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Italian, English Pages 204 [206] Year 2022
ARCHEOLOGIA POSTMEDIEVALE S O C I E T À
A M B I E N T E
P R O D U Z I O N E
26
2022 All’Insegna del Giglio
Con il contributo di
Università degli studi di Sassari Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione
ARCHEOLOGIA POSTMEDIEVALE Rivista Internazionale di Studi Fondata da Marco Milanese Direttore responsabile: MARCO MILANESE Comitato scientifico: CARLO BELTRAME, Università Ca’ Foscari di Venezia HUGO BLAKE, Royal Holloway, University of London CARLO CITTER, Università di Siena GIULIANO DE FELICE, Università di Bari GINO FORNACIARI, Università di Pisa ALBERTO GARCÍA PORRAS, Universidad de Granada SAURO GELICHI, Università Ca’ Foscari Venezia ENRICO GIANNICHEDDA, Istituto per la Storia della Cultura Materiale di Genova (ISCuM) MARCELLA GIORGIO, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno ANTONIO MALPICA CUELLO, Universidad de Granada MARCO MILANESE, Università degli Studi di Sassari DIEGO MORENO, Università degli Studi di Genova FABIO PINNA, Università degli Studi di Cagliari JUAN ANTONIO QUIRÓS CASTILLO, Universidad del País Vasco ANNA MARIA STAGNO, Università degli Studi di Genova Redazione: MARCO MILANESE, MARCELLA GIORGIO, GIUSEPPE CLEMENTE, ANNA MARIA STAGNO Periodico annuale – Registrazione n. 4714 del 4 agosto 1997 presso il Tribunale di Firenze Indirizzi redazione: Università degli Studi di Sassari, Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione, Via Zanfarino, 62, 07100 Sassari; tel. 333 7965091 e-mail: [email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected]
Edizione e distribuzione: Edizioni ALL’INSEGNA DEL GIGLIO s.a.s. via Arrigo Boito, 50-52 – 50019 Sesto Fiorentino (FI) tel. +39 055 6142675 sito web: www.insegnadelgiglio.it e-mail: [email protected] – [email protected] Abbonamento: https://www.insegnadelgiglio.it/categoria-prodotto/abbonamenti/ Per l’estero sono aggiunte le spese di spedizione.
ARCHEOLOGIA POSTMEDIEVALE S O C I E T À
A M B I E N T E
P R O D U Z I O N E
26 2022
All’Insegna del Giglio
Con il patrocinio di
Università degli studi di Sassari Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione
Volume a cura di Marco Milanese
In copertina: L’area attorno alla Bocca della Verità in un acquerello di Ettore Roesler Franz (da Jannattoni 2006, p. 229).
ISSN 1592-5935 e-ISSN 2039-2818 ISBN 978-88-9285-171-9 e-ISBN 978-88-9285-172-6 © 2022 All’Insegna del Giglio s.a.s. Stampato a Sesto Fiorentino (FI) dicembre 2022, BDprint
Indice
Editoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .7 Breve ricordo di Osvaldo Raggio (Zoagli, 20 gennaio 1951-Velva, 5 maggio 2022) . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.
ARCHEOLOGIA DEI PAESAGGI LANDSCAPE ARCHAEOLOGY
doi 10.36153/apm26001
Granai e fienili di Roma moderna. Struttura, topografia e vicissitudini dalla Roma dei papi a Roma capitale tra storia dell’archeologia e urbanizzazione (XIX secolo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 Fabrizio Sommaini doi 10.36153/apm26002
Il suburbio dell’Aquila in Età Moderna alla luce della cartografia storica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 Fabio Lorenzetti 2.
ARCHEOLOGIA DEL TERRITORIO ARCHAEOLOGY OF THE TERRITORY
doi 10.36153/apm26003
La cripta del Padre Eterno o di Santa Maria della Grotta a Otranto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69 Stefano Calò, Domenico Caragnano 3.
COMMERCI, PRODUZIONI, INDICATORI ARCHEOLOGICI COMMERCE, PRODUCTION, ARCHAEOLOGICAL MARKERS
doi 10.36153/apm26004
Pipe in terracotta dal frantoio ipogeo di Caprarica di Lecce: dalle evidenze archeologiche ai nuovi tipi . . . . . . . . . 81 Eda Kulja doi 10.36153/apm26005
4.
CONFLICT ARCHAEOLOGY
Pantanella airfield. Storia e archeologia di una base aerea americana della Seconda guerra mondiale in Italia meridionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 Giuliano De Felice, Maria Nunzia Labarbuta doi 10.36153/apm26006
5.
ARCHEOLOGIA POSTMEDIEVALE IN ITALIA – Schede POST-MEDIEVAL ARCHAEOLOGY IN ITALY – Excavation reports a cura di Marco Milanese e Giuseppe Clemente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115
doi 10.36153/apm26007
6.
RECENSIONI REVIEWS
Marco Balbi, Santo De Dorigo, Il Fronte scritto. Per un’epigrafia della Grande Guerra (Luigi Magnini) . . . . 201 Massimo Capulli, Archeologia in contesto subacqueo. Ambienti di ricerca e metodi (Stefano Medas) . . . . . . . 202
Editoriale
L’archeologia postmedievale italiana, intesa nella sua accezione di archeologia post1500 fino al presente – una visione consolidata in questa rivista da oltre un quarto di secolo – sta recentemente suscitando un crescente e inatteso interesse di parte della comunità accademica archeologica nazionale. Un mondo, quello accademico italiano, che – a parte qualche nota eccezione – è sempre stato poco interessato o totalmente sordo al riconoscimento e alla legittimazione di uno “spazio esteso” di progettazione della ricerca archeologica ben oltre la fine del Medioevo, fino ai giorni nostri. Un risveglio, quello attuale, il cui segnale è marcato da diversi indicatori, quali lo stesso tema del dossier del numero precedente (25 – 2021) di questa Rivista, dedicato all’archeologia del presente e della piena contemporaneità e ancora l’importante consolidamento, nell’offerta formativa dei Corsi universitari italiani, dell’archeologia postmedievale il cui insegnamento si sta progressivamente affacciando in un numero crescente di Atenei. Un insegnamento specifico curriculare con la titolatura di “Archeologia Postmedievale” è oggi impartito almeno in sei Atenei, nelle Università di Sassari, Venezia, Genova, Cagliari, Siena e Molise, a Bari con differente intestazione (Archeologia Moderna e Contemporanea) e, in previsione (A.A. 2023/2024) a Pisa. Dai programmi dei Corsi di Archeologia Medievale si evince inoltre in alcuni casi, la presenza anche di elementi e approfondimenti riguardanti l’Archeologia Postmedievale. Il mondo accademico ha i suoi tempi – in genere lunghi – per accettare l’innovazione, le sue diffidenze, i suoi assetti tradizionali, gli steccati disciplinari da difendere e le novità stentano soprattutto a entrare in quel luogo strategico che è dato dalla Formazione, al di là di poche sedi nazionali che funzionano da apripista. Questo è lo “scenario bipolare”, già chiaro dagli anni Novanta, dell’Archeologia Postmedievale italiana negli ultimi 25 anni. Una disciplina portata avanti da un lato con intensità nel mondo reale dell’archeologia, rappresentato dall’ “archeologia grigia” (grigia come la sua letteratura e produzione scientifica), il mondo dell’archeologia preventiva, della tutela, della libera professione, logicamente tra luci e ombre; dall’altro una presenza quasi impalpabile della disciplina nelle Università, soprattutto nel contesto dell’offerta formativa (la didattica), per non parlare dell’attività di ricerca sul campo, dove le presenze postmedievali, pur non facendo parte del cuore del progetto, vengono spesso documentate quasi per dovere di metodologia, ma talvolta solo sommariamente interpretate. L’attuale, sia pur modesto, picco di attenzione che l’archeologia postmedievale italiana sta riscuotendo in ambito universitario almeno da parte di alcuni Atenei nazionali, si colloca dunque ancora in uno scenario di forte scollamento dell’accademia italiana dalla realtà di un’archeologia postmedievale che è invece importante protagonista nell’attività preventiva nazionale, con indagini di rilevante impatto per la storia rurale o di quella urbana, come si può verificare agevolmente nella stessa sezione “Archeologia Postmedievale in Italia”, pubblicata anche in questo stesso numero della Rivista. In questo quadro e in apparente coerenza con tali segnali, nel secondo semestre del 2022, nel riformulare la declaratoria del Settore Scientifico Disciplinare “Archeologia Cristiana e Medievale” (L-Ant/08), la Consulta Universitaria per le Archeo7
logie Postclassiche ha votato per l’inserimento dell’Archeologia Postmedievale nella declaratoria stessa, preferendo a larga maggioranza la definizione di Archeologia Postmedievale a quella di Archeologia Moderna e Contemporanea. Tuttavia, con un’oscura operazione accademica, la Federazione delle Consulte Universitarie di Archeologia (l’organo che rappresenta i docenti universitari italiani di tutte le archeologie e che è l’interlocutore del CUN, il Consiglio Universitario Nazionale, che aveva richiesto l’aggiornamento delle declaratorie) non ha tenuto in considerazione il parere espresso dall’organo scientifico competente, ovvero la Consulta Universitaria per le Archeologie Postclassiche e pertanto in declaratoria è stata inserita non la definizione votata di archeologia postmedievale, ma quella di archeologia moderna e contemporanea. Se nulla cambia nella sostanza e l’archeologia postmedievale italiana continuerà a rapportarsi al suo ampio partenariato europeo, questo episodio appare paradigmatico di una Federazione oligarchica, che prevarica l’opinione della comunità scientifica, con un’arroganza pari solo al suo scarso interesse per la sostanza delle cose e all’attenzione invece a etichettare diversamente ambiti disciplinari come innovativi, quando innovativi essi non sono in alcun modo, mentre sono da decenni parte integrante e attiva di un vivace processo teorico e di ricerca, evidentemente sconosciuto in quella sede.
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Il volume si apre con il bel saggio di Fabrizio Sommaini, dedicato alla deruralizzazione di Roma, dalla Roma dei Papi, “città di monumenti e di orti” nel XVIIXVIII secolo a Roma Capitale del Regno d’Italia. In questa radicale trasformazione del townscape romano avvenne la cancellazione di enormi granai e fienili urbani, sacrificati al rinnovamento della città. In precedenza, il Catasto Pio-Gregoriano (1816-1835) censisce quattrocento di queste infrastrutture, spesso ottenute dalla rifunzionalizzazione di edifici antichi, meno frequentemente realizzate ex novo. Fabrizio Sommaini sottolinea come i grandi fienili e granai urbani di Roma iniziarono a essere demoliti già durante la dominazione francese della città, nella prospettiva della modernizzazione di Roma, un obiettivo ben presente nell’agenda del governo francese, per il quale l’aspetto rurale e pittoresco dei quartieri centrali si scontrava con l’idea di una città come centro del potere. L’articolo di Fabio Lorenzetti verte sul contributo della cartografia storica per lo studio del paesaggio suburbano della città dell’Aquila fino a metà Novecento, alle soglie della più pesante trasformazione urbanistica. La cartografia storica e le fonti scritte forniscono preziose informazioni, anche in rapporto a quelli che sono gli usi attuali delle aree, utili per un’analisi comparata tra fonti di natura differente e per evidenziare la complessità del paesaggio suburbano aquilano, tra mulini, monasteri, insediamenti rurali, strade, ponti, cascine, terreni coltivati, vigneti, osterie e laghi artificiali per l’allevamento ittico. Stefano Calò e Domenico Caragnano, nello scenario del territorio di Otranto post distruzioni e saccheggio turco del 1480, discutono vicende di alcuni ambienti ipogei preesistenti, che nel XVI secolo assunsero le funzioni di chiesa di Santa Maria delle Grotte. L’articolo inquadra il caso di studio in una visione ampia e aggiornata del patrimonio insediativo rupestre e sofferma l’attenzione sugli affreschi di soggetto devozionale (con date 1554) e sulla documentazione fotogrammetrica 3D delle evidenze architettoniche. Ancora nel Salento, il saggio di Eda Kulja analizza un interessante nucleo di pipe in terracotta dal frantoio ipogeo del Palazzo Baronale di Caprarica di Lecce, che l’A. inserisce nel quadro di analoghi ritrovamenti pugliesi (Lecce, Nardò, Coriglia8
no d’Otranto, Racale), con particolare riferimento a pipe in corpo ceramico rosso, raffiguranti copricapi militari ispirati alla figura dei granatieri borbonici. Giuliano De Felice presenta una ricerca di Conflict Archaeology della II Guerra Mondiale, dedicata all’aeroporto americano di Pantanella (Canosa di Puglia), una delle trenta basi aeree americane nella Puglia settentrionale, dopo il Settembre 1943. Nonostante l’aeroporto occupasse negli anni 1943-45 una superficie rilevante (20 km²), la successiva riconversione dei terreni a uso agricolo enfatizza il ruolo della fotointerpretazione aerea nell’identificazione delle piste, degli accampamenti delle tende dei militari e di qualche edificio. Alcuni dei cinquantatré edifici dell’aeroporto sono stati riutilizzati per scopi agricoli, dopo l’abbandono dell’aeroporto nel Maggio del 1945. Il saggio investe infine i temi della memoria dei luoghi, vivissima nei reduci sopravvissuti e opaca nell’attuale consapevolezza del territorio. Segue la sezione “Archeologia Postmedievale in Italia”, con schede di ricerche distribuite su 11 regioni (Piemonte, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Campania, Basilicata, Calabria e Sardegna) e 22 Province. Piemonte, Toscana, Lazio e Sardegna sono le regioni con il maggior numero di segnalazioni, mentre altre pur con un’intensa e consolidata attività istituzionale di tutela archeologica preventiva o di ricerca (Lombardia, Emilia-Romagna, Abruzzo, Puglia, Sicilia) non hanno fatto pervenire contributi, che andranno evidentemente sollecitati in modo più persuasivo. I tematismi che emergono rimandano a indagini in edifici ecclesiastici in occasione di cantieri di restauro, aree cimiteriali, indagini urbane, fortificazioni, decastellamento, luoghi di detenzione, archeologia della produzione e del consumo, epigrafia e archeologia subacquea. Materiali i cui limiti sono talvolta rappresentati da un solo parziale livello di elaborazione, ma che contribuiscono in modo significativo a implementare i confronti e le prospettive di un’ampia agenda di ricerca dell’archeologia postmedievale italiana. Marco Milanese Sassari, Dicembre 2022
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Breve ricordo di Osvaldo Raggio (Zoagli, 20 gennaio 1951-Velva, 5 maggio 2022) perché di solito lavorano su tracce e residui materiali. Ma c’è ancora un tema che non è mai stato trattato, almeno esplicitamente, né dagli archeologi né dagli storici: il significato giuridico e giurisdizionale delle cose. Le cose, gli oggetti e i monumenti (dai monumenti henge alle cappelle campestri), le recinzioni, i corredi nuziali, i beni nei lasciti e nelle donazioni, incorporano, ridefiniscono e trasmettono diritti, prerogative e/o privilegi; definiscono gli spazi giurisdizionali, sia laici sia ecclesiastici, o gli spazi e le pratiche del rituale e del cerimoniale. Nelle fonti storiche i documenti più noti e più utilizzati sono gli inventari, che elencano e descrivono una serie di oggetti. Ma si può fare una storia sociale di un oggetto nel ciclo di vita di un individuo o di una famiglia, costruendo a partire dall’inventario post mortem una serie documentaria che includa l’acquisto dell’oggetto (lettere e registri contabili), la sua collocazione accanto ad altri oggetti nell’interno domestico, la rappresentazione pittorica, il passaggio di proprietà attraverso il testamento, la divisione dei beni o l’asta pubblica, e i relativi mutamenti di statuto dell’oggetto. In qualche caso gli oggetti sono stati conservati, ma più spesso sono oggetti trascritti o raffigurati. Dal punto di vista metodologico, sono le cose in movimento («things in motion» o «object itineraries») che chiariscono le loro dimensioni sociali. Mettere gli oggetti al centro delle relazioni sociali è dunque un modo per ricostruire i cambiamenti culturali. Le domande che accomunano le ricerche degli storici sono variazioni su un tema centrale: cosa possiamo imparare dalla storia degli oggetti? si può scrivere una storia attraverso la cultura materiale? Una storia dell’età moderna e una storia globale attraverso gli oggetti è anche un ampliamento del materiale di osservazione. Si può adottare l’idea del cubismo analitico di guardare gli oggetti da diversi punti di vista. Oggetti nella storia. Perché la storiografia è importante: tra storia e archeologia, «Quaderni storici», 159 (LIII-3), 2018, pp. 863-878.
Il 5 maggio 2022 è scomparso Osvaldo Raggio, storico sociale che ha contribuito fortemente a esplorare percorsi e potenzialità della micro-analisi storica e che ha a lungo riflettuto sulla relazione tra storia e archeologia, prima attraverso ricerche su temi poi fatti propri dalla ricerca archeologica – le risorse collettive, il possesso, la storia della cultura materiale – e, in anni più recenti, discutendo, dal punto di vista teorico, le possibilità e le condizioni per il dialogo tra quelle che definiva “discipline sorelle” e approfondendo le diverse prospettive con cui storia e archeologia guardano agli oggetti e al passato. Temi, questi, che costituiscono il fondamento delle archeologie storiche e su cui l’archeologia postmedievale fonda il proprio statuto. La redazione di “Archeologia Postmedievale” vuole, così, ricordarlo con due brevi estratti da alcuni lavori specificamente centrati su questi temi, con l’auspicio che possano servire anche come futuri spunti di discussione sulle pagine di questa rivista: La prospettiva che mi interessa è quella costruita sull’idea di un ruolo attivo della cultura materiale. L’idea è soprattutto al centro di alcuni lavori di archeologi e antropologi, ma può essere facilmente adottata (e poi sperimentata) dagli storici senza confini cronologici […]. 2. Gli oggetti sono progettati, disegnati, descritti, costruiti, venduti, desiderati, acquistati, usati, consumati, scambiati, donati, collezionati o tesaurizzati, ritualizzati e sacralizzati, guardati e osservati (piacere estetico), modificati, restaurati, distrutti, e nel loro ciclo di vita hanno la capacità di accumulare e raccontare storie. Tutte queste forme possibili costituiscono la base della costruzione delle realtà sociali e culturali, e definiscono le dipendenze reciproche tra le persone e le cose. Le cose sono instabili, richiedono cure, e nelle relazioni sociali cambiano di statuto attraverso forme diverse di appropriazione. Nelle fonti storiche gli oggetti sono descritti (per esempio negli inventari); nelle fonti iconografiche sono raffigurati; nelle collezioni e nei musei sono conservati materialmente, ma in una nuova forma di contestualizzazione. Le tracce e le trasformazioni che gli oggetti incorporano nel loro ciclo di vita tramutano un oggetto, anche gli oggetti prodotti in serie, in un oggetto unico. Per tutte queste ragioni oggetti e cose dovrebbero interessare molto gli storici, senza distinzione di tempo e di spazio. Nei lavori degli storici gli oggetti talvolta sono stati posti sullo sfondo, qualche volta sono stati evocati o elencati, raramente sono stati messi a fuoco […].
The major aim of this essay is to find a common ground for history and archaeology, to examine historical and theoretical questions in a dialogue between the present and the past, and to explore unifying themes that cut across chronology and address historical narratives. Both archaeological and historical evidence (material remains, visual art, and written sources, texts and artefacts) are the traces of social actions and practices. The dialogue is based on the idea history and archaeology are parts of the same intellectual enterprise, concerning the dynamics and evolution of societies and human behaviour. Introduction to the Debate on History and Archaeology, «Quaderni storici», 151 (LI-1), 2016, p. 264.
4. Gli archeologi costruiscono modelli teorici e procedure di investigazione sulla cultura materiale e gli oggetti
The dialogue between anthropology and archaeology is based on the clear fact that since Morgan, archaeology 11
Breve ricordo di Osvaldo Raggio (Zoagli, 20 gennaio 1951-Velva, 5 maggio 2022) has made acquired and learned its sociological concepts from ethnography and anthropology. Alain Testart has indicated the reasons for the invisibility of the practice and social structures in the archaeological record, that are only material objects. However, even on this point Testart distinguishes too sharply archaeological, ethnographic, and historical sources, perceived entirely as written sources.
history, is that of material culture, or material traces – in other words the ways in which different social groups shaped things, objects, utensils, buildings, machines, plants and animals, and landscapes – in the reciprocal interaction with different environments; or, how the familiar world around us came to be. On the Condition of Dialogue between Sister Disciplines. Forthy-four years after Marshall Sahlin’s Stone Age Economics, «Quaderni storici», 151 (LI-1), 2016, pp. 266-247.
Archaeology and history are concerned with questions about the past. Perhaps the central theme that should interest historians of any period very much, and could encourage a denser dialogue between archaeology and
Anna Maria Stagno
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1. ARCHEOLOGIA DEI PAESAGGI LANDSCAPE ARCHAEOLOGY
Granai e fienili di Roma moderna. Struttura, topografia e vicissitudini dalla Roma dei papi a Roma capitale tra storia dell’archeologia e urbanizzazione (XIX secolo) Fabrizio Sommaini* * Brandenburgische Technische Universität Cottbus-Senftenberg – Humboldt Universität zu Berlin ([email protected]; [email protected]).
Riassunto Granai e fienili sono stati a lungo un elemento caratterizzante del paesaggio di Roma moderna. Questo contributo riflette sulla distribuzione di questi “fabbricati agricoli” ricostruendo la loro incidenza nel panorama della città ottocentesca. Lo studio di queste architetture funzionali risulta spesso ostico per la penuria di fonti materiali e di informazioni storiche a riguardo. Quando possibile, granai e fienili vengono censiti, analizzati nella loro struttura architettonica e nel loro contesto. Le vicende di questi edifici vengono così ricostruite attraverso gli anni della dominazione francese, della Restaurazione e nella Roma capitale del Regno d’Italia. In maggioranza, questi magazzini vennero smantellati per effettuare i grandi scavi archeologici e per rinnovare i vecchi Rioni. Poi in una Roma in continua e difficoltosa crescita, si valutò che fosse sconveniente sacrificare quell’ingente patrimonio edilizio che fu così presto ristrutturato e riconvertito in moderne palazzine o in edifici pubblici ancora oggi parte della città contemporanea. Parole chiave: Granai, Fienili, Architettura rustica, Roma ottocentesca, scavi archeologici, Foro Romano.
Abstract Granaries and Barns in Modern Rome. Structure, topography and vicissitudes from Papal Rome to Rome, Capital of Italy in the history of Archeology and Urbanization (19th century). Granaries and barns were a typical element of Early Modern Rome. This paper reflects on the distribution of these “rustic architectures” in the urban landscape of 19th century Rome. Although there is a lack of material evidence and historical information, they can be identified and the architectural structures can be analyzed in context. In this paper, the vicissitudes of these buildings are described during French domination, the papal Restauration and the period when Rome became capital of the kingdom of Italy. At first, the warehouses were dismantled for archaeological excavations, for the reclamation of the old Rioni or to build the new ones. Then, while the population of Rome increased, these kinds of buildings were revalued, and the old constructions were restored and turned into new apartment and public buildings which are still part of the contemporary city. Keywords: granaries, barns, rustic architecture, 19th century Rome, archaeological excavations, Roman Forum.
vando piuttosto autentiche immagini campagnole4. Ancora nella Roma di primo Ottocento, uno degli elementi più comuni era la presenza delle tradizionali strutture rustiche come granai e fienili. Questi edifici ben si inserivano nel paesaggio a metà tra città e campagna della vecchia Roma. Poi, nel corso del XIX secolo, l’ambizione a costituire una città nuova e l’avvento della modernità ridimensionarono l’uso e il significato di questi fabbricati che, non più necessari, divennero anzi l’immagine di una città passatista e rurale. Dalla Roma napoleonica alla capitale d’Italia, la città visse stravolgimenti storici e trasformazioni urbanistiche nettissime e uniche. Per la città di Roma sembrò prioritario distruggere questi magazzini per “liberare” il centro monumentale e cancellare l’atmosfera da città di campagna. Tuttavia, ad un certo punto, fu chiaro
Introduzione Agli occhi dei viaggiatori di XVIII e XIX secolo, Roma era «città di monumenti e d’orti»1 (fig. 1). Attirati dalla fama millenaria della città eterna, vi scoprivano una città rurale e di provincia, che non garantiva alcun tipo di comfort per il turista2. La città moderna era piccola, se commisurata alle numerose tracce della Roma antica che si estendevano ben oltre la fine dell’abitato (circa 400 ettari erano urbanizzati su un totale di 1470 inclusi nelle Mura Aureliane)3. I viaggiatori raggiungevano questi luoghi per ammirare i famosi monumenti, tro1 Negro 1966, p. 44. Tra gli illustri visitatori si ricordano: Charles de Brosses (a Roma tra il 1739-40), Johann Wolfgang Goethe (1786-88), Charles Dickens (1845-46), Ferdinand Gregorovius (1852-74). 2 In Insolera 1962, p. 15 è riportata la descrizione della città di Roma contenuta nella settecentesca Encyclopédie francese: «sei volte in meno popolata di Parigi (…) non ha marina, manifatture, né traffici (…) la maggior parte delle abitazioni private è miserabile (…) le strade sudice e strette (…) si dia pure un cerchio di dodici miglia alle sue mura; questo cerchio è riempito da terre incolte, da campi e da orti». 3 Sanfilippo 1992, p. 18.
4 Lo scrittore e avvocato americano George Stillman Hillard (1808-1879) deplorava lo stato del Foro Romano «trasformato in un mercato di bestiame» (Negro 1966, p. 66 e 400). Al contrario, lo scrittore e giornalista Edmond About si meravigliava con entusiasmo delle atmosfere e degli odori tipici della campagna nella zona che circonda la Bocca della Verità (About 1861, p. 108).
15 Archeologia Postmedievale 26, 2022, pp. 15-36 doi 10.36153/apm26001
Fabrizio Sommaini
fig. 1 – Carta di distribuzione di granai e fienili (base: G.B. Nolli, Nuova pianta di Roma, 1748). Elaborazione di Fabrizio Sommaini.
come questo cospicuo patrimonio edilizio servisse a una città in continua e disordinata crescita prestandosi a ristrutturazioni abitative e ad altri riusi.
pontificie, via terra o via fiume seguendo secolari rotte di approvvigionamento7. Il raccolto del grano era di fondamentale importanza, dalla sua buona riuscita dipendeva il benessere della vita in città. Nello stesso modo si rifornivano infatti i forni, i mercati cittadini e si alimentava la fitta rete di istituzioni assistenziali ecclesiastiche. A Roma, la carità sosteneva una percentuale considerevole della popolazione, gli ultimi del terzo stato: poveri, vagabondi, cittadini romani ma anche pellegrini8. Ma, il mercato del grano di Roma moderna si reggeva su un equilibrio precario, non disponendo né di una campagna molto produttiva né di infrastrutture molto efficienti9. Il fieno era un’altra risorsa essenziale, che veniva impiegata per nutrire gli animali da soma, o quelli
1. Roma papale: distribuzione e tipologie di granai e fienili Ai tempi dell’Ancien Régime il grano costituiva la risorsa alimentare primaria. A partire dal XVI secolo, il sistema annonario di Roma era sempre di più prerogativa esclusiva del governo pontificio e operava attraverso la Prefettura dell’Annona, controllando il sistema di produzione, gestendo i trasporti dei carri fino allo stoccaggio nei magazzini5. Poi, a partire dal 1800, con il motu proprio per la liberalizzazione del commercio granario di Pio VII, le strutture annonarie vennero riviste, ridimensionate a favore dell’impresa privata6. Per molti secoli, il grano in città affluiva dalle campagne circostanti e dalle province annonarie
Strangio 2000, p. 593. Formica 2019, pp. 95-96. Sui sistemi assistenziali dello stato pontificio, da un punto di vista sanitario e annonario si veda Vidotto 1997, pp. 13-17. 9 A confronto, una città come Londra in età moderna, protagonista di uno sviluppo economico più prorompente, aveva trainato la crescita della produzione agricola nelle aree circostanti (Strangio 2010, p. 127). 7 8
5 Da Gai 2007, p. 547. Sull’Annona frumentaria papale, si veda: Strangio 2000, pp. 589-613; Saltini 2002, pp. 117-142. 6 Da Gai 2014, p. 329.
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Granai e fienili di Roma moderna
fig. 2 – Aree maggiormente occupate da strutture di stoccaggio, fienili (in rosso) e granai (in giallo): area vaticana (in alto a destra), area a ovest di Piazza del Popolo (in alto a sinistra); area compresa tra Velabro e Campo Vaccino (in basso a sinistra); area di Termini (in basso a destra) (base: G.B. Falda, Roma, 1667). Elaborazione di Fabrizio Sommaini.
necessari a qualunque uso agricolo, presenti nel suburbio cittadino e persino nel centro città. Le derrate che dalla campagna viaggiavano verso il centro cittadino dovevano essere depositate nei magazzini, granai e fienili che spesso sono menzionati nelle fonti documentarie e letterarie di Roma moderna, ma che raramente sono state al centro di una ricerca storica. Eppure, una fonte importante come quella del Catasto Pio-Gregoriano di Roma (1816-35)10 censisce circa 400 magazzini di
fieno e grano11. A questi si aggiungono pochi altri edifici simili testimoniati da diverse fonti scritte. L’organizzazione in una pianta di tutti questi granai o fienili, pur non costituendo il censimento esatto di queste strutture, rivela la loro pervasività nel tessuto urbano (fig. 1). I magazzini si addensavano attorno all’abitato centrale mentre scarseggiavano sia nella zona più urbanizzata che nel vasto “disabitato”. La maggior parte si concentrava in quattro aree: attorno al complesso delle Terme di Diocleziano, per i magazzini camerali; tra Campo Vaccino e Velabro, poi a Borgo subito a nord-est della Basilica vaticana e ancora a Piazza del Popolo entro Porta Flaminia, per i magazzini privati o quelli gestiti dagli enti ecclesiastici (fig. 2). Queste concentrazioni, a ridosso delle aree più urbanizzate
10 Ispirato dal Catasto napoleonico, il progetto del Catasto Urbano di tutto lo Stato Pontificio fu inaugurato da papa Pio VII nel 1816 e attivato da Gregorio XVI nel 1835, tramite l’istituto della Presidenza generale del Censo. Comprende tre serie correlate: le mappe (1:2000), le mappette a scala ridotta (1:4000 o 1:8000), i registri dei proprietari (brogliardi) (http:// www.imago.archiviodistatoroma.beniculturali.it/Gregoriano/ gregoriano_intro.html, 27.05.2021 data di ultimo accesso). Le cartografie del Catasto (scala 1:2000), dopo la planimetria del Nolli (scala 1:3600), sono per cronologia, per accuratezza e capacità descrittiva l’altro validissimo strumento cartografico (Insolera 1980, p. 350).
11 Il documento riporta che i 2/3 di questi edifici erano adibiti a fienili mentre la restante parte è costituita da granai. Anche se fonti coeve comunicano informazioni diverse sulla funzione di alcuni edifici.
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Fabrizio Sommaini
costruzione di depositi annonari perché, essendo collocata sulla cima del colle Viminale, era un’area ventilata e al sicuro dalle inondazioni. Così, ciò che rimaneva di tre aule termali antiche fu trasformato dall’architetto Martino Longhi il Vecchio in un grande deposito: il Granaio Gregoriano (figg. 3, 4)16. Si sommarono presto i contigui Granaio Paolino (Paolo V, 1609) e poi il Granaio Urbano (Urbano VIII, 1639), infine dall’altro lato della piazza sorse l’ultimo magazzino, il Granaio Clementino (Clemente XI, 1704), progettato da Carlo Fontana17. I granai papali erano edifici rustici ma al contempo strutture architettoniche complesse, progettate da validi architetti con criteri funzionali e anche di rappresentanza 18. A partire dal Granaio Gregoriano, i quattro edifici definirono una tipologia architettonica specifica e rispondente alla triplice esigenza: a) dello stoccaggio, b) della conservazione e c) del movimento dei grani. Le mura dei fabbricati dovevano essere particolarmente robuste, poiché un granaio a pieno regime doveva resistere alla considerevole spinta laterale dei materiali stoccati (a)19. La pianta di questi edifici è lunga e stretta20, e composta da grandi ambienti, facilitando la circolazione dell’aria. Allo stesso fine contribuivano le grandi finestre con grate ferrate e prive di vetri, il cui perimetro strombato sia all’interno che all’esterno aumentava l’areazione e anche la luminosità delle sale21. Il pianterreno è rialzato per motivi di coibentazione (b). La scala di accesso
(e a volte a infrastrutture come le porte della città e il porto) erano il naturale punto di arrivo e di scarico per le carovane del grano e del fieno provenienti dalle campagne.
1.1 I “Granaroni” papali di Termini Infrastrutture per la conservazione in città delle derrate e il loro immagazzinamento a medio e lungo termine sono un elemento comune a tutte le società urbane complesse (a partire dalla Roma Antica e dall’Impero cinese). In tutte le monarchie di Antico Regime, con la crescita delle città e della domanda di grano (in assoluto il prodotto di più largo consumo), furono compiuti investimenti per realizzare grandi magazzini per le scorte, gestiti dalle istituzioni pubbliche annonarie. Così le autorità normavano e seguivano il percorso delle derrate dalla semina, al trasporto, fino allo stoccaggio e ne fissavano il prezzo alla vendita, per assicurare i rifornimenti alle città12. Non si trattava meramente di risorse alimentari, dalle scorte dipendeva l’ordine pubblico di cui l’autorità costituita si faceva garante13. Nello Stato Pontificio l’Annona frumentaria era preposta alla gestione di tutto il settore dell’approvvigionamento dalle campagne alle città secondo un sistema di controllo che si era costituito alla fine del Medioevo e si era mantenuto sostanzialmente inalterato14. Dal 1575, molte delle derrate cittadine erano condotte al polo annonario di Termini, costituito a partire da Gregorio XIII (1572-85) alle Terme di Diocleziano (figg. 1, 2). Il presidente dell’Annona, un ecclesiastico nominato dalla Camera Apostolica, era incaricato del rifornimento di granai pubblici di Roma e del resto dello Stato Pontificio, guidando la gerarchia dell’istituzione annonaria15. La zona di Termini era un luogo che si prestava più di altri alla
16 L’immagine del nuovo complesso funzionale edificato al di sopra delle rovine delle terme pubbliche antiche dovette colpire i contemporanei. È noto un carteggio a tema letterario tra il poeta campano Camillo Pellegrino (1527-1603) e l’umanista fiorentino Leonardo Salviati (1539-89), inerente la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Pellegrino sostiene l’originalità della prima e più antica opera accusando la seconda di esserne poco più di un plagio, una derivazione imperfetta «murata in sul vecchio, o più tosto rabberciata, non altramente, che quei granai, i quali in Roma sopra le reliquie delle superbissime Terme di Diocliziano si veggiono a questi giorni» (Confalonieri 2019, p. 73). 17 Si deve a Enrico Da Gai lo studio di questi grandi complessi annonari. Si vedano i suoi titoli menzionati in questo contributo. 18 Da Gai 2014b, pp. 121-122; Da Gai 2007, pp. 548-555. 19 Si vedano le considerazioni in proposito alle strutture dei granai nel mondo antico in Rickman 1971, pp. 1-4. 20 «sono di una lunghezza straordinaria (…) non sono certo meno lunghi della Galleria del Louvre» (Connors, Rice 1991, p. 131). 21 Il Granaio Gregoriano ha grandi finestre 3,60 m di altezza e 2 m di larghezza. Di contro: «gli uccelli e i passeri di tutta Italia sembrano essersi dati appuntamento per venire a cercarvi a spese della gente il cibo per sopravvivere; e tutto ciò perché non si è avuta l’accortezza di rendere efficienti grate e protezioni» (Connors, Rice 1991, p. 131).
12 Così a Roma, Napoli, Milano, Venezia e Verona, poi ancora in Europa a Parigi e a Madrid (Tilly 1984, p. 242). Diverso il caso della città dii Londra che di grano era maggiore produttrice (Strangio 2010, p. 129). Per i magazzini pubblici annonari nelle principali città europee, si veda Collet 2010, pp. 236-238. 13 Bevilacqua 2010, p. 104. 14 Da Gai 2007, p. 547. Per un ampio discorso sulla politica annonaria nell’Italia centro-settentrionale dal tardo Medioevo all’Antico Regime, si veda Corritore 2012, pp. 11-29. 15 «Dirige un tribunale con giudici, guardie e il loro bargello (…), il Tesoriere Generale (…) i misuratori di grano (…) incaricati di pesare tutti i cereali portati al mercato. Il grano può. essere venduto solo nella piazza chiamata Campo dei Fiori oppure in questi granai che devono essere pieni prima che i privati vi si possano approvvigionare» si legge nella cosiddetta Guida Avery (1677-81), scritta da un viaggiatore francese a Roma (Connors, Rice 1991, p. 131).
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fig. 3 – I granai papali di Termini. Disegno ed elaborazione di Fabrizio Sommaini.
Oltre allo scopo preposto, i quattro edifici avevano anche una funzione di rappresentanza, dimostrata dalla monumentalità delle architetture e soprattutto dalla decorazione dei portali, dotati di ornamento scultoreo e di iscrizione dedicatoria. A questo fine concorreva anche un altro aspetto: i magazzini sorgevano sui ruderi architettonici delle Terme di Diocleziano23. Il dato ha rilevanza sia da un punto di vista costruttivo sia anche come significato politico e ideologico, perché metteva in diretta relazione e in continuità la cura annonaria dei papi con la tradizione romana antica simbolo di buon governo per antonomasia24.
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23 «È stato Urbano VIII a terminare i granai cominciati da Paolo III. Guardando dunque il vasto spazio occupato dai religiosi di S. Bernardo (di cui parleremo più avanti), dai Certosini, dai prodigiosi granai e da questi grandi spazi vuoti, non bisogna stupirsi che ci fossero anticamente in queste terme tanti appartamenti; infatti oltre a quelli che servivano all’alloggio necessario per un imperatore, c’era anche tu tto ci. che poteva contribuire all’esercizio e ai piaceri del corpo e della mente, come luoghi per la corsa, maneggi, sale per l ’esercizio, una biblioteca di libri infinita, luoghi per assemblee, bagni, stufe, voliere, pescherie ecc.» (Connors, Rice 1991, p. 132). 24 Con umorismo satirico l’economista Ferdinando Galiani (1728-87), in Dialoghi sul commercio dei grani (1770), metteva alla berlina il ruolo dei pontefici come amministratori e sovrani in presunta continuità con i tempi degli imperatori. «Ci sono a Roma vasti e immensi magazzini destinati al grano, e regolamenti ancora più vasti e più immensi dei granai (…) tutto ciò si chiama l’Annona (…). I granai e i regolamenti sono press’a poco gli stessi che si fecero ai tempi di Cesare, d’Augusto e di Tito. Questi signori a Roma non ci sono più, ma al loro posto ci sono dei Clementi, degli Innocenzi e dei Bonifaci, che non hanno altra somiglianza, che io sappia, con gli imperatori, che l’avversione irriducibile a portare una parrucca». La politica frumentaria pontificia era stata spesso oggetto di critiche negli ambienti intellettuali del secondo Settecento (Saltini 2002, pp. 117-118).
fig. 4 – Due grandi complessi annonari: il Granaio di Santo Spirito in Trastevere (a) e il Granaio Gregoriano a Termini (b).
principale ai granai e tutte le scalinate interne erano del tipo a “cordonata”, a lieve pendenza e lunga pedata, adatte al movimento sia degli scaricatori che delle bestie da soma (c)22. 22
Da Gai 2008, pp. 599-604.
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1.2 Granai e fienili di proprietà privata o di enti religiosi
Per i fabbricati rustici, si è distinto come elemento tipologizzante il grado di reimpiego di strutture antiche all’interno della costruzione moderna. La ragion d’essere di questa classificazione sussiste perché il riuso architettonico è una caratteristica sempre peculiare del costruire a Roma, per via certamente all’abbondanza di materiale disponibile (sebbene con finalità diverse, anche i granai pubblici di Termini nascevano su rovine antiche). In più, in un contesto unico come quello della Roma ottocentesca, che si apprestava a vivere la stagione dei grandi scavi e un processo intensissimo di urbanizzazione (soprattutto dopo il 1870), il destino dei magazzini è spesso dipeso dalla loro insistenza o meno su un sito di interesse archeologico. Dunque, è possibile riconoscere: 1. Edifici che non riutilizzano strutture preesistenti. 2. Edifici che reimpiegano intere porzioni di costruzioni più antiche. 3. Architetture antiche o medievali interamente riconvertite all’esclusiva conservazione del fieno, prive delle caratteristiche architettoniche sopra descritte e legate alla disponibilità di un patrimonio archeologico diffuso oltre che alla constatazione delle buone proprietà di coibentazione degli edifici antichi. Sin dagli inizi del XIX secolo molti magazzini di tipo 2 venivano demoliti per condurre le grandi campagne di scavo archeologico. Nei decenni successivi, invece, gli edifici di tipo 1 furono riconvertiti soprattutto ad abitazioni per riqualificare i i quartieri e per far fronte alla continua emergenza abitativa. I fienili di tipo 3, infine, furono smantellati per restituire le antichità al patrimonio monumentale cittadino.
Nonostante i tentativi di accentramento della politica annonaria, nelle società di Antico Regime la gestione delle risorse avveniva in compartecipazione con gli ordini religiosi ed anche, più forzatamente, con imprenditori privati25. Storicamente, prima dell’intervento pubblico, erano stati loro a gestire il mercato del grano, proprietari dei terreni agricoli nelle campagne e dei siti di stoccaggio nelle città26. Nella capitale dello Stato pontificio, più che nelle altre capitali europee, secoli dopo la costituzione dell’Annona, questo ufficio si rivolgeva ancora alle medie o grandi famiglie, agli enti religiosi o alle singole chiese per l’affitto dei locali, l’appalto e l’affidamento di servizi27. Le abitazioni normalmente non disponevano di dispense e depositi; perciò, la diffusione capillare dei magazzini in città era necessaria. Questi magazzini erano molti diversi dai monumentali edifici papali e difficilmente si ascrivono a un modello architettonico preciso (fig. 5). Non sopravvivono esempi documentabili di strutture simili così com’erano, dunque il loro studio deve procedere servendosi di diversi tipi di fonti, integrando all’analisi degli edifici superstiti ma modificati le fonti iconografiche, documentarie e letterarie. Si trattava il più delle volte di modeste casupole, costruite alla fine del Cinquecento o nel corso del Seicento da architetti e costruttori sconosciuti con materiali deperibili o di spoglio28. Sebbene potessero presentare alcune delle caratteristiche dei depositi camerali (alte finestre, larghe scalinate, pianterreno rialzato, ampi portali etc.) non mostrano tutti quegli elementi specifici alla conservazione. Perciò, non si individua un vero e proprio tipo architettonico del magazzino, né si distingue tipologicamente il granaio dal fienile. Si attestano usi misti e non solo di conservazione, come dimostra la frequente dicitura catastale di “casa a granaro” o “casa con fienile”, la compresenza di stalle e rimesse o la presenza di botteghe presso i magazzini29.
Il Velabro e i suoi dintorni ospitavano la più significativa concentrazione di fienili della città lungo l’asse di San Teodoro (figg. 2, 6, 7, 8). «Tutti i fabbricati che vi si scorgono sono destinati al deposito dei fieni»30 e nei dintorni non mancavano i granai. La proprietà era in mano a enti ecclesiastici come il monastero di Tor de’ Specchi e l’Arciconfraternita della Consolazione o a facoltose famiglie31. Questa era un’area fortemente ruralizzata, come ricordava la toponomastica di quei tempi (Fienili, Foraggi, Frasche, Montecaprino, Campo Vaccino), in realtà inadatta alla conservazione di questi prodotti per-
25 «forzata sussidiarietà tra strutture pubbliche e strutture private» (Corritore 2012, p. 14). 26 Corritore 2012, pp. 11-14. 27 Da Gai 1990, p. 202. Si ipotizza ad esempio che un granaio presso Castel Sant’Angelo fosse sotto il controllo pubblico assieme ad altri due magazzini nel Rione Monti (Stemperini, Bultrini 2013, pp. 146-148). 28 L’uso di materiale di spoglio si desume da alcune osservazioni dirette in: Gori 1867b, p. 120; Lanciani in Nsc 1879, p. 313. 29 È attestato in età moderna l’uso di conservare grano o fieno ai piani superiori del deposito, mentre il pianterreno viene
adibito rispettivamente a rimessa di carri o a stalla (Manacorda 1985, pp. 193-196). 30 Rufini 1847, p. 79. 31 Sui beni dell’Ospedale della Consolazione, si veda Pannuzi 2007, pp. 65-96.
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fig. 5 – Granai e fienili di proprietà privata o di enti ecclesiastici. Disegno ed elaborazione di Fabrizio Sommaini. a
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fig. 6 – L’area attorno alla Bocca della Verità in un acquerello di Ettore Roesler Franz (a). Il fienile presso la Casa dei Crescenzi (b). Jannattoni 2006, pp. 229 e 231.
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fig. 7 – Distribuzione dei fienili (in rosso) e dei granai (in arancio) nella zona tra del Velabro, del Campo Vaccino e nei dintorni nella prima metà del XIX secolo (base: catasto Pio-Gregoriano). Disegno ed elaborazione di Fabrizio Sommaini.
ché umida e soggetta a inondazioni32. L’architetto Francesco Gasperoni nel 1860 lamentava il carattere trasandato di questa zona, dove i fienili al pianterreno delle abitazioni erano soliti allagarsi33. Tuttavia, per la posizione al confine tra abitato e disabitato, alla fine della via Appia e vicino al fiume, il rione Campitelli e il rione Ripa rimanevano il luogo naturale per il deposito dei rifornimenti34.
Sulla strada di San Teodoro, allora nota come via dei Fienili, si trovava il cosiddetto magazzino presso San Giorgio al Velabro (tipo 1) (figg. 2, 5, 7), utilizzato come deposito di grano o di fieno e limitrofo a una casa della famiglia Fioravanti che era proprietaria di entrambi gli immobili. L’edificio presentava un portale principale, il pianterreno rialzato e scalinate per tre livelli. Più a nord, tra via delle Grazie e piazza de’ Fenili35, al confine col Campo Vaccino, sorgeva
Insolera 1962, p. 40. Negro 1966, p. 59. 34 Le prime notizie di costruzioni private nel quartiere campagnolo del Velabro e dei suoi dintorni sono proprio fienili e granai costruiti nel XVI e XVII secolo (Cressedi 1984, p. 254). Nel Theatrum Romanae Urbis di Giovanni Antonio Bruzio (1614-77) 32
si testimoniava nella prima metà del Seicento la presenza dei granai della famiglia Maffei sul tracciato dell’antico vicus Iugarius, vicino all’Ospedale della Consolazione (Pietrangeli 1975, p. 106). 35 Il toponimo Piazza de’ Fenili si legge nella planimetria di G. Montiroli, Foro Romano. Pianta, 1859 (Rodolfo Lan-
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fig. 8 – Foto d’epoca, strutture agricole tra Sant’Anastasia (a sinistra) e via di Sant Teodoro (a destra).
una volta l’agglomerato dei quattro magazzini a più piani vicino a Santa Maria Liberatrice (tipo 2) costruito sulle rovine del Complesso di Domiziano (figg. 2, 5, 7, 9, 10). Le fonti ottocentesche riportano per ciascuna di queste casupole l’uso misto di fienile e granaio, o anche stalla, casa e bottega, il cui stato proprietario in continuo cambiamento restituisce l’affresco di un mercato attivo per questo genere di beni immobiliari36. Le strutture furono demolite a
fine Ottocento, ciò non di meno le tracce archeologiche conservate sul palinsesto murario delle grandi mura antiche consentono più che in altri casi la comprensione della scansione di questi magazzini37. superiori). L’edificio 3 era la casupola costruita a nord delle rovine ed era utilizzata al piano terra come stalla del ramo della famiglia Tani (1818), ma negli anni seguenti è segnalata come dei Leonori (1871), mentre ai piani alti vi era un granaio dei Borghese (1818 e 1871). L’edificio 4, infine, era costruito a sud dell’Aula Ovest su un terreno dei Tani-Leonori e fu utilizzato dai Torlonia sia come fienile che come granaio (1818 e 1871) (ASR, Censimento generale per le fabbriche della città di Roma. Rione Campitelli. http://www. cflr.beniculturali.it/Urbano/sfoglia_brogliardi.php?Path=Urbano/ Brogliardi/Revisione/campitelli&r=001.jp2&lar=1680&alt=1050, 07.12.2021 data di ultimo accesso). Nonostante la complessa storia proprietaria, Lanciani nomina il complesso dei magazzini come i granai di Torre de’ Specchi, istituto ecclesiastico che controllava la vicina Santa Maria Liberatrice (NSc 1882, p. 236). 37 L’edificio antico, per il quale si dispone di alcune foto d’archivio precedenti alle demolizioni e agli ultimi restauri (Archivio Fotografico Parco Archeologico del Colosseo: FR-TA 022; FR-TA 023; FR-TA 024), è stato recentemente oggetto di una campagna di rilievo (Sommaini, Di Cola, Albano 2019, pp. 251-272). Per l’isolato annonario moderno, la sua completa ricostruzione tridimensionale è proposta in Sommaini 2022, pp. 219-238.
ciani Archive, Roma XI.4.III.11, http://purl.stanford.edu/ kn318vn1629). 36 Il complesso dei magazzini presso Santa Maria Liberatrice si compone di quattro casupole. L’edificio 1 è il più antico (costruito ala fine del ’500 dal cardinale Giambattista Leni) e nel XIX secolo era utilizzato come granaio e fu prima una proprietà dei Torlonia, poi ceduto ai Borghese (1871), mentre il terreno su cui sorgeva era dei Tani-Leonori. L’edificio 2 si trova di fronte al precedente all’interno delle rovine dell’Aula Ovest di Domiziano e come i restanti edifici fu edificato all’incirca nel secondo decennio del XVII secolo. La terra su cui sorgeva l’edificio 2 era sempre una proprietà dei TaniLeonori (1818), mentre il fabbricato era un fienile dei Torlonia (1818) che fu lasciato nel 1871 ai Tani-Leonori che vi fecero una stalla (pianterreno) e ai Borghese che mantennero il fienile (ai piani
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fig. 9 – I granai addossati al Palatino in due foto storiche della metà del secolo XIX. Una casupola è costruita a ridosso del muro settentrionale dell’Aula Ovest del Complesso di Domiziano e confina con l’abitazione del rettore di Santa Maria Liberatrice (a). Due strutture si appoggiano alle pareti interne dell’Aula Ovest (b).
magazzino era a tre piani con le tipiche grandi finestre incorniciate e con grata ferrata, il portale era raggiungibile attraverso una lunga rampa a bassa pendenza. Altri depositi che il Catasto censisce come granai si perdevano nei vicoli del quartiere attorno alla Bocca della Verità, tra questi il grande granaio della famiglia Grazioli (tipo 1, figg. 2, 5, 7, 11). Molti fienili stavano tra l’Arco di Giano e Sant’Anastasia assieme al grande isolato dei “Granari” Andosilla (visibili, ad esempio, in una fotografia del 184140). Il fienile presso Sant’Anastasia (tipo 2, figg. 2, 5, 7, 8) era una grande costruzione con tetto a travi lignee, costruita su murature più antiche visibili
Si ricostruiscono fabbricati a tre o quattro piani addossati alle rovine e coperti da tetti a falda digradante. All’esterno, avevano finestre strette ed alte, chiuse magari da grate in ferro, avevano scalinate “a cordonata” per raggiungere il piano sopraelevato, portale in bugnato e marcapiani. All’interno, vi erano ampi locali spesso tramezzati, piccoli stanzini scavati nei muri spessi dell’edificio antico e porte di comunicazione che mettevano in collegamento tra loro alcuni magazzini e permettevano di raggiungere il retrostante orto e agrumeto di Santa Maria Liberatrice38. All’ombra della Basilica di Massenzio sorgevano da molto tempo edifici rustici, tra cui un granaio presso l’abside antica (tipo 2, figg. 8, 12)39. Questo
nell’abside si veda la stampa Basilica di Costantino, veduta da S. Francesca Romana (Rodolfo Lanciani Archive, Roma XI.3.IV.41, http://purl.stanford.edu/ky431sv8775). 40 Becchetti, Pietrangeli 1979, pp. 64-65. Il palazzo dei “Granari” è citato in Lanciani 1990, p. 52. Sul sito sarebbe nato negli anni ’70 il pastificio Pantanella (Cialoni 2011, pp. 55-71).
La presenza di diversi ambienti in uno stesso magazzino suggerisce l’uso di stoccare diversi tipi di prodotti (Manacorda 1985, p. 194). 39 Un magazzino nell’abside della Basilica di Massenzio è attestato sin dal XVI secolo (Salatin 2018, p. 36). Per il granaio 38
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fig. 10 – Disegno ricostruttivo del complesso dei depositi attorno a Santa Maria Liberatrice e costruito sulle rovine del Complesso di Domiziano. Disegno di Maria Vittoria Soracco.
della Casa dei Crescenzi (tipo 3, figg. 5, 6), infatti questa pratica era illegale, ma diffusa e tollerata45. Sul Campidoglio, il “Granarone” della famiglia Caffarelli (tipo 1, figg. 5, 15) dominava il giardino della villa in corrispondenza del clivo di via di Monte Caprino (non è da escludere che la struttura reimpiegasse murature antiche sulla pendice capitolina46). La facciata principale verso valle e il Foro Boario avrebbe avuto due ordini di sei finestre ciascuno, come si vede in una delle rare fonti iconografiche47.
sul prospetto in via dei Cerchi. Questa facciata è scandita da una serie di “grottoni” seminterrati incorniciati da archi di scarico e usati come stalle41. Altri “grottoni” antichi a mo’ di fienili erano quelli sulla pendice palatina verso il Circo Massimo (tipo 3, fig. 7)42, una volta ambienti del Palazzo Imperiale ora «barbaramente affittati ad uso di fienili»43, oppure quelli presso le Terme di Caracalla44. Veniva giudicato scandaloso da molti anche l’uso a fienile 41 Borghi, Iacopi 1986, p. 481. Da qui, nell’Ottocento, si penetrava nei sotterranei della chiesa di Sant’Anastasia per visitarne le preesistenze di età imperiale (Gori 1867, p. 106), ancora raggiungibili da un piccolo cancello sul fianco della chiesa. In uno dei “grottoni” sotto il fienile si trova oggi il ristorante wine bar Zerosettantacinque, nella cui cantina dei vini nel sotterraneo del locale si vedono murature di età imperiale. 42 «colonne, o intiere, o spezzate avanzi di qualche tempio pagano, de’ muri vecchi, che dimostrano la grandezza degli antichi edifizj: de’ gran grottoni, arcate, o volte, e da per tutto rovine, ed avanzi soltanto dell’antica Roma, che servono per la maggior parte se a qualcuno torna comodo, per rimesse di fieno e per ricovero delle bestie» (Vidal 1834, p. 101). 43 Il giudizio è espresso in una Cronaca di Roma di metà Ottocento (Bruni, Roncalli 2011, pp. 143-144). È interessante osservare che il fenomeno fu indagato anche da Lanciani, il quale considerò due documenti del 1514 e del 1515 secolo come l’inizio della “spregevole” pratica di trasformare i resti antichi del Palatino in umili fienili (Lanciani 1894, pp. 6-7). Alcuni fienili vengono identificati anche tra le rovine delle gallerie palatine sulla pendice rivolta verso il Circo Massimo, distrutti poi dall’incendio del 1863 (Visconti, Lanciani 1873, p. 95). 44 Salvagni 2020, p. 47.
In Vaticano, il quartiere di Borgo era un susseguirsi di fienili (figg. 1, 2).48 I fienili erano collocati quasi tutti nella porzione settentrionale a ridosso delle mura. Invece, più a sud fuori Porta Santo Spirito, si trovavano i magazzini del grano più grandi dell’area trasteverina: i Granai dell’Ordine di Santo Spirito, costruiti dall’istituzione caritativa più importante di Roma (fig. 4)49. I Granai di Santo Spirito si 45 Il Commissario alle Antichità Pietro Ercole Visconti (1802-80) approvava l’uso a fienile con stalla della Casa dei Crescenzi (XI-XII secolo) al Foro Boario, perché quell’utilizzo era «meno nocevole alle ruine» rispetto ad altri (ASR, MLLPP, b. 353, fasc. 67 del 3 luglio 1854). Si veda Bilancia, Docci 2015, pp. 248-249; Di Marco 2015, p. 116. 46 Albertoni 2001, p. 352. 47 ASC. Titolario Preunitario, Tut. 54, prot. 12227/1874. 48 Angelucci 2017, p. 37. 49 Betti 2004, pp. 45-65; Cerioni 2016, pp. 155-160.
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fig. 11 – Il granaio costruito nell’abside della Basilica di Massenzio in un particolare dall’incisione di Giovanni Battista Piranesi (a). Il Granaio Grazioli in un disegno da una rivista del tempo, prima o dopo la ristrutturazione di palazzina residenziale (b).
collocano a metà tra i grandi magazzini papali e quelli più modesti, infatti Papa Paolo V (1605-21) ebbe un ruolo attivo nella costruzione di questo edificio che fu progettato dall’architetto Pietro Maderno con forme mastodontiche ed elementi architettonici che ricordano i depositi di Termini. L’edificio era di grandi dimensioni, con due piani superiori (il terzo fu aggiunto successivamente alla fine del XIX secolo) segnalati in facciata da marcapiani e arieggiati da molte finestre incorniciate. L’accesso alla struttura avveniva attraverso tre portali monumentali con arco poligonale e il tradizionale bugnato dove il simbolo dell’Ordine campeggiava sul concio di chiave.
3. Dalla Roma napoleonica a Roma capitale: distruzione e rifunzionalizzazione di granai e fienili 3.1 La dominazione francese Per la prima volta, durante il periodo di dominazione francese 1809-181452, granai e fienili di Roma cominciarono ad essere dismessi in gran numero o a essere demoliti del tutto. Ciò si dovette a diversi ordini di ragioni, in particolare: l’inizio della stagione degli scavi archeologici che coinvolgeva un’area densamente occupata da magazzini; la definizione di una sorta di piano regolatore che trasformasse Roma in una città moderna cancellando le atmosfere rurali giudicate indegne per la “seconda capitale” dell’Impero53; lo smantellamento dell’istituzione annonaria papale54. Il prefetto di Roma, conte Camille de Tournon, aveva costituito la Commission pour la conservation des monuments anciens et modernes de Rome (1809) e la Commissione per gli abbellimenti (1811)55. I neonati istituti si occupavano rispettivamente dei programmi archeologici per un centro storico di rappresentanza e della fornitura di nuovi servizi e
A Porta Flaminia, prima della ricostruzione ottocentesca di Piazza del Popolo, l’area occidentale era occupata ancora una volta da fienili (figg. 1, 2). In alcuni dipinti e disegni della piazza si vedono fabbricati di tre piani. Questi edifici stretti e alti risalvano al 1670-71 – immobili del convento degli Agostiniani di Santa Maria del Popolo – ed erano impiegati per il ricovero dei cavalli al pianterreno e per lo stivaggio del fieno ai piani superiori. La facciata dei magazzini di Piazza del Popolo era decorata con clipei dipinti 50. Altri depositi di fieno erano collocati più ad ovest in direzione del fiume51.
52 Sui diversi aspetti della dominazione francese a Roma si veda la monografia Nardi 1989. 53 La città era in decadenza e in vent’anni di dominazione la popolazione decrebbe del 30% arrivando a 117.000 abitanti circa (Sanfilippo 1993, p. 82). 54 Al contrario, nella capitale Parigi, il governo di Napoleone attuò una politica architettonica di costruzione di infrastrutture come macelli, mercati e granai. In particolare, fu costruito tra il 1807 e il 1817 il vastissimo complesso dei grenier d’abondance (architetto François-Jacques Delannoy) nell’attuale 4° arrondissement (Moullier 2007, pp. 127-128). 55 Sull’argomento si veda Pinon 2001, pp. 140-175.
50 Autore sconosciuto. Ingresso a Roma da Porta del Popolo dell’ambasciatore veneto (SIMART: MR 1443) del 1714. Si veda Antinori 2016, pp. 128-134. 51 Antonio Nibby definiva questo panorama “deforme veduta”, per la presenza dei fienili, che fortunatamente – si dice – erano coperti da alcuni cipressi e presto sarebbero stati abbattuti per realizzare una passeggiata fino al Tevere (Nibby1841, p. 857).
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Granai e fienili di Roma moderna
– Tempio di Vespasiano e Tito, 1810-14 – Colonna di Foca, 1810-14 – Tempio dei Castori, 1810 – Tempio di Antonino e Faustina – area antistante –, 1810-14 – Tempio di Venere e Roma – area antistante –, 1810
infrastrutture per una Roma moderna ispirata alla Parigi imperiale, secondo i disegni di Napoleone imperatore di Francia e re d’Italia56. A trovare applicazione furono prevalentemente i piani sul centro monumentale 57. Alcuni lavori erano già iniziati anni prima quando Antonio Canova aveva ricoperto il ruolo di Ispettore generale delle Belle Arti dal 1802 (poi ancora dopo la fine della dominazione francese)58. Da quell’anno si sterrava attorno all’Arco di Settimio Severo e a quello di Costantino, oltre che al Colosseo con i restauri di Raffaele Stern, Giuseppe Camporese e Giuseppe Valadier 59. Ora lo champ des vaches 60 doveva essere eliminato, per il recupero dell’antico Foro Romano e per la nascita di un giardino pubblico e archeologico alla francese dal nome altisonante di Jardin du Capitole (il modello era quello parigino del Jardin des Tuileries) 61. Dal 1809 una sottocommissione – di cui erano membri ancora una volta Stern, Camporese e Valadier – aprì i lavori al Campo Vaccino reclutando manovalanza tra le file degli indigenti, che in passato erano stati abituati a ricorrere ai servizi assistenziali ecclesiastici e adesso dovevano essere avviati al lavoro 62. Le liberazioni dei monumenti antichi presero le mosse dall’area nord-orientale e proseguirono non sistematicamente su tutta la piazza verso il Colosseo (fig. 12) 63:
Nel corso degli scavi alcuni fabbricati rustici furono acquistati e demoliti dalla direzione, o espropriati se di istituti religiosi (prevalentemente granai di tipo 2)64: due case costruite sul sito del Tempio della Concordia, alcune rimesse e i granai sotto il Tabularium; un granaio addossato alla Colonna di Foca 65 e magazzini presso Santa Francesca Romana 66. Oltre i limiti del Foro Romano, le distruzioni proseguirono verso l’Anfiteatro Flavio, dove fu rimosso un gruppo di edifici sul lato che guarda al Laterano (in origine l’ospedale di San Giacomo al Colosseo) che da 200 anni veniva impiegato come deposito di fieno 67; lo stesso accadde ad altri fienili in via della Consolazione (demolizione terminata nel 1849)68. Non si fece in tempo, invece, ad abbattere «granai, fienili e magazzini (…) aderenti al Monte Palatino e sotto gli orti già Farnesiani»69, e anche gli ambiziosi piani di continuare verso il Foro Boario cessarono con la fine dell’esperienza politica francese a Roma70. Non tutte le demolizioni di magazzini rustici si dovettero ad avventure archeologiche. Faceva pendant ai Giardini del Campidoglio il progetto del Giardino del Grande Cesare, ossia la passeggiata del Pincio, vicino la quale si trovava l’animata Piazza del Popolo. L’area dentro Porta Flaminia e all’inizio del tridente fu modificata su progetto di Giuseppe
56 Formica 2019, p. 173. Sui programmi urbanistici di Napoleone per Roma, si veda: Guidoni 1987, pp. 425-442. 57 Sui programmi archeologici, si veda: Marino 1987, pp. 443-471; Gallo 2012, pp. 53-73; Pupillo 2020, pp. 86-105. Sul commercio delle opere d’arte e le acquisizioni francesi: Pomponi 1996, pp. 77-129. 58 Per le precedenti attività archeologiche negli anni della Repubblica Romana (1798-99), si veda: Racioppi, pp. 331-346. 59 Esposito 2009, p. 94. Su questi e altri architetti attivi a Roma al tempo di Napoleone, si veda: Manfredi 2012, pp. 459-472; Rolfi Ožvald 2012, pp. 431-444. 60 La traduzione francese del toponimo Campo Vaccino è il titolo della litografia a colori realizzata da Louis-Jean Jacottet che riproduce il panorama della piazza del Foro nel 1850. La stessa espressione viene utilizzata nel libro di Antonio Spinosa nel descrivere la visita di Paolina Bonaparte al Foro Romano dopo che i lavori di sterro erano iniziati (Spinosa 2010, p. 239). 61 Si veda a cura di Louis Martin Berthault Progetto per la sistemazione del Giardino del Campidoglio, 1813. Museo di Roma, inv. MR 5857. Per la prima volta il giardino pubblico aperto alla cittadinanza arrivava in città, per i Romani ciò che più si avvicinava a questo concetto erano i parchi delle grandi ville nobiliari (Brice 2009, pp. 49-51). Si veda: Impiglia 2012, pp. 235-252 (sulla nascita dei giardini pubblici romani); Pupillo 2020, pp. 108-131 (sulle ristrutturazioni urbanistiche); Consoli 2012, pp. 95-110; (sull’architettura civile francese in Italia). 62 Brice 2009, pp. 49-50. 63 Si veda Lanciani 2000, pp. 245-251.
64 Lanciani 1878, p. 49. Solo un governo di occupazione avrebbe potuto sostenere questa iniziativa, che prevedeva espropri, acquisizioni a titolo gratuito e un certo uso della forza verso qui proprietari che rifiutavano di cedere la terra. Sull’incameramento dei beni ecclesiastici, si veda: Buonora 1987, pp. 473497. Presso l’Archives nationales France (Parigi) sono conservati cinque dossier a documentazione dei trasferimenti proprietari (Petrillo 2021, pp. 334-335). 65 Lanciani 1878, p. 50. 66 ASR. Buongoverno, serie III, b. 132. Relazione di Giuseppe Valadier del 20 luglio 1811. 67 Capitelli 2006, p. 99. 68 Pannuzi 2007, p. 92. 69 Si veda: De Benedetti 1987, p. 540; Ead. 2019, pp. 2329. Ancora nel XVIII secolo gli scavi erano stati sostanzialmente episodici (1702 presso Santa Maria Liberatrice; 1715, 1773, 1781 presso il Colosseo; 1742 la Cloaca Massima davanti Sant’Adriano). Si veda Lanciani 2000, pp. 17, 23, 105, 134, 179. 70 Iniziarono e conclusero invece le demolizioni al Foro di Traiano, sul Palatino, al Palazzetto Venezia e attorno al Tempio di Portuno (Insolera 1980, pp. 332-334).
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Fabrizio Sommaini
fig. 12 – Scavi al Foro Romano. Sopra: metà XVIII secolo (cfr. base: G.B. Nolli, Nuova pianta di Roma, 1748). Sotto: XIX secolo, prima metà (cfr. Catasto Urbano Pio Gregoriano). Elaborazione: Fabrizio Sommaini.
non proseguirono e coinvolsero alla fine soltanto una parte del Granaio Clementino75.
Valadier, “architetto municipale”, che trasformò la piazza cinquecentesca di forma trapezoidale in una piazza da città moderna (1816-20)71. La nuova Piazza del Popolo era più ampia, di forma ellittica sacrificava gli edifici a magazzino verso il fiume72.
3.2 La Restaurazione L’esperienza politica francese si interruppe bruscamente e Roma tornò sotto il governo papale. All’atmosfera di ritorno al passato, però, andò in controtendenza il modus di amministrare la città e molte delle iniziative francesi trovarono continuità76. Che Roma dovesse farsi moderna era stato deciso e andava rilanciata come capitale dello Stato pontificio e città universale77. Molti degli impegni del governo napoleonico costituirono la base dell’agenda pontificia: da un lato gli scavi archeologici e la liberazione del centro monumentale, dall’altro il risanamento dei quartieri malfamati per la costruzione di una città al passo con i tempi e più grande.
Per quanto riguarda i granai camerali, il complesso annonario di Termini era in fase di dismissione (dopo la liberalizzazione del commercio dei grani di Pio VII, 1800) e fu requisito dall’amministrazione occupante. Alcuni degli spazi furono venduti a privati cittadini e nacquero attività commerciali di vario tipo, tra cui osterie, alberghi, depositi e anche molti fienili73. Sempre a Valadier era stato affidato il compito di individuare le sedi appropriate per il ricovero delle truppe francesi a Roma e si pensò anche a questi grandi granai74. Tuttavia, i lavori
Sanfilippo 1993, pp. 271-272. Si veda a cura di Louis Martin Berthault Progetto per la sistemazione del Giardino del Grande Cesare, 1813. Museo di Roma, inv. MR 5849. 73 Arletti 2014, pp. 332 e 341-342. 74 Antinori 2016, p. 134 e Da Gai 2014b, p. 124. 71
Da Gai 2014b, p. 130. In realtà il pontificato di Gregorio XVI si caratterizzò per il miope conservatorismo e la forte avversione all’introduzione di macchine a vapore o ferrovie (Sanfilippo 1993, p. 84). 77 Brice 2009, p. 105.
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fig. 13 – Scavi al Foro Romano. Sopra: XIX secolo, seconda metà (cfr. Foro Romano, pianta, Biblioteca di archeologia e storia dell’arte, Roma XI.4.III.16, http://purl.stanford.edu/ph071bm7335; F. Dutert, Le Forum Romain et les Forums de Jules Cesar, d’Auguste, de Vespasien, de Nerva et de Trajan: état actuel des découvertes et étude restaurée, Paris 1876, tav. 2). Sotto: XX secolo, prima metà (cfr. Pianta Topografica della Zona archeologica di Roma, scavi G. Boni 1899-1909, http://www.archiviocederna.it/cederna-web/scheda/ foto/IT-SSBA-RM-AS00132-01261/8/Pianta-Topografica-della-zona-Archeologica-di-Roma.html. Elaborazione: Fabrizio Sommaini.
fig. 14 – 1890-1899: (da sinistra a destra) via di San Teodoro fotografata dal Palatino, il Foro Romano fotografato da via della Consolazione, il Foro Romano fotografato da via delle Grazie.
indennizzo a beneficio del vecchio proprietario78. È esemplificativo un documento di quegli anni, il progetto planimetrico per il Foro Romano firmato da Luigi Canina e Angelo Uggeri, Sterramento del Foro Romano e conghietture sull’andamento della
I lavori nel vecchio Campo Vaccino andarono avanti e con gli scavi procedettero anche le demolizioni. L’emanazione dell’Editto Pacca (1820) forniva un ulteriore strumento all’autorità pubblica. Negli articoli 44-46 si vietava “usi vili e indegni” dei monumenti antichi anche per quelli in proprietà private. Ora lo Stato aveva diritto di prelazione su queste antichità e interi edifici potevano essere espropriati, demoliti e scavati, previo
78 Si veda: Esposito 2009, pp. 100-101; Esposito, Pancaldi 2018, pp. 43-44. Sugli strumenti di tutela e le vicende di scavo di quegli anni, si veda: Caperna 2017, pp. 107-127.
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Fabrizio Sommaini
Non soltanto gli scavi ma anche ulteriori provvedimenti contribuirono alla cancellazione dell’atmosfera rurale del centro cittadino. La legislazione pontificia intervenne con il Regolamento di pubblico ornato del 1864 di Pio IX che mirava a trasformare Roma in una città più moderna, contenendo le manifestazioni di vita “contadinesca” e limitando le attività economiche più confacenti alla campagna. Così anche le licenze a granai e fienili urbani furono revocate82. Del resto queste strutture stavano diventando sempre più inutili e obsolete, grazie al progredire del sistema dei trasporti su ferro che accorciava la filiera produttiva agricola (linea Roma-Frascati 1856, stazione Termini 186783). Poi, per incidere più a fondo sulla struttura cittadina ma senza troppi oneri per le casse pubbliche, si scommise sull’imprenditoria privata. Si diede avvio ad una specifica politica urbanistica di rinnovamento del patrimonio immobiliare vecchio e rustico, rendendo effettivo un precedente
intervento: l’editto Somaglia 84. Formulato nel 1826 (sotto Leone XII), deliberato nel 1862 e ratificato nel ’64, l’editto garantiva vantaggi fiscali ai proprietari dei fabbricati malmessi che si facevano carico di trasformarli in dignitose abitazioni da dare in affitto alla popolazione urbana, che era in costante crescita (nel 1846 Roma contava all’incirca 170.000 abitanti e 25 anni dopo 242.844)85. Per questi proprietari si profilavano sostanziosi guadagni: strutture cadenti e magazzini senza più licenza venivano trasformati in palazzine a più piani da mettere a reddito, con pochi vincoli e scarsi limiti sull’aumento della cubatura. In concreto, nel documento Titolo 54 Edifici e ornato, nomenclatura e numerazione civica conservato presso l’Archivio del Comune Pontificio (1848-70) resta traccia di tutte le pratiche sollevate all’attenzione dell’autorità competente. Nei fascicoli si vedono i disegni delle piante e dei prospetti di questi edifici e dei progetti che così venivano proposti: programmi di rialzamento degli edifici, nuove facciate e stile architettonico moderno di ispirazione settentrionale (fig. 14)86. Un’intera sezione riguardava precisamente magazzini come granai e fienili. La politica urbanistica per i quartieri storici era conforme a quella adottata nei nuovi rioni in costruzione, a cui veniva demandato il compito di ospitare la maggioranza della popolazione urbana, sull’Esquilino e vicino alla stazione Termini 87. Tuttavia, il mercato immobiliare non si regolava da sé e si andò incontro a fenomeni quali la speculazione, il caro affitti e la crisi edilizia. Una certa pubblicistica si era impegnata a sostenere la politica urbanistica del governo papale, mentre una parte dell’opinione pubblica la deplorava88. In uno scritto, Della Mendicità in Roma, del 1848 si sosteneva l’opportunità di trasformare vecchi edifici in palazzine residenziali89. Nel giornale letterario Album, 1859, si legge la vicenda architettonica di un grande fabbricato di quattro piani, il citato granaio Grazioli (fig. 11) nel Velabro. L’edificio fu riconvertito in un palazzo residenziale di case
79 ASR, Collezioni disegni e mappe, collezione I, segnatura 127-7/1. 80 Si veda: Lanciani 2000, pp. 251, 330-331 e 375-376; Coarelli 2004, p. 59. Per la storia della tutela del patrimonio artistico e archeologico in quegli anni, si veda: Cattaneo 2019, pp. 283-327. 81 I reali limiti dell’antico Foro furono finalmente compresi attraverso lo scavo del 1849 presso la Basilica Giulia (Uginet 1985, pp. 2-3; Esposito, Pancaldi 2018, pp. 50-51). 82 Regolamento edilizio e di pubblico ornato per la città di Roma (Roma 1864). 83 Negro 1966, p. 52.
84 Editto. Giulio Maria della S. R. C. card. della Somaglia, decano del Sacro collegio, Vescovo di Ostia, e Velletri, 1826. 85 Sanfilippo 1992, p. 25. 86 Archivio del Comune Pontificio (1847-1870) Titolo 54 “Edifici e ornato, nomenclatura e numerazione civica” (1848-1870), http://www.archiviocapitolino.it/files/archivio/titolo_54.pdf. 87 Sanfilippo 1993, p. 86. 88 Sanfilippo 1993, p. 85. 89 I costi dovevano ricadere sui proprietari, definiti «persone ricchissime», che non avrebbero avuto problemi a sostenere la spesa della riconversione (De Giovanni 1848, p. 37).
Via Sacra79. Da una parte, si osserva l’espandersi progressivo dell’area di scavo, dall’altra si nota sulle strutture agricole rappresentate nella pianta la legenda Fabbriche da demolirsi, così come la legge prevedeva. Fu presto inaugurata la campagna dei grandi scavi deliberata dall’“Adunanza della Commissione Generale Consultiva di Belle Arti” (figg. 12, 13)80: – Tempio della Concordia, 1817 – Tabularium, 1825 – Arco di Settimio Severo, 1833-35 – Portico Capitolino, 1835 – Tempio di Venere e Roma e Basilica di Massenzio, 1819 – Basilica Giulia, 1834-184981 – Rostra, Tempio dei Dioscuri, Tempio di Antonino e Faustina, Colonna di Foca, Tempio di Vesta, SS. Cosma e Damiano, 1849. Il vecchio pascolo tra le rovine fu divelto e molti edifici moderni che insistevano sul centro della piazza antica furono eliminati (figg. 13, 14).
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Nel centro monumentale il progetto di costituire la zona monumentale cancellò dal paesaggio le tracce storiche moderne ma salvaguardò molti spazi dalla speculazione edilizia, grazie all’attività di influenza svolta dalla costituita Commissione Archeologica Comunale per la tutela del patrimonio archeologico monumentale97. Dal 1876 gli scavi ripresero a ritmo incessante e il vecchio progetto francese del Jardin du Capitole fu tramutato nella nazionale Passeggiata Archeologica, che avrebbe unificato il Foro Romano, il Palatino, il Velabro, il Circo Massimo fino a tutto il primo miglio della via Appia98. L’area da subito più coinvolta fu quella del Foro e dei suoi dintorni (fig. 13)99: – Basilica di Massenzio e pendici della Velia, anni 70 dell’800 – piazza centrale (tra San Lorenzo in Miranda e Santa Maria Liberatrice), 1882 – vico Jugario, 1883 – Orti Farnesiani e via Nova, 1883-84 – Aula Ovest del Complesso di Domiziano, 188485 – San Teodoro, 1886 – Via e piazza della Consolazione, 1886-1888 – Comitium e Lapis Niger, 1899 – Tempio di Vesta, Sacello di Giuturna, Santa Maria Antiqua, 1900
popolari per 100 famiglie (25 per piano). L’articolo invitava esplicitamente a seguire questo esempio “generoso” riconvertendo anche «tutti i fienili che dal Velabro si estendono a S. Anastasia»90. Di diverso significato fu il processo di dismissione del fienile alla Casa dei Crescenzi, legato alle ragioni di tutela e conservazione91. L’edificio medievale, considerato di interesse storico, fu acquisito nel 1865 dallo Stato pontificio, come riportato in alcuni documenti di archivio92. Per quanto riguarda i grandi edifici dell’Annona sul Viminale, anche questi non erano più in funzione. La zona non era più in semicampagna, anzi, la costruzione della Stazione Termini ne aveva fatto la nuova porta della città93. Per questi vecchi depositi si susseguirono svariate riconversioni94.
3.3 Roma capitale La presa di Roma (1870) e la costituzione dello Stato unitario accelerarono significativamente quei processi già in corso, di natura politica, economica e sociale95. Roma diventava la sede del potere politico (legge n. 33 del 3 febbraio 1871), ma la capitale del neonato Stato italiano non disponeva dei requisiti minimi richiesti per stare al passo con le altre capitali nazionali europee. Il tentativo messo in atto l’indomani della costituzione dell’Italia Unita cercava di far fronte a problemi cronici e a nuove esigenze: la volontà di creare un’identità nazionale, la necessità di costituire una capitale moderna, dare risposta all’aumento esponenziale della popolazione e all’emergenza abitativa96.
Con lo scavo nella Basilica di Massenzio fu dismesso il granaio nell’abside (fig. 11) e le casupole sull’antica via delle Carine, nello spazio che separa l’edificio antico dalla chiesa dei SS. Cosma e Damiano100. Sul lato sud-orientale del Foro, i quattro edifici costruiti al Complesso di Domiziano in piazza de’ Fenili furono immortalati nella campagna fotografica compiuta per documentare gli sventramenti nel centro di Roma e poco dopo furono smantellate tra il 1884 e l’85 (fig. 9). 101 Perfino la chiesa di Santa Maria Liberatrice fu demolita nei primi giorni del 1900 così da permet-
90 Da L’Album: giornale letterario di belle arti, 19 febbraio 1859, pp. 1-4. 91 Di Marco 2015, p. 116. 92 ASR, SCRCA, t. 508, atti A. Cecconi, cc. 520-523v e 541-542v. 93 Impiglia 2012b, pp. 270-271. 94 Il Granaio Gregoriano dal 1816-17 ospitava il Deposito della mendicità, detto anche Ospizio di Termini o Casa d’Industria, che svolgeva la funzione di orfanotrofio assicurando «l’educazione religiosa, morale, e civile, poi il lavoro, e la occupazione» (Santarelli 1828; De Giovanni 1848, p. 30; Albissini et al. 2010, p. 632). Nei locali del Granaio Urbano fu traslocato il Convitto per Sordomuti (1834 e 1839), poi ospitò l’orfanotrofio del Pio Istituto (1842-90) e nell’Aula Ottagona stava il refettorio maschile (Arletti 2014, p. 334). Negli anni ’20 il Clementino fu impiegato per ricoverare internati del carcere di Porta Portese e per altri usi connessi all’amministrazione degli istituti di pena, perciò fu presto rinominato «Casa di condanna alle Terme diocleziane» (Calzolari 2006, pp. 49-78). 95 Per una recente sintesi del processo di costituzione di Roma capitale, si veda Vidotto 2021, pp. 15-30. 96 Sulla progettazione di Roma capitale e sul suo processo di definizione nell’età liberale, si veda: Vanvitelli 1979; Caracciolo 1999.
97 Si veda: Pallottino, Volpe 2021, pp. 161-173. Sulle attività di tutela in quegli anni, si veda: De Tomasi 2013, pp. 151-197. 98 Piano di Sistemazione della Zona Monumentale Riservata di Roma (legge n. 4730 del 14 luglio 1887). Si veda: Capobianco 2011, pp. 11-21; Ead. 2017, pp. 189-205; Ead. 2021, pp. 174-179. 99 Per gli scavi nell’area dei Fori Imperiali, si veda Parisi Presicce 2017, pp. 75-94. A p. 84 e a p. 91 vengono menzionati i granai abbattuti nell’area del Foro di Augusto. 100 «The basilica was freed from the granaries and factories and ironworks which concealed its northern apse» (Lanciani 1897, p. 204). Le relazioni sulla demolizione dei fabbricati Beccari furono stilate da Lanciani (NSc 1879, pp. 262, 263, 312, 313). 101 Del Prete 2002.
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Fabrizio Sommaini
fig. 15 – Due vedute del colle capitolino. Si riconosce la struttura del Granaio Caffarelli (a sinistra) e l’edificio sede dell’Instituto Archeologico Germanico (a destra).
fig. 16 – Progetto di ingrandimento e restauro di un granaio presso Borgo Angelico (http://www.dipsuwebgis.uniroma3.it/site/ws/).
Per le altre zone della città a inferiore densità archeologica, fu confermata la strategia di riadattare granai, fienili e vecchie strutture ad abitazioni104. Nel solo 1870-71 la popolazione romana aumentò di 20.000 unità circa, poi, in poco più di quarant’anni la popolazione raddoppiò105. Si calcola che tra il ’70 e l’87 furono ristrutturate e sopraelevati circa 975 edifici in tutta la città (intanto la linea di sviluppo urbano continuava in direzione nord est: Monti-Esquilino, Colonna, Trevi). Nel Velabro si conclusero le costruzioni di nuove palazzine sui resti dei vecchi fienili e granai106. Poi,
tere la prosecuzione degli scavi che ora Giacomo Boni intendeva estendere su questo lato del Foro Romano. Sul fronte opposto, poi, alla fine del XIX secolo, era stato completato il procedimento di incameramento dei granai collocati sul sito dell’antica Basilica Emilia102. Si procedette anche qui alla loro demolizione, saltarono magazzini, case, poi spacci di vino, di olio e di altri prodotti, una vecchissima osteria e tutto quanto era stato costruito tra San Lorenzo in Miranda, la Basilica Emilia e la Curia (compresa la chiesa di Sant’Adriano al Foro)103. Al completamento della stagione degli scavi di Giacomo Boni (1925), il Foro Romano aveva sostanzialmente acquisito la fisionomia del moderno parco archeologico (figg. 13-14).
Vidotto 2021, p. 22. 1871: 242.844 abitanti, 1881: 300.467 abitanti, 1891: 386.626 abitanti, 1901: 462.783 abitanti, 1911: 542.123 abitanti (Sanfilippo 1992, pp. 25 e 61). 106 Archivio del Comune pontificio 1847-1870, Rione Campitelli: particella 313. Rione Ripa, schede: 20199, particella 197; 20676, particella 167. Archivio Moderno Postunitario, Rione Ripa, schede: 2124, particella 167; 28231, particella 223; particella 176. 104
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102 NSc 1878, 341. Si veda anche l’immagine del terrapieno con ancora i magazzini nella foto d’epoca: ICCD, Becchetti, FB000538. 103 Manodori 1993, p. 57; Coarelli 2004, p. 62.
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Granai e fienili di Roma moderna
in seduta comunale (3 giugno 1871), si stabilì che 356 famiglie vi venissero insediate individuando 26 edifici che opportunamente tramezzati e ristrutturati fruttavano «125 quartierini in 3 piani»107. Una foto del tempo mostra la fila dei fienili su via di San Teodoro dove alcune casupole sono già state ampliate e ammodernate mostrando le facciate degli odierni palazzetti vicino ai vecchi depositi ancora in piedi (fig. 14)108. Diverso fu il destino del “Granarone” Caffarelli sul Campidoglio che, divenuto proprietà della corona di Prussia, fu ricostruito come sede dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica (1877) su progetto dell’architetto Paul Laspeyres (fig. 15)109. A Borgo Angelico, rimane la testimonianza di una palazzina realizzata a cavallo della presa di Roma che riporta l’iscrizione quae prius horrea nunc habitacula (fig. 16)110. L’epigrafe può ben rappresentare il manifesto della politica delle ristrutturazioni tra Pio IX e l’Italia liberale, largamente praticata in tutto il quartiere da diversi anni111. L’edificio dei Granai di Santo Spirito, invece, sopravvisse fino agli anni ’30 quando fu abbattuto nella stagione delle demolizioni fasciste112. Dagli anni ’70 dell’Ottocento, l’area delle Terme di Diocleziano fu il fulcro del processo di espansione urbanistica della città. Il complesso antico divenne la sede del Museo Nazionale Romano, ma ci volle molto tempo prima che tutti i suoi spazi venissero impiegati per la conservazione ed esposizione dei reperti e delle opere d’arte antica113.
4. Conclusione Il Novecento assistette al materializzarsi del disegno di una nuova capitale. Cessava quasi del tutto il carattere popolare e residenziale dei quartieri centrali, un tempo campagnoli e “pittoreschi” a favore di un nuovo ruolo amministrativo e di pubblica rappresentanza, che fu promosso dai governi liberali, da quello fascista e da quelli repubblicani114. Seguì anche nel corso del secondo Novecento la trasformazione dei rioni storici in aree turistiche. Oggi, le palazzine sopraelevate del Velabro, già fienili e palazzi popolari, sono appartamenti di pregio in un quartiere esclusivo, sebbene i toponimi ricordino ancora il vecchio paesaggio rurale (via dei Fienili, via dei Foraggi). Al posto dei fienili tra via di San Teodoro e via del Foro Romano, è stato costruito un monumentale edificio, sede diplomatica del Belgio. Alcuni vecchi magazzini di grandi dimensioni sono stati riconvertiti in alberghi (il Granaio presso San Giorgio al Velabro e il Granaio Grazioli). Il “Granarone” dei Caffarelli, dopo essere stato ristrutturato come vecchia sede dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma e dopo complesse vicende di natura giuridica e proprietaria tra Italia e Germania, è oggi sede dei Vigili Urbani di Roma Capitale. In Vaticano, Borgo Angelico non ospita più magazzini, ma appartamenti di alto livello e moltissime strutture ricettive per turisti e pellegrini. Sul Viminale, i vecchi depositi annonari sono impiegati come Facoltà di Scienze della Formazione ed altri uffici dell’Università degli Studi Roma (1992) e ancora vi si trova l’associazione di ex Garibaldini (Granaio Gregoriano)115. Il Planetario è parte del patrimonio del Museo Nazionale Romano116. Degli altri grandi granai sopravvive soltanto il Clementino, parte occupato da una filiale delle Poste Italiane e parte da attività commerciali. Un tempo elementi tipici del panorama di Roma, nel corso del XIX secolo granai e fienili divennero strutture superflue e furono eliminate o assorbite dall’organismo vivente della città.
Insolera 1962, p. 21 Si veda anche: ICCD, Becchetti, FB000535 (le palazzine visibili in primo piano sull’odierna via dei Fienili risalgono alle ristrutturazioni ottocentesche in case popolari e corrispondono precisamente agli edifici visibili ancora oggi). 109 Danti 2016, p. 72; Parisi Presicce 2016, p. 84. Il progetto fu definito nel 1872, il vecchio Granaio avrebbe dovuto ospitare non solo la biblioteca bensì anche le abitazioni per i due segretari e gli stipendiati (Michaelis 1879, p. 148). 110 Romano 1949, p. 86. 111 Archivio del Comune pontificio 1847-1870, Rione Borgo, schede: 20523, particella 38; 18851, particella 32; 20297, particella 11; 19538, particella 56; 20664, particella 48; 19114, particella 99; 20869, particella 160; 18969, particella 175. 112 Betti 2004, pp. 45-46. 113 Il Granaio Gregoriano ospitò la Scuola Normale Femminile (dal 1874) e dal ’90 anche la sede della Società Ginnastica Roma e un’associazione di ex garibaldini, la Società Reduci Patrie Battaglie “Giuseppe Garibaldi”. Dai primi del Novecento la Sala Ottagona era utilizzata come palestra, ma per breve tempo servì da museo per l’Esposizione Archeologica nel cinquantenario dall’Unità d’Italia, 1911. Dal 1923, venne invece impiegata per spettacoli cinematografici o teatrali offerti gratuitamente, finché nel 1928 non fu convertita a planetario, poi nel 1980 passò al Ministero dei Beni Culturali. Il Granaio Urbano, tra le moderne via Pastrengo e via XX Settembre era negli anni ’30 la sede del 107 108
Dopolavoro dell’Urbe. Il Clementino, invece, servì nel primo Novecento da orfanotrofio femminile. Si veda: Montini 1936, p. 468; Albissini et al. 2010, p. 632; Arletti 2014, p. 334. 114 Brice 2009, 250. 115 Arletti 2014, p. 334. 116 L’edificio a pianta centrale del Granaio Gregoriano passò per la prima volta sotto il controllo del Museo Nazionale Romano nel 1889 e nel 1911 vi ebbe luogo la mostra di archeologia per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, curata da Lanciani. Seguirono alterne vicende e gestioni da parte di svariati enti (tra cui la ricordata “Sala Minerva” e il Planetario) (Albissini et al. 2010, pp. 633-634).
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Il suburbio dell’Aquila in Età Moderna alla luce della cartografia storica Fabio Lorenzetti* * Laboratorio di Archeologia, Dipartimento di Scienze Umane – Università dell’Aquila ([email protected]).
Riassunto La presente ricerca si propone di analizzare con una prospettiva diacronica gli elementi peculiari del paesaggio che fino alla metà del secolo scorso caratterizzavano il suburbio della città dell’Aquila. In pochi decenni di espansione edilizia, verificatasi soprattutto a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, le modificazioni dello spazio dovute alle nuove esigenze, soprattutto di carattere abitativo, hanno stravolto il preesistente assetto topografico. Il progressivo abbandono di luoghi di culto e delle strutture residenziali o produttive, con la conseguente scomparsa di antichi toponimi, ha fortemente modificato le modalità di sfruttamento e occupazione del suolo. La presenza dell’acqua ha determinato non solo l’ubicazione di opifici idraulici come i mulini, ma anche una serie di altre strutture di carattere residenziale e produttivo, come ad esempio la Cascina di Margherita d’Austria, grande progetto che provocò una significativa modificazione del paesaggio suburbano. Attraverso la documentazione cartografica, letta con l’ausilio di fonti scritte edite e inedite, si è inteso non solo riscontrare la presenza delle strutture immediatamente individuabili in tali fonti, ma soprattutto evidenziare l’importanza di quelle fortemente modificate nel tempo, a volte non più riconoscibili in elevato. Parole chiave: L’Aquila; topografia; cartografia storica; mulini ad acqua; Cascina di Madama Margherita.
Abstract The Suburb of L’Aquila in the Modern Age in Light of the Historical Cartography. This paper deals with the diachronic investigation of the typical elements that characterized the suburban landscape of the town of L’Aquila up until the middle of the last century. After a few decades of building development, especially in the 1950s, the modification of the landscape due to an increasing demand, especially for residential purposes, changed the pre-existing topographical layout. The progressive neglect of places of worship, together with the abandonment of residential and productive structures, with the consequent disappearance of ancient toponyms, greatly changed the methods of exploitation and occupation of the land. The presence of water determined not only the location of hydraulic factories such as mills, but also a series of other residential and productive structures, such as, for example, the farmstead of Margherita d’Austria (the so-called Cascina), a large project that caused a significant modification of the suburban landscape. Through the cartographic documentation, which was analyzed with the help of published and unpublished written sources, this paper intends, not only to verify the existence of structures easily perceived from the sources but, above all, to highlight the importance of the ones that have been profoundly modified over the years and sometimes are no longer recognizable from the elevation of remains. Keywords: L’Aquila; topography, historical cartography, water mills, Cascina of Madame Margherita.
cartografia urbana e del territorio, ovvero la rappresentazione assonometrico-vedutistica e quella descrittivo-militare, con veduta zenitale (Dotto 2003, p. 80). Al primo gruppo vanno ricondotte le vedute prospettiche dell’Aquila disegnate da Geronimo Pico Fonticulano (1600), quella disegnata da Scipione Antonelli (1622), quella edita da Pietro Mortier (1704) e la Carta topografica del Contado e della Diocesi dell’Aquila di Anton Francesco Vandi (metà XVIII sec.). Al secondo gruppo appartengono: il foglio n. 3 dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli (1806); la pianta dell’Aquila e dintorni a firma di G. Gerthorf (anni Venti del XIX sec.); la Carta dell’IGM del 1884. Infine, per chiarire alcuni aspetti problematici ed ottenere dati non rilevabili direttamente dalle fonti appena citate, è stato necessario far riferimento ad ulteriore cartografia1.
1. Premessa Tentare una ricostruzione del paesaggio rurale e agrario della Conca Aquilana sulla base della documentazione cartografica storica comporterebbe preliminarmente una ricerca sistematica di tutte le fonti disponibili e una discussione sul piano dell’aderenza al vero delle singole rappresentazioni. In questa sede s’intende più specificamente concentrare l’attenzione solo su alcuni documenti cartografici, principalmente a grande scala, che si collocano temporalmente tra XVII e XIX secolo e possono risultare utili per comprendere alcune dinamiche di modificazione paesaggistica in un areale circoscritto alla fascia di territorio immediatamente esterna alle mura della città dell’Aquila. Le fonti cartografiche che si è scelto di analizzare si caratterizzano per la grande quantità di informazioni topografiche contenute in ognuna di esse, permettendo una lettura complessiva dell’areale considerato. Esse si collocano all’interno dei due filoni principali in cui è possibile suddividere la
1 Tali fonti, sebbene già edite e utilizzate soprattutto negli studi sull’urbanistica, sono ricche di dati che all’avviso di chi scrive non sono ancora stati esaurientemente analizzati. Esse, non riprodotte in questo contributo ma indicate con riferimento
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fig. 1 – Toponimi, insediamenti e infrastrutture individuati nel suburbio dell’Aquila. 1. Ospedale di S. Antonio «de Interria prope Aquilam»; 2. S. Maria del Popolo dei Domenicani e mulino dell’Ospedale Maggiore; 3. Mulino della Rivera; 4. Madonna del Rifugio dei Peccatori; 5. Ponte di Roio e chiesa della Madonna del Ponte; 6. Madonna degli Angeli extra moenia; 7. Mulino di S. Caterina o di Rosarolo; 8. Ponte Rosarolo (o di Bagno) e chiesa di S. Maria; 9. Mulino Cannella, già dei Celestini di Collemaggio, ubicato «sotto il ponte di Rosarolo»; 10. Ospedale di S. Giovanni del Campo; 11. S. Giuseppe dei Cappuccini; 12. S. Maria del Soccorso degli Olivetani; 13. Rudere del Torrione; 14. Chiesa di S. Sisto e palazzo suburbano della famiglia Rivera.
Come è stato notato, l’analisi di questa tipologia di fonti permette di recuperare una grande quantità di informazioni, come ad esempio lo stato della viabilità o gli antichi toponimi (Cambi, Terrenato
1994, pp. 45-46) e costituisce il primo passo per lo studio storico-archeologico di un territorio (Basso 2008). Infatti la fonte cartografica può fornire fondamentali conoscenze sul cambiamento dell’uso del suolo nel corso del tempo, che nelle aree più fragili del paese possono risultare strategiche anche in vista di interventi di messa in sicurezza del territorio (Stagno 2010). L’analisi della cartografia storica può risultare utile anche per studiare fenomeni di riorganizzazione sociale e delle modalità di utilizzo dello spazio dopo un evento traumatico come il terremoto, che nel caso dell’Aquila deve tener
bibliografico laddove è sembrato opportuno, sono: la pianta dell’Aquila inserita nell’atlante delle fortificazioni del Regno, commissionato dal vicerè Pedro Fernandez (primi del ’600); la pianta prospettica dell’Aquila stampata da Giovanni Bleau (1680); la cartografia relativa alla reintegra del Tratturo (Atlante Capecelatro e Crivelli, secc. XVII e XVIII); la pianta dell’Aquila e dintorni di Vincenzo Di Carlo (1858); il foglio n. 10 della Carta del Regno di Napoli (1858).
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1. Ospedale di S. Antonio «de Interria prope Aquilam» (poi osteria)
Struttura attualmente non riconoscibile
Struttura attualmente riconoscibile
Denominazione del sito
Il suburbio dell’Aquila in Età Moderna alla luce della cartografia storica
Particolari tratti della pianta di Antonelli (1622)
Situazione attuale
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2. S. Maria del Popolo dei Domenicani
X
3. Mulino della Rivera
X
tab. 1 – Confronto tra i manufatti documentati nella pianta di Antonelli (1622) e la situazione attuale (segue).
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7. Mulino di S. Caterina o di Rosarolo
6. Madonna degli Angeli extra moenia
5. Ponte di Roio e chiesa della Madonna del Ponte
4. Madonna del Rifugio dei Peccatori
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X
X
X
X
tab. 1 – Confronto tra i manufatti documentati nella pianta di Antonelli (1622) e la situazione attuale (segue).
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12. S. Maria del Soccorso degli Olivetani 11. S. Giuseppe dei Cappuccini
10. Ospedale di S. Giovanni del Campo (poi osteria)
9. Mulino Cannella, già dei Celestini di Collemaggio
8. Ponte Rosarolo (o di Bagno) e chiesa di S. Maria X
X
X
X
(Sito non accessibile)
X
tab. 1 – Confronto tra i manufatti documentati nella pianta di Antonelli (1622) e la situazione attuale (segue).
X
16. La Cascina (azienda agricola di Madama Margherita d’ Austria)
15. Il Cupello (villa suburbana della famiglia Pica)
14. Chiesa di S. Sisto e palazzo suburbano della famiglia Rivera
13. Rudere del Torrione
12. de
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( non rappresentato da Antonelli)
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tab. 1 – Confronto tra i manufatti documentati nella pianta di Antonelli (1622) e la situazione attuale.
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Il suburbio dell’Aquila in Età Moderna alla luce della cartografia storica
la lettura dei toponimi e il riconoscimento di siti o strutture collocati entro l’areale interessato dalla ricerca.
conto del rapporto intus-extra tra la città e il suo territorio, ancora oggi riscontrabile dopo il recente sisma del 2009 (D’Ascenzo 2016). La dispersione della cartografia storica, conservata presso istituti pubblici come gli Archivi di Stato o all’interno di collezioni private, è solo una delle tante difficoltà da affrontare se si intraprende questo tipo di ricerca, che deve tener conto del carattere imperfetto delle rappresentazioni, soprattutto per quel che riguarda le carte non geometriche (Rombai 2010, pp. 71-72; Id. pp. 80-81). A tal proposito va ribadito con chiarezza il carattere soggettivo della documentazione cartografica, dove l’immagine non corrisponde mai alla oggettiva rappresentazione della realtà. Proprio per questa ragione sembra opportuno ricordare il concetto di ‘immagine interessata’, attraverso il quale Lucio Gambi sintetizzava le problematiche riguardanti la lettura delle rappresentazioni dello spazio, sempre parziali e dipendenti dai diversi scopi comunicativi dell’autore (Gambi 1984; Rao 2015, p. 37). L’approccio metodologico impiegato nella presente ricerca consiste nel confronto tra i dati rilevabili nella cartografia storica consultata (per la maggior parte edita) e quelli reperibili attraverso la documentazione d’archivio, sia di matrice catastale che notarile (per lo più inedita). Attraverso l’analisi comparata delle fonti cartografiche e storiche si intende fornire un quadro complessivo dell’organizzazione dello spazio suburbano dell’Aquila in Età Moderna. Lo scopo del presente lavoro non è quello di realizzare una carta archeologica del suburbio aquilano, bensì quello di collocare nello spazio e rendere nuovamente riconoscibili (sia ai ricercatori che ai cittadini) infrastrutture e insediamenti spesso resi anonimi dal cambiamento di destinazione d’uso o dallo sviluppo del tessuto edilizio contemporaneo, che nel tempo si è sostituito a vaste porzioni di territorio, in passato variamente sfruttate soprattutto in prospettiva agricola. Pertanto, in questa sede, s’intende trarre nuove informazioni da una tipologia documentaria assai problematica, operazione non esente da rischi di interpretazione e che tuttavia potrebbe risultare utile per calibrare interventi sul territorio legati alla ricostruzione post-sisma ancora in corso. Dal momento che saranno analizzati siti talvolta non più individuabili in elevato, o toponimi ormai scomparsi, ma localizzabili nello spazio solo attraverso la cartografia storica e le fonti scritte, si presentano preliminarmente una carta riassuntiva (fig. 1) e una ricognizione fotografica effettuata in loco (tab. 1), attraverso le quali rendere più agevole
2. L’areale della ricerca L’areale della ricerca è costituito da una fascia di territorio che si estende per circa 3 km all’esterno delle mura urbiche. Morfologicamente la porzione nord-orientale del suburbio aquilano è caratterizzata da colline che degradano verso il fondovalle, separate da piccoli avvallamenti paralleli aventi generalmente direzione nord-est / sud-ovest, mentre quello sud-occidentale si trova a più bassa quota ed è attraversato dal fiume Aterno, che separa le pendici di Monte Luco a sud, dalla collina sulla quale, nel XIII secolo, si decise di fondare la nuova città. In quest’area l’elemento naturale preponderante, che caratterizza e plasma il paesaggio, è certamente l’acqua. Questo elemento naturale fu talmente importate che molto probabilmente L’Aquila trasse il suo nome dall’idrotoponimo Acculae, sebbene tale derivazione sia stata oggetto di differenti interpretazioni (Clementi, Piroddi 1986, pp. 23-25; Zenodocchio 1991, pp. 221233). A tal proposito va evidenziato che il «locum Acculii ad costruendam civitatem» è nominato per la prima volta come quello adatto della fondazione della nuova città nella Lettera Apostolica di papa Gregorio IX del 1229 (De Matteis 2009, pp. 16-19). La porzione nord-orientale dell’area suburbana aquilana, certamente più arida vista la lontananza del fiume, è quasi totalmente ignorata nella rappresentazione seicentesca di Fonticulano, che per la prima volta descrive in modo complessivo una parte dei dintorni dell’Aquila (fig. 2). Fino alla metà del secolo scorso le pendici meridionali di Monte Pettino erano caratterizzate dalla diffusa presenza del vigneto, che rendeva a sua volta necessaria la costruzione di edifici atti ad ospitare i torchi vinari, localmente chiamati “vasche”, da cui la denominazione del distretto territoriale posto immediatamente fuori le mura, che era appunto detto «Le Vasche» (De Matteis 1973, p. 153). Attualmente l’area che si estende a nord-est delle mura urbiche è per la maggior parte occupata dall’edilizia residenziale contemporanea e precisamente dai quartieri di Colle Pretara, Valle Pretara e Torrione. L’attuale quartiere residenziale di Sant’Anza, ai piedi del monte sulla cui sommità sorgeva l’omonimo castello, occupa un’area valliva 43
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fig. 2 – Veduta prospettica di Geronimo Pico Fonticulano incisa da Jacopo Lauro nel 1600 (tratta da Rivera 1905a).
la descrizione degli spazi extramurali e del paesaggio agrario del suburbio aquilano effettuabile tramite tali documenti cartografici è stata oggetto di minori attenzioni, pur essendo state ben sottolineate le potenzialità di una ricerca in tal senso (Petrella 2013, pp. 378-380; Id. pp. 382-384).
dove nel 1424 il condottiero Braccio da Montone decise di installare il proprio accampamento durante l’assedio dell’Aquila (Anonimo, Guerra dell’Aquila, p. 40). Per analizzare diacronicamente quest’area risultano particolarmente importanti le due vedute prospettiche della città realizzate dall’incisore romano Jacopo Lauro nel 1600 e nel 1622, disegnate rispettivamente da Geronimo Pico Fonticulano e da Scipione Antonelli (figg. 2 e 3). Entrambe le rappresentazioni, peraltro già oggetto di una specifica analisi comparativa (Colapietra 1987), sono state ampiamente studiate o utilizzate come fonti iconografiche da parte di storici, storici dell’arte, urbanisti e archeologi, anche se quasi esclusivamente per quanto concerne lo spazio intramurale (Rivera 1905a; Spagnesi, Properzi 1972, pp. 6576; Mattiocco 1983; Sconci 1983; Clementi, Piroddi 1986, pp. 91-103; Centofanti 1992; Forgione 2007; Redi 2007; Properzi 2009; Centofanti, Brusaporci 2014; Ferreri 2016; Centofanti, Brusaporci, Maiezza 2021). Infatti
3. Le rive del fiume Aterno nella cartografia seicentesca Dopo le prime rappresentazioni della città risalenti al XV secolo, aventi carattere ideogrammatico, alla fine del Cinquecento il matematico Geronimo Pico Fonticulano disegnò la prima pianta della città realizzata su basi geometriche. Pochi anni dopo lo stesso Fonticulano realizzò la prima veduta prospettica della città, che fu data alle stampe dall’incisore romano Jacopo Lauro nel 1600 (Clementi, Piroddi 1986, pp. 91-103), nella quale è rappresentato anche lo spazio extramurale lungo il fiume Aterno. Nel 1622 lo stesso Lauro 44
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fig. 3 – Veduta prospettica di Scipione Antonelli incisa da Jacopo Lauro nel 1622 (tratta da Rivera 1905a).
Hospitale; 74) S. Maria del Popolo dei Domenicani; 80) S. Giovanni del Campo; 81) S. Maria al Ponte di Bagno; 87) La cascina del Serenissimo [duca] de Parma; 90) Cupello Villa delitiosa dei signori Pichi2. Dopo quella disegnata da Antonelli vi furono altre stampe derivate da quella di Fonticulano che tuttavia non apportarono sostanziali modifiche all’dea originaria. Una fu realizzata nel 1680 dall’olandese Giovanni Bleau e un’altra nel 1704 ad Amsterdam, a cura del libraio Pietro Mortier (Rivera 1905a, pp. 129-131; Properzi 2009, p. 282 e 286). Altre ancora furono ad esempio le vedute prospettiche di Giovanbattista de Rossi, di Francesco Valegio e di Vincenzo Coronelli, che risultano assai più generiche rispetto alla cartografia precedente (Del Pesco 2010) e dunque molto problematiche per un uso documentario volto alla ricostruzione della realtà topografica dei luoghi.
dava alle stampe la veduta di un altro aquilano, Scipione Antonelli, annotando nella targa ellittica posta a margine della stessa, che i meriti della città lo avevano spinto «con questo secondo intaglio a farne molto più vivo ritratto di quello ch’io ne feci molti anni sono la prima volta. Dico molto più vivo, havendola delineata per l’appunto a mia richiesta il Sig.r Scipione Antonelli del primo manchevole di molte cose principali, essendosi in molte altre fatta notabile mutatione in essa in tanti anni, come anco delli luoghi di fuori più riguardevoli, che nella prima non furno intagliati» (Rivera 1905a, p. 125). Come si vedrà in seguito, tra i luoghi extramurali aggiunti dall’Antonelli nella sua veduta, e corredati da chiara didascalia, quelli che riguardano più direttamente i fini del presente studio sono: 68) S. Maria del Soccorso M[onastero] de Mo[naci]; 69) S. Giuseppe [dei] padri Cappuccini; 70) S. Maria de Collemaggio monastero dei Celestini; 71) S. Giuliano monastero degli Zoccolanti reformati; 72) S. Sisto [dei] frati di S. Francesco; 73) S. Antonio
2 La numerazione corrisponde a quella che si riscontra sulla veduta di Scipione Antonelli.
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fig. 4 – Rappresentazioni cartografiche a confronto: a) Particolare della Carta topografica del Contado e della Diocesi dell’Aquila realizzata da Anton Francesco Vandi alla metà del XVIII secolo (tratta da Chiarizia, Gizzi 1987, p. 40); b) Particolare dell’Atlante Geografico del regno di Napoli di G.A. Rizzi Zannoni degli inizi del XIX secolo (tratta da Maestri, Centofanti, Dentoni Litta 1992, p. 81); c) Particolare di una mappa del 1743 raffigurante un podere presso Bologna (tratta da Varignana 1976, p. 573); d) Particolare del manufatto idraulico adibito alla macerazione della canapa, raffigurato nella veduta aquilana stampata da P. Mortier nel 1704, basata sul disegno di Fonticulano (in ASAq, cartografia in cornice).
fine del Cinquecento descrive la città come doveva essere circa un secolo prima, con un gran numero di porte ancora aperte, a testimoniare gli antichi rapporti politici e commerciali con il contado prima della rifeudalizzazione del 1530. Fonticulano si preoccupa maggiormente del paesaggio urbano, descrivendo singoli monumenti ritenuti più importanti, che spiccano in scala sproporzionata rispetto all’anonima edilizia circostante. Dall’altro lato Antonelli descrive il paesaggio urbano con minore dettaglio, concentrandosi sulla viabilità e soprattutto sul suburbio (Mattiocco 1983, pp. 116-118; Sconci 1983, p. 22; Colapietra 1987, p. 6). In entrambe le rappresentazioni il territorio a sud-ovest è bipartito dall’asta fluviale dell’Aterno, che si biforca più volte in corrispondenza di quasi tutti i mulini, raffigurando i canali adduttori degli stessi. In entrambi i documenti sono presenti quattro mulini ad acqua, diversamente
Gli autori delle due vedute prospettiche già ricordate collocano principalmente sulle sponde del fiume Aterno una serie di elementi caratterizzanti, volti a descrivere, in modo enfatico e positivo, la ricchezza della campagna aquilana. Tali elementi – che sono ad esempio piccole chiese legate al passaggio sui ponti, mulini, canalizzazioni, pioppeti, orti etc – possono essere tutti ricondotti alla presenza dell’acqua e costituiscono i punti nodali che permettono di cogliere sinteticamente la complessità del paesaggio suburbano aquilano attraverso i secoli. Per quanto concerne la fascia di territorio a ridosso del fiume Aterno è possibile compiere alcune osservazioni di carattere comparativo tra la rappresentazione del 1600 e quella del 1622. Già è stata messa in luce una differenza sostanziale tra la descrizione di Fonticulano e quella di Antonelli. Da un lato è stato attribuito un carattere storicorievocativo alla veduta di Fonticulano, che alla 46
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collocati nello spazio. Identificare puntualmente questi ultimi soltanto sulla base delle due vedute prospettiche secentesche è impresa assai difficile. Le due rappresentazioni non sono perfettamente sovrapponibili per quanto concerne l’idrografia e, tranne che in un caso, i mulini non sono mai corredati da una didascalia esplicativa. I due mulini rappresentati appena al di fuori di Porta Rivera nella veduta di Fonticulano, molto ravvicinati tra loro, non possono essere identificati con i due rappresentati nella veduta di Antonelli, nella stessa porzione di territorio. Uno di essi infatti, rappresentato con tripla arcata all’estremità di una via che lo collega direttamente a Porta Rivera, è corredato dalla didascalia «Vetoio Feudo dei Signori Angelini» (fig. 3). Trattasi indubbiamente del feudo rustico della famiglia Angelini (Speranza1974; Petrella 2013, p. 318; Di Vincenzo 2015, p. 336), al centro del quale vi era la risorgiva e il lago di Vetoio, proprietà della stessa famiglia ancora agli inizi del XIX secolo 3. Questa risorgiva è ubicata molto più a nord rispetto alla zona della Rivera, nel territorio di Coppito, e topograficamente non ha per nulla a che vedere con il fiume Aterno, essendo il Vetoio un suo affluente. Nella veduta di Antonelli il mulino è addirittura posto sull’asta fluviale principale e non su un canale adduttore, fatto che potrebbe confermare il carattere simbolico se non addirittura arbitrario della rappresentazione, in quanto la tipologia di mulino in oggetto (caratterizzata dalle arcate e dalla ruota idraulica orizzontale), doveva essere edificata necessariamente su un canale artificiale (Casoli 1984). Alcuni elementi presenti nella veduta di Fonticulano sono totalmente assenti in quella di Antonelli. È il caso di un imponente fontanile con abbeveratoio a vasca quadrangolare, posto a circa metà strada tra il ponte di Roio e Porta Rivera, che può essere paragonato a quello posto all’esterno di Porta Barete (Redi 2012, p. 334). Questo manufatto, viste le dimensioni ragguardevoli con cui è stato rappresentato, doveva ricoprire una grande importanza, non solo dal punto di vista estetico ma forse soprattutto funzionale. Inoltre, dall’altra sponda del fiume,
verso Monte Luco, si notano due fontane isolate dall’aspetto monumentale, entrambe ubicate in piena campagna. Una di esse, a poca distanza dal ponte, sembra potersi ricondurre al tipo provvisto di vasca circolare, paragonabile a molte fontane presenti in città e al prototipo indicato in una vignetta disegnata a corredo della serie di capitoli degli statuti cittadini intitolati «de fontibus» (Clementi, Piroddi 1986, p. 35; Redi 2012, p. 334). Sempre a poca distanza dallo stesso ponte, subito a destra di uno dei mulini, Fonticulano disegna un manufatto quadrangolare dal quale fuoriesce un piccolo rivolo d’acqua (fig. 4d). Questo dettaglio permette di formulare un’ipotesi sulla sua funzione. Il rivolo d’acqua fuoriuscente potrebbe stare ad indicare una polla sorgiva, sistemata a vasca mediante opere murarie. Più che una peschiera per l’allevamento ittico, sembra di poter affermare che si possa trattare di un invaso per la macerazione della canapa sativa. Questo in virtù di un confronto con un manufatto molto simile, rappresentato in una mappa del 1743, riguardante un podere a Santa Maria Maddalena di Cazzano, in provincia di Bologna (fig. 4c). In didascalia tale manufatto è descritto come «maceratore per la Canepa contornato di muri» (Varignana 1976, pp. 573-574). La macerazione della pianta della canapa era una delle fasi del processo produttivo che permetteva l’estrazione della fibra vegetale, dalla quale potevano essere fabbricati tessuti e cordame. Tale produzione è attestata in Età Moderna nella zona della Rivera, dove, a poca distanza dall’omonima Fontana, esisteva una corderia di proprietà della famiglia Cirillo, che venne ricostruita dopo il sisma del 1703 (Colapietra 1978b, p. 539). Una macroscopica differenza tra i due documenti si nota nella caratterizzazione del pendio appena al di sotto delle mura, completamente spoglio di vegetazione nella veduta di Fonticulano (fig. 2), mentre nella veduta di Antonelli questa stessa area è occupata da campi coltivati e da piantagioni di alberi (fig. 3). Nella veduta di Fonticulano questa porzione di territorio è percorsa da due ampie strade, una che scende dalla Porta di Bagno, l’altra che scende dalla Porta di Roio. Questi due assi viari sembrano in diretto rapporto con i due ponti che, in posizioni differenti, si ritrovano in entrambe le piante. Tuttavia, mentre in quella di Fonticulano tale rapporto appare evidentissimo, in quella di Antonelli queste due strade sono ormai scomparse, molto probabilmente a voler sottolineare la chiusura delle due relative porte.
3 Nel dizionario geografico del Giustiniani si trova scritto che nel territorio di Coppito «vi è una tenuta chiamata ‘il Conte’, e vi si vede pure un lago dell’estensione di quindici coppe, nel quale vi si pescano soltanto rovelle. Le sue acque animano una cartiera, ed un molino. Questa tenuta è di Gaspare Angelini Aquilano, e la pescagione nel medesimo è di suo diritto privato» (Giustiniani, Dizionario, vol. 4, p. 126).
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dovessero essere realizzati tutti «ad arcum lapideum» (Statuta Civitatis, p. 194). Malgrado ciò non si può escludere a priori che si trattasse di ricostruzioni su infrastrutture preesistenti, magari ormai prive di una funzionale utilità. Il ponte di Bagno era detto anche il ponte di “Rosarolo”, toponimo che identificava anche un mulino ad acqua ubicato nelle vicinanze (vd. infra § 5). In origine questo toponimo stava ad indicare un piccolo insediamento che in passato dipendeva dal castello di Bagno e che doveva sorgere nei paraggi dell’omonimo ponte4, molto probabilmente sulla sponda destra dell’Aterno. La Villa di Rosarolo è attestata nel 1331, quando alcuni uomini ivi residenti, assieme ad altri abitanti dell’università di Bagno, compaiono in un rogito notarile per l’affitto di una parte dei pascoli comunitari (Rivera 1901, pp. 23-24; Zenodocchio 1991, p. 237, n. 2). Dunque le due infrastrutture per l’attraversamento del fiume, ovvero i due ponti di Roio e di Bagno, esistevano per lo meno dal XV secolo e dovevano costituire punti nevralgici tanto in ambito militare che civile. Per quanto riguarda l’areale considerato si riscontra la presenza di alcuni ponti sul fiume Aterno anche in rappresentazioni cartografiche diverse da quelle di Fonticulano e Antonelli. Il Ponte di Roio è riconoscibile con certezza in una pianta dei primi del ’600 inserita nell’atlante delle fortificazioni del regno, commissionato dal vicerè Pedro Fernandez (Del Pesco 2010, pp. 71-72; Id. 2020, pp. 102103). Mentre questo ponte è indicato verosimilmente poco più a valle rispetto a Porta Rivera, il Ponte di Bagno è raffigurato molto più a valle rispetto alla sua posizione reale. Sulla carta del contado aquilano disegnata dall’ingegnere bolognese Antonio Francesco Vandi alla metà del XVIII secolo si possono notare ben tre passaggi sul fiume, localizzabili ipoteticamente ai piedi della collina di Collemaggio (fig. 4a). In questo caso risulta assai azzardata una identificazione puntuale degli stessi, ma si può soltanto ipotizzare che uno di essi, quello più settentrionale, potrebbe essere il Ponte di Roio, dal momento che da questo si diparte un tracciato che raggiunge l’omonimo altopiano. Quello centrale potrebbe indicare il Ponte di Bagno, poiché da esso principia una strada che raggiunge l’abitato di Pianola (in territorio di Bagno). Il terzo potrebbe indicare un ponte più a sud, nei pressi dell’abitato di Sant’Elia, fuori dall’areale considerato. Se così
4. Ricostruire lo spazio: infrastrutture, percorsi e piccoli insediamenti In entrambe le vedute prospettiche considerate sono raffigurati due ponti, caratterizzati da tre arcate ciascuno e da piccoli edifici di culto posti sulla riva sinistra del fiume. La chiesa adiacente al ponte in corrispondenza della Porta di Roio non è provvista di didascalia nella veduta di Antonelli, ma va identificata con S. Maria del Ponte. Questa fu costruita entro la prima metà del XV secolo dall’università di Roio, su di una preesistente edicola adiacente al ponte stesso, presso il quale avvennero scontri militari tra gli aquilani e le truppe di Braccio da Montone (Pasqualetti 2011, pp. 78-80; Rotolante 2020, pp. 757-760). L’altra chiesa, che nella veduta di Antonelli è indicata come «S. Maria al ponte di Bagno» permette non solo di conoscere il nome di quest’ultimo ponte, ma anche di notare che nella veduta di Fonticulano la strada fuoriuscente dalla Porta di Bagno transitava proprio su questo ponte. In via puramente ipotetica si potrebbe affermare che il Ponte di Bagno potrebbe essere stato eretto sulle rovine di un altro molto più antico, forse di Età romana. È stato infatti ipotizzato che la via Claudia Nova, transitando attraverso la Rivera, sulla riva sinistra del fiume, raggiungesse il territorio di Bagno valicando l’Aterno proprio in questo punto (Migliario 1995, pp. 110-111; Zenodocchio 2008, pp. 186-187). Indipendentemente dalla problematica inerente il percorso della viabilità antica, in occasione di un restauro ordinato nel 1693, è attestata la presenza di una strada carrozzabile che, unendo Porta Rivera a Porta Bazzano, transitava vicino al Ponte di Bagno. Questo tracciato stradale è stato identificato con quello visibile nella veduta di Antonelli, che corre sulla sponda sinistra del fiume (Colapietra 1978a, p. 269). A proposito della datazione del ponte in oggetto va ricordato che stabilire un orizzonte temporale certo per questo tipo di manufatti non è sempre agevole e presuppone un preciso lavoro di rilievo e studio degli elevati, che è stato avviato nell’ambito di un ampio progetto di ricerca riguardante gli attraversamenti sul corso del fiume Aterno (Savini et al. 2021). Auspicando che tali ricerche potranno far luce su questo interrogativo per quel che riguarda il caso specifico, in questa sede si riporta una notizia contenuta negli statuti cittadini di epoca bassomedievale, che al capitolo 294 prescrivevano la costruzione del Ponte di Pile, di Ponte Peschio e del Ponte di Bagno, precisando che
4 «Rosarolo o Rasarolo era presso dove oggi è il ponte di questo nome, fuori Porta Napoli» (Rivera 1901, p. 24).
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fiume Vetoio, anch’esso non lontano da Coppito (vd. supra § 3). Un altro complesso religioso purtroppo privo di didascalia, raffigurato sia nella veduta di Antonelli che in quella di Fonticulano, appare all’esterno di Porta Rivera. Mentre Fonticulano descrive la struttura come una piccola chiesa provvista di un recinto murario ad essa antistante, che sembra circoscrivere uno spazio esagonale, Antonelli descrive un complesso architettonico più articolato, dove s’intravvede una torre (forse campanaria) provvista di un tetto a padiglione. Il complesso raffigurato da Antonelli potrebbe essere ipoteticamente identificato con la Madonna del Rifugio dei Peccatori (fig. 1), edificata su una preesistenza dopo il 1605, in seguito ad un miracolo riconducibile alla devozione popolare mariana5. Come già detto la fascia pomeriale che si estende sotto le mura, tra Porta Rivera e il Ponte Rosarolo, nella veduta di Antonelli è caratterizzata da una serie di piantagioni e campi coltivati completamente assenti in quella di Fonticulano. In questa porzione di spazio Antonelli delinea le forme di un piccolo luogo di culto con sottile campanile al centro, che può essere identificato con la chiesa della Madonna degli Angeli extra moenia (fig. 1), quasi in corrispondenza della porta di Bagno (Martella, Medin 1979, p. 16; Rivera 1905a, p. 112, n. 18). Nel corso del ’900 questa chiesa è stata profondamente stravolta nell’aspetto architettonico esterno, con l’apposizione totalmente arbitraria della facciata di S. Maria del Vasto (Moretti 1971, pp. 722-725; Antonini 1988, pp. 272-275), un’altra chiesa demolita per ragioni urbanistiche e ubicata dall’altro capo della città, nei pressi del convento di S. Basilio (Centofanti, Brusaporci 2011, p. 180, fig. 7, n. 61). Percorrendo idealmente la rappresentazione prospettica di Scipione Antonelli, il prezioso documento attesta la presenza di numerose strutture poste nella porzione nord-orientale del suburbio aquilano. Più che ai due ben noti insediamenti monastici dei Celestini (S. Maria di Collemaggio, n. 70) e dei Francescani (S. Giuliano, n. 71), s’intende rivolgere l’attenzione ad altri edifici meno noti, la cui esistenza all’inizio del XVII secolo è attestata dal documento cartografico analizzato.
fosse Vandi potrebbe aver traslato l’esatta posizione dei ponti più a meridione rispetto alla loro posizione reale. Molto più chiara la situazione nell’Atlante Geografico del Regno di Napoli, dove sono indicati distintamente due ponti (fig. 4b). Uno di essi è indicato quasi in corrispondenza di Porta Rivera, e può essere identificato con il Ponte di Roio; anche se da questo non principia alcuna strada si deve ritenere che la via che sale a Roio Poggio non è stata rappresentata nella carta. Un altro ponte si trova disegnato quasi in corrispondenza della nuova Porta San Ferdinando (oggi detta Porta Napoli), aperta solo nel 1820 (Martella, Medin 1979, pp. 15-16; Clementi, Piroddi 1986, p. 99). Quest’ultimo ponte, anche se costituisce l’inizio di un percorso che unisce la zona di Roio con l’altra sponda dell’Aterno, deve essere identificato con il Ponte di Rosarolo, vista la posizione piuttosto precisa rispetto alla nuova porta urbica. Oltre alle infrastrutture appena analizzate, nella veduta prospettica di Scipione Antonelli sono raffigurati molti altri luoghi dove, con vario grado di certezza, è possibile riconoscere piccoli insediamenti o luoghi di culto. Nella porzione occidentale della rappresentazione sono delineati, in primo piano, due complessi religiosi di ragguardevoli dimensioni, uniti direttamente da una strada non rettilinea. Il primo da sinistra è l’antico ospedale di S. Antonio de Interria prope Aquilam, ubicato a poca distanza verso sud rispetto al tracciato dall’attuale viale Corrado IV (fig. 1) e qui trasferito agli inizi del XIV secolo dalla sua primitiva sede amiternina (Zenodocchio 1989, pp. 297-298). I due ospedali sono stati spesso confusi tra loro in sede di analisi storica – come è stato recentemente notato (Poli 2020, p. 257, n. 3; Berardi 2017, p. 29) – e, con tutta probabilità, il sito dell’ospedale ubicato prope Aquilam doveva essere occupato da un preesistente luogo di culto, in quanto recenti indagini archeologiche hanno portato alla luce sepolture databili ad un periodo antecedente il secolo XIII (Cordisco, Savini 2020). Il secondo, raffigurato nell’angolo inferiore destro della veduta di Antonelli, è il convento di S. Maria delle Grazie, appartenuto ai Celestini, ubicato su un colle a sud di Coppito. L’inclusione di quest’ultimo convento conferma che l’autore della veduta ha concentrato in questa porzione della rappresentazione una serie di elementi ubicati molto lontano dalle mura urbiche, come nel caso del già ricordato opificio idraulico della famiglia Angelini, posto sul
5 «Sotto le mura della Rivera, tra le chiese di S. Vito e S. Maria del Ponte, davanti a un dipinto di Francesco da Montereale (…) si verifica il famoso miracolo di Muzio Giurgiola (…) che avrebbe dato lo spunto all’edificazione, in quel luogo medesimo della chiesa “non piccola” in onore della Madonna del Rifugio dei Peccatori, officiata dai Cistercensi» (Colapietra 1978a, p. 231).
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Anche se alcuni di essi sono sprovvisti di didascalia, è possibile comunque identificarli con ragionevole certezza attraverso la lettura di ulteriore cartografia e di documentazione d’archivio di diversa natura. Il primo è la chiesa di S. Giovanni del Campo, caratterizzata da un sottile campanile a punta e molto vicina alla riva del fiume Aterno. Questo luogo di culto ha origini molto antiche: in epoca bassomedievale era un ospedale riservato all’accoglienza di soli uomini, mentre le donne venivano curate nel vicino ospedale di S. Giovanni delle Torri, detto anche S. Giovanni “in Valle” o “degli Infetti” (Di Francesco 1975, pp. 159-160). In questa porzione di territorio, anticamente appartenente al castello delle Torri, terminava il Tratturo L’Aquila-Foggia. Visionando alcune rappresentazioni prospettiche relative al percorso del Tratturo, è possibile notare che, se da un lato nell’Atlante Capecelatro (risalente alla metà del ’600) la chiesa di S. Giovanni compare assieme ad una «Cona di S. Giovanni», quest’ultima posta ad una certa distanza dalla prima lungo la via verso Bazzano (cfr. Del Pesco 2010, pp. 75-76; Id. 2020, p. 108), d’altro canto, nel settecentesco Atlante Crivelli compare soltanto la Cappella di S. Giovanni, che funge da termine artificiale dello stesso Tratturo, il quale terminava precisamente alla distanza di trenta passi dalla suddetta cappella (cfr. Del pesco 2010, pp. 76-77; Id. 2020, pp. 109-110). È assai rischioso identificare con certezza i due ospedali con la cappella e l’icona dedicate a S. Giovanni, ma è significativo notare che nel Medioevo i due luoghi di cura furono soggetti ai monaci Celestini di Collemaggio (Colapietra 1987, p. 14), anche se nel tempo persero l’antica funzione. Nella veduta prospettica di Antonelli è raffigurata soltanto la chiesa di S. Giovanni del Campo, che fin dal 1620, assieme alle circostanti proprietà fondiarie, divenne dipendente dal Capitolo della cattedrale di S. Massimo. Secondo Anton Ludovico Antinori nella seconda metà del XVIII secolo la chiesa era ormai diruta, viene descritta con navata unica e con l’altare ad oriente, affiancata a monte da una struttura abitativa, trasformata nel 1595 in osteria6. Molto probabilmente, una volta cessata la
funzione di ospedale, le antiche strutture medievali adibite al ricovero degli ammalati furono riconvertite per le nuove esigenze ricettive e produttive. Questo insediamento può essere ipoteticamente localizzato presso l’incrocio tra le attuali via Porta Napoli e via Girolamo da Vicenza (fig. 1), dove ancora oggi esiste una struttura a pianta trapezoidale provvista di due cantonali d’angolo a vista (tab. 1, n. 10). Sulla sommità della collina che si eleva a ovest dell’attuale via della Polverieriera sorgeva il vasto complesso monastico dei Cappuccini (fig. 1), che aveva il suo pendant intramurale nel convento di S. Michele. La costruzione di quest’ultimo, risalente alla prima metà del XVII secolo, era stata promossa da padre Francesco Vastarini dell’Aquila, in quanto il più antico complesso sacro extramurale era considerato troppo remoto rispetto alla città (Da Bagno, p. 7). Il toponimo polveriera deriva dal fatto che nel corso del XIX secolo l’edificio dell’ex convento di S. Giuseppe fu adibito a deposito di polveri (Da Bagno, p. 3). Nelle adiacenze dell’antico convento dei Cappuccini gli scavi archeologici, che hanno interessato stratigrafie dall’Età protostorica a quella bassomedievale, hanno portato alla luce un edificio di Età romana già abbandonato nel III secolo d.C., presso il quale si estendeva un’area sepolcrale ascritta genericamente all’Età tardoantica (Di Pietro et al. 2020). In località “Torretta”, nelle vicinanze dello stresso convento, Giuseppe Rivera localizzava una delle due fortificazioni riconducibili al castello delle Torri (Rivera 1902, pp. 321-322, n. 232), anche se ad oggi non si riscontra alcuna traccia archeologica in elevato, essendo un’area fortemente interessata dall’espansione edilizia degli ultimi decenni (Forgione 2018, pp. 62-63; Redi et al. 2018). Sull’esistenza di un’altra struttura fortificata, sorta probabilmente nell’area dove fu edificata la chiesa di S. Maria di Collemaggio7, il di orto par che indicassero d’essere stato un tempo monastero. Fin dal 1620 si trova unita alla Cattedrale Aquilana, colla casa, e col terreno contiguo, cui perviene l’acqua da una piccola sorgente superiore alla chiesa, e nella piegatura del colle verso oriente estivo. Vi faceva celebrar la festa di S. Giovanni Battista nel giugno, e se ne trovano le memorie fin al 1688. Onde per che cadesse nel terremoto del 1703, dopo del che più non s’è rifatta. Nel 1595 vi era la casa cambiata in osteria, e questa con vigna contigua fu dal Capitolo [di S. Massimo] data in affitto. Così nuovamente nel 1632, benché in quest’anno più d’osteria non si parli, e in vece di vigna assolutamente si dice orto, con terreni arativi, vignati ed alberati» (Antinori, Corografia, vol. XLI/1, p. 706). 7 Il toponimo “Collemaggio” è stato ipoteticamente ricondotto a un più antico “Collemedio” (Bartolomucci 2004, p. 24; Id., p. 34, nota 91).
6 «È questa chiesa già diruta fuori dalle mura dell’Aquila ad oriente sulla via pubblica là dove comincia il Tratturo presso al fiume; a piè del colle che è in mezzo fra due altri colli uno dov’è situato il monastero di Collemaggio; l’altro dov’è situato il convento de’ Cappuccini. Aveva annessa una casa che in parte ancor dura in piede, e cingeva la chiesa da settentrione, a oriente. Aveva questa l’altare di prospetto pure all’oriente, era d’una sola nave, ed aveva due porte laterali una delle quali corrispondeva a piccol cortile della casa. Questo, e qualche recinto di muro
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dato archeologico (Redi 2020, pp. 10, 15, 42) non coincide con quello storico, che riferisce di una preesistenza (Pasqua 2020, p. 93; Bartolomucci 2004, p. 24). Su un’altra altura, posta a poche centinaia di metri a sud-est dal Castello dell’Aquila, sorgeva il complesso monastico di S. Maria del Soccorso degli Olivetani (fig. 1), ben noto agli studi storicoartistici soprattutto per la fattura della facciata della chiesa (Antonini 1988, pp. 371-372), dove trovò sepoltura il celebre mercante aquilano Jacopo di Notar Nanni (Colapietra 2018, p. 12). Anche in questo caso si rinvengono notizie relative ad una preesistenza, costituita da una struttura produttiva ospitante un torchio vinario, sulla parete della quale era dipinta un’immagine della Madonna, particolarmente venerata dal popolo aquilano, attorno alla quale fu edificata il complesso conventuale e la nuova chiesa di S. Maria (Antonini 1988, p. 361). Presso la stessa chiesa, e precisamente nella valle cosiddetta del Soccorso, nel XIX secolo fu realizzato il Camposanto dell’Aquila, dopo una annosa vicenda decisionale che si protrasse per decenni (Lopez 1996). Una delle proposte alternative per l’ubicazione del cimitero, mai realizzate per varie ragioni, era quella di costruirlo in un’altra zona poco distante, tra una vigna della famiglia Piovani e «il torrione dell’acqua» (Lopez 1996, p. 211), caratteristico edificio idraulico di Età Moderna, parte del più antico acquedotto medievale. Il cosiddetto Torrione dà il nome ad un moderno quartiere residenziale posto a nord-est della città (fig. 1) e negli ultimi decenni è stata una struttura ipoteticamente interpretata come una tomba monumentale “a torre” di Età romana (Miceli 1990; Orsatti 1992; Alberini 2020, pp. 448449). Attraverso una fonte archivistica è possibile documentare una ricostruzione di tale manufatto risalente agli anni immediatamente successivi al sisma del 1703, in quanto nelle capitolazioni d’appalto per il restauro dell’acquedotto di Sant’Anza si fa esplicito riferimento alla ricostruzione delle due “piramidi” distrutte dal terremoto8. Con il termine “piramidi” si indicavano i due sfiatatoi che permettevano all’acqua di attraversare la condotta in pietra senza che le bolle d’aria ne ostruissero il passaggio, come si evince chiaramente dal citato documento 9. Da quanto finora detto è dunque
ipotizzabile che l’attuale rudere del Torrione sia stato ricostruito con forme molto simili ad una o più strutture preesistenti aventi la medesima funzione, che tuttavia non vengono rappresentate nella documentazione cartografica secentesca considerata nel presente studio. Alcuni edifici, sprovvisti di didascalia nella veduta di Antonelli, rimangono allo stato attuale della ricerca difficilmente identificabili, come quelli posti appena fuori Porta Bazzano e Porta Castello, o come il grande edificio a due piani con altana coperta da un tetto a padiglione, che doveva essere una nobile residenza suburbana privata, tanto da apparire al centro di una vasta proprietà fondiaria circoscritta da mura e da siepi, localizzabile presso l’attuale quartiere del Torrione (tab. 1, n. 13). Rimangono infine da analizzare gli insediamenti sorti nella zona di S. Sisto, dove fin dal IX secolo è attestata l’esistenza dell’omonima curtis appartenente al cenobio di Farfa (Zenodocchio 1989, p. 346; Clementi 2003, pp. 144-148). L’edificio sacro ancora esistente presenta un’aula rettangolare di grandi dimensioni e un muro tergale realizzato, nella parte bassa, con grossi conci di Età romana (Redi 2019, pp. 163-164). Nella veduta prospettica di Antonelli l’edificio è provvisto di un’alta torre campanaria sul lato destro della chiesa (fig. 3 e tab. 1, n. 14). Nelle immediate vicinanze lo stesso documento cartografico attesta la presenza della residenza suburbana con cortile appartenente alla famiglia Rivera (fig. 1). Attualmente l’edificio è affiancato da un’appariscente torre merlata, che tuttavia non è presente nella rappresentazione di Antonelli risalente al 1622 (tab. 1, n. 14). Il portale e le finestre in pietra della facciata principale dell’edificio suggeriscono una datazione di XVI secolo, salvo sicuri rifacimenti e ampliamenti dovuti alla sismicità del territorio. Giuseppe Rivera riteneva che un primo palazzo fosse sorto nel corso del XV secolo sulle rovine dell’antica «residenza domenicale» di San Sisto e che dopo il terremoto del 1461 fosse stato riedificato con stile del XVI secolo (Rivera 1905b, p. 16, n. 332). Purtroppo non si possono verificare direttamente tali affermazioni, tuttavia, grazie alla documentazione catastale di Età Moderna, è possibile verificare che nel 1535 e risanare, con porvi dentro canali di pietra conforme stavano prima bene incollati e sani affine che il lavoro resti stabile, e durabile di buona fabrica, di materiali come sopra ut: dichiarando la colla per incollare detti canali debba essere d’oglio, sevo, calce viva, e stoppa, il che s’intende non solo per le piramidi ma per tutti i condotti» (ASAq, ANA, I vers., notar Perseo Capulli, b. 983, vol. 32, cc. 302v-306r).
ASAq, ANA, I vers., notar Perseo Capulli, b. 983, vol. 32, cc. 302v-306r. 9 L’appaltatore dell’opera «sia obbligato le due piramidi che sono fuori la città sopra detti condotti di pietra, che servono per dare, e levare aria a detti condotti, sia obbligato quelle rifabricare, 8
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fig. 5 – Particolare della pianta dell’Aquila e dintorni risalente agli anni Venti del XIX secolo, a firma di G. Gerthorf (rielaborata da Properzi 2009, p. 295).
Marcantonio Rivera possedeva «uno iardino murarato et invignato cum arbori dinanzi ad Sancto Sisto et casa»10, edificio che potrebbe essere identificato con il primo nucleo edilizio della successiva struttura palaziale.
numerosi terremoti che hanno colpito il Centro Italia negli ultimi anni, si è scelto di limitare la ricerca all’individuazione di quei mulini che da un lato risultano ben noti dalla documentazione scritta, dall’altro figurano ben collocati nello spazio nella cartografia storica e possono quindi essere identificati con ragionevole certezza. Escludendo la pianta del contado aquilano di Vandi e l’Atlante del Regno di Napoli di Rizzi-Zannoni, che, essendo rappresentazioni a piccola scala, non riportano la presenza di mulini in quest’area della valle dell’Aterno, una prima osservazione va compiuta su una pianta topografica del genio militare austriaco, realizzata da G. Gerthorf negli anni Venti dell’Ottocento e recentemente ripubblicata (Properzi 2009, p. 285; ibid. pp. 294-295), dove, pur essendo descritti con una certa precisione tre opifici idraulici e i canali di alimentazione degli stessi, non vi sono didascalie esplicative che ne permettono l’identificazione (fig. 5). Un documento molto utile a tale scopo è la Carta del Regno di Napoli, realizzata alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, già oggetto di analisi comparativa per quanto
5. I mulini ad acqua tra cartografia e documentazione storica Una prima localizzazione dei mulini ad acqua nell’areale qui preso in esame può essere tentata incrociando la documentazione scritta con quella cartografica. Come già visto le due vedute prospettiche della città non forniscono dati esaurienti sulla loro esatta ubicazione, né sull’appellativo con il quale tali strutture erano conosciute all’inizio del Seicento. Avendo potuto solo parzialmente effettuare delle ricognizioni in loco per constatare la consistenza materiale di tali opifici, in quanto difficilmente accessibili perché collocati all’interno di proprietà private o pericolanti a seguito dei 10
ASAq, ACA, W 21, c. 35r.
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concerne la topografia dell’area intramurale. In questa carta sono riscontrabili i nomi di tre mulini posti nella zona che interessa il presente studio: il «Molino Cannella», il «Molino di S. Caterina» e il «Molino della Rivera» (cfr. Centofanti 1984, pp. 28-30). Gli stessi appellativi sono presenti anche nella coeva pianta di Vincenzo Di Carlo, risalente al 1858 (cfr. Centofanti 1984, p. 31, tav. 8). Il «Molino Cannella» (tab. 1, n. 9) va identificato con l’attuale complesso architettonico che ospita un noto ristorante, ubicato nel tratto di pianura prospiciente la collina di Collemaggio (fig. 1). Alla metà del XVIII secolo questo mulino era ancora proprietà dei monaci Celestini. Nel Catasto Onciario dell’Aquila viene descritto come «molino da macinar grano sito sotto Collemaggio, o sia Sotto il Ponte di Rosarolo, confina il Fiume, ed esso Monastero con prati e forme» 11. Dopo la soppressione del cenobio, molto probabilmente in epoca napoleonica, questo mulino passò alla famiglia Cannella. Nella pianura irrigua ai piedi di Collemaggio il cenobio celestiniano possedeva un mulino fin dall’inizio del XIV secolo e, nelle vicinanze di quest’ultimo, si ha notizia dell’esistenza di un altro mulino appartenente al monastero di S. Giovanni di Collimento (Zenodocchio 1991, p. 264; Id. 1993, pp. 49-50). Il «Molino di S. Caterina» (tab. 1, n. 7), localizzabile a nord-ovest del Ponte Rosarolo, deve essere identificato con quello raffigurato nella carta di Vincenzo Di Carlo, a monte del suddetto ponte, in corrispondenza di Porta Napoli (cfr. Centofanti 1984, p. 31, tav. 8). Infatti è storicamente noto che in precedenza questo mulino fosse proprietà della famiglia Rivera, che lo donò alle monache del convento di S. Caterina Martire (Colapietra 1978a, p. 407). Alla metà del Cinquecento Gian Carlo Rivera era proprietario di una parte di «tre macine de Molino in Rosarolo» 12 e nel 1622, lo stesso anno in cui fu stampata la veduta di Antonelli, questo mulino doveva rappresentare una struttura produttiva di grande importanza per la città: disponeva di ben 4 macine ed era servito da 2 muli e 5 asini per il trasporto dei prodotti (ibid., p. 171, n. 50). Se da un lato si può accettare l’identificazione di questo mulino con quello rappresentato da Antonelli nella zona appena fuori l’attuale Porta Napoli (cfr. Continenza, Brusaporci 2012, p. 267, fig. 13), d’altro canto, alla luce di quanto finora detto, il mulino in oggetto non può essere in 11 12
alcun modo identificato con quello di Collemaggio (cfr. Continenza, Brusaporci 2012, p. 268, fig. 14), che invece è ben riconoscibile ancora oggi a valle e non a monte del Ponte Rosarolo (fig. 1). Il «Molino della Rivera» (tab. 1, n. 3), che la cartografia ottocentesca succitata pone a circa 250 m fuori dell’omonima porta, lungo un percorso viario ancora utilizzato, risulta problematico da identificare con certezza relativamente alle fonti storiche, in quanto sembra che con questo stesso appellativo toponomastico fosse indicata più di una struttura. Nel 1631 l’Università dell’Aquila fece costruire un mulino in località “La Rivera” per «servizio del pubblico» (Mariani, Manoscritti, vol. A, c. 193r; Colapietra 1978a, p. 168). L’anno successivo, nel contratto d’affitto di un orto posto nelle vicinanze, veniva specificato che, in caso di mancanza d’acqua «per causa delli molini incominciati a fare vicino la porta della riviera», si sarebbe provveduto a ridurre il canone della locazione13. Dall’indicazione che pone questo mulino vicino Porta Rivera si potrebbe pensare a una struttura produttiva quasi addossata alle mura urbiche, tuttavia, sulla base di elementi tanto incerti è assai difficoltoso tentare una localizzazione precisa. Va aggiunto che l’idrotoponimo “Rivera” designa una porzione di territorio piuttosto vasta, nella quale, tra Medioevo ed Età Moderna, furono probabilmente installati numerosi opifici a forza idraulica, che, in seguito ad abbandoni e distruzioni, non necessariamente dovettero insistere negli stessi siti. Nel 1286 si ha notizia di un mulino «extra portam Riverie de Acquile» (Rivera 1910, p. 83; Zenodocchio 1993, p. 49), che allo stato attuale della ricerca non è possibile identificare con certezza né con il mulino “della Rivera” citato dall’anonimo cantore quattrocentesco della Guerra dell’Aquila (Anonimo, Guerra dell’Aquila, pp. 40-43), né con quello presente nella cartografia ottocentesca succitata, dove compare la chiara didascalia «Molino della Rivera» (Centofanti 1984, p. 31, tav. 8). Per l’Età Moderna si dispone di altre menzioni di mulini genericamente ubicati a «La Rivera» (Colapietra 1978a, p. 31; Id. 1978b, p. 629 e p. 729, n. 24), una delle quali attesta il «molino macinante, cum tre macine, e prato e terra annessi (…) posto vicino questa Città dell’Aquila in loco detto La Rivera» 14, che il principe di Palestrina 13 ASAq, ANA, I vers., notar Francesco Bassi, b. 655, vol. 30, c. 336r. 14 ASAq, ANA, I vers., notar Perseo Capulli, b. 982, vol. 31, c. 182v.
ASAq, ACA, U 104/2, c. 250r. ASAq, ACA, T 53/4, c. 150r.
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Urbano Barberini vendette per 1075 ducati ad Andrea Mosca di Lucoli nel luglio del 1703, pochi mesi dopo il distruttivo terremoto. Un altro mulino ad acqua, appartenuto al celebre cronachista medievale Buccio di Ranallo, era ubicato in località “La Vece” (Zenodocchio 1993, p. 50) e ad oggi non se ne rinvengono tracce materiali in elevato. Questa struttura doveva sorgere nei pressi del Ponte di Roio, in quanto alla metà del XVIII secolo Antinori ipotizza che la località detta “La Vece” fosse individuabile nella zona intersecata dal fossato proveniente da S. Maria delle Buone Novelle (Antonori, Corografia, vol. XXXVI, p. 32; Speranza 1974, p. 431, n. 4), che affluisce nel fiume Aterno in prossimità del suddetto ponte (fig. 1).
fig. 6 – L’area della Cascina e di S. Maria del Popolo con le strutture in evidenza (in ASAq, Carta IGM del 1884, foglio 12).
un’imponente altana coperta da un tetto a padiglione; il secondo, posto nell’angolo meridionale della proprietà, apparentemente di dimensioni più modeste, provvisto di quattro finestroni e sormontato da una torre con altre due finestre. In questa sede non si può affrontare il problema dell’identificazione delle strutture della Cascina con le emergenze edilizie riscontrabili in situ, considerando anche che, negli ultimi decenni, gran parte della tenuta è stata occupata da edilizia residenziale e da strutture commerciali. Basti solo ricordare che nella carta dell’IGM del 1884 sono documentati almeno tre edifici15 e l’intera area circostante è indicata con la denominazione «Casino Cappelli» (fig. 6), che si riferisce evidentemente alla famiglia dei nuovi proprietari. All’inizio del XIX secolo l’estensione dell’intero latifondo, a quel tempo in possesso di Bernardino Romanelli, era stata misurata in poco meno di 35 ha, costituiti da prati, orti, pascoli e terreni arativi (fig. 7). La vicenda storica relativa alla realizzazione della Cascina di Margherita d’Austria è stata ricostruita soprattutto in riferimento alla gestione economica dell’azienda (Colapietra 1978a, pp. 68-72; Clementi 1997, pp. 114-116), che dopo la morte di Madama dovette perdere la principale vocazione all’allevamento bovino, per poi diventare un latifondo dove prevalevano più tradizionali modalità di sfruttamento del suolo (Colapietra 1984, p. 362). Infatti il paesaggio circostante la Cascina, determinato dal primo progetto di Margherita, doveva essere caratterizzato soprattutto da prati ir-
6. Riorganizzazione dello spazio suburbano tra XV e XVII secolo Nel corso del Cinquecento la città dell’Aquila fu oggetto di una serie di sistemazioni urbanistiche destinate a mutare profondamente l’immagine architettonica di alcuni luoghi in ambito intramurale: principalmente la costruzione del castello e la realizzazione del palazzo destinato ad ospitare la corte di Margherita d’Austria (Clementi, Piroddi 1986, pp. 108-112; Centofanti, Brusaporci 2011, pp. 158-159). La presenza in città della figlia naturale di Carlo V provocò cambiamenti rilevanti anche in una vasta area extramurale dove la governatrice decise di realizzare la sua Cascina, una vera e propria azienda agricola razionale per l’allevamento del bestiame grosso, finalizzata alla produzione di latticini (Colapietra 1978a, p. 68; Clementi 1997, p. 116). Questa iniziativa economica consistette nell’acquisto di una vasta proprietà fondiaria prospiciente il tratto di mura che va da Porta Barete fino a Porta Poggio S. Maria, recentemente riaperta nei pressi del piazzale della stazione ferroviaria (Zecca 2020, p. 49). Analizzando ancora una volta le due vedute prospettiche di Fonticulano e Antonelli, mentre nella prima quest’area non è affatto compresa nella rappresentazione, nella veduta di Antonelli l’autore descrive la Cascina come una proprietà delimitata da un lungo muro di cinta che si appoggia alle mura urbiche in due punti, e di una grande porta che si apre verso ponente (fig. 3 e tab. 1, n. 16). All’interno della recinzione sono raffigurati due edifici ben distinti (Colapietra 1978a, p. 263; Sconci 1983, p. 23), il primo rappresentato come un massiccio edificio con un portale e moltissime finestre, sormontato da
15 Anche ella cartografia dell’IGM risalente agli anni Cinquanta del Novecento in quest’area, oggi quasi completamente urbanizzata, sono individuabili due edifici ancora oggi esistenti, di più antica costruzione rispetto all’espansione edilizia degli ultimi decenni: uno posto lungo l’attuale via Rocco Carabba (comunemente ritenuto il nucleo centrale della Cascina di Madama) l’altro posto a est dell’attuale via Giovanni Di Vincenzo, su di un poggio a poca distanza verso nord rispetto al primo edificio.
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fig. 7 – Pianta del 1812 raffigurante il latifondo di Bernardino Romanelli posto fuori Porta Barete, già costituente la Cascina di Margherita d’Austria alla fine del XVI secolo (ASAq, Direzione delle Contribuzioni Dirette, Rettifiche Catastali, vol. 2, n. 1).
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rigui per la produzione del foraggio e da pascoli per il bestiame, che annoverava capi di razza alloctona provenienti dalle Fiandre (Clementi 1997, p. 114; Mantini 2008, p. 149). Le proprietà fondiarie acquisite nel tempo erano circoscritte dal suddetto muro di cinta, che tuttavia comprendeva un’area molto più ampia rispetto a quella che sembra raffigurata nella veduta di Antonelli (Colapietra 1978a, p. 71; Id. 1987, p. 13). In un documento notarile del 1583, con il quale Margherita acquistò terreni e fabbricati fuori Porta Barete, è attestata l’esistenza di «unum palatium cum reclaustro» provvisto di colombaia, stalla e pagliaio, che doveva costituire sia la parte residenziale che produttiva della Cascina, accanto al quale esisteva un viridario «seu giardeno contiguo cum arboribus fontibus acquis»16. Nel 1586, in occasione delle esequie per la morte di Margherita, Salvatore Massonio ricorda la visita di Ranuccio Farnese, nipote di Madama, il quale si portò fuori Porta Barete a visitare quello che sembra una sorta di ‘giardino di delizie’, con gli «ordini delle piante, de i laghi, delle fontane, della casina ed i vari e molti animali che vi si vedevano tuttoché non cinto ancora di mura» (Colapietra 1984, pp. 361-362; Mantini 2008, pp. 150-151). Queste strutture, evidentemente preesistenti all’acquisto di Madama, erano appartenute al gentiluomo aquilano Camillo Antonelli, ed è stato ipotizzato che proprio la costituzione delle proprietà fondiarie afferenti alla Cascina, a partire dai primi anni Settanta del ’500, possa aver provocato la chiusura della vicina Porta Pilese (Mattiocco 1983, p. 111), forse da identificare con la «Porta Romana chiusa», che è documentata nella pianta di Vandi del 1753 (D’Antonio 2022, pp. 44-45). Il progetto di Madama causò inevitabilmente un riassetto generale dello spazio circostante la Cascina, che provocò cambiamenti sia paesaggistici che toponomastici. Infatti, prima
della costituzione del vasto latifondo acquistato da Madama Margherita, una parte di questo spazio suburbano era utilizzato per lo svolgimento della Fiera di San Matteo (detta anche del Perdono Piccolo). Tale fiera si svolgeva i primi giorni di settembre, dopo la più importante Fiera di Agosto, concomitante alla festa del Perdono, istituita da papa Celestino V (Grohmann 1969, pp. 81-82). Il luogo dello svolgimento della Fiera di San Matteo è identificabile grazie ad una precisa indicazione topografica contenuta nei manoscritti inediti di Anton Ludovico Antinori, che nel XVIII secolo collocava il “Colle della Fiera” (detto anche “Colle della Porta”) nella porzione di territorio prospiciente il tratto di mura urbiche a sud-ovest di Porta Barete, tra quest’ultima e la Porta di Poggio S. Maria (Antinori, Annali, vol. XI/1, p. 244). Da Porta Barete, raffigurata nella pianta del 1812, si dipartiva «La Strada Romana», che ancora nel XIX secolo costituiva il confine nordorientale della ex Cascina di Margherita (fig. 7). Nelle fonti sia cartografiche che storiche riguardanti la Cascina assume un grande rilievo la presenza dell’acqua, che aveva una funzione eminentemente pratica quando veniva irregimentata in canali per l’irrigazione dei prati, una funzione sia pratica che estetica quando veniva utilizzata per le fontane e le peschiere. Soprattutto le peschiere, infatti, oltre al valore ornamentale e paesaggistico, avevano la funzione di bacini per l’allevamento ittico. Nella già citata pianta del genio militare austriaco si nota la presenza, nelle vicinanze della Cascina, di due bacini idrici perfettamente quadrangolari, dai quali si dipartono una serie di canali che scendono verso l’Aterno (fig. 5). Questi elementi contribuiscono a caratterizzare un’articolata realtà rurale, dove coesiste la parte rustica adibita a stalle e ambienti produttivi e la parte propriamente residenza, con il palazzo, i giardini, le fontane e le peschiere. Dalla rilettura di una descrizione dei beni immobili che costituivano la Cascina nel 160517, peraltro già
16 Si tratta dell’atto di acquisto fatto da Madama Margherita per dotare la Casciana di terreni e alcune fabbriche. Tali beni, già appartenuti all’aquilano Camillo Antonelli, sono descritti in un documento notarile del 5 gennaio 1583: «in primis unum palatium cum reclaustro stabulo columbario cum viridario seu giardeno contiguo cum arboribus fontibus acquis decursibus formalibus acquarumque decursibus in eis existentibus sitis et positis prope murum magnificae civitatis Acquilae (…) in locali de Pilis ubi dicitur Carignano iuxta stratam iuxta bona Sancti Spititus iuxta viculum iuxta bona Sancti Quintiani iuxta stratam publicam et alios fines. Item petiam unam terrae prativae sitis ibidem iuxta viam publicam iuxta viculum iuxta semittas iuxta bona magnifici domini Ioannis de Antonellis iuxta bona magnifici Antonii de Antonellis et alios fines cum arboribus centum circa existentibus cum formalibus acquis acquarumque decursibus» (ASAq, ANA, I vers., notar Gian Bernardino Porzio, b. 175, vol. 38, c. 15r e v).
17 In un documento del 24 settembre 1605 vengono descritti: «(…) infrascripta bona vulgariter nuncupata La Palomaria in la Cascina di Sua Altezza la quale è canto la muraglia della Città dell’Aquila camminando dal lato della porta di detta città che si dice della Barete dove comincia la muraglia di detta possessione et sequita per la strada pubblica fino alla vigna de Sancto Antonio dove proprio se dice Santo Antonio et dall’altra la via verso la strada romana che va alla porta di detta Città chiamata della Rivera che viene attaccata et serrata alla muraglia dell’istessa Città et sequita fino al muro del horto di Santa Maria del Popolo, et dall’altra parte di dentro sequita lo steccato attaccato dall’altra parte di detto horto di detta chiesa fino al mezzo della vigna che fu del dottor Gio. Vincentio Martino et vigna di Santo Antonio verso le quali mura et steccato consiste detta possessione et
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nota agli studi (Colapietra 1978a, p. 263) ma ancora non analizzata integralmente, è possibile capire che questa era costituita da beni fondiari di vario tipo (circa 15 ha di terre aratorie, circa 13 ha di prati e circa 1 ha di giardini e vigneti), estesi per poco meno di 30 ha complessivi, compresi all’interno dal muro di cinta. Oltre alla descrizione piuttosto precisa del confine e del percorso del suddetto muro, vengono nominati i vari edifici rurali posti al suo interno, che nell’insieme costituivano la Cascina: il palazzo detto «della Palommara» (con fontanile, stalla, pagliaio e parte abitativa), una «casa di sopra da tener fieno» e tre “vasche”, ovvero le strutture che ospitavano i torchi vinari18, ubicate in punti diversi della tenuta. Dunque la descrizione cartografica di Antonelli, risalente ad una quindicina di anni dopo, tenta di rappresentare in modo sintetico una realtà piuttosto complessa, dove l’edificio principale della Cascina è affiancato da numerose pertinenze, adibite alle più diverse funzioni. Bisogna a questo punto ricordare che a partire dal XVI secolo, nell’Italia settentrionale, il termine “cascina” indica un edificio rurale anche di grandi dimensioni, spesso localizzato in piena campagna, accentrato attorno ad una corte e caratterizzato dalla presenza di numerose famiglie contadine ivi residenti (Gambi 1976, pp. 481-482; Rao 2015, pp. 211-213). Da quanto finora detto, nel caso della Cascina di Margherita d’Austria, sembra delinearsi una organizzazione dello spazio piuttosto diversa, dove la localizzazione in area suburbana dovette incidere molto nelle sue modalità di gestione. In questa sede si può solo accennare al problema delle tipologie residenziali nobiliari in ambito rurale, che va messo in relazione al mutato rapporto tra uomo e natura diffusosi all’indomani del Rinascimento. Un esempio di nobile residenza di campagna in territorio aquilano è la villa di
Giuliano Oliva presso Civita di Bagno, non lontana dall’antica cattedrale di Forcona, dove nel 1601 si riunì una ristretta cerchia di eruditi, accademici e letterati (Boero 2017, pp. 66-67). L’edificio della villa, assieme alle proprietà circostanti, era provvisto «di camere, di fenestre, di loggie, d’archi, di torri, d’ornamenti, e mostrar per sui freggi a quel di fuori, e colli, e selve, e vigne, e fonti, e peschiere» (Giornate Aquilane, p. 2). In Età Moderna una caratteristica residenza nobiliare in ambito rurale è il “casìno”, legato principalmente alle tipologie di sfruttamento delle proprietà fondiarie circostanti. Questo è generalmente un edificio caratterizzato da una commistione tra parte residenziale e produttiva. Poteva essere ubicato in area suburbana o addirittura intramurale, ed era spesso associato alla tipologia colturale della vigna murata (Colapietra 1987, p. 12). Poteva altresì essere ubicato in piena campagna, come quello della famiglia AlferiOssorio, sorto su un sito collinare a circa 6 km dalla città dell’Aquila, caratterizzato dalla compresenza di ambienti produttivi per la spremitura dell’uva da un lato, e dalla residenza padronale dall’altro (Lorenzetti 2019, pp. 255-268). Su una simile tipologia dell’edilizia rurale aquilana uno spunto di riflessione è fornito ancora una volta dalla veduta prospettica di Antonelli. Poco distante dalla Cascina di Madama, nei pressi di un piccolo lago, è rappresenta una dimora di proprietà della famiglia Pica, definita come «villa delitiosa». Nella rappresentazione appare caratterizzata da un unico corpo di fabbrica sormontato da un’altana e, sull’altra sponda del piccolo lago, si nota un padiglione a pianta centrale, molto probabilmente in rapporto con la villa (fig. 3). La denominazione “villa”, presente nella veduta del 1622, farebbe pensare a una dimora eminentemente residenziale, probabilmente sorta su più antiche strutture rurali. In effetti, da un catasto del territorio di Pile risalente alla seconda metà del XV secolo, si apprende che Gian Carlo Pica possedeva un terreno «allo cupellio» con «una palombara posta in meczo de ditta terra»19, che potrebbe ipoteticamente costituire il nucleo originario della villa secentesca, peraltro definita anche “palazzo” all’inizio degli anni Trenta del ’600 (Colapietra 1978a, p. 257). La località detta “Cupello” è collocabile a poca distanza a nord-ovest dalla chiesa di S. Maria del Popolo20,
beni che se affittano, de più ci sono diversi prati de coppe 212 incirca de terra aratoria coppe 240 et un quinto incirca et le vigne giardino di coppe 19 incirca con più quantità de arbori fruttiferi, salci, alani, con il casamento del palazzo proprie della Palommaria con il cortile circondato da muraglie con una fonte in esso con il vaso di pietra de scalpello lavorata, l’habitatione, stalla et palliaro della Cascina delle Bacche con una casa di sopra da tener fieno, una bascha alla vigna che fu di detto dottor Gio. Vincentio de Martino, una bascha con palommara che fu di Silvio Perella et una bascha nella vigna che fu di Bartholomeo Porcinaro» (ASAq, ANA, I vers., notar Antonfrancesco Incordati b. 591, vol. 5, cc.: 220r-221r). 18 In territorio aquilano per “vasca” (anche «bascha» nella documentazione storica) si intende propriamente l’ambiente produttivo pavimentato con lastre di pietra o malta idraulica, in cui si effettuava la pigiatura a piedi scalzi e la torchiatura dell’uva (Lorenzetti 2019, pp. 257-259).
ASAq, ACA, S 120bis, c. 5r. La contiguità fisica tra le due località “S. Maria del Popolo” e “Cupello” è documentata nel già citato catasto quattrocentesco di Pile (ASAq, ACA, S 120bis, c. 7v). 19 20
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assieme ad altri capi sorgentiferi erano parte integrante della proprietà privata dei Pica22. Tra il Cupello e la Cascina di Madama sorgeva la chiesa di S. Maria del Popolo. Questo antico luogo di culto, ormai scomparso per far posto ad abitazioni private, è in qualche modo legato all’organizzazione dello spazio nei pressi della Cascina, visto che i suoi orti ne costituivano il confine occidentale. Nella veduta prospettica di Antonelli la chiesa, con facciata verso ponente, viene accostata ad un altro corpo di fabbrica claustrato (fig. 3 e tab. 1, n. 2), che ne fanno un complesso architettonico di rilevanti dimensioni, presso il quale la carta IGM del 1884 localizza un opificio a forza idraulica (fig. 6). Alla metà del XVIII secolo il Catasto Onciario attesta l’esistenza di un mulino ad acqua presso questa chiesa, di proprietà dell’Ospedale Maggiore dell’Aquila23, già messo in relazione alle proprietà fondiarie che in origine costituivano la Cascina di Madama (Colapietra 1978b, p. 589, n. 12; Id., p. 676, n. 253). S. Maria del Popolo era proprietà dei frati Domenicani fin dal 1489, anno in cui il cenobio acquistò dall’università di Pile una piccola edicola con l’immagine della Madonna, attorno alla quale sarebbero poi stati costruiti la chiesa e il nuovo convento (D’Antonio 2010, p. 215). Secondo Giuseppe Rivera la chiesa fu restaurata nel XV secolo24 e, come da un’iscrizione ancora esistente ai suoi tempi, le pareti e il portale furono realizzati grazie alle elemosine del popolo di Poggio Santa Maria (Rivera 1901, p. 4, n. 4). Oltre che all’omonima porta urbica già ricordata, l’ubicazione di questo luogo di culto va ricondotta alla presenza dell’acqua per almeno due motivi. Innanzi tutto perché l’area in cui sorse la chiesa è ancora oggi prossima alla confluenza dell’Aterno con altri due corsi d’acqua: a sud il torrente Raio, che potrebbe essere identificato con il piccolo affluente sulla riva destra dell’Aterno, rappresentato nella veduta di Fonticulano, scavalcato da un ponte ad arco ribassato (fig. 2); a nord il piccolo fiume Vetoio, caratterizzato da una portata d’acqua costante, condizione assai favorevole per l’istallazione di opifici a forza idraulica. In secondo luogo, attraverso alcune fotografie realizzate da Amalia Spernandio tra XIX e XX secolo, è possibile desumere non solo l’ubicazione
in una porzione di territorio ai piedi del Colle di Pile (fig. 1), dove ancora oggi esiste un piccolo lago, presso il quale non si è avuto modo di riscontrare alcuna traccia della struttura in oggetto, se non un fabbricato presumibilmente novecentesco, adibito alla captazione delle locali acque sorgive (tab. 1, n. 15). In una divisione di beni tra alcuni membri della famiglia Pica, risalente al 1658, è presente una sommaria descrizione di una parte della struttura, che tuttavia sembra potersi accostare alla tipologia edilizia del casino di campagna. Accanto ad ambienti produttivi e di stoccaggio quali il forno, il torchio vinario e il «cellarro» la struttura era provvista anche di una scala in pietra, di una loggia e di una camera adibita a studiolo21. Inoltre, nelle proprietà fondiarie circostanti, principalmente prati e vigne, è attesta l’esistenza di una torre colombaia, di una peschiera e di una «grotte dell’acqua», che 21 «Delle possessioni e beni e case del Cupello sono pervenuti in parte d’essi Filippo et Anna l’infrascritti beni, ut: coppe 29 e destri 31 della vigna verso la Palommara conforme è stata terminata da Stefano Marinella; coppe 3 e destri 22 di terra aratoria sotto la vigna di Andrea Burro; il prato alli ‘pratilli’ che sono pezzi di coppe otto, e destri cinque in tutto con la Palombaretta che è sita dentro detta vigna di coppe 29; altre coppe due e mezza di vigna da pigliarsi da quella parte, che confina Andrea Burro da pigliarsela dalle cerase ad alto; item di più tutta la vigna vecchia che comincia avanti la casa et termina alla forma di Colantonii da una parte, dall’altra con gli eredi di Fabrizio Rivera; Item di più l’infrascritti membri della casa, ut: il cellarro in volta à basso nell’entrata delle caldare, tre stanze contigue alla sala che sono in volta, la cucina, guarda cucina, loggia e studiolo alle medesime stanze contigui, la grotta di mezzo che sta fra la grotte dell’acqua, e la stalla; una volticella sopra la stanza del forno con un’altra stanza contigua, che sta coperta solo con pinci; restando a beneficio commune di quella parte e dell’altra l’entrata e cortile dove sono due portoni, il forno, le caldare, basca e pilone con tutte abitationi, e stigli, come anco la grotte dell’acqua, la sala, scala di pietra e tutti altri cortili di detta casa; item tutto il rimanente di detta casa è pervenuto alli detti Maria e Geronimo, con peso ad essi Maria e Geronimo di mantenere li tetti, fuorché della sala, quale peso di mantenimento di tetto di detta sala sia commune (…); la vigna di sopra la strada pubblica confina il popolo di Pile, la via et altri; Un’altra vigna vicino la casa camminando dalla strada di sopra fino alla peschiera di coppe 15 e destri 49, confina l’altra parte di detto Filippo et Anna, Andrea Burro; il prato grande di coppe undici, il prato ‘delle cannizole’ [di] coppe 4 [e] destri 40; la terra sopra lo prato ‘delle cannizole’ coppe 2 destri 17; dichiarando restar commune la conserva dove nasce il capo dell’acqua, e due altri capi d’acqua con la peschiera grande, e tutto il sito dove nasce dett’acqua resti commune sino alla finestra della pischiera, con tutti gli alberi, che stanno in detto sito, e non si possa impedire il corso dell’acqua com’è andato per il passato; item perché ci potria nascere fra esse parti differenza in tempo della vendemmia nell’uso della basca, si è convenuto fra esse parti, che si debia cavar a sorte chi abbia ad essere il primo a vendemmiare, e poi sequitare a fare una vendemmia per uno, e non si possa per ogni vendemmia che si farà impedire la detta basca più di tre giorni» (Mariani, Manoscritti, ms. F, allegato cc. 56r-57v, alle cc. 56v-57r).
Cfr. Ibid. ASAq, ACA, U 104/2, c. 394r. 24 Secondo Giovan Giuseppe Alferi la chiesa fu edificata nel 1454 (Alferi, Istoria Sacra, p. 297). 22
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fig. 8 – Particolare di una fotografia storica raffigurante S. Maria del Popolo prima della sua distruzione (tratta da Sperandio, Scatti Inediti, p. 225).
si può restringere notevolmente l’areale in cui sorse l’antico luogo di cura. L’elemento paesaggistico che caratterizza maggiormente questo luogo, molto evidente nei documenti fotografici suddetti, è la presenza di piantagioni di salici e pioppi lungo il vicino corso d’acqua. Per quanto riguarda quest’ultima essenza arborea va ricordato che nell’aquilano il termine “alano” indicava una particolare varietà di pioppo che era utilizzata anche in carpenteria e che alla fine del Cinquecento veniva venduta a misura lineare (Colapietra 1978a, p. 102, n. 202). Gli sconvolgenti cambiamenti avvenuti durante il Novecento, legati all’urbanizzazione incontrollata e all’abbandono delle campagne, hanno cancellato un paesaggio agrario che, fino a qualche decennio fa, dovette conservare caratteristiche di forte continuità con quello medievale. Infatti, nel già citato catasto quattrocentesco di Pile, vengono descritti i terreni attorno a S. Maria del Popolo, che sono principalmente prati «con alani et salci»25.
dell’antico edificio ma anche osservare il paesaggio agrario nelle immediate vicinanze della chiesa, oggi fortemente modificato. Alcune di queste fotografie ritraggono un imponente complesso sacro in rovina, con un grande portale ad arco ogivale in facciata, più i resti del muro tergale con un cantonale d’angolo realizzato in conci ben squadrati di notevoli dimensioni (cfr. Sperandio, Scatti Inediti 2018, pp. 225 e 227). Pur non essendo corredate di didascalie – se non la generica indicazione «Pile» in quella che ritrae la facciata della chiesa – si può identificare tale rudere proprio con S. Maria del Popolo (fig. 8). Infatti, in base ad una precisa indicazione topografica fornita da Giovan Giuseppe Alferi sul finire del Cinquecento, si apprende che «l’altar magiore risguarda verso occidente, et si dimostra in prospettiva della principal porta che risguarda verso oriente» (Alferi, Istoria Sacra, p. 297). Stando a queste coordinate l’orientamento della chiesa è riscontrabile sia nella carta topografica del genio militare austriaco, dove si nota anche il muro di cinta verso destra (fig. 5), sia nella fotografia della Sperandio, nella quale si scorge una porzione della collina di Pile, in secondo piano, sulla destra dei resti della facciata (fig. 8). Assai problematica, allo stato attuale della ricerca, risulta la localizzazione puntuale del sito ove sorgeva l’ospedale di S. Giovanni detto “del Rivo di Roio”, che fu unito all’Ospedale Maggiore dell’Aquila nel 1448 (Rotolante 2020, pp. 278-279). Vista la confluenza dei fiumi Aterno e Raio (quest’ultimo forse identificabile con il rivo di Roio) e la presenza del mulino dell’Ospedale Maggiore presso la chiesa di S. Maria del Popolo,
7. Conclusioni Sulla base della documentazione consultata l’area presa in esame risulta occupata da diverse tipologie di colture: innanzi tutto i vigneti, che coprivano gran parte delle porzioni aride e collinari del territorio, come testimoniato dalla presenza di numerose strutture adibite a torchi vinari. Al contrario gli orti suburbani, che necessitavano dei canali di irrigazione, si concentravano nelle aree rivierasche 25
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del fiume Aterno e nei pressi della Cascina di Madama Margherita. Altra tipologia colturale è quella dei prati irrigui, necessari alla produzione di foraggio per l’allevamento del bestiame non transumante, anch’essi concentrati attorno alla Cascina, provvista di fontane e abbeveratoi alimentati da acque sorgive. Infine le piantagioni di alberi poste soprattutto sulle pendici settentrionali di Monte Luco (oggi progressivamente riconquistate dal bosco) e sulle colline a nord della città. Nelle restanti aree di fondovalle si estendevano terreni adatti per la semina dei cereali mentre lungo le rive del fiume e dei canali, esistevano piantagioni di salici e pioppi finalizzate alla produzione di combustibile, nonché di legname per il mercato dell’edilizia. Questo panorama, dove le acque e i vigneti sembrano essere gli elementi maggiormente caratterizzanti, è sostanzialmente affine a quello descritto da Marino Caprucci prima dell’anno 1600 26, la stessa epoca a cui risalgono le prime rappresentazioni del suburbio aquilano. Il particolare paesaggio a ridosso del fiume Aterno, modellato dall’uomo in funzione dell’elemento idrico attraverso la realizzazione di una fitta rete di canali, potrebbe essere all’origine del toponimo “Rivera”, che indica una circoscritta porzione di territorio a nord del Ponte di Roio. Come si è visto, nei pressi di quest’ultimo ponte si estendeva la località chiamata “Vece”, toponimo che rimanda chiaramente alla pratica della cosiddetta ‘coltura a vece’, ovvero l’avvicendamento annuale della cerealicoltura e del maggese (Rotellini 2020, p. 29). Il suburbio aquilano era disseminato di infrastrutture di utilità pubblica come le strade, spesso costeggiate da siepi o piantagioni di pioppi, e i ponti, che, assieme ai mulini, ricoprirono un ruolo strategico per l’economia della vicina città. La presenza del centro urbano, visto come luogo di consumo dei prodotti del contado, determinò l’esigenza di scegliere un luogo adatto allo scambio delle merci. Generalmente le fiere si svolgevano in porzioni di territorio riconoscibili e ben definite dai privilegi delle autorità, come ad esempio la vasta zona antistante la cattedrale di S. Panfilo a Sulmona (Mattiocco 1981, p. 32). Talvolta lo
spazio periodicamente utilizzato per le fiere ha lasciato traccia nel toponimo attuale, come nel caso della zona posta a sud-ovest di Orvieto, attestata fin dal XIV secolo come “Campo della Fiera”, dove le indagini archeologiche hanno confermato una frequentazione sia in età classica che medievale (Leone 2018). Contrariamente a quest’ultimo caso la porzione di territorio nel suburbio aquilano denominata “Colle della Fiera” non è stata riscontrata nella cartografia storica, né dal punto di vista toponomastico né dal punto di vista strettamente iconografico. Infatti nel 1622, quando Antonelli produsse la prima rappresentazione cartografica sufficientemente dettagliata dei dintorni della città, già si erano verificati significativi cambiamenti. La destinazione d’uso di una parte dell’area dove nel XIV secolo si svolgeva la Fiera di San Matteo era ormai variata, recintata e inglobata tra le altre proprietà fondiarie costituenti la Cascina di Madama Margherita, in seguito appartenuta al Duca di Parma (vd. supra § 6). Per quanto concerne l’edilizia si può compiere una prima distinzione tra edilizia sacra e non. Nella prima categoria vanno ascritti numerosi insediamenti di Età medievale come gli ospedali: S. Antonio de Interria prope Aquilam e S. Giovanni del Rivo di Roio a nord-ovest della città; i due ospedali di S. Giovanni del Campo e S. Giovanni delle Torri a sud-est. Non tutti sono individuabili con certezza, anche perché le strutture subirono notevoli trasformazioni funzionali nel corso dell’Età Moderna. Relativamente al cambiamento di destinazione d’uso degli ospedali di S. Antonio e di S. Giovanni del Campo vanno notate alcune analogie riguardanti la loro trasformazione in luoghi ricettivi nel corso dell’Età Moderna. Come l’ospedale di S. Giovanni del Campo, diventato proprietà del Capitolo della Cattedrale di S. Massimo e trasformato in osteria entro il 1595 (vd. supra § 4), anche il complesso architettonico dell’ospedale di S. Antonio venne acquisito dallo stesso Capitolo. In un documento notarile del 1767 viene descritto come «grangia di S. Antonio», che era composta dalla cappella, dall’osteria, dal macello e da altre abitazioni27. La funzione di osteria è ancora documentata nel primo ventennio del XIX secolo, quando sulla carta del genio militare austriaco le strutture presso la chiesa di S. Antonio vennero descritte come «Osteria di Pila» (fig. 5).
26 L’Aquila «si vede assai vagamente esser posta in un piacevol colle molto salutifero et allegro in mezzo a due campagne di grani et viti feconde per le quali corre il fiume Aterno detto poscia Pescara da cui con molta comodità oltre a quelle de’ molini sono irrigate et innaffate, et tutti i colli d’intorno sono con molta vahezza et amenità di molte et abondanti et fruttifere vigne ripieni, onde rientrano nella città istessa vié più 100000 some di mosto l’anno a mediocre ricolta» (Caprucci, Relazione, pp. 135-136).
27 ASAq, ANA, I vers., notar Domenico Marcantonio Rietelli, b. 1500, vol. 26, cc. 224r-226r, a c. 225v.
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fig. 9 – Gli ospedali di S. Antonio (n. 1) e di S. Giovanni del Campo (n. 2) ubicati rispettivamente sulla viabilità principale per Roma e Napoli, riutilizzati come osterie nel corso dell’Età Moderna.
quasi fossero un’alternativa agli ospedali dell’Agro (Maglio 2016, p. 342). Nell’area presa in esame va evidenziata la fortissima attestazione del culto mariano, che si manifesta soprattutto in relazione ai due luoghi di culto edificati accanto ai due ponti principali, il Ponte Rosarolo e il Ponte di Roio, ma anche nelle altre chiese di S. Maria degli Angeli, della Madonna del Rifugio, di S. Maria del Soccorso e di S. Maria del Popolo. Va notato che la maggior parte di queste chiese fu edificata nel XV secolo su preesistenti edicole dedicate alla Madonna, fatto che potrebbe essere indicativo di una nuova attenzione delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti della devozione popolare, funzionale alle modalità di sfruttamento del territorio suburbano, nell’ottica di un controllo delle varie attività umane che vi si svolgevano. Per quanto riguarda l’Età Moderna questi luoghi di culto non sembrano aver mai avuto la funzione di aggregazione demica, confermando una dinamica di sostanziale parcellizzazione dell’insediamento nell’immediato suburbio aquilano, osservabile nella cartografia storica consultata. All’Aquila, infatti, le vaste aree rimaste inedificate all’interno delle mura
L’ubicazione degli ospedali in area suburbana può essere studiata in relazione ai percorsi di accesso in città e alla cerchia delle mura, come nel caso di Bologna, dove è stato possibile risalire a quale delle cinte murarie fossero in relazione tali strutture (Foschi 1990, pp. 11-13). Per quanto riguarda L’Aquila, entrambe le osterie già ricordate, e dunque i siti dei relativi ospedali, sorgevano alla distanza di circa un kilometro dalle mura della città e con tutta probabilità erano al servizio dei viaggiatori che percorrevano le due principali vie di accesso dell’Aquila: l’osteria di S. Antonio sulla via per Roma (che iniziava da Porta Barete), quella di S. Giovanni del Campo sulla via per Napoli e la costa adriatica (che iniziava da Porta Bazzano e costeggiava il Tratturo L’Aquila-Foggia) (fig. 9). La trasformazione degli antichi ospedali in osterie sembrerebbe far emergere una sorta di contiguità di uso di tali strutture nel corso del tempo, da luoghi propriamente ‘di cura’ a luoghi più genericamente ‘di accoglienza’. A tal proposito è interessante notare che nel suburbio romano i gestori delle osterie poste fuori le mura dovevano occuparsi dei malati e dei morti in campagna, 61
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Come si è avuto modo di dimostrare nella maggior parte dei casi esaminati i dati relativi all’esatta ubicazione di alcune strutture, ricavabili dall’analisi della cartografia storica, sono confermati e implementati da quelli riscontrabili nella documentazione d’archivio. Tuttavia non si è avuta sempre la possibilità di identificare con certezza alcune delle principali strutture documentate nelle fonti cartografiche consultate. Infatti, effettuando un confronto tra le 16 strutture individuate nella pianta prospettica di Antonelli del 1622 e la situazione attuale dell’area (tab. 1), è stato possibile riscontrare la presenza di tali strutture (o di resti materiali riconducibili ad esse) solo per 11 casi (pari al 68% del totale). I restanti 5 casi (pari al 32% del totale), corrispondono a quei siti la cui ubicazione è stata accertata solo attraverso l’analisi delle fonti cartografiche e storiche. Tale conclusione rende indubbiamente necessario un prossimo approfondimento della ricerca, che potrà avvalersi dei preliminari risultati presentati in questa sede se non altro quale strumento di contestualizzazione e che potrà essere finalizzato ad una più capillare analisi del territorio, variamente utilizzato e trasformato per le odierne esigenze di una città ancora in fase di ricostruzione.
fino alla prima metà del secolo scorso (D’Antonio 2022, p. 29) spiegano la mancanza di veri e propri borghi extramurali, che invece, nel caso della città di Sulmona, rese necessaria la costruzione di una seconda cinta muraria all’inizio del XIV secolo, volta ad inglobare i nuovi insediamenti sorti in relazione a preesistenti luoghi di culto suburbani (Mattiocco 1981, pp. 31-34). Per quanto riguarda le altre manifestazioni edilizie individuate in ambito laico, si potrebbe attuare una distinzione tra strutture residenziali e strutture produttive. Nel primo caso vanno annoverati il palazzo suburbano della famiglia Rivera, le porzioni residenziali della Cascina di Margherita d’Austria e della villa appartenuta alla famiglia Pica. Nel secondo caso, oltre agli ambienti produttivi delle stesse strutture (forno, torchi vinari, stalle, pagliai, torri colombaie etc.), vanno annoverati i numerosi mulini ad acqua, assieme agli invasi artificiali adibiti all’allevamento ittico. Come si è visto alcuni di questi bacini erano adibiti alla macerazione della canapa sativa, fondamentale fase della filiera produttiva del cordame, che ad esempio a Bologna assumeva caratteri e proporzioni imparagonabili con la più modesta realtà aquilana (Fornasari 1990, pp. 20-21).
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2. ARCHEOLOGIA DEL TERRITORIO ARCHAEOLOGY OF THE TERRITORY
La cripta del Padre Eterno o di Santa Maria della Grotta a Otranto* Stefano Calò*, Domenico Caragnano** * Laboratorio di archeologia medievale dell’Università del Salento ([email protected]). ** Museo del Territorio di Palagianello ([email protected]).
Riassunto Gli insediamenti rupestri della penisola salentina descrivono una forma abitativa molto in uso durante i secoli centrali del Medioevo e si caratterizzano per l’affinità con altri insediamenti simili presenti nell’area mediterranea. Per molto tempo si è ritenuto che la ragion d’essere di questi insediamenti fosse legata al fenomeno monastico legato alle migrazioni iconoclaste dell’VII-IX secolo (Gabrieli 1936; Maggiulli 1914; 1932; Medea 1939). Lo sviluppo della ricerca ha permesso, nel corso della seconda parte del Novecento, di dimostrare come questi insediamenti, altro non erano che dei veri e propri villaggi di origine laica e civile, non dissimili nell’organizzazione insediativa ai normali villaggi “costruiti” e con molte affinità con questi ultimi (Cfr. Prandi 1965; Fonseca 1970; 1975; Caprara 2001). Inoltre, si è arrivati a capire come gli edifici di culto, sia rupestri che ipogei, altro non erano che l’espressione della religiosità popolare scaturiti e legati soprattutto a una committenza privata e spesso laica (Dell’Aquila, Messina 1998). Il presente lavoro si inserisce in un progetto più ampio sullo studio degli insediamenti rupestri dell’entroterra di Otranto. Un lavoro che ha prodotto un censimento e una catalogazione di 155 cavità artificiali di varia natura ed epoca disseminati nelle due valli che caratterizzano la città ossia la valle delle Memorie e la valle dell’Idro, nelle quali è possibile circoscrivere – in un’area di circa 5 km² – due villaggi in cui la componente insediativa rupestre sembra essere quella prevalente e più conservata (Fonseca et al. 1979, pp. 135-148; Fonseca 1980, p. 79; Calò 2018, 2020; Calò, Caragnano 2021; Calò, Martellotta 2019; Calò, Sammarco 2020; Uggeri 1979). Grazie ad un lavoro congiunto che ha previsto l’esplorazione speleologica (avuta con il supporto tecnico del gruppo speleologico leccese ‘Ndronico), l’analisi architettonica e storico-archeologica – grazie anche all’uso di tecnologie non invasive come la fotogrammetria 3D – è stato possibile approdare ad una nuova conoscenza di uno dei tre edifici di culto in rupe dell’entroterra otrantino, la cosiddetta cripta del Padre Eterno (gli atri due edifici sono le chiese rupestri di S. Nicola – nella valle delle Memorie – e di S. Angelo – nella valle dell’Idro; cfr. Fonseca et al. 1979, pp. 147-148; Calò, Caragnano 2021. Parole chiave: insediamenti rupestri, ipogei, chiese rupestri, Otranto, Salento, Puglia, archeologia del rupestre, 3D modelling, fotogrammetria.
Abstract The Crypt of the Padre Eterno or Santa Maria of the Cave in Otranto. The cave settlements on the Salento Peninsula represent a kind of habitation that was very common during the central centuries of the Middle Ages and are characterized by a similarity with other such settlements present in the Mediterranean area. For a long time, it was believed that the reason for these settlements was determined by the monastic phenomenon related to the iconoclast migrations in the 7th-9th centuries (Gabrieli 1936; Maggiulli 1914; 1932; Medea 1939). In the second half of the 20th century, further research demonstrated that these settlements were none other than actual villages of secular and civil origin and were not very different in their organization from “constructed” villages, with which they had many similarities (Cfr. Prandi 1965; Fonseca 1970; 1975; Caprara 2001). Moreover, it became clear that the religious buildings, both in the caves and underground, were the expression of a popular devotion that arose mainly from a private and often, secular, client (Dell’Aquila, Messina 1998). This study is part of an extensive project for research on the rock settlements in the hinterland of Otranto. The study has produced a census and a catalog of the 155 artificial caves of various types and eras which are scattered across the two valleys where the city of Otranto is located, that is, the Valle delle Memorie and the Valle dell’Idro, in an area of about 5 km² which includes two villages in which the main rock settlements would seem to be the most prevalent and best preserved (Fonseca et al. 1979, pp. 135-148; Fonseca 1980, p. 79; Calò 2018, 2020; Calò, Caragnano 2021; Calò, Martellotta 2019; Calò, Sammarco 2020; Uggeri 1979). Thanks to a joint study which included the speleological exploration (conducted with the technical assistance of the speleological club of Lecce, ‘Ndronico), and the analysis of the architecture, history and archeology, mainly using non-invasive technologies like 3D photogrammetry, it was possible to acquire new knowledge of one of the three religious buildings on a cliff in the hinterland of Otranto, the so-called Crypt of the Holy Father (the other two buildings are the rock churches of S. Nicola in the Valle delle Memorie and S. Angelo in the Valle dell’Idro; cfr. Fonseca et al. 1979, pp. 147-148; Calò, Caragnano 2021. Keywords: rock settlements, hypogeums, rock churches, Otranto, Salento, Puglia, archeology of rock habitations, 3D modeling, photogrammetry.
* Questo lavoro nasce in seno alla tesi per la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici dell’Università del Salento sotto la supervisione del prof. Paul Arthur, al quale va il mio ringraziamento. Altresì ringrazio il presidente del gruppo speleologico leccese ‘Ndronico, Marcello Lentini e la socia Mariangela Martellotta per l’aiuto nelle esplorazioni e nei rilievi; Grazie anche a Franco Dell’ Aquila per le impressioni e i suggerimenti; In fine grazie ai condomini del condominio in cui si trova l’ipogeo per la disponibilità e per aver acconsentito all’esplorazione e alla docu-
mentazione (fig. 1). Finora la conoscenza archeologica dell’invaso, sulla base della documentazione esistente (la cripta è censita nel Catasto delle grotte e delle cavità artificiali della Regione Puglia con il numero PU_CA 973), appariva approssimativa e incompleta nonostante fosse già stata oggetto di studio, soprattutto storiografico, da parte di autori locali (Gianfreda 1989; Corchia 1990; Ricciardi 2011). L’inizio di nuove indagini ha consentito di determinare diverse fasi di evoluzione del sito e di aprire la strada, con nuove ipotesi, al suo studio sistematico.
69 Archeologia Postmedievale 26, 2022, pp. 69-78 doi 10.36153/apm26003
Stefano Calò, Domenico Caragnano
compare con il nome di Monte S. Domenico nelle trattazioni di storia sulla vicenda dell’assalto turco del 1480. Questo fondo di proprietà ecclesiastica venne assegnato, dopo l’invasione dei turchi, al canonico Arcidiacono del Capitolo metropolitano di Otranto5. In uno studio pubblicato nel 1990, Antonio Corchia individua nella trattazione Memorialibus Hydruntinae Ecclesiae epitome di Francesco Maria De Aste (arcivescovo di Otranto dal 1696 al 1719) la cripta del Padre Eterno quando si parla della «subterranea tantum clade sub vocabulo S. Mariae della Grotta Ecclesia existente» facente parte di un convento distrutto (quello dei Domenicani) nell’invasione turca del 14806. Questa chiesa, il cui titolo dovrebbe essere appunto quello di S. Maria della Grotta, ritorna in un altro documento dello stesso secolo, ossia nell’inventario analitico redatto il 25 aprile 1665 dal notaio Carlo Pasanisi, su incarico del Commendatario di Casole cardinale Laurentis, in cui sono annotati tutti i beni, possedimenti e giurisdizioni del monastero otrantino di S. Nicola di Casole7.
1. La storia degli studi e le fonti L’ipogeo, attualmente ricadente nell’area urbana della città, è ubicato all’interno di un giardino condominiale, nei pressi di un antico percorso stradale medievale con andamento Nord Sud che passava a Est del villaggio rupestre della valle delle Memorie e che doveva dirigersi verosimilmente in direzione del monastero di S. Nicola di Casole1. Sull’ipogeo non sono mai circolate molte notizie, fatto forse imputabile alla mancanza di studi sistematici; quello che si conosce deriva dalle annotazioni degli storici locali che lo hanno visitato nel corso degli anni e che hanno riportato nelle loro pubblicazioni quanto riuscivano a descrivere vedendo i resti degli affreschi e ciò che rimaneva degli arredi2. Il primo di questi studiosi che cercò di ricostruire la storia della cripta fu don Grazio Gianfreda (parroco di Otranto) che comprese la toponomastica della zona e ne scorse un’associazione con l’ambiente monastico. La zona in cui si trova l’invaso, infatti, compare nei documenti come “Domenicani”, tale toponimo deriverebbe dalla vendita dell’area nel 1478-79 ai monaci dell’ordine domenicano, chiamati ad Otranto dall’arcivescovo Stefano Pandinelli. Gianfreda riporta che il convento dei Domenicani acquisì due fondi chiamati anticamente Conette vecchie. Tali fondi, rinominati poi Giardino grande e Aja o Croce, vennero segnati nel catasto con il nome “Domenicani”3. I nomi di questi fondi compaiono su diversi documenti che ne riportano il cambio di proprietà con una successione di vendite continuate almeno fino alla fine del Settecento; tuttavia in questi atti non compare mai nessun riferimento esplicito all’ipogeo. Stando a quanto viene riportato da un altro studioso di Otranto, don Paolo Ricciardi, l’invaso era ubicato nel cosiddetto giardino Villa 4 che
2. L’ipogeo Le nuove esplorazioni condotte dal team del gruppo speleologico ‘Ndronico, coordinato da Stefano Calò, hanno inaugurato l’inizio di uno studio sistematico per l’ipogeo. Sono state condotte delle operazioni di rilievo indiretto degli ambienti attraverso la tecnica della fotogrammetria automatica che hanno permesso di ottenere un modello tridimensionale dell’edificio da cui è stato possibile partire per ragionare su nuove ipotesi circa l’evoluzione della struttura nel corso del tempo. L’ingresso alla “cripta” è definito da una scala; in corrispondenza del varco d’entrata si nota ciò che resta di una tettoia voltata realizzata in blocchi
1 Cfr. Leo Imperiale 2001, p. 327; Mastronuzzi, Melissano, Spano 2008, p. 114; Calò 2020, p. 296. 2 Gianfreda 1977, p. 58, tavv. 29-36; Id. 1979, pp. 182190. 3 Id. 1989, p. 182. 4 Non poco distante dal condominio in cui è presente la cripta, verso la fine di via Ottocento Martiri, vi è una zona che porta il toponimo di “Giardino Vela”. In quest’area è riportata la notizia della demolizione di un menhir omonimo, apparentemente l’unico noto nei pressi della città antica; la demolizione avvenne nell’ambito dei lavori di costruzione della strada che da Otranto conduce al convento di S. Francesco da Paola o di S. Maria dei Martiri, presso il colle della Minerva. Nel giardino condominiale (lungo la direttrice di questa stessa strada) in cui è presente la cripta del Padre Eterno è stato collocato, purtroppo in maniera arbitraria e in seconda giacitura, un monolite che, secondo i racconti popolari, anch’esso sarebbe stato rinvenuto
nella zona e non sarebbe peregrino pensare che possa trattarsi dello stesso “menhir Vela” scomparso. Sul menhir Vela si veda De Giorgi 1916, p. 67; Jatia 1914; Palumbo 1955, p. 130; Id. 1956, p. 72; Malagrinò 1982, p. 137. La notizia della demolizione del monolite è documentata nell’Archivio della Soprintendenza Archeologica di Taranto (Atti del 1958); queste informazioni sono riportate in “Schede di Beni Archeologici. Zona distrettuale di Maglie”, Regione Puglia, Assessorato P.I. e Cultura. Centro Regionale Servizi Educativi e Culturali. Distretto LE/43 maglie, p. 76. 5 Stando a quanto ci racconta il Ricciardi, dopo la distruzione ad opera dei turchi del convento sopravvissero pochi ruderi e la cripta, Ricciardi 2011, pp. 263-265. 6 Corchia 1990. 7 Il documento è stato studiato dal Tanzi in Tanzi 1902 e ripreso in Daquino 2000, pp. 26-28.
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fig. 1 – Rilievo a cura di M. Martellotta, restituzione fotogrammetrica 3D a cura di S. Calò.
squadrati. La disposizione degli ambienti interni è molto articolata e complessa; è riconoscibile un grande ambiente centrale il cui spazio è caratterizzato dalla presenza di due pilastri monolitici o colonne (uno integro a sinistra e un secondo a destra danneggiato e poi ricomposto) che sorreggono la volta e che danno la percezione di una suddivisione dello spazio in 3 navate. Il soffitto, a seguito di restauri recenti, appare voltato a botte con una copertura che sostituisce in parte quella originaria. Superate le due colonne8, sul fondo, si aprono due nicchie, di cui una, quella di sinistra, di forma rettangolare, è caratterizzata da un dipinto che raffigura una Madonna con Bambino e probabilmente doveva ospitare un altare. La nicchia a destra appare caratterizzata da ampliamenti che ne rendono difficile la lettura. A Est del grande ambiente centrale si accede a un piccolo vano completamente affrescato con dipinti di XVI secolo. Sul soffitto è stato aperto un foro sulla cui parete compaiono delle pedarole per consentirne
la percorribilità. La parete di fondo di questo vano appare non scavata ma costruita in conci di tufo tenuti insieme da malta grossolana a base di terra rossa e ricoperti di intonaco; la parte superiore della stessa parete è caratterizzata da una piccola volta sotto la quale, in corrispondenza dell’intradosso, vi era un’altra apertura (forse una finestrella) che dava presumibilmente verso l’esterno originario. Sempre sul fondo, in corrispondenza dell’angolo sinistro, vi è una tamponatura, forse corrispondente ad una scala realizzata quando, nel 1945, l’ipogeo divenne deposito di una fabbrica di tabacco costruita al di sopra di esso9. Sul pavimento di questo ambiente si apre lo scavo di un silos per la conservazione di derrate. L’ambiente Ovest, il più grande dei due vani laterali, non ha una conformazione definita; la parete sembra avere un andamento curvilineo e sui lati sono state realizzate delle grandi nicchie (fig. 2). Anche per questo ambiente il soffitto è voltato, ma in tutto il vano sono riconoscibili diversi interventi di ampliamento che ne hanno alterato l’aspetto originario. Sul fondo compare l’alloggiamento di
8 Entrambe sono sorrette da un pulvino scolpito; quello di sinistra appare staccato e rimontato.
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fig. 2 – Interni, foto di S. Calò.
un altare sopra al quale vi è una grande nicchia spesso identificata dagli storici locali come la sede della raffigurazione del Padre Eterno non più presente10, inoltre sul pavimento vi è lo scavo di un altro silos. In questa parte dell’ipogeo vi è un’insolita consistenza di graffiti, tutti realizzati nelle nicchie 10
e riferibili per lo più a parole, nomi (scritti con lettere latine) e date come quella che indica l’anno 1561. Nel complesso l’impianto strutturale risulta molto articolato e disomogeneo e ciò deriva dalle numerose trasformazioni avvenute nel corso del tempo. Da una prima lettura dell’impianto molto di ciò che si vede oggi risalirebbe grossomodo al Cinquecento e sarebbe contemporaneo agli affre-
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fig. 3 – Madonna con Bambino, pilastro sinistro, ambiente centrale, foto di S. Calò.
fig. 4 – Santa Parasceve, San Giovanni Battista, foto di S. Calò.
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schi presenti che sono perfettamente databili a quel periodo. Allo stato attuale non si riconoscono elementi architettonici datanti, ma ad una analisi attenta è possibile ipotizzare che quello che oggi si vede all’interno della struttura è la risultanza di diverse fasi di scavo dell’ipogeo (fig. 7). Discendendo la rampa di scale dell’ingresso, sulla sinistra, si nota la presenza di una tomba a fossa tagliata dallo scavo della stessa rampa; la sezione della tomba è trapezoidale e rimanda alle sepolture di fattura medievale11. Dato che la tomba in questione è stata manomessa, tagliata e tamponata è palese la sua anteriorità rispetto all’invaso ed è verosimile pensare che nell’area ve ne fossero altre e che l’ipogeo sia stato realizzato in un’area già caratterizzata da presenze sepolcrali.
tratto su sfondo giallo, con la duplice cornice rossa e bianca. La parte superiore del dipinto è andata perduta, ben leggibile è la mano sinistra che stringe un cartiglio bianco srotolato dove all’interno è presente una croce e la scritta in latino Ecce Agnus Dei qui tollit (Giovanni 1, 29) 12, mentre l’indice indica la mano sinistra che tiene un libro chiuso con la coperta decorata da un agnello inginocchiato. Il Battista indossa un mantello foderato in verde, che copre una veste scura di pelliccia, peculiare degli eremiti del deserto, che l’evangelista Marco precisa essere di pelo di cammello (Marco 1, 6). Le gambe sono pelose come il profeta Elia (RE 2, 18). Ai piedi indossa dei sandali leggeri allacciati alla caviglia. In basso a sinistra è riconoscibile un devoto inginocchiato, con una scritta devozionale in parte mutila, dove è possibile riconoscere la data 1554 (fig. 4). Affianco a San Giovanni Battista troviamo la Madonna della Misericordia in più parti poco leggibile. Si intravede la testa coperta da un manto azzurro, che si apre sul davanti, mettendo in evidenza la veste bianca, che per la tecnica delle pieghe ci riporta al pittore di santa Parasceve. Sotto il manto trovano protezione dei confratelli inginocchiati che vestono una tunica bianca e un cappuccio bianco in testa; con la mano sinistra stringono e mostrano una croce, mentre con la destra impugnano una piccola frusta (fig. 5). Nel Salento l’iconografia della Madonna della Misericordia che protegge sotto il suo mantello dei confratelli incappucciati è presente nella chiesa rupestre della Coelimanna a Supersano13. Una volta all’interno del vano, da sinistra, vi sono Santa Barbara, Sant’Antonio abate, Santa, Pietà, Madonna col Bambino. Le cattive condizioni dei dipinti non ci permettono di dare per tutti una descrizione. Il dipinto di Santa Barbara è in più parti rovinato, sono visibili il collo e i lunghi capelli scuri, mentre del volto le sopracciglia, il naso e la bocca. Indossa un mantello rosso che copre una veste azzurra con lo scollo decorato da un gallone giallo. Con la mano destra tiene un modellino di una torre, dove si intravede la base e la parte superiore con la merlatura, mentre non è identificabile cosa stringe con la mano sinistra14. Sant’Antonio abate indossa un abito monacale scuro, con il cappuccio che copre la testa. Ha la barba
3. L’apparato iconografico Dal numero dei dipinti presenti nell’ipogeo si desume che doveva essere affrescato quasi nella sua totalità. Oggi, benché in uno stato di conservazione precario, è possibile riconoscere su più di una parete diversi soggetti, in alcuni casi con più strati. Nell’ambiente centrale, particolari risultano essere la raffigurazione della Madonna con Bambino nella nicchia di sinistra e le decorazioni sui pilastri (fig. 3). Quello a sinistra è adornato frontalmente con tante stelline gialle (impossibile definire le decorazioni sui restanti lati). Sul lato orientale del pilastro di destra è possibile riconoscere Santa Parasceve dipinta all’interno di un pannello rettangolare attorniato da una larga fascia bianca e poi delimitata da una linea nera, con lo sfondo bipartito in rosso in alto e giallo in basso. La santa è rappresentata in piedi e di tre quarti, indossa un manto azzurro foderato in giallo, che le copre la testa e le spalle aprendosi davanti, dove vien messa in evidenza una lunga veste bianca manicata e stretta alla vita. In basso fuoriescono la parte anteriore delle scarpe. La testa, in particolare la fronte e il collo, è coperta da un soggolo bianco. Il viso ha un colorito chiaro, con i tipici lineamenti tardo gotici degli occhi lunghi e stretti le sopracciglia ben marcate in nero. In alto all’interno della cornice bianca si intravedono delle scritte in greco di colore nero di difficile interpretazione, tranne per ΠAΡΑ e la data 1554 (fig. 4). L’ambiente Est è l’unico vano in cui si conserva il quantitativo maggiore di dipinti. In corrispondenza dell’entrata si riconosce San Giovanni Battista ri11
Cfr. Paiano 2018, p. 9. Cfr. Cortese 2014-2017. 14 R. Paiano vede la Santa che detiene le torri con entrambe le mani, cfr. Paiano 2018, p. 12. 12
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Cfr. Calò,Stefàno 2021 e la bibliografia riportata.
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fig. 5 – Madonna della Misericordia, Sant’Antonio abate, Santa Barbara, ambiente est, foto di S. Calò.
fig. 6 – Pietà e Madonna con Bambino, ambiente est, foto di S. Calò.
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fig. 7 – Ipotesi ricostruttiva delle fasi di scavo della cripta, restituzione fotogrammetrica 3D a cura di S. Calò.
bianca ed occhi lunghi e stretti, che rendono severo il viso15. Con la mano destra impugna un lungo bastone, mentre con la sinistra tiene un libro chiuso. Lo sfondo è giallo ocra, che cambia in bianco in basso, dove è possibile vedere le lingue di fuoco color rosso e parte di un maiale, che riportano alla devozione del Santo, invocato per proteggere e guarire dal “fuoco di sant’Antonio”, o ergotismo, che è l’intossicazione causata dall’ingestione di segale o altri cereali, in grani o in farina, contaminata dal fungo Claviceps purpurea16 (figg. 5-6). La Madonna con Bambino è dipinta su sfondo giallo e azzurro con cornice rossa con in basso a sinistra la figura della committente, accompagnata da un’iscrizione in cui compare il nome MARIA RITA in lettere latine e la data 1554 (fig. 6). Nell’ambiente Ovest, in corrispondenza dell’accesso, si riconosce parte di un cavaliere con armatura pesante. L’analisi dei dipinti, in gran parte in pessime condizioni di conservazione, ci induce a pensare che,
come testimoniano le scritte, le piccole immagini dei committenti e la presenza della data 1554, è stato proprio in quest’anno che l’ipogeo ha subito un nuovo abbellimento decorativo. Non è facile desumere se le immagini delle Madonne col Bambino, delle Sante e dei Santi abbiano avuto un preciso progetto pittorico o legato alla devozione dei singoli committenti. Alcune iconografie come la Madonna della Misericordia con la presenza dei confratelli e della Pietà ci riportano ad una devozione di protezione delle anime per non cadere nelle tentazioni del peccato e della morte eterna all’interno dell’Inferno, mentre il culto per Sant’Antonio abate alla continua paura di ammalarsi del “fuoco di Sant’Antonio”. La devozione popolare per alcuni Santi ha chiesto più protezioni, come per Santa Barbara invocata a causa delle vicende della sua vita di sopportare le pene del martirio, in particolare il fuoco. Una delle principali cause degli incidenti domestici nelle case illuminate da lucerne e riscaldate da bracieri, che spesso provocavano veri incendi. Veniva invocata contro le morti improvvise e gli eventi naturali come fulmini e terremoti17.
15 Il Santo è stato confuso con S. Antonio da Paola, si veda Gianfreda 1989, pp. 183-190 e Ricciardi 2011, p. 266. 16 Per alleviare il fuoco di sant’Antonio veniva utilizzato un unguento preparato con la sugna di maiale.
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Caragnano 2020, p. 51.
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enfiteusi ai vai affittuari19. Dopo la distruzione turca è riportato che ci furono delle opere di ricostruzione del convento che potrebbero, forse, aver interessato anche la cripta. La lettura degli elementi archeologici, architettonici e iconografici al momento a disposizione descrive un uso della struttura come chiesa ben attestato sicuramente nel XVI secolo e poi anche in quelli successivi. L’uso intensivo dell’ipogeo per fini che sono andati oltre quello di luogo di culto è evidenziato dalle continue trasformazioni e stravolgimenti che la struttura ha avuto nel corso del tempo. Non è da sottovalutare la recente identificazione di cumuli di ossa in alcune delle intercapedini dei muri che sembra rafforzare l’ipotesi che il luogo nasca con funzioni diverse da quelle liturgiche e il legame del fondo su cui sorge l’ipogeo con l’ordine monastico domenicano lascia supporre un uso connesso con il convento. Ovviamente tutto ciò deve essere provato e le indagini sistematiche sono solo ad una fase iniziale ma si può ragionevolmente ipotizzare come l’ipogeo divenga chiesa solo in un secondo momento rispetto all’escavazione originaria e che questa trasformazione, stando a quanto ci suggerirebbero gli affreschi, è legata in qualche modo ad una committenza laica che ha agito in più momenti (a suggerircelo è la ripetizione dei soggetti dipinti) ed è verosimile che abbia curato anche alcuni dei lavori di risistemazione, di riadeguamento e decorazione della struttura. In questa fase, siamo a metà del Cinquecento, la nuova chiesa extra moenia, che potrebbe già aver ottenuto in quel periodo il titolo di Santa Maria della Grotta, continua ad essere usata almeno fino alla fine del Seicento. Quando nel Settecento il terreno della cripta passa per enfiteusi di mano in mano ai vari feudatari non è da escludere dei periodi di disuso o di riuso non a fini liturgici dell’ipogeo fin quando poi, intorno agli anni Quaranta del secolo scorso20, divenne luogo deputato alla lavorazione e conservazione del tabacco.
4. Considerazioni conclusive Il XVI secolo sembra essere il periodo di frequentazione più rappresentativo della cripta del Padre Eterno. Il susseguirsi di ambienti e tamponature aggiunte allo scavo originario confermano una modifica della struttura primitiva dell’invaso che potrebbe identificarsi nel grande ambiente centrale di forma rettangolare. Dall’analisi del rilievo fotogrammetrico degli ambienti è possibile distinguere due momenti o fasi che hanno caratterizzato lo sviluppo interno dell’ipogeo ossia quello dello scavo del vano centrale e quello dell’aggiunta degli altri ambienti laterali che si sviluppano dal colonnato in poi (fig. 7). In questo caso è probabile che l’ipogeo non nasca come chiesa e che la sua funzione originaria fosse diversa, non sappiamo se come ossario, per esempio, o come cappella funeraria, o se la sua origine possa essere più antica e diversa da quella che si può dedurre ora, ma di certo le aggiunte architettoniche con i relativi affreschi denotano una trasformazione profonda che l’invaso ha avuto in pieno Cinquecento e che quindi, la funzione di chiesa, è probabile che venga assunta a partire da quel momento in poi. Ad oggi non si è in grado di dire fino a quando e se l’ipogeo in veste di chiesa sia stato gestito dai monaci dell’ordine domenicano che acquistarono il fondo alla fine del Quattrocento e che vi impiantarono il convento. Inoltre, non sappiamo nemmeno se al momento dell’arrivo dei monaci domenicani a Otranto, verso il 1455, l’ipogeo esisteva già o se la sua creazione fu una conseguenza della loro presenza e dell’impianto del loro convento della Candelora18; sembra verosimile ipotizzare un passaggio da un uso precedente a quello di vera e propria chiesa ma non è chiaro quando effettivamente e perché ciò avvenne. I documenti riportano che il fondo su cui insiste l’ipogeo è rimasto di proprietà ecclesiastica fino al 1718, anno in cui iniziarono le concessioni in
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Ricciardi 2011, p. 259.
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Gianfreda 1979, p. 182; Ricciardi 2011, p. 264. Paiano 2018, p. 4.
Stefano Calò, Domenico Caragnano
Bibliografia Calò S. 2018, Gli insediamenti rupestri nelle valli di Otranto, in F. Sogliani, B. Gargiulo, E. Annunziata, V. Vitale (a cura di), VIII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Matera, 12-15 settembre 2018), vol. 3, Firenze, pp. 212-215.
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3. COMMERCI, PRODUZIONI, INDICATORI ARCHEOLOGICI COMMERCE, PRODUCTION, ARCHAEOLOGICAL MARKERS
Pipe in terracotta dal frantoio ipogeo di Caprarica di Lecce: dalle evidenze archeologiche ai nuovi tipi Eda Kulja* * Università del Salento. Dipartimento di Beni Cultuali. Laboratorio di Scienze applicate all’archeologia ([email protected]).
Riassunto Le pipe in terracotta sono una categoria di oggetti estremamente frequente nei rinvenimenti di superficie e nei contesti archeologici di età postmedievale nel Salento. Meno frequenti, diversamente, sono i contesti che possono vantare un’indagine stratigrafica sistematica e, di conseguenza, la possibilità di poter processare rigorosamente i dati acquisiti. Il caso studio qui esaminato rappresenta uno dei pochi casi di indagine all’interno di uno dei numerosissimi frantoi ipogei che caratterizzano l’intera penisola salentina. Lo studio delle pipe qui presentato fa riferimento alla classificazione tipologica a cui si è dato avvio nel 2016 con l’analisi dei materiali provenienti dallo scavo di Torre Santa Caterina, di cui ne segue una logica e sequenziale numerazione. Il riconoscimento di nuovi tipi e la messa a punto di cronologie sempre più ristrette sono solo alcuni degli aspetti che ancora devono trovare chiarezza. In un panorama ancora in pieno sviluppo, questo contributo apporta sicuramente nuovi ed importanti elementi determinanti per questo campo di studi. Parole chiave: frantoio ipogeo di Caprarica di Lecce, scavo stratigrafico, archeologia industriale, archeologia della produzione, olio, pipe.
Abstract The underground oil mill of Caprarica di Lecce: from archaeological evidence to new types. Clay pipes are an extremely frequent category of objects found as occasional surface archaeological finds and in post-medieval archaeological contexts in Salento. On the other hand, contexts that have had a systematic archaeological investigation and, consequently, the possibility to study the acquired data are not frequent. The case study of Caprarica di Lecce is one of the few cases of investigation within one of the many underground oil mills that characterize the entire Salento peninsula. This study of smoking pipes refers to the typological classification that was started in 2016 with the analysis of materials from the excavation of Torre Santa Caterina, and follows a logical and sequential numbering. The recognition of new types and the development of increasingly restricted chronologies are just some of the aspects that still need to be clarified. In an open debate, this study certainly brings new and important elements to this field of research. Keywords: underground oil mill , stratigraphic investigastion, industrial archeology, archeology of production, oil, clay pipes.
Ad esempio i luoghi di produzione, l’eventuale e probabile mobilità degli stampi o addirittura delle stesse maestranze. Lo scavo condotto all’interno del frantoio ipogeo sottostante il Palazzo Baronale (Proprietà Greco) di Caprarica di Lecce ha rappresentato un’eccezionale occasione per intervenire in un complesso a carattere urbano di cui l’intero territorio salentino è ricco ma che difficilmente è oggetto di indagini archeologiche2.
Premessa Le pipe sono una classe di oggetti che negli ultimi anni ha assistito ad un notevole incremento di interesse di studio. Ad oggi, sono molti i contributi provenienti da differenti regioni europee e d’Italia: in gran parte si riferiscono a rinvenimenti di superficie sia urbani sia rurali, lasciando ancora piuttosto avari gli esempi di contesti stratificati e indagati in maniera sistematica. In Puglia, ed in particolare nella penisola salentina, molto si è fatto negli ultimi anni, grazie alle indagini di contesti archeologici che hanno permesso uno studio stratigrafico a cui è seguita la creazione di tabelle crono tipologiche utili alla comprensione delle dinamiche di circolazione di questi oggetti1. In un panorama di studio ancora in pieno sviluppo, il contributo delle pagine che seguono ha come principale obiettivo quello di aggiungere nuovi dati sulla messa a punto di classificazioni finalizzate a diventare sempre più raffinate, pur nella consapevolezza che molti aspetti restano ancora nell’indeterminatezza interpretativa.
2 Progetto Cuis 2013 denominato “Il frantoio dimenticato”. Indagine storico-archeologica e valorizzazione del frantoio ipogeo (proprietà Greco) sottostante il Palazzo baronale del Comune di Caprarica di Lecce. Ente finanziatore: CUIS (Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino). Proprietari co-finanziatori: dott.ssa Celestina e dott. Domenico Greco. Coordinamento scientifico: Prof.ssa Carla Maria Amici, professore associato di Rilievo ed Analisi tecnica dei Monumenti Antichi Dipartimento di Beni Culturali Università del Salento, e Dott. Teodoro Scarano, cattedra di Presitoria e Protostoria Dipartimento di Beni Culturali, Università del Salento. Lo scavo è stato condotto dal Dott. Teodoro Scarano, Dott.ssa Giovanna Maggiulli (Dipartimento di Beni Culturali, Unisalento), Dott.ssa Ilaria Malorgio (Dipartimento di Beni Culturali, Unisalento). Con l’occasione ringrazio loro tutti per la disponibilità e il prezioso aiuto. Partners: Consorzio CETMA, Associazione Terracunta. Rimandi alla pagina www. ilfrantoiodimenticato.terracunta.it.Rilievo planimetrico e ricostruzione modello 3D sono stati realizzati da Cetma – Centro di Ricerche Europeo di Tecnologie Design e Materiali (nelle persone di Dott.ssa Giovanna Muscatello e Dott. Ivan Ferrari.
1 Per i primi dati sulle pipe rinvenute nel Salento si veda Viganò 2004; Bruno 2015a, 2015b; Kulja 2016. Recentissimi studi per il panorama europeo in Europa Blažková, Matějková 2020.
81 Archeologia Postmedievale 26, 2022, pp. 81-95 doi 10.36153/apm26004
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per volere di Tancredi d’Altavilla. Attualmente la torre è inglobata all’interno del Palazzo Baronale e venne ristrutturata e potenziata dalla famiglia Guarini nel periodo dell’invasione turca (14801481) per meglio fronteggiare le possibili incursioni saracene. Solo in un momento successivo il barone Antonello Guarini fece edificare nelle adiacenze della torre un imponente castello. Ai Guarini, infatti, è da attribuire la prima costruzione del maniero locale, a giudicare sia dallo stemma impresso sulla torretta di avvistamento posta a destra del castello che da quello posto al centro della grande torre fortificata ubicata nel giardino. Saranno i Giustiniani, in un momento successivo, a darne la veste definitiva4. Il frantoio è del tipo “a grotta”, interamente ricavato nel banco roccioso e fa parte di un più ampio sistema di frantoi che si articolano al di sotto del Palazzo. La morfologia e le dimensioni rimandano a modelli che nascono nel Salento tra la fine del XVI e gli inizi del secolo successivo. Pur non avendo un documento d’archivio che attesti l’attività del frantoio in esame prima del 1744, è probabile che fosse in uso già nel 16005. Il frantoio presenta un’estensione di circa 200 m², con altezze variabili comprese tra 2 m e 5 m ed è costituito da tre ampie sale (figg. 2 e 3). Quella centrale, oggetto di indagine archeologica, si sviluppa sotto l’ala sinistra del Palazzo, in corrispondenza della torre normanna, mentre le altre due sale occupano rispettivamente, una l’area sottostante la strada che fiancheggia il Palazzo, e l’altra l’area sottostante il cortile interno dello stesso. Il vano centrale, adiacente alla scala di accesso, era riservato alle operazioni di macinazione delle olive, sebbene attualmente si conservi solo una traccia circolare sul terreno, un tempo appartenuta alla vasca per la molitura delle olive. Immediatamente a ridosso si sviluppano una serie di piccoli ambienti, detti sciave, in cui erano depositate le olive in attesa di molitura e un’area destinata al ricovero degli animali.
fig. 1 – Inquadramento della penisola salentina con la collocazione di Caprarica di Lecce.
Lo studio delle pipe è stato condotto seguendo un criterio sistematico che si avvale da un lato dell’affidabilità stratigrafica dei livelli indagati e, dall’altro, delle associazioni ceramiche in contesto, oltre che dei confronti con le tabelle tipologiche già messe a punto in occasione della classificazione del materiale di Torre Santa Caterina3. Nella classificazione tipologica qui presentata, laddove non sono presenti i tipi già determinati per Torre Santa Caterina, verranno ugualmente elencati e descritti in maniera sintetica in nota.
1. Introduzione storica del monumento e premessa metodologica Caprarica di Lecce è un piccolo comune nel centro orientale salentino, che vanta la presenza di circa dieci frantoi ipogei ed una lunga tradizione legata alla produzione dell’olio d’oliva. Il Palazzo Baronale che ospita il frantoio oggetto di indagine, sorge nel centro storico ed è il risultato di vari rimaneggiamenti susseguitisi nel corso del tempo, a partire almeno dal XII secolo d.C, momento in cui nasce la prima grande opera di fortificazione normanna, la torre quadrangolare, 3
Cisternino, Pastore 1985; Riccardi 2021. Catasto Onciario redatto nel 1744 per volontà di Carlo di Borbone. Nello specifico a p. 376 viene riportato: «Marchesal Camera Feudale di Caprarica possiede li seguenti beni feodali cioè:[……]trappeti 4 in ordine da macinar olive siti in due grotte dentro il Palazzo Marchile con un giardinetto di sopra di agrumi di delizia. Stabilita la rendita … ducati sessanta.botteghe numero 4 sotto lo suddetto Palazzo Marchile, due de’ quali affittate, ducati cinque l’anno, e due altre inaffittate». Archivio di Stato di Lecce. Gli atti Notarili presi in esame sono stati gentilmente analizzati dalla dott.ssa Katiuscia Di Rocco in occasione dello studio del monumento per il Progetto Cuis “Il frantoio dimenticato”, già precedentemente citato. 4 5
Kulja 2016.
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fig. 2 – Planimetria del frantoio ipogeo (Proprietà Greco). Rilievo, sezioni ed elaborazioni tecniche 3d Dott.ssa Giovanna Muscatello, Dott. Ivan Ferrari (Cetma – Centro di Ricerche Europeo di Tecnologie Design e Materiali).
Lo studio delle pipe si è svolto tenendo in considerazione diversi aspetti: il contesto di rinvenimento, la stratigrafia individuata durante lo scavo, le associazioni ceramiche ed infine il confronto con la classificazione tipologica a cui si è dato avvio con i materiali di Torre Santa Caterina7. Tuttavia, diventa doveroso fare alcune precisazioni.
Restano oggi visibili le vasche di macinazione, alcune macine (o in posto o in parte riutilizzate nelle fasi di riorganizzazione del frantoio), i plinti che reggevano il torchio e alcune vasche per la decantazione. Le indagini di scavo sono state condotte nel mese di marzo 2016 ed hanno portato al rinvenimento di una grande quantità di materiale ceramico, vitreo e ferroso, oltre le 66 pipe in argilla6.
e dipinta (1299 frammenti), seguita dalla ceramica rivestita da fuoco (664 frammenti), ed infine dalla ceramica rivestita da mensa (639 frammenti). Il nutrito gruppo può essere inquadrato cronologicamente tra la fine del XVII secolo e il XIX secolo. 7 Kulja 2016.
Il materiale ceramico, esaminato e studiato dalla scrivente, è composto da circa 2600 frammenti, pari ad un peso di 114 kg distribuiti nelle diverse categorie individuate. Appare evidente la netta predominanza della ceramica di uso comune, acroma 6
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fig. 3 – Restituzione 3d del frantoio ipogeo: planimetria generale e sezione. Dott.ssa Giovanna Muscatello, Dott. Ivan Ferrari (Cetma – Centro di Ricerche Europeo di Tecnologie Design e Materiali).
Un altro aspetto da non sottovalutare, è l’affidabilità cronologica dei contesti in quanto tali, o, per meglio dire, la loro precisa datazione. Oltre l’affidabilità relativa, dettata dalla sequenza stratigrafica, esiste anche una datazione a più stretto giro legata alla datazione delle ceramiche rinvenute in associazione. A questo si aggiunge lo studio tassonomico che, come già anticipato, si avvale della classifica-
La prima riguarda la posizione stratigrafica delle pipe che non sempre è necessariamente e strettamene sovrapponibile con la posizione cronologica. Questo significa che le datazioni su larga scala assegnate ai contesti possono non necessariamente corrispondere anche ai singoli oggetti. La residualità, infatti, è il motivo per cui molti materiali possono essere contenuti in depositi più recenti. 84
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tipo 1.a. base con scanalature verticali recanti sottili tratti orizzontali paralleli (fig. 3, nn. 1 e 4). tipo 1.b. base con baccellatura (fig. 3 nn. 2 e 5); tipo 1.c. il fornello presenta una fitta decorazione con solchi verticali (fig. 3 n. 3).
zione realizzata per le pipe di Torre Santa Caterina e di cui questo lavoro segue una logica e sequenziale numerazione8. L’insieme di questi aspetti quindi, ha portato alla costruzione di sequenze tipologiche con range cronologici che tentano di diventare sempre più ristretti ed affidabili. Nella classificazione, ai tipi già individuati in occasione delle indagini di Torre Santa Caterina, verranno qui aggiunti i nuovi riconosciuti. Viceversa quelli non presenti in questa sede ma già riconosciuti e catalogati precedentemente, verranno solo richiamati.
Il raccordo interno tra fornello e cannello avviene tramite un piccolo taglio. L’impasto si presenta di colore nocciola (Munsell 5 YR 7/2) e la superficie conserva tracce, più o meno insistenti, di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6). Si tratta di un tipo già ampiamente riconosciuto, sia in ambito regionale che extraregionale. Nel Salento è documentato a Nardò, Torre Santa Caterina 12, nei contesti postmedievali dei villaggi di Apigliano (Martano)13, Quattro Macine (Giuggianello), Muro Leccese, a Gallipoli (loc. San Leonardo e nel frantoio Granafei), a Otranto (cantiere 3), a Carpignano Salentino durante i lavori all’interno del frantoio in Piazza Santa Maria delle Grazie14, all’interno della chiesa di S. Giorgio a Racale15. Nella stessa città di Lecce il tipo è attestato tra i materiali dell’ipogeo della cosiddetta “Torre Mozza” all’interno del castello Carlo V, dagli interventi presso le mura urbiche cinquecentesche della città16 e dai lavori di restauro del Teatro Apollo17. Spostando lo sguardo in ambito extraregionale, il tipo è ben documentato in Abruzzo18, in Molise19, in Campania20, in Calabria21, in Sicilia22.
2. Le pipe: classificazione tipologica Il contesto ha permesso il recupero di 66 pipe, di cui gran parte integre e caratterizzate da forti tracce di fumigazione nel fornello. Non entrando in merito alla questione delle tecniche di lavorazione di questi oggetti, già ampiamente dibattuta in altre sedi9, basterà qui ricordare che la loro diffusione in Puglia meridionale è strettamente intrecciata alla coltivazione e distribuzione del tabacco nel Vecchio Continente durante la fine del XVI secolo, sebbene questo non implichi necessariamente la sua diffusione in Puglia nello stesso momento10. Ad eccezione di un solo oggetto contrassegnato dal marchio di fabbrica (Tipo 31) e purtroppo non riconducibile ad un determinato luogo di produzione o atelier noto, tutti i manufatti pur non essendo direttamente prodotti in territori ottomani, ne seguono chiaramente la tradizione11. Tutte le pipe sono in argilla depurata, risultando del tutto assenti quelle in caolino. Anche per questo contesto, la determinazione dei tipi è dettata da tutti gli elementi morfologici distintivi minimi utili ad un riconoscimento immediato. La stessa metodologia è stata adottata per lo studio degli impasti, oggetto dei paragrafi a seguire.
Tipo 2 (fig. 3 nn. 6-8)
Caratterizzato da una continuità tra fornello e cannello, l’intero corpo del manufatto è evidenziato da scanalature che corrono verticali partendo subito sotto l’orlo del fornello sino all’imboccatura del cannello. In alcuni casi è presente una fascia che separa l’orlo dall’inizio delle scanalature. L’impasto è di colore nocciola tendente al rosato (Munsell 2.5 YR7/3), mentre la superficie è coperta da vernice di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6). A Lecce, il
2.2 Le classi tipologiche (figg. 4, 5 e 6) Tipo 1 (fig. 3 nn. 1-5)
Kulja 2016, p. 99. Bruno 2015a, p. 100 fig. 59.2. 14 Le pipe sono attualmente esposte nel museo allestito all’interno del Palazzo Ducale di Carpignano Salentino (Lecce). 15 Viganò 2004, pp. 116-118, fig. 18. 16 Ibid. 17 Le pipe sono attualmente esposte nella mostra allestita all’interno dello stesso Teatro. 18 Verrocchio 2002; Verrocchio 2009, p. 252. 19 Withe 2007, pp. 207-208. 20 Verocchio 2002, p. 383. 21 Ibid. 22 Verrocchio 2009, p. 253, nota n. 31. 12 13
Presenta una netta distinzione tra fornello, base di raccordo e cannello. Il fornello è cilindrico, caratterizzato da solcature verticali evidenziate a loro volta da tratti obliqui “a spiga”. La base a bulbo presenta tre varianti: Kulja 2016. Cfr. Kulja 2016, p. 99; Bruno 2015a; Verrocchio 2009. 10 Colazzo 2017; Diana 1999; Barletta 1994; De Giorgi 1898; Bruno 2015a. 11 Vincenz 2014, p. 71. Gelichi 2014 p. 10. 8 9
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fig. 4 – Pipe del tipo 1 (nn. 1, 2, 3, 4, 5). Pipe del tipo 2 (nn. 6, 7, 8) pipe del tipo 5 (nn. 9,10). (dis. E. Kulja).
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fig. 5 – Pipe del tipo 6 (nn. 1, 2). Pipe del tipo 7 (n. 3). Pipe del tipo 9 (nn. 4, 5,6). Pipe del tipo 12 (n. 7). Pipe del tipo 14 (nn. 8, 9). Pipe del tipo 15 (n. 10). (dis. E.Kulja).
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fig. 6 – Pipe del tipo 15 (n. 1). Pipe del tipo 18 (nn 2, 3). Pipe del tipo 30 (n. 4). Pipa del tipo 31 (n. 5). Pipa del tipo 32 (n. 6). (dis. E. Kulja).
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netta e di colore beige tendente all’arancio (Munsell 2.5 YR 6/6), mentre la superficie esterna conserva forti tracce di fumigazione. Il tipo è documentato nel territorio sa alcuni esemplari a Torre Santa Caterina e Racale33. Si tratta di oggetti che prendono ispirazione da modelli austro ungarici e slovacchi, dai quali di discostano per l’assenza dei marchi di fabbrica. Confronti puntuali in ambito extraregionale sono possibili con manufatti rinvenuti in Abruzzo, Calabria e nella città di Bassano34. Ancora, fuori nazione, stringenti analogie sono possibili con in prodotti nella manifatture di Debrecen (Ungheria) e Schemnitz (Slovacchia) databili alla prima metà dell’Ottocento35. Oggetti del tutto simili sono noti anche in Romania36.
tipo è presente tra i materiali rivenuti nel fossato delle mura urbiche, dal castello Carlo V e dal Teatro Apollo23. Esemplari del tutto simili provengono dagli scavi condotti ad Apigliano, Quattro Macine e Muro Leccese24. Un nutrito gruppo è presente nei materiali provenienti da Torre Santa Caterina25, Nardò, Lecce, così come a Carpignano Salentino26. In ambito extraregionale, diverse attestazioni provengono dall’area abruzzese, dal Molise, dalla Campania, Calabria e Sicilia27. Tipo 3 e 4 non presenti28 Tipo 5 (fig. 3 nn. 9 e 10)
Tipo attestato da due esemplari. Il fornello ogivale oppure troncoconico con orlo leggermente estroflesso privo di decorazione e corpo caratterizzato da una serie di elementi in rilievo che conferiscono un aspetto “a grappolo”. Il cannello, liscio, termina con orlo ad anello modanato. L’impasto è di colore nocciola (Munsell 5 YR 7/2), mentre l’intera superficie è ricoperta da una vernice di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6). Il tipo è documentato dai lavori effettuati nel secolo scorso presso la chiesa di S. Giorgio a Racale29 e dall’indagine di Torre Santa Caterina30. Esemplari del tutto simili sono attestati in Abruzzo, Calabria31 e Sicilia32.
Tipo 7 (fig. 4 n. 3)
Il tipo è caratterizzato da un fornello di forma cilindrica e base recante una fitta baccellatura. Il cannello è ben distinto dal resto del corpo e termina anch’esso con la stessa decorazione. Ad eccezione di un solo frammento caratterizzato da impasto scuro tendente al nero (Munsell 10 YR 3/1) gli altri esemplari hanno il tipico colore nocciola (Munsell 5 YR 7/2) con tracce di colore rosso in superficie (Munsell 2.5 YR 5/6). Per il Salento, il tipo trova puntuali confronti con i materiali di Torre Santa Caterina 37, mentre in ambito extraregionale è attestato tra le pipe dell’ex carcere di San Domenico a L’Aquila38.
Tipo 6 (fig. 4 nn. 1 e 2)
Pipa dal fornello cilindrico e cannello liscio. La base risulta evidenziata da un motivo “a palma” che partono dal porta cannello terminante con orlo liscio ad anello. L’impasto è duro e compatto, a frattura
Tipo 8 non presente39 Tipo 9 (fig. 4 nn. 4, 5, 6)
Il tipo si caratterizza per il fornello troncoconico e un corto cannello terminante con orlo ad anello. La base presenta una decorazione con sequenza di foglie lanceolate, mentre un motivo a palma si sviluppa dall’orlo del cannello. L’impasto è di colore nocciola (Munsell 5 YR 7/2) mentre la superficie è completamente rivestita da una pellicola di colore
Anche questo tipo è esposto nella mostra all’interno dello stesso Teatro. 24 Per Apigliano e Quattro Macine si veda Bruno 2015a, pp. 101-102. 25 Kulja 2016, p. 99. fig. 2. nn. 7-9. 26 Si veda nota 3. 27 Per la diffusione in Italia centro-meridionale si veda Verrocchio 2009, p. 260, fig. 10. 28 Il tipo 3 è attestato a Torre santa Caterina. Si caratterizza per un fornello cilindrico e una netta distinzione col cannello. Il fornello presenta un alto orlo liscio mentre il corpo è decorato da una serie di baccellature verticali. Il cannello termina con l’orlo ad anello dal quale parte una sequenza di sottili elementi semicircolari (probabilmente un motivo “a festoni”). Il tipo 4 è attestato a Torre Santa Caterina ed è caratterizzato da un fornello a forma di pesce con una netta decorazione consistente in una serie di squame ben definite. 29 Viganò 2004 p. 117, fg. 19. 30 Kulja 2016 p. 100, fig. 3 n. 2. 31 Morrone M. Naymo 2001 32 Verrocchio 2009, p. 254, fig. 5 nn. 10-12. 23
33 Per Torre santa Caterina si veda Kulja 2016, p. 100. fig. 3. n. 3; per Racale Viganò 2004, p. 117 fig 19. 34 Boscolo 2000, pp. 37-38, fig. 51. 35 Verrocchio 2009, fig. 6 n. 6. 36 Demjén 2018, p. 237, fig. 58 e p. 239, n. 68. 37 Kulja 2016, p. 100, fig. 3, nn. 4-5. 38 Verrocchio 2009, p. 255, fig. 6 n. 6. 39 Il tipo 8 è attestato a Torre Santa Caterina. Caratterizzato da un basso fornello cilindrico e cannello nettamente distinti ed una decorazione consiste in una baccellatura che abbraccia la parte terminale del fornello.
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raffiguranti militari di varia uniforme conobbero grande diffusione nel corso del XIX secolo, soprattutto gli ussari napoletani e i granatieri borbonici. L’impasto è di colore nocciola (Munsell 5 Y/R 7/2) mentre la superficie conserva labili tracce di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6). Pipe con la riproduzione di copricapi militari sono ampiamente attestate nel territorio salentino. A Lecce, presso il castello Carlo V e nello scavo del fossato delle mura urbiche. A Torre santa Caterina, a Corigliano d’Otranto46 e tra i materiali di Racale47. È ugualmente attestato fuori regione dall’Abruzzo alla Calabria48.
rosso (Munsell 2.5 YR 5/6). Confronti puntuali sono possibili, in ambito territoriale, con i manufatti di Torre santa Caterina40 e tra i materiali della raccolta di Racale41; fuori regione con esemplari rinvenuti a L’Aquila42. Tipo 10 e 11 non presenti43 Tipo 12 (fig. 4 n. 7)
Pipa a raffigurazione umana con turbante, di ottima fattura. L’esemplare presenta i lineamenti del viso ben definiti e le labbra molto pronunciate e ben lavorate. L’oggetto è stato realizzato in modo da poter risultare bifronte, inusuale per la maggior parte delle pipe in circolazione. L’oggetto rientra all’interno di un gruppo di manufatti in cui i motivi presenti sul fornello raffigurano maschere umane caricaturali o tragiche. Nel territorio salentino, dai rinvenimenti noti, le pipe appartenenti a questo tipo sembrano aver avuto scarsa diffusione. Una pipa con un viso dormiente, presumibilmente di un moro, proviene dall’ex convento degli Agostiniani a Lecce. Un viso umano con indosso una maschera decora una delle pipe provenienti dal castello Carlo V, sempre a Lecce44. A Cutrofiano un esemplare ha il fornello decorato da un viso umano (femminile?) all’interno di un ovale. L’impasto è di colore nocciola (Munsell 5 Y/R 7/2) mentre la superficie conserva tracce di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6).
Tipo 15 (fig. 4 n. 10; fig. 5 n. 1)
Si tratta di un’altra raffigurazione di tipo militare. Probabile fornello troncoconico terminante con base a piattello sporgente e cannello liscio dall’orlo ad anello. Sulla parte terminale del cannello, sono appena visibili le scanalature verticali. Piccole scanalature ben marcate definiscono la base a piattello. L’impasto è di colore nocciola (Munsell 5 Y/R 7/2) con piccole tracce di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6). La presenza del piattello rimanda a prototipi diffusi nel mondo ottomano. Il tipo è attestato a Nardò presso Torre Santa Caterina49. Tipo 16 e 17 non presenti50 Tipo 18 (fig. 5 nn. 2, 3)
Tipo a raffigurazione umana, caratterizzato da fornello cilindrico e cannello liscio terminante con orlo ad anello. Si tratta di un militare barbuto con alto copricapo liscio terminante con una coccarda, tenuto sotto il mento da una cinghia. Le tipologie
Pipa caratterizzata da un alto fornello di forma troncoconica e superficie esterna finemente decorata. Una serie di elementi cuoriformi, fogliame, puntini e girali si diramano ad occupare l’intera superficie del fornello. Uno dei due frammenti conserva la base di raccordo caratterizzata da una baccellatura ben marcata e un cannello liscio terminante con orlo ad anello. Il ventaglio decorativo potrebbe, invece, rimandare a modelli di imitazione di prototipi austro-ungarici. Un frammento molto
Kulja 2016, p. 100, fig. 3 nn. 7-8. Viganò 2004, p. 117, fig. 19. 42 Verrocchio 2009, p. 255, fig. 6 nn. 4-5. 43 Il tipo 10 è attestato a Torre Santa Caterina ed è caratterizzato da un fornello cilindrico a base baccellata in cui la decorazione è di tipo floreale. Il tipo 11 è attestato a Torre Santa Caterina ed è caratterizzato da un fornello di forma troncoconica e decorazione a scanalature verticali. Il porta cannello termina con orlo ad anello circolare modanato, sotto il quale si sviluppa una sequenza di sottili elementi cuoriformi. 44 Tagliente 2003, pp. 44-45. 45 Il tipo 13 è attestato a Torre Santa Caterina. Tipo a raffigurazione umana, dotata di cannello liscio terminante con orlo ad anello. La figura presenta un copricapo composto da una sequenza di foglie o piume verticali dal quale fuoriescono lunghi capelli assieme a dei pendenti alle orecchie.
46 Bruno 2015b. Per Torre Santa Caterina, Kulja 2016 p. 101. 47 Viganò 2004, p. 116, fig. 19. 48 Verrocchio 2009, p. 258. 49 Kulja 2016, p. 101, fig. 4 nn. 7-8. 50 Il tipo 16 è attestato a Torre Santa Caterina. Pipa dal fornello cilindrico con la terminazione appuntita a bulbo e cannello con orlo ad anello. La decorazione consiste in una serie di scanalature verticali parallele che interessano solo il fornello. Il tipo 17 è attestato a Torre Santa Caterina da diversi esemplari. Il fornello è ottagonale con terminazione appuntita a bulbo ben rifinito e cannello con orlo ad anello. La decorazione è composita: la fascia subito sotto l’orlo del fornello presenta un’impressione a roulette ben rifinita, mentre sulla superficie si articolano una serie di elementi in rilievo.
Tipo 13 non presente45 Tipo 14 (fig. 4 nn. 8, 9)
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Pipe in terracotta dal frantoio ipogeo di Caprarica di Lecce: dalle evidenze archeologiche ai nuovi tipi
simile al tipo è stato rinvenuto ad Apigliano51 e a Torre santa Caterina52. Per un confronto sui motivi decorativi, si rimanda ai materiali di San Domenico53. L’impasto è molto depurato, di colore nocciola (Munsell 5 YR 7/2) mentre la superficie è completamente rivestita di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6).
Tipo 1 39% Altri tipi 39%
Tipo 1 Tipo 14 Tipo 2 8%
Dal tipo 19 al tipo 29 non presenti54 Tipo 30 (fig. 5 n. 4)
Tipo 14 14%
Tipo 2 Altri tipi
fig. 7 – Grafico con l’illustrazione dei rapporti proporzionali dei tipi attestati.
Pipa caratterizzata da un fornello circolare con la terminazione appuntita a bulbo e cannello con orlo ad anello. La decorazione, alquanto singolare, consiste in una serie di motivi vegetali che abbracciano l’intera superficie. Un motivo a palma parte dal cannello e termina col bulbo, rimandando a decorazioni solitamente ricorrenti nel mondo navale. Motivi a cerchio e foglie si distribuiscono ai due lati della pipa che, in vista frontale, ricorda la prua di una nave. L’impasto è molto depurato, di colore nocciola (Munsell 5 YR 7/2) mentre la superficie è completamente rivestita di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6).
orlo ad anello, mentre il fornello è caratterizzato dall’esterno tendenzialmente di forma esagonale. L’intero oggetto è estremamente liscio, tanto da pensare ad una lisciatura a stecca e reca il marchio «P. L» oppure «P.I». Al momento non è possibile ricondurre il marchio di fabbrica ad una bottega definita oppure ad una città di riferimento, né ad un possibile proprietario. L’impasto e il rivestimento superficiale è di colore beige tendente al grigio (Munsell 2.5 7/4). Tipo 32 (fig. 5 n. 6)
Tipo 31 (fig. 5 n. 5)
Pipa dalle dimensioni ridotte, caratterizzata da un breve fornello cilindrico e corto cannello terminante con orlo ad anello. La superficie, interamente liscia, è completamente rivestita di colore rosso (Munsell 2.5 YR 5/6), mentre l’impasto è di colore nocciola chiaro (Munsell 5 YR 7/2). Al momento non sono noti confronti puntuali.
Tipo rappresentato da due pipe, di cui una frammentaria. Caratterizzato dall’assenza di ogni tipo di rivestimento e/o trattamento delle superfici, per cui completamente acrome. Cannello terminante con Bruno 2015a, p. 101, fig. 60. Kulja 2016, p. 102, fig. 5 n. 5. 53 Verrocchio 2009, p. 256, fig. 7 nn. 7-8. 54 I tipi sono attestati tutti a Torre Santa Caterina. Qui di seguito vengono brevemente descritti. Il tipo 19 presenta un fornello troncoconico con base di raccordo leggermente appiattita e cannello terminante con orlo ad anello sagomato. Da questo parte un motivo vegetale a “palmetta” aperta e ricurva che abbraccia l’intera base. La decorazione consiste in due figure umane sulle facce laterali della pipa, che sorreggono una corona di alloro terminante con un nastro legato a formare un nodo centrale. Il tipo 20 presenta una decorazione con scanalature verticali che terminano all’altezza della base. Il profilo ricorda molto la prua di una nave. Il tipo 21 presenta un fornello di forma troncoconica con orlo estroflesso leggermente ingrossato. La decorazione consiste in una serie di scanalature verticali parallele. Il tipo 22 presenta un fornello troncoconico a costolature verticali che terminano all’intersezione del cannello. La base è evidenziata da un motivo “a palmetta”, mentre il cannello termina con orlo ad anello sagomato e definito da piccole scanalature. I tipi 23, 24 e 25 son caratterizzati dalla presenza dei marchi di fabbrica che rimandano a diversi atelier, di cui due nella città di Vienna. Il tipo 26 presenta un fornello ogivale e cannello liscio terminante con orlo ad anello. La superficie esterna del fornello presenta una decorazione impressa a graticcio. Il tipo 27 è caratterizzata da un fornello troncoconico a forma di stivale. I tipi 28 e 29 sono in caolino di produzione nord europea. 51 52
3. Le classi degli impasti e il trattamento delle superfici Le pipe possono essere raggruppate in tre diverse classi di impasto. La scelta adottata è frutto di un’elaborazione basata sull’insieme delle caratteristiche comuni minime dell’impasto e del rivestimento e/o trattamento finale delle superfici. Il primo gruppo, numericamente più nutrito, è caratterizzato da un argilla ben depurata e priva di inclusi visibili a livello macroscopico con alterazioni cromatiche che vanno dal rosato al beige e infine al nocciola. La superficie presenta un sottile strato di vernice rossa (barbottina) che, in alcuni esemplari, si conserva solo in parte. Nonostante questo, non è sempre facile cogliere con esattezza il tipo di trattamento della superficie: tutte le pipe presentano un rivestimento più o meno lucido che dipende 91
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prevalentemente dalle condizioni di cottura, dalla qualità dell’argilla e dalle condizioni di giacitura. Il secondo gruppo presenta un impasto di colore arancio, corposo, duro e ben depurato, con superfici lisce. Il terzo gruppo è caratterizzato da un impasto beige tendente al grigio, privo di ogni tipo di rivestimento di superficie. Confrontando i dati qui presentati con quanto emerso dallo studio dei materiali di Torre Santa Caterina, si possono avanzare alcune osservazioni. Rispetto alle sei classi di impasto individuate in quest’ultimo caso, nel frantoio è stato possibile individuarne tre. Il dato certamente è influenzato dal numero totale delle pipe su cui è stato effettuato lo studio: 112 per Torre Santa Caterina, 66 per il frantoio. Nonostante questo, si può osservare che, in entrambi i casi, la classe con più incidenza è quella caratterizzata da un impasto rosato beige tendente al nocciola, questo probabilmente legato alle caratteristiche stesse della materia prima reperibile nel territorio e che contraddistingue anche la maggior parte del materiale ceramico recuperato durante le indagini. Risultano assenti per il frantoio le pipe in caolino che, al momento, sono attestate in pochi casi nel Salento e provengono quasi esclusivamente da siti in cui è attestata la presenza di guarnigioni militari straniere, come Santa Caterina55.
fig. 8 – Le Grenadier de la garde, N.T. Charlet. Illustrazione da La grande histoire de la pipe, Liebaert, Maya 1993, p. 44.
Il fenomeno della nascita dei “trappeti” (frantoi) scavati interamente in rocce calcarenitiche, risale alla fine del XV, inizi XVI secolo. Nel Salento sono quasi tutti ipogei, pochissimi invece quelli semi ipogei ed edificati, parzialmente, fuori terra. Il frantoio Greco risale verosimilmente allo stesso periodo, ed è uno tra i primi ad essere stato indagato in maniera stratigrafica, fornendo importanti informazioni sia a livello architettonico sia sulla cultura materiale. Il primo dato importante emerso dallo studio di queste pipe è la netta predominanza del tipo 1 (39% sul totale), immediatamente seguito dal tipo 14 (14% sul totale) e, solo successivamente, dal tipo 2 (8% sul totale). Il tipo1 rappresenta, al momento, il più diffuso in tutti i contesti noti nell’edito, sia essi a carattere rurale sia urbano. Diventa quindi possibile tracciare una rete di distribuzione a livello sub regionale/regionale che comprende attestazioni nella stessa città di Lecce e in altri siti gravitanti nell’hinterland57. Non solo. Lo stesso tipo è predominante, assieme al tipo 2, anche in Abruzzo, dove gli studi su questi manufatti sono notevolmente cresciuti negli ultimi anni58.
4. Discussioni e conclusioni Le pipe fin qui descritte offrono l’occasione per alcune considerazioni che si prefiggono di aggiungere nuovi dati riguardo ad un panorama di studio che va sempre più consolidandosi. È doveroso ricordare la peculiarità del contesto analizzato, il frantoio ipogeo, luogo legato a quel fenomeno tanto diffuso in tutto il Salento che riguarda la produzione dell’olio d’oliva. È noto che la lavorazione delle olive sia da sempre stata una delle tradizionali espressioni del territorio e mette in risalto non solo i contenuti puramente culturali di un prodotto che era una fonte di sostentamento fondamentale, ma anche quelli tecnici, commerciali e sociali. L’insieme di questi aspetti definisce quella che è largamente conosciuta come archeologia della produzione e che comprende non lo studio della planimetria (tipologia) dei frantoi, ma, in una visione globale, anche gli aspetti umani di questo processo di produzione56. 55 Sulla classificazione degli impasti e il trattamento delle superfici di Torre Santa Caterina si veda Kulja 2016. 56 Monte 2000.
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Si rimanda a Bruno 2015a; Kulja 2016. Verrocchio 2002, 2009.
Pipe in terracotta dal frantoio ipogeo di Caprarica di Lecce: dalle evidenze archeologiche ai nuovi tipi
fig. 9 – Illustrazione da La grande histoire de la pipe, Liebaert, Maya 1993, p. 48. La venerazione della pipa, incisione del 1866.
in qualche modo della sfera lavorativa. Questa considerazione non ha valenza per questo contesto, in cui naturalmente la “ciurma” di frantoiani era ben lontana dal mondo militare. Il dato non è da sottovalutare. Potrebbe infatti essere indicatore di un fenomeno che riconosce la pipa, più che un oggetto identificativo del proprio mestiere, semplicemente una moda del momento oppure il gusto estetico del suo possessore; oppure, semplicemente, legato alla disponibilità economica per cui la scelta poteva ricadere su un tipo dai bassi costi di fabbricazione rispetto ad un altro più costoso. A Caprarica il tipo 2 è attestato solo da sei esemplari, contrariamente a quanto accade nei contesti noti fino a questo momento caratterizzati da un’incidenza predominante e quasi uguale dei tipi 1 e 2. I nuovi tipi individuati (Tipo 30, 31 e 32) presentano delle caratteristiche morfologiche che vanno ad ampliare il ventaglio conoscitivo per questi oggetti in questo territorio. In particolare il tipo 30 mostra una cura nella realizzazione ed una decorazione che richiama modelli appartenenti al mondo navale. A Torre Santa Caterina era già stato individuato un tipo con caratteristiche simili, ma morfologicamente differente63. Il tipo 31, rappresentato da un solo esemplare, reca il marchio di fabbrica. Ben impresso in rilievo lungo il cannello si leggono le lettere «P. L» oppure «P.I». La maggior parte delle pipe sino ad ora note nel Salento sono accomunate dall’assenza di marchi di fabbrica, eccezion fatta per un esemplare da Racale64, una pipa in caolino proveniente dall’isola di S. Pietro a Taranto65 ed un piccolo gruppo rinve-
Sorprende, al contrario, la sua completa assenza nei contesti noti in Toscana e recentemente editi 59. Resta invece invariata la cronologia proposta fino a questo momento per questi materiali, un ventaglio che oscilla tra XVIII e XIX secolo. Il secondo dato importante è l’incidenza del tipo 14, pipe a raffigurazione militare, uomini barbuti spesso dotati di un alto copricapo sormontato, talvolta, da una coccarda. Due filettature circondano il mento, mentre ai lati si leggono chiaramente i capelli realizzati da semplici linee verticali. Questo tipo di copricapi erano indossati dagli ussari napoleonici, dai granatieri borbonici e, più in generale, facevano parte dell’abbigliamento militare realizzati in lana e alcune parti in cuoio60. Purtroppo alcune delle pipe di questo tipo sono molto usurate, spesso gli occhi e il naso appena percettibili oppure le due parti del volto non sono simmetrici, indice del fatto che le due matrici dello stampo non combaciavano completamente. Altre invece sono in eccezionale stato di conservazione, mettendo in risalto l’ottimo fattura delle matrici. Anche queste pipe circolavano quindi in tutto il Salento, alcuni sono noti dalla stessa città di Lecce, da Corigliano d’Otranto e Nardò61. Tra i materiali di Torre Santa Caterina, ad esempio, sono documentati diversi esemplari riferibili a stratificazioni comprese tra XVIII e XIX secolo ed interpretati come bagaglio personale delle guarnigioni militari che hanno frequentato la torre proprio tra Ottocento e Novecento62. In quell’occasione erano stati interpretati come connotazione del proprio possessore, un “riflesso” 59 60 61 62
Giorgio 2020. Bruno 2015b, p. 64. Ibid.; Kulja 2016. Kulja 2016, p. 106.
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Kulja 2016, p. 102, fig. 5 n. 7. Bruno 2015a, p. 102. D’Andria, Mastronuzzi, pp. 91-92, figg. 5-6.
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nuto durante le indagini di Torre Santa Caterina66. Mentre per queste ultime è stato possibile risalire ai luoghi di produzione e addirittura tracciarne una circolazione extranazionale, per l’esemplare del frantoio non è stato possibile. Ad ogni modo probabilmente potrebbe essere ricondotta ad una produzione nazionale. In mancanza di dati archeologici e di fonti scritte, risulta assai difficile risalire ai centri di produzione, sebbene l’ipotesi di una fabbricazione regionale e/o sub regionale, sia stata avanzata in diverse occasioni67. 66 67
L’intero record di materiali fa riferimento a stratigrafie comprese tra XVII-XIX secolo, in pieno accordo quindi con quanto era già emerso dalle indagini di Torre Santa Caterina. Allo stato attuale non è possibile proporre una scansione cronologica più puntuale, rimandando così i tipi individuati ad un periodo di frequentazione di pieno XVIII. Concludendo, tali oggetti quindi, rientrano nella sfera strettamente personale e possono essere considerati dei fedeli compagni del quotidiano di uomini che hanno lavorato trascorrendo gran parte dell’anno in ambienti angusti e poco confortevoli. Fumare la pipa rappresentava, quindi, un momento di aggregazione e condivisione delle razioni di tabacco, una prerogativa anche in questo caso, quasi esclusivamente del mondo maschile.
Kulja 2016, pp. 105-106. Bruno 2015a.
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Pipe in terracotta dal frantoio ipogeo di Caprarica di Lecce: dalle evidenze archeologiche ai nuovi tipi
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4. CONFLICT ARCHAEOLOGY
Pantanella airfield. Storia e archeologia di una base aerea americana della Seconda guerra mondiale in Italia meridionale Giuliano De Felice*, Maria Nunzia Labarbuta** * Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ ([email protected]). ** Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ ([email protected]).
Riassunto Il campo di volo di Pantanella (in località Loconia, presso Canosa di Puglia), costruito dallo United States Army Corps of Engineers nel 1944 era parte del grande Foggia airfield complex, un insieme di oltre 30 aeroporti realizzati dagli Alleati nel Tavoliere pugliese dopo gli sbarchi in Italia meridionale del settembre 1943. L’analisi dei resti superstiti, il confronto con le fotografie aeree e lo spoglio preliminare della documentazione conservata nell’archivio dell’Air Force Historical Research Agency hanno permesso di iniziare a ricostruire i tratti di questo grande aeroporto, che si estendeva per oltre 20 chilometri quadrati, e di identificare la funzione di parte degli oltre 50 edifici individuati, alcuni dei quali conservano ancora oggi resti di strutture e decorazioni relative alla presenza degli aviatori americani. Parole chiave: Archeologia dei conflitti contemporanei; archeologia del contemporaneo; Seconda guerra mondiale.
Abstract The Pantanella airfield. History and archeology of an American air base of World War II in Southern Italy The Pantanella airfield (at Loconia, near Canosa di Puglia), built by the United States Army Corps of Engineers in 1944, was part of the large Foggia airfield complex, a set of more than 30 airfields built by the Allies in the Apulian Tavoliere after the landings in southern Italy in September 1943. Analysis of surviving remains, comparison with aerial photographs and preliminary screening of documentation preserved in the Air Force Historical Research Agency archives have made it possible to begin reconstructing the characteristics of this large airfield, which covered more than 20 square kilometers, and to suggest the function of some of the more than 50 buildings identified, some of which still retain remnants of structures and decorations related to the presence of American airmen. Keywords: Modern conflict archaeology, contemporary archaeology; World War 2.
Alla restituzione di questo complesso scenario, per il quale è a disposizione del ricercatore una quantità inimmaginabile di fonti scritte, visuali e documentarie, l’archeologia, apparentemente fuori luogo, offre la sua mentalità, la sua metodologia e le sue tecniche, pur messe a punto su culture e contesti più remoti; ad accostare antico e moderno sono la labilità e la frammentarietà delle tracce materiali e la necessità di operarne una lettura analitica e rigorosa. D’altronde connettere luoghi distanti fra loro, ricucire contesti e ricomporre paesaggi rimangono sempre operazioni archeologiche, anche quando sono applicate al mondo contemporaneo e alla scala globalizzata dei suoi fenomeni, guerre incluse (De Felice 2022). Dove questa dimensione estremamente discontinua si mostra con particolare evidenza è nella guerra aerea, una delle innovazioni tecnologiche e strategiche del Novecento, presentata al mondo nelle due guerre mondiali e portata agli estremi nella seconda metà del secolo. Sarà infatti la Guerra fredda, a poco più di cinquant’anni dal primo goffo volo dei fratelli Wright, a rivelare come la possibilità di colpire (ed essere colpiti) a decine di migliaia di chilometri di distanza possa azzerare ogni differenza fra prima linea e
1. Lo scenario 1.1 L’archeologia dei conflitti contemporanei Il Novecento è stato senza dubbio il secolo dei conflitti. Non che la storia dei secoli precedenti sia stata pacifica, eppure mai prima del secolo breve la guerra era stata in grado di plasmare in modo tanto esteso e profondo il mondo intero. Due guerre mondiali nella prima metà e la Guerra fredda nella seconda metà del secolo hanno ben dimostrato come, apertamente combattuta o solo latente, la guerra tecnologica sia stata «la più grande impresa economica, coscientemente organizzata e diretta, che l’uomo avesse mai conosciuto» (Hobsbawm 1995, p. 70). Un’enorme e spaventosa impresa di massa, prodotto di un mondo ormai pienamente e pesantemente industrializzato, in grado di creare, e allo stesso tempo distruggere, più di qualunque altro conflitto precedente (Saunders 2004, p. 5). I segni materiali di queste guerre, sparsi in ogni angolo del globo, sono spesso evanescenti ed effimeri come possono essere i resti di opere realizzate rapidamente e senza pretesa di durare nel tempo; altrettanto spesso sono così distanti fra loro da rendere davvero arduo ricondurli a un paesaggio unitario. 99 Archeologia Postmedievale 26, 2022, pp. 99-113 doi 10.36153/apm26005
Giuliano De Felice, Maria Nunzia Labarbuta
retrovia e fra proiettile e bersaglio, trasformando ogni centimetro della superficie terrestre in un potenziale punto di lancio e quindi in un potenziale obiettivo. Per questi e molti altri motivi, pur non esaurendo la complessità del Novecento, i conflitti rappresentano un ottimo punto di osservazione, anche archeologico, sulla brusca accelerazione di quegli indicatori che già dal XVIII secolo avevano cominciato a marcare il distacco dal mondo antico in termini appunto di capacità bellica, ma anche di consumo di energia, organizzazione sociale e tecnologia dell’informazione (Morris 2013).
1.2 Il contesto storico È in questa prospettiva pienamente archeologica, portatrice di un approccio integrato fra fonti materiali e documentarie, che si inserisce lo studio presentato nelle pagine seguenti. La ricerca si muove nella ricostruzione di un particolare paesaggio dei conflitti che interessò, durante il Secondo conflitto mondiale, ampi territori dell’Italia meridionale, normalmente esclusi dalla narrazione delle guerre del Novecento. D’altronde, l’immagine di un Mezzogiorno sostanzialmente escluso dal conflitto, basata sull’oggettiva distanza dai principali teatri di guerra almeno fino al 1943, è stata progressivamente ridimensionata da una serie di importanti studi. La ricostruzione di una fitta trama di incursioni alleate, ritorsioni tedesche ed episodi di una Resistenza poco nota, nonché l’identificazione di un importante ruolo nell’organizzazione logistica nello smistamento e collocamento di prigionieri e profughi delineano un quadro tutt’altro che statico e marginale (Leuzzi, Esposito 2000; Leuzzi 2006; Leuzzi, Esposito 2008, Cerchia 2019). Negli ultimi anni, infine, l’analisi archeologica dei segni delle guerre in alcuni comparti territoriali come le Murge apulo-lucane ha permesso di mettere in evidenza i tratti materiali di un conflict landscape che anche nel Sud Italia abbraccia l’intero Novecento, fino alla Guerra nei Balcani (De Felice 2020 e 2021). Alla luce della vocazione logistica della Puglia è da interpretare quanto avvenne dopo gli sbarchi alleati del 1943 e in particolare in seguito a quello di Salerno del 9 settembre, quando le forze angloamericane riuscirono a garantirsi lo sfruttamento strategico delle ampie distese del Tavoliere e di altre aree dell’entroterra murgiano. Fu allora intrapresa la realizzazione di nuovi aeroporti, che andarono ad aggiungersi a quelli già realizzati durante l’occu-
pazione tedesca e passati sotto il controllo alleato, che poterono essere usati come punto di partenza per le missioni aeree dirette contro gli obiettivi tedeschi della Germania Meridionale, dell’Austria e dei Balcani, sino ad allora irraggiungibili dai bombardieri di stanza in Inghilterra. La massiccia infrastrutturazione degli oltre trenta aeroporti militari del Foggia Airfield Complex modificò profondamente, seppure per breve tempo, l’assetto di un vastissimo territorio di circa 20.000 ettari compreso fra la costa molisana, il Tavoliere e le Murge (Guerrieri 2001; Volpe, Goffredo 2014; Seager Thomas 2020). Qui, agli inizi del 1944, si stanziò la 15a Forza Aerea statunitense: per i caccia i principali aeroporti erano Foggia-Gino Lisa, Lesina e San Severo; per i bombardieri Amendola, Lucera, Foggia-Celone, Stornara, Cerignola-San Giovanni e, appunto, Pantanella. G.D.F.
2. Pantanella airfield 2.1 Il contesto topografico L’aeroporto di Pantanella (fig. 1), in agro di Loconia, 12 km a SW della città di Canosa di Puglia, divenne operativo già nel febbraio del 1944 e fu completato nel maggio dello stesso anno. Nella classificazione dello United States Army Corps of Engineers era del tipo più grande (tipo 5), che includeva quelli progettati e realizzati per accogliere bombardieri pesanti, dotati di piste lunghe realizzate in PSP (Pierced Steel Planking) e di una rete interna ed esterna di vie di rullaggio1. In particolare, al pari di quelli di Amendola, del Celone e di San Giovanni, Pantanella apparteneva al subtipo 5b, ossia con un impianto a due piste a differenza del 5a che ne prevedeva una sola (Seager Thomas 2020, in particolare pp. 31-35 e 48-49). L’aeroporto divenne la sede di due gruppi di bombardieri (464° e 465°), istituiti nella primavera del 1943 ma giunti a Pantanella quando la base divenne operativa nel febbraio del 1944, dopo un periodo di addestramento in varie basi degli Stati Uniti, poi a Oudna in Africa settentrionale e a Gioia del Colle. Dotati di apparecchi a lungo raggio B-24 Liberator, i due gruppi furono impiegati in missioni 1 Le PSP, note anche come Marston mats o, in Italia, grelle, furono sviluppate dalla U.S. Army Waterways Experiment Station negli Stati Uniti come un sistema rapido per costruire piste solide su qualunque tipo di terreno. Per ulteriori approfondimenti si veda: robdebie.home.xs4all.nl/models/psp.htm
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fig. 1 – Dispiegamento della 15° Forza aerea statunitense nella Puglia settentrionale: le basi aeree dei caccia e dei bombardieri (ww2db.com).
di bombardamento strategico e tattico in tutta l’Europa meridionale e orientale (Maurer 1969, pp. 749-754; Floyd 1989). Indipendentemente dalla loro dimensione e tipologia, gli airfields alleati erano organizzati al loro interno in diverse parti: il campo di volo vero e proprio, gli accampamenti del personale e i siti tecnici dotati di strutture particolari quali torri di controllo, hangar, edifici di comando e strutture per l’addestramento. Grazie all’analisi delle fonti e ad una serie di sopralluoghi sul campo è stato possibile cominciare a individuare e localizzare topograficamente alcuni dei settori di cui l’aeroporto di Pantanella era costituito, fra cui le piste, l’accampamento e il quartier generale di uno dei due gruppi.
2.2 Metodologia e fonti Come spesso avviene nelle ricerche di archeologia del contemporaneo, lo studio del sito dell’aeroporto di Pantanella ha potuto contare su importanti fonti e documenti d’archivio. A dover essere ricordate sono innanzitutto le testimonianze orali di persone del luogo, cui si affiancano numerose e preziose immagini fotografiche conservate nei siti web dei veterani dei gruppi di bombardieri di stanza a Pantanella, siti da cui è possibile recuperare anche i racconti (stories) di numerosi reduci (the464th.org e 465th.org, ultimo accesso ottobre
2022). A completare il quadro delle fonti orali e visuali va ricordato il documentario On the Wing, realizzato nel 2006 da Brad Branch, nel quale vengono raccontate le storie e le missioni dei due Gruppi di bombardieri che partivano da Pantanella (longshot productions per la BBTFilms: trailer: youtu.be/RHCEMFF356s). Per quanto riguarda gli archivi, di fondamentale importanza è stato il recupero, fra i dossier dell’Air Force Historical Research Agency, di 8 microfilm in cui sono custoditi innumerevoli documenti redatti fra il 1944 e il 1945, relativi, oltre alla descrizione delle missioni di bombardamento, anche alle operazioni di costruzione dell’aeroporto, alla vita quotidiana e al definitivo smantellamento (airforcehistoryindex.org, termine di ricerca “Pantanella”, ultimo accesso settembre 2022). I microfilm acquisiti contengono scansioni di documenti desecretati, fra i quali si trovano fotografie del campo, della pista e dei militari di stanza nell’aeroporto, carte schematiche dei luoghi in cui le strutture erano dislocate, degli obiettivi delle missioni, ma anche spaccati di vita quotidiana, fra cui ad esempio le riviste che i gruppi di bombardieri redigevano, preziosissime per ricostruire la microstoria del sito. Le oltre 15.000 pagine sono organizzate per temi senza seguire un preciso ordine, e pertanto la ricerca delle informazioni risulta estremamente complessa e laboriosa.
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2.3 Analisi e identificazione di settori e strutture Documenti e immagini storiche (singoli fotogrammi e ortofoto), digitalizzate in formato vettoriale e raster e implementate in una piattaforma GIS (QGis 3.24.0), hanno reso possibile ricostruire in dettaglio l’estensione del campo d’aviazione, che si sviluppava su una superficie di oltre 20 chilometri quadrati, e di ipotizzare la distribuzione interna dei diversi settori, in particolare dell’accampamento del personale e del quartier generale, nonché di riconoscere la funzione di alcuni edifici.
2.3.1 Le piste Del settore destinato alle piste attualmente non resta alcuna traccia materiale se non alcuni moduli di PSP reimpiegati in vario modo nei campi circostanti, e qualche generica indicazione sull’ubicazione desumibile dalle fonti orali. Un importante riscontro della sua complessa articolazione è costituito da una planimetria schematica (fig. 2) pubblicata nel sito web realizzato in memoria del 465° gruppo (465th.org). Come si evince dal
disegno, la superficie di decollo era costituita dalle piste parallele di PSP, che dividevano i due settori destinati ciascuno a un singolo gruppo di bombardieri. Per quanto nella pianta non siano riportati orientamento, scala o riferimenti topografici, il confronto con le immagini satellitari presenti su Google Earth e con altre fotografie aeree (fig. 3) ha permesso di effettuare un riscontro con tracce ancora presenti sul terreno (sulle cause delle variazioni di leggibilità delle tracce in un contesto simile si veda Cantoro, Pelgrom, Stek 2017). Il confronto fra i diversi documenti ha consentito di individuare numerosi punti di corrispondenza con le tracce sul terreno, di estrapolare le coordinate in una piattaforma GIS e infine di georeferenziare la planimetria. L’operazione ha permesso di collocare topograficamente la pista, di risalire alla sua estensione e di sovrapporla alle immagini aeree dell’IGM (F. 175-XIX, 86, 1953; fig. 4).
2.3.2 Gli accampamenti Lungo il declivio a SE delle piste, in località Le Coppe, si sviluppavano gli accampamenti, allestiti, al momento dell’arrivo dei due gruppi di
fig. 2 – Planimetria schematica del settore delle piste della base aerea di Pantanella (465th.org).
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fig. 3 – In alto: foto aerea del settore delle piste della base aerea di Pantanella. In primo piano il settore delle piste (americanairmuseum. com); in basso: tracce delle piste sul terreno in località Postapiana Pantanella e punti di aggancio per la georeferenziazione (Google Earth 2011).
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fig. 4 – Collocazione topografica degli edifici dell’aeroporto e delle piste su fotografia aerea IGM del 1953. Gli edifici numerati sono quelli riconosciuti sul campo; in arancio quelli individuati tramite riscontri documentari e fotografici.
bombardieri, dai militari stessi, al pari degli altri edifici dell’aeroporto. Stando a quanto si legge, il personale viveva in tende ubicate in prossimità delle linee di volo, disposte in un vasto insediamento che si estendeva fin sulle due colline che dominano la piana delle piste. Dai riscontri fotografici, infatti, sembra evidente la distribuzione delle tende fino alla località Masseria Coppe di Maltempo, in prossimità del settore deputato al quartier generale (fig. 5). Equipaggi e personale di terra erano alloggiati in tende in tela di canapa, da sei posti ciascuna. Probabilmente in vista dell’inverno del 1944 molte tende furono trasformate in alloggi più solidi e permanenti, ad esempio con la realizzazione di tratti di murature in blocchi di calcarenite, mentre i tetti continuavano ad essere costituiti da tende o per chi riusciva a procurarsi il necessario, in altro materiale (Floyd 1989, p. 83); la pavimentazione era realizzata mediante piastrelle quadrate di 30 cm di lato (the464th.org; Hill, Harl 2002). È altresì probabile che le costruzioni ‘ibride’ fossero,
in un primo momento, destinate solo ad alcuni edifici come gli ambulatori, come si desume dalle didascalie di alcune foto (fig. 6). Il ricorso a questa soluzione tecnica è certamente correlato alle difficoltà legate alle caratteristiche geomorfologiche dell’area e, in particolar modo, del settore in prossimità delle piste in località Postapiana. Il toponimo ‘Pantanella’, infatti, è verosimilmente connesso con il carattere paludoso dell’area, come del resto confermano alcune fotografie (vedi fig. 10) e gli stessi diari dei veterani, dai quali emergono le pessime condizioni del suolo soprattutto in determinati periodi dell’anno. D’altra parte, la natura alluvionale di questo settore ha favorito il deposito di ingenti quantitativi di ghiaia, sabbia, ciottoli e argilla, utili per la posa in opera delle PSP, caratteristica determinante nella scelta di questo sito per la costruzione dell’aeroporto (AFHRA A0244, 398). L’aeroporto di Pantanella fu interessato anche dalla realizzazione di strutture permanenti deputate ai più diversi utilizzi, per la cui costruzione si fece
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fig. 5 – Foto aerea obliqua dell’accampamento ripresa da Nord Est. In secondo piano il settore del quartier generale del 465° in località Masseria Coppe di Maltempo (archivio G. Pansini).
da escludere, in attesa di ulteriori approfondimenti, che i blocchi da costruzione provenissero dalle immediate vicinanze, ad esempio dai diversi fronti di cava ubicati in località Cava di Pietre e Cave di Tufo, a circa 5 km ad E dall’aeroporto. Nella realizzazione di questi edifici le truppe furono coadiuvate da un consistente numero di civili, moltissimi dei quali provenienti dalla vicina Canosa che dovettero costituire un importante supporto nelle fasi di lavorazione e costruzione (Morra 2013).
2.3.3 Il quartier generale del 465°
fig. 6 – Ambulatorio del 778° squadrone del 464° gruppo di bombardieri. Si nota la struttura realizzata in blocchi di tufo con copertura in tenda (the464th.org).
ricorso alla calcarenite ampiamente presente e di facile reperibilità nel territorio canosino, alla cui estrazione collaborarono gli stessi militari americani, dotati di strumentazione molto evoluta rispetto a quella utilizzata dalle maestranze locali2. Non è 2 «The tufa block quarries nearby, which had been providing building materials for centuries, suddenly found a demand which the quarries, using the ancient stone axes, could not meet. Imagine their astonishment when a Yankee showed up with a blade
Come si evince dagli archivi, ciascuna unità militare presente a Pantanella era assegnata a specifici settori, dislocati in modo da evitare di essere facilmente avvistabili dagli aerei nemici. Nel corso dei sopralluoghi sul campo è stato possibile individuare il quartier generale del 465° gruppo di bombardieri, in località Masseria Coppe di Maltempo (fig. 7). L’analisi delle fonti a cui si è fatto ricorso ha consentito di identificare sul campo sette degli edifici che ne facevano parte. Tra questi, l’edificio 1 (44×14,70 m), indicato dalle testimonianze orali (made from a piece of armor plate) mounted on and powered by a motorcycle engine which cut more blocks in an hour than the conventional system could produce in a week» (testimonianza di Burt Andrus, in Floyd 1989, p. 35).
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fig. 7 – Masseria Coppe di Maltempo, Quartier Generale. Foto da drone (A. Palermo, ottobre 2022) e dettaglio dell’immagine satellitare (Google Earth 2022).
fig. 9 – Edificio 1, foto di dettaglio di una scena di banchetto dipinta sulla parete di fondo di uno degli ambienti (G. De Felice, settembre 2022).
fig. 8 – Edificio 1, foto di dettaglio della raffigurazione di due bombardieri (G. De Felice, settembre 2022).
come alloggio degli ufficiali, è a pianta rettangolare, orientato in senso SW-NE, realizzato in blocchi di calcarenite. Nel corso di uno dei sopralluoghi effettuati, in un ambiente dove l’intonaco bianco che riveste
le pareti non ha retto all’incuria, sono emersi affreschi che non lasciano dubbi sulla fase di realizzazione: si riconoscono, infatti, sulle pareti laterali, due bombardieri (fig. 8) e sulla parete di fondo due tavole circolari di colore nero imbandite con suppellettile e cibo. Sulla tavola di sinistra, in particolare, sono riprodotti un piatto con carne, pane e piselli, accompagnati da un calice di vino bianco o birra e un caffè lungo in una tazza grande (fig. 9). L’attribuzione agli aviatori è suffragata,
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fig. 10 – La Stable House (edificio 2) in due immagini d’epoca. A sinistra: 465th.org; a destra AFHRA B0616, 0211; in basso come appare oggi (settembre 2022).
oltre che dalla raffigurazione di quello che sembra un tipico pasto americano, dall’iscrizione dipinta ‘Boi’, forma gergale del termine ‘boy’. Attualmente l’ambiente è diviso in due vani da un setto murario funzionale alla realizzazione di un piccolo bagno, che interrompe la continuità della raffigurazione. Di questo edificio, è possibile individuare diverse fasi di utilizzo riconoscibili da modifiche strutturali successive al primo impianto, relative a momenti posteriori allo smantellamento del luglio del 1945. Ad una occupazione posteriore e rifunzionalizzazione del fabbricato è infatti da attribuire, come sembrano suggerire i mattoni quadrati utilizzati per le coperture al posto delle tegole del nucleo originario, la realizzazione di un piano superiore e
di due vani porticati lungo i lati corti, in uno dei quali fu realizzata una vasca funzionale alla pesa agricola. Alcuni ambienti del piano terra furono suddivisi tramite semplici tramezzi per ricavare bagni e ambienti più piccoli, e tutti i muri interni furono ricoperti con l’intonaco bianco che obliterò le pitture. Se dell’edificio 1 non si è in grado, allo stato attuale della ricerca, di proporre una destinazione d’uso, per altri è invece possibile farlo con certezza. A NE dell’edificio 1 è ubicato l’edificio 2 (28,5×11,4 m), orientato in senso EW, a pianta rettangolare con volta a botte, realizzato in blocchi di calcarenite rivestiti di intonaco. La grande costruzione è dotata di un ingresso principale ad E e uno secondario
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fig. 11 – Edificio 2, interno (giugno 2022).
fig. 12 – Edificio 3: Post Exchange. In alto un’immagine scattata poco dopo la sua realizzazione (AFHRA B0616, 0211); in basso lo stato attuale (G. De Felice, settembre 2022).
lungo il lato S. Un confronto immediato può essere istituito con la costruzione immortalata in due fotografie (fig. 10): una trovata nel sito web del 465° (465th.org/photo_gallery/default.html ultimo accesso ottobre 2022) e l’altra all’interno degli archivi dell’AFHRA (B0616, 0211). In entrambe, l’edificio è ritratto dall’esterno ed è molto simile a quello attualmente visibile. Al di là degli interventi effettuati successivamente che hanno completamente modificato la facciata, dell’ingresso ad arco visibile nelle fotografie, resta ancora oggi la soglia, costituita da una lastra in calcare. Le due foto sono corredate da didascalie dalle quali apprendiamo che l’edificio era stato trasformato in un locale per proiezioni e spettacoli , chiamato Stable House in virtù della sua originaria destinazione d’uso come ricovero per gli animali (fig. 11). L’esistenza della Stable House è attestata anche dalla rivista “FlimFlam”, redatta dal 465° gruppo (AFHRA B0616, 1854) in cui, tra le diverse rubriche, è riportato il programma degli spettacoli. Contestualmente all’allestimento della Stable House, all’esterno dell’edificio fu costruito un nuovo corpo di fabbrica (edificio 3, 27,7×5,7 m), che sfrutta il muro perimetrale N dell’edificio 2. Dalla già citata didascalia della fig. 10 apprendiamo che questo vano era destinato ad accogliere il Post Exchange (PX), dove venivano venduti beni di prima necessità e prodotti vari, come vino e sigarette (fig. 12). I lavori di costruzione dovettero terminare poco prima del 27 maggio 1944, quando, stando a quanto riportato negli archivi (AFHRA B0616,
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fig. 13 – Le pitture sui pilastri all’interno del Post Exchange, da E a W (settembre 2022).
fig. 14 – Edificio 4: Briefing Room, interno. In alto: AFHRA B0616, 0028; in basso: stato attuale (ottobre 2022).
0168), il PX venne spostato qui da una struttura di cui non viene specificata l’ubicazione. Oltre alle immagini dell’archivio in cui è ben evidente lo sfruttamento di uno degli archi ciechi del muro
settentrionale dell’edificio 2 per l’esposizione dei prodotti destinati alla vendita, a confermare la sua destinazione d’uso è l’iscrizione ‘P.X. beer’ dipinta sull’etichetta della bottiglia presente nella scena raffigurata su un pilastro. Quest’ultima rappresenta un aviatore su un isolotto, intento a bere, in compagnia di una pin-up appoggiata ad una palma. Anche i due pilastri immediatamente successivi sono decorati da pitture, collocate alla stessa altezza della prima, raffiguranti lo stemma della 15° Forza Aerea Americana e un’altra scena in cui un military policeman trascina un uomo evidentemente ubriaco (fig. 13). La briefing room era ubicata all’interno di parte di un grande edificio costituito da tre strutture rettangolari disposte a ferro di cavallo (dimensioni complessive 41×38,5 m). In particolare, il vano è da identificare con l’edificio più orientale dei tre (edificio 4, 8,5×38,2 m), pesantemente rimaneggiato in una fase successiva alla dismissione dell’aeroporto. Il sopralluogo effettuato all’interno ha rivelato come il nucleo originario fosse costituito da un ambiente sotterraneo, profondo diversi metri, attualmente obliterato da un piano sopraelevato in cemento realizzato al momento della rifunzionalizzazione in stabilimento agricolo, che comportò anche la costruzione di un nuovo edificio di dimensioni pressoché identiche all’edificio 4 (9,2×38,5 m), in appoggio al suo lato occidentale. Attraverso un risparmio nella porzione centrale del piano sopraelevato è possibile constatare la profondità del vano originario, che arriva ben al di sotto del piano di campagna, a riprova di quanto riportato nelle interviste ai veterani del documentario On the wing e confermato dai microfilm in
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fig. 15 – Edificio 5, sede della Croce Rossa e ufficio del cappellano (a sinistra AFHRA B0616, 0210; a destra stato attuale (ottobre 2022).
fig. 16 – La chiesa del 465°, ripresa da NW (da canosaweb.it).
cui viene chiaramente esplicitato che la struttura fosse sotterranea e originariamente utilizzata come fienile (fig. 14). I lavori di sistemazione del vano per adibirlo a briefing room e ufficio, infatti, furono addirittura preceduti da operazioni volte a bruciare le circa 350 tonnellate di fieno conservate. Per la rimozione della cenere fu necessario impiegare una ferrovia a scartamento ridotto e un autocarro azionato da un argano su un camion militare da 2,5 t. (AFHRA B0616, 0028). Un altro edificio di cui è stata individuata con certezza la destinazione d’uso è il 5 (6,6×8,7 m), anch’esso probabilmente preesistente all’allestimento dell’aeroporto. La piccola struttura è costruita in blocchi di calcarenite, con le aperture
riquadrate da laterizi. L’assenza di rimaneggiamenti successivi consente di identificarlo con la sede della Croce Rossa e dell’ufficio del cappellano (fig. 15). I gruppi di bombardieri potevano avvalersi, infatti, del conforto spirituale, cui doveva essere riconosciuta un’importanza notevole considerato che furono costruite ben due cappelle, una per ciascun gruppo (AFHRA B0616, 0166; 1465), per la cui realizzazione si fece ricorso alle donazioni degli stessi membri3. Negli archivi è riportata la sottoscrizione dei due cappellani per costruire una chiesa, le cui dimensioni riportate nei documenti (75×25 ft=28×7m) trovano corrispondenza con quelle dell’edificio 6 e ne rendono possibile l’identificazione con la cappella costruita dal 465°. È interessante notare come per la sua realizzazione si sia fatto ricorso a particolari architettonici che poco hanno a che fare con una cappella provvisoria: la chiesa (fig. 16), era costituita da un’ampia navata ed era dotata di transetto e di una torre campanaria realizzata in facciata. Allo stato attuale si conservano solo il muro perimetrale E e gli ambienti postici, verosimilmente utilizzati come sacrestia, mentre non vi è traccia delle due ali laterali del transetto, ancora visibili nell’IGM del 1953. La facciata risulta destrutturata da interventi successivi volti all’ampliamento dell’ingresso; infine, del muro perimetrale W resta solo il crollo strutturato perfettamente allineato sul pavimento, lungo il quale, è chiaramente leggibile il profilo degli archi ogivali 3 Nel n. 3 del settimanale Flim-Flam sono contenuti gli appelli del cappellano ad effettuare donazioni: B0616, 1679.
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fig. 17 – Edificio 6, foto da drone della chiesa del 465° (A. Palermo, ottobre 2022) e particolare della pavimentazione (ottobre 2022).
fig. 18 – Immagini d’archivio della chiesa del 464° gruppo di bombardieri (archivio Dawn Vosbein, Collection of The National WWII Museum).
delle sette finestre che si aprivano su entrambi i lati. La pavimentazione era costituita da mattonelle bianche e rosse, inquadrate in una cornice decorata che corre lungo tutto il perimetro della chiesa (fig. 17). Di notevole interesse la scelta di ricorrere alle finestre ogivali e di dotare l’edificio di un campanile4, elementi che richiamano modelli non locali 4 Come si legge nel microfilm AFHRA, B0616, 1465: «If contributions are generous enough, Chaplains Blouch and McCahey plan to install a bell which will toll out the call to services».
e sembrano evidenziare non solo l’ambizione a realizzare un edificio di culto vero e proprio, ma anche l’intenzione di rendere il campo quanto più possibile ‘familiare’, realizzando un edificio le cui architetture potessero suggestivamente richiamare alla mente la propria madrepatria5. Secondo gli auspici dei cappellani, la chiesa del 465° avrebbe dovuto essere pronta a marzo del 1945 ma sappiamo che all’inizio del mese le messe venivano ancora officiate nella Stable House (AFHRA B0616, 1681). Il 464° invece, doveva già essere dotato di una chiesa, come si intuisce dall’appello del cappellano del 465° sul settimanale Flim-Flam: «If our neighbors, the 464th, can erect a chapel certainly we can likewise. Again we thank you for your contributions» (AFHRA B0616, 1679). Non si hanno al momento riscontri materiali di quest’ultimo edificio, visibile in alcune fotografie (fig. 18), né è possibile ipotizzarne l’ubicazione.
2.4 Dall’abbandono alla ricerca Dopo il Victory in Europe Day (8 maggio 1945), entrambi i gruppi furono assegnati al ‘Green Project’, ossia il ritorno delle truppe dall’Europa 5 «Sunday mornings this spring should have a touch of the old hometown»; AFHRA, B0616, 1465.
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agli Stati Uniti attraverso la South Atlantic Transport Route. Per questo ruolo i B-24 furono modificati sigillando i vani per le bombe, rimuovendo tutti gli armamenti difensivi e dotando la fusoliera interna di circa 30 posti a sedere. L’aeroporto rimase in funzione fino alla fine della guerra per chiudere definitivamente nel luglio 1945. Il sito fu abbandonato e la terra tornò rapidamente ad uso agricolo: si pensi che solo tre anni dopo la fine del conflitto, nel 1948, immediatamente a N dell’area delle piste, fu fondato il borgo rurale di Loconia. Sebbene il ricordo dell’aeroporto sia ormai svanito per gli abitanti dei paesi limitrofi, non è lo stesso per i veterani americani, che, almeno fino all’avvento della pandemia, ormai novantenni, continuavano a riunirsi ogni due anni negli USA sotto il nome di Pantanella e, con non poche difficoltà, sono riusciti a tornare a visitare i luoghi6. Il confronto tra le fotografie aeree e alcune carte schematiche dell’articolazione dell’aeroporto contenute nell’archivio AFHRA ha consentito, finora, di individuare numerose zone interessate dalla presenza di edifici attribuibili all’aeroporto, in località la Coppicella di sopra, Masseria Iannarsi, Masseria Spagnoletti e Masseria Battaglini, e la collocazione dei presunti hangar a NW delle piste, nel settore tra queste e il fiume Ofanto, per un totale di 53 edifici, per i quali sono in progetto futuri sopralluoghi. L’apporto degli archivi è risultato fondamentale anche per confermare la presenza alleata nella vicina località Lamalunga e, quindi, l’integrazione delle strutture relative alla vicina Masseria Bucci nell’area di pertinenza dell’aeroporto. Fino ad ora, in merito, non vi erano che vaghe voci prive di riscontri certi e la suggestione data dalla pre6 Si menzionano, in particolare, la visita a Pantanella di Frank Ambrose documentata nel film On the wing, e quella di Beth, la figlia di uno dei veterani, registrata in un cortometraggio di 15 minuti, realizzato da OLA Channel (Organizzazione Lucana Ambientalista), una web tv non più attiva, i cui fondatori sono attualmente irreperibili.
senza, all’interno dell’edificio, di pitture murali su cui erano raffigurate ragazze pin-up. La ricerca a Pantanella può dirsi solo all’inizio, soprattutto alla luce della quantità di dati contenuti nei documenti dell’archivio dell’AFHRA e della necessità di proseguire nella perimetrazione dei diversi settori, nella ricognizione dell’intera superficie e nell’analisi degli edifici individuati nell’area dell’aeroporto, la maggior parte dei quali aspetta ancora di essere interpretata. M.N.L.
Ringraziamenti Il lavoro di ricerca sul Pantanella airfield inizia nella primavera del 2022 come tema d’anno di Maria Nunzia Labarbuta per il corso di Archeologia dell’età moderna e contemporanea presso la scuola di Specializzazione in Beni archeologici dell’Università di Bari ‘Aldo Moro’, di cui questo contributo rappresenta un primo importante ampliamento. Questo paper, tuttavia, non sarebbe stato completato senza il prezioso aiuto di molti nella ricerca bibliografica, nell’accesso alle fonti e nei sopralluoghi sul sito. In particolare, si desidera ringraziare Fedele Accetta, già Primo Luogotenente dell’Aeronautica militare, sia per le notizie fornite che per la impagabile guida nel corso del primo sopralluogo. A lui e al Maresciallo Capo dei Carabinieri Rosa Valente va un più che sentito ringraziamento. Anche in questo lavoro, come in ogni ricerca su Canosa e il suo territorio, si è rivelato insostituibile l’archivio di Giovanni Pansini, ampio e prezioso come la generosità nel metterlo a disposizione. Un ringraziamento particolarmente sentito va all’Air Force Historical Research Agency (AFHRA), nella persona del Research Team Supervisor Patrick J. Charles, che ha accolto la richiesta di accesso agli archivi e ha trasmesso in tempi brevissimi un numero consistente di microfilm, fornendo un supporto determinante alla ricerca. Si ringraziano infine Francesco Morra per aver messo a disposizione il DVD di On the wing e per il fruttuoso dialogo avuto nelle fasi iniziali della ricerca, Angelo Palermo per le fotografie da drone scattate in località Masseria Coppe di Maltempo e Simone Lavacca per la segnalazione e il costante e fruttuoso dialogo sulla storia dell’aeroporto di Pantanella. Salvo dove diversamente indicato, le piante e le elaborazioni grafiche sono di Maria Nunzia Labarbuta.
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Storia e archeologia di una base aerea americana della Seconda guerra mondiale in Italia meridionale
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5. ARCHEOLOGIA POSTMEDIEVALE IN ITALIA POST-MEDIEVAL ARCHAEOLOGY IN ITALY Schede Excavation reports a cura di Marco Milanese e Giuseppe Clemente
Schede di: Elisabetta Abela, Agata Aguzzi, Marta Arzarello, Giovanni Azzalin, Monica Baldassarri, Gabriele L.F. Berruti, Cinzia Bettineschi, Susanna Bianchini, Giulia Bizzarri, Francesca Bosman, Nadia Botalla Buscaglia, Beatrice Brancazi, Luca Brancazi, Davide Busato, Emanuele Canzonieri, Diego Carbone, Marco Casola, Sandro Caracausi, Barbara Ciarrocchi, Neva Chiarenza, Letizia Chiti, Pina Corraine, Remigio Cruciani, Sara Daffara, Luigi Di Cosmo, Laura Di Siena, Armando De Guio, Enrico Dirminti, Giulia Doronzo, Margherita Ferri, Roberta Ferrini, Maila Franceschini, Tommaso Frattin, Simone Foresta, Alessia Frisetti, Elena Gallesio, Eugenio Garoglio,
Archeologia Postmedievale 26, 2022, pp. 115-197 doi 10.36153/apm26006
Giuditta Grandinetti, Jan Kindberg Jacobsen, Erminia Lapadula, Francesco Laratta, Patrizia Lepori, Simone Giovanni Lerma, Cinzia Loi, Luigi Magnini, Gianluigi Marras, Maurizio Martinelli, Annamaria Mauro, Giovanni Murro, Irene Nizzi, Antonella Pandolfi, Barbara Panico, Stefania Paradiso, Claudio Parisi Presicce, Daniela Patti, Giuseppe Piras, Caterina Piu, Giandomenico Ponticelli, Giulia Previti, Rubina Raja, Claudia Rizzitelli, Elena Rossi, Francesco Rubat Borel, Alessandro A. Rucco, Enrica Salvatori, Luca Sanna, Fulvia Sciamanna, Paola Sfameni, Anna Maria Stagno, Barbara Strano, Simon Luca Trigona, Massimo Vitti, Diego Voltolini.
Schede
PIEMONTE Provincia di TORINO Groscavallo, località Gias Sagnasse e Laghi di Sagnasse. Ricognizioni e strutture agropastorali Nel 2019 la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città metropolitana di Torino e l’Università di Ferrara hanno sottoscritto una convenzione per la realizzazione di progetti di ricerca, valorizzazione, supporto alla tutela e formazione del patrimonio archeologico preprotostorico del territorio delle Valli di Lanzo, Orco e Soana. Nello stesso anno, il 7 giugno 2019, presso il Museo Nazionale della Montagna di Torino si è tenuto il VII Incontro Annuale di Preistoria e Protostoria dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, dedicato alle scoperte e alla ricerca territoriale, alla tutela e alla valorizzazione in ambiente montano (Preistoria e protostoria in ambiente montano 2019). Nel corso dell’inverno 2019-2020 si sono raccolti i dati dei contesti archeologici noti del territorio e si è elaborato un modello GIS predittivo per individuare le APAF (Aree Potenziali Archeologiche Finali), maggiormente favorevoli per insediamento o frequentazione antica e la conservazione dei contesti da rimozioni o distruzioni naturali (dissesto idrogeologico, erosione, frane, ruscellamento…) o antropiche (continuità insediativa, terrazzamenti agricoli,
bacini artificiali…), constatando la frequente coincidenza tra siti archeologici noti e quanto elaborato (Rubat Borel et al. 2020, fig. 21). Le attività sul terreno del 2020 rientrano, inoltre, nel progetto “Tracce preistoriche in ambiente alpino. Survey archeologici nelle Valli di Lanzo” finanziato nell’ambito del bando del Club Alpino Italiano CAI – Terre Alte 2020 e realizzato in collaborazione con Associazione 3P – Progetto Preistoria Piemonte e CAI Lanzo. Come tutte le regioni alpine, le Valli di Lanzo rappresentano un’area particolare per la ricerca archeologica preprotostorica, poiché il popolamento dell’arco alpino ha avuto inizio a seguito del ritiro dei ghiacciai successivo all’ultima glaciazione pleistocenica. Per le Valli di Lanzo si dispone di conoscenze e di ritrovamenti archeologici (Rubat Borel et al. 2020) ma mancano tuttavia campagne di ricerca estese e condotte con metodologie moderne. I protocolli di ricerca di frequentazioni umane di età preprotostorica e storica elaborati per l’arco alpino orientale quale risultato di ricerche decennali, che hanno già dimostrato di essere efficaci anche per l’arco alpino occidentale, sono stati utilizzati per realizzare il lavoro in oggetto (Gambari, Ghiretti, Guerreschi 1989; Vullo, Fontana, Guerreschi 1999; Berruti et al. 2016; Raiteri 2017; Caracausi et al. 2018). In generale, la metodologia di indagine adottata per le ricerche nelle Valli di Lanzo segue l’approccio dell’archeologia del paesaggio (Handbook of landscape archaeology
fig. 1 – Groscavallo. GIS Predittivo: particolare della mappa della Aree Potenziali Archeologiche Finali (APAF), segnate in nero; contesti archeologici emersi nelle attività del 2020 (losanga: alpeggi Gias Fontane; pallini: balme o ripari sottoroccia) (imm. S. Caracausi).
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fig. 3 – Groscavallo. Loc. Gias Fontane. Veduta generale dell’area sottoposta a ricognizione, con strutture probabilmente legate ad attività agropastorali (foto S. Daffara).
fig. 2 – Groscavallo. Loc. Sagnasse. Falcetto riferibile a tipologie diffuse nel XVIII secolo (foto G.L.F. Berruti).
2016) e consiste essenzialmente nella registrazione e documentazione di qualsiasi intervento umano sul paesaggio naturale, dalla preistoria fino all’età moderna attraverso un approccio multidisciplinare e diacronico. Allo scopo di ottimizzare le tempistiche della ricerca sul campo, l’avvio delle prospezioni è stato preceduto dalla elaborazione di un modello GIS predittivo attraverso una metodologia già applicata nelle ricerche archeologiche in alta Valle Sessera, nel Biellese (Caracausi et al. 2018; fig. 1). Esso, combinando dati geomorfologici, ambientali e archeologici con i parametri che hanno determinato le scelte insediative in alta montagna a partire dalla preistoria (Kompatscher, Kompatscher 2007) ha consentito di delimitare porzioni di territorio ad elevato potenziale archeologico (Rubat Borel et al. 2020). La campagna di ricognizione del 2020 ha dovuto essere calibrata in funzione dell’emergenza sanitaria in corso, limitando sia il numero di ricercatori coinvolti sia le giornate di lavoro sul campo. Alle prospezioni sono state dedicate tre giornate durante le quali un gruppo composto da quattro persone ha esaminato alcune aree segnalate dal modello GIS predittivo nel comune di Groscavallo, sul versante a solatio (o all’indritto) della Val Grande (Rubat Borel et al. 2021). La prima area oggetto di prospezioni corrisponde al percorso che va dalla strada consortile per Gias Nuovo Fontane ai laghi di Sagnasse (fig. 1). Scopo della ricognizione è stato verificare la presenza di aree che per morfologia e localizzazione fossero idonee alla presenza e conservazione di insediamenti di età preprotostorica indicate dal modello predittivo (Broglio, Improta 1995; Broglio, Lanzin-
ger 1996; Kompatscher, Kompatscher 2007). L’area, rivolta a sud, è al di sopra dell’attuale linea del bosco, a circa 1750 m slm, ma questo è dato tuttavia dall’intensa frequentazione di mandrie e greggi che si nutrono di germogli: in fasce scoscese di questo versante della Val Grande di Lanzo la copertura arborea arriva a 1950 m slm con betulle e ontani, mentre sul versante opposto, benché esposto a nord, molto ripido e in passato poco frequentato dai pastori, si arriva a circa 2000 m slm con foreste di larici. Qui il fondovalle è a circa 1150 m slm, la cresta di spartiacque con la Valle Orco e il territorio di Ceresole Reale è tra 2640 e 2882 m slm, mentre a ovest si erge quasi in verticale sul fondovalle il massiccio delle Levanne, con la Levanna Orientale di 3555 m slm. La fascia interessata dalla ricerca è formata da alcuni ampi terrazzi pianeggianti dati dall’erosione glaciale, con piccole morene laterali che chiudono i pianori e portano alla formazione di laghetti dalle acque che colano dalle pareti di roccia soprastanti, per poi infiltrarsi e quindi fuoriuscire a quote inferiori in polle e piccoli torrenti, come mostrano i microtoponimi Sagnasse (in piemontese sagnassa, acquitrino) e Gias Nuovo Fontane (in piemontese giass, addiaccio). Lungo il percorso sono stati individuati temi geomorfologici legati all’azione di antichi ghiacciai quali: laghetti intorbati, morene, massi erratici e piccoli pianori. In via preliminare si è provveduto alla documentazione fotografica di tali contesti che saranno in futuro sottoposti a ricognizioni sistematiche con realizzazione di campionature ragionate. L’area pianeggiante limitrofa al lago superiore di Sagnasse mostrava diversi contesti idonei alla presenza di resti archeologici preprotostorici e molte evidenze, quali resti di strutture e piccoli ripari ricavati con muri a secco presso massi erratici, che suggeriscono frequentazioni di età storica la cui effettiva cronologia e consistenza dovrà essere determinata con ulteriori indagini. Nell’area a 2090 m slm è stata rilevata la presenza di un ampio riparo sotto roccia (SA 006) attorno al quale sono visibili strutture costituite da allineamenti di cumuli di pietre, perpendicolari alle curve di livello, inizialmente interpretati come risultato di attività di spietramento finalizzate all’ampliamento delle aree a pascolo (in fig. 1 indicata con un rombo). L’ipotesi iniziale che potesse trattarsi dei resti di un giass (recinto e
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fig. 4 – Groscavallo. Loc. Gias Nuovo Fontane. Stalla dell’alpeggio (esterno ed interno), con tetto poggiante su falsa volta (foto F. Rubat Borel).
luogo di stabulazione per le greggi) abbandonato è stata scartata sia per la disposizione irregolare delle strutture in pietra, sia per l’assenza di livelli di stabulazione nella campionatura realizzata nell’area interessata dalla presenza di tali strutture. Con una migliore considerazione delle dinamiche geomorfologiche dell’area, associata a viste in fotoaerea e da quote superiore, si è riconosciuta una serie di fenomeni franosi parzialmente trattenuti dal grande masso erratico sotto cui si trova il riparo SA 006, successivamente manomessi da un parziale spietramento con allineamenti per usi pastorali. Presso il riparo SA 006 è stata realizzata una campionatura ragionata nella quale è stato rinvenuto un bossolo datato al 1891 e nessun altro materiale di interesse archeologico. Le prospezioni condotte nell’area compresa tra il riparo sotto roccia e le strutture in pietra hanno infine restituito evidenza di frequentazioni di età storica rappresentate da una roncola (fig. 2) le cui caratteristiche rimandano a tipologie diffuse intorno al XVIII secolo. Strutture, attività di ricerca e ritrovamenti sono stati documentati fotograficamente e geolocalizzati tramite GPS. L’utilizzo come riparo da parte dei pastori di grandi massi staccatisi dalle pareti di roccia superiori e rotolati giù per i pendii è già stato verificato nella struttura dolmenica naturale del Giass del Colombin, a circa 2,5 km a W, a 1525 m slm (Rubat Borel et al. 2012, figg. 113-116). L’area che al momento presenta le potenzialità maggiori per la ricerca archeologica è localizzata lungo la strada consortile sopra menzionata, poco oltre l’imbocco del sentiero per i laghi di Sagnasse, in direzione Gias Nuovo Fontane, poco a ovest dell’alpeggio Gias Sagnasse. Si tratta di una conca pianeggiante tra 1900 e 1920 m slm, ampia tra i 100 e i 120 m, al centro della quale sono ben visibili i resti di strutture in pietra interpretabili come i resti di due grandi recinti e di alcune strutture abitative e/o fun-
zionali all’attività pastorale (fig. 3). Ai margini dell’area vi sono i tracciati di ruscelli fossili, ormai diseccati e inattivi. Le strutture sono state documentate fotograficamente e la loro posizione ed estensione è stata rilevata tramite GPS. Fatta eccezione per il recinto in pietra, tutte le altre strutture presentano caratteristiche comuni: si tratta di ambienti rettangolari di medie dimensioni con un grosso masso di frana sul lato nord, quello verso monte, a cui sia appoggiano i muri a secco che delimitano gli ambienti. Sono riconoscibili aperture e soglie rivolte verso l’interno dei recinti. Le ricognizioni di superficie condotte nell’area hanno portato alla luce pochi reperti, le cui caratteristiche suggeriscono brevi frequentazioni occasionali della zona, con tutta probabilità legate ad attività pastorali e/o di caccia. Gli oggetti rinvenuti sono databili tra XVIII e XIX secolo. Tenendo conto che il sito risulta assente da tutta la cartografia storica consultabile e dalla documentazione archivistica, solo la realizzazione di verifiche stratigrafiche nei pressi delle strutture permetterà di chiarire l’effettiva cronologia della frequentazione del sito, che allo stato attuale delle ricerche sembra essere antecedente al XVII secolo, da quando negli archivi locali si ha precisa ed abbondante testimonianza sugli alpeggi, mentre mancano riferimenti che possono essere identificati con questo. Le strutture presenti sono tipologicamente diverse da quelle degli alpeggi di età moderna o contemporanea come il Gias Sagnasse, a circa 200 m a sud-est a 1870 m slm, e il Gias Nuovo Fontane, a circa 900 m a ovest a 1990 m slm, costituiti da grandi edifici in pietra usate come stalle, perpendicolari alla montagna, dalla caratteristica falsa volta su cui poggia il tetto in lòse, le ampie lastre di pietra (fig. 4). Questa modalità costruttiva ovvia la scarsità o assenza di legname da costruzione, data dalla rarità di alberi causata non tanto per l’alta quota (il versante opposto è coperto di larici fin oltre i 2000 m slm pur essendo rivolto a nord
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Schede perché privo di alpeggi essendo scosceso) e soprattutto per il massiccio sfruttamento pastorale e per la presenza, a poco più di 1 km a nord-ovest a 2140 m slm, della miniera di galena argentifera della Rambeisa, coltivata fino al XVI secolo con lavorazioni che necessitavano di legno per costruire e combustibile. Negli alpeggi moderni mancano inoltre oggi i recinti in pietra. Nell’attesa del proseguimento delle ricerche, è possibile ipotizzare solamente una fase precedente all’età moderna e contemporanea, per assenza di documentazione d’archivio, tipologia delle strutture differente dalle altre e per assenza di reperti che indichino una intensa frequentazione recente. Occorre inoltre notare che questo recinto appare essere adatto a greggi di pecore e non di bovini (dal XIX secolo quassù l’allevamento transumante è prevalentemente bovino), mentre ricorda gli stazzi per pecore dal III millennio a.C. all’età romana sul versante francese delle Alpi (Premiers bergers des Alpes 2008, pp. 93-101, 133-136) e il recinto, non datato, di Camparient nella biellese alta Val Sessera (Rubat Borel et al. 2016, fig. 52). Purtroppo mancano per le Alpi piemontesi esempi di confronto indagati archeologicamente, tranne i casòt (edifici per la lavorazione del latte) a Sella Brignola di Magliano Alpi, nelle Alpi Marittime (Carrer 2015). Tuttavia l’intera area, con la frequentazione di età moderna per gli alpeggi e probabilmente ben più antica, presenta tutte le caratteristiche adatte affinché sia oggetto di una campagna di ricerca sugli usi agropastorali analogamente a quanto fatto in Val di Sole in Trentino (Carrer, Angelucci 2018). Grazie a segnalazione del sig. L. Rapelli sono stante censite alcune balme (in piemontese, ripari sottoroccia) a 1150 m slm circa, localizzate lungo la S.P. 33, poco a ovest dal centro abitato di Groscavallo (in fig. 2 indicate con cerchi). Si tratta di massi di frana o erratici delimitanti ampie aree di riparo sotto roccia, che poggiano direttamente su di uno strato di loess. In età storica le aperture di queste balme sono state delimitate da muri a secco e utilizzate per attività legate alla pastorizia. Le aree indagate nel corso delle prospezioni preliminari, sebbene limitate in estensione, e i risultati ottenuti, mostrano il grande potenziale del territorio delle Valli di Lanzo per lo sviluppo di ulteriori campagne di indagine archeologica. Le aree indagate presentano morfologie del territorio adatte alla presenza e alla conservazione di evidenze relative a frequentazioni umane anche molto antiche di cui a oggi si hanno solo testimonianze sporadiche (Rubat Borel et al. 2020). Il proseguimento delle indagini archeologiche nelle Valli di Lanzo dovrà prevedere da una parte l’approfondimento delle ricerche nei contesti individuati nel corso delle prospezioni preliminari, dall’altra dovrà ampliare l’areale indagato al fine di portare alla luce nuovi elementi di interesse per gli scopi della ricerca. Le indagini preliminari appena concluse consentono di gettare le basi per un progetto di ricerca multidisciplinare e pluriennale che abbia lo scopo di definire le dinamiche e le modalità del popolamento delle Valli di Lanzo, dall’antichità all’età moderna, si potranno infine realizzare ulteriori analisi mirate all’ottenimento di dati paleoambientali. Bibliografia Berruti et al. 2016 = Berruti G.L.F., Bertè D.F., Caracausi S., Daffara S., Ferreira C., Garanzini F., Rubat Borel F., Scoz L., New evidence of human frequentations in the western
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Usseglio (TO). Antica chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta. Abside e cimitero. La realizzazione di un nuovo condotto fognario all’interno del sagrato dell’antica parrocchiale di S. Maria Assunta, di fronte al Museo Civico “A. Tazzetti” ospitato nella ex sacrestia, a 1276 m slm, è stata oggetto di assistenza archeologica (Rubat Borel, Bosman 2021). L’opera prevedeva una trincea larga circa 0,50-0,70 m, che attraversava tutto il cortile con pendenza da nord a sud, tangente l’attuale facciata secentesca della chiesa di S. Maria Assunta, esposta a est, ricadendo nell’area dove si ipotizzava la presenza dell’abside dell’antica chiesa medievale, orientata con abside a est, demolita nel 1635 (Cibrario 1862, p. 58; Drappero 1968, p. 167; Lavezzo 1996). Lo scavo per la posa in opera del nuovo tratto fognario ha riportato in luce tratti di murature in corrispondenza dell’area antistante la facciata della chiesa. Si è deciso quindi di aprire un sondaggio di 7×3 m davanti l’attuale
ingresso dell’edificio, portando alla luce l’abside della chiesa medievale. Sotto un primo livello di calpestio di appena 10 cm di spessore, la stratigrafia era costituita da un unico strato di circa 80 cm di spessore (US 1), costituito da terreno frammisto a pietrame, pezzame di malta, molte ossa umane, pochi frammenti ceramici, chiodi, frammenti di intonaco anche dipinto. I resti umani, rimaneggiati e non più in connessione anatomica, sono da riferire verosimilmente al cimitero medievale e di prima età moderna, sconvolto dalla costruzione secentesca della chiesa e dalla trasformazione dello spazio come sagrato tra la parrocchiale e, di fronte, la sacrestia e la cappella della Confraternita, chiuso da un muro e da un porticato nel 1768 (Lavezzo 1996). Tra i resti ossei, si segnala la valva destra di Pecten jacobaeus, con due fori laterali in prossimità dell’umbone per la sospensione o la cucitura sugli abiti (fig. 5). Altri esempi di P. jacobaeus sono
fig. 5 – Usseglio, antica chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta. Pecten jacobaeus ritrovata tra i resti umani del vecchio cimitero.
fig. 6 – Usseglio, antica chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta. Abside della chiesa medievale, demolita nel 1635 (foto F. Bosman).
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Schede stati ritrovati in sepolture bassomedievali alla Novalesa, lungo il ben più importante e frequentato percorso del colle del Moncenisio, sul versante occidentale del Rocciamelone che domina la valle di Usseglio, a Testona e ad Asti in sepolture di XII secolo, prima della progressiva sostituzione da parte dei pellegrini con distintivi in piombo (Grilletto, Lambert 1989; Pantò 2010; Crosetto 2011). Si riferisce che agli inizi del XVII secolo sul Moncenisio recuperassero solamente i corpi con addosso qualche segno religioso (croci, rosari…), mentre gli altri cadaveri erano abbandonati (Gal 2018, p. 68). Questo ritrovamento può
fig. 7 – Usseglio, antica chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta. Sepoltura successiva alla demolizione della chiesa medievale del 1635 (foto F. Bosman).
essere riferito sia a un abitante di Usseglio che andò in pellegrinaggio a Santiago di Campostela, sia a un pellegrino morto a Usseglio, forse nella discesa dal passo dell’Autaret, via estiva di alta quota (3077 m slm) alternativa a quella per il Moncenisio (Barocelli 1968). Sono stati rinvenuti anche frammenti ceramici riconducibili ad invetriate tarde di XVIII secolo. Lo strato us 1 copriva direttamente la rasatura del muro dell’abside originaria della chiesa (usm 2), venne messa fuori uso con la costruzione del muro della nuova facciata seicentesca (fig. 6). La struttura è localizzata presso l’attuale ingresso, si presentava con un diametro interno di 5,12 m, e spessore variabile tra i 0,75-0,80 m. La porta della chiesa secentesca si colloca esattamente al centro del diametro dell’abside, rispettando le forme della chiesa medievale. L’apparato murario è costituito da corsi regolari di soli conci lapidei sbozzati in faccia vista, tenuti da malta biancastra a grana grossa abbastanza tenace. In altezza la struttura era conservata per circa 30 cm. Sulla parete esterna presentava ancora lacerti di intonaco biancastro. Internamente all’abside, in posizione centrale, addossato alla sua parete, era conservata la base dell’altare (usm 3): una struttura a pianta rettangolare costituita da corsi sovrapposti di conci lapidei appena sbozzati, tenuti da malta biancastra abbastanza tenace, a grana grossa di natura simile a quella utilizzata per la costruzione dell’abside. La metà nord dell’area delimitata dal muro absidale conservava un piccolo lacerto di pavimentazione in elementi lapidei (dimensioni 1×1 cm). Il muro absidale presentava nella sua metà nord un taglio di circa 25 cm di profondità e 70 cm di larghezza, nel quale
fig. 8 – Usseglio, antica chiese parrocchiale di S. Maria Assunta. Planimetria della fase medievale all’interno della chiesa secentesca, come emerso dagli scavi del 2002 e 2020, scala 1: 50; particolare della t. 1, scala 1:20 (elaborazione E. Altilia, S. Salines).
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Schede era sistemata una sepoltura databile successivamente alla demolizione dell’abside medievale del 1635 (figg. 7, 8). La sepoltura, priva di corredo, doveva essere provvista di cassa lignea come testimonia il rinvenimento di chiodi in ferro, adagiata in fossa terragna, e delimitata lungo il taglio da un corso a secco di conci lapidei. Lo scheletro non conservava le estremità inferiori, ed il cranio si presentava schiacciato. Il braccio sinistro era ripiegato sull’addome, mentre il destro era collocato sotto il dorso. La sepoltura era posta a sinistra della nuova porta per chi esce, con il cranio a est e i piedi verso la chiesa; la fossa era stata scavata rispettando il vecchio altare, nello spazio a nord di questo, con la testa che ricadeva nella muratura dell’abside. Non sono stati ritrovati oggetti utili alla comprensione dell’identità del sepolto, che per la collocazione probabilmente aveva rivestito un ruolo importante. Lo scavo degli altri tratti della trincea non ha evidenziato altre strutture o stratigrafie archeologiche. Con lo scavo del 2020 si è quindi potuto ricostruire interamente la planimetria della chiesa medievale di S. Maria Assunta di Usseglio (fig. 8), completando quanto noto dagli scavi del 2002 diretti da L. Pejrani Baricco in occasione del rifacimento della pavimentazione (Pejrani Baricco, Crivello 2004). Il nucleo originario dell’edificio era costituito da un’aula a navata unica, con dimensioni di 10,70 m in lunghezza e 6,25 m in larghezza, con ingresso situato a ovest ed abside a est, affiancata a nord dall’attuale campanile, ora in facciata, che conserva nel piano terra e nel primo la struttura originale. Lo scavo archeologico del 2002 all’interno della chiesa ha evidenziato le murature perimetrali di questo primo edificio corrispondente all’attuale navata centrale. Lungo il muro perimetrale ovest è stata evidenziata la primitiva facciata con la soglia monolitica in pietra ancora conservata, e lungo il muro est è stato intercettato l’innesto dell’arco del catino absidale, che si completa con le scoperte del 2020. La tipologia della planimetria e dell’apparato decorativo del campanile permettono una datazione tra l’XI e XII secolo (Olivero 1941, pp. 246-247; Pejrani Baricco, Crivello 2004). A metà XIII e nel XIV secolo la chiesa di S. Maria di Usseglio dipendeva dalla pieve di S. Pietro in Lanzo, in un territorio montano dove oltre i visconti di Baratonia erano presenti ampi possedimenti di alpeggi dell’abbazia vallombrosiana di S. Giacomo di Stura (attualmente nota come Abbadia di Stura, nel territorio settentrionale di Torino), a cui in precedenza avevano fatto riferimento rettori e sacerdoti di Usseglio e che possedeva anche l’antica cappella di S. Desiderio alle Piazzette (Casiraghi 1979, pp. 85, 189, 199; 1999; Gattiglia et al. 2011). Come successivamente testimoniato dalle visite pastorali, per poter ampliare lo spazio interno della chiesa, nel 1635 il parroco don Antonio Cibrario abbatté la vecchia chiesa ed eresse quella attuale, rispettando però la planimetria antica, tanto che la porta secentesca ricade al centro dell’abside precedente (Cibrario 1862, p. 58; Drappero 1968, p. 167; Lavezzo 1996). Destino analogo lo ebbe nelle Valli di Lanzo nemmeno un secolo dopo nel 1713-1730 la chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Cantoira, che presenta molte analogie per l’impianto medievale e il campanile di Usseglio (Olivero 1941, p. 244; Pejrani Baricco, Leonardi 2011; Olivetti 2020). Nel 1674 in occasione della visita dell’arcivescovo di Torino
Michele Beggiami (1662-1689) fu portata presso la chiesa l’ara romana ritrovata presso l’alpeggio di Bellacomba a 2500 m slm e fissata a sud dell’ingresso fino alla recente ricollocazione nel Museo Civico “A. Tazzetti” nel 2015 (CIL, V 6947; Barocelli 1968; Rossi 2007; Ratto, Rubat Borel 2016). Infine nel 1831 l’edificio venne allargato ancora verso ovest con la realizzazione di un nuovo coro semicircolare addossato a quello quadrangolare seicentesco. Le operazioni sono state condotte da F. Bosman di Gea Sart sas, sotto la direzione di F. Rubat Borel della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Torino. Bibliografia Barocelli P. 1968, La via romana transalpina degli alti valichi dell’Autaret e di Arnas. Note di escursioni archeologiche nelle valli di Lanzo Torinese, Società Storica delle Valli di Lanzo, 16, Torino. Casiraghi G. 1979, La diocesi di Torino nel medioevo, Biblioteca Storica Subalpina, 196, Torino. Casiraghi G. 1999, I vallombrosiani nel Piemonte occidentale: S. Giacomo di Stura e le sue dipendenze, in G. Monzio Compagnoni (a cura di), L’“Ordo Vallisumbrosae” tra XII e XIII secolo. Gli sviluppi istituzionali e culturali e l’espansione geografica (11011293). Secondo Colloquio Vallombrosano, Abbazia di Vallombrosa, 25-28 agosto 1996, Archivio Vallombrosano, 4, Vallombrosa, pp. 619-675. Cibrario L. 1862, Descrizione e cronaca d’Usseglio fondata sopra documenti autentici, Torino. Crosetto A. 2011, Sulla via romea. Pellegrini e ospedali gerosolimitani tra Asti e Tortona, in E. Destefanis, C. Lambert (a cura di), Per diversa temporum spatia. Scritti in onore di Gisella Cantino Wataghin, Vercelli, pp. 143-170. Drappero N. 1968, Usseglio, Parrocchia e Comune, II, Ciriè. Gal S. 2018, Histoires verticales. Les usages politiques et culturels de la montagne (XVe-XVIIIe siècles), Ceyzérieu. Gattiglia A., Rossi M., Patria L. 2011, Il primo testo sulle miniere di Usseglio (1316) nel processo di messa in valore delle risorse ambientali dell’alta montagna, in M. Rossi, A. Gattiglia (a cura di), Terre rosse, pietre verdi e blu cobalto. Miniere a Usseglio. Prima raccolta di studi, Usseglio, pp. 53-78. Grilletto R., Lambert C. 1989, Le sepolture e il cimitero della chiesa abbaziale della Novalesa, «Archeologia Medievale», 16, pp. 329-356. Lavezzo E. 1996, L’antico complesso parrocchiale di Usseglio, in B. Guglielmotto Ravet, 2a Miscellanea di studi storici sulle Valli di Lanzo, Società Storica delle Valli di Lanzo, L, Lanzo Torinese, pp. 215-222. Olivero E. 1941, Architettura preromanica e romanica nell’arcidiocesi di Torino, Torino. Olivetti A. 2020, Il complesso ecclesiastico di Cantoira dall’XI al XXI secolo, Società Storica delle Valli di Lanzo, 145, Lanzo Torinese. Pantò G. 2010, Moncalieri, frazione Testona, strada della Rovere, piazza Cardinal Massaia, via Boccardo. Resti dell’abitato dall’età romana al medioevo, «Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte», 25, pp. 231-236. Pejrani Baricco L., Crivello A. 2004. Usseglio. Chiesa parrocchiale di S.M. Assunta, «Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte», 20, pp. 220-222. Pejrani Baricco L., Leonardi M. 2011, Cantoira. Chiesa parrocchiale dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, «Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte», 26, pp. 263-266. Ratto S., Rubat Borel F. 2016, Archeologia a Usseglio e nella
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Schede Valle di Viù, dalla preistoria all’età romana, in D. Berta, A. Arcà, F. Rubat Borel (a cura di), Roccia dei Giochi, Roccia di Giove. Un masso inciso tra preistoria ed età moderna a Usseglio, Usseglio, pp. 9-31. Rossi M. 2007, L’alba delle ricerche di archeologia alpina, in A. Gattiglia, S. Marchisio (a cura di), Storia di pietra, terra e acqua, Usseglio, pp. 98-107. Rubat Borel F., Bosman F. 2021, Usseglio. Antica chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta. Abside e cimitero, «Quaderni di Archeologia del Piemonte», 5, pp. 268-271 Francesco Rubat Borel, Francesca Bosman
Provincia di BIELLA Masserano (BI), Piazza Boggio. Resti della Rocca tardomedievale Durante operazioni di scavo per la posa della rete in fibra ottica da parte della società Open Fiber S.p.A. in piazza Boggio a Masserano sono emerse alcune strutture murarie dall’andamento curvilineo indagate archeologicamente da F.T. Studio sotto la direzione scientifica delle dottoresse N. Botalla Buscaglia ed E. Lanza (Botalla Buscaglia et al. 2021). I resti si collocano in prossimità di un poggio sito a nord dell’attuale piazza, sul quale ancora sussistono lacerti murari della c.d. Rocca di Masserano (fig. 9): i tratti murari individuati sembrano essere pertinenti al torrione angolare sudoccidentale di detta fortezza. Il corpo principale del torrione appare rasato a circa -0,15 m dal piano di calpestio e si conserva in altezza per circa 2,4 m lungo il pendio della collina a nord-est della piazza; è costituito da un’imponente struttura muraria spessa 2,3 m (US 6, d. int. 9,60 m, d. est. 14,60 m) con profilo a scarpa (pendenza 7°). Il piede di fondazione della struttura, impostato nello strato naturale argilloso si rinviene alla profondità di -2,7 m dal piano di calpestio; la stratigrafia riscontrabile, costituita da strati maceriosi di riporto, non ha restituito materiali datanti. La muratura, realizzata con pietre squadrate e a spacco, ciottoli e, in misura minore, laterizi, ingloba materiali di reimpiego (blocchi di laterizi legati da malta, frammenti di cocciopesto); la facciata esterna della muratura ha un paramento ben rifinito che mantiene traccia di buche pontaie di varia foggia, ora tamponate, e presenta un evidente profilo a scarpa. Il prospetto interno ha andamento più verticale e al piede è privo di rifiniture superficiali, caratteristiche analoghe caratteristiche a US 10 (fig. 9), opera muraria realizzata a circa un terzo del diametro del torrione e forse funzionale ad un’articolazione interna (sostegno di piano di calpestio o elemento di irrobustimento del perimetrale?). Al capo est il torrione (US 6) assume andamento più rettilineo per raccordarsi al presunto perimetrale meridionale della rocca (US 8), visibile in elevato per circa 3 m di altezza e lungo alcune decine di metri, fino quasi al limite orientale del poggio. Nel punto di contatto tra le due strutture, lungo il lato esterno del torrione, la cesura fra le due strutture murarie è evidente, mentre dal lato interno tale discontinuità è meno marcata. Un piccolo vano trapezoidale (1,1×1,2 m, Ambiente A) (fig. 1), è realizzato in spessore di muro all’estremità nord del torrione; a circa 80 cm da un piano d’uso in sabbia
fig. 9 – Masserano, piazza Boggio. Ortofoto dell’area di scavo con le principali strutture murarie e elementi stratigrafici descritti.
mista a malta identificabile all’interno del vano (US 26), si evidenzia, nel tratto murario ovest, un rivestimento in malta fine, spesso circa 8 cm (US 22), analogo a quello che ricopre le altre facciate interne di detto vano. Tale rifinitura è presente per un’altezza di 90 cm, prosegue in parte lungo il lato interno del torrione, a sud dell’Ambiente A, e presenta un limite inferiore piano e rettilineo probabilmente corrispondente a un piano d’uso non più rilevabile e connesso alle fasi di utilizzo del torrione. La collocazione e la conformazione del vano lasciano ipotizzare che si possa trattare di una bombardiera per il tiro a piè di scarpa (Palloni 2009). In direzione del rilievo collinare, a est di US 25, è presente una volta (US 30) composta da un singolo corso di mattoni, pietre e cocciopesto di reimpiego legati da malta, messa in luce per l’intera ampiezza (1,1 m) e solo parzialmente per una lunghezza nord-sud di 3,2 m (fig. 11). La volta, che internamente reca tracce di centinatura, poggia a ovest sull’ultimo tratto di torrione (US 25) e a est su una struttura muraria (US 28), che a circa 4,3 m dall’imboccatura della galleria mostra un angolo retto lasciando intuire che il passaggio, orientato in direzione nord-sud e con andamento acclive verso nord, svoltasse in questo punto in direzione est. Il piano di calpestio (US 38 e 39) si attesta alla profondità di -2,1 m. La galleria risulta riempita per circa ¾ dell’altezza da uno strato sabbioso piuttosto incoerente e macerioso (US 32). Nello strato naturale compreso all’interno del torrione sono stati evidenziati tre tagli (fig. 9): due di questi (US 11 e US 16) sono interpretabili come cavi di fondazione di
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fig. 10 – Masserano, piazza Boggio. Ambiente A. Si nota la rifinitura in malta (US 22) dei lati interni del vano e di una porzione della parte superiore di US 6.
US 6. Un terzo taglio (US 14-15), orientato in direzione est-ovest, largo più di 1 m e posto in asse con il probabile muro esterno del castello (US 8) parrebbe l’esito della spoliazione di parte di suddetto muro al fine di realizzare il torrione; questo taglio, dal profilo verticale, presenta lungo il margine meridionale tre leggeri incavi, larghi 26 cm e posti a distanza regolare 120 cm l’uno dall’altro, forse dovuti a pali lignei. Sebbene lo studio sia ancora in corso, una preliminare analisi delle strutture murarie e dei dati stratigrafici consente di interpretare la struttura subcircolare come
torrione angolare sudoccidentale pertinente a una fase fortificatoria tardomedievale che tipologicamente (per il notevole spessore della muratura, il profilo a scarpa molto pronunciata e la presenza della presunta bombardiera) trova confronti con le cosiddette rocche di transizione che per un breve periodo, a partire dalla seconda metà del XV secolo, si caratterizzarono per la presenza di massicci elementi circolari posti agli angoli di impianti planimetrici solitamente quadrangolari. Nelle murature in esame si riscontra un cospicuo reimpiego di elementi maceriosi anche di notevoli dimensioni verosimilmente derivanti dalla
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fig. 11 – Masserano, piazza Boggio. Il passaggio voltato a nord del torrione attualmente tamponato da US 32.
distruzione di opere murarie di un preesistente complesso fortificato, qui attestato dalle fonti scritte almeno a partire dal XII secolo (Sommo 1993, p. 153). La fase fortificatoria a cui appartiene il torrione dovette essere funzionale alla difesa contro l’impiego dell’artiglieria in un momento precedente alla diffusione delle c.d. fortezze alla moderna: sulla scorta dei dati storici relativi al borgo di Masserano è ipotizzabile che le fasi individuate siano riferibili a un intervento di riorganizzazione del complesso fortificato databile alla seconda metà del XV secolo, momento in cui si ebbe anche una ridefinizione della topografia urbana e il consolidamento della compagine signorile del luogo. Le fonti documentarie permettono inoltre di datare la distruzione della rocca nella sua ultima fase al febbraio 1617 quando le truppe al comando di Vittorio Amedeo di Savoia demolirono il complesso con l’uso delle mine (Barale 1966, p. 259). Bibliografia Barale V. 1966, Il principato di Masserano e il marchesato di Crevacuore, Biella. Botalla Buscaglia et al. 2021 = Botalla Buscaglia N., Lanza E., Ardizio G., Vaio A., Masserano, Piazza Boggio. Resti della Rocca tardomedievale, «Quaderni di Archeologia del Piemonte», 5 (2021), pp. 321-324. Palloni D. 2009, Le rocche della transizione. Cause, origini, forme e modi, in A. Ugolini, C. Mariotti (a cura di), Castellum. Rivista dell’Istituto Italiano dei Castelli, n. 51, dic. 2009, pp. 3552 (ripubblicato in Dino Palloni. I castelli. Antologia di scritti, Firenze 2017, pp. 105-119). Sommo G. 1993, Luoghi fortificati fra Dora Baltea, Sesia e Po. Atlante aerofotografico dell’architettura fortificata sopravvissuta e dei siti abbandonati. III, Biellese, Vercelli. Nadia Botalla Buscaglia
Provincia di CUNEO Bra (CN), frazione Boschetto. Chiesa del Nome della S.S. Beata Vergine Maria, fasi di età moderna La sorveglianza archeologica alle operazioni di scavo funzionali al risanamento dell’edificio religioso, realizzate tra il 2020 e il 2021, ha permesso di mettere in luce
pavimentazioni e strutture murarie relative alle diverse fasi costruttive dell’edificio religioso. L’interno si presenta a tre navate, divise internamente da quattro pilastri, con presbiterio sopraelevato di circa 40 cm rispetto al piano pavimentale dell’aula. Le operazioni di scavo, che prevedevano il raggiungimento di una quota pari a -40 cm dal piano pavimentale in uso, hanno interessato la navata centrale e le due laterali, la zona presbiteriale ed absidale e il locale della sacrestia posto a ovest del presbiterio. Le notizie contenute nel testo redatto da don Gaspare Avataneo, parroco fino al 1949, nella sua relazione “Cenni storici sulla antica Cappellania di Boschetto e sulla Erezione della Parrocchia, Casa Canonica, Ampliamento Chiesa”, sono state in gran parte confermate dalle evidenze messe in luce riconducibili a tre fasi edilizie: – fase 1 A del XX-XXI secolo: ampliamento di una campata verso sud del 1935 e interventi successivi (1949 e 2007); – fase 1 B relativa all’ampliamento dell’edificio con l’aggiunta delle navate laterali, databile al 1911-12; – fase 2 di inizio XVIII secolo; – fase 3 del XVI-XVII secolo (fig. 12). Non sono state individuate le strutture della «in origine piccolissima e modestissima cappella di campagna», secondo don Avataneo, edificata tra il 1550 e il 1600, e che doveva trovarsi al di sotto della zona presbiteriale e absidale attuale, con orientamento est-ovest. Nella navata laterale sinistra invece è stata messa in luce una struttura di fase 3 (USM 13) inizialmente identificata, per forma e posizione, come il fonte battesimale ad immersione della primitiva chiesa, tale interpretazione in seguito è stata però scartata dato che lo scavo nella sacrestia adiacente non ha messo in luce la sua continuazione (fig. 13). Ad essa, all’inizio del XVIII secolo, andò ad addossarsi un edificio ad aula unica con orientamento nord-sud, realizzato rispetto al precedente «con più vaste proporzioni, e cioè: piccolo coro e presbitero con una sola navata della lunghezza di otto metri». In questa fase l’aula era pavimentata con quadrelle in cotto e l’ingresso in facciata a sud era sottolineato da due lesene aggettanti dalla parete (fig. 14). Solo successivamente venne realizzato un ambiente a est della chiesa, diviso in due da una struttura muraria e pavimentato con quadrelle in cotto, forse con funzione di sacrestia, da cui era possibile accedere nell’aula. In questa fase l’edificio era provvisto all’esterno di un sagrato con acciottolato decorato con laterizi posti a creare un motivo a “X” presumibilmente delimitato da un muretto di recinzione. Nel 1911-1912 furono aggiunte le navate laterali e l’interno venne completamente ripavimentato. Nel 1932, secondo quanto riporta nella sua cronaca il Parroco, fu aggiunta una nuova campata verso sud e una nuova facciata, inoltre nel 1935 venne rifatta la pavimentazione attuale in cementine. L’ultima fase costruttiva di cui dà testimonianza la relazione dell’ecclesiastico risale al 1949 quando venne realizzato il nuovo abside, rialzato il presbiterio e ripavimentata l’intera area con lastre in marmo bianco e grigio. Interventi assai più recenti risultano la realizzazione di una griglia di areazione lungo il muro perimetrale della navata laterale destra e la sostituzione degli ultimi due gradini di accesso al presbiterio all’inizio del XXI secolo. L’indagine archeologica, finanziata dalla committenza, è stata svolta dall’impresa F.T. Studio S.r.l.
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Simone Giovanni Lerma, Elena Gallesio
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fig. 12 – Bra (CN), fraz. Boschetto, Chiesa del Nome della S.S. Beata Vergine Maria, rilievo delle fasi a fine scavo, scala 1:50 (elab. F.T. Studio S.r.l.).
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fig. 13 – Bra (CN), fraz. Boschetto, Chiesa del Nome della S.S. Beata Vergine Maria, navata laterale sinistra, struttura USM 13, vista da sud (foto F.T. Studio S.r.l.).
fig. 14 – Bra (CN), fraz. Boschetto, Chiesa del Nome della S.S. Beata Vergine Maria, aula centrale, panoramica dall’alto, da sud (foto F.T. Studio S.r.l.).
Igliano (CN), frazione San Luigi. Cappella di San Lodovico (Luigi), fasi di età medievale e moderna L’assistenza archeologica effettuata nel febbraio 2022 agli scavi per la rimozione del pavimento e relativo sottofondo, per risanamento dell’edificio, ha permesso di individuare dalla quota di -30 cm dal piano pavimenti, piani e rasature di strutture riferibili a precedenti fasi edilizie, concentrate in corrispondenza della navata centrale ed indagate parzialmente. L’attuale cappella, orientata nord-est/sud-ovest con ingresso da sud-ovest, presenta una pianta quasi a croce greca, probabile esito di diverse aggiunte; la prima dedica nota
a San Lodovico risale al 1603 come recita una iscrizione conservata nell’edificio. Gli eterogenei strati di riporto/sottofondo pavimentale includevano frammenti di invetriate moderne, tachenoire ed un frammento di slipware. Di interesse è il rinvenimento fuori contesto di un frammento di tegola romana che suggerisce una generica antica frequentazione dell’area. Sono state riconosciute almeno 4 fasi (fig. 15). Fase 1 (XV-XVI secolo) Nella fase più antica doveva esistere una piccola cappella concentrata nella porzione centrale dell’aula, con medesimo orientamento della chiesa attuale. Ascrivibile a questo
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fig. 15 – Igliano (CN), fraz. San Luigi, Cappella di San Lodovico, foto generale della porzione centro-settentrionale dell’edificio di fase 2 con pavimentazione in lastre di pietra. (foto F.T. Studio S.r.l.).
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fig. 16 – Igliano (CN), fraz. San Luigi, Cappella di San Lodovico, panoramica generale a fine scavo del sondaggio di approfondimento con rasatura del perimetrale nord della fase 1 a cui si addossa la preparazione per l’altare. (foto F.T. Studio S.r.l.).
fig. 17 – Igliano (CN), fraz. San Luigi, Cappella di San Lodovico, rilievo delle fasi a fine scavo, scala 1:50 (elab. F.T. Studio S.r.l.).
momento è la struttura rasata est-ovest, in bella opera in pietra di Langa squadrata, che doveva costituire la parete di fondo nord dell’edificio; essa si legava ad angolo retto alle estremità est ed ovest alle strutture nord-sud in fondazione di identica tecnica costruttiva, che proseguivano certamente verso sud per un tratto di lunghezza non determinabile. Tali murature risultavano ricavate in un cavo di fondazione incassato nella marna sterile il cui scavo ha restituito un frammento di maiolica. A questa fase appartiene anche una sistemazione in lastre di pietra con rara calce disposta entro un perimetro rettangolare e appoggiata alla rasatura di uno delle murature individuate, probabilmente il vespaio del primitivo altare.
Fase 2 (XVI-XVII secolo) In questo momento si registra un importante ampliamento dell’edificio, che conservò tuttavia il medesimo orientamento nord-sud (fig. 16). Il perimetrale nord viene spostato in corrispondenza dell’asse dell’attuale altare, come testimoniato dal cavo di spoliazione. Si allunga l’aula dell’edificio a navata unica con l’innesto di nuove murature in pietra di Langa, in parte poggianti sulle fondazioni della fase 1. I nuovi perimetrali appaiono di identica fattura e presentano due pilastri quadrangolari aggettanti, in corrispondenza dei quali era il confine tra aula e presbiterio. La porzione coperta di edificio doveva
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Schede estendersi a sud sino alla struttura con soglia preceduta da un pronao aperto. Sullo strato di livellamento, che ha restituito dove indagato rarissima ceramica (invetriata e graffita) è stato posato un pavimento in grosse lastre di pietra, rialzato di 10 cm nell’area presbiteriale, dove si è anche osservata la traccia del vespaio dell’altare utilizzato in questa fase (fig. 17). Fase 3 (XVII secolo) Probabilmente al pieno Seicento risalgono alcuni interventi di risanamento all’interno dell’edificio, consistenti nella posa di una canaletta drenante con copertura in lastre di pietra e in un probabile innalzamento del piano pavimentale di cui non rimane traccia. Anche l’altare viene sopraelevato. Fase 4 (XVIII secolo) Probabilmente al XVIII secolo risalgono gli interventi che hanno sostanzialmente fornito alla chiesa l’aspetto oggi osservabile, con la costruzione di sei pilastri di sostegno impostati sulle precedenti murature rasate, l’ampliamento verso nord del presbiterio e l’innesto dei transetti laterali. L’indagine archeologica, finanziata dalla committenza, è stata svolta dall’impresa F.T. Studio S.r.l. Simone Giovanni Lerma, Marco Casola
VENETO Provincia di VENEZIA Lo scavo urbano di emergenza del monastero certosino dell’isola di Sant’andrea di Venezia 1. Premessa L’attività di sorveglianza archeologica, programmata in occasione delle opere di manutenzione per il consolidamento statico dell’antico chiostro del monastero certosino dell’isola di Sant’Andrea, ha fornito l’occasione per la verifica delle trincee di scavo realizzate per la bonifica del vecchio sistema idrico. L’intervento, condotto sotto la direzione scientifica del dott. Massimo Dada’ (SABAP-Ve-Lag) tra ottobre 2021 e marzo 2022, ha previsto l’esecuzione di alcuni saggi esplorativi finalizzati al controllo delle evidenze archeologiche emerse durante lo scavo delle suddette trincee di progetto. L’attività è stata, quindi, condotta a termine mediante l’esecuzione di scavo stratigrafico manuale. 2. L’area di scavo: dati storici L’isola della Certosa si trova ubicata nella Laguna Nord di Venezia, nell’area dell’antico vescovato di Olivolo, attuale San Pietro di Castello, e del Lido di Venezia. Dell’antico complesso monastico rimangono solo i resti del chiostro dei conversi. Le trincee di scavo, volte alla demolizione delle canalette idriche, hanno messo in luce le absidi di un edificio, interpretato da Johan McAndrew (McAndrew 1969), come una seconda chiesa dedicata alle martiri Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma, e del quale sarebbero rimaste esclusivamente tre cappelle. L’ipotesi trova fondamento in un documento dell’ottobre 1200 con il quale il vescovo di Castello, Marco Nicola, rilascia la concessione di costruire
fig. 18 – Panoramica scavo Isola della Certosa di Venezia.
una seconda chiesa e un ospizio «ad utilitatem tuam et fratrum aut sororum qui ibidem per te in eodem loco fuerint instituti» (Pedani 1985). Nella fase di insediamento certosino, avvenuta successivamente il 1430, la situazione delle strutture risultava particolarmente compromessa «structure et edificia que sumptuosis olim ac politis ministeriis et opere consolidata fuere collapsui et ruinae subiacent»; la seconda chiesa, comunque, non doveva essere stata completata, sebbene anche i monaci certosini le attribuissero la denominazione di “chiesa per le donne”: tale affermazione è riscontrabile in un documento di locazione della seconda metà del
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fig. 19 – Localizzazione topografica area di scavo. Elaborazione dott. Davide Busato.
Settecento (ASV, S.And.L.) quando nel contratto si specifica che do, et in semplice affitto, concedo […] l’Orticelo dirimpetto alla Chietta delle Donne. A fianco dell’abside della chiesa le tre cappelle erano adibite: due con i sepolcri delle famiglie Giustiniani, Barbarigo, Querini e Diedo e la terza a capitolo, all’interno di uno spazio dedicato a belvedere. L’analisi cartografica (in particolare Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea Mappe, dis. 1262), ha posto in evidenzia come la terza abside fosse più stretta, mentre le incisioni settecentesche, in particolare Antonio Visentini, evidenziano l’esistenza dei tetti solo delle prime due cappelle, con un tetto a spiovente per la terza. Il 12 giugno del 1806 nell’isola rimangono solo diciassette monaci e viene redatta una lista per la cessione e vendita degli arredi sacri, dei quadri, della biblioteca, nonché, dei mobili (ASV, Direzione Dipartimentale del Demanio). Se nel 1811 alla redazione del mappale napoleonico il complesso monastico mantiene ancora la conformazione originaria, nel 1827 la demolizione era pressoché completa, lasciando in piedi solo il chiostro dei conversi e la casa
dell’ortolano, come testimonia Emuanele Cicogna che si era recato nell’isola (Zorzi 1972). 3. I saggi di scavo Le strutture rivenute si trovano comprese tra un minimo 0,80 m e un massimo di 0,17 m slm, quota massima raggiunta. Lo scavo ha interessato un’area della lunghezza di 14 m e della larghezza di 6,5 m all’interno della quale sono state intercettate strutture riferibili a parte della prima e della seconda abside orientate come la chiesa in direzione estovest, mentre la terza è stata marginalmente scavata. In prima istanza si è proceduto con l’indagine dell’ambiente absidale a nord, in cui è stata identificata una fase di demolizione e asportazione del paramento murario in marmo, spoglio avvenuto o nella fase della dominazione austriaca con la prima demolizione del monastero o durante la costruzione della canaletta austro-italiana, che ha in parte demolito l’angolo della struttura stessa. Nella parte meno intaccata si apprezza uno spessore di 0,65 m. Il piano pavimentale è stato asportato e si è rintracciata la
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fig. 20– Ortofoto scavo Isola della Certosa di Venezia. Elaborazione arch. Diego Tramontin Groma soc coop.
sottofondazione alla quota media di 0,56 m: al di sotto le fondazioni presentano un laterizio con un modulo di 4,55×13-14×28,5-30, di colore giallo, con impasto depurato e poca irregolarità. I laterizi risultano legati tra loro con abbondante malta di colore grigio scuro, dello spessore di un cm. Tali moduli sono considerati a Venezia tra i più antichi esempi di laterizio propriamente medievale scisso dai moduli romani (Squassina 2011). In questo senso si potrebbe confermare la costruzione dell’edificio durante la fase agostiniana dei canonici regolari, quindi successivamente al 1200 e il 1219 anno della consacrazione della prima chiesa. Al di sopra il paramento murario è composto da moduli del modulo 27×7×13,5 con impasto di colore rosso tenue e numerosi inclusi, legati da una malta di colore grigio chiaro ricca di inclusi di calce, particolarmente tenace. L’ampliamento di scavo ha premesso l’intercettazione di un secondo ambiente absidato con la base fondazionale di un potenziale altare. I muri perimetrali misurano 0,62 m di larghezza e la lunghezza massima dell’ambiente è di circa 5,00 m. L’ambiente è chiuso da un muro danneggiato dalla canaletta suddetta dello spesso di circa 0,80 m.
Anche in questo caso la struttura risulta particolarmente danneggiata: il laterizio della parte sommitale risulta essere sempre del modulo 27×7×13,5; alcuni presentano nell’impasto malacofauna a segnalare la provenienza locale. Legati regolarmente con abbondante calce grigio scura, questi si appoggiano per la parete di fondo a laterizi 4,55×13-14×28,5-30. L’altare misura circa 1,60 m per 1,30 m con una scanalatura al centro larga 0,30 m. Interamente costituito da laterizi appartenenti sempre alla classe dei mattoni sottili pre-gotici (4,5-5×10-11×21-22-23 cm), quindi afferente al XIII secolo. La quota raggiunta dallo scavo mediamente di 0,54 m esclude la presenza di un piano pavimentale, anch’esso probabilmente demolito. Tra i materiali recuperati vi sono diversi laterizi sagomati sui quali permangono tracce di intonaco affrescato con colore verde e rosso. Conclusioni È plausibile e auspicabile che questi risultati preliminari possano trovare ulteriori riscontri e interessanti risvolti negli approfondimenti di studio in programma.
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Schede Bibliografia
Provincia di VICENZA
McAndrew J. 1969, Sant’Andrea alla Certosa, «Art Bulletin», LI, pp. 15-28. Pedani M.P. 1985, Monasteri di Agostiniane a Venezia, «Archivio Veneto», CXXV, pp. 35-78. ASV, S.And.L., b. 5. Affittanze, fasc. n. 227. Locationi diverse fatte à diversi. A. Affittanze dal 1557 al 1713, c.sn. Primo Ottobre 1757. ASV, Direzione Dipartimentale del Demanio (1806-1813), b. 382, fasc. II, 2/20. Zorzi A. 1972, Venezia scomparsa, Milano, p. 267. Squassina A. 2011, Murature di mattoni medievali a vista e resti di finiture a Venezia, «Arquelogìa de la arquitectura», 8, pp. 239-271. Paola Sfameni, Davide Busato
Marcesina (VI).Bisakäse. Un progetto integrato di etnoarcheologia, Eco-Cultural Resource Management e tradizioni locali A partire dal 2021, nell’ambito del progetto “CHEESE – BISAKÆSE!”, condotto unitamente dall’Università degli studi di Padova, Sassari e Augsburg, sono state effettuate numerose ricerche presso la Piana di Marcesina, in provincia di Vicenza. L’area di indagine, situata nella parte nordorientale dell’Altopiano dei Sette Comuni, rappresenta uno dei pascoli più estesi della fascia pre-alpina veneta (circa 15 Km²), di rara e straordinaria biodiversità (fig. 21). Il progetto mira a censire, mappare, documentare e valoriz-
fig. 21 – Inquadramento geografico: la Piana di Marcesina vista da drone.
fig. 22 – Marcesina: dettaglio di una tipica malga “relitta”.
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fig. 23 – Marcesina: carta di distribuzione delle tracce individuate da remote sensing, confermate e documentate durante i survey.
zare, secondo un approccio multidisciplinare, l’imponente “patrimonio archeologico delle malghe” e le strutture e infrastrutture tipiche del paesaggio agro-pastorale alpino. Nello specifico, l’interesse è rivolto a ovili, stalle (sia per bovini, sia per suini), recinti, pozze d’alpeggio (attive e fossili), muri divisori a secco o a laste, ma anche a tutte le numerose feature correlate quali i cumuli di spietramento (clearance cairns) localizzati sul territorio (Bettineschi et al. 2022), buche da eradicazione della vegetazione arborea per l’apertura del pascolo (trous-monticules) e sentieramento animale (cross-trampling/pieds de vache). Inoltre, secondo un approccio etnoarcheologico o di “Archeologia del Nonno” (De Guio 1998; De Guio et al. 2013), risulta particolarmente utile mappare e registrare le (infra)strutture produttive, connettive, idrauliche ed eco-agro-manageriali (come ad esempio calcare, carbonare, roccoli, terrazzamenti etc.) per una più completa visione dello sfruttamento delle risorse locali e, più in generale, del territorio montano (fig. 22). Infine, anche i temi dell’Archeologia della Prima Guerra Mondiale e della Guerra Fredda rivestono grande rilevanza nella ricerca, essendo presenti almeno quattro cimiteri (di cui tre inediti), trincee, strutture idrauliche, baracche, nonché varie strade militari, relativi al primo conflitto mondiale e centinaia di postazioni di poligono da tiro per le esercitazioni NATO (North Atlantic Treaty Organization) avvenute nel secondo dopoguerra, che hanno modificato notevolmente il paesaggio in una finestra temporale relativamente ristretta. La ricerca segue un approccio metodologico multiscala ovvero da macro-livelli di indagine (regionali) fino a indagini localizzate di singole strutture (micro): la fase di remote e near sensing, attraverso l’analisi di immagini aeree e satellitari, modelli digitali di elevazione e ortofotomosaici realizzati tramite drone per l’intera area d’indagine, ha preceduto l’attività di ricognizione di superficie delle anomalie registrate in ambiente GIS. Questo ha permesso di programmare in modo
più efficace i survey, garantendo un migliore impiego del tempo a disposizione per le attività sul campo. Le tracce individuate durante l’analisi da remoto sono state in buona parte confermate: le corrispondenze tra dato telerilevato e dato da ricognizione sono state documentate mediante tradizionali tecniche di rilievo manuale e attraverso la compilazione di schede di rinvenimento. Nel corso delle ricognizioni sono state mappate ulteriori strutture non visibili attraverso remote sensing: in questo caso è stata impiegata un’applicazione di mobile GIS con la quale si è implementato in tempo reale il geodatabase già realizzato. All’interno di questo variegato e diacronico paesaggio in costante evoluzione, sono state mappate e documentate 232 anomalie (fig. 23), tutte riferibili alle categorie di strutture sopracitate (ad eccezione di quelle della Guerra Fredda). Da una analisi preliminare di distribuzione delle malghe si può notare come nel territorio fosse in atto una rotazione ciclica di costruzione e dismissione delle strutture in prospettiva diacronica. Quello, invece, che sembra essere il fulcro aggregativo di questi palinsesti di malghe sono le pozze d’alpeggio che risultano costantemente riattivate nel corso del tempo senza subire dislocazioni. Il progetto è, comunque, ancora in fase di raccolta dati: le ulteriori ricerche (da remoto e sul campo) pianificate per il prossimo futuro, associate ad analisi paleobotaniche e di provenienza, e alla possibilità di effettuare emiscavi esplorativi, permetteranno auspicabilmente di meglio comprendere questo complesso sistema di evidenze archeologiche e di definire una scansione cronologica relativa e assoluta delle strutture rilevate. Bibliografia Bettineschi C., Magnini L., Azzalin G., De Guio A. 2022, Clearence cairnfields forever: combining AI and LiDAR data in the Marcesina upland (northern Italy), «European Journal of PostClassical Archaeologies (PCA)», 12, pp. 49-68.
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Schede De Guio A. 1998, Archaeology of us, Archaeology for us…: sistemi di Eco-Cultural & Human Resource Management nel “Progetto Altopiano-Risorse” (Asiago-VI), in M. Quagliolo (a cura di), La gestione del Patrimonio Culturale. Cultural Heritage Management. Sistemi di Beni Culturali e Ambientali, Roma, pp. 222-241. De Guio A., Betto A., Migliavacca M., Magnini L. 2013, Mountain Fossil Landscapes and the “Archaeology of Us”: an object/pattern/ scenery Recognition Experiment, in F. Lugli, A.A. Stoppiello, S. Biagetti (a cura di), Ethnoarchaeology: Current Research and Field Methods, Atti del convegno (Roma, 13-14 Maggio 2010), Oxford, pp. 241-248. Armando De Guio, Giovanni Azzalin, Cinzia Bettineschi, Luigi Magnini
LIGURIA Provincia di GENOVA Genova. Il complesso archeologico della Loggia di Banchi. Gli scavi per la realizzazione del Museo della Città Attraverso un intervento finanziato dal Ministero della Cultura, promosso dal Segretariato Regionale per la Liguria e dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città di Genova e la provincia di La Spezia, negli ultimi mesi del 2021 importanti rinvenimenti archeologici sono emersi nel corso dei lavori eseguiti da Cooperativa Archeologia (le indagini sono state condotte da Barbara
Strano, Claudia Vanali e Roberto Corriga sotto la direzione lavori del dott. Simon Luca Trigona) all’interno della monumentale Loggia dei Banchi per la realizzazione del Museo della Città. I ritrovamenti mettono in luce una situazione archeologica pluristratificata, antecedente la costruzione della Loggia inaugurata nel 1595, caratterizzata, su una superficie di 308 m², da cinque edifici abitativi divisi in due blocchi separati da un vicolo con ingresso lungo la viabilità principale che collegava Soziglia a Banchi, in cui sono leggibili una molteplicità di interventi strutturali sull’impianto urbanistico originario, databile al XIII secolo. La lettura archeologica mette in evidenza la presenza di edifici pertinenti, secondo le fonti documentali, a due diversi Alberghi, verso piazza Banchi i de Nigro e verso piazza Senarega gli Usodimare, oggetto di passaggi di proprietà tra le famiglie nel corso del tempo. Le strutture ritrovate rispettano un canone urbanistico che vede in generale raggruppamenti immobiliari con affacci esterni su strade pubbliche dove si aprono le botteghe, mentre nelle maglie interne restano chiusi gli spazi adibiti alla vita sociale e rappresentativa come le piazze, tratti di carrugi quasi privatizzati, e spesso spazi poveri di cortili e di vicoli ciechi dai quali hanno accesso le volte mercantili. La complessa storia urbanistica del sito, soggetto a ripetuti interventi che hanno profondamente alterato la stratigrafia originale, non può essere ripercorsa nella sua successione con l’auspicabile completezza e continuità senza completare le ricerche attraverso degli approfondimenti stratigrafici previsti nella prossima fase dei lavori. Avendo scavato un unico strato di
fig. 24 – Veduta generale dei vani interrati pertinenti gli edifici C e B, accorpati nell’ultima fase d’uso. In primo piano la grande cisterna, la vasca, i pozzetti di adduzione alla cisterna interrata ed il pozzo sotto la scala di accesso al piano terra.
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fig. 25 – Veduta dall’alto dell’isolato centrale separato dagli isolati attigui da un vicolo di pertinenza privata (ad est) e sul alto opposto una trexenda (ad ovest). Ben visibili gli scagni del Portico grande pavimentati in mattoni nel settore ovest.
demolizione e alcuni strati d’uso, nella ricostruzione ci si è basati sulla sequenza dei rapporti stratigrafici murari, limitati dalla presenza delle superfici di rivestimento, suffragandola con l’analisi mensiocronologica (Le curve mensiocronologiche sono state elaborate dalla dott.ssa Aurora Cagnana). L’importanza di una zona così centrale rispetto all’approdo portuale, già in età romana, è indubitabile anche in mancanza di riscontri strutturali diretti. I ritrovamenti più antichi attestano una frequenza in questo periodo fortemente legata ad attività mercantili (fase A). La presenza di strati di riporto con numerosi frammenti di anfore in giacitura secondaria (dall’epoca Repubblicana al Tardoantico), livelli di abbandono e una struttura a secco in pietre a spacco, ancora da indagare, ne costituiscono una testimonianza concreta. Dallo scavo i più antichi ritrovamenti (fase B), che costituiscono delle preesistenze rispetto alla più massiccia fase costruttiva di XIII secolo (fase C), si collocano come resti di strutture inglobate negli edifici che sorgevano in corrispondenza dell’attuale via Banchi, e che furono demoliti alla fine del XVI secolo per far posto alla Loggia Cinquecentesca. L’impianto costruttivo di epoca medievale è ben leggibile attraverso la maggior parte delle strutture che ne formano l’ossatura, caratterizzato in alcuni tratti da elementi in pietra bugnata a cuscino e dal suo sistema di copertura con volte in laterizi. L’urbanizzazione, in atto nella zona in oggetto, richiede anche la realizzazione di un sistema di smaltimento dell’acque con la costruzione di condutture fognarie sotto strada o tra gli edifici, sfruttando in alcuni casi la presenza di trexende. A questo si affiancata una rete capillare di canalette, pertinenti a fasi di
vita differenti che convogliavano le acque verso sud in direzione del rivo S. Anna, il quale inizia ad essere incanalato già a partire dal XIII secolo. Gli interventi strutturali di XIV e XV secolo sull’impianto costruttivo (fase D), in particolare nell’edificio A, si osservano attraverso la chiusura delle parti loggiate, la divisione degli spazi interni e la messa in opera di un sistema d’isolamento delle superfici verticali per contrastare l’umidità di risalita. Negli edifici B e C, la realizzazione di bocche di lupo, per convogliare luce e aria presso gli ambienti interrati, comporta la demolizione di parte della struttura portante che necessita della realizzazione di strutture a sostegno dello sviluppo della muratura in altezza. In questa fase il vano 6 dell’edificio C è caratterizzato da molteplici interventi, come la costruzione di strutture legate all’uso dell’acqua, in particolare la realizzazione di una struttura sopraelevata la sottostante cisterna a cui adducono due pozzetti a servizio dei piani superiori; una vasca rivestita di ardesia e un sistema di troppo pieno collegato al pozzo. Gli ultimi interventi d’uso (fase E), cronologicamente attribuibili al XVI secolo, si riferiscono alle ultime fasi di vita degli edifici, in cui rientrano la realizzazione di una nuova pavimentazione in mattoni ferrioli della viabilità pubblica e del vicolo. Nell’edificio A, il cui ambiente 3, era già stato trasformato in una bottega con una “mostra” per le merci, si aggiunge un bancone con affaccio sulla via esterna. I residui di carbone e le labili tracce di bronzo vicino ad una cassaforte a pozzetto, interrata nella pavimentazione, lasciano ipotizzare la presenza di un’attività lavorativa che prevedeva l’utilizzo del fuoco e materiali di un certo pregio. La prossimità a via degli Ore-
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fig. 26 – In primo piano edificio A nel quale è leggibile l’impianto originale in pietra bugnata a cuscino.
fig. 27 – Particolare dell’ambiente interrato 4, utilizzato per lo stoccaggio di materiali eterogenei, a cui si accede attraverso una scala collegata al vicolo di pertinenza privata tra gli edifici A e B.
fici e alla loggia dedicata a questa corporazione in piazza Banchi, potrebbe ricondurre le tracce ad un’attività di oreficeria. Gli interventi di questa fase contraddistinguono le attività condotte all’interno degli ambienti interrati (edifici B e C). In particolare, il loro accesso dal vicolo viene dotato di un’ampia scala, pavimentata anch’essa in mattoni ferrioli, che comporta la parziale demolizione delle volte di copertura, per permetterne ancora il passaggio. Gli stessi vani vengono collegati tra loro da un’apertura e dotati di piccoli muretti rettangolari (37×27×105 cm) su cui alloggiavano travi lignee per lo stoccaggio delle merci ivi contenute, isolandole da terra. L’ambiente 4 si contraddistingue da strutture parallelepipede (50×50×90 cm) appoggiate a parete, di cui ne rimangono due presso gli angoli N e S, sormontate da catini murati in graffita policroma. Le strutture erano collegate tra loro da travi lignei orizzontali e ri-
coperte verticalmente da un muretto di mattoni ad doppio arco. Le strutture erano utilizzate sicuramente per qualche attività lavorativa la cui ricerca di confronti è ancora in atto. In questa fase vengono mantenute le strutture di servizio legate all’utilizzo dell’acqua delle fasi precedenti presenti negli ambienti 5 e 6. Gli strati di deposito e di utilizzo dell’ultima fase si riferiscono essenzialmente ai residui di attività lavorative e di manutenzione ordinaria come l’accumulo di calce e sabbia per fare la malta, strati con resti di pasto e i depositi fognari. A questi strati si aggiungono aree di stoccaggio dei materiali non più in uso, come lastre di ardesia, un sovrapporta decorato a bassorilievo e due macine in pietra di finale. Le risultanze archeologiche dell’edificio D, verso piazza Banchi, si trovano ad una quota superiore rispetto agli edifici B e C alle sue spalle, relativi ad un piano terra, di cui si conservano solo i livelli pavimentali
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Schede degli schagni presenti sotto il Portico Grande (prima degli Usodimare e poi Imperiale) che si estendeva da S. Luca fino a S. Pietro. Questi sono disposti lungo l’asse N-S, appaiati gli uni agli altri e divisi da tramezze ortogonali in mattoni. Sotto l’ultimo livello di pavimentazione delle botteghe è presente una ricca stratigrafia pavimentale, non ancora indagata, riferibile a livelli d’uso precedenti, intervallata da alcuni episodi di fuoco, ipoteticamente relativi a una serie d’incendi che caratterizzano diversi periodi di vita di questa parte della città, alcuni riferibili alle guerre civili della fine del XIV secolo. L’ultima fase (fase F), in cui rietrano le demolizioni iniziate nel 1588 delle strutture precedenti per la costruzione della loggia di Banchi, è caratterizzata da potente deposito macerioso. I reperti recuperati in questo strato attestato una netta prevalenza di maiolica ligure a smalto berettino, il cui colore dello smalto varia da un azzurro chiaro ad un blu intenso sino a toni tendenti al grigio, mentre in alcuni frammenti si avvicina al turchese. Bibliografia Grossi Bianchi L., Poleggi E. 1979, Una città portuale del Medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Genova. Cagnana A., Mussardo R. 2012, “Opus Novum”. Murature a Bugnato del XII secolo a Genova: caratteri tipologici, significato politico, legami con l’architettura crociata, in F. Redi, A. Forgione (a cura di), VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (L’Aquila 2012), Firenze, pp. 87-92. Simon Luca Trigona, Barbara Strano, Fulvia Sciamanna.
Indagini di archeologia rurale e del paesaggio sulla Montagna di Fascia (Genova) (2019-2022) Presentiamo qui i primi risultati dell’indagini di archeologia del paesaggio e di archeologia dell’architettura condotte nel comune di Genova e nelle zone limitrofe dal Laboratorio di Archeologia e storia ambientale (cir- DAFIST-DISTAV) dell’Università di Genova, sviluppate, a partire dal 2021, nell’ambito del progetto ANTIGONE – Archaeology of sharing practIces: the material evidence of mountain marginalisation in Europe (ERC- Stg 2019, PI Anna Maria Stagno), attraverso la tesi dottorale di Giulia Bizzarri. Le indagini, ancora in corso, hanno interessato i monti Fasce, Cardona, Bastia e Becco, un’ampia fascia collinare a est della città di Genova (figg. 28-29). Quest’area faceva parte storicamente della “Montagna di Fascia”, areale definito e studiato da Diego Moreno come unità storico-geografica, strutturatasi nel corso dell’età moderna in relazione a una complessa organizzazione delle pratiche agro-silvo-pastorali che conciliavano pratiche agricole e di allevamento (sistemi di monticazione connessi all’approvvigionamento carneo della città di Genova) locali con i sistemi di transumanza a lunga distanza, di cui questi versanti e la costa facevano parte come pascoli litoranei invernali, e in cui l’esistenza di una vasta estensione di comunaglie (terre collettive), progressivamente vendute nel corso dell’Ottocento, aveva rappresentato un elemento chiave (Moreno 1970, 1990). Le osservazioni sulla copertura vegetale attuale e le analisi archeobotaniche di campioni di suolo realizzati
fig. 28 – Localizzazione della porzione occidentale della Montagna di Fascia rispetto alla città di Genova, Fonte Basemap: GoogleSatellites.
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fig. 29 – Versanti di monte Becco nel 2020 con esempi di strutture: a. casella; b. maxera (da Stagno 2021).
fig. 30 – Localizzazione delle aree indagate durante le ricognizioni di giugno-luglio 2021. Fonte Basemap: GoogleSatellites. Elaborazione G. Bizzarri 2021).
in occasione delle indagini preventive per la realizzazione del metanodotto Genova-Recco (Maggi 1992) avevano permesso inoltre una caratterizzazione delle tracce ecologico storiche delle pratiche legati a tali sistemi e di riconoscere le tracce delle trasformazioni seguite al venir meno dei circuiti di transumanza dalla fine del XIX secolo e al progressivo abbandono delle pratiche di pascolo, e fornito una prima
ricostruzione dei profondi mutamenti giuridici e giurisdizionali che quest’area ha conosciuto a partire dal XIX secolo (Moreno, Croce, Montanari 1992; Quaini, Moreno, Cevasco 2016). Tra il 2019 e il 2020, le indagini di archeologia rurale condotte preliminarmente alla realizzazione di un nuovo tracciato del metanodotto tra Genova e Sestri L. hanno permesso di indagare l’area di Monte Becco. Le
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fig. 31 – a) UT 709: Esempio di crèsta in medio stato di conservazione (foto Colopi e E. Zanicchi 2021); b) Terrazzamenti e insediamento presso Colanesi, visti da Est, a nord-ovest di cui è visibile la sommità del Monte Fasce (foto G. Bizzarri 2022); c) Edificio UT 724, anch’esso parzialmente in medio stato di conservazione (foto G. Bizzarri 2022).
indagini hanno documentato una notevole densità di tracce che hanno permesso di cogliere la materialità delle forme di conciliazione tra forme di transumanza e gestione locale dei versanti (crèste, cfr. oltre) , di leggere, nella densità di manufatti (in particolare maxere, cumuli di spietramento, posà, basse strutture per agevolare i carichi, cui indagine archeologica e topografica ha permesso di coglierne anche l’uso per delimitare precisi spazi, nonché di piccole strutture di supporto alle attività agricole caselle, fig. 29), la loro pluristratificazione e di interrogarsi sulle dinamiche del progressivo mutamento di uso degli spazi (a.e. riduzione degli spazi a uso castagneto a favore dell’espansione dei pascoli nudi), in corso di approfondimento a partire da analisi sui campioni di suolo prelevati (Stagno 2021, cfr. Stagno, Tigrino 2021 per approfondimenti). All’interno del progetto ANTIGONE, che indaga la correlazione tra continuità e discontinuità nelle pratiche di condivisione e gestione delle risorse ambientali e i processi di abbandono che hanno interessato la montagna europea tra XVIII e XXI secolo, ci si è quindi interessati a comprendere più a fondo le tracce archeologiche e ambientali presenti in quest’area ampia compresa tra le valli dei torrenti Sturla a Ovest e Recco e Sori a East, e i Monti Fasce, Bastia, Cordona, Uccellato e Becco. Le ricognizioni lungo questi versanti sono state precedute da uno studio di documentazione Ottocentesca focalizzata sulla gestione delle terre collettive che si estendevano sui versanti dei Monti Fasce, Bastia e Cordona, appartenenti allora ai comuni di
Apparizione, Quarto al Mare, Nervi, Bavari e Quinto al Mare – dal 1926 accorpati al comune di Genova con la costruzione della cosiddetta “Grande Genova” – e oggetto di discussioni e contese nella seconda metà dell’Ottocento, in relazione a processi di privatizzazione e ridefinizione delle terre collettive di proprietà comunale (Archivio Storico del Comune di Genova, Fondo Comuni Annessi, Comune di Apparizione, Sc. 12, 12bis, 13 e Comune di Quarto al Mare, Sc. 17). Lo studio della documentazione archivistica, e un confronto con la cartografia storica, anch’essa principalmente Ottocentesca, hanno permesso di comprendere come gli interessi di gruppi sociali legati ad istituzioni locali, quali parrocchie o comuni, si dovessero confrontare con interessi di più ampia scala portati avanti da istituzioni e politiche che agivano a livello regionale e nazionale, quali le leggi forestali di fine dell’Ottocento. Le ricognizioni svolte nell’estate 2021 hanno adottato gli approcci e le prospettive dell’archeologia rurale (Stagno 2018) e permesso di identificare alcune macroaree (fig. 30), definite dalla densità di tracce degli usi agro-silvo-pastorale e del loro abbandono. In queste aree sono presenti insediamenti abbandonati, a volte nuclei composti di piccoli gruppi di due o tre edifici vicini, quasi sempre associati alla presenza di ampie estensioni di terrazzamenti lungo i versanti, altrimenti caratterizzati da praterie in abbandono (in cui prevale il brachipodio), traccia del precedente uso pascolivo dei versanti. I toponimi (Colanesi, Orsiggia, Lumarzo, ecc.) cui questi insediamenti erano legati, sono
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fig. 32 – Tipologia delle unità topografiche identificate presso Colanesi nel 2021 (Basemap: Carta Tecnica Regionale Sc. 1:5000, 19902006, elaborazione G. Bizzarri 2022).
desumibili dalla cartografia ottocentesca e, in molti casi, attestati anche nella documentazione archivistica precedente. Gli edifici sono organizzati solitamente su uno o due ambienti e, più raramente, composti da due piani. I terrazzamenti intorno a Colanesi (versanti meridionali del Monte Fasce), Orsiggia e Fascia, risultano delimitati da crèste (Moreno 1990), bassi muri in blocchi lapidei spaccati di dimensioni medio-piccole, sormontati da lastre di pietre calcareo scistose, disposte a coltello (fig. 31a). Le crèste delimitano inoltre le mulattiere che dal monte Fasce si dipartono verso ovest, e sono particolarmente conservate presso case Becco e Monte Becco. Le indagini condotte tra aprile e maggio 2022 si sono concentrate sull’insediamento di Colanesi e i versanti che lo circondano e definiscono (fig. 32). L’area è stata scelta per la maggior complessità e pluri-stratificazione degli usi e delle strutture. Per quel che riguarda i terrazzamenti più a est – UT 708 – risultano coperti da una fitta vegetazione, tra cui arbusti d’erica arborea e ginestre (Spartium junceum e Calicotome spinosa) e scarsamente visibili a causa del loro interramento, avvenuto in seguito all’abbandono; al contrario, quelli a ovest – UT 720 – sono meglio conservati e con murature ancora ben leggibili. Abbiamo inoltre osservato differenti stati di conservazione dei gruppi di edifici che costituiscono l’insediamento e, come accennato, un’articolata pluri-stratificazione delle strutture. Le osservazioni di archeologia dell’architettura hanno permesso di individuare le diverse fasi costruttive degli edifici e di ipotizzare le successive riorganizzazioni
che gli ambienti interni hanno riconosciuto. In alcuni casi è stato possibile datare le fasi edilizie per le caratteristiche dei materiali costruttivi (a.e. marsigliesi con stampi, tipologia del cemento dei rifacimenti ecc.), mentre solo su via ipotetica la costruzione degli edifici più antichi si può collocare, per ora nel tardo XVIII secolo, in quanto sulla cartografia di primo Ottocento i diversi corpi di fabbrica che costituiscono le strutture risultano già tutte presenti. Nella documentazione archivistica consultata, il toponimo Costa di Coranesi ricorre in un Piano Topografico del 1845 redatto, con riferimento a una sentenza del 1503 e a un atto del 1537, nell’ambito di una controversia tra i Comuni di Quarto e Apparizione (Archivio di Stato di Genova, Prefettura Sarda, Rapporti tra comuni, Apparizione e Quarto 1822-1830). In tale rilievo il toponimo indica un’area di comunaglie in cui si trovavano “campi di particolari”, ovvero appezzamenti privati. Nella primavera 2023, realizzeremo alcuni saggi di scavo e analisi archeologico ambientali con l’obiettivo di precisare le cronologie e di meglio caratterizzare le diverse funzioni degli spazi, e di comprendere la cronologia di costruzione dei terrazzamenti. Una delle ipotesi è infatti quella che i campi dei particolari rappresentati dal rilievo potessero essere già terrazzati all’epoca e delimitati da muri confinari. Precisando cronologie e usi delle strutture e degli spazi esterni, miriamo a meglio comprendere la traccia materiale delle diverse giurisdizioni e pratiche che si intrecciavano a Colanesi, per individuare quali relazioni sociali si creassero, si reiterassero o cambiassero attorno ad esse.
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Schede Bibliografia Moreno D. 1970, Per una storia della montagna ligure. Note sul paesaggio della Montagna di Fascia, «Miscellanea Storica Ligure» 1, pp. 73-113. Moreno D. 1990, Dal documento al terreno, Bologna. Moreno D., Croce G.F., Montanari C. 1992, Antiche praterie appenniniche, in R. Maggi (a cura di), Archeologia preventiva lungo il percorso di un metanodotto. Il tratto Genova – derivazione per Recco, «Quaderni della Soprintendenza Archeologica della Liguria» 4, Genova, pp. 159-176. Quaini M., Moreno D., Cevasco R. 2016, Fra utopie ed eterotopie: quale spazio per una ‘storia territorialista’ della montagna? «Scienze del Territorio» 4, pp. 34-43. Stagno A.M. 2018, Gli spazi dell’archeologia rurale: risorse ambientali e insediamenti nell’Appennino ligure tra XV e XXI secolo, Firenze. Stagno A.M. 2021, A multidisciplinary approach to the relationship between seasonal settlement and multiple uses. Case studies from southern Europe (15th-21st centuries) in P. Dixon, C. Theune (a cura di), Seasonal settlement in the Medieval and early Modern Countryside, Leiden, pp. 57-68. Stagno A.M., Tigrino V. 2020, Borderline Landscapes Ligurian Hillsides and Shores between Environmental History and Archaeology Eighteenth to Twenty first Centuries), «Annali dell’Istituto storico italo germanico in Trento/Jahrbuch des italienisch deutschen historischen Instituts in Trient» 46, pp. 69-102. Giulia Bizzarri, Anna Maria Stagno
Storia e archeologia delle risorse ambientali nell’Appennino Ligure orientale La ricerca qui presentata è condotta nell’ambito del progetto di ricerca del Dottorato Comunale in Archeologia, filone Storia ambientale attivato presso l’Università di Genova. Si tratta di un progetto finanziato dall’Agenzia per la Coesione Territoriale e rivolto alle unioni di comuni – in questo caso, l’area Antola-Tigullio – identificate ai sensi della Strategia Nazionale Aree Interne Italiane (SNAI). Gli obbiettivi dell’Agenzia, a cui questo progetto si allinea, sono l’ideazione di strategie volte alla promozione della ricchezza di questi territori, delle loro comunità e delle risorse naturali e culturali e la creazione di strumenti utili alla costruzione di nuovi circuiti occupazionali volti a contrastare lo spopolamento demografico e culturale. La ricerca si realizza nell’ambito delle attività del Laboratorio di Archeologia e Storia Ambientale, (LASA, centro interdipartimentale di ricerca DAFIST-DISTAV) oggi coordinato da Anna Maria Stagno e ne applica l’approccio multidisciplinare perfezionato tra gli anni Novanta e Duemila, che comprende prospezioni di archeologia di superficie e di ecologia storica attraverso osservazioni sulla vegetazione attuale, campionamenti per analisi archeobotaniche e geoarcheologiche, indagini di archivio e interviste alle fonti orali (Cevasco 2013). Nelle prospettive dell’archeologia rurale, l’utilizzo comparato di queste diverse serie di fonti permette di far emergere la complessità delle relazioni tra
fig. 33 – Localizzazione dei casi di studio.
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fig. 34 – Castagnello – Un canale irriguo con chiusa; B: Il casone localmente detto “del Tatà”; C: Alcuni attrezzi ad uso agricolo rinvenuti all’interno di un casone.
fig. 35 – Bosco Fontana – A: Possibile aia carbonile; B: Cumulo di spietramento realizzato per favorire attività di coltivazione e pascolo; C: Antica mulattiera con canale irriguo che collega Bosco Fontana a Cerisola.
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Schede dinamiche sociali e ambientali, ovvero tra le dinamiche del popolamento e le forme di gestione delle risorse ambientali (Stagno 2018, pp. 11-36). e gli effetti di queste ultime e del loro abbandono sui popolamenti animali e vegetali (Cevasco 2007). Il tema centrale di questa ricerca è lo studio del territorio rurale nella sua complessità, con particolare enfasi sugli aspetti sociali che sono celati all’interno di esso e che derivano dall’interazione, talvolta conflittuale, tra le diverse comunità e gruppi sociali circa l’attivazione e la condivisione delle risorse ambientali realizzata mediante specifiche pratiche e forme di gestione e attivazione delle risorse. Attraverso l’analisi delle tracce materiali lasciate da queste pratiche all’interno e all’esterno degli insediamenti, la ricerca intende indagare il tema dei saperi empirici locali, con particolare riferimento ai saperi artigianali e alla circolazione di maestranze, per comprendere come esse si siano trasformate nel corso del tempo anche in relazione alle dinamiche di popolamento dei diversi territori. In questo contesto, oggetto privilegiato di studio sono i terrazzamenti e i saperi connessi alla loro costruzione (anche in relazione alla gestione della risorsa idrica) e al loro uso (anche in relazione alle pratiche di allevamento e non solo di coltivazione) e al loro abbandono. Lo studio delle tematiche sopracitate è affrontato attraverso alcuni casi di studio con diverse declinazioni, conseguenza diretta delle differenti caratteristiche che contraddistinguono i singoli contesti. I siti oggetto di analisi fino ad ora selezionati sono tre: Castagnello, un piccolo borgo della Valle Sturla, oggi pressoché spopolato, edificato lungo una antica mulattiera che collegava la vicina Abbazia di Borzone con le località circostanti e la Val di Taro; Bosco Fontana, una vasta faggeta (circa 300 ettari) proprietà collettiva dei membri della famiglia Fontana, abitanti dei paesi di Cerisola, Villarocca e Villanoce, che tutt’oggi ne risultano i possessori e i cui diritti di utilizzo possono essere fatti risalire (secondo la documentazione conservata da alcune famiglie) al 1452, anno in cui due Fontana, Gherardo e Opicino, lo acquistarono da Visconte de Turrio; Viganego, una piccola frazione del comune di Bargagli, in Val Lentro, strettamente connessa alla vicina città di Genova e soprattutto a località costiere come Nervi e Bogliasco. Fino ad ora le indagini hanno interessato maggiormente i siti di Castagnello e Bosco Fontana in cui sono state svolte alcune campagne di ricognizione e numerose interviste alle fonti orali locali oltre ad un lavoro preparatorio di consultazione della documentazione cartografica e fotografica storica e attuale. Le ricognizioni hanno permesso di documentare diverse tipologie di evidenze archeologiche ed ecologico-storiche: non solo edificato (sia ad uso abitativo sia connesso ad attività agro-silvo-pastorali come casoni, fienili, mulini, baracche ), elementi di viabilità (sentieri, mulattiere lastricate, ponti) e opere connesse alla gestione della risorsa idraulica (canalizzazioni, chiuse, irreggimentazioni di corsi d’acqua, cisterne, punti di captazione ecc.) e sistemazioni di versanti (terrazzamenti, lunettature, ecc.), ma anche tracce nella vegetazione indicatrici di precedenti pratiche di pratiche e forme di gestione legate al trattamento degli alberi (polloni, capitozzature, tracce di ceduazione ecc.) e alla loro disposizione (ad esempio, una disposizione regolare di una serie di alberi della stessa specie suggerisce la presenza di una coltivazione di castagni o noccioli), presenza di particolari specie vegetali (indicatrici, ad esempio, di aree di pascolo) e
anomalie del terreno (riconducibili ad esempio alla produzione di carbone da legna). I dati raccolti sono attualmente in fase di elaborazione per essere spazializzati all’interno di sistemi GIS che permettano di visualizzarli, gestirli e incrociarli in modo immediato; questo passaggio risulterà fondamentale per effettuare uno studio analitico del territorio e per comprenderne la diacronia e le trasformazioni. Il lavoro di intervista alle fonti orali ha invece permesso di raccogliere informazioni circa tradizioni, saperi artigianali e pratiche riferibili agli ultimi sessanta/settant’anni di storia di questi siti e dovrà essere sottoposto ad analisi critica. Queste serie di dati saranno poi integrate l’una con l’altra e implementate con l’utilizzo di dati archivistici (non solo catasti, ma anche documentazione legata ai conflitti sui diritti di accesso alle risorse) per restituire una temporalità al dato materiale e coglierne appieno le implicazioni sociali e giurisdizionali. Bibliografia Cevasco R. 2007, Memoria verde. Nuovi spazi per la geografia, Reggio Emilia. Cevasco R. (a cura di) 2013, La Natura della Montagna. Studi in ricordo di Giuseppina Poggi, Sestri Levante Stagno A.M. 2018, Gli spazi dell’archeologia rurale. Risorse ambientali e insediamenti nell’Appennino ligure tra XV e XXI secolo, Firenze, pp. 11-36. Caterina Piu
TOSCANA Provincia di FIRENZE Firenze. Scavi di Palazzo Cerretani – Piazza dell’Unità, 1 Nel 2020 è stato pubblicato dal Consiglio Regionale della Toscana lo studio “Palazzo Cerretani – Due millenni di storia”, a cura di Maurizio Martinelli e Stefania Salomone, dove in due tomi vengono esposti i dati archeologici, nonché archivistici, risultanti dalle indagini svolte nel 2012 e 2013 all’interno di Palazzo Cerretani di proprietà della Regione Toscana nel centro di Firenze. Qui i lavori di ristrutturazione hanno comportato una serie di interventi di scavo su un’area di poco meno di 650 m², dei quali circa 570 m² al piano interrato e circa 70 m² al piano terreno; l’area sottoposta all’analisi strutturale di interesse storicoarcheologico è stata tuttavia molto più estesa. In una parte dei vani all’interrato i resti strutturali romani, medievali e postmedievali sono stati conservati in luce in un percorso archeologico, assieme a quanto forma l’edificio attuale. La stratigrafia rilevata documenta come sul terreno vergine si impostino le porzioni residuali di due strutture murarie di età romana tra loro connesse, sottostanti la zona centrorientale del palazzo e che rappresentano quanto rimane in situ di un impianto di spremitura vinaria, ormai largamente distrutto; una porzione pavimentale della sala destinata a vasca di spremitura (calcatorium) risale all’epoca stessa della fondazione della colonia di Florentia, di cui rispetta l’orientamento dell’agro centuriato. Dopo un periodo di sostanziale abbandono dal VI sec. d.C. si assiste forse nella prima metà-metà del XIII secolo al reimpianto di costruzioni nell’area, tra le quali una turris extraurbana quadrangolare di cui si sono rinvenute negli ambienti al sottosuolo le fon-
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fig. 36 – Pianta complessiva dell’area indagata archeologicamente all’interno di Palazzo Cerretani (riquadro) e dettaglio della zona centrale della pianta.
dazioni ed alcuni muri perimetrali, mentre ampie porzioni di elevato sono visibili al pianterreno dell’attuale palazzo. Si tratta di una struttura difensiva munita di feritoie, di cui è stata riconosciuta la facciata rinvenendone una porzione dotata di porta con cardini da cui si usciva su uno spazio antistante cintato, il cortile d’armi scoperto. Sotto la turris è stata rinvenuta integra una costruzione sotterranea a falsa cupola, collegata a un sistema di raccolta pluviale attraverso condotte in terracotta. All’incirca a questa stessa fase va riferita anche una ulteriore struttura ad oriente della turris, che con le altre sembra circondare un vasto spazio. Dopo un ridotto lasso di tempo, nella prima metà del XIV sec. d.C. le strutture a nord e ad est di questo spazio vengono rasate al suolo – forse in connessione a conflitti tra fazioni cittadine –, ad un livello su cui viene poco dopo impostata una estesa pavimentazione lastricata nel cui riempimento era presente maiolica arcaica che data l’operazione alla prima metà del Trecento. In concomitanza, viene costruito un nuovo edificio circa 2,5 m più ad est di quello appena demolito, mentre la turris, ancora in opera, vede la rimozione della pavimentazione interna per consentire la creazione del più antico scantinato dell’area, oggi conservato, al quale dava luce un basso abbaino; tale sottoscavo determinò probabilmente il parziale danneggiamento della preesistente costruzione sotterranea a falsa cupola, che venne reintegrata in mattoni. Alla prima parte del Quattrocento si può collocare la costruzione di una struttura in luogo del cortile d’armi prima scoperto antistante la turris, e di una ulteriore struttura – in
luogo del lastricato nell’area ad est di essa – connessa ad una loggia angolare addossata, tuttora visibile, caratterizzata da ampie volte a crociera sostenute sul lato esterno da poderose colonne a sguscio sormontate da capitelli, mentre sul lato interno le strutture poggiano su peducci decorati con motivo a dentellatura. Sotto la loggia viene aperto un pozzo – attualmente visibile sotto un piano di cristallo – e un primo vano scala discendente, addossato all’esterno del muro perimetrale est della turris, che dava accesso ad una cantina pavimentata, per la quale venne quasi totalmente distrutto il calcatorium romano. Più tardi l’accesso alla cantina venne sostituito da una diversa scala rettilinea in pietra, posta sotto il loggiato angolare; con la seguente chiusura del loggiato si rese necessario modificare la scala rendendola angolare con una nuova prima rampa dall’alto, oggi in luce e percorribile. Altri pozzi disposti nell’area circostante la turris si possono genericamente ascrivere attorno a questa fase storica. Uno stretto passaggio, mai ricompreso entro abitazioni sino alla realizzazione del Palazzo Cerretani, si è rivelato di fondamentale importanza per collegare i dati d’archivio con la documentazione architettonica ed archeologica: infatti esso formava un corridoio ad archi destinato al passaggio dalla piazza agli antichi orti retrostanti, identificato col passaggio che, nei documenti del 1561, era di proprietà del Cardinale della Cornia. Di conseguenza è stato possibile riconoscere nel complesso a oriente di esso – corrispondente alla costruzione eretta dopo la grande demolizione della prima metà
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fig. 37 – Sezione verso oriente del palazzo, con lo scavo alle fondazioni della turris e, a sinistra, la sezione del vano a falsa cupola sotterraneo.
fig. 38 – Un vano al piano interrato dopo l’allestimento per le visite creato in base ai risultati delle indagini archeologiche.
fig. 39 – L’orcio settecentesco di raccolta per i liquami ancora inserito nel suolo dell’interrato, col fondo sospeso su un vano sottopavimentale dello scantinato.
del Trecento – l’edificio che negli archivi risulta al 1427 proprietà di Tommaso di Pazzino di Luca Alberti, cui dava accesso una porta rinvenuta sul lato orientale del corridoio di transito; sulla stessa base documentaria l’edificio cui si addossa la loggia a pilastri è identificabile con le abitazioni che nel 1427 appartenevano ad Antonio d’Agnolo Perini, passate nel 1599 a Giovanni e Francesco Cerretani, che lo ingloberanno con le altre loro proprietà limitrofe. È infatti dal XVI secolo in poi che si attivano continue modifiche alla consistenza delle diverse abitazioni corrispondenti all’intera area dell’attuale palazzo, e che in precedenza formavano una serie di edifici a schiera, ciascuno dotato di proprie cantine aperte nel sottosuolo in momenti
distinti; della diversa proprietà originaria delle abitazioni, oltre ai dati d’archivio, danno sicura testimonianza le quote diverse delle molteplici cantine ed i vari abbaini in seguito tamponati; è dunque solo con gli acquisti di abitazioni limitrofe – documentati anch’essi dalle notizie d’archivio – che si determina l’apertura di passaggi di comunicazione tra scantinati. Le distinte abitazioni della zona vennero quindi progressivamente riunite in più estese proprietà, e nel XVII secolo vasta parte dell’attuale palazzo entra in possesso dei Cerretani, che vi promuoveranno opere di ristrutturazione dopo il 1648; il grande salone affrescato al primo piano ed affacciato sul retro, dove le stesse pitture recano in un cartiglio la datazione al 1650,
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Schede presuppone la presenza del sottostante grande loggiato posteriore, in origine aperto sia sulla fronte settentrionale che alle due testate. I dati d’archivio, che ascrivono al senatore Filippo Cerretani la costruzione nel 1748 di una nuova “Alcova”, di un salottino e di altri “comodi” tra i quali un gabinetto nella parte occidentale del pianterreno, sono stati puntualmente confermati dalle indagini archeologiche nell’interrato, dove è stato trovato l’apparato di tubazioni e di raccolta dei liquami del bagno, confluenti verso la cantina dove era stato inserito – sospeso sopra una camera sotterranea in mattoni – un grande orcio in terracotta di foggia settecentesca. Quando questo apparato venne demolito – e con esso la rampa inclinata che dalla facciata sulla piazza permetteva i servizi alla cantina –, la parte fuori terra dell’orcio venne spezzata e gettata nel recipiente, assieme a molto materiale sicuramente proveniente dai soprastanti bagno e salottino, tra i quali un lastrone di marmo con foro centrale quale sedile, una siringa in metallo, frammenti di vetro soffiato pertinenti a bottiglie talvolta conformate; ceramiche smaltate, dipinte ed alcune a decalcomanie; frammenti di calamai in porcellana e una bottiglietta quadrangolare in vetro, prodotta a stampo con un’iscrizione a rilievo sulla parete che la riferisce alla produzione di N. Antoine di Parigi, e che era destinata a contenere inchiostro o colla. La siringa e la bottiglietta d’inchiostro sono parte della produzione industriale degli anni a cavallo tra Otto e Novecento, testimoniando la data di demolizione dell’apparato nello scantinato e, visti i manufatti, anche del bagno e del salottino soprastanti. A questi interventi e a molti altri nell’area circostante è ascrivibile una ingente documentazione che giunge all’età contemporanea per la quale, per motivi di spazio, si rimanda alla pubblicazione edita, scaricabile per entrambi i volumi ai link: http://www.consiglio.regione.toscana.it/upload/eda/ pubblicazioni/vol15.pdf http://www.consiglio.regione.toscana.it/EdA/download. aspx?t=volumi&id=16&l=/upload/eda/pubblicazioni/ vol16.pdf
Bibliografia AA.VV. 2018, Palazzo Cerretani. Un viaggio nella storia di Firenze, Firenze: Consiglio Regionale della Toscana. Cianferoni G.C., Colli D., Martinelli M., Roncaglia G. 2013, Firenze. Palazzo Cerretani, Piazza dell’Unità Italiana 1: indagini in occasione di lavori di ristrutturazione per la riqualificazione della futura sede della Biblioteca del Consiglio Regionale della Toscana, «Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, n. 9», pp. 238-242. Martinelli M., Salomone S. (a cura di) 2020, Palazzo Cerretani. Due millenni di storia fiorentina, Firenze: Consiglio Regionale della Toscana, Tomi I e II. Martinelli M., Colli D. 2020, Piazza dell’Unita Italiana: Palazzo Cerretani, in M. Salvini, S. Faralli (a cura di), ‘Archeologia invisibile’ a Firenze. Storia degli scavi e delle scoperte tra San Lorenzo, Santa Maria Novella e Fortezza da Basso, Firenze: Consiglio Regionale della Toscana. Maurizio Martinelli
Provincia di LUCCA Lucca. Nuovi dati sull’assetto e la trasformazione delle fortificazioni esterne della città L’attività di assistenza archeologica svolta dalla scrivente sotto la direzione della Soprintendenza ABAP di Lucca e Massa Carrara (Funzionario Archeologo referente Neva Chiarenza) sulla sostituzione di una delle principali condotte dell’acquedotto che serve il centro storico di Lucca (2021), ha permesso di individuare una struttura voltata in mattoni, di notevoli dimensioni, riconducibile per posizione e caratteristiche costruttive ad un’arcata di sostegno del viadotto che attraversava le fortificazioni esterne della città, completate intorno alla metà del XVII secolo e costituite, com’è noto, da un ampio fossato allagabile, delimitato dal sistema di terrapieni della ‘controscarpa’ e delle ‘lunette’ (Mattonai 1998). La volta (US 16) è stata rilevata nella sede stradale corrispondente all’ingresso laterale est della porta S. Maria, completata nel 1594 sul lato nord della città, e risulta
fig. 40 – Lucca, Porta S. Maria. Le due porzioni di volta in corrispondenza dello scasso per la tubazione in ghisa dell’acquedotto del 1929.
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fig. 41 – Lucca, Porta S. Maria. Sezione e prospetto della porzione ovest della struttura.
fig. 42 – Lucca, Porta S. Maria. L’area della Porta nel rilievo catastale del 1837 (ASLu, Catasto Nuovo) con la localizzazione della struttura voltata.
tagliata trasversalmente dalla messa in opera della vecchia condotta dell’acquedotto, risalente al 1929 (fig. 40). Il saggio d’indagine disposto dalla Soprintendenza ha consentito di documentarne le caratteristiche costruttive e lo stato di conservazione: particolarmente compromessa nel settore indagato, ma integra nella porzione che si sviluppa a ovest, sotto il piano stradale, essa è parallela all’asse della porta urbana, ha lunghezza complessiva di circa 7 m, con una luce superiore ai 4,50 m; all’altezza del varco centrale, è tamponata da una muratura mista di epoca più recente. Nell’angolo nord ovest del saggio è stato rilevato un lembo residuo del livellamento originario dell’estradosso, che formava un piano stradale composto da terra battuta mista a polvere di laterizi (US 18, fig. 41), in cui sono stati recuperati frammenti di ceramica ingobbiata e graffita coerenti con una datazione della struttura entro la seconda metà del XVII-inizi del XVIII secolo. La porzione est della volta,
invece, conservata solo per 0,80 m, era sormontata dai resti di una struttura muraria completamente rasata (US 21), riconducibile al parapetto che delimitava la strada sopraelevata su questo lato. Nella rappresentazione delle mura del 1646, la struttura indagata è posizionabile nell’area antistante la recinzione esterna di porta S. Maria, a lato della strada ma in corrispondenza di un piccolo ingresso posto a est di quello centrale dotato di ponte levatoio; tale posizione rende plausibile l’esistenza di uno slargo del viadotto già nella fase tardo-seicentesca, come risulta rappresentato nel rilievo catastale del 1837 (fig. 42). L’apertura di una porta sul lato opposto e la realizzazione di uno slargo simmetrico a ovest sono invece collocabili, in base ai documenti del governo granducale, tra 1847 e 1859. L’ultimo allargamento delle tre porte e della strada, realizzato tra 1873 e 1874 «per snellire l’ingorgo di traffico che si creava all’ingresso della città» (Pacini 2016, p. 24), ha trovato riscontro archeologico nella rasatura del muro US 21 e nella sequenza stratigrafica documentata a est del saggio dove è stato rilevato un sottile battuto stradale steso su un riempimento che, oltre il limite della porta, digrada bruscamente fino ad esaurirsi ad oltre 1,60 m di profondità. L’intervento del 1873-74, all’indomani dell’acquisizione delle mura da parte del Comune, dette quindi l’avvio alla fase d’interramento del fossato, proseguita tra fine Ottocento e primi anni del Novecento con l’abbattimento dei terrapieni della ‘controscarpa’ per realizzare il viale Pompeo Batoni. Nella trincea per la nuova tubazione, che attraversa l’area degli spalti a nord-est della porta urbana, è stato infine documentato un esteso riempimento composto da macerie edilizie, che segna la definitiva colmatura del fossato, trasformato in vera e propria discarica di materiale proveniente da consistenti demolizioni. La presenza di vasellame d’uso e in particolare stoviglie di terraglia e porcellane industriali databili tra XIX e primo quarto del XX secolo, consente di chiudere la formazione della discarica entro la fine degli anni Quaranta, documentando le estese demolizioni compiute nel centro storico nel decennio antecedente il secondo conflitto mondiale. Bibliografia
Susanna Bianchini
Mattonai G. 1998, Gli spalti delle mura di Lucca. Costruzione. Distruzione. Valorizzazione, Lucca. Pacini G. 2016, Borgo Giannotti. Origine e sviluppo, Lucca.
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Schede Lucca. La bottega del tintore: la recente scoperta in Via del Fosso nel centro storico. Durante i lavori di ristrutturazione in un’abitazione privata, nel Centro Storico di Lucca, è stata condotta un’indagine archeologica a cura delle scriventi sotto la direzione della Soprintendenza ABAP di Lucca e Massa Carrara (Funzionario Archeologo referente Neva Chiarenza) (2021-22). Il complesso, articolato in 5 vani, affaccia su via del Fosso, notoriamente dedicata alla lavorazione della seta e dei panni di lana fin dal XIII secolo (Del Punta, Rosati 2018, p 185 e ss.), dotata di un canale realizzato appositamente nel 1376. Rimossa una pavimentazione a quadroni di laterizio (tar-
do XVII secolo); nel terreno di livellamento sottostante sono stati recuperati frammenti di ceramica ingobbiata e graffita tarda, che confermano la datazione al XVII secolo, testimoniata dal formato dei laterizi pavimentali, moto comune nelle residenze lucchesi dell’epoca. Lo scavo ha messo in luce strutture relative ad un impianto artigianale, di cui sono state distinte tre fasi cronologiche, tra la fine del XIV e la seconda metà del XVII secolo. L’impianto meglio conservato, che qui si descrive, è quello databile alla seconda metà del XVI secolo; comprende una fornace/caldaia (fig. 43: vano I, US 40) con camera di combustione a pianta circolare (diametro 120 cm), delimitata da ghiera con filari di mattoni, legati da malta; priva della calotta, conserva il piano di fondo con filari di
fig. 43 – Lucca, via del Fosso. Pianta e rilievo degli ambienti indagati.
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fig. 44 – Lucca, via del Fosso. Resti di fornace/caldaia (vista da nord ovest).
fig. 45 – Lucca, via del Fosso. A. alloggiamenti per quattro tini posti fuori terra (serie contro muro) e per tre tini interrati; B. dettaglio di uno degli alloggiamenti interrati: sono visibili i resti di cerchiaggi.
laterizi posti a coltello; la pavimentazione è annerita e avvallata al centro (fig. 44). Attraverso un canale in mattoni, la struttura è collegata al praefurnio a pianta quadrangolare (fig. 43: US 71), in cui sono riconoscibili sistemazioni e rifacimenti successivi. Lungo la parete opposta sono state messe in luce due piattaforme in muratura con sette alloggiamenti circolari, disposti su due file adiacenti e
parallele (fig. 45). La serie prossima al muro conta quattro aperture (fig. 43: A, B, C, D,) poco profonde, equidistanti, con fondo piano coperto da uno strato di malta, per la collocazione di contenitori fuori terra. La fila antistante è composta da tre cavità subcilindriche, profonde in media 80 cm, per la sistemazione di contenitori interrati (fig. 43: E, F, G): le pareti interne, leggermente curve e foderate di malta bianca, conservano tracce di cerchiaggi in ferro, che fanno supporre l’impiego di tini di legno (fig. 45) (La disposizione dei sette alloggiamenti trova confronto nell’Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des art, et des métiers (1751-1772) vol. 11, PL. I). L’ambiente era pavimentato con un piano in quadroni di laterizio, di cui si conservano lacerti vicino alle piattaforme (fig. 43: US 12, 13) e alla fornace (US 41, 81), posto in opera sopra un consistente livellamento macerioso (fig. 43: US 50), contenente numerosi frammenti ceramici risalenti alla metà del XVI secolo, che ha obliterato l’impianto originario di età bassomedievale. È emerso inoltre un pozzo a pianta circolare (diametro 130 cm), con pareti verticali (fig. 43: vano IV, US 64), realizzato da filari di mattoni integri e fratti, posti di piatto, alternati a rari ciottoli fluviali di piccole dimensioni, che diventano prevalenti nella parte inferiore. A lato vi è una piattaforma in conglomerato di mattoni, lastre litiche e ciottoli immersi in malta bianca (fig. 43: US 65), in cui è leggibile l’alloggiamento di una macina, indiziata anche dal ritrovamento di grosse borchie ed elementi di trasmissione in ferro e utilizzata per frantumare i minerali per la colorazione dei panni; tracce di pigmenti e lacerti di tessuto sono stati recuperati all’interno di una vaschetta adiacente (fig. 43: US 76), insieme a utensili di ferro, presenti anche in un’altra vasca interrata rilevata nel vano V (fig. 43: 113-114). L’approfondimento delle indagini ha consentito infine di individuare parte dell’impianto originario, risalente alla fine del XIV secolo, in cui sono già presenti la fornace/ caldaia e cavità circolari per l’appoggio di piccoli tini (di questa fase si darà notizia in altra sede); l’attività tintoria è perdurata negli stessi ambienti fino almeno al XVII secolo, riutilizzando alcune strutture già esistenti, come il pozzo e gli alloggiamenti. Appartengono a questa fase due grandi vasche a pianta rettangolare, costruite fuori terra, di cui si conservano solo i piani di fondo; altre due, più piccole, rivestite da malta idraulica e interrate, sono conservate nel vano V e alimentate dal pozzo del vano IV. Questo ritrovamento rappresenta la prima documentazione archeologica dell’attività tintoria a Lucca, un aspetto finora noto solo dalle fonti storiche d’archivio; lo studio dei materiali e l’analisi dei tessuti e dei campioni raccolti (le analisi dei campioni e dei tessuti sono a cura del dott. Daniele Arobba, Museo del Finale – Istituto Internazionale di Studi Liguri), attualmente in corso, permetteranno di chiarire le diverse fasi di lavorazione e le scelte tecnologiche attuate nel pieno XVI secolo e nelle fasi immediatamente precedenti e successive. Elisabetta Abela, Neva Chiarenza, Maila Franceschini, Elena Rossi
Bibliografia Del Punta I., Rosati M.L. 2018, Lucca una città di seta. Produzione, commercio e diffusione dei tessuti lucchesi nel tardo Medioevo, Lucca.
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fig. 46 – L’abitato e la rocca di Lucchio visti da est. fig. 48 – Cartolina con fotografia della parte est della rocca che ne testimonia l’uso agricolo ad inizi Novecento.
fig. 49 – Materiali ceramici dal contesto US 204.
fig. 47 – Rilievo planimetrico della rocca di Lucchio (andamento dei paramenti interni) con posizionamento dei saggi di scavo 2019 (realizzazione di F. Stratta).
Lucchio (Bagni di Lucca). Valutazione del potenziale archeologico della rocca e dell’abitato 1. Premessa La cattedra di “Storia degli Insediamenti Tardoantichi e Medievali” dell’Università di Pisa (Prof. Enrica Salvatori con il coordinamento delle Dott. Monica Baldassarri e Letizia Chiti) in accordo con la Soprintendenza ABAP di Lucca e Massa Carrara (Dott. Neva Chiarenza), in seguito alla convenzione stipulata tra quest’ultima e il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere del medesimo Ateneo, tra settembre e ottobre 2019 ha realizzato una breve campagna di scavo e di rilievo delle murature della rocca, oltre che di studio degli elevati nell’abitato di Lucchio (Comune di
Bagni di Lucca, LU: fig. 46), con fini didattici. L’obiettivo di queste attività di ricerca e di insegnamento era di valutare il potenziale informativo dell’area della rocca e del borgo ad essa sottostante dal punto di vista storico e archeologico, oltre che di predisporre un rilievo aggiornato delle strutture murarie della fortificazione per valutarne eventuali e futuri progetti di consolidamento e recupero, dato l’evidente degrado delle stesse. Lo studio dell’abitato e dell’insediamento circostante è stato poi ripreso ed approfondito in occasione dell’elaborazione della Carta Archeologica del territorio comunale di Bagni di Lucca nel corso del 2021. N.C., E.S.
2. Lo scavo Considerati lo stato di conservazione delle strutture della rocca e le evidenze murarie più interessanti per tecnica costruttiva (AA.VV. 2012, Romiti 2016), è stato deciso di realizzare due piccoli saggi di scavo rispettivamente a ridosso del perimetrale nord-est (Area 200) e vicino al perimetrale meridionale della torre, situata all’angolo sud-est della fortificazione (Area 100) (fig. 47). Tali saggi hanno consentito di acquisire alcune informazioni utili sulle fasi finali di vita e utilizzo della struttura fortificata, permettendo inoltre la valutazione del suo potenziale informativo dal punto di vista archeologico (Indagini 2021). È stata verificata infatti la presenza di un
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SW
NE
humus 202
201
204 (non scavato)
203
204
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211
210 209
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206
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205 216
Rocca di Lucchio - LCH'19 Legenda Limite di scavo Limite struttura US negativa Sabbia Limo
0
0.5
1m
Argilla
fig. 50 – Sezione sud-ovest nord-est del saggio realizzato nell’Area 200 (realizzazione di L. Chiti).
apprezzabile e ben conservato interro sui lati nord-est e sud-est della rocca stessa, sebbene nel saggio meridionale (Area 100) i depositi sottostanti ai recenti Paleosuoli abbiano rivelato la presenza di una consistente quantità di elementi litici di dimensioni medio-grandi residui di crolli, attività di spoglio e spietramento, che rendono complesse le operazioni di scavo e di gestione del materiale di risulta. Dal punto di vista storico, lo scavo ha confermato l’uso agricolo dell’area sommitale a partire dal pieno Ottocento, come documentano in parte le fonti scritte che ne attestano il passaggio di proprietà ai Pacini nel 1826 e le fonti fotografiche di inizio Novecento (P.I: fig. 48). In precedenza, parte della rocca (cfr. Area 100) doveva essere andata soggetta a fenomeni di degrado delle strutture murarie e di spoliazione (dalle murature stesse o per attività di selezione dei crolli in situ o scomposti), avvenuti tra lo scorcio del XVIII e i primi decenni del XIX secolo (P.II). Né tra i reperti residui, né nella stratigrafia documentata sono state al momento rintracciate evidenze databili al pieno XVII e prima parte del XVIII secolo, come se in quel periodo la fortezza avesse visto una assai sporadica o cessata frequentazione. Lo scavo in entrambi i saggi è giunto alle ultime Paleosuperfici d’uso, databili al XV-XVI secolo (P.III): nell’Area 100 è stato documentato un piano di calpestio piuttosto rustico in terra battuta e forse da un gradino in pietra, mentre nell’Area 200 è stata messa in luce la superficie d’uso di un cantiere legato al rifacimento della parte sommitale del perimetrale nord-est della rocca (figg. 49-50). Non sappiamo se sia trattato di lavori di restauro non documentati dalle fonti scritte, o se possano annoverarsi fra gli ultimi interventi strutturali sul castello da parte della Repubblica di Lucca, attestati tra il 1645 e il 1648. Infine, sia le murature poste nella parte inferiore del muro
nord-est, sia quelle situate presso gli angolari della torre sono sicuramente anteriori agli ultimi strati raggiunti con lo scavo, e quindi antecedenti almeno al Quattrocento, come denotava già la tecnica muraria visibile, variamente datata tra pieno XII e XIII secolo. A conferma di ciò tra i reperti residui sono emersi anche rari frammenti ceramici riconducibili a tale lasso temporale. L’eventuale ampliamento dei saggi in oggetto e la prosecuzione degli scavi consentirebbero di comprendere meglio le vicende del complesso fortificato nella sua intera diacronia M.B., L.C.
3. La ricognizione di superficie L’abitato di Lucchio è stato oggetto di un’indagine di superficie che, secondo le metodologie proprie dell’archeologia dell’architettura e nel solco della pionieristica esperienza di “archeologia globale” dell’ISCUM (Mannoni 1984, Quirós Castillo 1992), ha consistito nello studio degli elevati e degli elementi architettonici, laddove il grado di leggibilità e conservazione lo hanno permesso, allo scopo di delineare un quadro preliminare delle dinamiche di insediamento nella diacronia e individuare le domande sulla base delle quali avviare uno studio più ampio in Val di Lima. La metodologia di ricerca ha previsto uno studio preliminare delle fonti scritte, archeologiche e cartografiche edite (Maresca 1975-1976; AA.VV. 2012, Romiti 2016), seguito dalla ricognizione sul campo con individuazione e schedatura di strutture ed elementi architettonici (portali, finestre ecc.) tramite schedatura veloce. Infine, si è proceduto all’analisi ed interpretazione dei dati tramite informatizzazione e inserimento su piattaforma GIS (figg. 51a-b). Per quanto riguarda i portali è stata costruita una crono-
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figg. 51a-b – Carta con localizzazione di EA ed UT schedate nell’abitato e distinte per macro-epoca.
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fig. 52 – Cronotipologia preliminare dei portali dell’abitato di Lucchio.
tipologia (fig. 52), sulla base della data incisa su alcuni di essi e dei confronti con studi in aree limitrofe. Sono stati individuati diversi portali databili al XV secolo, mentre la maggior parte è riferibile all’età moderna (XVI-XVII secolo), attestando lo sviluppo più tardo dell’abitato in un nucleo secondario lungo il versante sud-ovest. Questo studio, seppur in maniera preliminare, ha evidenziato una certa vivacità edilizia, con un dispiego non indifferente di risorse, in particolare tra Cinquecento e Seicento, nonostante le fonti definiscano questa zona come povera e colpita dalla peste, mostrando una discreta capacità di resilienza delle aree montane. Tale dato sembrerebbe in parte confermato dai reperti mobili rinvenuti in seguito
a lavori realizzati in alcuni edifici dell’abitato nei decenni passati, studiati in modo preliminare da Marco Milanese e Fausto Berti (Indagini 2021). L’attività costruttiva di età moderna ha probabilmente cancellato gran parte dell’abitato bassomedievale, che doveva essersi sviluppato lungo la viabilità tra la rocca e la chiesa. Tracce di strutture medievali sono emerse nei filari inferiori di edifici posti nella porzione est dell’attuale abitato, successivamente ricostruiti quasi completamente (UT 230-231). È da capire se tale fenomeno sia, almeno in parte, da attribuire a terremoti che hanno colpito queste aree montane in antico, i quali giustificherebbero la demolizione degli edifici quasi fino alla base (Terremoti con
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Schede epicentro in area garfagnina e sull’Appennino modenese, non lontano dalla Val di Lima, sono noti per gli anni 1414, 1464, 1536. Guidoboni et al. 2018). Sempre riconducibili a terremoti o alla volontà di ricordare la fine dei lavori edilizi a edifici privati, potrebbero essere anche alcune incisioni che attestano la datazione di ri-/costruzioni in età contemporanea (importanti terremoti sono stati registrati tra Garfagnana e Montagna pistoiese nel 1740, 1746, 1779 – Guidoboni et al. 2018 –, mentre danni recenti a edifici crollati o puntellati potrebbero riferirsi alle scosse del 1920 – La Nazione del 8/09/1920 –, oltre che del 1974). L’ampliamento degli studi su altri siti della valle permetterà maggiori confronti, oltre che una sistematica analisi delle dinamiche insediative in un’area marginale e di confine come la Val di Lima, soggetta ad una notevole continuità di frequentazione, da indagare maggiormente soprattutto per le fasi più antiche.
Mannoni T. 1984, Metodi di datazione dell’edilizia storica, «Archeologia Medievale», XI, pp. 396-403. Maresca P. 1975-1976, Lucchio: una metodologia di intervento in un centro antico montano, Tesi di Laurea, Università di Firenze, Facoltà di Architettura. Quirós Castillo J.A. 1992, Cronotipologia di portali nell’Alta Valdinievole: la montagna pesciatina (PT), «Archeologia Medievale», XIX, pp. 729-739. Romiti E. 2016, La valle dei castelli. Le fortificazioni delle antiche vicarie di Val di Lima, Coreglia, Barga, Gallicano e Diecimo, Lucca.
Provincia di PISA Pisa, Via F. Buonarroti. Rinvenimento di strutture pertinenti all’industria tessile “Pontecorvo” Nel mese di aprile 2022 sono stati effettuati lavori di ristrutturazione di un immobile privato al civico 2 di Via Buonarroti. Durante lo scavo per la posa dei tubi del gas, nel giardino, sono state individuate delle strutture pertinenti all’industria tessile “Pontecorvo” (fig. 53). I lavori sono stati eseguiti dalle scriventi sotto la direzione scientifica della dott.ssa C. Rizzitelli della SABAP – Pisa e Livorno. I resti più consistenti sono emersi nel tratto adiacente le Mura della città. Nella trincea, aperta a 1.70 m di distanza dalle Mura e larga mediamente 1 m, sono state individuate, a -25 cm dalla superficie, porzioni di vasche rivestite di cemento, uno scivolo, aree pavimentate, canalette in mattoni e murature con residui di intonaco (figg. 54, 55). Data la limitata larghezza della trincea, non è stato possibile definire nel dettaglio la complessità dei rinvenimenti, tutti comunque pertinenti all’attività della fabbrica tessile.
L.C. Monica Baldassarri, Neva Chiarenza, Letizia Chiti, Enrica Salvatori
Bibliografia AA.VV. 2012, Lucchio: le Pizzorne e i paesi che le circondano, Atti del convegno di studi «Lucchio: momenti di storia» (Lucca, 1 agosto 2009), Lucca. Guidoboni et al. 2018 = Guidoboni E., Ferrari G., Mariotti D., Comastri A., Tarabusi G., Sgattoni G., Valensise G., CFTI5Med, Catalogo dei Forti Terremoti in Italia (461 a.C.-1997) e nell’area Mediterranea (760 a.C.-1500), Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) (http://storing.ingv.it/cfti/ cfti5/) (ultima consultazione 28/03/202). Indagini sulla rocca, «Lucchioambiente, Notiziario soci», 51 (2021), pp. 3-6.
N
IMMOBILE PRIVATO EX CASA DEI DIRETTORI
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TRINCEA DI SCAVO
N FRAN CESCO
LIMITE PROPRIETA'
fig. 53 – La localizzazione dell’immobile con la pianta della trincea di scavo.
VIA F. BUONARROTI
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fig. 56 – Capannoni con lucernari della fabbrica “Pontecorvo” dietro l’abside della chiesa di San Francesco nel 1889 (da Lucchesi 2013).
nella ditta “Pellegrino Pontecorvo” fino al 1937 quando, lo stabilimento di Via San Lorenzo, venne acquistato dai Conti Marzotto e rimase attivo fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso. Nel 1972, dopo anni di abbandono, venne affittato all’Università di Pisa ed è attualmente sede dei Dipartimenti di Matematica, Fisica e Informatica. fig. 54 – Le vasche (a sinistra) e lo scivolo (in fondo) rinvenuti nella porzione nord.
fig. 55 – Le strutture rinvenute nella porzione sud (in primo piano un pozzetto e una canaletta).
Il settore tessile a Pisa: cenni storici A partire dal 1826 il settore tessile pisano ebbe un grande impulso grazie, soprattutto, all’opera di imprenditori stranieri che riuscirono a incrementare la lavorazione del cotone. Con la nascita del Regno d’Italia l’industria cotoniera venne fortemente ridimensionata per l’introduzione, a livello nazionale, di dazi sulle importazioni del cotone e per altri fattori determinati dalla nuova configurazione politica; ulteriori difficoltà per il settore si ebbero in seguito all’adozione della lira. Nonostante ciò, intorno al 1880, alcuni imprenditori reagirono alla crisi introducendo un forte processo di meccanizzazione. È in questo contesto che nel 1883 i Pontecorvo, romani di origine ebraica, rilevarono la fabbrica “Isach Vita Gentiluomo” trasformandola
Cronologia delle strutture Per la determinazione cronologica delle strutture individuate è stata analizzata la cartografia storica. Le strutture dell’industria tessile non compaiono nel Catasto Leopoldino del 1830 e nemmeno nella pianta della città redatta da Van Lint nel 1846. Il corpo di fabbrica più antico, limitato all’area adiacente Via San Lorenzo, compare nelle carte storiche del comune di Pisa relative alle strutture costruite tra il 1840 e il 1870 e nel piano Micheli del 1871; si presume pertanto che sia stato edificato tra il 1847 e il 1870. Negli anni compresi tra il 1870 e il 1900, grazie anche all’acquisto da parte dei Pontecorvo, la fabbrica venne ampliata fino ad addossarsi all’abside della chiesa di San Francesco (fig. 56). È in questo contesto che furono edificate anche le strutture rinvenute in Via Buonarroti 2, nel periodo di massimo sviluppo dello stabilimento. Nel 1937, in seguito all’acquisto da parte di Gaetano Marzotto, venne avviata un’importante ristrutturazione su progetto dell’architetto Gildo Valconi e il nuovo stabilimento tessile fu ricostruito negli spazi che occupa attualmente. In questa fase molte delle strutture della vecchia fabbrica, comprese quelle addossate all’abside della chiesa di San Francesco, vennero demolite. Nel 1944 i bombardamenti danneggiarono gravemente lo stabilimento; la successiva ricostruzione, terminata nel 1948, incluse la costruzione della ex Casa dei Direttori della fabbrica (immobile oggetto dell’attuale ristrutturazione) con la sistemazione dell’area esterna e del giardino. La Casa dei Direttori si inseriva in progetto più ampio relativo alla realizzazione del Villaggio Marzotto destinato ai dipendenti della fabbrica. Dall’osservazione delle carte storiche le strutture rinvenute risultano addossate alle Mura urbane per tutta la lunghezza e presentano invece un limitato sviluppo in larghezza. La presenza delle vasche e dello scivolo consente di ipotizzare che questi ambienti fossero destinati alla colorazione o al lavaggio dei tessuti.
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Schede Bibliografia Etzo T. 2012-2013, Voci dalla deindustrializzazione pisana. Tesi di laurea in scienze Politiche, Università di Pisa, Anno Accademico 2012-2013. Lucchesi G. 2013, Almanacco Pisano – notiziario cittadino dal medioevo ad oggi, Tomo I, Tg Book. Lupi P.L., Martinelli A. 1997, Pisa. Storia urbanistica, Pisa. Masetti A.R. 1964, Pisa storia urbana: piante e vedute dalle origini al secolo XX, Firenze. Giuditta Grandinetti, Irene Nizzi
Buti (PI), complesso storico di Castel Tonini. Sito pluristratificato con tracce di frequentazione dal Medioevo al XX secolo Tra novembre e dicembre 2021 i lavori di restauro conservativo del complesso di “Castel Tonini” a Buti (PI), voluti dall’amministrazione comunale (fig. 57), sono stati l’occasione di indagare un contesto il cui ricco palinsesto stratigrafico, articolato in cinque periodi di utilizzo, sembrava assecondare la parabola storica del sito nota dalle fonti, cui ha fornito supporto materiale e colmato le lacune. Già tra X e XII secolo (fase I) la collina dominante il Rio Magno accolse il castrum Buiti, pur menzionato negli inventari pisani non prima del 1340. Ne è stato esposto il settore produttivo, delimitato da spesse murature, nei cui ambienti erano alloggiati quattro sili di stoccaggio per derrate cerealicole, ad uno dei quali erano stati associati apparati lignei di difficile lettura (fig. 58); grazie all’analisi cronotipologica delle sezioni
fig. 57 – Castel Tonini, Buti (PI) – Panoramica sul complesso (da N-E).
di questi ultimi è stato possibile rialzare la datazione del complesso architettonico: erano infatti riconducibili a invasi del tipo “1a/cilindrico” e “1c/ovoidalo” della recente classificazione proposta da Ebanista, dove sono riferiti ai secoli dell’alto Medioevo e del Medioevo centrale, con probanti confronti anche in Toscana (Ebanista 2015, p. 475 ss.). L’assenza di tracce riferibili al basso Medioevo suggerisce che il complesso castrense restò in uso senza variazioni (fase II) sino alla fine del XV secolo, quando, in concomitanza con l’avvio del periodo di frequentazione più importante del sito (fasi III-V: fine XV-XX secc.), nel
fig. 58 – Castel Tonini, Buti (PI) – Particolare di uno dei sili terragni, con associazione di apparati deperibili indiziati da strutture negative.
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MARCHE Provincia di ASCOLI PICENO Cupra Marittima (AP). Sepolture di Età Moderna dalla Pieve di San Basso
fig. 59 – Castel Tonini, Buti (PI). Sezione volante con sili terragni medievali riconvertiti in rifiutaie in Età Moderna.
record archeologico si registra una cesura; tre dei quattro sili vennero dismessi e riconvertiti in pozzi di butto, ad uso forse dei nuovi occupanti fiorentini: il dato collima perfettamente con quanto noto dalle fonti, che nel 1496 riportano il saccheggio di Buti e la conquista della sua rocca per mano di Firenze. Fra i materiali scaricati nella rifiutaia indagata fra le tre è stato recuperato un ricco insieme ceramico cronologicamente omogeneo (fine XVXVI secolo), costituito da individui in giacitura primaria ricostruibili e pertinenti a forme in Maiolica arcaica tarda monocroma, con confronti specifici nel concentrico di Pisa (Giorgio 2011; Alberti, Giorgio 2013, p. 87 ss.), ed in Maiolica di Montelupo. In seguito, a metà del Seicento, il complesso venne acquistato e ristrutturato in una nuova veste barocca dai Tonini. Di questo evento, oltre che nelle fabbriche ancor’oggi visibili, resta traccia anche nell’evidenza archeologica. Le strutture murarie e negative preesistenti furono rispettivamente rasate e obliterate; l’ultimo silo rimasto in uso venne adibito anch’esso a pozzo di butto, dove vennero smaltiti gli scarti edilizi frutto delle demolizioni attuate e numerose ceramiche, le cui classi, in evoluzione cronologica lineare dal fondo della fossa sino all’ultimo riempimento, hanno chiarito la progressività delle operazioni di scarico: si assiste al passaggio da ceramiche ingobbiate monocrome, Slip Ware e ceramiche maculate a Taches Noires e terraglie (fig. 59).
1. Introduzione L’Insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università Ca’ Foscari Venezia lavora da alcuni anni sul territorio di Cupra Marittima, in particolare sul borgo di Marano (Gelichi, Ferri, Rucco 2022). Nel 2020 è stata avviata una collaborazione con la proprietà della Pieve di San Basso (signori Giuseppina Zaffiro e Alfredo Acciarri), un complesso architettonico dalla lunga e articolata storia posto a circa 800 m dal borgo, sul versante della collina retro-costiera adiacente (fig. 60). Gli scavi si sono svolti in regime di concessione di scavo (Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, DG-ABAP Decreto 1136 del 01/09/2020, direttore di scavo prof. Sauro Gelichi, funzionario incaricato dott.ssa Paola Mazzieri). Le indagini sono state svolte tra i mesi di giugno e novembre-dicembre 2021. L’area aperta a giugno si colloca a ridosso del perimetrale N dell’edificio di culto e si estende per circa 30 m². L’area indagata tra novembre e dicembre 2021 interessa, invece, le zone praticabili delle navate centrale e settentrionale; in questo caso l’estensione dello scavo ammonta a circa 60 m². L’obiettivo del progetto è duplice: 1) dettagliare la storia del complesso di San Basso raccogliendo informazioni non solo sulla fabbrica visibile ma anche su eventuali strutture precedenti; 2) studiare un campione di popolazione nel corso dei secoli attraverso la lente dei contesti funerari,
Claudia Rizzitelli, Diego Carbone
Bibliografia Alberti A., Giorgio M. 2013, Vasai e vasellame a Pisa tra Cinque e Seicento. La produzione di ceramica attraverso le fonti scritte e archeologiche, Pisa. Ebanista C. 2015, La conservazione del grano nel Medioevo: testimonianze archeologiche, in G. Archetti (a cura di), La civiltà del pane. Storia, tecniche e simboli dal Mediterraneo all’Atlantico, Atti del Convegno Internazionale di Studio (Brescia, 1-6 dicembre 2014), pp. 417-469. Giorgio M. 2011, L’ultima maiolica pisana: novità e aggiornamenti sulla produzione di maiolica arcaica a Pisa nel XV secolo, Atti del XLIII Convegno Internazionale della Ceramica, Albenga, pp. 215-227.
fig. 60 – Posizionamento delle aree menzionate nel testo.
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fig. 61 –Pianta di fine scavo all’interno dell’aula di culto.
fig. 62 –Sezione cumulativa (v. fig. 61 per posizionamento).
sia dal punto di vista dell’antropologia fisica, che da quelli paleo-dietologico, paleo-genetico e paleo-geografico. L’insieme delle informazioni ricavabili consentirà di ricostruire un segmento di storia paleo-bio-geografica di questo settore delle Marche, almeno dal Medioevo a tutta l’età Moderna. 2. Primi risultati Nel complesso, a oggi sono state indagate completamente 15 sepolture. Si sono documentate le seguenti modalità di inumazione: a) cassa laterizia abbinata a bara; b) bara in fossa terragna; c) sepoltura in nuda terra con sudario; d) seppellimento in contesto collettivo tipo sepoltura murata. Le tombe interessano principalmente la navata N mentre la sepoltura murata occupa una porzione di navata centrale. Quest’ultima è stata scavata per circa la metà e se ne prevede il completamento nel corso della prossima campagna. Nonostante i dati disponibili siano al momento troppo scarsi per poter effettuare uno studio approfondito sulla popolazione sepolta a San Basso, si possono comunque già osservare alcuni risultati. Escludendo la sepoltura murata, le 15 sepolture esaminate contengono un totale di 19 individui (16 adulti e 3 subadulti), in cui si riconoscono
3 individui di sesso femminile e 10 di sesso maschile. Riguardo l’età alla morte, la stragrande maggioranza degli inumati (13 su 19) ricade nella fascia tra i 20 e i 35 anni. Infine, la statura media si attesta a 168,66±3,78 cm per i maschi e a 154,68±4,05 cm per le femmine. Sulle ossa degli individui sono state riscontrate tracce di stress occupazionali e rari casi di fratture. Le tombe indagate all’interno della pieve presentavano elementi di corredo: si tratta di oggetti di ornamento (anelli), medaglie devozionali e rosari, elementi di vestiario. L’iconografia rappresentata su alcune medaglie devozionali (apertura della Porta Santa) e la presenza di gancetti per la chiusura del vestiario suggeriscono una cronologia preliminare di queste sepolture (in attesa dei risultati delle analisi del 14C) nella seconda metà del XVI secolo. Bibliografia Gelichi S., Ferri M., Rucco A.A. 2022, …Et nos, homines de Mariano, promittimus castello murare… Marano (Cupra Marittima – AP): campagne archeologiche 2018-2019, Sesto Fiorentino. Margherita Ferri, Tommaso Frattin, Alessandro A. Rucco
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fig. 63 – Piazza Rossini.
Provincia di PESARO-URBINO Frontino (PU), piazza Rossini. Nell’aprile 2021 i lavori di ripavimentazione di piazza Rossini a Frontino (PU) hanno permesso di individuare un’articolata serie di vani sotterranei, identificabili con spazi utilizzati per lo smaltimento di rifiuti in area urbana a partire quanto meno dal XVI secolo. L’attuale piazza Rossini ricade in un’area adibita fino alla metà del XX secolo ad orti domestici, tra alcune abitazioni e palazzo Vandini, attualmente Albergo Ristorante “La Rocca dei Malatesta”. A ridosso della facciata est di palazzo Vandini è stato individuato un primo vano quadrangolare (1,70×1,60 m, profondo circa 6 m). Questo vano, scavato nella roccia, presenta pareti con paramenti murari in blocchi e lastre di pietra di piccole dimensioni, non molto regolari, legate con calce. Le pareti recano tracce delle travi utilizzate per la realizzazione della struttura, in origine dotata di copertura voltata. Della volta è stato individuato il crollo, che ha interessato anche la parte superiore delle pareti del vano. Il riempimento, in assetto caotico, ha restituito numerosi frammenti ceramici, tra i quali i frammenti di boccale con parte di uno stemma a bande gialle e blu e l’aquila feltresca, riconducibile allo stemma della Famiglia del Montefeltro
fig. 64 – Alcuni frammenti ceramici trovati nel riempimento del vano. In alto a destra i frammenti del boccale con parte dello stemma della Famiglia del Montefeltro.
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fig. 65 – Gli ambienti ipogei individuati: 1. Lacuna nel muro perimetrale di Palazzo Vandini; 2. Vano 1 in corso di scavo; 3. Particolare del fondo del vano 1; 4. Vano 3 all’interno della cantina di Palazzo Vandini; 5. Particolare del vano 3; 6. Vano 4 in Piazza Rossini.
Il fondo del vano è realizzato con lastre di pietra posizionate di taglio e con andamento leggermente convesso, lasciando ipotizzare che si tratti dell’estradosso di una volta sottostante, forse appartenente ad un precedente vano per la raccolta dei rifiuti. Questa ipotesi viene avvalorata anche dalla presenza di una caditoia di conferimento inclusa nello spessore della muratura del superiore palazzo Vandini. Una consistente lacuna nel muro, in corrispondenza dei primi metri interrati, consente di apprezzare lo sbocco di immissione della caditoia dall’alto, ma anche la sua ulteriore prosecuzione verso il basso, superando la quota del livello basale del vano. Risulta pertanto concreta l’ipotesi della sottostante presenza di un’altra struttura. La contingenza del cantiere e la necessità di operare in sicurezza non hanno permesso la verifica di questo secondo vano, collocato a oltre 6 m di profondità. La lacuna nella muratura ha evidenziato inoltre un ulteriore ambiente inserito in corrispondenza dell’attuale cantina di palazzo Vandini, con piano di calpestio a una quota inferiore. Questo vano di piccole dimensioni era parzialmente voltato e servito da scale connesse con la cantina, completamente intonacato e con in piano pavimentale in mattoni. Questo vano è di fatto connesso, seppur in modo grossolano, con il profondo immondezzaio tramite la lacuna nel muro, forse anche a seguito di una fortuita riscoperta della struttura sotterranea.
Nella piazza, all’angolo nord-est del palazzo, è stato infine individuato un quarto vano rettangolare (3,20×2,50 m, profondo circa 2 m), anch’esso in origine voltato, intonacato e con il fondo in mattoni. Questa struttura risulta riutilizzata per l’allocazione della vasca Imhoff dell’albergo. Anche in questo caso è stata individuata una caditoia connessa alla struttura di palazzo Vandini, riutilizzata per l’inserimento delle tubature di conferimento per la vasca Imhoff. Lungo il lato sud di questo vano, nello spessore della muratura, si riconosce una seconda caditoia che, non confluendo nell’ambiente ora riutilizzato, prosegue verso il basso verso un plausibile quinto vano sottostante, che non è stato possibile indagare. La presenza di questo sistema ipogeo non può non rimandare alla leggenda locale circa la presenza di un passaggio sotterraneo che collegherebbe l’area del castello, dove si situa palazzo Vandini, al mulino alle pendici dell’altura. Strutture di tale natura non sono state individuate, tuttavia la dimostrata esistenza di un sistema di vani scavati anche a quote considerevoli potrebbe rappresentare il germe delle storie della tradizione locale. Bibliografia Allegretti G. (a cura di) 1990, Frontino. Storia di un microcosmo, Quaderni di Proposte e ricerche, 7, Villa Verucchio (RN). Agata Aguzzi, Diego Voltolini
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UMBRIA Provincia di PERUGIA Spoleto. Ricerche di archeologia carceraria presso la Rocca A partire dal 2007, il cortile nord della Rocca Albornoziana di Spoleto è stato oggetto di una serie di interventi di scavo ad opera della Fondazione CISAM, in collaborazione con la cattedra di archeologia medievale dell’Università di Roma Sapienza. L’area, nota dalle fonti come “Malborghetto”, era occupata da locali di servizio annessi alla rocca di XIV secolo, utilizzata come carcere già a partire dal XVIII secolo fino al 1984. Negli anni 2020-2021, nell’ambito di due ‘progetti di avvio alla ricerca Sapienza’ portati avanti dagli scriventi, le attività di studio si sono focalizzate sui materiali provenienti dalla cisterna del cortile. La struttura, orientata N-S, ha una pianta quadrangolare di circa 6,00 m per lato, coperta da una volta a botte e rivestita internamente da una malta idraulica tenace di colore giallastro. L’estradosso della volta era coperto da un poderoso strato drenante di sabbia e ghiaia fine, che accomuna la struttura alla tipologia delle cisterne filtranti, di cui troviamo riscontri nelle rocche di Asolo e di Montefiascone. Gli strati di riempimento della cisterna sono l’esito di una prolungata attività di smalti-
fig. 67 – Tavola illustrativa degli scarti di lavorazione. A destra, lastre e listelli di ossa bovine con circonferenze di diverso diametro, finalizzate alla produzione di diversi bottoni. A sinistra, ritagli in cuoio per la produzione di calzature e altri accessori.
mento dei rifiuti e hanno restituito una mole di materiali eterogenei databili dal XIV al XX secolo. Nello specifico, analisi al radiocarbonio sono state effettuate su scarti di lavorazione dell’osso e del cuoio, per chiarire la cronologia e la tipologia delle attività manifatturiere attestate nel carcere dalle fonti archivistiche nel corso del 1800 (Rossi 1983).
fig. 66 – Particolare della pianta della Rocca Albornoziana del 1794, da E.A. Stanco, I primi saggi di scavo nella zona della Chiesa di Sant’Elia: la campagna di scavi 1988, in Ermini Pani 2011.
fig. 68 – Tavola illustrativa dei prodotti finiti. A destra, curapipe di osso intagliato. Al centro, suola e puntale di tomaia con fori delle impunture. A sinistra, serie di bottoni dai più antichi ai più recenti, con graduale scomparsa del foro centrale, tra questi anche un bottone in conchiglia (in basso a sinistra).
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Schede Le analisi hanno confermato che il range cronologico dei campioni si attesta tra il XVIII e soprattutto il XIX secolo, dato confrontabile con i numerosi ritrovamenti legati all’archeologia del fumo nei medesimi strati: pipe in terracotta, per le quali è stata rilevata la stessa datazione tipologica (Brancazi, Previti 2021), e due pregevoli manufatti in osso intagliato, interpretabili come pigino da tabacco e curapipe. Lo studio delle attività artigianali e tessili nella Rocca si è dunque concentrata su un consistente nucleo di lastre e listelli di osso, traforati da parte a parte per estrarne tondelli circolari destinati alla produzione di bottoni. L’analisi è iniziata con un tradizionale approccio tipologico e morfometrico, registrando dettagli formali sul supporto (forma, spessore) e sui tondelli (distribuzione, diametro, combinazioni). Lo studio è stato esteso anche all’aspetto tecnologico, cercando di ricostruire dettagli sulla catena operativa attraverso la registrazione delle tracce macroscopiche di trattamento dei supporti e del taglio dei tondelli. È in programma l’estensione di tale indagine attraverso l’impiego di microscopia elettronica a scansione, esaminando sperimentalmente la reazione dell’osso a diversi strumenti. Sui supporti meno alterati, che presentano elementi diagnostici, si è proceduto con l’identificazione anatomica e tassonomica degli ossi impiegati, prevalentemente bovini. Anche in questo caso si è prospettato il ricorso ad analisi proteomica con tecnica ZooMS, in modo da ampliare la determinazione tassonomica dei resti ossei e di cuoio. Luca Brancazi, Giulia Previti
Bibliografia Brancazi B., Previti G. 2021, Small Daily Vices: A Group of Clay Pipes in Post-Medieval Spoleto, «Europa Postmedievalis» 2 (2020), Oxford, pp. 27-40. Ermini Pani L. 2011, Il Colle Sant’Elia e il futuro della Rocca a Spoleto. Atti delle giornate di studio (Spoleto, 12-13 marzo 2010), Spoleto. Rossi B. 1983, Fortezza, residenza, carcere. Contributi per la storia dell’uso della Rocca, in B. Bruni, M.C. De Angelis et al., La Rocca di Spoleto: Studi per la storia e la rinascita, Milano, pp. 103-130.
LAZIO Provincia di ROMA Roma. Contesti di età postmedievale dall’area del Foro di Cesare, una overview Le attività di scavo presso il foro di Cesare, promosse dalla collaborazione tra la Sovrintendenza Capitolina, l’Accademia di Danimarca (DIR) e Centre for Urban Network Evolutions presso la Università di Aarhus (Danimarca) iniziate nel marzo 2021 e precedute da una campagna di indagini preliminari nel 2019, hanno interessato il settore tra via Bonella e Via Cremona, in prossimità della zona della prima lottizzazione del quartiere Alessandrino (fig. 69). Gli interventi di scavo, ad oggi, hanno portato alla luce stratigrafie databili tra il fine VII secolo a.C. e i
fig. 69 – Foto degli edifici e dei resti relativi all’ultima fase del Quartiere Alessandrino. Foto: sovrintendenza capitolina – The Caesar’s Forum Project.
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fig. 71 – Il pozzo 1159 in fase di scavo. Photo: Sovrintendenza Capitolina – The Caesar’s Forum Project.
fig. 70 – Materiali provenienti dalla canaletta, fine XIX secolo-inizi XX secolo. Foto: sovrintendenza capitolina – The Caesar’s Forum Project.
primi decenni del XX secolo. Per quanto concerne le evidenze postmedievali, alcuni dei contesti più rilevanti sono riferibili ad attività correlate allo smaltimento dei rifiuti, alcune delle quali riferibili agli ultimi abitanti del Quartiere Alessandrino, in momenti precedenti alla demolizione degli edifici, avvenuta nel settembre del 1932 per ordine di Mussolini. Durante la rimozione del primo strato di interro, è apparsa evidente l’assenza di nuclei di materiali relativi alla vita quotidiana degli ultimi abitanti del quartiere, difatti, tale tipo di evidenza è prevenuta solamente da due contesti chiusi, una fogna e una canaletta, strutture fisicamente inaccessibili agli abitanti, e non intaccati dalle operazioni di demolizione che non interessarono gli scantinati; Il riempimento delle due strutture conservatosi quindi integro, ha restituito un cospicuo nucleo di materiale databile tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, tra cui si segnalano manufatti in porcellana e terraglia, stoviglie da cucina, accessori per la tavola e il vestiario oltre a oggetti in vetro, tra i quali spicca una bottiglia medica da Farmacia della Maddalena in Via Rosetta 6 (fig. 70). La tipologia dei materiali, suggerisce una loro provenienza da ambienti diversi e con funzionalità d’uso differenti. A seguito della completa rimozione dei piani pavimentali delle unità abitative, è stato possibile evidenziare un complesso sistema di vasche e di pozzi, indice di una differente destinazione d’uso dell’area nel corso del XIX secolo (fig. 71). Tra le evidenze in questa sede si segnala il pozzo 1159 (struttura di forma quadrangolare misurante c.a. 1,60 m per lato e profondo 5,90 m), i cui riempimenti sono stati scavati nella loro interezza. Dopo la rimozione di uno primo strato di obliterazione, sono state individuati
fig. 72 – Micro-vasetti provenienti da uno dei riempimenti della struttura 1154. Photo: Sovrintendenza Capitolina – The Caesar’s Forum Project.
due differenti riempimenti associabili alle ultime fasi di funzionamento della struttura. Tra il materiale ceramico si rileva un cospicuo numero di frammenti di ceramica invetriata, alcuni dei quali databili al XVIII secolo e maiolica di produzione romana riferibile al medesimo orizzonte cronologico; tra i materiali d’uso domestico si rileva una grande abbondanza di manufatti in ferro quali forchette, cucchiai e coltelli unitamente ad alcune chiavi, mentre il materiale numismatico è sostanziato da alcune monete tra le quali spiccano le emissioni papali di Papa Pio VII (1800-1823) e di Papa Pio IX (1846-1878). Una dinamica differente di accumulo è invece documentata dalle evidenze provenienti da un contesto chiuso e pluristratificato, formatisi a seguito dello sfruttamento di discendenti fittili per lo smaltimento dei rifiuti all’interno di una struttura rettangolare voltata in laterizi e blocchi di tufo (1154).
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Schede I materiali documentati sono da riferire a un butto di tipo medico formatosi attorno la seconda metà del XVI secolo. I reperti ceramici si costituiscono di ceramica invetriata (pignatte di piccola e media dimensione), di maiolica (piatti di produzione ligure, romana e toscana) e di micro-vasetti (fig. 72), mentre per quanto riguarda i materiali vitrei, numerosissime sono le bottiglie mediche e gli urinali. A questo breve cenno, si segnala, infine, la presenza di vaghi di rosario e due fuseruole, unitamente a due monete riferibili a Papa Leone X (1513-1521) e Giulio III (1550-1555). Laura di Siena, Jan Kindberg Jacobsen, Giovanni Murro, Claudio Parisi Presicce, Rubina Raja, Massimo Vitti
La Torre di Prima Porta sulla via Flaminia Al km 13 della via Flaminia, in una lente di paesaggio ancora superstite nella massiccia urbanizzazione circostante, si erge su una collina la torre di prima Porta (fig. 73). Le indagini archeologiche intraprese dalla Soprintendenza fin dal 1983-1985 (le indagini sono state condotte da Gaetano Messineo) su questo rilievo che si trova di fronte la famosa Villa di Livia hanno svelato un sito straordinario che non ha avuto una felice sorte perché, con lo sviluppo progressivo della borgata di Prima Porta, la collina è diventata preda di lavori abusivi crescenti che hanno determinato una situazione di degrado compromettendo in gran parte evidenze archeologiche di eccezionale rilievo. Già le prime campagne di scavo avevano portato alla luce una serie di strutture, cisterne, pozzi, gallerie ed una grande quantità di materiali che documentano la lunga frequentazione del sito almeno dal VII secolo a.C., quando era forse sede di un pagus etrusco, e per tutta l’età repubblicana,
quando fu interessato da attività cultuali forse pertinenti ad un santuario e fu sede di un insediamento residenziale vissuto fino all’età imperiale (Messineo 1991, pp. 203208). Testimonianza dell’insediamento di età repubblicana sono una serie di strutture in blocchi di tufo, ortogonali tra loro e messi in opera a secco, che delimitano un grande ambiente quadrangolare nella parte sud-orientale della sommità della collina, mentre nella metà meridionale del vano erano stati individuati due pozzi comunicanti con una sottostante cisterna d’acqua ricavata nel tufo e completamente rivestita di cocciopesto. Nel versante orientale della collina erano venute alla luce altre strutture in blocchi e quattro muri rettilinei con un paramento in opera incerta, interpretati come corridoio sostruttivo e rampa di accesso alla sommità. Tra il 2012 e il 2014 lo scavo è stato ripreso in modo sistematico dalla Soprintendenza nell’ambito di un progetto di recupero della collina e della torre non ancora portato a compimento (le campagne di scavo sono state seguite da Davide Ivan Pellandra). Oltre ad individuare un’ulteriore serie di fosse, canali, pozzi e cisterne che hanno restituito
fig. 74 – La torre realizzata con materiali di spoglio (foto di G. Messineo).
fig. 73 – La cosiddetta torre di Orlando sulla collina di Prima Porta oggi (foto autore).
fig. 75 – Le strutture in blocchi di età repubblicana obliterate dalla torre rinascimentale (da Messineo 1991).
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fig. 76 – La torre in un’acquatinta del 1865 che illustra la scoperta e il recupero della statua di Augusto della villa di Livia (da Messineo 1991).
fig. 77 – La torre e la collina in una foto del 1870 (da Tomassetti 1913).
un’altra ingente messe di materiali, è stata nuovamente esposta la struttura principale presente sulla sommità, molto erosa dalle attività antropiche moderne. La sua planimetria è stata ampliata e aggiornata individuando 8 vani o spazi delimitati da murature in blocchi. Nonostante la pianta d’insieme del complesso sia difficilmente ricostruibile, è comunque ipotizzabile uno schema con ambienti simmetrici rispetto ad un vano o corridoio centrale. Le strutture in blocchi erano parzialmente obliterate dalla torre realizzata nel XVI secolo e costruita prevalentemente con materiali di spoglio delle strutture più antiche (figg. 74-75). Essa, nota come Torre d’Orlando, viene citata per la prima volta in un documento del 1368 e poi nel 1518 (Tomassetti è il primo a descriverla e ad identificarla come torre d’Orlando, datandola al XVI secolo (Tomassetti 1913, p. 337; egli cita i due documenti, di cui il primo si riferisce alla vendita di una grotta «seu antrum puzolanae», ipoteticamente identificabile con la lunga, larga e alta forma di un acquedotto, che si sviluppava nel sotterraneo della collina, ricordata da alcuni storici nei pressi dell’Arco di Prima Porta), rappresentata sulla Mappa di Eufrosino della Volpaia del 1547 (Ashby 1914) e nel Catasto Alessandrino, in una acquatinta del 1865 che illustra la scoperta della statua di Augusto nella vicina villa di Livia (Cacchiatelli, Cleter
fig. 78 – Il prospetto della torre e delle strutture idrauliche sottostanti (disegno di M. Sabatini).
fig. 79 – Il lato posteriore della torre (foto autore).
fig. 80 – Piatto in maiolica di stile compendiario con stemma sul bordo rappresentante la Prima Porta. Fine XVI-prima metà XVII secolo (foto autore).
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Schede 1875, tav. 73) (fig. 76), in un disegno del 1891 (disegno di C. Nispi Landi) e nelle fotografie di fine ’800-primi del ’900, come quella del 1870 (Tomassetti 1913, p. 331) (fig. 77). La torre, conservata nei primi due piani con un terzo parzialmente diroccato, fu inizialmente realizzata come torre di avvistamento e di guardia dell’accesso della valle del Tevere e delle vie Flaminia e Tiberina e nella prima fase aveva una pianta quadrangolare ed era dotata di tre piani. In un secondo tempo fu aggiunto un avancorpo di ingresso e una scalinata di accesso esterno ai piani superiori (figg. 78-79). Sull’imposta del terzo piano una cornice di mattoni e nicchie a risparmio sulla muratura indicano che, probabilmente dopo il XVIII secolo, la torre ebbe la funzione di colombaia. Le vicende contemporanee hanno deteriorato in modo consistente il suo aspetto che, tuttavia, ancora oggi costituisce un segno suggestivo del paesaggio del territorio a nord di Roma. Tra i materiali postmedievali recuperati nel corso delle indagini archeologiche spicca un piatto in maiolica di produzione romana con ampia tesa, cavetto poco profondo, orlo con una lieve scanalatura sul bordo esterno e piede ad anello poco rilevato (Ricci 2014, p. 30, IV. 1.41-42) (fig. 80). Questo può essere incluso nei serviti con stemmi sul bordo che a Roma compaiono dopo gli ultimi anni del Cinquecento-primo quarto del secolo successivo, ma la forma e la decorazione lo assegnano alla metà del XVII secolo. In realtà non si tratta di un vero e proprio stemma ma l’arco è tracciato sulla tesa occupandone tutta la larghezza. L’intradosso interno è tratteggiato in arancio/bruno, le basi e lo spessore dell’arcata sono evidenziate da segmenti paralleli dello stesso colore, con lo spazio intermedio campito di blu, che forse simulano graficamente il sistema delle nervature a catene di mattoni caratterizzanti la struttura dell’arcata; la chiave di volta centrale è sopraelevata e appuntita. La struttura poggia su terreno reso con pennellate in blu diluito, sotto cui è riportato il numero romano I tra due apici, un chiaro riferimento a Prima Porta. Tale rappresentazione sul piatto assume particolare rilievo storico e topografico perché costituisce un’ulteriore attestazione della presenza in quel luogo di un arco/porta di ingresso nel borghetto di Prima Porta, sotto cui passava la via Flaminia, così denominato almeno dal 1225 proprio per la presenza dell’arco (Messineo 2004, p. 257) e luogo di grande valenza storica fin da età romana ma soprattutto in età costantiniana quando vi transitarono le truppe di Costantino dirette verso il ponte Milvio. L’arcata potrebbe forse essere interpretabile come un arco onorario con funzione di porta di ingresso in un luogo divenuto villaggio nel Medioevo. Resta da verificare la provenienza più attendibile dell’esemplare, fino ad oggi ritenuto pertinente alla torre ma che invece potrebbe riferirsi all’osteria di Prima Porta sottostante alla torre. In tal senso lo stemma potrebbe connotare il servizio realizzato su commissione, composto da questo ed altri esemplari non rinvenuti. Diversamente, se effettivamente fosse pertinente alla torre sulla collina, potrebbe essere stato commissionato ed utilizzato dalla guarnigione di guardia.
Messineo G. 1991, La via Flaminia da Porta del popolo a Malborghetto, Roma, con bibliografia. Messineo G. 2004, Flaminia via, in V. Fiocchi Nicolai, M.G. Granino Cecere, Z. Mari (a cura di), Lexicon Topographicum urbis Romae Suburbium II, pp. 252-259. Ricci M. 2014, Museo Nazionale Romano-Crypta Balbi. Ceramiche medievali e moderne III. Dal Seicento all’Ottocento (16101850), Roma. Tomassetti G. 1913, La Campagna Romana antica, medioevale e moderna, III, Roma. Barbara Ciarrocchi
Arco e Casale di Malborghetto sulla via Flaminia La via Flaminia poco oltre il XIII miglio (km 19,400) incrociava una strada di collegamento tra l’ager Veientanus e le cave di tufo di Grotta Oscura nella valle del Tevere. Qui, all’interno di un territorio che ha conservato l’antico aspetto rurale, si trova il complesso monumentale di Malborghetto (fig. 81), importante testimonianza della trasformazione storica del territorio a nord di Roma e di un decisivo momento della storia universale (fig. 82). L’edificio ha inglobato un monumentale arco quadrifronte della prima metà del IV secolo d.C. con una struttura in laterizi in origine rivestita da lastre di marmo bianco. Due coppie di colonne corinzie ornavano i prospetti principali più ampi sull’asse della Flaminia che correva al suo interno, ancora visibile, e sostenevano la sovrastante trabeazione. Glie elementi di cornice e architrave, in parte ancora in posto ed in parte recuperati nell’area circostante, hanno consentito una fedele ricostruzione (fig. 83). L’arco raggiungeva un’altezza di 18 m con una pianta di 15×12 m ed era caratterizzato da un alto attico su cui potevano essere collocati elementi scultorei. Nella linearità e sobrietà del suo aspetto l’arco doveva risultare un elemento abbagliante e sontuoso pressoché isolato in questa porzione di campagna romana, certamente nato con un intento celebrativo. Nel tempo è stata infatti avanzata la suggestiva ipotesi che esso fosse stato realizzato in ricordo del luogo in cui Costantino si accampò la notte prima della battaglia contro Massenzio al Ponte Milvio, unico evento storico di rilievo avvenuto agli inizi del IV secolo d.C. nel territorio a nord di Roma. La vittoria di Costantino fu celebrata a Roma con la realizzazione dell’arco presso l’anfiteatro Flavio, questo secondo arco sarebbe stato eretto nel luogo dove l’imperatore ebbe la
Bibliografia Ashby T. (a cura di) 1914, La campagna romana al tempo di Paolo III: mappa della campagna romana del 1547 di Eufrosino della Volpaia, Città del vaticano. Cacchiatelli P., Cleter G. 1875, Le scienze e le arti sotto il pontificato di Pio IX, II Roma.
fig. 81 – Il complesso monumentale di Malborghetto (foto S. Sansonetti).
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fig. 82 – La localizzazione del sito (foto autore).
fig. 83 – La ricostruzione dell’arco (da Messineo 1989).
visione della Croce e la certezza della vittoria, come riportato dagli autori antichi. In ogni caso la sua realizzazione deve essere legata alla figura di Costantino e al simbolismo religioso che con lui prevalse a Roma e nel territorio. La connotazione religiosa e spirituale è infatti rimasta nel tempo un tratto distintivo del complesso monumentale. L’arco nei secoli ha infatti subìto numerose trasformazioni ancora leggibili nella sua struttura grazie al restauro effettuato dalla Soprintendenza archeologica di Roma, preceduto da campagne di scavo negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso (le indagini del 1989 sono state condotte dalla Società Cooperativa Archeologia – cfr. Bossman 1993, pp. 305-306, quelle successive da F.M. Tommasi – Tommasi 2005, pp. 365-377). Nell’XI secolo i quattro fornici furono chiusi, l’arco venne trasformato in una torre merlata ed al suo interno si installò una piccola chiesa a croce greca dedicata alla Vergine, circondata da sepolture, di cui rimane visibile una parete con due piccole finestre e l’abside sul lato orientale (figg. 84-85). La chiesa non è menzionata nei documenti del XIII secolo che ricordano invece un palatium posto all’interno di un borgo fortificato con doppia cinta
fig. 84 – La parete con le finestre della chiesetta medievale (foto S. Sansonetti).
e case basse denominato Burgus de Santi Nicolai de Arcu Virginis. Il fortilizio dal 1278 fu parte del Capitolo di San Pietro per molti secoli e nel XV secolo era già dotato di un hospitium perché era un luogo di sosta e incontro tra Papi, cardinali, prelati e nobili del territorio, che hanno lasciato traccia del loro passaggio nelle suppellettili di uso personale qui rinvenute. Probabilmente in questo periodo l’edificio e il borgo subirono danni tali da effettuare dei restauri, vista la definizione di Malborgetto, che compare in una carta del 1471 (Messineo 1989, p. 13, fig. 5), e di
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fig. 87 – Malborghetto oggi (foto autore).
fig. 85 – L’abside della chiesetta (foto S. Sansonetti). fig. 88 – Incisione di Israël Silvestre (1621-91) (da Messineo 1989).
fig. 86 – L’iscrizione su mattonelle del 1567 (foto S. Sansonetti).
Burghettum Novum in un documento degli stessi anni. Il cronista Stefano Infessura riferisce che nel 1485 il borgo, presidiato dai Colonna sostenitori di Innocenzo VIII, fu distrutto dagli Orsini con gli armati del castrum Scrophani, le case furono incendiate e le fortificazioni parzialmente distrutte (Infessura 1890). Da allora si trasformò in un insediamento rurale e l’edificio in un casale denominato ancora “Malborghetto” o “Borghettaccio”. Dal 1495 la Chiesa concesse periodicamente in affitto la tenuta e il casale, al cui piano terreno dal 1504 era in funzione una taberna con hospitium per le persone di passaggio. Nel 1507 l’apertura da parte della Compagnia dei Corrieri Veneti dei primi servizi postali nei territori dello Stato Pontificio,
fig. 89 – Piatto in maiolica di stile compendiario con stemma centrale rappresentante Ponte Felice. Ultimo terzo XVI-primo quarto XVII secolo (foto autore).
per il collegamento di Roma con Venezia, interessò sulla Flaminia la tratta da Castelnuovo di Porto a Roma che passava per Malborghetto (Capannolo 2012, pp. 29-30). Ciò incrementò notevolmente il tragitto di uomini, mezzi e merci attraverso la Flaminia specie dalla seconda metà del ’500 per il fenomeno del pellegrinaggio. Questo era infatti il percorso più battuto per raggiungere il Santuario Mariano di Loreto nelle Marche (il ritrovamento nei pressi
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Schede del casale di Malborghetto di una medaglietta devozionale cinquecentesca nel corso degli scavi del 1990, oggi esposta nell’Antiquarium, e di una sepoltura a fossa di un pellegrino con un crocefisso e monete della zecca di Ancona, in viaggio verso Roma dall’Adriatico nell’anno giubilare del 1575, rappresentano importanti testimonianze dell’uso della Flaminia come percorso di pellegrinaggio – Iannaccone 2014). Nel 1562 risulta affittuario l’aromatario milanese Costantino Petrasanta che nel 1567 compì i lavori di restauro previsti nel contratto, ricordati nell’iscrizione dipinta su mattonelle apposta sul lato sud dell’edificio, ancora oggi visibile (fig. 86), dando all’edificio l’aspetto che conserva ancora oggi (fig. 87). Una incisione di Israël Silvestre (162191) (fig. 88) e un disegno di De Moucheron (1633-1686) (Venier 2012, p. 26) restituiscono l’aspetto del casale nel XVII secolo, costituendo le uniche immagini conosciute prima del XIX (per le immagini del XIX secolo si veda Töbelmann 1915; Tomassetti 1979, pp. 340-344). La cartografia storica del XVI e XVII (Messineo 1989, pp. 10-18) offre invece preziose indicazioni per la conoscenza dell’estensione della tenuta, la conformazione del borgo e del casale inserito nella rete di osterie che dal XVI secolo costeggiavano la Flaminia, come indicato nel Catasto Alessandrino del 1660 (ibid., fig. 10). Nel corso del XVII secolo l’edificio venne abbandonato per un periodo e nel XVIII occupato dai briganti. Nel 1742 il Capitolo di San Pietro affittò il casale, dotato allora di una stalla e di una chiesa, alle Poste Pontificie che ne fecero una stazione di mezza posta tra Prima Porta e Castelnuovo di Porto rimasta attiva fino al 1788 quando Pio VI soppresse il servizio postale lungo la via Flaminia spostandolo sulla Cassia. Dopo il 1870 il casale passò a proprietari privati, poi alla Congregazione per la Preservazione della Fede, finché Bernardino Sili lo donò nuovamente alla Chiesa da cui lo Stato Italiano l’ha acquistato nel 1982 con l’intento di recuperare, valorizzare e rendere fruibile il monumento che da allora ospita il Museo del territorio ed espone i reperti lì rinvenuti. Nel corso dei lavori di scavo della Soprintendenza, all’interno dell’edificio è stato scoperto un piccolo vano seminterrato, forse la cripta della chiesetta medievale, più volte abbandonato perché vi confluiva l’acqua piovana. L’ambiente era ricolmo di moltissimo materiale databile tra il ’500 e il ’700 pertinente alle fasi di vita del casale e dell’osteria che occupava due salette attigue del piano terra accessibili dalla strada. Le indagini archeologiche hanno evidenziato che il materiale veniva prelevato da pozzi esterni all’arco e scaricato nell’ambiente sotterraneo. Tra le ceramiche recuperate, parzialmente esposte negli anni ’90 nel Museo di Malborghetto e in parte edite (per le edizioni dei materiali si veda Messineo 1994, pp. 43-47; Id. 1998; Cerrito, Tommasi 2009, pp. 255-63; Ciarrocchi 2020a, pp. 59-66; Ead. 2020b, pp. 53-61; Ead. 2021, pp. 59-66; Ead. 2022, pp. 50-56), sono attestate in grande quantità le maioliche rinascimentali prevalentemente di produzione locale ma anche di importazione, che rivestono un grande interesse poiché si riferiscono ad aspetti particolari della vita del monumento ed ai consumi della popolazione che qui transitava. Tra i materiali spicca un piatto in stile compendiario di produzione alto-laziale databile all’ultimo terzo del XVIprimo quarto del XVII secolo con stemma al centro del cavetto, che reca nella metà inferiore un ponte a quattro arcate sopra un corso d’acqua agitato, in quella superiore
tre stelle gialle ad otto punte (fig. 89). È plausibile ritenere che sia rappresentato il Ponte Felice realizzato da Papa Sisto V (1585-1590) nel territorio di Magliano Sabina, nei pressi del porto di Gallese, di grande importanza in età postmedievale poiché era l’unico punto di attraversamento del fiume a nord di Roma dopo Ponte Milvio (Pastura 2017, p. 43). La costruzione del ponte fortemente voluto dal Papa evitò il disagio del viaggio a coloro che viaggiavano a nord di Roma (Costantini et al. 1999, p. 249) lungo la Flaminia verso il santuario di Loreto (Pulcini 1993, p. 20), sul cui percorso si trovava il casale e l’osteria di Malborghetto. Il piatto costituirebbe quindi un’ulteriore testimonianza archeologica di un percorso, dei luoghi incontrati dai pellegrini e dell’importanza storico-religiosa che il Casale di Malborghetto continuò ad avere anche in età post-antica. Bibliografia Bossman F. 1993, Viabilità ed insediamenti lungo la via Flaminia nell’Alto Medioevo, in L. Paroli, P. Delogu, La storia economica di Roma nell’Alto Medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici, Atti del Seminario (Roma 2-4 aprile 1992), Firenze, pp. 295-308. Capannolo L. 2012, Il servizio postale lungo la via Flaminia, in C. Calci, La via Flaminia ai Due Ponti, Roma, pp. 29-34. Cerrito A., Tommasi F.M. 2009, Casale Malborghetto (via Flaminia km 19): materiale dallo scavo dell’area a sud-est dell’arco quadrifronte, in E. De Minicis (a cura di), Le ceramiche di Roma e del Lazio in età medievale e moderna, VI (2009), Roma, pp. 255-263. Ciarrocchi B. 2020a, Ceramica dal casale e osteria di Malborghetto (Roma-via Flaminia, km 19,400). I serviti bianchi. Forme, funzioni, cronologia, Atti del LII Convegno Internazionale della ceramica, Firenze, pp. 59-66. Ciarrocchi B. 2020b, Contesti di vita dal suburbio nord di Roma tra il XVI e il XVIII secolo: il casale di Malborghetto (via Flaminia km 19,400 e le Due Case (Via Flaminia, loc. Labaro), in M. Giorgio (a cura di), Storie (di) Ceramiche 6. Commerci e consumi, Firenze, pp. 53-61. Ciarrocchi B. 2021, La ceramica invetriata post-medievale dall’osteria di Malborghetto (Roma-Via Flaminia km 19,400): forme, consumi e alimentazione tra XVI e XVIII secolo, Atti del LIII Convegno Internazionale della ceramica, Firenze, pp. 59-66. Ciarrocchi B. 2022, La ceramica come fonte iconografica e di conoscenza: due piatti in maiolica in stile compendiario dal territorio nord di Roma (Malborghetto e Torre/Osteria di Prima Porta), in M. Giorgio (a cura di), Storie (di) Ceramiche 8. Fonti scritte e iconografiche, Firenze, pp. 50-56. Costantini et al. 1999 = Costantini A., De Meo A., Colosi F., Gabrielli R., Il Tevere e il suo antico corso, «Archeologia e Calcolatori», n. 10, pp. 249-273. Iannaccone A. 2014, Recenti rinvenimenti lungo la via Flaminia, «Bollettino di Archeologia online», V/1, pp. 29-40. Infessura S. 1890, Diario della città di Roma, Roma. Messineo G. (a cura di) 1989, Malborghetto, Roma. Messineo G. 1994, Ceramica dal Casale di Malborghetto, in E. De Minicis (a cura di), Le ceramiche di Roma e del Lazio in età medievale e moderna, I, Roma, pp. 43-47. Messineo G. 1998, Malborghetto, il monumento e l’Antiquarium, Roma. Pastura G. 2017, Tra Monti Cimini e Tevere. Forme dell’insediamento tra VI e XII secolo, Viterbo. Pulcini G. 1993, Civita Castellana. Città trimillenaria, III, Civita Castellana.
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Schede Töbelmann F. 1915, Der Bogen von Malborghetto, Heidelberg. Tommasi F.M. 2005, Via Flaminia, km 19 (Casale di Malborghetto). Scavo di un settore presso l’angolo sud-est dell’arco quadrifronte (Municipio XX), «Bollettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», CVII, pp. 365-377. Tomassetti G. 1979, La Campagna Romana antica, medioevale e moderna, III, Roma. Venier A. 2012, Identificato un nuovo disegno di Malborghetto, in C. Calci, La via Flaminia ai Due Ponti, Roma, pp. 25-27. Barbara Ciarrocchi
Provincia di VITERBO Cencelle. I materiali ceramici della cisterna della chiesa di S. Pietro Le indagini archeologiche condotte presso Cencelle dalla cattedra di Archeologia Medievale dell’Università di Roma Sapienza hanno reso possibile l’analisi stratigrafica di una cisterna collocata ad ovest della chiesa di San Pietro, area di culto costruita in concomitanza alla fondazione della città (metà del IX sec.). Quest’ultima, com’è noto, venne riorganizzata in età comunale e abitata sino al XV secolo
quando fu convertita in azienda agricola per essere poi abbandonata nel ’600 e subire sporadiche frequentazioni sino ai nostri giorni. La struttura in esame, indagata dal 2016 al 2018, ha una pianta di forma trapezoidale (3,55×6,00×3,07×5,68 m) orientata nord-sud con profondità massima di 4 m. La volta è a botte e gli archi in corrispondenza delle tamponature a tutto sesto (fig. 90). Grazie allo studio dei suoi materiali, condotto nel corso del 2021, è stato possibile riconoscere sei fasi di vita delle quali quelle maggiormente associabili a materiali archeologici risultano essere di defunzionalizzazione e abbandono. Le prime tre si collocano tra il IX e il XVI secolo e fanno riferimento all’utilizzo della cisterna in funzione (fase 1 e 2), e al suo utilizzo come ambiente con pavimentazione in trachite, legato al contesto della chiesa e con questa comunicante tramite un’apertura sul lato est (fase 3). Nel corso della quarta fase (XVI-XVII sec.) l’ambiente subisce delle ristrutturazioni mentre in quella successiva (post XVIII sec.) si osserva la creazione di un foro circolare sulla volta a botte funzionale alla fuoriuscita dei fumi del focolare collocato nella porzione nord-ovest della cisterna e costituito da un semicerchio di trachite. Nel corso del XIX secolo l’ambiente viene infine defunzionaliz-
fig. 90 – Rilievo photoscan della cisterna nel 2016 ad inizio scavo (a-b) e nel 2018 a fine scavo (c-d).
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Schede
fig. 91 – Grafici dei rinvenimenti ceramici relativi ai frammenti (a) e agli individui minimi (b).
zato e riempito di materiali di scarto cui fanno riferimento la quasi totalità dei frammenti ceramici rinvenuti (fig. 91.a) associabili a 39 individui minimi (fig. 91.b). Tra questi, unitamente ad alcuni frammenti di ceramiche invetriate evidentemente moderne ma afferenti a produzioni autoctone e poco note, spicca la vetrallese (metà XVII-prima metà XIX sec.) prodotta nell’areale alto laziale (Vetralla e Vasanello) e associabile a 8 olle (fig. 92.a-b), 4 coperchi (fig. 92.c), 2 catini (fig. 92.d), un tegamino e 3 forme aperte non definite di cui una con decorazione sul fondo esterno. Allo stesso periodo si data la maiolica moderna rinvenuta in 5 esemplari (fig. 92.e) tra i quali
un catino apodo decorato con il motivo “fiore di Roma” (XVII-XVIII) (fig. 92.f ). Segue, per quantità, la terraglia rappresentata da 4 piatti (fig. 92.g-h) e un fondo di forma aperta sul quale è visibile il logo Richard-Ginori (Pisa) ed il relativo prezzo in lire pari a 3,20 (fig. 92.g). Il piatto sembra databile tra la fine del XIX secolo (fusione dele due aziende nel 1896) e il primo ventennio del ’900 (dato il prezzo). Sebbene risultino mescolati a materiali moderni potrebbero essere associabili alle fasi 1 e 2 un frammento di forum ware di X-XI secolo (fig. 92.i), 7 frammenti di parete di Maiolica Arcaica, 8 frammenti di invetriata da fuoco e due orli di acroma da fuoco (fig. 92.l-m).
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Schede
fig. 92 – Ricostruzione grafica di alcuni individui ceramici rinvenuti nella cisterna: vetrallese (a-d), maiolica moderna (e-f ), terraglia (g-h), forum ware (i), acroma da fuoco (l-m).
Bibliografia Barone N. 2015, Materiali ceramici d’età rinascimentale e moderna provenienti dalla crypta della chiesa di Leopoli-Cencelle, in F.R. Stasolla, G.M. Annoscia (a cura di), Le ceramiche di Roma e del Lazio in età medievale e moderna (VII), La polifunzionalità della ceramica medievale, Atti del VII Convegno di Studi (Roma-Tolfa, 18-20 maggio 2009), Roma, pp. 189-206. Doronzo G. 2019, L’approvvigionamento idrico a Leopoli-Cencelle (Tarquinia, VT), elaborazioni geomorfologiche e territoriali, in P. Moscati, P. Gross (a cura di), «Archeologia e calcolatori», 30, Firenze, pp. 503-506. Ermini Pani L. 2008, Condurre, conservare e distribuire l’acqua, in L’acqua nei secoli altomedievali. LV Settimana di studio del CISAM (Spoleto, 12-17 aprile 2007), Spoleto, pp. 389-428. Ermini Pani L., Somma M.C., Stasolla F.R. (a cura di) 2014, Forma e vita di una città medievale, Catalogo della mostra, Spoleto. Grassi F. 1999, Le ceramiche invetriate da cucina dal XIII alla fine del XIV secolo nella Toscana Meridionale, «Archeologia Medievale», XXVI, Firenze, pp. 99-105. Lusuardi Siena S. 1994, Ad Mensam; manufatti d’uso da contesti archeologici tra tarda antichità e Medioevo, Udine. Mazzucato O. 1968, La raccolta di ceramiche del Museo di Roma, Roma. Pannuzi S. 2001, Produzione e consumo a Roma di ceramica invetriata da fuoco tra XVI e XVIII secolo, Firenze. Riccetti L. 2003, Orvieto e l’acqua nel Medioevo. Propaganda tecnica maestranze, in C. Bruun, A. Saastaomoinen (a cura di), Technology, ideology, water. From Frontinus to the Renaissance and beyond, Roma, pp. 193-230. Ricci M., Vendittelli L. 2014, Museo nazionale romano Crypta Balbi. Ceramiche medievali e moderne. Vol. 3: Dal Seicento all’Ottocento (1610-1850), Milano.
Stasolla F.R. 2012 (a cura di), Leopoli-Cencelle: il quartiere sud-orientale. Archeologia e storia di una città medievale, Spoleto. Stasolla F.R., Doronzo G. 2018, La gestione e lo smaltimento delle acque nella città di Leopoli-Cencelle tra tradizione romana e nuove pianificazioni nel Lazio dei papi, in M. Buora, S. Magnani (a cura di), I sistemi di smaltimento delle acque nel mondo antico, «Antichità altoadriatiche», LXXXVII, Aquileia, pp. 473-490. Tölle Kastenbein R. 1993, Archeologia dell’acqua. La cultura idraulica del mondo classico, Milano. Biancalana A. 2009, Porcellane e maioliche a Doccia. la fabbrica dei marchesi Ginori. i primi cento anni, Firenze. Giulia Doronzo, Remigio Cruciani, Beatrice Brancazi
Oriolo Romano. Località Fosso della Madonnella – Monte Rosano, fornace da calce A seguito di una segnalazione, nel settembre del 2021, ho effettuato un sopralluogo in località Madonnella-Monte Rosano, questa area tenuta a bosco ceduo, si sviluppa all’altezza del km 37 del versante occidentale della strada Braccianese Claudia (IGM 143 IV SE, Bassano di Sutri, rilievo del 1940). Il sito custodisce i resti di una antica fornace da calce, costruita non lontano dalla strada e prossima ai fossi Madonnella e Barbiere. Secondo fonti orali fu tenuta attiva fino ai primi anni del 1950. La località fu scelta, in quanto possedeva tutti i requisiti indispensabili per la realizzazione dell’impianto di un forno da calce e per il suo funzionamento: la presenza della materia prima costituita dalle pietre da calce e il bosco come fonte di approvvigionamento di legname, questo necessitava essere in fascine e abbondante, dovendo mantenere acceso il fuoco a lungo e ad una temperatura costante, che doveva aggirarsi intorno ai 900°. La vicinanza dei fossi, oggi asciutti, assicurava l’acqua
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Schede necessaria a spegnere la calce, mentre la prossimità della strada facilitava il trasporto della calce al vicino centro abitato di Oriolo Romano. Oltre alla presenza di pietre calcaree nella zona è una vecchia cava di caolino indicata nella tavoletta IGM 143 IV SE a nord ovest del Fiume Mignone; con lo stesso simbolo, disegnate ma non nominate nella tavoletta sono altre due cave, poco distanti dalla calcara, una ad est di un corso di acqua senza nome e l’altra a nord ovest del Fosso della Madonnella. Nel catastale conservato presso la sede dell’Università Agraria di Oriolo Romano, che reca la data di levata 1936, il fosso senza nome della tavoletta IGM, viene indicato come Fosso Barbiere. La struttura della fornace, attualmente nascosta da una fitta vegetazione di rovi e giovani cerri, presenta una pianta circolare e conserva unicamente l’alzato della parete nord occidentale della camera di combustione. La costruzione è realizzata a secco utilizzando pietre locali di varie misure e per la maggior parte non lavorate. La parte superstite della camera di combustione internamente ha un’altezza di ca. 1,60 m e un diametro di 2,70 m (fig. 93). Su questa parete, nel tratto centrale si aprono a intervalli quasi regolari, tre bocche di servizio, queste attualmente sono riempite di terra e mancano dei conci squadrati costituenti la cornice delle aperture, che, stando all’impronta lasciata dai blocchi, doveva essere a timpano. La bocca di servizio, situata all’estrema sinistra, appare meglio conservata e fornisce le misure, che dovevano avere originariamente le tre aperture: 50 cm in altezza e 35 cm in larghezza. Attualmente è difficile comprendere se un lato fosse addossato ad un pendio di terra, elemento spesso presente per coibentare meglio le pareti e facilitare il mantenimento della temperatura interna. Nel tratto superstite della struttura si evidenzia, circa a metà altezza delle bocche di alimentazione, la presenza di un marcapiano realizzato con pietre ben tagliate e squadrate e con alcuni laterizi refrattari (freccia in fig. 93). La volta di separazione, costituita da un arco quasi a tutto sesto, sostiene ancora la mezza cupola della fornace e si distingue dalla restante costruzione per la presenza di mattoni refrattari. L’assenza nell’area di materiale da costruzione, rende evidente che la calcara, dopo il suo ultimo utilizzo, fu demolita per il recupero del materiale. Tra i crolli della fornace è stato possibile ritrovare un mattone refrattario quasi integro e bollato. Questa tipologia di laterizi sono risultati di provenienza anglosassone, hanno un grande bollo rettangolare recante le lettere: M.T.& Co. e misurano 23 cm circa di lunghezza, 11,5 cm di larghezza e 6,5 cm di spessore; l’impasto è chiaro di colore avana tendente all’arancio (fig. 94). La caratteristica di questi mattoni è la presenza nell’impasto di una alta quantità di allume. La società con marchio M.T.& Co. era la M. Thompson & Company, aveva originariamente sede, nella parte nord orientale dell’Inghiltera, a Ouseburn presso Newcastle, e dal 1870 a Delaval Colliery a Scotswood. Sembra esser stata quella, tra le fabbriche anglosassoni, che esportava maggiormente; infatti refrattari di questa marca, furono rinvenuti nel 2011 a Lucca durante gli scavi presso l’area ex officine Gesam-Italgas, altri si sono rinvenuti negli Stati Uniti e in Australia; essi inoltre compaiono tra gli articoli da collezionismo nelle vendite online di siti di modernariato e antiquariato. La presenza dei mattoni anglosassoni non appare essere
fig. 93 – Oriolo Romano (Vt), M. Rosano. La fornace vista da est.
fig. 94 – Il mattone anglosassone rinvenuto nella fornace di M. Rosano.
un elemento datante, la calcara ha una struttura di tipo rurale, che trova confronti strutturali e dimensionali, con quelle presenti nelle Alpi, ad esempio quelle a Tramonti di Sopra (Pordenone) o quella di Rocca San Zenone (Terni). Queste fornaci, che senza sostanziali modifiche, sorgono in varie zone della penisola, lì dove era presente legna e materia prima, avevano lo scopo di rispondere a esigenze locali sia di carattere edile che agricolo. La tipologia di queste costruzioni compare nel XVII secolo e non muta fino al XIX secolo. La semplicità e la dimensione della fornace di Oriolo Romano, possono giustificare la messa in opera di mattoni refrattari di importazione, con un restauro della stessa con materiale di reimpiego o di scarto recuperato nelle vicinanze. Sempre ad un restauro potrebbe riferirsi la ripresa della muratura con marcapiano, una tecnica costruttiva non riscontrata in altre fornaci da calce di piccole dimensioni. Secondo fonti orali questa calcara era molto antica e fu riattivata nei primi del 1900. Nello stesso periodo, non molto distante, all’estremità settentrionale di Oriolo Romano, lungo la Braccianese Claudia, sorse una fabbrica di ceramiche. L’edificio, a seguito di un incendio avvenuto nel 1908, fu poi convertito nella fonderia di ghisa Giampieri, questa, che esportava a Roma e dintorni i propri prodotti per mezzo della vicina ferrovia, oggi FL3, chiuse nel 1965. Purtroppo non è stato possibile verificare l’impiego di questi mattoni nelle strutture della fabbrica poi fonderia, i locali infatti sono stati da diversi anni convertiti in esercizi commerciali.
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Schede I dati catastali e documentali relativi alla zona non attestano la presenza di questa fornace. La più antica cartografia pervenutaci, è la tavoletta IV della Sezione 2 del 1864 redatta per il Catasto Pontificio, la mappa, riporta solo una piccola costruzione a pianta rettangolare posta nei pressi della strada, la Madonnella, cappella della quale da molti anni non resta traccia. La zona rientra nei beni dell’Università Agraria di Oriolo Romano, istituita nel 1905. Interessante è la mappa, con levata del 1936, conservata presso l’archivio dell’Università Agraria, in essa vengono indicati i nomi di tutti i corsi acqua: Fosso Barbiere, Fosso Madonnella derivante dai Fossi Piscinelli e Monte Rosano, che si univano poco prima di affluire nel Fiume Mignone, ma non è fatta alcuna menzione della calcara né della cava di caolino. Il toponimo Barbiere potrebbe suggerire un percorso di ricerca o piuttosto una congettura: il toponimo infatti, potrebbe essere l’alterazione del cognome Barberi: architetto giacobino attivo ad Oriolo al servizio della famiglia Altieri dal 1780. Il toponimo che si può definire fuori contesto toponomastico, se confrontato con gli altri riportati nella cartografia antica, non compare nel Catasto Pontificio. Tra le opere dell’architetto sono la Saletta da pranzo all’interno del Palazzo Altieri e l’edificio oggi sede del comune, ma molti dei suoi progetti non furono realizzati o restarono inconclusi per mancanza di soldi, esempio eclatante la chiesa di San Giorgio. Come buon uso nei tempi antichi la materia prima ove possibile si reperiva in loco, rispondendo efficacemente ad una economia di tempi e costi; la materia prima, solo quando indispensabile veniva importata, inoltre la fornitura del materiale era spesso, fin dal Medioevo, a carico del mastro capocantiere, non sarebbe strano se l’architetto Barbieri avesse considerato l’opportunità di un approvvigionamento in zona e dopo aver individuato la zona, avesse fatto costruire la fornace da calce per qualche cantiere, in tal caso questa risalirebbe alla fine del XVIII secolo. Bibliografia AA.VV. 2002, La tenuta regionale di Sala, Soveria Mannelli. Baccichet M., Pagnucco D. 2001, Fornaci da calce in Tramonti di Sopra, Tramonti di Sopra (PN).
Bianchini S. 2012, Lucca, San Concordio, area ex officine GesamItalgas, «Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana», 7/2011, p. 144. Lotti E. 2012, Le donne nella fabbrica Giampieri, in R. Ferrini (a cura di), Donne a Oriolo Romano, Vetralla (VT), pp. 85-93. www.brocross.com/bricks/penmorfa/pages/england21.htm Roberta Ferrini
CAMPANIA Provincia di AVELLINO Monteforte Irpino, Castello Le prime notizie dell’insediamento risalgono agli inizi del XII secolo e testimoniano il legame del castello con l’abbazia benedettina di Montevergine. Il sito presenta una pianta pseudo ellittica, con andamento NO-SE (fig. 95). La cinta scarpata conserva il mastio angioino all’estremità N-O e il palatium a S-E con un ampio vano dotato di nicchie ed è interrotta da tre torri sul fronte Est. A Sud del mastio si distinguono alcuni vani oggetto di scavi archeologici negli anni ’80. Le attività di ricerca, iniziate nel 2019 ed intensificatesi nel 2021 nell’ambito di un progetto di restauro, hanno permesso di evidenziare 3 fasi edilizie dal pieno XII al XIV secolo, cui si aggiungono le fasi di frequentazione più tarda degli ambienti di servizio sul fronte Ovest. Questi, in origine intercomunicanti, sono organizzati su due livelli (vista la presenza di un vano scala e di cospicui crolli), risultano dotati di comfort residenziali (forni, camini, nicchie porta-oggetti) e, come attesta il materiale ceramico, sono stati probabilmente impiegati come discarica tra il XV e il pieno XVII secolo, ossia ben oltre il 1531, data riportata in un documento spagnolo, che descrive il castello come diruto ed abbandonato. Nello scavo del 2021 alcune unità stratigrafiche hanno restituito notevoli quantitativi di ceramiche significative per ricostruire le dinamiche insediative del sito. Tralasciando i materiali medievali, si presentano quelli post medievali. L’US 143 ha evidenziato una ciotola con piede ad anello, smaltata e decorata con una linea in verde, ondulata,
fig. 95 – Foto zenitale dell’insediamento castrense (N. Abate, A. Frisetti, Latem-UniSOB).
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Schede
fig. 96 – Monteforte Irpino. Smaltata di transizione (n. 8). Ceramica a decoro compendiario (nn. 1-7) (Di Cosmo, Latem-UniSOB).
inquadrabile nella smaltata di transizione del XV e XVI secolo (fig. 96, n. 8). Ma l’US più importante è la 145 per la presenza di materiale smaltato e decorato con motivi compendiari. Si tratta generalmente di forme aperte: piatti o scodelle con piede appena accennato, pareti oblique con ampie tese e cavetto non molto ampio (fig. 96, nn. 3, 5). Le ciotole hanno pareti a curvatura continua e orlo estroflesso, a formare una breve tesa (fig. 96, nn. 1, 6). Tra le poche forme chiuse si presenta una brocchetta a parete globulare e con ansa nastriforme che si attacca sul punto di massima espansione della stessa (fig. 96, n. 7). Le argille utilizzate sono rossicce, tendenti al chiaro, oppure rosa chiaro e ben depurate. Lo smalto è bianco latteo, facilmente scrostabile. La forma chiusa ha un’argilla rosa-grigiastra e uno smalto bianco grigiastro. I motivi decorativi sono di tipo compendiario. La ciotola (fig. 96, n. 6) presenta un fiore quadripartito centrale, dato in giallo, arancio e blu e ricorda un decoro attestato a Castelli d’Abruzzo su ceramiche di uso comune, databile alla prima parte del XVII secolo. Il decoro più frequente è quello della melagrana a forma di cuore, bipartito, su gambo con foglie lanceolate (fig. 96, nn. 2, 3, 4). Il frutto è realizzato in bruno, giallo,
arancio e blu. La parte inferiore del frutto è campito con grani e la parte superiore con sfumature di colori. Questa decorazione è presente soprattutto nel Salernitano, che non dista molto dal nostro sito, ove è datata al tardo XVII secolo. Al tardo-compendiario è ascrivibile anche il motivo del fiore posto sulla ampia tesa di un piatto (fig. 96, n. 5), dato in bruno, giallo, arancio e blu, che ricorda la disposizione della coroncina o degli stemmi delle produzioni di artigiani abruzzesi operanti anche fuori regione. Questi decori furono utilizzati anche nei primi decenni del XVIII secolo. Il motivo decorativo della brocchetta, infine, è dato da croci ricrociate in monocromia blu. Bibliografia CDV 1, 99 e 100 = Il Codice Diplomatico Verginiano, a cura di P.M. Tropeano, voll. I-XIII Montevergine 1977-2000. Di Cosmo L. 2011, Prime considerazioni sulla circolazione delle ceramiche nella Campania interna tra XV e XVI secolo: la smaltata dipinta in verde e la graffita nel Sannio-Alifano, Atti del LXIII Convegno Internazionale della ceramica, Albenga, pp. 173-182. Padricelli L. 2017, Monteforte Irpino. Castello, scheda, in G.
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fig. 97 – Benevento, Vicolo II, Triggio 1. Prospetto della facciata dell’unità abitativa demolita. Coppola, G. Muollo (a cura di), Castelli medievali in Irpinia. Memoria e conoscenza, Napoli, pp. 239-241. Rotili M. 1996, Archeologia medievale. 1, in G. Colucci Pescatori (a cura di), Irpinia antica, Pratola Serra, pp. 257-272. Tortolani G. 2004, I “bianchi” ed il compendiario nel salernitano, «Azulejos», I, pp. 85-138. Troiano D., Verrocchio V. 2002, La ceramica postmedievale in Abruzzo, Firenze. Luigi Di Cosmo, Alessia Frisetti
Provincia di BENEVENTO Benevento. Indagini archeologiche nel quartiere Triggio: lettura stratigrafica delle strutture murarie di alcuni ambienti di Palazzo Barone, già Corsini. Le indagini archeologiche preliminari alla demolizione di un edificio fatiscente nel centro storico di Benevento e alla sua successiva ricostruzione, dirette dalla Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per le Province di Caserta e Benevento e condotte sul campo dalla Dott.ssa Stefania Paradiso con l’ausilio del Dott. Giandomenico Ponticelli, hanno premesso di riconoscere gli interventi
strutturali che hanno scandito la vita dell’edificio, databili dal periodo bassomedievale sino all’età contemporanea. L’edificio era inserito nella fitta maglia insediativa del Triggio, in corrispondenza dell’asse viario omonimo, che da via Carlo Torre conduce al Teatro Romano di Benevento. L’analisi del prospetto della facciata dell’edificio oggetto di demolizione ha permesso di distinguere diverse tecniche costruttive (Tipo 1-4) (fig. 97). Il Tipo 1 è documentato dall’impiego di mattoni databili alla II metà del ’900, allettati con cemento. Al Tipo 2, di epoca contemporanea, afferiscono le tamponature alla struttura muraria. Il Tipo 3 (1600 e il 1800) è costituito da un ordito murario non regolare con tecnica mista di laterizi e ciottoli, in parte ricoperto da malta che ha restituito un frammento ceramico della seconda metà del XIX sec. Nella parte inferiore del prospetto della facciata si riscontra il Tipo 4 (1600-1300), con reimpiego di elementi lapidei (frammento di colonna e base lavorata) (fig. 98). L’unità abitativa, parte dell’edificio a corte di Palazzo Barone, già Cosentini, datato dal XVI al XX sec., è divisa in due vani dal tramezzo USM 4 sulla fondazione USM 12. L’indagine archeologica eseguita nell’area di sedime della struttura demolita, e la lettura stratigrafica degli ambienti e delle strutture esposte hanno
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Schede
fig. 98 – Benevento, Vicolo II, Triggio 1. Reimpieghi nelle strutture di alzato del prospetto dell’edificio.
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d
c
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fig. 99 – Benevento, Vicolo II, Triggio 1: a. Rilievo delle evidenze archeologiche; b. Ubicazione dell’area d’intervento (da Google Earth); c. Panoramica dell’area di scavo; d. Stralcio della mappa del Catasto Gregoriano, in cui è riportata la pianta del teatro romano, degli edifici che occupavano la cavea e del quartiere Triggio; e. Stralcio planimetria “Sistemazione della zona del teatro romano e Rione Triggio” dal Piano Regolatore di Benevento Dott. Arch. L. Piccinato.
consentito di documentare diverse fasi costruttive, che trovano riscontro con quanto evidenziato sul prospetto principale dell’edificio e conferma nei depositi di terreni di accumulo, atti a predisporre i piani di suolo per le attività costruttive più recenti (fig. 99). Le strutture afferenti ad un precedente edificio basso medievale (Fase 1) sono documentate da USM 16, rasata e obliterata già in epoca basso medievale/moderna, e USM 18, inclusa nell’impianto di Palazzo Corsini (Fase 2). La costruzione di USM 4 e della sua fondazione USM 12, nella seconda metà del ’900 (Fase 3), ha determinato interventi sulle persistenze architettoniche di età moderna e bassomedievale, probabilmente in connessione agli eventi tellurici degli anni Trenta del ’900. L’ultimo intervento, Fase 4, riguarda sia la realizzazione della vasca fognaria (UUSSMM 8-11), la cui messa in opera ha compromesso i corpi murari preesistenti (UUSSMM 13, 12,17), sia gli interventi di consolidamento di età contemporanea eseguiti alle aperture poste sulla facciata che costeggia l’asse stradale Vicolo II Triggio I, che conduce alla cavea del Teatro Romano. Simone Foresta, Stefania Paradiso, Giandomenico Ponticelli
Bibliografia Colletta T., Benevento e l’urbanistica moderna: i piani regolatori di Luigi Piccinato del 1932-33 e del 1959, «Storia dell’urbanistica», N.S. 3.1997(1999), 159-166. Musi A. 2004, Benevento tra Medioevo ed età moderna, Manduria.
Parisi R. 2007, Iconografia di una città pontificia: Benevento in età moderna e contemporanea, in C.E De Seta, A. Buccaro (a cura di), Iconografia delle città in Campania, Napoli, pp. 173-194. Rotili M., Le carte alto-medievali come fonti per la conoscenza della città e del territorio, in G. Pianese (a cura di), La lingua dei documenti notarili alto-medievali dell’Italia meridionale, Napoli, pp. 215-235.
BASILICATA Provincia di POTENZA Castello di Melfi (PZ) Il castello di Melfi è uno dei più importanti dell’Italia meridionale. Un monumento complesso e di lunga vita, risultato di diversi interventi realizzati nel corso del tempo a partire dalla fine del Mille. Il primo impianto del castello risale all’età normanna, dopo la conquista della città del 1041, ed è identificabile nel compatto corpo centrale e nella Torre del Marcangione. Ad età sveva e all’opera di Federico II si deve probabilmente la costruzione di una grande sala, collocata sotto l’attuale sala del trono angioina, e di due torri. La grande rivoluzione costruttiva, che cambia l’aspetto del castello, avviene in età angioina. Avviata da Carlo I d’Angiò, ad opera dell’architetto Pierre d’Agincourt, vede l’edificazione di una nuova cinta muraria
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fig. 100 – Castello di Melfi (PZ). Planimetria con indicazione delle strutture individuate nei Cortili del Mortorio e degli Armigeri.
fig. 101 – Castello di Melfi (PZ). Cortile del Mortorio. Panoramica dall’alto del lungo muro (USM 12), della struttura rettangolare (USM 17, 19, 20) e dell’acciottolato (US 15).
munita di torri pentagonali e rettangolari alternate, del circuito dello spalto, dell’ampio fossato, dei cortili interni, di una cappella, dell’adiacente sala del trono e della grande cisterna sotterranea. A partire dalla fine del 1300 il castello comincia ad assumere l’aspetto di una residenza nobiliare dimora delle famiglie che si avvicendano nel possesso del feudo, in particolare i Caracciolo e a seguire i Doria feudatari fino al 1952 quando lo dona allo Stato. La lunga storia del castello conosce anche momenti bui legati ai forti terremoti che nel 1694, 1851 e 1930 scuotono e danneggiano l’edificio.
Le lunghe opere di consolidamento e di restauro, non ancora concluse, hanno permesso di mantenere in vita e di valorizzare l’edificio, per restituirlo alla cura e alla fruizione di tutta la comunità. Dal 1976 il castello ospita il Museo Archeologico Nazionale “Massimo Pallottino”. Nell’ambito del progetto in corso, PON “Cultura e Sviluppo” FESR 2014-2020 “Progetto di restauro e consolidamento del Castello Federiciano e ampliamento del Museo Archeologico Nazionale”, le indagini archeologiche preliminari condotte nel Cortile del Mortorio e nel Cortile degli Armigeri, ubicati nel settore nord dell’edificio, hanno individuato alcune strutture di cui non si trova notizia nelle fonti scritte e nella pregressa documentazione di archivio. Particolare importanza riveste l’esito delle ricerche nel Cortile del Mortorio nella cui area centrale è stato individuato un lungo muro (USM 12, lung. tot. ca. 30 m) che lo attraversa per intero in senso NS. Il muro 12, individuato solo in cresta e per brevi tratti nel paramento occidentale, è realizzato con ciottoli e pietre legate da malta. I caratteri costruttivi, l’andamento e i pochi dati emersi dai saggi preventivi individuano nel muro 12 l’evidenza più antica, in termini di cronologia relativa, presente nel cortile. Suggestiva l’ipotesi che possa trattarsi del muro difensivo del castello in età sveva, prima della costruzione della cinta angioina che ne riprenderebbe in tal caso il medesimo orientamento e andamento. Ad una fase più recente sono riferibili la struttura rettangolare (USM 17, 19, 20), addossata al muro 12, e il vicino piano pavimentale in acciottolato (US 15), messo in luce solo per un tratto. Le ceramiche e gli altri reperti restituiti dallo scavo del crollo e del riempimento della struttura 15 permettono di datare l’abbandono della stessa
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Schede al 1500-1600. Sempre ad età postmedievale si datano le due strutture murarie (USM 85 e 91) con orientamento EO intercettate nel Cortile degli Armigeri e per le quali al momento non è possibile ipotizzare alcuna interpretazione in assenza di scavi più estesi. Solo le successive indagini archeologiche, condotte in open area, potranno avvalorare o smentire le ipotesi avanzate e fornire dati materiali e stratigrafici necessari per la corretta lettura cronologica e interpretativa delle evidenze. Tali ricerche saranno fondamentali per comprendere la vita del sito mai oggetto finora di indagini archeologiche. Scavo archeologico e rilievi: dott.ssa Lorena Trivigno
di fondazione della città fortificata di Melfi (1018-2018), Melfi (dicembre 2020-febbraio 2021), Bari 2021. Melfi in età sveva = Atti del terzo Convengo Internazionale di Studio promosso per il Millenario di fondazione della città fortificata di Melfi (1018-2018), Melfi (terza sala del castello, 9-11 settembre 2021), Bari c.s. Annamaria Mauro, Erminia Lapadula
Bibliografia
Un relitto postmedievale nelle acque di Cirò Marina (KR)
Lenzi G. 1935, Il castello di Melfi e la sua costruzione. Note ed appunti, Roma. Levita M. 2008, Il Castello di Melfi. Storia e architettura, Bari. Melfi tra Longobardi e Bizantini = Atti del primo Convengo Internazionale di Studio promosso per il Millenario di fondazione della città fortificata di Melfi (1018-2018), Melfi (sala del trono del castello, 10-12 ottobre 2019), Bari 2020. Melfi Normanna dalla conquista alla monarchia = Atti del secondo Convengo Internazionale di Studio promosso per il Millenario
Nel corso delle operazioni di ricerca subacquea, miranti alla stesura di una carta archeologica nell’area di mare compresa fra i comuni di Strongoli Marina e Torretta di Crucoli, in provincia di Crotone, si rese necessario un approfondimento relativo alla segnalazione di un probabile relitto posizionato a circa 4 m di profondità, nel tratto di mare antistante il versante Nord della costa di Cirò Marina. (N.O. SABAP n. 2392). Lo stesso, distante circa 40 m dalla linea di bagnasciuga,
CALABRIA Provincia di CROTONE
fig. 102 – Foto aerea Cirò Marina.
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Schede
fig. 103 – Cartografia archeologica Cirò Marina.
fig. 104 – Elementi lignei affioranti.
era stato individuato nell’area prospiciente la collina caratterizzata dal toponimo Madonna di Mare; area, tra l’altro, interessata dalla presenza di una torre costiera, Torre Vecchia, edificata nel corso del XVI secolo, oltre che dalla presenza di un punto di approdo con 6 bitte di ormeggio realizzate in beachrock e poste fra i 0,90 e i 2,5 m di profondità. Le ricerche di archivio, svolte presso l’Archivio e Biblioteca del Museo Archeologico di Crotone, hanno permesso di
accedere al fondo inerente l’Archeologia Subacquea, con particolare attenzione alle relazioni scaturite dalle attività svolte dalla Cooperativa Aquarius di Alice Freschi (SABAP CS-KR-CZ, fondo Archeologia Subacquea). Dalle stesse risultava come lo stesso relitto fosse già stato segnalato nel 1996, e oggetto di una prima indagine, superficiale, svolta in condizioni meteo marine, oltretutto, non ottimali. La stessa relazione non fornisce dati precisi utili a una precisa datazione del contesto, ponendo, di contro, in luce l’individuazione di alcune noci di cocco, forse parte del carico (da cui la denominazione di “relitto delle noci di cocco”) unitamente ad un frammento di forma aperta (piatto?) in maiolica bianca con decorazioni blu cobalto (a causa della riorganizzazione dello stesso Ufficio di Crotone, non è stato possibile visionare e documentare, direttamente, lo stesso manufatto. Di contro la sua descrizione è confermata sia dal sig. Sgrenci, dipendente dello stesso Ufficio, che dal sig. Elio Malena, all’epoca collaboratore esterno della Soprintendenza, e lo stesso ne attribuisce la possibile fabbrica nord africana). Basandosi su questi dati, nel periodo compreso fra il 16 e il 19 luglio 2018, grazie all’ausilio dei Carabinieri Subacquei
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Schede
fig. 105 – Parte della murata da est.
fig. 106 – Parte della murata da ovest.
fig. 107 – Quadrettatura semi rigida.
di stanza a Messina, si è provveduto ad unna prima indagine stratigrafica del contesto che ha consentito di porre in luce una sezione di murata della lunghezza di circa due metri e sporgente dal fondo per circa 20 cm, realizzata in legno, parzialmente aggredita dalla teredo navalis, e ricoperta da una sottile lamina di piombo. Sulla parte sommitale del manufatto si individuano, chiaramente, tre piccole bitte, non fortemente concrezionate, atte a tendere il cordame necessario per l’utilizzo della propulsione a vela. Sempre sul versante Ovest della sezione di murata posta in luce si notano una serie di concrezioni probabilmente attinenti alle sovrastrutture dello scafo, ma la cui natura non è stata possibile identificare allo stato attuale delle indagini.
(SABAP, F. Laratta, Diario di Scavo 16-19 luglio 2018). Mentre questi dati inducono ad ipotizzare un’imbarcazione affondata in assetto di navigazione, non consentono, di contro, di ipotizzare una corretta e possibile datazione del contesto oltre che la sua bandiera di appartenenza. Sebbene il carico di noci di cocco, individuato dall’equipe dell’Aquarius, porta ad immaginare una navigazione di, probabile, provenienza centro-africana, la quantità e le frequenza degli affondamenti, noti nella zona, porta a complicare ulteriormente l’analisi del possibile naufragio oggetto di indagine; naufragi causati sia da repentine mutazioni mete-marine che da scontri con “legni” dediti alla guerra di corsa, anche arabi (Pesavento A., Archivio Storico di Crotone).
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Schede Sebbene fossero previste ulteriori attività d’indagine, e malgrado un finanziamento reso disponibile dal MIBAC, con la specifica dizione “relitto delle noci di cocco” per il prosieguo delle indagini, ad oggi non si è proceduto ad ulteriori verifiche e approfondimenti. (www.mibac.it) (SABAP-CZ, PROV0000021414, Cirò Marina, € 20.011,82 per il 2022, Cap. Bil. 7433/2. Nella descrizione dei lavori si pone l’attenzione, tra l’altro, di voler rendere fruibile l’area ad un pubblico di subacquei ricreativi con particolare attenzione a subacquei disabili. Quindi, già, si prevedeva la possibile fruizione di quanto, eventualmente, riportato alla luce e documentato). Bibliografia Nulla Osta SABAP CS-KR-CZ. N. 2392 del 23/02/2017, a firma del Soprintendente dott. Mario Pagano MIBAC, sito internet Pesavento A., Naufragi ed assalti sul mare di Crotone dalla fine del cinquecento al settecento, www.archiviostoricocrotone.it SABAP CS-KR-CZ, Archivio Ufficio Scavi Crotone, Sezione Archeologia Subacquea, Fondo Aquarius. SABAP CS-KR-CZ, F. Laratta, relazioni di ricognizione archeologica subacquea 2017-2019. SABAP CS-KR-CZ, F. Laratta, Diario di Scavo, Relitto Noci di Cocco, 16-19 luglio 2018. Francesco Laratta
SARDEGNA Provincia di NUORO Macomer (NU). Sa Presone Ezza. Indagini archeologiche nell’area del castello L’area archeologica di “Sa Presone Ezza” è ubicata nella parte orientale del centro matrice del moderno abitato di Macomer, non lontana dalla parrocchia di San Pantaleone. Il centro urbano, noto nelle fonti documentarie dal XII secolo, è identificato con il centro, presumibilmente punico, di Macopsissa, presenta importanti preesistenze di
epoca nuragica (i nuraghi Corte e Tilibirche) ed era posto in epoca romana lungo la strada A Karalibus Turrem. La fortificazione, documentata dal 1410 al 1478, era ubicata «non lungi dalla chiesa parrocchiale sopra una rupe basaltica grigia imminente al capo superiore della scala del paese» Angius 1833-1856). Tra il 2011 e il 2021 sono stati realizzati quattro interventi di indagine archeologica finalizzati all’individuazione dei resti monumentali delle fortificazioni e alla definizione cronologica di questa porzione dell’abitato di Macomer. Nel 2021 l’ultimo intervento di scavo, finanziato dalla Regione Autonoma della Sardegna, diretto dal dott. Gianluigi Marras della SABAP – SS e coordinato sul campo dalla dott.ssa Barbara Panico e dal Dott. Luca Sanna, ha permesso di definire precisamente il susseguirsi di attività insediative che, dall’età del ferro all’età moderna, hanno interessato questa limitata porzione di territorio. Lo scavo ha riguardato tre differenti settori del mappale, uno meridionale (settore 4500), uno settentrionale (settore 4600) e uno occidentale (settore 4700), realizzati come ampliamento dei settori indagati precedentemente. In particolare, nel settore 4500 è stato possibile documentare un forno rurale che mostra importanti tracce di spoliazione e che ha restituito in associazione delle maioliche liguri a smalto berettino (in corso di studio). Nel settore 4600 è stata documentata una delle porte di accesso al borgo fortificato di Macomer, col rinvenimento della sua struttura con gradini e pietre di cardine per sorreggere il portone. Anche in questo caso il rinvenimento di pochi frammenti di ceramica colloca l’utilizzo di tali strutture a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Nel settore 4700 è stato possibile confermare l’utilizzo dell’area nell’età del Ferro come necropoli. Durante l’età moderna l’intera area in cui si sono svolte le ricerche ha subito numerose modificazioni. Quando scrive l’Angius (1840 circa) non si distingue più l’estensione e la planimetria del castello, e l’area è ormai dedita alla coltivazione, mentre nel XX secolo il mappale è stato utilizzato come cava per materiale da costruzione; ne sono testimoni i numerosi segni di trapano meccanico, i fronti e gli strati di spoglio documentati durante le indagini. L’attività di spoglio ha completamente tagliato gli elevati e la stratigrafia su tutto il settore di scavo, fino alla superficie
fig. 108 – Vista dell'area archeologica dall'alto.
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Schede
fig. 109 – Planimetria dell'area archeologica.
rocciosa, talora con l’asportazione dell’intero paramento murario e con tracce della lavorazione dei blocchi spoliati, rendendo, in alcuni casi, difficile la lettura stratigrafica e l’inquadramento cronologico dell’area che comunque conserva tracce di una frequentazione che, con soluzione di continuità, da tarda epoca nuragica arriva fino ai giorni nostri. Bibliografia Angius V. 1833-1856, in G. Casalis, Dizionario Geografico Storico-Statistico Commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, Torino. Gianluigi Marras, Barbara Panico, Luca Sanna
fig. 110 – Segni di taglio e cava.
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Schede
fig. 111 – Teti, Chiesa di Santa Maria della Neve.
Teti (NU). Chiesa di Santa Maria della Neve. Lavori di riqualificazione Durante il mese di febbraio 2022 sono stati realizzati alcuni lavori di riqualificazione del sagrato della chiesa parrocchiale di Teti (NU), dedicata alla Madonna della Neve. Tenuto conto che l’esistenza di una chiesa a Teti, seppur indirettamente, sarebbe testimoniata già dal XII secolo nei documenti facenti parte del Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, intorno alla metà del XVII secolo al posto dell’attuale edificio doveva sorgere una chiesa dedicata a San Giovenale, come attestato dai Quinque Libri e a cui si dovrebbe ricondurre una chiave di volta a gemma pendula decorata con un’immagine di cherubino alato e con iscrizione datata al 1640. I lavori, commissionati dal comune ed eseguiti sotto sorveglianza archeologica per l’alto rischio connesso agli interventi di intercettare eventuali stratigrafie sepolte e altrimenti non note, hanno previsto la rimozione della vecchia pavimentazione in lastre di calcestruzzo, sotto alla quale è emerso uno strato preparatorio del vecchio massetto caratterizzato dalla presenza ghiaia, sabbia e macerie (anche di età piuttosto recente). Le operazioni di sorveglianza archeologica hanno permesso di intercettare la presenza di sparuti reperti di interesse archeologico (per lo più frammenti ceramici) insieme a materiale di età moderna. Uno primo studio del materiale ceramico rivela la presenza di frammenti databili tra XV e XVI sec. (marmorizzata pisana, ingobbiate e graffite pisane, invetriate di produzione oristanese). Tra gli altri spicca un frammento di maiolica sassarese, con decorazione a fasce verdi inquadrate da linee blu e dal tipico impasto rosato. Seppur all’interno di un’analisi preliminare, nel caso di conferma del dato si tratterebbe, per la Sardegna, della testimonianza finora più meridionale di maiolica sassarese. Tuttavia, non si deve escludere la possibilità, a seguito di esame più approfondito, che il frammento in questione possa essere identificato con una importazione laziale. Tra i frammenti ceramici rinvenuti nel corso delle operazioni di sorveglianza e riferiti a contesti cronologici più recenti si rinvengono anche produzioni albisolesi (“terraglie” gialle e marroni), catini maculati di S. Giovanni alla Vena e altri prodotti locali. La presenza di materiale eterogeneo testimonia la vivace circolazione ceramica tra Sardegna e penisola italiana. Infine, cinque frammenti in pietra grigia – di cui alcuni contermini – con listello lungo il bordo esterno, decorazioni
fig. 112 – (sopra) Frammenti ceramici rinvenuti durante sorveglianza archeologica.
fig. 113 – (a lato) Frammento di maiolica sassarese.
floreali e caratteri capitali incisi in bassorilievo possono essere ricondotti a una lapide di commemorazione dei caduti della Prima Guerra Mondiale e che presuntivamente doveva decorare la facciata della chiesa parrocchiale. La presenza di questi frammenti in pietra, al momento i reperti di datazione più recente rinvenuti, insieme a materiali edilizi moderni (come più sopra già ricordato), unitamente all’esame delle lunghe e complesse vicende costruttive dell’attuale edificio chiesastico, può fornire dati più puntuali circa la defunzionalizzazione di parti dell’apparato decorativo della chiesa e la creazione dello strato preparatorio della vecchia
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Schede crani umani e altre ossa. Al fine di acclarare l’esatta entità del rinvenimento si è reputato opportuno allargare l’area di indagine ed effettuare un saggio di scavo delle dimensioni di 1,60×1,40 m. Lo strato più superficiale, della potenza di 67 cm, ha restituito numerose ossa non in connessione anatomica appartenenti a diversi individui di età differenti e alcuni residui di casse in legno e chiodi, frammisti a frammenti di laterizi e materiale edilizio vario. La presenza di tali elementi fa propendere per un rimaneggiamento della terra con conseguente sconvolgimento delle sepolture in tempi successivi alla loro deposizione primaria. Al di sotto di questo primo strato sono stati intercettati due scheletri completi orientati ad est e pertinenti ai crani già individuati in sezione (denominati poi A e B). I corpi, in connessione anatomica, deposti uno sull’altro e presuntivamente nello stesso momento, furono inumati senza l’utilizzo di cassa, come lasciano intendere le condizioni di rinvenimento. Da una prima analisi gli inumati sono risultati essere due individui adulti di sesso femminile, abbigliati con vesti tradizionali sarde. In tale direzione sembra indicare la presenza, tra gli elementi di corredo, della gancera (con ancora residui di tessuto alle estremità), catenella solitamente in argento tipica dell’abito femminile di tradizione sarda, rinvenuta all’altezza della vita dell’inumato B. Oltre a questi dettagli, entrambi i soggetti sono stati inumati con monili e altri effetti personali: i doppi bottoni di foggia tradizionale, un anello, degli orecchini, una medaglietta devozionale della Madonna della Mercede e un rosario. I corpi sono stati deposti in posizione supina, con braccia fig. 114 – Frammenti di lapide commemorativa.
pavimentazione. L’attuale edificio venne ricostruito alla fine degli anni 1920, con interventi di ristrutturazione che si susseguirono fino agli anni 1970, mentre gli spazi esterni della chiesa vennero interessati da diversi interventi di rimaneggiamento tra anni 1940 e 1970. Enrico Dirminti
Urzulei (NU). Sepolture di età contemporanea nell’area retrostante la Chiesa di San Giorgio Tra i mesi di maggio e giugno 2022, nel comune di Urzulei (NU), presso la chiesa di san Giorgio, sono stati effettuati lavori di consolidamento del muro di cinta, interessato da cedimenti, e di restauro conservativo dell’edificio chiesastico. L’impianto della chiesa attuale, intitolata a san Giorgio, vescovo di Suelli, si fa risalire agli inizi del XVI secolo e si suppone che l’area circostante fosse stata da subito adibita a cimitero, ove si seguitò ad inumare probabilmente fino alla costruzione del nuovo camposanto, intorno al 1930. Strutturalmente collocabile nello stile gotico aragonese nel suo impianto attuale, la chiesa si trova orientata con ingresso ad ovest, dotata di una sola navata scandita da tre grandi archi a sesto acuto. All’esterno, addossato alla parete di nord-est, si erge il campanile a vela, dotato di scalinata di accesso. In occasione di lavori di rifacimento di un tratto del muro di cinta, condotti sotto sorveglianza archeologica, durante la predisposizione della base per l’alloggio della nuova muratura nella parte nord est, sono emersi dapprima due
fig. 115 – Urzulei, chiesa di San Giorgio.
fig. 116 – Inumato B con gancera; al di sotto inumato A.
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Schede incrociate sul bacino. Entrambi presentavano la particolarità di avere una gamba piegata. Mentre l’inumato B ha una torsione innaturale della tibia sinistra (prodottasi probabilmente dopo il disfacimento dei legamenti), l’inumato A ha la tibia destra piegata in modo da avere il piede sotto la gamba sinistra, postura verosimilmente prodottasi durante l’inumazione in maniera involontaria. I reperti osteologici, così come gli altri oggetti rinvenuti, sono attualmente in fase di analisi e studio, al fine di poter trarre maggiori informazioni sugli inumati. In via presuntiva, in base anche agli oggetti di corredo rinvenuti, si può affermare che le deposizioni siano da inquadrare tra la fine del XIX e l’inizio del XX sec. Patrizia Lepori, Enrico Dirminti
Provincia di ORISTANO Ardauli. I portali a dovelles
fig. 117 – Inumato B (sinistra) e inumato A (destra).
fig. 118 – Inumato B (sinistra) e inumato A (destra).
Il lavoro di censimento condotto nel tessuto urbano di Ardauli, piccolo borgo della regione storica del Barigadu (Sardegna centrale), ha portato all’individuazione di ben 54 aperture di tufo trachitico e attribuibili a un lungo periodo di tempo che va dal XVI al XVIII sec. Ciascun elemento architettonico-decorativo, ornato talvolta da pregevoli motivi in stile gotico-catalano, è stato oggetto di schedatura corredata da una ricca documentazione fotografica. Scopo del censimento è quello di portare l’attenzione verso un aspetto della storia di Ardauli troppo a lungo trascurato, sconosciuto ai più e per questo a rischio di scomparsa o di irreparabile degrado. Fra le aperture censite, alcuni portali risultano costituiti da conci trapezoidali disposti a raggiera a formare un arco a tutto sesto, chiamati a dovelles. Quello descritto nella scheda 46 (fig. 119), costituito da cinque conci trapezoidali – due sulla sinistra e due sulla destra che poggiano su quello centrale di scarico – mostra una modanatura nell’intradosso dell’arco, definita da sottili colonnine alveolate. La composizione si conserva in buone condizioni ma l’edificio che lo ospita versa in un grave stato di abbandono. Il portale descritto nella scheda n. 50, invece, è ottenuto dall’accostamento di sette elementi; l’intradosso risulta oggi inquadrato in un rettangolo. L’arco, infatti, è stato tagliato nell’intradosso così da realizzare un’apertura rettangolare. Lo stipite destro è costituito da un solo piedritto parzialmente obliterato da un muro costruito su di esso, mentre quello sinistro è ricoperto di cemento. Anche nelle schede 51-53 (figg. 120-122) vengono descritti archi a tutto sesto costituiti da conci che girano a ventaglio. Gli stipiti comprendo generalmente due elementi monolitici; le superfici conservano tracce di intonaco bianco. Le soglie d’ingresso risultano di solito monolitiche e piatte. I portali si aprono sul prospetto di tre piccole abitazioni in rovina, accostate l’una all’altra senza soluzione di continuità. Difficile dire, allo stato attuale della ricerca, se le tre abitazioni fossero un tutt’uno oppure se siano state concepite fin dall’inizio come abitazioni indipendenti. Circa il portale descritto nella scheda 46 fig. 119, aderenti i confronti con il quello di Casa Mura di Bidonì, datato al XVII. Stringenti i confronti anche con il portale presente, fino a metà degli anni ’50 del Novecento, nel corso 188
Schede
fig. 119 – Ardauli, via Piave. Portale a dovelles caratterizzato da una modanatura nell’intradosso dell’arco definita da sottili colonnine alveolate.
fig. 120 – Ardauli, piazza mercato. Portale con arco a tutto sesto costituito da cinque conci che girano a ventaglio.
fig. 121 – Ardauli, piazza mercato. Portale con arco a tutto sesto ottenuto con cinque conci finemente lavorati a dovelles.
fig. 122 – Ardauli, piazza mercato. Portale con arco a pieno centro disegnato da quattro conci a cuneo disposti a ventaglio (le dovelles) di larghezza variabile.
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Schede Garibaldi di Abbasanta; nel concio di chiave del manufatto compariva sia il cristogramma IHS sia la data 1603. In generale, altre somiglianze – sempre nella provincia di Oristano – sono istituibili con le aperture presenti nei centri vicini di Ghilarza e di Seneghe. Fuori da essa i confronti ci portano a Sorgono e, naturalmente, alla città di Alghero. Cinzia Loi
Ardauli. Testimonianze archeologiche postmedievali dalla chiesa di San Martino Il territorio di Ardauli (OR), nella Sardegna centrale, è caratterizzato da un paesaggio di dolci colline in cui prosperano l’olivo e la vite, lavorati ancora con i metodi tradizionali.
fig. 123 – Ardauli, località Santu Martinu. Nicchia con catino a conchiglia. Fra i due motivi floreali si osserva incisa la data: 1654.
Nel Medioevo faceva parte della regione storica del Barigadu, una delle 13 Curatorie in cui era diviso il Giudicato di Arborea. A fronte delle numerose testimonianze archeologiche inquadrabili tra il Neolitico recente e l’età tardoantica, quelle riferibili alle epoche medievale e moderna risultano piuttosto esigue. Tuttavia, dall’analisi del tessuto urbano stanno emergendo numerose attestazioni ascrivibili a queste epoche. La ricerca ha portato all’individuazione di oltre 50 aperture che mostrano un vario repertorio figurativo tipico dello stile catalano, caratterizzante il costruito storico nell’isola dal cinquecento a tutto l’Ottocento. Le indagini hanno riguardato anche un terreno situato a breve distanza dal centro abitato, indicato con il toponimo s’Ortu de Su Preide o, più genericamente, Santu Martinu (San Matino). Una fonte documentaria, il Libro storico di Ardauli del Sacerdote Don Francesco Tatti (il Sacerdote Don Francesco Tatti nacque ad Ardauli il 17 Aprile del 1876; entrò giovanissimo nel Seminario Arcivescovile di Oristano, dove venne ordinato sacerdote nel 1903. Dal primo Dicembre del 1943 fu parroco di Ardauli dove morì, dopo vent’anni di sacerdozio), cita una chiesa avente la stessa denominazione: «Fabbricata nel 1645, la chiesa di S. Martino fu restaurata nel 1819. Nel 1834 fu dato ordine dal’Autorità Ecclesiastica di non coltivare più il cortile che la circondava, già destinato a servire da cimitero e la chiesa ad uso di oratorio per la Confraternita della Santa Croce. La chiesa stessa fu ancora restaurata nel 1843, ma poi lasciata in balia del tempo, per cui non tardò ad andare in completa rovina. In seguito, con il permesso dell’Autorità Ecclesiastica Diocesana, fu demolita per ricavarne materiale necessario per la bonifica del cimitero, dopo aver riservato parecchi metri cubi di pietra per l’ideato restauro della chiesa dei SS. Cosimo e Damiano». Durante i sopralluoghi è stato individuato, alla base di un cumulo di pietre, una nicchia con catino a conchiglia recante incisa, fra due motivi floreali, la data: 1654. Di sicuro il manufatto apparteneva a una chiesa che potrebbe certamente essere quella di San Martino. Le misure del catino dimostrano che la nicchia intera avrebbe potuto contenere una statua del santo. Questo significa che la data 1645 riportata dal Tatti potrebbe essere un refuso, la nicchia quella dell’altare maggiore e la data riferibile all’edificazione della chiesa. Le fonti d’archivio testimoniano però che la chiesa di San Martino esisteva già dal 1623. Infatti, in quell’anno il picaperder Antiogo Zirelo di Busachi, realizzò il portale. Oltre a ciò, lungo i muri perimetrali sono stati ndividuati diversi conci finemente lavorati e un capitello modanato. Da quanto esposto finora, discende la necessità di indagini più approfondite. Cinzia Loi
Bibliografia
fig. 124 – Ardauli, località Santu Martinu. Capitello modanato individuato alla base del muro a secco che delimita il fondo.
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Schede Provincia di SASSARI Castelsardo (SS). Recenti acquisizioni epigrafiche e documentarie relative al borgo fortificato: analisi preliminare delle testimonianze Lo studio condotto nel 2020 da chi scrive su un dipinto custodito all’interno della chiesa di Santa Maria delle Grazie (Piras 2020, pp. 88-101), raffigurante il Padre Giuseppe Monserrato, frate dell’annesso convento francescano dove morì il 3 agosto 1716 (sul personaggio cfr. Angius 1837, p. 233; Tola 1838, pp. 337-338; Devilla 1958, p. 457; Zucca 2001, pp. 54-55), elevato a ‘venerabile’ dell’Ordine e oggetto di profonda devozione popolare (localmente noto con l’appellativo dialettale di Biaddu Ghjuseppu, ovvero ‘Beato Giuseppe’; Fattaccio 2007, p. 748), ha portato alla formulazione di un’ipotesi attributiva dell’opera pittorica, un olio su tela, all’algherese Antonio Maria Casabianca (sulla sua produzione artistica Piras 2019, pp. 24-35 e 43-55; Id. 2020, pp. 81-88), deceduto a Sassari il 25 agosto del 1855, all’età di 58 anni. Contestualmente alle ricerche sul dipinto è stata eseguita dallo scrivente una catalogazione delle testimonianze epigrafiche presenti all’interno del sopraccitato edificio di culto, lavoro che ha reso possibile la decriptazione di tituli in alcuni casi finora inediti e in taluni altri dei quali è stata ampliata o emendata la trascrizione ad oggi edita in letteratura. Tra i primi si segnala la lapide (177×76 cm) inserita nella pavimentazione in corrispondenza dell’altare maggiore, profondamente degradata a causa del secolare calpestìo che ha consunto la superficie in marmo e reso quasi illeggibili i caratteri incisi nello specchio epigrafico ma assegnabile verosimilmente al Seicento sulla base della tipologia scrittoria adottata (un’elegante capitale epigrafica umanistica del periodo, con lettere filiformi dal modulo regolare) e così interpretabile: Hic iacet corpus / Ioa.[nn]is Ahuia / Ruis civis civitatis / Castri / Arago[ne]n.sis / [---]X[---]. Oltre alla lapide funeraria di Juan Ahuja Ruiz, cittadino di Castellaragonese, nell’area presbiteriale vi è un’altra iscrizione marmorea (69,7×55,5×5,5 cm), inclusa nel paramento murario del lato settentrionale dell’arco trionfale, che commemora la concessione del privilegium quotidianum perpetuum ac liberum per l’altare dedicato alla Santissima Pietà, sancita da parte del pontefice Benedetto XIV il 4 ottobre 1751 con procura conferita il 9 gennaio 1753 al Ministro Generale dell’Ordine, il bolognese Carlo Antonio Calvi (1747-1753), grazie alla quale la celebrazione della Messa su quest’altare privilegiato permetteva di lucrare l’indulgenza plenaria per le anime del Purgatorio, pro omnibus defunctis. L’iscrizione, in una capitale epigrafica umanistica con caratteri rubricati in nero, l’impiego di lettere nane e interpunti di forma triangolare, recita: Altare hoc omnipoten/ti Deo in honorem S(anctis)s(i)me / Pietatis · erec/tum privilegio quotidi/ano perpetuo · ac libero / pro omnibus defunctis · / ad quoscumque sacer/dotes vigore brevis Bene/dicti Papæ XIV · die IV octo/bris MDCCLI · insignitum · at/que a Ministro Generali / Ordinis die · IX mensis Ianu/arii · MDCCLIII designatum. Facendo seguito alla repertazione della documentazione epigrafica nella Santa Maria delle Grazie, si è quindi deciso di allargare le operazioni di mappatura, rilievo grafico e fotografico di queste testimonianze all’intero borgo fortificato di Castelsardo. A partire dal cartiglio di uno stemma araldico marmoreo sistemato nella
fig. 125 – Lo stemma araldico con aquila bicipite e cartiglio recante il motto.
facciata dell’abitazione della famiglia Pruneddu, sita in via Guglielmo Marconi 8, proprio di fronte alla rampa d’accesso al Mim-Museo dell’intreccio mediterraneo. Lo stemma (fig. 125) è composto da uno scudo sagomato in cui campeggia un’aquila bicipite coronata imperiale al volo abbassato, al di sopra del quale sono incise due lettere in capitale epigrafica, una A (con traversa angolare) e una M, iniziali del titolare dell’arma; sulla punta dello scudo è invece posto un cartiglio recante un motto in versi (con richiami al sonetto XV del Canzoniere petrarchesco) che impiega caratteri in gotica minuscola quadrata, allineati tra loro grazie a dei sottili binari graffiti sulla superficie lapidea e distanziati per mezzo di interpunti rotondi a mezz’altezza della riga, con uso della tilde diritta orizzontale in funzione abbreviativa. Questa la trascrizione del testo epigrafico: Povero · sono · e · gra(n) · / pe(na vel so?) · porto · de͡ · me · se · g/uarde͡ · q(ui) · me · fara · torto. In merito all’identificazione del personaggio a cui appartenne lo stemma, le indicazioni suggerite dalle iniziali e dal motto potrebbero forse rimandare ad un esponente della nobile famiglia veneziana dei Marcello, Antonio (1424-1491), il quale, oltre ad avere ricoperto numerosi incarichi di prestigio, ricevette il soprannome di Poreto, cioè ‘poverino’ (Gullino 2007, p. 513). Questa proposta contrasterebbe tuttavia col blasone della famiglia, usualmente un’onda d’oro in campo azzurro (Coronelli 1694-1701, f. 77), benché l’adozione dell’aquila bicipite imperiale avente in cuore lo stemma dei Marcello sia attestata per una rotella di ferro, ornamento per imbarcazione, databile al XVI sec. (Umboldo, Zardetti 1839, tav. IX b). Un’iscrizione lacunosa (fig. 126) è stata individuata sulla faccia a vista (lungh. max 13,4 cm; largh. max 24,2 cm)
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fig. 126 – Le due lettere incise nella scalinata della via Mazzini.
fig. 129 – Disegno di Jean Daubigny che ritrae il campanile della Cattedrale e gli ossari (Parigi, Musée du Louvre-DAG, n. inv. RF 14342r; © RMN-Grand Palais, musée du Louvre / Michel Urtado). fig. 127 – L’epigrafe con data 1604 della campana del Palazzo Comunale.
fig. 128 – Restituzione di Castellaragonese nel ms. di Erasmo Magno da Velletri (Firenze, Biblioteca Riccardiana, Ricc. 1978, c. 68r, particolare; su concessione del Ministero della Cultura).
di un elemento della prima fila di gradini costituenti la scalinata in pietra trachitica della via Giuseppe Mazzini, in corrispondenza dell’angolo con la via Alberto La Marmora. Il blocco (il terzo a partire dal muro di contenimento), di reimpiego e rilavorato per la posa in opera nella scalinata,
reca incise in maniera profonda sulla superficie una lettera A (h 7 cm), con traversa rettilinea, seguita da ciò che permane di una M (h 7,7 cm), per metà mutila. I due caratteri, in una capitale epigrafica ascrivibile presumibilmente ad età postmedievale, presentano un modulo pressoché omogeneo sebbene il ductus delle lettere, eseguite con tecnica ‘a cordoncino’, lasci alquanto a desiderare in virtù di un tratteggio poco preciso anche nelle apicature poste alle estremità delle aste filiformi. Rivestono altresì particolare interesse, per i risvolti di carattere storico, gli esiti dell’esame e dei rilievi effettuati sulla campana in bronzo collocata nel campaniletto a vela eretto nella terrazza del Palazzo Comunale. In passato nel manufatto venne ravvisata la presenza di uno stemma pisano e della datazione «in caratteri gotici ma con la numerazione decimale, e non latina, al 1111» (Principe 1983, p. 154; Mulargia 2001, p. 38; stessa data in Ponzeletti 2017, p. 40); in ragione di ciò l’anno 1111 è stato preso quale riferimento cronologico per «la fondazione del borgo entro il XII secolo» (Maxia 2001, p. 199), riferimento però messo successivamente in discussione in quanto molto alto per ricondurvi l’origine dell’insediamento castellanese. Si è così ipotizzata una sua provenienza da altra località (Castellaccio 2007, p. 286), auspicando un attento confronto stilistico che potesse «fornire qualche elemento in più sulla sua reale datazione e sulla sua funzione di campana civica» (Bianco 2007, p. 678). La reiterata indagine autoptica a cui è stata sottoposta la campana (h 41 cm; diam. 46 cm; circ. max 146 cm) ha consentito di decifrare nella parte sommitale un’epigrafe
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Schede (fig. 127), impaginata su due righe, che corre lungo la sua circonferenza. Il titulus, in una scrittura epigrafica gotica minuscola quadrata, introdotto dal signum crucis (una croce patente accantonata da quattro globi), è il seguente: † Sancta Maria ora pronobis anno Dom/ine (!) I b 0 IIII. Dalla lettura dell’epigrafe risulta pertanto del tutto evidente che l’anno riportato dopo l’invocatio alla Vergine sia il 1604, reso attraverso i caratteri della minuscola gotica a voler replicare numeri arabi e, per le sole unità, cifre romane. Un uso, questo, piuttosto ricorrente tra il XV e il XVII sec. che si ritrova ad esempio anche nell’iscrizione di una campana della basilica di San Gavino a Porto Torres (SS), nella quale l’anno 1566 è indicato seguendo la medesima commistione, stavolta nella forma MD66, con i numerali arabi utilizzati per le decine e per le unità. È dunque facilmente intuibile che proprio l’erronea interpretazione della sequenza numerica sia alla base del fraintendimento della data e abbia indotto gli studiosi a ritenere in passato che questa fosse il 1111. Oltre al titulus, nel quale lascia perplessi il ricorso al caso vocativo in luogo del corretto genitivo per il nomen sacrum Dominus, nella campana del Palazzo Comunale compaiono due cartigli recanti entrambi l’interiezione latina AVE in caratteri capitali (richiamo alla preghiera dell’Ave Maria) e le raffigurazioni, tra loro posizionate alle estremità opposte, della Vergine col Bambino (sullo sfondo il Sole, la Luna e le sette stelle) e del S. Michele Arcangelo; è invece assente il marchio del fonditore. Altrettanto importante, poiché apporta un significativo contributo di informazioni circa l’assetto urbanistico e le architetture di Castelsardo per il periodo compreso tra gli inizi del Seicento e la seconda metà del Settecento, è stata infine l’analisi della prospettiva di Castellaragonese (fig. 128), presa dalla Cala La Vignaccia nell’estate del 1603 e inserita tra gli schizzi di viaggio di Erasmo Magno da Velletri, navigatore al servizio del Granducato di Toscana, nel suo manoscritto Imprese delle galere toscane custodito presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze (Ricc. 1978, c. 68r) nonché di ulteriori quattro disegni (conservati nel Musée du Louvre-Département des Arts graphiques di Parigi e realizzati nel 1773 variamente a penna ed inchiostro bruno, sfumato grigio, carboncino o matita) del topografo e disegnatore francese Jean Daubigny (anche D’Aubigny o D’Aubigni), oltre a quello già pubblicato da chi scrive nel 2020 (Piras 2020, p. 120, fig. 26). Rimandando ad altra sede la descrizione dettagliata delle opere del Département des Arts graphiques di Parigi (attribuite al Daubigny in Pinault Sørensen 1997, p. 65 con schede alle pp. 202-203, nn. 32, 33, 36, 38 e 39), va qui annotato che due esemplari riproducono altrettante vedute della piazzaforte di Castelsardo dal lato occidentale (nn. inv. RF 14391 e RF 14395, ambedue con data 6 giugno 1773 nel verso del foglio), uno dal lato settentrionale (n. inv. RF 14379, 3 giugno 1773) mentre un altro disegno (n. inv. RF 14342, 7 giugno 1773), a carboncino, ritrae il campanile della Cattedrale. In quest’ultimo (fig. 129) colpisce l’esistenza, in quel periodo, di due ossari (con probabile accesso a cripte) edificati ai lati del campanile e addossati ai bastioni: le due cappelle, coperte con tetto a doppio spiovente e provviste di croce mostravano, nel prospetto frontale, una muratura nella quale erano inserite file di teschi umani. Altro particolare ricavabile da questo e dagli altri tre disegni è la mancanza della cupola sulla
sommità del campanile e la presenza invece di pinnacoli in corrispondenza degli angoli, elementi funzionali forse al ripristino della copertura. Giuseppe Piras
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Codrongianos (SS). Chiesa di San Paolo. Indagini archeologiche nell’ambito dei lavori di consolidamento strutturale dell’edificio di culto Nella porzione occidentale del centro storico di Codrongianos svetta la Parrocchiale titolata a San Paolo. L’attuale edificio di culto è di impianto settecentesco, impostato su strutture di epoca precedente e con modifiche apportate nei secoli successivi: la prima attestazione della chiesa risale al 1225, quando è citata tra i possedimenti dei Camaldolesi; alla metà del ’600 è datata la costruzio-
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fig. 130 – Rilievo delle strutture emerse durante lo scavo (rilievo ed elaborazione grafica a cura del dott. Luca Sanna).
fig. 131 – Frammento ceramico rinvenuto nello strato di interro.
ne delle sei cappelle laterali e l’inizio della costruzione del campanile, che verrà portato a termine nel secolo successivo, quando saranno portati avanti interventi di riqualificazione e decorazione ad opera di maestranze locali; nell’ottocento viene realizzata la facciata principale, il terrapieno, i muri di recinzione e la gradinata che conduce al piazzale della chiesa. Nel 2021 sono stati effettuati dei lavori per il consolidamento strutturale della chiesa: le operazioni di scavo, funzionali alla posa in opera del sistema di smaltimento delle acque meteoriche nel cortile adiacente al fianco nord della chiesa, sono state condotte sotto la sorveglianza dell’archeologa Antonella Pandolfi, con la direzione scientifica della funzionaria archeologa della SABAP per le province di Sassari e Nuoro, dott.ssa Pina Corraine. Lo scavo delle prime due trincee, poste nella zona orientale del cortile suddetto, non ha restituito elementi di interesse archeologico. Lo scavo della terza trincea, posta nella zona occidentale
dello stesso cortile, in adiacenza al fianco settentrionale della chiesa, ha consentito invece di documentare un unico strato di potente spessore in cui erano presenti frammenti di laterizi, coppi, porzioni di pavimentazione in coccio pesto, elementi architettonici, resti osteologici umani e, sottostanti ad esso, una serie di murature riconducibili ad un contesto strutturale e interpretabili come “tombe a muretto”, destinate anche a sepolture multiple. Queste si sono conservate parzialmente a seguito di un importante intervento di demolizione che ha risparmiato porzioni di rivestimenti pavimentali, realizzati in malta pressata e lisciata, probabilmente interpretabili come protezione del fondo di altre tombe a muretto demolite integralmente. Le tombe erano verosimilmente realizzate mediante l’utilizzo di lastre litiche e di murature di rozza fattura sigillate con malta povera, con alta percentuale di calce residua in brevi porzioni. Un unico frammento ceramico rinvenuto nello strato di interro, che ha obliterato le tombe quando erano già distrutte, fornisce un riferimento datante: questo è riconducibile a una produzione di Patti, nel Messinese, da inquadrare tra la fine XVIII-inizi XIX secolo. La fase cimiteriale di San Paolo può essere quindi collocata in un periodo che precede le ultime fasi della creazione del terrapieno e la sistemazione delle quote del relativo piano di calpestio, che i documenti collocano nel 1870, e considerando i rapporti stratigrafici che intercorrono tra il paramento esterno del perimetrale nord con le murature delle tombe e i rivestimenti in malta lisciata, si può ipotizzare uno stretto legame della fase cimiteriale forse già con l’impianto seicentesco.
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Antonella Pandolfi, Pina Corraine, Luca Sanna
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fig. 132 – Restituzione fotografica ortometrica dei livelli pavimentali degli ambienti rilevati. Nuvola di punti.
SICILIA Provincia di ENNA Sperlinga. Castello Il castello di Sperlinga (IGM 260 II SE Nicosia) costituisce uno tra i più notevoli esempi di architettura mista, costruito su una enorme emergenza rocciosa quarzarenitica caratterizzata dalla presenza di numerosi ed ampi ambienti ipogei ampiamente riutilizzati, si impone nel paesaggio e sul borgo rupestre caratterizzato dalle modeste case unifamiliari. Il centro, individuato da Giovanni Uggeri come «simbolo della profonda osmosi maturata nell’isola tra le due soluzioni insediative» della grotta e poi del castello, seppure noto dalle fonti archivistiche e ricordato come uno dei castra exempta citra flumen Salsum nelle vicende legate al Vespro siciliano, non è stato interessato da ricerche sistematiche complessive, chiaramente molto complesse per le quali è necessario un approccio multidisciplinare trattandosi di un sito pluristratificato. La prima attestazione indiretta della probabile esistenza del castrum è del 1133, quando in un documento viene menzionata la villa Sperlingae e la sua dominatrix Galgana,
vedova di Guglielmo Altavilla, con i tre figli Ugo, Riccardo e Roberto ed il cappellano Eriberto. Durante la Guerra del Vespro assieme a quella di Calatafimi la fortezza di Sperlinga offrì riparo alla guarnigione angioina. Il castello è costituito da diversi corpi di fabbrica distribuiti su diverse quote che testimoniano l’adozione di particolari soluzioni architettoniche e costruttive in modo da integrare gli ambienti ipogeici preesistenti con le strutture murarie realizzate. Nella sua struttura attuale è verosimilmente trecentesco, epoca per la quale sono testimoniati interventi di ampliamento e la collocazione della bifora che si innesta direttamente sull’imponente balza rocciosa che domina l’abitato. Presenta pianta oblunga di circa 200 m di lunghezza per 15 m di larghezza; le dimensioni del corpo superiore risultano alquanto ridotte (40×7 m ca). Il corpo principale costruito direttamente sulla roccia come tutte le altre fabbriche ha pianta rettangolare, esternamente è caratterizzato da un lungo muro munito in alcune parti da contrafforti e forato da una serie di aperture probabilmente di epoche differenti. Diversi sono gli ambienti ipogei con copertura piana presenti soprattutto nell’ala orientale ed occidentale, comunicanti tra loro e posti sotto il piano di calpestio, funzionali alla fase trecentesca del castello, ma con riutilizzi
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fig. 133 – Restituzione fotografica ortometrica del prospetto sudorientale con l’ingresso agli ambienti rilevati. Nuvola di punti.
successivi per molti versi ancora non chiari, così come ancora sono molte le incertezze sulle vicende della struttura fortificata anche a causa dei continui riutilizzi che rendono molto complicata la lettura del sito. Recentemente l’ingresso del castello è stato interessato da lavori di restauro che hanno permesso di aggiungere nuove informazioni sul pavimento più antico e grazie alla sensibilità dell’Arch. Angelo Giunta, Responsabile della sezione architettonica della Soprintendenza di Enna e del Comune di Sperlinga (Sindaco e Geometra Calogero Lentini) è stato possibile fare un rilievo tridimensionale integrafo da fotogrammetria che costituisce il primo importante tassello per una lettura stratigrafica degli elevati che permetta finalmente di definire con più chiarezza la cronologia relativa delle diverse fasi di utilizzo di questo importante sito connesso alle dinamiche insediative del contesto territoriale spesso senza soluzione di continuità.
Il rilievo 3D La rilevazione tridimensionale dei due ambienti che costituiscono il transito di collegamento fra l’arco d’ingresso sul margine sud-orientale e la corte interna del complesso fortificato è stato eseguito con laser scanner di precisione. 14 scansioni, poi registrate, hanno consentito di ottenere una nuvola di punti molto densa (1 mm), completa di informazioni cromatiche e di coordinate geo-riferite (fig. 133). Il transito, voltato a botte, è lungo complessivamente 17,90 m, mentre i due ambienti a partire da quello occidentale (11,25×4,30 m e 4,20×3,70 m) presentano pavimentazioni differenti: piano roccioso con segni di rasatura ed adattamento il primo, pavimento in acciottolato il secondo. Quest’ultimo pavimento, realizzato con numerosi elementi di reimpiego prelevati da preesistenze murarie, si integra nel tratto antistante l’arco d’ingresso con un pozzo a pianta
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Schede quadrangolare (lato 50 cm), il cui sviluppo potrebbe mettersi in relazione con una discontinuità leggibile all’esterno al livello del banco roccioso. Uno degli obiettivi del rilievo è stato infatti quello di restituire l’attuale configurazione architettonica del prospetto sud-orientale in cui si apre l’arco d’ingresso (fig. 133). Esso è un vero palinsesto stratigrafico, con almeno cinque fasi edilizie individuabili grazie a discontinuità ed anomalie. La lunga sequenza di vita di questo importante fronte murario testimonia che questa linea, già dalle fasi costruttive più antiche del complesso, rappresenta uno sbarramento obbligatorio e continuamente manutenuto nel quadro delle condizioni orografiche del versante meridionale del formidabile sperone roccioso che ospita il castello. In ultimo, il rilievo eseguito vuole rappresentare nei nostri intenti il primo passo verso la definizione di un database tridimensionale del castello, utile per molteplici finalità: monitoraggio delle condizioni di conservazione, progettazione in BIM di interventi di restauro, progettazione di indagini archeologiche, estrazione di planimetrie e sezioni, rappresentazioni tridimensionali anche in video divulgativi e per edu-gaming. Emanuele Canzonieri, Daniela Patti
Bibliografia Bigliardi et al. 2016 = Bigliardi G., Cappelli S., Cocca E., Efrem D., Welderufial N., Il rilievo tridimensionale in archeologia: visione artificiale e scansione laser a confronto. il caso studio del settore 3 del sito archeologico di Adulis (Eritrea), Archeofoss VIII (Catania 2013), pp. 59-65. Cavallari F.S.1876, Le città e le opere di escavazione in Sicilia anteriori ai Greci, «Archivio Storico Siciliano», Società per la Storia Patria, nuova serie, Anno I, Fasc. I, Palermo, pp. 298-309. Lo Pinzino S. 1982, I possessori del castello di Sperlinga nel corso dei secoli, Sperlinga. Lo Pinzino S. 1994, Sperlinga, guida storico turistica, A.A.P.T.I., Enna. Maurici F. 1992, Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni, Palermo, pp. 335, 372. Maurici F. et al. 2002, Castelli medievali di Sicilia, Guida agli itinerari castellani dell’isola, Palermo, pp. 210-213. Paternò Castello G. 1907, Nicosia, Sperlinga, Cerami, Troina, Adrano, Bergamo, p. 80. Patti D. 2007, Insediamenti rupestri medievali dell’Ennese, Enna, pp. 132-135. Santoro R. 1985, La Sicilia dei castelli. La difesa dell’Isola dal VI al XVIII secolo. Storia e architettura, 1985, pp. 46-47.
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Archeologia Postmedievale 26, 2022, pp. 199-202 doi 10.36153/apm26007
Recensioni
Marco Balbi, Santo De Dorigo, Il Fronte scritto. Per un’epigrafia della Grande Guerra, Documenti di Archeologia 66, SAP Società Archeologica s.r.l., Quigentole (MN) 2020, pp. 172. Lo studio della Prima Guerra Mondiale e, più in generale, dei conflitti moderni, negli ultimi quindici anni, ha subito un’intensa diversificazione delle fonti di indagine. Da ricerche incentrate quasi esclusivamente su una storiografia evenemenziale si è gradualmente passati all’analisi di fenomeni complessi e di più ampio respiro, aprendosi a fonti fino ad allora poco sfruttate nell’analisi storica come la cultura materiale. Tra queste trovano uno spazio “speciale” le fonti epigrafiche che si collocano a metà strada tra le fonti scritte propriamente dette e quelle maggiormente legate a un orizzonte archeologico tradizionale fatto di reperti e interpretazioni. Ed è proprio attraverso queste fonti, il più delle volte personali o incomplete, che gli autori analizzano il Primo Conflitto Mondiale, focalizzando la loro attenzione non solo sul testo (talvolta nemmeno presente), ma presentando una panoramica a tutto tondo sul reperto epigrafico. Non a caso le sezioni del volume utilizzano la stessa formula ponendo al centro dell’indagine «l’epigrafe» (o l’epigrafia per la sezione dedicata alla storia degli studi) come fonte di informazioni declinata nelle diverse accezioni di «manufatto», «documento» e «reperto archeologico». Il volume (a esclusione di presentazione e prefazione) si apre con il primo capitolo dal titolo emblematico (e brillantissimo) «Incidere per non morire». Il capitolo, a seguito di una breve introduzione, si concentra sull’importanza delle iscrizioni di guerra con particolare riferimento alla Prima Guerra Mondiale; viene inoltre evidenziata l’importanza di un approccio archeologico allo studio di questi contesti facendo il punto della situazione sullo stato dell’arte dell’Archeologia della Guerra. Il secondo capitolo illustra un sintetico ma efficace resoconto sull’epigrafia di guerra nel corso della storia; per ammissione stessa degli autori e coerenza con l’argomento centrale del volume, vengono presentati solo alcuni esempi significati di epigrafia militare con una maggiore focalizzazione sulla storia moderna e contemporanea. I capitoli III e IV, che inaugurano la sezione sull’epigrafia della Grande Guerra, offrono una panoramica specifica sullo status in cui verte lo studio dell’epigrafia della Prima Guerra Mondiale rispettivamente lungo il fronte italiano e nel resto d’Europa, con particolare attenzione al caso studio francese. La sezione si chiude con un capitolo (il quinto) dedicato alle fonti per lo studio del patrimonio epigrafico e alle metodologie impiegate. Grande risalto viene dato alle fonti letterarie e fotografiche soprattutto se riportano informazioni su reperti attualmente non più disponibili. La sezione più corposa del volume, quella dedicata all’epigrafe come manufatto, si compone di ben sette capitoli e quattro schede di approfondimento su casi studio specifici. Se all’interno del capitolo VI si avanza una proposta di classificazione di questi eterogenei reperti, nei capitoli seguenti vengono trattati argomenti più generali come le tecniche di scrittura (capitolo VIII), le decorazioni, l’iconografia e gli stilemi (capitolo IX), le officine e le maestranze (capitolo X), e il reimpiego (capitolo XI). Ogni tematica viene affrontata attraverso l’utilizzo di esempi chiarificatori che illustrano anche la grande varietà di elementi da considerare in uno studio tanto ampio. A fare da contraltare a questi argomenti di più ampio
respiro si collocano due interessanti capitoli dedicati a due specifiche tipologie di manufatto come gli arboglifi (capitolo VII) e gli instrumenta inscripta (capitolo XII). Questi due “approfondimenti”, non eccessivamente corposi, stupiscono per la varietà di soluzioni adottate dai soldati per preservare la loro memoria durante le lunghe pause in trincea tra un assalto e l’altro e nelle retrovie. Assieme al capitolo sulla scrittura, questi sono gli unici a non presentare delle schede di approfondimento su un caso di studio dedicato, probabilmente per il numero già elevato di esempi presenti all’interno del capitolo “regolare”. Anche la sezione dedicata all’epigrafia come documento propone una sua specifica modalità di classificazione del contenuto delle iscrizioni basata sulla loro funzione. La proposta prende in esame quattro tipologie di testo: quello celebrativo – commemorativo, quello definito topografico – di servizio (iscrizioni funzionali all’orientamento dei soldati lungo le labirintiche trincee o al posizionamento dell’artiglieria per esempio), quello funerario e quello autobiografico. L’ultima sezione dedicata all’epigrafe come reperto archeologico si apre con un breve excursus sulle tecniche impiegate tradizionalmente per il rilievo delle epigrafi, delle incisioni e dei testi scritti o iconografici. Mancano invece degli accenni alle più recenti metodologie topografiche e digitali di rilievo di questi importanti reperti. Sicuramente interessante è la proposta di uniformare la schedatura delle epigrafi di guerra da parte degli autori a partire dalle schede ICCD. Come viene giustamente sottolineato, la procedura può risultare, soprattutto all’inizio, macchinosa e poco immediata ma l’idea di procedere con una proposta unitaria per rendere i dati comparabili è una necessità molto sentita e che forse avrebbe meritato più spazio sul volume. Il volume si chiude con uno dei capitoli più apprezzati da chi scrive e, probabilmente, tra i più coraggiosi dell’intera monografia. Attualmente il patrimonio materiale della Prima Guerra Mondiale, iscrizioni ed epigrafi comprese, sebbene soggetto a tutela e restrizioni da parte della legislazione italiana, è fortemente a rischio a causa di numerosi fattori. Gli autori, a seguito di una sintetica stima del numero di questi reperti ancora presenti lungo il fronte italiano, sottolineano come sia di fondamentale importanza tutelare in maniera efficace il patrimonio superstite a partire da un’attenta opera di sensibilizzazione. Non si può inoltre non spezzare una lancia in favore dell’apparato grafico e soprattutto fotografico che completa questo volume. Le immagini, sempre a colori quando non si tratta di fotografie storiche, sono tutte corredate da didascalie molto esplicative e contribuiscono a rendere la lettura meno pesante a molto più fluida. In sintesi, il volume risulta essere ben organizzato e con contenuti di grande interesse non solo per studiosi e appassionati della Grande Guerra ma anche per storici e archeologi che intendono approcciarsi ad aspetti non sempre in primo piano all’interno della disciplina. Il volume è inoltre impreziosito da una sempre focalizzata presentazione a cura di Franco Nicolis.
201
Luigi Magnini
Recensioni
Massimo Capulli, Archeologia in contesto subacqueo. Ambienti di ricerca e metodi, Forum Editrice Universitaria Udinese, Udine 2021, pp. 196. Il titolo e le premesse di questo libro appaiono senza dubbio interessanti per chi già si occupa di archeologia subacquea, un po’ meno per chi intende avvicinarvisi, dunque per studenti universitari e anche per semplici appassionati. Per queste due ultime categorie di fruitori, infatti, il libro dovrà intendersi come strumento complementare di un manuale in senso stretto, in quanto, come dichiara espressamente l’Autore, il suo lavoro non intende fornire una panoramica complessiva sull’argomento, appunto secondo un taglio di tipo manualistico, ma presentare una raccolta di casi, ovvero di interventi d’indagine realizzati in prima persona nei diversi contesti ambientali (marino, lagunare, lacustre e fluviale). La scelta è condivisibile, considerando l’importanza che determinate soluzioni tecniche e pratiche possono avere nel risolvere efficacemente problemi specifici, come sempre accade nei lavori di archeologia subacquea. Del resto, quella di ottimizzare le risorse disponibili in rapporto al contesto in cui si opera, per ottenere il miglior risultato possibile sia sul piano qualitativo che quantitativo, è una caratteristica che deve necessariamente appartenere tanto agli archeologi quanto agli operatori subacquei. Ciò premesso, dobbiamo rilevare che, a nostro parere, il libro presenta diverse criticità sia in relazione ai contenuti che all’esposizione, a cominciare dalle affermazioni che si incontrano nella premessa. Ci sembra improbabile, per esempio, ritenere che molte persone, e tra queste anche alcuni colleghi «di terra», abbiano un’immagine dell’archeologia subacquea come di «un’attività quasi scanzonata, a metà tra il ludico e l’audace», al pari di ritenere che ciò derivi da un «sillogismo, forse inconscio» per cui «mare uguale spiaggia e spiaggia uguale vacanza». Nello stesso senso conducono le considerazioni relative al fatto che, anche nelle situazioni che potremmo definire più “balneari”, l’archeologo subacqueo svolge comunque un lavoro, cioè una professione, essendo costretto a «passare ore ad arrostire sotto il sole, su una barca dondolante e con le orecchie frastornate dal rumore della pompa …», oltre che a starsene sott’acqua a testa in giù e ad immergersi anche in inverno. Il mondo scientifico ha ben altra idea dell’archeologia subacquea e anche la divulgazione più generalista non ne restituisce un’immagine di questo tipo. Il capitolo dedicato all’archeologia in contesto subacqueo appare meglio materiato, per quanto si riscontri talvolta scarsa chiarezza nel definire quali siano i confini tra discipline, metodologia e tecnica; per esempio quando si afferma che lo studio di un deposito archeologico subacqueo «implica una diversa metodologia e un adattamento che va oltre la mera tecnica». Ciascun caso di studio è organizzato in cinque sezioni, dedicate, rispettivamente, all’inquadramento storicogeografico del sito, agli obbiettivi dell’intervento e alle condizioni generali del sito, ivi comprese le criticità incontrate, alla metodologia impiegata, alle considerazioni sui risultati conseguiti, alla bibliografia. Questo ordine espositivo appare efficace, pur risultando non sempre coerente, come accade in relazione al Progetto Integrato Fusina, dove la contestualizzazione del progetto in cui si è inserito l’intervento archeologico si evince solo alla fine del capitolo.
I contenuti più originali, in linea col presupposto iniziale fornito dall’Autore, riguardano i paragrafi dedicati alle soluzioni tecniche messe in campo per far fronte alle problematiche del cantiere, a cominciare da quelle ambientali. A tale riguardo, possiamo citare il capitolo sul Relitto della Rocchetta, in cui è descritto un intervento decisamente complicato sul piano tecnico, caratterizzato da condizioni ambientali molto difficili, che hanno reso necessaria l’adozione di procedure e di presidi specifici per garantire sia la sicurezza che l’efficacia dell’operatività subacquea. Tuttavia, anche in questi paragrafi l’esposizione risulta a tratti incerta, disordinata, fatto che in qualche caso rende non semplice seguire il discorso. A questo si aggiunge l’impiego di termini non sempre adeguati (si usa «galleggio» invece di “galleggiamento”, «acquatico», riferito a una persona, invece di “dotato di acquaticità”, «meccanica deposizionale», riferita a un naufragio, invece di “dinamica deposizionale”, per fare solo qualche esempio). D’altro canto, dobbiamo ammettere che la descrizione di operazioni tecniche e di impianti particolari può risultare di per sé complicata, motivo per cui sarebbe stato efficace affiancare alla documentazione fotografica qualche disegno esplicativo (un buon disegno può aiutare a fare chiarezza più delle parole). Al di là di queste considerazioni formali, che pure hanno un’importanza non certo secondaria nella redazione di un contributo scientifico, il lavoro nel suo complesso presenta diversi elementi di debolezza riguardo ai contenuti, come già evidenziato sopra. Ciò accade proprio perché, nel suo sviluppo, il libro sembra tradire il presupposto iniziale, ovvero quello di offrire «un quadro onesto delle attività in acqua» e di non voler essere un manuale di archeologia subacquea. Pensiamo che sarebbe stata una scelta forse più efficace quella di attenersi strettamente ai presupposti dichiarati in premessa, ovvero alla trattazione delle tematiche propriamente tecniche, di cantiere, pertinenti ai singoli casi di studio. In questo modo si sarebbero meglio garantite l’originalità e la qualità del lavoro. I temi affrontati nel primo capitolo, invece, così come quelli che si incontrano nei paragrafi dedicati ai risultati raggiunti dalle indagini sul campo, conducono l’Autore, come è naturale, ad allargare il discorso su argomenti propriamente storici e archeologici, che vengono affrontati in modo non sempre esaustivo né convincente. Ed è in tali contesti che incontriamo semplici accenni all’esecuzione della documentazione o al prelievo di campioni, che, invece, avrebbero meritato di essere approfonditi, anche in funzione di un’apertura nei confronti di lettori che non abbiano una preparazione specifica e un’esperienza operativa, come potrebbero essere gli studenti. Dunque, pur non trattandosi di un manuale, sarebbe stata opportuna una maggiore attenzione verso gli aspetti multidisciplinari e le tecniche di documentazione, temi imprescindibili di ogni attività archeologica, unitamente a una maggior cura nel discutere i risultati delle indagini e l’interpretazione dei siti. Diversamente, anche i contenuti più originali del libro finiscono per stemperarsi nel quadro di un lavoro affrettato, il cui significato sul piano scientifico rischia di essere poco chiaro.
202
Stefano Medas
ARCHEOLOGIA POSTMEDIEVALE pubblica materiali riguardanti l’archeologia postmedievale, la storia della cultura materiale, la storia urbana e le scienze applicate. La rivista si propone la discussione teorica sulle domande storiografiche e sulle strategie di ricerca seguite, il potenziamento della dialettica tra fonti di natura diversa (archivistica, archeologica, archeometrica, orale e antropologica), tratto caratteristico dell’Archeologia postmedievale e suo punto di forza nell’attendibilità della ricostruzione storiografica. Infine, vuole promuovere lo sviluppo della ricerca sul campo, della tutela e della conoscenza di questa rilevante parte del patrimonio archeologico, spesso priva di riferimenti istituzionali ed esposta a continua erosione. Nella struttura del periodico, i saggi sono organizzati per argomenti. La Redazione si riserva di destinare i materiali che le pervengono, in accordo con l’A., nella sezione più adatta all’economia della Rivista. Redazione I contributi proposti per la pubblicazione devono essere spediti alla Casa Editrice, che provvede a trasmetterli alla Direzione; dopo un primo esame, vengono valutati da due referee, designati dalla Direzione stessa, in un processo di selezione rigorosamente anonimo. Sulla base dei giudizi espressi dai referee, la Direzione decide se pubblicare o respingere il testo o chiederne la revisione all’A. Periodicamente vengono pubblicati i nominativi dei referee dei precedenti volumi. I contributi accettati devono essere quindi spediti alla Casa Editrice in formato digitale in versione completa e definitiva, conformi alle norme editoriali. Ogni contributo deve essere corredato da un breve riassunto (1.500 battute, spazi inclusi) e 5 parole chiave. Riassunto e parole chiave devono essere redatti in inglese, e nella madrelingua degli A. A cura della Casa Editrice le eventuali traduzioni in inglese e italiano, che saranno comunque sempre presenti. I contributi devono portare ben evidente il nome e cognome di ogni A., l’affiliazione e i recapiti e-mail, telefonici e postali. I materiali non si restituiscono salvo specifica richiesta. Recensioni e Schede I testi delle recensioni (lunghezza massima 3 pagine a stampa, senza illustrazioni e note a piè di pagina) e le Schede degli scavi sono a cura di M. Milanese (3.000 battute massimo, senza tabelle, note o figure) e devono essere presentate all’indirizzo: [email protected]. Bozze Testi e illustrazioni devono essere consegnati nella forma definitiva. La correzione da parte degli autori è limitata alle prime bozze. La Redazione si riserva le successive correzioni. Estratti Gli A. ricevono gli estratti in formato pdf. Estratti in formato cartaceo possono essere ordinati a pagamento alla Casa Editrice prima della stampa del volume. Caratteristiche tecniche del volume Formato pagina 21×29 cm. Gabbia: doppia colonna (formato massimo immagini a piena pagina, compresa didascalia) 15,4× alt. 24,4 cm; singola colonna: 7,7×22,3 cm. Apparato iconografico Gli A. devono garantire la libera disponibilità del materiale proveniente da Musei, Archivi o da altre pubblicazioni e indicare in ogni caso in didascalia la provenienza. Tutte le illustrazioni devono avere una numerazione unica progressiva per ogni tipologia: fig. (foto, disegni, grafici); tav. (tavole di reperti), tab. (tabelle). Realizzare grafici e disegni in modo che siano comprensibili riprodotti in bianco e nero; per l’inserimento di illustrazioni a colori è necessario accordarsi preventivamente con la Casa Editrice. Attenersi alle seguenti indicazioni per la consegna di illustrazioni in formato digitale: foto – file a colori (anche se dovranno essere riprodotte in bianconero); formato tiff, psd o jpeg qualità 12; risoluzione minima 300 dpi alla dimensione di stampa; disegni – file in scala di grigi; formato tiff, psd o jpeg qualità 12; risoluzione minima 450 dpi alla dimensione di stampa; disegni al tratto – file bitmap, formato tiff o psd, risoluzione minima 800 dpi alla dimensione di stampa; file in scala di grigi; formato tiff, psd o jpeg qualità 12; risoluzione minima 450 dpi alla dimensione di stampa; immagini vettoriali – file nel formato originale o pdf, indicare il programma usato; tabelle – file nel formato originale, indicare il programma usato. Nominare i file in modo da renderli facilmente identificabili; utilizzare la stessa numerazione delle didascalie.
Indicare la scala nelle didascalie delle tavole di reperti o inserire una scala metrica. Per le piante inserire una scala metrica nel disegno. Le didascalie devono essere consegnate in un file separato in formato Word compatibile. Testo Fornire il testo digitalizzato in formato Word compatibile. Numerare i Titoli dei paragrafi per rendere evidente la struttura gerarchica degli stessi. Non inserire le illustrazioni nel file del testo. Le locuzioni straniere, non di uso comune, e latine devono essere in corsivo. Le citazioni di testo devono essere tra virgolette caporali « (alt+174) » (alt+175). Le virgolette singole ‘ ’ si usano solo per l’uso improprio di locuzioni. Le virgolette doppie “” si usano per le definizioni. Le unità di misura non hanno il punto in fondo (m, km, g) e devono essere di norma inserite dopo il valore numerico. Usare il trattino lungo – (alt+0150) come inizio paragrafo negli elenchi (con spazio dopo) e come segno di interpunzione (con spazio prima e dopo); in tutti gli altri casi usare in trattino corto - (senza spazio né prima né dopo). La numerazione delle note a piè di pagina deve iniziare da 1 ed essere sequenziale per l’intero contributo. Evitare le note troppo ravvicinate, i cui riferimenti possono capitare nella stessa riga di testo. Le note relative alle tabelle devono avere una numerazione a parte, indipendente dalle note del testo (per riferimento utilizzare l’asterisco o le lettere minuscole dell’alfabeto). Ridurre comunque al minimo le note inserendo nel testo le citazioni secondo il sistema anglosassone (Autore anno, p. 00, fig. 00). I riferimenti alle figure nel testo sono in corsivo minuscolo (fig., tav.); i riferimenti alle figure di volumi citati sono in minuscolo tondo (fig., tav.). I rimandi interni devono indirizzare a paragrafi, note o simili e non al numero pagina. Inserire i maiuscoletti quando necessario, cioè: per le abbreviazioni bibliografiche all’inglese; nelle citazioni bibliografiche in nota e in bibliografia per i cognomi degli autori citati. Id., Ead. devono essere in maiuscoletto. Ibid., supra, infra, et al. devono essere in corsivo. Se vengono citate riviste o collane in forma abbreviata indicare sempre lo scioglimento. La bibliografia finale, limitata ai titoli citati nel testo, deve essere in ordine alfabetico; può essere suddivisa in fonti storiche edite e non, fonti letterarie e fonti tratte dal web (sitografia o webgrafia). Quando ci sono più testi dello stesso autore nello stesso anno si ricorre alla lettera alfabetica progressiva vicino al nome dell’autore nel corpo del testo, nelle note e nei riferimenti bibliografici alla fine del testo (Gelichi 1995a; Gelichi 1995b). In bibliografia finale, per l’ordine dei riferimenti di uno stesso autore, vengono inseriti i testi in ordine temporale ascendente, successivamente i testi dello stesso autore (che compare per primo) seguito da due o tre autori, in ordine alfabetico, e per ultimo con più di quattro autori, adottando la formula et al. (Vannini et al. 2001). Esempi di bibliografia Berti G., Stiaffini D. 2001, Ceramiche e corredi di comunità monastiche fra ’500 e ’700: alcuni casi toscani, «Archeologia Postmedievale», 5, pp. 69-103. Di Mattia Spirito S. 1984, Assistenza e carità ai poveri in alcuni statuti di confraternite nei secoli XV-XVI, in L. Fiorani (a cura di), Le confraternite romane esperienza religiosa, società, committenza artistica, Colloquio della fondazione Caetani (Roma, 14-15 maggio 1982), Roma, pp. 137-154. Ciampoltrini G., Spataro C. 2005, Le ceramiche degli Orti, in G. Ciampoltrini (a cura di), I giardini sepolti. Lo scavo degli Orti del San Francesco in Lucca, Lucca, pp. 59-95. Fedeli L. 1992, Campagna di scavo 1989 presso i tratti stradali della dorsale transappenninica fra il Setta, il Sàvena e il Santerno, in La viabilità tra Bologna e Firenze nel tempo, Atti del Convegno (Fiorenzuola-San Benedetto Val di Sambro, 28 settembre-1 ottobre 1989), Bologna, pp. 59-72. Alica 2002 = Alica Castello della Valdera, a cura di P. Morelli, Pisa. Stiaffini D. 2002, Alica dai Gambacorta ai Certosini, in Alica 2002, pp. 31-75. Centofanti et al. 1992 = Centofanti M., Colapietra R., Conforti C., Properzi P., Zordan L., L’Aquila città di piazze. Spazi urbani e tecniche costruttive, Pescara. Relative abbreviazioni nel testo: Petrella 2005; Mannoni, Giannichedda 1996; Alica 2002; Centofanti et al. 1992.
ARCHEOLOGIA POSTMEDIEVALE is a journal that publishes articles related to post-Medieval archaeology, the history of material culture, urban history and applied sciences. The journal aims to include theoretical discussions about historiography and research strategies, the increase in the dialogue between sources of different types (archival, archaeological, archaeometric, oral and anthropological) which is a characteristic feature of post-medieval archaeology and its strong point in historiographic reconstruction. The journal also promotes the development of field research, and the interest in and guardianship of this significant portion of the archaeological heritage which is often ignored by state institutions and subject to continued erosion. The articles in the journal are organized by subject matter. The editors reserve the right to assign the articles they receive, in agreement with the author, to the most appropriate section of the journal. Editing The articles offered for publication should be sent to the Publisher, who will forward them to the Editor. After a preliminary reading, articles are submitted to two referees who are selected by the Editorial board, for a peer review process that is strictly anonymous. On the basis of the opinions expressed by the referees the Board will decide whether to accept or refuse the article, or to ask the Author(s) to make corrections. Periodically the names of the referees of the preceding issues are published. A complete and definitive digital version of the article accepted for publication, drawn up in conformity with the following notes for contributors, must be sent to the publisher. All articles must be accompanied by a brief summary (1,500 characters, spaces included) and five keywords. The summary and the keywords must be written in English and in the mother tongue of the Author(s). The publisher will provide, where necessary, translations into English and Italian of the summary. Authors must furnish their first name, last name, affiliations, e-mail address, postal address and telephone numbers in the article. Submitted material is not returned except upon specific request. Reviews and brief reports The texts of book reviews (maximum length three printed pages, without illustrations or footnotes) and the summary accounts of the excavations (Schede) are edited by M. Milanese (maximum 3,000 characters excluding charts, notes and illustrations) and should be sent to the following email address: [email protected]. Proofs Text and illustrations must be submitted in their definitive form. Authors may make corrections or changes only on the first proofs. The Editors reserve the right to make further corrections. Offprints Authors are sent offprints of their articles in pdf format. Hard copy offprints may be ordered for a fee before the publication of the issue. Technical characteristics of the volume Page size is 21×29 cm. Text size is double column (maximum format full page illustrations, including caption) 17.5×24.8: single column 8.4×24.8. Illustrations Authors must obtain the necessary permissions for illustrations of material from museums, archives and other publications and must indicate the provenance in the caption. All the illustrations must follow a single numbering system for type: fig. (photographs, drawings, graphics), tav. (tables of finds), tab. (charts). Graphics and drawings must be made so that they can be understood when printed in black and white. For the use of colour illustrations, the author(s) must make special arrangements in advance with the publishers. When submitting illustrations in digital format, authors should follow these rules: Photographs: colour files (even if they are going to be published in black and white); in tiff, psd or jpeg format quality 12; minimum resolution 300 dpi in the publishing size. Drawings: file in greyscale; in tiff, psd or jpeg format quality 12; minimum resolution 450 dpi in the publishing size. Pen and ink drawings: bitmap file, tiff format or psd, minimum resolution 800 dpi at printing size; file in greyscale, tiff, psd or jpeg format quality 12; minimum resolution 450 dpi at printing size. Vector images: file in the original format or pdf; state the program used. Charts: file in the original format or pdf; state the program used. Name the files so that they are easy to identify; use the same numbering system for the captions.
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€ 60,00 ISSN 1592-5935 e-ISSN 2039-2818 ISBN 978-88-9285-171-9 e-ISBN 978-88-9285-172-6
26 APM-26
2022
ARCHEOLOGIA POSTMEDIEVALE S O C I E T À
I
preesistenti, che nel XVI secolo assunsero le funzioni di chiesa di Santa Maria delle Grotte. L’articolo inquadra il caso di studio in una visione ampia e aggiornata del patrimonio insediativo rupestre e sofferma l’attenzione sugli affreschi di soggetto devozionale (con date 1554) e sulla documentazione fotogrammetrica 3D delle evidenze architettoniche. Ancora nel Salento, il saggio di Eda Kulja analizza un interessante nucleo di pipe in terracotta dal frantoio ipogeo del Palazzo Baronale di Caprarica di Lecce, che l’A. inserisce nel quadro di analoghi ritrovamenti pugliesi (Lecce, Nardò, Corigliano d’Otranto, Racale), con particolare riferimento a pipe in corpo ceramico rosso, raffiguranti copricapi militari ispirati alla figura dei granatieri borbonici. Giuliano De Felice presenta una ricerca di Conflict Archaeology della II Guerra Mondiale, dedicata all’aeroporto americano di Pantanella (Canosa di Puglia), una delle trenta basi aeree americane nella Puglia settentrionale, dopo il Settembre 1943. Nonostante l’aeroporto occupasse negli anni 1943-45 una superficie rilevante (20 km²), la successiva conversione dei terreni a uso agricolo enfatizza il ruolo della fotointerpretazione aerea nell’identificazione delle piste, degli accampamenti delle tende dei militari e di qualche edificio. Alcuni dei cinquantatré edifici dell’aeroporto sono stati riutilizzati per scopi agricoli, dopo l’abbandono dell’aeroporto nel Maggio del 1945. Il saggio investe infine i temi della memoria dei luoghi, vivissima nei reduci sopravvissuti e opaca nell’attuale consapevolezza del territorio. Segue la sezione “Archeologia Postmedievale in Italia”, con schede di ricerche distribuite su 11 regioni (Piemonte, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Campania, Basilicata, Calabria e Sardegna) e 22 Province.
A M B I E N T E
P R O D U Z I O N E
26 A RCHEOLOGI A POSTMEDIEVA LE
l volume si apre con il bel saggio di Fabrizio Sommaini, dedicato alla deruralizzazione di Roma, dalla Roma dei Papi, “città di monumenti e di orti” nel XVII-XVIII secolo a Roma Capitale del Regno d’Italia. In questa radicale trasformazione del townscape romano avvenne la cancellazione di enormi granai e fienili urbani, sacrificati al rinnovamento della città. In precedenza, il Catasto Pio-Gregoriano (18161835) censisce quattrocento di queste infrastrutture, spesso ottenute dalla rifunzionalizzazione di edifici antichi, meno frequentemente realizzate ex novo. Fabrizio Sommaini sottolinea come i grandi fienili e granai urbani di Roma iniziarono a essere demoliti già durante la dominazione francese della città, nella prospettiva della modernizzazione di Roma, un obiettivo ben presente nell’agenda del governo francese, per il quale l’aspetto rurale e pittoresco dei quartieri centrali si scontrava con l’idea di una città come centro del potere. L’articolo di Fabio Lorenzetti verte sul contributo della cartografia storica per lo studio del paesaggio suburbano della città dell’Aquila fino a metà Novecento, alle soglie della più pesante trasformazione urbanistica. La cartografia storica e le fonti scritte forniscono preziose informazioni, anche in rapporto a quelli che sono gli usi attuali delle aree, utili per un’analisi comparata tra fonti di natura differente e per evidenziare la complessità del paesaggio suburbano aquilano, tra mulini, monasteri, insediamenti rurali, strade, ponti, cascine, terreni coltivati, vigneti, osterie e laghi artificiali per l’allevamento ittico. Stefano Calò e Domenico Caragnano, nello scenario del territorio di Otranto post distruzioni e saccheggio turco del 1480, discutono vicende di alcuni ambienti ipogei
2022 All’Insegna del Giglio