus and Memoria dedicated to general Federico Savelli before 1627.17 Harrach’s diaries and his vast correspondence in the family archive at the Österreichisches Staatsarchiv offer rich documentation of his network. In fact, he is now acknowledged as the main mediator of Italian culture in Bohemia, not only for his translations of Italian texts, but also due to his active Italian networks.18 For instance, he corresponded with Johannes Faber, the well-known member of the Accademia dei Lincei and botanist at the papal court, who sent him to Prague a copy of Federico Cesi’s Apiario and some rare seeds.19 In the reports from Rome, cardinal Harrach was noted as having become fully Italian,20 and among his closest collaborators and agents were to be found Italians as key figures, such as the maggiordomo, the prelate Giuseppe Corti, and the maestro di camera, the bishop of Costanza Giovanni Battista Barsotti, a native from Lucca.

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Cecilia Mazzetti di Pietralata The latter was even considered as becoming too Roman, “arromanescato”, as mentioned by cardinal Mattei in the 1644 conclave.21 But in effect, he had also the skills required from German speaking circles; an agent of cardinal Harrach underlines Barsotti’s knowledge of the German language and the acquaintance of all his family through the generations with “conti e cavalieri dell’Impero […] da che si prova […] non essere originata questa dependenza frescamente con la Germania, ma radicata già per lo spazio d’anni 150 in circa col mezzo delli suoi antenati”.22 Barsotti, himself a collector of relics and paintings mainly by Nordic artists,23 was a faithful informer of Harrach; he sent gossipy chronicles from Rome and dealt with the Harrach’s affairs, above all the authorizations for the Carolina University in Prague and the postulations of the Bohemian saints, but also with financial issues.24 As an implicit part of his duties, he gave aid to the Germans visiting the city, at times overwhelmed by similar tasks: “Il figlio del maestro delle poste di Neuhaus se ne sta qua in gran miseria attendendo rimessa del padre, l’ho usato qualche poco d’amorevolezza, ma non posso supplire che in capo dell’anno concorrono da me troppi oltramontani”.25 Among the issues he dealt with, there is the sending of objects by request of the cardinal, especially rosaries and relics, and information regarding tapestries on sale in Rome or about diplomatic gifts. He also suggested artistic undertakings in Roman churches to be commissioned on behalf of cardinal Harrach or for himself as a sign of representation and identity.26 To sum up, Barsotti was able to recognize both the intrinsic and symbolic quality and value of art objects, and his protector was also a sensitive interlocutor. Noteworthy for instance is the hitherto unknown report on 4 September 1638, sent after a return trip together with count Giuseppe Silvio Piccolomini from Vienna to Lucca. He was impressed, above all, by a painting they had seen during their stay in Bologna; they had been housed then in the palace Caprara, one “of the most beautiful in Bologna”, they had been invited to a banquet by the papal legate cardinal Sacchetti, and finally they visited “il signor Guido Reni eccellentissimo Pittore, e tra l’altre sue opere che vedemmo singolari fu un quadro grandissimo che fa fare il signor Cardinale Barberino, per donare al Re d’Inghilterra”.27 It can only have been the famous painting of Bacchus and Ariadne, commissioned to the Bolognese painter by cardinal Barberini through the mediation of the cardinal legato Sacchetti as a gift to the English queen Henrietta Maria, but never delivered and only later, in 1647, arrived in France. There, the painting was irreversibly damaged, and now it is known through copies and engravings (fig. 2).28 Barsotti’s report will strengthen the new reconstruction by Mattia Biffis who, referring to an annotation in cardinal Harrach’s diary on 19 January 1646, hypothesizes that in a later time, the painting had been offered by cardinal Barberini as a gift to Sir Walter Leslie, imperial agent in Rome in the spring of 1645. Biffis underlines how the destination of Reni’s painting still had diplomatic purposes, however radically changing its orientation.29 The imperial option emerges years after Barsotti’s letter, but with his reports he somehow contributed to

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Fig. 2 Giovan Battista Bolognini after Guido Reni, Bacchus and Ariadne, etching, New York, Metropolitan Museum of Art

prepare the grounds among northern diplomats and connoisseurs, who were certainly already aware of the “diplomatic” value of Guido Reni throughout Europe and of the regal connotation of his works. In following generations other Harrach obtained diplomatic appointments. The well-known art collector Aloys Thomas Raimund von Harrach was named viceroy of Naples in the years 1728–1733, while his son Johann Ernst had been destined to an ecclesiastical profession. The latter’s career was actually not entirely pursued, because he suddenly died of smallpox in December 1739 at the age of 37.30 This was precisely when he was being fully established as a reference point for the Austrians in Rome.31 Until death, he had been appointed as auditor of Rota and bishop of Nitra by the pope,32 and as plenipotentiary representative by the emperor;33 his features are known thanks to an ink drawing by Pier Leone Ghezzi, auctioned in past years (fig. 3).34 A large number of letters written by Johann Ernst are preserved among the Viennese diplomatic reports and in the family archive. Further papers also concern him, namely letters exchanged between his father Aloys Thomas Raymund and the cardinal protector of the Habsburg Lands Nicolò del Giudice, with whom – on the specific instructions of the emperor – bishop Harrach acted together as imperial representative. It is del Giudice, a passionate collector of ancient and modern painting,35 who sent count Harrach a pastel portrait of his son by the hand of Agostino Masucci, and who fed him information regarding the auditor’s possessions: the library and papers were sent home through another key figure in the German network, the banker Fortunato Cervelli, who from Ferrara dealt with logistics and transport. From the latter’s correspondence we learn that 26 cases of books and others objects passed through Ferrara on 10 May 1740,36 while – Nicolò del

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Fig. 3 Pier Leone Ghezzi, Portrait of Johann Ernst von Harrach, pen and ink, private collection

Giudice notes – the rest of the clothes, silverware, tapestries, carriages and every other piece of furniture had been successfully auctioned in Rome. Unfortunately, information dries up here without giving us further clues about this auction, because in the meantime a more important matter had taken over in del Giudice’s correspondence, that of the conclave from which Benedict XIV Lambertini would be elected.

Michael Friedrich von Althann (with Paolo and Domenico Bernini, Agostino Cornacchini) The role of auditor of Rota held by Johann Ernst von Harrach was a main step in the cursus honorum towards a future career as a cardinal, eventually as an ambassador to the court of Rome, and so forth as viceroy of Naples since the time Austria had taken over

Austrian networks in Papal Rome as interpretation key as a city government.37 Furthermore, an auditor of Rota was required to reside in Rome, which allowed him a deep understanding of the papal court. What must have been the perspective of the young Harrach interrupted by adverse fate, was on the contrary fulfilled by Michael Friedrich von Althann, former student and then rector of the Germanic College, from 1714 auditor of Rota, cardinal in 1718, ambassador to Rome in 1720–1722 and immediately after that viceroy of Naples,38 where he made himself known for the patronage of public feasts and as a dedicatee of musical and theatrical texts. More recently he has been acknowledged as the main mediator of the gift of the Holy Face, now preserved in the Kunsthistorisches Museum, that was given by Caterina Savelli, widow of prince Giulio, to the emperor in 1721.39 A payment of one hundred scudi to Paolo Bernini, the son of Gianlorenzo and a sculptor himself, dates back to Althann’s Roman years, at the time when the prelate was auditor of the Rota, since it is registered in his account at the Banco di Santo Spirito on 2 May 1716.40 Up to now, no relationship of Althann’s with the Berninis was known; yet the contact certified by the payment did not have to be episodic, since the sculptor’s brother, Domenico Bernini, also a rotal auditor, in the following year 1717 published a treatise on the Tribunal of the Sacra Rota in which Michael Friedrich Althann was given a special celebration together with his ancestor, general Adolf von Althann, the one who supplied his Viennese property am Hof as the seat of the pontifical nunciature and whose miraculous conversion to Catholicism is explicitely exalted in Bernini’s text: “la sua miracolosa conversione dalla Setta Luterana alla Religione Cattolica”.41 Indeed, Adolf von Althann had become the protagonist of a miraculous event on the Prague bridge, suitable to a narrative in favour of Catholic propaganda: Come ch’egli fu prode in arme, e condottier famoso di eserciti, doppo la battaglia di Praga, in cui sconfisse gli Heretici ribelli della Bohemia, in passando per il gran Ponte di quella città, né volendo ad onta de’ Cattolici salutar l’imagine di un Crocifisso, si vidde improvisamente rotto sotto i piedi tutto il gran masso di travertini, di cui era composto quel ponte, onde dato di piglio al cappello, e salutata frettolosamente l’imagine, e quindi ricompaginatosi con la medesima celerità il ponte, sorpreso al miracolo, adorò col cuore quello che prima non haveva voluto salutar con la mano, e abiurata l’Heresia, si fé tutore di poveri, e di pupilli, benefattore di quattro collegi, e di sette case in Vienna, che donò a’ Padri della Compagnia di Giesù, e di altre due alla Sede Apostolica che presentemente servono di habitazione a i Nunzi Pontifici, e largo dispensatore di tutte le sue argenterie, e ricchezze in sollevamento, e refrigero de’ bisognosi. Sol tanto ci giova qui dire di quest’illustre, e pio principe, di cui forse la più rara, e bella gloria si è l’haver dato a Roma, e al Tribunal cospicuo della Sacra Rota di Roma il più prezioso della sua famiglia, Michel Federico d’Althann Auditor presentemente della Sacra Rota, soggetto di gran speranze, che nella virtù uguaglia, ma nella dottrina sorpassa il suo grand’avo.42

The cardinal must have been interested in sculpture, because in 1730–1731 he commissioned a statue of saint John Nepomuk to be placed on the Milvian Bridge (fig. 4),43 the first approach to the city for travellers coming from the North, to Agostino Cornac-

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Fig. 4 Agostino Cornacchini, Saint John Nepomuk, marble, Rome, Ponte Milvio

chini – the author of Charlemagne boldly placed in front of Gianlorenzo Bernini’s Constantine in the narthex of San Pietro.44 The tradition tells that bishop John Nepomuk died after being thrown from the Prague bridge into the Vltava River in 1383 for having wanted to keep the secret of confession made to him by the queen. Acknowledging this story, the saint was canonized in 1729.45 Considering the old and new elements that emerged from the research, namely: the proximity of the Bernini brothers to the patron, cardinal Althann. Domenico Bernini’s narrative of the miraculous conversion on the Prague bridge within a treatise dedicated to the office performed by the patron himself. Finally, the commission of the statue to be placed on a bridge symbolically related to Constantine’s imagery, where the balance of powers between the Papacy and the Empire found its legendary roots and where Costantino’s victory after the vision of the Holy Cross, according to the iconographical tradition, allowed Christianity being established as the favoured religion within the late Roman Empire.46 Assuming all that, one can also read in Althann’s commission to Cornacchini the re-enactment of a key episode in the cardinal’s family history, made national – because saint John Nepomuk was the Bohemian saint par excellence and was actually becoming also a key figure in Habsburg representation – and universal – because the statue was placed in Rome, seat of the papal court of which Althann was part as “prince of the Church”, right where emperor Constatine triumphed “in signo Crucis”.

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Anton Florian von Liechtenstein Before Althann, other figures had been representing the imperial interests in Rome. Diplomatic correspondence, if analysed over a long period and in a comparative perspective, is capable of providing an effective portrait of different characters and behaviours. After a long vacation, prince Anton Florian von Liechtenstein was appointed as permanent ambassador, following his long-lasting mission to the conclave in 1689. During his educational journey as above mentioned, the prince had been well acquainted within roman-german circles. For example he mentioned Athanasius Kircher among his closest friends: “il padre Kirchner è amico mio grande, e non passa quasi giorno di festa o ricreatione che io non vadi [sic] da lui, a discorrer o imparar qualche cosa di matematica”.47 Liechtenstein’s embassy was highly appreciated by the informers for the good relations the prince had with the Roman nobility and for his magnificent behaviour, as summarized by cardinal Johannes von Goes on 14 September 1691: il zelo e l’attenzione del sig.r Prencipe al servizio di Sua Maestà Ces.a non può essere maggiore, e che le sue insigni qualità e virtù gli hanno acquistato una stima particolare appresso il Papa, et universalmente in tutta Roma, e quanto alle spese, egli ben si vive con decoro, ma non eccede, anzi sa usare dove si può, di qualche industria per risparmiarle […] Questo decoro, massime in Roma, in concorrenza d’Ambasciatori della maggior parte de Prencipi Cristiani, lo richiede l’istesso servizio dell’Imperatore. Da molti anni in qua non vi si sono visti Amb.ri Cesarei, e pure importa tanto […] di tenervi nel dovuto credito il nome e la riputazione cesarea.48

and by Pompeo Scarlatti on 12 January 1692: Il sig. Principe Ambasciatore si governa colla sua solita prudenza. Si è reso accetto à tutti colle sue maniere, che in oggi hanno indotto gli altri à prender confidenza seco, che è il punto al quale dovevano tendere le nostre mire. La Plebe l’adora, come suol fare in questa città di quelli che spendono, e pagano puntualmente, il che è molto raro.49

Indeed, he had made a big effort in order to give his consignment a good start right from the very beginning: Si è presa gran quantità di gente in casa, si son fatte carrozze nuove in quantità e qualità ragguardevoli, si sono comprati cavalli in copia, si addobba adesso un gran Palazzo con ricchissimi mobili come se si havesse la certezza di doversi fermare cent’anni in questo paese.50

The iconography of his solemn entrance, with the parade of carved carriages representing the defeated Turks proceeding on the square of Montecavallo, is perhaps the most studied aspect of his Roman activity (fig. 5).51 However, his artistic interests had remained in the background, overshadowed by his cousin Johann Adam Andreas, a wellknown patron and collector. Anton Florian was yet well acquainted in cultural networks

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Fig. 5 Gomar Wouters, Prospetto del Palazzo Pontificio nel Quirinale detto Montecavallo con la solenne comparsa delle sontuose carrozze dell’Ecc.mo Signor Prencipe Antonio Floriano de Liechtenstein, etching

too, since he was member of the Arcadia under the name of Pallante Artemisio,52 and friend and patron of Andrea Pozzo, who dedicated to the ambassador his open letter on the frescoes in Sant’ Ignazio, printed in Rome by the Bohemian publisher Komarek in 1694.53 The archives offer hitherto unknown clues about Liechtenstein’s artistic relationships within the roman milieu. For instance, accounts and receipts dating back to his Roman years give evidence of payments in favour of the painter Isidoro Reali, the architect Pietro Paolo Barigioni, the “intagliatore” Giovan Battista Briotti, the musician Giovan Battista Borri, the art dealer and erudite Claudio Gosset, and the count Bonifacio Corbelli, who acted in Venice also as an agent of count Ferdinand Bonaventura von Harrach.54 Many purchases must had been made without being reported by his “maestro di casa” Felice Cameresio,55 while the most delicate affairs, whether or not of a political or artistic nature, were handled through the embassy secretary, Franz Freiherr von Sassinet (Chassignet in archival sources). Anton Florian himself became an agent for his cousin Johann Adam Andreas in the purchases of Italian paintings, as his letters show.56 The 700 scudi given by Sassinet to Maratta in March 1695, presumably for the Bathseba recently rediscovered in the Vienna Museum,57 should have been the final act of a mediation carried out during Liechtenstein’s stay in Rome until 1694.

Austrian networks in Papal Rome as interpretation key Anton Florian von Liechtenstein and his wife also cultivated solid relations with the main exponents of the imperial faction in Rome, above all the Santacroce and Livio Odescalchi. Relevant correspondences, both during his stay in Rome and later, show that the “Habsburg roman-viennese network” guaranteed an international circulation of artists at all times. Two examples reveal the reciprocity: Liechtenstein wrote from Vienna on the 15 September 1699 to Livio Odescalchi presenting a certain Abbot Fechler, who would go to Rome to improve his ability in the art of music;58 a few years later, on 7 February 1705, Livio Odescalchi wrote to Anton Florian, then in Lisbon, asking for protection for Marco Antonio Bertioli, grandson of the “cav. Mattia de Rossi, di lui zio, soggetto di tanta stima nell’architettura e si partiale della mia casa.”59

Georg Adam von Martinitz Despite Liechtenstein’s good relations within the Roman society at the time of his appointment, the future controversies had been arising on the horizon. With the fiery count Martiniz relations between the courts could only get worse.60 The reports of Martiniz and those of his secretaries and agents are among the richest in news regarding feasts, ceremonies and gifts including works of art; even if he doesn’t appear a patron of the arts as active as he does for music and theatre, nevertheless he is a fine observer and reporter of fresh news, such as the commission of a bust of the queen of Poland by cardinal Ottoboni: Il predetto cardinale Otthoboni per corrispondere alle dimostrazioni della prefata Regina [di Polonia], havendo veduto, che nella sua Galleria vi era una statua rappresentante la Regina di Svezia, ordinò se ne fosse fatta un’altra simile à quella, e che dovesse rappresentare la sudetta Regina di Polonia, per collocarla nell’istessa Galleria.61

Since the beginning Martiniz’s message had been yet on the contrary to that of Liechtenstein: the latter had furnished a palace “al Gesù”62 largely obtaining the furnishings on a loan basis and employing Roman handcrafters in preparing his official entrance.63 On the contrary Martinitz in his residence “ai Giubbonari” exhibited beautiful tapestries coming from Vienna which had never been seen in Rome: Primo tiene il Palazzo Barberini per il quale solo paga di pigione scudi mille e novanta […] Secondo Tiene apparate quattordici stanze […]. La Camera dell’Ambasciatore per cui vi è l’apparato per l’estate di damasco cremesi, e drappo d’oro, al presente è addobbata di Tappezzarie di Arazzi di gran prezzo, che ha portati seco, e benché siano nuovi, e mai posti in opera, pure sono stati veduti da molti ministri in Vienna, e qui tutti quelli che gli han veduti asseriscono non haver mai veduto in Roma cosa simile.64

In this same report members of the ambassador’s household in Rome are also listed. The first among the gentlemen is the marquis Zenobio Palombara, whose main selling point

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Cecilia Mazzetti di Pietralata dwelled in him being a relative of prince Savelli; the “maestro di camera” is the nobleman Giovanni Battista Nappi from Ancona,65 also from a family once closely linked to the Savelli, at the time when they kept providing gifts and “galanterie” to the emperor’s court that could be shipped from Ancona. Apart from Palombara and very few others, almost no other member of Martiniz’s household is Roman. There were some Italians from northern lands, but above all Austrians and Bavarians had been recruited. Such a choice clearly distinguishes Martiniz’s strategy from his predecessor Liechtenstein, who had instead tried to employ Roman workers as much as possible and to introduce himself amiably into the society of the city at all levels. Martiniz had the misfortune of facing conflicts that were inevitably brewing earlier, but he took up his task with rigid imperial loyalty, resulting with a resounding diplomatic failure and ultimately being rejected by Roman high society.

The Santacroce Martinitz’s conflicting mission is dealth with in letters travelling from Vienna to Rome, written by the nuncio Andrea Santacroce, who was informed about the rumors in the imperial court as well as about the roman opinions. As being intimate not only of Liechtenstein but also of count Leopold Joseph Lamberg, i. e. Martinitz’s successor, the whole Santacroce lineage appears to have been the true prosecutor of the policy once supported by the Savellis in the first half of the seventeenth century. The imperial connections of the Santacroce were already established by then, but above all through monsignor Andrea, nuncio to the Emperor, through the marquis Antonio – whom Lichtenstein mentioned as being “Cavaliere de più spiritosi di questa corte e d’una delle migliori famiglie usa meco ogni atto d’ossequio, e di zelo per il suo servizio cesareo”66 – and through his son Scipione, the network of imperial relations is consolidated both in Rome and at the court of Vienna. The latter, in fact, forced to leave Rome after a duel, found refuge in Vienna,67 where he was appointed as theatre superintendent, and ended up in enlisting with prince Eugene. Thereafter he returned to Rome and carried out diplomatic assignments on behalf of the emperor: plenipotentiary in 1721, extraordinary ambassador at the conclaves of 1730 and 1740, and finally ambassador to Venice in 1743. In a long undated memorial that should have been presumably sent to the emperor in order to obtain some honour, he commemorated his merits towards the Habsburg, adopting the same pattern once showed by the Savelli. As the few other roman families inclined to the imperial faction, they found themselves in the unstable position of being between the imperial and papal authorities: Quanto la famiglia Santacroce di Roma sia in ogni tempo stata divota all’Augustissima casa d’Austria di Spagna e di Germania lo comprovano non meno gli Autori, che i Diplomi degl’Imperatori e de Monarchi di Spagna […] Su l’esempio de loro antenati anno sempre conti-

Austrian networks in Papal Rome as interpretation key nuato nell’istesso zelo verso l’Aug.ma casa l’ultimo card.le S.ta Croce, ed il March.se di lui fratello, e Padre rispettivamente del Principe d’oggi. […] In Roma poi si persuade che non sia ignota a verun ministro la sua indefessa applicazione per lo Cesareo Real servizio in tutte le occasioni senza risparmio di spese, e francamente può dire d’esser l’unico, che a visiera alzata in qualunque impegno ed evento ha assistito, ed assiste ai ministri della M.tà Sua. Nei conclavi poi dal principio fin all’ultimo ha sempre operato facendo uso di tutti i suoi amici, e Parenti, e per l’unione del partito Cesareo, e per accrescerlo e per penetrare le mire delle fazioni contrarie, e per farle dileguare non risparmiando qualunque spesa à detto fine, e crede sicuramente che non meno gli Ambasciatori straordinari pro tempore, che il ministro ordinario ne abbiano pienamente ragguagliato la Maestà Sua, ed il suo Ministero. […] La sua casa è stata l’unica che abbia avuta questa gloria, mentre pria del possesso d’Italia niun’altra casa era del partito.68

Finally back in Rome after his Viennese journey, Scipione qualified as loyal to the imperial interests, once more active in transmitting cultural trends. Indeed, palazzo Santacroce had already been frequented for decades by poets and “arcadi” on the one hand and by the travelling Austrian nobility on the other, thanks to the marquise mother, Gerolama Naro, a clever figure fully involved in cultural and political exchange of objects, texts and information;69 later, prince Scipione kept hosting theatre and music in his family residence, surrounded by his collection of paintings and sculpture. Shortly before receiving from Vienna representative assignments, Santacroce sent the products of the finest local craftsmanship, which was sought-after throughout Europe: cameos to the count of Ulfeldt,70 painted fans handcrafted by the most renowned specialists of the time to the empress. Scipione in fact writes: di far presentare alla maestà dell’Imperatrice un saggio di sei ventagli, frutti, che prodotti in questo paese sogliono riscuotere dalle nazioni qualche stima particolare. […] E quando tal’uno de sudetti ventagli incontrassero la buona sorte di special gradimento ne attendo dalla di lei sperimentata parzialità un fedele rincontro, perche essendo tutti di mano diversa, potrei procurarmi la gloria di secondare con nuovo simile tributo compatimento si generoso.71

The following undated description unearthed in a miscellaneous group of papers definitely regards the six fans: Nel ventaglio miniato, che esiste il Ritratto dell’Augustissimo Imperatore sostenuto da alcune Deità, si rappresenta colle tre figure di mezzo l’Abbondanza. Dall’altra parte Nettuno, che offerendo un mercante con varie merci, rappresenta il comercio del mare, e dall’altra il Danubio. Altro simile, rappresenta Abbigail, che offerisce quantità di viveri à David, quando andava fugitivo. Altro simile, rappresenta Livia moglie di Augusto, che fa presentar doni al Tempio di Gerusalemme, come riferisce Gioseppe istorico Altro à penna, rappresenta la Divina Sapienza Altro simile, uno sposalizio antico, ricavato dà un originale di Appelle, che viveva in tempo di Alessandro Magno Altro simile, il Giudizio di Paride72

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Cecilia Mazzetti di Pietralata Thanks to Scipione’s register of expenses dating 1734 relevant authors can be identified: “1 febbraio [1734] a Gaspare Mannucci per quattro manici di ventagli di madreperla lavorati e una pelle dipinta scudi 55 […] 5 febbraio Gaetano Gallella per un ventaglio miniato a penna”.73 The precious gift slightly precedes the honour granted to Scipio to present the Chinea to the pontiff on behalf of the emperor, breaking thus the tradition that dates back to the Spanish rule of the vice-kingdom in Naples, which saw the task entrusted to the Constable Colonna. That year the presentation of the Chinea had been a controversial issue. It is probably for this reason that there is no commemorative print of the musical performance outside palazzo Santacroce, held on 28–29 June 1734.74 Nevertheless, the Santacroces’ payment records help in reconstructing the feast. Between May and July 1734 all the expenses appear in Scipione’s accounts: carriages with all their ornaments, splendid liveries, plumed hats, wigs, silverware, 1500 lanterns with embossed coats of arms, and the printing of theatre play booklets covered with golden paper, entrusted to the bohemian Komarek.75 Architect Gabriele Valvassori designed the scenography, Costantino Petroni was entrusted with the music, and the text was composed by the brother of the poet Silvio Stampiglia, i. e. Nunzio Servilio, known as Ermauro Panormio in the academy of Arcadia.76 He was famous for serenades, cantatas and oratories performed in Vienna from 1708 to 1711, at the time when Scipio supervised the court theatre.77 The perseverance in maintaining a network of pro-imperial relations and in cultivating German contacts can be seen even in the small purchases that can be traced in the account papers, such as the two crystal dessert sets that in 1737 Scipione Santacroce bought through the canon Bleck from the inheritance of the ambassador count of Plettenberg, who had recently died in Vienna.78

Guido Reni as a master key of diplomacy It is not easy to identify a specifically “austrian” orientation in the collecting choices of the supporters of the imperial faction between the sixteenth and eighteenth centuries, beyond the rather obvious presence of Habsburg portraits. However, the hitherto unknown post mortem inventory of Scipione Santacroce can give us some clues.79 Along with paintings’ descriptions, there are appraisal records undersigned by the painter Pier Leone Ghezzi, regarding only the items that had been acquired by Scipione and not those paintings already collected by his ancestors. The cross-checking of the evaluated items in Scipione’s inventory with later Santacroce inventories which record attributions allows us to understand which ones were the most precious paintings: an “Europa con Amorini”, estimated 400 scudi by Ghezzi and an Assumption of the Virgin of even 2000 scudi, which with no doubt are the same attributed to Guido Reni in later documents.80 Even if it is difficult to clearly identify

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Fig. 6

Guido Reni, Assumption, oil on silk, Munich, Alte Pinakothek

the pieces among Reni’s autograph or workshop replicas of these subjects, such a high appraisal suggests they were originals, or at least considered as such. But even more important, in the present framework, is that their prototypes were works of sovereign rank: by then the Assumption now in Munich81 was probably already in the collection of Johann Wilhelm von der Pfalz, who was an ally and relative of the Habsburg (fig. 6). As for the Abduction of Europe, Reni executed two canvas with this subject, for Charles I of England and for Wladislaw IV of Poland; in this second commission around 1640

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Cecilia Mazzetti di Pietralata cardinal Antonio Santacroce seems to have had an intermediary role.82 Moreover, decades later Scipione’s uncle Andrea Santacroce was nuncio in Poland, immediately before his Viennese assignment. No doubt the Santacroce were aware of the value of their paintings and of the esteem enjoyed by Reni’s works, capable of opening every door, as can be deduced from an exchange of letters between the marquise Santacroce and her son Scipione in 1712 about a gift for cardinal Albani, probably aimed to facilitate papal absolution and allow the return of Santacroce in Rome. The marquise didn’t agree with her daughter in law in giving away a beautiful Madonna by Guido Reni, proposing instead a work of Baldassare Peruzzi: Baldassar da Siena Autore in egual stima di Daniele da Volterra scolari ambedue di Michell’Angelo si aspetta di farlo vedere ad un altro Pittore assai accreditato in materia di cognittione de quadri. La sig.ra Marchesa inclinarebbe di dare la Bellissima Madonna di Guido Reni, ma io per dirla giusta per darla a discrezione non ne farei niente.83

Scipione too didn’t want to be separated from his Madonna, not even to donate it to the imperial ambassador Ercole Turinetti di Priero, giving us a clue regarding the provenance of the painting: Rispondo a ciò che ella mi domanda in quanto al s.re Marchese di Prié […] non crederei male di fargli in regalo in mio nome di un quadro quale potrà lei scieglierlo a suo modo purché non sia la madonna donatami dall’Ottaviani confermandole di novo ciò che le scrissi l’ordinario passato a riguardo del s.re C.le Albani essendo io risoluto di non privarmi di simil pezzo”.84

If the name of Guido Reni found a vast audience in a post-marattesque panorama, his inventions originally intended for European sovereigns enhanced even more the appraisal of his works, which was by then guaranteed not so much from the style as by the rank of the prototype, in a framework of supranational taste, typical of the contemporary elites. Already in the 1620s, Paolo Savelli used his relations for providing paintings by Reni for the emperor;85 after a few decades, Barsotti was strongly impressed by Reni’s work destined to the Queen of England and promptly reported it to Harrach. With the Santacroce documentation, the fame achieved by the works of the Bolognese painter becomes even more concretely measurable, in terms of monetary value and potential diplomatic effects. With the case-study of the Abduction of Helen, Anthony Colantuono has demonstrated to great effect how Reni’s painting had been used as a form of diplomatic communication during the Thirty Years War and that enhancing diplomatic strategies through pictorial diplomacy included also high quality copies.86 Taking a step further, it could therefore be assumed that Reni’s work became significant in itself, or in other words, his paintings were symbolical objects not only for their iconography or authorship, but also for the distinction of their first recipients.

Austrian networks in Papal Rome as interpretation key Rather than showing their identity through stylistic or geographical choices, the figures recalled in this paper intended to distinguish themselves as collectors able to be on a par with the European sovereigns, and possibly the Habsburg and central Europeans ones. In conclusion, it is difficult to identify common choices in art collecting among the Roman adherents to the imperial faction over a long period, except for a certain propensity for classicist painting of the Roman and Bolognese schools (i. e. the painting of the Papal State). It is crucial instead the possibility of verifying the activity of the imperial network in Rome, as partially illustrated above, in order to understand the paths of collecting that followed, those taken by the paintings owned by Roman families in gradual decline. It had been the case, for instance, of the two pictures depicting Savelli’s embassy of 1620, later acquired by cardinal del Giudice and finally arrived respectively in the Harrach and Fürstenberg collections.87 Through the correspondence, it is possible to see the same network being activated for purchases, gifts or commissions, either of huge or modest relevance. The fact that many Roman paintings made their way to Habsburg lands was certainly favoured by the long-lasting frequentation among the same families, but the historical routes taken are for the most part individual and still to be clarified.88

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Cecilia Mazzetti di Pietralata 1 As main reference for the imperial representation in Rome from the XVII to the XVIII century see collected essays in: La corte di Roma tra Cinque e Seicento “teatro” della politica europea, ed. M. A. Visceglia, G. Signorotto, Roma, Bulzoni, 1998; Kaiserhof – Papsthof (16.–18. Jahrhundert), ed. R. Bösel, G. Klingenstein, A. Koller, Wien, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2006; L’Impero e l’Italia nella prima età moderna, ed. M. Schnettger, M. Verga, Berlin, Duncker & Humblot, 2006; A. Koller, Imperator und Pontifex. Forschungen zum Verhältnis von Kaiserhof und römischer Kurie im Zeitalter der Konfessionalisierung (1555–1648), Münster, Aschendorff, 2012; Papato e Impero nel Pontificato di Urbano VIII (1623–1644), ed. I. Fosi, A. Koller, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2013. But also, with an art historical perspective: J. Garms, Les activités artistiques des confraternités germaniques, in Les Fondations nationales dans la Rome pontificale, atti del convegno, Roma 1978, Torino, La Bottega d’Erasmo, 1981, pp. 47–60; R. Bösel, Ein Projekt im Auftrag Ferdinands II. für das Ignatius-Heiligtum in der römischen Kirche “Il Gesù”, in Kaiserhof – Papsthof, cit. pp. 225–249; F. Polleross, Die Kunst der Diplomatie. Auf den Spuren des kaiserlichen Botschafters Leopold Joseph Graf von Lamberg (1653–1706), Petersberg, Imhof, 2010; J. Garms, Il ruolo dell’impero e degli stati tedeschi nella Roma barocca, in “Studi Romani”, 62, 2014, pp. 232–241; M. Krummholz, Habsburgische Propaganda des kaiserlichen Botschafters am päpstlichen Hof am Beispiel des Gesandten Johann Wenzel von Gallas (1714–1719), in Die Repräsentation der Habsburg-Lothringischen Dynastie in Musik, visuellen Medien und Architektur, ed. W. Telesko, Wien/Köln/Weimar, Böhlau, 2017, pp. 263–283; F. Polleross, Carlo Fontana e i rappresentanti imperiali a Roma, in Carlo Fontana 1638–1714 celebrato architetto, atti del convegno Roma 2014, Roma, Accademia Nazionale di S. Luca, 2017, pp. 223–232. 2 See P. Broggio, L’ “Urbs” e il mondo. Note sulla presenza degli stranieri nel Collegio Romano e sugli orizzonti geografici della “formazione romana” tra XVI e XVII secolo, in “Rivista di storia della Chiesa in Italia”, 56, 2002, pp. 81–120. 3 R. Blaas, Das kaiserliche Auditoriat bei der Sacra Rota Romana, in “Mitteilungen des Österreichischen Staatsarchiv”, 11, 1958, pp. 37–152; A. Gnavi, Carriere e Curia romana: l’Uditorato di Rota (1472–1870), in “Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée”, 106, 1994, pp. 161–202. 4 On the multiple agencies of Motmann see P. Tusor, Un “residente d’Ungheria” a Roma nel Seicento (C. H. Motmann uditore di Rota, agente del cardinale Pázmány), in “Nova Corvina. Rivista di italianistica”, 13, 2002, pp. 8–21. 5 J. Wodka, Zur Geschichte der nationalen Protektorate der Kardinäle an der römischen Kurie, Innsbruck, Rauch, 1938; R. Blaas, Das Kardinalprotektorat der deutschen und der österreichischen Nation im 18. und 19. Jahrhundert, in “Mitteilungen des Österreichischen Staatsarchiv”, 10, 1957, pp. 148–185. More recently: P. Tusor, I cardinali della corona e i protettori del Regno d’Ungheria (o degli Stati Asburgici) tra Quattro e Seicento, in Gli “angeli custodi” delle monarchie: i cardinali protettori delle nazioni, ed. M. Sanfilippo, P. Tusor, Viterbo, Sette Città, 2018, pp. 251–276. 6 Santa Maria dell’Anima has been deeply studied; see lastly T. Daniels, Von landsmannschaftlicher Repräsentanz zu konfessioneller Propaganda: die St.-Benno-Kapelle in Santa Maria dell’Anima (15.– 17. Jahrhundert), in Identità e rappresentazione. Le chiese nazionali a Roma. 1450–1650, ed. A. Koller, S. Kubersky-Piredda, Roma, Campisano, 2015, pp. 179–210; T. Daniels, La chiesa di Santa Maria dell’Anima tra Papato e Impero (secoli XVXVII), in Chiese e “nationes” a Roma: dalla Scandinavia ai Balcani (secoli XVXVIII), ed. A. Molnár, G. Pizzorusso, M. Sanfilippo, Roma, Viella, 2017, pp. 77–95; and S. Kubersky-Piredda, T. Daniels, Santa Maria dell’Anima, Ruswil, Artaphot.ch, 2020.

Austrian networks in Papal Rome as interpretation key 7 Garms, Les activités artistiques, cit. On the Camposanto Teutonico see now Il Camposanto Teutonico, ed. M. Bettoni Pojaghi, C. Cumbo, Roma, Pagine, 2019. 8 Vienna, Hausarchiv der regierenden Fürsten von Liechtenstein, Familienarchiv (AL/FA), HA 98, Nuvolara to Hartmann von Liechtenstein, 22 December 1674. 9 He was encharged with diplomatic duties by the Pope as well, for instance at the arrival of Queen Christine of Sweden in Rome. Soon after he was named Governor of Slesia, and he founded the Saint Elisabeth chapel in the Wrocław cathedral, decorated with sculptures imported from Rome. On his journey through Vienna coming back from Rome in 1676 see: A. Wojtyła, Podróż kardynała von Hessen-Darmstadt z Rzymu do Wrocławia i jej artystyczna oprawa, in “Italica Wratislaviensia”, 5, 2014, pp. 109–121, with literature on cardinal’s biography. Antonio Santacroce and Anton Florian von Liechtenstein discussed together pro domo sua the advantage for the emperor to send a lay ambassador instead of an ecclesiastical: AL/FA, HA 116, letters of 6 May 1702. They informed each other about events in Naples during and after the conspiracy of Macchia. 10 Vienna, Österreichisches Staatsarchiv ÖStA, HHStA, Rom Korr. 78, Martinitz to Father Edera, 26 January 1697. 11 ÖStA, HHStA, Rom Korr. 79, 14 February 1699. 12 On the Mattei di Paganica see F. Curti in this volume. 13 ÖStA, HHStA, Rom Korr 72, undated. 14 In fact, the memorandum on the sale of the Livio’s art collection was sent by Francesco Sensini to Baldassarre Erba in Vienna; for the document see M. Epifani, Una lotteria nella Roma del primo Settecento: i quadri di Francesco Alessandro Sensini, spedizioniere, in “Paragone”, 57, 2006, n. 68, pp. 90–103. 15 A. Catalano, La Boemia e la riconquista delle coscienze: Ernst Adalbert von Harrach e la Controriforma in Europa centrale (1620–1667), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2005; Die Diarien und Tagzettel des Kardinals Ernst Adalbert von Harrach, ed. A. Catalano, K. Keller, 7 voll., Wien / Köln/Weimar, Böhlau, 2010, i, pp. 58–88. 16 According to Savelli correspondence. But during his roman journey in July 1637 he rented the palazzo Orsini a Campo de Fiori: Die Diarien, cit., i, p. 163. 17 C. Mazzetti di Pietralata, Dall’Emilia e dalla Romagna a Roma. Dosso, Garofalo, Scarsellino, Guercino e gli altri nella collezione Savelli, in Gli Orsini e i Savelli nella Roma dei Papi, ed. C. Mazzetti di Pietralata, A. Amendola, Milano, Silvana Editoriale, 2017, pp. 421–437, at p. 427. 18 Die Diarien, cit., p. 63. 19 Rome, Biblioteca dell’Accademia dei Lincei e Corsiniana, Fondo Faber, filza 417, ff. 576, 578, 580: http://archivi.lincei.it/index.php/fondo-johannes-faber. On Faber’s German network see S. Brevaglieri, Natural desiderio di sapere. Roma barocca fra vecchi e nuovi mondi, Roma, Viella, 2019. 20 ÖStA, HHStA, Rom, Varia 8, f. 165: “Arach fra li cardinali oltramontani, è il meglio italianato di tutti”. 21 With reference to political orientation; Harrach reports: “Matthei […] ha mostrato più gusto ch’io pigli il maggiordomo per conclavista, che se avessi preso il Giovanni Battista, perché lo tiene per troppo arromanescato”: Die Diarien, cit., ii, p. 551. 22 ÖStA, AVA, FA Harrach 136, s. d. Elsewhere Barsotti, referring to a mission in Germany, reports having replied that he was “pratico della lingua e del costume di quel Paese” to cardinal Mattei, who, returning from the nunciature in Vienna, had warned him about “la natura sospettosa dei Tedeschi solita d’adombrare verso ogni ministro spiccato da Roma”: Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 5407.

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Cecilia Mazzetti di Pietralata 23 L. Spezzaferro, Archivio del collezionismo romano, ed. A. Giammaria, Pisa, Edizioni della Normale, 2009, pp. 99–102; In the Harrach’s diaries (20 January 1640) it is reported that after the death of Cornelis Mottman, Barsotti was planning to become the agent in Rome of Archduke Leopold Wilhelm; based on this, the presence of Nordic paintings in the prelate’s collection could be seen under new light. 24 On the 21 February 1643 he reports of the bankruptcy of Peter Visscher alias Pietro Pescatore, with whom Harrach had deposited his money and who was also an art collector and the patron of a tomb in Santa Maria dell’Anima: “è fallito il s.r Pietro Pescatore, che teneva in deposito li denari di V. E.”. On Pietro and his paintings, mainly by Flemish masters, see M. B. Guerrieri Borsoi, Pietro Pescatore mercante fiammingo “che faceva raccolta di pitture”, in “Studi Romani”, 55, 2007, pp. 151–169. 25 ÖStA, AVA, FA Harrach 136, 16 August 1642. 26 Barsotti’s artistic interests will be explored in a paper soon to be published. 27 ÖStA, AVA, FA Harrach 136, 4 September 1638. 28 Only one original fragment has emerged. A recent summary in Bacco e Arianna di Guido Reni. Singolari vicende e nuove proposte, ed. A. Emiliani, Rimini NFC, 2018, and here on the high quality copies of the painting S. Guarino, C. Seccaroni, Il Bacco e Arianna di Guido Reni, uno sfortunato originale ma un fortunato prototipo, ivi, pp. 39–57. 29 M. Biffis, “Barberino gli volse donare un quadro”. Francesco Barberini, Walter Leslie e una nuova traccia documentaria per il Bacco e Arianna di Guido Reni, in “Studi secenteschi”, 59, 2018, pp. 145–162. 30 Also F. Valesio, Diario di Roma, ed. G. Scano, G. Graglia, 6 voll., Milano, Longanesi, 1977– 1979, vi, p. 285–287, reported Harrach’s illness and death: “Giovedì 17. Alle 9 ore della notte passò all’altra vita per il male del vaiuolo monsignor d’Arach in età di 37 anni, vescovo di Nitria in Ungheria e ministro dell’imperatore, signore amato universalmente, ma che avea passione per il giuoco, nel quale avea fatta perdita di somme considerabili. Fece testamento e lasciò essecutori testamentari il cardinale Del Giudice e monsignor Almanara. Venerdì 18. Fu molto dibattuto circa la forma del portare il cadavere di monsignor d’Arach alla chiesa nazionale dell’Anima per cagione del decreto che non si portino in carrozza se non i cardinali; nulla di meno il cardinale Del Giudice superò la difficoltà, onde fu portato in carrozza senza torce con le lanterne ed erano due carrozze dello stesso cardinale. La mattina fu esposto sopra un talamo in alto con quarantaquattro torce, essendo la chiesa parata di lutto con trine d’oro”. 31 Valesio, Diario, cit., v, pp. 853–854: “Lunedì 26 [marzo] […] monsignor d’Arrach, ministro dell’imperatore […] avea fatto l’invito de’ cavalieri tedeschi che sono qui, onde erano ripiene le anticamere”. 32 According to Valesio, Diario, cit., vi, p. 86, the appointment had been published in the consistory on the 30 September 1737. 33 On the 8 October 1735 Valesio, Diario, cit., v, p. 816, reports: “Con le lettere da Vienna ha avuto la permissione di lasciare la carica di ministro il cardinale Cienfuego e farà da ministro monsignor d’Arrach, uditore di Rota, col conseglio del cardinale Del Giudice, che è stato dichiarato comprotettore dell’imperio”. On the 8 August 1737 Valesio again: “Monsignor d’Arach ha avuta la conferma nel ministero, segno evidente che la corte di Vienna non ha per ora intenzione di mandarvi ambasciadore”: ivi, v, p. 72. 34 Lastly at Artcurial Paris, 31. 03. 2016, lot 22.

Austrian networks in Papal Rome as interpretation key 35 On Del Giudice’s collection and its meaning for cardinal’s appointment as protector of the Habsburg lands see C. Mazzetti di Pietralata, La quadreria del cardinale Nicolò del Giudice (1660–1743), protettore degli Stati Austriaci, in Perspektivenwechsel. Sammler, Sammlungen, Sammlungskulturen in Wien und Mitteleuropa, ed. S. Schütze, Berlin, De Gruyter, 2020, pp. 1–67. 36 ÖStA, AVA FA Harrach, 62.11. From Cervelli’s correspondence with Harrach it emerges that the Italian is a key agent along the route from Venice to Rome; for example, on 14 September 1735, having learned of Plettenberg’s appointment as new caesarean envoy, he offers his services along the latter’s trip as he had done for all previous ambassadors: ÖStA, ivi. 37 See the cases of Michael Friedrich von Althan and Wolfgang Hannibal von Schrattenbach. Such a passage follows the pattern already adopted by the Spanish sovereigns as long as they maintained dominion over the Kingdom of Naples. 38 J. Bahlcke, Zwischen Wien und Rom: Sozialer Aufstieg und kirchenpolitisches Selbstverständnis der Waitzener Bischofs Kardinal Michael Friedrich Graf von Althann (1680–1734), in “Archiv für schlesische Kirchengeschichte”, 55 1997, pp. 181–196. 39 P. Rainer, “Per esaltare la gloria di Dio”. Un dono solenne di Caterina Savelli all’imperatore Carlo VI, in Gli Orsini e i Savelli, cit., pp. 383–389. 40 Rome, Archivio storico della Banca d’Italia (ABIT), Banco di S. Spirito, Libro mastro 1716, f. 1916. 41 D. Bernini, Il Tribunale della S. Rota Romana, Roma, Bernabò, 1717, p. 91. 42 Bernini, Il Tribunale, cit., pp. 91–92. 43 It was inaugurated on the 26 June 1731, as published by V. Golzio in 1936, quoted from R. Engass, Cornacchini, Agostino, in Dizionario Biografico degli Italiani, xxix, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1983. 44 The iconography in the context of the relations between Papacy and Empire has been explained by R. Wittkower, Cornacchinis Reiterstatue Karls des Großen in St. Peter, in Miscellanea Bibliothecae Hertzianae zu Ehren von Leo Bruhns, Franz Graf Wolff Metternich, Ludwig Schudt, München, Schroll, 1961, pp. 464–473. In 1711 he made drawings for the celebration of the emperor Joseph II in Florence. 45 T. Manfredi, Architettura della gloria – architettura della memoria: la committenza asburgicopraghese per la festa di canonizzazione di Giovanni Nepomuceno e l’eredità del progetto di Borromini per la facciata di San Giovanni in Laterano, in “Römische Historische Mitteilungen”, 43, 2001, pp. 561–586. On the meaning of saint John of Nepomuk in the Habsburg self-representation see the project directed by W. Telesko at the Österreichische Akademie der Wissenschaften: Johannes von Nepomuk (oeaw.ac.at). 46 M. Fumaroli, Cross, crown and tiara. The Constantine myth between Paris and Rome (1590–1690), in Piero della Francesca and his legacy, Proceedings, Washington, 1992, ed. M. Aronberg Lavin, Hanover, University Press of New England, 1995, pp. 89–102; T. Marder, Bernini’s Scala Regia at the Vatican Palace, Cambridge University Press 1997. 47 AL/FA, HA 98, Anton Florian von Liechtenstein to his father, 7 March 1676. 48 Cardinal Goes reports to Councellor Straatmann: ÖStA, HHStA, Rom Korr 71. 49 ÖStA, HHStA, Rom Korr 72. Pompeo Scarlatti was an agent for the Emperor and for the Duke of Bavaria. The latter appointment has been explored by B. Scherbaum, Die bayerische Gesandtschaft in Rom in der frühen Neuzeit, Tübingen, Niemeyer, 2008. 50 ÖStA, HHStA, Rom Korr. 68, Pompeo Scarlatti on 9 June 1690.

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Cecilia Mazzetti di Pietralata 51 E. Garms-Cornides, Scene e attori della rappresentazione imperiale a Roma nell’ultimo Seicento, in La corte di Roma, cit., pp. 509–535. 52 Liechtenstein was coopted in the Arcadia since 1694: Gli Arcadi dal 1690 al 1800. Onomasticon, ed. A. M. Giorgietti Vichi, Roma, Arcadia – Accademia Letteraria Italiana, 1977, p. 206. G. M. Crescimbeni, Rime di Alfesibeo Cario custode d’Arcadia, Roma, Gio. Battista Molo 1695, p. 129 ff., dedicated to Pallante Artemisio the Ode I. 53 Copia d’una lettera scritta da Andrea Pozzo della Compagnia di Giesu pittore all’illustrissimo ed eccellentissimo prencipe Antonio Floriano di Liechtenstein ambasciatore dell’augustissimo imperadore Leopoldo Ignazio presso la santita di nostro signore Papa Innocenzo Duodecimo circa alli significati della volta da lui dipinta nel tempio di Sant’Ignazio in Roma, Roma, Komarek, 1694. 54 These are the findings from various sources (AL/FA, HA 103; ABIT, Banco di S. Spirito, libri mastri 1692–1695), which will be explored in a paper soon to be published. 55 Cameresio received regularly from 50 to 300 scudi; it is often stated that he must not give account of the relevant expenses. 56 H. Haupt, “Ein liebhaber der gemähl und virtuosen”: Fürst Johann Adam I. Andreas von Liechtenstein (1657–1712). Quellenband, Wien/Köln/Weimar, Böhlau, 2012. 57 Maratta’s Bathseba has been quite recently identified in Vienna Museum by W. Prohaska, A late Maratta Painting refound, in Maratti e la sua fortuna, Proceedings, Roma, Galleria d’Arte Antica Corsini, ed. S. Ebert-Schifferer, S. Prosperi Valenti Rodinò, Roma, Campisano, 2017, pp. 75– 80. 58 AL/FA, HA 168. 59 AL/FA, HA 168. 60 On Martinitz’s troubled embassy see B. V. Mihalik, The Fall of an Imperial Ambassador: Count Georg Adam von Martinitz and His Recall from Rome, in “Theatrum Historiae”, 19, 2016, pp. 247–273. 61 ÖStA, HHStA, Rom Korr. 79, 25 July 1699. 62 It is a property of Cardinal Nerli, subleased by Giuliano Capranica. Previously Liechtenstein resided not far, according to Garms-Cornides, Scene e attori, cit., in the Cesarini palace at S. Nicolò dei Cesarini. 63 As in footnote 52. 64 ÖStA, HHStA, Rom Varia 13, f. 579r. 65 Ivi, f. 579v. 66 AL/FA, HA 110, 13 February 1694. 67 At that time the Santacroce suffered from the unfavorable treatment for their allegiance to the imperial party, as well as it had been complained with regard to prince Savelli. So it is said in the diplomatic reports: “24 maggio 1707, Riassunto delli pregiuditij fatti dalla Corte di Roma all’Aug.ma M.ta dell’Imperatore. […] Non si nega solamente giustizia al Marchese Santa Croce nel voler giustificare il duello del suo figlio, ma anche si studia di strapazzarlo in ogni modo con burlare il suo carattere di Consigliere di Stato di S. M.Ces.a”: ÖStA, Rom Varia 18. 68 Archivio Apostolico Vaticano (ASV), Fondo Santacroce 14, fasc. 9, n. 83. 69 To name just an example, marquise Santacroce reported to his son the visit received from the auditor Kaunitz: “Roma, 10 aprile 1711 […] Monsignor di Caunizz ne viene a cotesta volta mi à promesso di portarmi assieme con li suoi colli, le (?) libbre di cioccolato che ho fatto fare per voi amatissimo figlio, e con esse vi manderò un libbro del catechismo che sento (?) buono per li nipoti essendomi stato donato.” Thereafter with apparent nonchalance she added political

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news from England “Monsignor di Caunitzz raccontò che in Inghilterra si è scoverta una congiura contro la Maestà della Regina e che questo sia un Cavaliere cattolicho che volesse uccidere la Regina, e che il Parlamento haveva risoluto di cacciare tutti li cattolici dal Regnio”: ASV, Fondo Santacroce 33B, n. 51. ÖStA, HHStA, Rom Korr 131, 11 January 1744. He must be Anton Corfiz Ulfeldt, Court Councellor. Scipione had been a reliable friend to his father, Leo von Ulfeldt, general during the Spanish Succession War, since Ulfeldt in 1696 had left a trunk full of valuables in safekeeping at palazzo Santacroce in Rome: ASV, Fondo Santacroce 14, fasc. 6, n. 43. ASV, Fondo Santacroce 23, fasc. 6 n. 167, 18 February 1734; the draft for the Empress ivi, 33B, n. 15. ASV, Fondo Santacroce 23, 15, fasc. 5, n. 105. Archivio di Stato di Roma (ASR), Archivio Santacroce 571; further expenses for fans were payed in February 1734 as well, to Gaspare Mannucci, Antonio Modelli and Leonardo Germo. ÖStA, HHStA, Rom Varia 41, 26 June 1734: “ministri di Spagna e Francia continuano a fare strepiti a palazzo per impedire la presentazione della Chinea”. ASR, Archivio Santacroce 571. Componimento per musica fatto per la sera della vigilia di S. Pietro, e Paolo apostoli, doppo esser stato presentato nel giorno istesso a nome di sua maestà C.a, e C.ca il solito Censo, e Chinea per il Regno di Napoli alla santità di Clemente 12. sommo pontefice, l’anno 1734. Dall’eccellentissimo signor prencipe D. Scipione Publicola S. Croce …. On the frontispiece it is printed the Habsburg coat of arms. S. Franchi, O. Sartori, Le impressioni sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e stampatori romani e laziali di testi drammatici e libretti per musica dal 1579 al 1800, 2 voll., Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2002, i, nr. 57–58. On the pro-Habsburg publisher Komarek see ivi, pp. 354–366. ASR, Archivio Santacroce 571, n. 100, p. 366, 2 May 1737: “Ermanno Ludovico Bleck due servizi di cristalli per le deserte spettanti alla eredità del s.r conte di Plettenberg scudi 70”. Plettenberg’s testament is in Vienna, ÖStA, HHStA, HA OMaA 635-12. ASR, Notai AC, 4121. The inventory will be analysed in details in a forthcoming paper. A family inventory of the late XVIII century describes the two paintings as follows: “Camera della stufa […] Un quadro rappresentante il Ratto d’Europa del Guido. Scudi 800 […] Galleria […] Un Quadro alto palmi 12 largo palmi 8 rappresentante la Madonna Assunta in cielo capo dopera del Guido Reni. Scudi 8000”: ASR, Archivio Santacroce 1535. According to the description and measures, the Santacroce Assumption should be similar to the type in Munich, originally in Spilamberto, even if on canvas instead of silk. S. Pepper, Guido Reni. L’opera completa, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1988, cat. 175, pp. 295–296; C. C. Malvasia, Life of Guido Reni, critical edition, translation, and essay by L. Pericolo; historical notes by L. Pericolo, E. Cropper, S. Albl, M. Biffis, E. Ferone, 2 voll., Washington, cASVa, 2019, pp. 355–356, note 384. Cardinal Antonio Santacroce, at that time legato in Bologna, urged Giacinto Campana to leave for Poland through the mediation of Francesco Albani: Malvasia, Life of Guido Reni, cit., p. 314 note 265. Antonio Santacroce was also the addressee of Annibale Marescotti’s epistle celebrating the Abduction of Helen: A. Colantuono, Guido Reni’s Abduction of Helen. The politics and rhetoric of painting in seventeenth-century Europe, Cambridge University Press 1997, pp. 223–225. For a Maddalena of Reni in the property of Antonio Santacroce later given to cardinal Barberini

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Cecilia Mazzetti di Pietralata

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see also C. Pazzini, Il collezionismo della famiglia Santacroce nel XVII secolo: i dipinti, in “Roma moderna e contemporanea”, 13, 2005, pp. 225–247, at p. 228. A different version of the Europe was also in the possession of Plettenberg, then believed to be an original, now in Potsdam, Schloss Sanssouci: Pepper, Guido Reni, cit., p. 296, attributes it to Gessi; Getty Provenance Index, Sale catalog N-A136, lot 4. ASV, Fondo Santacroce 33B, n. 177: Rome, 29 December 1712, Gerolama Naro to Scipione. ASV, Fondo Santacroce 33B, n. 92: Utrecht, 12 February 1712, Scipione to Gerolama Naro. In further letters the two discuss about a Saint Sebastian, who should be evaluated by the famous connoisseur Sebastiano Resta; in Santacroce inventories is recorded a copy of the Saint Sebastian by Reni: Pazzini, Il collezionismo, cit., p. 228. C. Mazzetti di Pietralata, I Savelli come mediatori culturali tra Roma e la corte cesarea, in Diplomatische Wissenkulturen der Frühen Neuzeit, ed. G. Braun, Berlin/Boston, De Gruyter, 2018, pp. 37–61, at pp. 48–49. A. Colantuono, High quality copies and the art of diplomacy during the Thirty Years War, in The Age of Rubens, ed. L. Duerloo, R. Malcolm Smuts, Turnhout, Brepols, 2016, pp. 111–125, with previous literature of the author there recalled at footnote 1. The purchase of Savelli’s pieces had been part of Del Giudice’s strategy of acquiring a pro-imperial identity: Mazzetti, La quadreria, cit. Close to the imperial faction, even if he did not always enjoy the trust of the sovereign, was for example cardinal Alessandro Albani, nuncio to Vienna, cardinal protector and finally Caesarean ambassador to Rome. His family does not show the same loyalty as the Savelli the Santacroce, but by unconscious paradox it is the one that – at least for a certain period – gives the greatest contribution to the imperial collections: G. Mayer, G. Swoboda, Gemälde aus den Sammlungen Albani, Braschi und des Vatikans. Die Wiener Galerie als Profiteur des Napoleonischen Kunstraubs, in “Jahrbuch des Kunsthistorischen Museums Wien”, 19/20 (2017/2018), pp. 92–133.

This research was funded in whole by the Austrian Science Fund (FWF) [Lise Meitner Programm M 2474]

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Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo. Spunti critici, connoisseurship e circolazione di opere

Raffaello e Venezia. In merito a tale binomio e dunque in riferimento alle varie connessioni tra Raffaello e l’ambiente artistico-culturale veneziano, gli studiosi hanno teso a privilegiare episodi e vicende cronologicamente prossime alla metà del Cinquecento, che spiccano per il rilievo dei protagonisti, come i cardinali Domenico e Marino Grimani o Ludovico Dolce: i primi universalmente riconosciuti tra i promotori della conoscenza dell’arte del Raffaello ‹romano› nella Serenissima, il secondo testimone della fama raggiunta dal pittore nell’ambiente lagunare.1 Restano invece ancora da sondare la circolazione, ricezione e interpretazione di opere pittoriche e grafiche dell’urbinate – sia originali sia copie sia opere ‹alla maniera di› –, in epoche successive, in particolare nel Sei e Settecento: aspetti e problemi oggi più agevolmente ripercorribili grazie ai recenti apporti sulla fervida stagione del collezionismo e del commercio artistico che connota lo scenario veneziano in quei secoli.2 In queste pagine intendiamo dunque offrire alcuni spunti e tracce di tale storia, senza alcuna pretesa di esaustività o completezza, ma con lo scopo di allargare l’orizzonte storico-critico della fortuna o ‹sfortuna› di Raffaello, del suo nome e del suo linguaggio. A partire da tali premesse, quale idea e quale conoscenza di Raffaello erano maturate a Venezia in età barocca, epoca in cui le interpretazioni di Raffaello furono lungi dall’essere monolitiche o standardizzate?3 Punto di partenza imprescindibile del nostro percorso coincide con Marco Boschini, protagonista di primo piano della critica militante del Seicento veneto e tenace difensore delle glorie artistiche cittadine. Nella Carta del navegar pitoresco, edita nel 1660, per mettere in risalto le qualità e la statura di Giovanni Bellini, reputato tra i fondatori della scuola pittorica veneziana, lo scrittore lo paragona proprio a Raffaello:4 «Zambelin per el manco è un Rafael, per l’idee, per le forme, e diligenza; chi no puol soportarlo abia pacienza». Un confronto che un secolo più tardi, in pieno clima accademico, avrebbe scandalizzato Pietro Antonio Novelli (1729–1804), esponente di una cultura pittorica erudita e filoromana, molto apprezzato da Anton Raphael Mengs durante il suo soggiorno nell’Urbe tra 1779 e 1782.5 In un manoscritto di Memorie storico-critiche dedi-

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Linda Borean cate a Boschini, Novelli infatti condannò in questi termini quello che reputava un ‹affronto›: Da ciò si vede, che si azzardava a dir cose tali per non esser stato sopra luogo a veder quei divini esempli dell’Arte nostra i quali, benché in qualche parte siano stati superati, ciò non fa che Raffaello non abbia avuto quell’innesplicabile nonsocché che gli rese il titolo di Divino. Io non sarò mai capace di levare il merito a Giovanni Bellino, ma Dio buono! Non è paragone da farsi.6

L’equivalenza formulata da Boschini, pur curiosa, è comunque non meno interessante perché potrebbe anche leggersi come un indizio di una consapevolezza del ‹peso› progressivamente assunto dall’Urbinate: i passi di Dolce che riconoscevano a Raffaello il primato nella raffigurazione del corpo umano grazie alla fedele adesione all’antico e al naturale non dovevano essere sconosciuti al critico seicentesco il quale così conclude le sue dichiarazioni: «un stil tegne pur anca Rafael de soma diligenza e gran dotrina! Maniera veramente pelegrina, El stava con ognun saldo al martel».7 Nella Carta non mancano tuttavia osservazioni di segno negativo nei confronti di Raffaello, secondo un procedimento di ridimensionamento quasi fisiologico per un partigiano efferato quale fu Boschini, che mai avrebbe tolto la palma al ‹principe› della pittura veneziana del Cinquecento, cioè Tiziano. Il compito di declassare l’Urbinate viene affidato a Velazquez, «veneziano onorario» per Boschini e dunque titolato a esprimersi in lingua veneziana, il che è significativo del peso accordato allo spagnolo perché di norma – come ha opportunamente sottolineato Piermario Vescovo – nel testo boschiniano le prese di parola diretta dei personaggi diversi dai due protagonisti del dialogo vengono rese in italiano.8 Nell’episodio riferito da Boschini, frutto secondo il già citato Novelli dell’ingenuità quasi disarmante dello scrittore,9 Velazquez, una volta rientrato a Roma dal soggiorno in laguna, si sarebbe sentito domandare: «Cosa diseu del nostro Rafael? Se avé visto in Italia il bon e ’l bel, no giudicheu che questo el megio sia?». Domanda cui il pittore avrebbe risposto in questi termini: «Rafael (a dire il vero, piasendome essere libero e sincero) stago per dir che nol me piase niente […] a Venezia se trova il bon e ’l belo; mi dago el primo liogo a quel penelo: Tician xe quel che porta la bandiera».10 Questi versi, recitati durante un pranzo, avrebbero scandalizzato i cultori romani di Raffaello.11 D’altra parte, l’assenza a Venezia di un’accademia istituzionale – fondata ufficialmente dal Senato nel 1750 e operativa con regolare statuto dal 1756, dopo l’esperienza, ancora di marca corporativa, del Collegio dei pittori (1682) –, non favorì probabilmente l’accoglimento di quel carattere normativo che si andava progressivamente assegnando nel Seicento alla figura e alle opere dell’Urbinate e che nel secolo successivo trovò poi spazio anche in ambienti non ufficiali, come il museo-accademia di Filippo Farsetti, dove erano visibili copie e riproduzioni delle Logge Vaticane e degli affreschi della Farnesina. Come già Novelli aveva rimarcato, Boschini, non avendo viaggiato, poco o nulla conosceva della pittura di Raffaello sicché la sua idea, molto imprecisa, dello stile e del

Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo

Fig. 1 Giulio Romano, Santa Margherita, Vienna, Kunsthistorisches Museum

linguaggio del pittore si era formata sulla base delle poche opere giunte a Venezia, tra cui la Santa Margherita del Kunsthistorisches di Vienna (fig. 1), ormai concordemente assegnata a Giulio Romano.12 Per Boschini si trattava del quadro più ‹bello› realizzato dall’artista, una «zogia famosa che gran tempo ebe albergo in sto paese»:13 Marcantonio Michiel, infatti, ne registrava nel 1528 la presenza in casa Priuli a San Stae dove rimase sino al 1638, quando venne ceduta al duca di Hamilton non senza che prima ne venisse approntata una derivazione, come suggerisce un inventario stilato a inizi Ottocento.14 La limitata e generica conoscenza maturata da Boschini nei confronti di Raffaello, si rispecchiava nella sua difficoltà di riconoscerne lo stile e l’autografia, lacuna che potrebbe sembrare di non poco conto per un personaggio quotidianamente coinvolto in perizie, intermediazioni e vendite: in realtà a transitare nel mercato veneziano del Seicento fu un numero ridotto di dipinti – diversamente dai disegni, come si vedrà più avanti – attribuiti a Raffaello. A darne testimonianza è Paolo del Sera, agente di stanza nella Serenissima al servizio del cardinale Leopoldo de’ Medici dal 1640 al 1672. Figura di notevole interesse nel vivace dibattito allora in pieno fermento sulle competenze del conoscitore (chi ha il potere di dire l’ultima parola sull’autografia?), in una missiva del 6 maggio del 1657 del Sera annotava che

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Fig. 2

Pietro Del Po da Girolamo da Treviso, Adorazione dei pastori, incisione

quanto a quella Madonna tenuta di mano di Raffaello da Urbino ho licenziato il trattato e chi potessi accertarsi che fussi di tal mano […] ma io non ho tanta pratica delle cose di quell’autore che mi basti a gran via a far tal cognizione; mi dice il mezzano che me l’ha proposta che il signor procurator Corero tratti di comperarla, ma che ancor lui non trova chi habbi vera cognition della mano15

dunque – supponiamo – nemmeno il citato Boschini. Pochi anni prima, il 19 aprile del 1653, del Sera comunicava al cardinale che: «Si trova qua Giovan Battista Franceschi con quel suo quadro da lui tenuto di mano di Raffaello da Urbino, mi hà invitato ad andare à vederlo, e così appagherò la mia curiosità».16 Del mercante d’arte Franceschi gli archivi e le fonti antiche hanno restituito per ora qualche traccia: a Venezia era stato coinvolto, insieme a Bernardo Strozzi, in una vertenza legale per il mancato pagamento di oggetti e pitture,17 mentre a Roma si era fatto notare, come ricordava Sebastiano Resta nel manoscritto Correggio a Roma (1709), per aver proposto al marchese del Carpio, ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede, un presunto Raffaello raffigurante l’Adorazione dei pastori. A scopo pubblicitario, Franceschi ne aveva commissionato la traduzione a stampa a due diversi incisori, Cornelis Bloemaert e Pietro Del Po. Nel secondo stato dell’esemplare licenziato dal palermitano, peraltro stigmatizzato da Francesco Albani per la scarsa considerazione in cui teneva proprio l’Urbinate,18 è inserito nella colonna di destra un medaglione con le lettere I. B.F (fig. 2), riproducente, stando all’in-

Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo dicazione di Resta, il ritratto dello stesso Franceschi che dedicò al granduca di Toscana «questo intaglio d’un quadro di Raffale stimato una delle rare opere uscite dal vivo pennello di quel gran Pittore talmente che l’intagliadore non ha saputo arrivare ad esprimere il disegno et altre venustà dell’originale».19 Manchevolezza di cui è complice la libertà interpretativa della stampa di traduzione seicentesca, che parte dal modello dipinto e non dal modello grafico. Del quadro spacciato per Raffaello da Franceschi, si conoscono attualmente due versioni: una prima attribuita a Girolamo da Treviso (Oxford, Christ Church)20 – nella scuola veneta uno degli artisti più ammiccanti nei confronti delle invenzioni del Sanzio; una seconda, reputata copia più tarda della precedente, conservata a Dresda (Gemäldegalerie) dove pervenne da Madrid nel 1744 sotto il nome di Raffaello. Quest’ultima probabilmente va associata all’esemplare visto a Roma da Sebastiano Resta, a giudizio del quale era da ricondursi a Innocenzo da Imola; più tardi Pierre-Jean Mariette avrebbe avanzato una paternità in favore di Andrea Schiavone. Tornando alla presenza di (supposti) autografi di Raffaello a Venezia tra Sei e Settecento, dai documenti si ricavano varie testimonianze, solo di rado tuttavia, come spesso accade, collegabili a opere esistenti come la Santa Margherita di Vienna più sopra menzionata. Forniamo qui qualche evidenza, a puro titolo esemplificativo: «Un ritrato d’un Giovane de Raffael d’Urbino», registrato da Nicolò Renieri nel 1647 in casa di Giovan Battista Combi, uno degli editori di riferimento dell’Accademia degli Incogniti;21 «Un quadro con la Conversion di San Paolo di mano di Raffael» stimato da Pietro Vecchia nel 1664 nella galleria del mercante Cristoforo Orsetti, proprietario della Vecchia e della Tempesta di Giorgione.22 Nelle mani di un altro ricco esponente del ceto imprenditoriale, Giorgio Bergonzi, era giunto a metà secolo un tondo di «Rafael con il ritratto in profilo di Valerio Belli»,23 valutato cinquanta ducati e già appartenuto a Girolamo Gualdo juniore, noto collezionista vicentino con frequentazioni nell’ambiente romano. L’opera sarebbe successivamente transitata presso Bernardo Trevisan, appassionato cultore di reperti classici, e può essere plausibilmente associata al tondo già appartenuto a Kenneth Clark e ora a Madrid (fig. 3).24 Un ultimo esempio risale all’aprirsi del Settecento, quando nella dimora della famiglia Grassi – il celebre palazzo sul Canal Grande – era esposta una «meza figura Dorotea vestita di pelle»: forse copia o variante del Ritratto di giovane romana (Dorotea) di Sebastiano del Piombo oggi a Berlino (Gemäldegalerie, fig. 4), già associata alla versione registrata nella collezione Curtoni di Verona nel secolo precedente.25 Una raccolta, quest’ultima, da cui i Grassi acquistarono parecchi dipinti, inclusa una Dorotea assegnata a Raffaello, sicché è legittimo chiedersi se la versione berlinese non sia da collegare all’esemplare conservato a Venezia a inizi Settecento. Il Ritratto di Sebastiano, di cui esiste una copia antica nel Museo di Castelvecchio di Verona, giunse al museo tedesco dalla galleria del duca di Marlborough, dove è documentato dal 1765,26 esattamente un anno dopo lo svolgimento dell’asta londinese Prestage in cui vennero battuti vari dipinti di collezioni veneziane, quella dei Grassi compresa,

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Fig. 3 Raffaello, Ritratto di Valerio Belli, Madrid, Colección Abelló

e dove tra gli acquirenti figurava proprio il duca di Marlborough.27 Infine, nella sua guida di Venezia edita nel 1771, Anton Maria Zanetti il Giovane segnalava una Madonna di Raffaello nella Sala del Consiglio dei Dieci di palazzo Ducale, notizia che induce ulteriormente a riflettere sull’attendibilità delle fonti – e in questo caso di una figura di critico che poteva conoscere meglio di Boschini l’opera dell’Urbinate – sul piano della connoisseurship.28 Discorso specifico merita la presenza di disegni attribuiti a Raffaello nelle raccolte veneziane tra XVII e XVIII secolo. Le attestazioni riguardano in prevalenza studi per intere composizioni collegate ai cantieri romani, dunque le grandi opere classiche della maturità di Raffaello – e le Logge Vaticane in particolare –, secondo una tendenza ricorrente nel Seicento e che a Venezia contava già alcuni episodi nel secolo precedente. Lo ha ben rimarcato Peter Windows riesaminando le vicende dei disegni della raccolta di Gabriele Vendramin,29 ceduti al mercante olandese Gualtiero van der Voort, che nel 1657 aveva cercato di vendere nella piazza veneziana poco meno di un centinaio di fogli reputati del Sanzio: del Sera tentò di concludere l’acquisto dell’intero gruppo per il cardinal Leopoldo, ma senza successo.30 Allo stato attuale delle conoscenze, nel fondo grafico degli Uffizi un’antica provenienza veneziana di metà Seicento in riferimento a Raffaello è accertata per due fogli reputati autografi, pur in via prudenziale, riferibili alla decorazione delle Logge. Si tratta del Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia, già parte degli album appartenuti a Ermanno Stroiffi, allievo ed erede di Bernardo Strozzi, e dell’Adorazione del vitello d’oro, in possesso di Nadalino Grassi, canonico della basilica di San Marco negli anni Cinquanta del Seicento.31

Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo

Fig. 4 Sebastiano del Piombo, Ritratto di giovane romana (Dorotea), Berlino, Gemäldegalerie

Con il secolo successivo la ricerca e gli acquisti di prove grafiche di Raffaello subiranno un cambio di passo tra conoscitori e collezionisti veneziani, in virtù dell’impulso dato alla passione per le ‹carte› degli antichi maestri da personaggi le cui imprese vanno annoverate nello scacchiere dei curieux europei più aggiornati in materia di disegni e di ‹disegno›: il riferimento va naturalmente a Zaccaria Sagredo (1653–1729) e soprattutto ad Anton Maria Zanetti il Vecchio (1680–1767). Il primo, esponente della vecchia aristocrazia, introverso e solitario, organizzò una cospicua raccolta espressione di un orientamento enciclopedico-universale, assicurandosi nel 1728 dai Bonfiglioli di Bologna un gruppo ascritto al Sanzio che in base alle descrizioni di palazzo Sagredo risulta essere esposto nella Galleria dei Disegni affacciata sul Canal Grande.32 Zaccaria, a dire il vero, poté ammirarli ben poco: morì infatti nel 1729 e gli eredi procedettero ad alienare buona parte delle collezioni nei decenni a seguire; i disegni di Raffaello compirono in realtà un breve tragitto venendo acquistati, nel 1752, dal console britannico Joseph Smith, il cui palazzo distava di qualche centinaio di metri dalla dimora dei Sagredo, per poi passare nel 1762 nella biblioteca di Giorgio III. Il nucleo comprendeva vari studi d’insieme, come il Massacro degli innocenti (c. 1510, fig. 5), stadio intermedio di una composizione concepita per un’incisione di Marcantonio Raimondi all’altezza del cantiere della Stanza della Segnatura.33 Figura sostanzialmente differente rispetto a Sagredo, è quella di Anton Maria Zanetti il Vecchio: di estrazione borghese, incisore dilettante, viaggiatore, mercante d’arte, perfetta incarnazione dello spirito illuminista europeo e di una sorta di ‹internazionale dei dilettanti›, vero ponte di collegamento tra Venezia e il resto d’Europa.34 Grazie ai suoi contatti con Pierre Crozat e Pierre-Jean Mariette oltre che con intellettuali e collezioni-

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Fig. 5

Raffaello, Massacro degli innocenti, Windsor, Royal Collection, RC 12737

sti italiani dello spessore di Francesco Maria Niccolò Gabburri, Zanetti giunse a qualificarsi come esponente di spicco della nuova cerchia di conoscitori del disegno in Europa. Mise insieme, per la maggior parte entro il quarto decennio del Settecento,35 come si evince dalle sue missive, «una scieltissima collezione di disegni dei più rari maestri»,36 pur disponendo di limitati mezzi economici. Diversamente da Sagredo, l’obiettivo di Zanetti non era l’assemblaggio di una raccolta di carattere universale, considerata la reiterata dichiarazione di prediligere i maestri del Cinquecento ed in particolare Raffaello, Rosso Fiorentino, Perino del Vaga, Michelangelo, dei quali si assicurò esemplari di illustre provenienza, ad esempio dagli album di Giorgio Vasari. Nell’Indice della sua biblioteca, compilato dallo stesso Zanetti nel 1744 e integralmente pubblicato nel 2015,37 sotto il nome di Raffaello risultano registrati alcuni titoli tra cui le «Pitture del palazzo Apostolico, in 4°, Roma 1695» e i «Cartoni Hampton Court, fol. Londra & Parigi». Si trattava dunque del noto volume di Giovan Pietro Bellori38 e dell’impresa incisoria di Nicolas Dorigny dai cartoni per gli arazzi della Cappella Sistina, una serie – quest’ultima – realizzata tra 1711 e 1719 per la regina Anna d’Inghilterra e reputata piuttosto rara a fine Settecento.39 L’Indice, che testimonia l’appartenenza del veneziano all’élite culturale europea, risulta in realtà di limitato aiuto nel delineare i gusti collezionistici di Zanetti in fatto di disegni: per quelli di Raffaello manca qualsiasi riferimento, presenti invece nelle corrispondenze intrattenute da Zanetti, talora percorse da suggestive riflessioni critiche. Un dato, quest’ultimo, di certo interesse considerando che il dilettante non ha lasciato trattati o saggi di natura estetica, a differenza del contempo-

Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo

Fig. 6

Raffaello, Sogno di Giacobbe, Londra, British Museum, 1860, 0616.82

raneo Francesco Algarotti, che accostava Giambattista Tiepolo a Raffaello quanto a sfoggio di erudizione negli ornamenti delle fabbriche dipinte.40 Coniugando le informazioni ricavabili dalle missive con le iscrizioni vergate dallo stesso Zanetti sul recto di vari fogli, sorta di sostituto di quella marque de collection che egli ritenne di non dover coniare, emerge con chiarezza la convinzione del conoscitore, implicitamente sicuro di essere dotato di «un occhio di lince»,41 di possedere almeno quindici autografi dell’Urbinate,42 alcuni dei quali da lui stesso tradotti in incisione.43 Se la moderna connoisseurship ha ridimensionato lo statuto attributivo di alcuni di questi fogli, nondimeno il ruolo del grande amateur veneziano nella ricostruzione di quanto all’epoca fosse percepito come autografo del ‹divino› Raffaello resta immutato. A titolo di esempio si possono menzionare gli spostamenti attributivi del Sogno di Giacobbe (Londra, British Museum, fig. 6) preparatorio per l’affresco della sesta campata delle Logge e la cui provenienza Zanetti è attestata dal Marchese di Lagoy,44 o quelli dello studio per la Donazione di Costantino (Oxford, Ashmolean Museum). La paternità di questo secondo foglio, riferito alla parte destra dell’affresco con la Donazione di Costantino dove, rispetto al progetto grafico, sono stati rielaborati e modificati vari dettagli in primo piano, oscilla in maniera problematica tra Giulio Romano e Giovan Francesco Penni.45 Il disegno di

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Fig. 7

Raffaello, Deposizione, Londra, British Museum, 1855, 0214.1

Oxford è documentato nelle lettere di Giovanni Maria Sasso, protagonista del mercato artistico tra Venezia e l’Europa alla fine del Settecento, incaricato nel 1789 dagli eredi Zanetti di vendere con il maggior guadagno possibile la raccolta di disegni. Sono proprio i fogli di Raffaello ad attirare i clienti dell’antiquario, come John Skippe ed Abraham Hume,46 al quale ultimo Sasso propose lo schizzo «per la metà del quadro che è in Vaticano della Donazione di Costantino variato dalla stampa». Al suo arrivo in Inghilterra, il foglio fu giudicato «un tantino ritoccato» dal nuovo proprietario – annoverato tra i conoscitori più preparati sull’arte italiana del Rinascimento a Londra nella stagione che precedette la fondazione della National Gallery. Un aspetto da sottolineare è l’apertura manifestata da Zanetti verso il Raffaello degli esordi. In una lettera del 6 aprile 1726 indirizzata a Francesco Gabburri, egli dichiarava di possedere un «un disegno di Raffaelle della prima maniera dove patentemente si vede quanto egli studiò dal Frate47 e nella purità del contorno e nella grazia e nobiltà delle pieghe dei panni».48 Il foglio in questione potrebbe collegarsi a uno degli studi preparatori per la Deposizione Baglioni, per i quali è stata avanzata l’ipotesi di una provenienza Zanetti, conservati al British Museum (fig. 7) e al Louvre.49 Altro testimone dell’apprezzamento del conoscitore nei confronti del Raffaello ‹preromano e prefiorentino›, è il Ritratto di giovane assegnato a Bernardino Pinturicchio e recentemente entrato nei fondi

Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo

Fig. 8 Bernardino Pinturicchio, attribuito, Ritratto di giovane, Washington DC, National Gallery of Art, 2017.111.1

della National Gallery of Art di Washington (fig. 8) con una provenienza Zanetti/John Skippe.50 Come si ricava dall’iscrizione sul verso, Zanetti lo reputava un autoritratto giovanile del Sanzio: «Ritratto di Raffaelle d’Urbino Giovine fatto di sua propria mano quando era in Scola di Pietro Perugino suo Maestro», un giudizio classificabile come il classico errore intelligente alla luce della paternità odierna. La sensibilità manifestata da Zanetti per le opere della giovinezza di Raffaello anticipa l’interesse per le origini dell’artista – familiari e di educazione artistica – espresso dalla critica in apertura del XIX secolo, quando a Venezia si registra un episodio significativo e per certi versi emblematico in tal senso: l’acquisto, nel 1818, da parte dell’abate Luigi Celotti della collezione di oltre tremila disegni di maestri antichi assemblato da Giuseppe Bossi. Il nucleo venne offerto all’Accademia di Belle Arti di Venezia, nel cui patrimonio entrò nel 1822 grazie alla petizione avanzata al governo austriaco dall’allora presidente dell’istituto, Leopoldo Cicognara, che ne aveva intuito le finalità didattiche per gli allievi dell’accademia medesima. Il fondo Bossi includeva il cosiddetto «Libretto veneziano» di Raffaello, un album composto da 53 fogli sciolti montati a coppie in passepartout, illustranti una sorta di repertorio di quanto poteva servire nella bottega di un pittore dell’epoca: figure panneggiate, nude, in movimento, studi di teste, studi di animali, paesaggi. Una volta giunti nell’Accademia veneziana, i disegni vennero esposti al

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Linda Borean pubblico divenendo quindi facilmente accessibili anche agli studiosi di Raffaello, senza contare che nel 1829 Celotti utilizzò alcune lastre già approntate da Bossi per la riproduzione incisoria dell’album pubblicandone una selezione col titolo Disegni originali di Raffaello per la prima volta pubblicati esistenti nella Imperial Regia Accademia di Belle Arti di Venezia. La paternità dell’album, considerato a inizi del XX secolo un falso settecentesco, ha aperto un vivace dibattito nella critica moderna,51 orientata a considerarlo frutto di un artista di modesti talenti rispetto a Raffaello ma dotato di curiosità nei confronti di altri maestri tanto da sfiorare l’eclettismo e assemblare un repertorio che ben si addiceva ai propositi didattico-accademici di Cicognara.52

Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo 1 M. Hochmann, Venise et Rome 1500–1600. Deux écoles des peintures et leurs échanges, Gèneve, Droz, 2004, pp. 163–192; C. Furlan, Domenico, Marino e Giovanni Grimani tra passione per l’antico, gusto del collezionismo e mecenatismo artistico, in I cardinali della Serenissima. Arte e committenza tra Venezia e Roma (1523–1605), a cura di C. Furlan, P. Tosini, Cinisello Balsamo, Silvana, 2014, pp. 31–59, alle pp. 32–36; S. Pierguidi, L’Apollo della collezione Mantova Benavides e la fortuna di Raffaello in area veneta, in «Arte Veneta», 72, 2015, pp. 194–195. 2 Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Seicento, a cura di L. Borean, S. Mason, Venezia, Marsilio 2007; Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Settecento, a cura di L. Borean, S. Mason, Venezia, Marsilio, 2009. 3 G. Perini, Una certa idea di Raffaello nel Seicento, in L’idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, catalogo della mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 2000–2001, 2 voll., a cura di E. Borea, C. Gasparri, Roma, De Luca, 2000, i, pp. 153–161. 4 M. Boschini, La Carta del navegar pitoresco [Venezia 1660], a cura di A. Pallucchini, Venezia/ Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1966, p. 48. 5 Per un profilo recente si rinvia alla voce di E. Lucchese, Novelli, Pietro Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 2013, versione online consultata in data 5. 01. 2020. La nomina a membro dell’Accademia di pittura veneziana risale al 1768. Novelli venne inoltre ammesso all’Accademia Clementina e all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel corso del soggiorno romano, parimenti agli altri artisti della cosiddetta colonia veneta – da Quarenghi a Canova e Piranesi –, fece sempre riferimento all’ambiente dell’ambasciatore Girolamo Zulian. 6 Il manoscritto, risalente alla fine del Settecento, è ora integralmente trascritto a cura di Loredana Olivato e Lionello Puppi in Marco Boschini. L’epopea della pittura veneziana nell’Europa barocca, atti del convegno, Verona, a cura di E. M. Dal Pozzolo, Treviso, ZeL, 2014, pp. 360–374 (p. 369 per il passo qui citato). 7 Boschini, La Carta, cit., p. 71. 8 P. Vescovo, «Nave pitoresca», in Marco Boschini, cit., pp. 93–107, alle pp. 99–100. 9 Vedi infra, nota n. 11. 10 Boschini, La Carta, cit., pp. 78–79. 11 Marco Boschini, cit., p. 369: «Peggio ancora! Fu capace il Boschini di indursi a credere una potentissima filastrocca che gli fu data ad intendere […] mentre dice che tornato a Roma il Velasquez fu dimandato ciò che sembrassegli di Raffaello e che El storse el cao cerimoniosamente […] Stago per dir che no’l me piase gnente. Pure non per ciò bisogna condannare il Boschini, ma compatirlo ed escusarlo. Piacemi sopra ciò di riferire un graziosissimo caso successo in Roma al quale io fui presente. Eravi in allora Ambasciator Veneto sua Eccell. Girolamo Zuliani che come amatore delle Bell’Arti amava in tutte le Feste d’aver seco a pranzo un buon numero di Virtuosi ed avea istituito che in questa Conversazione non si trattasse che di Pittura, Scoltura, Architettura, e di cose Letterarie. Avvenne che portò il discorso di riferire, parlando di Raffaello, che di lui, a dir del Boschini, abbia detto il Velasquez, Stago per dir che nol me piase gnente. Al sentir pronunziare una cosa tale, un certo Abbate Puccini intendente ed eruditissimo di Pittura, inorridito, e mosso da un impetuoso furore, correndo quà e là colle braccia alzate per la Stanza, esclamò, Il loco è profanato, il loco è profanato!». 12 El último Rafael, catalogo della mostra, Madrid, Museo del Prado, Parigi, Musée du Louvre, 2012–2013, a cura di T. Henry, P. Joannides, Madrid, Museo Nacional del Prado 2012, p. 146. 13 Boschini, La Carta, cit., p. 64. 14 Archivio di Stato di Udine, Archivio Priuli, b. 46, carte sciolte: nella perizia, firmata dai pittori Girolamo e Matteo Zais, il quadro risulta attribuito genericamente alla scuola di Raffaello.

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Linda Borean 15 Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASFi), Carteggio di Artisti, reg. V. Su Correr cfr. L. Borean, «Con il maggior vantaggio possibile». La vendita della collezione del procuratore di San Marco Giacomo Correr, in The Art Market in Italy (15th–17th Centuries), a cura di M. Fantoni, S. Matthews Grieco, L. Matthew, Modena, Panini, 2003, pp. 337–354. 16 ASFi, Carteggio di Artisti, reg. V. 17 Borean, «Con il maggior vantaggio possibile», cit. 18 M. Cacho Casal, Francesco Albani’s New Year greetings in un unpublished letter, in «The Burlington Magazine», 156, 2014, pp. 21–25, pp. 22 e 25, lettera non datata di Albani a Girolamo Bonini: «Ma veniamo a questo Pietro del Po’ che non la perdona neanco a Raffaelle e censura tutti, particolarmente Annibale Carracci». Secondo la studiosa, la lettera passò molto probabilmente tra le mani di Carlo Cesare Malvasia il quale ricorda come Albani, nella sua corrispondenza con Bonini, avesse difeso Raffaello dalle «calunnie di un tale Pietro del Po». 19 Raphael invenit. Stampe da Raffaello nelle collezioni dell’Istituto Nazionale per la Grafica, catalogo della mostra, Roma, Istituto Nazionale della Grafica, a cura di G. Bernini Pezzini, S. Massari, S. Prosperi Valenti Rodinò, Roma, Quasar, 1985, p. 182, A. XII, nn. 2 e 3. La stampa di Bloemaert reca invece una lunga e ‹roboante› dedica all’imperatore Ferdinando III d’Austria. 20 J. Byam Shaw, Paintings by Old Masters at Christ Church Oxford, London, Phaidon, 1967, n. 88, pp. 72–73. Il quadro faceva parte della donazione Guise del 1765. 21 L’inventario Combi è stato reperito da Isabella Cecchini e pubblicato in Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Seicento, cit., pp. 341–344. 22 Per una sintesi delle vicende della raccolta si rinvia a Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Seicento, cit., pp. 296–297. 23 Cfr. L. Borean, Il caso Bergonzi, in Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Seicento, cit., pp. 203–221, alle pp. 209–211. 24 Vedi C. Gardner Von Teuffel, Raphael’s Portrait of Valerio Belli: some New Evidence, in Eadem, From Duccio’s Maestà to Raphael’s Transfiguration: Italian Altarpieces and their settings, London, Pindar Press, 2005, pp. 605–612; J. Meyer zur Capellen, Raphael: a critical catalogue of his paintings, vol. iii: The Roman Portraits, Landshut, Arcos, 2008, A 23, pp. 189–191 e la scheda a firma di S. Ferino-Pagden in Raffaello 1520–1483, catalogo della mostra, Roma, Scuderie del Quirinale, Milano, Skira, 2020, n. V.46, pp. 266–267. 25 G. L. Tusini, «Parole nel vuoto»: dipinti e arredi nel Castello della Mirandola, in Il Castello di Mirandola. Inventari di arredi, quadri e armi (1460–1714), a cura di M. Calzolai, Mirandola, Cassa di risparmio di Mirandola 2006, pp. 37–82, p. 51. 26 Si veda la scheda di R. Contini in Sebastiano del Piombo 1485–1547, catalogo della mostra, Roma, Palazzo Venezia, Berlino, Gemäldegalerie, a cura di C. Strinati, B. W. Lindemann, R. Contini, Milano, Motta, 2008, pp. 144–146. 27 L. Borean, Dalla galleria al «museo»: un viaggio attraverso pitture, disegni e stampe, in Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Settecento, cit., pp. 3–47, alle pp. 7–9. 28 A. M. Zanetti, Della pittura veneziana e delle opere pubbliche de’ viniziani maestri, Venezia, Giambattista Albrizi, 1771, p. 493. Nel capitolo dedicato ai pittori forestieri, l’autore segnala «un bel quadretto che sta vicino a una finestra Nella stanza medesima degli Eccellentissimi Capi [del Consiglio dei Dieci], si tiene essere cosa di questo famosissimo Pittore [Raffaello]. V’è in esso la Madonna con il Signore bambino che scherza con un agnelletto. Il carattere, la grazia, il bel pensiero di questa pittura non fanno torto certamente al gran merito dell’incomparabile Autore».

Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo 29 P. Windows, Gabriele Vendramin’s «disegni divini». The anatomy of an early collection of drawings, in «Journal of the History of Collections», 26, 2014, n.1, pp. 1–19. 30 Archivio del collezionismo mediceo. Il Cardinal Leopoldo, vol. i. Rapporti con il mercato veneto, t. 1: Archivio elettronico del Carteggio; t. 2: Catalogo storico dei Disegni, a cura di M. Fileti Mazza, G. Gaeta Bertelà, Milano, Ricciardi, 1987, t. 2, p. 669. Per un recente excursus sulla collezione dei fogli raffaelleschi degli Uffizi tra XVII e XIX secolo si rinvia a R. Aliventi, B. L. Da Rin, M. Grasso, R. Sassi, La collezione dei disegni raffaelleschi agli Uffizi: criteri di selezione e orientamenti di gusto tra Seicento e Ottocento, in Raffael als Zeichner/Raffaello disegnatore, atti del convegno, Vienna, Graphische Sammlung Albertina in collaborazione con le Gallerie degli Uffizi, a cura di M. Faietti, A. Gnann, Firenze/Milano, Giunti, 2019, pp. 19–46. 31 Inv. 509 E e inv. 510 E. Archivio del collezionismo mediceo, cit., t. 2, p. 672; cfr. anche Raffaello a Firenze. Dipinti e disegni delle collezioni fiorentine, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Pitti, a cura di C. Pirovano, Milano, Electa, 1984, pp. 290–293 e la scheda di A. Gnann in Roma e lo stile classico di Raffaello, catalogo della mostra, Mantova, Palazzo Te, Vienna, Albertina, a cura di K. Oberhuber, A. Gnann, Milano, Electa, 1999, n. 95, p. 156. 32 K. Gottardo, Il gusto collezionistico di un eccentrico personaggio veneziano. La collezione di disegni di «Zotto» Sagredo, in Il collezionismo a Venezia e nel Veneto ai tempi della Serenissima, atti del convegno, Venezia 2003, a cura di B. Aikema, M. Seidel, R. Lauber, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 239–258, alle pp. 249–251. 33 RC 12737. M. Clayton, Raphael and his circle. Drawings from Windsor Castle, London, Merrel Holberton, 1999, pp. 80–85, n. 20; F. Vivian, The Consul Smith Collection. Masterpieces of Italian Drawings from Royal Library, Windsor Castle. Raphael to Canaletto, München, Hirmer, 1989, n. 45, p. 158 e la scheda di B. Thomas in Raphael. The Drawings, catalogo della mostra, Oxford, Ashmolean Museum, a cura di C. Whistler, B. Thomas, Oxford 2017, n. 70, pp. 171– 175. 34 Per una sintesi biografica su Zanetti cfr. la voce di Marina Magrini, con bibliografia precedente, in Il collezionismo d’arte a Venezia. Il Settecento, cit., pp. 317–319. 35 In una lettera indirizzata a Francesco Gabburri datata 24 luglio 1728, Zanetti dichiara: «De’ disegni ho ciò che mi basta, e di tutti gli autori; onde io bramerei ancora, quantunque ne ho diverse, fare uno studio distinto di pietre antiche e cammei». G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, vol. ii, Milano, Giovanni Silvestri, 1822, p. 185. 36 Della Grafica Veneziana. Das Zeitalter Anton Maria Zanettis (1680–1767), catalogo della mostra, Zürich, Graphische Sammlung eth, a cura di M. Matile, Petersberg, Michael Imhof, 2016, Appendice i, p. 176. 37 Il documento è stato edito in Venezia Settecento. Studi in memoria di Alessandro Bettagno, a cura di B. A. Kowalczyk, Cinisello Balsamo, Silvana 2015, pp. 31–36. 38 G. P. Bellori, Descrizzione delle Immagini Dipinte da Rafaelle d’Urbino nelle Camere del Palazzo Apostolico Vaticano, Roma, Gio. Giacomo Komarek, 1695. 39 L’epistolario Giovanni Antonio Armano Giovanni Maria Sasso, a cura di G. Tormen, Verona, Cierre 2009, p. 168. Zanetti possedeva inoltre un esemplare delle stampe eseguite nel 1649 da Nicolas Chaperon dalle Logge Vaticane. 40 Il paragone è contenuto nella famosa lettera di Algarotti a Pierre-Jean Mariette da Potsdam del 13 febbraio 1751: Lettere artistiche del Settecento veneziano, i, a cura di A. Bettagno, M. Magrini, Vicenza, Pozza, 2002, p. 164.

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Linda Borean 41 Bottari/Ticozzi, Raccolta di lettere, cit., p. 133, lettera di Zanetti a Francesco Gabburri del 10 aprile 1723. 42 A. Bettagno, Brief notes on a great collection. Anton Maria Zanetti and his collection of drawings, in Festschrift to Erik Fischer. European drawings from six centuries, Copenaghen, Royal Museum of Fine Arts 1990, pp. 101–108, p. 103. 43 Gli esemplari raffaelleschi incisi da Zanetti, ad acquaforte o a chiaroscuro a quattro legni, contemplavano, oltre agli esemplari della sua raccolta, anche pezzi appartenuti a Crozat, Mariette e Jabach. Alcune sue missive documentano parte di questo suo lavoro di traduzione. In una lettera del 1752 indirizzata al principe Giovanni Venceslao di Liechtenstein, Zanetti dichiara non senza un pizzico di vanto, che «oltre alle stampe a chiaroscuro, tratte per la maggior parte dai disegni originali del graziosissimo Parmigianino e da quelli del divino Raffaello da Urbino, che io possiedo, se ne vedranno anche in rame». Nel 1764, egli invia in dono a Carl Gustav Tessin un volume di chiaroscuri comprendente alcuni disegni di Raffaello «delle Loggie Vaticane, che ne coppiai i disegni dalli originali di tal divino Maestro, quando ero in casa di Monsignor Crozat», raffiguranti «Il sacrifizio di Noè; Abramo visitato da tre angeli; Lot che fugge con le figlie; Dio Padre che apparisce ad Isacco e gli vieta lo scendere nell’Egitto; Isacco che benedice Esau; Rachele al pozzo; La sommersione di Faraone». Vedi Della Grafica Veneziana, cit., appendice ii, p. 177, appendice iv, p. 182 e appendice iii, pp. 180–181. Nel Museo Correr di Venezia e nel fondo del Louvre si conservano alcune copie grafiche di mano di Zanetti da originali di Raffaello, preparatori per la traduzione a stampa. Cfr. La vita come opera d’arte. Anton Maria Zanetti e le sue collezioni, catalogo della mostra, Venezia, Museo del Settecento veneziano, a cura di A. Craievich, Crocetta del Montello, Antiga, 2018, pp. 170–174; D. Cordellier, B. Py, Inventaire général des dessins italiens, V. Raphaël, son atelier, ses copistes, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1992, n. 660. 44 Inv. 1860, 0616.82. Per la provenienza Zanetti vedi Bettagno, Brief notes, cit., pp. 103 e 108, mentre per una sintesi delle varie posizioni degli studiosi cfr. Roma e lo stile classico di Raffaello, cit., n. 100, p. 162 e la scheda di A. Gnann in Raffaello 1520–1483, cit., n. V.37, p. 263. 45 Inv. P. II. 248. Vedi Roma e lo stile classico di Raffaello, cit., 1999, n. 164, p. 236. 46 Sul carteggio e sui disegni Zanetti ceduti a Hume cfr. L. Borean, Lettere artistiche del Settecento veneziano, II. Il carteggio Giovanni Maria Sasso-Abraham Hume, Verona, Cierre, 2004, pp. 76–81. 47 Zanetti allude a Fra’ Bartolomeo, di cui Gabburri gli aveva prestato un gruppo di disegni. 48 Bottari/Ticozzi, Raccolta di lettere, cit., p. 169. 49 British Museum, Inv. 1855, 0214.1; Département des Arts Graphiques, Louvre, inv. 3865. Cfr. Bettagno, Brief notes, cit., p. 103 (per la provenienza Zanetti basata sulle annotazioni di Lagoy), Cordellier/Py, Raphaël, son atelier, ses copistes, cit., n. 57 ed infine la scheda di R. Sassi in Raffaello 1520–1483, cit., n. X.8a-b, pp. 458–459. 50 Inv. 2017.111.1; L. Borean, Per il collezionismo grafico tra Venezia e Londra nel Settecento. Il caso di John Skippe, in «Studi di Memofonte. In memoria di Francis Haskell», 12, 2014, pp. 73–85, p. 76. 51 Per un riepilogo della questione si rinvia a S. Ferino Pagden, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Disegni umbri, Milano, Electa, 1984, pp. 15–21 e alla scheda di V. Farinella in Raffaello e l’eco del mito, catalogo della mostra, Bergamo, Accademia Carrara, a cura di E. Daffra, G. Di Pietrantonio, M. C. Rodeschini, Milano/Venezia, Electa/Marsilio 2018, pp. 152–158. 52 F. Bernabei, I «Discorsi» all’Accademia nell’Ottocento, in L’Accademia di Belle Arti di Venezia. L’Ottocento, a cura di N. Stringa, t. 1, Crocetta del Montello, Antiga, 2016, pp. 35–65, alle pp. 36–39.

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Il disegno come strumento di diffusione di modelli da Roma al Nord Europa

Dalla seconda metà del XVII secolo sino alla metà del successivo in Europa il modello più aggiornato dell’arte italiana era senza dubbio quello romano – tramontata ormai definitivamente l’egemonia fiorentina del secolo precedente sostenuta dal Vasari – nelle due diverse declinazioni nelle quali si era sviluppata la produzione artistica più innovativa del tempo: classicismo e barocco, per utilizzare le tradizionali terminologie schematiche usate dalla critica.1 L’elemento che caratterizzava Roma in quel periodo era senza dubbio la dimensione internazionale, se artisti quali Bernini, Cortona e Poussin ne erano stati i protagonisti assoluti e ad essi si volgeva tutto il mondo di allora. In questo articolato panorama, dove convivevano molte altre categorie pittoriche – quali ad esempio i paesaggisti, gli specialisti di nature morte, i bamboccianti – rappresentate dai tanti artisti provenienti da paesi d’Oltralpe, fiamminghi e olandesi, francesi e tedeschi, e non solo, la tradizione figurativa ufficiale era tenuta viva dall’Accademia di San Luca, cenacolo dove confluivano gli artisti attivi o di passaggio per Roma.2 In seno all’Accademia, sostenuta da un impianto teorico che aveva trovato in Giovan Pietro Bellori il suo mentore, i giovani venivano indirizzati ai principi del classicismo, l’esercizio dall’antico e la copia dai grandi Maestri, oltre che dal modello nudo, al fine di ottenere una formazione che consentisse loro, una volta tornati in patria, di produrre opere aggiornate al linguaggio più moderno, quello romano appunto. La nota stampa di Nicolas Dorigny da un disegno di Maratti (fig. 1)3 rappresenta chiaramente l’indirizzo che aveva preso l’Accademia. Per sottolineare l’internazionalità del modello romano giova ricordare che questa colta iconografia, suggerita al pittore da Bellori per il certamen indetto dal Marchese del Carpio nel 1680, fu riproposta all’inizio del secolo successivo dall’incisore francese in difesa dell’insegnamento in Accademia contro gli attacchi di Ludovico David.4 L’artista che incarnò la posizione di leader all’interno di quell’istituzione nella seconda metà del XVII secolo fu senz’altro Carlo Maratti,5 pittore prediletto di papi, cardinali e regnanti, che proprio in quegli anni, col sostegno di Bellori, si avviava a ricoprire il ruolo di paladino del classicismo, anche se seppe adeguare il suo linguaggio artistico alle più vivaci espressioni del barocco. La capacità di fondere classicismo e barocco – lo dimostrano le due pale dipinte negli stessi anni, la neoraffaellesca

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Fig. 1 Nicolas Dorigny da Carlo Maratti, L’Accademia del disegno, Roma, Istituto Centrale per la Grafica

Il disegno come strumento di diffusione di modelli da Roma al Nord Europa Immacolata Concezione in Santa Maria del Popolo (1684–1686), e l’altra in San Carlo e Ambrogio (1685–1690) decisamente barocca6 – fece di lui il maggior rappresentante nella città eterna, morti Cortona e Bernini, del linguaggio artistico ‹romano› più moderno e aggiornato. A lui infatti si rivolsero i regnanti delle maggiori corti europee: Luigi XIV con Apollo e Dafne, e la Morte di san Giuseppe per Eleonora Gonzaga (1598–1655), moglie di Ferdinando II nella cappella Palatina a Vienna, per non citare i milordi inglesi per ritratti e dipinti vari.7 Per artisti e committenti la sua opera divenne un modello da imitare e copiare, diffondendosi presto in tutt’Europa sin nei luoghi più remoti, come dimostra la copia dalla pala d’altare con Santa Rosalia della cappella Barberini a Palestrina, rintracciata nella cattedrale di Lowicz presso Varsavia,8 ma di cui non si conosce né committente né provenienza.9 Anche il pittore slavo Anton Kern (1709–1747), che soggiornò a Roma nel 1740 per passare poi a Venezia presso Giovan Battista Pittoni, portò con se in patria assai più che il modello veneziano, quello romano, e di Maratti in particolare, come dimostra la sua Madonna e santi, oggi nella Galleria Nazionale di Praga, rimeditata su quella del pittore alla Chiesa Nuova.10 Il modello coniato a Roma da Maratti e tenuto vivo dai suoi allievi, ammorbidito più tardi dal colorismo di Luti e dalle grazie napoletane di Sebastiano Conca, ebbe una incredibile fortuna in Europa sino a metà Settecento, e ben presto attraverso l’Arcadia dette inizio al gusto rococò nella scelta di tematiche, formati e modelli ispirati ad un barocco miniaturizzato, all’antico anacreontico ed a favole mitologiche.11 A questo linguaggio ormai internazionalizzato attinsero artisti di tutt’Europa nei loro viaggi di studio per aggiornarsi fino ad oltre metà del Settecento,12 in particolare quelli provenienti dai paesi nordici, quali i vari stati della Germania, Danimarca e Polonia, dove mancava l’esempio dell’antico, la cultura accademica13 e soprattutto la presenza di tante opere di grandi artisti ai quali ispirarsi. Nessun altro paese europeo infatti poteva reggere il confronto con Roma per la produzione di così tanta arte di grande livello nei secoli XVII e XVIII, e in nessun altro posto furono impegnate tante risorse economiche a questo fine. Confermano tale situazione le numerose presenze di artisti tedeschi nei concorsi all’Accademia di San Luca, definiti dalla Cipriani «tribuna privilegiata dell’arte romana»,14 dove già Dieter Graf aveva individuato queste componenti nelle prove dell’oscuro Adam Eilhauser e dei più noti Adam Damian Asam e Franz Georg Hermann,15 ai quali si può aggiungere Clemens Anton Lünenschloss, che partecipò al Concorso Clementino del 1706 e che, chiamato a Würzburg, dipinse molti quadri ispirati alle opere di Maratti.16 A ulteriore documento della circolazione dei modelli romani va citata anche la Polonia, da dove giunsero a Roma artisti per apprendere ed aggiornare il loro stile sui testi di Cortona, Maratti, Garzi: è il caso di Jan Reisner e Jerzy Szymonowicz-Siemiginowski, che giunti nel 1682 ed accolti all’Accademia di San Luca, tornati in patria riscossero un grande successo, richiestissimi da committenti locali pronti a riconoscerne il linguaggio più moderno ed innovativo.17

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Simonetta Prosperi Valenti Rodinò Più che i dipinti, chiusi all’interno delle corti e diffusi attraverso copie e stampe di traduzione, furono i disegni di Maratti e dei molti pittori sei-settecenteschi gravitanti a San Luca, a costituire il repertorio di modelli esportato in vari paesi europei: sia disegni autografi dei maggiori protagonisti del Seicento romano, sia le copie disegnate, spesso dagli stessi artisti collezionisti, tratte dalle opere più significative conservate in chiese e palazzi romani. Il primo caso davvero esemplare della trasmigrazione dei modelli da Roma nell’Europa del Nord tramite i disegni è costituito dalla vicenda del pittore danese Hinrick Krock (1671–1738),18 che sceso a Roma ben tre volte dal 1688 al 1702 grazie ad una borsa di studio del re, soggiornò presso la bottega di Maratti, e si dedicò alla copia secondo i dettami dell’Accademia, disegnando dai testi più significativi della pittura a Roma, a partire da grandi maestri Raffaello e Annibale Carracci, ma ampliando il suo orizzonte, nell’ottica dell’aggiornamento ai modelli del Seicento: Lanfranco, Sacchi, Cortona, Ferri, Cortese, addirittura Troppa, Garzi e Brandi, oltre naturalmente – e soprattutto – Maratti ed i suoi numerosi allievi Berrettoni, Chiari e Procaccini, fedeli amplificatori del linguaggio del maestro.19 Dalle copie di Krock conservate a Copenhagen emerge un elemento importante per la considerazione riconosciuta al disegno: il pittore danese non solo copiò dipinti del maestro, ma anche disegni, come documentano le sue derivazioni (figg. 2, 3) dai due studi oggi a Budapest20 per le pale commissionate a Maratti da Clemente XI Albani per la cappella del Battistero in San Pietro, oggi ad Urbino, progettate da lui, ma dipinte da Passeri e Procaccini.21 Il risultato di tale tirocinio fu un marcato adeguamento di Krock allo stile del maestro italiano, ed una forte tangenza nell’invenzione e persino nelle tecniche disegnative. Le fonti attestano che il danese tornò in patria con due casse piene di disegni e di accademie, oggi confluiti in parte nello Statens Museum di Copenhagen, che egli utilizzò come repertorio per trarne ispirazione negli affreschi dipinti nei palazzi della città «alla maniera romana», materiale che lasciò poi a disposizione degli artisti conterranei.22 È molto significativo nella nostra ottica che Krock sia stato uno dei promotori e firmatario della petizione al re per la fondazione di un’Accademia di Belle Arti a Copenaghen: l’esigenza di una tale istituzione in Danimarca, basata sul modello romano da lui frequentato, conferma che egli aveva compreso l’importanza di educare i futuri pittori e scultori locali secondo i canoni artistici più aggiornati in Europa, cioè quelli dell’Urbe. Non abbiamo descrizioni di ciò che Krock portò con sé da Roma, ma sappiamo che accanto a copie fatte da lui da celebri prototipi cinque e seicenteschi, vi erano anche studi di artisti contemporanei,23 anche se la raccolta non conta capolavori dei più accreditati artisti. Era questa una prassi assai diffusa, dove le copie disegnate, accompagnate dalle stampe d’après, costituivano il bacino d’ispirazione privilegiato cui attingere da parte di artisti privi di tradizione accademica e di esempi visivi dei grandi maestri del Rinascimento e del Classicismo seicentesco, come nel caso del pittore danese.

Il disegno come strumento di diffusione di modelli da Roma al Nord Europa

Fig. 2 Hinrick Krock, copia da Maratti, San Fig. 3 Hinrick Krock, copia da Maratti, Pietro battezza i santi Processo e Martiniano, San Pietro battezza il centurione, Copenaghen, Copenaghen, Statens Museum for Kunst, inv. 7731 Statens Museum for Kunst, inv. 7730

Furono i disegni quindi – sia copie che autografi di grandi maestri – a determinare la diffusione del modello romano nei paesi europei, ed in particolare nell’area germanica intesa in senso lato, dalla Danimarca agli stati tedeschi, aree in cui, come già evidenziato, mancava una tradizione accademica che costituisse una base per l’educazione dei giovani. Il caso più noto agli studi, e davvero emblematico dell’acquisizione consapevole di modelli romani, è quello del pittore di Düsseldorf Lambert Krahe (1712–1790), che acquistò a Roma un ricchissimo fondi di disegni di scuola romana del Sei e Settecento perché servisse come materiale di studio per i pittori tedeschi, per i quali egli fondò appositamente un’Accademia.24 La vicenda è nota.25 Giunto a Roma nel 1736 al seguito del conte Ferdinand von Plettenberg, Krahe si inserì ben presto nell’ambiente romano. Allievo qui di Subleyras e Benefial, entrò a far parte dell’Accademia di San Luca nel 1751, dove conobbe i meccanismi di apprendimento, per tornare in patria solo nel 1756, quando l’Elettore Carl Theodor gli offrì la direzione della sua galleria. Nei 20 anni del soggiorno romano, egli entrò nel vivo del mercato dell’arte nell’Urbe, allora molto vitale, preso d’assalto da

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Fig. 4 Giovan Battista Beinaschi, Figura allegorica di fiume, Düsseldorf, Museum Kunstpalast, inv. KA (FP) 7097

agenti, banchieri e gentiluomini del grand tour provenienti da tutt’Europa, riuscendo a raccogliere una gran quantità di bozzetti, gessi, stampe e soprattutto disegni dei più grandi maestri del Seicento romano.26 Colpo da maestro di Krahe fu l’essersi aggiudicata la maggior parte di una delle più note collezioni di grafica del tempo, quella di Pier Leone Ghezzi (1674–1755), il noto «cavaliere delle caricature», che aveva ereditato il nucleo della raccolta del padre Giuseppe (1634–1721), pittore anch’egli, esperto d’arte, noto stimatore di collezioni, organizzatore di mostre e appassionato di disegni, che comprava e rivendeva sul mercato a Roma a facoltosi acquirenti stranieri.27 Questi aveva ben sfruttato la carica di Segretario dell’Accademia di San Luca, ricoperta dal 1674 fino alla fine, acquistando interi fondi di botteghe di artisti, disponibili in genere alla loro morte, quando gli eredi, pressati dal bisogno di denaro, erano pronti a vendere al primo offerente per far fronte a tasse e divisioni.28 Caratteristica di tale collezione sono studi di figure, panneggi, particolari anatomici quali teste, mani, braccia, oltre ad accademie, per lo più di artisti del Seicento romano, materiale considerato di ‹seconda scelta›, che veniva in genere diviso tra gli allievi, e perciò meno costoso rispetto ai modelli finiti, assai più richiesti e prezzati sul mercato. Nel legame diretto con i numerosi artisti gravitanti nell’Accademia dalla metà del XVII secolo in poi si può individuare la fonte della provenienza dei ricchissimi fondi di studi di Testa, Sacchi, Mola, Cortona e seguaci, Cortese e Gaulli, Lanfranco e Beinaschi (fig. 4),29 e soprattutto di Carlo Maratti e dei suoi numerosi allievi, in particolare Passeri (fig. 5)30 e Calandrucci. Alla morte del padre, Pier Leone ne seguì la politica di acquisti, arricchendo la collezione di studi di artisti accademici attivi a Roma dal terzo al sesto decennio del secolo.31 Alla sua scomparsa nel 1755, i beni passarono alla moglie Caterina Peroni, unica erede senza prole, dei quali entro il 1756 Krahe riuscì ad aggiudicarsi una parte considerevole di disegni di figura, tralasciando quelli architettonici, a

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Fig. 5 Giuseppe Passeri, La tiara offerta al cardinal Albani, Museum Kunstpalast, inv. KA (FP) 2260

conferma della sua intenzione di favorire i pittori tedeschi.32 Non sappiamo con quali risorse egli abbia effettuato questo acquisto, assai costoso secondo le esose richieste della vedova, ma è noto che egli accumulò molti debiti, forse a seguito di tale dispendiosa politica di acquisizioni.33 Krahe non si limitò all’acquisto romano per costituire la sua raccolta di oltre 10.000 fogli, ma si rivolse anche ad aste di disegni in Olanda: è il caso della collezione del pittore-mercante olandese Gerad Hoet († 1760) tenutasi a L’Aia nel 1760,34 che aveva comprato a Parigi vari fogli appartenuti al banchiere francese Pierre Crozat,35 tra i quali un autografo di Raffaello. Fu ancora l’attenzione ai maestri italiani, ed in particolare romani, da lui ritenuti modelli insuperabili, che spinse Krahe ad acquistare disegni appartenuti al biografo romano Nicola Pio († post 1724):36 così entrarono a Düsseldorf ulteriori disegni di pittori del Sei e Settecento romano già presenti nel nucleo Ghezzi, quasi a ribadire le scelte del pittore orientate verso quella scuola pittorica.37 A conclusione di queste vicende, va ribadito che Krahe aveva acquistato i disegni non per proprio diletto, ma per offrirli come materiale di studio ai giovani artisti tedeschi della corte di Düsseldorf e di Mannheim, bisognosi a suo avviso di modelli ai quali rifarsi per raggiungere una corretta formazione: egli stesso infatti afferma, alludendo alla sua collezione, di averla assemblata «non tanto per piacere […] quanto per istruzione».38 Negli ultimi anni trascorsi a Düsseldorf infatti egli si dedicò a fondare l’Accademia di Belle Arti, a cui legò questa raccolta veramente unica, al cui interno i fogli vennero usati come modelli, copiati, ricalcati e spesso ritagliati dagli allievi.

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Simonetta Prosperi Valenti Rodinò Caso analogo a quello di Düsseldorf, almeno nelle intenzioni dell’acquirente, l’esperto d’arte Friedrich Wilhelm Freiherr von Erdmannsdorff (1736–1800), si riscontra nell’album di 60 studi di figure, teste e parti anatomiche, opere di artisti italiani – principalmente romani – tra il XVII e XVIII secolo, oggi confluito nella Graphische Sammlung dell’Anhaltische Gemäldegalerie di Dessau.39 Si tratta di un tipico documento di cultura accademica, proveniente anch’esso dalla collezione Ghezzi ed acquistato a Roma intorno al 1770–1771 da Bartolomeo Cavaceppi, su cui torneremo: il progetto di Erdmannsdorff era infatti di usare questo materiale, di non elevata qualità (ad eccezione dei fogli di Barocci) per le lezioni di disegno nella scuola che aveva intenzione di fondare al fine di educare i giovani, come ha ricostruito Karen Buttler.40 Quello di Düsseldorf rimane indubbiamente l’esempio più evidente della volontà di cercare il modello romano cui indirizzare artisti nordici. La migrazione da Roma al Nord Europa di collezioni di disegni messe insieme nel corso del Settecento continuò ancora all’inizio del secolo successivo41 concretizzandosi in due episodi che vanno considerati nella nostra panoramica. In Germania però la situazione era radicalmente mutata nel XIX secolo, quando a guidare la politica di acquisizioni fatte a Roma da personaggi di spicco della cultura e da artisti-collezionisti non fu tanto l’intento didattico per educare le nuove generazioni, utilizzando i disegni per la formazione di giovani, quanto un interesse storico rivolto alla ricerca della storia dell’arte. È il caso della raccolta Cavaceppi-Pacetti che fu comprata nel 1843 da Gustav Friedrich Waagen per il Museo di Berlino.42 Era questa l’ultima grande collezione di grafica disponibile sul mercato a Roma, dopo l’alienazione di tutte le altre: Albani, Dal Pozzo, Maratti, Valenti Gonzaga, Odescalchi. Essa risaliva a Bartolomeo Cavaceppi (1716– 1799),43 scultore legato al Winckelmann, che aveva fatto fortuna grazie alla sua abilità nel restaurare statue antiche, per venderle poi ad agenti e principi inglesi e tedeschi. Durante tutta la vita egli aveva dedicato energie e risorse economiche per radunare una collezione di bozzetti, calchi, gemme e non ultimi disegni, che aveva arricchito acquisendo nel 1762 le due più significative raccolte allora sul mercato: quella pregevole del cardinal Silvio Valenti Gonzaga, Segretario di Stato di Benedetto XIV,44 e gli studi d’architettura di Ghezzi, tralasciati da Krahe, che comprendevano progetti dei maggiori protagonisti a Roma nel XVII e XVIII secolo, Fontana, Marchionni, Galilei e Juvarra.45 Alla sua morte i disegni ammontavano a circa 8.000 fogli sistemati in 95 volumi, divisi per autore, scuole e soggetti secondo una classificazione tradizionale; tra i disegni di figura vi era un nutrito nucleo del Cinquecento, con allievi di Raffaello, Polidoro in particolare, lo splendido insieme di Barocci, sino ai nuclei più consistente del Sei e Settecento romano (e non solo) con studi dei maggiori interpreti del barocco, da Cortona a Bernini, Mola, Testa, Sacchi e Maratti, sino a Trevisani, Benefial e Batoni (figg. 6, 7).46 Cavaceppi, giustamente orgoglioso della sua raccolta, si preoccupò di non disperderla: difatti alla sua morte la lasciò all’Accademia di San Luca insieme a gessi e statue, destinandola a scopi didattici come materiale di studio per i giovani artisti, mosso dalla

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Fig. 6 Pompeo Batoni, Studio di testa femminile, Berlino, Kupferstichkabinett, inv. KdZ 15634

Fig. 7 Marco Benefial, Studio di figura, Berlino, Kupferstichkabinett, inv. KdZ 20104

stessa attenzione che aveva animato gli acquisti di Krock e Krahe. Purtroppo le sue intenzioni vennero tradite dall’esecutore testamentario, lo scultore Vincenzo Pacetti (1746–1820), che ricopriva in quegli anni la carica di Principe dell’Accademia, il quale non solo non seguì la volontà del defunto, ma acquistò per sé la collezione di disegni in un modo non troppo limpido.47 Animato da una grande passione per il disegno, egli accrebbe la raccolta senza mai alienarla fino a raggiungere più di 10.000 fogli: fu suo figlio Michelangelo a venderla nel 1843 a Gustav Friedrich Waagen, allora direttore del Museo di Berlino per il costituendo Kupferstichkabinett.48 Se l’acquisto del fondo Cavaceppi-Pacetti non fu patrocinato da un artista, come nei casi precedenti, e quindi non finalizzato alla didattica presso un’accademia, esso però assume una rilevanza nuova perché fu proposto da un curatore di museo: Waagen ebbe la lucidità di comprendere che quella era l’ultima raccolta disponibile sul mercato a Roma, come scrisse lui stesso nella relazione all’acquisto.49 Come già detto, la collezione era composta per la maggior parte da studi di pittori, scultori e architetti attivi a Roma nei secoli dal XVI al XVIII, molti afferenti all’Accademia di San Luca e portavoci di un indirizzo artistico ufficiale,

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Fig. 8 Carlo Maratti, Studio per la lunetta con Giaele e Sisara, Würzburg, Martin-von-Wagner Museum, inv. 7577

di quel linguaggio irradiato dall’Urbe in tutt’Europa, materiale che destava ancora interesse all’inizio dell’Ottocento se non per intenti didattici come nei casi precedenti, come fonte di studio per la nuova ricerca sulla storia dell’arte. Non dobbiamo sottovalutare in questo acquisto motivazioni nazionalistiche al fine di fondare un museo pubblico di grafica proprio a Berlino, dove i maggiori intellettuali e curatori del tempo, quali Wilhelm von Humboldt e lo stesso Waagen, erano alla ricerca sul territorio nazionale ed internazionale di nuclei significativi di grafica per arricchire il Kupferstichkabinett, appena fondato nel 1831. Aprire al pubblico un gabinetto di grafica significava creare un luogo di studio su disegni e stampe, e probabilmente la neo raccolta berlinese svolse questo ruolo nel circolo degli studiosi, almeno nelle intenzioni dei fondatori, che acquisirono anche le raccolte di stampe di von Nagler e di altri.50 Se è da tener presente che in quegli anni la critica storico artistica era impegnata soprattutto nella rivalutazione dei grandi protagonisti italiani del primo Rinascimento e dei «primitivi», cioè gli artisti dal XIII al XV secolo, il modello del disegno romano del Sei e Settecento, offerto in grande abbondanza dalla collezione Pacetti, offriva un repertorio unico della ricerca per la storia dell’arte. L’ultimo caso interessante per la diffusione del modello italiano, e soprattutto romano, attraverso i disegni, è quello di Martin von Wagner (1777–1858) a Würzburg.51 Wagner

Il disegno come strumento di diffusione di modelli da Roma al Nord Europa era pittore, scultore e agente del principe ereditario di Baviera Ludovico I, e quindi esperto sia di antichità che di pittura, ma fu anche collezionista di disegni in proprio. Egli mise insieme 11.000 disegni, dei quali più di 3.000 di artisti italiani, ma non di grandi maestri del Rinascimento, i cui prezzi erano fuori della sua portata economica: quel nucleo è caratterizzato da fogli di artisti attivi in Italia e soprattutto a Roma, fonte privilegiata dei suoi acquisti, dal tardo XVI sino al tardo XVII secolo, con una concentrazione di studi del Sei e Settecento di tradizione classicista, quali ad esempio il già citato – e tanto ricercato – Maratti (fig. 8) e la sua folta bottega, da Passeri, Calandrucci, Vieira e Masucci, sino a Luti, Conca, Batoni, Cavallucci, Cades, e Corvi per citarne solo alcuni.52 Siamo di nuovo di fronte ad un esempio di collezione di grafica raccolta da un artista, per di più un pittore neoclassico, quindi già indirizzato nelle sue scelte verso l’antico e la tradizione classicista. Infatti le sue accademie, realizzate quando studiava a Vienna all’Accademia di Belle Arti, sono molto affini a studi analoghi di Batoni e Benefial, riprendendo la tradizione dello studio dal modello nudo in posa codificata a Roma in seno all’Accademia di San Luca dal binomio Maratti-Bellori sin dal 1664 e mantenuta sino alla fine del XVIII secolo. Non è chiaro quando egli abbia cominciato a collezionare disegni e quali siano state le sue fonti di acquisti: è assodato però che la maggior parte di questi provengano da Roma, come conferma il fatto che siano per lo più opere di artisti lì attivi tra la fine del XVII e il XVIII secolo, cioè dei seguaci della tradizione tardobarocca che faceva capo a Maratti e scuola, escludendo esempi di pittori naturalisti o di altre tendenze.53 Stefan Morét ha ricostruito che molti fogli provengono dai volumi rubati della collezione Cavaceppi, allora disponibili sul mercato romano, e che altri Wagner li acquistò direttamente da Michelangelo Pacetti, lo stesso che li vendette al museo di Berlino, tra cui il bello studio di Batoni per il Cristo morto fatto in gara con Mengs (fig. 9), e da un altro collezionista del tempo, Alessandro Maggiori, che prediligeva anch’egli pittori di area classicista.54 Appare evidente che la profonda conoscenza della storia dell’arte acquisita da Wagner determinò la sua attività collezionistica, indirizzandola ed influenzandola. Era sua intenzione raccogliere opere esemplari per ricostruire una visione d’insieme dello sviluppo della pittura dalla fine del XVI secolo fino al 1800 circa, cioè fino al momento in cui egli stesso aveva iniziato ad operare. Wagner lasciò in eredità la sua collezione all’Università di Würzburg. Il motivo di tale scelta, che esula del tutto dalla formazione degli artisti con l’ausilio dei disegni, che aveva invece ispirato Krock e Krahe, va ricercata nella volontà del pittore che la sua collezione fosse fruibile ad artisti, studiosi e persone interessate all’arte. L’Università era all’epoca l’unico luogo della città che poteva garantire l’apertura al pubblico. Ancora una volta, come nel caso di Berlino, tale lascito era dettato dall’intento di fornire materiali per la ricerca nella storia dell’arte, esigenza primaria che segna il mutamento di indirizzo intrapreso nel XIX secolo nel raccogliere opere d’arte.

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Pompeo Batoni, Studio di Cristo morto, Würzburg, Martin-von-Wagner Museum, inv. 7228

In questa panoramica necessariamente sommaria ci siamo soffermati solo sui casi di Copenhagen, Düsseldorf, Berlino e Würzburg perché ci sembrava rispondessero meglio al nostro enunciato di partenza, cioè l’acquisizione di disegni di scuola romana dei secoli XVII e XVIII che erano in grado di offrire modelli per la formazione di giovani non addestrati allo studio dell’antico e delle regole accademiche nell’applicazione al disegno. In area tedesca però il fenomeno della nascita delle collezioni pubbliche di disegni e stampe tra la fine del Settecento ed il secolo successivo ebbe una genesi assai più articolata, perché esse sorsero per musealizzare le raccolte delle varie case principesche della Germania: per citare alcuni esempi celebri, è il caso di Monaco in Baviera, di Dresda ed ancor più significativo a Vienna della Graphische Sammlung Albertina, sorta per volontà di un principe illuminato come Albert von Sachsen-Teschen. Ma il carattere di queste collezioni ricche di fogli di grandi maestri italiani assai più importanti di quelle da noi qui prese in considerazione, è strettamente legato alla figura del collezionistaamateur che le mise insieme, dettato dalla volontà di arricchire il proprio patrimonio culturale e di metterlo a disposizione di studiosi e pubblico, con finalità che esulano in parte dalla nostra ottica. Il fenomeno ebbe comunque una vastità enorme ed una proliferazione paragonabile solo a quella dell’Italia delle corti rinascimentali, e merita un’analisi assai più ampia di quella che gli abbiamo riservato noi in questo saggio.

Il disegno come strumento di diffusione di modelli da Roma al Nord Europa 1 Un intelligente riesame di tale situazione storica nell’asse Roma/Torino/Parigi si trova nel recente catalogo della mostra: Sfida al barocco 1680–1750. Roma Torino Parigi, Torino, Reggia di Venaria Reale, a cura di M. Di Macco, G. Dardanello, C. Gauna, Genova, Sagep editori 2020. 2 La bibliografia sull’Accademia di San Luca a Roma è molto vasta, dallo storico volume di M. Missirini, Memorie per servire alla storia della Romana Accademia di S. Luca fino alla morte di Antonio Canova, Roma, De Romanis, 1823, a quello antologico di C. Pietrangeli, L’Accademia Nazionale di San Luca, Roma, De Luca, 1974, sino ai saggi più recenti: C. Goldstein, Art history without names: a case study of the Roman Academy, in «The Art Quarterly», N. S., 1, 1977/1978, 2, pp. 1–16; S. Waźbiński, Annibale Carracci e l’Accademia di San Luca. A proposito di un monumento eretto in Pantheon nel 1674, in Les Carraches et les décors profanes, Actes du colloque, Ecole française de Rome, 1986, Roma, 1988, pp. 587–615; A. Cipriani, Bellori ovvero l’Accademia, in L’idea del bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, catalogo della mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, a cura di E. Borea, C. Gasparri, 2 voll., Roma, De Luca, 2000, ii, pp. 480–488; I. Salvagni, Da Universitas ad Accademia. La corporazione dei pittori nella chiesa di San Luca a Roma 1478–1588, Roma, Campisano, 2012. Per una sintesi alla fine del XVII secolo si rinvia al recente volume di S. Ventra, L’Accademia di San Luca nella Roma del secondo Seicento. Artisti, opere, strategie culturali, Firenze, Leo Olschki, 2019, con ampia bibliografia sull’argomento. 3 Su questa notissima invenzione incisa, descritta da G. P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, [1672] a cura di E. Borea, 2 voll., Torino, Einaudi, 2009, ii, pp. 629–631, vi è ampia bibliografia. Citiamo: M. Winner, «… una certa idea»: Maratta zitiert einen Brief Raffaels in einer Zeichnung, in Der Künstler über sich in seinem Werk, atti del convegno, Roma, Bibliotheca Hertziana, 1989, a cura di M. Winner, Weinheim, VCH, Acta Humaniora 1992, pp. 511–570; S. Rudolph, in L’idea del bello, cit., pp. 484–485, nn. xviii.3-4; A. Aymonino in Drawn from the Antique. Artists and the Classical Ideal, catalogo della mostra Haarlem, Teylers Museum, London, Sir John Soane’s Museum, a cura di R. Aymonino, A. Varick Lauder, London, Sir John Soane’s Museum, 2015, cat. 15, pp. 148–153; L. Pezzuto in Raffaello. L’Accademia di San Luca e il mito dell’Urbinate, catalogo della mostra, Roma, Accademia di San Luca 2020–2021, a cura di F. Moschini, S. Ventra, V. Rotili, Roma 2020, pp. 181–185. 4 È questa la nuova interpretazione da me fornita: S. Prosperi Valenti Rodinò, recensione a Ventra, L’Accademia di San Luca, cit., in «Bollettino d’arte», 2020 (in corso di stampa). 5 Troppo vasta la bibliografia su Maratti: per brevità, si rinvia ai contributi nei due recenti convegni, Maratti e l’Europa, atti delle giornate di studio, Roma, Palazzo Altieri, Accademia Nazionale di San Luca, 2013, a cura di L. Barroero, S. Prosperi Valenti Rodinò, S. Schütze, Roma, Campisano, 2015; Maratti e la sua fortuna, atti delle giornate di studio, Roma, Galleria d’Arte Antica Corsini, a cura di S. Ebert-Schifferer e S. Prosperi Valenti Rodinò, Roma, Campisano, 2017, con ampia bibliografia precedente. 6 Per la pala in Santa Maria del Popolo si veda da ultimo F. Federici, A Chapel in Dialogue. The Cybo Chapel in Santa Maria del Popolo, in Chapels of the Cinquecento and Seicento in the Churches of Rome. Form, Function, Meaning, a cura di C. Franceschini, S. F. Ostrow, P. Tosini, Milano, Officina libraria, 2020, pp. 212–237: per quella in San Carlo e Ambrogio al Corso, S. Rudolph in L’idea del bello, cit., ii, cat. XVII.18, pp. 452–453. 7 Si rinvia ai vari saggi di S. Rudolph, M. Mena Marqués, S. Loire e altri in Maratti e l’Europa, cit. 8 L’opera mi è stata segnalata da Denis Ton, che qui ringrazio.

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Simonetta Prosperi Valenti Rodinò 9 La copia è meglio conservata di quella di Francesco Reale oggi in loco: cfr. G. B. Fidanza, Carlo Maratti and the Barberini family: two paintings for churches in Palestrina, in «The Burlington Magazine», 159, 2017, pp. 610–616. 10 M. Zlatohlàvek, Anton Kern and Carlo Maratti, in «Czech and slovak journal of humanities», 3, 2016, pp. 96–104. Il dipinto però raffigura santi diversi ai piedi della Vergine: a sinistra San Vecenslao e Sant’Antonio (aggiunto), e a destra Santa Margherita. 11 Oltre ai saggi di vari autori in Maratti e la sua fortuna, cit., 2016, si veda L. Barroero, S. Susinno, Arcadian Rome, universal capital of the arts, in Art in Rome in the eighteenth century, catalogo della mostra, Houston, Museum of Fine Arts, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art, a cura di E. P. Bowron, J. Rishel, London, Merrel, 2000, pp. 47–75. 12 S. Prosperi Valenti Rodinò, La centralità del modello romano, in Sfida al barocco, cit., pp. 51–60. 13 Per un’esatta ricostruzione storica, va detto che anche in Germania, a Norimberga, Augusta e in altre città erano state fondate le Accademie, ma i modelli italiani non erano presenti nel loro programma didattico. 14 A. Cipriani in: I premiati dell’Accademia 1682–1754, catalogo della mostra Roma, Accademia Nazionale di San Luca 1989–1990, a cura di A. Cipriani, Roma, Quasar, 1989, p. 9. Le presenze di artisti stranieri sono registrati ad annum da A. Cipriani, E. Valeriani, I disegni di figura nell’Archivio Storico dell’Accademia di San Luca, 3 voll., Roma 1988–1991, ad indicem. 15 D. Graf in I premiati dell’Accademia, cit., catt. 43, 45, 49. Per Adam: C. Eder, Das Kuppelfresko der Johann Nepomuk-Kapelle in Meßkirch, ein Werk des Münchner Barockmalers Johann Adam Müller, in «Barockberichte», 55/56, 2010, pp. 543–556. 16 S. Morét, Ein deutscher Maler des 18. Jahrhunderts in Rom. Zeichnungen von Anton Clemens Lünenschloß für den Concorso Clementino der römischen Accademia di San Luca im Jahre 1706, in «Marburger Jahrbuch für Kunstwissenschaft», 32, 2005, pp. 255–270. 17 K. Pyzel, L’influenza di Luigi Garzi sui pittori della corte di Jan III Sobieski di Polonia. Jerzy Szymonowicz-Siemiginowski e Jan Reisner, in Luigi Garzi 1638–1721, pittore romano, a cura di F. Grisolia, G. Serafinelli, Milano, Officina Libraria, 2018, pp. 245–251, con bibliografia. 18 S. Theimann, Hinrick Krock 1671–1738, der Hofmaler im absolutistischen Dänemark, Copenaghen, Forum, 1980, e U. Fischer Pace, Diffusione del modello Maratti nei Paesi del Nord Europa: il caso di Hinrick Krock, in Maratti e l’Europa, cit., pp. 187–194. I soggiorni a Roma avvennero negli anni 1688–1690, 1696–1699, 1702. 19 D. Beccarini, Nel segno di Sacchi e di Maratti. Luigi Grazi e Hinrick Krock, da Roma a Copenaghen, in Luigi Garzi, cit., pp. 263–272. 20 Copenaghen, Statens Museum for Kunst, inv. Kksgb 7730 e 7731, non pubblicati prima d’ora. I due disegni a Budapest, inv. 2364 e 2365: A. Czére, 17th Century Italian Drawings in the Budapest Museum of Fine Arts. A complete catalogue, Budapest, Szépművészeti Múzeum, 2004, catt. 232 e 233, pp. 223–226, con illustrazioni, già attribuiti a Passeri e Procaccini, autori delle tele corrispondenti oggi ad Urbino, sono stati correttamente riportati ad una piena autografia di Maratti dagli studi recenti (ibidem). 21 Le copie di Krock sono fedeli ai disegni, mentre le pale presentano varie differenze rispetto ai modelli di Maratti: ciò prova con certezza che i disegni di Budapest sono del maestro in quanto è difficile pensare che Krock si esercitasse su fogli di scuola, facendo cadere le perplessità attributive sollevate da studiosi su questi due fogli (vedi Czére, 17th Century Italian Drawings, cit., pp. 224-224. Sulle due pale si rinvia a S. Prosperi Valenti Rodinò in Papa Albani e le arti a Urbino e a Roma 1700–1721, catalogo della mostra Urbino, Palazzo del Collegio, Roma,

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Chiesa del Santissimo Salvatore, 2001–2002, a cura di G. Cucco, Venezia, Marsilio, catt. 68–69. Fischer Pace, Diffusione del modello Maratti, cit., p. 188, nota 6. È quanto ha evidenziato D. Beccarini, Nel segno di Sacchi e di Maratti, cit. Sulla ricostruzione di questa vicenda si rinvia a: Akademie. Sammlung. Krahe. Eine Künstlersammlung für Künstler, catalogo della mostra, Düsseldorf, Museum Kunstpalast, a cura di S. Brink, B. Wismer, Berlin/München, Deutscher Kunstverlag, 2013. Su Krahe si rinvia a Lambert Krahe (1712–1790). Maler – Sammler – Akademiegründer, atti del convegno, Düsseldorf, 2012, a cura di K. Bering, Oberhausen, Athena, 2013. Per gli acquisti di disegni romani si rinvia a S. Prosperi Valenti Rodinò, Provenienzen der Zeichnungen in der Sammlung Lambert Krahe, in Akademie. Sammlung. Krahe, cit., pp. 77–93, con bibliografia precedente. Su Giuseppe Ghezzi vedi G. De Marchi, Sebastiano e Giuseppe Ghezzi: protagonisti del barocco, catalogo della mostra, Comunanza, Palazzo Pascali, Venezia, Marsilio 1999; sulla sua collezione di disegni S. Prosperi Valenti Rodinò, Gli artisti romani collezionisti di disegni, in L’artiste collectionneur des dessin. 1., Rencontres internationales du Salon du Dessin, Paris 2006, a cura di C. Monbeig Goguel, Milano, 5 Continents, 2006, pp. 76–77. Prosperi Valenti Rodinò, Gli artisti romani collezionisti, cit., 1999, pp. 107–108; Eadem, Provenienzen der Zeichnungen, cit., pp. 77–80. L’autonomia di Ghezzi senjor all’interno dell’Accademia, con apertura verso artisti contemporanei non allineati al classicismo di Maratti e Bellori, è ribadito da Ventra, L’Accademia di San Luca, cit. Düsseldorf, Museum Kunstpalast, inv. KA(FP) 7097, pubblicato da F. Grisolia, «Famoso disegnatore». I disegni di Giovan Battista Beinaschi nella collezione della Kunstakademie Düsseldorf al Kunstpalast, Petersberg, Michael Imhof Verlag, 2019, p. 29, cat. 2. Düsseldorf, Kunstpalast, inv. KA(FP)2260, pubblicato da D. Graf, Die Handzeichnungen des Giuseppe Passeri, 2 voll., Düsseldorf, Kunstmuseum Düsseldorf im Ehrendorf, 1995, cat. 363, fig. 711. La provenienza Ghezzi del fondo di Düsseldorf è nota sin dal primo catalogo del fondo di I. Budde, Beschreibender Katalog der Handzeichnungen in der Staatlichen Kunstakademie Düsseldorf, Düsseldorf, Schwann, 1930, p. viii, e ripetuta nei vari cataloghi della collezione a cura di E. Schaar, D. Graf, H. T. Schulze Altcappenberg e S. Brink, che qui non si riportano per brevità. La vicenda della vendita dei beni della Peroni è molto complessa, ed è riassunta, con bibliografia precedente, da S. Prosperi Valenti Rodinò, Provenienzen der Zeichnungen, cit., pp. 77–80. Purtroppo non abbiamo documenti dell’acquisto di Krahe, ad eccezione di una lettera spedita da Roma a Carl Theodor von der Pfalz il 30 maggio 1757 dal suo agente Antonio Coltrolini (1685–1763), in cui si fa cenno della presenza ancora in casa Ghezzi di una cassa con quadri e disegni di proprietà Krahe. Della raccolta Ghezzi Krahe tralasciò i progetti architettonici, che furono rilevati dopo il 1762 da Cavaceppi (vedi più avanti). Si deve a H. T. Schulze Altcappenberg, Facetten des Barock. Meisterzeichnungen von G. Bernini bis A. R. Mengs aus dem Kunstmuseum Düsseldorf, Akademiesammlung, catalogo della mostra, Kunstmuseum Düsseldorf 1990, pp. 284–286, l’identificazione della provenienza dall’asta Hoet di disegni dalla raccolta Crozat. Su Crozat si veda C. Hattori, The drawings collection of Pierre Crozat (1665–1740), in Collecting prints and drawings in Europe, c. 1500–1750, a cura di C. Baker, C. Elam, G. Warwick, Aldershot, Ashgate, 2003, pp. 173–181.

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Simonetta Prosperi Valenti Rodinò 36 Su Pio: P. Bjurström, Nicola Pio as Collector of Drawings, Stockholm, Istituto svedese di studi classici a Roma, 1995, con bibliografia. 37 Hanno provenienza Pio i disegni di Poussin, Swanevelt, Luti, Pietro de’ Pietri, Melchiorri e soprattutto Stefano Pozzi: Prosperi Valenti Rodinò, Provenienzen der Zeichnungen, cit., pp. 87–90. 38 S. Brink, «Non tanto per piacere […] quanto per istruzione […]». Lambert Krahes Kunstsammlung – eine Künstlersammlung für Künstler, in Akademie. Sammlung. Krahe, cit, pp. 13–37. 39 K. Buttler, Die Sammlung italienischer Figurenzeichnungen von Friedrich Wilhelm von Erdmannsdorff: zu ihrer Entstehung, Funktion und Provenienz aus den Sammlungen Bartolomeo Cavaceppis und Pier Leone Ghezzis, in «Jahrbuch der Berliner Museen», 53, 2013, pp. 73–97. 40 Ibidem. 41 Non rientra nella nostra ottica l’acquisizione nel 1790 da parte del mercante olandese Peter Teylers, tramite la mediazione di Lestevenon, della collezione di disegni già appartenuti a Livio Odescalchi e prima ancora alla regina Cristina di Svezia: quella raccolta infatti contava soprattutto fogli dei grandi maestri del Rinascimento, quali Michelangelo e Raffaello, da sempre considerati fonte primaria d’ispirazione, anche se vi figuravano molti studi dei maggiori rappresentanti del Seicento italiano, dai Carracci a Cortona, Testa, Mola. Cfr.: B. W. Mejier, I grandi disegni italiani del Teylers Museum di Haarlem, Milano, Silvana Editoriale, 1984 e da ultimo C. van Tuyll van Serooskerken, The Italian Drawings of the Seventeenth and Eighteenth Centuries in the Teyler Museum, Leiden, Primavera Pers Leiden/Haarlem, Teyler Museum, 2021. 42 Per la storia della raccolta i saggi più significativi sono: K. Cassirer, Die Handzeichnungssammlung Pacetti, in «Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen», 43, 1922, pp. 63–96; P. Dreyer, I grandi disegni italiani del Kupfestichkabinett di Berlino, Milano, Silvana Editoriale, 1979; P. Dreyer, Zur Kennzeichnung von Provenienzen im Berliner Kupferstichkabinett, in «Jahrbuch der Berliner Museen», 26, 1984, pp. 291–299; G. Fusconi, Frammenti della collezione di disegni Cavaceppi-Pacetti, in Per Luigi Grassi: Disegno e disegni, a cura di A. Forlani Tempesti, S. Prosperi Valenti Rodinò, Rimini, Galleria, 1998, pp. 414–435; I. Vermeulen, «Wie mit einem blicke» Cavaceppi’s Collection of Drawings as a visual Source for Winckelmann’s History of Art, in «Jahrbuch der Berliner Museen», 45, 2003, pp. 77–89; D. Korbacher, Ottavio Leoni dans les collections du Kupferstichkabinett, in Ottavio Leoni (1578–1630). Les portraits de Berlin, a cura di F. Solinas, Roma, De Luca, 2013, pp. 45–49. 43 Su Cavaceppi vedi Bartolomeo Cavaceppi scultore romano (1717–1799), catalogo della mostra, Roma, Museo del Palazzo di Venezia, a cura di M. G. Barberini, C. Gasparri, Roma, Palombi, 1994; S. A. Meyer, C. Piva, L’arte di ben restaurare. La «Raccolta d’antiche statue» (1768–1772) di Bartolomeo Cavaceppi, Firenze, Nardini, 2011. Per un riepilogo della storia della raccolta di disegni vedi note più avanti e inoltre: Prosperi Valenti Rodinò, Gli artisti romani collezionisti, cit., pp. 79–81. 44 S. Prosperi Valenti Rodinò, La collezione di grafica del cardinal Silvio Valenti Gonzaga, in Artisti e mecenati. Dipinti, disegni, sculture e carteggi nella Roma curiale (Studi sul Settecento romano, 12), a cura di E. Debenedetti, Roma, Bonsignori, 1996, pp. 131–192. 45 Questa provenienza è stata messa a fuoco da E. Kieven, La collezione dei disegni di architettura di Pier Leone Ghezzi, in Collezionismo e ideologia: mecenati, artisti e teorici dal classico al neoclassico (Studi sul Settecento romano, 7), a cura di E. Debenedetti, Roma, Multigrafica, 1991, pp. 146–148, nota 57 pp. 147–149. 46 Per una panoramica complessiva sui disegni del Sei e Settecento romano: P. Dreyer, Römische Barockzeichnungen aus dem Berliner Kupferstichkabinett, catalogo della mostra, Berlin, Staatlicher

Il disegno come strumento di diffusione di modelli da Roma al Nord Europa

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Museen Preussischer Kulturbesitz, Kupfertichkabinett, Berlin 1969, seguito poi da numerosi contributi monografici su vari artisti, che sarebbe troppo lungo riportare in questa sede. Su Pacetti si vedano i vari saggi in: Vincenzo Pacetti, Roma, l’Europa all’epoca del Grand Tour, atti del convegno, Roma 2013, a cura di A. Cipriani, G. Fusconi, C. Gasparri, M. Grazia Pigozzi, L. Pirzio Biroli, «Bollettino d’Arte» volume speciale, 2017, Roma, «L’Erma» di Bretschneider 2018, con bibliografia aggiornata, tra cui importante per la storia della raccolta di disegni: S. Morét, S. Prosperi Valenti Rodinò, Pacetti collezionista di disegni, Ibidem, pp. 277–292. Cassirer, Die Handzeichnungssammlung Pacetti, cit. Dreyer, I grandi disegni italiani, cit., pp. 17–18. Si rinvia alla bibliografia in nota 42. Vedi S. Morèt, Johan Martin von Wagner as a collector of Drawings, in L’artiste collectionneur de dessins, 2, Rencontres internationales du Salon du Dessin, Paris, a cura di C. Monbeig Goguel, Milano, 5 Continents, 2007, pp. 97–109; S. Morèt, Martin von Wagner (1777–1858). Ein Bildhauer und Maler im Dienst König Ludwigs I. von Bayern als Kenner und Käufer von Gemälden, in Kunstmarkt und Kunstbetrieb in Rom (1750–1850), a cura di H. Putz, A. Fronhöfer, Berlin/ Boston, De Gruyter, 2019, pp. 157–187. S. Morét, Römische Barockzeichnungen im Martin-von-Wagner-Museum der Universität Würzburg, Regensburg, Schnell und Steiner, 2012. Ibidem. Ibidem: disegni di provenienza Cavaceppi, catt. 21, 49, 54, 55, 138, 247; disegni Maggiori catt. 22, 25, 361, 362. Il disegno del Cristo morto di Batoni, più volte pubblicato, è ibidem, cat. 157. Su Maggiori si veda: L. Dania, Alessandro Maggiori, critico e collezionista, in Disegni marchigiani dal Cinquecento al Settecento a cura di M. Di Giampaolo e G. Angelucci, Firenze, Edizioni Medicea, 1995, pp. 7–18 e F. Grisolia, Rodolfo Lanciani (1845–1929), archeologo e collezionista di disegni e stampe, in Les marques de collections. II, Sixièmes Rencontres Internationales du Salon du Dessin, 30 et 31 mars 2011, a cura di P. Fuhring, Dijon 2011, pp. 134–135, fig. 8 a–d.

Alla fine di questo lavoro, vorrei ringraziare Liliana Barroero, Dario Beccarini, Francesco Grisolia e Stefan Morèt per l’aiuto che, a vario titolo, mi hanno prestato.

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Les correspondances érudites : une source d’information sur les collections de « petites antiquités » en France au XVIIIe siècle

Alors qu’on pouvait encore voir au début du XVIIIe siècle quelques grandes collections d’antiques telle celle du Conseiller d’État Nicolas-Joseph Foucault (1643–1721),1 collection rassemblant quelques statues antiques remarquables (fig. 1), ou bien encore celle de l’abbé Fauvel, soit deux cabinets d’antiquités qui fournirent une abondante moisson d’objets divers au mauriste Bernard de Montfaucon pour l’élaboration de son Thesaurus visuel, L’Antiquité expliquée, il n’en est plus de même au milieu du XVIIIe siècle. En février 1760, le comte de Caylus n’écrivait-il pas au père Paciaudi :

Fig. 1 L’Archigalle de la collection Foucault, gravure tirée de B. de Montfaucon, l’Antiquité expliquée, 1719

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Fig. 2 Rosalba Carriera, Portrait du cardinal Melchior de Polignac, 1732, pastel, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Fig. 3 Catalogue de la vente des statues de la collection du cardinal de Polignac, 1742, collection privée

Vous avez raison d’être étonné du peu de goût qui règne à Paris pour les antiquités. On y trouve encore quelques cabinets de médailles, mais pour les pots cassés, personne en un sens ne court sur mon marché. Mais cela reviendra, car les goûts du général circulent encore comme ceux d’un particulier.2

Il faut en convenir, le regard des élites françaises des Lumières sur la statuaire antique monumentale n’est plus celui de leurs prédécesseurs du Grand Siècle. Il n’y eût point de Richelieu ou de Mazarin dans la France du XVIIIe siècle, si l’on excepte le cardinal de Polignac (fig. 2) dont la collection, formée à Rome, ne fit d’une manière significative, qu’un bref séjour à Paris, avant d’être cédée en bloc à Fréderic II de Prusse (fig. 3). A l’évidence, à la différence de leurs homologues anglais, les collectionneurs français du XVIIIe siècle ne succombèrent pas à la Marble Mania. Il semble bien en effet, que la grande statuaire antique n’y bénéficia plus d’un intérêt soutenu ; le temps des grandes galeries d’antiques était révolu. Cette rareté de la grande statuaire antique dans les collections parisiennes et provinciales ne doit pourtant pas être interprétée comme un signe de désaffection à l’égard de la culture antique et de ses vestiges. En effet, si le goût pour les galeries d’antiques n’était plus aussi vif que durant la période précédente, il s’était reporté sur les « petites antiquités » : petits bronzes, médailles, pierres gravées etc. C’est en effet sous cette forme réduite que l’antique intègre désormais les cabinets et les intérieurs français, d’une part au travers du goût érudit pour les médailles et les pierres

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Fig. 4 Abbé de Tersan, Autoportrait, gravure, 1766, collection privée

gravées, et les autres petites antiquités, ce qu’Astrid Dostert a plaisamment résumé par la formule « l’Antiquité dans les tiroirs » ;3 d’autre part, le goût de l’esthète pour une antiquité réduite, adaptable aux nouveaux espaces de vie pensés à la mesure de l’homme des Lumières qu’offre la demeure du XVIIIe siècle, notamment au travers de la présence de réductions en bronze d’après l’antique. En privilégiant les petites antiquités dans leurs cabinets, les collectionneurs du XVIIIe siècle poursuivaient une tradition du Grand Siècle. De fait, ce sont les antiquités traditionnelles et les petits bronzes, figures de divinités ou autres qui se rencontrent le plus fréquemment dans les cabinets contemporains, et plus particulièrement ceux formés dans la première moitié du siècle ; tel celui réuni par Victor-Marie d’Estrées (1660–1737), maréchal de France, membre de l’Académie des sciences, de l’Académie française et de l’Académie des inscriptions et belles-lettres. Nous savons par le marquis de Caumont que ce personnage, véritable boulimique, « avait amassé jusqu’à six mille bronzes, tant antiques que modernes, grands, moyens, petits, etc. »,4 accumulation conforme à l’image du personnage qui nous a été transmise par Saint-Simon, celle d’un collectionneur grand amasseur « de livres rares et curieux, d’étoffes, de porcelaine, de diamants, de bijoux, de curiosités précieuses de toutes les sortes, [qui] ne se peut nombrer, sans en avoir jamais su user […] ».5 Nous pourrions mentionner également, parmi d’autres, les cabinets de M. de Valois, « antiquaire du roi », dispersé en 1748 ; du duc de Sully, Pair de France,6 de Morand « pensionnaire de l’Académie royale des Sciences »7 ou encore celui de Nicolas Mahudel (1673–1747), docteur en médecine dont le cabinet fut dispersé en 1746,8 et pour la fin du siècle celui de l’abbé Campion de Tersan (1737–1819) (fig. 4).

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Fig. 5 Frontispice et page de titre de l’Antiquité expliquée de Bernard de Montfaucon, collection privée

Cette priorité donnée aux objets savants de petites dimensions avait un autre avantage. A la différence de la grande statuaire, réservée à une élite du nom ou de la fortune, la collection de petites antiquités « permettait d’intégrer harmonieusement l’Antiquité dans la sphère de vie du XVIIIe siècle – sans poser de problèmes de place ».9 Mais l’intérêt pour ces objets, témoins d’une civilisation révolue, et leur collecte, doivent être replacés dans le contexte de l’érudition contemporaine.10 C’est précisément vers le milieu du siècle que les études antiquaires s’inscrivent dans une nouvelle perspective, visant à substituer à l’approche philologique des objets une approche expérimentale.11 Le père Bernard de Montfaucon (1655–1741), le célèbre mauriste et antiquaire,12 avec L’Antiquité expliquée et représentée en figures (1719–1724)13 (fig. 5) et le comte de Caylus (1692–1765) avec son Recueil d’Antiquités Égyptiennes, Étrusques, Grecques, Romaines et Gauloises, publié entre 1752 et 1767 (fig. 6) furent à des niveaux différents des artisans de la nouvelle érudition sur l’Antiquité. Tous deux considèrent comme fondamentale pour l’avancée des connaissances, la publication des grandes collections privées ou publiques de leur temps, publications dans lesquelles les objets sont non seulement décrits,

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Fig. 6 Planche du Recueil d’Antiquités du comte de Caylus, tome vii, pl. lxxx, bronzes gallo-romains de la trouvaille de Chalon, gravure, collection privée

Fig. 7 Intérieur d’un cabinet de curiosités (cabinet Pichony ?), sanguine, encre noire et rouge, Avignon, Musée Calvet, Inv. 2008-2

mais reproduits, d’où le titre de « Monuments figurés ». De fait, dans l’un et l’autre de ces recueils ce sont les petites antiquités qui l’emportent. Dans les collections méridionales, berceau de l’Antiquité, la présence de tels objets constitue la norme et ils sont souvent le fruit d’une collecte locale et s’inscrivent dans une enquête plus ou moins consciente sur le passé d’une ville et son patrimoine monumental ou archéologique. On pouvait voir ainsi dans le cabinet du naturaliste-antiquaire nîmois Jean-François Séguier (1703–1784) « plusieurs morceaux antiques trouvés à Nîmes en divers temps, têtes en bronze, statues en bronze, bas-reliefs, inscriptions »,14 de même que dans le cabinet de l’abbé Joseph Pichony (1711–1785), archidiacre du chapitre cathédral de Nîmes connu par un recueil de dessins d’antiquités (fig. 7) conservé aujourd’hui au musée Calvet d’Avignon, identifié et savamment étudié par Odile Cavalier.15 Le comte polonais Mniszech qui eut l’occasion de rendre visite à ce personnage, en 1765, remarque qu’il « rassemble une assez grande collection d’antiquités assez belles, petites statues en bronze, divinités égyptiennes en bronze, statues étrusques, statues chinoises, vases romains de cuivre, de métal de Corinthe et de terre, verres antiques. Sa collection de médailles, surtout en Grand Bronze est assez nombreuse ».16

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Patrick Michel Une constante se fait jour lorsque l’on analyse la composition de ces cabinets d’antiques et permet de déterminer une orientation générale : le rassemblement de tels objets antiques relève dans la plupart des cas d’une démarche érudite qui l’emporte très nettement sur la vision de l’esthète. Bon nombre de nos curieux, qu’ils en aient conscience ou non s’inscrivent donc dans la filiation du comte de Caylus. Le fait est particulièrement saillant dans le cas du médecin collectionneur d’Avignon, Esprit Calvet (1728– 1810) qui, dans une lettre à cet illustre antiquaire, expose sa méthode qui est aussi celle de Caylus: « Je suis persuadé que la première loi qu’on doive s’imposer dans l’étude de l’antiquité, c’est de n’adopter aucune explication qui ne soit prouvée par le témoignage des auteurs, ou autorisé par la comparaison des monuments ».17 L’expérimentation doit prévaloir. A l’objet de belle apparence ils préfèrent l’objet considéré comme un témoignage de l’histoire. Le fait est confirmé par Calvet lui-même dans son autobiographie, où il avoue qu’il s’adonne à la collection « autant par goût que pour se procurer des moyens d’études ».18 Pour un certain nombre de ces curieux, surtout méridionaux, la collecte d’objets et leur étude furent à la base d’une activité érudite. On doit ainsi, au marseillais Jean-Baptiste de Grosson, possesseur d’un cabinet de sciences naturelles et d’antiquités la publication d’un Recueil des Antiquités et monuments marseillais qui peuvent intéresser l’Histoire et les Arts (Marseille, 1773) et à Claude-François Achard (1751–1809), un autre marseillais attiré aussi bien par les sciences naturelles que par la numismatique, la publication – demeurée inachevée – d’une Histoire de Marseille depuis sa fondation jusqu’à la fin du XVIIIe siècle. Ils furent l’un comme l’autre les artisans d’une prise de conscience patrimoniale qu’il convient de souligner.19 Tous ces cabinets de petites antiquités sont documentés par de riches témoignages qui nous permettent de connaître la circulation de l’information, le rôle joué par les échanges dans l’économie de la collection et la sociabilité qu’ils ont générée. En effet, s’il est un domaine où la sociabilité joua un rôle incontestable, c’est bien celui des petites antiquités et notamment des médailles ou plus rarement, des pierres gravées. Le cabinet devient un support du savoir et les correspondances érudites, aujourd’hui bien étudiées, éclairent les relations entre savoirs et collection.20 Ces correspondances abondent en exemples d’échanges d’informations ou de circulation des idées et des objets entre collectionneurs et montrent que ceux-ci ouvrent volontiers leur porte. Dans l’Éloge de Foucault, l’érudit et numismate français Claude Gros de Boze (1680–1753) rappelle que : « Sa Bibliothèque, ses cabinets de Médailles & de figures antiques, tout estoit ouvert à ceux qui pouvaient ou en faire quelque usage, ou seulement en connaître le mérite ».21 Plus avant dans le siècle, il en était de même d’Alexandre-Jules-Antoine Fauris de Saint-Vincens (1750–1819), président à la cour royale d’Aix, dont le cabinet, riche en livres d’archéologie, en médailles, en inscriptions grecques et latines, et même en tableaux des premiers âges de la peinture, était constamment ouvert aux recherches des élèves dont il devenait le guide, et quelquefois le soutien, comme à celles des érudits qui en voulaient examiner les richesses.22

Les correspondances érudites Cette sociabilité revêt comme dans d’autres champs de la curiosité plusieurs formes, ou si l’on préfère différentes modalités : la visite et l’échange épistolaire. Ces deux médiums révèlent que les contacts sont nombreux entre les cercles de l’érudition, notamment entre ceux de la capitale et des provinces. Les récits de voyageurs, notamment étrangers, ne manquent pas de relater leur visite chez quelques collectionneurs considérant que « La visite des cabinets de curiosités est une expérience éducative complète ».23 À la fin de l’année 1732, le naturaliste nîmois Jean-François Séguier découvre ainsi en compagnie du célèbre antiquaire véronais, le marquis Scipione Maffei, le cabinet du président Cardin Le Bret (1673–1734) Intendant de Provence, à Aix. Il note que celui-ci : « Nous reçut avec beaucoup de politesse. Cet habile savant magistrat qui est aimé de tous ceux qui ont l’honneur de le cognoître possède une riche suite de médailles de tout genre, il en a plus de 15 mille. Nous passâmes deux jours à voir les plus considérables et les plus curieuses ». Et il ajoute : « Il y a peu de curieux qui montrent leur cabinet de la façon dont il nous le fit voir. Il nous fit ouvrir toutes les armoires et ensuite il nous laissât les maîtres de considérer à loisir tout ce qu’il y avait de rare ».24 Certains collectionneurs tel le président Bon à Montpellier,25 allaient même plus loin, ils tenaient dans leur cabinet de véritable assemblées, à l’image – mais sans doute de manière plus modeste – de ce qu’avait fait le duc d’Aumont pour les numismates, sous le règne de Louis XIV.26 Calvet lui-même, auteur d’une dissertation dans laquelle il expose de manière très explicite les « Avantages des collections de curiosités », montre que celles-ci « source des connaissances précieuses » offrent à leur propriétaire « une occasion facile de profiter de l’entretien des savants étrangers qui ont coutume de visiter les collections dans leurs voyages ».27 Une lettre du maréchal de Beauvau, militaire et fervent numismate, à son ami Duvau, témoigne de ces rencontres érudites autour des médailles, de ce plaisir partagé entre médaillistes, lorsqu’il écrit : « J’ay fait apporter mes médailles de bronzes chez moy, Monsieur, faite moy l’amitié d’y venir disner ; nous les parcourerons ensemble et j’aurai le plaisir de passer une partie de la journée avec vous. Je ne me porte pas très bien et c’est une bonne action que de tenir compagnie à un malade ».28 De même, un collectionneur normand, le président de Saint-Victor informe le grand numismate parisien Joseph Pellerin, en 1770, qu’il doit incessamment recevoir la visite dans sa campagne normande de Néville, du père Galliot, garde du Cabinet de Sainte Geneviève et s’en réjouit car dit-il : « Je compte passer cinq jours avec lui à ma campagne, je souhaite qu’il me donne des leçons, il doit être habile, et n’aura pas de peine à l’être plus que moi ».29 Le frontispice de La Science des médailles de Louis Jobert (1717), montrant deux curieux se livrant à l’étude des médailles et des pierres gravées dans l’espace clos d’un cabinet (fig. 8) illustre parfaitement ce travail « in camera ». Mais la visite du cabinet se prolonge souvent par la découverte des sites antiques remarquables. Ainsi, à Nîmes, la

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Fig. 8 Frontispice de La Science des médailles de Louis Jobert, 1717, coll. privée

visite de la maison-musée du naturaliste Jean-François Séguier, personnage aujourd’hui bien étudié30 et qui est au cœur d’un réseau épistolaire européen, trouve un prolongement naturel dans les découvertes des monuments locaux ; celui que l’on nomme le « Chef des antiquaires » jouant volontiers le rôle de cicerone pour ses hôtes. Surtout, l’éloignement créant la source, la collection donne lieu à un intense commerce épistolaire comme le montre, une fois encore la correspondance Séguier – Calvet conservée à la Bibliothèque municipale d’Avignon ou bien encore, celles du président Bouhier de Dijon et du marquis de Caumont.31 Les érudits du XVIIIe siècle, ont en effet pleinement conscience que un objet, un vestige, une inscription ou un texte doit être authentifié et rangé dans une classe pour apporter quelque chose. S’il s’inscrit dans un contexte ou une série, il commence à avoir un sens. On peut le comparer, entreprendre de le dater, de deviner sa nature, son usage ou son but, bref, le transformer en document.32

S’agissant de médailles, on interroge les datations, on débat sur l’origine, la provenance, mais il y est également question des faux qui circulent en abondance et que le numismate s’attache à circonvenir. En juin 1781, Séguier renvoie ainsi à Calvet deux monnaies accompagnées de ce commentaire :

Les correspondances érudites Celle de Tibère m’a paru indéniablement fausse. Je ne suis point content du vernis brun qu’on y a appliqué. Si les sels souterrains où l’on doit penser que cette médaille a séjourné ou telle autre cause eussent occasionné la teinte brune de cette médaille, on ne peut supposer qu’il en eut résulté une couche aussi unie. Cet indice fait soupçonner la fraude.33

Les arguments avancés témoignent d’une véritable science de l’œil. Autre exemple qui montre la qualité de l’expertise de Séguier : il y avait dans la collection Bon de Saint-Hilaire un médaillon en marbre représentant Faustine que le collectionneur considérait comme antique ainsi qu’Esprit Calvet et le marquis de Calvière qui s’en porta acquéreur. Contre tous, le perspicace Séguier apporta la preuve qu’il s’agissait d’une œuvre de la Renaissance, plus précisément d’un artiste de l’Italie du Nord actif au XVIe siècle. Parmi les arguments apportés par Séguier à la « tromperie », il met en avant le fait que ce médaillon de marbre blanc n’avait pas été trouvé à Nîmes. « C’était dit-il, un contexte qu’on trouva pour le faire valoir. Je l’avais souvent dit à M. de Calvière mais malgré cela, il en eut si envie qu’il le prit de M. Boudon et le paya fort cher ».34 De fait, ses correspondants et amis reconnaissaient volontiers à Séguier « un cerveau aussi bien organisé et aussi scientifique qu’il est modeste ».35 À la décharge de nos curieux, il faut convenir que bon nombre de sculptures de la Renaissance, domaine alors peu connu et peu apprécié des collectionneurs, passaient pour antiques. Certaines lettres sont particulièrement précieuses car elles nous font entrer au cœur de l’échange savant au sein du cabinet. En 1777 le marquis de Calvière avait fait l’acquisition d’une pierre gravée dont le sujet l’intriguait. Une lettre à son ami Calvet, en témoigne éloquemment. Il lui écrit : Vous serés sans doute bien aise de savoir que le hasard seul m’en a fait découvrir le sujet et voicy comment : un matin des quatre jours que le Père Janin36 a resté icy, nous étions enfermés dans mon Cabinet, ayant chacun un livre d’antiquités à la main. Je tenais celuy en deux parties qui a été gravé il y a une trentaine d’années par un Conseiller au Parlement de Paris, nommé Mr de Gravelle,37 grand amateur, et pour le moins aussi fort que le feu comte de Caylus, pour dessiner librement et graver à l’eau forte. Chaque partie consiste en cent belles Pierres antiques, la trentième du 1er volume sur laquelle je tombay me fit reconnaître à n’en point douter la magnifique Pierre que je ne dois qu’à vous. J’eus d’abord recours aux notes qui sont au commencement et j’y appris au N° 30 que Mr le Cardinal de Polignac possédoit un superbe dessein de la main du grand Raphaël, pris sur cette belle Pierre, que l’autheur regarde comme une des plus curieuses qui existe. De mon côté, je conclus que le dessein de Raphaël doit être actuellement entre les mains du Roy de Prusse, qui a acquis toutte la défroque en ce genre du Cardinal. La Vénus gravée par Mr de Gravelle est charmante.38

L’interprétation des sujets représentés sur les pierres gravées n’est pas en effet sans exercer la sagacité des antiquaires. La question est au cœur de leurs échanges épistolaires. Dans une lettre au président Bouhier, le marquis de Caumont ne cache pas cependant la vanité de ces interprétations ; il déclare avoir :

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Patrick Michel Toujours regardé comme arbitraire l’explication de pareils monuments, et j’ai cru que la plus simple apparence du vrai pourrait être adoptée dans un fait si peu essentiel. Je n’ai garde de vouloir justifier tout ce que j’ai avancé. Je sais d’ailleurs que plusieurs gravures qui ont exercé la sagacité des antiquaires ont été fabriquées par des ouvriers capricieux qui se faisaient peut-être dès lors une secrète joie du travail de ceux qui dans les suites chercheraient à les expliquer.39

Mais ce type d’échanges vaut pour tous les domaines. En 1733, Caumont envoie à Bouhier le dessin d’une « tête antique de marbre, d’un travail assez grossier », qu’il décrit comme « plus petite que le naturel et pourrait être prise pour un Janus » en sollicitant son avis. Bouhier lui répond peu après : Je vous suis très obligé de m’avoir communiqué le dessin de votre tête antique à deux faces. Elle méritoit fort de tomber en d’aussi bonnes mains que les vôtres. Ce que vous soupçonnez que ce pourrait bien être les têtes de Jupiter et d’Hercule, me paraît fort vraisemblable. J’ai même idée d’en avoir vu de pareilles sur quelques médailles des familles romaines. Mais il faudrait que je fusse plus près de mes livres pour pouvoir rien assurer sur ce point.40

On voit apparaître ici les deux supports de l’identification, par comparaison : les médailles et la documentation livresque. Ces quelques extraits d’une correspondance très riche, montrent à l’évidence que la réunion d’objets dans un cabinet doit poursuivre un but premier : la communication qui contribue aux progrès de la science antiquaire. Les antiquaires et numismates du XVIIIe siècle partageaient donc bien souvent l’avis du comte de Caylus qui déclarait qu’on : ne saurait donc trop exhorter ceux qui rassemblent des monuments à les communiquer au public ; quelque peu nombreuse que soit leur collection, elle peut offrir des singularités que l’on ne trouve pas dans les plus amples cabinets : l’éclaircissement d’une difficulté historique dépend peut-être d’un fragment d’antiquité qu’ils ont entre leurs mains.41

On retrouve bien ici l’expérimentateur pour qui une « guenille » sert davantage la science qu’une belle antique ! Le plus souvent la correspondance est un palliatif à la visite lorsque celle-ci n’est pas envisageable, du fait de l’éloignement. En 1764 un collectionneur de médailles allemand écrit à Caylus afin qu’il intervienne auprès de Pellerin pour l’aider à identifier une « trentaine de médailles incertaines ».42 Le grand numismate Pellerin, surnommé le « Craesus numismatique »43 est alors le maître vénéré, celui à qui la science numismatique doit d’avoir progressé et auquel Séguier rend le plus vibrant des hommages en 1768 lorsqu’il lui écrit : Votre cabinet inépuisable fournit toujours quantité de médailles inconnues et très intéressantes. Vous ne cessez de faire des acquisitions, et vous aimés à faire connoitre aux savants et aux amateurs de la numismatique les richesses que vous possédés […]. C’est vous Monsieur, qui avés ranimés chez nous le désir d’expliquer les légendes des Médailles en langue Phoenicienne et exotique. Tandis que les savans de Paris et d’Angleterre nous ont fait part de leurs découvertes, votre Cabinet leur a fourni abondamment de quoi s’exercer.44

Les correspondances érudites Mais si certains pouvaient passer pour des oracles en la matière, le plus grand nombre ne pouvait prétendre à ce titre, bien au contraire ! L’abbé Barthélémy n’écrit-il pas à Paciaudi à propos de l’interprétation d’une médaille : « Heureusement, les erreurs des antiquaires ne font pas tant de tort au genre humain que les disputes des théologiens et les projets des politiques ».45 Au-delà de ce savoir acquis et transmis, la possession d’un cabinet réputé et l’appartenance à un même cercle érudit contribuent à la construction d’une réputation d’amateur. Pierre-Jean Mariette n’exprime pas autre chose lorsqu’il écrit dans son Traité des pierres gravées en 1750 : C’est dans le choix des ouvrages qu’un Amateur fait connaître son discernement, & qu’il montre qu’il a du goût ou s’il en est dépourvu. Son cabinet est, pour ainsi dire, un tribunal, où on le juge sans miséricorde : les choses qu’il y a admises sont comme autant de témoins qui déposent pour ou contre lui.46

Goût et connaissances contribuent autant à la construction de cette reconnaissance. Esprit Calvet exprime à son tour clairement cette idée lorsqu’il déclare que « Son cabinet est un viatique grâce auquel il fait partie de la ‹ République des lettres › ».47 C’est par exemple la publication de sa Dissertation sur un monument singulier des utriculaires de Cavaillon qui lui ouvrit les portes de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres.48 Le cas de Pellerin est encore plus exemplaire. La suite d’ouvrages savants qu’il tira de l’étude de sa propre collection, ces fameux Recueils de médailles […] qui n’ont point encore été publiées ou qui sont peu connues, publiés de 1762 à 1778, publication considérée comme « la plus remarquable sans doute de toute la numismatique du XVIIIe siècle », consacra sa réputation d’érudit.49 Par la publication de travaux savants le curieux accède ainsi à la dignité recherchée d’antiquaire. Alain Schnapp soulignait récemment combien « la pratique antiquaire des XVIIe et XVIIIe siècles se caractérise par une extrême diversité d’approche et de pratiques ».50 La collection d’antiques reste dans bien des cas, au XVIIIe siècle, une pratique érudite. Il ne fait guère de doute que la plupart des amateurs dont nous avons évoqué rapidement les cabinets étaient de véritables « antiquaires » au sens latin du terme de « collectionneur d’antiquités, un personnage qui se soucie de toutes les traces du passé et qui s’emploie à les interpréter ».51 Pratique érudite, la collection d’antique résiste donc comme l’écrit Sarmant « à l’analyse moderne qui fait de la collection un instrument et un signe de l’ascension sociale », une manière « d’affirmer sa réussite et sa puissance, indépendamment de tout intérêt sincère ».52

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Patrick Michel 1 Etudié récemment par M. Avisseau-Broustet, La collection de Nicolas-Joseph Foucault (1643– 1721) et de Nicolas Mahudel (167–1747), in Histoires d’archéologie. De l’objet à l’étude. Les enrichissements du Cabinet des médailles : achat de collections, saisies révolutionnaires, Collections électroniques de l’INHA, actes de colloques et livres en ligne de l’Institut national d’histoire de l’art (http://journals.openedition.org/inha/2788). 2 Correspondance inédite du comte de Caylus avec le P. Paciaudi, Théatin (1757–1765), suivie de celles de l’abbé Barthélémy et de P. Mariette avec le même […], dir. C. Nisard, Paris, A l’Imprimerie Nationale, 1877, i, p. 144, lettre xxxi, Paris, 11 février 1760. 3 A. Dostert, En exil des appartements. Les collections de statues antiques à l’époque rocaille, in L’Art et les normes sociales au XVIIIe siècle, dir. T. G. Gaehtgens, C. Michel, Paris, Éditions de la Maison des Sciences de l’Homme, 2001, pp. 165–183, à p. 170. 4 Lettre du marquis de Caumont au président Bouhier, A Avignon le 12eme février 1738 in Correspondance littéraire du président Bouhier. N° 6, Lettres du Marquis de Caumont (1732–1745), dir. H. Duranton, Saint-Etienne, Université de Saint-Etienne, 1979, p. 178, lettre n° 96. 5 Duc de Saint-Simon, Mémoires complets et authentiques du Duc de Saint-Simon sur le siècle de Louis XIV et la Régence, dir. Chéruel, Paris, Hachette et Cie, 1856, ii, p. 432. Il poursuit ainsi : « Il allait toujours brocantant. Il se souvint d’un buste de Jupiter Ammon d’un marbre unique et de la première antiquité qu’il avait vu quelque part autrefois, bien fâché de l’avoir manqué, et mit des gens en campagne pour le rechercher. L’un d’eux lui demanda ce qu’il lui donnerait pour le lui faire avoir, il lui promit mille écus. L’autre se mit à rire, et lui promit de le lui livrer pour rien, ni pour achat ni pour sa peine, et lui apprit qu’il était dans son magasin, où sur le champ il le mena et le lui montra. On ne tarirait point sur les contes à en rapporter, ni sur ses distractions ». 6 Catalogue d’une très belle collection de bronze et autres Curiosités Égyptiennes, Étrusques, Indiennes & Chinoises ; Figures, Bustes & Bas-Relief de bronze, d’Albâtre & de Marbre, antiques & modernes […], du Cabinet de Feu M. le Duc de Sully […], par les Sieurs Helle et Rémy, A Paris, Chez Didot l’aîné, 1762. 7 Catalogue des bronzes et autres curiosités Égyptiennes, Étrusques, Indiennes & Chinoises ; Médailles & Monnoies d’or & d’argent […], du Cabinet de feu M. Morand […], A Paris, chez Remy et Musier, 1773. 8 Catalogue Historique d’un laraire curieux formé par les soins de M. Mahudel, Docteur en Médecine, ancien Associé de l’Académie Royale des Belles-Lettres de Paris, A Paris, 1746. 9 Dostert, En exil des appartements, cit., p. 171. 10 Voir C. Grell, Le Dix-huitième siècle et l’antiquité en France 1680–1789, Oxford, Voltaire Foundation, 1995, 2 vol. 11 Sur cette question voir A. Momigliano, Problèmes d’historiographie ancienne et moderne, Paris, Gallimard, 1983, p. 244–293 et du même auteur, Ancient History and the antiquarian, in A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici (Storia e Letteratura. Raccolta di studi e testi, 47), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979, pp. 67–106. 12 Entre 1698 et 1701, il effectua un voyage d’étude en Italie et visita la plupart des monuments antiques et les cabinets de curiosités. A son retour il publia son B. de Montfaucon, Diarium Italicum. Sive monumentorum veterum, bibliothecarum, musaeorum, &c. Notitiae singulares in itinerario Italico collectae. Additis schematibus ac figuris, Paris, apud Joannem Anisson, 1702. Il forma à l’entrée de la bibliothèque de Saint-Germain-des-Prés un cabinet dévolu aux « monuments » antiques (monnaies, médailles, objets sculptés, etc.). A l’époque de Montfaucon il s’agissait uniquement d’une collection d’antiques.

Les correspondances érudites 13 Ouvrage monumental divisé en 5 tomes, représentant 10 volumes, dont la publication se fit en 1719 et qui fut complété par un Supplément en 5 volumes. Sur cette entreprise éditoriale voir J. Jestaz, Bernard de Montfaucon mauriste et antiquaire : la tentative de l’Antiquité expliquée (1719–1724), thèse (inédite), Ecole des Chartes, 1995 ; J. Irigoin, Dom Bernard de Montfaucon, in L’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres et l’Académie des Beaux-Arts face au message de la Grèce ancienne, Actes du 6ème colloque de la Villa Kérylos à Beaulieu-sur-Mer 1995, Paris, Académie des Inscriptions et Belles Lettres, 1996, pp. 71–85 et C. Poulouin, L’Antiquité expliquée et représentée en figures (1719–1724) par Bernard de Montfaucon, in « Dix-Huitième siècle », 27, 1995, pp. 43–60. 14 Témoignage de Michel-Georges Mniszech, dans Bibliothèque Municipale de Versailles, Fonds Lebaudy, Ms. 4°. 58–60, vol. 2, f. 125r–126r, publiée dans M. Bratun, Le voyage en France du comte Mniszech, de son frère et de leur précepteur chez Jean-François Séguier (juin, juillet, août 1765), in G. Audisio, F. Pugnière, Jean-François Séguier. Un Nîmois dans l’Europe des Lumières, Aix-en-Provence, Edisud, 2005, p. 161. 15 O. Cavalier, Un ciel brillant d’images. Un recueil de dessins d’antiquités du XVIIIe siècle, in « Monuments et Mémoires de la Fondation Eugène Piot », Académie des Inscriptions et BellesLettres, 92, 2013, pp. 93–175. 16 Bratun, Le voyage en France, cit., p. 161. 17 Cité par M.-P. Foissy-Aufrère, Esprit Calvet, amateur, « savant antiquaire » et fondateur de musée, 1728–1810, in L’anticomanie. La collection d’antiquités aux 18e et 19e siècles, dir. A.-F. Laurens, K. Pomian, Paris, École Pratique des Hautes Etudes en Sciences Sociales, 1992, pp. 135–144, à p. 142. 18 Ibidem, p. 141. 19 Ces collectionneurs-érudits ont été étudiés par R. Bertrand, Les collectionneurs et érudits marseillais de la fin du XVIIIe siècle, in Érudits, Collectionneurs et amateurs. France méridionale et Italie (XVIeXIXe siècle), dir. H. Berlan, E. Chapron, I. Luciani, G. Le Thiec, Aix-Marseille, Presses universitaires de Provence, 2017, pp. 144–145. 20 P. Michel, Paris/Provinces : une sociabilité savante et artistique au XVIIIe siècle vue au travers des correspondances privées, ou les échanges épistolaires comme instruments de la sociabilité, in Artistes, savants et amateurs : Art et sociabilité au XVIIIe siècle (1715–1815), dir. J. L. Fripp, A. Gorse, N. Manceau, N. Struckmeyer, Paris, Mare & Martin, 2016, pp. 225–236. 21 « Eloge de M. Foucault », prononcé en 1721 par Gros de Boze devant l’Académie des Inscriptions et insérée dans Histoire de l’Académie royale des Inscriptions et belles lettres, avec les mémoires de littérature tirez des registres de cette académie, depuis l’année MDCCXVIII, jusques & compris l’année MDCCXXV, vol. v, Paris, de l’Imprimerie Royale, 1729, p. 401. 22 T. B. Emeric-David, Vies des artistes anciens et modernes […], Paris, Charpentier, 1853, pp. 233– 234. 23 D. Roche, Humeurs vagabondes. De la circulation des hommes et de l’utilité des voyages, Paris, Fayard, 2003, p. 691. 24 Nîmes, Bibliothèque municipale, Ms. 129, f. 12v-13, fin 1732. Cité dans E. Chapron, L’Europe à Nîmes : les carnets de Jean-François Séguier (1732–1783), Avignon, A. Barthélémy, 2008, p. 117, note 3. Toutefois comme le précise Séguier cette visite eut lieu dans des circonstances particulières, puisque Cardin Le Bret mariait sa fille à ce moment-là. 25 François Xavier Bon de Saint Hilaire, né à Montpellier le 11 octobre 1678 et mort à Narbonne le 18 janvier 1761, président de la Chambre des comptes de Languedoc.

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Patrick Michel 26 Voir A. Chevalier, Le cabinet de curiosité du président Bon, in « Bulletin Historique de la ville de Montpellier », 10, 1990, pp. 5–20. 27 Avignon, Bibliothèque municipale, Ms. 2348, f. 396. 28 Lettre de M. de Beauvau à Duvaux, 26 août 1740, citée par A. Blanchet, Un ‹Maréchal› collectionneur (1740–1744), le marquis de Beauvau, in « Revue Numismatique », 5e série, 8, 1945, p. 171. 29 Paris, Bibliothèque Nationale de France (BNF), Ms. NAF 1074, f. 155, St. Victor à Péllerin, Au château de Néville, ce 14 octobre 1770. 30 Voir notamment D. Roche, Les républicains des Lettres. Gens de culture et lumières au XVIIIe siècle, Paris, Fayard, 1998, pp. 272–278 ; Jean-François Séguier (1703–1784). Un nîmois dans l’Europe des Lumières, dir. G. Audisio, F. Pugnière, Aix en Provence, Edisud, 2005. 31 Correspondance littéraire du président Bouhier. N° 6, Lettres du Marquis de Caumont, cit. 32 G. Simon, Sciences et Histoire, Paris, NRF Gallimard, 2008, p. 160. 33 Lettre de Séguier à Calvet, 11 juin 1781, dans O. Cavalier, Un triumvirat de littérature : la correspondance entre Charles-François de Calvière, Esprit Calvet et Jean-François Séguier, in Jean-François Séguier (1703–1784), cit., p. 198. 34 Lettre de Séguier, 22 mai 1779, citée par Cavalier, Un triumvirat de littérature, cit., p. 199. 35 Lettre du marquis de Calvière à Calvet, 16 mars 1773, citée par Cavalier, Un triumvirat de littérature, cit., p. 199. 36 Le père Joseph Janin (1716–1794), religieux Augustin qui avait rédigé le catalogue du médaillier de la bibliothèque publique de Carpentras vers 1750. 37 Michel-Philippe Lévesque de Gravelle (1699–1752) conseiller à le troisième Chambre des enquêtes du Parlement, était amateur d’art, dessinateur, graveur et auteur dramatique et conseiller à la troisième Chambre des enquêtes (1720–1752). 38 Avignon, Bibliothèque municipale, Ms. 2536, f. 243, le marquis de Calvière à Calvet, 18 juillet 1777. 39 Lettre de Caumont à Bouhier, A Avignon, le 20ème janvier 1733, dans Correspondance littéraire du président Bouhier. N° 6, Lettres du Marquis de Caumont, cit., p. 21. 40 Lettre de Bouhier à Caumont, A Montpellier, ce 20 juillet 1733, dans Correspondance littéraire du président Bouhier. N° 6, Lettres du Marquis de Caumont, cit., p. 27, lettre n° 7. 41 A. C. P. de Caylus, Recueil d’Antiquités égyptiennes, étrusques, grecques et romaines, Paris, Desaint et Saillant, 1752–1767, t. i, 1752, p. vi. 42 Lettres inédites d’Henri IV et de plusieurs personnages célèbres […], dir. A. Sérieys, Paris, Tardieu, an x (1802), p. 277, lettre xxii, de M. de Benhink, A Evenvurg, en Ostfrise, le 5 juillet 1764. 43 L’expression serait de « Mr Schlacger de Gotha » d’après une lettre de Séguier à Pellerin du 18 avril 1766 (Paris, BNF, Ms. NAF 1074, f. 177). 44 Paris, BNF, Ms. NAF 1074, f. 195, Séguier à Péllerin, A Nîmes le 13e de l’an 1768. 45 Lettre de l’abbé Barthélémy à Paciaudi, dans Correspondance inédite du comte de Caylus, cit., t. ii, p. 191, lettre i, Plaisance, 29 avril (1757). 46 P-J. Mariette, Traité des pierres gravées, Paris, de l’Imprimerie de l’auteur, 1750, i, p. 54. 47 Foissy-Aufrère, Esprit Calvet, cit., p. 141. 48 Foissy-Aufrère, Esprit Calvet, cit., p. 139. 49 T. Sarmant, La République des médailles. Numismates et collections numismatiques à Paris du Grand Siècle au Siècle des Lumières, Paris, Champion, 2003, p. 215.

Les correspondances érudites 50 A. Schnapp, Naissance des savoirs antiquaires, in Histoires d’archéologie. De l’objet à l’étude [online], dir. I. Aghion, M. Avisseau-Broustet, A. Schnapp, Paris, Publications de l’Institut national d’histoire de l’art, 2009, (http://books.openedition.org/inha/2755), p. 5. 51 Schnapp, Naissance des savoirs antiquaires, cit., p. 5. Le Dictionnaire de Trévoux en donne cette définition : « Antiquaire : Homme qui a cherché et étudié les monuments qui nous restent de l’Antiquité ; qui est versé dans la connaissance des monuments antiques, tels que les monnaies, les statues, les livres, les médailles, et généralement toutes les pièces curieuses de l’antiquité ». Quant à l’Encyclopédie, elle donne du mot cette définition : « ANTIQUAIRE, f. m. : Est une personne qui s’occupe de la recherche & de l’étude des monuments de l’antiquité, comme les anciennes médailles, les livres, les statues, les sculptures, les inscriptions, en un mot ce qui peut lui donner des lumières à ce sujet ». Ces personnages correspondent bien à la définition qu’on donne au XVIIIe siècle à ce qualificatif. 52 T. Sarmant, Déclin et transformations de la numismatique au XVIIIe siècle, in « Revue d’histoire moderne et contemporaine », 41, 1994, 4, pp. 650–666, à p. 663.

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La riforma del 1749, una linea di crinale nel rapporto fra Museo, tutela e mercato dell’arte nella Roma del diciottesimo secolo

Prospero Lambertini (1675–1758) deve una parte notevole della propria fama alla sensibilità e all’interesse dimostrati verso le lettere, le scienze e le belle arti.1 Un convegno di qualche tempo addietro, a cura di Donatella Biagi Maino,2 ha messo in rilievo l’attività culturale a Bologna, città che Lambertini resse in qualità di arcivescovo dal 1731: basti qui rammentare l’opera di mecenate a beneficio di un congruo numero fra chiese e istituti religiosi, la tutela della memoria di un suo insigne predecessore della fine del sedicesimo secolo, il cardinale Gabriele Paleotti o, ancora, l’istituzione dell’Accademia Clementina. Al momento di ascendere al soglio di Pietro come Benedetto XIV, il 17 agosto 1740, tali interessi si tradussero in una seria presa di responsabilità verso l’intero sistema delle arti di Roma, un sistema che in quel momento si trovava dinanzi a una situazione particolarmente complessa.3 La principale difficoltà si legava a una serie di cambiamenti sul piano del mercato, che erano stati a base di un progressivo e sempre più netto squilibrio nel rapporto fra la domanda proveniente dall’estero e gli oggetti in offerta sulla piazza capitolina. Il discorso chiama in causa la Gran Bretagna. Nel 1704 Daniel Defoe, l’autore del Robinson Crusoe, aveva offerto uno spaccato molto preciso della mentalità del suo paese: We are the most […] diligent nation in the world, vast trade, rich manufactures, mighty wealth, universal correspondence and happy success have been constant companions of England, and given us the title of an industrious people, and so in general we are.4

Nulla di particolarmente strano o infondato in termini storici. Defoe registra qui l’ascesa dell’Inghilterra, di lì a tre anni Gran Bretagna, un fenomeno sul piano economico da ricondursi alle compagnie mercantili e a una nuova classe di imprenditori – le une e gli altri dotati di uno spiccato free market ethos e particolarmente attivi da e per le colonie – sul piano militare alla Royal Navy, capace di esercitare un dominio effettivo sulle rotte mercantili oceaniche e così di proteggere in modo efficace le compagnie di bandiera. A colpire sono semmai le parole, o meglio i concetti impiegati da Defoe per raggiungere l’obiettivo apologetico. «Ampio e vasto commercio», «ricche manifatture», «grande ricchezza» servono da pilastri di un’etica nazionale il cui elemento comune era perseguire la ricchezza attraverso il lavoro. «Industrious people, […] so we are» è un

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Fig. 1 Guido Reni, La disputa sull’Immacolata Concezione, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage

passaggio che può veramente leggersi come il crisma della benedizione, quando osservato nella prospettiva dell’imminente rivoluzione industriale. «Il potere del danaro è arbitrario, assoluto e irresistibile»,5 recita un proverbio inglese del diciottesimo secolo. La Gran Bretagna dell’epoca era un paese che nel proporsi sul palcoscenico mondiale come una grande potenza preferiva far leva sul danaro, per definizione una forma di conquista ‹liquida›, anziché su strategie matrimoniali o acquisizioni territoriali in Europa. Quel che Defoe lasciava in sospeso erano le ricadute. Un’etica del genere sottintendeva la necessità di palesare in modo concreto il successo raggiunto, cioè dimostrare e al limite ostentare la propria ricchezza. Il che di fatto si tradusse nell’acquisto di lussuose residenze nella campagna, o di mezzi di trasporto particolarmente sofisticati, o infine dei cosiddetti objets de vertu, ovvero di opere d’arte, meglio se di provenienza romana. Basterà un affare del 1731, reso noto da Mattia Biffis, a dimostrare le capacità attrattive di questa particolare domanda:6 3.000 scudi, tanto fu disposto a versare Robert Walpole nelle tasche del marchese Cosimo De Angelis per entrare in possesso de La disputa sull’Immacolata Concezione (fig. 1) di Guido Reni, successivamente passata a Caterina II e di lì confluita al Museo Statale dell’Ermitage di San Pietroburgo.

La riforma del 1749 Benedetto XIV cercò di porre rimedio alla situazione fin dai primi anni di pontificato. Un segnale giunse nel 1744, quando la morte di Francesco Palazzi condusse alla nomina dell’archeologo di origine cortonese Ridolfino Venuti (1705–1763) in qualità di commissario alle antichità e belle arti e custode delle gallerie pontificie.7 La scelta rientrava nel solco della tradizione erudita romana. Venuti, sebbene ancora molto giovane, aveva all’attivo un congruo numero di pubblicazioni a tema, dalla Collectanea Antiquitatum Romanarum del 1736 agli Antiqua numismata maximi moduli per il cardinale Alessandro Albani, il cui primo volume aveva visto la luce nel 1739. D’altro canto, il suo profilo si arricchiva di alcuni fattori d’indubbia modernità, che certamente avevano giocato a suo favore. La padronanza di lingue moderne come l’inglese e il francese, in particolare, gli consentivano di aprirsi e di comunicare sia con i residenti stranieri, sia con i molti visitatori per cui servì spesso da guida turistica. Nei termini stretti del mercato dell’arte, il nome del cortonese servì a erigere una barriera contro quegli antiquari più o meno improvvisati, incluso Francesco de’ Ficoroni, che si erano guadagnati la fama di truffatori, secondo quanto osserva Daniela Gallo.8 La risorsa più importante di Benedetto XIV giunse comunque dal suo primo ministro, il cardinale Silvio Valenti Gonzaga (1690–1756).9 Valenti era politicamente un creato di Clemente XII, al quale doveva lo scatto decisivo nella propria carriera in seno alla Curia, dalla nunziatura di Bruxelles a quella di Madrid, fino alla nomina a cardinale, nel dicembre 1738. «Intimo di Corsini e da esso sollevato dal nulla», lo qualifica il diarista Francesco Valesio.10 Come tale, il prelato mantovano nel conclave del 1740 si schierò nel partito che condusse all’elezione di Prospero Lambertini. Da allora in avanti il legame fra i due uomini divenne profondo. La gloria maggiore di Valenti – scrive il biografo Tedeschi nella biografia del cardinale – [fu] l’esser stato prescelto per primo ministro in tempi torbidi e calamitosi da un principe che conosceva perfettamente la capacità degli uomini e il loro merito. Egli seppe bene coll’opera e col consiglio giustificare la scelta di chi lo aveva innalzato.11

Nominato segretario di Stato nell’agosto 1740 e rimasto in carica sedici anni, cioè fino alla morte, Valenti si distinse come uomo di governo per l’accortezza, l’energia e una visione ampia e lungimirante che, rileva Maria Pia Donato, doveva parecchio alla lunga esperienza maturata in varie sedi diplomatiche.12 Oltre a questo, egli vantava nel proprio bagaglio culturale una conoscenza viva, diretta e profonda del mondo dell’arte. Da giovane, quando era ancora al principio del cursus honorum, aveva offerto i propri servizi di agente artistico su Roma al principe Eugenio di Savoia, «il più grande e prestigioso mecenate privato d’Europa» stando a Francis Haskell.13 Più tardi, la brillante carriera diplomatica in qualità di nunzio apostolico gli aveva consentito di comprare numerosi oggetti nelle principali piazze mercantili estere. Una volta a Roma, il cardinale fece installare la collezione a villa Paolina, situata al principio di via Nomentana, solo a poche centinaia di metri dalla villa del cardinale Alessandro Albani.14

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Fig. 2 Giovanni Paolo Panini, Carlo III di Borbone visita Benedetto XIV, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

Uno squillo di tromba giunse allo scadere del 1744. Il 3 novembre il papa ricevette in forma ufficiale la visita di Carlo III di Borbone, re delle due Sicilie. Dell’incontro rimane traccia in cronache locali, dispacci diplomatici e anche in memorie visuali. Di lì a pochi mesi il vedutista Giovanni Paolo Panini (1691–1765), su commissione di Carlo III, lo restituì nella tela firmata e datata 1746 oggi nel Museo Nazionale di Capodimonte (fig. 2). Prezioso e all’ultima moda: questo il volto della Città Eterna che il pontefice e il segretario di stato mostrarono all’ospite. Come sede dell’evento Benedetto scelse la Coffee House nei giardini del Quirinale, progettata nel 1741 da Ferdinando Fuga e conclusa entro il 1743 con decorazioni di Pompeo Batoni, Agostino Masucci, Jan Frans Van Bloemen – qui in collaborazione con Placido Costanzi – e lo stesso Panini.15 Nella tela di Panini il sovrano appare al centro: all’interno della Coffee House lo attende papa Lambertini, seduto e in piena luce entro uno degli ambienti. L’incontro è mediato da tre porporati, il secondo dei quali sembra potersi identificare con Silvio Valenti Gonzaga. Noi concediamo ed elargiamo la più ampia indulgenza e remissione di tutti i peccati come nell’anno del Giubileo […] a coloro che almeno una volta abbiano visitato le chiese o Basiliche di San Giovanni in Laterano o del Principe degli Apostoli o di Santa Maria Maggiore e quivi per un certo tempo abbiano elevato a Dio pie preghiere.

La riforma del 1749 Così recita il breve In suprema catholicae, che Benedetto XIV promulgò ufficialmente il 20 novembre 1744, a soli pochi giorni dall’incontro ufficiale con Carlo III.16 Quel breve segna l’indizione del giubileo straordinario, effettivamente aperto nel 1745. L’evento deve considerarsi una sorta di prova generale, se si vuole un’incubatrice di quanto sarebbe accaduto cinque anni più tardi. Benedetto XIV, Silvio Valenti Gonzaga e i loro collaboratori impiegarono le settimane e i mesi che seguirono il 1745 a raccogliere dati, analizzarli e individuare opportune misure correttive. Il giubileo ordinario venne indetto il 5 maggio 1749, con la bolla Peregrinantes a Domino. Nonostante non avesse molto denaro da spendere, Benedetto XIV profuse notevoli sforzi per preparare al meglio la capitale del Cattolicesimo alle migliaia di pellegrini e di turisti, secondo quanto dimostrano gli undici decreti che seguirono la Peregrinantes. Alcuni decreti si legano direttamente al pensiero e all’azione di Benedetto XIV. Il discorso vale per questioni di stretta materia religiosa come la penitenza, l’unità cristiana e l’indulgenza giubilare. Il pontefice scelse e successivamente fece convocare attraverso i differenti ordini i predicatori più efficaci, da Giovanni Battista de’ Rossi, particolarmente apprezzato come confessore, al frate minore Leonardo da Porto Maurizio: dal luglio 1749 Leonardo svolse cinque missioni popolari e due tridui, che rivelarono una notevole efficacia per plasmare le squadre dei predicatori del Giubileo.17 Altrettanto può dirsi per l’estesa opera di restauro e sistemazione dei luoghi di culto. Il proposito consisteva nel presentarli al pubblico in condizioni splendide o almeno decorose: anche per questo si diede ordine di curare a fondo le pulizie, soprattutto nelle chiese cappuccine. Un’operazione particolarmente sofisticata coinvolse il Colosseo, che grazie all’architettura di Paolo Posi divenne uno spettacolare teatro della cerimonia conclusiva dell’anno giubilare, impostata sulla pratica devota della Via Crucis.18 Silvio Valenti Gonzaga si occupò in prima persona del sistema dell’arte, mercato naturalmente incluso. Il cardinale propose un’azione di riforma complessiva del sistema romano, che si articolò su diversi piani, concatenati e interconnessi, e perciò coinvolse vari settori. Tale azione servì a tenere sotto controllo, regolare ed eventualmente porre a frutto la prevedibile accelerazione della domanda per quadri, sculture e altri oggetti mobili determinata dal convergere lungo le rive del Tevere di una notevole quantità di pellegrini e di grand tourist, molti dei quali britannici. L’azione di Valenti si rivolse innanzitutto al piano del collezionismo privato di alto livello. Nel 1749 egli commissionò una tela di grandi dimensioni a Panini, uno dei suoi artisti preferiti, il quale la siglò in basso «IPP 1749» (fig. 3). Come ricostruito da Eric Zafran, la tela pervenne nel 1948 al museo attuale, il Wadsworth Atheneum di Hartford, in Connecticut, dopo essere transitata sul mercato antiquario londinese.19 Dati per acquisiti autore e cronologia, una pesante incognita gravava sul titolo: al momento di pubblicarlo per la prima volta nel bollettino del museo, la questione venne risolta con un anodino Interno di una galleria romana di quadri.20 Il merito di avere indirizzato nel verso giusto il problema spetta ad

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Fig. 3 Giovanni Paolo Panini, La galleria del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, Hartford, Wadsworth Atheneum

Harald Olsen.21 Grazie alle corrispondenze fra alcuni quadri rappresentati da Panini e gli originali custoditi nello Statens Museum for Kunst di Copenhagen – fra cui il Cristo sorretto dagli angeli di Andrea Mantegna – Olsen nel 1951 identificò il soggetto della tela nella collezione di Silvio Valenti Gonzaga e il suo proprietario nel cardinale al centro della scena. I quasi settant’anni trascorsi da allora hanno consentito di estendere notevolmente la geografia e in parte anche la geologia del quadro. Sulla base di una serie di evidenze filologiche e calligrafiche riscontrate nell’inventario dei beni del cardinale, nel 2005 chi scrive22 dimostrò che il quadro andava letto insieme al Catalogo della quadreria Valenti Gonzaga, vergato dallo stesso Panini – noto anche in qualità di agente e conoscitore23 – e completo di misure, soggetti e attribuzioni. Del Catalogo esistette una prima versione, rimasta allo stadio di manoscritto o al massimo stampata in un numero assai ridotto di copie: nel 1756 essa sarebbe servita da base di partenza per il suo inventario dei beni e per una seconda versione, questa sì certamente a stampa.24 Cataloghi del genere avevano già alle spalle una storia lunga almeno un secolo, che Francis Haskell ha contribuito a ristabilire, individuando il capostipite nelle Aedes Barberinae di Girolamo Tezi, uscite nel 1642.25 Nel diciottesimo secolo la tradizione aveva

La riforma del 1749 ripreso quota attraverso le Aedes Walpolianae, il catalogo della collezione di quadri di Robert Walpole, primo conte di Orford (1676–1745), forte di importanti numeri di Antoon Van Dyck, Guido Reni, Nicolas Poussin e Carlo Maratti. Le Aedes Walpolianae avevano visto la luce nel 1748, su commissione del figlio ed erede di Sir Robert, Horace Walpole (1717–1797), quarto conte di Orford.26 Horace – educato a Eton e perciò condizionato dall’impostazione classicista impressa una generazione prima da Richard Topham27 – a sua volta conosceva e amava gli oggetti d’arte, meglio se di manifattura o provenienza romane. L’attrazione per Roma si era ancor più rafforzata fra il marzo 1740 e il giugno 1741, nel corso del grand tour in compagnia del futuro poeta Thomas Gray.28 Quei mesi erano serviti per visitare la città e la campagna, esaminare iscrizioni e, come scrisse in una lettera del 2 ottobre 1740, comprare «some bronzes and medals, a few busts, and two or three pictures».29 Negli anni immediatamente successivi alla morte del padre, Horace aveva iniziato a disperderne i quadri: la prima tornata di vendita, in cui il nome degli Walpole appare celato dietro lo schermo del mercante Robert Bragge, era avvenuta il 5 e il 6 maggio 1748. Le Aedes rappresentano perciò l’istantanea di una fase della collezione destinata ben presto a scomparire. Valenti Gonzaga e Panini introdussero una variante nella tradizione dei cataloghi d’arte individuata dalle Aedes Barberinae e dalle Walpolianae. Panini, annotate con minuzia le caratteristiche principali di ciascun dipinto, impiegò la prima versione del Catalogo come stimolo di una tela di grandi dimensioni, quella appunto oggi custodita al Wadsworth Atheneum (fig. 3). Prodotti di questo tipo, ovvero raffigurazioni in pittura di gallerie grandi o piccole, avevano a loro volta una lunga tradizione, soprattutto in area nordica e particolarmente fiamminga. L’artista di Anversa Frans Francken II (1581–1642), o il Giovane, ne aveva offerto prove convincenti nella prima metà del diciassettesimo secolo, da Il cabinet del collezionista Sebastian Léerse, realizzato insieme a Cornelis de Baellieur e oggi nel Koninklijk Museum voor Schone Kunsten di Anversa, al Cabinet di arte e di curiosità nel Kunsthistorisches Museum di Vienna del 1620–1625 (fig. 4). Valenti Gonzaga ne aveva certamente nozione, vuoi per la conoscenza che aveva dell’ambiente artistico nordico, maturata nel corso della nunziatura di Bruxelles, vuoi perché fin dal 1650 un quadro di questo genere di Francken, La galleria di un collezionista o La bottega di un antiquario, aveva fatto il suo ingresso nella Galleria Borghese. Le ricerche di Maria Giuseppina Sordi su villa Paolina hanno chiarito su base documentaria che l’ambientazione scenografica del quadro di Hartford fu sostanzialmente inventata. Le sue misure, quando proiettate nella realtà, trovano scarsi riscontri nella villa Paolina. C’è ancora dell’altro. Il pittore piacentino intervenne anche sui contenuti. L’entità reale della collezione fa capire che l’artista operò una campionatura degli oltre 800 numeri segnalati dall’inventario dei beni del 1756. Considerate la presenza di Panini stesso nel quadro, giusto al cospetto del cardinale, si apre lo spazio per un’ipotesi di carattere biografico: nel realizzare la campionatura egli tenne conto dei pezzi che aveva personalmente consigliato e contribuito a procurare. Anche questa considerazione

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Fig. 4

Frans Francken II, Il cabinet di un collezionista, Vienna, Kunsthistorisches Museum

deve comunque fare i conti con il primo piano del dipinto che, come rammenta Raffaella Morselli, ruota intorno a una Madonna con Bambino di matrice o di derivazione raffaellesche.30 È esattamente il pezzo che Valenti e il suo pittore hanno appena disvelato e che adesso mostrano allo spettatore. Se il nucleo generatore dell’invenzione artistica coeva restano gli antichi maestri, bene, la selezione degli antichi continua a ruotare intorno al nome di Raffaello. Solo così era possibile ottenere una collezione d’arte a un tempo moderna e decorosa: ecco il messaggio che Valenti, attraverso Panini, lanciò sul piano del collezionismo. Sempre in previsione dell’anno giubilare Silvio Valenti Gonzaga provvide poi a intervenire sul piano del Museo, principalmente attraverso la fondazione della Pinacoteca Capitolina. Com’è noto, l’idea di fondare a Roma un secondo museo, stavolta centrato su dipinti di antichi maestri, risaliva almeno al 1736. A quell’anno rimonta una lista di

La riforma del 1749 quadri che, appartenenti alla storica collezione dei Sacchetti, erano stati esposti in San Giovanni Decollato: la lista, resa nota da Leandro Ozzola,31 è stata ripresa in esame qualche tempo fa da Benedetta Capponi, alla luce di nuove più dettagliate ricerche documentarie.32 Soltanto per volontà di Silvio Valenti Gonzaga, come ha ricostruito soprattutto Sergio Guarino, l’idea assunse le forme di un progetto esecutivo, dando così vita al primo istituto museale della storia centrato pressoché unicamente sulla tutela di quadri di antichi maestri. La Pinacoteca venne istituita fra il 1748 e il 1750 su espressa volontà di Silvio Valenti Gonzaga con l’acquisto di circa trecento opere provenienti dalla collezione Sacchetti, appunto, e dalla Pio: fin dall’origine si pensò di sistemarla nel Palazzo dei Conservatori, in cima al Campidoglio, forse – come suggerito da Susanna Pasquali – per stabilire un’ideale continuità fra i compiti dei senatori antichi, cui spettava fra l’altro la cura dei monumenti cittadini, e quelli dei senatori moderni.33 Valenti Gonzaga tenne d’occhio esperienze del passato, parte delle quali si collocavano nel pontificato di Clemente XI Albani (1700–1720). Luigi Spezzaferro ha messo in rilievo l’importanza del Museo Cristiano,34 Susanna Pasquali il progetto di catalogare le antichità romane depositate in Campidoglio di proprietà del Comune che, affidato nel 1714 all’architetto Alessandro Specchi, includeva la documentazione grafica e la descrizione dei vincoli di proprietà di ciascun pezzo.35 A due anni più tardi, nel 1716, risale un primo tentativo di acquisto della collezione Sacchetti da parte del papa, che sarebbe poi stato ricordato da Benedetto XIV in una lettera del 1751.36 I tentativi erano proseguiti sotto Clemente XII, che d’altronde aveva mostrato una spiccata sensibilità per la tutela, come si è osservato in precedenza. Mattia Biffis ha portato all’attenzione le velleità del marchese Alessandro Gregorio Capponi di acquistare nel 1731 la già citata Disputa di Guido Reni per mantenerla a Roma, all’interno di uno spazio pubblico cittadino.37 Il riferimento principale per Valenti Gonzaga rimase comunque il Museo Capitolino, istituito allo scadere del 1733 ed effettivamente in funzione dal 1734. Si è molto insistito – e giustamente – sul valore del Capitolino sul piano della tutela, ovvero come istituto volto sostanzialmente a conservare, ricercare e divulgare, cioè rendere meglio noti al pubblico i beni custoditi al suo interno. In un’ottica del genere il Museo può e deve certamente leggersi come espressione della volontà dei pontefici di fornire una soluzione concreta allo squilibrio citato al principio di saggio, ossia tra la scarsa forza d’acquisto dello Stato della Chiesa quando paragonata a quella di altre nazioni d’Europa, a cominciare dalla Gran Bretagna. Creare una zona franca, a beneficio del decoro cittadino, della pubblica utilità e degli studiosi delle belle arti: questo, in estrema sintesi, il significato del Museo. Questo complesso di idee e di azioni, pur restando fermo, non esclude necessariamente i rimandi al mercato dell’arte, di tipo diretto ovvero indiretto. In termini diretti, il Museo Capitolino negli anni immediatamente successivi alla fondazione si era andato configurando come un importante centro di spesa, in grado di attrarre opere anche di notevole importanza. Una buona dimostrazione venne dal Galata Capitolino, già in casa Ludovisi Boncompagni: nel dicembre 1733, alla morte

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Fig. 5 Peter Paul Rubens, Romolo e Remo allattati dalla lupa, Roma, Pinacoteca Capitolina

della principessa Ippolita, il marchese Capponi aveva aperto le trattative con il cardinale Troiano d’Acquaviva, rappresentante legale delle eredi, riuscendo alla fine ad aggiudicarselo a circa 6.000 scudi.38 In termini indiretti, il Museo si era imposto un fattore capace di agire sul piano del gusto, plasmando la domanda europea per configurarla a totale vantaggio del mercato capitolino. L’istituto aveva stabilito quali oggetti fosse giusto collezionare – e, allo specchio, quali non lo fossero – e anche quanto potessero valere. Detta in altro modo: il Museo e il suo direttore avevano occupato il centro della scena, ponendosi come l’ago della bilancia del mercato. Molti dei quadri accolti in Pinacoteca lasciano pensare a un’operazione paragonabile, ossia al suo utilizzo come volano promozionale del gusto romano. Questo discorso sembra valido per quella parte dei circa trecento quadri Sacchetti e Pio che rientravano a pieno titolo nella griglia estetica di Giovan Pietro Bellori, ovvero in quella ideale genealogia del classicismo accademico formulata con estrema lucidità negli anni settanta del diciassettesimo secolo ne L’Idea e ne Le Vite e successivamente sostanziata sempre in Accademia da Maratti e seguaci. Una lettura di questo genere coinvolge autori come Cavalier d’Arpino, Annibale Carracci, Domenichino, Guido Reni o infine lo stesso Carlo Maratti. Quanto poi all’inclusione in Pinacoteca del Romolo e Remo allattati dalla lupa (fig. 5) di Peter Paul Rubens, essa va d’accordo con il placet di Bellori e con quella sorta di mania che – come si è dimostrato in altra sede – pervase Roma all’approssimarsi del 1749 ed è attestata fra l’altro dall’arrivo direttamente da Bruxelles del San Sebastiano Corsini, orchestrato da Giovanni Gaetano Bottari.39

La riforma del 1749 Esistono comunque elementi della nuova Pinacoteca tali da lasciar pensare a una riflessione di respiro estetico più ampio, capace di andare oltre i dettami stabiliti dal classicismo belloriano. Tale riflessione spinse Valenti e i suoi collaboratori – ovvero chi vergò concretamente le liste degli artisti e dei quadri da appendere in Campidoglio – a estendere il ventaglio delle presenze a filoni diversi o persino divergenti dal classicismo. Il discorso trova un proprio filo innanzitutto quando proiettato in direzione del passato, ovvero sulla selezione dei quadri degli antichi maestri. Un congruo di numero di opere destinate alla Pinacoteca sono riconducibili al linguaggio oggi solitamente inquadrato nell’ombrello di ‹arte barocca›, che allora si riassumeva nel segno di Pietro da Cortona, o ancora a quello di Caravaggio e dei seguaci. La questione va ben oltre l’inclusione, per quanto rimarchevole, di numeri-chiave del catalogo di Merisi come il San Giovanni Battista ex Mattei o la Buona Ventura ex del Monte. Va ben oltre perché la costituzione della Pinacoteca mise al centro della scena mondiale un intero corpus di quadri che la critica accademica ufficiale aveva fino allora relegato nel girone dei dannati appunto perché di evidente matrice naturalista. Si pensi al San Giovanni Evangelista ex Pio di Savoia, nel 1750 riferito direttamente a Caravaggio e solo dopo vari passaggi classificato nel 1996 nel catalogo di Nicolas Tournier; o alle due Bambocciate che, attribuite in età storica a Monsù Teodoro, sarebbero poi transitate nel catalogo di Michael Sweerts; o, ancora, al Diogene e Platone e al pendant con Eraclito e Democrito, entrati con l’attribuzione a «Spagnoletto», cioè a Jusepe de Ribera, e ormai stabilmente date a Mattia Preti. Un’ulteriore prova schiacciante del cambiamento impresso nell’indirizzo estetico capitolino attraverso lo strumento del Museo giunge dall’apertura di credito verso Giovanni Francesco Barbieri, per tutti allora semplicemente il Guercino: perché proprio Guercino e le sue varie componenti linguistiche rappresentarono l’inserto più dirompente della Pinacoteca, se non altro per via dell’alto numero dei pezzi incamerati. Qualcosa di simile può cogliersi anche proposito di alcuni pittori contemporanei e in particolare di Pierre Subleyras. Nel 1752, a poco più di due anni dalla fondazione, la Pinacoteca accolse una copia ad acquarello da La cena in casa di Simone del francese.40 Per capire il margine di novità offerto dal nome di Subleyras si rende necessaria una parentesi. Come si è in parte già esposto, la linea del classicismo belloriano si concludeva e trovava il proprio apogeo nel nome di Carlo Maratti. Su di lui era ricaduta la responsabilità di condurre in avanti il linguaggio forgiato due secoli prima da Raffaello e nel suo caso trasmesso attraverso una sorta di genealogia rappresentata da Annibale Carracci, Francesco Albani e Andrea Sacchi. È vero: alcuni della folta selva di allievi addestrati da Maratti, in particolare Giuseppe Chiari e Agostino Masucci, avevano consentito a questo linguaggio di spingersi ben dentro al diciottesimo secolo, ma a distanza di due generazioni dalla morte del maestro i tempi sembravano maturi se non per un cambio della guardia almeno per un ampliamento del ventaglio, che fosse in grado includere autori, indirizzi e anche generi differenti e in tal modo porre di nuovo Roma alla guida dell’arte mondiale. Esattamente questo sembra il ruolo attribuito a

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Paolo Coen Subleyras (1699–1749).41 A poco meno di trent’anni, nel 1728, Subleyras si era traferito a Roma come vincitore del Prix de Rome. In palazzo Mancini, allora sede dell’Accademia di Francia, era rimasto fino al 1735, per poi gradualmente staccarsi dall’ambiente dei propri connazionali e invece accostarsi al romano. Una delle sue caratteristiche peculiari, il recupero e insieme la reinvenzione di una parte consistente dei linguaggi del passato, dalla grande maniera veneta fino a Guercino, gli aveva procacciato il favore di Silvio Valenti Gonzaga: il cardinale incluse varie opere del maestro francese nella collezione di villa Paolina e di fatto gli spianò la carriera. Al 1740 risalgono sia il Ritratto di Benedetto XIV, del quale esistono varie versioni e repliche, sia il Ritratto del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, destinato nel 1995 a confluire nella Pinacoteca Capitolina.42 Particolarmente il Benedetto XIV aveva marcato una sorta di passaggio di consegne verso una nuova e diversa stagione del classicismo, se non altro perché il francese nel competere per il ritratto ufficiale del pontefice aveva superato la concorrenza diretta di Agostino Masucci, come si è accennato l’ultimo rappresentante della nidiata di allievi maratteschi. Ancora nel 1740 erano cadute l’elezione a «professore» dell’Accademia di San Luca e la commissione più prestigiosa, la gigantesca pala raffigurante San Basilio celebra la messa dinanzi all’imperatore Valente, compiuta nel 1747 e oggi in Santa Maria degli Angeli. Pochi anni dopo l’ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi gli aveva ordinato la grande tela raffigurante il suo fondatore, San Camillo de’ Lellis salva gli ammalati dell’Ospedale di Santo Spirito.43 L’opera, firmata e datata 1746, può considerarsi per molti aspetti l’espressione più limpida del classicismo di Benedetto XIV. I Ministri degli Infermi l’avevano pensata come un segno di riconoscenza verso il pontefice, il quale aveva devoluto considerevoli energie a favore della canonizzazione di san Camillo, effettivamente celebrata il 29 giugno 1746. I modelli della tradizione, dal Rinascimento a Federico Barocci e Annibale Carracci, vi appaiono risolti entro una cifra contraddistinta da equilibrio, rigore e compostezza. Ormai all’apice della gloria, Subleyras era morto nel 1749. L’acquisto della copia da La cena in casa di Simone per la Pinacoteca, eseguita ad acquarello su pergamena da sua moglie Maria Felicita e pagata ben 1000 scudi, equivale a una benedizione del talento francese anche sul piano museologico.44 Nella sua particolare configurazione, la Pinacoteca dimostra una continuità con il tradizionale gusto dell’ambiente capitolino ma, insieme, l’apertura verso linguaggi fino allora rimasti ai margini o cui mancava il crisma dell’ufficialità. Sul piano stretto del mercato, Roma suonò un colpo a proprio favore: lungi da rappresentare un mero bacino di prelievo, essa trasmise la propria capacità di agire come un polmone, che lascia fuoriuscire opere d’arte e al tempo medesimo ne riceve dall’esterno, più o meno come altri grandi centri europei come Londra o Parigi. Per riformare il sistema delle arti romano in vista del 1750 il cardinale Silvio Valenti Gonzaga agì infine sul pedale legislativo, in particolare sul settore delle esportazioni. Nel 1749 egli emanò un decreto, entrato in vigore il 5 gennaio successivo, giusto all’apertura

La riforma del 1749 dell’anno giubilare, dal titolo Proibizione della estrazione delle statue di marmo, o metallo, pitture, antichità e simili. Su questo punto si è molto e giustamente insistito: per lo meno da Andrea Emiliani in poi, il decreto del 1749 è stata interpretato come un momento a sé e di notevole importanza nel percorso della legislazione della tutela, che nello Stato della Chiesa fu particolarmente lungo e articolato.45 La legge possedeva comunque obiettivi, valenze e implicazioni che travalicavano gli aspetti squisitamente restrittivi e punitivi: Emiliani stesso accenna a «numerosi modelli di intervento […] arricchiti di risoluzioni più raffinate e […] di lungimiranti disposizioni».46 Già in altre sedi si è posto l’accento sul sensibile miglioramento dell’ufficio del commissario alle antichità e belle arti. Com’è noto, chiunque intendesse «estrarre da Roma» uno o più oggetti d’arte doveva farne richiesta al commissario, il quale in caso di esito positivo rilasciava un apposito lasciapassare, o licenza. Prevedendo che la crescita del pubblico straniero nel 1750 avrebbe determinato una moltiplicazione delle richieste di licenza, Silvio Valenti Gonzaga potenziò l’ufficio con l’aggiunta di tre ispettori, o «assessori» al commissario.47 Ma l’editto cambiò anche l’approccio nei riguardi delle opere. Già dai tempi di Clemente XI l’azione di tutela si era estesa alle pitture e ad altre opere d’arte del Rinascimento o di età anche più avanzate, ma per tradizione la carica di commissario era stata appannaggio esclusivo di archeologi: naturale perciò che al momento di valutare le opere in uscita la sensibilità principale si rivolgesse all’Antico. Valenti Gonzaga incise su tale impostazione, riconoscendo attraverso le tre diverse figure degli assessori un principio di competenza specifica. Da allora non solo in teoria, ma anche in pratica il ventaglio dei beni soggetti all’azione di tutela subì una forte estensione. Ciascuno dei tre assessori venne scelto in base a una particolare «incombenza», o specializzazione, «la quale sarà della Pittura ad uno, all’altro la Scoltura, ed al terzo degli Camei, Medaglie, Incisioni ed ogni altra sorte di Antichità. […] E perciò in avvenire per qualunque estrazione (scil. esportazione) la Visita dovrà farsi dall’Assessore, il quale dovrà stendere la sua relazione».48 Dei tre assessori nominati da Valenti Gonzaga suscita particolare interesse Giovanni Barbarossa, destinato al controllo delle pitture antiche e moderne. Barbarossa incarna il desiderio del cardinale di radicare la valutazione dei quadri in uscita al loro effettivo valore di mercato.49 Si trattava difatti di un mercante d’arte, anzi per meglio dire di un «quadraro», proprietario fino al 1764 di una bottega al piano terreno di palazzo Colonna a piazza Santi Apostoli. Nel panorama dei venditori capitolini Barbarossa occupava un posto a sé stante. Com’è noto, Roma vantava una lunga filiera di operatori ribelli, clandestini o irregolari, a malapena tenuti a freno dall’Accademia di San Luca. All’esatto contrario, Barbarossa aveva sempre osservato alla lettera quanto stabilito dall’establishment, mantenendo un alto profilo al cospetto delle istituzioni. Nulla perciò di particolarmente strano nel trovarlo come fornitore di collezionisti del livello del cardinale Alessandro Albani e dello stesso cardinale Valenti Gonzaga. Già a fianco di Panini nel

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Paolo Coen costruire la raccolta di villa Pia, Barbarossa avrebbe curato nel 1756 il suo inventario dei beni, correggendo in qualità di perito delle pitture alcune delle attribuzioni formulate nel 1749. Lasciando aperto e in funzione il negozio in piazza Santi Apostoli, fra il 1750 e il 1764 il «quadraro» supervisionò un congruo numero di partite di quadri in uscita da Roma. Nel farlo, egli mantenne sempre il rispetto delle istituzioni che aveva fin lì connotato il resto della sua carriera. Al momento della morte, le poche centinaia di scudi di patrimonio non avrebbero retto il confronto con le molte migliaia caratteristiche di altri colleghi, primo fra tutti Belisario Amidei. Un’ottantina di anni prima, nel 1670, Giovanni Pietro Bellori e Carlo Maratti avevano usato la leva dell’Accademia di San Luca per dettare una svolta all’intero mercato artistico di Roma.50 La svolta si doveva a vari fattori, che mettevano in pericolo la credibilità di Roma come piazza internazionale. Da un lato, bisognava stabilire un argine alla proliferazione di operatori improvvisati e disonesti. Il problema, messo in rilievo nel 1665 dall’abate Filippo Maria Bonini ne L’ateista convinto, come ha mostrato Tomaso Montanari,51 minava alla base l’attività dei venditori e dell’intero ‹sistema› capitolino. Un secondo fattore di pericolo era rappresentato dai mercanti neerlandesi. Il pericolo non si legava tanto al mancato pagamento della tassa annuale, cui si è accennato poche righe or sono a proposito di Giovanni Barbarossa. Il vero tema consisteva nella loro mentalità spiccatamente liberista, che li spingeva quasi in automatico a ribellarsi alle linee-guida stabilite dall’Accademia di San Luca o da qualsiasi altra autorità. Le contromisure di Bellori e di Maratti sono ben note. Attraverso l’Accademia e in nome dell’Accademia Bellori e Maratti avevano stabilito una tregua con i mercanti neerlandesi e imposto una gerarchia di valori estetici regolata dalla dottrina dell’Idea, ovvero dal classicismo. Il mercato pittorico romano si era in tal modo suddiviso in due segmenti, o fasce, molto precisi. Da un lato ecco perciò la fascia alta, alimentata per lo più da originali di autori appartenenti al filone del classicismo, da Raffaello a Carlo Maratti, con l’aggiunta di Rubens, Van Dyck e Claude; dall’altro la fascia bassa, in cui vennero confinati gli autori censurati da Bellori, in testa Caravaggio e i suoi. In sostanza, si venne allora a costituire un mercato particolare, plasmato da condizioni che ponevano la città automaticamente in una situazione di vantaggio. Solo in questo modo, cioè al sicuro di determinate barriere, tanto più resistenti proprio in quanto liquide, Roma aveva potuto arginare la forza della domanda esterna e la concorrenza di altre piazze europee come Londra, Parigi o Amsterdam. Il punto, ormai arrivati nel 1749, consisteva semplicemente nel porre di nuovo mano agli argini, per innalzarli ed estenderli: solo in questo modo l’establishment romano avrebbe potuto continuare a tenere ben salde in pugno le redini del suo sistema artistico. Il responsabile di tale lavoro, in previsione del Giubileo, fu appunto Silvio Valenti Gonzaga. Il cerchio si chiuse una manciata d’anni più tardi. Il 1753 segna la morte di Fabio Rosa e l’ingresso della sua importante raccolta di quadri all’interno dell’Accademia di

La riforma del 1749 San Luca.52 L’Accademia, che al tempo si trovava ai piedi del Campidoglio, direttamente alle spalle della chiesa dei Santi Luca e Martina, registrò l’ingresso di un’antologia mirata dei 510 pezzi elencati nell’inventario dei beni del collezionista, orientata nettamente verso la pittura contemporanea. Nel campo della pittura di storia spiccano i nomi di Carlo Maratti, Benedetto Luti e Francesco Trevisani, nel paesaggio, il vero punto di forza della raccolta, di Andrea Locatelli e ancor più di Jan Frans van Bloemen, l’Orizzonte. La passione per il paesaggio classico si accorda al progressivo orientamento estetico dell’Accademia di San Luca, che era emerso già nella seconda metà del XVII secolo, per poi prendere decisamente piede nella prima metà del XVIII. In tal modo l’Accademia andò configurandosi come un museo della pittura romana contemporanea e perciò terzo elemento di una sorta di ‹sistema› costituito appunto dal Museo Capitolino per i pezzi classici e dalla Pinacoteca Capitolina per la pittura antica. Il ‹sistema›, probabilmente concepito sempre da Silvio Valenti Gonzaga intorno al 1750, avrebbe concesso all’Accademia di San Luca una condizione di vantaggio anche sul mercato dell’arte contemporanea, contribuendo a plasmare gli orientamenti estetici – e gli acquisti sul mercato dell’arte – di grandi collezionisti britannici come Brownlow Cecil e Thomas Coke.

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Paolo Coen 1 Su Benedetto XIV rimangono fondamentali i contributi di Mario Rosa: M. Rosa, Benedetto XIV, papa, in Dizionario Biografico degli Italiani, viii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1966; Id., Riformatori e ribelli nel ’700 religioso italiano, Bari, Laterza, 1969, pp. 49–85. 2 Benedetto XIV e le arti del disegno, atti del convegno, Bologna, 1994, a cura di D. Biagi Maino, Roma, Quasar, 1998. 3 M. Teresa Fattori, Benedetto XIV e Trento: tradurre il concilio nel Settecento, Stuttgart, Anton Hiersemann, 2015; Benedict XIV and the Enlightenment: art, science, and spirituality, a cura di R. Messbarger, C. M. S. Johns, P. Gavitt, Toronto/Buffalo/London, University of Toronto Press, 2016. 4 D. Defoe, Giving Alms no Charity, London, Booksellers of London and Westminster, 1704, p. 26. Cfr. J. Hoppit, A Land of Liberty? England 1689–1727, Oxford, Oxford University Press, 2002, p. 344. 5 O. Dykes, English Proverbs, with Moral Reflexions, 3a ed., London, G. Sawbridge, 1713, p. 62. 6 M. Biffis, Negotiating an art deal in eighteenth-century Europe. Guido Reni’s Dispute and its acquisition by Sir Robert Walpole, in «Journal of the History of Collections», 30, 2018, pp. 65–76. 7 R. T. Ridley, To protect the monuments: the Papal antiquarian (1534–1870), in «Xenia antiqua», 1, 1992, pp. 117–154; D. Gallo, Per una storia degli antiquari romani nel Settecento, in «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 111, 1999, pp. 827–845; M. Bentz, Venuti, Ridolfino, in Geschichte der Altertumswissenschaften. Biographisches Lexikon, Der Neue Pauly. Supplemente, a cura di P. Kuhlmann, H. Schneider, vi, Stuttgart/Weimar, Metzler, 2012, pp. 1254–1256. 8 Gallo, Per una storia degli antiquari romani, cit., in particolare pp. 832–834. 9 G. Pontari, Silvio Valenti Gonzaga: il cardinale illuminato, in Ritratto di una collezione. Pannini e la Galleria del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, catalogo della mostra, Mantova, Palazzo Te, a cura di R. Morselli, R. Vodret, Milano, Skira, 2005, pp. 393–397. 10 F. Valesio, Diario di Roma. 1700–1742, a cura di G. Scano, con la collaborazione di G. Graglia, 6 voll., Milano, Longanesi, 1977–1979, vi, 1979, p. 377. 11 C. Todeschi, Elogio del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, Roma, dalle stampe del Salomoni 1776, p. 5. 12 M. P. Donato, Profilo intellettuale di Silvio Valenti Gonzaga nella Roma di Benedetto XIV, in Ritratto di una collezione, cit., pp. 81–89. 13 F. Haskell, Mecenati e pittori. L’arte e la società italiane nell’età barocca, Torino, Allemandi, 2000, p. 201. Chi scrive ha ricostruito l’attività di agente artistico e di collezionista in Silvio Valenti Gonzaga e il mercato artistico romano del XVIII secolo, in Ritratto di una collezione, cit., pp. 181– 192; Id., Il mercato dei quadri a Roma nel diciottesimo secolo, 2 voll., Firenze, Leo S. Olschki, 2010. 14 M. G. Sordi, Villa Paolina a Roma, in Ritratto di una collezione, cit., pp. 113–117. 15 J. Stoschek, Das Caffeaus Papst Benedikts XIV. in den Gärten des Quirinal, München, Scaneg, 1999; C. Benocci, Il Quirinale: i giardini, la fontana dell’organo, il Coffee-house, Roma, Novart, 2012. 16 Sui giubilei, compresi i due di Benedetto XIV presi in considerazione, esiste ormai una bibliografia consolidata. Cfr. in particolare Roma 1300–1875. L’arte negli anni santi, a cura di M. Fagiolo, M. L. Madonna, Milano, Mondadori, 1984; Eid., Roma 1300–1875. La città degli anni santi, Milano, Mondadori, 1985; La città del perdono. Pellegrinaggi e anni santi a Roma in età moderna. 1550–1750, in «Roma moderna e contemporanea», 1997; La storia dei giubilei. 1600–

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1775, a cura di A. Zuccari, Firenze, Giunti, 1999; L. Scaraffia, Il giubileo, Bologna, Il Mulino, 1999. D. Busolini, Leonardo da Porto Maurizio, santo, in Dizionario Biografico degli Italiani, lxiv, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005. Cfr. M. Caffiero, Istituzioni, forme e usi del sacro, in Roma moderna, a cura di G. Ciucci, Roma/ Bari, Laterza, 2002, pp. 143–180; R. Catini, Posi, Paolo, in Dizionario Biografico degli Italiani, lxxxv, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2016. E. M. Zafran, Il quadro di Pannini ad Hartford. Storie e vicende di un’acquisizione, in Ritratto di una collezione, cit., pp. 143–148. C. C. Cunningham in «Wadsworth Atheneum Bulletin», aprile 1949, p. 45. H. Olsen, Et Malet galleri af Pannini: Kardinal Silvio Valenti Gonzagas Samling, in «Kunstmusèets Arsskrift», 37, 1951, pp. 90–103. Su questo aspetto cfr. Coen, Silvio Valenti Gonzaga, cit. Cfr. O. Michel, Nicolas Vleughels (1668–1737), relations et collections, in «Archives de l’art français», 26, 1984, pp. 165–176, rist. in Id., Vivre et peindre à Rome, Rome, École Française de Rome, 1996, pp. 115–139; M. Kiene, Giovanni Paolo Panninis Expertisen für Marchese Capponi und sen Galeriebild für Kardinal Valenti Gonzaga, in «Römisches Jahrburch der Bibliotheca Hertziana», 26, 1990, pp. 257–301. D. Sogliani, Il catalogo a stampa dei quadri della galleria del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, in Ritratto di una collezione, cit., pp. 299–324. F. Haskell, La difficile nascita del libro d’arte, Milano, Electa, 1989. Sulle Aedes Barberinae si è lavorato molto, anche negli ultimi anni. Si rimanda qui agli studi di Lucia Faedo, da ultimo Aedes Barberinae: osservazioni sulla fortuna di un’opera tra ecfrasi ed antiquaria, in «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», 106, 2009, pp. 7–34. Aedes Walpolianae, or a Description of the Collection of Pictures at Houghton Hall in Norfolk, Twickenham, 1748 [ma 1747], ii ed. ivi, 1752. Sugli Walpole cfr. R. W. Ketton-Cremer, Horace Walpole: A Biography, London, Methuen, 19643; W. S. Lewis, Horace Walpole, London, HartDavis, 1961; Horace Walpole: Writer, Politician, Connoisseur, a cura di W. S. Lewis, New Haven, Yale University Press, 1967; P. Sabor, Horace Walpole: A Reference Guide, Boston, G. K. Hall, 1984; L. Dukelskaya, A Capital Collection: Houghton Hall and the Hermitage. With a modern edition of Aedes Walpolianae, Horace Walpole’s Catalogue of Sir Robert Walpole’s Collection, New Haven, Yale University Press, 2002. P. Coen, Il progetto di Richard Topham per Eton College, serial/portable classic nell’Inghilterra di primo Settecento, in Temi e ricerche sulla cultura artistica II. Antico, città, architettura IV, a cura di E. Debenedetti, (Studi sul Settecento romano, 35), Roma, Quasar, 2019, pp. 11–25. Per brevità si rimanda a A Dictionary of English and Irish Travellers in Italy, 1701–1800, a cura di J. Ingamells, New Haven, Yale University Press, 1997, pp. 974–976. Horace Walpole Correspondence, a cura di W. S. Lewis, 43 voll., New Haven, Yale University Press, 1937–1983, xiii, p. 232; anche online: http://images.library.yale.edu/hwcorrespondance/. R. Morselli, Un Museo tra ragione e illusione. «La Galleria de’ quadri del cardinal Silvio Valenti Gonzaga», in Ritratto di una collezione, cit., pp. 11–44, in particolare pp. 40–41. L. Ozzola, Nota dei quadri che stettero in mostra nel cortile di S. Giovanni Decollato a Roma nel 1736, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 37, 1914, pp. 637–658. B. Capponi, L’esposizione di dipinti nel chiostro di S. Giovanni Decollato a Roma nel 1736, in «Storia dell’arte», 142, 2015, pp. 141–149.

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Paolo Coen 33 S. Pasquali, Roma antica: memorie materiali, storia e mito, in Roma moderna, cit., pp. 323–347, in particolare p. 326. 34 L. Spezzaferro, Dalla collezione privata alla raccolta pubblica. Silvio Valenti Gonzaga e la Galleria dei quadri in Campidoglio, in Ritratto di una collezione, cit., pp. 91–98. 35 Cfr. S. Pasquali, L’architetto del Popolo Romano, in «In Urbe architectus»: modelli, disegni, misure. La professione dell’architetto, catalogo della mostra, Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, 1991, a cura di B. Contardi, G. Curcio, Roma, Argos, 1991, pp. 301–311. 36 Cfr. S. Guarino, Nascita di una collezione, in Guido Reni e i Carracci. Un atteso ritorno: capolavori bolognesi dai Musei Capitolini, catalogo della mostra, Bologna, Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni 2015, a cura di S. Guarino, Bologna, Bononia University Press, 2015. 37 Biffis, Negotiating an art deal, cit. 38 Cfr. M. Franceschini, L’acquisto del Gladiatore Ludovisi per il Museo Capitolino, in M. Mattei, Il Galata Capitolino: uno splendido dono di Attalo, Roma, L’«Erma di Bretschneider», 1988, pp. 157–160. 39 P. Coen, Pieter Paul Rubens e il mercato artistico romano del XVIII secolo, in Rubens e la cultura italiana (1600–1608), a cura di R. Morselli, C. Paolini, Roma, Viella, 2020, pp. 275–286. 40 Ch. M. S. Johns, Making History at the Capitoline Museum: Maria Tibaldi Subleyras’s Christ in the house of Simon the Pharisee, in «Eighteenth-Century Studies», 52, 2019, pp. 167–171. 41 Cfr. Subleyras 1699–1749, catalogo della mostra, Parigi, Musée du Luxembourg, Roma, Académie de France, Paris, Musée du Luxembourg, a cura di O. Michel, P. Rosenberg, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1987; G. Sestieri, Repertorio della pittura romana della fine del Seicento e del Settecento, 3 voll., Torino, Allemandi, 1994, i, pp. 170–171; P. Rosenberg, Le peintre Subleyras, pensionnaire au Palais Mancini, in L’ Académie de France à Rome: le Palais Mancini, un foyer artistique dans l’Europe des Lumières (1725–1792), a cura di E. Beck-Saiello, M. Bayard, A. Gobet, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2016, pp. 291–305. 42 Cfr. la scheda di S. Guarino in Ritratto di una collezione, cit., p. 129, scheda 1. 43 Cfr. Subleyras 1699–1749, cit., pp. 321–323; R. Leone in Gregorio Guglielmi. Pittore romano del Settecento, catalogo della mostra, Roma, Ex convento di Sant’Agostino, a cura di E. Gabrielli, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2009, pp. 89–91. 44 Johns, Making History at the Capitoline Museum, cit. 45 Cfr. A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi stati italiani. 1571–1860, Bologna, Nuova Alfa, 1978. Si vedano anche V. Curzi, Bene culturale e pubblica utilità: politiche di tutela a Roma tra Ancien Régime e Restaurazione, Bologna, Minerva, 2004; A. Emiliani, Un grande papa per le arti e la tutela del patrimonio, in Ritratto di una collezione, cit., pp. 75–80; I. Colucci, ivi, pp. 132–133. 46 Emiliani, Un grande papa, cit., p. 80 47 Roma, Biblioteca Casanatense, Bandi, Per. Est. 18/51, p. 10. 48 Ibid. 49 P. Coen, I «quadrari» Giovanni Rumi e Giovanni Barbarossa, mercanti d’arte professionisti nella Roma del XVIII secolo, in «Roma moderna e contemporanea», 13, 2005, pp. 347–363. 50 Cfr. P. Coen, Francesco Cozza «intendente d’arte» e un programma decorativo per l’Accademia di San Luca, in Francesco Cozza e il suo tempo, atti del convegno, Valmontone, 2008, a cura di C. Strinati, R. Vodret, G. Leone, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, pp. 77–90; Id., Maratti e la «questione» del mercato dell’arte, in Maratti e l’Europa, atti del convegno, Roma, 2013, a cura di L. Barroero, S. Prosperi Valenti Rodinò, S. Schütze, Roma, Campisano, 2015, pp. 275–288.

La riforma del 1749 51 T. Montanari, Roma 1665: il rovescio della medaglia, l’ateista convinto dalle sole ragioni dell’abbate Filippo Maria Bonini, in «Ricerche di storia dell’arte», 96, 2008, pp. 41–56. 52 P. Coen, Da collezione privata a museo pubblico: la raccolta di Fabio Rosa e il suo ingresso in Accademia di San Luca, in «Ricerche di storia dell’arte», 107, 2012, pp. 5–16; G. Michel, Fabio Rosa (1681–1753) mémoraliste de son père Francesco Rosa (1638–1687) «pittore accademico», in «Annali delle arti e degli archivi», 3, 2017, pp. 276–284, G. De Marchi, Fabio Rosa benefattore dell’Accademia di San Luca: in ricordo di Olivier Michel accademico benemerito, ivi, pp. 285–330.

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Tra l’antico e il nuovo regime: la collezione del XIV duca d’Alba, Carlos Miguel Fitz-James Stuart, un Grande di Spagna nell’esilio

Carlos Miguel Fitz-James Stuart (Madrid, 1794 – Sion, 1835), VII duca di Berwick (fig. 1), ereditò il titolo di XIV duca d’Alba a soli 8 anni, dopo la morte nel 1802 della sua lontana parente, María del Pilar Teresa Cayetana de Silva y Álvarez de Toledo (1776–1802), ma ricevette solo parte del favoloso patrimonio artistico Alba, poiché i dipinti più noti erano stati venduti o regalati da chi lo aveva preceduto.1 Carlos e sua madre, la marchesa di Ariza, che vediamo in questo ritratto firmato dal pittore napoleonico François-Joseph Kinson (fig. 2),2 la cui effigiata non era stata finora identificata,3 furono tra i pochi grandi di Spagna che collaborarono con Giuseppe I Bonaparte quando Napoleone collocò suo fratello sul trono di Spagna. Abel Hugo racconta che nel baciamano del monarca celebrato nel Palazzo Reale di Madrid il primo gennaio del 1812, vide entrare con insultante sicurezza nella sala del trono un giovanotto, vestito come un semplice ussaro, che si mescolò tra i generali più importanti. Dal suo dolmano pendeva, però, la chiavettina d’oro che lo distingueva come ciambellano del re.4 Si trattava del giovane duca di Berwick e Alba, ed era stato nominato dal re sottotenente del reggimento degli ussari della Guardia Reale e «Gentilhombre de cámara con ejercicio».5 Poco dopo, a marzo, il duca partì verso la Francia in un convoglio dell’esercito invasore,6 e ad aprile fu presentato a Napoleone a Parigi come membro di una delegazione diplomatica, mentre la madre fu introdotta dalla duchessa di Bassano, dama d’onore dell’imperatrice.7 Carlos rimase a Parigi fino a quando, nell’ottobre del 1814, iniziò un lungo viaggio di otto anni che lo portò in Francia, Svizzera, Austria ed Inghilterra, ma soprattutto in Italia, dove soggiornò a lungo a Firenze, Roma e Napoli.8 Anche se acquistò la maggior parte della sua collezione in questo periodo, specie tra il 1814–1818, non si può parlare propriamente di un Grand Tour, bensì di un esilio forzato a causa della sua collaborazione con la corte di Giuseppe I. Nei primi del 1817, Ferdinando VII di Spagna decise di punire la slealtà di Carlos,9 che ritornò a Madrid solo nel 1821, un anno dopo l’avvento del nuovo regime costituzionale da lui celebrato. Nella Galleria dell’Accademia di Napoli si trovano due dipinti provenienti dallo studio del pittore belga Joseph Franque, che Raffaello Causa identificò come ritratti del Duca di Berry (figg. 3, 4).10 A mio parere, condiviso da Alba Irollo, che è arrivata per

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Fig. 1 Lorenzo Bartolini, Carlos Miguel Fitz-James Stuart, VII duca di Berwick e XIV duca d’Alba, 1818, Madrid, Fundación Casa de Alba, Palacio de Liria

Fig. 2 François-Joseph Kinson, María Teresa de Silva y Palafox, Marquesa de Ariza, c. 1814, Collezione Privata

diverse vie alla medesima conclusione, si tratta invece del XIV duca d’Alba,11 come si evince dal paragone con alcuni dei suoi ritratti noti. Causa descrisse l’effigiato come un «raffinato ed annoiato dandy capitato, come per caso, su di un campo di battaglia», una sorta di figurino alla moda che rifiuta i ritratti ufficiali, «meglio mostrarsi vestito alla borghese, poiché le guerre sono già finite e la Santa Alleanza ha vinto con l’aiuto di Dio e i legittimi sovrani possono respirare sui loro troni».12 La Società Napoletana di Storia Patria custodisce un disegno in rapporto con questo ritratto (fig. 5),13 nel quale il giovane compare da ussaro, uniforme che, si ricordi, fu indossata da Carlos alla corte di Giuseppe I. Certo, ritrarsi così a Napoli ai tempi della Restaurazione non aveva alcun senso, per cui il duca scelse opportunamente un’immagine più borghese. Comunque sia, il duca non nascondeva le sue idee politiche a Napoli: il primo aprile del 1820 fece una festa clamorosa per celebrare la promulgazione della costituzione in Spagna.14 Fatto che sicuramente non piacque al re Ferdinando, che temeva che le libertà costituzionali arrivassero al suo regno – cosa che accadde pochi mesi dopo – e aveva visto come il duca di Berry, erede al trono di Francia e marito di sua nipote, era appena stato assassinato.

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Fig. 3 Joseph Franque, Studio per il ritratto di Carlos Miguel Fitz-James Stuart, VII duca di Berwick e XIV duca d’Alba, 1818, Napoli, Galleria dell’Accademia di Belle Arti

Carlos costruì la sua collezione in un momento in cui, come notato da Urquízar e Vigara, lo statuto sociale ed estetico delle opere d’arte stava cambiando per la nobiltà spagnola, che combinava la difesa della tradizione con la risistemazione delle vecchie collezioni familiari e con la vendita di molti dei pezzi che le costituivano, apprezzati fino quel momento, soprattutto, per il loro carattere simbolico.15 A differenza dei suoi coetanei, il duca di Berwick e Alba si sforzò di mantenere intatto il patrimonio artistico familiare. Infatti, nel 1823 vendette solo due serie di arazzi, arte allora molto deprezzata in Spagna, ma per le quali ottenne un pingue beneficio di 179.000 franchi,16 e tentò di recuperare, senza successo, i più importanti dipinti della prestigiosa collezione Alba, che riteneva di dover ereditare per un fedecommesso stabilito dal VI marchese del Carpio.17 Ma Carlos, educato in Europa dai 17 anni, capì soprattutto che il prestigio del lignaggio non era costruito solo sulla sua memoria, ma anche sul rinnovamento del suo splendore.18 Cacciato dalla corte spagnola, poteva mantenervi un certo protagonismo per via del suo mecenatismo. In una lettera destinata al segretario di stato del Re nel 1827, egli afferma che, nel corso dei suoi viaggi in Europa, aveva formato una collezione

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Fig. 4 Joseph Franque, Carlos Miguel Fitz-James Stuart, VII duca di Berwick e XIV duca d’Alba, 1818, Napoli, Galleria dell’Accademia di Belle Arti

allo scopo di creare una galleria pubblica a Madrid per gli artisti e gli amateurs spagnoli, in modo tale che potessero studiare i buoni modelli da imitare.19 La documentazione conservata nell’archivio della Casa de Alba,20 e il fortunato ritrovamento di un libro contabile del duca che registra le sue entrate e le sue spese tra gennaio del 1816 e agosto del 1817, e tra gennaio e settembre del 181821 (in tutto 17 mesi del periodo in cui costituì la parte più consistente della sua collezione) ci permette di precisare che egli acquistò 320 dipinti, di cui un terzo, 111, erano opera di artisti viventi, dai quali furono spesso comprati direttamente o commissionati.22 Per quanto riguarda la scultura, Carlos acquistò 35 statue (escludendo le riproduzioni di opere antiche), 22 delle quali erano opere contemporanee. Questa nuova collezione fu creata in un contesto in cui lo splendore era fondato più sul gusto, che sul valore, piuttosto simbolico, delle vecchie collezioni ereditate.23 Ma non solo. A nostro parere, il duca di Berwick e Alba fu il primo nobile spagnolo a capire come la commissione di dipinti che mostrassero la lealtà dei suoi antenati alla monarchia e alla fede cattolica poteva aiutarlo a legittimarlo in Spagna dopo il suo passato napoleonico. Così Carlos, VII duca di Berwick, volle ricordare il I duca di questo titolo in un dipinto

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Fig. 5 Joseph Franque, Carlos Miguel Fitz-James Stuart, VII duca di Berwick e XIV duca d’Alba, c. 1817, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria

commissionato a Ingres nel 1817, in cui Jacobo Fitz-James Stuart, figlio bastardo dell’ultimo re cattolico d’Inghilterra, riceve da Filippo V di Borbone il Toson d’oro (fig. 6).24 Una iscrizione su un acquerello relativo a quest’opera donato da Ingres a Poublon, uomo d’affari del duca, afferma che la dignità fu concessa al militare per i suoi servizi nella Battaglia di Almansa,25 citata nella piccola bandiera rossa della composizione, che ebbe luogo nel 1707, ma il Tosone fu consegnato nel 1704. La battaglia fu importante per l’affermazione di Filippo di Borbone come Re di Spagna durante la Guerra di Successione, e Carlos ordinò a Franque di raffigurare l’episodio in un dipinto che, purtroppo, non si è conservato.26 E anche nel 1817, Carlos VII duca di Berwick, volle ricordare il I duca di Berwick, Jacobo Fitz-James Stuart, con una statua colossale in bronzo commissionata allo spagnolo Álvarez Cubero, della quale fu eseguito solo il gesso.27 Il museo del pittore a Montauban custodisce un disegno che è stato identificato da Vigne come un «moine lisant», e nel cui verso, si può leggere «[…] tableaux a peindre […] 2 pour publon / 2 pour le Duc d’albe. / une pour Pastoret / 1 pour le ministre de l’interieur/ 1 pour la Duchesse d’albe».28 Questo monaco è piuttosto intento a disegnare una Madonna e come evinto dalle sue fattezze e dalla iscrizione tombale trascritta nella parte superiore del disegno, si tratta di Fra’ Angelico; inoltre, nel foglio si indica che «Ce portrait est dans le Cloitre». La decorazione del chiostro di Santa Maria Sopra Minerva di Roma fu commissionata dal cardinale Torquemada, è stata attribuita sia a Antoniazzo

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Fig. 6 Jean-Auguste-Dominique Ingres, Filippo V consegna il Tosone d’oro al I duca di Berwick, 1818, Madrid, Fundación Casa de Alba, Palacio de Liria

Romano che a Fra’ Angelico.29 Negli affreschi, distrutti nel Cinquecento, figuravano 34 episodi delle meditazioni Torquemada, accompagnati da un monachus o «contemplator».30 È da supporre che una parte di essi fosse ancora conservata quando Ingres visitò il chiostro, e che uno raffigurasse proprio il monaco pittore. Le annotazioni di Ingres sul foglio indicano che avrebbe dovuto dipingere due quadri per il duca d’Alba, altri due per Poublon e uno per la duchessa d’Alba (quest’ultimo cancellato nella scritta) Rosalia Ventimiglia, sposata da Carlos nel febbraio del 1817. L’elenco conservato nell’Archivo Casa de Alba che segnala le date di acquisto o di commissione di 178 dipinti tra gennaio 1815 e settembre 1817 riferisce di tre dipinti commissionati a Ingres come «Sujet d’histoire».31 Si conservano diversi disegni di Ingres che documentano l’intenzione dell’artista di ambientare in modo storico la raffigurazione dell’episodio del I duca di Berwick mentre riceve il Toson d’oro. La cerimonia era un tema raramente raffigurato; di fronte alla mancanza di riferimenti vicini, Ingres prese come modello compositivo gli arazzi della Storia di Luigi XIV tessuti secondo i cartoni di Le Brun, come L’Udienza al Cardinale Chigi.32 Come è ovvio, l’interno ha poco di spagnolo e non rappresenta il palazzo

Tra l’antico e il nuovo regime del Pardo, dove ebbe luogo la cerimonia. Infatti, alcuni dettagli come i troni, copiati da quello di Luigi XIV conservato a Versailles, dimostrano che Ingres ambientò la sua ricostruzione molti anni prima dei fatti, ai tempi del Re Sole. Solo la presenza di Carlo II di Asburgo permette di situare l’episodio in Spagna. Il suo ritratto, in fondo, sul trono reale, ripete quello che raffigura l’ultimo degli «Austrias» nel «Salón de los espejos» dell’Alcázar de Madrid.33 In rapporto con esso è un disegno non identificato conservato nel Musée Ingres che copia parte del ritratto di Carlo II con bastone e Mariana de Austria di Sebastián Herrera Barnuevo, oggi in collezione privata.34 Certo, l’ubicazione del ritratto del monarca spagnolo sul trono reale non è casuale, poiché era zio di Filippo V, e l’aveva nominato come suo successore nel suo ultimo testamento. Il secolare servizio degli Alba alla corona e al cattolicesimo fu ricordato da Carlos in un dipinto ordinato a Ingres sempre nel 1817 che celebrava il momento in cui il granduca Fernando Álvarez de Toledo ricevette lo stocco e il galero papale dal vescovo di Bruxelles,35 distinzione concessa da Pio V al granduca per la sua difesa della fede cattolica nel 1566. Conosciamo la composizione iniziale grazie a un disegno di presentazione in cui Alba, piuttosto che ricevere i doni dal vescovo, sembra prendere la spada per conto suo e nominare cavaliere il prelato; Ingres, che detestava la figura del Granduca, ancora segnato dalla «Leyenda negra», cambiò il tema, la composizione, e l’orientamento della tela, come si può vedere nella stampa di Reveil e nell’opera stessa, mai finita. Inoltre sostituì la figura del granduca in primo piano con un diacono, e la mise in fondo a presiedere il Consiglio dei tumulti, dipinto in un simbolico rosso sangue in mezzo alla testata del duomo di Bruxelles.36 Comunque sia, se è vero che il soggetto del duca d’Alba fu detestato dal pittore francese, è pur vero che questi pensò in qualche momento di ottenere un altro incarico da Carlos, oppure dalla sua sorellastra, Elena Palafox y Silva, alla quale è dedicato un disegno raffigurante Santa Elena con la croce conservato nel Fogg Art Museum, datato 1817.37 Carlos affidò a Ingres un altro dipinto, mai eseguito, a ricordo dell’assoluta fedeltà dei suoi predecessori alla monarchia: Bernardo de Cabrera, I conte di Modica, restaura nel trono il re Martino d’Aragona.38 Cabrera rischiò la vita e impiegò tutte le sue risorse per ristabilire il re sul trono siciliano; in cambio ricevette, tra altri doni, la contea di Modica. Alla morte della duchessa d’Alba nel 1802, il territorio fu sequestrato; nel 1813 Carlos diresse al parlamento siciliano una memoria a giustificare il suo diritto sulla contea, ma solo nel 1816 il re Ferdinando accondiscese alla sua proposta.39 In quel momento il duca commissionò al pittore torinese Antonio Calliano un grande ritratto del I conte di Modica.40 Calliano, che poco prima era stato al servizio di Gioacchino Murat,41 dipinse per il duca due ritratti e alcune decorazioni per la cappella del suo palazzo a Madrid.42 Nel 1818 il duca acquistò un dipinto di Madame Servières, medaglia d’oro nel salone parigino un anno prima, Luigi XIII e Mademoiselle Lafayette (fig. 7),43 pagato 2000 franchi,44 che ricordava un antenato dell’appena restaurato Luigi XVII. Si trattava

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Fig. 7 Madame Servières, Luigi XIII e Mademoiselle Lafayette, 1817, Madrid, Fundación Casa de Alba, Palacio de Liria

di un inoffensivo episodio a ricordo della bonomia dell’antenato di Luigi XVIII, in cui il monarca e la sua amica aiutavano una disperata anziana. Molto più drammatici furono i due dipinti – l’Ultima confessione e la Decapitazione di Maria Stuarda – che Carlos commissionò nel 1817 a Louis Nicolas Lemasle,45 autore anche di un piccolo ritratto del nobile.46 Decapitata per ordine di Isabella d’Inghilterra, Maria era per i protestanti un’adultera capace di sposare l’assassino di suo marito ed una eterna intrigante contro la monarchia inglese, ma per i cattolici era allo stesso tempo regina e martire. Carlos era discendente della regina, che ai tempi della Restaurazione era paragonata in Francia ai due grandi martiri della corona assassinati nella Rivoluzione, Luigi XVI e Maria Antonietta,47 e faceva bene a ricordare la sua antenata. Si ignorano le dimensioni dei dipinti di Lemasle, ma il duca ordinò a Gaspare Landi una grande tela di 5 × 3 metri che rappresentava la partita di Maria Stuarda dalla Francia, e che doveva essere pagata ben 10.000 franchi.48 Finita nel 1822, nel 1843 rimaneva a Roma nelle mani del figlio del pittore.49 Landi non fu l’unico pittore italiano del suo tempo ammirato da Carlos: nel 1818 egli pagò a Pietro Benvenuti 3360 franchi per

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Fig. 8 Giuseppe Bezzuoli, Madonna della Misericordia, 1817, Siviglia, Fundación Casa de Alba, Palacio de las Dueñas

Ettore rimprovera Paride per la sua mollezza,50 e acquistò una Madonna della Misericordia di Giuseppe Bezzuoli (fig. 8), astro nascente della pittura fiorentina.51 Sempre intorno al 1818 in pendant con la tela commissionata a Landi, il duca commissionò a Charles Thévenin, direttore dell’Accademia di Francia a Roma, un quadro delle medesime dimensioni raffigurante l’arrivo di Maria Stuarda in Scozia (fig. 9). Non finito e mai messo in rapporto con il mecenate spagnolo, il dipinto si trova nel Museo del Louvre,52 dove se ne conserva anche un disegno di composizione.53 Vi compare in primo piano un giovane abbigliato come un giacobita, con il kilt scozzese, che potrebbe essere lo stesso Carlos che, si ricordi, era uno Stuart. Lo scultore spagnolo José Álvarez Cubero eseguì almeno sei opere, tra cui una statua della marchesa di Ariza seduta e alcuni ritratti per il duca, che lo considerava il migliore scultore vivente dopo Canova, addirittura superiore in alcune opere.54 Anche se si trova solo un pagamento di 1080 franchi all’andaluso nel succitato libro dei conti,55 Álvarez Cubero fu l’artista favorito del nobile; questi venne infatti denunciato nel 1829 dagli eredi dello scultore, che si dicevano creditori di ben 74.000 franchi.56

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Fig. 9 Charles Thévenin, Arrivo di Maria Stuarda in Scozia, non finito, c. 1818, Paris, Musée du Louvre

Il duca pagò a Lorenzo Bartolini almeno 9.490 franchi.57 Si trattava, soprattutto, di ritratti, tra cui si conserva un busto che raffigura il duca molto idealizzato (fig. 1),58 come si può comprovare paragonandolo con un disegno anonimo attribuito allo scultore che, a nostro avviso, raffigura proprio il nobile spagnolo, senza nascondere i suoi difetti fisici.59 Leticia Azcue ha pubblicato un gesso custodito nella Galleria dell’Accademia di Firenze molto diverso rispetto al ritratto in marmo che, come da lei notato, dovette essere eseguito sulla base di un altro gesso.60 A nostro parere, esso sarebbe quello conservato nella stessa istituzione, tra i ritratti non identificati, con attribuzione a R. Lari, collaboratore del Bartolini (fig. 10).61 A dimostrazione del suo gusto internazionale, Carlos volle acquistare opere dei borsisti di scultura dell’Accademia di Francia a Roma, diretta da Charles Thevenin: così comprò La Ninfa Eco del francese Paul Lemoyne Saint-Paul,62 un Narciso di Jean-Pierre Cortot (sicuramente quello di recente restaurato a Villa Medici)63 e l’Ulisse di Louis Petitot, stimato 10.000 franchi, che figurò nel salone parigino del 1819 come opera di proprietà del duca.64 Dal 1827 si trova a Fontainebleau; secondo Lami fu donato dallo spagnolo

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Fig. 10 Lorenzo Bartolini, Carlos Miguel Fitz-James Stuart, VII duca di Berwick e XIV duca d’Alba, 1818, Firenze, Galleria dell’Accademia

all’amministrazione della Liste Civile, cioè, i beni concessi dallo stato al re di Francia.65 Questo fa pensare che Carlos tentò d’inserirsi nella corte di Luigi XVIII dopo il fallimento del regime costituzionale in Spagna. Stupisce però questa possibile donazione poiché abbiamo notato che nel 1823 la scultura di Petitot, l’opera di Lemoyne Saint-Paul e altre due statue di proprietà del duca, un Giacinto in riposo e un Amore dell’olandese Mathieu Kessels, erano in vendita a Parigi nella galleria Musée Européen di un certo cavaliere Mauco.66 Due anni prima Poublon, il principale agente del duca, aveva formato una società con Mauco allo scopo di vendere opere d’arte.67 Non erano però i soli pezzi della collezione di Carlos a disposizione dei compratori in quella galleria; si può notare che i primi 33 numeri del suo catalogo corrispondono, anche in ordine, ai 36 dipinti riferiti in un elenco di quadri venduti dal pittore Lethière allo spagnolo.68 A queste opere si possono aggiungere altri dipinti, come «La vierge et l’Enfant Jésus, sur un fond d’or, tableaux curieux pour l’histoire de l’art à sa renaissance» (con numero di catalogo 425 della vendita in asta giudiziaria di molte delle opere del succitato catalogo un anno dopo), che sicuramente è l’opera di Fra’ Angelico acquistata da Carlos a Firenze e oggi al Museo del Prado.69

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Gonzalo Redín Michaus Se prestiamo attenzione alla pittura antica, la raccolta di Carlos riflette il Goût Orléans e il gusto enciclopedico del Musée Napoleon. Nel patrimonio artistico dei Berwick spiccava la galleria dei ritratti familiari. Carlos, si è detto, a malapena ereditò pochi dipinti della pinacoteca Alba.70 In essa si trovava la famosa Madonna d’Alba di Raffaello, che egli tentò di recuperare, e che la XIII duchessa di questo titolo regalò al ministro Godoy ai primi dell’Ottocento.71 Forse il duca la tenne presente quando acquistò a Napoli, nel 1816, da Antonio Calliano, una Madonna «creduta di Raffaelle» per 9.000 franchi.72 I giornali di viaggio scritti dal duca rivelano che, per lui, Raffaello, Canova e la scultura antica rappresentavano l’apice dell’arte. Eppure egli s’interessò anche ai Primitivi, che conobbe per prima volta a Parigi e poi a Firenze, fatto eccezionale per un collezionista spagnolo. Nella capitale toscana comprò nel 1817 dipinti attribuiti a Perugino, Cosimo Rosselli e Fra’ Angelico. A quest’ultimo erano assegnati un presunto autoritratto, una miniatura e la Madonna oggi al Prado, per la quale il duca sborsò 448 franchi,73 mentre ne spese altri 336 per un frammento di predella assegnato a Masaccio.74 Si tratta di somme discrete, in linea con quanto pagato in genere per queste opere, che si trovano tra quelle più basse sborsate dal duca per l’acquisto di dipinti e riflettono, comunque, il suo interesse per questo periodo della storia dell’arte, allora tenuto in scarsa stima. Oltre allo stesso Ingres e al pittore Charles-Xavier Fabre,75 ambedue interessati ai Primitivi, anche la madre del duca, María Teresa de Silva y Palafox (fig. 2), che possedeva una miniatura attribuita a Fra’ Angelico,76 dovette influire sul gusto di suo figlio. La marchesa d’Ariza era una donna di gusto ampio, come si evince dalle considerazioni scritte nel suo giornale di viaggio: a Padova visitò, vicino alla chiesa degli Eremitani «una capilla antigua que tiene unos frescos hermosos del tiempo antiguo», sicuramente la Cappella Scrovegni di Giotto, ma aveva anche la capacità di apprezzare opere d’arte che riteneva brutte, come i mosaici della Basilica di S. Marco, «meritorios por su antiguedad».77 Uscito dalla Spagna a 17 anni, il duca non era affatto interessato alla pittura del suo paese: solo 12 dipinti spagnoli si annoverano nella sua nuova pinacoteca di arte antica.78 Carlos fu un’eccezione assoluta nel collezionismo spagnolo durante il regno di Ferdinando VII (1814–1833), quando la pittura spagnola del rinascimento e del barocco costituiva spesso il 40 % dell’insieme, ma l’arte contemporanea mai superava il 10 % del totale.79 Il suo interesse verso l’arte contemporanea è notevole anche in ambito europeo. Nel caso dell’imperatrice Josephine, due terzi della sua pinacoteca erano opera di artisti viventi, mentre nella piccola ma scelta pinacoteca del duca di Blacas, ne costituivano quasi la metà.80 Questi e altri collezionisti invertirono la solita tendenza di privilegiare l’arte moderna su quella contemporanea. Come notato da Sécherre, tale tendenza fu sviluppata da alcuni banchieri parigini, forse in concomitanza con l’apertura del Musée du Luxembourg nel 1818, unico dedicato in Europa a artisti viventi.81

Tra l’antico e il nuovo regime Carlos frequentò Blacas,82 e forse non è una mera coincidenza il fatto che tutti gli artisti rappresentati nella pinacoteca di questi fossero anche presenti nella collezione di Carlos, incluso l’ancora poco conosciuto Ingres. Nel luglio del 1821 Jean Luc Barbier-Walbonne (Nîmes 1769–Passy 1860), allievo di David, collaboratore di Gérard, e noto soprattutto come ritrattista, informava il duca che aveva finito per lui il dipinto Pesca napoletana, di misure 291 × 356 cm.83 La tela fu presentata come opera di proprietà di Carlos nel salone di Parigi del 1822, e fu sicuramente la sua ultima commissione importante.84 Landon la riproduce e commenta nei suoi Annales, spiegando che una scena di genere non meritava il formato proprio delle azioni più nobili, e notava la presenza di un misterioso personaggio coperto che non aveva niente a che vedere con la pesca: un militare che alcuni avevano identificato con «l’illustre fuggitivo», e che secondo il Journal de Paris era per alcuni il generale Guglielmo Pepe.85 Cioè, il protagonista della Rivoluzione napoletana del 1820 e fermo difensore della promulgazione nel regno della Costituzione spagnola del 1812. Purtroppo non è possibile capire dalla traduzione lineare del dipinto eseguita in stampa se, in effetti, si trattasse del generale siciliano, ma anche se nei saloni di quegli anni non si trova alcuna pittura di genere in questo grande formato, la sua commissione non deve essere vista proprio come una mera eccentricità del duca. Come notato dalle fonti del tempo, l’inclusione del misterioso personaggio non è certamente gratuita,86 e bisogna tenere conto che Carlos era un convinto liberale, anche se «moderato»; nell’aprile del 1820 aveva dato una grande festa a Napoli per celebrare la promulgazione della Costituzione in Spagna, e, addirittura, aveva chiesto al suo segretario a Madrid l’esecuzione di una pianta dettagliata delle nuove «cortes» spagnole con l’ubicazione di tutti i loro membri, per richiesta di un ministro del nuovo governo napoletano.87 Inoltre, partecipò a diverse iniziative tese a riscattare la memoria di quanti si erano distinti nella difesa dei valori libertari, e appena arrivato a Madrid nel 1821 s’iscrisse alla Milicia Nacional, creata per difendere l’ordine costituzionale.88 Si è sempre detto che la passione collezionistica del duca motivò il suo fallimento nel 1824,89 ma come spiegato dall’amministratore di Carlos a Madrid, l’instabile situazione politica di Spagna durante il Triennio liberale (1820–1823) non aveva permesso di ricavare nemmeno la terza parte delle spese del duca e della sua famiglia.90 Il libro dei conti registra tra gennaio 1816 e settembre 1818 un esborso che arrivò alla cifra di 1.185.814 franchi, di cui circa la sesta parte, 208.914 franchi, fu impiegata nell’acquisto di oggetti artistici.91 Ma altri documenti rivelano che nello stesso periodo si spesero almeno 119.320 franchi nell’acquisto di 78 dipinti da Poublon e dal pittore Lethière.92 Cioè, nel suddetto intervallo di soli 29 mesi furono spesi nell’acquisto di opere d’arte non meno di 328.234 franchi, perciò l’affermazione del XVII duca d’Alba all’inizio del XX secolo – prima che un incendio distruggesse parte dell’archivio familiare – secondo cui Carlos aveva speso circa due milioni di reali, circa 500.000 franchi, per la sua pas-

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Gonzalo Redín Michaus sione collezionistica, non è esagerata.93 Non conosciamo la fonte di questo calcolo, ma visto che abbiamo notizie precise di soli 29 mesi della sua campagna di acquisti, è molto probabile che la cifra sia anche superiore, poiché abbiamo notizia di ulteriori opere delle quali non si conosce il prezzo pagato. Purtroppo, solo circa la metà della nuova collezione arrivò in Spagna. Il crollo finanziario del duca nel 1824 fece sì che parte di essa servisse a pagare i molti suoi creditori, ma le sue scelte ci parlano di un collezionista cosmopolita, lontano dalle vecchie pratiche dei suoi coetanei spagnoli, ancora legati ai modi del secolo precedente.

Tra l’antico e il nuovo regime 1 Vedasi, soprattutto, M. Barcia, Catálogo de la colección de pinturas del Excmo. Sr. Duque de Alba, Madrid, Tipografia de la revista Archivo, Biblioteca y Museos, 1911, pp. xii–xiv, 254–258; J. FitzJames Stuart y Falcò, Discursos leidos ante la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid 1924, pp. 12–14; J. M. Pita, Colecciones artísticas de la Casa de Alba. Catálogo de pinturas, por José Manuel Pita Andrade con inclusión de los datos aprovechables del de D. Angel M. Barcia, i, Madrid 1960 (consultabile in Archivo Casa de Alba, Palacio de Liria, Madrid), p. 371–372; M. Mena Marqués, G. Mühle Maurer, Duquesa de Alba. «Musa» de Goya, Madrid, El Viso, 2006, pp. 242– 243. L. De Frutos Sastres, Las colecciones de Alba en el Palacio de Liria, in Colección Casa de Alba, catalogo della mostra, Sevilla, Museo de Bellas Artes, 2009–2010, Madrid 2009, pp. 53–58; A. Urquízar, Las obras de arte en la supresión de los mayorazgos: el debate parlamentario y el pleito por la testamentaría de la XII duquesa de Alba (1802–1844), in «Boletín de arte», 37, 2016, pp. 203–211. Inoltre: J. Fitz-James Stuart, Retratos de familia, in J. Molins, El arte de coleccionar, Valencia 2003, pp. 46–49; A. Papa, Don Carlos Miguel e l’Italia. Alle origini della raccolta di dipinti italiani nella Collezione dei Duchi di Berwick e Alba, Tesi di laurea, Università degli Studi di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore E. M. Dal Pozzolo, 2004–2005; B. Cacciotti, Viaggiatori spagnoli in Italia. I diari di viaggio di Don Carlos Miguel, VII duca di Berwick e XIV di Alba, in Il turismo culturale in Italia fra tradizione e innovazione, atti del convegno, Roma 2003, a cura di A. Pasqualini, Roma, Società geografica italiana, 2005, pp. 119–140; A. Papa, Don Carlos Miguel Fitz-James Stuart y Silvia, i suoi viaggi in Italia e i suoi acquisti d’arte, in «Studi tizianeschi», 5, 2007, pp. 138– 150; E. Maria Dal Pozzolo, L’Ultima cena di Tiziano e altri dipinti veneti del Cinquecento in Palazzo Liria a Madrid, ivi, pp. 112–137; A. Papa, El Grand Tour de un duque de Alba, in Colección Casa de Alba, cit., pp. 81–101; B. Cacciotti, El XIV duque de Alba coleccionista y mecenas de arte antiguo y moderno, Madrid, Consejo Superio de Investigaciones Científicas, 2011, pp. 27–38; J. García Sánchez, Los círculos artísticos y la colección de pintura y de escultura moderna in Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., p. 131; F. Checa, La pinacoteca del Palacio de Liria: tres siglos de coleccionismo aristocrático, in El Palacio de Liria, a cura di J. Siruela, Girona, Atalanta, pp. 135–208. 2 Aste Bonhams and Butterfields, Los Angeles, 14. 05. 2003, lotto 1005 (olio su tela, 190,5 × 164,5 cm) e Sotheby’s Paris, 02. 12. 2003, lotto 27. 3 Il paragone con due miniature custodite nel Palacio de Liria (Inv. M59 e M60) che raffigurano la marchesa e che, non si è notato, derivano dall’opera di Kinson, non lascia alcun dubbio al riguardo. Queste devono essere, sicuramente, quelle riferite in un conto del pittore Edgard Joseph Corbet, che cita diverse miniature in acquerello «d’aprés le tableau de Kinson». Il conto in Archivo Casa de Alba (ADA) 157.4. Le miniature sono considerate anonime da Ezquerra del Bayo e da Espinosa: J. Ezquerra del Bayo, Catalogo de las miniaturas y pequeños retratos pertenecientes al exc. mo Sr. Duque de Berwick y de Alba, Madrid, Imp. Rivadeneyra, 1924, p. 42; C. Espinosa, Otra faceta de la pintura, las miniaturas de la casa de Alba, in El legado Casa de Alba. Mecenazgo al servicio del arte, catalogo della mostra, Madrid 2012–2013, a cura di J. M. Calderón Ortega, Madrid, T. F., 2012, pp. 99–103 e 202–207, alla p. 207. 4 A. Hugo, Souvenirs et mémoires sur Joseph Napoleon. Sa cour, l’armée française, et l’Espagne en 1811, 1812 et 1813. Première partie, in «Revue des Deux Mondes», 1, 1833, pp. 300–324, alle pp. 317– 318; G. Redín, El XIV Duque d’Alba coleccionista de pintura napolitana, in Camillo d’Errico (1821– 1897) e le rotte mediterranee del collezionismo ottocentesco, atti del convegno, Matera, Palazzo San Gervasio, Università di Matera, 2016, a cura di E. Acanfora, M. V. Fontana, Foggia, Claudio Grenzi, pp. 170–183, alle pp 171–172; G. Redín, Nobleza y coleccionismo de tapices entre la Edad Moderna y Contemporáneas. Las casas de Alba y Denia Lerma, Madrid, Arco/Libros, 2018, pp. 23–24.

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Gazeta de Madrid, 9. 03. 1812. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., p. 171; Idem, Nobleza y coleccionismo, cit., p. 23. Journal de l’empire, 28. 04. 1812. Cacciotti, Viaggiatori spagnoli in Italia, cit. e Eadem, El XIV duque de Alba, cit. El Gran canciller de las Indias: estudio preliminar, a cura di A. de León Pinelo, A. Lohmann Villena, Madrid 1953, pp. clxx, clxxi, clxxii. M. Gómez Gómez, El sello y registro de Indias, Imagen y representación, Köln, Böhlau, 2008, pp. 325–327. R. Causa, La Galleria dell’Accademia di Belle Arti in Napoli, in La Galleria dell’Accademia di Belle Arti in Napoli, a cura di A. Caputi, R. Causa, R. Mormone, Napoli, E.S.I., 1972, pp. 20–22. Mormone non era d’accordo con questa identificazione: R. Mormone, Joseph Franque. 17.32. Ritratto di gentiluomo, in G. Alisio, Civiltà dell’800. Le arti figurative, Napoli, Electa, 1997, pp. 456–457. Ringraziamo Aurora Spinosa, direttrice della Galleria, per la sua collaborazione. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 175–176. Causa, La Galleria dell’Accademia, pp. 20–22. M. Causa Picone, Disegni della Società napoletana di Storia Patria, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1974, p. 78; Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 20–22. C. De Nicola, Diario Napoletano: 1798–1825, a cura di R. De Lorenzo, 3 voll., Napoli, Regina 1999, iii, p. 176; S. Ragni, Isabella Colbran, Isabella Rossini, Varese, Zecchini, 2012, p. 460. M. J. Casaus, La pinacoteca de la Casa Ducal de Híjar en el siglo XIX. Nobleza y coleccionismo, Zaragoza, Instituto de estudios altoaragoneses, 2006; A. Urquízar, J. A. Vigara, La nobleza española y Francia en el cambio de sistema artístico. 1700–1850, in L. Sazatornil, E. Gimeno, El arte español entre Roma y París (siglos XVIII y XIX), Madrid, Casa de Velázquez, 2014, pp. 271; Urquízar, Las obras de arte en la supresión, cit., pp. 202–205. Vedasi, in dettaglio, Redín, Nobleza y coleccionismo, cit., pp. 20–25. Nel 1828 il duca alienò il cortile rinascimentale del Castello di Coca. Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., p. 101. Vedasi la nota 1. Urquízar, Las obras de arte en la supresión, cit., p. 209. La lettera è datata 1 aprile 1827. Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., pp. 14, 32. Vedasi, in dettaglio, J. García Sánchez, El proyecto museográfico del duque, in Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., pp. 201–210. Due elenchi segnalano le date di acquisto o commissione di ben 178 dipinti e 75 pezzi di scultura (statue, marmi e alabastri) tra gennaio 1815 e settembre 1817, a Roma, Firenze, Livorno, Napoli, Venezia, Bologna, Vienna e Parigi: ADA 157.45 e ADA 159.1. Cacciotti 2006, pp. 135– 137; J. García Sánchez, Los círculos artísticos y la colección de pintura y de escultura moderna, in Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., pp. 131–196, alle pp. 150–152. Il registro contabile (in avanti citato Compte) si trova nella Bibliothèque Nationale de France, Département des manuscrits, NAF 21193, Compte, f. 2v, 13 gennaio 1816. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., p. 173; Redín Nobleza y coleccionismo, cit., p. 20; G. Redín, El retrato del canónigo Miranda y la Casa de Alba: un Murillo a subasta en París en 1877, in Murillo ante su IV centenario, perspectivas historiograficas y culturales, atti del convegno, Sevilla, 2018 a cura di Benito Navarrete Prieto, Editorial Universidad de Sevilla, Sevilla 2019, pp. 381–388, alle pp. 382–383. Il XVII duca d’Alba stimò invece 200 dipinti. Per García questo numero sarebbe da riferire solo alle opere antiche, poiché il numero delle opere contemporanee era già superiore a 200. Cioè, per lui sarebbero in tutto più di 400 dipinti. Bisogna dire che lo studioso tiene conto dei molti disegni e acquarelli eseguiti dai contemporanei del duca. Crediamo che la nostra valutazione,

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limitata a soli dipinti e sculture e supportata dalle notizie fornite dal Compte e dal resto della documentazione, sia più precisa. Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., pp. 16–17. García Sánchez El proyecto museográfico, cit., pp. 201–202. Urquízar, Las obras de arte en la supresión, cit., p. 208. Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., p. 17; P. Guinard, Ingres et l’Espagne, in Colloque Ingres, Actes du Colloque, Montauban 1967, a cura di M. Méras, A. Godeau, Montauban, Musée Ingres, 1969, pp. 61–72, alla p. 64; D. Ternois, Lettres de Ingres a Marcotte d’Argenteuil. Dictionnaire, in «Archives de l’art français», 36, Nogent le Roi, Laget, 2001, p. 179; V. Marqués Ferrer, Felipe V imponiendo el Toisón al duque de Berwick, in Colección Casa de Alba, cit., pp. 286–289; García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 152. Marqués Ferrer, Felipe V imponiendo el Toisón, cit., pp. 286–289. Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., p. 13. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 152. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., p. 177. Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., p. 11. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 171– 172. R. Fernández López, José Álvarez Cubero. Figura cumbre de una saga de alarides, escultores (José Álvarez Bouquel, Manuel Aníbal Álvarez Amoroso y Ramón Aníbal Álvarez y García de Baeza), Córdoba 2011, pp. 406–412. Musèe Ingres, Moine lisant, inv. 8674175, nº 4432. G. Vigne, Dessins d’Ingres. Catalogue raisonné des dessins du Musée de Montauban, Paris, Gallimard, 1995, p. 796. G. De Simone, Vellut alter Apelle. Il decennio romano del Beato Angelico, in Beato Angelico. L’alba del Rinascimento, catalogo della mostra, Roma, Musei Capitolini, a cura di G. de Simone, A. Zuccari, G. Morello, Milano, Skira, 2009, pp. 129–143, alla p. 138. De Simone, Vellut alter Apelle, cit., p. 137. ADA 157.45. D. Ternois, Philippe V. Roi d’Espagne, décore de la Toison d’Or le maréchal de Berwick aprés la bataille d’Almanza (1818), in Ingres, catalogo della mostra Paris, Petit Palais, 1967–1968, a cura di M. Laclotte, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1967, p. 142. Museo del Prado Inv. 00642. Sul dipinto e i diversi ritratti di Carlo II, A. E. Pérez Sánchez, Carreño, Rizzi, Herrera y la pintura madrileña de su tiempo, catalogo della mostra, Madrid, Palacio de Villahermosa, ed. Museo del Prado, 1986, p. 105; Á. Pascual Chenel, El retrato de Estado durante el Rinado de Carlos II, Madrid, Fundación Universitaria Española, 2010, p. 460. Musèe Ingres, Montauban, MI.867.2061. Il personaggio non è identificato da Vigne che, comunque, mette il disegno in rapporto con il dipinto. Vigne, Dessins d’Ingres, cit., p. 218, cat. 121. Un disegno di una dama vestita alla moda spagnola della fine del Seicento in questo museo è per la figura della regina. Musèe Ingres, Montauban, MI.867.2063. Vigne, Dessins d’Ingres, cit., p. 219, cat. 1204. Barcia, Catálogo, cit., p. 267. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 152, n. 82. Vedasi soprattutto N. Turner, The J. Paul Getty Museum, European drawings 4, catalogue of the collection, Los Angeles, Getty Publications, 2001, pp. 221–224. Harvard Art Museums/Fogg Museum, Inv. 1942.68, gift of Grenville L. Winthrop, Class of 1886, 20.7 × 11.5 cm. Con l’iscrizione «à M.lla Héléne Palafox y Silva. Comtessa de S.ta Eufemia. Par son très humble et très obéissant serviteur/ J. Au Ingres». Barcia, Catálogo, cit., 1911, p. 267; P. Guinard, Ingres et l’Espagne, in Colloque Ingres, Actes du Colloque, Montauban 1967, a cura di M. Méras, A. Godeau, Bulletin du Musée Ingres, numéro spécial, Montauban 1969, pp. 61–72, alla p. 64. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 152.

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Gonzalo Redín Michaus 39 Memoria che presenta al Parlamento nell’anno 1813 Carlo Fitz James, duca d’Alba e di Berwick per essergli restituiti gli effetti che possiede in Sicilia, Palermo 1813; F. Renda, Memorie storiche di Modica degli ultimi anni del secolo XVIII fino ai tempi presenti, Modica, Tipografia Mario La Porta, 1869, pp. 117–119; G. Oddo, Il Blasone Perduto. Modica 1392–1972, Palermo, Dharba, 1988, pp. 113–115. A febbraio del 1816 il duca donò 2.727 franchi tra i suoi serventi in occasione della restituzione della Contea di Modica. Compte, f. 5, 9 febbraio 1816. 40 Redín, Nobleza y coleccionismo, cit., p. 20. 41 Vedasi A. Irollo, La pittura di storia nella Napoli di primo Ottocento: fortuna e/o sfortuna dei modelli francesi, in La pittura di Storia in Italia, a cura di G. Capitelli, C. Mazzarelli, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2008, pp. 79–91. 42 Se ne conservano due fotografie nell’Instituto del Patrimonio Cultural de España (IPCE), Foto Moreno, inv. 05601 e 05603. 43 C. Gabet, Dictionnaire de l’école française au XIXe siécle. Peinture, sculpture, architecture, gravure, dessin, chez Madame Vergne, Paris 1831, pp. 631–632; Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., pp. 17–18 e 82; Pita, Colecciones artísticas, cit., p. 204. Salon 1817, p. 84, in P. Sanchez, X. Seydoux, Les catalogues des Salons des Beaux-Arts, i, Paris, L’Échelle de Jacob, 1999, p. 80. Era figliastra del pittore Lethière, di cui si parlerà dopo in rapporto al duca. 44 Compte, f. 27, 13 settembre 1818. 45 Barcia, Catálogo, cit., 1911, p. 267. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., pp. 145, 152. 46 Ritratto pubblicato da Cabezas e Beck-Saiello come anonimo, e da noi identificato con Carlos Miguel: Louis Nicolas Lemasle 1788–1876. Peintre du prince de Salerne. De l’atelier de David au musée de Saint-Quentin, catalogo della mostra Saint-Quentin, Musée Antoine Lécuyer, 2012– 2013, a cura di H. Cabezas, E. Beck Saiello, Saint-Quentin, 2013, pp. 22–27; Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 175–176. 47 A. Pougetoux, G. Soubigou, Une reyne martire dans la peinture française, in: Marie Stuart, une figure romantique? La destinée artistique de la reine d’Ecosse au XIXe siècle, catalogo della mostra, La Rochelle, Musée des Beaux-Arts 2009–2010, a cura di A. Notter, Versailles, Artlys, 2009, pp. 40–51, alle pp. 42–43; N. Cadène, De la contre-révolution au combat fé ministe: usages politiques de Marie Stuart en France, in Marie Stuart, cit., pp. 63–79, alle pp. 63–72. 48 Landi ricevette solo la metà della quantità stipulata: ADA 196.20, «Nota de los objetos de bellas artes pertenecentes al Excm. Sr Duque de Berwick y Alba que se hallan en Roma en poder de los sugetos que a continuacion se expresan». Sul dipinto, G. B. Marsuzi, La partenza di Maria Stuarda da Parigi, quadro del Cavaliere Gaspare Landi, terzine di Gio. Battista Marsuzj romano, Roma, Vincenzo Paggioli, 1822. Nell’esemplare della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Palatino Misc. 2.E.11.10) compare una dedicatoria a Mariana Dionigi, la pittrice Marianna Candidi Dionigi? Landi apprezzò i versi del poeta, si veda S. Grandesso, Landi, Gaspare, in Dizionario Biografico degli Italiani, lxiii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2004. Sul pagamento, García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 153. 49 Grandesso, Landi, cit. 50 La somma figura nel libro dei conti del duca (Compte, f. 24, 13 maggio 1818). L’acquisto fu eseguito dal duca e non dalla madre, come invece aveva pensato García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 142. 51 Catalogato da Pita, Colecciones artísticas, cit., p. 125. A gennaio del 1818 si finiva l’indoratura della cornice del dipinto. Compte, f. 21, 14 gennaio 1818. Non è l’unica tela del Bezzuoli in

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Spagna. A Murcia (collezione privata) si trova una Partenza del Crociato d’indubbia qualità, uguale a quella sul mercato a Firenze nel 1979 (Finarte, 19. 07. 1979, lotto 105). Musée du Louvre, olio su tela, 3,65 × 5 m. Inv. 20126: I. Compin, A. Roquebert, Catalogue sommaire illustré des peintures du musée du Louvre et du musée d’Orsay. IV. Ecole française. L-Z, Paris, Réunion des Musées Nationaux, 1986, p. 232; Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., p. 183. Musée du Louvre Inv. 33122r, 31,5 × 4,48 cm. Riprodotto in Cadène De la contre-révolution, cit., p. 89. L. Azcue Brea, Esculturas modernas, in Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., pp. 317–341. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 162–163. Compte, f. 15v, 27 maggio 1817. C. Merino Gayubas, Genealogía del Solar de Guzmán, 2 voll., Diputación Provincial de Burgos, 2001, p. 959. Fernández López, José Álvarez Cubero, cit., pp. 406–412. Somma che abbiamo trovato in piastre e francesconi nel libro dei conti del duca. Compte, f. 21, 19 gennaio, 500 piastre (2.800 franchi); f. 21v, 16 febbraio 318 piastre (1.789,17 franchi); f. 24v, 16 maggio, 878 francesconi (4.916 franchi). L. Azcue Brea, Una aproximación a la colección de escultura del Palacio de Liria, in Colección Casa de Alba, cit., pp. 175–217, alla p. 195. Azcue Brea, Esculturas modernas, cit., pp. 336–337; García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., pp. 176–184. Sul disegno, Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 179–180. Stefano Grandesso, che ringraziamo per il suo parere, non considera che il disegno sia stato eseguito da Bartolini. Il foglio si trova nel Museo Civico di Prato, Lascito Pianetti, n. 996r. L’abbiamo potuto vedere grazie alla diffusione online del progetto Lorenzo Bartolini. Opera completa (http://www.uffizi.firenze.it/bartolini/Main/Progetto). Vogliamo ringraziare la dottoressa Cristina Panconi della Galleria dell’Accademia di Firenze per il suo aiuto. Azcue Brea, Una aproximación, p. 195; Azcue Brea, Esculturas modernas, cit., pp. 336–337. Inv. sculture 1896, 80 kg., 25 × 54 × 32 cm: http://www.uffizi.firenze.it/bartolini/Main/Progetto. Musée du Louvre, inv. RF 3075: A. Le Normand, Paul Lemoyne, un sculpteur français à Rome au XIX siècle, in «Revue de l’Art», 36, 1977, pp. 26–41, alle pp. 28, 38. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., pp. 186–187. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., pp. 187–188. S. Lami, Cortot, Jean Pierre, in Dictionnaire des sculpteurs de l’école française au dix-neuvième siècle, i, Paris, Édouard Champion, 1914, p. 424. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., pp. 188–189. Su questa galleria e sulla vendita dei suoi pezzi un anno dopo all’asta per l’autorità giudiziaria, vedasi H. Sécherre, Le marché des tableaux italiens à Paris sous la restauration (1815–1839): collectionneurs, marchands, spéculateurs, in Collections et marché de l’art en France, 1789–1848, a cura di M. Preti-Hamard, P. Sénéchal, Rennes, Presse universitaire, 2005, pp. 166–167. Su Kessels, Heimwee naar de klassieken. De beelden van Mathieu Kessels en zijn tijdgenoten, 1815–1840, catalogo della mostra, Hertogenbosch, Noordbrabants Museum, 1994–1995, a cura di W. Bergé, Zwolle, Waanders, 1994, pp. 69, 184–185. Grandesso, Landi, cit., p. 287. García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., pp. 190–192. Riguardo questa società, Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., p. 16; Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., p. 101; García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., pp. 190–192. Si tratta dei numeri da 1 a 35, ma mancano i numeri di catalogo 7, 13 e 23, che dovevano essere già stati venduti. Sulla vendita Lethière al duca verso il 1818, riferita in un documento del

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Gonzalo Redín Michaus

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3 aprile 1831 relativo a un debito di 15.000 franchi di Carlos Miguel con Madame d’Hervilly, erede del pittore, G. Madec-Capy, Guillaume Guillon-Lethière, peintre d’histoire (1760–1832), Tesi di dottorato, 2 voll., Université Paris IV, Paris 1998, i, pp. 215–222. L’elenco della vendita è riferito, ma non trascritto, in García Sánchez, Los círculos artísticos, cit., p. 141. Si veda oltre. Barcia, Catálogo, cit., 1911; Mena Marquès/Mühle Maurer, Duquesa de Alba, cit., pp. 242–243; Frutos Sastres, Las colecciones de Alba, cit.; Urquízar, Las obras de arte en la supresión, cit. Mena Marquès/Mühle Maurer, Duquesa de Alba, cit., p. 134. Redín, Nobleza y coleccionismo, cit., pp. 20–21. Compte, f. 16 v, 26 luglio 1817. Compte, f. 21, 16 gennaio 1818. Amante della zia di Carlos, la Contessa d’Albani. Lista de Efectos de pertenencia de la difunta […] y que el excmo. Sr duque deja destinados a su hermana la Ex.ma S.ra Condesa de Santa Eufemia (Barcellona, 14 luglio 1819) in Testamento di María Teresa de Silva y Palafox, senza paginazione. Biblioteca Cortes de Aragón (BCA) D24. Notes de mes voyages, ADA 345.12, (senza paginazione), aprile del 1814. Redín, El retrato del canónigo Miranda, cit., p. 382. P. J. Martínez Plaza, El mercado de pintura en Madrid durante el siglo XIX, Madrid, CEEH, 2017, p. 34. Redín, El retrato del canónigo Miranda, cit., p. 382. M. C. Chaudonneret, Collectioner l’art contemporain (1820–1840). L’exemple des banquiers, in Collections et marché, cit., pp. 273–283. J. García Sánchez, Souvenirs del Grand Tour in Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., p. 140. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 181–182. Commissione citata senza altri dettagli da FitzJames Stuart y Falcò, Discursos, cit., p. 77. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 181–182. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 181–182. C. P. Landon, Annales du Musée et de l’ècole moderne des beaux-arts, Salon de 1822, Paris 1822, pp. 51–52. Journal de Paris, lunedì 3 giugno 1822. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 181–182. Redín, Nobleza y coleccionismo, cit., p. 32. Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., pp. 99. A. Blanco Freijeiro, Vasos suritálicos en la colección ducal de Alba, in «Zephyrus», 15, 1964, pp. 71–83, alla p. 62. Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., p. 16; Merino Gayubas, Genealogía, cit., p. 959; Cacciotti, El XIV duque de Alba, cit., p. 101. Redín, El XIV Duque d’Alba, cit., pp. 173–174. Più dei 105.585 franchi spesi in dipinti nei 29 mesi registrati nel libro dei conti. Fitz-James Stuart y Falcò, Discursos, cit., pp. 16 y 17.

Anna Frasca-Rath

Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3DRekonstruktionen in der Sammlungsforschung. Drei Fallbeispiele

Um 1650 malte David Teniers sein berühmtes Galeriebild, welches die Sammlung Leopold Wilhelms, dem Statthalter der spanischen Niederlande, in Brüssel zeigt (Abb. 1). Wie mehrfach untersucht wurde, handelt es sich bei dem Blick in die Gemäldegalerie um die Visualisierung eines bestimmten Gedankens über die Sammlung und ihren Eigentümer, nicht um eine historisch-korrekte Dokumentation.1 Das Bild liefert eine idealisierte Ansicht der Gemäldegalerie und eröffnet dadurch einen Einblick in die Gedankenwelt des Malers und seines Auftraggebers. Denn neben den mit großer Akri-

Abb. 1 David Teniers, Erzherzog Leopold Wilhelm in seiner Gemäldegalerie, um 1650, Öl auf Leinwand, Wien, Kunsthistorisches Museum

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Anna Frasca-Rath bie dargestellten Gemälden sind vor allem Leopold Wilhelms Kunstsinn und seine politische Macht Thema des Bildes, welches in mehr als 10 Varianten als Geschenk an Verwandte und Verbündete übermittelt wurde. Diese Überlegungen sind der Ausgangspunkt für die folgenden Ausführungen. Denn auch die heutigen digitalen 3D-Rekonstruktionen historischer Sammlungs- und Ausstellungshängungen werden im Folgenden als Visualisierung von Gedanken, dieses Mal zur Vermittlung von wissenschaftlichen Erkenntnissen und Hypothesen, verstanden. Egal bis zu welchem Grad auch hier fotorealistische Ansichten erzeugt werden, beinhalten sie doch alle Interpretationsspielräume und Unschärfen, welche im ständigen Konflikt zu den Möglichkeiten digitaler Rekonstruktionen stehen.2 Wie gehen verschiedene Projekte aus der Sammlungsforschung mit diesem Spannungsfeld um? In den letzten Jahren lassen sich vermehrt Projekte im Bereich der Sammlungsforschung finden, welche es sich zum Ziel gesetzt haben, historische Hängungen zu rekonstruieren. Anders als in anderen Fächern, wie der Archäologie und Architekturgeschichte, sind 3D-Rekonstruktionen hier noch relativ neu. Es gibt nur wenig Sekundärliteratur bzw. Rezensionen zu den jeweiligen Projekten und die Ergebnisse werden oft mit einer gewissen Skepsis rezipiert.3 Dennoch zeigen schon die wenigen bisherigen Projekte das Potential der Rekonstruktionen als Erkenntnisinstrument für die Kunstgeschichte. Mit Blick auf die Fragestellung des vorliegenden Bandes, der neue Methoden und Perspektiven der Sammlungsforschung in den Blick nimmt, setzt es sich der Aufsatz zum Ziel, drei Projekte zur Rekonstruktion historischer Sammlungen und Hängungen zu analysieren und mit Blick auf mögliche Best-Practices zu untersuchen. Jedes Projekt wird dabei aus verschiedenen Perspektiven befragt: Welche Quellen liegen den Rekonstruktionen zugrunde und wie wurden sie für das jeweilige Projekt genutzt? Wie wird mit Fehlstellen umgegangen, wie Unschärfe dargestellt? Wie werden Gestaltungs- und Entscheidungsprozesse in den Visualisierungen sichtbar bzw. anderweitig, etwa durch Texte, vermittelt? Wie werden wissenschaftliche Hypothesen in der Gestaltung anschaulich? Oder anders: Wie visualisiert man eine Hypothese? Der Aufsatz greift Fragestellungen auf, die im Rahmen mehrerer Vorträge und Workshops des Vienna Center for the History of Collecting und dem Netzwerk für Digitale Kunstgeschichte in Österreich (DArtHist.at) diskutiert wurden, welche im Zeitraum von 2017 bis 2019 am Institut für Kunstgeschichte in Wien stattgefunden haben.

Zum Forschungsstand Die analoge Rekonstruktion historischer Hängungen und Ausstellungs-Displays hat in der Sammlungsforschung eine lange Tradition.4 Das Quellenmaterial – detaillierte Inventare, Galeriewerke, Reiseführer, -tagebücher, und -beschreibungen – liefert oft sehr

Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung genaue Vorstellungen von heute meist verlorenen Sammlungen. Hinzu kommen bildliche Überlieferungen von Galerien, etwa im Storfferschen Bildinventar, den Galeriebildern Teniers oder auch Daniel Mytens’ Porträt des Thomas Howard, 14. Graf von Arundel, um nur wenige Beispiele zu nennen. Im letzten Jahrzehnt gab es eine Reihe von Projekten, welche Sammlungen digital rekonstruiert haben. Tristan Weddigen visualisierte 2008 in seiner Habilitationsschrift zur Dresdener Gemäldesammlung die Hängungen von 1747 bis 1835.5 Für Wien wurden 2013 Rekonstruktionen der kaiserlichen Gemäldegalerie in der Stallburg und im Belvedere in dem von Gudrun Swoboda herausgegebenen Band zu den Anfängen des öffentlichen Kunstmuseums publiziert.6 Die 3D-Rekonstruktion von Sammlungen kann also auf eine lange analoge Tradition zurückgreifen und bietet keinen neuen methodischen Zugang, sondern vor allem neue Möglichkeiten der Visualisierung, welche sich flexibler gestalten als gezeichnete oder gedruckte Ansichten, da mehrere Alternativen gezeigt, Beleuchtungssituationen simuliert und Räume in Virtual Reality Umgebungen durchschritten werden können.7 Neuere digitale Publikationsformate, wie etwa die British Art Studies,8 ermöglichen die Dissemination dieser Rekonstruktionen nicht nur als statische Bilder, sondern als Video oder animierte Modelle und erlauben etwa auch das Einbinden von Ton. Diskutiert werden die Herausforderungen digitaler Bilder bislang vor allem im übergreifenden Kontext der Digitalen Kunstgeschichte.9 Auch das Courtauld Institute widmete dem Thema ein Konferenzpanel, dessen Ergebnisse leider unpubliziert blieben.10 Im Jahr 2018 haben mehrere Aufsätze im „Computing Art Reader“ 3D-Rekonstruktionen aus verschiedenen Perspektiven analysiert.11 Wichtig für diesen Beitrag sind vor allem Beobachtungen von Dominik Lengyel und Christine Toulouse, die historische Rekonstruktionen aus der Perspektive der Architekt*innen, also derjenigen, die zumeist die 3D-Modelle gestalten, analysieren. Die beiden bezeichnen Visualisierungen von Architektur als „Bild eines architektonischen Gedankens“,12 welches keine fiktive Wirklichkeit simuliert. Es ist also, wie bei Teniers, die Perspektive des*der Gestaltenden, welche sich im Bild niederschlägt, keine exakte Wiedergabe der historischen Räume. Die Abstraktion wird in solchen Visualisierungen von Lengyel und Toulouse ein wesentlicher Bedeutungsträger. Sie haben eine Methode entwickelt, bei der unterschiedlichen Schärfegraden eine unterschiedliche geometrische Abstraktion zu Grunde liegt und Hypothesen durch Unschärfe visualisiert werden (Abb. 2). Die Betrachtenden werden somit durch das Sehen auf Unklarheiten gestoßen und fangen dadurch an, den wissenschaftlichen Prozess hinter der Visualisierung und die Gestaltung des „neuen visuellen Artefakts“13 zu hinterfragen. Catherine Roach hat sich bereits 2016 mit der Darstellung von Unschärfe und Hypothesen in Visualisierungen beschäftigt und in ihrem Aufsatz „Rehanging Reynolds“ den Versuch unternommen, Best-Practices für Ausstellungsrekonstruktionen zu erarbeiten.14 Der Aufsatz rezensiert zunächst das Projekt „What Jane Saw“ (2013)15 der Literaturhistorikerin Janine Barchas (eine digitale Rekonstruktion der Reynolds Retro-

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Abb. 2 Lengyel Toulouse Architekten, Kölner Domchor um 1856 n. Chr., Digitaldatei, 23 Megapixel, 2013

spektive aus dem Jahr 1813 in der British Institution), welches ausführlich mit Blick auf den wissenschaftlichen Umgang mit dem Quellenmaterial und die Darstellung von Unschärfe untersucht wird (Abb. 3).16 Kritisiert wird von Roach vor allem der unkritische Umgang mit dem bildlichen Quellenmaterial, sowie die Tatsache, dass in der Rekonstruktion aus Gründen der Einfachheit oft auf teils schlechte Kopien nach Reynolds statt auf die Digitalisate der Reynolds-Originale zurückgegriffen wird, ohne diese als solche auszuweisen. In einem zweiten Schritt wird über Best-Practices für die Rekonstruktion von Ausstellungshängungen diskutiert und am Beispiel der Londoner Reynolds Retrospektive aus dem Jahr 1823 werden Methoden für die Rekonstruktion verlorener Hängungen entwickelt. Der Fokus liegt darauf, wie man die Entstehungs- und Entscheidungsprozesse bei der Gestaltung der Visualisierung, also eine gewisse Unschärfe in der Rekonstruktion, offenlegen kann und wie man historische Darstellungen vergangener Hängungen für Rekonstruktionen nutzen kann. Das Projekt wird weiter unten noch ausführlich vorgestellt.

Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung

Abb. 3

Screenshot der Reynolds Retrospektive von 1813

Diese Ansätze zur Darstellung von „Unschärfe“ sollen im Folgenden an drei Fallbeispielen exemplarisch untersucht werden. Mit Unschärfe ist gemeint, dass Daten, die sich aus dem Quellenmaterial nicht eindeutig herleiten lassen, also „unscharf“ bleiben müssen, auch als solche in den Visualisierungen zu erkennen sind. Sei es, durch einen gewissen Grad der Abstraktion, der im Gegensatz zum angestrebten Fotorealismus steht, sei es durch das Anbieten von Alternativen oder durch das Anbringen von Text innerhalb der Visualisierung. Wie werden Hypothesen in der Visualisierung als solche erkennbar, wie Gestaltungs- und Entscheidungsprozesse eingebunden?

Fallstudie I: „The Lost Collection of Charles I“ „The Lost Collection of Charles I“ ist ein Projekt des Royal Collection Trust, das zusammen mit der Londoner Ausstellung „Charles I: King and Collector“ (Royal Academy of Arts, London, 2018) entstand.17 Dessen Ergebnis ist über die Seite des Royal Collection Trust abrufbar.18 Ziel ist es, die zerstreute Sammlung von Charles I. zu rekonstruieren und die Ausstattung seiner Privatgemächer im zerstörten Whitehall Palace in einer 3D-Visualisierung nachzubilden. In der Visualisierung werden drei Räume der Apartments gezeigt (Abb. 4, 5). Diese sind heute verloren, da der Palast 1698 bei einem Brand zerstört wurde, so dass die Räumlichkeiten aus dem vorhandenen Planmaterial rekonstruiert werden mussten. Problematisch dabei ist, dass das Planmaterial das Erdgeschoss abbildet, wobei die rekon-

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Abb. 4

Screenshot des First Privy Lodging Room

struierten Räume sich im ersten Obergeschoss befunden haben, so dass es sich hier vor allem um eine Annäherung an eine mögliche Raumsituation handelt, welche anhand der vorhandenen Inventare und der Studien von Simon Thurley über Whitehall Palace umgesetzt wurde.19 Zum Quellenmaterial zählen außerdem zeitgenössische Ansichten, welche etwa mit Blick auf Details, wie die Fenster oder Kamine, genutzt wurden.20 Für Architekturdetails bezog man sich auf andere historische Beispiele, wie Hampton Court oder Ham House. Die Privatgemächer in Whitehall Palace stammten aus dem 16. Jahrhundert und waren vermutlich mit Architekturdetails aus der Tudor-Zeit ausgestattet, welche in der Zeit der Stuarts ergänzt wurden – etwa durch Vorhänge. Laut Niko Munz, der die Rekonstruktion veranwortete, ist zudem weder etwas über die Höhe der Räume, noch über vorhandene Trennwände, Türen oder Ähnliches bekannt. Raumhöhen sind über die Mindesthöhe der großformatigen Gemälde berechnet. Über die Rahmen der Bilder wird im Inventar wenig Aufschluss gegeben, manchmal wird erwähnt, dass es sich um Ebenholz- oder vergoldete Rahmen handelt. Für die Rekonstruktion wurden daher in den Sammlungen befindliche historische Rahmen genutzt. Im dritten Raum haben die Gestalter*innen einen Tisch aufgestellt, der im Inventar verzeichnet ist. Es ist das einzige dokumentierte Möbelstück.21 In der Visualisierung wird weder etwas über den Entstehungsprozess der Architektur noch über das Quellenmaterial erläutert, so dass die Architektur dem*der Betrachter*in unkommentiert zur Verfügung gestellt wird. Unschärfen die vermutlich überwiegen, aber auch einzelne Schärfen, bleiben dem*der Betrachter*in so verborgen. Ähnlich verhält es sich mit der Hängung. Diese erfolgte in der Reihenfolge, in der sie im Inventar Albrecht Van der Doorts zu finden ist, wobei aus dieser nicht ersichtlich

Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung

Abb. 5

Screenshot des Third Privy Lodging Room

wird, wie sich die Objekte zu Fenstern, Türen oder Kaminen positionierten. Es ist auch nicht klar, in welchem Raum Van der Doort genau beginnt, in welche Richtung er sich bewegt hat und ob er wirklich streng logisch vorgegangen ist. Aufgrund der Quellenlage ist das entstandene 3D-Modell also vor allem eine Hypothese, wie die Räume ausgesehen haben könnten. Die Visualisierung als Gesamtheit und in ihren verschiedenen Schärfegraden bleibt jedoch an vielen Stellen unerklärt. Die 3D-Modelle sind unkommentiert, das Quellenmaterial ist nicht direkt mit den Visualisierungen verknüpft. Zusätzlich zur Visualisierung entstand eine relationale Datenbank, die auf den Transkripten des Inventars von Van der Doort durch Oliver Millar22 und den „Sales Inventories“ aufbaut (Abb. 6, 7).23 Beide Quellen wurden über eine Datenbank miteinander verschränkt. Darüber hinaus wurden Daten aus fünf weiteren Inventaren von Henry VIII. (Whitehall Palace, Hampton Court, 1542, 1547–1549), Anne von Dänemark (Oatlands 1616–1619, Denmark House [Somerset House] 1619), Charles I. als Prince of Wales (v. 1624), dem Mantuaner Inventar (1627) und von Charles II. von Whitehall Palace und Hampton Court (ca. 1666) ergänzt.24 Die Einträge aus den Inventaren sind auf der Website des Projekts publiziert und über die Datenbank werden hochauflösende Digitalisate zu jedem einzelnen erhaltenen Bild aus der Sammlung Charles I. zur Verfügung gestellt. Über eine Liste lassen sich die Bilder der einzelnen Räume abrufen. Jedem Bild ist eine eigene detaillierte Seite gewidmet, über welche die Informationen aus den jeweiligen Inventaren abrufbar sind. Es erschließt sich so für den*die Nutzer*in für jedes Objekt eine Tiefe an wissenschaftlichen Erkenntnissen.

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Abb. 6 Screenshot der Auflistung der Gemälde des First Privy Lodging Room

Abb. 7 Screenshot der Seite zu Tizians „Tarquinius und Lukretia“

Fallstudie II: „Pont Notre-Dame“ – Das Geschäft von Edme-François Gersaint Ähnlich verhält es sich bei dem Projekt zur Rekonstruktion der „Pont Notre-Dame“, welches nicht die Hängung einer Sammlung, sondern die Hängung eines Gemäldes mit großer Detailschärfe rekonstruiert. Es handelt sich um das Ladenschild des Geschäfts des Pariser Kunsthändlers Edme-François Gersaint, das Enseigne de Gersaint, welches im Jahr 1720 von Antoine Watteau geschaffen wurde.25 Die Pont Notre-Dame war seit den frühen 2000er Jahren Untersuchungsgegenstand kunsthistorischer Fragen, mit Blick auf die Bedeutung der dort angesiedelten Geschäfte und deren Rolle für den Kunstmarkt. Dem großen Quellenbestand zu den Kunsthändler*innen und Geschäften stehen wenige und unvollständige Quellen zu der eigentlichen Morphologie der Brücke gegenüber. Das Projekt setzte sich zwei Ziele: die Verlinkung einer relationalen Datenbank zu einer 3D-Visualisierung die Informationen zu Kunsthändler*innen auf der Brücke zur Verfügung stellt, zweitens, die Rekonstruktion der Brücke im Jahr 1720, um die räumlichen Eindrücke, das Material und die Volumina der Architektur erfahrbar zu machen. Das Datum wurde laut Sophie Raux so gewählt, weil zu diesem Zeitpunkt die Anzahl der Händler auf einem Höhepunkt angekommen war, weil Watteau in dem Jahr sein Enseigne de Gersaint malte und weil man die Fassade des Ladens mit der Hängung des Gemäldes rekonstruieren wollte. Das Projekt war ein Teilprojekt der systematischen Erschließung von Quellenmaterial zum europäischen Kunstmarkt.26 Neben der 3D-

Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung

Abb. 8 Lokalisierung der Kunsthändler*innen auf der Pont Notre-Dame im Jahr 1720 und von Gersaints Lade. Bild von Christophe Renaud und Sophie Raux aus der Art Markets Database, 2017

Visualisierung in fotorealistischer Qualität wurden systematisch die Informationen zu den einzelnen Gebäuden der Brücke und den jeweiligen Kunsthändler*innen erfasst und optisch verknüpft. Anhand dieser Daten werden soziale Kontakte und Netzwerke sichtbar gemacht, die sonst nur schwer greifbar sind, und Daten aus verschiedenen und zerstreuten Quellen zusammengeführt (Abb. 8). Für unsere Fragestellung ist allerdings die Visualisierung von besonderem Interesse. Diese ist über die Website als Film abrufbar.27 Ein weiterer Film findet sich auf Youtube.28 Es wurde zum einen der Laden von Gersaint im Detail rekonstruiert, andererseits diskutiert, wie sich dieser innerhalb der Brücke räumlich verortet (Abb. 9, 10). Quellenmaterial lieferte einerseits Ansichten der Brücke – aus der Ferne und beim Überqueren. Andererseits war es das Ziel, die ursprüngliche Hängung des Enseigne de Gersaint ausfindig zu machen. Dieses zeigt den Innenraum des Ladens, wobei seit 1910 bekannt ist, dass das Geschäft mit rund 12 Quadratmetern wesentlich kleiner gewesen sein muss, als es auf dem Gemälde von Watteau zu sehen ist.29 Bei der Rekonstruktion gingen die Forscher*innen in zwei Schritten vor: Als erstes wurde die Architektur des Geschäfts, also das gesamte Haus, anhand von Planmaterial von Pierre-Louis Moreau in seiner Struktur rekonstruiert. Raumhöhe, Treppenanlagen und die Lage der Kamine sind aus den Plänen ersichtlich. Als zweites wurde die Innenausstattung anhand des Nachlassinventars von 1725 nachgebildet. In Zusammenarbeit mit dem Musée Carnavalet wurden Objekte, die den im Inventar benannten Objekten entsprechen, 3D gescannt und die Räume damit ausgestattet. Die Ausstattung ist also im Detail nicht richtig, aber plausibel. Drittes Ziel war es zu sehen, wie Watteaus Gemälde gehängt war. Durch das Ausprobieren verschiedener Hängungen im 3D-Modell (Abb. 11–13), wurde schließlich eine neue Hypothese von Youri Carbonnier für die Anbringung des Gemäldes in der Laibung der Markise aufgebracht, welche in der Visualisierung umgesetzt wurde. Auch macht die Konfrontation des Gemäldes mit der Rekonstruktion von Gersaints Laden die Diskrepanz zwischen Bild und der hypothetischen Rekonstruktion des Ladens

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Abb. 9 Rekonstruktion der Straße auf der Pont Notre-Dame

Abb. 11 Simulation der These von Guillaume Glorieux (2002)

Abb. 10 Laden

Rekonstruktion von Gersaints

Abb. 12 Simulation der These von Christoph Vogtherr und Eva Wenders de Calisse (2007)

Abb. 13 Rekonstruktion des Schildes vor dem Ladeneingang

deutlich. Die Rekonstruktion der Hängung ermöglicht somit eine neue Interpretation des Dargestellten mit den Zielen der Werbung und Repräsentation. Aufgrund der enormen Datenmenge sind derzeit leider nur die beiden erwähnten Filme und die Screenshots aus dem Aufsatz von Sophie Raux zugänglich. Auch bei diesem zweiten Projekt sind die verschiedenen hier beschriebenen wissenschaftlichen Erkenntnisse und Hypothesen nicht in diesen Visualisierungen erkennbar. In einem

Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung kurzen Text auf der Website werden zwar einige erklärende Informationen geliefert. Allerdings bietet ein umfassender Aufsatz von Sophie Raux einen sehr guten Einblick in die viel komplizierteren Prozesse, die für die gestalterische Umsetzung notwendig waren und liefert Screenshots von möglichen alternativen Rekonstruktionen, etwa hinsichtlich der Hängung des Enseigne, welche sich aus den Filmen alleine nicht erschließen.

Fallstudie III: Rehanging Reynolds Das Projekt „Rehanging Reynolds“ rekonstruiert die Reynolds Retrospektive der British Institution im Jahre 1823.30 Anders als bei der ersten Retrospektive von 1813, wurde Reynolds hier nicht isoliert, sondern zusammen mit kontinental-europäischen Alten Meistern im Paragone ausgestellt. Catherine Roach liefert in ihrem Begleitartikel zur digitalen Rekonstruktion in den British Art Studies zunächst Informationen zur Motivation der Ausstellung und zur Intention der British Institution, welche es sich zum Ziel gesetzt hatte, die britische Kunst international wettbewerbsfähig zu machen.31 Die Ausstellungen sollten durch eine bildliche Argumentation die britische Kunst in den Kanon der europäischen Kunstgeschichte einschreiben. Die Ausstellung wurde in drei Räumen, dem North Room, Middle Room und South Room, gezeigt. Im Norden wurden Gemälde von Reynolds, im mittleren Raum die nordeuropäischen und im Süden die südeuropäischen Alten Meister gezeigt. Auf diese Art wollten die Veranstalter*innen Reynolds internationalen Rang verdeutlichen. Roach, die zur Geschichte der British Institution forscht, setzte es sich zum Ziel, diese Ausstellung digital nachzubilden. Die Rekonstruktion wurde als Video zu Verfügung gestellt, das George Voicke nach den Notizen, Abbildungen und Entwürfen von Roach angefertigt hat. Der gestalterische Prozess wurde von Tom Scutt, dem Digital Manager des Paul Mellon Centre beraten. Die Rekonstruktion umfasst die Architektur der Ausstellungsräume und innerhalb dieser vor allem eine Wand, deren Hängung in verschiedenen Varianten aufbereitet wird (Abb. 14). Die übrigen Wände werden mit leeren Rahmen gezeigt. Obwohl über 38.000 Besucher*innen die Ausstellung ansahen, sind die Räume in der Visualisierung leer. Als Basis für den baulichen Rahmen verwendeten die Gestalter*innen Thomas Smiths „Recollections of the British Institution“ von 1860. Sie glichen die Abbildungen mit anderen Bildquellen, etwa einem Aquarell von James und Francis Stephanoff, Ölgemälden von John Scarlett Davis und Alfred Joseph Woolmer und einem Stich aus dem „Microcosm of London“ ab und übernahmen nur Elemente, die in allen Abbildungen übereinstimmend zu sehen sind (Abb. 15). Die Hängung wurde mit Hilfe des Katalogs rekonstruiert. Allerdings ist in diesem nicht verzeichnet, wie genau die Bilder an der Wand verteilt waren. Roach orientiert sich an zeitgenössischen Hängungen, in welchen um ein großformatiges Bild im Zentrum kleinere Formate gruppiert werden. Sie machte die „Unschärfe“ dieser Entscheidung

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Abb. 14 Screenshot der Rekonstruktion der Reynolds Retrospektive von 1823

Abb. 15 Screenshot der Rekonstruktion der Reynolds Retrospektive von 1823

Abb. 16 Screenshot der Rekonstruktion der Reynolds Retrospektive von 1823

Abb. 17 Screenshot der Rekonstruktion der Reynolds Retrospektive von 1823

Abb. 18 Screenshot der Rekonstruktion der Reynolds Retrospektive von 1823

sichtbar, indem sie im Video drei alternative Hängungen zeigt (Abb. 16–18). Auch über die Rahmen ist kaum etwas bekannt, so dass auf zeitgenössische Rahmen zurückgegriffen wird, die Roach im Video ebenfalls in den verschiedenen Alternativen darstellen ließ. Die Herausgeber*innen der British Art Studies haben Gelder für eine Fotokampagne zur Verfügung gestellt, dennoch sind nicht alle Bilder in Farbe verfügbar. Sieben der zehn Bilder konnten mit Hilfe des Catalogue Raisonné zu Reynolds identifiziert werden. Eines, das in einer Privatsammlung befindlich ist, wurde als schwarzweiß Ab-

Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung bildung reproduziert. Zwei weitere Bilder konnten nur in einer graphischen Reproduktion wiedergegeben werden, wodurch erneut die „Unschärfe“ der Rekonstruktion für die Betrachter*innen sichtbar gemacht wird. Alle diese Details, die am Ende in der Visualisierung sichtbar werden, sind in dem Video Schritt für Schritt erklärt. Es werden etwa die Bildquellen gezeigt und dann in einem Text ausgeführt, wie genau diese verwendet werden. Auch wird in den drei alternativen Hängungen erläutert, warum welches Bild wo platziert wird. Und schließlich werden auch die jeweiligen Informationen zu den einzelnen Gemälden bzw. den Reproduktionen in Texten erläutert. Das Video ist über den Youtube Channel des Paul Mellon Centre abrufbar und hat insgesamt eine Länge von zehn Minuten.32 Bilder und überblendeter Text wechseln sich ab, um die Inhalte mit den Informationen zum Entstehungsprozess anzureichern. Was für die Rekonstruktion der einen Wand mit zehn Bildern wirklich sehr gut funktioniert, wirft allerdings die Frage auf, wie lange ein solches Video sein müsste, um die gesamte Ausstellung mit den 176 gezeigten Gemälden zu kontextualisieren.

Resumée Alle drei Projekte gehen unterschiedlich mit dem Problem der Unschärfe in den 3DRekonstruktionen um. Da „The Lost Collection of Charles I“ und „Pont Notre-Dame“ Unschärfen in den Visualisierungen zugunsten einer fotorealistischen Darstellung ausblenden, sind Hypothesen und offene Fragen in der Rekonstruktion unsichtbar. Als Betrachter*in wird man nicht auf diese hingewiesen, sondern muss sich über den Weg der Texte und der Sekundärliteratur mit den dargestellten Hypothesen auseinandersetzen. Sophie Raux liefert in ihrem Aufsatz allerdings eine Reihe von alternativen Rekonstruktionen, über die sich der Erkenntnis- und Gestaltungsprozess bei der Umsetzung erschließt. Im Fall der „Reynolds Retrospektive“ sind die modellierten Bilder über einen Film zugänglich, welcher Bild und Text durch Überblendungen miteinander verschränkt und zusätzlich durch Unschärfen in der Darstellung auf den hypothetischen Charakter dieser aufmerksam macht. Dies zwingt den*die Betrachter*in zu einer kritischen Reflexion und zu einer aktiven Auseinandersetzung mit dem digitalen Bild. Jenseits von „Schärfe“ und „Unschärfe“, weißt jedes der Projekte verschiedenen Stärken auf. So sind etwa beim Projekt zu Charles I die detaillierte Aufbereitung des schriftlichen Quellenmaterials und die Integration der Inventareinträge in die Datenmaske hervorzuheben. Bei der Pont Notre-Dame wurden Simulationen von Licht und Bewegung miteinbezogen. Auch meteorologische Umstände, wie Regenpfützen, sind in der Visualisierung dargestellt und lassen so eine atmosphärische Erfahrung der Brücke zu. Bei der leider nur selten verfügbaren hochauflösenden Virtual Reality Präsentation werden somit alle Sinne angesprochen und ebenfalls Geräusche in die Erfahrung integriert. Die Reynolds Retrospektive liefert mit der kommentierten Visualisierung und dem

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Anna Frasca-Rath Zeigen mehrerer Alternativen eine Möglichkeit, wie man derartige Rekonstruktionen kommentiert zur Verfügung stellen kann. Die Projekte machen deutlich, auf welche Weise derzeit über Best-Practices für die Rekonstruktion historischer Sammlungs- und Ausstellungshängungen reflektiert wird. Anhand der Aufsätze von Roach und Raux wird offenbar, dass derartig aufwendige Visualisierungen Erklärungen benötigen, um in der Komplexität verständlich und als Erkenntnisinstrument für die Sammlungsforschung nutzbar zu sein. Hypothesen können gerade im digitalen Raum hervorragend umgesetzt werden, da die Möglichkeit besteht, Alternativen zu visualisieren, mit deren Hilfe sich die Argumentation sinnvoll bildlich ergänzen lässt. Um diese Daten auch nachhaltig nutzen zu können, stellt sich einerseits, wie im Falle der Pont Notre-Dame, die Frage, wie man große Datenmengen überhaupt für ein breites Publikum zur Verfügung stellen kann. Daran schließt auch die Frage nach Standards und Normen an, welche gerade für die aufwendigen 3DRekonstruktionen noch immer nicht verbindlich geklärt ist.33 Die hier vorgestellten Projekte können in diesem Sinne auch als Erkenntnisinstrumente dienen, schließlich werden viele dieser Fragen erst bei der tatsächlichen Umsetzung und letztlich bei der Nachnutzung und der Rezeption durch die Wissenschaftscommunity evident.

Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung 1 Zur Teniers Gemälde vgl. jüngst S. Schütze, Das Galeriebild und seine Bedeutungshorizonte, in Fürstenglanz. Die Macht der Pracht, Ausst. Kat., Wien, Galerie Belvedere, hg. v. A. Husslein-Arco und T. Natter, Wien, Belvedere, 2016, S. 64–73. 2 S. hierzu auch den Forschungsstand weiter unten im Fließtext. 3 Eine der wenigen Rezensionen von 3D-Rekonstruktionen ist der Aufsatz von Catherine Roach. C. Roach, Rehanging Reynolds at the British Institution: Methods for Reconstructing Ephemeral Displays, in „British Art Studies“, 4, 2016, https://doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-04/ croach (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 4 S. zum Beispiel Display of Art in the Roman Palace. 1550–1750, hg. v. G. Feigenbaum, Los Angeles, Getty Resarch Institute, 2014. Verschiedene Ansätze und methodische Vorgehensweisen für Sammlungsrekonstruktionen, etwa für Skulptur, wurden jüngst von Malcolm Baker in einem ausführlichen Artikel anlässlich der Neuaufstellung des Musée Rodin zusammengestellt. Vgl. M. Baker, Writing about Displays of Sculpture. Historiography and some current questions, in „Cahiers de l’Ècole du Louvre“, 8, 2016, S. 2–16 5 T. Weddigen, Die Sammlung als sichtbare Kunstgeschichte. Die Dresdener Gemäldegalerie im 18. und 19. Jahrhundert, Habilitationsschrift, Universität Bern, Zürich, E-Publikation, 2008 (https://doi.org/10.5167/uzh-122978). 6 Die kaiserliche Gemäldegalerie in Wien und die Anfänge des öffentlichen Kunstmuseums, hg. v. G. Swoboda, Bd. i, Die Kaiserliche Galerie im Wiener Belvedere (1776–1837), Wien/Köln/Weimar, Böhlau, 2013. 7 Vgl. hierzu etwa die Rekonstruktionen des Städelmuseums, https://zeitreise.staedelmuseum.de. 8 https://www.britishartstudies.ac.uk (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 9 Siehe hierzu etwa Johanna Drucker „Every choice made about […] creating the original format, is part of a chain of decisions that constitutes the digital artifact“: J. Drucker, Is there a Digital Art History?, in „Visual Resources“, 29, 2013, S. 12. 10 Review: http://researchonline.ljmu.ac.uk/id/eprint/10261/3/Born%20digital.pdf (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 11 P. Kuroczynski, P. Bell, L. Dieckmann, Computing Art Reader. Einführung in die Digitale Kunstgeschichte, Heidelberg, arthistoricum.net, 2018. Hier vor allem die Kapitel von Piotr Kuroczynski, Jan-Eric Lutteroth und Stephan Hoffe, sowie Dominik Lengyel und Catherine Toulouse. 12 D. Lengyel und C. Toulouse, Visualisierung von Hypothesen. Zur Gestaltung von Abstraktion bei der Darstellung unscharfen Wissens in der Archäologie, Bauforschung und Kunstgeschichte, in Kuroczynski/Bell/Dieckmann, Computing Art Reader, a. a. O., S. 203–218. 13 Lengyel/Toulouse, Visualisierung von Hypothesen, a. a. O., S. 203. 14 Roach, Rehanging Reynolds, a. a. O. 15 Der Titel ergibt sich aus der Idee, eine Ausstellung zu rekonstruieren, die Jane Austen so gesehen hat: http://www.whatjanesaw.org/index.php (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 16 Roach, Rehanging Reynolds, a. a. O. Einen weiteren Review des Projekts verfasste auch J. Cranston, „What Jane Saw“, 18 June 2015, doi:10.3202/caa.reviews.2015.74 (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 17 Charles I. King and Collector, Ausst. Kat., London, Royal Academy of Arts, hg. v. P. Rumberg, D. Shawe-Taylor, London, Royal Academy of Arts, 2018. 18 Link zur Projektseite: https://lostcollection.rct.uk (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 19 S. Thurley, Whitehall Palace. The Official Illustrated History, London, Merrell, 2008; S. Thurley, Whitehall Palace. An Architectural History of the Royal Apartments, 1240–1698, New Haven und London, Yale University Press, 1999.

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Anna Frasca-Rath 20 Nähere Details finden sich auf der Website zum Projekt: https://lostcollection.rct.uk/about-project/ visualisation (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 21 Ebd. 22 Abraham van der Doort’s Catalogue of the Collection of Charles I, hg. v. O. Millar, London, The Walpole Society, 1960. 23 Vgl. hierzu die Ausführungen auf der Website http://lostcollection.org.uk/charles-i/inventories (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 24 Ebd. 25 S. Raux, Virtual Explorations of an 18th-Century Art Market Space. Gersaint, Watteau, and the Pont Notre-Dame, in „Journal18“, 5, Frühjahr 2018, https://www.journal18.org/2542, doi: 10.30610/5.2018.3 (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 26 Die Projektseite findet sich unter http://www.artmarkets.eu (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 27 Link zur Visualisierung: http://www.artmarkets.eu/visualisations/335-000-tableaux-passes-enventes-publiques-en-europe-au-18e-siecle/ (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 28 Link zur Youtube Seite: https://www.youtube.com/watch?v=J18ld36cSS0 (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 29 Auch neueste Forschungen haben diese Diskrepanz belegt. 30 Roach, Rehanging Reynolds, a. a. O., (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 31 Roach, Rehanging Reynolds, a. a. O., S. 5 (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 32 Link zur Youtube Seite: https://youtu.be/KPoybqpjj7o (zuletzt aufgerufen am 9. 10. 2020). 33 Vgl. hierzu P. Kuroczynski, Neuer Forschungsraum für die Kunstgeschichte. Virtuelle Forschungsumgebungen für Digitale 3D-Rekonstruktionen, in Kuroczynski/Bell/Dieckmann, Computing Art Reader, a. a. O., S. 161–184.

Autori

Vincenzo Abbate, allievo a Palermo di Maurizio Calvesi, ha frequentato a Roma il Corso di perfezionamento in Storia dell’arte con Giulio Carlo Argan. Entrato nell’Amministrazione dei Beni Culturali nel 1976, è stato funzionario di Soprintendenza, direttore del Museo Pepoli di Trapani (1979–1990) e dal 1987 al 2007 direttore della Galleria Regionale della Sicilia (Palazzo Abatellis, Palermo). Docente a contratto presso l’Università degli Studi di Palermo, ha insegnato Storia dell’arte moderna alla Scuola di specializzazione in Storia dell’arte della LUMSA di Roma, sede di Palermo. Il ruolo di dirigente storico dell’arte e di direttore di museo lo ha visto impegnato nell’opera di recupero, divulgazione e valorizzazione del patrimonio artistico isolano, con particolare riferimento alla realtà museale e all’opera di riorganizzazione, allestimento e promozione delle raccolte d’arte. Ha promosso e organizzato numerose manifestazioni espositive d’ampio respiro culturale. Nel campo degli studi e della ricerca scientifica ha approfondito temi relativi alla cultura figurativa in Sicilia, con particolari interessi per la pittura del Cinque e del Seicento e le sue connessioni con l’Italia e l’Europa nell’ambito della più vasta problematica legata alla committenza e al collezionismo artistico. Linda Borean è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università degli studi di Udine. Le sue ricerche riguardano temi di arte veneta tra Cinquecento e Settecento, con particolare riguardo alla committenza, al collezionismo e al mestiere dell’artista. Ha pubblicato saggi e articoli in riviste internazionali e volumi monografici, tra cui Lettere artistiche del Settecento veneziano. Il carteggio Giovanni Maria Sasso-Abraham Hume (2004) e La Galleria Manfrin a Venezia. L’ultima collezione d’arte della Serenissima (2018). Orsolya Bubryák, PhD, è una storica dell’arte, dal 2002 assistente di ricerca, dal 2006 assegnista di ricerca e dal 2011 assegnista di ricerca senior presso l’Istituto di Storia dell’arte, Centro di ricerca per le scienze umane (ex Istituto di ricerca dell’Accademia delle Scienze ungherese), Budapest, Ungheria. Ha conseguito il dottorato in Storia dell’arte presso l’Università Eötvös Loránd di Budapest nel 2010, con una tesi sul collezionismo d’arte della famiglia aristocratica ungherese Erdődy. Tra il 2011 e il 2013 è stata curatore capo della Collezione d’arte dell’Accademia delle Scienze ungherese, ha curato la mostra Imre Henszlmann (1813–1888). Mostra in onore del bicentenario della nascita nel 2013. Dal 2016 è redattore capo di «Ars Hungarica», la rivista scientifica pubblicata dall’Istituto. Ha pubblicato numerosi articoli su varie collezioni d’arte ed è autrice di due libri: Storia familiare e sua rappresentazione visiva. Collezioni del castello Erdődy a Galgóc (2013) (in ungherese) e Collecting clues. In Search of an Art Collector in Seventeenth-Century Vienna (2018) in

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Autori inglese. Attualmente sta lavorando alla ricostruzione della collezione di Hans Steininger (1552– 1634), mercante di tessuti di Augusta. Paolo Coen, PhD, è professore ordinario in Storia dell’arte moderna presso l’Università degli Studi di Teramo. La sua ricerca ruota prevalentemente sull’arte a Roma tra il XVII e i primi anni del XX secolo, con un’attenzione particolare ai temi inerenti al mercato, alla committenza e alla museologia. Francesca Curti si è laureata in Lettere e ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Strumenti e metodi per la Storia dell’arte presso la Sapienza Università di Roma. Ha conseguito il diploma in Biblioteconomia presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e quello in Archivistica, paleografia e diplomatica presso l’Archivio di Stato di Roma (2005), istituto con il quale ha collaborato per quasi dieci anni. Ha lavorato, inoltre, per il CROMA (Centro ateneo per lo studio di Roma) presso l’Università RomaTre per il progetto «Atlante di Roma Moderna e Contemporanea», ed è stata assegnista di ricerca presso l’Università degli studi «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara, nell’ambito del progetto Firb 2013 «Gli Orsini e i Savelli nella Roma dei Papi» (2017). È autrice di monografie e articoli riguardanti l’arte del Seicento, con particolare attenzione al collezionismo romano, a Vélazquez e a Caravaggio e il caravaggismo. Antonio Ernesto Denunzio è vicedirettore della Gallerie d’Italia di Napoli, sede museale di Intesa Sanpaolo, nonché Responsabile dell’Ufficio iniziative culturali e progetti espositivi della Banca. Ha compiuto i suoi studi presso l’Università di Napoli Federico II. Si dedica da tempo alla ricerca documentaria e allo studio del mecenatismo e collezionismo farnesiano, argomenti cui ha dedicato numerosi interventi con particolare riferimento alla figura del cardinale Odoardo Farnese. Negli ultimi anni ha indirizzato la sua indagine su questioni caravaggesche, legate ai soggiorni napoletani dell’artista, e su temi pertinenti il collezionismo dei viceré spagnoli di Napoli tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento. Anna Frasca-Rath, PhD (*1985) ist wissenschaftliche Mitarbeiterin am Institut für Kunstgeschichte der Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg. Ihre Schwerpunkte in Forschung und Lehre sind Skulptur, Material/Materialitätsdiskurse und die Geschichte der Kunstgeschichte im 18. und 19. Jahrhundert sowie digitale Forschungsinstrumente. 2015 wurde sie mit einer Dissertation zu „John Gibson. Die Canova-Rezeption in der British Community in Rom“ promoviert (2018 im Böhlau Verlag publiziert). Im selben Jahr initiierte sie die Gründung des Netzwerks für Digitale Kunstgeschichte in Österreich (www.darthist.at). 2016 kuratierte sie die Ausstellung „John Gibson. A British sculptor in Rome“ an der Royal Academy of Arts in London. Ihre bisherigen Forschungen und Publikationen wurden von internationalen Fördergebern, etwa der Bibliotheca Hertziana – Max-Planck-Institut für Kunstgeschichte in Rom, dem Paul Mellon Centre for Studies in British Art in London und dem FWF (Österreichischer Wissenschaftsfonds), unterstützt. Im Projekt „Recht auf Museum“ leitet sie seit 2020 die kunsthistorisch und institutionengeschichtlich ausgerichteten Forschungen zur Geschichte der Öffentlichkeitskonzeption von Museen (vom Gründungsstatut bis zum heutigen Mission Statement). Elisabetta Frullini ha studiato pianoforte presso il conservatorio di musica Santa Cecilia a Roma parallelamente alla sua formazione scolastica. Nel 2013 si è laureata in Storia dell’arte presso l’università di Vienna (Universität Wien) con una tesi sul pittore napoletano Bernardo Cavallino. In

Autori seguito ha svolto un tirocinio di un anno presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna partecipando all’allestimento della mostra «Velázquez». È dottoranda presso l’università di Vienna con una tesi su musicisti collezionisti nella Roma del Seicento. Il lavoro è volto a mettere in luce i rapporti che intercorrevano tra musicisti e pittori e il modo in cui l’appartenenza alla stessa corte contribuisse a queste relazioni e potesse rispecchiarsi nella scelta di determinate opere. Bader Preis für Kunstgeschichte 2015; borsista presso la Fondazione Longhi a Firenze nell’anno accademico 2016–2017. Barbara Ghelfi è professore ordinario di Storia dell’arte moderna presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna. Dopo la laurea in Lettere moderne presso l’Università di Bologna (1995), si è specializzata in Storia dell’arte presso la stessa Università (1999) e ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia dell’arte all’Università degli studi «G. D’Annunzio» di ChietiPescara (2005). È stata borsista della Fondazione Longhi di Firenze e della Fondazione Ermitage Italia e assegnista di ricerca presso le Università di Chieti-Pescara e Modena-Reggio Emilia. Si è occupata di temi riguardanti la pittura e la storia del collezionismo in Emilia nel Seicento. È autrice, fra l’altro, dell’edizione critica del Libro dei conti del Guercino (1997), dei volumi Pittura a Ferrara nel primo Seicento. Arte, committenza e spiritualità (2011); Tra Modena e Roma. Il mecenatismo artistico nell’età di Cesare d’Este (1598–1628) (2012); La pittura a Ferrara nel secondo Seicento (2016); La nascita di una collezione. Gli Hercolani di Bologna (1718–1773) (2021). Cecilia Mazzetti di Pietralata is a tenure-track assistant professor in Early Modern Art History at the University of Cassino and Southern Latium. After getting her PhD at the Sapienza (Rome) she collaborated for many years with the Bibliotheca Hertziana. She taught at the University of Ferrara, Sapienza of Rome, Chieti-Pescara and as visiting professor in Vienna and was principal investigator in the project Firb “Gli Orsini e i Savelli nella Roma dei Papi” at the University of Chieti-Pescara (supported by Ministero dell’Università e della Ricerca) and in the Lise Meitner Project “Habsburgische Gesandte in Rom, 1619–1740: Kunstsammeln als Mittel des Kulturtransfers” at Vienna University (supported by FWF, Österreichischer Wissenschaftsfonds). Her research focuses on the cultural transfer between Rome and the German speaking lands in the early modern, on the History of Collecting, on the artistic patronage of noble Roman families, on the Italian patrons and artists living in Vienna. In her last works she focused on the topic of “Art and Diplomacy”. Patrick Michel, professeur d’Histoire de l’art moderne à l’Université de Lille depuis 2005, est un spécialiste de l’histoire du collectionnisme aux 17e et 18e siècle. Il a également mené de nombreuses recherches et publications sur l’histoire du marché de l’art en France au 18e siècle. Il est l’auteur notamment de Mazarin prince des collectionneurs (RMN, 1999) ; Le Commerce du tableau à Paris dans la seconde moitié du XVIIIe siècle (Presses du Septentrion, 2007) et Peinture et plaisir. Les goûts picturaux des collectionneurs parisiens au XVIIIe siècle (PUR, 2010). Ses travaux portent également sur l’histoire de la sociabilité savante et l’histoire de la peinture française du 18e siècle. Il dirige également des masters et des thèses portant sur l’histoire des arts décoratifs en France et en Italie aux 17e et 18e siècle et a crée un séminaire commun avec la Wallace Collection à Londres et l’Ecole du Louvre. Raffaella Morselli è professore ordinario di Storia dell’arte moderna e delegato del Rettore alla cultura all’Università di Teramo. È stata visiting professor presso l’Universidade Estadual di Campinas (Brasile), research fellow del Getty (Los Angeles) e Ailsa Mellon Bruce senior visiting scholar al

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Autori Casva (Washington D. C.). È autrice di numerosi studi sulla storia della committenza, del collezionismo e del mercato dell’arte del Seicento, in particolare dei Gonzaga e di Bologna; è specialista di Guido Reni, Guercino, Francesco Albani, Domenico Fetti, Rubens e Pourbus. Simonetta Prosperi Valenti Rodinò è stata professore di Storia dell’arte moderna all’Università di Roma «Tor Vergata» (2003–2016), dopo aver insegnato all’Università di Bologna e della Tuscia a Viterbo. Prima era stata curatrice dei disegni a Roma, Istituto Centrale per la Grafica (1975–1993). I suoi interessi di studiosa, e le sue pubblicazioni, vertono soprattutto sui disegni italiani dal XVI al XVIII secolo, con particolare riferimento alla scuola fiorentina e romana, nonché alla storia del collezionismo di grafica in Italia nei secoli XVII e XVIII, con affondi su personaggi quali Giovan Pietro Bellori, Sebastiano Resta, il marchese del Carpio, Nicola Pio, i cardinali Neri Corsini e Silvio Valenti Gonzaga, Giovanni Gaetano Bottari e Pierre-Jean Mariette. Ha partecipato con Elena Vaiani e Helen Whitehouse al Cassiano Project su invito del Warburg Institute di Londra e della Royal Library di Windsor Castle e al catalogo dei disegni The Paper Museum of Cassiano dal Pozzo. Egyptian and Roman Antiquities and Renaissance Decorative Arts, 2 voll., London 2018. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche: è attualmente impegnata nel portare a termine la monografia sul pittore Carlo Maratti (1625–1713), lasciata incompiuta da Stella Rudolph. Dal 1994 è membro del Comitato scientifico della Fondazione Longhi a Firenze, e dal 2001 di quella della Fondazione Federico Zeri di Bologna; inoltre è accademica del Disegno nella fiorentina Accademia del Disegno e dal 2022 è membro dell’Accademia dell’Arcadia come Disfila Coritea. È stata invitata come Guest Scholar dal Getty Research Institute dal 9 aprile 2018 al 29 giugno 2018. Gonzalo Redín è professore associato presso l’Universidad de Alcalá, dove svolge delle ricerche sui rapporti artistici tra l’Italia e la Spagna dal Cinquecento all’Ottocento, in special modo nell’ambito del collezionismo e della pittura. È stato curatore del catalogo Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento nelle collezioni reali di Spagna e, insieme a Benito Navarrete, del catalogo Disegni spagnoli del Cinquecento della Biblioteca Nacional de España; nel 2022 pubblicherà un volume sulla figura del XIV duca d’Alba e le sue collezioni. Sebastian Schütze ist Inhaber des Lehrstuhls für Neuere Kunstgeschichte an der Universität Wien. Er ist Mitglied des Wissenschaftlichen Beirates des Istituto Italiano per gli Studi Filosofici und w. Mitglied der Österreichischen Akademie der Wissenschaften. Seine Forschungen sind der italienischen Kunst der Frühen Neuzeit und ihrer europäischen Ausstrahlung gewidmet, insbesondere der Kunst und Kunstpatronage des päpstlichen Rom, der Malerei Neapels und den Wechselwirkungen von Literatur und bildender Kunst. Seine Publikationen umfassen Studien zu Caravaggio, Massimo Stanzione und Gian Lorenzo Bernini, zur Ausstattung von St. Peter und zur Kunstpatronage von Papst Urban VIII., aber auch zu den Dante-Zeichnungen von William Blake und zur Kunstauffassung von Stefan George und seinem Kreis. Darüber hinaus hat er große internationale Ausstellungen kuratiert, darunter „Bernini Scultore“ (Villa Borghese, Rom 1998), „Melchior Lechters Gegen-Welten“ (Westfalisches Landesmuseum, Münster 2006), „Caravaggio and his Followers in Rome“ (National Gallery, Ottawa 2011), „Bernini. Erfinder des barocken Rom“ (Museum der bildenden Künste, Leipzig 2014), „Der Göttliche. Hommage an Michelangelo“ (Bundeskunsthalle, Bonn 2015) und „Friedrich Nietzsche and the Artists of the New Weimar“ (National Gallery of Canada, Ottawa 2019).

Crediti fotografici

Copertina Su gentile concessione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica (MiC) – Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan

Bubryák, Una serie di dipinti di Paris Bordone nella collezione di Hans Steininger. Reinterpretazione di una fonte d’archivio Figg. 1, 3, 10: © KHM Museumsverband; Fig. 2: © National Gallery Company Limited; Fig. 4: © Museo Statale dell’Ermitage, San Pietroburgo/Pavel Demidov; Fig. 5: © RMN-Grand Palais/Mathieu Rabeau; Fig. 6: © Museum of Art and Archaeology, University of Missouri; Fig. 7: © National Galleries of Scotland; Fig. 8: © Herzog Anton Ulrich-Museum; Fig. 9: © Bildarchiv Foto Marburg

Denunzio, Prelati, principi, agenti. Viaggi di uomini e beni tra Napoli, Monaco e la corte imperiale Fig. 1: Archivio Patrimonio Artistico, Intesa Sanpaolo; Figg. 2–4; foto Beppe Gernone, Bari; Fig. 5: Roma, Accademia Nazionale di San Luca; Fig. 6: www.mfah.org; fig. 7: www.smk.dk, public domain; Figg. 8–9: www. metmuseum.org

Abbate, Principi in affari: Don Giovanni Valdina imprenditore e collezionista siciliano del Seicento Fig. 1: Giuseppe Nicoletti, Caltanissetta; Fig. 4: Alessandro Mancuso, Messina; Figg. 5, 8: Galleria Regionale della Sicilia, Palermo; Fig. 6: Galleria Giamblanco, Torino; Fig. 7: Dario Di Vincenzo, Palermo

Morselli, «Torcimanni e barattieri», agenti, intermediari, periti, mallevadori e mercanti nella Bologna di primo Seicento Figg. 1–4, 7: © Wikimedia Commons; Fig. 5: da Banca Popolare dell'Emilia Romagna. La Collezione dei dipinti antichi, a cura di D. Benati e L. Peruzzi, Milano 2006; Fig. 6: da https://www.artribune. com/dal-mondo/2018/10/mostra-pittura-donne-barocco-gent; Fig. 8: https://www.luc.edu/luma/ collections/martindarcysjcollection/therestontheflightintoegypt; Fig. 9: https://centocittadelguercino.unibo.it/index.php/home/le-opere-2/opere-della-bottega/doppio-ritratto-con-guercino-e-giovanni-battista-manzini; Fig. 10: da Fano per Simone Cantarini. Genio ribelle 1612–2012, a cura di A. M. Ambrosini Massari, cat. mostra Fano 2012.

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Crediti fotografici

Curti, «et in ogn’altra occasione sarò sempre prontissimo a servirla». La formazione della collezione dei Mattei di Paganica attraverso i carteggi inediti di Guercino, Francesco Albani e dell’architetto Guido Antonio Costa Fig. 1: da R. Sampieri, Palazzo Mattei di Paganica e il suo contesto urbano, in Palazzo Mattei di Paganica sede dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2015; Figg. 2, 10: da F. Curti, «Con bona pittura ad uso d’arte». Collezionismo e decorazione in Palazzo Mattei di Paganica nel Seicento, in Palazzo Mattei di Paganica sede dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2015; Fig. 3: Lampronti; Figg. 4, 6: © Wikimedia Commons; Fig. 5: Dorotheum Vienna, catalogo di vendita all’asta 6. 10. 2009; Fig. 8: Alamy; Fig. 9: Mondadori Portfolio

Ghelfi, Una collezione nella collezione: i «Pittori in atto di dipingere» dei principi Hercolani di Bologna. Nuove risultanze d’archivio Fig. 1: su concessione del Ministero della cultura-Archivio Fotografico Direzione regionale Musei dell’Emilia Romagna; Fig. 2: archivio dell’autrice; Fig. 3: © The State Hermitage Museum

Frullini, Raccolte di quadri di musicisti celebri nella Roma del Seicento Fig. 1: Courtesy of the Burghley House Preservation Trust Ltd; Fig. 2: Courtesy of the Allen Memorial Art Museum, Oberlin College, Ohio. Mrs. F. F. Prentiss Fund, 1969.21; Figg. 3, 6: Su gentile concessione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica (MiC) – Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan; Fig. 4: Su gentile concessione della Bertolami Fine Art; Fig. 5: Dominio pubblico (Met Open Access); Fig. 7: © National Trust Images/Matthew Hollow; Fig. 8: © National Trust Images/Andrew Patterson

Mazzetti di Pietralata, Austrian networks in Papal Rome as interpretation key (XVII–XVIII century). Envoys, agents, and the arts Fig. 1: su concessione della Biblioteca Casanatense, Roma (Mic)/foto Mario Setter; Fig. 2: © Studio Sebert for Artcurial; Fig. 3: New York, Metropolitan Museum of Art © Creative Commons; Fig. 4: archivio dell’autrice; Fig. 5: © Foto Bibliotheca Hertziana; Fig. 6: Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin

Borean, Raffaello e Venezia nel XVII e XVIII secolo. Spunti critici, connoisseurship e circolazione di opere Figg. 1–4: archivio dell’autrice; Fig. 5: Royal Collection Trust /© Her Majesty Queen Elizabeth II 2022; Figg. 6, 7: © The Trustees of the British Museum; Fig. 8: Courtesy National Gallery of Art, Washington

Prosperi Valenti Rodinò, Il collezionismo di disegni come strumento di diffusione di modelli accademici, da Roma all’area tedesca Fig. 1: per gentile concessione del Ministero della cultura; Figg. 2, 3: per gentile concessione dello Statens Museum for Kunst, Copenaghen; Figg. 4, 6–9: archivio dell’autrice; Fig. 5: banca dati UNIDAM (da Art in Rome in the Eighteenth Century, a cura di E. P. Bowron, J. J. Rishel, cat. mostra Philadelphia 2000, S. 540)

Crediti fotografici

Michel, Les correspondances érudites : une source d’information sur les collections de «petites antiquités» en France au XVIIIe siècle Fig. 1: Alamy Banque d’images ; Fig. 2: Venezia, Gallerie dell’Accademia; Fig. 3, 5, 8: cliché auteur ; Fig. 4, 6: Paris, BNF ; Fig. 7: cliché Avignon, Musée Calvet

Coen, La riforma del 1749, una linea di crinale nel rapporto fra Museo, tutela e mercato dell’arte nella Roma del diciottesimo secolo Figg. 1–5: © Wikimedia Commons

Redín Michaus, Tra l’antico e il nuovo regime: la collezione del XIV duca d’Alba, Carlos Miguel Fitz-James Stuart, un Grande di Spagna nell’esilio Figg. 1, 6–8: Fundación Casa de Alba; Figg. 3, 4: Galleria dell’Accademia, Napoli; Fig. 5: Società Napoletana di Storia Patria; Fig. 9: RMN-Grand Palais (musée du Louvre)/Thierry Le Mage; Fig. 10: Galleria dell’Accademia, Firenze. Antonio Quattrone.

Frasca-Rath, Zum Umgang mit „Unschärfe“ bei 3D-Rekonstruktionen in der Sammlungsforschung. Drei Fallbeispiele Abb. 1: © Wikimedia Commons; Abb. 2: Lengyel Toulouse Architekten Copyright, Berlin; Abb. 3: www.whatjanesaw.org; Abb. 4: https://lostcollection.rct.uk/rooms/first-privy-lodging-room; Abb. 5: https://lostcollection.rct.uk/rooms/third-privy-lodging-room; Abb. 6: https://lostcollection.rct.uk/ van-der-doort-locations/first-privy-lodging-room; Abb. 7: https://lostcollection.rct.uk/collection/ tarquin-and-lucretia-life-size-full-length; Abb. 8: Bild von Christophe Renaud und Sophie Raux aus der Art Markets Database, 2017; Abb. 9–13: © Chromelight Studio, Roubaix; CREHS, Université d’Artois; LARHRA, Université Lyon 2, CNRS; LISIC, ULCO; Abb. 14–15: https://youtu.be/ KPoybqpjj7o; Abb. 16–18: https://www.britishartstudies.ac.uk/issues/issue-index/issue-4/rehanging-reynolds

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