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Italian Pages 286 Year 2023
ALFONSO BERARDINELLI
Antinomie
Letteratura, intellettuali, idee
Assaggi
Collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica
Assaggi | 7
Alfonso Berardinelli
Antinomie
Letteratura, intellettuali, idee
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma
www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Assaggi ISSN: 2612-0283 n. 7 – maggio 2023 ISBN – Edizione cartacea: 9788855291095 ISBN – Ebook: 9788855292771 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: White and black chess knights confronting on the chessboard. Business strategy, competition, challenge or disagreement concept. © Cagkan – stock.adobe.com
Hors-d’œuvre
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Intelligenza e intellettuali (2015)
Esistono professioni, discipline, luoghi istituzionali, ceti sociali a cui per pregiudizio o per convenzione si attribuisce l’intelligenza come caratteristica distintiva. Scienziati, ingegneri, docenti, filosofi, scrittori, nonché manager e addetti alla comunicazione sono senza dubbio delegati all’esercizio metodico, continuativo e obbligato delle facoltà intellettive. Questa è indubbiamente una realtà. Dentro la quale, tuttavia, si può nascondere un pregiudizio, poiché l’intelligenza è insidiata proprio dal presentarsi come qualcosa di garantito e di stabile per principio. I fatti dimostrano che non è così. Nessuno ha il monopolio dell’intelligenza, del sapere, dell’immaginazione creativa, del buon uso della mente. L’intelligenza non è misurabile, è polimorfa e mutevole. Ne sono state identificate varie forme: quella logico-matematica, quella linguistica e comunicativa, quella empatica, quella performativa, quella spaziale, strategica, pragmatica, ecc. Tutte le tipologie sono interessanti e tutte insoddisfacenti. Forme, categorie e tipi non si presentano quasi mai allo stato puro. Storia personale e posizione sociale producono un certo assetto, un certo rapporto percentuale fra le diverse attitudini. Se per esempio sono un critico letterario, non dovrò mancare di empatia con
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autori e testi. Dovrò avere abbastanza intelligenza linguistica e comunicativa per dare forma scritta a un’esperienza di lettura. Se metto in piedi un ragionamento, un’argomentazione, non dovrà mancarmi l’attitudine e il gusto per la logica. Se scrivo saggistica critica occasionale (la saggistica in senso proprio è sempre occasionale) dovrò avere una percezione del pubblico e del contesto culturale, individuando pregiudizi, interessi e conflitti, e misurando pragmaticamente le potenzialità di quello che dirò. Ho bisogno, grosso modo, di un 30% di empatia, 30% di comunicativa, 20% di logica e altrettanto di pragmatica. Già come si vede da questo modesto esempio, ogni attività intellettuale, ogni professione o vocazione, prevede e impone una forma dell’intelligenza, una mescolanza di ingredienti: conoscenze astratte e saperi pratici, competenza e performance (per usare la coppia di Chomsky). Il medico, per esempio, è un po’ scienziato e un po’ artigiano, un po’ biologo e un po’ infermiere: deve diagnosticare e poi curare e assistere. Si potrebbe continuare, analizzando forme di conoscenza e di know-how di un fisico, di un poeta, di un posatore di piastrelle, di un cuoco. Ma se inseguissi le numerazioni di arti, mestieri e professioni non finirei più. Personalmente ho una certa passione per le grandi tipologie, le più sintetiche e divertenti perché da un lato semplificano e dall’altro inglobano una pittoresca varietà di soluzioni individuali. Negli ultimi decenni e già nell’intero Novecento si possono identificare, mi sembra, tre tipi intellettuali: i Metafisici, i Tecnici e i Critici. Dietro ognuno di questi tipi c’è una situazione e un modo di affrontarla, c’è uno stile di pensiero o genere di scrittura, ma anche una diversa tradizione storica. Il tipo del Metafisico oggi è più raro, è un’esclusiva della zona più alta dell’alta cultura, la zona più arcaica che permane o torna in quanto critica della società e della cultura moderne. Allargherei la categoria dei Metafisici ad alcune varianti: i mitologi e
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mitografi, i mistici, i filosofi dell’ontologia, i teologi. Questi intellettuali (se vogliamo indicarli con un termine che nel loro caso è troppo moderno e secolarizzato) mirano alla conoscenza essenziale, la conoscenza dell’Essere al di là dei fenomeni. Questo Essere può prendere altri nomi e forme. Può essere il Dio che si rivela e si manifesta indicando agli esseri umani la via da percorrere nel corso della vita. Può essere l’insieme delle divinità che abitano la natura, in essa si nascondono e si rivelano. Può trattarsi di un Deus absconditus o di un DioNulla (cioè negazione di tutto il sensibile e il pensabile) che si può raggiungere solo attraverso una gnosi metafisica, supermentale o estatica. Ma l’indicibilità dell’Essere, che trascende ogni fenomeno e le articolazioni della lingua, può essere superata attraverso una dottrina atemporale, storicamente insuperabile, una filosofia perenne. La lettura e lo studio di autori come Scholem, Kerényi, Mircea Eliade e Heidegger hanno creato una nuova disposizione verso la metafisica, più frequentemente designata nell’ultimo secolo come ontologia. In quanto mitologia, teologia e storia delle religioni, la cultura dei Metafisici, oltre che alla speculazione pura, tende all’erudizione filologica, dato che i testi sapienziali e sacri appartengono, quasi tutti all’antichità, al Medioevo, al primo Rinascimento. Se i Metafisici sono i rarefatti abitanti di un arcipelago esclusivo nella cultura contemporanea, i Tecnici popolano interi continenti. Per loro i fenomeni sono la realtà su cui intervenire efficacemente, usando ogni volta i mezzi più adatti per raggiungere scopi prefissati. Prefissati da chi? I Tecnici hanno generalmente una mentalità avalutativa. Il giudizio sugli scopi è presupposto: viene dai committenti, dagli industriali, o dalla comunità, che ha i suoi valori correnti, e da chi la rappresenta, politici e legislatori. Mentre i Metafisici (e anche i Critici) sono un’élite senza potere o con scarsi legami con il potere economico e politico, i Tecnici sono una vastissima e varia categoria
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che oggi include sempre più largamente professioni e mestieri. Oggi sono Tecnici tutti gli esperti e gli addetti all’invenzione, costruzione, manutenzione e riparazione di “macchine”, apparati, dispositivi o sistemi vari. Sono ingegneri, matematici, “analisti simbolici” e artigiani, consulenti legali, sociologi e psicologi aziendali, manager, militari, chimici e biologi impiegati nell’industria e nella ricerca applicata. Alle spalle dei Tecnici possono anche esserci grandi pensatori e scienziati: Freud, Saussure, Weber, Keynes, Kelsen, Einstein, Pavlov, ecc. Ma l’intellettuale-tecnico ormai può essere perfino un linguista, un filologo, uno studioso di letteratura che si applica a fenomeni isolati e si ritiene in regola con la deontologia scientifica solo se non formula giudizi di valore. La coscienza morale e politica del Tecnico può essere anche sveglia e vigile. Ma il suo job non la prevede né la richiede. I fisici che realizzarono la bomba atomica non furono inibiti nelle loro ricerche dalla previsione del suo uso. Si dice che Oppenheimer assistendo alla prima esplosione atomica sperimentale si sia messo a recitare versetti dai Veda: scoprì in quel momento qualcosa di spaventosamente divino nella struttura della materia, ma fino a quel momento aveva agito come un tecnico per il quale la ricerca è un valore indipendente dalle conseguenze e dalle applicazioni possibili. Lo stesso vale oggi per la microbiologia, l’ingegneria genetica e l’informatica. Dopo gli esperti di ontologia e di meccanica, ecco gli specialisti del dubbio e del disagio: la categoria dei Critici sembra che si definisca in negativo, per reazione al sapere tradizionale e al sapere applicato che non si chiede “a che scopo”. Kafka scrisse una volta che viviamo come sonnambuli perché non vediamo le conseguenze delle nostre azioni. I Critici, da intendere in senso ampio come critici della realtà sociale e del modo di vivere, del linguaggio e delle idee dominanti, si presentano come singoli individui. Possono somigliarsi, ma ognuno di loro è un caso a sé. Il loro strumento di espressione è soprat-
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tutto letterario. È un modo di pensare e di filosofare che passa attraverso l’autoanalisi, l’autobiografia, il diario, la poesia o il romanzo, la satira e il pamphlet. Quando scelgono un partito o uno schieramento politico, fanno torto a se stessi. Se vogliono dare più potere alle loro idee alleandosi con chi ha potere, ne escono sconfitti: finiscono per mettersi al servizio della politica. Tipica del Critico è la diffidenza verso gli intellettuali che non dicono mai “io” e non fanno capire da quali esperienze sono nate le loro idee e tutto ciò che sanno o credono. L’individualismo, lo scetticismo, l’empirismo dei Critici reagisce agli imperativi e ai modelli sociali: si tratti di famiglia, sesso, corporazione, classe, ceto ecc. Quello del Critico è perciò uno “sguardo da fuori” dovuto a un senso di solitudine, a quella misantropia che interpreta la socievolezza e l’integrazione sociale come un “sacrificio dell’intelletto” e una perdita di libertà mentale. Nella tradizione di questa categoria paradossale composta di soli individui, ci sono autori come Montaigne, Kierkegaard, Leopardi e Dostoevskij, Tolstoj e Baudelaire. Se per il Novecento dovessi fare solo tre nomi, sceglierei Karl Kraus, George Orwell e Simone Weil. Tralascio i romanzieri, che sarebbero molti, e i poeti, quasi tutti. Karl Kraus è stato anzitutto un grande critico del linguaggio e un nemico del giornalismo. L’odio per la stampa che Kraus ha rovesciato sulle pagine della «Fackel», la rivista di cui fu unico autore, era secondo Benjamin un odio vitale più che morale. Attaccò perfino la prosa di Heine e quella di Nietzsche perché cedevano all’effetto giornalistico e a quello psicologico. Per Kraus la frase fatta è il linguaggio ridotto a merce. Così Kraus dice di scrivere in quest’epoca rumorosa che rimbomba dell’orribile sinfonia dei fatti che producono notizia e delle notizie che sono colpevoli dei fatti […]. Nei regni della povertà della fantasia, dove l’uomo muore di carestia spirituale senza accorgersi della sua fame spirituale, dove le penne sono intinte nel sangue e le spade nell’inchiostro […]. Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia.
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L’aforisma è in Kraus la forma primaria del discorso e deve comunicare il senso di tragedia o di tragica farsa vissuta dal linguaggio, nel momento in cui viene usato pubblicamente per coprire la propria agonia. Orwell credo che sia stato il maggiore scrittore politico del Novecento, secolo dello stalinismo e dei fascismi, della società manageriale e della comunicazione di massa come menzogna organizzata. Ma Orwell è scrittore con i mezzi del giornalismo. Fa inchieste sui minatori inglesi, sul colonialismo in Birmania, India, Africa del Nord e sulla guerra civile spagnola. Scrive in una Londra sotto le bombe di Hitler e riscopre un’Inghilterra come patria da difendere. Quelli che sembrano articoli e nient’altro, Orwell sa trasformarli in saggi di prosa classica. Anche per lui l’orrore politico passa attraverso il linguaggio, la sua manipolazione e falsificazione. Il primo e maggiore impegno politico di uno scrittore è dunque un impegno nell’uso del linguaggio e per la sua vitalità. Simone Weil è uno dei più grandi filosofi dell’ultimo secolo (cosa che tuttora i professori di filosofia non arrivano a capire). Tra i suoi libri più letti c’è un diario di fabbrica, La condizione operaia. Il suo saggio su Oppressione e libertà è una radicale critica al marxismo come teoria della rivoluzione e risale al 1934, quando l’autrice aveva venticinque anni. La prima radice è il suo testamento per la ricostruzione morale e politica dell’Europa dopo la guerra. È un libro sulla nozione di obbligo verso l’essere umano, contro la nozione di diritto. Vi si leggono frasi come queste: La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata: un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede ma da altri esseri umani che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa…
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O ancora: La tecnica ha tanta parte nel prestigio della scienza da far pensare che la prospettiva delle applicazioni sia, per gli scienziati, uno stimolo molto potente. In realtà, lo stimolo non è l’idea delle possibili applicazioni, ma il prestigio che le applicazioni tecniche conferiscono alla scienza. Come gli uomini politici sono ossessionati dal desiderio di “fare la storia”, così gli scienziati sono ossessionati dal desiderio di sentirsi qualcosa di grande. Nel senso della falsa grandezza, una grandezza indipendente da ogni considerazione del bene.
Credo che questo della Weil sia il più alto e complesso testamento morale lasciato dal secolo scorso, eppure si può dire che sia ancora ignorato. Forse non siamo abbastanza intelligenti per capirlo.
Parte I
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Teorie letterarie italiane (1999)
Quale idea di letteratura è stata elaborata, nel corso di sette secoli, dalla letteratura italiana? Esiste qualcosa che (con un anacronismo terminologico) potremmo definire la Teoria della letteratura caratteristica della nostra letteratura? Una cosa è certa: se questa idea o teoria esiste, dovremmo esserne al corrente e tenerne conto (magari per rifiutarla, ostacolarla, evaderne). E dovrebbero prenderla attentamente in considerazione soprattutto i comparatisti e i teorici della letteratura, i quali invece, mi pare, tendono a trascurarla. La teoria della letteratura è un’invenzione relativamente recente. Caratterizza in particolare la critica e lo studio letterario intorno alla metà del Novecento. Nasce e si sviluppa dal declino dell’estetica filosofica e accompagna l’interesse crescente per le metodologie di analisi dei testi. Per un certo periodo la Teoria tende perfino a prendere il posto della Critica, presentandosi nello stesso tempo come suo fondamento e superamento. Con gli anni Ottanta la teoria, più che praticata in sé, ha cominciato soprattutto a nutrire gli studi di comparatistica, fornendo loro un codice per mettere a confronto esperienze e opere altrimenti difficilmente confrontabili.
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Nel corso di questa tradizione breve e recente, la teoria letteraria è stata una specialità tipicamente cosmopolitica. Studiare teoria letteraria, magari elaborarne una in proprio, ha quasi sempre voluto dire oltrepassare i confini nazionali delle singole letterature, procedere cioè trasversalmente e, appunto, comparativamente. La teoria della letteratura con cui abbiamo avuto a che fare dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta era una disciplina transnazionale e sovranazionale: un’ideologia e metodologia comune grazie alla quale critici, storici, filologi e perfino scrittori potevano facilmente intendersi scavalcando gli intralci delle proprie tradizioni letterarie e condividendo problemi e soluzioni. L’interesse per le questioni di teoria ha internazionalizzato gli studi letterari. Prima che la Comparatistica arrivasse a soppiantarla (usando più o meno gli stessi mezzi), la Teoria era il più stabile luogo d’incontro fra critici e studiosi che studiavano autori poco noti ai colleghi di altri paesi. Bastava intendersi in teoria: perché in pratica il programma era quello di applicare più o meno le stesse categorie teoriche ai propri autori, a Góngora e a Ungaretti, a Chaucer e a Kafka, a Petrarca e a Puškin, a Zanzotto e a Robbe-Grillet. Gli autori importavano senz’altro. La loro importanza di oggetti e pretesti non poteva essere negata. Però, senza teoria, importavano e dicevano molto meno. I loro “messaggi” più veri e preziosi erano ormai anzitutto un’emanazione della struttura delle loro opere. E questa struttura era un oggetto di studio teorico. Era anzi un prodotto epistemologico della teoria, la quale, come si sa, produce i suoi oggetti di conoscenza più che trovarli nella realtà già pronti e dotati di esistenza propria. Così la teoria, che è stata senza dubbio una potente dinamo nell’internazionalizzazione degli studi letterari, inventava e diffondeva un codice terminologico e concettuale buono per tutti gli usi. Era la Grammatica della Letteratura: di molte o tutte le letterature. I metodi, le idee, le categorie descrittive che an-
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davano bene per capire la struttura del Quijote o di Tristram Shandy, la polifonia dei romanzi di Dostoevskij, la lirica “paragrammatica” di Mallarmé, l’Ulysses come “opera aperta”, ecc. potevano trovare applicazione, o meglio trasformare in polifonica, paragrammatica o aperta ogni opera che gli studiosi e i lettori di oggi ritenevano interessante. Si cominciò a pensare che i romanzi che non funzionavano «a spiedo», o per digressioni, o per dialogismi non fossero romanzi buoni, moderni, proponibili all’attenzione. Si credette che tutta la lirica e magari tutta la poesia di tutti i tempi funzionasse come un sonetto simbolista o un testo automatico. Le più diverse letterature e opere si trovarono così affratellate in un’unica teoria. Questa straordinaria unità di visione e di intenzione, di metodo e di idea portò fatalmente a una certa monotonia. Alcuni autori-culmine, autori-modello o autori-cavia venivano spremuti teoricamente fino a secernere l’essenza strutturale di tutte le opere migliori di un certo genere letterario o di una certa epoca. Fatte passare per il tritatutto della teoria, le più diverse letterature finivano confortevolmente per somigliarsi. Al punto che sembrava un po’ superfluo e “provinciale” studiarle iuxta propria principia. Non che i migliori cultori di teoria, ipnotizzati dallo “specifico letterario”, ignorassero le specificità della propria letteratura. Cercavano di tenerne conto, soprattutto se venivano da studi tradizionali come la filologia e la storiografia. Le applicazioni teoriche creavano però degli strani sdoppiamenti visivi, certi scotòmi e fosfèni. Autori di poco conto venivano incoronati dalla teoria, autori molto più notevoli sparivano in quanto teoricamente poco valorizzabili, opere corpose si sbriciolavano in una miriade di percezioni testuali probanti e disgreganti. A un certo punto, proprio lì dove era cresciuta più rigogliosamente, la teoria fu stanca di se stessa. Infatti declinò da un giorno all’altro. Restarono sul campo parecchi interrogativi.
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Uno di questi, degno di una speciale attenzione, riguarda quella che potremmo anche definire: la specificità teorica di ogni singola letteratura. La Teoria Generale della Letteratura poggiava quasi del tutto su fondamenti novecenteschi: era il risultato di una selezione e razionalizzazione di poetiche novecentesche prevalentemente “innovative” o “avanguardistiche”. Isolati alcuni grandi autori e alcuni movimenti dei primi due o tre decenni del Novecento (Proust, Joyce, Kafka, Eliot, Majakovskij, Brecht, Espressionismo, Futurismo, Surrealismo) tutto veniva fatto derivare per deduzione e proliferazione teorica dalle idee di letteratura prevalenti e solidali in quegli anni. Così anche la letteratura della seconda metà del Novecento finì per sembrare un semplice prolungamento, una conferma di eventi già avvenuti: e aspirò a legittimarsi come una replica, nelle varie letterature, di quanto già realizzato da un pugno di autori nei primi decenni gloriosi e ormai classici della modernità novecentesca. Quel canone, fissato teoricamente negli anni Cinquanta-Sessanta, consacrando e divulgando la modernità, trasformandola in una specie di nuova poetica aristotelica, fornì per un certo periodo le misure con cui valutare e descrivere qualsiasi testo letterario presente o passato. Non sappiamo quale sarà il destino degli studi di teoria e di comparatistica. Né quale sarà il futuro delle identità e culture nazionali. Finché la letteratura però verrà scritta in diverse lingue, e non in inglese o in un nuovo esperanto, finché queste lingue continueranno ad avere un qualche rapporto con specifiche tradizioni letterarie, le differenze e le particolarità delle diverse letterature riemergeranno, saranno interessanti e preziose almeno quanto le omologazioni e le somiglianze. Ed è certo che per correggere almeno in parte la tendenza di teorici e comparatisti a internazionalizzarsi così velocemente da ignorare le proprie letterature di partenza, non sarà inutile praticare un po’ di “autobiografia letteraria nazionale”. È quanto cerca di fare, molto in breve, questo saggio.
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Abbiamo studiato e cercato di assimilare, nei decenni scorsi, un patrimonio di teorizzazioni che appartiene ormai a tutti e il cui interesse per la comprensione di ogni letteratura è innegabile. Forse non avevamo capito altrettanto bene (o avevamo dimenticato) di avere nella nostra stessa letteratura una fonte di idee e teorie letterarie: che si alternano, si combinano fra loro, sembrano scomparire e poi inaspettatamente ritornano attuali e operanti anche dopo secoli di latenza. Basterebbe uno sguardo alle più recenti vicende letterarie italiane per farsene subito un’idea. Con Pasolini e Calvino, con Debenedetti e Contini, con Pirandello e Croce tornano in piena modernità e postmodernità novecentesca tendenze, conflitti, vere e proprie alternative che hanno segnato (e probabilmente caratterizzano) la letteratura italiana fin dalle origini. Non si saprebbe decidere dove, in queste alternative novecentesche, sia presente il principio-Dante e il principio-Petrarca, questo contrasto fissato polemicamente, in termini etico-politici, da De Sanctis e ripreso, in termini di analisi stilistica, da Contini (entrambi, tuttavia, parteggiano per Dante). L’estetica di Croce, tanto per fare un esempio, sembra debitrice di Dante per il suo universalismo (al centro di tutto è la storia del genere umano) e di Petrarca per la sua tendenza selettiva, sublimante e depuratrice (ciò che decide del valore letterario è la Liricità). Mentre la violenza polemica, anti-formale, anti-convenzionale di Pirandello potrebbe apparire “dantesca” per la sua capacità di esplorare senza remore gli inferni della società borghese in crisi e “petrarchesca” per la sua sete di un’assoluta, nuda autenticità individuale fuori e contro la società. Si vede così come uno schema bipolare, che potrebbe essere giudicato semplicistico, trovi il modo di complicarsi trovando terreni di confronto inediti. Si potrebbe quindi credere, tanto per cominciare, che la letteratura italiana abbia anzitutto prodotto due fondamentali e contrapposte teorie della letteratura, una riconducibile a Dante
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e una a Petrarca. La dicotomia, come si è detto, è affascinante e tutt’altro che infondata nella sua elementarità. Se è stata tanto brillantemente proposta e argomentata da due critici come Francesco De Sanctis e Gianfranco Contini, nel cuore di due secoli così diversi, qualche buona ragione per semplificare tutto in questo modo deve pur esserci. Nonostante la grandezza e la incalcolabile influenza di Petrarca sulla nostra cultura umanistica e su gran parte della lirica europea, quella dicotomia è nata, in chi l’ha proposta, da un rammarico (per il tramonto precoce del modello dantesco) e da una polemica (contro la pervasività del modello petrarchesco). Il classicismo idealizzante, l’individualismo insieme aulico e difensivo, cortigiano e antisociale che hanno creato il tipo del letterato italiano, avevano in Petrarca il loro prototipo. Lo stoicismo cristiano (Seneca più sant’Agostino) dispone Petrarca a quell’incessante cura della coscienza individuale che conduce direttamente a contrarre l’idea di letteratura in meditazione lirica: pura musica della pura interiorità, ottenuta per inflessibili procedimenti di selezione, attenuazione, armonizzazione. Una tale idea di letteratura (canonica per quanto riguarda la lirica europea moderna) dalla quale, per successive modificazioni o estremizzazioni, sono venuti autori come Góngora, Leopardi, Mallarmé e seguaci, ha esercitato sulla nostra cultura letteraria un’egemonia che ha finito per apparire preoccupante. Quell’idea di letteratura come ontologia melodica del soggetto e ascesi stilistica forniva all’intellettuale letterato italiano un magnifico alibi anti-sociale e anti-politico: creava il tipo del letterato che riesce a essere perfettamente individualista e perfettamente ossequiente alle regole di corte. In termini moderni: non un anarchico visionario ma un ansioso conformista, l’uomo la cui anima viene messa in salvo da un’etica squisitamente letteraria, dalla dedizione a un’idea di letteratura che sappia fare a meno del mondo. L’ipoteca petrarchesca sulla letteratura italiana era stata così pesante, che uno storiografo moralista e un pedagogo come
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De Sanctis non poteva che vedervi il seme della decadenza morale di tutta la cultura italiana: una cultura fatta in prevalenza di letterati ossessionati dall’ordine e ossequiosi del potere, dal filologo-cortigiano Pietro Bembo al poeta imperiale Pietro Metastasio. La letteratura era diventata, grazie a Petrarca, una cristallina idea platonica, indifferente alla storia e tendenzialmente, nelle pratiche di scuola, indifferente perfino alla biografia empirica dell’autore, modellizzata e sottratta per sublimazione stilistica all’insidia del contingente. All’estremo opposto non poteva che esserci Dante, il fondatore di una letteratura, come quella italiana, che lo aveva precocemente tradito per prendere altre strade. Il fatto è che Petrarca forniva un modello maneggevole e imitabile, Dante no. Il suo poema appariva come un unicum, sostenuto da un’idea di letteratura senza confini: enciclopedica, profetica, “impegnata”, polimorfa e plurilinguistica, capace di usare e mescolare tutti i generi, l’epica, la satira, la filosofia naturale, morale e politica, la contemplazione erotico-mistica e la teologia sistematica. Di fatto Dante, all’origine di tutto e smisurato rispetto a tutto, è diventato il giudice più severo e la cattiva coscienza della nostra letteratura: o meglio, il grande classico non “classicizzato” e non classicistico al quale ogni giudice etico-politico della letteratura italiana può fare ricorso. Con l’umanesimo i poeti diventano più filologi che moralisti e scrittori politici. Nasce un potente e risorgente classicismo italiano che esclude Dante: il quale conserva, in questo modo, il vantaggio di essere sempre di nuovo un autore riproponibile per aprire la cittadella della nostra letteratura alle invasioni di una realtà non «letteraturizzata». Ma Dante, così, più che il grande classico italiano, mostra di essere un grande classico occidentale al di sopra dei confini nazionali: dal romanticismo tedesco al Novecento (secolo accentuatamente dantesco in più di una letteratura) Dante ha attratto critici e scrittori (da Auerbach a Eliot) che hanno finito
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per insegnare a noi italiani come leggerlo e quali indicazioni ricavarne per la letteratura del presente e del futuro. Da queste rapide considerazioni si potrebbe ricavare che, in effetti, le due grandi idee antagonistiche di letteratura che la nostra letteratura ha offerto all’Europa risalgono entrambi alle nostre origini, al XIV secolo. Dante e Petrarca non ci recludono affatto all’interno di un contrasto nazionale, ma sono due strade maestre che conducono nel cuore della letteratura europea. Si potrebbe obiettare che nei primi due grandi autori della nostra letteratura quello che manca è il Romanzo, forma intorno alla quale ruotano gran parte delle vicende letterarie della modernità. Negarlo sarebbe insensato. Eppure, la Commedia e il Canzoniere sono opere leggibili l’una come un romanzo allegorico-realistico e l’altra come un romanzo erotico-coscienziale. La loro influenza va considerata al di là dei diversi generi letterari, che peraltro nel corso di tutta la modernità presentano uno statuto incerto e ansiosamente instabile. Sia danteschi che petrarcheschi, anche se in senso lato e metaforico, sono Proust e Kafka, danteschi Eliot, Musil, Mann e Joyce… Ma qui siamo sul piano di quelle analogie che in letteratura possono essere tanto produttive e suggestive quanto equivoche e indimostrabili sul piano critico. Poco convincente, del resto, potrebbe anche sembrare l’accostamento “continiano” di autori come Gadda e Montale a Dante: perché plurilinguismo e ibridazione linguistica forse non bastano a liberare i nostri maggiori scrittori novecenteschi da un certo autodifensivo “petrarchismo” morale. La letteratura può anche divorare linguisticamente il mondo, ma secondo i moventi e le procedure di una pratica esorcistica che lavora a tutto vantaggio dell’agnosticismo. Un Dante italiano del Novecento dovrebbe contenere, forse, sia Gadda che Gramsci, sia Croce che Pirandello, sia Montale che Saba.
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Dall’Umanesimo al Rinascimento e al Barocco il contrasto si sposta su un terreno parzialmente diverso, in cui a confrontarsi sono aristotelici e platonici. È una storia complicata. Perché gli aristotelici classificatori dei generi sembrano dominare: ma Pico, Poliziano, Tasso non sono facilmente classificabili nell’uno o nell’altro schieramento. E Francesco Patrizi, che è un platonico acceso è uno dei teorici più interessanti dell’epoca. Alla tassonomia e al razionalismo degli aristotelici, in particolare Castelvetro, suo antagonista, Francesco Patrizi contrappone un’idea globale di letteratura in cui, secondo il modello platonico, poesia e filosofia non sono attività e linguaggi sostanzialmente separabili. Più che osservare e descrivere sistematicamente la struttura dei testi, si tratta allora di cogliere l’essenza della letteratura. L’arte è un evento che spossessa il soggetto, supera i limiti della sua comune e «normale» consapevolezza, libera energie conoscitive e visionarie nascoste nelle profondità della mente. Senso dell’origine, della “genialità” ispirata, dell’alterità irriducibile dell’esperienza poetica (profetica) rispetto alle esperienze razionalmente prevedibili e controllabili: questo sposta già Patrizi verso Vico e i romantici europei. Siamo in prossimità di una teoria della letteratura come anamnesi, ritorno degli archetipi, liberazione dell’inconscio, dilatazione dei confini dell’io empirico, contestazione della razionalità formale e della lingua strumentale. Il Novecento, che potrebbe essere visto (nella sua seconda metà) come un secolo di ritorno e trionfo di teorie e poetiche neo-aristoteliche e neoretoriche incentrate sulla tassonomia analitica dei fenomeni testuali, è stato anche (soprattutto nei suoi primi decenni) un secolo di furori, visioni, epifanie neo-platoniche. Si pensi alle avanguardie del primo Novecento, a una letteratura che cerca la sua specificità e nello stesso tempo la rifiuta; alla mescolanza dei generi e degli stili praticata sia nella poesia che nel romanzo; all’idea di letteratura che sta alla radice delle grandi imprese narrative anti-
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naturalistiche di Proust, Pirandello, Joyce, Kafka e all’idea di letteratura come shock, spaesamento, straniamento, rivelazione perturbante. Ancora una dicotomia antagonistica? Un’idea platonica di letteratura contro un’idea aristotelica, dopo l’alternativa tra la funzione-Dante e la funzione-Petrarca? Le figure di contrasto sono fatte per risvegliare uno spirito sia ludico che polemico, e comunque ci forniscono un comodo, suggestivo criterio di classificazione e semplificazione. Naturalmente questo non risolve tutto. Anche perché le due coppie antagoniste non si sovrappongono simmetricamente. Il visionario Dante che mescola i generi è piuttosto un aristotelico che prima di mescolare ha lavorato a distinguere. Mentre il selettivo, ragionevole, moderato Petrarca è piuttosto un platonico la cui mente cerca la verità sprofondando in se stessa. Chi potrebbe negare d’altra parte che l’itinerario dantesco si concluda, dopo tanta teologia razionale, nell’unione estatica della mente profonda con l’unità-Dio che pervade tutto? Chi negherebbe che Petrarca specializza la poesia separandola accuratamente da materiali impuri e spuri e instaurando il tipo canonico della lirica antirealistica nelle letterature europee moderne? Inoltre il petrarchismo diventa un pilastro nella costruzione del letterato come cortigiano perfetto. Mentre la riscoperta di Dante porterà gli scrittori italiani verso l’impegno civile e politico e verso le forme argomentative, polemiche e oratorie del poemetto ideologico (dai Sepolcri alle Ceneri di Gramsci). Ma anche la vicenda dell’aristotelismo cinquecentesco ha qualcosa di contraddittorio. Il suo esito, alla fine del XVI secolo, è la priorità dell’elocutio rispetto all’inventio, dell’ordine testuale rispetto all’energia produttiva. Soprattutto, a un teorico dell’ortodossia aristotelica come Castelvetro non corrisponde, sul piano della produzione letteraria, un’effettiva vitalità del genere che secondo Aristotele era fondamentale, il più alto e umano, cioè la tragedia. La razionalizzazione delle regole che
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devono governare i diversi generi letterari soffoca le condizioni soggettive che renderebbero possibile la creazione di opere letterarie nuove. È un’altra delle caratteristiche paradossali, e la più sconfortante, del classicismo italiano a dominante retorico-aristotelica: l’ordine teorico ha come sfondo (ed esito) l’impotenza inventiva. La nuova letteratura europea farà un diverso uso delle fonti greco-latine e prenderà strade molto diverse da quelle indicate nella riflessione cinquecentesca italiana, fondando con Montaigne, Shakespeare e Cervantes i grandi generi letterari moderni (saggistica, teatro, romanzo). I nostri due autori più ricchi di futuro, ma stroncati dalla Controriforma, sono Tasso (con la sua competenza retorica e la sua volontà di “sublime”) e Bruno (neoplatonismo, magia, stile paradossale e dialettico): autori che dovranno aspettare la rivoluzione classico-romantica (da Goethe a Leopardi) per riprendere vita. Dal barocco italiano (così lontano dal siglo de oro spagnolo, dal barocco tedesco, nonché dall’âge classique di Pascal e Molière e dal Seicento inglese di Donne e Milton) sembra già nascere una teoria letteraria molto simile a quella semiologico-strutturalista della seconda metà del Novecento. Le rivalutazioni che del barocco italiano sono state fatte da noi negli ultimi decenni (Marino, Tesauro, il gesuitismo) hanno avuto un movente in apparenza innovativo e in sostanza conservatore. Così, a un’idea pedagogico-impegnata del letterato (che va da Alfieri a Fortini, da De Sanctis al neorealismo) se ne è sostituita un’altra, non meno (e forse più ancora) tipica e radicata nella nostra tradizione: l’idea del letterato specializzato in una retorica degli effetti, per il quale la realtà è un codice e la letteratura è veicolo di autoaffermazione politico-estetica. Grazie al dominio sui segni il letterato può legare tutto con tutto e si appropria quindi semioticamente e retoricamente di qualsiasi entità reale neutralizzandola e «derealizzandone» ogni temibile alterità.
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Le teorie letterarie postmoderne devono molto al recupero di questa trattatistica barocca. Ma forse gli eventi teorici più dirompenti e il mutamento più radicale nell’idea di letteratura arrivano nel Settecento con Vico e Alfieri. Quella che chiamiamo Modernità irrompe con questi due autori che rivelano nella costituzione più profonda della letteratura energie primordiali e istanze individualistiche indomabili. In Gian Vincenzo Gravina era tornata l’idea del poeta come filosofo che dispone di un sapere superiore da trasmettere: la cui trasmissione, perciò, deve trovare un apposito e opportuno veicolo di finzioni. Con Vico invece la teoria dualistica di sapienza e forma, di sostanza filosofica e involucro retorico viene radicalmente confutata. La poesia e il poeta hanno a che fare con l’origine del linguaggio e della conoscenza. Perciò per capire davvero la poesia bisogna guardare a Omero e a Dante. Con la teoria di Vico, platonismo e dantismo si alleano: la letteratura è ritorno alle origini, memoria mimetica della fase antropologica in cui la civiltà umana viveva la sua infanzia mitica ed eroica. Ciò che conta in letteratura è l’energia percettiva globale e pre-razionale, mentale e corporea insieme: e l’invenzione del linguaggio è anche invenzione di miti. Un altro genere di modernità, quella che fonda la letteratura nella libertà (tendenzialmente assoluta) dell’individuo, viene da un aristocratico, Vittorio Alfieri. L’assolutismo di questa idea di letteratura ha un movente politicamente (nevroticamente) anti-tirannico e anti-assolutistico. È lo scrittore, l’individuo libero, a creare, fondare, garantire, l’esistenza della letteratura e il suo valore. Nasce una teoria della letteratura in quanto etica, politica e mitologia dell’autore. Nel volontarismo eroico di Alfieri c’è tutto il senso di una frattura con la tradizione letteraria, con il costume letterario, con il mondo sociale. La stessa creazione poetica è un furore della volontà e della decisione, esprime la natura necessariamente incondizionata del genio artistico. L’io creativo raggiunge se stesso
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trascendendosi: dà voce a imperativi morali inflessibilmente consapevoli e insieme a un impulso naturale, a una forza cieca che emerge da profondità selvagge. Ancora platonismo e dantismo, furore espressionistico che nega regole retoriche e cortigiane. Non a caso il capolavoro alfieriano, la sua autobiografia, è un’autoanalisi e un’autoapologia. La nuova idea di letteratura ha bisogno ancora una volta di un mito di fondazione: il mito autobiografico dello scrittore come dèmone e vate antitirannico, monade impermeabile e irriducibile alle regole del mondo. In letteratura, ora, il primum è lo scrittore, l’autore-personaggio con la sua presenza che si irradia sui testi e li investe di un’intenzione che tende insieme a potenziarne e destabilizzarne la produttività comunicativa. Se le idee di letteratura prevalenti in Italia hanno una caratteristica, se una teoria italiana della letteratura esiste, si dovrebbe forse arrivare a concludere che la sua logica è ossessivamente costruita su alternative e antagonismi. È strano: nel paese del classicismo, delle armonie, delle mediazioni e del compromesso, l’idea di letteratura sembra riproporci di continuo una polarità o dialettica senza sintesi. Forse allora il problema teorico-letterario italiano è un problema etico e sociologico: fare letteratura secondo il mondo, fare letteratura sottraendosi al mondo. Fare della letteratura un servizio regolato e amministrabile di forme efficaci, redditizie, funzionali e ornamentali. O farne il luogo di un’utopia etica o visionaria: severa, beffarda, ludica, secondo i casi, ma comunque inconciliata. Anche nella reinvenzione moderna dei generi (i due fondamentali: poesia e romanzo) ci troviamo così di fronte a due autori che dividono, che non si mescolano tra loro, che non collaborano. Da un lato la “letteratura antimimetica” di Leopardi, dall’altro, all’opposto, la “letteratura reale” di Manzoni. È l’eterno o vecchio contrasto? Le simmetrie, come già abbiamo visto, non sono perfette. Entrambi questi autori (dopo Alfieri) sono critici della società moderna, progressiva, rivoluzio-
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naria, senza valori cristiani e senza miti antichi. Antisociale e giudicante (melanconica) è la poesia lirica secondo Leopardi. Non meno giudicante e antisociale è il romanzo storico secondo Manzoni, le cui strategie controllatissime approntano macchine infallibili per l’esame criticamente illuministico di un male sociale e storico risorgente (incarnato tanto dal modello di potere spagnolo-barocco che dal modello di potere rivoluzionario-napoleonico). Ma la disperazione autodifensiva della teoria letteraria leopardiana (una letteratura, si direbbe, fatta per un individuo singolo e solo, o al massimo per due) rovescia il modello petrarchesco creando intorno a sé lo sfondo di una società umana moderna dominata da illusioni ridicole e da un’inumana stupidità. Visione idillica, memoria e sogno non conciliano ma estraniano dal mondo. Mentre l’altro misantropo, Manzoni, costruisce pazientemente, a critica del mondo, una cittadella romanzesca così fortificata da sottrarre il romanzo alle sue mondane avventure. La realtà storica è la sua ossessione: il suo idolo letterario e gnoseologico, ma anche la fonte delle sue più tenaci fobie. Strano romanziere, l’inventore del romanzo italiano. Dal punto di vista della produttività narrativa, il suo modello teorico di romanzo è una macchina perfetta che rischia (o persegue) continuamente la sterilità. A partire da questo punto, con due geni creativi così assediati dall’afasia, dalla disperazione, dallo scetticismo intellettuale e dal silenzio non poteva che nascere la più potente creatività critica, quella di Francesco De Sanctis. Creativo perché critico, al di là dei suoi maestri terribili Leopardi e Manzoni: critico della storia letteraria italiana, storiografo e analista della sua decadenza, De Sanctis rovescia la teoria in storia, agisce come un moralista e un romanziere. Invece di delineare un sistema, costruisce un racconto. E ci fornisce una serie di tipologie morali, stilistiche, psicologiche che ancora ci suggestionano. Gianfranco Contini e Giacomo Debenedetti, ognuno
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a suo modo, partono da lì, scavalcando Croce, che invece un sistema ce l’aveva. Ma nel Novecento, il meglio della nostra teoria letteraria viene da vocazioni e temperamenti antisistematici: critici o scrittori per i quali esistenza, situazione, destino, personaggio, stile possono diventare gli oggetti di un’indagine inesauribile, duttile, militante, propositiva. Avviene con Pirandello, teorico con motivazioni fondamentalmente polemiche, per il quale una filosofia dell’arte e una teoria generale della letteratura non sono concepibili fuori di una situazione dialettica (drammatica). In un certo senso, anche Pirandello, come Croce, procede per via di negazioni: solo che dalle sue negazioni Pirandello non ricava i presupposti speculativi che permettano di fissare un’idea pura e distintiva di arte in sé e per sé. Le negazioni di Pirandello, più che speculative sono attive. Sono indicazioni per lo scrittore, il quale deve sapere che cosa la letteratura non può essere nel mondo contemporaneo e di fronte a un pubblico borghese. Pirandello non nega per depurare e ottenere la quintessenza poetica: nega per liberare la letteratura dalle convenzioni sia estetiche che sociali (due cose che tendono a identificarsi), per liberarne l’energia straniante. La sua “letteratura negativa” deve combattere anzitutto contro se stessa e le sue maschere. In luogo di un sistema teorico o di una certezza definitoria, Pirandello crea un “modo di agire” dell’arte su se stessa e sul pubblico: particolarità contro generalità, individuale contro universale, gesto e atto idiosincratico contro ogni normativa normalità. Proprio in negativo (lotta alle convenzioni) l’estetica di Pirandello è un’anti-estetica con motivazioni morali e conoscitive. La sua letteratura diventa così l’organo di una gnoseologia anti-sostanzialistica che vanifica le identità o ne mostra il carattere deforme. La forma stessa è deformazione, anche se un modello positivo non è proponibile. La verità, più che esistere, è l’energia che fa esplodere il falso rivelando un suo “oltre” indefinibile.
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Dopo Croce, accanto o decisamente al di là del suo orizzonte totalizzante (che distingue e distribuisce equamente qualità e categorie assegnando a ogni attività l’etichetta teoretica del suo significato) si tratta di descrivere ciò che la letteratura contemporanea è di fatto. Sull’idea vince l’attitudine empirica, l’ottica esistenziale. Che cos’è infatti Renato Serra se non colui che definisce “esistenzialmente” (perfino “diaristicamente”) la letteratura come rapporto fra un lettore e un testo? La tradizione letteraria perde con Serra la sua continuità oggettiva, viene ritrovata come atto di lettura intensificata, focalizzazione relazionale di soggetto e oggetto: quell’autore, quella pagina, quel verso letti in un vuoto storico sempre incombente, che solo l’autenticità della lettura può esorcizzare. Al mito dell’autore che fonda senso e valore della letteratura, Serra affianca il mito del critico-lettore. L’umanesimo si riformula in esistenzialismo ermeneutico. Il diario del leggere alla fine diventa diario dell’esistere. Senza l’esempio e il mito di Serra, forse Debenedetti non avrebbe incontrato così precocemente la propria figura di critico. Ma Debenedetti fa più di un passo in direzioni diverse: intanto rende implicita l’autobiografia del critico, ne fa uno strumento di conoscenza onnipresente ma quasi invisibile. Sceglie inoltre di concentrarsi su un genere letterario particolare, usandolo come chiave per leggere l’intera cultura novecentesca. Debenedetti non ha fatto che indagare la forma meno radicata nella tradizione italiana, il Romanzo. Se la modernità si identifica essenzialmente con il romanzo, se il romanzo italiano è così fragile e stenta a prendere corpo in un insieme stabile di usi stilistici e di aspettative di pubblico, il compito critico primario diventa identificare i momenti più autenticamente germinali della narrazione romanzesca (Pirandello, Svevo, Tozzi: l’invenzione di una vera e proprio forma epica adatta a un personaggio-uomo novecentesco). Ma non meno indispensabile è per Debenedetti l’analisi diagnostica di una
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cultura letteraria refrattaria al romanzo, una cultura tentata continuamente dalla lirica astratta e dalla prosa moralistica, frammentistica e descrittiva. La debenedettiana teoria del romanzo è una teoria critica sia militante che retrospettiva della letteratura italiana, riletta «in profondità» nei suoi moventi e nelle sue inibizioni, per episodi sintomatici, in vista e in attesa di quel romanzo moderno italiano che avrebbe dovuto liberare finalmente la nostra letteratura dallo spirito paralizzante delle sue mille accademie. Se si considera questa prospettiva, la differenza di ottica rispetto a Contini appare subito esemplare e lampante. Contini mette da parte l’indagine sulla dimensione profonda dell’invenzione letteraria, da cui emergevano le nozioni debenedettiane di Destino e di Personaggio: e si orienta sullo studio stilistico- filologico del Testo. Poco interessato al romanzo, grande studioso della tradizione italiana dalle origini al Novecento, magistrale analista di prosatori d’arte e poeti lirici, Contini rilegge in chiave espressionistica (assumendo come guide e maestri il suo Gadda e il suo Montale) la nostra letteratura. È attratto da autori anomali e parossistici: e riformulando il conflitto DantePetrarca proposto da De Sanctis, mira a correggere il canone, se non a rovesciarlo. La nozione di stile tende a essere intesa da Contini come iper-stilizzazione. Pasolini parte da qui. È debitore a Contini di gran parte della sua elementare attrezzatura critica: salvo immettere nel funzionamento stesso dei suoi testi letterari il mito (e la retorica) del «personaggio-uomo» dell’autore, con il suo destino e la sua ininterrotta energia generativa di messaggi ambivalenti. La letteratura diventa lotta e complicità fra un Personaggio-autore e uno Stile, che si rincorrono sperimentalmente all’infinito, spostando sempre altrove (nella realtà come sistema di segni) il luogo fatale di incontro fra lettori e scrittore. Più che un’idea di letteratura abbiamo qui un’idea di scrittore, di cui i testi letterari hanno il compito di segnalare e rinnovare la presenza.
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Pasolini ha insistentemente fatto riferimento a Dante. Se Calvino non è in alcun modo «petrarchesco», la sua attenzione agli incastri testuali e alla grammatica della narrazione lo avvicina però all’emergere di teorie letterarie neo-retoriche e neo- aristoteliche nella seconda metà del Novecento. Calvino scavalca il romanzo, risale alla fiaba, imita la scienza e sdrammatizza, normalizza i rapporti fra lettori e scrittore. Paradossalmente, il suo gusto dell’avventura (di cui lamentava la carenza nella narrativa italiana) lo ha portato a costruire la sua letteratura come oggetto solido, dietro cui l’autore burattinaio si nasconde: oggetto letterario confortevole per lettori di ogni paese, età, classe e cultura, come per i meno avventurosi accademici “in camice bianco” che affolleranno the next millennium.
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Come e perché leggere i classici prossimi e remoti (2015)
Il titolo che ho scelto qualche mese fa per questa conversazione ora mi fa un po’ paura. Volendo essere sia preciso che promettente, non mi ero accorto di aver dilatato la materia di cui parlare fino a comprendere almeno il cinquanta per cento di tutti i discorsi e problemi che definiscono la nostra idea di cultura. Mancano la devozione religiosa e la ricerca scientifica, non mancano del tutto l’etica sociale e i comportamenti quotidiani: che si fondano infatti su valori e norme non inventate ora e giorno per giorno, ma che ci vengono in gran parte dalla tradizione culturale, dai classici del pensiero politico e della riflessione morale, dall’epica, dal teatro tragico e comico, dalla poesia lirica, e infine, soprattutto, dal romanzo moderno. Quest’ultimo, da Cervantes fino a oggi, è il genere letterario che ha fatto dei comportamenti umani e del conflitto fra ideali e realtà il suo tema centrale. La fede religiosa e la devozione hanno anch’esse la loro radice in una serie di scritture sacre. I Veda, le Upanishad, il Mahabharata, i discorsi di Lao Tze e di Buddha, la Bibbia e il Corano sono testi considerati intoccabili e inesauribili dai credenti e devoti delle diverse religioni. Sono anzi il prototipo di quelli che, fuori della fede religiosa, consideriamo classici. Testi di ri-uso, come hanno spiegato alcuni teorici della letteratura. Testi che abbiamo deciso di non
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modificare, ma di trasmettere scrupolosamente nella loro integrità originaria, usandoli di nuovo mantenendo intatta la loro identità verbale. Il lavoro dei filologi non fa che custodire e trasmettere questi testi esattamente come furono scritti secoli o millenni fa, perché l’uso che ne facciamo leggendoli è appunto un ri-uso. Possiamo commentarli, interpretarli, parafrasarli, perfino tradurli, ma il più fedelmente possibile. Possiamo imitarli con variazioni, prenderli come modelli cercando di impadronirci della loro eccellenza e perfezione, rendendole di nuovo produttive. Ma modificarli lo riteniamo proibito. Possiamo dire che non li approviamo o che non ci interessano più, che non hanno per noi nessun valore di attualità. Ma per dire “no”, dobbiamo sapere bene che cosa rifiutiamo, e questo ci impone di leggere quei testi per quello che sono fedelmente, integralmente, senza togliere una parola. Questo veloce riferimento ai teorici della letteratura e ai filologi non deve far pensare che io parli come uno studioso rivolgendomi a una comunità di studiosi. Senza dubbio ho studiato e cerco tuttora di studiare autori e libri di cui ho bisogno per poter pensare e giudicare. Ma non sono uno specialista e non sono più da tempo un accademico. Sono piuttosto un critico, un tipo di intellettuale non facilmente definibile nei termini delle attuali professionalità. Il critico saggista, il critico della contemporaneità ha come primo oggetto il presente, una realtà mobile e fluida, in atto: un presente letterario e culturale che non è ancora “storia” e che coinvolge chiedendo un impegno fondato su scelte individuali. In questo senso, il critico non può evitare di essere sempre, in qualche misura, autobiografico. Non studia un oggetto presupposto, ma deve “costruire” il suo oggetto di conoscenza elaborando simultaneamente il proprio punto di vista, il proprio metodo e linguaggio, l’idea di un pubblico a cui rivolgersi. Siamo quindi al perché e al come leggere. Andrebbe aggiunta a questo punto una definizione di che cos’è un classico. La
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più semplice è questa: un classico è un autore o un libro che lungamente, ripetutamente non smettiamo di rileggere perché abbiamo la sensazione di avere sempre qualcos’altro da capire. Nel critico il perché precede e determina il come. Mentre lo studioso dà la precedenza al come, cioè alla correttezza e professionalità del metodo di lettura, spesso senza discutere la nozione di classico né chiedersi quali sono i classici di cui il presente, per essere compreso meglio, ha maggiormente bisogno. Potrei tuttavia muovere a me stesso un’obiezione. Molti classici, soprattutto i più remoti, non hanno bisogno di essere giudicati “attuali”. Il loro valore e il loro interesse non dipendono dalla loro attualità. Mettono anzi in discussione la nostra idea di attualità, molte nostre idee, il nostro modo di vivere, la nostra società e i sui valori. I classici sono tali perché quando li leggiamo e li usiamo di nuovo, scopriamo che meritavano di essere riscoperti. Per questo, come dice Calvino in un breve saggio, memorabile per il suo paradossale buon senso pratico, la migliore risposta alla domanda «perché leggere i classici», può essere la seguente: «perché è meglio leggerli che non leggerli». In effetti i classici sono tali proprio perché vanno letti anche senza una precisa ragione: ma solo per il fatto che da secoli, da millenni, a volte soltanto da alcuni decenni, hanno dimostrato di essere carichi di significato, di resistere al passare del tempo, perché sembra che si rinnovino in tempi diversi. Il critico di solito è molto, troppo vincolato al presente, a ciò che è attuale: dà una priorità autobiografica alla scelta delle sue letture e di solito legge meno i classici remoti, preferisce quelli più prossimi. A me è successo proprio questo: perciò non mi ritengo e non sono né uno studioso né un filologo. Anzitutto perché fin dall’adolescenza, polemicamente e in fuga dai doveri scolastici, ho letto e amato più autori stranieri tradotti che autori italiani. Qualche autore straniero ho cercato di leggerlo e studiarlo anche nella lingua originale, nelle poche lingue di
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cui so qualcosa. Ma una delle letterature che ho frequentato fin da ragazzo, e che mi hanno influenzato di più, la letteratura russa, l’ho letta sempre in traduzione: studiai il russo per sei mesi appena entrato all’università e quindi ora riesco appena a decifrare l’alfabeto. Non posso certo leggere in russo Guerra e pace, uno dei classici che amo di più, ma neppure la più breve delle novelle di Čechov. A partire dall’Ottocento, la letteratura russa ha avuto un’enorme influenza su tutte le letterature occidentali e anche su quella cinese e giapponese. Gli inglesi, così orgogliosi della propria tradizione narrativa, da Defoe a Dickens a Virginia Woolf, hanno tuttavia riconosciuto onestamente che nessun romanzo inglese è all’altezza dei romanzi di Dostoevskij e Tolstoj. Ma quanti scrittori hanno letto i russi in russo? Ben pochi. Il rapporto con certi classici sia remoti (come i greci) che prossimi (come i russi) non è passato attraverso la filologia: per leggerli e capirli, abbiamo bisogno di ottimi traduttori e di ottimi filologi. La traduzione è di per sé un’arte, un genere letterario, così come la filologia è (sebbene in senso lato) etimologicamente “amore del linguaggio”, lettura attenta, aderenza al testo, ai suoi significati letterali e a quelli allusivi e metaforici. Ogni buon lettore, secondo le sue competenze, non importa quanto limitate, dovrebbe leggere e apprezzare nella lingua originale, almeno in una o due lingue diverse dalla propria, una serie di testi classici, quelli più famosi o personalmente più amati. Consiglierei di imparare a memoria dieci o venti poesie in più lingue. È un ottimo esercizio, perché permette di percepire il corpo vivo di una lingua come si presenta nei migliori prodotti letterari che siano stati scritti. Oltre che distinguersi e incrociarsi, il critico e lo studioso possono anche coincidere. Oggi però mi sembra che succeda sempre meno. Nel critico è più forte la presenza del puro e semplice lettore, del lettore dilettante. Nello studioso prevale la professione, cioè il metodo e il dovere. Al limite lo studioso si
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mette al servizio dell’autore classico, sapendo bene il come e preoccupandosi poco del perché. Nel critico prevalgono invece le ragioni personali della lettura di un autore o di un altro. Il pericolo dello studioso è che nel suo uso della letteratura diventi una specie di logotecnocrate. Il pericolo del critico è che si fidi troppo delle sue impressioni soggettive e cerchi troppo se stesso negli autori che legge, fino al punto di travisarli, strumentalizzarli, tradirli. Da un lato, ci sono gli studi dei professori. Dall’altro, gli articoli e i saggi degli scrittori e dei giornalisti. Ma come ho detto, la separazione non è sempre così netta. C’è una critica degli scrittori che hanno fatto giornalismo e c’è una critica degli studiosi che prende la forma dello studio. Ma è difficile per esempio collocare Walter Benjamin e Roland Barthes, Giacomo Debenedetti e Antonio Candido. Nella migliore critica è il perché si legge a determinare il come si legge. Una cosa è scrivere, per esempio, una storia della letteratura per venderla nelle università e nelle scuole e per accrescere la propria autorità universitaria; una cosa diversa è decidere di scriverla perché si sente un personale bisogno di capire la storia e il carattere del proprio paese, per capire e migliorare la sua situazione presente. La storia della letteratura italiana scritta nell’Ottocento da Francesco De Sanctis è un capolavoro intellettuale e letterario perché fu scritta nel momento in cui gli italiani lottavano per la propria indipendenza politica e per una loro rivoluzione nazionale. De Sanctis interpreta la necessità di raccontare la storia di un paese e di un popolo attraverso la storia estetica e morale della sua letteratura. In quel momento, i classici della letteratura italiana potevano essere visti come tipi e prototipi in cui un intero popolo era invitato a specchiarsi per capire le proprie migliori qualità e i propri peggiori vizi. Famose sono le coppie oppositive su cui De Sanctis ha costruito il suo romanzo critico: da un lato il poeta morale e filosofico Dante, dall’altra il poeta letterato, introverso e mondano Petrarca; da un lato
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Galilei e Vico, grandi prosatori di pensiero, dall’altro iperletterati come Marino e Metastasio. Le letterature moderne nate nel Settecento con l’Illuminismo e nell’Ottocento con il Romanticismo hanno interrotto, come è noto, una continuità di tradizione che era durata secoli. Per fare un solo esempio, classici eccezionalmente longevi e influenti come Virgilio e Orazio, sono stati imitati fino al Barocco, al Rococò, all’Arcadia e alla letteratura in versi della prima metà del Settecento. Con Goethe, Novalis, Hoelderlin, Blake, Wordsworth, Coleridge, Shelley, Keats, Foscolo e Leopardi, quasi tutto cambia. In alcuni di loro la cultura greco-latina è molto presente, e si è parlato infatti di classicismo o neoclassicismo per Goethe, Foscolo, Keats, Leopardi. Ma la situazione morale e sociale in cui questi neoclassici scrivono, impone loro forme di idolatrica nostalgia per una perfezione antica ormai perduta. Il più originale e famoso saggio di critica “militante” che dà testimonianza di questa frattura è Sulla poesia ingenua e sentimentale di Schiller, pubblicato esattamente nel 1800, in cui si distingue la poesia antica (“ingenua”) da quella moderna (“sentimentale”). I due termini usati da Schiller contengono più di un significato: secondo lui, la poesia antica è in contatto con la natura, è natura. Quella moderna è invece riflessa, consapevole di aver perduto una natura di cui va alla ricerca. A questo punto, nel rapporto fra modernità e tradizione si è aperto un baratro. La società e la cultura moderne sono nate con la critica di ogni autorità, dogma, fede e domino tradizionale: la Chiesa, lo Stato assoluto, il dominio dell’aristocrazia e del clero, l’arte come imitazione di modelli ereditati e di regole retoriche da rispettare. All’avanguardia in questa rivoluzione individualistica e nella coscienza di un’epoca nuova, ci sono le due letterature europee meno legate al mondo latino: quella inglese e quella tedesca. Francesi, spagnoli, portoghesi, italiani arrivano al Romanticismo in ritardo e con molte resistenze. Anche Leopardi, che pure è il maggior poeta roman-
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tico italiano, scrisse in gioventù un violento saggio contro il romanticismo e le mitologie nordiche, in difesa della tradizione classica italiana legata ai modelli antichi. La difende perché più vicina alla natura, più originaria. In questo caso si tratta di una letteratura, quella italiana, che difende se stessa dalle influenze straniere sentite come estranee, inadatte a sé, artificiose. Ma anche in Leopardi la nostalgia dei classici antichi nasce dalla coscienza infelice di chi ha la certezza che la naturalezza, l’energia vitale, la fede nei miti e nelle favole antiche sono irrimediabilmente perdute. È romanticamente innamorato dei classici remoti, intesi come esempio di una piena umanità sparita per sempre. Una volta entrata nella logica del progresso, delle rivoluzioni, della libertà creativa, del genio individuale, della rivolta e dell’innovazione ininterrotta, per cui “nuovo” è comunque un valore, la cultura occidentale ha cominciato a diffidare dei classici. Oggi qualunque studente che abbia letto un paio di libri vuole essere libero di scrivere come vuole e se un insegnante cerca di correggerlo sente questo come una violazione della propria libera creatività, del proprio “stile” naturale. Alla perfezione della forma ottenuta attraverso l’esercizio di un’arte o artigianato, di un’abilità e di una competenza conquistate con l’attenzione e l’impegno, si è sostituito il mito dell’immediatezza espressiva, dell’originalità, dell’essere se stessi rifiutando regole tecniche. Naturalmente a questa ideologia di una modernità che ha dimenticato i classici ci sono state molte eccezioni. Il Novecento, per esempio, è stato un secolo in cui le tecniche artistiche e il formalismo hanno a lungo orientato le arti. Ma già una prima biforcazione è visibile nel contrasto fra i due esempi fondatori di poesia moderna: Leaves of Grass di Whitman (1855) e Les fleurs du mal di Baudelaire (1857). Non è facile calcolare chi dei due abbia avuto più seguaci. È certo che senza quei due classici della modernità la poesia successiva non si spie-
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gherebbe. Poiché sia Whitman che Baudelaire sono modelli umani, inventori di una nuova idea del genio letterario. Genio che usa il verso libero, esalta la libertà e la democrazia in tutte le sue forme, il vagabondaggio e la fusione estatica fra individuo e masse umane: questo è l’americano Whitman, profeta del nuovo continente e dei suoi enormi spazi da conquistare. E Baudelaire, il cittadino di Parigi che esplora gli inferni della città moderna, i suoi viziosi piaceri e i suoi magnetici orrori demoniaci: ma scrive le sue poesie secondo regolari, efficientissime regole metriche, usando per i suoi scopi tutti gli apparati retorici della tradizione classica. Già i primi romantici avevano scelto i propri classici, diversi da quelli del classicismo. Avevano riscoperto Omero, creatore primitivo, Dante gotico, Shakespeare inventore di un teatro che mescola comico e tragico, Cervantes inventore dell’eroismo comico e della follia letteraria come forma moderna di eroismo. La modernità ha creato con i suoi nuovi classici dei nuovi tipi umani. L’eroe mediocre, naufrago in un’isola deserta che ricrea un suo mondo (Robinson Crusoe); il giovane innamorato, deluso e suicida (Werther); l’ambizioso che si scontra con la società e soccombe (Julien Sorel); le donne che rompono il vincolo matrimoniale e poi muoiono suicide (Madame Bovary e Anna Karenina); lo studente povero che decide “filosoficamente” di compiere un delitto per ragioni morali (Raskolnikov). Si è aperto un conflitto drammatico fra libertà individuale e ordine sociale che è tuttora in atto. Non ho intenzione di raccontarvi la letteratura moderna. Era solo per giustificare i due aggettivi che ho introdotto nel titolo di questa conversazione: classici prossimi e remoti. Il che significa che con alcuni classici misuriamo la distanza tra modi di pensare e di vivere nelle società antiche e moderne; con altri classici, quelli prossimi, abbiamo un rapporto più diretto ma non più facile: sono così vicini e presenti fra noi che li imitiamo perfino senza conoscerli bene dato che sono i fondamenti della
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cultura dentro cui viviamo. Ma sono anche classici più pericolosi e temibili perché non ci tranquillizzano: ci fanno partecipi di conflitti radicali e spesso angosciosi espressi dalla letteratura degli ultimi due secoli. Comunque, senza di loro la nostra autocoscienza sarebbe infinitamente più limitata, debole, ipocrita. Piuttosto che parlare di questioni di teoria, metodologia e tendenze critiche, vorrei introdurre a questo punto, per concludere, una breve riflessione su due modalità particolari nella lettura di testi letterari: l’analisi e il commento. A prima vista i due termini potrebbero sembrare quasi sinonimi. Si tratta in realtà di forme di lettura addirittura opposte. Ma forse bastano a suggerire che di fronte a un classico, anche quando non ne siamo del tutto consapevoli, come lettori possiamo comportarci in modo diverso secondo le circostanze, i nostri scopi e moventi, il nostro ruolo istituzionale, i nostri canali comunicativi e il pubblico che abbiamo scelto o che ci viene imposto dalla situazione. Quando il lettore cambia e cambiano tempi e luoghi della lettura, anche i testi, le opere, in una certa misura, cambiano, mostrando aspetti diversi, come le diverse facce di un poliedro o, meno geometricamente parlando, come le prospettive di un paesaggio guardato da punti di vista diversi: da nord, da sud, da est, da ovest, di notte o di giorno, all’alba, al crepuscolo o a mezzogiorno. A volte perfino gli studiosi e i critici dimenticano l’importanza delle circostanze in cui avviene l’esperienza della lettura, o si attua la prassi metodologica in cui l’esperimento del leggere viene compiuto. Tra “esperienza” di fatto ed “esperimento” programmato c’è già una differenza. Nel primo caso gioca un ruolo importante l’imprevisto, e quindi il lettore rischia di più. Nel caso dell’esperimento di laboratorio, quando si legge per cercare certe cose e non altre, escludendo distrazioni e incidenti, si compie una lettura che di proposito evita i rischi e le sorprese. La lettura di un’opera può anche portare cambiamenti nella vita di un lettore non professionale. Il lettore
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professionale è invece più difficile che leggendo metta in discussione la propria identità. Questa differenza o alternativa viene espressa abbastanza chiaramente da modalità di approccio come l’analisi e il commento. Nel caso dell’analisi si tende a vedere il testo come un oggetto fermo, chiuso nella propria dimensione e identità formale: un oggetto osservabile, conoscibile, che l’analista distanzia da sé e descrive in termini di tecnica linguistica e stilistica, o anche in riferimento a temi e dati storici. Nel secondo caso, quello del commento, ciò di cui si parla non è solo un oggetto testuale ma anche, un’esperienza di lettura. Le reazioni di chi commenta non si nascondono dietro lo schermo scientifico, metodologico dell’analisi: tendono alla costruzione di un discorso ulteriore, a partire dal testo, in occasione della lettura, ma aggiunto al testo e dotato di una sua relativa autonomia. Il lettore, cioè, leggendo, legge anche se stesso e la sua situazione. Prolunga e attualizza il discorso del testo letto in direzione di una conoscenza che non è solo letteraria e contiene elementi di soggettività. Nell’analisi prevalgono la mentalità e il mestiere del filologo, dello studioso di scienze del linguaggio e di teoria della letteratura. Nel commento prevalgono invece interessi di conoscenza morale, psicologica, politica, nonché di analisi autobiografica. E la critica? Diventa una cosa o un’altra se nasce dall’analisi o nasce dal commento. Sto proponendo questa distinzione oppositiva poiché contiene un giudizio sull’attuale uso dei classici e una polemica sulla natura dell’etica professionale in campo letterario. Cito a questo punto un’affermazione di Lionel Trilling, uno dei migliori critici statunitensi del secolo scorso: «Non so come gli altri docenti riescano a controllare o neutralizzare la demoniaca energia individuale che si esprime nella letteratura moderna. A me riesce difficile».
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Qui il critico parla come insegnante, cioè come rappresentante di un’istituzione precisa, l’università. Ma in lui entrano in conflitto da un lato il lettore in quanto critico, che cerca di capire interamente, come individui problematici, gli scrittori moderni che legge, e dall’altro l’insegnante, il pedagogo, l’educatore che sente l’“energia demoniaca” della letteratura moderna come una possibile minaccia alla stabilità, all’equilibrio morale e psicologico di chi legge. In effetti, i classici della letteratura moderna non è facile usarli semplicemente come materia di insegnamento. Non sono modelli pedagogici, non sono addomesticabili. In loro c’è qualcosa di estremo, di selvaggio, di antisociale. Quasi tutta la letteratura moderna è potentemente individualistica: esprime spesso un rifiuto, un disagio, una critica radicale della società borghese moderna, della sua crescente e sempre più capillare razionalizzazione secondo gli scopi dello Stato e del mercato. Sembra un paradosso estremistico, ma è una realtà storica illustrata da innumerevoli esempi: i classici della letteratura e dell’arte moderna sono prevalentemente, socialmente antimoderni. È per esserlo meglio che hanno inventato linguaggi nuovi e che hanno messo in crisi il loro rapporto di comprensione con il pubblico. Lo si vede con la massima chiarezza proprio negli autori di letterature come quella francese e inglese, nate in società dove rivoluzioni e riforme politiche ed economiche sono arrivate prima e in forme che tuttora, magari sbagliando, consideriamo esemplari. La critica al mondo industrializzato è ovviamente arrivata proprio dalle letterature dei paesi in cui l’industrializzazione si è imposta prima. Comunque la critica della modernità sociale è tipica di quasi tutti i classici moderni: la troviamo in Goethe e in Leopardi, in Dickens, Tolstoj, Kierkegaard, Baudelaire e Ruskin, in Valéry, in Kraus, in Eliot, Kafka, Adorno, Orwell, Simone Weil, Camus, Pasolini e tanti altri. Meccanizzazione, massificazione, solitudine nella folla urbana,
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burocratizzazione delle attività, mercificazione della cultura e dell’umano, sfruttamento del lavoro di fabbrica, onnipresenza dello Stato e del denaro, disagio morale e senso di estraneità, consumo culturale distratto, distruzione della natura, declino delle libertà individuali, esaltate a parole ma in realtà sempre più limitate e rese illusorie… Nei classici moderni i temi più ossessivamente presenti nascono da questi fenomeni. La modernità ha avuto varie fasi e con progressive accelerazioni nel passaggio da un autore all’altro: Ariosto è in un certo senso ancora un classico premoderno, Cervantes è un classico moderno. Lo stesso avviene nel passaggio da Giordano Bruno a Galilei, dai filosofi neoplatonici e neoaristotelici dell’umanesimo (Marsilio Ficino, Pico della Mirandola) a Montaigne. A volte il passaggio si nota perfino nelle opere di uno stesso autore: per esempio fra Midsummer Night’s Dream e Hamlet di Shakespeare. Leggere i classici remoti ci fa capire che il mondo è stato molto diverso da quello che oggi conosciamo. Leggere i classici moderni è più appassionante e più rischioso: ma questo rischio deve essere affrontato se vogliamo davvero capirli. George Steiner ha concluso uno dei suoi saggi di Language and Silence dicendo: «Insegnare letteratura come se fosse una specie di servizio civile, di routine professionale, è ancora peggio che insegnare male». E ha citato queste parole di Kafka: «Se il libro che stiamo leggendo non ci risveglia come un pugno sulla testa, perché lo leggiamo? […] Il libro deve essere un rompighiaccio per spezzare il mare ghiacciato che è dentro di noi».
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La forma del saggio e le sue dimensioni (2007)
I La saggistica non è un genere letterario minore. Eppure, paradossalmente, la sua esistenza è stata offuscata dalla sua stessa diffusione, dalla versatilità e immediatezza del suo uso pratico. La scrittura con la quale comunichiamo pensieri, giudizi, riflessioni, interpretazioni può presentarsi come il tipo di scrittura più diretto, ma anche più sofisticato e più indocile, o viceversa più flessibile e maneggevole. I grandi saggisti sono stati spesso straordinariamente autorevoli e aggressivi, perfino invadenti. Possono aver definito e orientato intere epoche letterarie. Ma d’altra parte, in quanto scrittori creativi, hanno agito con discrezione, come se il linguaggio del pensiero critico e dell’interpretazione non richiedesse nessuna inventività costruttiva e stilistica, nessuna immaginazione. È vero comunque che anche i più grandi saggisti hanno «creato» e «inventato» letterariamente senza costruire un mondo alternativo a quello reale, ma piuttosto dialogando con il contesto comunicativo e sociale del loro tempo. Da Montaigne a Francesco De Sanctis, da Kierkegaard a Orwell, da Simone Weil a Gramsci, si è visto che il saggista può esprimersi alternativamente in modi idiosincratici e anarchici, o tessendo strategie intellettuali ispirate da una «missione» pubblica, da una responsabilità pedagogica e civi-
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le. Il saggio è anzitutto il genere letterario del pensiero critico e antidogmatico: ha perciò esercitato una funzione essenziale nello sviluppo della cultura occidentale. Dietro la sua forma si può leggere la crescita storica dell’individuo moderno, ma anche della pubblica discussione e della ragione critica applicata a temi di interesse collettivo.
II Il saggio, come sappiamo tutti, è tentativo, prova, esperimento. E questo ci introduce subito allo spirito di ricerca rischiosa e soggettivamente caratterizzata di questo genere letterario. Tardi, un po’ troppo tardi, poco prima dei quarant’anni, mi sono reso conto che per chiunque scriva è assolutamente necessario capire quale è il proprio genere letterario. Chi sbaglia genere letterario (oggi succede, credo, più spesso che in passato) fa errori su errori e in sostanza spreca le proprie energie. Dopo aver scritto poesia, averla intensamente studiata, dopo essermi appassionato alla critica letteraria, alle sue teorie, ai suoi metodi e alla sua funzione politica, ho capito che mettere l’artisticità da una parte e l’intelletto dall’altra non faceva esattamente al mio caso. Non ero un poeta: invece che versi e metafore, tendevo a concepire aforismi e giochi dialettici, strane interpretazioni a uso privato e microfilosofie non professionali. Come critico letterario, inoltre, ero piuttosto riluttante e renitente. Non volevo essere uno specialista. Capivo sempre meno che cosa poteva significare, in critica letteraria, essere «scientifici». Infine, sospettavo da tempo che l’esercizio della critica, fuori dalla ricerca e dall’insegnamento accademici, stesse perdendo le sue tradizionali legittimazioni. La critica letteraria, in verità, non era gradita. Non si capiva più che cosa fosse. Nessuno la voleva. Le riviste letterarie erano in crisi. I giornali chiedevano recensioni di poche righe. L’università chiedeva studi settoria-
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li. La poesia, poi, mi sembrava un genere letterario in netto declino: era finito il tempo dei poeti-intellettuali, della poesia nutrita di pensiero e di autocoscienza storica. Pur non essendo ormai né oscura né volutamente antisociale, la poesia non aveva più un vero pubblico di lettori. I poeti che preferivo erano stati a modo loro dei moderni critici della cultura: ma la grande tradizione che andava da Leopardi a Montale e Pasolini, da Baudelaire a Valéry, Eliot, Benn, Auden, era finita. Uno dei pochi poeti-filosofi della seconda metà del Novecento, Enzensberger, era sempre più un caso insolito. E del resto in tutti questi autori tendevo a confondere ciò che era saggistica e ciò era poesia, dato che usavano il pensiero come fonte primaria di ispirazione e la cosiddetta ispirazione aveva in loro sempre qualcosa di intellettualistico. In un poeta come Auden era perfino avvenuto che il suo linguaggio poetico fosse più oratorio e teatrale, più rivolto al pubblico che non la sua prosa saggistica, quasi sempre molto privata, diaristica, frammentaria, quasi scritta a uso personale. Inoltre Auden rimandava ai classici della satira, dell’epistola in versi, del poema discorsivo e didattico: una specie di saggistica versificata. Era ancora possibile fare qualcosa del genere? Credo di no. Tanto la tradizione della modernità (Baudelaire) che la tradizione classica (Orazio) avevano inglobato forti dosi di saggistica, ma rimettere la saggistica dentro la poesia mi sembrava quasi impossibile. In Italia il caso Pasolini lo dimostrava: Lettere luterane sono un poema in prosa più riuscito e più efficace di Trasumanar e organizzar, in cui l’uso del verso è ormai poco più che una convenzione tipografica.
III Anche il romanzo novecentesco si era molto compromesso con la saggistica. Proust poteva essere considerato un erede
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di Montaigne non meno che di Balzac e Flaubert. Le prose di Kafka sono costruite con la materia dell’aforisma e della parabola. Mann e Musil hanno usato il romanzo come habitat del pensiero. Cosa che più tardi ha fatto anche Milan Kundera, mentre Calvino, come Pasolini, ha concluso la sua carriera di scrittore con eccellenti libri di prosa in bilico fra saggio e racconto: Collezione di sabbia, Lezioni americane, Palomar. Dunque la modernità, soprattutto novecentesca, aveva riservato alla forma saggistica una centralità strategica. Il secolo della crisi dei generi non poteva che chiedere aiuto al più critico e instabile dei generi, al genere letterario della riflessione, dell’interpretazione e dell’autocoscienza. Nonostante l’importanza dell’epistemologia e dell’ontologia le cui vicende sono culminate in Popper e Heidegger, uno degli esiti più caratteristici del pensiero moderno è quello esistenzialistico, che porta la filosofia in prossimità della vita individuale, dell’autobiografia, del diario e della letteratura. Già con Kierkegaard, ritenuto in genere l’inventore di questa modalità del filosofare, l’autenticità del pensiero si misura sulla «singolarità» dell’esistere: la sua forma non è più il trattato sistematico, è il diario. Ma con una filosofia esistenziale, diaristica e autobiografica, arriviamo di nuovo alla forma del saggio. La tradizione saggistica è stata in Occidente un ramo misconosciuto o sottovalutato della filosofia. In fondo neppure la straordinaria (forse eccessiva) fortuna di Nietzsche è riuscita a far capire che Nietzsche è solo un saggista fra i molti e che non solo Montaigne o Pascal, ma anche Diderot, Leopardi, Baudelaire e Ruskin sono filosofi. Questo vale anche per il pensiero politico, sociologico e psicologico, che spesso, nel loro momento fondativo, prendono la forma del reportage, della narrazione, della descrizione dal vero. La descrizione che Tocqueville fa dell’America, il reportage di Engels sulla classe operaia inglese, l’autobiografia politica di Aleksandr Herzen Il passato e i pensieri, nonché la descrizione freudiana di diversi «casi clinici»,
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mostrano che la forma ibrida e mista del saggio è particolarmente adatta alla scoperta di nuovi campi di ricerca.
IV Dopo la metà del Novecento c’è stata infine la sintomatica vicenda vissuta dalla critica letteraria, la quale, come se all’improvviso si fosse risvegliata da un secolare sonno dogmatico, decise di rompere con la tradizione e di rifondarsi radicalmente, passando così dalle nebbie del mito e dell’impressionismo alle certezze della scienza. Il ventennio strutturalistico e semiologico, l’epoca più in generale del metodologismo, ha fatto pensare che tutta la precedente critica in forma di saggio dovesse essere una volta per sempre superata. L’idea di una critica letteraria come «scienza del testo poetico», la stessa definizione teorica di «funzione poetica» del linguaggio e di «letterarietà» portarono a una separazione del linguaggio critico dal linguaggio comune, dal senso comune, dal sapere prescientifico. In realtà tutta una serie di grandi critici letterari del Novecento, dotati di uno spiccato talento teorico-speculativo, come Spitzer, Šklovskij, Benjamin, Auerbach, Wilson, Adorno, non erano affatto puri scienziati del testo letterario: erano piuttosto saggisti nel senso più specifico del termine. Tutta la loro produzione critica era mescolata di vari saperi, inventava categorie teoriche, guardava a un pubblico, era politicamente orientata, definiva il qui-e-ora della critica in rapporto a una situazione sociale, istituzionale, comunicativa, autobiografica. I maggiori critici del Novecento mostravano che non era possibile depurare e specializzare le operazioni analitiche e interpretative senza ridurre la fisionomia dello stesso oggettoletteratura: che non è solo un insieme di testi, è la relazione dei testi che leggiamo come letterari con altri testi, ma anche con gli autori e le loro intenzioni, con i lettori e le loro aspettative.
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La letteratura, in particolare quella contemporanea, è un’entità mobile e sfuggente. Per afferrarla, per descriverla adeguatamente, per ambientarla nel suo contesto la critica deve saper inventare un linguaggio adeguato, con le sue modalità retoriche e stilistiche. Anche l’epistemologia ha una sua stilistica. E l’attività critica non è solo scienza e prassi istituzionale: è un’impresa individuale a rischio non calcolabile, che nessuna teoria e nessun metodo saranno mai in grado di garantire e proteggere dal fallimento e dall’errore. Perciò in critica letteraria la forma saggistica non è un puro e semplice «bello scrivere», tutt’altro. È la forma che deve fedelmente corrispondere alla reale prassi e peripezia conoscitiva attraverso le quali un particolare tipo di scrittore, il critico, conosce e costruisce il suo oggetto: o meglio evita di trasformare l’opera letteraria in pura entità testuale igienicamente oggettivata e distanziata, dalla cui libertà e ricchezza sia formale che semantica non farsi contaminare. Ma se la critica è infine un genere letterario a metà strada fra scienza e invenzione, se ogni critico è un tipo particolare di scrittore che lavora sui prodotti di altri scrittori, sulle metamorfosi dell’idea di letteratura e di coloro che la usano, allora le cose da dire sui saggisti e sui critici sono davvero molte.
V Per capire meglio le caratteristiche generali della forma saggistica, più che teorizzare è utile studiare da vicino «che cosa fanno» diversi tipi di saggisti e, di volta in volta, «come è fatto», come funziona un saggio. Ho accennato alla saggistica dei critici letterari. È stato questo, all’inizio degli anni Ottanta, il mio punto di partenza. Nel volumetto Einaudi La ragione critica (1986), nel quale Franco Brioschi parlava di storiografia letteraria e Costanzo Di Gi-
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rolamo faceva un bilancio della ricerca teorica, proposi una veloce sintesi tipologica, che avevo in mente da anni e che in quel caso voleva solo dare una prima idea della varietà del saggismo critico. Ci sono critici che entrano nelle opere letterarie e nel sistemaautore come si entra in una monade riassuntiva del mondo: critici letterari che si interessano poco alle idee generali, diffidenti della storiografia, incapaci di contemplare le epoche letterarie dall’esterno e dall’alto, come si contempla un paesaggio. Sono pensatori che hanno bisogno di afferrare un testo o di attraversare un autore per pensare e per illuminare la realtà, per capire qualcosa della storia, di ciò che è accaduto o sta accadendo alla vita degli individui e delle società umane. L’intelligenza di questo tipo di critici punta all’individuazione: anche se ogni tanto teorizzano (e lo fanno spesso con grande originalità) è come se partissero da zero, non da idee ereditate o elaborate in precedenza e prima della lettura. Non applicano idee, teorie e metodi, piuttosto li ricavano da una profonda convivenza e familiarità con certi autori. La stilistica di Spitzer e il formalismo di Šklovskij sono assai empirici, il loro gusto per la formula teorica e metodologia nasce in corso d’opera, a stretto contatto con i testi. Teorizzano leggendo, più che leggere appoggiandosi a teorie. Della stessa famiglia sono anche Benjamin (al quale Adorno rimproverava non a caso una certa debolezza teoretica), Giacomo Debenedetti e Roland Barthes: intelligenze a volte funamboliche, che però si mettono in moto solo nel momento in cui afferrano un tessuto verbale o inseguono lo strano caso di un singolo autore. La seconda categoria la trovavo rappresentata, invece, da quei critici letterari che funzionano come storici delle idee, dei temi, delle forme: grandi costruttori e narratori di vicende culturali soltanto all’interno delle quali i singoli scrittori trovano un posto e un senso. In Italia il modello di questo tipo di critica è naturalmente Francesco De Sanctis, nella cui Storia della let-
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teratura italiana la peripezia dialettica delle contrapposizioni e degli antagonismi fra autori, stili ed epoche è quasi più originale e avventurosa delle analisi-ritratto. Nel Novecento basti pensare ad Auerbach, Edmund Wilson, Frank Raymond Leavis, che come saggisti direi che tendono al genere epico: studiano i modi di rappresentazione della realtà, ma la realtà per loro esiste, ha un senso e un interesse anche di per sé, al di qua e al di là dei testi letterari. Infine la saggistica critica degli scrittori. Certo, T.S. Eliot è riuscito a scrivere la sua poetica personale e nello stesso tempo a diventare un vero pontifex maximus perfino fra gli accademici. Ma di solito la grande saggistica critica prodotta da scrittori (la Woolf e Valéry, Forster e Mann, Montale, Auden, Octavio Paz) è piuttosto trascurata, credo ingiustamente, dagli studiosi. I più influenti sono stati gli autori con temperamento di leader o capi carismatici, come Pound, Brecht, Breton. Si tratta comunque di una critica oscillante fra l’autobiografia e la pedagogia, fra il gesto idiosincratico, autodifensivo e quello prescrittivo, autoritario.
VI L’altra ipotesi che avanzavo, non tipologica ma analitica, era quella, delle tre dimensioni che definiscono un poliedro saggistico: la dimensione teorica, quella pragmatica e quella stilistica. Anche in questo caso pensavo soprattutto alla saggistica dei critici letterari: ma saggisti a dominante filosofica, o politica, o perfino narrativa, possono essere considerati e descritti negli stessi termini. Si tratta in sostanza di vedere, in un singolo testo o in un autore, che ruolo giocano, nel loro rapporto reciproco: a) le idee; b) i canali e le forme della comunicazione pubblica; c) i giochi formali, le predilezioni, le ossessioni figurali, lo stile in quanto
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caratterizzazione individuale e strettamente letteraria. Quali di queste dimensioni predomina nella strutturazione di un testo saggistico? È chiaro per esempio che nella saggistica di autori come Kraus e Orwell la dimensione pragmatica, il rapporto con il pubblico dei lettori, l’efficacia e la forza comunicativa e persuasiva sono continuamente in primo piano. In Adorno, in Sartre, in Ortega, in Gramsci è la passione per le idee e i sistemi teorici a mettere in moto la scrittura: lo stile è modellato dal lavoro del concetto. Nei saggi di Barthes, di Octavio Paz e di Calvino chi legge, invece, non dimentica mai che affermazioni e descrizioni, per quanto interessanti in se stesse, ci vengono incontro attraverso la mediazione di uno stile che nasce anzitutto dall’immaginazione letteraria di chi scrive. In saggistica, comunque, non avremo mai a che fare con una fondamentale finzione (come nel romanzo o nel teatro) né con la nuda o pura o assoluta soggettività (come nella poesia). Il saggista si attiene alla realtà. Può indagarla attraverso l’immaginazione, ma non la sostituisce con l’immaginazione. Ha uno stile. Ma il suo stile non detta legge alla cosa da dire, né può radicalmente trasformarla. Perfino nei diari di Kafka e di Kierkegaard, nello Zibaldone di Leopardi, nei quaderni di Simone Weil, negli aforismi di Lichtenberg o di Kraus c’è sempre qualcosa di didattico, di pedagogico (magari autopedagogico). Il lettore non entra mai in un altro mondo, in un mondo parallelo e alternativo a quello reale, resta in questo mondo: e ciò che legge deve anzitutto essere preso alla lettera. Il massimo di audacia fantastica nella saggistica è forse il paradosso (da Swift a Pasolini) che ipotizza l’estremo per rivelare una verità di fatto. Non si deve credere, tuttavia, che l’esteticità o letterarietà del genere saggistico sia qualcosa di tanto inafferrabile e insolito. In pittura qualcosa di simile avviene con il genere del ritratto. Anche i più grandi capolavori della ritrattistica, da Bellini a Velázquez e oltre, sono invenzioni al servizio della realtà. Il soggetto del ritratto deve essere riconosciuto, magari al di
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là di se stesso, in una verità così assolutamente individuale e contingente da trascendere contingenza e individualità. In effetti il ritratto è uno dei sottogeneri saggistici più praticati. Nei periodi in cui la critica letteraria ha guardato più agli autori che ai testi, il critico è stato anzitutto un ritrattista. In anni recenti, in Italia, Cesare Garboli ha ripreso la tradizione critica del ritratto portandola a livelli di vero e proprio virtuosismo. Il ritratto resta la forma più ovvia e praticata dalla critica non accademica, che si muove fra giornalismo e narrativa. Ma anche studiosi diversissimi come Mario Praz e Norberto Bobbio hanno dato nel genere del ritratto il meglio di sé. Siamo ovviamente nella grande e più antica tradizione del saggio, con i suoi lontani precedenti in Teofrasto e Plutarco.
VII Un’ultima considerazione. Mi sembra che l’Europa del Novecento abbia avuto con la forma saggistica un legame privilegiato. Siamo il continente ormai meno capace di inventare e proporre miti e storie. La letteratura europea, anche negli ultimi due secoli, ha prodotto straordinari capolavori in poesia e nell’arte del romanzo. Il romanzo in particolare è stato a lungo un genere letterario tipicamente europeo. Ma ho l’impressione che le nostre capacità narrative si stiano esaurendo. È invece nella saggistica, nel genere letterario veicolo di interpretazioni, analisi e commenti, che anche negli ultimi cinquant’anni l’Europa ha prodotto di più. Insomma: interpretiamo miti e racconti prodotti altrove. La mia non vuole essere una diagnosi negativa, ma una semplice constatazione. Il pensiero critico, il rifiuto dei dogmi, il dubbio su noi stessi e sul nostro passato storico, l’arte del dialogo e della discussione non sono certo un patrimonio esclusivo della cultura europea. Avvertiamo tuttavia che l’illuminismo, cioè la razionalità capace di mettere
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in discussione se stessa, la propria logica e i propri fini, ci appartiene tuttora come eredità storica. Il mondo sociale e materiale nel quale viviamo, economia, tecnologia, sistemi politici, è qualcosa di cui la cultura europea è specificamente responsabile. Abbiamo contribuito direttamente o indirettamente a cambiare l’intero pianeta. Ora si tratta di capire meglio che cosa abbiamo inventato e dove ci porteranno le nostre invenzioni. Anche per questo, forse, la saggistica, la forma letteraria della riflessione, è il nostro più probabile destino letterario.
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A chi piacciono le Opere mondo? (1995)
Questo libro di Franco Moretti, Opere mondo, è un libro ammirevole, importante, ma che io capisco solo a metà e che in fondo non mi piace. Imiterò lo stile di Moretti, che procede per domande e risposte, chiedendomi “perché?” e cercando di rispondere. Ma per evitare il climax negativo, mettendo in fondo tutto il peggio che ci si può aspettare, farò il contrario. Prima le cose negative e poi, per concludere, le cose positive che penso di questo libro. Un finale da commedia, piacevole e lieve, mi sembra tra l’altro più adatto a un’opera disposta a quasi tutto pur di trovare che l’evoluzione letteraria, e anche quella sociale, vanno per il meglio, e che valeva sempre la pena di perdere qualcosa di essenziale per guadagnare in libero sviluppo. Non sappiamo, in definitiva, se l’avvento della modernità sia stato più una festa o più un lutto, se il Novecento sia stato più un’esplosione creativa o distruttiva. Io ammetto di essere sensibile al lato negativo della cosa e di vedere più ciò che è andato perduto che i nuovi acquisti. Moretti sottolinea sempre, invece, la distruzione dei vincoli del passato come una liberazione. Il suo libro concede poco margine all’incertezza. Ed ecco che posso cominciare dall’ultimo dei quattro perché, il più brutto.
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Perché questo libro non mi piace? Non mi piace perché ho spesso l’impressione che Moretti mi attiri in una trappola. Il libro è infatti una grande, potente, ingegnosa trappola critica. Contiene le esche più attraenti, i massimi autori, gli autori più discussi, le opere per le quali non si può non passare: a partire dal Faust per arrivare a Cent’anni di solitudine, come dice il sottotitolo. Ma poi i due punti cruciali sono Wagner e Joyce, gli artefici delle più fortunate e perfette opere mondo, cioè L’anello del Nibelungo e l’Ulisse. Sarà banale, ma per lealtà e chiarezza devo dirlo. Non solo non mi piace l’idea che l’opera mondo più riuscita debba anche essere, secondo Moretti, quella più fortunata, e che quindi in letteratura e in arte il prodotto migliore è quello che vince la concorrenza sul mercato, è quello più competitivo. Mi interessano, mi incuriosiscono molto di più i casi in cui, invece, ciò che è migliore per qualità (“opera mondo” o no) viene trascurato e respinto, perché questo stimola la critica e mostra gli aspetti non positivi, ma negativi della società borghese, mercantile, capitalistica, moderna e post-moderna: della società totale e di massa. Qualità e successo invece per Moretti vanno insieme. Le sue opere mondo sono le opere che si sono imposte come “testi sacri” della letteratura moderna. E quindi il meglio della cultura artistica si stringe in un abbraccio felice con gli stadi culminanti dello sviluppo sociale, e vince perché è più forte. Devo aggiungere però che, oltre che questa idea di opera mondo, non mi piacciono proprio le particolari opere mondo alle quali va tutto l’entusiasmo di Moretti. Mi annoio col Faust e con l’Ulisse, detesto la loro schiacciante preminenza; mi è antipatico Wagner e non riesco ad ascoltarlo, per la pretenziosa solennità in cui ogni nota è affogata; e infine non mi sembra che Cent’anni di solitudine sia quel capolavoro che si ritiene: un libro che dopo le prime cento pagine diventa monotono e prevedibile, un’orgia di zucchero filato. Vero, direbbe Moretti.
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Ma… secondo lui è proprio questo che li rende opere mondo e testi sacri: proprio la noia, la necessità che essi impongono, cioè, di essere studiati più che letti, forti più che piacevoli, importanti e appunto di schiacciante presenza nel campo culturale, più che nutritivi, confortevoli, rivelatori per il singolo lettore o per un’élite di lettori. L’opera mondo non è, come si diceva una volta, artisticamente riuscita. Non è un successo artistico, è un successo sociologico. La sua importanza non si spiega con il metro dell’arte in sé, ma con il metro del rapporto fra arte e società. Un’opera mondo è un’opera che compie l’impresa di annodare miracolosamente ciò che nella sfera culturale e artistica e nell’esperienza sociale stentava a trovare forma. Provo a riassumere alcuni concetti (e valori) che tengono in piedi il libro di Moretti. L’opera mondo, contrariamente a ciò che si potrebbe credere a prima vista, non è un’opera che crea un mondo a sé stante, non crea un’altra dimensione rispetto a quella del presente sociale: risolve invece conflitti e difficoltà presenti nell’esperienza sociale, li rende accettabili. Non si oppone al mondo, non lo smaschera, non lo giudica, né tanto meno ne denuncia gli orrori e gli aspetti grotteschi, ridicoli. No, l’opera mondo rende accettabile il mondo sociale che fino a poco prima, o in altre opere meno forti (e quindi meno consapevoli) era sembrato inaccettabile. L’opera mondo sa che il mondo sociale è dominato dalla forza e dal potere: e si rivolge a esso usando gli stessi mezzi, potere e forza, nel medium della forma. L’opera mondo è l’opera che ha la stessa forma assunta di volta in volta nella società dalla forza che governa il mondo sociale. Ecco quello che non mi piace nell’idea che Moretti ha della letteratura maggiore in quanto opera mondo: non mi piace che la letteratura, al suo vero culmine, quando vince sui concorrenti e diventa testo sacro, non fa che modellarsi sul potere, sulla forma del potere sociale. L’opera mondo, si potrebbe dire, eleva un altare al potere in modo che anche i lettori pos-
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sano adorarlo, adorarlo nell’esperienza estetica, oltre che, per forza di cose, nell’esperienza sociale. Si capirà un po’ meglio, ora, perché, secondo me, de gustibus disputandum. La critica di Moretti, una forma di critica che prende asceticamente la forma dello studio scientifico, sembra non prendere in considerazione problemi di gusto o di valore, con i relativi giudizi. I giudizi di gusto e di valore in lui sono impliciti, così che la mia descrizione del suo libro potrebbe sembrargli assurda. Lui infatti crede di fare scienza. Secondo me, invece, costruisce un mito e fa del moralismo. A un certo punto dice che ovviamente, parlando per inciso, anche lui ha le sue preferenze (preferisce Joyce a Proust e, mi pare, anche a Kafka – mentre io preferisco Proust e Kafka). Le sue preferenze e i suoi gusti però lui non vuole esprimerli nel modo più diretto e disarmato: li conserva e li supera, facendoli diventare forti e oggettivi, con un atto di Aufhebung. Lo studioso ingoia il lettore e lo fa sparire. Ce l’ha nella pancia, ne ricava qualche nutrimento e qualche motivazione. Ma deve nasconderlo per renderlo scientificamente potente, istituzionalmente autorevole. È il “modello storiografico darwiniano”, è la teoria “materialistica” della letteratura che si incaricano di rendere vincenti le preferenze e i gusti: che sono personali, opinabili, e quindi scientificamente inaccettabili, “deformi” e non devono comparire. Tornando ai “non mi piace”: ecco, non mi piace il carattere di cogenza dimostrativa che nella critica di Moretti assumono le sue innegabili, ma da lui negate e messe in ombra, preferenze. Ricordo con simpatia un saggio di Auden a proposito del Leggere. Una delle epigrafi è tratta da Paul Valéry, e dice: «Si legge bene solo quello che si legge per un intento del tutto personale. Il che può essere o per acquistare un qualche potere, o per odio nei confronti dell’autore». Moretti studia le sue opere mondo per capire “come funzionano”, cioè come hanno ac-
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quistato il loro potere, nonostante siano e sembrino spesso dei mezzi fallimenti artistici, o dei capolavori mancati. Fallimenti e opere non riuscite sul piano artistico: ma successi sociali, forme darwinisticamente vincenti. L’idea di “opera mondo” ispira anche l’idea che, almeno in questo libro, Moretti ha della critica, o meglio dello “studio letterario”. La sua vuole essere una forma di critica oggi vincente: lo studio accademico, materialistico e comparato, teorico e applicato, deve sostituire le forme della critica precedente, di tipo saggistico, ormai senza molto spazio e autorità, e da tempo in declino. La sua è la forma di critica che ha preso senza residui la forma dello studio (cosiddetto) scientifico della letteratura: per un pubblico di lettori che non si chiedono e non devono chiedersi se un libro gli piace o se sia di maggiore o minor valore di un altro. La critica che piace a Moretti parla a un pubblico di lettori costretti, più che a leggere, a studiare dei libri come testi sacri. Questa apoteosi della critica che declina e poi finisce per diventare studio accademico, teorico e comparato, e dei lettori liberi che diventano lettori obbligati istituzionalmente, sarà anche un processo in corso pressoché inarrestabile, ma non mi piace e non riesco a vederlo di buon occhio. Sarà la realtà, ma spero che non sia tutta la realtà, cioè il solo modo di avere rapporti con le opere letterarie. Ricordavo quel saggio di Auden sulla lettura e sulla critica, perché preferirei che le preferenze di un critico fossero umilmente esplicite, e quindi opinabili come personali idiosincrasie, invece che sublimate e nascoste sotto l’armatura dello studioso che ci parla solo di fatti obiettivi. Secondo Auden il critico dovrebbe, per onestà, fare addirittura l’elenco dettagliato delle cose che gli piacciono (quale clima, quale religione, quale forma di governo, quale tipo di architettura e di mobili, quali svaghi, ecc.) poiché importante è sapere quali sono i gusti di chi ci sta parlando di opere letterarie.
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Una sola volta Moretti è più esplicito su questo punto: ed è quando ci dice che fare «storia materialistica delle forme letterarie», «capire come funzionano quelle cose complicate che gli esseri umani amano leggere» è una cosa che gli dà, «in tutta franchezza», «un piacere irrazionale». Questa rude franchezza di Moretti è una delle qualità più preziose della sua scrittura critica: ma è un peccato, per non dire una contraddizione, parlare di «piacere irrazionale» proprio nel momento in cui lo si fa sparire dentro la «storia materialistica delle forme letterarie». Sarà così «irrazionale» questo piacere? Con simpatica sprezzatura, Moretti aggiunge che non cercherà «in nessun modo di giustificarlo». No, giustificarlo no. Ma è strano che proprio nel momento in cui si parla del “come funzionano” le opere letterarie, si eviti di vedere che anche il piacere critico di “farle a pezzi” si può vedere “come funziona” e quanto poco irrazionale sia. Il piacere del critico che soffoca il lettore e si sublima in studioso, è il piacere di sentire la letteratura come cosa morta, o macchina su cui operare doverosamente vivisezioni e smontaggi. È il piacere del distacco garantito (dagli strumenti d’analisi) e autorizzato (dall’istituzione di insegnamento e ricerca). Il genio della conoscenza per Moretti è gelido, secondo me è caldo. E qui torno all’inizio della mia risposta, al perché non mi piace, in questo libro, il modo di intendere la critica e di leggere la letteratura. Parlavo dell’essere attirati da Moretti in una trappola critica. Sì, ma perché? Perché per Moretti le stesse opere letterarie sono delle pericolose trappole. Non è un caso che il suo mito critico sia l’irriverenza aggressiva. Si deve essere cattivi per poter conoscere, l’intelligenza è cattiveria, cioè interruzione della simpatia che potrebbe legarci alle opere letterarie: o casomai complicità competitiva per la conquista del potere culturale. È su questo terreno che la critica (il libro di Moretti è, vuole essere una vera e propria “opera mondo” critica) compete oggi con il vecchio potere delle opere letterarie. La storia letteraria è per
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Moretti un campo di battaglia e quindi la lotta deve continuare ed essere spietata. Sia perché oggi la letteratura appare spesso debole e malata, soprattutto in Europa e in Occidente, e quindi va uccisa criticamente. Sia perché le opere letterarie sono cattive con noi, ci ingannano. Sono macchine per ingannare, congegni formali per produrre illusioni e conciliazione. Ma la critica non ci casca in queste trappole: le smonta, vede come funzionano e le imita, ne riproduce il congegno su un altro piano. Moretti smonta la trappola letteraria e costruisce una trappola critica. Teorizza le opere mondo come forme darwinisticamente vincenti, per imparare a costruire la forma, darwinisticamente vincente, di una critica teorico-comparatistica ispirata da teorici della forma e da teorici della società moderna, e in cui si tratta dei libri più accademicamente ineludibili degli ultimi due secoli. Così, noi, di qui dobbiamo passare. Lui deve leggere il Faust e l’Ulisse. Noi dobbiamo leggere Moretti. Il quale ha trovato il modo di rendere argomentativamente cogenti i suoi gusti, nascondendoli, mettendoli come un nano deforme dentro il potente robot della teoria formalistica e insieme materialistica dell’evoluzione dei generi. E infine i suoi gusti e le sue argomentazioni vanno ad abbracciare la realtà attuale in generale, nonché la realtà personale di Moretti professore di letterature comparate a New York. Vedendo il modo in cui le opere mondo vengono descritte, dal Faust all’Ulisse, pilastri letterari degli ultimi due secoli, è difficile non farsi venire in mente che Moretti sta facendo proprio l’apologia di tre cose: la città di New York (culmine epocale), l’Università (meta finale e destinazione ineluttabile della letteratura diventata studio della letteratura) e infine del Post-moderno (in cui finalmente le angosce europee della modernità conflittuale si risolvono nella pacifica, liberatoria, polifonica convivenza di tutto con tutto). Siamo in prossimità di Umberto Eco. L’opera mondo di Moretti è una dilatazione potenziata dell’opera aperta di Eco. Un’opera priva di centro antropomorfico: fine del personaggio, fine del-
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la narrazione romanzesca, superamento del saggismo e di ogni intelligenza critica, interessata ancora a comprendere e giudicare la società, non solo «catturare stimoli». L’umano-terreno «esce di scena» – dice Moretti con soddisfazione. Restano gli oggetti e una pluralità di linguaggi senza soggetto, oggettivati: una grande complicazione o complessità (termine su cui Moretti insiste con crescente soddisfazione) «priva di estro» e priva di senso. Una cultura senza saggezza, probabilmente dissennata o stupida. Ma questo vuol dire essere adeguati alla realtà così come è oggi. La cultura oggettiva del capitalismo vince sulla Bildung soggettiva, e l’individuo sparisce, con le assurde pretese di avere una coscienza propria e una propria vita. L’opera mondo trionfa così nei bagliori sinistri ma grandiosi di una finale conciliazione fra arte e società: «La liberazione della polifonia» (procedimento cardinale dell’opera mondo) «è, sì – scrive Moretti –, uno sviluppo della tecnica letteraria: ma uno sviluppo che ricalca in ambito formale una tendenza generale del capitalismo moderno». La grandezza eroica dell’opera mondo, che per Moretti è il meglio della letteratura moderna, consiste nell’euforia con cui organizza la distruzione della propria distanza critica e utopica dal mondo, facendo viceversa della letteratura un’apologia della struttura sociale. Uso di proposito questa ben nota formula adorniana. Eliminare dall’idea di letteratura moderna l’idea di una critica sociale e culturale è infatti un punto d’onore del libro. Si fluttua, con l’aiuto dello stream joyciano, in un grande fiume di merci: non alienanti ma confortanti, cariche di indefinite promesse. Il flusso di coscienza dell’Ulisse è secondo Moretti il procedimento letterario vincente del Novecento perché addestra ad accettare il mare delle merci, a tuffarsi senza riserve nel loro flusso. L’esito finale di questa storia dei rapporti fra opere mondo e capitalismo è l’economia-mondo addolcita dalla pubblicità. Sul piano più strettamente culturale, l’eccesso di complessità si semplifica con la fine dei nessi razionali fra una nozione
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e un’altra, e con la fine del romanzo: che è rappresentazione dei nessi fra un prima e un dopo, fra un tempo e uno spazio, fra un pensiero e un comportamento. Quello profetizzato dalle opere mondo è invece un mondo sociale spazializzato, onnicomprensivo, senza destino, libero da vincoli, che non teme più nessun tribunale morale, politico, storico, religioso. I sospetti angosciosi e gli incubi di Kafka, massimo rappresentante (con Proust e Musil) della letteratura come parabola e come saggezza (magari inafferrabile o inattuabile), Moretti li ritiene superati. Dimenticando un po’, mi sembra, che il Novecento non è stato solo il secolo della metropoli e della cosmopoli in cui ognuno è più libero; dello sviluppo dei mercati, delle meraviglie della scienza e della tecnologia: è stato invece anche il secolo dei totalitarismi, delle false libertà, della tecnologia più distruttiva. Parlare ancora, come fa Moretti, della rottura dei vincoli e dei limiti come di una trionfale via alla liberazione illimitata (di un soggetto umano, tra l’altro, che si è liberato di se stesso) mi sembra una corrusca utopia da marxismo ottocentesco. Forse, da tempo, in vari campi, è invece proprio il senso del limite la cosa di cui si sente, credo, più la mancanza. Sotto le spoglie della teoria letteraria, questo libro di Moretti suona spesso come un trattato di morale, che vuole dirci qual è veramente la realtà, come è fatta, e come dobbiamo funzionare per riconoscerla e andarle incontro pacificati e soddisfatti. Io diffido più dei moralisti impliciti, che parlano a nome della dura realtà, che non dei più inoffensivi moralisti espliciti, che trovano il coraggio di parlare a nome di una cosa tanto fragile e opinabile come la morale. Moretti parla spesso a nome della realtà e pensa che la letteratura migliore sia quella delle opere che si espandono sulla realtà per conquistarla di forza. La conquistano rispecchiandola e ubbidendo a essa. Questa idea di letteratura, in cui i classici canonizzati a scuola si fondono con i best seller della Trivialliteratur, piace a chi adora la realtà
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intesa come forza e la letteratura come cosa grande e potente: come una centrale elettrica, una rete ferroviaria, un aeroporto, un’istituzione pubblica transnazionale. Ma esiste anche una letteratura che gioca su un altro piano: nel definire che cosa è realtà, nell’occuparsi del poco visibile, di ciò che è trascurato e apparentemente secondario, nel rivolgersi a lettori singoli, piuttosto che, come le opere mondo, a un’“intera società”. Preferisco una letteratura che conti sulla minuscola libertà del lettore singolo piuttosto che sulla forza cogente delle grandi istituzioni. Perché capisco solo a metà? Non credo che la passione di Moretti per ciò che è grande, più grande, grandioso, per ciò che sovrasta, vince e abbraccia tutto, sia soltanto megalomania. Impossibile è capire che cosa succede in due secoli di letteratura se si guardano ruscelli e stagni ignorando fiumi e laghi. Quello che però capisco solo a metà è perché le opere mondo sarebbero solo quelle e non altre. Secondo l’idea di Moretti, l’opera mondo spazializza la pluralità temporale in pluralità di luoghi compresenti. Frantuma il tempo e il corso storico. Ecco perché il romanzo resta per lo più escluso dallo schema. Così Balzac, Dickens, Dostoevskij, Tolstoj, Zola (che, per non parlare d’altro, hanno realizzato l’epica della realtà quantitativamente più ampia) non vengono presi in considerazione perché troppo legati ai confini di un solo spazio nazionale. Ma si tratta, mi pare, di una distinzione sottile, forse pretestuosa. Non riesco a considerare il mondo di Baudelaire più ristretto e univoco del mondo di Whitman, né Guerra e pace meno polifonico di Moby Dick. Penso (non so se sia un sospetto) che l’esaltazione che Moretti fa della pluralità e della polifonia sia paradossalmente un po’ troppo unificante e a senso unico. Privilegia le opere che, di per sé, o per il modo in cui vengono da lui interpretate, preannunciano il post-moderno. Su questa categoria di post-moderno Moretti non si ferma molto. Ma credo che ne sia molto suggestionato e che in parte sia in debito con Fredric
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Jameson, in parte sia in polemica con lui. Il post-moderno, voglio dire, inteso come struttura in cui molte cose, provenienti dai più diversi luoghi e spazi, convivono senza esclusione reciproca e senza conflitto: è questa la fisionomia caratteristica dell’opera mondo. Inoltre la sua finale somiglianza (o coincidenza, per quanto riguarda l’Ulisse) con l’“opera aperta” di Umberto Eco, porta la teorizzazione di Moretti a gravitare tutta sul post-moderno. L’opera mondo egemonica e centrale del Novecento, l’Ulisse, viene esaltata perché è capace di azzerare le gerarchie fra oggetti e linguaggi, riconsacrando esteticamente i luoghi comuni e la bêtise sociale che ossessionavano Flaubert. L’epica moderna è per Moretti l’“epica della socializzazione” e l’esito di questa epica vuole che l’eroe scompaia nel flusso delle percezioni che instaurano come un assoluto il dominio del sociale, “fuori di lui” e “dentro di lui”. L’epica moderna abbraccia, come abbiamo già detto, il mare delle merci mentalizzate, culturalizzate dalla pubblicità. Si tratta, secondo Moretti, di accettare intelligentemente la stupidità che la città-mondo esige perché si possa sopravvivere in essa. Si tratta anche, però, di vedere che genere di intelligenza è quella che impone di accettare, con felice distrazione e senza resistenza e giudizio, senza cernita e senza ordine sintattico, la stupidità della Cosmopoli delle Merci. Bisogna, secondo Moretti, tenersi a quel livello nel quale tacciono finalmente sia i messaggi dell’inconscio che le pretese della coscienza. L’inconscio infatti rischia di imporre al soggetto delle ineluttabili esigenze interiori e una qualche necessità di natura (il determinismo psichico di Freud). E la coscienza rischia di interferire fastidiosamente creando ostacoli o attriti al grande imperativo di sintonizzarsi felicemente, plasticamente con l’assoluto sociale (la società diventata una perfetta “seconda natura”). Joyce realizza (è qui, mi sembra, il culmine estetico-moralistico del libro) il procedimento magico che libera dal giudizio razionale e culturale della coscienza e libera da quell’incognita
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piena di leggi misteriose che è l’inconscio. Questo è il messaggio pedagogico dell’opera mondo Ulisse, epica che secondo Moretti dice il “sì” definitivo del soggetto al mondo moderno. (Ma io dubito che sia proprio questo o anzitutto questo il significato del monologo di Molly). Qui, mi sembra, questo mondo moderno assume la forma del post-moderno americano. E qui Moretti cita la nota frase di un personaggio di Wenders: «Gli americani hanno colonizzato il nostro inconscio». Frase che anch’io ritengo fondamentale: magari in un senso meno positivo di Moretti. (Bisognerebbe poi precisare di quale America si tratta: l’America come epica della produzione e del mercato o l’America come epica della libertà e della democrazia? Le due cose stanno sì insieme, ma non coincidono). Capisco e condivido molti dei problemi che Moretti pone nel suo libro: l’interesse per la storia dei generi letterari; il rapporto arte e società; le vicende della socializzazione degli individui e ciò che in proposito ci dicono i personaggi della letteratura moderna; il conflitto e l’oscillazione di due spinte letterarie: verso l’avanguardia e il modernismo centrifugo e verso il ritorno del classico. Quello che capisco poco è perché Moretti abbia sentito il bisogno di mobilitare e scomodare tanta grande letteratura per sostenere una morale della favola che consiste nell’apologia della società attuale dominata dal capitalismo americano: società che tra l’altro, mi sembra, lui idealizza non poco. Del resto, dice nell’ultimo capitolo parlando di García Márquez, se la periferia povera del mondo adora come una divinità la tecnologia occidentale, perché ostinarsi a criticarla? Se può essere vero che oggi «l’assoluzione viene dalla vittima» e che New York appare a molti il capolinea dell’evoluzione umana, questo non rende affatto superfluo il potenziale critico espresso dalla letteratura: cosa che tra l’altro la cultura americana continua a sapere benissimo. La cosa curiosa, che capisco solo a metà, è che lo stesso Moretti che loda la conciliazione fra letteratura e società, fra in-
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dividuo e istituzioni pubbliche, fra interiorità e pubblicità, fino alla sparizione della letteratura, dell’individuo e dell’interiorità – questo stesso Moretti è così poco conciliativo e polifonico quando si occupa di letteratura. Quasi che solo in letteratura lo infastidisca una libertà d’uso disimpegnata o idiosincratica, la compresenza degli usi e dei modelli. Esalta la pluralità, le possibilità infinite di significato, l’aprirsi ai più diversi stimoli, da tenere «tutti presenti, in primo piano, senza perdersene nemmeno uno». E invece lui pratica una criticastudio che cancella la critica-lettura. Fa del discorso critico una struttura argomentativa che vorrebbe tanto somigliare a una dimostrazione senza scappatoie: per cui vero o falso, aut aut, quest’opera significa questo e non quello, tertium non datur. Faccio un’ipotesi. Forse Moretti attribuisce alla letteratura un potere di controllo e coesione sociale, una forza ideologica che mi sembra abbia perso da tempo. No, questo lui lo sa, e a volte lo dice: la letteratura è scivolata verso la periferia del sistema culturale. Ma allora? Ecco: non è la letteratura a essere così impegnativa ideologicamente, è lo studio scientifico- accademico della letteratura, il suo uso istituzionale. Il libro di Moretti vuole essere un’opera mondo nel campo e nel linguaggio della critica: vuole tenere insieme passato, presente e futuro, ma soprattutto dominare e tenere insieme le varie istanze culturali che, nella pratica dello studio letterario, possano venire a capo del presente. Vuole tenere insieme le opere imprescindibili, le diverse letterature, il problema forma-società, la teoria dei generi, lo stile da scienziato, le immagini forti che fanno sentire ogni questione come decisiva, e infine una retorica martellante della critica come scienza, con il ritmo dell’argomentazione accuratamente scandito (le pagine di Moretti brulicano di interrogativi e di risposte, un mare di problemi, anche dove non si vedevano, e un mare di soluzioni che non si credevano necessarie: i paragrafi spesso si succedono come
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coblas capfinidas: l’inizio del successivo ripete una parola, un concetto, una frase con cui finiva il precedente). Voglio dire che Moretti è un abilissimo e ben consapevole saggista, un costruttore di miti. Un retore, a volte. Fin troppo protagonista, come interprete di grandi opere. Riesce quasi a metterle in ombra con la sua acutezza e con il suo vigore problematico. Fa a pezzi le opere, e le strapazza e le spreme per farne uscire il succo che gli serve per alimentare l’intreccio appassionante del discorso critico. No, non è un decostruzionista (Derrida non gli piace, e siamo d’accordo, in questo). Ma a volte mi è sembrato di sentire in questo libro un certo accanimento interpretativo: quasi che il discorso critico, per strutturarsi energicamente e tenersi saldamente in piedi, dovesse non intensificare il nostro contatto con le opere, ma smontarle e usarne i pezzi a tutto vantaggio del discorso critico. Insomma mi sembra che Moretti di fatto stia proponendo una saggistica di studio, piuttosto gestuale e teatralizzata, come erede della letteratura. Quale altro testo può godere oggi i vantaggi dell’autorità istituzionale come un ricco e ingegnoso libro di critica accademica? Viene proposta l’opera mondo critica in quanto opera obbligatoria, opera che si deve leggere. E infatti noi siamo qui a discuterla, anche se non potremo mai arrivare a discutere davvero tutto quello che il libro di Moretti contiene. È un libro inesauribile, ci costringe e ci sovrasta, si rende obbligatorio. Ma d’altra parte non potremo mai discuterlo se non scrivendo in risposta un libro dello stesso impegno e della stessa mole. Annaspiamo con le nostre obiezioni parziali e generiche. Il libro di Moretti è lì, vincente. E noi siamo sconfitti, anche se non ci piace e lo capiamo a metà. Mi chiedo a questo punto perché un libro che rende tanto protagonista la saggistica e l’interpretazione critica non abbia preso in considerazione la tradizione saggistica moderna e le parecchie opere mondo che ha prodotto: Voltaire, Tocque-
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ville, Ruskin, De Sanctis, Marx: epica delle idee e delle forme sociali. Perché inseguire l’eroe che non agisce, quando la vera grande Bibbia e Iliade del mondo moderno è un’opera di saggistica: l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert? Se il vero eroe dell’Ulisse e del Faust non è un personaggio ma un procedimento formale (allegoria, polifonia, stream of consciousness), allora il campo di indagine andava forse almeno in parte spostato a vantaggio della saggistica: dove, come è noto, ci può anche essere narrazione, ma i personaggi scarseggiano e prevalgono le idee. Come saggista mitografo, Moretti è erede di una tradizione che ignora, o di cui non ci parla. Perché questo è un libro importante? A questo interrogativo ho già in parte risposto o cominciato a rispondere. Moretti ha elaborato un’idea di forma letteraria, l’opera mondo, che lui stesso ha applicato nel campo della critica. L’elaborazione teorica e storica dell’idea di opera mondo letteraria prende corpo a sua volta come opera mondo critica. Potrebbe un tale libro non essere importante? Molte delle incertezze, delle debolezze attuali della critica (fra decostruzionismo sfrenato, esibizionistico, e ritorno alla probità filologica) qui vengono affrontate e, in una particolare forma, risolte. Il libro ha un equilibrio instabile, tiene insieme a forza troppe cose, finge di risolvere problemi che restano aperti. Ma proprio così ci cattura. È un grande incrocio di luoghi comuni della critica e della teoria letteraria. Somiglia davvero a una metropoli, a una centrale elettrica, a una rete ferroviaria, a un aeroporto internazionale. Può non piacerci, ma farne a meno diventa costoso, mette in difficoltà, costringe a cercare alternative ancora più impegnative e faticose. E poi parla di teoria letteraria parlando di evoluzione del capitalismo moderno, si sofferma a discutere problemi di ideologia e di tecnica letteraria facendoci entrare di nuovo dentro il tessuto di una decina di capolavori. Allarga gli orizzonti del discorso critico fino al
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limite estremo. E fa respirare la nostra cultura, anche se poi vuole afferrarci alla gola, con una stretta un po’ prepotente, per costringerci a dire sì. Questo è un libro-Arpia che vuole afferrare con saldi artigli la nostra Anima. Vuole darci il conforto della conciliazione col mondo, ma ci costringe a farlo con gli artigli di un principio di realtà dimostrato vero e potente a fil di logica. Possiamo non accettare né gli scopi di Moretti né il suo modo di procedere. Ma si tratta di questioni non futili, affrontate con una energia intellettuale rara, perfino smodata. Perché è ammirevole? Sarà evidente, quindi, che questo è un libro ammirevole. Dicevo, cercando di sottrarmi alla trappola moralistica che il libro incorpora, che lo studioso Moretti, armato dei suoi strumenti critici, ingoia e nasconde il Moretti lettore, con i suoi gusti che non condivido. Ora aggiungo qualcosa che corregge quanto detto. Trovo ammirevoli i libri di Moretti anzitutto perché sono carichi di autobiografia, niente affatto esibita, anzi ben nascosta. Dietro ogni problema letterario che Moretti affronta c’è sempre un problema morale autobiografico. Come crescere, per esempio, come uscire dalla giovinezza senza tradirla, e affrontando la fine delle illusioni: come rendere produttivo il disincanto attraverso un duro lavoro e una coraggiosa assunzione di responsabilità. Un problema personale diventava nel suo Romanzo di formazione (1985) studio di un ramo particolare del genere romanzo (forse il suo ramo principale). Libro, potrei dire, magnificamente ispirato. Dal 1985 a oggi mi sembra che per Moretti sia iniziata un’altra vicenda personale e un’altra ricerca: l’allontanamento dall’Italia, l’elaborazione lenta delle sue letture e delle sue preferenze, il rifiuto sempre più netto del narcisismo di massa, la ricerca di nessi fra la sua passione per certi aspetti della cultura tedesca (dietro a Goethe si vedono o intravedono Mann, Lukács, l’amato Weber, Freud, e infine il marxismo critico italiano, da Fortini, traduttore del Faust, a Lucio Colletti, marxista razionalista, ari-
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stotelico, anti-umanista e anti-utopista, e infine neoliberale) e i suoi studi di anglistica (dietro a Joyce si vedono o si intravedono Umberto Eco studioso e propagandista dell’Ulisse in Italia, i formalisti, le avanguardie, la centralità e obbligatorietà accademica dei discorsi interminabili sullo stream of consciousness). Nel suo percorso Moretti non dimentica, non perde e non spreca niente senza averci prima lungamente ragionato. La sua critica, la sua costruzione di compromesso, fra esaltazione della polifonia illimitata e dimostrazioni critiche troppo cogenti, potrà anche suonarmi estranea. Ma è ammirevole. Commiato. Questo è dunque un libro per chi vuole imparare, nei luoghi in cui si deve imparare, dove fra un lettore e un libro c’è sempre un professore, uno scienziato, dunque, un custode autorizzato dell’interpretazione, magari atletico, in maniche di camicia, un eterno ragazzo eternamente geniale che scrive alla lavagna l’equazione del rapporto fra letteratura e società moderna e rade al suolo le nostre abitudini di lettori. Quest’aria di scuola, questo spirito sportivo portato nella conoscenza e nella lettura delle opere letterarie purtroppo, devo dirlo, oggi mi dà un po’ la nausea. Penso a Stendhal, quando scrive: Caro amico, spesso la maggior parte degli uomini disprezza la grazia. È proprio degli animi volgari apprezzare solo ciò di cui si abbia un po’ di timore. Di qui l’universale considerazione goduta, in società, dalla gloria militare e, a teatro, dal genere tragico.
Di qui, aggiungerei, il rispetto che oggi incute la teoria, la scienza letteraria, la terminologia problematica, la retorica dell’analisi. Una critica che non incuta timore non interessa, ormai.
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L’invenzione della critica (2015)
Semplificando molto e per favorire una possibile discussione, vorrei indugiare su alcuni concetti o presupposti elementari dell’attività critica, mettendo in evidenza constatazioni di senso comune e ruotando intorno all’idea che la critica è un’invenzione sia individuale che generazionale e quindi, come ogni invenzione, richiede qualcuno che la inventi, in un preciso dove e quando, per certi scopi, con certi mezzi e in circostanze determinate. Esiste anche e agisce con una sua continuità una tradizione e una storia della critica, dalla quale vengono ereditati, secondo scelte consapevoli, autori classici, metodi e modelli di scrittura. Ma questa continuità viene continuamente interrotta da fratture, intervalli e svolte. Credo fermamente che la critica sia un genere letterario, il genere del pensiero analitico, interpretativo e valutativo applicato a testi e opere. Applicato alla letteratura, ma anche ispirato dalla letteratura. Il critico è sempre, inevitabilmente, per vocazione, un filosofo o scienziato della letteratura, uno storiografo e un commentatore di testi. Il tipo di strumenti conoscitivi che usa derivano da una storia cumulativa e progressiva del sapere, nel corso della quale si procede, come in ogni scienza, per superamenti e miglioramenti. Ma il
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critico è anche un tipo particolare di scrittore. L’attività critica elabora un sapere producendo testi scritti: saggi di studio, saggi di discussione e intervento, saggi storiografici. Ho usato qui il termine «saggio» in senso lato e generico. Se si considera invece la critica come genere letterario, il termine «saggio» va usato in un senso più preciso: si tratta di una forma piuttosto mobile, idiosincratica, mista e circostanziale, in cui la riflessione e il pensiero evitano le costruzioni sistematiche e trattatistiche, per svilupparsi su base più o meno apertamente autobiografica. I due autori classici che di solito preferisco evocare per proporre in breve un’idea di che cos’è il saggio (in particolare il saggio moderno) sono Montaigne e Kierkegaard, due analisti dell’io, della vita quotidiana, dell’esistenza singola. Due filosofi che non nascondono, anzi esibiscono il proprio volto e la singolarità del proprio punto di vista, nel quale filosofia e diario giocano sia a contraddirsi che a incrementarsi reciprocamente. Data la specificità della forma-saggio, anche il saggio di critica letteraria avrà, in senso stretto, caratteristiche analoghe. Essendo filosofia della vita, filosofia autobiografica, la saggistica che si dedica a opere ed esperienze letterarie si muoverà «tra il libro e la vita». Questa formula è di Giovanni Macchia. Ha però un precedente anche più esplicito nel saggio di Giacomo Debenedetti Critica ed autobiografia, uscito sul «Baretti» nel 1927: un testo di precocissima autoidentificazione, in cui Debenedetti esce dal sistema e dal metodo di Benedetto Croce per prendere una strada opposta. La critica, dunque, come alternativa all’estetica: non un discorso di teoria generale dell’arte, come è o dovrebbe essere in essenza, quanto invece un’esperienza di lettura vissuta e descritta, nella quale autori e libri non sono sussunti da un’idea di letteratura, ma la fondano o la ridefiniscono.
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Nella Prefazione 1949 alla prima serie (1929) dei suoi Saggi critici Debenedetti torna sul suo tema e sceglie un titolo come Probabile autobiografia di una generazione. Qui, benché cautamente «probabile», l’esame autobiografico del critico non è solo individuale, diventa generazionale. Lo scritto si apre con un dialogo o duello dialettico fra il professore e il critico. Il professore esordisce così, trattando il critico da narciso e da adolescente fuori tempo e fuori luogo: Giovanotto, scusi se la chiamo così, è un’abitudine di mestiere. Si metta gli occhiali, quando si guarda allo specchio: Narciso ha fatto i capelli bianchi. È arrivato anche per lei il tempo in cui gli uomini assennati cominciano a conciliarsi con la morte […]. Se è leale con se stesso, deve confessare di trovarsi ancora ingarbugliato nel variopinto arruffio e nelle inconsulte mire dell’adolescenza.
Il professore accusa di scarsa serietà e di immaturità il critico. Il quale, concludendo fra sé e sé, ammette che lui e la sua generazione hanno vissuto una particolare circostanza: hanno avuto davanti a sé, come scrittori di critica, due scelte: o sacrificare a un’agevole comunicativa […] cioè ammorbidirsi in un mestiere, in un servizievole giornalismo dell’intelligenza in corsivo; oppure sacrificare a una dura intelligenza, a costo di rimaner soli, di perdere la carta di identità.
In queste parole va notata l’espressione «scrittori di critica» che di passaggio, quasi con noncuranza e come un’ovvietà, assegna l’attività critica alla letteratura definendo «scrittore» il critico. Compare poi il conflitto, anzi l’alternativa, il bivio che separa la strada del «mestiere» in cui ci si «ammorbidisce» scendendo a compromesso ed entrando nella routine, e la strada della «dura intelligenza»: dura perché non «servizievole», seguendo la quale si diventa o si resta insocievoli, ci si aliena dalle abitudini sociali, si esce dal ruolo e dalla identità professionistica. È questo infatti il rischio insito nella letteratura moderna, anarchica o orfana o parricida, fuori legge, non
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facilmente riconoscibile e non identificabile dal pubblico come una solida istituzione. È vero che Debenedetti ha voluto rendere socialmente spiegabili, se non accettabili, le lacerazioni che la letteratura moderna rivela smascherando i modi della socializzazione borghese. Freud e più tardi la sociologia di Marx gli serviranno a questo: a rivelare più che a curare. «Illuminista dell’irrazionale» in compagnia di padri-fratelli maggiori come Proust e Saba, Svevo e Pirandello, il critico Debenedetti non applicava alla letteratura un preordinato, preconcepito sapere analitico, mettendosi professionalmente, scientificamente al riparo dai rischi di anomia. Non evitava né voleva neutralizzare la contaminazione che la letteratura può trasmettere alla critica. Al contrario, praticava la critica come letteratura, come un sapere e un pensiero ispirati alla letteratura, consanguinei della letteratura. Il rapporto critica-autobiografia comporta che il critico parli di se stesso, sondi e saggi se stesso mentre legge certi testi letterari: non qualunque testo letterario, ma precisamente quelli che lo porteranno alla coscienza di sé, all’autorivelazione e alla rivelazione della società in cui vive. Lo stile di Debenedetti è tale da fargli preferire la confessione indiretta. L’autobiografia del critico, come quella di un attore o di un regista, viene proiettata nella scelta del dramma, della commedia, dei personaggi entrando nei quali si percorre la strada della coscienza di sé, della vita e del mondo attuale. Più oggettivata che confessionale, più mediata che direttamente esibita, l’autobiografia del critico è il suo fondamentale strumento di conoscenza delle opere letterarie e degli autori, usati a loro volta come mezzi di conoscenza. L’autobiografia del critico è interpretazione narrante, o narrazione interpretativa o «racconto critico» che narra secondo una diversa trama di concetti e di metafore ciò che la letteratura ha narrato.
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Qui nasce l’appassionante e ambivalente gioco dell’attività critica come parafrasi interpretativa di ciò che è stato scritto da altri. Il romanziere e il poeta rivelano qualcosa: ma il critico trova che la loro rivelazione è una trama sotto la quale se ne nasconde un’altra. Ogni artefatto letterario è una maschera e come ogni maschera rivela qualcosa e nasconde qualcos’altro. Scrittore e critico si spiegano a vicenda, in collaborazione e in competizione. Non è che il critico voglia, vorrebbe (come qualcuno ingenuamente crede) essere scrittore mentre non lo è. Il critico autobiografico, il critico saggista di cui qui si parla è già scrittore in proprio e lo è nel suo diverso e parallelo genere letterario. A volte si è usata la distinzione fra una tradizionale, premoderna «civiltà del commento» e una moderna «civiltà della critica». Nella sua forma saggistica, la critica letteraria è entrambe le cose: sia continuazione, ripresa, riscrittura, variazione sul tema rispetto a testi precedenti, sia riattivazione in altra circostanza e in altro linguaggio di un messaggio da interpretare di nuovo perché non smette di suggerire, di emanare significati. Il saggio critico è in questo senso la trascrizione di un’esperienza di lettura più che l’analisi di un testo trattato come oggetto da cui l’analista scientificamente si distanzia. Ogni lettura attualizza un testo. Quel testo con i suoi significati e le sue forme, con quello che l’autore dice e quello che l’autore nasconde anche a se stesso. Per questo ogni lettura, ogni attività critica è l’invenzione del come, del perché, del chi sta leggendo ciò che legge. Un critico che non sia generico o qualunque, fa autobiografia leggendo. Non può che inventare i suoi scopi e i suoi mezzi. Parlare di situazioni e di circostanze significa che le ragioni autobiografiche sono anche ragioni sociali e storiche. La critica viene reinventata accettando o respingendo le forme vigenti della comunicazione, di fronte a un pubblico e a una parte di pubblico, sotto la pressione di conflitti sociali e politici in cor-
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so. L’atto critico presuppone una valutazione di tutto ciò che contestualmente sta avvenendo nel mondo dell’agire politico e in quello delle idee correnti, dominanti o alternative. Per un critico che non sia solo uno studioso di letteratura, non c’è idea di letteratura senza conoscenza della sua contemporaneità: libri, autori, modi e condizioni della lettura, dell’insegnamento e del giornalismo letterario, valori estetici prevalenti, mode e idolatrie del momento. Come disse Eliot, la letteratura forma un ordine simultaneo che coinvolge sia i classici antichi che l’ultimo best seller o premio Nobel. Come dissero sia Karl Kraus che Walter Benjamin, il presente ha valore retroattivo e il passato, tutto il passato culturale, non è al riparo da ciò che avviene nel presente. Il modo in cui leggiamo e capiamo la nostra letteratura contemporanea agisce sul modo in cui leggiamo Dante e Leopardi e anche gli autori della prima metà del Novecento. La saggistica come genere letterario è la forma di una filosofia nemica delle astrazioni e delle genericità. Ernst Gombrich ha scritto che non esiste l’Arte, esistono gli artisti. Allo stesso modo, direi che forse la critica esiste, ma i critici esistono ancora di più, perché sono loro che la definiscono. La cattiva letteratura di oggi, se semplicemente la accettiamo, peggiora il modo in cui leggiamo la letteratura di ieri e di tutto il passato. La critica non fa che connettere: diversi autori e libri, ciò che si scrive e ciò che è stato scritto, la vita sociale e il modo di vederla, la propria esperienza personale e le esperienze letterariamente espresse dai propri contemporanei. Quando leggo un romanzo appena uscito non posso fare a meno di confrontare la sua idea e rappresentazione della realtà presente con quella che conosco di persona per esperienza diretta. Reinventare la critica non è un merito, è una necessità fisiologica per quel tipo di scrittori che sono gli «scrittori di criti-
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ca». Come un romanziere o un poeta, un critico ha i suoi temi, perfino le sue metafore ossessive, e non può parlare di tutto. Volendo fare qualche esempio macroscopico di invenzioni critiche generazionali dovute alle esigenze, ai doveri intellettuali di determinati periodi storici, si potrebbero individuare almeno tre fasi. La prima coincide con i primi due decenni del secolo scorso. È la critica che nasce con le avanguardie storiche, le progetta, le accompagna, le promuove in modo più o meno fazioso. È una critica orientata prevalentemente a difendere la ribelle e provocatoria autonomia creativa dell’arte. È il momento del formalismo russo e poi della Stilkritik tedesca, di Šklovskij e di Spitzer, di Pound e di Eliot. Fra innovazioni assolute e loro proiezione sull’intera tradizione occidentale, questi critici assegnano al linguaggio, agli artifici e alle strutture formali un valore sia estetico che morale e in alcuni casi indirettamente, liberamente politico. Ma già nel corso degli anni Venti emerge una visione nuova sia della letteratura che della critica. Molto superficialmente alcuni storici hanno parlato di «restaurazione» seguita alla «rivoluzione» avanguardistica precedente. Ma le cose non sono così semplici. In Francia un classicista formalistico e nichilista come Valéry viene scavalcato dall’umanesimo rivoluzionario di Breton: nel suo manifesto surrealista del 1924 viene lanciata l’ultima, più organizzata e più influente delle avanguardie, il cui programma è indistintamente estetico, vitalistico e politico. Si tratta di un attacco all’arte stessa in nome di una trasformazione della psiche e della mente, della vita individuale e della società. Perciò si annuncia già una diversa invenzione generazionale, quella che dominerà gli anni Trenta e Quaranta, prolungandosi anche nei due decenni successivi benché con aggiornamenti e integrazioni eclettiche. Gli scrittori diventano in maggioranza più o meno marxisti e critici sociali. Non poteva essere diversamente dopo la rivoluzione bolscevica, dopo
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la crisi economica del ’29, con i regimi totalitari al potere in Italia, in Germania e in Russia, con la guerra civile spagnola. È il periodo in cui Lukács si impone come fondamentale teorico e critico marxista, Benjamin adotta Brecht come autore guida e lavora alle sue opere incompiute mescolando mistica ebraica e rivoluzione. Negli Stati Uniti, Edmund Wilson è il commentatore e l’autorevole interprete della nuova narrativa di Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck e insegna agli americani la storia delle rivoluzioni europee e del marxismo con il suo Stazione Finlandia. Anche Orwell è un notevolissimo critico letterario. In Italia Debenedetti cerca di trovare una soluzione ai rapporti impossibili fra individuo e società studiando Proust e Freud, Pirandello, Svevo e la nostra deludente narrativa degli anni del fascismo. Critica, dunque, morale e sociale che legge le forme per arrivare alle tensioni laceranti di una borghesia in crisi. L’impegno di Debenedetti, più che sullo stile e le strutture narrative, si concentra sulla fisionomia del personaggio, sulla sua dinamica interna e di comportamento, da cui il narratore ha dedotto nuove tecniche di racconto. Infine Auerbach, grande filologo, scrive Mimesis, il suo capolavoro, nei primi anni quaranta, durante la guerra, dando alle sue analisi testuali uno sfondo morale e storico e mettendo in alternativa due tipologie di stile e di visione del mondo: quella realistica di origine giudaico-cristiana, che mescola i livelli stilistici, e quella classicistica di origine greca e romana, che li tiene aristocraticamente separati. Queste invenzioni critiche della prima metà del Novecento più tardi tenderanno a convivere, sovrapporsi o scontrarsi. Una ulteriore rifondazione generazionale della critica si ebbe nel decennio 1955-65 e durò per i successivi quindici anni. In questo caso, la dominante tendenza è linguistica, strutturalistica, semiologica e si integra con un rilancio delle avanguardistiche innovazioni formali. Va aggiunto comunque un aspetto davvero nuovo e decisivo, che dagli anni Sessanta a oggi non
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cesserà di risultare determinante. È l’accademizzazione della modernità e dell’avanguardia, divenute ormai oggetto di studio e solo in seconda battuta riproposta militante. Scrittori e critici sono ora, come mai in precedenza, studiosi di modernità e professori di avanguardia. L’oltranza innovativa viene codificata e canonizzata. Lo scandalo, vero o presunto, è programma di ricerca istituzionalmente garantito e assistito. La scientificità strutturalistica e la teoria della comunicazione funzionano nello stesso tempo come progetto di ricerca e manifesto. Anche il marxismo comincia a essere letto come un ramo dello strutturalismo. Scienza e politica prima rifondano la critica e poi di fatto la sostituiscono, eliminando dai suoi procedimenti ogni contaminazione soggettiva e letteraria. Quest’ultima invenzione generazionale della critica sembrò un’apoteosi e un potenziamento e fu invece una sua liquidazione. Rivoluzioni non ce ne furono. Quello che rimase fu la letteratura come catalogazione teorica e infine proliferazione delle scuole di scrittura creativa. Il resto è un lungo presente neomoderno, postmoderno e poi post-postmoderno, che arriva fino a oggi dando luogo a una mutazione nella quale il passato novecentesco diventa sempre più remoto fino a sparire dall’orizzonte. Per quanto personalmente mi riguarda, in questo ormai lungo periodo ho rivendicato le prime due invenzioni e attirando l’attenzione sull’originalità dei singoli critici contro teorie e metodi, distinguendo l’attività critica dall’estetica e la saggistica dallo studio letterario.
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La critica dopo la teoria (2018)
Gli anni nei quali conobbi prima Costanzo Di Girolamo e poco dopo Franco Brioschi sono ormai lontani, quasi un’altra epoca. Discutemmo e collaborammo dal 1978 alla metà degli anni Novanta e oltre. Ma lo scambio fra noi fu più intenso e proficuo soprattutto nel periodo in cui aprimmo una polemica contro strutturalisti e semiologi, che culminò nel 1986 con la pubblicazione del volumetto La ragione critica (Einaudi). La prima cosa che ricordo di aver imparato da Brioschi (ma di cui più tardi quasi nessuno ha sentito il bisogno) è che saper pensare teoricamente è utile, anzi necessario, soprattutto per difendersi dalle cattive teorizzazioni. Il fatto che la teoria della letteratura dominante negli anni Sessanta e Settanta fosse discutibile, perfino infondata e stranamente arbitraria, oggi non è più una rivelazione. Ma fra il 1974 e il 1983 lo era. Al punto che le nostre obiezioni furono sdegnosamente respinte come provocazioni inaccettabili. Il presupposto formalistico, strutturalistico e semiologico, nonché l’estetica che ne veniva dedotta, funzionavano allora come dogmi e come mode. Il primo comandamento era questo: il linguaggio letterario è specificamente autoreferenziale. In verità gli anni della teoria furono più euforici e unanimistici che inventivi. La teoria divenne presto gergo teorico più che
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riflessione in atto. Inoltre, servirsi di teorizzazioni già pronte, o anche soltanto esibirle, veniva considerato il solo modo di pensare, studiare e leggere la letteratura. Si trattava per lo più di espansioni indebite di una precedente discussione sui metodi della critica. Ma presto i metodi erano passati in secondo piano. Il primo e solo metodo era teorizzare sul testo poetico in quanto tale, sulle sue caratteristiche distintive, stabilite in linea di principio e una volta per tutte in forma di teoria generale della letteratura: cioè di ogni tipo di letteratura, di ogni genere letterario, in ogni epoca e cultura. La teoria finiva così per sostituire non solo i metodi di analisi e di interpretazione, ma anche la critica, la lettura, lo stesso studio. Una volta che si disponeva della risposta giusta alla domanda «che cos’è la letteratura?» (ecco la risposta: «c’è letteratura dove c’è letterarietà testuale»), si poteva essere certi di sapere che cosa è ogni testo letterario, che cosa dice, che cosa cercare in esso, avendolo, peraltro, già trovato. Quando nel 1978 mi imbattei in quel succinto capolavoro di argomentazioni e di confutazioni che è Critica della letterarietà (il Saggiatore) di Costanzo Di Girolamo, rimuginavo già da anni in solitudine sulle mie perplessità e i miei malumori. Avevo visto che cosa era successo alla critica e alla didattica grazie al metodologismo e al teoricismo. Leggere Di Girolamo, un originale trentenne appena rientrato dagli Stati Uniti, e leggere subito dopo il saggio Il lettore e il testo poetico di Brioschi, uscito già nel 1974 su «Comunità», fu per me una liberazione. Dunque, non ero più solo. Mi veniva confermato che il lettore non poteva essere escluso dalla teoria e che la critica in quanto attività circostanziale e valutativa non poteva essere sostituita o colonizzata da una serie di enunciati generali e generici. In termini sia epistemologici che filologici, Brioschi e Di Girolamo proponevano una revisione della teoria corrente, mettendo anzitutto in discussione l’idea di scientificità nella critica
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e nello studio letterario. Se ogni scienza deve offrire una descrizione empiricamente adeguata del suo oggetto, una scienza della letteratura doveva saper uscire dai testi poiché la “letterarietà” è sia in essi che nell’uso sociale che ne facciamo. Ognuno di noi, con i propri mezzi e la propria sensibilità culturale, mise in rilievo particolari debolezze concettuali e conseguenze pratiche negative delle teorizzazioni fondate sull’idea di Jakobson secondo cui si può identificare con certezza in un testo una «funzione poetica» del linguaggio. Il più teoretico fra noi era Brioschi, che veniva da Hume, da Leopardi e dalla filosofia analitica. Il più filologo era ed è rimasto Di Girolamo. Per quanto mi riguarda, continuavo a chiedermi, diciamo kantianamente, come è possibile la critica letteraria, a quali condizioni può essere esercitata e che senso ha. La critica, pensavo, non è una scienza. Come la medicina, è un ibrido che fa collaborare un sapere relativamente certo (un’episteme biochimica) e un fare, un know how (una prassi terapeutica). Secondo il suggerimento di Brioschi, la critica argomenta, cerca di convincere, non dimostra in modo cogente. Nessuno potrà mai dimostrare a rigor di logica, per esempio, che un libro è riuscito o fallito, pregevole o insignificante. Il critico presuppone il lettore e la critica presuppone una libera, rischiosa, «anarchica» (secondo Enzensberger e Susan Sontag) e non formalizzabile esperienza di lettura. Nessuna scienza, precisava Brioschi, può fare a meno di «conoscenza pratica» e di «esperienza diretta». Neppure la fisica «potrebbe procedere usando soltanto il “metodo scientifico”», per il semplice fatto che «anche il ragionamento più astratto implica l’atto di farlo, cioè un’esperienza diretta (è questa la differenza tra un ragionamento e il calcolo di un computer)». E ancora: «Siamo nell’ordine del sapere morale, nel senso più ampio della parola, piuttosto che di quello teorico. Ma è un sapere che fa parte della nostra costituzione antropologica».
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Il menù non prevede la critica (2019)
Quando la critica diventò teoria Sono cresciuto in un periodo in cui la critica era quasi tutto. Oggi è quasi niente. Non rimpiango quei tempi, gli anni cioè fra il 1960 e il 1980. Non li rimpiango perché l’attività critica e la sua tradizione moderna, che ebbe inizio intorno alla metà del Settecento, subì un’improvvisa e accelerata mutazione che sembrò renderla più potente e autorevole, ma ne modificò rapidamente le caratteristiche. Fino a pochi anni prima, benché le diverse correnti critiche fossero influenzate da particolari ideologie, filosofie e scienze, la critica letteraria era rimasta fondamentalmente saggistica. Le idee contavano, ma la forma linguistica e letteraria, lo stile non ne erano sostanzialmente compromessi. L’idealista Benedetto Croce, il marxista György Lukács, i filologi Leo Spitzer ed Erich Auerbach, gli eclettici Walter Benjamin e Edmund Wilson, erano dei veri saggisti, prosatori originali di prim’ordine. Usavano certe idee, applicavano un loro metodo di analisi e restavano fedeli ai loro criteri di valutazione. Eppure il loro stile di pensiero era anche uno stile letterario. Chiunque li avesse letti appena un po’, sarebbe stato in grado di distinguere quasi a orecchio il tono, il ritmo, la qualità
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della loro prosa. In altri critici, meno fedelmente interessati a filosofie e metodi, come Frank R. Leavis, o Mario Praz, o Giacomo Debenedetti, la critica coincideva interamente con il loro personale modo di leggere e di scrivere. Per non parlare dei maggiori e più noti scrittori-critici: T.S. Eliot, Paul Valéry, D.H. Lawrence, Wystan H. Auden, Octavio Paz, e più recentemente John Updike, Gore Vidal, Vargas Llosa, Italo Calvino… La critica non poteva ancora essere confusa con lo studio accademico, né con la teoria o scienza della letteratura. Fu infatti proprio intorno al 1960 che una lunga tradizione si interruppe. Quasi tutto ciò che era stato scritto in passato, si trattasse di critici romantici o simbolisti o realisti, sembrò all’improvviso approssimativo, impressionistico, poco scientificamente fondato e ormai improponibile e impraticabile. La prima edizione di Theory of Literature di René Wellek e Austin Warren uscì a New York nel 1942: poteva sembrare solo una sintesi didattica, ma poi ci si rese conto che quel libro segnava una svolta. L’attenzione ormai si concentrava, come mai prima, sulla teoria generale della letteratura e sulle metodologie dello studio letterario. Fu così che, fra teoria e metodi, la precedente accezione saggistica e valutativa della critica si indebolì fino a sparire. Letterarietà (o “specifico letterario”), autonomia del Testo, Funzione poetica del linguaggio, prendevano il posto di una più generica, empirica nozione di letteratura e dei suoi generi. Così la teoria e la metodologia svalutavano la lettura come esperienza personale e la critica come attività tipica di singoli critici. La cosa andò avanti per circa un ventennio, dal 1960 al 1980: e sono proprio quelli gli anni gloriosi e noiosi della Nuova Critica che mi sembra difficile rimpiangere. La teoria della letteratura divorò, ingoiò la letteratura. Ci furono anni in cui sembrava che gli scrittori scrivessero per ubbidire e piacere ai teorici, prevedendo la loro “scientifica” approvazione. Con decenni di ritardo rispetto alla diagnosi di Ortega, si provocò
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una nuova specie di “disumanizzazione dell’arte”: era una letteratura fatta di testi puri e assoluti, o volutamente mescolati e ibridi, o programmaticamente illeggibili, comunque testi senza autori (era proibito parlarne) e senza lettori (sostituiti da tecnici di laboratorio di analisi).
Il critico sospettato Tutto questo non è che un prologo. Con il crollo inaspettato e mai spiegato dei due pilastri della Teoria, lo strutturalismo e la semiologia, che partendo dalla linguistica avevano colonizzato soprattutto in Francia tutte le scienze umane (antropologia, sociologia, psicologia), si creò una situazione diversa per la critica letteraria. Non più “disumanizzata”, ma ormai anche troppo umana e vulnerabile, la critica rinunciò ad agire sotto garanzie teorico-scientifiche. In quanto filologia e storiografia, diventò studio letterario ambientato nelle università: gli insegnamenti di teoria letteraria si trasformarono in Letterature comparate, orientate in senso prevalentemente tematico. In quanto critica vera e propria, tornò a essere più spesso giornalistica e saggistica, praticata soprattutto da scrittori, e prese di nuovo la forma molto empirica, rischiosa e provvisoria della recensione. A questo punto si capì che la critica letteraria, se deve esistere, esiste soltanto perché c’è qualcuno che vuole scriverla e non riesce a farne a meno. Insomma: la critica sono i critici. Diventa chiaro allora che ogni critico non può più evitare di prendersi le sue responsabilità e di correre i suoi rischi. Ormai da almeno trent’anni la critica non vive più come applicazione di teorie né come strumento di lotta autopromozionale di gruppi “d’avanguardia”. Torna a essere un’impresa personale sempre sospettabile di parzialità e di soggettivismo. Non essendo più mascherata da “scienza del testo letterario”, la sua
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autorità pubblica è diminuita fino a diventare irrilevante. Da quando ogni critico gioca individualmente la sua partita, non può contare che sulle proprie ragioni e argomentazioni, preferenze, scelte e strategie retoriche. Chiunque abbia la vocazione o passione intellettuale e letteraria della critica si presenta come un caso a sé. In quanto si esprime in forma saggistica, può avere un posto fra i generi letterari, ma non ne ha più fra le professioni culturali istituzionalmente previste. Anche il legame che esisteva in passato fra letteratura e critica, fra scrittori e critici, si è indebolito. Fare critica non solo dà fastidio (cosa che accadeva anche in passato) ma sembra quasi inconcepibile: poco meno che un abuso, un’intrusione, una pratica intellettuale vagamente perversa, alla quale si dedicano individui animati da sentimenti insondabili o torbidi come frustrazione e gelosia nei confronti di narratori e poeti: autori “creativi”, mentre il critico, sterile com’è, può solo essere un vizioso giudice, un distruttore e denigratore del lavoro altrui. Per due secoli si è apprezzata la letteratura soprattutto per il suo valore e potenziale critico nei confronti della realtà sociale. Anche i più grandi e originali inventori di forme e di miti (Baudelaire e Flaubert, Dostoevskij e Tolstoj, Kafka ed Eliot) venivano letti come chiaroveggenti critici sociali. Oggi, invece, alla critica si tende a contrapporre la creatività. Queste due funzioni letterarie e conoscitive vengono così separate. Dunque chi prova a criticare il creatore, che è amico della vita, può essere solo un distruttore e un nemico della vita. Si dimentica quanti siano stati, nella storia di tutte le letterature, i narratori, i poeti, i drammaturghi, critici della vita falsa per amore della vita.
Un caso personale? Trascrivo qui un breve articolo che il narratore Javier Cercas mi ha dedicato recentemente. Credo che sia il chiaro sintomo
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di un’insofferenza e diffidenza che si sta diffondendo in tutti gli ambienti culturali, ma soprattutto in quelli artistici, letterari e perfino filosofici. Nelle arti visive la critica si limita perlopiù a giustificare l’incomprensibile. I filosofi notoriamente, poi, non discutono tra loro. In sostanza, ci si meraviglia che un critico critichi, invece di limitarsi a spiegare che in un’opera letteraria tutto va esattamente come doveva andare fra intenzioni e risultati, stile e tema. Ma ecco l’articolo: Da un paio d’anni è stato pubblicato in Spagna un libro in cui si aborriva Umberto Eco; si sminuivano Borges, Beckett e Calvino; si ridicolizzava Foster Wallace, e si deprecavano: le “nuove tecnologie” (quindi, generalizzando), l’attuale romanzo francese (analogamente a casaccio), la poesia (totalmente in astratto); nel libro si difendevano alcuni autori, da Dante a Orwell (cosa utile, beninteso), ma se ha attirato l’attenzione è stato per i suoi attacchi: Alfonso Berardinelli contro tutti, ha intitolato questo giornale la sua recensione del libro. Berardinelli è il nome del suo autore; Leggere è un rischio, il suo titolo. Infine: non ho letto a sufficienza Berardinelli per affermare che sia un critico teppistico, ma il fatto è che spesso lo sembra. Chi è un critico teppistico? Innanzitutto, non bisogna confondere un critico teppistico con un critico provocatorio, quale forse è lo stesso Berardinelli: il critico provocatorio fa venire voglia di leggere, mentre quello teppistico la reprime; il critico provocatorio incita, mentre quello teppistico eccita soltanto. Inutile dire che il critico teppistico non è necessariamente uno scrittore mancato: ci sono critici teppistici che sono scrittori, o che lo sono stati, e qualche volta ottimi; e va da sé che non ci sono critici teppistici solo fra i critici letterari: ce ne sono fra tutti i tipi di critici. Non c’è niente di più facile che distruggere un libro, per buono che sia (anzi, sono i libri migliori ad essere i più vulnerabili, perché si prendono i rischi maggiori), e il critico teppistico sfrutta a fondo questa facilità, giustamente convinto che distruggere un libro significhi mettersene al di sopra e, lodarlo, al di sotto. Di solito il critico teppistico non è stupido, però non è nemmeno così intelligente come crede; in realtà,
100 sarebbe meno stupido se non si credesse così intelligente. Si parla molto della vanità degli autori, ma comparata a quella dei critici teppistici è un nonnulla. Come qualsiasi teppista, il critico teppistico non si distingue per il suo coraggio, perciò non agisce mai da solo: lo fa sempre, protetto da un coro di sostenitori. Benché la critica sia una forma di creazione, per il critico teppistico è una forma di distruzione, perché è molto più difficile costruire che distruggere ma è molto più mediaticamente redditizio distruggere che costruire. Il critico teppistico punta alla critica ad hominem, agli attacchi personali, e considera un successo che uno scrittore smetta di scrivere a causa delle sue critiche. Al critico teppistico nessuno applaude, semmai tutti si toccano i palmi delle mani e ringraziano, non sia mai che s’arrabbi e colpisca. Il critico teppistico cita spesso questa frase di Walter Benjamin: «Il critico è uno stratega del combattimento letterario»; gli serve per trasformare la critica in un fatto personale al servizio dei suoi interessi e dei suoi sostenitori. In fondo, il critico teppistico sogna che la letteratura non sia altro che un’illustrazione delle sue critiche, soggetta ai propri criteri e alle proprie necessità. Altrimenti, è vero che a volte il critico teppistico si pente del suo teppismo, nel qual caso suole incorrere nel piagnisteo. Per esempio: Martin Amis è un ottimo scrittore che in gioventù ha scritto delle recensioni brutali in cui insultava non solo gli scrittori che non gli piacevano, ma anche – secondo una sua successiva confessione – quelli che ammirava o invidiava o che non erano d’accordo con lui; finché, tormentato da teppisti della sua stessa fatta, o perché pentito, argomentò che «godere insultando è una perversione giovanile della brama di potere», deplorò l’indegnità di quello spettacolo («è come il gioco del gatto con il topo»), e concluse, quasi implorando: «Quando attacchi uno scrittore, stai togliendo il cibo di bocca ai suoi figli, perché tutto ciò che ha è la sicurezza in se stesso». Oh, tesoro. W. H. Auden, uno dei più grandi poeti e critici del ventesimo secolo, giudicava che quando un critico attacca un libro lo fa “per esibirsi” (to show off). Non credo che sia sempre così. La critica è indispensabile, il critico non può mai rinunciare a prendere posizione e a volte deve essere severo. Berardinelli
101 afferma che a volte deve essere iconoclasta; sono d’accordo. Però una cosa è essere un critico iconoclasta, un’altra essere un critico teppista.1
La reazione di Cercas alla presenza di un critico che critica, chiunque egli sia, è così istintiva da risultare quasi incomprensibile. Ad averlo tanto allarmato da spingerlo a un attacco difensivo non è neppure un libro, che evidentemente ha più sfogliato che letto, ma un articolo-intervista che su quel libro è stato pubblicato dal «País» due anni prima. Il fatto che qualcuno possa non avere nessuna stima letteraria per i best seller “culturalisti” di Umberto Eco, o che osi dire che Borges, Beckett e Calvino sono caratterizzati non solo dalle loro qualità ma anche dai loro limiti (nessuno dei tre, per esempio, ha considerato il romanzo un genere ancora praticabile), è qualcosa che Cercas non riesce ad accettare. Sembra sfuggirgli completamente che nei miei giudizi c’è una polemica non priva di una sua logica e di ragioni storiche: quei tre scrittori sono stati (ognuno a suo modo) idoli di una “poetica postmodernista” che non rappresenta affatto la Postmodernità nel suo insieme, epoca che ha occupato l’intera seconda metà del Novecento e nella quale c’è stato posto per artisti del tutto diversi come Francis Bacon e Jackson Pollock, Jean-Luc Godard e Stanley Kubrick, Solgenitsin e García Márquez. È una poetica elaborata soprattutto in Francia con l’inizio degli anni Sessanta: la poetica di un’écriture che negava i generi letterari e postulava come dovere o necessità storica la fusione di narrativa, poesia, autoriflessione teorica. Non è un caso se per circa vent’anni la letteratura francese ha smesso di produrre romanzi, mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti la tradizione del romanzo non si è mai interrotta e ha finito per rendere marginale la narrativa europea. In ogni arte naturalmente gli esperimenti non sono
1. J. Cercas, El critico matón, in «El País», 12 luglio 2018.
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proibiti, tutt’altro: ma credo che si debba distinguere fra gli esperimenti riusciti e quelli falliti. Quanto alla mia critica della generale accademizzazione e burocratizzazione della cultura, o dell’attuale espansione incontrollabile e invasiva delle tecnologie, mi meraviglio che Cercas si meravigli. Ci sono fenomeni che riguardano una trasformazione senza precedenti della nostra vita individuale, mentale, sociale e di tutte le forme della nostra cultura. Di questo si discute da tempo e lo prova una ormai vasta e varia bibliografia internazionale. Partendo da alcune mie valutazioni umoristicamente enfatizzate da un articolo del «País», Cercas inventa, per liquidarmi, la categoria del critico “teppista”. La inventa e ne perfeziona in negativo la descrizione, mettendolo, mettendomi in ridicolo (è uno che ama solo Dante e Orwell!) e mostrando che si tratta di un fenomeno degenerativo il cui scopo è soltanto demolire i libri migliori e impedire che vengano letti. Quanto all’osservazione di Auden, secondo cui un critico che attacca un libro lo fa solo per esibirsi (to show off), è interessante ma discutibile (quale autore non si esibisce?). Auden però ammirava molto un critico assoluto come Karl Kraus, un vero distruttore satirico ben consapevole di esibirsi, compromettersi, esporsi (sich preisgeben), mettendo in gioco e a rischio la propria persona con ognuno dei suoi giudizi. Purtroppo, Cercas non ha voluto correre il rischio di leggere con un po’ d’attenzione il mio Leggere è un rischio, e neppure ha sentito il bisogno di dare un’occhiata a qualcun altro mio testo, prima di elaborare il suo ritratto del “teppista”. Nonostante le formule di buona educazione e di rispetto democratico per l’attività critica in generale, mi sembra che Cercas si comporti lui stesso come un critico “teppista” (mi fa fuori con una sola parola: “teppista”). Infine loda la bella idea platonica del critico iconoclasta. Ma quando ne vede uno in azione si spaventa e lo insulta.
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Don’t worry: for criticism makes nothing happen Mi pare che si stia dimenticando la tradizione della critica, la sua necessità culturale, il suo stile, i suoi maestri moderni e antichi. Se la critica si è spesso mescolata alla satira, all’aforisma aggressivo, è per accrescere la sua efficacia rappresentativa, comunicativa, retorica. E se è vero che il critico saggista è un tipo di scrittore, gli autori di cui parla, pur esistendo nella realtà, sono anche suoi personaggi. Non succede anche nei ritratti pittorici? Il Papa Innocenzo X di Velázquez (non a caso rielaborato da Bacon) è un capolavoro di invenzione realistica o contiene soltanto malevole intenzioni deformanti? Quando poi la società peggiora e questo diventa un tema, compaiono i quadri critici, satirici o visionari di Hogarth e Goya. In realtà la critica è una delle più naturali, ovvie, inevitabili attività della mente umana. Su idiosincrasie, rifiuti, avversioni, intolleranze si è costruita gran parte della letteratura moderna. Giacomo Leopardi non sopportava né il romanticismo nordico né il progressismo liberale. Baudelaire ridicolizzava l’avant-guarde del suo tempo. Kierkegaard detestava Hegel. Tolstoj disprezzava moralmente l’estetismo simbolista. Kraus considerava il giornalismo “magia nera”. Proust attaccò Sainte- Beuve. Eliot giudica Hamlet un’opera fallita e Shelley un poeta per adolescenti. Edmund Wilson riteneva Kafka uno scrittore sopravvalutato, pieno di difetti e di debolezze. Adorno e Horkheimer attaccarono per tutta la vita sia il Neopositivismo che l’ontologia metafisica di Heidegger. Fra le molte “strong opinions” di Nabokov c’è la svalutazione di Dostoevskij, considerato artisticamente approssimativo, oltre che sentimentale. Ricordo una descrizione che Giorgio de Chirico fa di una riunione di surrealisti a cui aveva partecipato: li ritrae come un gruppo di fatui poseurs, se non di imbroglioni… Naturalmente si potrebbe continuare a lungo. La critica non è, non può essere solo questo. Ma non si può sognare una critica sempre sobria, equanime, equilibrata e com-
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prensiva con tutti. Esistono le passioni e le vocazioni critiche. Poi ci sono i professori di letteratura, che sono un’altra cosa. Di solito vedono la critica come un’attività non professionale, o perfino come una forma immorale di libertinismo. Ho saputo recentemente che in un concorso universitario un candidato è stato respinto perché sembrava più un critico che uno studioso. Se fossi in lui, sarei felice di aver meritato una tale condanna.
Parte II
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Debenedetti e il Novecento (2001)
Non so se la critica letteraria avrà un futuro. Chi sceglie oggi questa attività credo che abbia bisogno di un coraggio che fino a venti, trent’anni fa non sembrava così indispensabile. Il Novecento è stato a lungo “il secolo della critica” e ricordo anni (quelli in cui ho cominciato a leggere e a scrivere) nei quali fare critica sembrava la cosa più naturale del mondo: cioè anche la più “innaturale” – ma allora andare contro corrente era la regola. Giacomo Debenedetti, nato proprio all’inizio del Novecento, seppe subito, con la meravigliosa precocità del suo talento, che per essere critici bisognava saper andare, nello stesso tempo, contro la corrente e secondo la corrente. La critica, anche la più severa, è un’attività socievole. E perciò il Novecento, secolo lacerato, fu il suo primo problema: perché in esso, come mai prima, la società non amava l’arte e l’arte non amava la società. Bisognava definire (e magari difendere) le ragioni di ciò che appariva mostruoso, deforme, insolito. Il Novecento era la cornice, la situazione che determinava la forma di ogni problema: e quindi, anzitutto, del problema di essere critici. Debenedetti era un intellettuale con lo stigma dell’artista e un uomo inguaribilmente solo (come i personaggi che studiò con mente fraterna), ma assetato di appartenenza, di socialità e di
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realtà, di valori e di ragioni da condividere. In questo, cioè nella ricerca costante di ciò che è realtà intellegibile e di ciò che è razionalità condivisibile, la critica di Debenedetti ha sempre avuto un’ispirazione sia epistemologica che morale e civile. Se nella narrativa moderna a un’epica della realtà succede, con il Novecento, un’epica dell’esistenza è perché che cosa sia precisamente realtà è diventato un problema, la realtà è più ipotizzabile che rappresentabile, è più un progetto interpretativo (ed esistenziale) che un dato positivo da registrare: e i personaggi si trovano soli in un mondo enigmatico a fare i conti con la propria esistenza, il cui senso è a sua volta indecifrabile. Al di là della confortante ragione neohegeliana stabilita e governata dal primo ministro dello spirito Benedetto Croce, si aprivano all’inizio del Novecento quei territori ignoti e infidi nei quali si spingevano le esplorazioni delle nuove arti: qui soggetto e oggetto non si incontravano più in una sintesi superiore; si ignoravano, si scrutavano a distanza. Toccava al critico cercare eventualmente un “punto d’intesa”, un codice comune, una razionalità dialogica da pattuire. Ricavando il proprio spazio di saggista fra le architetture solenni e un po’ ministeriali di Croce e i deserti assiderati di un’esistenza assolutamente “persuasa” definita da Carlo Michelstaedter, il giovane Debenedetti sceglie subito un tertium: una forma di maturità senza garanzie aprioristiche. Sceglie un’esistenza problematica e una razionalità sperimentale, la ricognizione empirica da compiere insieme ai più spregiudicati narratori novecenteschi. Sceglie, in altri termini, l’epistemologia e l’etica progettuali ed empiriche del Romanzo, nel momento in cui i romanzieri agivano in condizione di accentuata crisi delle conoscenze e dei valori. Giacomo Debenedetti è il critico del romanzo nel Novecento. Esordisce con una serie di complesse manovre di avvicinamento al romanzo, puntando subito, genialmente, sull’evento narrativo più straordinario del nuovo secolo, Proust, e cercando come
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alleato e padre il più narrativo e teatrale dei poeti, Saba. Snobismo e populismo (si potrebbe dire semplificando) come veicoli di conoscenza e mezzi di orientamento sociale: da un lato (Proust) il mistico della mondanità, dall’altro (Saba) il celebratore della “calda vita”: autori che temono sempre di essere esiliati, esclusi da una qualche patria estetica o comunità materna. Tutti sappiamo quanto Debenedetti abbia imparato da questi suoi supremi maestri. Da Proust e da Saba ha imparato quasi tutto. Con loro è entrato nel Novecento trovando la misura della sua partecipazione e dei suoi giudizi, del suo essere nella corrente del secolo e fuori di essa, in cerca di termini nuovi per ridefinire una civiltà europea che si mostrava, dopo la Prima guerra mondiale, più fragile e vulnerabile di quello che era sembrata agli idealisti e ai positivisti delle generazioni precedenti. Lungo tutto l’arco della sua attività, Debenedetti ci ha mostrato che un grande critico può anche essere il più profondamente incerto su se stesso, il più ansioso circa il significato e le possibilità della critica. Solo le istituzioni possono fornire a coloro che le abitano la certezza di quello che fanno, di come farlo e perché. La dimensione in cui operava Debenedetti (in fondo anche nei panni di docente) era anzitutto una dimensione autobiografica e artistica: era dall’interno della letteratura e del modo di vivere degli scrittori che nasceva la sua critica. Non c’è saggio di Debenedetti che non presenti un’elaborazione raffinatissima e ironica dell’angoscia e dell’instabilità. Ogni suo saggio è una costruzione nello stesso tempo perfetta e fragile, immodificabile e provvisoria. Leggiamo: e tutto sembra improvvisato, contingente, occasionale. Rileggiamo: e tutto appare viceversa perfetto, definitivo in ogni sfumatura stilistica, in ogni passaggio logico. Sembra che l’autore abbia inventato davanti ai nostri occhi, senza piani precisi e come in un dialogo platonico, la trama di un discorso critico nel quale anche i preamboli, le schermaglie, le battute brillanti e propiziatorie sono in realtà momenti necessari al rigore della conoscenza.
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Già: conoscenza di che cosa? Di che cosa parla esattamente Debenedetti quando parla di letteratura? Una prima perplessità, e molte sordità e incomprensioni di fronte al suo modo singolarissimo di procedere derivavano da un giudizio sulle qualità “estetiche” del suo stile: giudizio che trascurava la portata dei suoi intenti critici e dei suoi scopi conoscitivi. Debenedetti tende infatti a ridefinire “che cos’è la letteratura” a proposito di ogni diversa occasione di discorso: anche perché (il sottinteso potrebbe essere questo) la letteratura non è sempre identica a se stessa, non è un’entità predefinita. Se proviamo a isolare nei saggi di Debenedetti i diversi livelli di costruzione del discorso, notiamo subito che distinguere non è facile. Non è facile isolare l’essenziale dal secondario, l’affabilità dal rigore, la recita dall’indagine. Un primo livello, per esempio, che qualche tempo fa si sarebbe chiamato dell’écriture (la responsabilità pubblica di un testo) e oggi magari definiremmo della pragmatica comunicativa, è impregnato in Debenedetti di un pathos tutto particolare, dovuto al senso di instabilità problematica che nel Novecento investe il rapporto fra opere d’arte e pubblico, nonché fra società allargata e comunità o élite intellettuale. Tutte le formule e i preliminari “di pragmatica” che troviamo in Debenedetti hanno anche un valore indirettamente conoscitivo: indicano, definiscono la situazione comunicativa in cui nasce e si muove il discorso critico, con i suoi due versanti: quello rivolto a indagare un’opera, a ritrarre un autore, e quello rivolto a trovare il modo migliore, retoricamente più opportuno, per renderne conto ai lettori, operando mediazioni fra semantica del “senso comune” e semantica dell’arte. Quando ci parla di un libro o di un autore, Debenedetti ci parla sempre, anche, della situazione nella quale ce ne parla. Il suo stile è (si potrebbe dire) intensamente “deittico”, attentamente orientato a dare indicazioni circostanziali sul “dove
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siamo” e sul “momento” in cui si è arrivati nella considerazione di uno scrittore. Questo primo livello o strato, pragmatico e retorico, in cui si esprime un Debenedetti conversatore e conferenziere sensibilissimo al kairós, alle misure di opportunità e di persuasione, sconfina d’altra parte nella dimensione dell’impegno propriamente conoscitivo e valutativo: livello nel quale sono in gioco concetti, giudizi, strategie interpretative. Del resto, in quanto saggistica (e non storiografica o filosofica o filologica) la critica di Debenedetti è legata all’occasione, cade in una congiuntura culturale e in un ambiente. Per prendere retoricamente le misure del discorso Debenedetti deve compiere anzitutto una diagnosi (più o meno ragionata o intuitiva) del momento critico, del tempo esatto in cui prende forma il suo discorso. Naturalmente l’impegno conoscitivo non si esaurisce qui. Solo che il livello retorico penetra nel livello teorico: il quale a sua volta non esibisce speciali metodi e strumenti d’analisi, estetiche filosofiche o teorie sistematiche. Debenedetti possedeva una cultura filosofica e scientifica di prim’ordine e di prima mano, che gli veniva anche dai suoi studi giovanili di matematica e di diritto, oltre che da una curiosità sempre vigile. A volte troviamo metafore musicali e teatrali, altre volte metafore attinenti alla legalità o meno di certi comportamenti e procedure, oppure alla calcolabilità, alla probabilità statistica che per esempio un personaggio si comporti in un modo o in un altro. Inoltre, la sua è la generazione cresciuta nelle interminabili discussioni su Croce e Gentile, Gentile e Croce: cioè in un clima nel quale la critica, tendenzialmente, era riassorbita nell’estetica. Nonostante la sua raffinatezza speculativa e la sua audacia intellettuale, la saggistica di Debenedetti apporta una serie di correttivi al demone filosofico e teorico. Anche i suoi rapporti con la teoria freudiana si scandiscono in due momenti distinti: conoscenza approfondita della psicanalisi da un lato, e
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dall’altro distanza, discrezione. Cioè: competenza, sì, ma anche rifiuto di spingere i rapporti analogici, di corrispondenza fra critica e psicanalisi verso una metodologia da “applicare”. Debenedetti non mostra nessuna fiducia nella possibilità di trasformare la critica letteraria in scienza certa, dimostrabile e non opinabile: in schemi applicabili a tutti gli autori di tutte le epoche. Per lui la conoscenza critica si presenta sempre in stato di fluidità ipotetica. Né il critico può credere di avere accesso alla conoscenza totale di ogni autore. C’è in Debenedetti una fedeltà, non priva di civetterie, all’approccio empirico (come nei medici), che non esclude qualcosa di mistico (come nei cabbalisti). Nei fisici e negli epistemologi novecenteschi, non meno che in Freud e in Jung, Debenedetti vide la crisi dell’ontologia e della metafisica tradizionali, ma anche la possibilità di un’alleanza fra l’empirismo dei saggisti (conoscenza come autobiografia) e il misticismo ebraico: anche questo tenuto a distanza, eppure riaffiorante (fu lui a far tradurre per il Saggiatore il grande libro di Scholem). Dunque: conoscenza come narrazione e rivelazione, vicenda che conduce un personaggio all’illuminazione di un destino. Gli sviluppi del romanzo europeo nei primi due, tre decenni del Novecento favorivano questo tipo di attitudine: e i primi maestri di Debenedetti sono sempre gli stessi scrittori. La superficie dura e opaca di una realtà naturalisticamente rappresentabile si apriva in momenti mistico-lirici di rivelazione epifanica, come si vede in Proust, Joyce e Kafka. Il Novecento è stato il secolo di un enorme sviluppo delle scienze e insieme il secolo delle filosofie dell’esistenza e del ritorno di tradizioni sapienziali, esoteriche, mistiche (già recuperate da una corrente simbolista che da Novalis, Coleridge, Mallarmé arriva al surrealismo e all’ermetismo). La psicanalisi mediava fra queste spinte contraddittorie: in quanto “scienza dell’irrazionale” e teoria sistematica dell’individuum, itinerario
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verso l’io profondo, la psicanalisi era un po’ scienza e un po’ magia. Così anche il metodo di conoscenza è in Debenedetti qualcosa di misto fra ricognizione empirica e rivelazione improvvisa: una specie di illuminazione epistemologica che il critico può sperare di raggiungere solo se sa abbandonare al momento giusto gli utensili concettuali e riesce a realizzare una forma di mimesi straniante dei movimenti, delle operazioni occulte compiute dall’artista. Per questo nei saggi di Debenedetti usciamo quasi senza accorgercene dai preliminari, dalla musica della persuasione, per entrare nel racconto analitico vero e proprio. Come scrisse Pasolini, Debenedetti «si è sempre rifiutato, con tutto se stesso, di commettere la colpa di adottare un metodo». E questo non solo rese “interminabile” (o “infinita”: Pasolini) la sua analisi, ma la espandeva in una totalità nella quale entravano tutti i saperi: specialistici, letterari, autobiografici, dal più spinto esoterismo letterario che lo accomunava ai suoi autori fino ai luoghi comuni del buon senso borghese: usato, aggirato, messo in prospettiva e in caricatura dal critico. Ho sempre pensato che nella sua passione per il romanzo ci fosse anche un progetto di disciplina autocorrettiva che Debenedetti imponeva a se stesso per arginare la sua vocazione di intellettuale attratto dalla notte, dall’invisibile, dagli archetipi formali e profondi, dalla musica, dagli oroscopi, dalla matematica. Il romanzo era l’opposto di tutto ciò. È dalla sua ansia di uscire dalla solitudine dell’intellettualismo e di entrare nella società, di apprendere i codici mondani (nonché dal suo desiderio di perfetta eleganza euritmica) che si forma infine, dopo quello pragmatico e quello gnoseologico, il livello più propriamente stilistico della saggistica di Debenedetti. È qui che abita il “mito personale” del critico.
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Ma (come si può immaginare) difficile, ancora una volta, è distinguere: a) il tipo di metafore che ambientano l’atto critico, b) le metafore che assediano o espugnano le verità di un autore e, infine, c) le metafore nelle quali il critico – lui stesso personaggio-uomo – si definisce e si specchia. Essendo dialogo con un pubblico e dialogo con gli autori, la critica di Debenedetti non istituisce nessun distacco o salto epistemologico fra sapere critico e sapere letterario: persegue viceversa l’instaurazione di uno spazio comune, di uno stato di dialogicità globale e ininterrotta fra critico e scrittori, fra linguaggio critico e conversazione. In questo stato di dialogicità, nel quale l’autobiografia implicita del critico non può che essere un primario strumento di conoscenza (la materia in cui avvengono le reazioni chimiche necessarie alla conoscenza) non c’è posto per l’autobiografia diretta ed esplicita. Proprio Debenedetti, che fin dagli anni Venti ha teorizzato la rilevanza del nesso fra critica e autobiografia, proprio lui parla così poco di sé, ci ha detto così poco della sua vita, non si è mai confessato e raccontato mettendosi al centro della scena. Ogni suo saggio, ogni sua scelta critica hanno un valore autobiografico, sono un tassello della sua autobiografia per interposta persona. Come un attore che seleziona i personaggi da interpretare, così Debenedetti ha selezionato i suoi autori per ragioni e moventi autobiografici. Più precisamente: l’autobiografia non precede la critica né la segue, la rende possibile e si costruisce insieme a essa, se ne alimenta, si manifesta e si nasconde nella critica, evitando di costituirsi in un racconto autonomo. Come sanno i suoi lettori, due miti centrali che definiscono in Debenedetti la sua prassi e la sua ispirazione di critico sono quello di Orfeo e quello di Giacobbe (il primo nella Prefazione ’49 ai Saggi critici. Prima serie, il secondo nel finale della recensione a Ravegnani in Verticale del ’37). «Il critico rifà il cammino di Orfeo», che perde Euridice ma riporta vivo il racconto di come l’ha per-
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duta nella bellezza del proprio pianto. E come Giacobbe in lotta con l’angelo, «Il critico è sempre l’uomo che si misura contro qualche cosa di più divino di lui». È una lotta al buio e una lotta impari. Ma finché la lotta fra il critico e l’artista è in corso, il critico non sa, non deve sapere di non potercela fare. Prima, la lotta, la conoscenza attiva e aggressiva, poi, al mattino, la rivelazione dell’angelo: conoscenza passiva, pura ammirazione. Ecco dunque che ci troviamo di nuovo di fronte a una sovrapposizione fra questioni di identità pubblica (di ruolo del critico), questioni di gnoseologia dell’attività critica e questioni (o domande) autobiografiche. Se l’autobiografia in Debenedetti non è un genere letterario, ma è uno strumento, lo strumento di conoscenza del critico e il suo sistema di orientamento, diventa subito chiaro che cos’è quella identità di metodo e stile che caratterizza Debenedetti. In una breve voce di dizionario pubblicata nell’«Almanacco Letterario Bompiani» del 1959 e mai ripubblicata, Debenedetti corregge questo squilibrio fra critico e artista. Scrive: CRITICA. È uno dei generi dell’arte letteraria: il suo com-
pito consiste nel rappresentare, o indirettamente attraverso concetti, o direttamente in una partecipazione immediata, quegli individui o colonie di individui, che sono le opere artistiche. Gli scritti di un critico appaiono subito superflui e a breve scadenza illeggibili, se non riescono a “rappresentare” l’opera di cui trattano. Ma quella di rappresentare è la facoltà precipua di qualsiasi artista […]. Ogni arte implica un margine di rischio, che diventa pericolo continuo e in atto per quella varietà della critica, a cui si dà il nome significativo di “militante”. Chi la professa, infatti, non si espone soltanto al rischio, tanto umano quanto letterario, di fallire nella ricerca della verità e della pertinenza. Deve anche tener testa, tutto in una volta, a un triplice dialogo: con l’Autore, col pubblico e con l’impresario (organizzatore di mostre o spettacoli, editore di libri, ecc.).
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In questo ritratto in sintesi del critico, nonostante la garbata ironia (Debenedetti tende sempre, in superficie, a sdrammatizzare: per discrezione e civiltà, per non annoiare e spaventare il pubblico, un pubblico sempre immaginato come non professionale, non specializzato) si leggono ancora una volta chiare tracce di quella instabilità novecentesca con cui Debenedetti ha fatto i conti acrobaticamente fin dai suoi esordi. Nonostante la sua passione e vocazione per l’arte, Debenedetti non ha mai esaltato la bellezza o la verità artistica contro il sistema delle relazioni umane e contro i doveri sociali. La sua utopia, il suo ideale è in fondo un pubblico borghese capace di accogliere e capire i messaggi dell’arte letteraria, e un’arte letteraria capace, soprattutto grazie al romanzo, di offrire miti in cui riconoscersi. Fra queste polarità – shock e ragione, illuminazione e illuminismo, angoscia e civiltà, epistème e common sense – Debenedetti si è tenuto in equilibrio. Era un critico “d’avanguardia” solo nel senso che capiva le cose in anticipo, lavorava sulle premonizioni, sapeva che la critica è fisiologicamente legata al presente, alla percezione dei vincoli fra letteratura e clima culturale, in un momento e in un luogo determinati. Nel suo caso, nel caso della sua vocazione critica, si trattava del Novecento all’altezza degli anni Venti, e cioè: crocianesimo e dannunzianesimo in declino, pirotecnica futurista già spenta, scoperta di Proust, di Svevo, di Montale, interesse per la costruzione di una prosa adatta al romanzo e di una poesia capace di fare a meno, come quella di Saba, delle astrazioni formali, dei «miti metafisici» e di un «disperato tecnicismo». Debenedetti non confuse modernità e avanguardia (come spesso è avvenuto negli anni Cinquanta e Sessanta). L’avanguardia è solo uno dei fenomeni della modernità: esprime in forma aggressivamente estroversa la paura dell’artista novecentesco di fallire da solo, di agire senza una copertura ideologica e di
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gruppo. Gli autori di riferimento di Debenedetti sono piuttosto degli isolati (Pirandello, Proust, Saba, Joyce, Kafka, Svevo, Tozzi). Per avanguardie, scuole, tendenze (futurismo, ermetismo, neorealismo) Debenedetti non mostrò particolare interesse. Il suo Novecento è fatto più di delusioni e scontentezze che di adesioni convinte. I suoi veri amori non sono molti e restano costanti nell’arco della sua vita. Le prefazioni (quella del ’45 alla seconda serie dei Saggi critici e del ’49 alla ristampa della prima serie) parlano chiaro. Prima, la necessità di evadere dal crocianesimo. Poi, negli anni Trenta, la difficoltà di sentirsi «concorde con la letteratura circostante», in accordo, «in chiave» con quella che giudicava (magari a posteriori) «la floridezza di una letteratura di corte». E dopo il ’45 non lo convincono né lo “stile americano” di Vittorini e Pavese né gli espedienti a effetto di Moravia e Piovene. Infine la Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo esprime dubbi sullo spirito d’avanguardia applicato al romanzo. La coerenza di metodo di un Robbe-Grillet è giudicata solo un modo per mascherare “una serie di fallimenti”, uno stoico moralismo della forma che impoverisce il romanzo e svuota il personaggio di certi requisiti antropomorfi utili, se non necessari, a identificarlo come nostro simile. Insomma: era la nascita di un’“arcadia” dell’“antipersonaggio”. Il suo Novecento è rimasto un problema: un problema di giovinezza da ritrovare e di maturità da raggiungere. Perfino come persona o personaggio, Giacomo Debenedetti trasmetteva il pathos di questa ricerca ansiosa di figlio che ha perso il padre e che, crescendo, deve trovare il modo di essere padre: anche padre di se stesso. Debenedetti lascia molto, moltissimo alla critica italiana e alle generazioni più giovani di critici. Se guardiamo indietro, è forte la tentazione di dire che oggi al centro del quadro c’è proprio lui, e che i suoi sono i discorsi più ricchi di futuro.
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Non credo però che una “scuola debenedettiana” esista o possa esistere. Dopo il tramonto del progetto che aspirava a trasformare la critica in un ramo della linguistica, in una teoria generale dei segni e scienza dei testi, oggi l’influenza di Debenedetti è in crescita. Ma si tratta di esemplarità e di fascino più che di “scuola”. Tra l’altro, imitare Debenedetti è altamente sconsigliabile. La riscoperta della sua opera dovrebbe insegnare a tutti una cosa: che la critica è anzitutto un’impresa letteraria e scientifica personale, quindi rischiosa; una forma di bricolage nel quale ogni volta bisogna reinventare e combinare insieme quasi tutto: modo di leggere, tecniche di analisi, ragioni individuali e scopi pubblici dell’impresa, famiglie di autori e cartografia del territorio letterario, mezzi comunicativi e forma stilistica con cui rivolgersi a un pubblico sempre ipotetico, virtuale e in metamorfosi.
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Debenedetti a lezione (1996)
Sono stato allievo di Debenedetti a Roma negli ultimi suoi anni di insegnamento, dal 1963 al 1966, in un’università già allora molto affollata e con una forte tradizione gerarchica in cui succede che anche un genio della critica possa essere emarginato, messo da parte. Così succedeva anche a lui. Noi studenti che lo seguivamo più assiduamente ci sentivamo una conventicola. A Messina doveva aver fatto scuola in modo più diretto, espansivo. A Roma invece Debenedetti era un po’ relegato in un angolo. Il suo insegnamento non ebbe certo l’influenza e la risonanza che avrebbe meritato. Questo rendeva tanto più compiaciuto e geloso il senso di appartenenza di quei pochi che seguivano le sue lezioni. Eravamo certi di scommettere su qualcosa che aveva una qualità culturale molto superiore a quella della maggior parte degli altri corsi, affollatissimi e tenuti da docenti accademicamente più affermati. Chi seguiva Debenedetti si sentiva quasi un eletto: e tendeva a mettere la letteratura contro lo studio universitario della letteratura. All’inizio degli anni Sessanta i discorsi sul metodo avevano cominciato a infittirsi. E parecchi studenti, variamente indottrinati, in parte politicamente e in parte accademicamente indot-
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trinati, pensavano che Debenedetti non avesse un metodo. Era considerato un docente che per studiare la letteratura non ti dava né il punto di vista politico, né il metodo storico-critico. In una lettera con la quale rispondeva a un’inchiesta di Michel David sulla critica psicanalitica e l’influenza di Freud in Italia, lettera tra l’altro molto acutamente commentata da Mario Lavagetto, Debenedetti dice che un critico è anche uno scrittore, e che comunque non può fare troppo aperta e sfacciata esibizione del proprio metodo, non deve cioè proporlo come un sistema e come un programma. Pur avendo letto moltissimo di Freud e Jung (nonché dei loro seguaci) non se la sentiva di mettersi a costruire schemi teorici. Queste cose sono venute dopo, quando un certo teoricismo o dottrinarismo ha invaso l’università, affascinando una massa di giovani docenti che poi si sono messi a distribuire grimaldelli metodologici ritenuti imprescindibili per la lettura di poesie e romanzi. È strano, ma è stata proprio la «generazione del ’68» a cadere in queste nuove forme di autoritarismo «logotecnocratico» (per usare una formula di Cesare Cases). Il primo messaggio che questi giovani professori trasmettevano a studenti sempre più docili era più o meno questo: è inutile leggere se non sapete prima come dovete leggere, se non possedete un metodo, e questo metodo ve lo forniremo noi. Debenedetti una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta. Si potrebbe forse dire che non esibendo preliminarmente il metodo, era ancora più autoritario. Infatti, il metodo era lui stesso. Quello che ci faceva capire però era essenziale: ci insegnava che la mediazione reale a un sapere autentico, non passa per un metodo, passa per una persona, è la mediazione di un interprete. Più che di metodi da applicare, quando si studia si ha bisogno di vedere che cos’è un interprete reale, che cos’è un individuo che legge e cerca di capire i testi usando non schemi preordinati, ma tutta la sua passione, esperienza e intelligenza.
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Quello che forse ci faceva più impressione quando avevamo vent’anni era vedere un uomo maturo, addirittura in là con gli anni, che si appassionava e che impiegava senza risparmio, insegnando, tutta la sua esperienza intellettuale e umana per spiegare a noi (e interpretare di nuovo) un secolo di letteratura. Questo era metodologicamente molto efficace. Lo ha osservato acutamente Pasolini nella breve introduzione alle lezioni sulla poesia del Novecento: il modo di leggere un testo che era tipico di Debenedetti nasceva secondo Pasolini dalla sua ansiosa consapevolezza di «non avere un metodo» e quindi di dover accerchiare, assediare i libri e gli autori con tutti i mezzi della sua cultura, senza trascurare nessuna strada, nessun espediente. Già in quegli anni si cominciava però ad adorare il feticcio dei metodi e delle metodologie: c’era il metodo cosiddetto storico-critico, il metodo marxista o para-marxista, c’era ancora lo storicismo corretto a sinistra o a destra con un po’ di sociologia o un po’ di stilistica. Ma soprattutto stava nascendo il metodo dello strutturalismo, che divenne l’apoteosi del metodo. Debenedetti naturalmente ne era al corrente. Leggeva di tutto, anche come consulente del Saggiatore, e la sua consapevolezza teorica ed epistemologica era straordinariamente avanzata. Fu lui per esempio a promuovere la pubblicazione di quel famoso catalogo del Saggiatore, uscito nel 1965, con il dibattito su Strutturalismo e critica letteraria. L’idea di un incontro fra cultura scientifica e letteratura lo aveva guidato fin dalla sua giovinezza. Si direbbe però che la sua cultura scientifica era troppo ampia, la sua visione della scienza moderna troppo articolata e problematica per spingerlo a credere che la critica letteraria potesse risolversi in Teoria e metodologia dello studio letterario, in «scienza della letteratura». Questo per dire che in realtà la fortuna di Debenedetti, negli anni Sessanta, era piuttosto limitata. Ci sentivamo fieri, noi studenti che seguimmo per anni le sue lezioni: era come appartenere a una cerchia di privilegiati, perché attraverso quelle
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lezioni-conversazioni sentivamo scorrere davanti a noi, ancora viva, la vicenda letteraria e culturale di un intero secolo. Era uno dei suoi protagonisti a raccontarcela. Concludo con un’ipotesi, con una suggestione che mi sembra interessante, su cui si potrebbe ragionare a lungo e che è emersa nel corso di lunghe conversazioni telefoniche con Antonio Debenedetti. Si tratta della presenza conflittuale, ma anche estremamente produttiva, di diverse figure o identità o modelli culturali presenti nella mente di Giacomo Debenedetti, il quale, vorrei ribadire, è uno dei maggiori scrittori del Novecento. Non sono molti i poeti e narratori italiani che possano stare accanto a Debenedetti per inventiva, ricchezza, raffinatezza stilistica. Dunque nella mente di Debenedetti si può dire che convissero tre diverse figure: il dandy, il rabbi, lo scienziato. Nel dandy c’era il critico come artista, secondo la formula di Oscar Wilde, c’era l’intelligenza più sottile, sensibile, onnicomprensiva e fraterna del critico per l’artista. Ma perché questo avvenisse era necessario che l’intelligenza critica fosse fatta della stessa stoffa, della stessa materia mentale e vitale dell’intelligenza artistica e creativa. La vita di Debenedetti era impregnata fino in fondo di arte moderna: solo una vita così «intrinseca» all’arte moderna poteva produrre una intelligenza critica adeguata. Il dandy è insonne, vigila costantemente sulla percezione formale, sullo stile della propria vita. Debenedetti era insonne nel rendere perfetta, conoscitivamente e stilisticamente (le due cose sono in realtà una cosa sola), la sua intelligenza critica. In lui c’era anche un rabbi: un maestro morale e spirituale, il che implica un momento di rivelazione, di illuminazione nell’atto critico. Da questa attitudine rabbinica e pedagogica viene lo straordinario insegnante che è stato Debenedetti. Forse questa scoperta di sé come maestro in Debenedetti è avvenuta tardi (ha incominciato a insegnare quando aveva cinquant’anni). Ma alla fine nelle sue lezioni si sentiva tutto il suo impegno insieme di illuminazione e di parafrasi didattica dei testi della moderni-
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tà. Come maestro, mediatore fra una serie di testi e un pubblico di studenti, Debenedetti ha sciolto, trasformato il suo stile. Ha saputo rinunciare al suo virtuosismo stilistico (che rende tutti i suoi saggi pubblicati in vita così perfetti, sorprendenti, eleganti, ardui) e ha trovato una forma piana e media di discorso. Infine, c’era in lui lo scienziato: Debenedetti sapeva che il critico ha bisogno di tutte le più acuminate risorse espressive, ma per arrivare alla conoscenza, a una conoscenza razionale. In lui c’era un’inflessibile etica della conoscenza, che non gli avrebbe mai permesso di prevaricare sugli autori di cui parlava compiendo delle semplici (narcisistiche) variazioni sul tema. Artista e devoto dell’intelligenza, Debenedetti aveva un solo scopo: quello di comprendere e far comprendere un’arte così difficile e insocievole come l’arte moderna. Di quest’arte egli era sia consanguineo che scienziato.
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Montale irregolare (1997)
È il caso di distinguere, credo, fra intellettuale impegnato (o militante) e critico della cultura. Si tratta di due figure spesso vicine fino a coincidere, che però in altri casi arrivano perfino a opporsi. A volte potrebbe sembrare che la discriminante sia ideologica e politica: “a sinistra” l’intellettuale impegnato, “a destra” il critico della cultura. Se si pensa a Brecht e Sartre da un lato e dall’altro a Ortega e Adorno, la distinzione sembrerebbe abbastanza chiara. La questione è però un’altra. L’intellettuale o lo scrittore engagé crede nella priorità della prassi, della politica culturale, dell’intervento tempestivo, efficace, organizzato. Il critico della cultura è invece quasi sempre più pessimista e più scettico. Di solito è convinto che la critica resti comunque un esercizio disarmato e impotente e che la chiarificazione razionale, la “demistificazione” illuministica, la demolizione degli idoli intellettuali di un’epoca non possano e non debbano sperare di raggiungere e influenzare le maggioranze. Anche nelle moderne democrazie di massa le maggioranze tendono infatti a nutrirsi più di miti che di critica. L’intellettuale impegnato, anche se milita a destra, resta in fondo un seguace di quella famosa glossa a Feuerbach, nella quale
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Marx dice che finora si è cercato di capire il mondo, mentre ormai è venuto il momento di trasformarlo. Si tratta cioè di un intellettuale convertito e conquistato alla politica, convinto del primato della prassi o dell’azione, che disprezza, come Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca, i «belati filosofici» e spera di sostituirli con ruggiti culturali più potenti. Il critico della cultura appartiene a una tradizione diversa. Crede, in fondo, che la verità, anche se praticamente e socialmente impotente, abbia un suo oscuro potere, la cui efficacia non può essere misurata con l’influenza immediata che riesce a esercitare sul pubblico. Questo schematico prologo per arrivare a riconoscere pienamente, più di quanto non sia stato già fatto, il valore di Eugenio Montale come critico sociale e critico della cultura. Siamo nel centenario della sua nascita e potrebbe sembrare superfluo attirare l’attenzione su uno scrittore celebratissimo e al centro di molte commemorazioni. Ma è di un aspetto particolare della sua opera che vorrei sottolineare l’importanza. Alieno dall’impegno politico, lontano per cultura e per temperamento dalla figura dello scrittore impegnato e dell’intellettuale militante, Montale è stato un eccezionale critico della società di massa e della modernizzazione italiana. In Auto da fé, del 1966, il solo libro di saggi critici che abbia pubblicato in vita e curato di persona, Montale costruisce un discorso che ha parecchie affinità con quello dei Minima moralia di Adorno, raccogliendo prevalentemente articoli del decennio 1956-66. Sono gli anni dell’avvento della tv, dello sviluppo dei mass media in Italia e del miracolo economico. Bonario in apparenza e moderato nel tono, Montale dà fondo al suo acume di liberale scettico che sente lo sviluppo dell’industria culturale e della democrazia di massa come una minaccia radicale per l’individuo. Parla ripetutamente di una probabile, incombente fine dell’arte nella società di massa dove tutti
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sono potenzialmente artisti. Rivendica il diritto alla solitudine e il suo valore per l’artista. Nel difendere gli individui soli e le arti inadatte alle tecnologie comunicative moderne, Montale difende i diritti del singolo di fronte a processi di socializzazione sempre più invadenti. Il mercato culturale minaccia la cultura, la quantità sommerge la qualità, il best seller mina l’identità del libro e la sua funzione critica legata all’attenzione e alla durata. Come ho detto, il liberalismo di Montale è radicalmente scettico. Non arriva quasi mai ad affermazioni positive di valore. Sembrerebbe che questo individualista non creda molto nell’individuo, nella sua autonomia e nelle sue risorse creative. L’individuo solo può anche sprofondare nel silenzio, nell’afasia, nell’oscurità. Ma di fronte al trionfo della Comunicazione e della democrazia culturale, anche quel groviglio di negatività, in cui il singolo si dibatte, va difeso dall’invasione della sfera pubblica, dalla pubblicizzazione integrale della dimensione privata. E del resto per un liberale misantropo come Montale (ma quale liberalismo può fare a meno della misantropia?) gran parte della migliore letteratura moderna è angoscia della socializzazione, è avversione per la totalità sociale vista come incubo. È soprattutto attraverso le angosce (solo apparentemente “irrazionali”) dell’individuo isolato che si può vedere il lato inquietante e sottilmente persecutorio della società moderna. «In questo senso – scrive Montale – il massimo dell’isolamento e il massimo dell’engagement possono coincidere? Nessuno, nell’epoca nostra, fu più isolato di Kafka, e pochi raggiunsero come lui le strade della comunicazione». Ma di che comunicazione si tratta? La comunicazione dell’arte autentica per Montale non coincide mai con la comunicazione di massa. Qui naturalmente si sente la voce del poeta moderno, di un poeta cresciuto in una tradizione artistica speciale, quella della lirica oscura.
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Il fatto è che in una cultura dominata da giornali, riviste illustrate, cinema, radio, televisione e altri media di massa, tutte le arti tradizionali sembrano minacciate di estinzione. Ma con le arti tradizionali e con il libro è minacciato di estinzione o di persecuzione anche l’individuo. In un articolo del 1952 la previsione di Montale è questa: L’arte si disporrà […] su due piani: un’arte utilitaria e quasi sportiva per le grandi masse e un’arte vera e propria, non troppo diversa dall’arte del passato e non facilmente riducibile a cliché. Quest’ipotesi, ottimistica, presuppone che i clercs dell’intelligenza e della cultura, gli uomini capaci di andare controcorrente, restino oggi e domani al loro posto e non si lascino sommergere.
I clercs, gli intellettuali, stanno a loro volta perdendo il senso della tradizione a cui culturalmente appartengono. Subiscono una profonda mutazione, la loro identità è modellata più dalle regole corporative che dai valori ereditati. Montale viene celebrato. Ma chi ha voglia di discutere e di prendere sul serio, cioè alla lettera, le sue idee? Individualismo, tradizionalismo difensivo, pessimismo apocalittico, aristocratismo culturale, diffidenza per lo sviluppo delle tecnologie comunicative e per la democrazia culturale. Non c’è dubbio: Montale è un conservatore. Ma bisogna stare attenti alle parole e alle etichette. Montale è consapevole, spesso su un piano di semplice e concreto buon senso, che non tutte le novità sono utili e buone, non tutti i mutamenti sono miglioramenti e che il progresso non è garantito a priori. La distruzione del passato possiamo anche ritenerla ineluttabile. Si tratta solo di ricordare che l’ineluttabile non va considerato esattamente come se fosse il risultato di una scelta razionale. Se le leggi della storia, dello sviluppo economico e tecnologico sono diventate più cogenti, più immodificabili
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delle leggi di natura, allora la stessa idea di libertà dovremmo considerarla un’illusione ottocentesca. È questa una prospettiva accettabile?
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Pasolini personaggio-poeta (2015)
I Più di Italo Calvino, di Alberto Moravia, di Elsa Morante, anche se meno tradotto all’estero, nella cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo Pier Paolo Pasolini ha avuto un ruolo di assoluto protagonista. La sua morte prematura ha accresciuto il suo successo e la sua influenza, facendo di lui un mito. Quando fu assassinato, nel 1975, mentre era in compagnia di un “ragazzo di vita”, in circostanze che forse un giorno saranno chiarite, aveva poco più di cinquant’anni ed era in Italia l’intellettuale più controverso e scandaloso. Le sue tesi sulla “mutazione antropologica” degli italiani venivano criticate e denigrate da ogni parte, soprattutto dalla sinistra radicale e marxista. Nei suoi ultimi articoli e saggi, raccolti in due libri, Scritti corsari e Lettere luterane, Pasolini aveva lanciato un disperato allarme: lo sviluppo neocapitalistico, il culto dei consumi di massa o “consumismo” avevano abolito le differenze culturali di classe: proletari e sottoproletari avevano perso identità e coscienza di se stessi. Tutti, anche se di fatto non lo erano, volevano essere classe media, piccola borghesia modernizzata. Diversità durate secoli erano state cancellate nel corso di un decennio. La società italiana si era “omologata” al suo livello
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medio. Sostituendo il controllo politico, questa unificazione fondata su valori e stili di vita si dimostrava infinitamente più efficace, potente e pervasiva di ogni altra. La stessa cultura di sinistra, anche se marxista e anche se si credeva rivoluzionaria, non si era accorta di questa nuova “dittatura” che non aveva bisogno di un’ideologia di Stato e di un controllo poliziesco per controllare l’intera vita sociale. Era la dittatura fondata sull’identificazione fra sviluppo e progresso, crescita economica, incremento dei consumi e miglioramento della società. Di fronte a questo fenomeno, la critica marxista fondata sul materialismo economico si mostrava, secondo Pasolini, disarmata e cieca. Ma chi era, che cos’era Pasolini? Forse troppe cose. E questo dava fastidio. Figlio primogenito di una maestra di scuola elementare e di un ufficiale di carriera, Pasolini era nato a Bologna il 5 marzo 1922. Apparteneva socialmente a una piccola borghesia che si sentiva custode dei valori morali e a quella generazione, cresciuta sotto il fascismo, che si risvegliò da idea li falsamente patriottici alla coscienza politica nel corso della guerra 1940-45. In lui la resistenza contro il nazi-fascismo rimase un presupposto primario e incancellabile, dal quale si sviluppò la sua critica alla borghesia “moralmente fascista”, alla politica clericale di destra e infine alla società di massa “omologata”. Autore di poemetti autobiografici e ideologici che a metà degli ani cinquanta erano stati sorprendentemente innovatori per la loro provocatoria discorsività ideologica, Pasolini era anche un narratore: i suoi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta avevano reso famose le periferie sotto-proletarie romane. Come critico letterario era molto attivo e spesso geniale sia per le sue idee che per la sua capacità di penetrazione psicologica e sociale. Giornalista, polemista e saggista politico, con la vocazione e l’istinto di fare scandalo, non aveva mai smesso di intervenire sui più diversi fenomeni culturali e fatti
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di cronaca. Infine, era un regista di film che sfidavano le abitudini del pubblico e le tradizioni prevalenti del cinema italiano. Pasolini aveva così prodotto in un paio di decenni un’opera ampia, articolata e aperta a ogni sviluppo. Se non era universalmente apprezzato, la sua presenza sulla scena culturale era stata costante e incisiva. Oltre a essere un autore, Pasolini era un “personaggio” pubblico rivelatore e suscitatore di conflitti, un attore al centro della scena, un produttore, forse eccessivamente prolifico, di stili e di idee. Aveva praticato tutti i generi letterari, anche il teatro in versi, e come regista cinematografico è stato, da Accattone a Salò-Sade, anche più famoso e discusso che come scrittore. Tutto questo faceva di lui l’esempio più vistoso di intellettuale impegnato: un ideologo eretico che metteva se stesso e la sua esperienza personale al centro di ogni discorso pubblico. Si considerava anzitutto un poeta, sebbene un poeta più giovane di lui, Giovanni Raboni, abbia scritto, con arguta malizia, che poeta Pasolini lo era sempre, ma lo era meno quando scriveva poesie. Pasolini aveva però teorizzato la propria lotta contro la prigione dello stile. Le sue poesie si presentavano sempre più esplicitamente come progetti di opere future e appunti per poesie da scrivere. Sta di fatto che per Pasolini scrivere poesia era la più naturale delle arti, un’attività più o meno quotidiana di cui non poteva fare a meno; una passione originaria e quasi maniacale che gli permetteva un immediato riconoscimento di se stesso: una specie di pratica propiziatoria, devozionale, igienica alla quale non poteva sottrarsi se voleva mantenere o ritrovare la fede in se stesso. Se era certo di essere poeta, poteva diventare qualunque altra cosa: uomo di cinema, critico letterario, ideologo antiborghese e infine, come è accaduto, un improvvisato ma originale sociologo della modernizzazione italiana, da lui sofferta personalmente e letterariamente come la fine improvvisa di un mondo secolare. La visione che Pasolini aveva del passato italiano, dal Medioevo romanico-gotico al Seicento barocco,
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fino alla prima metà del Novecento, era una visione colorata di nostalgia e un mito personale. Un mito che lo aiutò tuttavia a vedere più realtà e più tempestivamente di quanta ne vedessero la sociologia e la politica di sinistra negli anni fra il 1955 e il 1975. Quasi da tutti, dai suoi amici scrittori come dai giornalisti radical-socialisti dell’«Espresso» e da quelli marxisti del «manifesto», fu accusato di proiettare sulla realtà sociale le sue personali passioni e di essere entrato a far parte di una tradizione antimoderna, antiprogressiva, conservatrice, ciecamente ostile, per pure ragioni estetiche, alla crescita del benessere sociale, alla diffusione della cultura, alla moltiplicazione dei consumi di massa. Ciò che a distanza di decenni colpisce di più è che la quasi totalità degli intellettuali italiani, accusando Pasolini, ignorasse sbrigativamente la critica della modernizzazione, del progresso borghese e capitalistico che fin dall’Ottocento aveva coinvolto artisti, pensatori liberali, militanti anarchici, populisti o conservatori: da Leopardi a Dickens, da Kierkegaard e Baudelaire a Tolstoj e Nietzsche, per arrivare ai filosofi-sociologi della Scuola di Francoforte.
II Come poeta Pasolini si identifica con la sua teoria dello “sperimentalismo”. Secondo questa idea, la poesia, in un momento storico di crisi e incertezza, è un genere letterario che si dilata e si espande come ricerca e prova sperimentale, rifiutando limiti sia linguistici che tematici. È secondo questa ipotesi che la poetica tardosimbolista ed ermetica viene rifiutata da Pasolini. Nei suoi libri in versi c’è una ibridazione che include di tutto: appunti di diario, giornalismo, discussione ideologica, descrizioni dal vero, interviste, confessioni autobiografiche. Pasolini oppone un Novecento poetico a un altro: oppone Pascoli, Saba,
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Penna, Bertolucci a D’Annunzio, Ungaretti, Montale. Elabora così una particolare forma di poesia inclusiva: il poemetto costruito per sezioni distinte, usando soprattutto una specie di “endecasillabo ipotetico” che si dilata o si contrae, spesso organizzato in terzine che tendono a diventare più tipografiche che metriche. Fino a contaminare e fondere poesia e prosa. Il suo linguaggio poetico è a metà strada fra impazienza e improvvisazione da un lato e nostalgia di forme classiche dall’altro. La prima fase della poesia di Pasolini, tanto in dialetto che in lingua, ruota intorno a un centro tematico erotico e funebre: fuoco e gelo, passione e morte che si alternano in sogni di purezza e in “impure” pulsioni adolescenti. È questa una delle più classiche oscillazioni liriche e appartiene alla più antica e persistente delle tradizioni. Ma Pasolini la vive di nuovo nel momento in cui la cita. Conosce bene i suoi modelli e precedenti, Leopardi e Pascoli, Rimbaud, Ramon Jiménez e García Lorca, autori da cui a volte sembra tradurre o trascrivere. Come è stato detto dei veri poeti, Pasolini, più che imitare, ruba. Quando morì, le opere con cui si era imposto all’attenzione della critica facevano a molti l’impressione di opere “del passato”: un’impressione che intellettuali e scrittori che si volevano più moderni e marxisti di lui (come Franco Fortini o Edoardo Sanguineti) avevano contribuito a rafforzare. Quello stile così espansivo e colmo di pathos suonava troppo italiano, troppo legato a sfondi e paesaggi molto peninsulari e quasi di maniera. Il Friuli, le strade di campagna, i greti assolati, le borgate romane dei primi anni Cinquanta. Era, la sua, un’Italia dialettale e rurale, miserabile e derelitta, descritta come in un sogno di innocenza o in un incubo di corruzione. Era proprio questa l’Italia di cui, dagli anni del “miracolo economico” in poi, gli italiani non avevano più voglia di sentir parlare. Il sogno dentro cui abitava Pasolini era sempre più incomunicabile, come il livido crepuscolo di una poesia inedita dei primi anni Cinquanta (Correvo nel crepuscolo fangoso).
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Già un decennio più tardi, più che l’autore di Ragazzi di vita e delle Ceneri di Gramsci, Pasolini era un regista di successo: sempre in viaggio in Africa e in Asia. Uno scrittore che non nascondeva di avere della società italiana e del Partito comunista una visione sentimentale, nostalgica e che poi, nel 1968, avrebbe detto alcune sgradevoli verità morali contro gli studenti in rivolta. Dunque, in lui, nessuna voglia di adeguarsi, di essere moderno. Aveva scritto (in versi che diventavano sempre più delle semplici “frasi tagliate”) alcune enfatiche dichiarazioni sulla propria condizione “mostruosa” di individuo che non può più trovare un accordo con la contemporaneità (Io sono una forza del passato). Dal 1968 al 1975, mentre l’Italia politica e culturale si interrogava sui diversi movimenti studenteschi e operai, sulle possibili “transizioni” e “alternative di sistema”, su “Strage di Stato” e possibile golpe di destra, ecco che questo scrittore “del passato” si metteva a discutere affannosamente di fine di un mondo e di una cultura tradizionali, come se la sociologia non avesse già detto tutto in proposito. E osava pubblicare i suoi articoli di denuncia sul «Corriere della sera», massimo organo di stampa della borghesia nazionale: come se non ci fossero già stati innumerevoli dibattiti sulla “manipolazione” dei messaggi e sull’“asservimento al Sistema” di chiunque si esprimesse all’interno dei suoi apparati e canali comunicativi. E non bastava: esibiva se stesso e i propri sentimenti, non esibiva teorie e bibliografie, non faceva appello a organizzazioni politiche. Parlava della propria disperazione come se si trattasse di un fondamentale tema di interesse pubblico. Pasolini era in anticipo ma sembrava “superato”. Era lui il primo a saperlo. Conosceva bene tutte le accuse che gli venivano rivolte. La borghesia italiana e i suoi intellettuali li aveva studiati a fondo. Conosceva per esperienza le accuse dei tribunali e quelle della critica letteraria. Conosceva i metodi della diffamazione giornalistica. Da tutte queste cose era sta-
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to assillato per anni. Farsi accettare dalla borghesia di sinistra, dagli intellettuali illuminati e laici, dai probi progressisti e dai comunisti non era stato facile. Era diventato un poeta “civile” proprio per questo. La sua storia era da vent’anni una storia di processi. L’essere processato era da tempo il suo modo di essere: una condizione che lo aveva maturato, mettendo a dura prova le sue risorse e la sua capacità di resistenza. Attirarsi accuse e difendersi dalle accuse, giustificarsi di fronte alla legge, mettere in discussione i fondamenti della legge, chiamare in causa i giudici e la loro morale, leggere nelle loro fisionomie l’odio e il disprezzo verso di lui: omosessuale, comunista e poeta. Tutto ciò aveva contribuito a creare una forma letteraria, uno stile, una strategia argomentativa e retorica. La condizione di imputato era ormai il movente più forte della sua opera. La sua maschera letteraria, la sua scrittura, si era fissata una volta per tutte quando aveva trent’anni: confessione pubblica, difesa e accusa.
III Nel poemetto Una disperata vitalità il modello formale delle Ceneri di Gramsci viene sottoposto a revisione, e questo accelera l’itinerario di Pasolini dalla poesia verso la prosa dei suoi ultimi scritti. Non siamo più in un quartiere popolare, un cimitero seminascosto, con il poeta che vi si aggira malinconico in una torbida, quasi tempestosa sera di maggio, in dialogo con un morto Gramsci, il grande dirigente comunista sconfitto, costretto in carcere nella condizione di filosofo a riflettere sulle ragioni storiche della vittoria fascista. Ora stile e scenario sono cambiati. Il monologo è in presa diretta, la trascrizione del pensiero è immediata, il linguaggio è casuale, quasi gergale, da intervista. L’autore ritrae se stesso cinematograficamente «come in un film di Godard» al volante della sua Alfa Romeo,
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tra Fiumicino e Roma, «in una macchina che corre per le autostrade / del Neocapitalismo latino – di ritorno dall’aeroporto». La posizione dell’autore è cambiata e anche il suo rapporto con l’ambiente sociale e fisico. Pasolini ironizza mestamente su se stesso, sulla sua nuova condizione privilegiata che comporta la caduta in una serie di rapporti più veloci e cinici, più sordi e volgari. Il poeta-regista si dirige verso l’intervista che lo attende come verso un martirio. Oscilla fra un narcisismo su cui recrimina e una cupa malinconia che trascina con sé macabre fantasie di morte. Non solo per lui “la storia è finita”, anche il pensare è superato e degradato dalla fretta («meditazioni dai sessanta ai centoventi all’ora», guidando un’auto costosa). È nella sublime autocommiserazione, è nell’orgoglio irremovibile della vittima che Pasolini esprime meglio i suoi messaggi, spingendo il lettore a una fraterna complicità o alla ripulsa. I conflitti morali in cui Pasolini trascina il lettore sembrano riguardare anzitutto lui: amarlo o respingerlo. Ma poi si dilatano in giudizio sullo stato dell’intera società e del mondo, in marcia verso un futuro che gli ripugna. Questo schema si ripeterà fino alla fine. Ogni volta, le argomentazioni di Pasolini chiedono assenso o dissenso. Il suo stile chiede però fratellanza e carità. I suoi ragionamenti si svolgono a partire da un dato passionale (la bruttezza dei nuovi giovani, il senso di estraneità al mondo sociale modernizzato) e quindi non possono essere razionalmente confutati: mentre le sue passioni sono a loro volta ideologizzate, sono passioni che non siamo in grado di respingere passionalmente perché contengono idee e giudizi. In questo, la cultura di Pasolini ha ben poco di liberale e di individualistico. Pubblico e privato in lui non si distinguono, tendono a fondersi, o meglio a scambiarsi le parti. L’opera di Pasolini appartiene all’epoca della letteratura che si autogiustifica lottando contro se stessa e contro la società. Appartiene all’epoca di un impegno che traduce l’estraneità ontologica dell’arte moderna alla cultura borghese in una critica
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morale, estetica, sociale, politica. Ma difendendo la figura del poeta e la funzione pubblica della letteratura, Pasolini difende se stesso e soprattutto la giovinezza di poeta che lui stesso si rimprovera di aver perduto o tradito. Perduta la sua purezza originaria, la poesia può salvarsi soltanto con la verità. Pur di dire la propria verità, Pasolini sente di dover rinunciare allo stile. È questa l’ultima possibilità e metamorfosi della sua poetica sperimentale: l’autodistruzione della forma in nome di una finale rivelazione di realtà. Perciò è come se continuasse a rimproverare i suoi lettori di non aver capito le sue verità sulla distruzione del passato: lui che aveva detto di non essere altro che “una forza del passato”, estraneo in un mondo che gli era ormai estraneo.
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La Pasqua di Fofi (1988)
La multiforme, inquieta, dinamicissima e polemica attività di Goffredo Fofi (che non è affatto un critico cinematografico, pur essendo il migliore dei nostri critici cinematografici) finalmente si materializza in un libro, Pasqua di maggio, in cui si parla di tutto e, vorrei dire, con tutti i mezzi. Il titolo in effetti dice già molto, è davvero uno di quei titoli che definiscono un autore. Questa Pasqua di liberazione e di resurrezione, questo festoso trionfo del bene e della vita che rinasce dopo una violacea passione, non arriverà mai. Di maggio non cadono pasque, neppure nel calendario più utopistico. Eppure, sebbene lo sappia sempre più chiaramente e pessimisticamente, sebbene lo dichiari fin dal titolo del libro, col gesto sconsolato ma anche provocatorio di chi esibisce in prima persona il proprio sogno infranto (sì, «il sogno di una cosa»), questo sogno continua a colorare tutto. Neppure il disincanto riesce a prendere in Fofi la tinta uniforme della routine. La sua incapacità di pensare e di esprimersi in termini di “ragionevole” accettazione dell’esistente è un’incapacità fisiologica. Anche la constatazione del disastro un po’ ebete della sinistra e dello sfacelo euforico della società italiana (constatazione che ritorna in tutto il libro) non è una semplice constatazione
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espressa nel tono pacato dell’osservatore freddo che vive al caldo. Questi osservatori freddi Fofi ora li detesta e li giudica più che mai come pretenziosi e compassati «servi del potere». Il suo sguardo sul passato prossimo e sul presente della cultura del «nostro sgradevolissimo paese», vede molte più cose di quante i migliori intellettuali professionisti riescano a immaginarne. Le sue deplorazioni sono animate da una tumultuosa vitalità, ostinata e trascinante, che non lascia il lettore in pace con se stesso, lo eccita e lo tormenta con l’ansia del bene e il sospetto del male: un dilemma davvero desueto nonostante i piatti insipidi che di tanto in tanto ci servono in tavola gli attuali filosofi della morale. Il volume raccoglie articoli e saggi scritti in massima parte nel corso degli anni Ottanta, in un movimentato affresco gremito di problemi, di occasioni mancate e di personaggi con le loro aspirazioni genuine e le loro smorfie involontarie. Ci sono, come in un Duomo o in un’Arca navigante verso un pianeta meno infetto, pale d’altare, oblò, nicchie, pulpiti, finestre istoriate, bussole rudimentali e telescopi post-moderni. Il populismo francescano e anarchico, il moralismo apocalittico, l’immaginazione sociologica, le visioni della science fiction sono tra i più forti ingredienti e sapori di questo libro: che sembra composto di semplici articoli occasionali, ma diventa quasi senza volerlo una delle autobiografie critiche più vitali e appassionanti che si possano leggere nella nostra letteratura recente. Se solo alla Fiera di Francoforte dello scorso autunno, dedicata al nostro paese, qualcuno avesse potuto notare un libro come questo, avrebbe colto un’occasione rara per capire che cosa è, che cosa è stata o poteva essere l’Italia dell’ultimo trentennio. Dicendo questo non faccio grandi scoperte. Da circa una ventina d’anni Goffredo Fofi è “in azione” con una curiosità onnivora, un’insoddisfazione e un’asprezza di giudizio assai rare, se non uniche, nel nostro panorama culturale abitato per lo più da busti in posa o da imbarazzanti macchiette. Sarebbe
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capace con una sola conversazione di alimentare per mesi o per anni il lavoro di una rivista e perfino di una casa editrice. Non è un intellettuale “raffinato” e non vuole esserlo. E non è un saggio amministratore di se stesso. Ha regalato e sperperato fin troppo. Procede spostandosi da una zona culturale a un’altra. Lascia le cose a metà o accumula senza risparmio un patrimonio che gli sembra prezioso per tutti, ma che potrà anche abbandonare per sfiducia e amarezza, non appena il suo istinto di intellettuale in fuga dal potere e dalle comodità lo conduca altrove. Gli anni passano, e ormai dovranno essere diverse decine i suoi ex “allievi” e “seguaci” più o meno ripudiati o persi di vista, ma che possono sempre riaffiorare e incrociare la sua strada. È probabile che quelli che hanno davvero imparato da lui le cose alle quali teneva di più, in realtà non siano numerosi. E spesso l’umore polemico, la violenza moralistica di Fofi derivano proprio dalle delusioni, dalle promesse giovanili che i giovani di solito non riescono a mantenere: e dalla visione per lui particolarmente sconsolante di quanta forza d’attrazione finiscano sempre per esercitare coloro che occupano il potere e possono elargirne anche solo qualche briciola a chi si adegua. Ma si sa: con chi crede nel potere, Fofi è quasi spietato. Quel certo miscuglio di sciocca ambizione e di narcisismo arido e senza rimorsi che fa andare verso i luoghi alti, ben arredati, prestigiosi e corrotti della società, lui non riesce a perdonarlo a nessuno. Fin dall’inizio (è lui stesso a sottolinearlo nella prefazione poco trionfalistica, la cui epigrafe suona: Son nato scemo e morirò cretino…) il suo rapporto con la cultura non nasceva «dall’aspirazione di fare l’intellettuale, ma da quella di contribuire a cambiare il mondo e la vita». Cultura significava capire, lavorare e stare in mezzo agli altri cercando il più possibile di imparare e di essere utile, tenendo in contatto il meglio della cultura che sta “in alto” con il meglio della cultura (non meno essenziale) di chi sta “in basso”. C’è così poco di borghese (e
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di piccolo-borghese) in Fofi che il male gli sembra costituito soprattutto dall’attivismo vorace, dall’egoismo e dalla volgarità di quelle Classi Medie, che hanno finito per occupare ormai quasi tutto lo spazio visibile delle società occidentali contemporanee. Le incursioni di Fofi in questa quasi onnicomprensiva “fascia intermedia” della società e della cultura sembrano avere anzitutto lo scopo di isolare qualche individuo insoddisfatto e di valore, spingerlo a “tradire” la propria classe d’origine, strapparlo alle complicità e all’inerzia del suo ambiente. Dare efficacia pratica e politica, in un contesto di opposizione, alle migliori forze critiche della borghesia, credo che sia sempre stato il suo progetto e sogno militante più ambizioso. I dubbi e le visioni davvero buie che il presente suggerisce a chi voglia tentare una simile impresa si moltiplicano fino a creare una vera e propria eclissi della speranza. Soprattutto perché, in Italia e in Europa, i senza speranza per amore dei quali si potrebbe sperare una società diversa, sono quasi del tutto spariti dall’orizzonte. Il brano dedicato a George Orwell, che conclude la sezione del libro intitolata Esempi, si chiude con queste parole: non ci disturba affatto che egli non abbia scritto il romanzo all’altezza di quelli di un Forster o di una Woolf e tantomeno di un Joyce… Ci disturba invece, nel profondo, e ci provoca sensazioni di vero dolore un’altra cosa, per la quale invidiamo oggi Orwell: egli poteva ancora identificarsi con un “basso”, parlare per sé ma ben conoscendo altri per i quali speranza e lotta avevano un senso, portatori ancora di speranza e di lotta. Un modello, Orwell, seguire il quale è oggi un’impresa più difficile che mai perché sempre più ci si domanda che senso può avere ancora, nella presente solitudine, scrivere e parlare. In nome di cosa; per chi.
Essere un «militante (o un “persuaso”) pedagogico» non ha mai significato per Fofi desiderio di insegnare. Fofi credo che si consideri anzitutto un tramite, un cercatore, forse un rabdomante. La sua umiltà è rimasta verde come quella di un ven-
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tenne alla ricerca di se stesso e di tutto ciò che c’è da sapere di bello e di buono nel mondo. Vorrebbe insegnare, qualche volta, quando può. Ma certo non ha smesso di imparare, ed è andato in cerca delle persone da cui imparare, dovunque fossero. È stato e continua a essere sempre pronto a correre, a prendere il primo treno, a partire in qualunque momento pur di incontrare anche una sola persona che sia in grado di promettere o di fargli intravedere qualcosa di meglio rispetto a ciò che la cultura ufficiale somministra e idoleggia. Questa “mancanza di pigrizia” nella ricerca, questa mobilità e apertura, con la passione della scoperta sempre nuova di ciò che si dovrebbe sapere per poter fare ciò che si dovrebbe fare, rende Pasqua di maggio un libro letteralmente traboccante. Il rischio è a volte quello della ripetizione, e a volte quello della violenza o perentorietà definitoria. Ci si potrà spaventare di fronte a questa mescolanza esplosiva di vitalità e di moralismo. Ma non ci si annoia. Non si ha mai la sensazione dell’insufficiente e del poco. C’è sempre una tale abbondanza di idee, di conoscenze e di sollecitazioni che anche le cose ripetute sanno ricomparire in una luce e con un accento diversi. Lo stile di questo libro, e direi di ogni articolo che Fofi ha scritto, non ha niente di intenzionalmente e volutamente letterario. Credo che Fofi si vergognerebbe di programmare letterariamente i suoi scritti. Anche perché sa bene che per lui lo stile migliore è quello che risulta, a cose dette, dalla competenza e dalla passione, e da quell’inventività intuitiva che si crea nel calore dell’improvvisazione. Come si può capire, Pasqua di maggio non è un libro facile da riassumere. Si può leggere da cima a fondo e di seguito, si può leggere per sezioni staccate, e anche isolando qua e là gli articoli di cui è composto. Vi si parla, pagina dopo pagina, di quanto di meglio e di peggio è passato nella cultura del nostro paese per due o tre decenni: giornalismo, pensiero politico, lettera-
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tura e costume sociale. Ma già nelle prime cinquanta pagine troviamo quasi tutto, l’anticipazione sintetica e il presupposto di quello che verrà detto poi. La prima sezione, che è una delle più nuove e interessanti, è dedicata a quelli che Fofi riconosce come tre maestri: Aldo Capitini, Raniero Panzieri ed Elsa Morante. Anche da questa scelta si può capire quanto poco Fofi si sia fatto la vita facile e quanto poco si sia adagiato sulla comodità di una coerenza impoverita e su valori più diffusamente accettati e facilmente riconoscibili. Attraverso questi tre capitoli introduttivi, che sono anche tre ritratti, viene compiuto un bilancio morale, culturale e politico la cui portata non è solo autobiografica, ma ripercorre da angolazioni diverse tre momenti di una vicenda collettiva. Ma che cosa può nascere dalla compresenza di tre maestri tanto diversi? Anzitutto, il radicalismo intellettuale, il coraggio di andare contro corrente, di rischiare l’inattualità (il che è evidente in Aldo Capitini ed Elsa Morante: mentre in Raniero Panzieri il radicalismo è certamente meno globale, più contingente, e si esprime, per quanto in modo libero, all’interno della tradizione marxista, con le sue canoniche e consolidate sordità). C’è poi la capacità, molto forte in ognuno di questi tre personaggi ispiratori, di suscitare e quasi di inventarsi un ambiente, un clima, una cerchia di affinità, di solidarietà, e perfino qualcosa come un club di amici che riesca a tenersi fuori della presa di Chiese, Partiti e società letterarie. Sono questi degli insegnamenti che Fofi non ha trascurato, nel suo tentativo di creare anche lui, dovunque le circostanze lo permettessero, un ambiente, un clima, una cerchia di affinità, di collaborazione e di distanza critica nei confronti delle corporazioni culturali e degli intellettuali “pubblicitari” (come li ha definiti Edoarda Masi): che si limitano a riprodurre la prassi culturale stabilita e a fare rigorosamente la guardia ai valori su cui questa prassi si fonda (ammesso che di valori si tratti e non di pura apologia dell’esistente).
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Il modello intellettuale che emerge dal libro non può che essere quello dell’outsider, di chi sta fuori posto e quasi ai margini, senza perdersi nell’astrattezza di un’ipotetica diversità assoluta («che è poi stata quella del terrorismo»), e il cui compito, come ha detto una volta Heinrich Böll, è di dare voce ed espressione a ciò che la cultura ufficiale ignora e cancella: «Si tratta di raffigurare nella sua sublimità ciò che la società tratta come un rifiuto». Tra le tante cose che si possono chiedere alla letteratura, credo che Fofi metterebbe ancora questa al primo posto.
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Heidegger e il nazismo innominabile (1988)
Ci deve pur essere qualcosa negli ex nazisti non pentiti che oggi affascina tanto gli intellettuali di sinistra italiani. Questo qualcosa è lo Stile: la stilizzazione altamente parodistica dell’intelligenza, l’esibizione coerente, apatica, senza flessioni e senza ripensamenti del proprio pensiero come prodotto di un’intelligenza superiore. Il kitsch della potenza teoretica condensata in formule inestricabili e tautologiche. È un fatto che uomini come Ernst Jünger, Carl Schmitt e Martin Heidegger offrono questo. E sembrano sempre un poco (o molto) superiori ai fatti. Non si sono mai pentiti, loro! Non ci hanno mai fornito nessun utile, trasparente resoconto delle loro convinzioni e vicende politiche. Nel ’33, il nazismo come “fatto dominante” li ha tremendamente affascinati, attratti e mobilitati. Ma poi, dopo il ’43, come “fatto perdente”, li ha annoiati ed è parso indegno di considerazioni ulteriori. Provare vergogna era qualcosa che superava nettamente le possibilità espressive del loro stile. Chi volesse confrontare il grado di lucidità retrospettiva degli ex comunisti e degli ex nazisti, potrebbe leggere uno di seguito all’altro Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler ed Ex captivitate salus di Carl Schmitt. È una prova che vale la pena
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di fare. Nessuno dei due libri è un capolavoro letterario. Ma l’intelligentissimo Schmitt ci fa la figura di un povero furbo molto impegnato a tenere il contegno per non farsi scoprire. Imbroglia, evidentemente. E si mette a recitare perfino la parte dello sconfitto solo perché il regime su cui aveva scommesso non è riuscito a mettersi sotto i piedi l’intero mondo e ha fatto male i suoi calcoli. Grazie a ex comunisti e scrittori di sinistra come Koestler, Silone, Gide, Orwell e altri sappiamo quasi tutto delle aberrazioni staliniste e rivoluzionarie degli anni Trenta. Ma la filosofia del Novecento, che ormai è sufficientemente vaccinata contro il totalitarismo comunista, non sembra negli ultimi tempi esserlo altrettanto contro il totalitarismo nazista. Di fatto, quest’ultimo non costituisce problema. È tornato a essere ciò che sempre è stato: un ingrediente del capitalismo, presente qua e là a piccole dosi, in casi di emergenza, e quindi scarsamente riconoscibile. Ma è piuttosto strano che lo stesso tipo di intellettuali che trovavano plausibile ed emozionante l’affermazione certamente azzardata di Barthes secondo cui «la lingua è fascista», restino così indifferenti e disarmati di fronte al caso Heidegger e alla connessione (interessante da analizzare) fra il suo linguaggio filosofico e la sua adesione al nazismo. È proprio questo l’aspetto che colpisce di più. Dal punto di vista del problema dell’essere, pensato da un filosofo del tipo di Heidegger, l’assassinio, la politica dell’eliminazione fisica, la guerra come fine ultimo, il genocidio e la sottomissione di altri popoli sono tutte cose possibili di fatto, non escluse in linea di principio, ma che non possono essere chiamate con il loro nome. Nient’altro che trascurabili epifenomeni, miserevoli accidenti, difficili da percepire per ragioni di incongruità, dismisura o eleganza terminologica. In effetti, il nazismo di Heidegger non è stato molto concreto. Il linguaggio del discorso per l’assunzione del rettorato a Fri-
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burgo nel 1933 è un capolavoro di “doppio gioco” filosoficopolitico. I colleghi che lo spinsero ad accettare quella carica dovevano averlo capito: pochi altri sarebbero stati capaci come lui di mentire dicendo la verità, di ingannare in piena buona fede. Una vera truffa nei confronti sia degli studenti sia del partito al potere, perché non si capisce mai se chi parla esorta all’essenza della verità o esorta al nazionalsocialismo: Infatti “spirito” non è né mero ingegno, né il disinvolto gioco dell’intelligenza, né l’arte di promuovere illimitatamente distinzioni logiche, né la ragione che governa il mondo, ma spirito è decisione originariamente e consapevolmente determinata verso l’essenza dell’essere. E il mondo spirituale di un popolo non è la sovrastruttura di una cultura, tantomeno l’arsenale in cui vengono di volta in volta conservati conoscenze e valori, che vi entrano ed escono continuamente, ma è la potenza che scaturisce dalla più profonda conservazione delle sue forze fatte di terra e di sangue, potenza che provoca la più intima commozione e il più ampio sommovimento del suo esserci.1
Mentre Jünger, Schmitt e Gottfried Benn si rendevano certamente conto (e si capisce dai loro scritti) di quello che stava accadendo in Germania, con Heidegger la questione è sempre più “profonda” e sfuggente. Nel suo linguaggio si possono far capire infinite cose, non dicendone mai precisamente nessuna (e lo dimostra la varietà multicolore degli esiti che l’heideggerismo ha avuto nei suoi numerosi seguaci). In quel linguaggio, non si capisce più la differenza fra leggere un libro e sparare contro qualcuno, fra un progetto di ricerca e una dichiarazione di guerra. Rispetto alla propaganda e alla pubblicità, siamo senza dubbio al polo opposto. Ripetitività ipnotica e vuotaggine, però, sono curiosamente analoghe. 1. M. Heidegger, L’autoaffermazione dell’università tedesca, tr. it., a cura di C. Angelino, il melangolo, Genova 1988, p. 23.
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La controversia che ultimamente si è riaperta dopo la pubblicazione del libro di Victor Farias Heidegger e il nazismo2 e dopo le polemiche di Habermas, potrà anche durare a lungo. Dubito fortemente, però, che almeno in Italia si possa arrivare a un vero chiarimento. Buona parte dei filosofi italiani che hanno oggi fra i quaranta e i cinquant’anni sono più o meno heideggeriani e scrivono su giornali più o meno di sinistra. Nonostante questo, sembrano vergognarsi di essere considerati culturalmente dei comunisti o dei semplici democratici, e non desiderano altro che di poter mostrare uno stile superiore, che non teme le idee di destra, e anzi le preferisce, senza peraltro tenere conto del legame che le idee di destra possono avere o hanno avuto con una politica di destra. Anzi, nazista.
2. V. Farias, Heidegger e il nazismo, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1988.
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Il free speech di Henry Miller (2013)
Cominciai a leggere Henry Miller nel 1967, quando Feltrinelli pubblicò Tropico del Cancro nella traduzione di Luciano Bianciardi, e smisi di leggerlo verso la fine degli anni Settanta, pensando di saperne abbastanza, nel periodo in cui le culture della rivoluzione e della rivolta (neomarxismo, beat generation, antipsichiatria, Living Theatre) si esaurivano o si auto distruggevano. Erano perciò più di tre decenni che non aprivo un libro di Miller. L’impressione che ora ne ho ricevuto è forte: meraviglia e grande divertimento, simpatia e rispetto per questo mostro di vitalità con i sensi e la mente sempre aperti, sia passionale che ragionatore nella ricerca della «vera vita». Così profondamente americano e così furiosamente, lucidamente antiamericano. Grande ira e grande cuore. Coerente fino alla visionarietà mistica (una mistica della vita terrestre) e incoerente per fedeltà alle «cose che sono» e come sono, agli umori e alle intuizioni del momento, di ogni momento. Miller è un’eccezione nella letteratura del Novecento, ed è un eccezionale tipo di scrittore che appartiene fino in fondo, e insieme non appartiene, al Novecento. È un autore tipico degli anni Trenta, ma di fatto è risultato un autore degli anni Sessan-
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ta. È iracondo e gioioso, non violento e verbalmente violento, brutale e tenero. I suoi autori preferiti, i suoi spiriti affini, fratelli maggiori più che maestri, sono quasi tutti europei: Rabelais e Montaigne, Rousseau, Blake e Whitman, Dostoevskij, Nietzsche, Rimbaud e, tra Otto e Novecento, Bloy, Péguy, Hamsun, D.H. Lawrence, Cendrars, Céline, i surrealisti. Autori che certo appartengono alla letteratura, ma controvoglia e in ultima istanza: irrompono nella letteratura rifiutandola, partendo da fuori, ognuno da un suo altrove, e si propongono di uscirne. Grandi accusatori, sempre fuori tempo e contro il loro tempo. Incontenibilmente sinceri, risentiti e spavaldi come adolescenti esibizionisti, clowneschi, carnevaleschi, filosoficamente visionari e liricamente profetici. Non certo letterati di professione. Anarchici e satirici. Accusatori di ogni istituzione e scuola, ideologia e abitudine pubblica. Ognuno di loro ha rovesciato l’idea di letteratura rifiutando tradizioni, metodi di interpretazione e aspettative del pubblico. L’opera di Miller è un fiume in piena e in tutti i suoi libri c’è di tutto, un tutto che torna rinnovandosi nei diversi periodi della sua vita. Il suo genere è semplice e indomabile: è l’autobiografia di fatti e idee, di illuminazioni e di invettive. Miller va letto e preso nel suo insieme, perché tenere insieme tutte le cose della vita così come si presentano era il suo programma e la sua fede. Eppure, leggendolo, si è sempre tentati di selezionarlo e citarlo come se fosse un autore di pagine esemplari o perfino di aforismi, sentenze, ditirambi surreali, oltraggi al pubblico, precetti di saggezza e, ovviamente, autodefinizioni. Scelgo a caso qualche esempio: «Incominciai nel caos e nell’oscurità assoluti, in una palude o pantano di idee, di emozioni e di esperienze. Anche ora non mi considero uno scrittore, nel senso comune della parola. Sono un uomo che racconta la storia della sua vita, un’impresa che appare sempre più inesauribile man mano che vado avanti».
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Oppure: «Il vero problema non è andare d’accordo col prossimo o contribuire allo sviluppo del proprio paese, ma scoprire il proprio destino, fare una vita in armonia col profondo ritmo del cosmo». In conclusione: «Se sono un rivoluzionario, come è stato detto, lo sono inconsciamente». E poi sullo scrivere: «Il diario è una forma d’arte, come il romanzo o la commedia». «L’aspetto terapeutico dell’arte nel suo più alto stato di coscienza, è l’elemento religioso e metafisico». Eccetera. Ma già l’epigrafe da Emerson che Miller scelse per Tropico del Cancro, il suo primo libro, tardivo perché uscì nel 1934, quando l’autore aveva quarantatré anni, profetizza la posizione di Miller scrittore, illuminando il suo rapporto con la tradizione dell’umanesimo americano: «E poi, a poco a poco», scriveva Emerson, «i romanzi cederanno il passo ai diari, alle autobiografie: libri avvincenti, purché chi li scrive sappia scegliere fra ciò che chiama le sue esperienze quella che davvero è esperienza, e il modo per raccontare veramente la verità». Miller ha fatto questo. Presuppone Emerson e ne adempie le previsioni. Quando nei propri rapporti con la vita e la società si è toccato in gioventù il fondo dell’umiliazione e della disperazione, come a New York è successo a Miller, non resta che rovesciare tutto e cambiare vita. Letterariamente non resta che l’autobiografia, l’itinerario morale verso la salvezza e la verità. Morte e rinascita per diventare quello che si è. In Miller questo pathos della vita nuova, più vera e reale, è sempre presente. Ma l’itinerario mentale e vitale verso l’unione con la realtà cosmica deve realizzarsi con un’immersione totale nel mondo fisico, senza negare i propri istinti e senza esclusione di sbornie, pazzie, sesso intensivo e vagabondaggi. È la mistica passata attraverso Dostoevskij, Whitman, Nietzsche e Rimbaud: c’è la bontà dell’idiota, c’è il mescolarsi con la vita
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di tutti, c’è il dionisiaco e il superamento dell’umano ingabbiato nelle norme sociali, c’è l’uso fuori regola di tutti i sensi. Per queste e altre ragioni, Miller scappò dall’America e andò a Parigi senza un soldo, vivendo alla giornata per una decina d’anni con alcuni amici nelle stesse condizioni. E poi, ecco: una volta tornato a New York all’inizio degli anni Quaranta, dopo avere già pubblicato i suoi libri fondamentali, i due Tropici e Primavera nera, va a trovare i suoi. Il padre è gravemente malato e gli suscita «una sconvolgente compassione» che lo fa piangere per due interi giorni, mentre le prime parole che escono dalla bocca di sua madre sono: «Non puoi scrivere qualcosa come Via col vento e fare un po’ di soldi?» Al che Henry deve confessare che proprio non può: «A quanto pare, ho l’incapacità congenita di scrivere un best seller». Sarà chiaro solo in seguito che Miller è l’autore che precede, annuncia e supera la beat generation, Kerouac, Ginsberg e tutti gli altri, che ispirandosi a lui avranno subito successo di gruppo. Miller, invece, ha avuto veramente successo ed è stato pubblicato negli Stati Uniti e in Inghilterra non prima dei sessant’anni, sebbene fosse stato apprezzato fin dal suo primo libro da scrittori come Eliot, Orwell, Aldous Huxley. Miller è ispirato dalla Francia e dall’Europa, soprattutto quella mediterranea, ma resta un umanista e moralista americano che si contrappone all’America per denunciare il tradimento dei valori e dei principi che hanno ispirato la sua nascita di nazione. Alla fine del suo decennio europeo, nel 1939, dice di aver trovato solo in Grecia la sua «vera patria» e il suo «vero clima». Rispetto a Eliot, a Pound e altri trapiantati in Europa in cerca di cultura, Miller è al polo opposto, pur essendo come loro un eversore delle forme letterarie. Ma Eliot si europeizza per diventare il pontefice massimo della tradizione (cristianesimo
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incluso), ridefinisce che cos’è un classico e fa di tutto per diventarlo presto, come poeta e come critico, riuscendo a superare in autorità e influenza poeti europei come Valéry, Yeats, Rilke. Al contrario, Miller sceglie l’umanesimo della ribellione, l’individualismo anarchico, pacifista, libertario e antisociale. Si sente vicino ai più scandalosi eversori e accusatori della società moderna. Nella cultura americana del Novecento resta il più genuino erede di Whitman e Thoreau: come loro, trascende l’America tenendo vivi ed estremizzando i suoi ideali morali, la sua religione della libertà individuale. Se Eliot pensava a Dante, che diventò presto il suo modello, Miller pensava a Rabelais, alla sua saggezza della dismisura, al suo umanesimo anticlassico e «secondo natura», alla beffarda, entusiastica esuberanza della sua scrittura. *** Questo è in breve l’autore che ha scritto i due testi qui riproposti. Il primo, Assassinate l’assassino, è una lunga lettera, datata 1941 e mai spedita, al suo grande amico Alfred Perlès. Scritta durante la guerra contro Hitler e Mussolini, è un violento, eloquente e paradossale pamphlet contro il militarismo, l’industria bellica e tutto ciò che in ogni società lavora durante la pace a preparare la guerra. Il secondo, Ricordati di ricordare, è del 1947 e ruota intorno alla frase che una volta pronunciò il suo amico Fred Perlès: Improvvisamente, senza una ragione al mondo, con la forchetta sospesa a mezz’aria, Fred sbotta: «La missione dell’uomo sulla terra è ricordare…». Ci fu una breve pausa, come se avessimo ricevuto uno schiaffo in viso, e poi scoppiammo a ridere. Era inconcepibile che Fred avesse pronunciato questa frase in quel particolare momento.
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Come succede spesso in Miller, i suoi illimitati, incontenibili «monologhi esteriori» si gonfiano, prendono il volo, esplodono nelle pagine conclusive, con un crescendo di pathos morale e un virtuosismo retorico pirotecnico. In entrambi questi scritti l’avvio è lento, non mancano le divagazioni, le digressioni entrano da tutte le parti e per lui sono, come sempre, le benvenute. È vero che «assassinare l’assassino» sembra un dovere e una necessità. Invece è una colpa contagiosa perché riproduce l’assassinio, lo esalta, lo riscatta, lo idealizza e annuncia un futuro nel quale ci si prepara a produrre tutti i mezzi, sempre più perfezionati, per assassinare di nuovo chi vorrebbe assassinarci. Gli immancabili nemici, i quali naturalmente ragionano allo stesso modo, si preparano allo stesso dovere. E le ragioni per prendere l’iniziativa si trovano sempre. Sebbene sia uno scrittore impegnato a dire verità concrete, cioè a raccontarle e descriverle senza reticenze, Miller diventa un infervorato predicatore quando affronta idee e questioni generali: come, in questo caso, la guerra e la pace, il destino del genere umano, la violenza e la non resistenza al male. Sente che per risultare convincente e non intrappolarsi in questioni politiche particolari (che però esistono), deve portare il ragionamento alle sue estreme conseguenze. Fa questo, quando chiede alle nazioni che si contrappongono al nazismo di diventare del tutto coerenti e giuste prima di prendere le armi. Sembra una magnifica occasione per mettere sotto accusa l’America che ha vietato la pubblicazione dei suoi libri e non è capace di accettare la pratica di quel free speech che viene dichiarato intangibile in linea di principio. Se le democrazie non sono coerentemente democratiche realizzando libertà e giustizia per tutti, non sono neppure degne di combattere fuori dei loro confini ciò che invece ammettono al loro interno. Insomma, il puro male è meno ipocrita, e perfino moralmente meno pericoloso, del bene a metà.
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Così, il disgusto per il modo di vita americano, la sua organizzazione sociale e la sua politica, invece di rendere Miller più intransigente e severo con Hitler, lo rende piuttosto indifferente: l’indemoniato non è peggiore dell’ipocrita, anzi si fa subito riconoscere per quello che è, non inganna. Il male che in Germania trionfa è «in fondo» della stessa pasta di quello diffuso e tollerato o legalizzato in Inghilterra e negli Stati Uniti. Quindi la guerra delle democrazie capitalistiche (false, incoerenti) contro le dittature fasciste è una guerra a sua volta, anche se per ragioni diverse, ingiusta e criminale. Qui emerge il limite del radicalismo e dell’eccesso di coerenza, che non trova differenze fra mali minori e mali enormi. Finché un solo uomo sarà ucciso legalmente, siamo tutti assassini. Finché l’umanità non sarà raddrizzata e bonificata, non c’è circostanza nella quale a combattere i colpevoli ci siano davvero degli innocenti: L’assassinio sanzionato dalla chiesa, dallo stato o dalla comunità, resta sempre assassinio. L’autorità è la voce della confusione. La sola autorità è la coscienza individuale. Uccidere per paura, o amor di patria, è male come uccidere per ira o cupidigia. Per assassinare l’assassino occorre avere mani pulite e un cuore puro.
Il correttivo migliore alle idee generali di Miller (troppo generali, anche se giuste) sono le cose concrete che dice Miller scrittore: quando per esempio suggerisce che nel corso di una guerra ogni mese ci si dovrebbe fermare per chiedere ai militari e ai civili se è il caso di continuare o non sia meglio ripensarci, trovare un accordo e smettere. Le pagine migliori di Assassinate l’assassino arrivano alla fine, con la visione di quale futuro si annunciava a coloro che avrebbero vinto la guerra. Utopista com’era, Miller prevede anche la parodia della realtà utopica che gli Stati Uniti saranno capaci di inventare, produrre e vendere in tutto il mondo:
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In Ricordati di ricordare il tono è diverso. La guerra è finita, Miller è tornato da tempo negli Stati Uniti e ora ricorda i suoi anni a Parigi, i più difficili ma anche i più felici: «mi basta pensare a un giorno qualsiasi di quegli splendidi dieci anni in Francia. Mi basta pensare a ciò che mi accoglieva quando uscivo all’aperto la mattina». Il cielo grigio, l’aspetto delle case, le panetterie, i mercati, l’intelligenza e la bontà delle donne e tutta «una routine monotona e silenziosa, che calma i nervi». Tutto il meglio dell’Europa, il suo spirito vivo, la sua storia secolare e la sua vita quotidiana: Mentre ci accingiamo a democratizzare il mondo, il nostro rigido sistema di casta rimane inalterato. Nulla filtra dall’alto in basso, e viceversa. I centoquaranta milioni di abitanti dell’America continuano a vivere come prima in una camicia di forza: una camicia di forza comoda, forse, grazie all’illusione abilmente diffusa che si goda di libertà di parola, libertà di stampa, libertà di scambi, libertà d’aria. […] Io preferisco il mondo corrotto d’Europa.
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Tutto il saggio è un’apologia della Francia, della sua «cattolicità» e universalità, così nutrita di cultura e così naturale. È un’apologia anche del suo amico Alfred Perlès: «il tipo d’uomo che avevo inconsciamente cercato per tutta la vita», anche lui scrittore, che alla fine non si sa come, dopo un misterioso colloquio appartato con una donna inglese, parte per l’Inghilterra e si arruola volontario nell’esercito: «Qualsiasi cosa facesse la faceva con buona volontà, nello spirito del gioco». Anche andare a combattere, se questo significava cominciare a vivere «la propria vera vita». Comunque, era così innocente che riuscì a non uccidere nessuno. Fu arruolato nel genio e salvò uomini, donne e bambini inermi. «Vi sono sempre individui», scrive Miller, «che, pur vivendo nel cuore della catastrofe, non ne restano toccati». Credo che sia vero. E forse sono più numerosi di quanto si pensi.
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Enzensberger saggista Dall’ansia politica al teatro delle idee (2011)
I Poeta illuminista, filosofo scettico, reporter intellettuale, critico della cultura e della società, sperimentatore di forme e generi letterari, Hans Magnus Enzensberger è innegabilmente un poligrafo e per molti dei suoi lettori forse soprattutto un saggista. Nella sua opera, di volta in volta, il centro può essere dovunque: in un poema, in un montaggio narrativo di documenti, in una raccolta di saggi. L’autobiografia è però ridotta al minimo. Prevale nettamente il discorso pubblico, che oscilla fra analisi dettagliate e documentate e una forma di ironica oratoria, spesso in forma di elogio e difesa, o viceversa di denuncia e di satira. Meglio non usare superlativi, Enzensberger non li ama. Ma, senza farci sentire, abbassando un po’ la voce, possiamo affermare che molto probabilmente è proprio lui il più originale, sorprendente, istruttivo, tonificante saggista tedesco dell’ultimo mezzo secolo. Naturalmente è un poeta importante e tra i più letti, che ha contribuito come pochi altri a portare la poesia europea oltre le avanguardie e le più diffuse, le più teorizzate superstizioni estetiche del Moderno. Per Enzensberger la poesia è un mezzo di comunicazione e di riflessione come gli altri, come la narrativa, il teatro, il giornalismo, la filosofia: come gli
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altri generi, ma più libero. Più informale o più formale secondo i casi. La sua poesia può frequentare e usare liberamente la stessa materia verbale, può parlare delle stesse cose di cui si occupano altri generi letterari, compreso il giornalismo. Questa possibilità era già nota, dai classici antichi fino al Settecento, prima che la lirica moderna cominciasse a specializzarsi in essenzialità, profondità, mistero, oscurità e svuotamento semantico, fino a diventare un gergo esoterico più adatto ai laboratori universitari che alla libera lettura. La caratteristica più vistosa della poesia di Enzensberger, oltre all’eclettismo stilistico, è il suo agire e giocare con i luoghi comuni del sapere e dell’opinione e con forme e generi che le avanguardie credevano di aver superato una volta per tutte, come il poema epico, la ballata, il poemetto didascalico, il song, la poesia-conversazione, la satira. Per il modo in cui ha saputo ereditare prima da Brecht, poi da Benn e William Carlos Williams, in parte da Eliot, ma soprattutto da Auden, poeti intellettualistici, teatrali e polifonici, Enzensberger, nella poesia europea, ha avuto pochi rivali fra i suoi coetanei. Dunque poeta-saggista. Poeta e saggista. Per esercitare il suo talento letterario Enzensberger ha sempre avuto bisogno di conoscenze, riflessioni, emozioni intellettuali, aggressività critica. L’osmosi fra prosa e poesia risulta nella sua opera particolarmente produttiva; gli effetti si fanno sentire sia sull’uno che sull’altro versante. I saggi mostrano sempre di più una scansione, una tessitura ritmica, una tonalità vocale un po’ teatrale e ironicamente oratoria. Poesie e poemi, a loro volta, hanno spesso una costruzione aforistica e dialettica: a volte (soprattutto le composizioni più ampie) analizzano e illustrano fenomeni e sintomi storici, grovigli linguistico-concettuali o sfuggenti evidenze quotidiane. Mentre la materia su cui Enzensberger lavora come saggista è più pesante e solida, presuppone ricerche e prevede una combustione lenta, ciò che fa materia di poesia brucia invece più velocemente sprigionando
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più calore e più luce. La prosa ha le sue regole e i suoi doveri civili. Alla poesia viene riconosciuto il diritto a una maggiore e quasi incondizionata libertà di elaborazione formale e verbale. La saggistica è pronunciabile in pubblico, deve esserlo, e la sua estetica può agire ma senza sembrare. La poesia permette invece di parlare in pubblico come si parlerebbe in privato, o magari come monologando, in silenzio e inconsapevolmente. Ma la dialettica fra impegno e gioco è presente sia nei testi saggistici che in quelli poetici di Enzensberger. Ciò che varia sono le dosi, le proporzioni, il trattamento dei materiali, le tecniche. I giochi di parole sono ovviamente più frequenti in poesia. L’uso del documento, della citazione, dell’aforisma, del luogo comune e del suo rovesciamento, sono presenti in entrambi i generi. Questo si vede soprattutto (è segnalato dai sottotitoli) in libri misti, compositi, autoantologici come per esempio Im Gegenteil. Gedichte, Szenen, Essays (1981), Der fliegende Robert. Gedichte, Szenen, Essays (1989) e in Die Elixiere der Wissenschaft. Seitenblike in Poesie und Prose (2002). La varietà, la pluralità, la mobilità dei punti di vista, delle forme di conoscenza, dei saperi, dei linguaggi, dei metodi, degli stili e dei generi di discorso, rendono la produzione letteraria di Enzensberger difficile da definire e etichettare. Si tratta di un insieme proteiforme, flessibile, adattabile: una totalità spezzata e ramificata nella quale, invece che la negazione avanguardistica dei generi letterari, si pratica il loro sfruttamento intensivo, il loro accostamento, la loro mescolanza, la loro ripresa strumentale, ironica o parodistica e perfino «neoclassica». Sono le necessità del presente a orientare verso il passato. Il titolo di un’antologia curata da Enzensberger nel 1960, Museum der modernen Poesie, dichiara che la modernità è diventata già classica, replicabile e variabile, e proprio per questo offre un repertorio di forme che possono essere riprese o reinventate. La letteratura non è per Enzensberger né creazione né innovazione ininterrotta, ma è più spesso una sperimenta-
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zione, per necessità e occasioni attuali, di modelli, metafore e miti già inventati e il più delle volte insuperabili.
II Come quella di ogni autore, l’opera di Enzensberger può essere divisa in diverse fasi. Chissà quali sono le altre, lo vedremo, ma certo una prima fase – particolarmente importante perché definisce la fisionomia dell’autore – va dall’esordio poetico del 1957 con Verteidigung der Wölfe (cui segue Landessprache, uno dei suoi più importanti libri di poesia) e arriva ai primi anni Settanta, con i saggi di Palaver (1974). Al centro di questo periodo ci sono due opere saggistiche particolarmente note, ormai classiche, come Einzelheiten (1962) e Politik und Verbrechen (1964), e la fondazione della rivista «Kursbuch», la cui direzione Enzensberger abbandonerà nel 1977. I saggi di Einzelheiten ruotano intorno a due cardini, che la ristampa in due volumi ha reso esplicita: l’industria della coscienza e il rapporto fra poesia e politica. Si tratta di problemi e interessi che legano gli esordi di Enzensberger sia ad Adorno che a Brecht. Temi ereditati: ma Enzensberger cercò di andare oltre superando le precedenti definizioni e formulazioni. Nel saggio sulla Bewusstseins-Industrie incontriamo fin dalla prima pagina un giovane Enzensberger dichiaratamente marxista: Nel chiuso della propria coscienza, chiunque, anche lo spirito meno indipendente, si sente sovrano […]. Persino nelle condizioni estreme di un regime totalitario, nessuno ama confessare a se stesso che forse questa cittadella è da tempo caduta. Non vi è illusione più tenacemente difesa: tanto diffusa e profonda è l’influenza della filosofia, anche su coloro che la disprezzano! Infatti, l’idea che il singolo possa restare padrone, se non altro, a casa propria, nella propria coscienza, non è che superstizione di una filosofia di bassa lega, di quella filosofia borghese che
167 da Descartes giunge fino a Husserl: un idealismo in pantofole, ridotto a misura approssimativa della dimensione privata. Di contro, si legge in un vecchio libro: «La coscienza è immediatamente un prodotto sociale e tale rimarrà finché gli uomini avranno esistenza».1
Questa severa condanna di ogni filosofia borghese che isoli la coscienza rendendola autonoma dalla società, viene spiegata con una novità storica, di cui la cultura novecentesca non sempre è riuscita a prendere atto: «l’induzione sociale della coscienza e la sua mediazione diventano problemi solo quando assumono dimensione industriale. L’industria della coscienza è un portato degli ultimi cento anni» (QD 8). Il precedente immediato del discorso di Enzensberger è il lungo capitolo dedicato all’industria culturale in Dialektik der Aufklärung di Horkheimer e Adorno. Ma nella sostituzione del termine «industria culturale» con quello di «industria della coscienza» si propone qualcosa di diverso e più ampio. Se si ritiene che l’industria si limiti a produrre merci culturali, secondo Enzensberger ci si lascia sfuggire il fatto che è la coscienza stessa dei singoli a essere un prodotto sociale. Facendosi fuorviare da una considerazione prevalentemente tecnologica e commerciale dei mass media, si dimentica l’insieme di istituzioni, professioni e attività che concorrono a costruire socialmente ciò che chiamiamo coscienza: Mentre si discute con fervore e separatamente sulle nuove apparecchiature tecniche quali la radio, il cinema, la televisione, l’industria discografica, e sui poteri della propaganda, della pubblicità, delle public relations, non si pensa affatto all’industria della coscienza nel suo insieme. A questo pro1. L’ultima frase è di Marx ed Engels da Die deutsche Ideologie, 1845-46, in H.M. Enzensberger, Einzelheiten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1962; tr. it. di G. Piana, Questioni di dettaglio, Feltrinelli, Milano 1965, p. 7; in seguito si citerà nel testo con QD seguito dal numero di pagina.
168 posito non si cita quasi neppure il giornalismo, benché sia la sua branca più antica e rimanga per molti aspetti, ancora oggi, quella più significativa, forse perché esso non costituisce più, ormai, una novità culturale, né la sua è una tecnica che possa destare sensazione. La moda, l’insieme delle attività formative, l’istruzione religiosa e il turismo non sono ancora riconosciuti come settori dell’industria della coscienza e indagati come tali. Sarebbe inoltre opportuno studiare, come nel caso della nuova fisica, della psicoanalisi, della sociologia, della demoscopia e di altre discipline, come venga indotta industrialmente una coscienza «scientifica». Ma il più grave è che non ci siamo ancora resi conto con sufficiente chiarezza che il pieno sviluppo dell’industria della coscienza è imminente, che anzi essa si sta per impossessare, cosa che finora le è stata preclusa, del suo nucleo centrale: l’educazione. L’industrializzazione dell’insegnamento è ora soltanto all’inizio: tuttavia, mentre dissertiamo discordi su programmi e sistemi scolastici, sulla scarsità dei docenti e sui turni di insegnamento, sono già stati messi a punto mezzi tecnici tali da rendere anacronistico qualsiasi bel discorso sulla riforma della scuola (QD 9-10).
Il fatto (irreversibile) che l’industria della coscienza «è propriamente l’industria-chiave del ventesimo secolo» è illustrato dalla priorità che essa occupa nell’esercizio del potere: ogni volta che si verifica un colpo di stato, una rivoluzione o un’insurrezione, il nuovo regime non si impossessa più, per prima cosa, delle vie di transito e dell’industria pesante, ma delle stazioni radio, delle tipografie e degli uffici telefonici. (QD 10)
Il problema dunque non è la commercializzazione della cultura, la riduzione a merce dei suoi prodotti. Nei suoi settori più avanzati, l’industria della coscienza non ha a che fare con delle merci. Non vengono venduti beni di consumo culturale, ma si somministrano alla gente «contenuti di coscienza di ogni tipo, opinioni, giudizi e pregiudizi». Perciò, più che di affari,
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si tratta di controllo delle coscienze, e questo non per ragioni di profitto ma di potere: le trasmissioni radiofoniche e televisive, per non parlare della pura e semplice pubblicità e della propaganda politica, sono offerte, anzi fatte ingoiare a viva forza all’ascoltatore, del tutto gratis o quasi. Il fatto è che esse non hanno prezzo ed è inutile continuare a intenderle come fatti commerciali. Criticare l’industria della coscienza seguendo la falsariga della sua variante capitalistica è troppo sbrigativo […] A questo proposito non è decisivo, almeno non in primo luogo, il sistema sociale a cui è asservita, e neppure il fatto che sia statale, pubblica o privata la regia che la guida: lo è invece il compito sociale che le è assegnato. Al giorno d’oggi esso è ovunque identico. L’industria della coscienza deve perpetuare i rapporti costituiti di potere, di qualsiasi tipo essi siano. (QD 13)
Qui Enzensberger propone l’idea di «sfruttamento immateriale», terminologicamente, per la verità, non del tutto chiara. Ma lo sfruttamento, o meglio l’occupazione e il controllo delle coscienze, ha la funzione di nascondere e permettere lo sfruttamento materiale, sia nei paesi capitalistici che in quelli socialisti: è il nuovo metodo con il quale si tenta di ottenere il consenso dei sudditi. L’accumulazione delle ricchezze passa in secondo piano di fronte all’accumulazione di potenza politica. Non si sequestra più soltanto la forza lavoro, ma la stessa facoltà di giudicare e di decidere. (QD 14)
Enzensberger propone un’analisi che non crea nessun alibi ai paesi in cui, come nella Repubblica Democratica Tedesca e in tutta l’Europa orientale sovietizzata, il sequestro delle coscienze non è opera dell’industria privata ma di quella pubblica e dello Stato. La divisione della Germania nei due blocchi, capitalista e socialista, permette a Enzensberger di vedere il fenomeno in tutta la sua estensione. Non si tiene conto solo della diagnosi di Horkheimer e Adorno, fondata sull’esperien-
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za americana, ma anche di quanto ha scritto Orwell a proposito dei metodi comunisti di distruzione della verità di fatto. Lo scopo di ogni tipo d’industria della coscienza non è mercificare la cultura, cosa di per sé non più immorale di ogni altro commercio, ma creare «una massa di persone politicamente nulle al di sopra delle cui teste può venire deciso perfino il suicidio collettivo» da parte di «un numero sempre più ridotto di politici onnipotenti» (ibidem). Ma Enzensberger non vuole offrire teorizzazioni del tutto pessimistiche e rinunciatarie. L’industria della coscienza appare infatti minata da una contraddizione interna. Chi sfrutta e sequestra la coscienza, la presuppone. Lo si vede chiaramente se si guarda agli intellettuali come produttori di coscienza e al modo in cui gli apparati industriali, o istituzionali e burocratici, si servono di loro. Ridotte a figure marginali o a «divi», gli intellettuali si trovano però di fronte anche nuove possibilità e nuovi compiti. Possono, devono rischiare gettandosi nel gioco delle ambivalenze, delle contraddizioni. Il ruolo dell’intellettuale è cambiato, «si vede esposto a pericoli nuovi», ma gli si offrono anche «inaspettate possibilità». E tutto ciò non riguarda l’intellettuale come individuo, ma la funzione che socialmente rappresenta. Un’analisi pessimistica si conclude con un programma e una sfida. Fin dall’inizio e da allora in poi Enzensberger si occuperà delle diverse ramificazioni dell’industria della coscienza. Dedicherà saggi al giornalismo (al linguaggio dello «Spiegel», alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», alla «Bild-Zeitung», ai cinegiornali), al turismo (anche al «turismo della rivoluzione»), al Partito comunista cubano, alle diverse e sempre nuove tecnologie mediatiche, al sistema educativo e alla burocrazia scolastica, all’ideologia dominante del progresso, alle manipolazioni interessate dell’idea di scienza e alle più recenti utopie biotecnologiche, che hanno preso il posto delle vecchie utopie politiche. Questo tipo di analisi e di riflessioni
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mescolano spesso considerazioni sociologiche e considerazioni politiche.
III Nel secondo libro di saggi degli anni Sessanta, appena meno importante del primo ma letterariamente più movimentato, Politik und Verbrechen2, Enzensberger racconta il regime dittatoriale di Rafael Trujillo a Santo Domingo, il gangsterismo nella Chicago degli anni Venti, la camorra nella Napoli degli anni Cinquanta, l’oscuro omicidio di una ragazza, Wilma Montesi, negli stessi anni a Roma, l’esecuzione nel 1945 del soldato americano Edward D. Slovik, «disertore innocente»; e dedica infine due saggi ai «sognatori dell’assoluto», alle «anime belle del terrore» nella Russia di fine Ottocento e inizi Novecento. Qui i punti di riferimento sono soprattutto alcuni libri importanti nella formazione di Enzensberger: L’homme révolté (1951) di Albert Camus, Ursprünge und Elemente totaler Herrschaft (1958) di Hannah Arendt, Masse und Macht (1960) di Elias Canetti, e Die Antiquiertheit des Menschen (1956) di Günther Anders, al quale in particolare Enzensberger deve l’idea che esistono crimini di così grandi dimensioni da non essere visibili a occhio nudo. Il ruolo centrale e introduttivo svolto dal saggio sull’industria della coscienza in Einzelheiten è tenuto qui da Riflessioni davanti a una gabbia di vetro. Questo titolo si riferisce al processo svoltosi nel 1961 a Gerusalemme contro Adolf Eichmann; ma si tratta solo di un’allusione, perché è in queste pagine che 2. H.M. Enzensberger, Politik und Verbrechen. Neun Beiträge, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1964; tr. it. di D. Zuffellato, Politica e crimine, Boringhieri, Torino 1998; in seguito si citerà nel testo con PeC seguito dal numero di pagina.
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Enzensberger cerca di sciogliere l’intricato legame tra azione politica e crimine. Secondo i giuristi e i lessici specializzati è crimine qualsiasi atto che violi la legge. Ma questa definizione è tautologica: crimine è ciò che definiamo (che la legge stabilisce che sia) crimine. Secondo Freud, in Totem e tabù, è la stessa origine della società umana a essere fondata su un delitto originario. Il parricidio, l’uccisione del progenitore violento e geloso compiuto dall’orda dei figli scacciati, è l’azione criminale che segnò l’inizio delle organizzazioni sociali e fondò i vincoli morali e religiosi. Questo «primo delitto» non viola la legge, la istituisce: L’atto politico originario coincide, se vogliamo dare ascolto a Freud, con il crimine originario. Fra assassinio e politica esiste quindi un nesso antico e oscuro, che viene custodito nella struttura originaria di tutte le forme di potere finora esistite: chi esercita il potere può far uccidere i suoi sudditi. Il sovrano è quindi il «sopravvissuto», secondo una definizione di Elias Canetti […]. Nessuna rivoluzione, infatti, può rinunciare a uccidere il vecchio dittatore. Deve violare il tabù che vieta ai suoi sudditi di «toccarlo»; perché soltanto chi è riuscito a infrangere un tale divieto ha acquisito per sé il carattere di ciò che è vietato. Il mana del dittatore ucciso viene così trasmesso ai suoi assassini. Tutte le rivoluzioni del passato sono state contaminate da questa condizione antica, prerivoluzionaria, ereditando così la struttura originaria della dittatura contro la quale erano insorte. (PeC 13)
Nelle società più avanzate e «civilizzate» questo potere originario dell’uccidere torna solo nel caso di guerre o di rivoluzioni. La pena di morte e la dichiarazione di guerra, in quanto prerogative esclusive dello Stato, mostrano come l’atto di dare la morte possa diventare normale e legale. In questo senso «l’omicidio privato non ha mai potuto fare concorrenza a quello pubblico»: «Tutti i delitti individuali, da Caino fino a Landru, non possono competere con i soprusi esercitati nel secolo XVIII dalle sole guerre di successione europee, oppure
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dagli atti di sovranità coloniale compiuti nel corso di un solo decennio» (PeC 16). Per moderare l’estremismo di queste deduzioni Enzensberger non esita a includersi nella schiera dei dilettanti di filosofia del diritto, degli stravaganti e degli utopisti, anticipando prevedibili obiezioni e accuse. Ma certo, insiste, quanto «è accaduto negli anni Quaranta non invecchia», Auschwitz e Hiroshima hanno dato il battesimo a un’epoca storica che non si è conclusa. Da quegli eventi non si sono ancora tratte tutte le conclusioni. Si tratta di fatti storici che hanno «messo a nudo le radici di tutta la politica finora operante» e non si deve dimenticarli o relegarli in un passato sepolto se si vogliono «eliminare le premesse che hanno reso possibili quegli orrori». Tuttora la sovranità dello Stato decide con le sue leggi se e come i cittadini possono morire. Negli anni in cui Enzensberger scrive, la morte nucleare incombe su tutti. Lo scontro sempre possibile fra Stati Uniti e Unione Sovietica, fra «mondo libero» e «socialismo realizzato» prevede che la decisione di usare l’arma nucleare sia sottratta ai parlamenti, sia nelle mani di una ristrettissima cerchia di individui. Se forse ci si è liberati della possibilità che torni Auschwitz, non ci si è affatto liberati della possibilità che torni Hiroshima. Il criminale nazista Adolf Eichmann è stato condannato e impiccato a Gerusalemme nel 1961. Il matematico, fisico e teorico militare Hermann Kahn, consulente del comitato scientifico dell’aviazione militare americana, può mettere in programma una guerra termonucleare, può presentare in un libro i suoi calcoli sul numero delle vittime (da 2 a 16 milioni). Sono calcoli che «superano di gran lunga l’immaginazione di un criminale. Due gangster, in fin dei conti, ambiscono solo a uccidersi a vicenda, mentre i suddetti scienziati prendono di mira milioni di uomini del tutto ignari dei loro piani di guerra» (PeC 29). Nel nazismo il crimine «totale», il crimine come prassi corrente, normale e legale, «annienta il suo stesso concetto». Ma
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una tale minaccia non si è estinta. Anzi si è annidata nel nostro futuro e lì ci aspetta. Le decisioni politiche di vita o di morte su intere popolazioni continuano a essere nelle mani di pochi politici, il cui potere nasce dall’esistenza di masse senza potere. Nel post scriptum del 1998 per l’edizione Bollati Boringhieri, Enzensberger non ritrattò le sue idee di trent’anni prima: Preferirei che i rapporti fra politica e crimine avessero perso attualità e le mie riflessioni di allora fossero invecchiate. Purtroppo non è così. Chi si ricorda oggi di Rafael Trujillo? Eppure i «padri della patria» di quel tipo non sono scomparsi. Si sono moltiplicati. Per ogni Marcos, per ogni Sukarno che sparisce si trova un degno successore. La modernizzazione della mafia e della camorra procede di pari passo con lo sviluppo del suo presupposto, la crescita del mercato mondiale. I disertori non sono più condannati a morte secondo una minuziosa procedura giuridica, come avvenne al soldato Slovik: sono semplicemente eliminati, come nella guerra del Golfo con i gas tossici. Quando morì la povera Wilma Montesi non si parlava ancora di Moro e di Sofri, di Gelli e di Craxi, eppure la logica surreale dei servizi segreti e della giustizia era già ben visibile, solo che si avessero occhi per vederla. Anche il terrorismo si è dimostrato estremamente duro a morire.
Altro saggio fondamentale di quegli anni è Periferia europea. Pubblicato nel 1965 sul secondo numero di «Kursbuch», suscitò una controversia con Peter Weiss, che accusò Enzensberger di «eludere una presa di posizione personale», di praticare «una doppia morale» e di non sapere distinguere fra mondo capitalista e mondo socialista. La premessa del discorso di Enzensberger è la constatazione che in Occidente, nei «paesi ricchi» (essere ricchi non è irrilevante) esiste un’«opinione non pubblica che si sottrae ad ogni discussione» e che divide il mondo in due parti: «noi» (la classe media e alta dei paesi sviluppati) e «loro» (il vasto pianeta del «sottosviluppo», della povertà endemica, dello sfruttamento e dell’oppressione più feroce). Nel futuro i rapporti di potere e i privilegi non resteranno quello
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che sono. Ma intanto chi al momento è al riparo dal peggio può aspettarsi di stare tranquillo, «noi» terremo «loro» sotto controllo (siamo a metà anni Sessanta). La categoria dei privilegiati è molto ampia e articolata: comprende almeno una parte della stessa classe operaia in lotta con il capitale, nonché ovviamente sindacalisti e politici, imprenditori liberali e militanti socialdemocratici, politici cristiani e intellettuali, ufficiali americani e funzionari dei partiti comunisti. I socialdemocratici tedeschi, da cui l’autore ha ascoltato in privato espressioni molto umane circa il mantenimento dei propri privilegi, parlano oggi «come parlavano qualche decennio fa i militari inglesi in India e gli imprenditori olandesi in Indonesia». La linea divisoria attraversa le più diverse aree del mondo. È la linea che divide il benessere dalla miseria: che unisce e mette d’accordo, al di là dei contrasti e dei conflitti politici, «Kruscev e il Big Business americano, il cardinale Spellmann e il maresciallo Tito, il socialdemocratico tedesco X e il falangista spagnolo Y». Nel «sottobosco dell’opinione non pubblica», che vegeta al riparo della discussione pubblica, «i paesi e le aree sviluppate» fanno proprio un punto di vista razzistico di tipo nuovo: ciò che vale e va bene per «loro» (per esempio dittature ispirate da buone intenzioni) non va bene per «noi» […]. Così sbaglia il «Quotidiano del popolo» di Pechino quando scrive che la politica americana in Vietnam e in America Latina è sostenuta unicamente dagli ambienti di Wall Street. La stragrande maggioranza della popolazione americana è invece d’accordo e considera come propri gli interessi che essa difende.
Ma i rappresentanti del Mondo Povero sono stati colonizzati anche nel loro linguaggio politico. Quando parlano, «le loro parole ci suonano logore e trite, di seconda mano, come tradotte da un’altra lingua», che ricorda quella di Rousseau o di De Gaulle o di Stalin. Il colonialismo «ha deformato i popoli poveri, ne ha deformato il volto e la mentalità» e le cicatrici delle ferite subite non scompariranno facilmente.
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Le conclusioni di Enzensberger non offrono scorciatoie pratiche, si fermano alla diagnosi. Ci sarebbero tre tipi di «ricchi onesti»: gli idealisti (il cui modello è il dottor Schweitzer), i liberali (che insorgono per principio contro gli «eccessi» del colonialismo e di chi lo combatte) e infine, alla sinistra estrema, i dottrinari: Li si incontra nell’ala «cinese» dei partiti comunisti dell’Europa orientale e occidentale, specie in Italia e in Francia; sono in prevalenza intellettuali […] sono accuratamente informati e ne sanno più di qualunque altro sul Mondo Povero […]. Prendono posizione contro l’ambiente in cui vivono […] ne ricavano conseguenze politiche, non individuali. Ma rimangono a casa; nei paesi poveri si recano solo per ragioni di studio. Tra la loro vita politica e quella privata esiste una contraddizione che non riescono a risolvere.
Il fatto è che solidarizzare in modo autentico, attivo e senza illusorie proiezioni morali, non è facile: «Non c’è azione, non c’è immaginazione sufficiente per calarci nella pelle di un minatore nero, di un contadino delle risaie in Asia, di un indio peruviano». L’acume e la buona volontà, l’impegno di Enzensberger nell’analisi del presente e di ogni questione proposta dall’attualità sono sempre stati fuori del comune, soprattutto se si pensa che dietro, prima e accanto al saggista, c’è un poeta. Anche tra i poeti-intellettuali è difficile trovare una simile varietà e continuità di produzione saggistica in tutte le direzioni. Dopo Einzelheiten, in cui la metà dei saggi è dedicata alla letteratura, alla poesia e a una serie di autori sia tedeschi che stranieri, Enzensberger abbandona quasi totalmente la critica letteraria, o si concentra a volte sull’uso sociale dei testi letterari, sul declino della critica, sulla letteratura come istituzione: e insiste sul fatto che per uno scrittore è meglio non parlare troppo di letteratura. Ma anche se così sembra, la poesia non è per Enzensberger una retrovia. In certi periodi, come negli anni Settanta, dopo
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la superattività nella saggistica politica, che arriva fino al volume del 1974 Palaver, Enzensberger è tornato alla poesia con le sue opere più memorabili e complesse: Mausoleum (1975) e Der Untergang der Titanic (1978). Come l’autore ha spesso ripetuto, scrivendo poesia, narrativa, dialoghi teatrali si è sempre sentito più libero, potendo giocare con più strumenti e a diversi livelli nel suo rapporto con il lettore: non escludendo variazioni di linguaggio in cui si sperimenta l’uso, in poesia, di forme vicine alla prosa, come l’aforisma, la descrizione, la riflessione, il dialogo, la satira. La saggistica invece comporta più ricerche e più studio. Anche se qualunque lettore può notare che i due libri di poesia prima citati hanno richiesto studi, ricostruzioni storiche e documentarie: si tratta in sostanza di «poemi saggistici» piuttosto insoliti e del tutto caratteristici degli interessi e del modo di lavorare dell’autore, che preferisce muoversi in territori di confine fra un genere letterario e un altro, e in cui il saggista, anche in versi, prende spesso il sopravvento.
IV Per quanto riguarda poesia e letteratura, l’essenziale si trova già in alcuni saggi scritti da Enzensberger all’inizio della sua attività. Il linguaggio mondiale della poesia moderna è l’introduzione (poi rielaborata e inclusa in Einzelheiten) all’antologia Museum der modernen Poesie (1960) e anticipa concisamente idee sviluppate più ampiamente in Poesia e politica e in Le aporie dell’avanguardia, entrambi del 1962. Enzensberger prese subito atto che la modernità poetica era ormai una tradizione consolidata che offriva un repertorio di tecniche e di procedimenti formali da riprendere e variare. I testi dell’antologia erano organizzati secondo categorie ambiguamente oscillanti, fra tematiche e stilistiche: Momenti, Luoghi, Tombe, Nozze,
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Lamenti, Figure, Meditazioni, ecc. L’incipit dell’introduzione annuncia subito che il nuovo non è più nuovo: «La poesia moderna ha cento anni. Appartiene alla storia». E poi: Una volta sorta, la poesia moderna chiedeva di essere teorizzata: ma anche di non essere stretta dai vincoli di qualsiasi teoria. Il concetto di «moderno» è passato da un movimento a un contromovimento, da un manifesto a un contromanifesto, fino a diventare logoro. La sua energia si è esaurita.
Perciò diventa assurdo contrapporre tradizione a modernità. La stessa modernità ha la sua tradizione, è a sua volta tradizione. D’altra parte «la poesia moderna ha anche dei sostenitori ciechi» che vantano «una posizione d’avanguardia» con il loro rifiuto reazionario di considerare che i concetti di avanguardia e modernità sono ormai vuoti: «Chi si include nell’avanguardia considera le arti come drappelli che marciano dietro di lui». Perciò il passato della modernità non va mummificato, «non è consacrazione, ma sfida» (QD 129-130). Già qui, come ripetutamente in seguito, Enzensberger difende la poesia dalla teoria e dalla critica che tendono a farne un oggetto, un feticcio, un patrimonio definito e catalogato. Sono spesso gli stessi poeti che si mettono al riparo dietro etichette, tendenze e correnti che vengono poi prese per buone «nelle università e nelle storie letterarie». Nemico delle categorie generali Enzensberger lo è anche in letteratura: per la letteratura ciò che conta è la particolarità, la singolarità. Così nella poesia del Novecento importa soprattutto la molteplicità di soluzioni e ricerche, il saper ritrovare le più diverse eredità e tradizioni: non solo Novalis e Brentano, ma anche Saffo, Lucrezio, Orazio, Villon, gli Hai-ku, i metaphysical poets, Quevedo e Góngora, la favolistica in versi, il madrigale, ecc. La vera novità è nel modo in cui ogni poeta moderno ha saputo ritrovare il passato e la tradizione di cui aveva bisogno. Questa
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novità è un fenomeno internazionale che coinvolge tutte le letterature. La poesia moderna è un esempio di Weltliteratur. Ma anche questa non è un’assoluta novità, perché probabilmente l’idea di letteratura mondiale o transnazionale è più antica che non quella di letteratura nazionale: questo è vero per la poesia latina e «per tutta la produzione lirica ed epica del Medioevo e anche per la poesia barocca o manieristica del XVIII secolo». Nella poesia moderna vige tuttavia un cosmopolitismo nel quale fra centro e periferia, metropoli e provincia non c’è nessuna differenza gerarchica: «La provincia è dappertutto perché il centro del mondo non è più da nessuna parte». I saggi monografici e i ritratti di Einzelheiten non sono dedicati ai più «centrali», ai più internazionalmente influenti e autorevoli fra i poeti del Novecento, non a pontefici letterari come Eliot, Valéry, Pound, Breton – e neppure a Brecht, a cui pure Enzensberger doveva molto – quanto piuttosto a provinciali appartati e periferici come César Vallejo e William Carlos Williams, i più legati al loro luogo di origine, così incapaci di pensare letterariamente a partire da concetti generali, da poetiche militanti, da posizioni ed esibizioni d’avanguardia. È parlando di Williams, uno dei suoi autori preferiti, che Enzensberger scrive: Per i professionisti dell’avanguardia, il fatto che Williams continuasse soddisfatto e con successo la professione di medico – e per di più non a Berlino o a Parigi come Benn, Döblin o Céline, ma in un angolo provinciale dell’America – doveva essere inconcepibile. (QD 241)
L’idea proposta in Letteratura come storiografia3 (che introduceva un numero antologico del «Menabò» sulla letteratura tedesca dopo il ’45) apre un altro fronte per l’impegno letterario di Enzensberger. Anche in questo caso si tratta di un manife3. In «Il Menabò di letteratura», n. 9, 1966, pp. 7-22.
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sto di poetica personale, i cui sviluppi e le cui applicazioni si vedranno in tutta la sua successiva produzione. L’idea che la letteratura costituisce di per sé una forma di storiografia alternativa rispetto a quella degli storici professionali contiene due implicazioni, in parte complementari e in parte contraddittorie: da un lato è storiografia anche il tipo di letteratura più indifferente ai grandi eventi pubblici che «fanno epoca» (caso frequente soprattutto nei poeti moderni e in narratori antirealistici come Beckett o Arno Schmidt); dall’altro lo scrittore può proporsi di sperimentare forme come il montaggio e il collage di documenti per correggere o confutare l’immagine che gli storici hanno costruito di certi eventi e personaggi. In quest’ultima direzione Enzensberger si impegnerà sia come poeta che come saggista, scrivendo alcuni dei suoi libri più noti: Der kurze Sommer der Anarchie (1972), Gespräche mit Marx und Engels (1973), Mausoleum. Siebenunddreissig Balladen aus der Geschichte des Fortschritts (1975), Der Untergang der Titanic. Eine Komödie (1978), Hammerstein oder Der Eigensinn. Eine deutsche Geschichte (2008). Se si vuole illustrare il significato di una formula quale «letteratura come storiografia» è difficile trovare esempi più chiarificatori di quelli prodotti dallo stesso Enzensberger. Messo sotto accusa è il racconto degli storici, che si presenta per lo più «singolarmente privo di umanità», poiché la storia «viene esibita senza il suo soggetto», che scompare dietro entità collettive e categorie sociali («i disoccupati», «gli imprenditori») e solo i supposti makers of history compaiono come individui, benché ridotti a manichini simili a quelli che abitano un quadro di de Chirico. Enzensberger accusa il linguaggio della storiografia professionale perfino di oggettiva complicità con il potere, per l’indifferenza agli individui concreti la cui vita è invasa e trascinata dal processo storico. Nella lingua di uno storico sono sufficienti poche righe per riassumere la situazione economica di un intero paese («Le lotte sindacali di tutto
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un settore dell’industria sono riferite in una singola frase che ha l’aria di un’abbreviazione, di una cifra»). Uno scrittore può invece dedicare diverse pagine solo alla descrizione di una strada o di un quartiere: «lo storico cerca la totalità e lavora con immense riduzioni; lo scrittore accoglie il dettaglio». Esiste una «differenza gnoseologica fra la rappresentazione dello storico e quella dello scrittore», e dietro questa differenza si nasconde un problema, quello della «genesi della coscienza storica». D’altra parte, anche la letteratura è «limitata da interessi nazionali e di classe, è contrassegnata e circoscritta dal fatto che la sua esistenza presuppone l’agio, quindi la ricchezza, quindi lo sfruttamento. La miseria estrema è muta». Si potrebbe obbiettare che questo non è del tutto vero. Non tutti gli scrittori sono ricchi e godono agi e, soprattutto, finito il mecenatismo, la letteratura non è scritta per sostenere apologeticamente chi detiene il potere: è scritta più spesso per denunciarlo, e anche senza uno scopo preciso, per un impulso personale non privo di rischi. Enzensberger però non ha intenzione di proporre una poetica da seguire, né un canone privilegiato di scrittori-storiografi, intenzione che porterebbe a riconoscere una priorità al realismo documentario. In quest’ordine di questioni, come in altre, Enzensberger, che ha letto Adorno, teme il marxismo volgare, seguendo il quale se si legge Balzac e Dreiser si impara come funziona una società, mentre se si legge Baudelaire ed Eliot no. Va riconosciuto tuttavia che ci sono situazioni in cui certe letterature, come quella tedesca dopo il 1945, hanno bisogno di trascurare la riflessione sulla crisi delle forme letterarie per cercare di raccontare, magari «in brutta copia», nel modo più semplice e diretto, che cosa è avvenuto. Questo non vale in ogni circostanza e per tutti. Alla letteratura non si può prescrivere niente, né gli esperimenti linguistici di laboratorio, né il rispecchiamento realistico o l’engagement documentario. Ma certo Enzensberger ha toccato qui un punto dolente.
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Gli storici di professione sensibili alle «fonti letterarie» e capaci di leggerle, apprezzarle e ricavarne qualcosa, sono ancora un’eccezione.
V Esplorazione di problematiche sommerse e rimosse, competenza, concisione, efficacia comunicativa, aggressività polemica, gusto del paradosso, concentrazione aforistica: queste caratteristiche della prima saggistica di Enzensberger si ritrovano anche in seguito e fino a oggi. Senza perdere energia e consistenza, acquistando varietà e dinamismo dialogico, da un decennio all’altro la saggistica di Enzensberger ha esplorato sempre nuovi territori. L’iniziale impianto prevalentemente sociologico e politico non è stato «superato» né abbandonato; ma si è arricchito coinvolgendo problemi epistemologici e acquistando un orizzonte polemicamente enciclopedico che, contro il dominio degli specialismi, misura la validità dei diversi ambiti e settori di conoscenza mettendoli a confronto con l’intero sistema del sapere e dei suoi linguaggi. Nel mutamento di alcuni punti di vista soprattutto politici, e nonostante la sua difesa dell’incoerenza contro una coerenza che fa a meno dei fatti, va detto che Enzensberger non ha tradito la sua vocazione iniziale di illuminista senza fede e ha sviluppato molti temi dei suoi esordi. La differenza più evidente si nota intorno alla metà degli anni Settanta. È una differenza di tono, ma anche di metodo. Le novità in sintesi sono queste: prevalenza dell’ironia; esibizione di un punto di vista soggettivo e quindi parziale; duttilità argomentativa spinta fino a un virtuosismo dialettico che sconfina nell’umorismo; accentuata astuzia e perizia retorica. Con il passare degli anni l’empirismo scettico produce architetture stilistiche più leggere e bilanciate. Le affermazioni sono meno perentorie e meno programma-
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tiche e l’autore si mette volentieri in scena parlando più spesso, per prudenza, in prima persona come un individuo che si senta costretto a difendersi dalle invadenze della socializzazione. Ancora più sprovvisto di certezze, ma ancora più consapevole dei propri privilegi professionali, l’autore preferisce far dialogare un’idea con un’altra e demolisce senza sembrare, come non volendo, pregiudizi e idee fisse. I presupposti gnoseologici, dialettici e retorici di quest’arte (un’arte che si ispira sempre di più ad autori come Luciano, Lichtenberg e Heine, oltre che a Diderot) erano già presenti nella precedente saggistica di Enzensberger come pratica del dubbio, esame linguistico dei contenuti concettuali, svelamento dei paralogismi e rovesciamento delle false identità ideologiche. La lezione di critici del linguaggio e delle superstizioni «moderne» come Kraus, Orwell e Günther Anders, e di pensatori libertari e antisistematici come Camus, è stata sempre presente nella cultura di Enzensberger. Ma con il passare degli anni la sua aggressività nei confronti degli idola fori e delle mode culturali, filosofiche e politiche, nei confronti, infine, di una Totalità sociale e di un Sistema, è sempre meno frontale: l’attacco procede ora in forma di cauto accerchiamento e il più delle volte si conclude con un disarmato invito a evitare fanatismo, fideismo o eccessiva devozione all’«idea giusta», una sola e quella soltanto. La svolta avviene con la fine del Sessantotto in Germania e l’allontanamento di Enzensberger dalla sua rivista «Kursbuch», di cui nel 1975 lascia la direzione. È il distacco dall’impegno politico ciò che rende più soggettiva, estrosa e retoricamente elaborata la scrittura dei suoi saggi. Portate a termine nell’arco di un decennio le sue ricerche teoriche e pratiche sulle possibilità del socialismo e delle alternative radicali al capitalismo, l’autore sembra prendere atto che fra individuo e società può esserci un’innegabile dissimmetria e che ci si può sentire felici anche se (e non perché) il mondo va male; ma anche viceversa. Questo rende la scrittura saggisti-
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ca di Enzensberger più oscillante, flessibile, ironica. Il giovane poeta «arrabbiato» che studiava e anatomizzava la società tedesca, il neocapitalismo di massa e i suoi inganni, è ormai un quarantenne che comincia ad apprezzare certe qualità della vecchia buona borghesia, e veste i panni di un gentleman letterato che diffida delle innovazioni, del progresso e delle sue follie. L’autodifesa tende a prevalere sugli attacchi di dieci o quindici anni prima. Le rivoluzioni, le utopie (questo è ormai chiaro), qualunque forma prendano, si sono rivelate più irrazionali e pericolose di ciò che combattevano. In termini sia politici che di pragmatica della comunicazione pubblica (l’orizzonte della Öffentlichkeit tedesca lo ha sempre preoccupato) si sente che i presupposti della saggistica di Enzensberger sono cambiati. Il bilancio definitivo di una lunga esperienza di impegno politico lo si legge in due saggi come Eurocentrismo controvoglia e I guai della coerenza, pubblicati rispettivamente nel 1980 e nel 1981 su «TransAtlantik», la nuova rivista fondata e diretta da Enzensberger con Gaston Salvatore. Ormai l’eurocentrismo, peccato capitale per gli intellettuali tra gli anni Sessanta e Settanta, è diventato inevitabile: è un eurocentrismo praticato anzitutto fuori dell’Europa e che gli europei si vedono costretti ad accettare anche a malincuore. Le lotte anticoloniali e antimperialiste del cosiddetto Terzo Mondo non hanno fornito alla sinistra europea modelli di società e di vita alternativi: Sono le merci che dicono la verità: i registratori nei suk di Damasco, gli orologi Seiko nelle vetrine di Pechino, i jeans e gli occhiali da sole, i whisky, i profumi e le auto. Soprattutto le auto […]. Questo sfrenato istinto d’imitazione è diffuso in tutto il mondo, e nessuno ne ha ancora esaminato a fondo le implicazioni. I suoi effetti fanno pensare a una forza della natura.4 4. H.M. Enzensberger, Wir Kleinbürger, Kursbuch-Rotbuch Verlag, Berlin 1976; tr. it. di L. Bocci, Sulla piccola borghesia; un «capriccio sociologico»
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Ma non si tratta solo di frivolezze. L’eurocentrismo degli «altri» non trascura niente: anche i simboli della loro sovranità sono squallide imitazioni di ciò da cui credono di essersi liberati in sanguinose battaglie: l’idea di nazione, gli slogan rivoluzionari, l’idea di partito unico, gli emblemi dello Stato […] alle invenzioni dell’Occidente, imitate con solerzia in tutto il mondo, appartengono non solo il freezer e l’after-shave, ma anche l’elettroshock e i campi di concentramento. Nulla viene tralasciato. L’idea fissa del progresso è sempre più messa in dubbio da europei e nordamericani: domina ancora incontrastata solo nei «paesi in via di sviluppo» dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. I veri eurocentristi sono gli altri.
Se questi sono i fatti, non si può più praticare il culto della coerenza militante anti-Sistema che aspirava al «radicalmente Altro», coerenza di cui le avanguardie intellettuali dell’Occidente si sono nutrite nei vent’anni precedenti. Certo è, nota Enzensberger, che una «retorica dell’inflessibilità», con la sua «risolutezza autoritaria», ha caratterizzato non solo la sinistra, ma eminenti personalità della destra e ha contraddistinto le opere di Carl Schmitt, Ernst Jünger e Martin Heidegger. Torna a questo punto l’istintivo anarchismo di Enzensberger, la sua radicata diffidenza nei confronti di gruppi organizzati, partiti, burocrazie, dottrine e gerghi: Gli uomini che hanno il profondo bisogno di essere coerenti si lasciano tranquillamente organizzare in associazioni. Coerenza, il più delle volte, significa: scuola, gruppo, chiesa, caserma o partito […] qualcosa di conforme alle disposizioni, qualcosa di burocratico grava su ogni radicalismo che non vada oltre le questioni di principio. Chi parla di fedeltà ai principi, ha
seguito da altri saggi, il Saggiatore, Milano 1983, p. 66; in seguito si citerà nel testo con PB seguito dal numero di pagina.
186 già dimenticato che si possono tradire solo gli esseri umani, e non le idee. (PB 84-85)
Il funambolismo stilistico, la dialettica e retorica dettate da uno scetticismo anarchico e autodifensivo, si trovano soprattutto in due dei saggi più brillanti di quel decennio: Sull’inarrestabilità della piccola borghesia. Un capriccio sociologico5 e Modesta proposta per difendere la gioventù dalle opere di poesia6. Il genere retorico qui è quello designato secondo tradizione come «epidittico», che non conduce cioè a decisioni politiche né a sentenze giudiziarie, ma si rivolge a un pubblico, o anche a una singola persona, per esortare o dissuadere, per lodare o biasimare azioni, credenze e idee. L’Enzensberger definibile «epidittico», che elogia o biasima, ha sostituito l’indignazione politica con l’insofferenza estetica e morale. Lo scopo non è certo (semmai lo è stato) trasformare il mondo sociale suscitando iniziative politiche, quanto piuttosto intrattenere piacevolmente il lettore discutendo di pericolosi vizi pubblici e di virtù civili auspicabili. Il saggio Modesta proposta è costruito intorno al biasimo e a una personale invettiva ironica del poeta contro gli insegnanti e contro i burotecnocrati ministeriali armati di piani di studio, che usano la poesia (e le poesie dell’autore) per tormentare degli studenti minorenni, abusando del loro dovere scolastico di ubbidienza: la poesia, la letteratura, per essere studiate, e prima di essere studiate, devono essere lette liberamente per scelta individuale. Il saggio sulla piccola borghesia è una non meno ironica lode iperbolica (mescolata al biasimo) di una classe sociale che è stata a lungo oggetto di disprezzo tanto da parte della grande borghesia che da parte della classe operaia. La dicotomia sociale teorizzata da Marx prevedeva che la società borghese5. In «Kursbuch», n. 45, 1976. 6. In «Tintenfisch», n. 11, 1977.
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capitalistica sarebbe andata verso uno scontro decisivo e finale fra una potente classe operaia, sempre più vasta, e una élite sempre più ristretta e dispotica di grandi capitalisti. È invece avvenuto il contrario, secondo le previsioni di un avversario di Marx, cioè Aleksandr Herzen: la zona intermedia della società, un insieme di classi e ceti frammentati e oscillanti, camaleontici, «darwinianamente» adattabili e opportunisti, si è estesa occupando uno spazio sempre maggiore in tutti i campi, soprattutto in quello culturale e artistico. Ancora una volta, con accresciuto divertimento ed esibita modestia, nel tono di un’umoristica, infervorata «relazione accademica», Enzensberger affronta il grande tema: in che società viviamo? E noi, socialmente parlando, che cosa siamo? Ecco: il fatto che voi, che leggete queste righe, le leggiate, già di per sé costituisce quasi una prova certa che anche voi ne fate parte. Perdonatemi, gentile lettrice, fedele lettore, se mi rivolgo a voi in modo così diretto. […] Siete soltanto invitati, se in qualche modo è possibile, a sentire che la cosa vi riguarda, e vi prego anche di permettermi, per motivi di semplicità, di parlare in prima persona plurale. Molte grazie. Apparteniamo dunque a una classe che non controlla né possiede ciò che conta: i famosi mezzi di produzione, e che non produce ciò che conta ancora di più: il famoso plusvalore (o che lo produce solo indirettamente e marginalmente). La cosa funziona proprio in modo così impreciso. La piccola borghesia non è né l’una né l’altra delle principali parti in causa nella famosa contraddizione fondamentale […]. Neanche l’introduzione di una sorta di socialismo nell’Unione Sovietica, nell’Europa orientale e nei paesi del terzo Mondo, è riuscita a eliminarla. Al contrario, essa ha prodotto piccolo borghesi di tipo nuovo, i piccolo borghesi della rivoluzione vincente, bonzi, quadri, funzionari: singolari specie di «mutanti», incredibili creature di una nuova classe che assomiglia molto alla vecchia. Ma anche nelle società capitalistiche, il buon vecchio, il cattivo vecchio petit bourgeois non è rimasto lo stesso […]. A ogni
188 cambiamento strutturale della società ha, per così dire, gettato nuove radici. La tecnologizzazione della produzione, la crescita di settori terziari dell’economia, la dilatazione delle amministrazioni pubbliche e private, l’espansione dell’industria culturale, le istituzioni pedagogiche e mediche: in tutte queste attività la piccola borghesia è sempre stata presente. E anche dopo ogni riassestamento politico, essa si è subito installata negli apparati di nuova formazione dei partiti e dello Stato, e non solo ha difeso, ma anche ampliato, la sua posizione nella società. (PB 3-6)
E più avanti: Oggi, questa classe brulica di uomini d’avanguardia e nessuno è più occupato di loro a cogliere la palla al balzo quando si tratta dell’ultima moda. È sempre al corrente di tutto. Nessuno è più pronto del piccolo borghese a mutare rapidamente ideologie, abiti, comportamenti e abitudini. È un nuovo Proteo, capace di apprendere fino al punto di rischiare la propria identità. Sempre in fuga da ciò che invecchia, rincorre all’infinito se stesso. (PB 9)
Ulteriori deduzioni possibili? Possiamo anche trovarle in saggi successivi: soprattutto in alcuni compresi in Mittelmaß und Wahn (1988), da quello sulla televisione come «medium zero» (mezzo di comunicazione che non ha niente da comunicarci) fino al discorso sul Crepuscolo del recensore, che si conclude con un interessante ribaltamento: per cui la scomparsa del critico tradizionale, più che un male e una perdita, può essere considerata un vantaggio, un incremento di libertà per chi scrive e per chi legge, tanto per la letteratura che per il suo pubblico. Tornano pressoché inalterate le idee giovanili di Enzensberger sull’importanza politica della poesia in quanto politicamente irrilevante, irriducibilmente estranea al potere e fuori mercato, una specie di anti-merce: «La letteratura non è condizionata dal fatto che venga recensita […] la letteratu-
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ra è tornata ad essere quello che è stata fin dal principio: una faccenda minoritaria»7. Siamo in prossimità di un vecchio tema, quello del rapporto fra intelligenza e potere, scrittori e politica. Enzensberger fa di tutto per evitarlo, si sofferma su questo o quel fenomeno particolare, ma infine gli è impossibile non tornare in breve sull’argomento. Solo che paradossalmente la cosa più interessante e nuova è che la questione è vecchia e stantia, vale solo per un passato ormai remoto e merita quindi, finalmente, un «provvisorio, modesto necrologio» (il che costituisce un topos della retorica epidittica). Un notevole punto fermo, almeno in Germania, c’è subito: «Là dove si parla tedesco i politici e gli intellettuali – non è un mistero per nessuno – sono da sempre tribù nemiche tra loro» (MF 135). Enzensberger parla di queste cose segnalando che in proposito la rabbia di un tempo (anche la sua) è svanita e perciò non si può che discuterne con ironia e distacco, perché ai contrasti di un tempo è subentrata la «mediocrità» del compromesso e della pacifica convivenza. Ma dopo alcune mosse retoriche attenuanti e sdrammatizzanti, si arriva presto a un’affermazione impegnativa: una società tedesca – nel senso della frequentazione spontanea, naturale – probabilmente non è mai esistita […]. Nel nostro paese i consulenti fiscali organizzano feste da ballo per soli consulenti fiscali, dove i dentisti o i professori di romanistica non entrano; la normale frequentazione dei colleghi della GEW si limita ai colleghi della GEW; gli antropofosi invitano gli antropofosi, e gli alternativi si sentono più a loro agio quando si trovano fra alternativi. (Ibidem)
7. H.M. Enzensberger, Mittelmaß und Wahn. Gesammelte Zerstreuungen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988; tr. it di E. Picco, Mediocrità e follia. Considerazioni sparse, Garzanti, Milano 1991, p. 47; in seguito si citerà nel testo con MF seguito dal numero di pagina.
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Dunque tutto qui: i politici non invitano gli intellettuali e gli intellettuali preferiscono evitare i politici. Una volta «Günter Grass cercò di mettere al servizio di un governo socialdemocratico il suo bagaglio di esperienze», ma fu invano: per i politici lui «era e restava un individuo sospetto» (MF 137). In altri luoghi del mondo le cose vanno diversamente. In America latina i poeti (come Neruda) diventano facilmente e volentieri ambasciatori, e i romanzieri (come Vargas Llosa) si candidano alle elezioni presidenziali. In Francia, si sa, da Voltaire a Sartre e a Régis Debrai, senza escludere neppure un «poeta puro» come Paul Valéry, gli scrittori frequentano i politici e a volte i politici si sentono intellettuali. In Italia Eugenio Montale, premio Nobel, è nominato senatore a vita e «uomini come Basaglia, Sciascia, Arbasino, Volponi non solo vengono eletti in Parlamento, ma ottengono anche lo status di deputati indipendenti, ossia non sottostanno alla disciplina di gruppo» (ibidem). Questo è un vantaggio? Secondo Enzensberger no: non ho obiezioni in proposito, ma personalmente queste cose mi sono estranee. La mia modesta esperienza mi dice che la politica è il regno della ripetizione. Rientra nei suoi obblighi ripetere sempre le stesse cose. Inoltre mi sembra che il suo spazio si riduca a vista d’occhio e che il potere dello Stato somigli a un Gulliver impastoiato da innumerevoli fili […]. No, i politici non sono da invidiare. Se considero la loro sorte, sono addirittura portato a compiangerli. (MF 138)
In fondo è meglio che intellettuali e politici non si frequentino. Il fatto è che, sia gli uni che gli altri, oggi stentano a coprire il ruolo da protagonisti a cui aspirerebbero e che li definiva in passato: Gli ultimi prìncipi dell’intelletto sono morti da un pezzo. Pensatori capaci di indicare la strada al pensiero difficilmente si possono trovare nei rispettivi settori dell’istruzione universitaria. Che cosa è arte lo decidono i galleristi, e i grandi progetti
191 del futuro vengono forniti da commissioni di programmazione. (MF 141)
Se la letteratura e le arti attirano e conservano in parte la loro aureola è soprattutto perché trasmettono, indirettamente ma costantemente, il messaggio che per ogni individuo ci sono cose inutili molto preziose, a cui comunque, finora, non siamo disposti a rinunciare. Anche se la coscienza è un prodotto sociale, come Enzensberger affermò da giovane citando Marx, almeno una parte di essa è un fatto individuale. O meglio, si tratta di un’illusione impolitica e asociale per cui vale la pena d’impegnarsi, anche politicamente e a vantaggio della società. Lo specimen tematico della saggistica di Enzensberger si trova già, come abbiamo detto, nei suoi primi saggi, sui quali era giusto, perciò, fermarsi più a lungo. In seguito viene focalizzato, secondo circostanze e urgenze, un punto o un altro. Negli ultimi due decenni vengono accantonati, come svuotati di senso, i mass media, e sembra che al terrorismo implicito e «legittimo» di Stato vengano date minori responsabilità rispetto al terrorismo di setta, che provoca, se non giustifica, l’intensificarsi dei controlli statali e di polizia, nonché le ritorsioni violente e illegali: Anche la democrazia americana si è lasciata manifestamente contagiare dai suoi nemici islamisti, assumendo dal loro repertorio mezzi illeciti, quali la cattura arbitraria, il rapimento e la tortura.8
È la scienza, sono le scienze e le tecnologie a occupare la coscienza collettiva con le loro utopie e la promessa di una vita perfetta, all’interno di società che nessuno si preoccupa più
8. H.M. Enzensberger, Schreckens Männer. Versuch über den radikalen Verlierer, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006; tr. it. di E. Picco, Il perdente radicale, Einaudi, Torino 2007, p. 71.
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di migliorare, o semplicemente riesce a governare. Quella che un tempo si chiamava critica sociale è passata di moda fra gli intellettuali e i letterati. La società è un oggetto inafferrabile regolato da un’incalcolabile quantità di decisioni anonime, tecniche e burocratiche, e da compatibilità internazionali che di fatto riducono a ben poco la sovranità dei singoli stati nazionali. Oggi la «mediocrità» che vige in tutti i campi nelle nostre società relativamente decenti, certo corrotte e ingiuste, ma soprattutto assediate o minacciate dall’esterno da continenti extraoccidentali (dai più promettenti come dai più disperati o temibili) è una mediocrità più accettabile, della quale è meno facile indignarsi, e che comunque finiamo per accettare come un male minore. Nessuno sa come andrà il mondo in futuro. Nessuno ha programmi in proposito e a lunga scadenza. Sia i politici che gli intellettuali, dice Enzensberger, sono e saranno prevedibilmente occupati «nella medesima attività: riparare, rattoppare, tappare buchi» (MF 143). In fondo, tutto questo può spiegare, se le spiegazioni sono necessarie, la passione, una passione crescente e disinteressata che Enzensberger ha manifestato per le scienze naturali e per la matematica. Anche in questo caso le radici di questa curiosità sono lontane. Il fatto che i botanici, gli astrofisici e i matematici siano comunemente considerati persone «fuori dal mondo» può trasmettere a un poeta un certo conforto e un senso di fraternità. Per un uomo come Enzensberger, così dotato di «immaginazione sociologica», che si è impegnato tutta la vita a studiare e scrivere di società e politica perché ne era assillato, la bellezza del calcolo puro e lo studio delle rocce aiuta a ricordare che la storia del genere umano è importante, ci interessa, ma non è tutto. La poesia, per esempio, come la musica e la pittura, hanno a che fare con la pura eleganza di certi rapporti formali, con la regolarità o la sorprendente casualità di certe ricorrenze strutturali e ritmiche, ben note a chi fa calcoli o studia fenomeni atmosferici e geologici.
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Dallo studio delle forme di coscienza e di conoscenza, nel teatro delle idee in cui la saggistica e la poesia di Enzensberger si sono mosse con passione e con metodo, emerge lo spettacolo di come funziona la mente umana: come accumula sapere, come lo ordina e lo distrugge, come ne abusa o lo dimentica ubbidendo a necessità e istinti non si sa mai bene se più naturali o più storici. Il lavoro del «dare forma» sembra all’opera dovunque. Perciò: se è vero che «la scienza più avanzata è diventata la forma contemporanea del mito» è anche vero che «la poesia è all’opera anche là dove nessuno lo immagina»9.
9. H.M. Enzensberger, Die Elixiere der Wissenschaft. Seitenblicke in Poesie und Prosa, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2002; tr. it. di V. Alliata et al., Gli elisir della scienza. Sguardi trasversali in poesia e in prosa, Einaudi, Torino 2004, pp. 241-242.
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Mistica e teologia in letteratura: Blanchot e Kermode (2021)
La recente pubblicazione quasi simultanea, presso il Saggiatore, di due classici della critica di metà Novecento costringe a pensare ancora una volta all’epoca letteraria in cui culminò lo spirito della Modernità e il suo mito. Si tratta di Passi falsi di Maurice Blanchot (1907-2003) e Il senso della fine di Frank Kermode (1919-2010), libri e autori che esemplificano due culture letterarie e filosofiche proverbialmente disparate come quella francese e inglese, in comunicazione fra loro ma spesso contrapposte, a loro volta in dialogo più o meno ravvicinato con la cultura tedesca più profondamente speculativa e orientata in senso teologico e mistico. Il libro di Blanchot, la cui prima edizione comparve in tempo di guerra, nel 1943, con la Francia occupata dai nazisti, si apre con una sezione fondamentale e fondante intitolata Dall’angoscia al linguaggio. Il discorso sulla letteratura è immediatamente collocato fra due estremi il cui incontro è e deve restare paradossale e rischiosamente al limite dell’impossibile. La letteratura moderna, la situazione della modernità letteraria compaiono perciò come fenomeno abnorme e inusitato di crisi, le cui opere e i cui autori dovranno essere affrontati con
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uno spirito e con categorie intellettuali del tutto nuove, instabili e da reinventare. Tutto il tono stilistico di Blanchot, la sua particolare eloquenza nel parlare dell’indicibile, alludono continuamente all’assoluta singolarità situazionale, morale e creativa dello scrittore moderno. La modernità letteraria ha i suoi modelli e i suoi eroi o martiri, la cui prova cruciale, il cui destino è dover passare dall’angoscia al linguaggio, dal mutismo della solitudine alla sua comunicazione. È una letteratura che si vede costretta a fronteggiare il problema di non tradire, di non mascherare la verità, l’autenticità delle proprie motivazioni e necessità radicali. Per affrontare una tale situazione non sono più disponibili regole tradizionali e forme consolidate, né idee prospettiche capaci di garantire orientamenti prevedibili e razionali. Blanchot evita quindi ogni argomentazione più precisamente sociale e storica, preferendo un’immersione disarmata del critico nella logica sempre estrema della creazione letteraria. Le sue categorie interpretative non sono esterne alla letteratura, ignorano psicologia e sociologia, tengono a distanza anche le più comuni tecniche di rilevazione stilistica e di esplicazione testuale. La cosa interessante è che la modernità letteraria è letta pensando più alla tradizione della mistica che alla tradizione della letteratura. Perfino il Settecento illuministico e l’Ottocento romantico e realistico sono rimossi e ridotti a un paio di autori che solo il Novecento ha riscoperto. La ragione di queste scelte così drastiche è che l’esperienza dell’angoscia, caratteristica dell’individuo moderno, rappresenta secondo Blanchot una minaccia radicale alla stessa possibilità di esistere della letteratura. Per scriverla sarà necessario un linguaggio del tutto nuovo, aurorale, privo di precedenti, che può sprigionarsi solo dal silenzio, dal nulla, spezzando o sciogliendo i ghiacci dell’angoscia, trasformando in esperienza esprimibile proprio ciò che paralizza sia l’esperienza sia l’espressione.
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Il discorso di Blanchot si apre perciò con una riflessione sul Diario di Kierkegaard, si passa poi al grande mistico medievale Meister Eckhart e alla sua teologia negativa, mentre dal Settecento si estrae soltanto William Blake, il più stravagante dei visionari. Segue un capitolo sul pensiero induista e sulla difficoltà di tradurlo in termini accessibili a noi moderni, e i nomi di Eckhart e san Giovanni della Croce compaiono accanto a Kierkegaard. Infine si parla di “esperienza interiore” evocando Nietzsche e Bataille, analizzando angoscia, senso della morte e “misticità diffusa” in Proust e Rilke. In questo modo, Blanchot costruisce una sua apologetica retorica dell’estremo e della paradossale dicibilità dell’indicibile. Similmente, la sua idea di letteratura moderna viene selettivamente purificata, essenzializzata e svuotata di ingombranti ma più concreti contenuti occasionali, contingenti, biografici e storici. La letteratura, nella sua pluralità di fenomeni e di casi singoli, di autori e libri, viene disincarnata e sublimata in un’idea generale, ma anche generica, di letteratura. Ne emerge così una letteratura allusivamente, metaforicamente “misticizzata” come entità perpetuamente sfuggente per parlare della quale diventa perciò necessario evocare situazioni e usare argomenti mistici: come se il critico letterario, non meno che lo scrittore, dovesse sempre trovare le parole per dire ciò che trascende le parole. Gli ultimi due secoli di letteratura si riducono così a pochi autori di confine, autori-limite nei quali tendono a scomparire situazioni, biografie, nessi narrativi e razionali. In letteratura ogni forma di realismo viene presentata come il peggiore difetto e peccato. Se poi ogni regola e forma letteraria ereditata è impraticabile, anche i generi letterari diventano sia inconcepibili, sia in linea di principio proibiti in quanto banali. Blanchot fa di tutto per non distinguere poesia e narrativa, lirica e racconto. Tra un filosofo nemico della filosofia, della morale, della logica, della storia come Nietzsche e un poeta purissimo, assoluto e inevitabilmente piuttosto oscu-
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ro come Mallarmé, sembra che per Blanchot non ci sia posto che per una letteratura dell’estremo e di un linguaggio che metta in scena l’autocancellazione per eccesso di svuotamento. Quando parla di poesia, Blanchot non vede altro che il filo che unisce Novalis e Hölderlin a Mallarmé e Rimbaud, a Valéry e Rilke. Quando tenta di parlare di romanzo, cerca i casi nei quali il narratore sfuma nel poeta e la scrittura letteraria si fa protagonista di se stessa, si autonomizza svincolandosi da eventi, azioni e personaggi. Sintomatico è il capitolo Mallarmé e l’arte del romanzo, dieci pagine nelle quali non compaiono né titoli di romanzi né nomi di romanzieri, se non nelle righe conclusive che parlano del romanziere in astratto, come tipo ideale o immaginario: Questo romanziere, per il quale uno scrittore come Joyce ci offre alcuni tratti, si porrebbe sicuramente gli stessi problemi sui quali Mallarmé ha logorato la sua vita e, come Mallarmé, sarebbe felice di vivere per effettuare in sé trasformazioni singolari e per ricavare dalla parola il silenzio in cui deve morire.
In un breve passo come questo c’è tutto Blanchot, con il vantaggio che mancano le continue ripetizioni degli stessi argomenti. La modernità quintessenziale di Blanchot evita la descrizione e il bilancio della modernità in cui sono convissuti realismo e sete di assoluto, oscurità e denuncia morale e sociale. Per fare un solo esempio, parlando di Kierkegaard si evita di dire che la sua è una filosofia diaristica e autobiografica molto circostanziata, polemica, cristiana e narrativa. L’idea bonificata e senza contenuti empirici teorizzata da Blanchot finì per concludersi, con gli anni Sessanta del Novecento, nelle teorizzazioni del gruppo di «Tel Quel» per il quale filosofia, narrativa, poesia e autoriflessione teorica andavano liquefatte in écriture, forma che azzera ogni forma. A un tale svuotamento può portare una tipologia identitariadella modernità che fa a meno di Dostoevskij e Tolstoj, Henry James e Thomas Mann, Whitman, Eliot, Brecht e di ciò
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che ognuno di loro rappresenta nell’analisi della crisi culturale dell’Occidente. Del tutto opposto sono il punto di vista e il metodo di Kermode nel suo Il senso della fine. Il genere letterario a cui Kermode attribuisce il maggiore interesse è il romanzo, di cui studia forma e teoria manifestando una precisa indifferenza per le innovazioni strutturali novecentesche che ne hanno alterato la tradizione sia stilistica che tematica. È chiaro, benché implicito, che Kermode preferisce Forster a Joyce, la trama al linguaggio. Le poetiche del modernismo e delle avanguardie lo trovano piuttosto indifferente e diffidente perché “disumanizzano” (la tesi è di Ortega y Gasset) tutte le arti e in particolare la letteratura, rifiutando il romanzo o innovandolo fino a disinnescarne la tensione morale. Quanto a ispirazione teologica, tutto il discorso di Kermode poggia sul significato dell’Apocalisse come “fine dei tempi”, un significato che fonda non solo una filosofia della storia ma, non meno, un’antropologia umanistica all’interno della quale ogni vicenda umana si struttura in vista di un senso finale, di un destino che si compie e si rivela. Anche la curiosità infantile (che non risparmia neppure i lettori adulti) su come le storie “vanno a finire” rivela l’esigenza umana di vedere la vita come una trama di azioni e di eventi che procedono, più o meno linearmente, in direzione di un esito finale rivelatore, alla luce del quale inizio e fine si congiungono. Nei romanzi in cui nella seconda metà dell’Ottocento culmina la parabola realistica del romanzo classico, opere come L’idiota, L’educazione sentimentale e Anna Karenina, inizio e fine appartengono a un senso che si rivela in conclusione unitario, anche se la narrazione trattiene il lettore “nel mezzo” delle vicende. La polemica di Kermode nei confronti del modernismo novecentesco nelle sue varie fasi, dagli anni Venti agli anni Sessanta, usa la teologia escatologica non per spiegare e giustificare con argomenti impropri, come Blanchot, la letteratura moder-
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na più informale o iperformale, ma al contrario per difendere la sostanza culturale e la tradizione del romanzo in quanto forma che esige una trama di vicende nelle quali presupposti e conseguenze delle azioni umane si uniscano trasformando in una figura di destino ciò che nella vita quotidiana era sembrato casuale. C’è da concludere qualcosa anche a proposito di critica letteraria e della sua storia? Nata a metà Settecento con l’ascesa della borghesia in rivolta contro ogni tipo di autorità tradizionale, la critica moderna si distinse dalle poetiche classiche per la sua volontà di misurare il passato alla luce del presente. Il suo orizzonte era quello definito da Kant: «libero uso pubblico della ragione in tutti i campi». Questo fu l’inizio. Da quali segni riconosceremo la fine? Con Schiller e la sua teorizzazione militante della poesia dei moderni distinta da quella degli antichi, la critica diventa impegno nel presente inteso come storia, un presente che merita di essere vissuto come un assoluto morale solo in quanto diventa consapevole di contenere in sé un passato e un futuro. Nei loro momenti migliori, la letteratura e la critica del Novecento sono nate e rinate da questo tipo di coscienza. Anche con i loro limiti, i libri di Blanchot e Kermode appartengono a un tale orizzonte problematico. Come sapevano anche Eliot e Benjamin, Wilson e Auerbach, Debenedetti e Steiner, non c’è vera critica letteraria che non sia critica della cultura e filosofia morale. Oggi l’accademizzazione specialistica degli studi, la commercializzazione e polverizzazione sociale delle arti stanno privando il discorso critico della sua attitudine al giudizio, e quindi della sua rilevanza pubblica. Ma le responsabilità più dirette non mancano: sono quelle degli autori e degli editori, di chi scrive critica letteraria e di chi non la legge.
Parte III
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L’Italia di sempre e la sconfitta dell’Illuminismo (2014)
Passano i decenni, passano i secoli, ma l’Italia è sempre uguale. Noi non vogliamo crederci, ma per gli stranieri è cosa ovvia. Gli italiani parlano, si esprimono, litigano: e questa esagitazione emotiva, verbale e retorica crea un’impressione di dinamismo. È mezzo secolo che si sente parlare di riforme e modernizzazione. La modernizzazione è stata fatale, ma le riforme che dovevano governarla sono rimaste un proposito o un sogno. La società si muove come può, si muove passivamente, per impulso esterno. Lo Stato rimane fermo e i partiti sono i suoi parassiti. Chi è sprovvisto di passione politica, chi non si diverte a leggere la cronaca delle attività governative, parlamentari e partitiche, può andare soggetto a quel tipo di malinconia che non apprezza l’attività ma soltanto i risultati. È stato detto (da un grande critico d’arte come Roberto Longhi) che la prima caratteristica dello storico è la presbiopia. Le cose, da vicino, non sempre si capiscono. Se ci si allontana e lo sguardo si allunga, più che la folla degli eventi, appaiono i fenomeni di lunga durata. Gli storici degli avvenimenti sono ispirati dalla passione politica. Gli storici della «lunga durata» si appassionano all’antropologia, ai caratteri di popoli e paesi.
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Il discorso sul carattere e sui costumi degli italiani è ridiventato di moda da un quarto di secolo. All’improvviso tutti si sono messi a commentare quanto diceva Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Ma uno dei primi, o forse il primo, a riproporre il problema in termini nuovi è stato, fin dagli anni Settanta, Giulio Bollati, protagonista editoriale della Einaudi, saggista e storico, direttore dal 1987 al 1996 della Bollati Boringhieri. Il suo libro più noto, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, uscito decenni fa (Einaudi, Torino 1983), raccoglieva le sue ricerche sul tema, precedute da una «digressione sul trasformismo» e seguite da un bilancio delle «peripezie italiane di politica e cultura» dopo il 1945, la cui prima pagina è dedicata a una conversazione torinese con il suo compagno di lavoro Italo Calvino: Lo apprezzavo – scrive Bollati – per la sua capacità di cogliere a volo i mutamenti anche minimi della politica, della cultura, delle mode intellettuali, un vero sismografo; anche se mi irritava la facilità con cui prendeva atto delle novità senza inutili sentimentalismi.
Se c’è un autore per il quale il rapporto fra critica e autobiografia (essenziale, secondo Giacomo Debenedetti) è più scoperto, questo è Giulio Bollati. Ma l’autobiografia di un critico, per fruttare criticamente, deve essere implicita: un movente che agisce restando in ombra. Per formulare i suoi progetti e problemi di intellettuale-editore e per capire l’Italia post fascista, Bollati scelse come specchio le vicende italiane del secolo 1750-1860, cominciando dalle diagnosi e terapie a proposito di «decadenza italiana» formulate da Pietro Verri e dal gruppo del «Caffè» (1764-66) per arrivare a Carlo Cattaneo e alla sua rivista neoilluminista «Il Politecnico» (1839-44). La sintesi più limpida di questa storia sette-ottocentesca, che ci riguarda da vicino anche perché la dimentichiamo, Bollati l’ha scritta in un saggio di una sessantina di pagine, pubblicato nel
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1995, un anno prima della sua morte, nel Manuale di letteratura italiana a cura di Franco Brioschi e Costanzo Di Girolamo (Bollati Boringhieri, Torino): il titolo è La prosa morale e civile, ma il suo contenuto è più storico e politico che letterario. Anche i maggiori scrittori del periodo, Alfieri, Foscolo, Manzoni e soprattutto Leopardi, sono letti da Bollati più come eroi intellettuali, come filosofi militanti e ideologi, che come artisti. Il tema è l’Italia di fronte a un mondo moderno ancora ignorato e da conquistare, che arriva nella nostra assonnata penisola con lo sviluppo del commercio, della produzione e degli scambi culturali, con la Rivoluzione francese e con Napoleone. Pietro Verri, «illuminista nobiliare», nota subito che la tradizione culturale italiana, dominata dalle accademie e dal culto della bella forma, è inadeguata al presente. Se la nobiltà vuole dare prova di possedere ancora qualche «virtù» reale e non formalmente cavalleresca, dovrà occuparsi dell’utilità economica e del bene pubblico: «Un atto utile in generale agli uomini si chiama virtù, e l’animo virtuoso», scrive Verri, «è quello che ha desiderio di far cose utili in generale agli uomini». Compito dell’intellettuale aristocratico, che lascia la spada per impugnare la penna, è incrementare e governare il progresso, senza idealizzarlo e farne una religione. Per questo la letteratura italiana doveva cambiare, rinunciare al vocabolario della Crusca, parlare del presente e parlare a tutti: la repubblica delle lettere sparse per l’Europa se per lo passato era considerata come una società di curiosi che si occupavano di oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha cambiato aspetto… L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare i popoli – continua Verri – questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio… Né mai tanta connessione vi fu tra gli studi e la felicità delle nazioni quanta al dì d’oggi.
Il capolavoro del nostro Illuminismo fu Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, il cui successo non è stato contingente e la
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cui fama, per una volta, ha superato i nostri confini. Ma Bollati insiste sulla sconfitta che l’Illuminismo ha subito in Italia, alla fine del Settecento e in tutta la storia successiva. I patrioti risorgimentali, più che da Verri e da Beccaria, impararono da Alfieri e Foscolo. L’idealismo romantico si nutrì di solennità retorica. Il pathos dell’eroismo, dell’esilio e del sacrificio drammatizzò, liricizzò e rese enfatica anche la prosa. Giacomo Leopardi a sua volta fallì. Venne accolto con diffidenza, ignorato o denigrato nel suo tentativo di creare con le Operette morali una prosa italiana classicamente all’altezza dei tempi. Come scrittore impegnato durò poco. Finì per diventare un satirico di quella mentalità liberale che giurava sulle «magnifiche sorti e progressive». Ma Leopardi è un caso a sé. Anche se «profondamente coinvolto nel passaggio tra due ere storiche», secondo Bollati ebbe l’ambiguo «privilegio di trovarsi esiliato in un osservatorio situato in una lucidissima distanza “astronomica”». Il nostro primo e più grande poeta-filosofo moderno fu antimoderno. Rifletteva sulla mostruosa immensità di un cosmo che ignora il genere umano. Le città moderne, così eccitanti, così entusiasmanti per tanti altri, non lo attiravano: nelle città grandi, tu sei lontano dal bello: perché il bello non ha più luogo nessuno nella vita degli uomini. Sei lontano anche dal vero: perché nelle città grandi ogni cosa è finta, o vana. Di modo che ivi, per dir così, tu non vedi, non odi, non tocchi, non respiri altro che falsità, e questa brutta e spiacevole.
Il prosatore italiano che Leopardi preferiva era Galileo, che se non va bene per descrivere le fantasmagorie metropolitane, certo non pecca di antropocentrismo o titanismo umanistico. Ma perché gli illuministi nobiliari italiani furono sconfitti? Secondo Bollati per tre ragioni. Perché non erano rivoluzionari, perché irritarono la nobiltà conservatrice e pigra, perché offesero la turba onnipresente dei letterati. Non va dimenticata
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un’altra ragione, solo apparentemente secondaria: risultarono antipatici perché erano troppo brillanti e disinvolti: L’aria disincantata e provocatoria del «Caffè» – dice Bollati – ha certo giovato al giornale aprendogli intorno un’atmosfera vivace mista di intelligenza e di humor. Ma non va ignorato che quel tono di brillante arroganza ha certamente suscitato… reazioni di dispetto e non solo di consenso.
L’esame di una serie di «eroi intellettuali», scrittori e nello stesso tempo personaggi esemplari, è ciò che permette a Bollati di delineare le caratteristiche della storia culturale e politica italiana. Nel momento in cui si risvegliano il senso di umiliazione, l’orgoglio nazionale, la coscienza di essere profondamente «decaduti» e inadeguati rispetto alle più dinamiche e potenti nazioni europee, diventa un problema l’essere italiani e il come esserlo: il problema fondamentale per i nostri maggiori scrittori. A quel punto le domande sono queste: da quando siamo decaduti, perché lo siamo e soprattutto che cosa fare, quali sono i rimedi e quali i doveri di chi pensa, scrive e vuole essere utile a una comunità nazionale infelice, corrotta, paralizzata dal suo stesso passato o dall’incapacità di capirlo e di esserne eredi. Gli eroi intellettuali ai quali Bollati si appassiona di più sono Pietro Verri, Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi. Ai confini estremi della vicenda compaiono poi le due figure in ogni senso più esemplarmente diverse, Alfieri e Cattaneo. Da un lato la superbia antitirannica di un aristocratico inguaribilmente solo, incapace di socialità perché ossessionato dal desiderio di sentirsi sovranamente libero. Alfieri, attraverso «una idealizzazione retorica a posteriori», mitologicamente isolato «in una misteriosa solitudine autistica», diventa un modello stilistico e morale per i patrioti italiani, da Foscolo e Mazzini in poi. Modello e fantasma pericoloso. La sua musa iraconda, il suo furore di nobile «cavaliere», che a vent’anni ha letto
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Plutarco con «trasporto di grida, di pianti e di furori» e ne ha ammirato gli eroi, trasmetteranno alle successive generazioni risorgimentali «una concezione dell’Italia nuova e moderna separata dai contenuti della Rivoluzione francese e forte di un suo primato e valori autoctoni». Rifiutato il rapporto fra Illuminismo e Rivoluzione come si era dato in Francia, Alfieri, dopo un breve, astratto entusiasmo iniziale, diventa violentemente antifrancese, un perfetto «misogallo». Fu un «innovatore», scrive Bollati, perché, «in un contesto storico di cui era scarsamente padrone, cercò di restaurare una figura nobile-cavalleresca andata perduta nei meandri delle corti». Il culto del «forte sentire» e della «virtù» nobiliare fanno di lui un «eterno antagonista» che può esprimersi soltanto in una «sublime letteratura». Mancano in lui i presupposti positivi della vita sociale, manca la curiosità di conoscerne i legami, manca la passione di stabilirli o ricostruirli in forme nuove. Il «terzo stato» socialmente in ascesa Alfieri non lo incontra, lo ignora o aristocraticamente lo disprezza. Ai suoi occhi la classe media è rappresentata da quel «simbolo del male sociale» che sono gli «avvocati» con la loro grettezza pratica: e lo stesso Robespierre non era forse nient’altro che «un di que’ tanti avvocatuzzi falliti». All’estremo opposto e nel periodo conclusivo della Rivoluzione nazionale, c’è Carlo Cattaneo: non, come Alfieri, un conte piemontese orfano di padre che ha studiato inutilmente in un’accademia militare, ma un proprietario terriero, un borghese lombardo di cultura illuminista (allievo di Gian Domenico Romagnosi) interessato alle «scienze positive» e cultore delle più varie discipline, dall’economia alla linguistica, dall’agricoltura al diritto e all’ingegneria. Non un cavaliere solitario che viaggia dovunque perché non sa dove mettersi né dove ambientare la sua sdegnosa melanconia; ma un insegnante e consulente industriale, un riformatore, uno scienziato «politecnico» che non coltiva la cospirazione politica ma lo studio
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delle forme sociali. Mentre Alfieri continuerà a nutrire vari tipi di estremismo idealistico e antagonistico, buono per ogni genere di «esiliati» in patria e fuori, Cattaneo viene da Verri e dall’Illuminismo lombardo prerivoluzionario, per il quale la modernità era un compito da affrontare con adeguati e ben padroneggiati strumenti scientifici e tecnici. Il grande e costante tema di Bollati è questo contrasto fra due modelli o tipi intellettuali, attraverso i quali l’Italia riflette sulla propria decadenza e arretratezza, sui problemi di una modernità nata in Inghilterra e in Francia e che la investe dall’esterno. L’autobiografia di una nazione realizzata tardi e male, Bollati la ricostruisce con ripetuti approfondimenti e riformulazioni quasi ossessive. Secondo la sua diagnosi, gli intellettuali italiani hanno fallito nel loro rapporto con la modernità sociale e politica. Non sono riusciti a dare un vero e utile contributo ai ceti dirigenti aumentandone la capacità di governare lo sviluppo economico e i conflitti sociali. L’insistenza precoce e tenace sulla «diversità» e la «specificità» italiane ha impedito alla nostra cultura di entrare nella modernità senza remore e senza pregiudizi. Le Rivoluzioni, quella industriale inglese e quella politica francese, furono accolte come una minaccia all’identità di una tradizione italiana sentita come sublimità estetica e morale. Questa resistenza ha avuto le sue ragioni e i suoi torti, ma ha coinvolto quasi tutti. La definizione, l’autocostruzione dell’identità italiana rispetto alla modernità europea ha creato, fra Settecento e Ottocento, un argine alla comprensione di profonde e irreversibili fratture storiche che in Italia venivano avvertite più traumaticamente anche perché avvenute ed elaborate in altri paesi e in altre culture. In termini più schematici, si può dire che l’Italia letteraria ha combattuto l’Italia scientifica; il culto dello stile ha offuscato, denigrato e arginato il culto (e il dovere) della conoscenza scientifica. La domanda su «che cos’è l’essere italiani», più che produrre risposte fondate, ha
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inventato un’ingombrante ideologia che non ha smesso di accompagnare la realizzazione e la crescita dell’Unità nazionale dalle origini del Risorgimento a tutto il Novecento. Bollati percepisce e analizza lucidamente il problema. Ma la soluzione resta un’ipotesi. L’avversione, la resistenza, la critica alla modernità utilitaristica e alla logica rivoluzionaria si trova, con varie sfumature di tono e in situazioni disparate, negli autori più diversi e incompatibili: Parini, Alfieri, Verri, Cuoco, Manzoni, Leopardi… Una letteratura, una filosofia possono certo avere e hanno caratteri nazionali (basta pensare alla diversità fra la tradizione inglese e quella francese), ma più difficile è trovare, immaginare delle identità nazionali nelle scienze empiricoanalitiche, esatte, naturali e anche sociali. L’ideologia italiana di un’identità nazionale e storica irriducibile nasce fra Illuminismo e lotta risorgimentale come sintesi di una «doppia coscienza» paralizzante: coscienza critica della decadenza-arretratezza e coscienza compensatoria di un passato culturale glorioso e di un «primato morale e civile» da conservare e riconquistare. Nel fondamentale saggio L’italiano, già nel suo primo capitolo, «Il carattere degli italiani come problema storico», la formulazione di Bollati non lascia spazio a schematismi, soprattutto se la si legge in un contesto che non interpreta la modernità solo in termini progressivi, ma anche di «nuova barbarie», come denunciato da innumerevoli intellettuali e letterati europei e non solo italiani. Qui ovviamente il moralismo neoclassico e antimoderno di Leopardi non poteva che incoraggiare dubbi e perplessità anche in Bollati: la modernità non è mai un’entità univoca, può essere immaginata, progettata e realizzata in modi anche radicalmente alternativi, come ha mostrato il più appassionatamente moderno e rivoluzionario dei filosofi ottocenteschi, Karl Marx. Nel saggio sulle tragedie di Manzoni, il tipo intellettuale e l’eroe tragico vengono studiati e proiettati da Bollati sulla futura
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storia italiana sia ottocentesca che novecentesca. Manzoni costruisce un «capolavoro d’ingegneria» letteraria e morale che non esclude, anzi coinvolge le sue contraddizioni e i suoi dubbi. Nello scritto sul romanzo storico, nega paradossalmente la possibilità di scrivere un romanzo storico. Come narratore è portato anzitutto ad affermare il primato della morale, ma constata anche che la storia non ha niente di morale: così le due dimensioni, l’una reale l’altra ideale, risultano inconciliabili. La storia per Manzoni è in sé priva di senso, è «un ammasso di casi staccati, di combinazioni fortuite». La Rivoluzione francese ne ha mostrato il caos e le aberrazioni, ed è questo che ha spaventato Manzoni fin da giovane e ne ha fatto, dice Bollati, «uno degli impediti di agire, dei disoccupati dell’azione che formano la ridottissima falange dei nostri grandi romantici». Si tratta di un’inibizione di fronte all’azione e alla storia, di una vera e propria fobia provocata dai recenti sismi rivoluzionari. Questa inibizione e questa fobia entrano nelle due tragedie manzoniane, Il Conte di Carmagnola e l’Adelchi, con le figure dei loro protagonisti. In entrambi i casi, l’«eroe non tocca il suo oggetto» dice Bollati, e «il grado del suo eroismo si misura unicamente dall’intensità della sua frustrazione». Già nei versi giovanili In morte di Carlo Imbonati, scritti nel 1804, Manzoni aveva stabilito una serie di principi che regolano la morale di coloro che agiscono nella storia. Secondo questi principi, è colpevole chi non agisce, anche se l’azione è criminosa; ogni delitto è accettato e giustificato se ha successo; i «ribaldi» sono sempre in alto «e i buoni in fondo»; se si è giusti da soli si viene sconfitti dalla moltitudine dei «perversi» che spontaneamente si alleano fra loro. Questo rende impossibile qualunque azione rivoluzionaria che voglia restare innocente e regolarsi secondo giustizia e rettitudine. La filosofia manzoniana dell’azione è perciò una filosofia tragica, senza via di uscita:
212 La scelta – spiega Bollati – è tra un agire inevitabilmente votato all’iniquità e all’offuscamento della ragione, e un astenersi soffrendo nella propria anima le pene o i rimorsi della rinuncia: soprattutto se il “secolo” è di quelli nei quali, imperando la politica, non esiste una chiara linea di separazione tra un eroe dell’azione e un ribaldo, mentre d’altra parte una fuga nelle virtù cristiane […] resta una fuga, un insoddisfacente surrogato di buona coscienza.
Adelchi è un eroe che aspira a grandi imprese, ma l’azione nella storia non è che «far torto o patirlo». Il mondo è dominato da una «feroce forza» che pretende di chiamarsi «diritto»; la legge è creata da coloro che hanno saputo usare la forza con successo. Con questa idea non si può agire politicamente, la coscienza morale può conciliarsi soltanto con l’impotenza storica. Un eroe tragico come Adelchi, malinconico e perplesso, esemplifica «l’impossibilità di realizzare virtù umane con strumenti umani nella sfera dell’umano». Nel saggio sulle tragedie di Manzoni, Bollati conclude che non solo i problemi posti dallo scrittore restano irrisolti, ma che «il Risorgimento è stato una sorta di malattia infantile, necessaria ma venuta troppo tardi rispetto alla storia europea entro cui si manifestò, e quindi causa anche di scompensi e di perdite che nessuna boria delle nazioni e nessun ottimismo storicistico riusciranno a cancellare». In questa antropologia negativa, Manzoni si avvicina inaspettatamente a Leopardi, e in entrambi sono leggibili i conflitti irrisolti (o insolubili) dell’intellettuale moderno di fronte alla politica e alla storia. L’eroe intellettuale e l’Italia moderna: può essere questa la formula che racchiude i problemi e i progetti di Bollati, a sua volta intellettuale della seconda metà del Novecento alla ricerca di modelli culturali e figure esemplari nella prima metà del secolo precedente.
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Nel saggio introduttivo su Leopardi prosatore, fra Crestomazia e Operette morali, Bollati insiste sul personaggio-autore, sul rapporto fra lo stile e l’uomo, fra scelte formali e fisionomia morale dello scrittore. Può darsi che in questa idea una certa forzatura ci sia. Ma è esattamente questa la prospettiva che orienta tutte le indagini storiche e letterarie (morali e civili) di Bollati. La sua ricerca ha riguardato tipi e personaggi intellettuali nell’epoca delle accelerazioni storiche che definiamo modernità. Le ramificazioni e le varianti del personaggio o tipo sono molte, coinvolgono apertamente o implicitamente anche il Novecento e possono arrivare fino a Croce, a Gramsci, a Pasolini e Calvino, alla stessa strategia culturale di una casa editrice come la Einaudi. Ma le radici Bollati le cerca, come si è detto, soprattutto in Verri e Leopardi, in Manzoni e Cattaneo. Non per caso tra le prime e maggiori imprese editoriali della Bollati Boringhieri ci sono state le edizioni, nella magnifica collana “Pantheon”, del «Politecnico» (1989), del «Caffè» (1993) e dell’Epistolario di Leopardi (1998). Fra l’intellettuale e la modernità, c’è un terzo elemento: lo stile. C’è la questione, la ricerca del modello formale, dello strumento di conoscenza-espressione. Senza la scrittura il pensiero non prende forma. Quando Bollati cita il ritratto che Leopardi fece di Galileo scrittore, scienziato, esempio di virtù morale e di aristocratica «sprezzatura», indica come un suggerimento prezioso l’idea leopardiana di stile, dello stile che «è l’uomo», del modo di scrivere che è un modo di essere e di pensare. In un’intervista rilasciata alla rivista «Idra» nel 1991, Bollati parlò così dei propri rapporti con lo scrivere: per me la scrittura è il sostituto del pensiero; io non so pensare, né parlare e quindi per avere un pensiero lo devo cercare sulla pagina. La scrittura è il mio cervello, la mia macchina per pensare. È una macchina meravigliosa se uno la sa usare, se ha il dono di saperla usare al meglio: e io invidio chi ha questo dono.
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Bollati ha sempre avuto in mente l’importanza di un’idea di letteratura come guida, sostegno e «forma» di un’intera cultura. Avverso a coloro che hanno «specializzato» il loro studio di grandi scrittori come Manzoni e Leopardi facendosene sfuggire la «totalità», Bollati non ha mai separato in loro letteratura e filosofia, invenzione e pensiero, estetica ed etica. Le stesse polemiche, così provocanti e spavalde di Pietro Verri e del «Caffè» contro una tradizione letteraria italiana sequestrata, mortificata, tramortita dalle accademie, sono polemiche non antiletterarie, ma per una nuova letteratura, per una diversa idea dell’uso linguistico e dello stile. Il più ampio e analitico degli scritti qui raccolti1, quello che riguarda la Crestomazia leopardiana, è focalizzato sul programma di una nuova prosa capace di fondere tradizione classica e necessità moderne. Fu un programma estremamente audace e inventivo. Leopardi creò con quell’antologia la sua tradizione morale e civile. Tentò di immettere il migliore passato letterario nel presente politico. Nelle sue scelte fu parziale, spesso idiosincratico, non interessato a documentare le epoche storiche, ma a mettere la storia al servizio del presente. La sua impresa fu criticata e respinta. Non lo capì neppure il suo più grande ammiratore e amico, Pietro Giordani. Fu quello il momento, l’ultimo nella sua vita, in cui «Leopardi manifesta una chiara volontà di impegno» e in cui tuttavia «accetta la piattaforma di partenza e gli schemi programmatici dei liberali». Da loro, subito dopo e fino alla fine, non cesserà di allontanarsi. Le sue idee e i suoi propositi Leopardi li aveva espressi con la massima chiarezza nella famosa lettera a Giordani del 13 luglio 1821:
1. In G. Bollati, L’inversione dell’Italia moderna. Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima dell’Unità, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
215 Chiunque vorrà far bene all’Italia, prima di tutto dovrà mostrarle una lingua filosofica, senza la quale io credo ch’ella non avrà mai letteratura moderna sua propria, e non avendo letteratura moderna propria, non sarà mai più nazione. Dunque l’effetto che io vorrei principalmente conseguire si è che gli scrittori italiani possano essere filosofi inventivi e accomodati al tempo.
Grande tradizione, una lingua per la filosofia, forme e contenuti adatti al presente. L’avventura della Crestomazia, laboratorio di una prosa che generò le Operette morali, viene descritta in dettaglio da Bollati nella seconda parte del suo studio. Leopardi era e resta uno dei più coerenti e acuti critici della modernità e il suo spirito patriottico si scontrò presto con l’ideologia ottimistica del progresso. Il suo Risorgimento era un altro: «la patria leopardiana», scrive Bollati, «è il luogo dell’accordo finale tra scienza e società da un lato, e interezza umana dall’altro; è lo spazio entro cui tentare in concreto la mutazione di segno, da negativo in positivo, della civiltà moderna». Scienza contro ideologia della storia, modernità senza illusioni, letteratura come custode e strumento di una «interezza umana» aliena dagli specialismi. L’eroe intellettuale moderno per Leopardi doveva avere la sua «voce». Il suo stile non doveva essere «francese», poiché l’Italia doveva rendersi capace di inventare la propria modernità. Non importarla, non copiarla. Costruendo la sua antologia della prosa, Leopardi proietta se stesso negli autori e nelle pagine che sceglie. Appropriazione e identificazione fanno della Crestomazia un’opera di critica autobiografica, il laboratorio di uno scrittore, il suo manifesto stilistico in forma antologica. Sono degli anni Novanta un paio di interventi di Bollati su «MicroMega» e un’intervista all’«Idra», che non vorrei trascurare: in questo caso Bollati parla senza mediazioni e, come
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nelle righe già citate sul suo rapporto con lo scrivere, non si nega all’autobiografia esplicita. Estraggo, per concludere, solo qualche riga in cui il saggista interpreta se stesso o giudica i suoi contemporanei. Ma aggiungo un ricordo personale. Una volta mi fece i nomi dei coetanei che sentiva più vicini e che avrebbe voluto come amici, collaboratori, autori della Bollati Boringhieri: erano Sebastiano Timpanaro, Paolo Volponi, Luigi Pintor, Renato Solmi. Di Calvino dice nell’intervista che «se l’avesse voluto, avrebbe potuto darci il grande romanzo della nostra epoca», ma invece il suo meglio alla fine lo ha dato in un libro perfetto e remoto come Le città invisibili. Molte delle diagnosi formulate in tutti i suoi scritti vengono riassunte così da Bollati nell’articolo Il lavoro culturale, uscito su «MicroMega» nel 1996: Là dove si traccia un confine netto tra arti liberali e arti meccaniche germoglia un altro tipo intellettuale che chiamerò in senso lato radicale (per De Sanctis era il seguace della “scuola democratica”). Il radicale si erge in atto di sfida contro il principe, cioè contro il potere, in nome della libertà di cui è missionario. Se il capostipite del radicalismo politico italiano è Mazzini, non è difficile risalire da lui al maestro letterario che lo ha segnato per la vita, vale a dire Ugo Foscolo e da questo al padre fondatore, Vittorio Alfieri… Questo radicalismo viziato all’origine dura tuttora magari in forme di titanismo gauchiste. Si batte, poniamo, per le garanzie legali e per i diritti civili, ma non prestando alcuna attenzione alla macchina economica, rischia di trovarsi costantemente spiazzato rispetto alle trasformazioni reali.
Bollati ha parlato dell’Italia, degli italiani e della loro cultura. Sulla nostra arretratezza ha tutte le ragioni. Ma per quanto riguarda i valori e i pericoli della modernità, resta diviso fra partecipazione e distacco critico, fra l’attenzione all’utile e l’attenzione allo stile, con il suo Verri e il suo Leopardi senza tentarne una conciliazione forzata.
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Rileggere il Novecento attraverso la poesia (2011)
In un momento di lucidità, sconforto o euforia liberatoria, uno dei più grandi poeti del Novecento scrisse che «la poesia non fa succedere niente». Non molto fa succedere, non grandi eventi. Ma qualcosa sì. È essa stessa qualcosa che accade nel mondo del linguaggio. Per questo vorrei cercare di guardare a quanto è accaduto nella poesia italiana dell’ultimo secolo. Credevamo di saperlo. Ma si tratta sempre di un sapere provvisorio, che si rinnova, molto o in parte, ogni volta che si legge diversamente ciò che si è letto; su cui sono stati scritti saggi e volumi; ma che continua sempre ad aspettare i suoi lettori. Nessuno scrittore, che non sia confuso e guastato dall’ambiente, scrive per i critici o per chi lo studierà: scrive per se stesso e per essere semplicemente letto. Comincio dall’inizio: o meglio da uno dei diversi inizi che possiamo scegliere per capire come e quando è nata la poesia del Novecento. E comincio con un’alternativa che nel corso del tempo si è presentata ripetutamente: l’alternativa fra poesia narrativa e poesia lirica, fra poemetto e frammento, fra discorso e illuminazione. Non si tratta naturalmente di una dicotomia immobile; fra uno stile e un altro ci sono stati passaggi e contaminazioni. Ma se si pensa a un inizio del Novecento di-
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viso, per esempio, fra Guido Gozzano e Giuseppe Ungaretti, diventa facile capire il senso dell’alternativa. Sembra proprio che il Novecento sia stato inventato da poeti nati nel decennio fra il 1880 e il 1890: Dino Campana, Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Piero Jahier, Aldo Palazzeschi, eccetera. Nel 1883 è nato Gozzano, che morì nel 1916 a soli trentatré anni. È stato apprezzato da Benedetto Croce, da Eugenio Montale, da Edoardo Sanguineti, perché riusa l’Ottocento patetico, sentimentale e ironico, teatralizza con personaggi e scenografie la situazione poetica, la situazione del poeta come personaggio connotato in termini di psicologia e perfino di sociologia. I poemetti più noti di Gozzano, La signorina Felicita e L’amica di nonna Speranza, sono novelle in versi. Ungaretti, nato ad Alessandria d’Egitto in una famiglia di emigrati toscani, vissuto a Parigi dal 1912 al 1921, dove studiò alla Sorbona e conobbe Apollinaire, è invece il cosmopolita da cui nascerà l’ermetismo. Il suo primo libro, il migliore e il più influente, l’Allegria, uscito nel 1919, non poteva facilmente fare scuola; era un libro nato nelle trincee della guerra, era un taccuino di appunti poetici scritti in presenza della morte. La straordinaria economia linguistica di quello stile nasceva da uno stato di necessità morale e fisica. In guerra Ungaretti inventa una scrittura poetica adatta a un mondo che va in frantumi, quello di un’Europa che, se potrà rinascere dall’auto distruzione, dovrà farlo riducendo tutto a verità essenziali, a constatazioni elementari. Strano il fatto che l’autore di questo diario lirico, nel quale ogni poesia porta l’indicazione di una data e di un luogo, quasi sempre sul fronte di guerra, abbia inventato l’ermetismo con il suo secondo libro, Sentimento del Tempo, del 1933. Più che di un “ritorno all’ordine”, si trattò di un processo di astrazione e assolutizzazione del linguaggio poetico. Tempo ora è scritto con la maiuscola, non è più il tempo cronologico, è il Tempo come “durata” psichica e come categoria trascendentale. L’autobiografia (che in forme diverse,
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narrative e metricamente tradizionali caratterizza Gozzano) è anche la materia del primo libro di Ungaretti. Ma poi il suo linguaggio poetico derealizza e simbolizza l’autobiografia. In Sentimento del Tempo compare una delle più tipiche poesie ermetiche, L’isola, analizzata attentamente da Hugo Friedrich in Struttura della lirica moderna come esempio di un’oscurità che deriva da Mallarmé, Apollinaire, Valéry, ma anche da Góngora, che Ungaretti apprezza e traduce. La prima cellula dell’ermetismo si trova già nell’Allegria ed è la più breve, oltre che la più famosa e proverbiale, poesia italiana del Novecento: «M’illumino / d’immenso». Non facile da tradurre, nonostante l’estrema semplicità, se Ingeborg Bachmann ha dovuto tradurla, rendendola più pesante: «Ich erleuchte mich / durch Unermessliches». Qui l’immenso, ciò che non ha misura e non può essere determinato, invade l’io annullandone i limiti, facendolo sparire e rendendolo incondizionato. La tecnica stilistica degli ermetici lavorò proprio a sottrarre determinazioni grammaticali e a sublimare il lessico. Non potendo procedere cronologicamente a una descrizione del Novecento dall’inizio alla fine, propongo alcune idee, o meglio antitesi, oscillazioni e contrapposizioni, che hanno a lungo orientato il conflitto critico fra poetiche. La prima antitesi è già stata illustrata dalla coppia GozzanoUngaretti e riguarda l’alternativa, il bivio, fra lirismo e discorsività. Nell’idea di linguaggio poetico moderno sembra essere questa la contrapposizione maggiore, e vale anche per l’Italia. Enfatizzando il lirismo si teorizza e si pratica la lirica come lingua speciale che (secondo la formula di Mallarmé) vuole dare «un sens plus pur aux mots de la tribu». Questo è sempre avvenuto. Ma è questione di misura. Nel caso del simbolismo e più tardi dell’ermetismo (ma anche delle avanguardie), il rifiuto della comunicazione e della tradizione produce un’idea di testo poetico come oggetto linguistico alieno. Si tratta di una specie di misantropia letteraria che oppone poesia e pubblico,
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poesia e senso comune o esperienza comune. La teoria di Croce, che nella sua Estetica vede la poesia come una creazione linguistica che non presuppone un codice (una parole senza una langue), è molto prossima a questa idealizzazione del linguaggio poetico. Solo che Croce non prevedeva l’ermetismo formalistico implicato da questa idea. Se la lingua poetica produce se stessa con un puro atto creativo originario senza presupposti, o è una superlingua svincolata da ogni legame di contingenza comunicativa e ignora (ieraticamente o provocatoriamente) i lettori; o diventa un idioletto, la lingua paradossale inventata da un solo individuo creatore, una non-lingua. In termini più tecnici, va nella stessa direzione anche la teoria di Roman Jakobson secondo cui esisterebbe una funzione poetica del linguaggio distinta dalle altre funzioni (emotiva, conativa, referenziale, fatica, metalinguistica). Ma, come è stato osservato, è più verosimile che anche in letteratura non ci sia una letterarietà allo stato puro e che in poesia le varie funzioni del linguaggio giochino e interagiscano fra loro senza escludersi: secondo i momenti, le circostanze, le epoche, le intenzioni, le caratteristiche degli autori, e infine il tipo di genere letterario. Difficile, per esempio, pensare a una poesia satirica o politica che escluda la funzione referenziale, quella conativa o fatica, che implicano rapporto con il contesto e con il lettore. Ma nonostante le più insistenti e autorevoli teorizzazioni della lirica moderna “monologica”, la discorsività (narrativa, diaristica, argomentativa) non è stata assente nel Novecento. I casi più frequenti sono quelli in cui discorsività e lirismo convivono, si alternano, si mescolano. In Montale, per esempio: affine, in questo, sia a Eliot sia a Benn. La poesia narrativa di Gozzano è piaciuta, come ho detto, a critici molto diversi e lontani nel tempo: un filosofo idealista come Croce, un poeta spesso oscuro ma anche raziocinante come Montale, un neoavanguardista informale come Sanguineti. Ma la poesia diaristica, emotiva, comunicativa di Umberto
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Saba, il più lontano dalle correnti e dai movimenti modernisti, è una poesia che è diventata un modello soprattutto dopo il 1945. Da Gozzano e Saba hanno imparato Sandro Penna, Vittorio Sereni, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici. Alla formula «letteratura come vita» (Carlo Bo), reversibile in «vita come letteratura», i poeti più discorsivi e “relazionali”, più dialogici che monologici, sembrano opporre la formula contenuta nel titolo più famoso di Giudici: La vita in versi. Da un lato la vita, che è quello che succede che sia. Dall’altra i versi, una tecnica molto particolare e vincolante per dare forma a ciò che sembra non avere, in sé, né forma né un senso precisi: tanto meno senso e forma letterari. È chiaro che questo tipo di poesia tende a intrecciare le diverse funzioni del linguaggio piuttosto che a selezionare la sola funzione poetica procedendo per depurazione e per esclusione di oggetti, temi, forme verbali. Un poeta «di tutta la vita» come Saba (la definizione è di Elsa Morante) esercita un artigianato metrico tradizionale, a volte semplice e a volte sofisticato, perché solo scrivendo versi riesce a capire come dare forma a tutto ciò vede e gli succede. Il suo Canzoniere è una specie di romanzo in versi. In tempi di dominio dell’ermetismo, un poeta come Saba è stato tenuto ai margini, è sembrato regressivo e premoderno. Ma, dice Pasolini in sua difesa, «Saba è il più difficile dei poeti contemporanei» proprio per il suo anacronismo apparente, che mostra, in realtà, la contemporaneità di ciò che non sembra contemporaneo, costringendo a non considerare il tempo storico come unilineare e progressivo, ma discontinuo e stratificato. Saba appartiene a quel genere di poeti moderni, come Kavafis, Machado, Frost, William Carlos Williams, che non hanno praticato l’esperanto modernista, lo stile internazionale, ma appartengono a una tradizione specifica: una certa forma di onestà e di umiltà realistica che dà alle loro poesie il sapore di un dove e di un quando.
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Anche Pasolini ha scelto fin dall’inizio un antimodernismo apertamente autobiografico. I suoi poemetti riprendono Pascoli, alludono a Dante e somigliano a reportage teatralizzati e drammatizzati. Oscillano fra l’esame di coscienza, la confessione in pubblico e l’invettiva. La seconda idea o antitesi, soprattutto fino a qualche decennio fa, è stata proposta nei due termini di avanguardia e restaurazione. La critica neoavanguardista in Italia ha ragionato a lungo usando questo schema: ciò che non è avanguardia è restaurazione. La più evidente aporia di una tale opposizione di origine politica o militare è che ha bisogno di una fede storicistica e progressista. L’aumento di libertà e creatività sembrerebbe dovuto all’immissione di “disordine” e a una continua ricerca del “nuovo”. I primi a mettersi su questa strada in Italia sono stati i futuristi. Ma il migliore dei poeti futuristi, Aldo Palazzeschi, scrive testi che suonano subito come una beffarda autoparodia del futurismo. Inoltre il pacifico Palazzeschi non sembra proprio aver creduto, come Marinetti, nella «guerra sola igiene del mondo». Un «saltimbanco» dell’anima, come lui stesso si definisce, ha una sola richiesta da fare nel suo programma: «lasciatemi divertire». Ma il nichilismo avanguardista non sempre ha il senso del comico e del ridicolo: nasconde un’ideologia della storia che marcia verso il futuro distruggendo il passato per espandere indefinitivamente un’ipotetica libertà da ogni vincolo. Il futurismo di Marinetti (non quello dei pittori) aveva spesso l’aria di essere una caricatura estetica anticipata dello stile fascista. La neoavanguardia di mezzo secolo dopo, o Gruppo 63, era già un’accademia dell’avanguardia, era un’avanguardia di professori che teorizzano l’avanguardia come solo modo possibile di essere «assolutamente moderni». Ma se ci si pensa, quel famoso imperativo di Rimbaud conteneva un evidente ossimoro: il tempo storico non sopporta assoluti, la modernità è una contingenza.
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Lo schema oppositivo “avanguardia contro restaurazione” ignora la pluralità e l’imprevedibilità della produzione letteraria, e di fatto impedisce e paralizza l’attività critica, trasformandola in un repertorio di giudizi a priori. L’idea di modernità viene concepita come un processo ininterrotto che guarda sempre avanti e vede nel futuro tutte soluzioni e nessun problema. La terza idea riguarda il rapporto, più obiettivo e meno ideologico, fra tradizione e innovazione, e soprattutto fra passato e presente della poesia. In verità la poesia moderna, più che essere descrivibile come un linguaggio internazionale governato da un solo tipo di struttura, è stata un insieme di molte voci, sia concordi sia discordanti. Ci sono state tendenze che valorizzavano il formalismo, il gioco dei significanti, l’antirealismo, la fuga dal significato eccetera. Ma c’è stata anche una modernità carica di significati stabili e perentori, un’avanguardia specializzata in forme comunicative efficaci e contundenti: non solo quella di poeti politici del tipo di Majakovskij e di Brecht, veri tecnici della comunicazione intensificata, ma anche un neometafisico come Eliot e un surrealista virtuosistico come Lorca, entrambi interessati alla poesia barocca, a John Donne e a Góngora, capaci di passare dal nonsense ludico alla denuncia morale. Il rapporto con il passato ha avuto un netto mutamento dopo il 1945. Se vogliamo usare una categoria abusata da alcuni e respinta da altri, qui si dovrà parlare di postmoderno e di postmodernità. C’è chi ha preferito parlare di poetica postmoderna come fase ulteriore e finale della modernità. Più interessante, credo, è constatare l’avvento di una situazione nuova, nella quale il passato artistico si è enormemente dilatato e un poeta può sentirsi vicino a Catullo, a Orazio, a Villon, a Leo pardi, a Brentano piuttosto che a Whitman o Baudelaire. Il passato dei poeti moderni tendeva a limitarsi alla modernità. Il passato della poesia postmoderna si è esteso improvvisa-
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mente a tutti i secoli, nessuno escluso. Mi sembra perciò che sia nato un neoclassicismo eclettico. I sintomi metrici parlano chiaro: tornano i versi regolari, le strofe con i loro schemi, le rime. Il cosiddetto “io trascendentale” e non empirico della lirica moderna, precedentemente teorizzato, sembra completamente sparito, ed è sparito il malinteso dovere di scrivere poesie in versi liberi e di provvedere a un preliminare svuotamento o stravolgimento semantico degli enunciati. È diventato naturale e ovvio, invece, dire qualcosa e parlare di sé in versi che suonano come versi e perfino in strofe regolate da un certo sistema di rime. Uno dei primi e più consapevoli poeti classificabili come postmoderni, Wystan H. Auden, ha riportato nella poesia del Novecento una straordinaria varietà di forme metriche tradizionali. In Italia Pasolini ha voluto scrivere in terzine (pseudo-dantesche, o allusivamente dantesche) i suoi poemetti civili. Il sonetto manieristico o “ipersonetto” è tornato con Zanzotto, che ha usato anche il distico di alessandrini a rima baciata. Caproni ha sempre prediletto canzonette, strofette, epigrammi e litanie in versi brevi rimati: ed è stato uno dei poeti più letti e amati alla fine del Novecento. Giudici ha studiato Pascoli, evidentemente ha letto Gozzano e in parte gli somiglia, ama Saba e Antonio Machado ed è uno dei più abili artigiani del verso. Così, attraverso l’artigianato metrico, ridiventa attuale e presente un lunghissimo passato, da Guido Cavalcanti a Metastasio, a Pascoli. Aggiungo per concludere, come eventuale correttivo alle idee e antitesi precedenti, il principio più ovvio, ma che più facilmente viene dimenticato nel discorso critico. Il fatto cioè che la letteratura è un universo pluralistico. Al di qua e al di là delle idee, delle tendenze, delle tipologie formali e delle periodizzazioni storiche, c’è la singolarità degli autori, ognuno un mondo, o una monade, un punto di vista sul mondo. Quando si legge poesia si entra nella singolarità, anche se l’autore esibisce una continuità con modelli precedenti. Quando si parla
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di poesia si comincia istintivamente a costruire una rete di argomenti, un sistema di nessi, comparazioni e correlazioni. La critica non “spiega” la poesia, ne parla a modo suo. La critica è un parlare di poesia. Se ne può parlare nei più diversi modi, per gli scopi più diversi e secondo le circostanze.
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Il Novecento che si allontana (2014)
Nessuno può dubitare che il Novecento sia finito. Ma quando e come è finito? Da quali segni e fenomeni si evince che la continuità si è interrotta? L’edizione aumentata e aggiornata dell’ultimo volume della Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni è uscita già da un anno, ma continuo a sfogliarla e rileggerla cercando di capire che cosa contiene, che cosa rivela o nasconde quel sottotitolo aggiornato: «Il Novecento e il nuovo millennio». A che cosa sostanzialmente fa pensare una tale formula, che sembrerebbe soltanto informativa? È certo che gli anni passano, che qualcosa di nuovo si aggiunge al passato. Qualcosa cambia, qualcosa si perde e si dimentica. Soprattutto se si tratta di un’intera letteratura, i cambiamenti sono molti e possono confondere le idee. Oggi c’è un clima generale diverso. Ma d’altra parte si ha o si vuole avere l’impressione che “tutto sommato” si vada avanti più o meno come prima. Gli autori hanno altri nomi, ma non cambia il nome di quello che fanno: si scrivono romanzi e poesie, si fanno recensioni, escono libri di saggistica e di critica. Ci sono, come prima, il premio Strega e il premio Campiello, che ogni giovane vuole. A Torino c’è la Fiera o Salone del libro. Poi c’è la Milanesiana, c’è Massenzio, e “Libri come” e “Più libri, più liberi”…
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Ma se devo interpretare il punto di vista di uno storico della letteratura, in questo caso Ferroni, mi sembra che sia lui per primo ad avvertire la fine di un’epoca letteraria che aveva mantenuto per cinquanta o cento anni caratteristiche relativamente costanti, anche nel passaggio da modernità a postmodernità. Pubblicando nel 2012 un saggio su Giudici e Zanzotto, non era un caso se Ferroni lo ha intitolato Gli ultimi poeti, cosa che ad alcuni, specie ai più giovani, non è affatto piaciuta. Ultimi? Ma come? E noi chi siamo? La poesia continua a vivere, il presente esiste, ha preso il posto del passato e guarda al futuro. La parola “ultimi” non credo però che vada presa troppo alla lettera e in assoluto. Si dovrebbe intendere come: «gli ultimi poeti di un’epoca in cui i poeti avevano certe caratteristiche oggi più difficili da trovare, perché loro appartenevano a pieno titolo al Novecento, un secolo finito». Dunque: quando è finito il Novecento? La sua fine non mi sembra sia un fatto accaduto fra il 1999 e il 2000. Il Novecento ha cominciato a finire prima, è finito più volte, potrei dire che è finito tre volte. Si è trattato di un processo scandito in circa tre decenni, mentre per altri versi qualcosa di quel secolo vive tuttora. In questo o quel punto del sistema letterario la memoria della cultura novecentesca agisce ancora. Due critici nati negli anni Cinquanta e dotati di un notevole senso del passato e della storia (ma un critico smemorato non è un critico), come Giorgio Ficara e Raffaele Manica, intitolarono alcuni anni fa le loro raccolte di saggi rispettivamente Stile Novecento ed Exit Novecento. Non può essere una banale coincidenza. Credo che ci siano state da parte degli autori una precisa intenzione e una chiara intuizione di ciò che è avvenuto. Almeno nella letteratura italiana, uno stile è finito, uno stile che nonostante le sue varianti, ramificazioni e divaricazioni si spiegava e si generava a partire da presupposti che da un certo momento in poi (nel corso degli anni Novanta, mi pare) sono venuti meno.
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Secondo alcuni pessimisti non si è perso “uno” stile, si è perso o è sempre più raro “lo stile”: almeno se si pensa che lo stile sia un valore e non un fatto che in arte si dà comunque, buono o cattivo che sia. Mi sembra che stia aumentando il numero di coloro secondo i quali tutto “a suo modo” è cultura ed è a suo modo arte anche l’intenzionale o inconsapevole negazione dell’arte intesa come lavoro sulla forma, eccellenza tecnica, abilità e originalità. Per chi crede che lo stile sia un valore, la critica non ha senso se non valuta e giudica. Per chi crede invece che lo stile sia un fatto, la critica è registrazione di eventi che esistono come puri eventi, tutti di pari dignità, per i quali viene rivendicato il diritto di ricevere attenzione. Piacciano o non piacciano e quanto valgano, è allora del tutto secondario: ogni prodotto è artistico se si presenta come artistico e va quindi accuratamente descritto e interpretato. Le avanguardie novecentesche fondavano su questo principio la loro strategica e tattica forza d’urto. Non importa che molta letteratura futurista e surrealista risulti illeggibile: è indubbiamente un fatto e quindi anche un valore letterario. Non importa che molta pittura e scultura moderna (ammesso che la distinzione sussista) siano a malapena guardabili dopo un primo sguardo: sono prodotti esposti e conservati nei musei e nelle gallerie d’arte, critici autorevoli si sono applicati a darne sofisticate o sofistiche interpretazioni e dunque guai a chi osa dire, ad esempio, che da un certo punto in poi Picasso ha prodotto solo merci artistiche facilmente realizzabili da vendere a caro prezzo, che Duchamp è stato solo un brillante provocatore e Andy Warhol un astutissimo mercante. Nelle arti visive il Novecento non è ancora finito, le repliche continuano. In letteratura molta della qualità novecentesca si è perduta. Già con la seconda metà del secolo il romanzo, la poesia e la critica non hanno dato più niente di paragonabile alle opere di Proust, Joyce, Svevo, Mann, Kafka, Musil,
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Yeats, Apollinaire, Blok, Machado, Eliot, Lorca, Benn, Lukács, Spitzer, Šklovskij, Benjamin… La postmodernità ha prodotto Borges, Auden, Camus, Beckett, Nabokov, Grossman, Morante, Yourcenar, Celan, Calvino, Enzensberger, Barthes, Steiner… È con questi autori che il Novecento si conclude. Ognuno di loro è stato consapevole del suo venire dopo, del suo essere “post” rispetto ai classici di primo Novecento. Anche questa coscienza era un tipo di continuità. Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”. Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica non cambiò solo la società letteraria, cambiò l’idea di letteratura, la figura dello scrittore e il modo di produrre, consumare, interpretare la letteratura. Generi lungamente e anche proficuamente messi in discussione, come il romanzo e la poesia, riacquistarono una forma convenzionale, quella che permette oggi al romanzo di “fare mercato” (a dominare è il modello del best seller narrativo, reale o potenziale) e che permette alla poesia di entrare in una circolazione fluida, fra letture pubbliche e presenza in rete, una circolazione che quasi non prevede più una vera e propria lettura, il che mina la stabilità formale dei testi, dati per poetici perché si presentano come poetici. Una simile situazione non è più neppure postmoderna: non presuppone la modernità, la ignora e quindi non può che mettere in difficoltà il lavoro e il ruolo della critica. Anche uno storico e critico molto informato e militante come Ferroni da anni parla ripetutamente di “angoscia della quantità”. Il postNovecento è dunque, come disse Cesare Garboli, l’epoca in cui “tutti scrivono” rivendicandone anzitutto il diritto. La scena letteraria è affollata di decine e centinaia di nuovi autori in cerca di “visibilità”, mentre la qualità dell’atto di leggere tende gradualmente a scadere in “lettura distratta”. Dilatandosi enormemente, la nozione di letteratura perde la fisionomia che aveva conservato ai più alti livelli nel corso del Novecen-
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to, quando l’idea di testo letterario e della sua priorità, le tecniche di analisi formale e linguistica, l’enfasi sull’importanza della lettura avevano provocato riflessioni e discussioni ininterrotte e appassionate. Dagli anni Novanta e con l’inizio del nuovo millennio è cresciuta piuttosto l’importanza del mercato, del consumo librario come che sia, della presenza del personaggio-autore nei festival e nei media di massa vecchi e nuovi. Per tutto il Novecento, anche nelle sue ribellioni e turbolenze, la letteratura viveva tenendo presente la storia della letteratura. Oggi si va verso una letteratura o postletteratura che vive in uno spazio non più storico e che sembra “non fare storia”. Per questo, sebbene priva dell’autorità che ha avuto in passato, la critica sta diventando il solo luogo in cui la letteratura continua almeno in parte a prendere coscienza di se stessa, dei propri precedenti e del proprio passato. Se mi si chiedesse quali sono stati gli ultimi scrittori italiani ancora pienamente, esemplarmente novecenteschi e con i quali il secolo scorso si è chiuso, credo che farei i nomi di Raffaele La Capria, Cesare Garboli, Piergiorgio Bellocchio. Scrittori al di là dei generi letterari, che hanno praticato tuttavia in prevalenza il genere saggistico. Eppure in tutti loro agisce sotto la superficie una vocazione e attitudine di narratori che è superiore, mi sembra, a quella che si trova in molti autori di romanzi. È la narrazione autobiografica, è la critica in senso lato culturale o “critica della vita” che fanno la sostanza e l’energia della loro scrittura. La Capria ha scritto romanzi, il più famoso e apprezzato dei quali, Ferito a morte (1961), è però già un romanzo più autoriflesso e poetico che propriamente narrativo. In quel libro La Capria sembra influenzato dalla tessitura musicale e saggistica dei Quartetti di Eliot più che da altri romanzieri. Tutta la seconda metà della sua opera, da L’armonia perduta (1986) in avanti, è saggistica autobiografica per episodi ed emblemi
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(Guappo e altri animali), autobiografia di un lettore (Letteratura e salti mortali) e critica sociale. Cesare Garboli ha sempre negato di essere un critico letterario, pur essendo stato colui che ha più modificato lo stile della critica e i temi della critica negli ultimi vent’anni del Novecento: accentuandone a volte scandalosamente il carattere soggettivo. Come quella di Roberto Longhi o di Giacomo Debenedetti, la sua prosa è una delle più complesse, analitiche, perfettamente scandite e visionarie della nostra tradizione novecentesca. Scritti servili (poi Storie di seduzione) e Falbalas sono indagini sulla fisiologia dell’invenzione letteraria e diagnosi delle patologie che legano ogni autore al suo habitat e ai suoi libri. Piergiorgio Bellocchio è uno scrittore morale e satirico, viene da una lunga tradizione che va da La Rochefoucauld a Flaubert, da Kraus a Kubrick. I suoi libri sono fatti di aforismi, microracconti, recensioni e pirotecnici pezzi comici sull’inaridimento e sulle parodistiche deformità della vita nella società contemporanea. Il mondo borghese di un tempo era certo affliggente e ipocrita, ma quello postborghese è l’apoteosi della stupidità fatta metodo. È così, secondo Bellocchio, che il Novecento è finito.
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Quando i libri di critica facevano discutere (2015)
La ripubblicazione in questi ultimi anni di alcuni libri che furono o sembrarono importanti decenni fa, come Classicismo e illuminismo (1965) di Sebastiano Timpanaro, Scrittori e popolo (1965) di Alberto Asor Rosa, I segni e la critica (1969) di Cesare Segre, induce a riconsiderare la storia della nostra critica letteraria nell’ultimo mezzo secolo. Per entrare in dettaglio ci vorrebbe uno studio esauriente e sarebbe necessario tracciare un profilo di ogni singolo autore. Qui mi limiterò a proporre qualche interrogativo e qualche schematica considerazione generale. Che cosa resta, ad esempio, del decennio Sessanta, quando la critica sembrò più rilevante del suo oggetto, cioè della stessa letteratura? Fu un grave difetto, che in tempi recenti si è rovesciato nel suo contrario: la nuova letteratura fa volentieri a meno della critica, o la vorrebbe trasfigurata in accompagnamento promozionale e poco meno che pubblicitario. Ho l’impressione che oggi, nonostante la passione e l’intelligenza con cui alcuni la esercitano, la critica letteraria sia entrata di nuovo in una zona d’ombra. Ha scarsa visibilità, scarsa autorità e scarsa influenza. Il fenomeno potrebbe essere meno nuovo di quanto sembri. Il nostro sguardo sul passato storico deforma e
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idealizza la realtà. Molti grandi critici sono stati, senza dubbio, dei veri legislatori: dai fratelli Schlegel a Sainte-Beuve, a Croce, a Wilson. Non è detto comunque che la letteratura abbia sempre ubbidito a coloro che la teorizzavano e la giudicavano. La letteratura italiana del Novecento non ha certo seguito Croce, ha cercato anzi ragioni di vita proprio nei territori in cui il prestigioso filosofo non aveva intenzione di avventurarsi. E neppure Giacomo Debenedetti, così genialmente intimo allo spirito della nuova letteratura che si era annunciata con Proust e Pirandello, riuscì a orientare molto i suoi contemporanei. Ma oggi i problemi sono diversi. Globalizzazione e comunicazione hanno preso il comando in tutti i campi del sapere e della vita sociale. La globalizzazione impone in letteratura forme e valori di risonanza planetaria, di fronte a cui il giudizio di un critico italiano, che si occupi di autori italiani, appare irrilevante. La comunicazione, incomparabilmente più veloce e capillare che in passato, è causa ed effetto della globalizzazione: nelle arti crea l’identità immediata (simultanea) di successo e valore. Perciò applicarsi alla valutazione di un pessimo best seller, immaginando di delimitarne il successo, non ha senso. Il giudizio critico arriverà soltanto a quel centinaio o migliaio di persone che dispongono già di criteri propri per giudicare e che di solito, quindi, non accettano facilmente di cambiare idea. Intanto il libro più venduto, che siano sostanziali o marginali i suoi difetti, diventa comunque un punto di riferimento: indica che cosa piace al grande pubblico. E dato che ogni autore, soprattutto se scrive romanzi, vuole essere venduto, letto e apprezzato da molti, nel più breve tempo possibile e senza aspettare il futuro, gli sarà utile sapere quali sono i gusti dominanti nel lettore medio. Ho sentito dire per esempio da un docente universitario di letteratura che Stephen King è il Balzac della nostra epoca. È vero: la nostra epoca merita Stephen King, e non sente il bisogno di un Balzac in cui specchiarsi e prendere più approfondita coscienza di sé.
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Comunque, anche le frasi dette senza pensarci molto hanno un senso. Ho capito subito che un’affermazione del genere non aveva bisogno di essere vera o falsa: era di moda e cominciava a esserlo anche fra gli studiosi di letteratura che giudicano i libri secondo la legge darwiniana della sopravvivenza del più adatto. Del resto, quando pubblicò Il nome della rosa, Eco chiese sornionamente a Paolo Volponi se il suo romanzo non gli sembrava all’altezza dei Promessi sposi. Sornione in effetti è oggi, molto spesso, anche il linguaggio dei recensori, che a fatica lasciano trapelare i loro veri pensieri. Giudicare male un libro è più impegnativo e compromettente che accoglierlo con ambivalenti formule di cortesia.
L’impronta di Adorno, Barthes e Fortini Nei lontani anni Sessanta, quando cominciai ad appassionarmi alla critica, alla sua epistemologia e al suo linguaggio, la moda era un’altra: si doveva essere severi, radicali, esigenti e magari, come Adorno o Barthes o Fortini, brillantemente spietati. La posta in gioco allora era alta: accettare o rifiutare la società borghese e capitalistica. L’intero sistema sociale, la sua industria culturale e i suoi apparati ideologici di Stato, meritavano i peggiori sospetti. Producevano inganni ideologici, false apparenze, mercificazione della vita, discriminazione sociale e dominio imperialistico. Gli autori classici di riferimento, con i loro numerosi seguaci, erano Marx, Freud, Nietzsche. La letteratura, sempre sospettata di essere sublimazione, copertura, estetizzazione della realtà, appariva come un oggetto da smontare. Neppure la filosofia, d’altra parte, veniva risparmiata: era a sua volta sospettata di contenere concettualizzazioni metafisiche alienanti, di trasformare per esempio categorie logiche (costruzioni di pensiero) in categorie ontologiche (dati di realtà). Secondo Marx, Nietzsche e Freud, sotto l’arte e la filosofia si nasconde-
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vano istinti primari e interessi materiali. Al pensiero non restava dunque che la Scienza, la Teoria: scienze e teorie sociali, politiche, psicologiche, antropologiche, linguistiche e infine anche letterarie. Dalla Germania veniva la Kritische Theorie di Max Horkheimer e Theodor Adorno. In Francia, marxismo e strutturalismo rimodellavano i metodi delle Sciences Humaines. Un critico letterario sprovvisto di teoria veniva giudicato inattendibile, impresentabile: un dilettante ignaro di saperi certi, che procedeva per impressioni e opinioni personali, gusti e valori. L’intelligenza del critico veniva demandata all’applicazione della teoria: effetto collaterale negativo di questa priorità teorica fu però che qualunque critico poteva sembrare scientifico, credibile, capace, autorevole solo per il fatto di usare terminologie teoriche. Più che essere considerato centrale, come continuamente si ripeteva, il testo letterario era per definizione la sola realtà letteraria da prendere in considerazione: sembrava che il testo si scrivesse e si leggesse da sé. Dove fossero e se avessero esistenza vera il lettore e l’autore, non era chiaro. Quella critica teoricamente predeterminata riusciva a prevedere solo l’assolutezza irrelata del testo, sul cui valore si sospendeva il giudizio. Anche il più banale dei testi poteva essere pretesto di funambolici esibizionismi analitici. In questi paradossali vicoli ciechi si consumò nel corso degli anni Settanta una critica “metodologica”, originariamente ispirata da un ottimo manuale metodologico, uscito negli Stati Uniti nel 1942 e divenuto influente in Europa e in Italia nel decennio successivo, Teoria della letteratura di René Wellek e Austin Warren.
Il peso di Asor Rosa e Segre Naturalmente il ventennio della teoria era stato attraversato anche da esperienze non riconducibili a questo schema. Al critico-scienziato si era affiancato il critico-politico, non senza in-
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terferenze, contaminazioni e sovrapposizioni. Se si rileggono libri come I segni e la critica di Segre e Scrittori e popolo di Asor Rosa sembra di essere in due mondi diversi. Le differenze sono subito chiare, ma si può anche notare qualche imprevista affinità. In Segre, dietro gli aggiornamenti struttural-semiologici c’erano una solida preparazione filologica e una buona dose di cautela storicista. In Asor Rosa, dietro l’estremismo politico c’era l’idea di una non facilmente definibile, né in effetti definita, “scienza operaia” che mascherava un vuoto piuttosto imbarazzante di esperienze e competenze letterarie, un difetto di metodo e una elementarità ideologica di giudizio, non molto adatta a valutare e interpretare le migliori opere letterarie. Si pretendeva in ogni caso di procedere secondo scienza, nella netta separazione fra strumenti di analisi e oggetto di analisi. Anche in questo caso, come negli strutturalisti, fra il linguaggio letterario e il linguaggio critico veniva stabilita una distanza igienica. Come se i procedimenti conoscitivi, per essere obiettivi, dovessero escludere qualunque partecipazione dialogica. E come se la letteratura non fosse in se stessa una forma di conoscenza, benché non disciplinarmente specializzata. Inoltre la soggettività del critico veniva sublimata, abolita o meglio occultata, ridotta alle manovre di descrizione e di smontaggio, di “demistificazione” dell’ideologia letteraria, o di oggettivazione analitica delle funzioni linguistiche. Nello stesso periodo erano stati pubblicati anche libri di superiore complessità come Verifica dei poteri di Franco Fortini e Classicismo e illuminismo di Timpanaro. Il punto di vista politico sulla letteratura scelto da Fortini aveva una mobilità, una sottigliezza dialettica e una apertura storica internazionale molto maggiore rispetto alla statica, sommaria semplificazione operata da Asor Rosa nel denunciare come populistica la maggior parte della nostra letteratura dal romanticismo a Pasolini. E Timpanaro, filologo classico e studioso di Leopardi, mostrava di procedere con un senso storico ben più concreto
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e documentato. Ma i libri di Fortini e di Timpanaro, anche se rispettati, ebbero minore fortuna: non offrivano maneggevoli passepartout metodologici o ideologici, non avevano niente di manualistico né di pamphlettistico.
Il miglior teorico italiano? Franco Brioschi Nell’arco di alcuni anni, si arrivò a una saturazione di metodi che diventavano teorie, di scienza scopertamente ideologizzata, di neutralizzazione delle opere letterarie, considerate “materia” per vivisezioni da laboratorio o da seminario universitario. La letteratura era stata messa in quarantena come un malato pericolosamente contagioso. Ma anche la critica letteraria, abbandonando la sua tradizione classica e saggistica, si era inaridita vietandosi asceticamente tutta una varietà di modi di avvicinamento e contatto con la realtà letteraria. È a questo punto che entrò in scena con discrezione e autorità il nostro migliore teorico, Franco Brioschi. La sua cultura non si limitava alle vicende del formalismo, dello strutturalismo e della semiotica: contaminava la filosofia di Leopardi con quella di David Hume, la filosofia dei linguaggi artistici di Nelson Goodman con Eliot e Debenedetti, il pragmatismo e la filosofia analitica con Gramsci. Il suo modo di ragionare teoricamente senza combinare e applicare teorie ready made, sembrò provocatorio e quasi inconcepibile. Mostrava infatti inaspettatamente quanto limitate e poco fondate fossero le teorie che dal Formalismo russo di primo Novecento erano arrivate a conquistare, o meglio a creare, la “nuova critica”. Brioschi capì subito che quella che si presentava come scienza del testo letterario era una cattiva e straordinariamente limitata teoria della letteratura. Il nostro mondo universitario fu sorpreso e sconcertato. Venivano minate le fondamenta di un intero edificio di analisi, ricerche, progetti. La difesa dell’au-
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tonomia dell’arte che aveva ispirato i formalisti russi, la loro idea che non conta la letteratura ma la sua essenza linguistica, cioè la Letterarietà, aveva condotto alla separazione operata da Roman Jakobson tra “funzione poetica” del linguaggio e altre funzioni linguistiche. In collaborazione con Costanzo Di Girolamo, che pubblicò nel 1978 Critica della letterarietà, Brioschi avviò una radicale revisione che fece fatica a farsi strada, ma si impose a metà degli anni Ottanta, quando comparve il suo libro La mappa dell’impero. La precedente teoria, considerata da quasi tutti indiscutibile, crollava sotto i colpi di autentiche e argomentate obiezioni teoriche. Invece che essere riconosciuta come una serie multiforme di fenomeni storicamente differenziati nelle varie culture, la letteratura era stata ridotta proprio dalla teoria a essenza separata e separabile, funzione linguistica autoreferenziale e sempre uguale a se stessa, che si trattasse di Mallarmé o di Tolstoj, di Shakespeare o di Kafka. Furono Brioschi e Di Girolamo a segnalare di nuovo, con argomenti socio-antropologici e di filosofia del linguaggio, quella che in passato sembrava un’evidenza di senso comune: la letteratura come forma di esperienza e di conoscenza, modo di comunicare, di rappresentare e di esprimersi degli esseri umani in società storiche caratterizzate. Un tale punto di vista permetteva di evadere dal concetto generico e sfuggente di écriture (che nel primo Barthes aveva avuto un senso preciso), riabilitando i generi letterari, le tradizioni stilistiche, i rapporti fra scrittori e pubblico.
La critica letteraria è ancora necessaria? Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, senza questa scossa teorica, rigorosamente antiteorica, sarebbe stato difficile perfino giustificare il ritorno alla storiografia letteraria e alla saggistica critica. Alle imprese storiografiche
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di Remo Ceserani e Lidia De Federicis, di Giulio Ferroni, di Romano Luperini, si affiancò una progressiva intensificazione della critica, più o meno militante, di tipo saggistico. Molto si deve alla suggestione esercitata prima dalle opere postume di Giacomo Debenedetti (a partire dal Romanzo del Novecento) e poi dall’esempio di Cesare Garboli sulle pagine di «la Repubblica», con cui dal 1986 ebbe inizio la sua collaborazione. Si trattava di due critici che pur appartenendo a generazioni diverse (Debenedetti era nato nel 1901, Garboli nel 1928) incarnavano come pochi altri il saggismo critico, l’uso del saggio come genere letterario. Per capire, definire, descrivere “che cos’è la letteratura” in senso empirico, cronistico e storico, entrambi mostravano che si doveva saper parlare di tutto: di biografie e situazioni ambientali, di stile e di psicologia, di gusti e di mode, caratteri e destini, idee generali e miti personali. Oltre che la figura del critico-scrittore, tornò a fare scuola la critica letteraria (nonché sociale e politica) di narratori e poeti: i saggi di Montale, di Pasolini, Calvino, Zanzotto, Manganelli, La Capria cominciarono a essere apprezzati più di quanto fosse mai avvenuto in precedenza. I critici e i recensori tuttora in attività vengono da quegli esempi, ma naturalmente devono ben guardarsi dalla tentazione di imitarli. Si capì bene tutto questo quando all’inizio degli anni Novanta comparvero due bilanci storici, La critica letteraria in Italia di Giuseppe Leonelli e Ingrati maestri di Massimo Onofri. In entrambi i casi, veniva dato spazio alla polemica nei confronti della critica programmaticamente o presuntamente scientifica e politica. Nel frattempo (e da tempo) la letteratura non era più sotto processo. La produttività letteraria è vertiginosamente aumentata. La scarsa autocoscienza critica di molti nuovi scrittori è responsabile del generale ottimismo creativo. L’estetica trionfa in tutti gli ambiti della vita sociale. Si abusa di termini come “narrazione” e “romanzo” anche quando si parla di tutt’al-
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tro: di ideologie, di filosofia, di scienza e di politica. I critici militanti o “giornalieri” (secondo la formula di Geno Pampaloni), i recensori di mestiere, sono soffocati dalla quantità frastornante di autori e di libri. I critici stessi finiscono prima o poi per essere tentati dalla narrativa in proprio, vogliono diventare creativi. Sul versante accademico, gli studiosi vecchi e nuovi oscillano fra comparatistica e critica tematica: campi promettenti ma illimitati, in cui è facile perdersi e in cui la capacità di scelta è tutto. Oppure si travestono da filosofi, dal momento che, dopo la Nietzsche-Renaissance, molti filosofi si sono travestiti da scrittori. La critica sembra a volte dominare specializzandosi e restringendo i propri confini. A volte sembra perdere peso e identità dilatandoli oltremisura. Vecchi interrogativi restano sempre attuali: come leggere? Perché leggere? Perché e come scrivere dopo aver letto? La critica continuerà e tornerà a esistere finché qualcuno troverà buone ragioni di sentirla personalmente necessaria.
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Umanesimo, umanesimi (2016)
Si insegna nelle scuole che Dante, il più grande genio letterario del Medioevo, non solo porta a compimento e sistematizza quasi un millennio di cultura cristiana, ma annuncia la futura nascita dell’umanesimo italiano. Petrarca e Boccaccio, rispettivamente di quaranta e cinquant’anni più giovani di lui, sono già pienamente umanisti. Il primo inventa il modello di una nuova poesia lirica che si diffonderà e dominerà in Europa fino all’età barocca e oltre, arrivando alle soglie del romanticismo. Il secondo realizza uno stile narrativo adeguato a rappresentare un’umanità che ha cominciato a ignorare ogni trascendenza religiosa per ubbidire a moventi puramente terrestri, secondo una logica degli istinti e delle passioni che nessuna norma morale riesce più a frenare. Il soggettivismo sentimentale in Petrarca (con correzioni riflessive di tipo stoico-cristiano) e l’avventurosa astuzia materialistica in Boccaccio provocano il rovesciamento di una morale teologicamente ispirata in una morale dell’immanenza che più tardi, attraverso mediazioni neoplatoniche, porterà a una particolare specie di divinizzazione dell’umano e di sincretismo fra sapienza greco-latina e mistica cristiana. Pensatori e moralisti come Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti, Machia-
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velli e Castiglione elaborano vari modelli di umanità perfetta o nella sua sublimità spirituale o in una polimorfica efficienza mondana. La loro trattatistica è altamente, appassionatamente pedagogica, sia che si tratti di affrontare con distacco filosofico le sofferenze della vita, sia che si tratti di vivere con impeccabile ed efficace dominio di sé le insidie dell’ambiente sociale e dell’agire politico. Ma è soprattutto nelle arti visive che si esprime e trionfa questo primo, grande umanesimo europeo, con Brunelleschi, Donatello, Masaccio, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Tiziano. Da allora in poi la guida dell’umanesimo occidentale passò in altre mani e attraversò diverse fasi, sia consecutive sia intrecciate e sovrapposte tra loro. Prima in Montaigne, Cervantes, Shakespeare, poi in Cartesio, Pascal e Molière, Velázquez e Rembrandt, avviene una relativizzazione antieroica dell’umanesimo italiano. Infine, con l’illuminismo dell’Encyclopédie e la sintesi, in Kant, di empirismo e razionalismo, si impongono il primato dell’esperienza e quello della ragione. L’illuminismo sceglie il modello della nuova razionalità scientifica contro i valori della tradizione e del cristianesimo, ed è soprattutto una filosofia delle riforme e delle rivoluzioni sociali, una filosofia della “società razionale”, o della ragione che deve dare forma coerente a tutti gli aspetti della vita umana in quanto vita sociale. Un paio di generazioni dopo il romanticismo corregge le astrazioni illuministiche. Corregge le idee generali con i sentimenti individuali e nazionali, perché la società razionale non può essere un assoluto che prenda il posto della religione e cancelli la storia. Nell’Ottocento torna perciò l’idea di un umanesimo cristiano e del cristianesimo come cultura unitaria europea, non solo quindi sostegno ideologico dell’autoritarismo politico, secondo l’idea degli illuministi. In modi originali, inediti e anche paradossali, molto del nuovo umanesimo romantico è impregnato di cristianesimo. Lo è in Chateaubriand e Manzoni, nell’esistenzialismo di Kierkegaard, nel demonismo
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antiborghese di Baudelaire, e nel cristianesimo assolutamente moderno, libero e antidogmatico dei due massimi romanzieri dell’Ottocento, Dostoevskij e Tolstoj: in loro il Vangelo e la figura di Cristo sono presenti fino all’ossessione, diventano criterio e misura per giudicare sia la società borghese sia le ideologie dei suoi oppositori, progressisti o rivoluzionari. Se ci si chiede che cosa ne è oggi dell’umanesimo e quale posto, quale senso abbia nel futuro, non può non venire in mente una vicenda secolare come questa. È nel Novecento, comunque, che l’umanesimo e l’illuminismo sono entrati più radicalmente in crisi. Le profonde innovazioni nelle scienze della natura e nelle scienze dell’uomo, con il darwinismo e il marxismo già influenti nel XIX secolo, e più tardi con Freud e Einstein, le rivoluzioni politiche e artistiche e i tentativi filosofici di rifondare o ricomporre la ramificazione pluridisciplinare della cultura, hanno reso problematica la continuità con le precedenti nozioni di umanesimo. Va detto d’altra parte che il Novecento, nascendo come dogma della modernità progressiva e del bisogno di rivoluzione, ha messo fin troppo in ombra i legami con il secolo precedente. Contrapponendosi semplicisticamente all’Ottocento, la cultura novecentesca ha impoverito se stessa. Ma l’antiprogressismo di Leopardi è tuttora attuale. Dostoevskij supera Nietzsche, anticipa Freud e va oltre, perché analizza sia l’inconscio sia la coscienza. Da Kierkegaard sono nate le filosofie dell’esistenza, la cui ispirazione di fondo, prima di diventare atea, è stata senza dubbio cristiana: per Kierkegaard l’autocoscienza morale e religiosa del singolo è irriducibile alle istituzioni e ai valori sociali. L’umanesimo del secolo scorso ha avuto i suoi momenti di più profonda consapevolezza nel corso delle due guerre mondiali e, in seguito alle loro disumane distruzioni, ha cercato di rimediare al nichilismo della volontà di potenza e di dominio totale sugli esseri umani che in forme analoghe, anche se politicamente contrapposte, aveva caratterizzato le società di massa
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superorganizzate e razionalizzate. Oltre alle opere di scrittori come Kafka, Mann, Eliot, Orwell, Camus, penso a testi come La prima radice di Simone Weil (1942-1943), Mimesis di Erich Auerbach (1946), Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno (1947), Significato e fine della storia di Karl Löwith (1949), Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt (1951), L’uomo è antiquato di Günter Anders (1956), Massa e potere di Elias Canetti (1960). Non si tratta di riflessioni superate. Le cose di cui quegli autori parlano erano già avvenute o erano processi in atto che annunciavano sviluppi futuri. I loro temi ricorrenti sono i compiti della filosofia e del pensiero critico, i paradossi e i fallimenti della razionalità, il volto demoniaco del potere, i doveri di una società nei confronti degli esseri umani, le visioni del mondo e gli stili della rappresentazione realistica, le insidie anticulturali delle società di massa. L’umanesimo occidentale si è fondato sulla libertà individuale e sulla realizzazione di un mondo sociale in cui questa libertà sia possibile per ognuno e per tutti. La prima metà di questo progetto, la libertà individuale, è presente fin dall’inizio, mentre la seconda, l’idea di un mondo sociale che realizzi uguaglianza e giustizia, emerge più gradualmente e matura soprattutto dalla metà del Settecento in poi. La democrazia in America e il socialismo in Europa ne sono le espressioni politiche più influenti e coerenti. Ma finché la parte sociale del progetto non viene realizzata, la libertà individuale resta un ideale, un’ipotesi o un privilegio di pochi. L’avvicendarsi delle epoche è il nostro modo più praticato di fare storiografia e quindi di misurare il rapporto tra passato e presente. Anche oggi, perciò, si parla dell’avvento di una nuova epoca post-novecentesca, cosa che ha suggerito ad alcuni di battezzarla con l’aggettivo poco rassicurante di “post- umana”. Credo che si tratti semplicemente di una terminologia frivola, usata in estetica per provocare nel pubblico l’ennesimo, estenuato brivido di novità. Post-umana potrebbe essere
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qualunque cosa: perversamente sottoumana o presuntamente sovrumana. Tutto questo rivela purtroppo una volontà più o meno esplicita di liquidare con un gesto di impazienza l’intero passato, solo perché è faticoso e impegnativo occuparsene, studiarlo, ereditarne idee e progetti, ambizioni filosofiche e ideali pedagogici. Le nostre società capitalistiche attuali e future sembra che non abbiano neppure più bisogno di un’etica produttiva del lavoro ben fatto. Il lavoro umano si sta svalutando. A lavorare saranno sempre di più le macchine e l’intelligenza artificiale, mentre alle “masse” si chiede solo di comprare e consumare più rapidamente possibile merci prodotte da un’industria sempre più automatizzata, in cui sembra che ci sia posto solo per addetti che sorveglino e controllino il funzionamento delle macchine. Lavoro e consumo hanno bisogno soprattutto di informazione e comunicazione di dati, nonché di intrattenimento. Le stesse arti si stanno riducendo a comunicazione e consumo rapido di merce estetica seriale, più che di opere. La storia umana si è velocizzata a tal punto da non essere più percepita come storia consapevole e rapporto fra passato, presente e futuro. La tecnologia è entrata dovunque. Ha cambiato dall’interno i modi della ricerca scientifica e della comunicazione, la guerra e la burocrazia, ma anche alcune fondamentali facoltà umane come la memoria, l’attenzione, la volontà, la creatività artistica, l’immaginazione e la previsione. Non si pensa più se non davanti a un computer. Se in un futuro molto prossimo una macchina, acquisiti certi dati, sarà in grado di prevedere senza possibilità di errore il cattivo esito di una nostra impresa o le conseguenze negative di una nostra scelta, allora un qualche potere pubblico potrà impedirci, perché socialmente pericoloso, nocivo o troppo dispendioso, il libero esercizio individuale della nostra volontà: la scelta, per esempio di un lavoro “sbagliato”, o quella di un coniuge “sbagliato” che i computer giudicano “da evitare”.
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Tecnologia ed economia hanno stretto un patto indissolubile. Lo sviluppo dell’una è in funzione dello sviluppo dell’altra. Se la tecnologia è dovunque e il suo potere aumenta, è solo perché l’economia dei nuovi capitalismi domina dovunque e tiene insieme il mondo. Ho l’impressione che con l’ingresso nel nuovo millennio l’uma nesimo laico si stia rivelando, nella sua capacità di giudizio sui nuovi capitalismi (occidentali e orientali), più in difficoltà di un umanesimo cristiano, o anche genericamente religioso. In assenza, oggi, di progetti di riforme radicali della società e di utopie politiche, che peraltro hanno dato pessima prova di sé, l’umanesimo laico manca ormai di strumenti culturali e critici che gli permettano di giudicare e trascendere la logica esclusiva dell’incremento produttivo e dell’espansione dei consumi. Lo Stato, gli Stati sono al servizio del mercato, esistono per favorirne, per garantirne il buon funzionamento. Per due secoli l’umanesimo borghese ha creduto che l’umanità potesse migliorare e la civiltà perfezionarsi solo producendo e vendendo più merci. La libertà di comprare e di consumare è apparsa come il fondamento della libertà, anzi come la libertà stessa. Il rischio maggiore è che l’idea di libertà non abbia altri contenuti e che la capacità di immaginare forme di vita migliori in società e sistemi economici diversi stia ormai scomparendo. Sembra che gli esseri umani siano stufi della fatica di essere umani, di avere una storia e di dover scegliere, correndo il rischio di contraddire ciò che prevalentemente si “immagina” di credere, senza neppure crederci. Il capitalismo è una religione, disse Walter Benjamin. Una religione tanto più autoritaria e dogmatica quanto meno si rivela come tale.
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La letteratura circostante (2019)
Piuttosto insolito ma appropriato è il titolo La letteratura circostante1 scelto da Gianluigi Simonetti per il suo documentatissimo libro su quella che forse, un tempo, si sarebbe chiamata “letteratura contemporanea”. In effetti l’attuale letteratura ci appare e la sentiamo più come un’entità circostante, cioè spaziale, che temporale. Come la musica pop, come i media di massa, come ogni rumore di fondo, questa letteratura ci sta intorno, ci sta addosso: un mondo culturale sempre più affollato, nel quale si avverte un incombente vuoto e in cui tuttavia sembra che di spazi vuoti e ignoti ce ne siano sempre meno. L’esperienza della folla, l’effetto-folla, che ha caratterizzato fin dall’Ottocento la vita urbana delle nostre società moderne e di cui con sgomento ha parlato la letteratura (da Edgar Allan Poe a Engels, a Baudelaire) ora quell’esperienza, quell’effetto, hanno raggiunto la letteratura: la determinano e la modellano.
1. G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2018; in seguito si citeranno le pagine direttamente nel testo.
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Nella letteratura “circostante” tutti i posti disponibili sono stati occupati; ma sono molti, anzi incalcolabili, anche i posti in piedi, quelli riservati ad autori che hanno già pubblicato svariati libri ma di cui non si sa che cosa dire. Sono autori che una critica in evidente difficoltà non riesce ad accettare del tutto, ma che per fair play democratico e per decenza informativa cerca di non lasciare fuori dalla porta. La letteratura circostante è così gremita di autori-ombra e di libri apparsi e scomparsi, che per renderne conto si tende più a stendere elenchi di nomi che a fare analisi interpretative approfondite. Il fenomeno d’insieme è infatti accessibile più a categorie generali e a rilevazioni tematiche o linguistiche che a un esame critico opera per opera, autore per autore. Gli autori e le opere che si distinguano nettamente e che meritino rilettura e memoria scarseggiano. Oggi come un tempo, si direbbe. Solo che oggi la confusione dei valori criticamente stabiliti e comunemente accettati è arrivata a un punto tale, che può succedere anche a libri e autori di notevole qualità di essere trascurati dal catalogo di ciò che esiste. In questo, la situazione della poesia è peggiore di quella della narrativa. La poesia è da decenni un genere letterario senza pubblico, che naviga sull’orlo del nulla: a volte consapevolmente, più spesso in mancanza di autocoscienza critica. La narrativa ha invece un mercato, vive sotto i riflettori accesi di premi letterari ambiti, sebbene non più prestigiosi. L’iper produzione di poesia è dovuta alla sua irrilevanza sociologica e all’indifferenza, all’incompetenza culturale da cui è circondata, che la estenua e la umilia. L’iperproduzione di narrativa è dovuta invece al fatto che un libro a cui si può applicare l’etichetta di “romanzo” o cade nel nulla dopo due mesi, o rischia e promette di diventare un best seller almeno stagionale.
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La letteratura, nient’altro che un passatempo L’attuale letteratura è perciò davvero circostante perché è difficile farne la storia. È nata tuttavia non adesso, ma fra metà anni Settanta e inizio anni Novanta, ignorando la storia. È la ragione per cui gli storiografi letterari non sanno bene dove metterla, come spiegarla, giustificarla, valutarla e interpretarla. I migliori fra i nuovi critici (Simonetti è uno di loro) sono in difficoltà perché ogni tanto si rendono conto che il tradizionale armamentario critico, perfino il lessico e i concetti della critica letteraria, suonano inadeguati, non per difetto ma per eccesso, se applicati a un romanzo o a un libro di poesia uscito in questi mesi o in questi ultimi decenni. La cultura letteraria e la coscienza storica indispensabili per fare critica sono oggi molto superiori alla coscienza e alla cultura che mostrano di avere la maggior parte degli scrittori. Il guaio italiano è che la nuova narrativa è diventata o vorrebbe essere intrattenimento, ma nello stesso tempo non riesce a esserlo. Il confronto con quello che avviene nella narrativa inglese e americana aiuta a capire che, dove esiste una letteratura che non ha ambizioni diverse dall’intrattenimento, le tecniche dell’intrattenimento sono state perfezionate in vista di quel fine, mentre da noi si sognano due sogni contrapposti: la qualità letteraria e morale da un lato, la conquista del pubblico e il successo di mercato dall’altro. Si aspira tanto all’autorevolezza che al divismo. In mancanza di criteri letterari precisi, finisce però per essere autorevole solo chi ha successo. Della qualità artistica e intellettuale in sé, pochi si accorgono. La posizione di Simonetti è ambivalente poiché cerca di far convivere onesta studiosità avalutativa e distanza critica: il suo proposito è «delineare un profilo il più possibile esauriente del paesaggio letterario italiano» nel quale si parli sia di Tondelli sia di Veltroni, di Busi e di Moccia, di Siti e di Fabio Volo, di Moresco e della Mazzantini, eccetera. Eppure Simonetti non
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riesce a far tacere il critico che è in lui: così parla di «stanchezza della forma», di «stile da traduzione», di «lingua giornalistica», di uno «scrivere veloce» che mima e rincorre comunicazioni di massa sempre più soverchianti: cinema, tv, rete. Vale la pena di leggere un passo del libro: Il prototipo che è allo studio nei cantieri dell’industria culturale è insomma quello di un’opera stilisticamente facile, perfettamente traducibile, idealmente non troppo lunga (ma serializzabile)… A scriverla è meglio che sia un autore-personaggio, glamour, riconoscibile (o all’opposto sconosciuto e nascosto, protetto da un anonimato carismatico). Un autore a qualche titolo popolare, meno letterato possibile. […] Soprattutto, un autore onnipresente, multimediale e polidisciplinare, capace di esibirsi su palcoscenici diversi: giornalista, tecnologo, sociologo, sceneggiatore, attore, videoregista, blogger, e infine scrittore. […] Solubile ad esempio nel sistema dei festival, saloni, reading, in uno qualsiasi dei molteplici spazi odierni in cui si celebra una letteratura-in-atto (e “a contatto”), legata a consumi collettivi e istantanei, sempre più performativa e sempre meno autonoma. (p. 29)
Infine, questa decisiva conclusione che chiarisce perché capire il presente letterario è possibile solo comparandolo col passato: Ogni vera conoscenza letteraria presupponeva “una volta” una certa dose di rischio intellettuale […]. Di fatto la letteratura contemporanea è diventata, per milioni di lettori, niente più che un passatempo. (pp. 32-33)
I nuovi scrittori, semplicistici e autarchici Non deve essere un caso se a fine Novecento sia venuto in mente a qualcuno di azzardare l’idea di una “fine della storia”. Questa idea era nell’aria benché fosse assai difficile giu-
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stificarla. Fra tradizionalisti e innovatori, hanno vinto questi ultimi. La svolta è stata radicale. È vero che l’americano Harold Bloom, il critico internazionalmente più noto e influente dell’ultimo mezzo secolo, in una energica, quasi ossessiva polemica con questo “presentismo” ha richiamato alla lettura dei grandi classici e al rispetto della loro inesauribile complessità. Ma sembra proprio che l’ammiccante “americanismo” di Eco abbia contato più dei severi giudizi di valore di un moralista davvero americano come Bloom. Negli Stati Uniti, patria e fonte primaria della cultura di massa, l’alta cultura e gli intellettuali vivono in un maggiore isolamento e sono molto meno propensi a cedere all’idolatria infantilistica dei prodotti di consumo. L’Italia, dopo il 1945, è stata colonizzata culturalmente dagli Stati Uniti più nella frivolezza e nel populismo delle mode che nel rigorismo etico individuale e sociale che domina la storia della democrazia americana. Negli Stati Uniti un prodotto culturale scadente è facile che sia considerato anche immorale, mentre in Italia è molto raro che succeda. Il culto del lavoro tenace e duro, del professionismo e del perfezionismo è precisamente ciò che non siamo riusciti a importare dall’America, e la nostra attuale letteratura lo dimostra. È quasi impossibile trovare in Italia un narratore che prima dei cinquant’anni non abbia già pubblicato una decina di romanzi (il calcolo è di Simonetti). Anche se succede che abbiano letto alcuni classici della modernità, Dostoevskij, Baudelaire, Leopardi, Montale, Virginia Woolf, Musil, li hanno letti come fuori dalla storia. Possono nutrire passioni maniacali e molto esibite per questo o quell’autore senza conservare nessun senso delle proporzioni: “grande” è considerato Proust ma anche Bolano, Kafka ma anche Foster Wallace, Gadda nonché Tondelli, Kubrick ma anche Tarantino, sia Leonardo da Vinci sia Steve Jobs… Lo studio del passato è demandato a coloro che sono in ruolo all’università come studiosi. Ma anche alcuni di questi studiosi, se per caso decidono di diventare narratori o
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poeti, sembra che abbiano dimenticato ciò che studiarono. Calvino e Pasolini, Fortini e Zanzotto, Sciascia e Giudici non avevano bisogno di essere degli accademici per conoscere, leggere, studiare i classici di cui sentivano il bisogno per scrivere. Quelle tradizioni rivivevano in loro, orientavano le loro ambizioni e i loro progetti, le loro strategie letterarie. L’autore che viene invece dopo ciò che Simonetti definisce «declino e fine della letteratura di una volta» risulta culturalmente denutrito anche nel caso che occupi una cattedra universitaria e cominci i suoi ragionamenti partendo dalla Poetica di Aristotele per arrivare ai formalisti russi e a Roland Barthes. Questo nuovo tipo di scrittore o è semplicistico e “autarchico”, o si applica a caricare la sua scrittura di estetismi iperbolici, effetti speciali, enfatiche gesticolazioni da videogame.
I critici letterari ridotti a sommelier È ormai fin troppo chiaro che nella nostra cultura letteraria la critica è vista come un’intrusa. Non la vogliono gli autori, ma neppure gli editori e i lettori, che non hanno né interesse né capacità di leggerla. Per critica si intende quella che può criticare, non quella che si limita a registrare, catalogare, informare e implicitamente a legittimare. Simonetti mette a tacere ogni tanto le sue indubbie capacità critiche pur di dare spazio e corpo alla maggior quantità possibile di letteratura pubblicata come letteratura. Ma mostrando di attribuire alla “letteratura di una volta” qualità generiche che è facile denigrare («il bello artistico», «un’antropologia all’ingrosso umanistica e romantica»), Simonetti smette di capire che non si tratta di una semplice diversità fra ieri e oggi, ma di una differenza qualitativa. È necessario cogliere comparativamente che cosa è avvenuto con l’ultimo mezzo secolo, nel passaggio da una postmodernità consapevole come quella di Morante, Pasolini, Calvino e
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Giudici, a una letteratura che non è più neppure postmoderna perché in essa manca ogni rapporto con la modernità. Oggi come ieri i veri poeti e narratori sono non più di una ventina: agli altri può succedere di scrivere qualche buona pagina o un buon libro; ma un autore è definito dalla capacità di costrui re oggetti letterari che permettano un’esperienza di lettura. Leggere opere non è esattamente la stessa cosa che studiare testi, è qualcosa di più. Lo studioso ha certo il dovere deontologico di studiare la letteratura e anche di esaminare testi di così scarso valore che nessun lettore vorrebbe leggere. Ma che cosa offre ai lettori non professionali una tale letteratura? Che tipo di lettori hanno in mente tutti questi autori che si caratterizzano soprattutto per velocità produttiva? Devono avere in mente lettori altrettanto veloci, sbrigativi, disattenti, dimezzati. La nozione di letteratura non è un concetto neutro o puramente teorico, ma implica un giudizio di valore. Soprattutto oggi questo tipo di giudizio appare una modalità conoscitiva di cui non si può fare a meno. Del resto anche chi ha superato i trenta o i quarant’anni ha cominciato a rendersi conto che in gran parte della produzione artistica, dal cinema alla pop music, alle arti visive, al teatro e alla stessa letteratura, la qualità media si è molto abbassata rispetto agli anni Sessanta e Settanta. Se poi si volesse fare un confronto fra l’inizio degli anni Duemila e l’inizio del secolo scorso, si resterebbe sconcertati. Il Novecento si è aperto con gruppi d’avanguardia la cui influenza e suggestione non si è ancora esaurita, e soprattutto con autori come Pirandello, Proust, Stravinskij, Matisse, Picasso, Schoenberg, Rilke, Apollinaire, Joyce, Saba, Eliot, Kafka… C’è oggi qualcosa di paragonabile a questo? Non tutti i periodi della storia sono stati culturalmente alla stessa altezza e in tutti i Paesi, né le diverse arti e i diversi generi letterari hanno sempre mantenuto costante il loro grado di originalità. Dov’è la poesia latina dopo Ovidio, Tibullo e Properzio? il romanzo spagnolo dopo Cervantes, la lirica italiana poco prima e poco
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dopo Foscolo e Leopardi? Anche se quella che chiamiamo “decadenza” non è costante, bisogna ammettere che nelle arti il concetto di progresso è inutilizzabile e succede non di rado che ci sia regresso. Vogliamo riconoscerlo? Credo che oggi il problema centrale sia la decadenza qualitativa della lettura anche fra i recensori, gli studiosi e i critici letterari, che spesso sembrano dei sommelier che socchiudano estaticamente gli occhi gustando un cartone di Tavernello… È sempre dal non saper leggere che nasce il non saper scrivere.
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Così è finita la stagione delle utopie (2019)
Gli intellettuali, che come singoli o gruppo o ceto sono stati così presenti nella scena politica del Novecento, oggi (e non da ora) compaiono, se compaiono, solo ai margini e con scarsa influenza nella discussione e nello scontro fra partiti o schieramenti politici. Può essere un bene o un male, ma resta comunque un fatto che si può analizzare secondo vari criteri: trasformazioni della cultura e dei mezzi di comunicazione, mutamenti del ceto politico, difficoltà nell’immaginare e nel progettare un futuro assetto sociale per cui impegnarsi. Più che entrare in una valutazione del presente, che è globalizzato e difficilmente riassumibile in tutti i suoi aspetti e problemi (l’Asia non è l’America e l’America non è l’Europa), vorrei fare un passo indietro e riflettere su tre casi italiani esemplarmente diversi di impegno politico dell’intellettuale. Si tratta di tre casi molto individualizzati di scrittori anomali o “eretici” che hanno suscitato più reazioni di ostilità che di consenso anche all’interno degli ambienti culturali ai quali appartenevano. Si tratta di Franco Fortini (19171994), Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Nicola Chiaromonte (1905-1972). Benché quest’ultimo sia il più anziano dei tre, credo che sia più interessante parlarne per ultimo perché è
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stato e resta anche oggi il più sottovalutato e ignorato, e solo recentemente ci si sta rendendo conto del valore dei suoi scritti.
Fortini, o la fedeltà al marxismo A partire dagli anni del «Politecnico», la rivista della rinascita culturale italiana dopo il crollo del fascismo e la fine della guerra, fondata da Elio Vittorini nel 1945 e pubblicata a Milano fino al 1947, Franco Fortini non ha smesso di essere; per almeno trent’anni, il critico letterario e poeta italiano più influenzato dal marxismo, più consapevole dei suoi principi, più attento ai rapporti fra politica, società e cultura. Il tema originario e centrale di tutta l’opera di Fortini è la convivenza “dialettica” fra la sua vocazione letteraria e la scelta morale, prima ancora che politica, di considerare la società capitalistica, l’idea di rivoluzione e il socialismo-comunismo come realtà storiche ineludibili, senza affrontare le quali la cultura falsifica se stessa e invece di servire la verità diffonde errori e menzogne. Fortini ha voluto essere un poeta che non dimentica mai di vivere e di scrivere in una società divisa in classi dominanti o dominate, e organizzata in vista del più razionale sfruttamento del lavoro operaio. Una società, dunque, economicamente ingiusta, moralmente inaccettabile, retta da istituzioni solo formalmente, cioè ipocritamente, democratiche. Una società da “rivoluzionare” nelle sue fondamenta produttive, che merita di finire, di essere storicamente superata in nome dell’uguaglianza e della giustizia. Finché vige un regime di “false libertà”, anche la libertà intellettuale e artistica è falsificata, illusoria, ingannevole: una maschera utile alla perpetuazione dei poteri dominanti. Senza un’autocoscienza storico-sociale, lucida, vigile e severa ispirata alle teorie di
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Marx, secondo Fortini lo scrittore, il poeta, l’artista, l’intellettuale, che lo vogliano o no, forniscono alle élites dominanti una copertura ideologica, un alibi e un’intollerabile apparenza di normalità. È proprio in questa lotta contro le “false libertà” che Fortini estremizza il suo impegno di consapevole intellettuale marxista, rendendolo però più discutibile: perché se la sola vera libertà è demandata a un futuro post-rivoluzionario, si rinuncia, per principio o eccesso di logica, alla libertà possibile anche nel presente. La decisione di essere marxista per “necessità storica” rende così l’intellettuale meno intellettualmente libero anzitutto nei confronti della particolare teoria sociale e politica da lui adottata. Se il marxismo è la sola teoria sociale non superabile, finché il marxismo esiste si trascurano, o si escludono, o si censurano tutte le altre teorie e culture che da quando il capitalismo moderno è nato hanno contribuito, in vario modo, a criticarlo e condannarlo nei suoi aspetti “antiumanistici”, o semplicemente antiumani. Negli immediati dintorni dei suoi discorsi politici o meta politici, morali o utopici, sembra che Fortini non possa mai fare a meno di citare autori da lui amati come Søren Kierkegaard (esistenzialismo cristiano), Aleksander Herzen (liberalsocialismo avverso a Marx), Simone Weil (che nel 1934 dedicò al progressismo marxista una critica filosofica radicale), Theodor Adorno (la cui “teoria critica” nega il primato marxista della prassi organizzata). Eppure, ogni sua esibizione di letture “eretiche” è servita a Fortini più a distanziarsi dal marxismo ufficiale dei partiti comunisti, o dall’estremismo neo-ortodosso degli anni Sessanta, che a mettere in discussione le idee di rivoluzione e di utopia comunista. La fedeltà al marxismo rimase, in questo marxista eretico, una fede definitiva.
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Pasolini, o l’impegno come confessione A mostrare che era anche possibile criticare il capitalismo e la società di massa con mezzi diversi e perfino al di qua o al di là di qualunque teorizzazione politica, intervenne nei primi anni Settanta Pier Paolo Pasolini. Dopo essere entrato subito in conflitto con gli studenti in rivolta del Sessantotto, quando nel 1975 fu assassinato Pasolini aveva poco più di cinquant’anni ed era in Italia l’intellettuale più controverso e scandaloso. Le sue tesi sulla “mutazione antropologica” degli italiani, benché fossero ispirate dalla Scuola di Francoforte (in particolare dall’Uomo a una dimensione di Herbert Marcuse), erano anche un’elaborazione del tutto personale e proprio la “personalizzazione” del discorso ideologico e politico lo esponeva, soprattutto a sinistra, a obiezioni e accuse spesso denigratorie (da Eco a «il manifesto», da «L’Espresso» a Calvino). Nei suoi articoli raccolti poi in due volumi, Scritti corsari e Lettere luterane, Pasolini lanciò un allarme disperato. I giovani delle periferie erano diventati irriconoscibili, il culto dei consumi di massa aveva cancellato ogni differenza umana caratterizzante, cioè la varietà e pluralità delle culture sociali. Operai e sottoproletari avevano perso la loro identità. Il mondo contadino era scomparso. Tutti, ormai, anche se di fatto non lo erano, volevano essere, almeno in apparenza, classe media, piccola borghesia modernizzata, magari dietro maschere di ribellismo. Stratificazioni culturali durate secoli erano sparite nel giro di pochi anni. Era nato, secondo Pasolini, un “totalitarismo” non statale e poliziesco, ma dovuto al dominio del mercato culturale e dell’“industria della coscienza” (una categoria teorizzata in Germania dieci anni prima da Hans Magnus Enzensberger). Sostituendo il controllo politico, questa “omologazione” fondata sull’estetica, sui valori e le mode si mostrava infinitamente più potente e insidiosa di ogni tipo di controllo dall’alto, perché invece di reprimere e controllare sembrava liberare. Per questo la cultura di sinistra, anche
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quando si voleva radicale e rivoluzionaria, era disarmata di fronte al nuovo capitalismo. Nel giudicare una tale “dittatura dello sviluppo”, di uno sviluppo che non comportava un vero progresso, anche il marxismo si dimostrava in difficoltà, incapace come era di difendere e valorizzare qualunque cosa appartenesse al passato. Ciò che a distanza di decenni colpisce di più è che la quasi totalità degli intellettuali italiani, accusando o non comprendendo Pasolini, ignorasse quella critica della modernizzazione, del progresso borghese capitalistico che fin dall’inizio dell’Ottocento aveva coinvolto pensatori liberali, artisti ribelli, militanti anarchici, moralisti conservatori o populisti come Leopardi e Baudelaire, Dostoevskij, Flaubert, Tolstoj, Ruskin e innumerevoli altri. Il potere di attrazione della classe media e dell’industria culturale era stato sottovalutato dal marxismo politico. Al poeta e all’impolitico Pasolini era bastato leggere qualche pagina di sociologia della modernità per capire che quanto stava accadendo meritava di essere definito «genocidio culturale». Dopo decenni di politicizzazione degli intellettuali attraverso l’adesione al marxismo, avvenne che un intellettuale singolo, in virtù della sua singolarità e confessando in pubblico la propria disperazione sociale, poteva vedere cose che schiere di studiosi e di politici non vedevano. Il processo allora intravisto per la prima volta in Italia è tuttora in corso, con una velocità e profondità moltiplicate dalle nuove tecnologie della comunicazione. Eppure anche oggi la maggior parte degli intellettuali e degli studiosi tacciono, presupponendo che ogni novità è progresso. Continuano a credere che il presente e il futuro siano sempre meglio del passato. La loro sola religione è questa.
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Chiaromonte, o la verità che non dipende dalla storia L’impegno politico e intellettuale di Nicola Chiaromonte è rimasto nel nostro Paese quasi invisibile fino a pochi anni fa. Il suo nome non si trova nelle storie della letteratura e nemmeno in quelle del pensiero politico. Eppure Chiaromonte, che fu amico di Camus e di Silone, che durante la guerra civile spagnola combatté nella squadriglia aerea di Malraux, che fu collaboratore negli Stati Uniti di Dwight Macdonald in riviste come «Politics» e «Partisan Review», ha attraversato gli anni centrali del Novecento vivendone gli eventi cruciali. Il suo resta l’esempio di come un intellettuale di grande lucidità, originalità e tempestività nelle sue analisi culturali e politiche possa non avere nel suo Paese nessuna risonanza e nessun riconoscimento pubblico, se non all’interno di una ristrettissima cerchia di estimatori e di amici. Essendo vissuto per diversi anni all’estero, esule prima in Francia durante il fascismo e poi negli Stati Uniti, Chiaromonte non ha mai coltivato l’autopromozione. Non era né un narratore né un poeta, ma solo uno straordinario autore di saggi e articoli. La sua indipendenza di giudizio non poteva essere utile a nessuna parte politica. La solitudine rese più chiaroveggenti le sue valutazioni politiche, e queste accentuarono d’altra parte il suo isolamento. Mary McCarthy, che gli è stata amica, ha scritto: «Le sue idee non si collocavano in una categoria definita: non era né di sinistra né di destra. Non ne consegue però che stesse al centro: era solo». Per fortuna dei lettori italiani è uscita nel 2017 da Donzelli, scritta da Cesare Panizza, una biografia di Chiaromonte che permette di ripercorrere l’intera vicenda di questo scrittore. In una recensione al libro, lo storico Raffaele Liucci ha riassunto in breve le caratteristiche di un impegno che sembrava destinato fin dall’inizio a non trovare eco nell’atmosfera e negli ambienti della cultura politica italiana: A sinistra, infatti, il libertario e antistoricista Chiaromonte non è mai stato amato. Ha denunciato gli intellettuali filosovietici
263 succubi della propria «malafede» («l’ideologia prestabilita al posto della convinzione formata naturalmente»). Ha disdegnato la retorica dell’engagement e confutato la bontà dell’azione collettiva («Dalla caverna non si esce in massa, ma solo uno per uno»). Ha demolito i nomi più intoccabili («Antonio Gramsci, un farraginoso studioso di provincia che ha insegnato a scrivere male ad almeno due generazioni di intellettuali italiani»). Ha giudicato la contestazione del ’68 alla stregua di una «rivolta conformista» propensa a «saltare subito alle conclusioni senza aver analizzato le premesse».
Mettendo da parte qualche intemperanza come il giudizio su Gramsci, liquidato con disprezzo che non merita (ma a volte hanno meritato i suoi seguaci di partito), Chiaromonte oggi andrebbe riletto da cima a fondo, dal suo unico libro Credere e non credere ai suoi molti scritti teatrali. Rispetto a quelli di Fortini e Pasolini i suoi saggi sembrano poco italiani. Sebbene nascano come commento a situazioni e convinzioni determinate, superano sempre la contingenza. Si misurano con ogni idea rivelandone tutte le implicazioni, e hanno un più ampio respiro internazionale e storico. Per una serie di ragioni anche biografiche, Chiaromonte è stato il pensatore italiano naturalmente più vicino al pensiero di Simone Weil e Isaiah Berlin. In lui è assente la dimensione religiosa così presente in Weil, ma solo perché le sue riflessioni si fermano, con rispetto, sulla soglia. La sua religiosità è implicita: non teologica né politica, ma intellettuale e morale. Le sue guide sono state soprattutto Platone (come per Weil) e Tolstoj (come per Berlin). Uno dei ricorrenti bersagli polemici di Chiaromonte non è la religione, ma le false religioni dei laici e dei materialisti che hanno fede nelle “infrangibili leggi” della storia e del suo sviluppo necessario, cioè giusto perché fattuale. La loro secondo Chiaromonte è una “malafede” razionalistica e realistica fondata sul dogma della bontà del futuro che ci libererà dal passato. Si tratta di una fede non nella realtà, ma in una teoria della realtà, una logica dei fatti di cui
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ci si crede in possesso e per la quale fra realtà e verità non c’è differenza. Perciò Chiaromonte in una lettera-saggio al suo amico Andrea Caffi del 19 settembre 1951 (pur riconoscendo che si tratta di un azzardo) dice che «la verità non può essere figlia del tempo» ed è bene «escludere l’elemento temporale da ogni giudizio sul vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’utile e l’inutile». La storia esiste, ma non fornisce prove e criteri certi nell’ordine dei fatti morali. Le idee di giustizia e di verità trascendono i fatti storici: li giudicano, non ne sono giudicate. Le “ragioni ultime” con le quali il marxista interpreta le “apparenze” sociali, credendo di smascherarle, implicano una certezza conoscitiva, anzi scientifica, su quello che sarà il futuro. Per questo, tra la vita delle società umane e la vita vegetale o animale (secondo quella mescolanza di darwinismo e messianesimo che affascinò Marx ed Engels) non possono stabilirsi analogie: «Quando si parla di vita umana», scrive Chiaromonte nella stessa lettera, «ciò che sarà (o “dovrà” essere) comporta sempre la variante essenziale “se gli uomini lo vorranno”». Rispetto al modo di ragionare dello storicista o del rivoluzionario, vale più il punto di vista del cittadino che, senza sentirsi in possesso di «spiegazioni ultime» sul processo storico, trova che questa o quella ingiustizia e oppressione può e deve essere eliminata. Non mi pare che si possa rimproverare a questo individuo di non spingersi abbastanza avanti, battendosi per l’abolizione radicale di tutte le ingiustizie o, che è lo stesso, della loro causa prima.
Nessuno sa, secondo Chiaromonte, dov’è la vera radice di tutte le ingiustizie, né conosce o può dominare la totalità dei fenomeni sociali.
Una postilla politica
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Rivoluzione bolscevica e sinistra non comunista (2017)
Quelli che lo scrittore e reporter John Reed chiamò «i dieci giorni che sconvolsero il mondo» crearono in effetti il più ipnotico e contagioso mito politico del Novecento. Lo stesso Edward H. Carr, il maggiore storico della rivoluzione russa, nelle prime righe di un suo saggio del 1979 affermò che la “grande svolta” della rivoluzione del 1917 sarebbe stata «probabilmente considerata dagli storici futuri come il massimo avvenimento storico del XX secolo». A più di cento anni dal 1789, l’idea di rivoluzione diventava realtà in un mondo assai diverso e in un paese, la Russia, che più lontano non poteva essere dalla Francia del Settecento. Quella francese era stata una rivoluzione preceduta da mezzo secolo culturalmente dominato da philosophes che avevano imparato molto dal pensiero inglese, affetti com’erano da “anglomania”. La rivoluzione russa aveva alle spalle un secolo di opposizione intellettuale antizarista, a partire dai “decabristi”, poi con i liberali e infine con i populisti, i nichilisti e i terroristi della seconda metà dell’Ottocento: opposizione sempre più radicalmente rivoluzionaria. Se gli illuministi francesi avevano studiato filosofia inglese, i sovversivi e rivoluzionari russi dovevano quasi tutto alla Germania (Herzen parlò di «hegelismo disperato»), a Schiller,
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Schelling, Hegel, Feuerbach e più tardi a Marx, nel quale la dialettica hegeliana si fondeva con il positivismo scientifico e con l’economia politica inglese. Ma in Russia a preparare la rivoluzione c’era stata anche, se non soprattutto, la letteratura. Dostoevskij e Tolstoj avevano già messo in scena la necessità morale di “cambiare tutto”, nonché descritto i tipi umani che vivevano in sé questa necessità con un estremismo mentale e pratico altrove ignoto o insolito. L’idea dell’omicidio filosoficamente giustificato era diventata in Russia un tema per decenni all’ordine del giorno. Marx non poteva trovare seguaci più decisi e determinati nel passare dalla teoria alla prassi. Ricordo queste ovvietà perché, nella stessa misura in cui il romanzo russo aveva conquistato come una rivelazione i lettori e gli scrittori dell’Europa occidentale, così la rivoluzione del ’17 conquistò più tardi l’immaginazione politica della sinistra. È stato ripetuto innumerevoli volte che la storia e la situazione sociale russe avevano caratteristiche così particolari da farne un caso a sé. Dunque anche una rivoluzione avvenuta in un tale, singolare contesto avrebbe dovuto essere considerata un caso altrettanto singolare. Eppure, nonostante questo, la sorpresa creò il mito e il mito creò una dottrina normativa. “Fare come in Russia” sembrò un dovere storico, e colui che aveva guidato con tanta abilità un partito marxista alla presa del potere divenne un maestro difficilmente discutibile. Chi vince in pratica ha o sembra avere ragione anche in teoria. Da quel momento Lenin diventò non meno importante di Marx. Comunque (e lo si sarebbe capito in seguito sempre meglio) fu insufficiente la riflessione sul fatto che l’incontro fatale fra Marx e la Russia aveva colto di sorpresa lo stesso Marx (la traduzione russa del Capitale fu la prima). Pensata e scritta a Londra, nel Paese del primo proletariato industriale, l’opera
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storico-teorica fondamentale di Marx sembrava destinata anzitutto al pubblico inglese e avrebbe dovuto finire (in qualche modo!) nelle mani degli operai inglesi, vittime del capitalismo allora più avanzato. Lavorando al primo volume del Capitale (uscito nel 1867), Marx aveva riletto Le condizioni della classe operaia in Inghilterra (1845) di Engels, ricevendone una forte impressione: «Con quale freschezza, con quale audacia precorritrice e senza esitazioni dotte e erudite viene qui afferrata la questione!». In Engels la scoperta di Londra (aveva allora ventiquattro anni), della miseria operaia e dell’ipocrita, criminale borghesia capitalistica, era stata simultanea. Ma la scoperta degli operai aveva preceduto in lui la scoperta del capitale. L’enorme città e la moderna alienazione industriale gli apparvero le due facce di una stessa realtà. Leninismo e bolscevismo saranno il frutto dell’incontro fra le teorie di Marx e la tradizione dell’intelligencija russa della seconda metà dell’Ottocento. Gli uomini della Rivoluzione d’Ottobre erano gli ultimi eredi della storia politico-intellettuale russa, dal populismo (Herzen) all’anarchismo (Bakunin) al nichilismo e al terrorismo (Savinkov). Se le idee dei rivoluzionari russi di primo Novecento venivano da Marx ed Engels, il temperamento morale, il comportamento pratico, l’idea di partito rivoluzionario, erano il prodotto di una lunga storia di sette, cospirazioni, attentati, anni di esilio e di prigionia. Ma d’altra parte, la fredda o spietata coerenza del tipo del rivoluzionario (oltre che, naturalmente, dal giacobinismo) venivano non solo da “indemoniati” e impostori come il giovane Neciaev (da cui anche Bakunin fu affascinato) e i successivi terroristi: è stato osservato che anche in Marx, preso più dall’odio per il capitalista che dall’amore per l’operaio, c’era un’irriducibile discrepanza fra il bene che egli propone per l’umanità futura e l’odio e i metodi spietati che egli tenta di inculcare come mezzi per giungere a questo bene, discrepanza
270 che nella storia del marxismo ha provocato una grande confusione morale.
L’idea di un bene che nasce “dialetticamente” dal male, di una società nuova e migliore che può nascere solo dalla distruzione del passato, è già un’idea di Marx. Va aggiunto che i rivoluzionari russi, nemici e vittime dello zarismo, avevano a che fare con un potere politico, con uno Stato, una burocrazia, una legislazione poliziesca anche più odiosi del capitalismo. In Russia gli stessi liberali borghesi erano vittime del regime e per qualunque forma di liberal-democrazia non c’era il minimo spazio. La prima rivoluzione, quella del 1905, fu una rivolta di liberali e costituzionalisti borghesi, oltre che di operai e contadini. D’altra parte, Marx conosceva poco e male gli Stati Uniti. Al tempo della guerra di secessione americana definì il governo degli Stati Uniti «la più alta forma di governo popolare fin qui realizzata» ed esortava la classe operaia a simpatizzare con l’unico governo popolare del mondo. Solo più tardi disse che l’America era «il Paese modello dell’impostura democratica», un luogo in cui lo sfruttamento capitalistico procedeva «a passi da gigante». A Marx diventò molto difficile anche solo immaginare la democrazia nel capitalismo. Sull’insensibilità e il disprezzo bolscevichi per la democrazia, la discussione si aprì presto anche nel movimento operaio europeo, quando i suoi rappresentanti cominciarono ad avere a che fare con il gruppo dirigente bolscevico dopo la Rivoluzione d’Ottobre, cioè quando il Comintern cominciò a essere dominato dai russi. Nonostante la loro polemica con le correnti riformiste e socialdemocratiche, sia Rosa Luxemburg che Gramsci si rifiutarono di eliminare spirito e prassi democratici sia all’interno del partito e del movimento, sia dalla prospettiva di un futuro Stato socialista. «L’errore fondamentale della teoria leninista-trotzkista» scrisse la Luxemburg «è che
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essa contrappone, proprio come Kautsky, la dittatura alla democrazia». Ma per Kautsky democrazia significa democrazia borghese, mentre una vera democrazia è socialista: non dittatura «di un partito o di una cricca», ma «dittatura di una classe, cioè nella più larga apertura pubblica, con la più attiva e libera partecipazione delle masse popolari in una democrazia senza limiti». Questa critica a Lenin e Trotzky è una critica preveggente: intuisce il futuro stalinismo nel bolscevismo leninista e trozkista. Se si considera d’altra parte la storia culturale russa dell’Ottocento, al cui centro sono Herzen e Bakunin nonché Dostoevskij e Tolstoj, la tendenza all’estremismo e all’estremizzazione la si trova dovunque. Estremismo neocristiano antinichilista negli autori di Guerra e pace e I fratelli Karamazov; estremismo morale e politico in Bakunin e nelle generazioni successive. Il più moderato e lungimirante fu Aleksandr Herzen, il cui pensiero è sempre stato, accanto a quello di Tocqueville e di Stuart Mill, fondamentale per la sinistra liberal-socialista. Di Herzen si è spesso occupato Isaiah Berlin, forse il maggiore studioso dell’intelligencija russa prerivoluzionaria. L’originalità politica di Lenin, più organizzativa e tattica che teorica, deriva dal clima e dallo stile politico e culturale dell’intelligencija russa di fine Ottocento. La Russia, contrariamente alla Francia, all’Inghilterra e alla Germania, non aveva avuto una vera filosofia, né una sua tradizione di teoria politica. La sua teoria politica si concentrava piuttosto sulla necessità, sul dovere di passare dalla teoria alla pratica, dalle idee alle azioni. Come si vede anche nei romanzi di Dostoevskij, tra il pensiero, giusto o sbagliato, e il delitto, il passo è breve. Il più influente e originale pensatore politico russo dell’Ottocento è Bakunin, un uomo d’azione che diventò presto, nella Prima Internazionale, il maggiore rivale di Marx. E gli anarchi-
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ci, almeno fino al drammatico scontro nel corso della guerra civile spagnola, continuarono a essere, in quanto rivoluzionari radicali e coerenti, i più forti avversari dei marxisti di destra e di sinistra, meno teorici e più portati all’azione esemplare e al terrorismo. Solo molto più tardi, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, tra neomarxismo rivoluzionario e ispirazione anarchica si verificò una particolare complementarità, spesso inconsapevole: fino allo “stalinismo anarchico” dei gruppi terroristici come la Baader-Meinhof e le Brigate Rosse. È interessante ricordare che i critici socialdemocratici russi, i menscevichi, accusarono Lenin di anarchismo. Dissero: «Bakunin è tornato» quando Lenin scrisse le famose Tesi di aprile, prologo alla rivoluzione d’ottobre. Per parlare di sinistra “non-comunista” si dovrebbe allargare lo sguardo al di là del conflitto tra marxismo e anarchismo. Una sinistra non rivoluzionaria e non comunista, come si sa, fu anche quella marxisticamente riformista e gradualista, diffamata non solo dai bolscevichi ma da tutte le correnti rivoluzionarie sia politiche sia culturali. Per tutto il Novecento, con il contributo decisivo di intellettuali, filosofi, letterati e artisti, il riformismo socialdemocratico fu (anche ipocritamente) la “bestia nera”: lo fu per Lukács, Bloch, Benjamin, Brecht, Breton, fino alle neoavanguardie politico-culturali degli anni Cinquanta e Sessanta. Sì all’utopia, no alle riforme, anche quando di utopie credibili ce ne erano ben poche. La figura del rivoluzionario, psicologica, morale, retorica, è sempre stata circondata da una speciale aureola che alludeva alla coerenza inflessibile, all’eroico spirito di sacrificio, a una spietatezza, a seconda dei casi, idealistica o realistica. Come se per capire davvero la realtà “senza veli” e avere le idee chiare su come migliorarla “fino in fondo” fosse necessario “cambiare tutto”, realizzare l’idea, porre le basi di una società definitivamente giusta, nella quale l’individuo si fonde e si realizza nella collettività, la collettività migliora e rende più liberi gli
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individui, e la realtà diventa razionale se sotto controllo. Per questo la società va statalizzata e lo Stato va socializzato fino a estinguersi. Il conflitto fra corrente marxista ortodossa (anche nelle varianti non leniniste) e non comunista si è manifestato presto. Ovviamente, prima di Marx, esisteva già una sinistra che, per semplificare, era rappresentata da Proudhon, Tocqueville, Mazzini, Herzen, Stuart Mill e altri. Fra liberalismo, liberal-democrazia, liberalsocialismo, anarchismo e socialdemocrazia, le obiezioni generali o parziali al marxismo, e più tardi al marxismo-leninismo, furono molte. Per non parlare della lotta spesso feroce fra marxisti ortodossi e revisionisti o eretici. In quest’ultimo caso, la questione era se Marx, nella sua opera scritta e pubblicata, avesse detto e previsto tutto, o se invece la sua teoria presentasse discontinuità, imprecisioni, lacune, elaborazioni incomplete e da correggere alla luce di situazioni nuove e nel passaggio dalla teoria alla politica attiva. In quanto “filosofia della prassi” (formula gramsciana), il marxismo era sia una filosofia (materialismo storico e dialettico) sia una prassi politica, che avrebbero dovuto mettersi reciprocamente alla prova. Prassi corretta, ma anche teoria da sperimentare e di cui verificare la validità. Comunque, lo Stato comunista rivoluzionario leninista, alla resa dei conti di fine Novecento, ha dato frutti di gran lunga peggiori di quelli dovuti alla scelta socialdemocratica e riformista, che ha corretto in “Stato sociale” lo “Stato borghese”. Tornando all’Ottocento, è di per sé interessante che il centrale oggetto di studio scelto da Marx fosse il capitale, l’industria capitalistica inglese, mentre Tocqueville si era dedicato alla descrizione della democrazia in America. Nell’analisi di Marx la democrazia come dimensione sia sociale sia politica è quasi assente, tutto emana per logica necessaria dalla centralità della produzione e della fabbrica. La società è un prodotto della
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fabbrica, o esiste in funzione della fabbrica. Tocqueville mette in ombra l’economia, la produzione sociale di ricchezza e la divisione in classi, per concentrarsi sul primo grande esperimento moderno di socialità e statualità democraticamente orientato. Marx vedeva nel futuro una rivoluzione operaia nei Paesi più sviluppati della società occidentale. Tocqueville (e anche Herzen) vedeva salire all’orizzonte l’astro democratico americano, con tutta la sua energia vitale, il suo dinamismo civile, morale, giuridico. Per la sinistra non comunista e non rivoluzionaria il presupposto generale è che né il liberalismo né la democrazia, benché invenzioni politiche borghesi, possono e devono essere superate. Il socialismo le presuppone: solo che, più coerentemente, deve realizzarle, estenderne i principi a una base sociale senza limiti di classe. Il movimento operaio dovrà servire a questo con le sue lotte, la sua influenza, la sua pressione politica, aumentando la propria presenza all’interno dello Stato. Il giovane Piero Gobetti, nella Torino dei “consigli di fabbrica”, enfatizzerà il rapporto fra liberalismo borghese di sinistra e forza rivoluzionaria operaia, parlando di “rivoluzione liberale”. Già nella Prima Internazionale, con lo scontro tra Marx e Bakunin e con la precoce, sintomatica uscita di Mazzini dall’organizzazione, ma soprattutto dopo la Rivoluzione russa, i fondamentali punti di contrasto fra comunismo rivoluzionario e sinistra non comunista erano concentrati sul rapporto di continuità o viceversa di rifiuto distruttivo della tradizione politica borghese. Oltre al giudizio sul ruolo della democrazia (eliminabile secondo i bolscevichi) c’erano: 1) la valorizzazione o meno dell’individuo, delle sue libertà, dei suoi doveri e diritti; 2) l’utopia di una società definitivamente giusta (non dialettica!) programmata dall’alto; 3) il rapporto con la tradizione culturale, dal marxismo considerata “ideologia”, non verità, mistificazione e copertura della società di classe, e non vista come veicolo e custodia di valori e strumenti critici liberatori.
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Tocqueville, nella sua opera uscita fra il 1835 e il 1840, si proponeva di «far conoscere l’esperimento americano agli europei […] una forza ormai irresistibile». La democrazia poteva avere i suoi limiti, soprattutto culturali (sempre sottolineati, dall’Ottocento al Novecento, da intellettuali, artisti, filosofi). Ma il suo imporsi era diventato storicamente ineluttabile. La democrazia americana, poi, non era assimilabile a quella di cui si parlava in Francia: non era semplicemente uno strumento con cui gli strati inferiori della società miravano a rovesciare l’ordine costituito; ma una realtà in atto: fondamento di una società che valorizza il pluralismo e concepisce l’eguaglianza come parità giuridica di ogni individuo in un contesto istituzionale sia liberal-democratico che capitalistico.
Ma anche a proposito dei pericoli sempre incombenti di una tirannide moderna, Tocqueville è chiaro: «Nulla è più irresistibile di chi comanda in nome del popolo». Negli anni Quaranta, anche Mazzini, parlando di democrazia e di socialismo, si mostrò profetico nei confronti di chi avrebbe promesso “un’eguaglianza assoluta” garantita da una minoranza dispotica di capi. Nel marxismo la teoria del capitale e quella della rivoluzione tendevano a far sparire la società nel suo complesso con la varietà delle sue relazioni private e pubbliche, individuali, associative, istituzionali. Aleksandr Herzen, la mente più lucida del populismo russo e grande scrittore politico, più che teorizzare sulle rivoluzioni riflette su come avvengano: ne descrive le dinamiche e i protagonisti. Che cos’è infatti un’idea di rivoluzione se non si vede chi sono e come si autodefiniscono i rivoluzionari, come si costruisce il “tipo umano”, culturale, politico, del rivoluzionario? Nella sua autobiografia Passato e pensieri sono i rivoluzionari, i patrioti e gli esuli di mezza Europa (polacchi, tedeschi, francesi, italiani) a occupare la scena e a far capire cosa accade e potrà accadere nell’azione di questi gruppi e di questi capi.
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Memorabili i suoi ritratti dei patrioti italiani in esilio, Mazzini e Garibaldi compresi. Eroici e generosi ma anche chiusi nelle loro “idee fisse” e nel loro avventuroso attivismo. Herzen capisce due cose: che i rivoluzionari diventano facilmente degli “habitués della rivoluzione”, con i loro miti, le loro manie e pose, la loro retorica, il loro gergo. E che questo li destina a diventare, una volta al potere, dei dominatori che non sanno accettare di essere contraddetti. Benché liberale e socialista, Herzen parla con realistico scetticismo delle masse e di coloro che ne sapranno interpretare fedelmente gli istinti primari. In certi momenti sembra parlare come i critici antiprogressisti della società borghese e di massa, come Leopardi, Kierkegaard, Flaubert, Baudelaire: Le masse vogliono anzitutto fermare la mano che strappa loro il pezzo di pane che è frutto del loro lavoro […]. Quanto alla libertà individuale e alla libertà di parola, sono indifferenti, amano l’autorità […] la fiera indipendenza dell’individuo li offende […]. A governarsi da sé non ci pensano nemmeno.
Secondo questa intuizione o premonizione, nelle rivoluzioni di massa la democrazia diventa naturalmente antiliberale e anti-individualistica. Qui Herzen non critica Marx, dal quale dissente anche per ragioni di carattere; ma prevede cosa accadrà quando gli istinti primari delle masse si incontreranno con i gruppi dei rivoluzionari a tempo pieno. L’altra sua fondamentale previsione contraddice l’idea di una tendenza della società borghese capitalistica a radicalizzare il conflitto, “proletarizzando” la piccola borghesia e parte dei ceti medi. Destinata a durare, a espandersi e a dominare sarà invece la borghesia al centro della società, non perché tirannica, ma in quanto democratica. Come Tocqueville, anche senza averne le prove, Herzen vede la forza storica potenziale della democrazia; solo che vede la democrazia come un pericolo per l’individuo e per la cultura:
277 La borghesia è l’ultima parola di una civiltà fondata sull’autocrazia incondizionata della proprietà. È la democratizzazione dell’aristocrazia, è l’aristocratizzazione della democrazia […] dal basso tutto tende verso la borghesia, dall’alto tutto cade in essa […]. Gli Stati Uniti rappresentano l’unico ceto medio in cui non v’è nulla in basso e nulla in alto, mentre i costumi borghesi sono rimasti. Il contadino tedesco è un borghese dell’agricoltura, l’operaio di tutti i paesi è un futuro borghese […]. Con la borghesia le individualità diventano scialbe, ma la gente scialba è più sazia […]. In nome di tutto questo, la borghesia vincerà e deve vincere.
E più avanti: La mia appassionata impazienza in questo caso non contraddice affatto la mia sottomissione, piena di abnegazione, ai tragici destini dell’Europa. In Russia vedo una possibilità vicina, la sento, la tocco; in Occidente essa non esiste, perlomeno in questo momento. Se non fossi russo, da un pezzo me ne sarei andato in America.
In termini teorici, con il suo saggio Sulla libertà pubblicato nel 1859 (lo stesso anno in cui esce Per la critica dell’economia politica di Marx) John Stuart Mill, coetaneo di Tocqueville, mette a fuoco lo stesso problema: quali sono «la natura e i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare sull’individuo» – problema che i marxisti hanno sottovalutato fino a cancellarlo sprezzantemente, secondo l’idea che la nozione di individuo è impregnata di ideologia borghese e che quindi l’individuo deve morire, annullarsi nella società comunista. Pessimista circa l’autoregolazione automatica del liberismo economico, Mill si batte per riforme come l’allargamento del suffragio, la libertà sindacale, l’istruzione obbligatoria, le tasse sulla proprietà fondiaria. Centrale nel suo pensiero è il rapporto individuo-società, nel quale devono essere tracciati i limiti tanto alla libertà individuale quanto all’esercizio dell’autori-
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tà pubblica. In democrazia, secondo Mill, ci si deve guardare dalla «tirannia della maggioranza», perché è la società stessa, come realtà e come principio, a poter diventare tirannica ai danni degli individui. E questo genere moderno di «tirannia sociale» può essere, anzi è «più potente di molti tipi di oppressione politica». Anche solo a partire da questi cenni, si è tentati di dedurre che la cultura critica e di sinistra non ha prodotto nel Novecento molto di originale. Ha semmai vissuto drammaticamente, fra rivoluzioni tradite e società di massa culturalmente omologate, quanto era stato previsto nel secolo precedente. Due sinistre (o tre, o quattro) si erano già delineate nel corso dell’Ottocento e i contrasti sono riemersi dopo la Rivoluzione russa. In autori come Karl Kraus, Ortega y Gasset, Adorno, Canetti (sul rapporto fra cultura, massa e potere), nei viaggi in Russia di Joseph Roth (1928) e André Gide (1936), fino alla critica dello stalinismo, del marxismo e dell’idea di rivoluzione con Victor Serge, Souvarine, Simone Weil, Orwell, Camus, Chiaromonte, Berlin (che parte da Herzen e Tolstoj), tornano approfonditi gli stessi temi. I guai culturali stanno tornando oggi, negli anni Duemila. Ci sono filosofi marx-heideggeriani che immaginano l’inizio di una rivoluzione a ogni scontro fra dimostranti e polizia. Ci sono intellettuali che non vedono lo strapotere del capitalismo informatico, né quanto tirannica possa essere la tecnologia della comunicazione come flusso ininterrotto. La stessa democrazia è in pericolo, oggi come sempre e in forme sempre nuove. O più precisamente, in assenza di utopie accettabili, è diventata essa stessa un’utopia.
Indice
Hors-d’œuvre
Intelligenza e intellettuali (2015)
p. 11
Parte I
Teorie letterarie italiane (1999)
p. 21
Come e perché leggere i classici prossimi e remoti (2015)
p. 39
La forma del saggio e le sue dimensioni (2007)
p. 51
A chi piacciono le Opere mondo? (1995)
p. 63
L’invenzione della critica (2015)
p. 81
La critica dopo la teoria (2018)
p. 91
Il menù non prevede la critica (2019)
p. 95
Parte II
Debenedetti e il Novecento (2001)
p. 107
Debenedetti a lezione (1996)
p. 119
Montale irregolare (1997)
p. 125
Pasolini personaggio-poeta (2015)
p. 131
La Pasqua di Fofi (1988)
p. 141
Heidegger e il nazismo innominabile (1988)
p. 149
Il free speech di Henry Miller (2013)
p. 153
Enzensberger saggista. Dall’ansia politica al teatro delle idee (2011)
p. 163
Mistica e teologia in letteratura: Blanchot e Kermode (2021)
p. 195
Parte III
L’Italia di sempre e la sconfitta dell’Illuminismo (2014)
p. 203
Rileggere il Novecento attraverso la poesia (2011)
p. 217
Il Novecento che si allontana (2014)
p. 227
Quando i libri di critica facevano discutere (2015)
p. 233
Umanesimo, umanesimi (2016)
p. 243
La letteratura circostante (2019)
p. 249
Così è finita la stagione delle utopie (2019)
p. 257
Una postilla politica
Rivoluzione bolscevica e sinistra non comunista (2017)
p. 267
Assaggi Collana di saggi di Critica Letteraria Diretta da
Giorgio Ficara e Raffaele Manica
1. Massimo Onofri, Fughe e rincorse. Ancora sul Novecento. 2. Luca Doninelli, Tre lezioni sul Romanzo. 3. Raffaello Palumbo Mosca, L’ombra di Don Alessandro. Manzoni nel Novecento. 4. Paolo Febbraro, Poesia allo stato critico. Saggi e interventi. 5. René de Ceccatty, Sibilla Aleramo. Notte in un paese straniero. 6. Massimo Raffaeli, Compagni di via e altri scritti di letteratura. 7. Alfonso Berardinelli, Antinomie. Letteratura, intellettuali, idee.
Antinomie Quale idea di letteratura è stata elabora nel corso di sette secoli dalla letteratura italiana, da Dante e Petrarca a Pasolini e Calvino? Che rapporto c’è fra critica e autobiografia ogni volta che, di generazione in generazione, la critica letteraria viene reinventata? L’attuale mondo culturale prevede ancora l’attività critica, o preferisce farne a meno trasformandola in pubblicità? A quale tradizione, a quali autori, a quali idee si può ancora guardare oggi come a esempi e fondamenti intellettuali necessari a interpretare il presente della cultura? Nello stile liberamente saggistico e polemicamente dialettico che gli è proprio, Alfonso Berardinelli mette a confronto letteratura e idee, idee e società, dal Novecento a oggi, mostrando che non c’è vita culturale senza conflitti interpretativi, giudizi di valore, contraddizioni e antinomie.
Alfonso Berardinelli è critico letterario e saggista. Ha pubblicato tra l’altro Il critico senza mestiere (1983), La poesia verso la prosa (1994), L’eroe che pensa (1997), Cactus (2001); Stili dell’estremismo (2001), La forma del saggio (2002); Casi critici (2009); Non incoraggiate il romanzo (2011); Discorso sul romanzo moderno (2016); Giornalismo culturale (2021); Un secolo dentro l’altro (2022). Dal 1985 al 1993 ha pubblicato e scritto con Piergiorgio Bellocchio la rivista «Diario». Collabora con «Il Foglio», «L’Avvenire», «Il sole 24ore» e il mensile «Una città».
Collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica
€ 13,00
Assaggi | 7
ISBN ebook 9788855292771