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Italian Pages 346/350 [350] Year 2015
È un fatto: Marte è sempre più vicino. Nonostante i milioni di chilometri che lo separano dal nostro pianeta, i rover ci inviano quotidianamente immagini della sua superficie sempre più precise, e i progetti di colonizzazione e terraformazione si moltiplicano senza sosta. Eppure, il Pianeta Rosso occupa un ruolo fondamentale nell'immaginario collettivo fin dai tempi più remoti, quando lo si vedeva già a occhio nudo brillare nel cielo, e da sempre ha ispirato una notevole quantità di canwni, dipinti, film, romanzi. In epoca più recente, poi, Marte ha rappresentato per il mondo occidentale una delle tante forme assunte dal Sogno Americano, assumendo ora i tratti della frontiera, ora del destino manifesto, ora dell'utopia, ora della caccia alle streghe, ora dell'alternativa ecosostenibile. L'intento di questo volume, che traccia un lungo percorso da Keplero a Tim Burton, passando per Percival Lowell, Orson Welles, Ray Bradbury e il protofemminismo, è di esplorare i molteplici percorsi attraverso i quali la letteratura e il cinema americani hanno creato e tenuto vivo il fenomeno marziano, ivi comprese la tematica dell'alterità, la sindrome da invasione, l'impatto dei media, le questioni ambientali e di genere, facendone una durevole arena di riflessione e discussione culturale e politica che ci invita a ripercorrere il passato e ipotizzare futuri possibili da una prospettiva completamente nuova.
Alessandra Calanchi è professore associato di Lingue e Letterature Angloamericane presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Studi Umanistici e Internazionali dell'Università di Urbino "Carlo Bo", dove insegna Letteratura e Cultura Angloamericana. Studiosa di narrativa ebraico-americana, di noir e di paesaggio sonoro, è autrice dei volumi Vicini wntani. Solitudine e
comunicazione nel romanzo americano (1990), Quattro studi in rosso. I confini del privato maschik ntlla narrativa vittoriana (1997), Dismissing the Body. Strange Cases ofFictional Invisibility (1999) e Oltre il Sogno. La poetica della responsabilità in De/more Schwartz (2008). Ha serino numerosi saggi e curato volumi tra cui American Sherwckitis. Ovvero, come Sherwck Holmes conquistò il Nuovo MomkJ (2005),
Arcobaleno noir. Genesi, diaspora e nuove cittadinanze del noir fra cinema e letteratura (20 14) e Il suono percepito, il suono raccontato. Paesaggi sonori in prospettiva multidisciplinare (20 15).
Tullio Dobner è traduttore di numerosi autori americani fra cui Stephen King, Erskine Caldwell, John Grisham, David Baldacci Ford, lrving Wallace, Walter Tevis, Patricia Highsmith, Scott Turow e Chuck Palahniuk. Nel 2014 ha tradotto il best-seller internazionale Il marziano di Andy Weir per Newton Compton.
Collana Rewind Studi culturali britannici e angloamericani British and Anglo-American Cultural Studies
I ____________________________________________________________ _____________________
Della stessa autrice nel catalogo Aras Edizioni Dietro le quinte del noir. Gli addetti ai lavori si raccontano
Questo testo è stato sottoposto all’approvazione di due referees secondo la normativa vigente.
Alessandra Calanchi
ALIENI A STELLE E STRISCE Marte e i marziani nell’immaginario USA
Postfazione di Tullio Dobner
Collana: Rewind: Studi culturali britannici e angloamericani – British American Cultural Studies
and
Anglo-
Curatori della collana: Alessandra Calanchi, Sergio Guerra, Jan Marten Ivo Klaver, Federica Savini. Comitato scientifico: Maurizio Ascari (Università di Bologna); Stephen Knight (University of Melbourne); Ilaria Moschini (Università di Firenze); David Levente Palatinus (University of Ružomberok, Slovakia); Valerio Viviani (Università della Tuscia).
TUTTI I DIRITTI RISERVATI Vietata la riproduzione anche parziale © Aras Edizioni 2015 ISBN 9788898615759 Aras Edizioni srl, Fano (PU) www.arasedizioni.com – [email protected] © In copertina: progetto grafico di Giorgio Franceschelli
Ai miei figli, Federica e Giorgio, che un giorno forse – come dice Edgar Allan Poe – cercheranno rifugio su qualche stella più felice.
INDICE
REWIND: STUDI CULTURALI BRITANNICI E ANGLOAMERICANI – BRITISH AND ANGLO-AMERICAN CULTURAL STUDIES 11 INTRODUZIONE: SE FOSSI UN MARZIANO
13 PARTE I
1. PIANETA ROSSO, GUERRIERO CELESTE 25 1.1. Antiche cosmologie 25 1.2. Marte fra esoterismo e New Age 30 1.3. Dall’osservazione all’esplorazione 32 1.4. L’esplorazione negli ultimi cinquant’anni 44 2. IL MARZIANO MANIFESTO 55 2.1. Il Manifest Destiny 55 2.2. Scudo Spaziale, Guerre Stellari e New Frontiers 58 2.3. I programmi NASA, ovvero: Has Curiosity killed the cat? 67 2.4. Mars-scapes 78 3. INCONTRI RAVVICINATI DI QUALE TIPO? 3.1. Alien-Nation 3.2. ETI (Extra-Terrestrial Intelligences) 3.3. UFO (Unidentified Flying Objects) 3.4. L’Area 51
87 87 90 103 117
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PARTE II 4. UN CANONE MARZIANO 125 4.1. Mars World Lit 125 4.2. Nel Nuovo Mondo: The Wonders of the Invisible World e gli almanacchi 129 4.3. Eureka: A Prose Poem 134 4.4. Weird Tales, Amazing Stories, Wonder Stories, fumetti e graphic novels 140 5. MARZIANI DI CARTA 5.1. “I wish I were in the Planet Mars!” 5.2. “Not totally alien” 5.3. “Explorers of a new frontier” 5.4. “Magnificent desolation”
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6. I MARZIANI SULLO SCHERMO 6.1. “Shall we go out and claim the planet in the name of Brooklyn?” 6.2. “A galaxy of gore” 6.3. “Promise me that when I die, you’ll scatter my ashes on Mars” 6.4. TV, videogames e altri media
213 213 227 231 234
PARTE III 7. CASO 1: WAR OF THE WORLDS DI ORSON WELLES 239 7.1. “The Man from Mars” 239 7.2. Una guerra a colori: The Red Decade e i “perfidi e verdastri marziani” 243 7.3. Mercury on the Air 249 7.4. Analisi del testo 252 8. CASO 2: THE MARTIAN CHRONICLES DI RAY BRADBURY 265 8.1. L’autore 265 8.2. I Tranquilized Fifties 266 8.3. Il romanzo 269 8.4. Analisi del testo 272 9. CASO 3: MARS ATTACKS! DI TIM BURTON 9.1. Il regista 9.2. I Nineties 9.3. Il film 9.4. Analisi del testo
303 303 307 309 312
Indice
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CONCLUSIONE? 325 POSTFAZIONE Il primo marziano, forse un nuovo marziano: due parole su The Martian di Andy Weir Tullio Dobner 327 OPERE CITATE
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REWIND: STUDI CULTURALI BRITANNICI E ANGLOAMERICANI – BRITISH AND ANGLO-AMERICAN CULTURAL STUDIES
Questa collana nasce con l’obiettivo di creare uno spazio di approfondimento, confronto, dibattito, ripensamento nell’ambito dei cultural studies di Gran Bretagna e Stati Uniti. In particolare intende portare avanti un progetto relativo a tematiche quali l’identità, individuale e collettiva, declinata in tutte le sue forme (di classe, etnica, nazionale o post-nazionale, di genere, religiosa, ecc.), il Canone (o quel che resta del Canone dopo il post-modernismo), i rapporti tra critica letteraria e fandom, la memoria, e a concetti quali l’ibridazione, l’autorialità, la cittadinanza. Il nostro progetto si articola in diverse tipologie di pubblicazione. Accoglieremo monografie e studi specialistici tesi a (ri)discutere singoli argomenti, della contemporaneità o del passato, in prospettiva storica sincronica e diacronica; riflessioni teoriche su autori, movimenti, cambiamenti rilevanti all’interno delle letterature e culture dei vari paesi, con particolare attenzione agli aspetti transmediali e inter-culturali; infine, proposte di traduzione (con testo a fronte) di opere inedite in italiano, anche appartenenti ai secoli passati ma la cui legacy si inserisca in modo costruttivo e stimolante nel dialogo sulla contemporaneità che intendiamo incoraggiare e portare avanti.
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This series is dedicated to the study, debate and rethinking of cultural studies in the United Kingdom and the United States. In particular, it focuses on such issues as individual and collective identities in all their manifestations of class, ethnicity, nationality (or post-nationality), gender, and religion. It also concentrates on the literary and cultural canon (or what remains of it after post-modernism), and the relationship between literary criticism and fandom, memory, hybridization, authorship, and citizenship. Rewind features different kinds of publications. The editors welcome monographs and specialist studies which aim at (re)-discussing specific themes, contemporary or past, from a historical perspective (synchronic and diachronic); theoretical reflections on authors, movements, and noteworthy changes in the literatures and cultures of English-speaking countries, with particular attention to cross-media and cross-cultural approaches; it also accepts proposals of translations of seminal texts not translated into Italian before. Direttori della collana: Alessandra Calanchi, Sergio Guerra, Jan Marten Ivo Klaver, Federica Savini. Comitato scientifico: Maurizio Ascari (Università di Bologna); Stephen Knight (University of Melbourne); Ilaria Moschini (Università di Firenze); David Levente Palatinus (University of Ružomberok, Slovakia); Valerio Viviani (Università della Tuscia). La collana si avvale di blind reviewers. Per proposte e contatti: oppure .
INTRODUZIONE SE FOSSI UN MARZIANO
If we get a good start, We can take Mars apart. (Home on Lagrange, canzone popolare) Fly me to the moon Let me play among the stars Let me see what spring is like On Jupiter and Mars. (Frank Sinatra, Fly Me to the Moon, 1954)
Sono nata nel 1959, esattamente dieci anni prima che gli americani mettessero piede sulla Luna – sempre che l’abbiano fatto davvero, e non abbiano ragione invece i complottisti del Moon Fake, con buona pace di Paolo Attivissimo1. Per serendipity o per pura coincidenza, è del 1959 l’edizione in mio possesso del primo libro di Peter Kolosimo, Il pianeta sconosciuto (1957), dove l’autore scriveva: “Vi possono essere pochi dubbi, ormai: giungeremo lassù. Nel 1970 qualche rappresentante del genere umano tenterà la prima incerta passeggiata nella polverosa desolazione lunare, poi gli stivali isolanti delle combinazioni spaziali premeranno le rosse sabbie di Marte” (1959: 11). Erano gli anni del boom economico e della New Frontier e anche in Italia non si scherzava. Nel nostro piccolo, io e i bambini della mia generazione ci sentivamo proiettati verso un futuro luminoso e il nostro ottimismo si rispecchiava nei pro1 Paolo Attivissimo è autore di un libro molto interessante su questo argomento, scaricabile gratuitamente in rete: (08/06/2014). Torneremo sul Moon Fake, o Moon Hoax, nel secondo capitolo.
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grammi che la TV dei Ragazzi ci elargiva, seppure con parsimonia. Un appuntamento da non perdere era lo Zecchino d’oro, un miscuglio tra il Festival di Sanremo e X Factor per i piccolissimi, un evento dove bambini come noi si esibivano cantando canzoni per bambini e venivano giudicati da una giuria composta da bambini. Ricordo i titoli di vari successi di quegli anni, dal Cosacco Popov (eravamo in piena Guerra Fredda) al Valzer del moscerino al Pulcino Ballerino ai Quarantaquattro gatti (gli animali imperversavano, sull’onda dell’animalismo buonista disneyano); ma io, che pure ero una femminuccia, preferivo le canzoni “da maschi” come Jack il pirata o Se fossi un marziano. Ancor oggi ne ricordo i testi completi (oltre alla musica) e sono convinta che senza aver amato queste canzoni non avrei letto con lo stesso ardore L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, non avrei mai studiato con la stessa passione la letteratura inglese e la letteratura americana, e di sicuro non avrei visto un numero esorbitante di volte 2001 Odissea nello spazio. Se fossi un marziano diceva così: Se fossi un marziano potrei volare Potrei volare e salire nel ciel Potrei rubare la marmellata Senza farmi veder… Sarei elettronico e stereofonico E supersonico e pumfete pum Avrei le valvole in testa e allora Non dovrei più studiar… Ma dovrei vivere sopra un pianeta O su una stella, su una cometa Tanto lontano da casa mia Perciò è meglio ch’io sia Soltanto un bambino nel suo paesino Con un bel giardino e tanti uccellin Con la chiesetta e la fontanella E con mamma e papà.
Nella mia fantasia di bambina (e di figlia unica di modesta famiglia borghese) non mi sarebbe affatto dispiaciuto essere un marziano, cosa che però avrebbe implicato – e ne ero ben consapevole – una mole insostenibile di sensi di colpa, visto che il desiderio di alterità (di genere e di pianeta) mal si coniugava con la buona educazione che i miei genitori si ostinavano a volermi impartire, mandandomi perfino a studiare dalle suore dove, si sa, si imparano le buone maniere. Trasferii dunque il mio desiderio da un piano ontologico identitario (essere un marziano) a un piano interculturale (incontrarne uno) – ma il tempo passava, e, pur con tutta la mia fantasia, non scorsi mai negli oggetti volanti non identificati che transitavano nei cieli estivi alcunché di anche lontanamente simile al marziano che mi raffiguravo.
Introduzione: Se fossi un marziano
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La lunga attesa fu spezzata da due eventi. Il primo fu il momento magico in cui la voce inconfondibile di un emozionato Tito Stagno annunciava agli italiani in diretta TV che il primo uomo stava passeggiando sulla superficie lunare. Incredula, contemplai la celebre scena in un piccolo schermo in bianco e nero a casa degli zii (noi non possedevamo ancora un televisore: mio padre già a quei tempi lo chiamava “il cretinòmetro”) e dopo, tornando a casa rannicchiata sul sedile posteriore di una Fiat 500 color nocciola, guardavo fuori dal finestrino e vedevo la Luna, la stessa Luna che avevo visto in TV! Per giorni in casa mia non si parlò d’altro: ero talmente eccitata che convinsi mio padre a trovare l’indirizzo della NASA (a quei tempi non era cosa facile: non c’era Internet) e a permettermi di scrivere agli astronauti una letterina nel mio inglese da quarta elementare (lui, nonostante scrivesse romanzi Western firmandosi Sheridan, Flowe, Baltimoore e così via, l’inglese non lo aveva mai studiato e nemmeno era stato in America), nella quale – sullo stile di quelle che fino a pochissimo tempo prima avevo indirizzato a Babbo Natale – chiedevo, anzi scongiuravo i sigg.ri Armstrong, Aldrin e Collins di mandarmi un pezzetto di Luna per la mia collezione di minerali. Passarono alcuni mesi e poi, fra lo stupore generale della famiglia, ricevetti una grossa busta con un francobollo a stelle e strisce, che conteneva non già il prezioso frammento lunare che mi avrebbe resa la bambina più felice della galassia, ma una banale fotografia a colori raffigurante i sigg.ri Armstrong, Aldrin e Collins tutti sorridenti, con tanto di firma autografa. Fu per me un’immensa delusione, e solo dopo molti anni mi sono riconciliata con la NASA, comprendendo tardivamente il valore culturale di quel dono prezioso che oggi molti m’invidiano. Per anni il mio amore per lo Spazio Profondo si assopì, complice – devo confessarlo – la visione del film L’invasione degli ultracorpi, che mi costrinse ad abbandonare definitivamente le bambole e a procedere a lunghe ispezioni notturne sotto il letto e dentro l’armadio. Poi, d’improvviso, avvenne il secondo evento cui accennavo prima. Mi capitò fra le mani L’uomo che cadde sulla terra (Walter Tevis 1963) più o meno nello stesso periodo in cui ascoltavo Starman e Life on Mars di David Bowie (1972 e 1973); e il film omonimo di Nicolas Roeg (1976), in cui Bowie ricopriva il ruolo dell’alieno, riaccese definitivamente il mio vecchio amore per la vita extraterrestre. Fu allora che iniziai a vedere (in qualche caso a rivedere), con metodo e rigore scientifico, tutti i vecchi film di fantascienza, da Viaggio allucinante al Pianeta proibito fino al Pianeta delle scimmie… e a quel punto era fatta. Credo che in Italia nessuno oltre a me smangiucchiasse i Mars pensando al Pianeta Rosso, o raccogliesse barzellette sui marziani invece che sui carabinieri. Il tempo, poi, mi ha dato ragione. Nella primavera 2013, navigando in Internet, mi sono imbattuta in un gruppo di americani che stavano facendo un call for papers per una Mars Encyclopedia. Ho risposto prontamente all’appello, e sono
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stata accettata nella squadra. Quanto vorrei che lo sapessero Armstrong, Aldrin e Collins! Ringrazio i due editors, Howard V. Hendrix e Laurel L. Hendrix, scrittori e studiosi di fantascienza, per aver accettato il mio contributo. È un dato di fatto: Marte è sempre più presente nell’immaginario collettivo, a prescindere dalle missioni spaziali americane che negli ultimi anni ce lo hanno reso solo più percepibile, rendendo desueta la posizione di Gilbert Durand che, nel lontano 1964, elencava fra le cose non facilmente raggiungibili o direttamente controllabili i “paesaggi del pianeta Marte”2. Sarà che è il pianeta più vicino alla Terra, sarà che si è sempre ipotizzato potesse contenere acqua, sarà che è associato al dio della guerra (un dio al quale gli umani sono innegabilmente affezionati), ma è palese che nessun altro pianeta ha raggiunto e colonizzato l’immaginazione occidentale, e forse umana, quanto Marte. Qualche esempio? In ordine cronologico. La composizione musicale per pianoforte A Signal from Mars, March and Two Step di Raymond Taylor3 (1901). Il “Martian thinking”, termine usato da Eric Berne, il creatore dell’Analisi Transazionale, per definire lo sguardo puro e libero da condizionamenti e pregiudizi (1972). La canzone della band canadese Klaatu Maybe I’ll Move to Mars, nell’album Magentalane (1981); i sette saggi paradossali che il celebre neurologo Oliver Sacks ha raccolto sotto il titolo Un antropologo su Marte (1995). La fortunata serie del consulente familiare americano John Gray, che comprende Marte e Venere in camera da letto; Marte e Venere si innamorano di nuovo; Marte e Venere: diversi per amarsi; Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (che ha venduto più di 50 milioni di copie e ha avuto due seguiti: E sono tutti sotto stress e E i bambini dal cielo); Marte è di ghiaccio Venere di fuoco (1997-2013). La serie TV Life on Mars (BBC 2006-2007, ABC 2008-2009). La serie animata per ragazzi Futurama: in una puntata, i marziani vivono in “riserve” sotto la superficie di Marte e il capotribù si chiama Vento che canta – è evidente l’analogia con i nativi americani (IV stagione, episodio 6 “La pietra dello scandalo”). La rock band americana Thirty Seconds to Mars, il cui co-fondatore (nel 1998) Shannon Leto ha spiegato in un’intervista: “Siamo letteralmente a 30 secondi da Marte. Ogni cosa è già qui, ora” (2002, Wikipedia.org). La band Mars Arizona, fondata a San Francisco negli anni 2000 da Paul Knowles e Nicole Storto. La cittadina Mars in Pennsylvania, col disco volante nei giardinetti. In un’intervista rilasciata nel 2003, Cynthia Breazel – creatrice del robot emotivamente reattivo Kismet, direttrice della squadra responsabile del rover Sojourner nel 1997 e poi del Mars Exploration Program della NASA e attualmente docente al MIT di Media Arts 2 G. Durand, L’imagination symbolique (1964), cit. in Fink 1988: 103. 3 Vale la pena ascoltarla: anzi, la propongo come colonna sonora di questa Introduzione. (19/02/2015). Arrangiamento musicale di E. T. Paull.
Introduzione: Se fossi un marziano
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and Sciences – ricorda che fin da piccola era stata attirata dalle fotografie di Marte (cit. in Perkowitz 2007: 214). E l’elenco potrebbe continuare. Nel nostro piccolo, in Italia, nel 1930 esce “Viaggio al Pianeta Marte” di Enzo Benedetto come inserto su Il popolo di Cabiria, e Jack Thiking pubblica Sul Pianeta Marte. Strabilianti avventure di un ragazzo prodigio nel 1933, ma il fenomeno più interessante è probabilmente “Un marziano a Roma” di Ennio Flaiano. Apparso per la prima volta in un articolo su Il Mondo il 2 novembre 1954, il racconto fu ripubblicato in Diario notturno con lo stesso titolo nel 1956 e in seguito fu portato in scena dalla Compagnia del Teatro Popolare Italiano di Vittorio Gassman, con partitura musicale di Guido Turchi. Fu un clamoroso insuccesso. “Un marziano a Roma” narra di un’astronave marziana che atterra nel Galoppatoio di Villa Borghese e che scuote in tutte le sue componenti la Roma della fine degli anni ’50. L’eccitazione della folla contagia anche artisti e intellettuali; c‘è chi vede in Kunt (il marziano) l’araldo di una nuova era; c’è chi teme la fine del mondo; c’è ancora chi si abitua in fretta alla novità. Intorno a lui ruotano burocrati, fotografi, donne che cercano di sedurlo e uomini che gli pongono domande esistenziali, finché la normalità riprende man mano il sopravvento e il marziano diventa una macchietta. In tempi più recenti, nel 1991 nasce il fumetto Nathan Never, dove Marte è abitato dai discendenti di una missione spaziale terrestre che, dopo un atterraggio disastroso, sono riusciti a utilizzare i resti della loro astronave per rendere stagne alcune grotte e produrvi un’atmosfera respirabile; l’unica forma di vita indigena è un’ameba mutante che può insediarsi nello stomaco delle sue vittime fino a farlo esplodere. È invece di qualche anno prima (1977) la ballata dialettale A iò vésst un marziàn di Andrea Mingardi, che narra l’incontro con un marziano fuggito dal suo pianeta dove, a causa della guerra e dell’inquinamento, i mari si sono asciugati e non cresce più frutta sugli alberi. Quasi vent’anni dopo, il cantautore Gianluca Grignani ribalta la situazione nella suggestiva canzone Primo treno per Marte, inclusa nell’album Destinazione Paradiso (1995). Questi rispettivamente l’incipit e il finale: “Primo viaggio su Marte / siamo tutti nervosi / tra poco si parte / […] / primo viaggio su Marte / questo è il mese di Aprile / e la Terra non nasce sta per morire”. Nel nuovo millennio troviamo il capolavoro di satira politica Fascisti su Marte, una serie di mini-episodi realizzati da Corrado Guzzanti all’interno del programma televisivo di RaiTre “Il caso Scafroglia” (2002), e l’omonimo film (2006) diretto da Guzzanti e Igor Skofić ambientato nel 1939. Realizzato sulla falsariga dei cinegiornali dell’epoca, narra di una spedizione immaginaria in cui, al grido di “O Marte o morte”, un manipolo di arditi fascisti in camicia nera cerca di colonizzare il “pianeta rosso bolscevico e traditor” portando con sé un pesante busto del Duce a prova della propria incrollabile fedeltà al regime. Nel 2009 ha
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fatto grande scalpore il best seller di Ennio Piccaluga Ossimoro Marte, nel quale si sostiene che il pianeta abbia conosciuto in passato una grande civiltà e sia ancora abitato nel sottosuolo4. Nel 2014, ancora, sono usciti il racconto di satira politica Noccioline su Marte del giovane Alessio Brugnoli e la magnifica traduzione del best seller mondiale The Martian di Andy Weir a opera di Tullio Dobner, che mi ha fatto il grande regalo di scrivere alcune pagine preziose a conclusione di questo volume, nelle quali narra l’esperienza straordinaria di vivere, seppure in modo virtuale, su Marte per tutto il periodo di lavoro richiesto dalla traduzione. Infine, mentre completo questo libro, ascolto la voce di Jovanotti che mi conforta: “Saluti dallo spazio, le fragole maturano anche qua”. Con questo lavoro mi prefiggo di colmare una lacuna evidente non a livello di scrittura creativa o di arti/musica/spettacolo, ma nell’ambito degli studi che riguardano la letteratura e la cultura angloamericana. Ritengo quantomeno singolare il fatto che, mentre esiste un’enorme quantità di letteratura divulgativa su Marte, così come una vasta produzione scientifica specialistica, non esista tuttora un altrettanto ampio corpus critico riguardante il fenomeno marziano, che pure all’interno della storia culturale degli Stati Uniti d’America è degno di essere indagato e approfondito, soprattutto dopo l’avvento degli studi multidisciplinari e interdisciplinari, l’avvicinamento di science e humanities e la redistribuzione (tuttora in progress) dei confini tra discipline e tra saperi. Questo campo di indagini permetterebbe (permetterà?) non solo di avvicinare la fantasia più sfrenata (le utopie del passato riguardanti i mondi abitati o i viaggi interplanetari) alla tecnologia più estrema (cioè quanto di più “reale” abbiamo sotto gli occhi: basta collegarci a Internet per ricevere ogni giorno immagini aggiornate dal Pianeta Rosso), ma anche di comprendere meglio il presente tramite il dialogo continuo che c’è stato per secoli fra la realtà e l’immaginazione (letteraria, artistica, fotografica e cinematografica). Per queste ragioni desidero ringraziare in apertura di questo volume due autori che senza saperlo mi hanno accompagnata in tutta la mia ricerca: Robert Markley, autore di Dying Planet: Mars in Science and the Imagination (2005), e Robert Crossley, autore di Imagining Mars. A Literary History (2011). Così come voglio ringraziare tutte le università americane, i singoli ricercatori, e le varie istituzioni che in questi anni hanno messo a disposizione di tutti un immenso patrimonio letterario che solo fino a dieci anni fa sarebbe stato impensabile reperire e consultare con tanta facilità. Lo stesso vale per i film. Un ringraziamento a parte va alla Cineteca del Comune di Bologna e alla Biblioteca Renzo Renzi, all’Associazione Astrofili Bolognesi e, naturalmente, alla Mars Society americana di cui sono membro. Ancora, ringrazio Tiziano Agnelli, Maurizio Ascari, Gian Italo Bischi, 4 Si rimanda al sito in cui troviamo un commento di Margherita Hack sull’argomento (04/03/2015).
Introduzione: Se fossi un marziano
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Erica Bocchetti, Fiorenza Fabris, Sergio Guerra, Jan Marten Ivo Klaver, Evaristo Lodi, Ilaria Micheletti, Marco Morini, Gabriella Morisco e Giulia Ovarelli che, dal pianeta Terra, hanno creduto nella mia missione su Marte (chi sulla parola, chi leggendomi pien pien come si dice a Pesaro, chi riservandomi molto più tempo e attenzione di quanto sicuramente non meritassi, e chi illuminandomi il cammino con segnalazioni, obiezioni e intuizioni); e un grande grazie a Marco, per avermi accompagnata nel viaggio di andata e ritorno. Il presente volume è strutturato in tre parti, ognuna delle quali si compone di tre capitoli. Nel primo capitolo, intitolato “Pianeta Rosso, Guerriero Celeste”, introduco il discorso su Marte da un punto di vista mitologico, simbolico e astronomico, ripercorrendo per sommi capi la storia della sua percezione culturale, le leggende nate intorno al colore della sua superficie, i suoi significati astrali e astrologici, la sua geografia – o meglio, Marsgrafia. Passo poi a descrivere come si è passati dalla semplice osservazione all’esplorazione dello Spazio e in particolare alle tappe principali dell’esplorazione nel Novecento. Nel secondo capitolo, intitolato “Il Marziano Manifesto”, mi ricollego al concetto tipicamente americano del “Destino Manifesto”, di cui traccio brevemente la storia e il significato al fine di riscontrare le analogie per quanto concerne la “missione” della conquista dello Spazio. Conquista che passa per il programma di difesa definito “Scudo Spaziale” o “Guerre Stellari”, e che è collegata a un’altra nozione fondamentale, quella cioè di “frontiera” vista non come un limite ma, al contrario, come continuo avanzamento, espansione, progresso. Procedo poi a illustrare brevemente la storia delle spedizioni della NASA, e concludo con una descrizione del paesaggio marziano. Il terzo capitolo, intitolato “Incontri ravvicinati di quale tipo?”, chiude la prima parte del volume e si apre su un nuovo concetto particolarmente problematico, quello di “alieno” – termine che può essere usato per indicare sia un immigrato sia un extraterrestre. Passo poi ad accennare al fenomeno degli avvistamenti di UFO, al mistero riguardante l’Area 51, e all’enigma dei “volti” marziani che qualcuno sostiene di vedere sul Pianeta. Apre la seconda parte del volume il quarto capitolo, intitolato “Un Canone marziano”, in cui delineo una breve storia dell’immaginazione “marziana” nei vari Paesi per concentrarmi poi sugli Stati Uniti, in particolare su entità invisibili, abitatori delle stelle e simili dall’epoca puritana alla nascita della fantascienza, attraverso alcune opere particolarmente significative quali The Wonders of the Invisible World in epoca puritana, gli almanacchi fra Sei e Settecento, fino a Eureka di Edgar Allan Poe, per concludere, a inizio Novecento, con una panoramica sulle più importanti riviste del settore e con due brevi carrellate sul mondo dei fumetti, dei graphic novels, della televisione e dei videogames.
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Il quinto e il sesto capitolo sono dedicati rispettivamente alle opere di narrativa e cinematografiche americane concernenti Marte. Mi concentro sui principali contributi che gli Stati Uniti hanno dato finora ai “generi marziani”, focalizzandomi in particolare sulle rappresentazioni del paesaggio e della tecnologia in rapporto alle conoscenze odierne del pianeta, al dibattito scientifico sulla possibilità in un immediato futuro di viaggiare e di abitare su Marte, e alle teorie del paesaggio dal punto di vista della psicologia, dell’ecologia e dei soundscape studies. La terza e ultima parte comprende i tre capitoli finali, che presentano case studies di approfondimento, dedicati ciascuno a un’opera legata a Marte e/o ai marziani; ognuno di essi contiene alcuni passi di close reading (un altro tipo di close encounter, a ben vedere) dell’opera relativa. In particolare, il settimo capitolo tratta War of the Worlds di Orson Welles, la celebre trasmissione radiofonica che nel 1938 provocò un’ondata senza precedenti di panico collettivo, suscitato dalla notizia che i marziani avevano invaso il New Jersey. In realtà non si trattava affatto di una notizia: l’eccezionale interesse che riveste quest’opera sta nel fatto che i contenuti di una commedia furono interpretati come appartenenti a un notiziario. Mi soffermo dunque sia sul radiodramma, ispirato al romanzo dello scrittore britannico Herbert George Wells (1897 su rivista, 1898 in volume), sia sulla potenza della radio come mezzo di comunicazione di massa negli anni ’30. Farò anche alcuni accenni all’opera originaria di Wells e ad alcuni altri remake. Nell’ottavo capitolo mi concentro su The Martian Chronicles di Ray Bradbury, pubblicato nel 1950. Nella sterminata produzione letteraria che riguarda Marte, il volume di Bradbury spicca non solo per la qualità letteraria, ma per la visione complessiva del fenomeno “marziano” come facente parte del progetto nazionale di espansione, per i suoi riferimenti ad altri scrittori americani (primo fra tutti, Edgar Allan Poe) e per la sua eccezionale comprensione dell’alterità come oggetto privilegiato di studio e di confronto (inter)culturale in una società ormai dominata dalla televisione. Anche in questo caso mi soffermerò brevemente sui vari sequels e remakes dell’opera. L’ultimo capitolo affronta un film molto particolare: Mars Attacks! di Tim Burton è un’opera difficile, dissacrante, eterodossa, politicamente scorretta. Tra i numerosi film dedicati a Marte e/o ai marziani ho scelto l’opera di Burton perché pur essendo diversa da tutte le altre le contiene in realtà tutte in sé, ne metabolizza per così dire il senso e la portata emotiva e – dopo i sentimentalismi di E.T. o di Incontri ravvicinati del terzo tipo – ci restituisce il marziano crudele che sicuramente noi umani ci meritiamo. Faremo dunque i conti con la nostra cattiva coscienza, anche se lo happy ending hollywoodiano è dietro l’angolo. Ho concepito questo libro in primo luogo come un modesto contributo agli studi culturali, scegliendo un taglio interdisciplinare per comprendere il fenomeno marziano da diversi punti di vista. In secondo luogo, ho pensato ai miei
Introduzione: Se fossi un marziano
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studenti di Cultura e di Letteratura Angloamericana, una generazione di nativi digitali che vivono un’epoca di grande progresso e che, grazie al computer e alla telefonia cellulare, non hanno un’idea rigida e preconcetta dei confini dello spazio e del tempo. Per loro, un’informazione che ci riporta a un millennio fa e la notizia dell’ultimo progetto in campo aerospaziale appartengono allo stesso bacino di conoscenza; concetti distanti vengono assorbiti in maniera analoga, loro vi accedono senza sforzo facendo semplicemente scivolare il polpastrello su una piccola superficie magica che tengono nella tasca dei jeans. Per questo motivo ho inserito molte date, e spesso anche la nazionalità di appartenenza: per aiutarli a contestualizzare più velocemente eventi e personaggi e per consentir loro di accedere a una conoscenza fatta sì di incroci, riferimenti, ponti ideali, ma che li renda anche consapevoli della Storia (e della memoria storica) e della Geografia (e del suo continuo modificarsi e interagire con la Storia). Cosa può riservare il futuro ai miei studenti? È bene, credo, che si predispongano a viaggi intergalattici da effettuare prima con la mente e poi, probabilmente, con il corpo (virtuale o meno), portando però con sé la conoscenza di quanto è stato pensato, scritto, raffigurato, immaginato, rappresentato, dagli umani che li hanno preceduti nel corso del tempo. Parlare di Marte significa non solo riflettere su un settore specifico della produzione letteraria e cinematografica americana, ma aprirsi a un campo multidisciplinare molto esteso in cui paradossalmente diventa più facile concentrarsi sia sul significato (storico e politico) di parole come frontiera, destino, diversità, cittadinanza, sia visualizzare luoghi e volti evocati sulle pagine dei libri o negli schermi cinematografici, e che prima o poi, magari, loro incontreranno davvero. Mi auguro che quando, come i personaggi di Bradbury, si affacceranno sui canali di Marte, sapranno riconoscere se stessi e riallacciare i fili che collegano il passato al futuro, la realtà all’immaginazione, e gli esseri viventi – umani e non – fra loro. Pensando ai vari rover che transitano oggi sul Pianeta Rosso (fra cui Curiosity) e parafrasando il proverbio inglese “Curiosity killed the cat”, mi chiedo se la scienza verrà loro incontro, donando alle nuove generazioni del pianeta Terra un futuro dorato; oppure se al contrario, come pensava l’autore del “Sonetto alla scienza”, avrà ali d’avvoltoio, e strapperà i gioielli, incastonati con tanta cura nel corso del tempo, dai cieli stellati dell’immaginazione. E chiudo la mia Introduzione con un omaggio a Edgar Allan Poe, il Maestro.
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Sonnet – To Science (1846) Science! true daughter of Old Time thou art! Who alterest all things with thy peering eyes. Why preyest thou thus upon the poet’s heart, Vulture, whose wings are dull realities? How should he love thee? or how deem thee wise, Who wouldst not leave him in his wandering To seek for treasure in the jewelled skies, Albeit he soared with an undaunted wing? Hast thou not dragged Diana from her car, And driven the Hamadryad from the wood To seek a shelter in some happier star? Hast thou not torn the Naiad from her flood, The Elfin from the green grass, and from me The summer dream beneath the tamarind tree?
PARTE I
1. PIANETA ROSSO, GUERRIERO CELESTE
THE FURTHER WE GO THE MORE LIMITED WE BECOME (Barry N. Malzberg, Exploration, 1971) There’s a world on my wall. Mountains, canyons, plains and valleys, all of a faded pinkish ochre, an even tone as plain as a colour can be without being grey. The sun is to the west – shadows fall gently to the right. There are faults and rifts, ash flows and lava fields. There are creases and stretch marks, straight lines and strange curves. There are circles and circles and circles. No cities. No seas. No forests and no battlegrounds. No prairies. No nations. No histories and no legends. No memories. Just features, features and names. Argyre and Hellas and Isidis. Olympus and Alba and Pavonis. Schiaparelli and Antoniadi, Kasei and Nirgal. Beautiful double-rimmed Lowell. Names from one world projected on to maps of another. Maps of Mars. (Oliver Morton, Mapping Mars, 2003)
1.1. Antiche cosmologie
“Prima che un pianeta, Marte è un mito antico che persiste fino ai giorni nostri”. Così inizia Il pianeta rosso di Francis Rocard (2009: 7), astrofisico francese responsabile del programma di esplorazione del sistema solare presso il CNES (Centre National d’Etudes Spatiales). È impossibile non concordare con questa affermazione. All’inizio del mito, prosegue Rocard, vi è presumibilmente il colore rosso di Marte, visibile nel cielo a occhio nudo; e vi ha contribuito con ogni probabilità anche l’osservazione del suo moto, in qualche modo anomalo: un moto che, essendo per qualche mese retrogrado (tanto che gli egizi lo chiamavano sekded-ef
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em khetkeht, “quello che viaggia all’indietro”), mise presto in difficoltà il modello tolemaico. L’astrologo e astronomo greco Tolomeo, nel II secolo d.C., non credeva infatti che la Terra si muovesse, ma la concepiva come il centro dell’universo, e così si continuò a pensare fino alla rivoluzione copernicana, iniziata nel 1543 con la dichiarazione che la Terra gira intorno al Sole. La posizione di Marte, invece, situato com’è fra la Terra e Giove, e anche le sue dimensioni, potrebbero averne aiutato il senso di “familiarità” – tant’è vero che alla fine dell’Ottocento il celebre astronomo francese Camille Flammarion, come vedremo in seguito, affermava la sua abitabilità e ammetteva la possibilità che i suoi abitanti ci assomigliassero. Robert Markley parla chiaramente di “humankind’s obsession with Mars” (2005: 18): di fatto, Marte è il corpo celeste più studiato fin dagli inizi dell’astronomia, a eccezione forse della Luna, e la presenza di acqua sulla sua superficie è stata percepita come plausibile, se non addirittura probabile, fin dai tempi più remoti. Come scrive Robert Crossley, “Mars is part of our cultural history, a repository of human desire, a reflection of our aspirations, confusions, and anxieties” (2011: 7). Lo osservarono, e lo studiarono, già i primi astronomi dell’antichità: i sumeri (che, tremila anni prima di Cristo, ne osservarono il colore rossastro e lo associarono al sangue e di qui al loro dio della guerra, Nergal1; Asimov 1991); i babilonesi (il cui re Etana, secondo una leggenda, visse 5000 anni e visitò la Luna, Venere e Marte; Drake 1975); i cinesi (che duemila anni prima di Cristo lo chiamavano “l’astro rosso” o “la luce sfavillante”), i giapponesi (che lo chiamavano Kasei); gli indiani (che lo chiamavano Angaraka, “carbone ardente”, e Lohitanga, “corpo rosso”), gli egizi (che lo chiamavano “Harmakhis” e, secondo alcune teorie commerciavano addirittura con lui)2; gli arabi (che lo consideravano come un guerriero celeste sempre in procinto di colpire i terrestri con le sue lance: un’immagine che ritroviamo nella freccia pronta a essere scoccata delle raffigurazioni astrologiche e nel segno della freccia che indica il simbolo biologico maschile) e i persiani (che lo chiamavano Pahlavani Siphir, “guerriero celeste”); e la lista potrebbe continuare per pagine (Drake 1975; Asimov 1991; Mallove 1991; Crossley 2011)3. Anche i greci diedero al pianeta il nome del dio della guerra Ares (che divenne poi Mars in epoca romana). L’origine di questa scelta, condivisa, come abbiamo visto, da vari popoli, è forse legata al moto irregolare del pianeta, che fa pensare alla guerra, al disordine, al subbuglio; o forse, piuttosto, è legata al suo colore rossastro, dunque al sangue che scorre in battaglia. È curioso pensare che “ai tempi in cui Marte ottenne il suo nome, il ferro era conosciuto solo nei frammenti di meteorite e questi non arrugginiscono. Quando la gente imparò a conoscere la 1 Nergal è citato in vari siti web anche come dio della guerra dei sumeri, dei babilonesi e dei caldei. 2 (04/03/2015). 3 Si veda anche (04/03/2015).
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ruggine, l’associazione tra Marte, il sangue e la guerra era già vecchia di centinaia di anni” (Asimov 1991: 251). I latini dedicarono poi al Pianeta il mese di marzo (il primo del calendario romano) ritenendo Marte il padre di Romolo, il mitico fondatore di Roma, e costituirono i Salii Palatini, dodici sacerdoti consacrati a Marte. Quest’ultimo era dunque anche il padre spirituale dell’impero, come sostiene Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.) nel Libro I del suo Ab urbe condita. Marte, in realtà, è solo uno dei nove pianeti conosciuti del Sistema Solare e il quarto contando dal Sole, dopo Mercurio, Venere e la Terra. Dista dal Sole circa 228 milioni di km (quasi cento milioni più della Terra) e percorre un’intera orbita in poco meno di due anni terrestri. Conosciuto, come si è visto, fin dai tempi antichi, i suoi “canali” furono studiati dall’americano Percival Lowell solo nei primi anni del Novecento. Nel 1845 l’archeologo Henry Layard scoprì la leggendaria città di Ninive nei pressi di Mossul (nell’attuale Iraq), una città dimenticata per 2400 anni sotto le colline: ebbene, la maggiore scoperta riguardò la sua vastissima biblioteca di tavolette che contenevano studi sugli astri, tra cui un’intera opera, databile intorno al 1700 a.C., dedicata alle osservazioni di Marte. I caldei (una popolazione semitica abitante la parte inferiore della Mesopotamia dal IX all’VIII secolo a.C., dopo di che si mescolò con altri popoli), eredi dello gnosticismo egiziano da un lato, della tradizione astrologica babilonese dall’altro, e dediti al culto degli astri, avevano veri e propri osservatori – la Torre di Babele o Etenemanki, alta 90 metri, era uno di questi – da cui i sacerdoti osservavano i pianeti, fra cui Marte4. Secondo il sistema cosmologico dei caldei, il culto dei pianeti era associato a esseri soprannaturali simili ad angeli. Inoltre le sfere celesti erano numerate dalla più piccola (Luna) alla più grande (Giove); il Sole era la sfera numero 5 e Marte la numero 6. I sabei (una popolazione araba preislamica), invece, avevano divinità somiglianti agli Arcangeli della Bibbia e agli Amerta Spenta (gli Immortali) dei magi persiani. Secondo loro, in ogni sfera planetaria risiede una presenza “angelica” che ne regola il movimento e gli influssi magici. Nella gnosi islamica, e in particolare nella cosmologia degli sciiti (il ramo islamico che fin dal 632 d.C., alla morte di Maometto, si oppose ai più integralisti e numerosi sunniti) Marte (Mirrikh) appartiene ai sette cerchi o epicicli ed è collegato alla lettera M (il Trono, ’Arsh) e alla lettera H (quinta sfera, cielo di Marte) nella composizione della parola Basmallah, “in nome di Dio”. Nella liturgia legata a Marte è necessario indossare paramenti di colore rosso e un anello di rame, e l’angelo invocato è Rubiyael (Corbin 1986: 119121). Nel suo libro Temple and Contemplation, Corbin ricorda anche lo svizzero Paracelso – fisico, botanico, alchimista, astrologo e occultista rinascimentale, nonché fondatore della tossicologia, – secondo il quale “he who has knowledge 4 Gianni Viola, “Pianeta Marte”, in: (07/04/2014).
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of Mars knows the property of fire, and vice versa” (cit. in Ibidem: 94). Per quanto riguarda l’antico mondo ebraico, nel Sefer Yetzirah (ebraico: רפס הריצי, Sēpher Yəṣîrâh – “Libro della formazione” o “Libro della Creazione”, il primo libro della Kabbalah e ritenuto il più importante testo di riferimento dell’esoterismo ebraico) i sette pianeti, come gli angeli, sono correlati alle forme della spiritualità. In particolare, Marte è associato al benessere, al lunedì e all’orecchio destro (gimel )ג5. Nell’ambito delle civiltà precolombiane, i Maya sono noti per le loro competenze in campo astronomico: conoscevano certamente Marte e i suoi movimenti, tanto che alcuni ricercatori hanno recentemente rivelato la conoscenza Maya di alcuni cicli di Marte sconosciuti agli astronomi occidentali (Bricker et al. 2001). Marte veniva osservato a occhio nudo e rappresentato (si vedano ad esempio i Codici di Dresda e di Madrid) come un animale mitico appeso alla volta celeste, probabilmente per via del movimento retrogrado6. Nel Nord America, i nativi conoscevano Marte e avevano varie leggende sul Pianeta. Per i Pawnee, ad esempio, esso era un dio, chiamato “red morning star warrior”, che si sposò con “the female evening star” (il nostro pianeta Venere) per dare alla luce la stirpe degli umani7. Gli Hopi credevano invece che i loro antenati provenissero dal Pianeta Rosso, e che avessero costruito nel deserto americano canali come quelli del loro pianeta – canali che si ritrovano anche in molti motivi decorativi del vasellame indigeno (Drake 1975). Nell’antica Cina, Marte era considerato una “stella di fuoco”8 e il suo transito nella casa lunare xin (ovvero il passaggio di Marte nella costellazione dello Scorpione) era considerato infausto dagli astrologi: prediceva infatti la caduta del Primo Ministro o la morte dell’Imperatore. Secondo il Trattato sui segni celesti, il raro evento si verificò nella primavera del 7 a.C. e il Primo Ministro si uccise su richiesta dell’Imperatore, il quale, spaventato dalle interpretazioni dei fenomeni celesti, sperava così di poter salvare la propria vita; egli però morì improvvisamente di lì a poco. Calcoli recenti, tuttavia, mostrano che in quell’anno un tale evento astrale non si verificò in primavera, bensì in autunno. Se ne conclude che tale registrazione dell’evento celeste fu creata ad arte dagli astronomi imperiali9. Spostandoci verso Occidente, nel Secondo Libro (o Libro Slavo, o I segreti, o Apocalisse) di Enoch – un apocrifo dell’Antico Testamento scritto in greco e giunto a noi nella sua traduzione paleoslava – è nel “terzo cielo” di Marte che Enoch vede il Giardino del Paradiso in mezzo al quale sorge l’Albero della Vita. I riferi5 (18/03/14). 6 (13/01/2015). 7 (15/01/2015). 8 (15/01/2015). 9 (15/01/2015).
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menti a Marte sono numerosi anche nella Commedia di Dante (c. 1308-1321), dove troviamo il V Cielo (o Cielo di Marte) del Paradiso a partire dalla Terra, corrispondente a Marte e governato dall’intelligenza. Dante vi incontra gli spiriti combattenti per la fede, tra cui l’antenato Cacciaguida e Carlo Magno, oltre ai crociati e ai martiri 10. È descritto nei Canti XIV, XV, XVI, XVII e XVIII della III Cantica e Dante vi ascende con Beatrice dopo aver contemplato lo sfolgorio delle luci dei beati del IV Cielo, che lo abbaglia: quando riacquista la vista, si accorge di essere entrato nel Cielo di Marte per il suo colore rosso. I beati di questo Cielo sono disposti lungo i bracci di una croce, che simboleggia probabilmente il trionfo di Cristo e della fede11. Proseguendo verso ovest, arriviamo nel continente americano, dove fenomeni come quello del Grand Canyon, dovuti ad antichi cataclismi e alla caduta di meteoriti, hanno fatto sorgere leggende secondo le quali i nativi americani sarebbero i discendenti di creature sopravvissute a tali bombardamenti cosmici, che si sarebbero salvate rifugiandosi in caverne sotterranee. Ma c’è anche chi pensa che l’attuale California un tempo fosse un’isola, e in particolare la parte più orientale della sepolta Lemuria (di cui faceva parte anche l’arcipelago del Giappone). Los Angeles, poi, dovrebbe il suo nome a creature alate che non sarebbero angeli bensì creature extraterrestri (Drake 1975). Anche in tempi più recenti, l’immaginazione riguardante Marte non ha mai conosciuto sosta, e anzi ha talvolta anticipato le scoperte scientifiche. Per fare solo qualche esempio, vale la pena ricordare che Jonathan Swift descrisse le due lune di Marte12 nel 1726 (nei Gulliver’s Travels), ovvero centocinquant’anni prima che Deimos e Phobos, come vedremo, venissero scoperti da Asaph Hall dal Washington Naval Observatory (1877). È probabile che Swift si fosse ispirato per queste lune marziane addirittura a Omero, il quale menziona nel canto XV dell’Iliade (c. 750 a.C.) i due figli del dio della guerra, e che avesse citato la terza legge di Johannes Kepler (conosciuto in Italia come Keplero) per dare una veste scientifica al suo racconto (Drake 1975). 10 L’assonanza con Marte potrebbe essere qualcosa di più di un falso nesso etimologico. È vero che martys in greco vuol dire una cosa, Mars in latino ne indica un’altra – uno è il testimone, l’altro è il dio della guerra romano, oppure la guerra stessa – però il fatto che non ci sia nessun rapporto dal punto di vista etimologico non significa che per Dante non fosse suggestivo l’accostamento dato dall’omofonia e quindi implicitamente paretimologico. Dante il greco non lo sapeva, e usava le Derivationes di Uguccione da Pisa, le cui etimologie sono molto fantasiose, quindi per lui Marte e i martiri potevano tranquillamente avere un legame a livello di significanti. Ringrazio Roberto Danese, Marco Dorati e Francesco Fioretti per le illuminanti conversazioni sull’argomento. 11 (19/01/2015). 12 Il fatto che Swift potesse conoscere l’esistenza delle lune di Marte fece nascere la curiosa supposizione (confermata dal colorito olivastro dello scrittore) secondo la quale egli avrebbe potuto essere un marziano (Drake 1975).
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Nello stesso secolo, l’astronomo tedesco Johann Elert Bode, studioso dell’orbita di Urano, ipotizzò l’esistenza di un pianeta allora sconosciuto, situato fra Marte e Giove. Nel 1801 l’italiano Giuseppe Piazzi localizzò un piccolo asteroide che chiamò Cerere; da allora ne furono scoperti altri 5000. Secondo alcune leggende, si tratta dei frammenti di un pianeta antico, chiamato Fetonte o Maldek, il quale fu distrutto da un’esplosione: i superstiti avrebbero trovato rifugio in parte su Marte, in parte sulla cima delle montagne più alte della Terra (Drake 1975). Ancora, The Secret Doctrine, opera di teosofia in due volumi pubblicata nel 1888 da Helena Petrovna Blavatsky (di origine russa, fu co-fondatrice della Società Teosofica di New York nel 1875, dopo aver conosciuto e combattuto al fianco di Garibaldi in Italia) contiene una parte intitolata The Stanzas of Dzyan, in cui si legge che i Lemuri, angeli caduti da Venere e da Marte, erano esseri androgini che col tempo si trasformarono in uomini e donne13. Nel 1901 lo scrittore austriaco Otto Dross pubblicò Marte, un mondo in lotta per la sopravvivenza, in cui vedeva i marziani impegnati in una dura resistenza ecologica finalizzata a conservare le condizioni di vivibilità del pianeta tramite l’utilizzo moderato della poca acqua disponibile. Tra i molti altri studiosi “eretici” vale la pena ricordare lo psichiatra e psicanalista ebreo russo emigrato in America Immanuel Velikovsky, docente universitario e autore del best seller Worlds in Collision (1950), in cui egli reinterpreta in modo assolutamente personale gli eventi della storia antica contestando sia la scienza ufficiale sia l’Antico Testamento. Tra le altre cose, sostiene che circa 750 anni a.C. la Terra entrò in collisione con Marte e che il loro scontro nello spazio causò disastri e devastazioni e perfino lo spostamento dei poli (Drake 1975). Più tardi, in Italia lo scrittore e divulgatore scientifico Peter Kolosimo (pseudonimo di Pier Domenico Colosimo) in Astronavi sulla preistoria riporta l’ipotesi, formulata dal professor Anthony Christie dell’Università di Londra, che i disegni sui tamburi di bronzo della cultura Dong-son nel Vietnam settentrionale raffiguranti creature piumate e imbarcazioni si riferiscano a marziani. I versi che riporta, “Soffia, o vento, dal mare!/Portaci sopra la Terra”, hanno come titolo nell’edizione italiana “Marziani in Vietnam” (Kolosimo 1972: 46). 1.2. Marte fra esoterismo e New Age
Nelle lingue romanze, quasi tutti i giorni della settimana hanno nomi di origine planetaria e associati agli dei (nel nostro caso, il martedì è associato a Mars). Nelle lingue germaniche, il martedì è assegnato a Tyr, divinità della guerra corri13 (19/01/2015).
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spondente al Marte latino. Questo vale per la maggioranza delle lingue occidentali, dall’italiano al francese, dall’occitano all’aragonese, dal rumeno all’inglese, e anche per molti dialetti locali14. Di qui sono nati proverbi e credenze popolari legate al significato simbolico del giorno della settimana; in molte regioni d’Italia troviamo ad esempio il detto “Di Venere e di Marte non si sposa e non si parte”, in quanto Marte è considerato infausto per il suo carattere guerresco (e in associazione con Venere la sua litigiosità può solo peggiorare). Anche il terzo mese dell’anno è legato a Marte (Marzo, March, ecc.). Entrando nell’ambito dei talismani, a Marte sono associati un particolare quadrato magico (kamea) e tre simboli – Sigillo del pianeta; Intelligenza: Graphiel; Spirito: Bartzabel (Regardie 1972). Pier Luca Pierini riporta un rituale dedicato a Marte, da iniziare nel giorno del martedì in luna crescente; utilizzando candele rosse, il talismano del pianeta, incenso, e leggendo alcuni Salmi (19, 67, 89 o 90) si può chiedere (e ottenere) “Successo, potenza, forza, ardimento, azione, dinamismo, carica, coraggio, vigore psicofisico, vittoria delle imprese e sui nemici, abbattimento di ostacoli, energia attiva in ogni progetto, protezione e difesa occulta da ogni forma di negatività e avversità” (1998: 110). Veniamo ora ai metalli. Il ferro è il metallo di Marte, simbolo della forza, dell’energia e della violenza. È la forza che permette all’uomo di far fronte a tutti gli ostacoli e di raggiungere il proprio intento. Inoltre Marte conferisce il riverbero rosso al rame di Venere. Quest’ultima (sua compagna nell’Olimpo) è collegata infatti al rame, che esiste in due forme: rame giallo associato al Sole e rame rosso associato a Marte. Il rame, secondo alcune medicine alternative, cura le malattie della pelle, dei reni e i crampi, processi che portano alla superficie fenomeni emotivi, malattie e spasmi che dipendono da irritazioni e frustrazioni relative a legami spirituali (Eerenbeemt 1977). Marte è preso in considerazione anche dalla chiromanzia. Ci sono ben due “monti di Marte” sul palmo della mano15. Per quanto riguarda invece il piede, in India esiste una forte tradizione di riflessologia plantare e vi sono varie scuole di cui una si rifà all’astrologia. Secondo quest’ultima, assieme ai tipi venusiano, lunare, solare ecc. esiste il “piede marziano”: lungo, quadrato, muscoloso e solido, con dita spesse (D. Scott 2008: 94). Continuando col corpo, lo Swara Yoga collega Marte alla narice destra. Lo Swara Yoga – detto anche la scienza delle narici – ci insegna fra le altre cose che noi non respiriamo usando contemporaneamente le due narici: una ha sempre dominanza sull’altra, come gli emisferi. Studi sui cicli circadiani ci riferiscono come la dominanza delle narici si alterni ogni due ore (nei bambini ogni ora). Le narici inoltre seguono il sole e cambiano 14 (15/01/2015). 15 (07/04/2014).
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dominanza una mezz’ora prima che il sole sorga. La narice dominante all’alba chiude anche il giorno, al tramonto. Ebbene, secondo questa disciplina le narici all’alba hanno anche corrispondenza con i pianeti. La destra è solare, maschile, collegata all’emisfero sinistro e ai cosiddetti pianeti solari (Sole, Marte, Saturno); il martedì, sabato e domenica la narice destra lavora con il pianeta che governa il giorno per un’ora. La sinistra invece è lunare, femminile, collegata all’emisfero destro e ai cosiddetti pianeti lunari (Luna, Mercurio, Giove, Venere)16. I pianeti sono collegati anche ai colori. Come già detto, il colore associato a Marte è il rosso: è il colore dell’energia, della mente diretta a uno scopo e della vittoria. Rispecchia la sensualità e la sessualità. È una vibrazione eccezionalmente stimolante, che esercita un’azione eccitante nei casi di depressione. Se entriamo nell’ambito dell’aromaterapia, vedremo che vi sono specifici profumi legati a Marte: in particolare, fragranze e legni che favoriscono l’ispirazione; incensi di aloe, bergamotto, cannella, cipresso, citronella, elemi, garofano, geranio, limone, mimosa, mirra, mirto, pino, verbena, zenzero, zibetto. L’albero legato a Marte è il pino (Droesbeke 2000). Nella tradizione induista e buddista troviamo infine i chakra, centri energetici situati in punti specifici del corpo: ebbene, Marte è associato al III chakra (Manipura), più o meno a livello del plesso epigastrico, legato alla volontà e alla determinazione17. 1.3. Dall’osservazione all’esplorazione
Le scoperte principali relative a Marte avvengono, in età moderna, grazie all’invenzione del telescopio (1608) e all’affermazione dell’eliocentrismo da parte del polacco Mikołaj Kopernik o Nicolaus Copernicus (noto in Italia come Niccolò Copernico) nel 1543, una teoria perfezionata poi da Keplero attraverso lo studio del movimento dei pianeti. A Keplero si deve anche l’interpretazione musicale della struttura dell’universo, a sua volta basata sulla geometria: tra le orbite di Giove e di Marte si può tracciare un quadrato, fra le orbite di Marte e della Terra un pentagono, ecc. Tra i pianeti ci sarebbero intervalli musicali e l’armonia celeste sarebbe legata alle velocità angolari dei pianeti rispetto al Sole; i pianeti tutti insieme emetterebbero un canto polifonico udibile non alle orecchie ma alla mente (Zanarini 2015). Nel 1600 (lo stesso anno in cui l’italiano Giordano Bruno viene messo al rogo) Keplero incontra il danese Tycho Brahe (che nel 1563, all’età di 17 anni, aveva misurato per la prima volta la posizione di Marte rispetto 16 Cfr. dispense di Tiziano Guerzoni, docente presso l’Accademia di Naturopatia ANEA, Modena, 2013. 17 (19/01/2015).
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alle stelle; cfr. Bianucci 2012) e, una volta assunto nel suo osservatorio, inizia a studiare l’orbita marziana: inizia così una vera e propria “guerra contro Marte”, in quanto “Il pianeta rosso era il più restio a farsi inquadrare nel modello eliocentrico” (Ibidem: 52, 67). Nel 1609 come mathematicus imperiale pubblica Astronomia Nova, in cui afferma tra l’altro che “Solo Marte ci permette di penetrare i segreti dell’Astronomia, che altrimenti ci rimarrebbero nascosti”: Marte ha infatti l’orbita più ellittica di tutti i pianeti noti al tempo (solo Plutone, che verrà scoperto nel 1930, ha un’orbita più allungata; Rocard 2009: 15). L’aspetto più interessante è che Keplero scopre che le orbite dei pianeti sono ellittiche “rovesciando il punto di vista, operazione tipica delle personalità creative: immagina di osservare il moto della Terra da Marte, anziché il moto di Marte dalla Terra” (Bianucci 2012: 68). Nel 1609-1610 l’italiano Galileo Galilei, osservando Marte, si accorge che esso non è perfettamente rotondo, e in una lettera all’abate Padre D. Benedetto Castelli sostiene di aver individuato le fasi di Marte in conformità al modello copernicano. Nel 1636, grazie a un modello più elaborato di telescopio, egli scopre il moto di rotazione del pianeta; nello stesso anno, un altro italiano, Francesco Fontana, realizza il primo disegno di Marte, che però non è affatto attendibile a causa della bassa qualità del telescopio usato. L’astronomo olandese Christiaan Huygens, autore del Cosmothereos, uscito postumo, deduce che il pianeta ruota su se stesso, secondo un ciclo che assomiglia a quello terrestre, basato dunque sulla successione dei giorni e delle notti; nel 1672 redige il primo disegno che mostra chiaramente la cappa polare meridionale di Marte (descrivendo la chiazza bianca come “ghiaccio marziano”)18 e calcola anche il diametro del pianeta, pari al 60% di quello della Terra (Rocard 2009). Crede inoltre che esistano altri pianeti, la cui abitabilità sarebbe un segno dell’ordine divino del cosmo (Markley 2005). Un altro astronomo italiano, Giovanni Domenico Cassini, docente presso l’Università di Bologna, si occupa a fondo del pianeta Marte e dopo numerose osservazioni conclude che Marte gira su se stesso in 24 ore e 40 minuti. La durata reale supererà solo di un minuto quella da lui calcolata. I suoi risultati sono riportati sul Journal des Savants del 31 maggio 166619. Anche suo nipote Giacomo Filippo Maraldi osserva Marte per quasi mezzo secolo (Markley 2005). Ma ciò che fa sensazione è la pubblicazione di un libro del francese Bernard le Bovier de Fontenelle, 18 In tempi molto più recenti si è parlato nuovamente di ghiaccio quando la sonda Phoenix, inviata su Marte nel 2008, trovò, grazie al suo braccio meccanico, una lastra di materiale riflettente. La notizia suscitò molto scalpore: la notizia che c’era ghiaccio su Marte non fu smentita nemmeno dal professor Peter Smith, della University of Arizona, il quale in un’intervista sostenne che non poteva trattarsi di sale, come qualcuno aveva suggerito, poiché una fotografia successiva mostrava che il materiale in questione era evaporato. (07/04/2014). 19 Gianni Viola, op. cit.
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Entretiens sur la pluralité des mondes (1686; tradotto in dieci lingue, fu proibito dalla Chiesa Cattolica fino al 1900), a cui si ispirerà il tedesco (poi emigrato in Inghilterra) William Herschel – musicista, astronomo, fisico e scopritore del pianeta Urano nel 1787 – il quale, convinto assertore delle analogie fra Marte e la Terra, sosterrà che anche Marte è abitato da esseri viventi (Tucci 1998). Verso la fine del Settecento, si osserva che l’asse di rotazione di Marte presenta un valore molto vicino a quello della Terra, il che fa intuire che Marte debba possedere quattro stagioni come il nostro pianeta. Nuove osservazioni vengono effettuate al telescopio negli anni 1777, 1779, 1781 e 1783 (anni di opposizione di Marte)20 dal citato Herschel. I suoi lavori sono pubblicati su Philosophical Transactions (1781-1784) e fra i molti titoli citiamo Sulla configurazione delle regioni polari del pianeta Marte, l’inclinazione del suo asse, la posizione dei suoi poli e la sua apparenza sferoidale, con alcuni accenni relativi al suo diametro reale ed all’atmosfera 21. Nel 1780 Herschel conferma l’esistenza di calotte polari (Rocard 2009). Tra il 1785 e il 1802 (anni di opposizione di Marte) vengono effettuate alcune osservazioni dal tedesco Johann Hieronymus Schroeter, il quale aveva costruito personalmente un osservatorio a Lilienthal, presso Brema. Pare si debba a questo studioso il termine “areografia” (da Ares) al posto del termine “geografia” (da Gea, il termine greco che indica la Terra) quando si parla di Marte. Si deve invece a due suoi connazionali, Wilhem Beer e Johann Heinrich von Mädler, la compilazione di carte topografiche della Luna (1834) e di Marte (1840). Quest’ultima, pur essendo notevolmente inferiore a quella della Luna, rappresenta il primo tentativo di riunire in un solo quadro tutte le informazioni sulla morfologia di Marte fino a quel momento acquisite22. Le loro mappe delineano una geografia familiare, in quanto ispirata in parte all’analogia con la Terra, sebbene, naturalmente, “stripped of many of the sociopolitical overtones that characterized European map-making: without nations, borders, or colonies, Mars appears as a kind of environmental thought experiment on which presumed landforms and bodies of water can be observed or 20 Gli anni di “opposizione perielica” sono quelli in cui Marte è più vicino alla Terra e quindi più osservabile. In astronomia, più precisamente, si ha l’opposizione di un corpo celeste rispetto a un altro quando il primo corpo si trova nella direzione opposta (ovvero a 180°) dal secondo, rispetto all’osservatore. Ad esempio, diciamo che Marte è in opposizione rispetto al Sole quando il pianeta si trova sulla sfera celeste a 12h in ascensione retta dal Sole. Date le caratteristiche dell’orbita marziana, una “grande opposizione” avviene circa ogni 15-17 anni. In questa circostanza il disco del pianeta può raggiungere una dimensione angolare di 25,10”. La più stretta degli ultimi anni si è verificata 27 agosto 2003, con Marte a “soli” 55, 73 milioni di km. Cfr. wikipedia; (07/04/2014). La prossima opposizione importante sarà il 13 ottobre del 2020 (30/04/2015). 21 Gianni Viola, op. cit. 22 Ibidem. Mappe della Luna esistevano in realtà fin dal XVII secolo.
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partially deduced” (Markley 2005: 50-51). Flammarion saluta i due scienziati come “true pioneers”, paragonandoli a Cristoforo Colombo (cit. in Ibidem: 50). Nella prima metà dell’Ottocento, diversi astronomi concordano sull’esistenza su Marte di macchie continentali giallastre, di macchie scure che rappresentano mari e oceani e, infine, di linee che attraversano i continenti: Wilhelm Beer, Johann Heinrich, Angelo Secchi, Sir Joseph Norman Lockyer – i primi due tedeschi, il terzo italiano, il quarto inglese (Rocard 2009). E altri studiosi si occupano di Marte: F. Kaiser in Olanda, Dominique François Arengo in Francia e il gesuita Padre Angelo Secchi (che lavora presso la Specola Vaticana, una delle più antiche istituzioni di ricerca astronomica del mondo, con quartier generale presso la residenza estiva del Papa a Castel Gandolfo in provincia di Roma) in Italia. Quest’ultimo in particolare è il primo studioso ad accennare ai “canali” di Marte (poi ripresi da Schiaparelli e Lowell nel 1877), termine intorno al quale nascerà una certa confusione per il fatto che la traduzione inglese può essere canal, cioè canale artificiale, o channel, cioè canale naturale. E, naturalmente, “Canals meant intelligent Martians” (Markley 2005: 61). In quegli anni l’analogia fra Marte e la Terra è il presupposto di molte trattazioni, come bene evidenziato nella Popular History of Astronomy during the Nineteenth Century di Agnes Clerke (1885), il cui capitolo su Marte inizia con questa frase: “The analogy between Mars and the earth is, perhaps, by far the greatest in the whole solar system” (cit. in Crossley 2011: 34). Nel 1864, altro anno di opposizione di Marte, il pianeta è osservato dal reverendo britannico William Rutter Dawes, i cui disegni sono elogiati da Flammarion per la loro precisione e forniranno la base per una nuova mappa di Marte, pubblicata nel 1867 dall’astronomo inglese Richard Anthony Proctor e completa dei nomi di terre, mari e fiumi. Proctor è il primo ad attribuire alle caratteristiche della superficie di Marte (come già era stato fatto per la Luna) i nomi di famosi studiosi del pianeta: Keplero, Tycho Brahe, Madler, Cassini e Herschel. I disegni di Dawes verranno inclusi con alcune modifiche in molti libri di Proctor, fra cui Other Worlds than Ours (1870). Sarà però l’astronomo italiano Giovanni Virginio Schiaparelli, “one of the most assiduous watchers of the planet Mars” (Crossley 2011: 41), a elaborare la prima toponomastica di Marte accettata universalmente. Le aree più chiare, che Proctor aveva chiamato genericamente “terre o continenti”, vengono ora denominate con i nomi di Paesi veri o mitici della Terra: Arabia, Syria, Arcadia, Utopia, e così via. Alle aree più scure saranno dati invece nomi marini: Mare Tyrrhenum, Aurorae Sinus, Aonis Sinus, Margaritifer Sinus, e così via23. Fra le altre cose, egli segnala la Nix Olympica e il Mons Olympus, oltre al mare e a 23 Ibidem.
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canali la cui portata è pari a quella del Rio delle Amazzoni (Rocard 2009). La prima osservazione di Marte da parte di Schiaparelli avviene la notte del 23 agosto 1877 dall’Osservatorio di Brera: l’astronomo guarda nel telescopio (prima un Merz di 218 mm, poi un Merz-Repsold di 488 mm) con l’occhio sinistro e intanto disegna con la mano destra24. Esistevano già all’epoca moltissimi disegni di Marte: tra il 1636 e il 1873 ne erano stati fatti almeno un migliaio, raccolti poi nel 1867 da Proctor. Nel 1859 Secchi aveva disegnato gli emisferi e durante l’opposizione del 1862 Gerhard Kaiser e J. Norman Lockyer ne avevano fatti alcuni bellissimi. Ma Schiaparelli continua a disegnare, guardare e disegnare, e a redigere memorie (sette in totale), articoli (tre, tutti pubblicati su Natura ed Arte) e mappe. Nel tempo libero legge Edgar Allan Poe, che cita nella prima pagina del suo articolo “Il pianeta Marte” (Schiaparelli 1998A: 53). Nelle sue carte descrive l’asse di rotazione di Marte e parla di isole, istmi, stretti, canali, penisole e promontori, denominazioni prese a prestito dalla topografia terrestre per aiutare la memoria (Tucci 1998) ma che rivelano anche come in fondo la scienza e la scrittura creativa abbiano dinamiche analoghe: anche lui, come uno scrittore, “immagina” Marte nel descriverlo e quindi “vede” canali e mari perché il suo ambito di conoscenze è limitato alla Terra e questo condiziona il suo immaginario scientifico. Diversamente da Flammarion, però, “Mapping Mars, for Schiaparelli, is not an exact science but an effort to register the contours of possibility for further investigation” (Markley 2005: 56). Secondo l’astronomo italiano Vincenzo Cerulli, che, una decina d’anni prima del greco Eugène Michel Antoniadi (1909) smonterà la certezza della topografia di Schiaparelli riducendola a illusioni ottiche, “è l’occhio che si fabbrica da sé i canali” (Tucci 1998: 26). È curioso, tuttavia, che i canali – channels o canals o canyons che fossero – su Marte ci sono davvero, e verranno infatti confermati in un articolo dal titolo “Photographing the Canals of Mars” uscito il 10 luglio 1905 sul New York Herald e firmato da Percival Lowell e George R. Downing, astronomo della Columbia University – anche se appare evidente che non possono essere quelli che aveva visto lui. D’altra parte, l’insistenza con cui Schiaparelli non escludeva che vi fosse vita sul “singolar globo di Marte” (1998B: 81), e in particolare la sua partecipazione a una seduta spiritica per venire in contatto con eventuali abitanti del pianeta, non erano fatti isolati all’epoca, ma venivano condivisi da molti intellettuali, scienziati e filosofi (Tucci 1998). La controversia sui canali è infatti ben radicata nei contesti scientifici, ecologici e sociopolitici del tardo Ottocento e inizio Novecento (Markley 2005). 24 Sedici tavole sono state inserite nell’affascinante studio su Schiaparelli a cura di P. Tucci et al. (1998) che comprende anche gli articoli originali di Schiaparelli, il terzo dei quali (1909) contiene i disegni dell’astronomo.
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Oltre ai famosi “canali” – contestati negli stessi anni dagli “anticanalisti”, fra cui il naturalista inglese Alfred Russel Wallace che li attacca in Is Mars Habitable? (1907), dove dichiara che Marte è “absolutely UNINHABITABLE” (cit. in Markley 2005: 99) – troviamo descritte altre caratteristiche, quali la “geminazione” o “duplicazione” degli stessi, la presenza di acqua (rilevata da W. Huggins e Hermann Carl Vogel e anche da Pierre-Jules-César Janssen e poi smentita da William Wallace Campbell e successivamente da G. Johnstone Stoney) e una serie di fenomeni luminosi che continuano a essere rilevati per oltre un secolo. Tutto questo colpisce profondamente l’immaginazione e fa nascere numerose teorie e fantasie che perdureranno a lungo: La notizia di canali artificiali sulla superficie di Marte eccitò moltissimo la fantasia popolare e si cominciò immediatamente a parlare di civiltà evolute e intelligenti che abitavano il pianeta rosso. Contagiati dalla stessa euforia, anche illustri studiosi sostennero l’esistenza di civiltà aliene che, per sopperire ai loro problemi di siccità, avrebbero realizzato imponenti opere di ingegneria idraulica per trasportare l’acqua dalle zone polari a quelle equatoriali di Marte. (Fuso 2013: 28)
È stata avanzata anche l’ipotesi che l’insistenza con cui si è parlato della possibile presenza di acqua su Marte e la tendenza ad applicare al pianeta “an earthlike geography of waterways and continents” siano state originate, almeno in parte, dalle gravi siccità che colpirono l’India, l’America del Sud e la Cina dal 1877 alla fine dell’Ottocento (Markley 2005: 53). Questo ci fa capire quanto l’immaginario marziano e la realtà terrestre siano intercorrelati e interdipendenti e vadano a creare una mappa mentale del pianeta radicata su analogie non solo geografiche ma anche climatologiche, sociologiche e sociopolitiche. Grazie all’aumentato potere risolutivo delle osservazioni telescopiche, intanto, a Washington l’americano Asaph Hall (aiutato dalla moglie, a cui sarà poi dedicato il cratere Stickney) scopre – sempre nel 1877 – i due satelliti di Marte – quelli di cui Swift, come si è visto, aveva “intuito” molto tempo prima l’esistenza – a cui dà il nome dei due figli di Ares, Phobos (la paura, il terrore) e Deimos (la fuga, il panico; Rocard 2009). Tuttavia, né lui né un altro astronomo americano, Edward Emerson Barnard (1857-1923), che pare avesse una vista straordinariamente acuta, ne videro mai neppure uno. Anche l’astronomo inglese Edward Walter Maunder (18511928) smonta la teoria dei canali tramite un test a cui sottopone dei ragazzini, e il chimico e premio Nobel Svante August Arrhenius (1859-1927) comprende che i canali sono dovuti alla bassa risoluzione del telescopio e dichiara che Marte non consente un ambiente adatto alla vita. Nel libro che scrive con Jones Elias Fries, The Destinies of the Stars, predice invece che la superficie di Venere rivelerà condizioni simili a quelle della Terra durante il Giurassico.
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In questo periodo compaiono molti lavori riguardanti il pianeta Marte, fra cui Marte, una seconda Terra del climatologo tedesco J. H. Schmich e Il pianeta Marte e le sue condizioni di abitabilità del citato Flammarion (1892)25, che nel 1877 ha contato quasi quattrocento diversi disegni di Marte fatti nel corso di due secoli. Nel 1898 Flammarion realizza un mappamondo di Marte: per lui l’areografia è una scienza vera e propria e non un genere divulgativo. E non ha dubbi: Marte è coperto di continenti solcati da canali giganteschi che si gettano negli oceani. Se, da un lato, le sue raffigurazioni partono da strutture analoghe a quelle terrestri, è vero altresì che si tratta di “a new world, incomparably more different from ours than the America of Christopher Columbus differed from Europe” (cit. in Markley 2005: 57). Qualcuno dei suoi lettori obietta che osservando Marte non si vede alcun riflesso dell’acqua, e che, inoltre, i canali solcano anche i presunti oceani, mentre l’americano William Henry Pickering (1858-1938), osservando la presenza di macchie più scure all’intersecazione dei canali, pensa siano oasi. Quando poi un altro americano, il citato Percival Lowell, legge il libro di Flammarion, inizia a fare lui stesso ricerche. Sceglie una collina alta 2300 metri a Flagstaff, Arizona, e la chiama Mars Hill; vi fonda un Osservatorio e per quindici anni si dedica a osservare il Pianeta Rosso. Sarà sepolto su questa stessa collina, nel 1916, nei pressi dell’Osservatorio. Questa è l’emozionante descrizione del luogo che ne fa Morton: If you care for impressive and beguiling landscapes, Flagstaff, Arizona has a lot to recommend it. The San Francisco peaks […] loom over a town scarcely a hundred years old, wrapped in the forests that attracted its founders. To the south the beautiful canyons of Sedona, carved into the rocks of the Colorado Plateau by water draining from beneath the forests; to the east the spectacular Painted Desert; to the north the Grand Canyon itself, more than a billion years deep […] If the land is wonderful, so is the sky, which seems to expand in sympathy with the majesty below. The air is dry, clean, a little thin – just the sort astronomers like to set up shop. Above the town, amid the ponderosa pines of Mars Hill, sits the telescope through which Percival Lowell imagined the landscapes of Mars. (2003: 67)
Sullo stesso territorio, a poca distanza, si trova anche Coon Butte, dove 50.000 anni fa cadde un piccolo asteroide: il cratere oggi si chiama Meteor Crater e, come ricorda Morton, è simile alle migliaia di crateri che si trovano su Marte, al punto da essere stato ritenuto a lungo dai geologi “the best-preserved earthy exemplar of the ancient landscapes of Mars” (2003: 73). Tornando a Lowell, egli inserisce Marte nella sua più ampia teoria dell’evoluzione planetaria (Markley 2005). Il pianeta avrebbe subito una siccità globale e i canali 25 La planète Mars et ses conditions d’habitabilité, 1892. (18/03/14).
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sarebbero serviti a convogliare l’acqua dai ghiacci polari; tuttavia, l’inclinazione è al contrario. In quegli stessi anni inizia a essere possibile fotografare Marte (la prima fotografia della Luna scattata dallo Spazio risale al 1964, mentre le prime scattate dalla Terra risalgono al 1840 e sono attribuite a J. W. Draper)26 e anche se la qualità è bassa si formano due schieramenti: chi crede ai canali e chi no. È un passaggio epocale: da questo momento, infatti, tutto ciò che si vede o si crede di vedere nelle fotografie, e che andrà a fornire “prove” scientifiche, in realtà sarà il risultato del processo tramite il quale la nostra mente percepisce e interpreta i dati provenienti dalle nuove tecnologie (ieri la fotografia, oggi il computer). Lowell pubblica tre libri: Mars (1895), Mars and Its Canals (1906) e Mars as the Abode of Life (1908), che contribuiranno a diffondere “la credenza che il pianeta Marte fosse abitato da forme di vita intelligente” (Fuso 2013: 29). Lowell è convinto che vi sia acqua su Marte. L’atmosfera mostra inoltre segni di attività, come nuvole e tempeste, tanto che ci si chiederà a lungo se siano sollevamenti di polvere o nuvole d’alta quota (Rocard 2009: 27 e nota)27. È interessante notare che Mars uscì nel 1895, lo stesso anno in cui una siccità disastrosa colpì gravemente l’agricoltura nel Kansas occidentale, nel Colorado orientale, e in parti dell’Oklahoma, Texas e Nebraska, tanto che in alcune zone il 90% degli agricoltori furono costretti ad abbandonare le loro terre (Worster 1994). Di conseguenza, “For some scientists, the canals on Mars represented the political organization and technological expertise necessary to survive on a dying planet” (Markley 2005: 102). In particolare, la convinzione di Lowell che la Terra stesse iniziando il suo inevitabile declino “to a Mars-like desiccation” sottolinea l’analogia tra i due pianeti all’interno della più ampia teoria dell’evoluzione planetaria, in cui l’astronomo vede riflessa “on to Earth his vision of a dying Mars” (Ibidem: 68, 93). In Mars as the Abode of Life, il degrado ambientale della Terra e l’inquinamento del cielo vedono però anche l’uomo come corresponsabile: “He has enslaved all that he could; he is busy exterminating the rest […] Already man has begun to leave his mark on this globe in deforestation, in canalization, in communication” (1909, cit. in Markley 2005: 94). In questo modo la teoria nebulare, risalente a Kant e Laplace (1755), acquista una dimensione politica ed ecologica, rafforzata dal fatto che Lowell porta il dibattito su un livello di divulgazione, ovvero su riviste prestigiose come Nature: le prime fotografie appaiono su Scientific American nei primi anni del secolo, e Lowell le mostra – sebbene siano ancora di difficile 26 ; (18/03/2014). Una foto del 1851 è oggi custodita presso lo Smithsonian National Air and Space Museum . 27 Per consultare i tre testi si rimanda rispettivamente a: , e (01/09/2015).
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interpretazione – insieme ai propri disegni durante le sue conferenze. Anche l’interesse popolare suscitato dal dibattito sui canali è certamente collegabile almeno in parte alle difficoltà che si riscontrarono a livello di negoziati e di realizzazione effettiva dei canali di Suez e di Panama sulla Terra, la cui messa a punto implicò conflitti politici, altissimi costi, perdite di vite umane, tensioni nazionaliste, e così via (Markley 2005). Per quanto riguarda gli ipotetici abitatori di Marte (argomento su cui si ritornerà nel terzo capitolo), mentre la visione di Schiaparelli appare una “utopian response to a dystopian world”, modellata com’è su una società marziana improntata a un socialismo collettivo, su una sorta di solidarietà universale tra i cittadini (Markley 2005: 110), Lowell è convinto che “there is no probability of [Martians] resembling men. We are the outcome of our environment, and a different setting, such as exists on Mars [,] must perforce produce there a different type of life” (cit. in Ibidem: 95). Anch’egli comunque idealizza la civiltà marziana, soprattutto verso la fine della sua vita, vedendo l’Europa colpita dalla Prima Guerra Mondiale e temendo che anche negli Stati Uniti stia avvenendo una sorta di contro-evoluzione, ovvero si stiano moltiplicando “the unfittest” (Markley 2005: 111). L’immagine dei marziani come razza antica e saggia, non contaminata dalle guerre e dai conflitti che affliggono l’umanità, è portata avanti dal sociologo Lester Ward, secondo il quale gli abitanti di Marte non sono responsabili del suo declino28. Fra i biologi, invece, un sostenitore di Lowell è Edward S. Morse, il quale, in Mars and Its Mystery (1908), sostiene la legittimità delle analogie fra Terra e Marte, rigetta le concezioni teologiche di Wallace riguardanti la Terra come il solo pianeta abitato/abitabile ed enfatizza “the ability of life to adapt to changing or inhospitable environment conditions” (Ibidem: 103), gettando così con incredibile anticipo le basi per la scienza che solo a partire dagli anni ’80 del Novecento si occuperà dei cosiddetti “estremofili”, su cui ritorneremo più avanti. Lowell, al di là dei suoi errori, rimane comunque “the principal figure in the so-called ‘Mars-mania’ at the turn of the twentieth century” (Crossley 2011: ix), ed emerge in ogni libro su Marte come un protagonista fondamentale nella storia dell’osservazione del pianeta e nella storia culturale degli Stati Uniti; il che è dimostrato anche, come vedremo, dalla persistenza nelle opere letterarie (fino a tutti gli anni ’60 del Novecento) dei paesaggi da lui evocati. Quanto alla possibilità di vita su Marte, non è certamente un’idea isolata di Lowell, anzi è molto diffusa al tempo tanto che Morton la accosta a un’altra mania dell’epoca: Life on Mars might be likely, it might be inevitable, it might even be intelligent, but the possibility of people ever actually visiting Mars – or Martians visiting earth 28 Si veda l’articolo “Lessons Mars Has for Mother Earth”, Philadelphia Record 1909 (cit. in Markley 2005: 112).
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– was more or less pure fancy. This made Martians fascinating but not important, rather in the way of dinosaurs – another turn-of-century craze. (2003: 12)
Sui possibili abitanti di Marte si moltiplicano, intanto, le ipotesi e le teorie. Nel 1899 lo psicologo svizzero Théodore Flournoy pubblica un libro intitolato Dalle Indie al pianeta Marte, dove descrive il caso di una sua paziente che, in stato ipnotico, aveva disegnato vari particolari di Marte, descrivendone addirittura usi, costumi, organizzazione sociale, e così via. È probabile che l’immaginazione della donna fosse stata sollecitata dai numerosi articoli usciti al tempo sui giornali, nei quali molti intellettuali (tra cui lo stesso Flammarion) esponevano le loro idee sulla possibilità che Marte fosse popolato di piccoli esseri intelligenti (Tucci 1998). Nel 1902 si tiene a Orléans, in Francia, un congresso sul “pianeta Marte” organizzato da M. A. Mercier, autore di un libro intitolato Communication avec Mars: tra le altre cose si propone di cercare, appunto, un modo per comunicare con il pianeta Marte; ma tutto finisce nel nulla, dal momento che non si trova una tecnica adeguata per raggiungere lo scopo29. Nel 1907 esce il già ricordato Is Mars Habitable?, che viene a sua volta attaccato da Edmund Noble il quale, sul Boston Herald, si chiede polemicamente: “Does the Universe Exist for Man Alone?” (cit. in Markley 2005: 100-101). Pickering invece, in un articolo del 1906 intitolato “What We Know about Mars”, ammette che nessun argomento è conclusivo (Ibidem). Per gran parte del Novecento, dunque, il dibattito continua. Intanto, nel 1911 Rutherford propone una struttura planetaria dell’atomo: gli elettroni ruoterebbero intorno al nucleo in orbite circolari, “allo stesso modo in cui i pianeti ruotano intorno al sole” (Califano 1998: 23). Si fa strada l’idea che l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo obbediscano a leggi analoghe. Nel frattempo si diffonde, negli anni ’20, anche l’ipotesi della vegetazione. Dobbiamo ricordare, infatti, che almeno fino alla missione del Mariner 4 (1965) la maggior parte degli astronomi erano convinti che le aree più scure visibili su Marte fossero coperte da qualche forma di vegetazione esotica o piante simili a licheni (Markley 2005). Il consenso nella comunità scientifica era pressoché umanime, se pensiamo che il premio Nobel Joshua Lederberg nel 1960 scrisse che non potevano esservi dubbi sull’esistenza di biota su Marte (Ibidem). Il 9 dicembre 1928 la cover story dell’edizione domenicale del New York Times Magazine, firmata da H. Gordon Garbedian, si intitola “Mars Poses Its Riddle of Life” e contiene interviste al fior fiore degli astronomi e scienziati planetari, fra cui Earl Charles Slipher, che scrive: “With vegetable life fairly assured, animal life is almost certain […] even human life, if transported to Mars, might exist and perhaps flourish there” (cit. in Markley 2005: 163). Anche Gordon Garbedian 29 Gianni Viola, op. cit.
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è convinto che il pianeta ospiti “vegetable life and low animal forms” (cit. in Ibidem: 164). Nel 1940, in Life on Other Words, H. Spencer Jones, astronomo del Royal Observatory, afferma la propria convinzione che la superficie di Marte ospiti una qualche forma di vegetazione. In questo periodo si assiste a una discrepanza notevole fra realtà e narrazione: “By the outbreak of World War II, Martians had become crypto-Nazis in much science fiction but, in scientific studies, for the most parts, they had been reduced to extraterrestrial lichen. The more attenuated the Martian atmosphere appeared to scientists, the more restricted views of the planet’s ecology became” (Markley 2005: 167). Antoniadi nota che il colore delle macchie cambia a seconda delle stagioni (da verdi a marroni), e l’olandese Gerard Peter Kuiper – docente prima all’Università di Chicago, dove sarà anche direttore dei Yerkes and McDonald Observatories, poi presso la University of Arizona, a Tucson – non solo scoprirà nel 1948 la presenza di biossido di carbonio o anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera di Marte, ma osserverà nel 1956 macchie verdi dovute, secondo la sua opinione, alla presenza di vegetazione. Le indagini spettroscopiche che intanto si sono diffuse (a partire dal 1867), tuttavia, non rivelano clorofilla su Marte. Nello stesso anno si osserva anche la prima tempesta globale sul pianeta (Rocard 2009). Come ben commenta Markley, Antoniadi projects unto Mars an earthlike ecology. While Lowell compares the color of the Martian surface to the landscape of the Arizona desert, he refuses to speculate on the planet’s biota. In contrast, Antoniadi could be describing the meadows and forests of the French Alps. His image of ‘a field of fresh grass’ renders the planet less alien and less inhospitable than Lowell’s dying world. (2005: 155)
Quello che ancora non si riesce a fare è misurare correttamente pressione e temperatura. Nel 1924 gli americani W. W. Coblentz e C. O. Lampland tengono una conferenza intitolata “New Measurement of Planetary Radiation”30 e Coblentz in seguito pubblicherà decine di articoli sull’argomento, fra cui “Temperature Estimates of the Planet Mars, 1924 and 1926” e “Temperature Estimates of The Planet Mars, 1925”31. In essi sono riportati dati relativi alla temperatura 30 Il testo della conferenza, tenuta il 10 novembre 1924 presso la National Academy of Science, è visibile in: (08/02/2015). 31 Tutti gli articoli di Coblentz sono visibili nel sito: (08/02/2015). In particolare: “Temperature estimates of the planet Mars 1924 and 1926”, National Bureau of Standards, March 1942, in: ; “Temperature estimates of the Planet Mars”, September 22, 1925, Scientific Papers of the Bureau of Standards, paper 512 (Part of Volume 20), pp. 371-397, in: (08/02/2015).
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di Marte, ottenuti mediante la misurazione della lunghezza d’onda della luce. Si tratta di una temperatura oscillante (in inverno ed estate) fra – 70° e + 10° alle calotte e tra i 10° e i 25° all’equatore, che di notte scenderebbe a – 60°. In realtà si scoprirà che le temperature sono molto più basse, ma a quei tempi si pensa ancora che possa esserci vita su Marte (Rocard 2009). Hubertus Strughold (scienziato tedesco emigrato negli USA dal 1947) pubblica nel 1953 The Green and Red Planet: A Physiological Study of the Possibility of Life on Mars, parte della sua ricerca sulle reazioni degli astronauti al volo supersonico, e nel 1957 esce un articolo di William M. Sinton intitolato “Spectroscopic Evidence of Vegetation on Mars”, secondo il quale ai raggi infrarossi si evidenziano tracce che indicano l’esistenza di piante simili ai licheni. Nel 1962 Slipher pubblica A Photographic History of Mars 1905-1961, che documenta il ruolo che riveste ancora l’osservatorio di Lowell nei primi anni ’6032. Come abbiamo visto, l’interesse per Marte è antico e il dibattito sulla sua struttura, storia e abitabilità dura da molto tempo. Non solo: tale interesse non rimane, come si vedrà anche in seguito, limitato al puro ambito astronomico, ma coinvolge altre discipline: For three hundred years, Mars has remained a key site for debates about the nature of visual evidence in planetary astronomy, the role of inference and probability in scientific speculation, and the ways in which traditional systems – Christian theology and anthropocentric philosophy – respond to the Copernican decentering of human kind in the universe. (Markley 2005: 32)
Uscendo dall’ambito puramente scientifico incontriamo non solo la filosofia e la teologia, ma anche l’arte: è interessante ricordare per esempio quelle che dopo la prima Guerra Mondiale furono chiamate “vedute d’artista”, consistenti nel rappresentare in immagini ciò che era ancora fisicamente inaccessibile, come i corpi planetari, le comete e le stelle. L’astronomo e artista francese Lucien Rudaux è uno dei più noti rappresentanti di questa scuola: in un suo celebre dipinto, egli si immagina su Phobos e dipinge Marte. È il primo a dipingere come se si trovasse sulla Luna o su altri satelliti e pianeti, con colori e cavalletto. Ciò che ha immaginato della Luna è stato poi confermato dalle missioni Apollo, e un cratere marziano porta il suo nome (Rocard 2009: 32-33 e nota)33. 32 Nell’Osservatorio lavorarono molti astronomi famosi, tra cui, dal 1929 al 1945, Clyde William Tombaugh, noto per aver scoperto Plutone nel 1930: ebbe il posto presso il Lowell Observatory a poco più di vent’anni, in seguito all’invio dei suoi disegni di Giove e di Marte. 33 ; (18/03/14).
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Negli Stati Uniti la cosiddetta astronomical art prende le mosse dai paesaggisti della Hudson River School, un movimento artistico influenzato dal romanticismo sviluppatosi verso la metà del XIX secolo, che ritraeva paesaggi naturali nelle fasi della scoperta, dell’esplorazione e dell’insediamento; questa scuola “played a key role in turning America from territory to landscape, from a thing of exploitation to a thing of contemplation. Their landscapes celebrated the expansiveness of the American scene with a clarity of vision that offered detail and drama” (Morton 2003: 126). Diversamente dai pittori romantici, tuttavia, gli astronomical artists – fra cui Chesley Bonestell che dipinse Saturno negli anni ’40, Bill Hartmann che ha dipinto Marte dagli anni ’70 agli anni ’90, e i pittori e illustratori più recenti come Pat Rawlings e Dave Gibbons – si sono concentrati su quello che presumevano potesse essere l’aspetto del paesaggio, a partire dal colore rossastro, e continuando con l’evocazione di un senso di immensità e di straniamento. Un paesaggio, insomma, in cui il wonder non ha ancora ceduto il passo alla exploitation. Spesso gli astronauti su Marte (molto piccoli rispetto all’immensità dei canyon o dei crateri – sono dipinti con tute blu perché “our eyes on Mars will be starved of blue” (cit. in Ibidem: 127); il paesaggio è frequentemente “a somewhat Arizona-like landscape, often with dark clouds in the distance, like the storm clouds of the Hudson valley” (Ibidem: 128). E, se possiamo aggiungerlo, il rosso e il blu sono i colori della bandiera americana. 1.4. L’esplorazione negli ultimi cinquant’anni
Nel corso del Novecento le opposizioni sono state seguite con sempre maggiore interesse e l’astrofisica galattica ed extra-galattica hanno visto un crescente sviluppo. Nel 1962 l’Unione Sovietica lancia la sonda spaziale Mars 1 in occasione dell’opposizione del gennaio dell’anno successivo: di lì a poco inizieranno le spedizioni americane, che saranno descritte nelle prossime pagine. Nello stesso anno esce in USA la traduzione di un articolo scritto dai russi A. I. Lebedinskii e G. I. Salova e intitolato “On the amount of water available in a free state on Mars”34. Nel frattempo, l’immagine dell’extraterrestre (e in particolare del marziano) è stata spesso associata a “omini verdi”, un’iconografia che come vedremo sarà 34 L’articolo, tratto da Soviet Astronomy, vol. 6, no. 3, Nov-Dec 1962, p. 390, e tradotto dall’originale apparso su Astronomicheskii Zurnal, Università Statale Lomosonov di Mosca, vol. 39, no. 3, maggio-giugno 1962, pp. 494-505, è visibile in: (08/02/2015). È interessante notare che dal 1940, pur avendo più volte modificato la propria denominazione, l’Università di Mosca è dedicata a Mickhail Vasilyevich Lomosonov, scienziato settecentesco a cui si deve, tra le altre cose, la scoperta dell’atmosfera di Venere. A lui sono stati dedicati anche un cratere sulla Luna e uno su Marte.
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più volte ribadita dai film di fantascienza degli anni ’50, tanto che nel 1967 i radioastronomi del Muller Observatory nei pressi di Cambridge che scoprirono le pulsar con emissioni regolari le chiamarono LGM, ovvero “Little Green Men” (Drake 1975, Bianucci 2012). In realtà, man mano che Marte diventa più vicino, grazie alla possibilità di inviare sonde fotografiche e anche macchine sempre più sofisticate sul pianeta, ci si rende conto che l’illusione che sia (ancora) abitato, o che vi siano (tuttora) forme di vita, sembra destinata a ridursi via via. Nel frattempo, però, si sono fatte importanti scoperte, e sempre più nazioni e aziende tentano di accaparrarsi il loro posto in prima fila per il giorno in cui l’uomo sbarcherà su Marte. Un libro di Giovanni F. Bignami riporta in quarta di copertina questa domanda: “Sapevate […] che ogni anno cadono sulla Terra molti pezzi di Marte?” All’interno troviamo la spiegazione: Nel caso degli scambi tra Marte e la Terra, [...] si scopre che negli ultimi miliardi di anni […] sul nostro pianeta sono caduti, provenienti da Marte, molti miliardi di blocchi rocciosi delle dimensioni di almeno un metro. Ancora oggi, nella pioggia generale di meteoriti, arriva ogni anno da Marte una mezza tonnellata di rocce grandi e piccole. […] Per fare il viaggio Marte – Terra tutto questo materiale impiega un bel po’ di tempo, da centinaia fino a migliaia o milioni di anni. (2010: 91-92)
L’autore, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, spiega che il materiale viaggia non in modo lineare, ma seguendo traiettorie complesse, anzi caotiche. Lo stesso vale per il trasferimento dalla Terra a Marte, anche se la Terra, essendo più massiccia e avendo un’atmosfera più densa, trattiene più a lungo e più fortemente la materia. Se pensiamo che assieme alle pietre viaggiano milioni di spore e batteri, comprenderemo che se ciò non basta a poter far supporre la possibilità di vita su Marte, perlomeno dimostra che “il meccanismo di trasferimento interplanetario della vita non sarebbe impossibile” (Bignami 2010: 96). Fra i più grossi meteoriti caduti sulla Terra, uno, proveniente con ogni probabilità da Marte, nel 1984 suscitò molte discussioni e polemiche. Fu trovato nella regione delle Allen Hills, in Antartide35, e ricevette il nome ALH84001. La NASA se ne appropriò perché secondo alcuni esperti poteva contenere materiale fossile. Si trattava di un sasso a forma di patata, con una piccola struttura al centro simile a un verme segmentato, dunque molto interessante dal punto di vista geo-mineralogico, astrobiologico e paleontologico. Si comprese presto, però, che anche nel caso in cui fosse risultato che conteneva materiale organico, poteva es35 In Antartide, il cosiddetto sesto continente, e in particolare nel lago Vostok sono stati penetrati vari chilometri di ghiaccio e si stanno studiando campioni di acqua nella ricerca di microrganismi che potrebbero risalire alla preistoria. Numerosi siti web sono dedicati a tali ricerche.
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sere stato contaminato una volta raggiunta la superficie terrestre. In ogni modo, nel 1996 fu oggetto di una conferenza stampa alla Casa Bianca, nel corso della quale il presidente Bill Clinton riconobbe pubblicamente che quel pezzo di roccia ci parlava, attraverso distanze di milioni di miglia e tempi di milioni di anni, della possibilità di vita (Bignami 2010). Sebbene gli Stati Uniti abbiano, come vedremo nelle prossime pagine, un ruolo prioritario nell’esplorazione (attuale) e sfruttamento (futuro) di Marte, anche l’Europa e gli altri continenti si stanno dando da fare. Ad esempio, nel 2003 è stata scoperta la presenza di metano nell’atmosfera di Marte da parte della ESA (Agenzia Spaziale Europea) grazie alla missione Mars Express. Questo gas risulta stabile nell’atmosfera marziana soltanto da 300 anni circa, probabilmente attraverso l’attività vulcanica. L’ESA prevede il lancio della Sonda ExoMars, che studierà la composizione chimica dell’atmosfera di Marte per cercare di verificare l’origine del metano marziano, nel 201636. “Mars 500” è stato invece un esperimento condotto a terra di simulazione di un viaggio su Marte. Organizzato dall’Agenzia Spaziale Europea in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Russa, si è svolto all’interno di un’astronave a Mosca. Obiettivo del programma era raccogliere dati ipotizzando una futura missione spaziale umana verso il Pianeta Rosso. Sono stati studiati specialmente gli effetti biomedici e psicologici, monitorati i valori di stress, le regolazioni ormonali e le risposte del sistema immunitario, la qualità del sonno e il tono dell’umore. L’esperimento, iniziato il 3 giugno 2010, si è concluso il 5 novembre 2011. Un articolo dedicato ai sei “marsonauti” dai punti di vista astronomico, fisiologico e ingegneristico riporta le testimonianze dell’equipaggio, secondo le quali si sono rivelati essenziali il senso dell’umorismo, la pazienza e la capacità di reagire agli imprevisti. Gli esperti hanno calcolato che per permettere a un equipaggio umano di volare effettivamente su Marte occorreranno tre anni; il problema è complicato dal fatto che un viaggio così lungo in condizioni di microgravità comporterebbe una perdita del 50% della massa ossea37. Si sta quindi studiando una generazione di robot in grado di affiancare gli umani (cobot)38. Charles Adler, più ottimisticamente, calcola in 255 giorni il viaggio di sola andata su Marte (seguendo la recente tendenza a eliminare il ritorno) e ipotizza un costo di oltre 100 miliardi di dollari (2014). 36 (15/01/2015). I cosmonauti virtuali (tutti volontari fra i 25 e i 40 anni) erano stati chiamati “marzianauti” in un articolo di Leonardo Coen dell’1 aprile 2009, “La Russia va alla conquista di Marte”, che annunciava l’imminente missione (La Repubblica, p. 40). 37 Una nota curiosa: nel sito si può calcolare quale sarebbe il nostro peso su Marte (17/06/2015). 38 Alberto Agliotti et al., “Destinazione Marte”, in Newton 13, marzo 2011, pp. 98-109. .
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Intanto, dal mondo asiatico è giunta la notizia che l’India ha battuto la Cina nella corsa spaziale per raggiungere Marte: la sonda spaziale cinese Yinghuo-1, lanciata dal Kazakistan l’8 novembre 2011, è stata perduta (e infine si è disintegrata) dopo essere rimasta a lungo in orbita intorno alla Terra; ebbene, nel settembre 2014 l’India ha annunciato il suo primo lancio su Marte39. In tutti i Paesi, prevedibilmente, cresce la frenesia marziana. In un articolo di Federico Rampini intitolato “I marziani siamo noi” leggiamo che è iniziata la corsa di tutti i maggiori Paesi del mondo per la conquista di Marte; l’attuale presidente degli USA, Barak Obama, ha già stanziato alcuni miliardi: si tratta di “una caccia alle risorse che ha per territorio l’universo”40. I fautori della conquista di Marte, continua il giornalista, assicurano che si tratta di un investimento, non solo di tipo economico, ma sul nostro futuro, ovvero sulla sopravvivenza dell’umanità. Molti pensano, infatti, che su Marte si possano trovare risorse minerarie essenziali, e che questa prospettiva possa liberarci dall’incubo dell’esaurimento delle risorse. Questo spiegherebbe il motivo per cui il campo delle esplorazioni su Marte si sta affollando. Tra le migliaia di idee a corollario di tutto questo, una delle più originali è forse la suoneria per il telefonino cellulare: “The Red Planet Ringtone” si può scaricare dalla rete per la non modica cifra di 133 dollari. Composta nel 2012 da David Bradley, ha la durata totale di 10 minuti e 24 secondi e promette “a journey to an alien planet […] floating peacefully among the stars”41. Certamente, chiedersi (e ottenere risposta) se sia possibile coltivare asparagi su Marte è una curiosità degna di altrettanto interesse, così come sapere se e quali suoni sia possibile registrare sul pianeta. Molte domande come queste sono nelle faq del sito della Arizona University dedicate al programma Phoenix42. Per quanto possa apparire bizzarro o addirittura inconcepibile, c’è chi sostiene che i nuovi magnati del futuro non siano imprenditori nel settore delle automobili, delle finanze o dei fast food, e nemmeno narcotrafficanti o esperti di biogenetica. Secondo diversi siti web, americani e non, si stanno affacciando sullo scenario internazionale uomini impegnati a dimostrare che la nuova frontiera del business si è spostata di qualche milione di chilometri lassù nello Spazio. Come scrivono Bignami e Sommariva, “l’esplorazione dello spazio e la sua eventuale colonizzazione sono ormai uscite dal regno della pura fantasia, e, come il genio uscito dalla lampada, non ci rientreranno facilmente. Una nuova frontiera si è 39 (15/01/2015). 40 Federico Rampini, “I marziani siamo noi”, ne Il venerdì di Repubblica, 12/07/2013, pp. 17-21. (10/09/2015). 41 (24/08/12). 42 (18/03/14).
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aperta per l’umanità. Oggi, molti etologi ed ecologi concordano sulla definizione di homo sapiens: cosmopolita invasivo” (2015: VIII). Tra i nomi che affollano le pagine della rete spiccano senz’altro quello di Dennis M. Hope, l’uomo che “possiede la Luna dal 1980”43, e quello di Elon Musk, “l’uomo che potrebbe comprarsi Marte”44. Il primo dei due in realtà sostiene di possedere già, oltre al nostro satellite, quelli di Giove e tutti gli altri pianeti. Da tempo ne rivendica la proprietà legale attraverso le Nazioni Unite (che pare non gli abbiano mai risposto), e nell’attesa ne ha fatto un’incredibile fonte di reddito. Aiutato dai suoi legali, suo intento è dimostrare l’assoluta compatibilità della sua rivendicazione con quanto affermato dall’articolo 2 del Trattato sullo spazio extraatmosferico (Outer Space Treaty)45 del 1967, secondo il quale le nazioni (countries) non possono rivendicare proprietà nello spazio. Le nazioni, non gli individui – specifica Hope: “I filed my claim of ownership as an individual”46. Come individuo, dunque, basandosi su questa sottigliezza, Hope ha creato la Moon Estates, e ha iniziato a vendere terreni: ha già venduto, pare, 267 milioni di ettari sulla Luna, 131 milioni su Marte, e nell’insieme 50 milioni di ettari su Venere, Io (uno dei satelliti di Giove) e Mercurio. Chi sono gli acquirenti? Privati cittadini di 193 Paesi, ma soprattutto aziende (fra cui le catene alberghiere Hilton e Marriott) e politici di tutto il mondo, compresi tre ex presidenti degli Stati 43 Rachel Hardwick, 11 aprile 2013, in: (03/06/2014). 44 (03/06/2014). 45 Questi, di fatto, i cinque trattati firmati dalle Nazioni Unite e la loro storia: “The Treaty on Principles Governing the Activities of States in the Exploration and Use of Outer Space, including the Moon and Other Celestial Bodies” (the “Outer Space Treaty”), adopted by the General Assembly in its resolution 2222 (XXI), opened for signature on 27 January 1967, entered into force on 10 October 1967; The Agreement on the Rescue of Astronauts, the Return of Astronauts and the Return of Objects Launched into Outer Space (the “Rescue Agreement”), adopted by the General Assembly in its resolution 2345 (XXII), opened for signature on 22 April 1968, entered into force on 3 December 1968; The Convention on International Liability for Damage Caused by Space Objects (the “Liability Convention”), adopted by the General Assembly in its resolution 2777 (XXVI), opened for signature on 29 March 1972, entered into force on 1 September 1972; The Convention on Registration of Objects Launched into Outer Space (the “Registration Convention”), adopted by the General Assembly in its resolution 3235 (XXIX), opened for signature on 14 January 1975, entered into force on 15 September 1976; The Agreement Governing the Activities of States on the Moon and Other Celestial Bodies (the “Moon Agreement”), adopted by the General Assembly in its resolution 34/68, opened for signature on 18 December 1979, entered into force on 11 July 1984.” (03/06/2014). 46 Victoria Jaggard, “Who Owns the Moon? The Galactic Government vs. the UN”, National Geographic News, July 17, 2009, in: (03/06/2014).
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Uniti (Jimmy Carter, Ronald Reagan e George W. Bush Junior). La proprietà più piccola misura mezzo ettaro, la più grande circa due milioni di ettari, al costo – quest’ultima – di oltre tredici milioni di dollari. Ma non è finita. Hope ha voluto creare anche una repubblica nazionale democratica, che è stata chiamata “Galactic Government” e che ha una sua Costituzione – o meglio una Lunar Constitution, con tanto di Bill of Rights – messa su Internet nel marzo 2004, e una sua bandiera. Viene da chiedersi chi sia più folle, se chi ha progettato tutto questo o chi ci ha creduto; ma forse Hope – e con lui Hardwick – stanno solo scherzando47. Altrettanto serio e motivato pare Elon Musk, fondatore della SpaceX e già co-fondatore di PayPal, convinto che nel giro di dieci anni potranno esserci voli commerciali su Marte. Musk rappresenta la punta di diamante di tutto un settore che si sta muovendo verso una conquista dello spazio che si è spostata dal piano nazionale (economico-politico) a quello privato (economico-aziendale). Aveva iniziato James Cameron, appoggiando la decisione di Google di finanziare la Planetary Resource, una compagnia che sfrutta le ricchezze minerarie degli asteroidi, passando dalla Boeing che vuole usare i propri mezzi al posto degli Shuttle. Ora la Space Exploration Technologies Corporation (SpaceX), una compagnia californiana fondata nel 2002 di cui Elon Musk è direttore esecutivo e direttore tecnico, ha in programma di istituire voli commerciali diretti su Marte fra poco più di un decennio. Grazie alla partnership con la NASA, sta costruendo capsule in grado di viaggiare fino a Marte, anche se finora sono state testate solo fino alla Stazione Spaziale Internazionale che orbita attorno al nostro pianeta a un’altezza tra i 330 e i 410 km. Lo scopo ultimo è di trovare tracce di vita su Marte. Una variante del Dragon, capace di ospitare astronauti, è già in fase di avanzata progettazione. La SpaceX ha inoltre annunciato a Londra, presso la Royal Aeronautical Society, di voler portare su Marte ben 80.000 coloni in grado di sostentarsi autonomamente. 36 i miliardi di dollari necessari per il progetto nel suo complesso. Inizialmente i coloni sarebbero pochi ma forniti di molto materiale, incluse macchine per la produzione di fertilizzanti e capaci di ricavare ossigeno dall’atmosfera marziana; l’acqua dovrebbe essere estratta dai presunti depositi di ghiaccio sotterranei. Una volta costruita una cupola pressurizzata, i coloni inizierebbero ad affluire in gran numero, sino a raggiungere gli ottantamila previsti, e questo secondo Musk sarebbe solo il primo passo per la colonizzazione di Marte. Del resto l’obiettivo dichiarato della SpaceX è “to make human life interplanetary”48. Se poi i dati rilevati da Curiosity e pubblicati recentemente su Nature Geoscience si rivelassero del tutto attendibili, potremmo affermare che 47 Alcuni siti: ; ; (30/04/2015). 48 (03/06/2014).
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vi sono le condizioni per la formazione di quella che è stata definita “salamoia marziana”49; dunque l’acqua esisterebbe sul pianeta anche senza dover essere estratta da depositi sotterranei. Un’ipotesi, questa, che ha avuto conferma negli ultimi giorni di settembre (2015), con un colpo di scena che mette fine a decenni di dibattiti estenuanti. L’acqua esiste su Marte: è in superficie, è salata, scorre e lascia il segno (si vedano, fra gli altri, i siti della NASA e del National Geographic). Perfino il motore di ricerca Google ha dedicato una giornata all’evento. È stata una grande emozione, che apre nuove frontiere e nuovi interrogativi, rendendo ancor più cruciale la nostra conoscenza non solo geologica o chimica, ma anche culturale del Pianeta Rosso. Aggiungiamo ai fatti una curiosità: nel 2014 si è diffusa su alcuni siti e giornali la notizia secondo la quale un ufficiale dei Marines che si fa chiamare “Captain Kaye”, da poco ritiratosi in pensione, avrebbe dichiarato ai giornalisti di essere reduce da 17 anni di servizio militare nella “Earth Defense Force”, un ente militare che collaborerebbe con una Corporation sul Pianeta Rosso al fine di proteggere le già esistenti cinque colonie umane dagli attacchi sporadici delle creature marziane50. Secondo le rivelazioni del capitano dei Marines, “non ci sarebbero grandi ostacoli all’insediamento umano sul pianeta rosso, l’aria sarebbe respirabile e la temperatura dell’ambiente spesso si manifesterebbe con un dolce tepore”51. Verità o fantasia? Presto potremmo saperlo, perché Mars One, una fondazione non profit olandese, sta portando avanti il progetto di inviare esseri umani su Marte (il viaggio è di sola andata) e ha annunciato nel febbraio 2015 di aver scelto i 100 finalisti per la missione. Le tre caratteristiche principali richieste per superare la selezione sono state: “resilience, resistance, and creativity”52. Il video (reperibile nel sito di The Guardian) che presenta il progetto contiene interviste e commenti di grande interesse. Si parla di vari argomenti – la guerra, il sesso, la carriera, la famiglia – e anche se si legge a chiare lettere che “Those who go will never return to Earth”, l’emozione più diffusa è quella della curiosità e del senso d’importanza della missione: “If I die on Mars, that would be great”, esclama uno dei candidati; un altro, originario del Mozambico, dice: “I think this world 49 Giovanni Spataro, “Salamoia marziana”, in Le scienze, n. 561, maggio 2015, p. 10. L’autore fa riferimento ai dati pubblicati da Javier Martin-Torres della Lulea University of Technology di Kiruna, secondo i quali l’acqua potrebbe esistere su Marte allo stato liquido in una soluzione sovrasatura di sale. (08/06/2015). 50 Chris Richards, “Retired US Marine claims he spent 17 years on MARS protecting five human colonies from Martians”, 23 June 2014, in: (08/04/2015). 51 (09/04/2015). 52 Questo il sito: (26/02/2015).
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is not a good place to live anymore”, mentre una ragazza irachena afferma che dopo aver deciso di vivere negli USA è ora pronta a volare su Marte53. C’è in realtà, nel momento in cui scrivo, chi inizia a esprimere un certo scetticismo: tra questi c’è addirittura uno degli stessi principali sostenitori del progetto, il premio Nobel (anche lui olandese) Gerard’ t Hooft, il quale ora avanza dubbi sulla reale possibilità di attuazione nei tempi programmati (un lander e un satellite nel 2018, un rover nel 2020, merci varie a partire dal 2022 e il primo equipaggio umano nel 2024 con arrivo nel 2025, seguito da altri a intervalli di due anni) e considera la spedizione, allo stato attuale delle cose, una missione suicida. Bas Lansdorp, il fondatore di Mars One, rimane invece fiducioso, anche perché spera di vendere i diritti per una serie televisiva alla Endemol, la casa produttrice olandese di The Big Brother. E ha dichiarato: “Don’t forget that when Kennedy announced the Moon mission he had less time”54. Gli scienziati continuano a rimanere dubbiosi, ma sembra che ormai la corsa su Marte sia uscita sia dal controllo della scienza, sia da quello della politica, per approdare definitivamente nel business e nel mondo dello spettacolo (o dell’industria culturale di massa, vista la quantità di visite, post, commenti e servizi di ogni genere in Internet sull’argomento). A commento di quanto riportato vale la pena, credo, citare una frase che lo scrittore Isaac Asimov utilizzò nella sua Introduzione a un romanzo di S. C. Sykes (su cui torneremo nel capitolo quinto) e che potrebbe forse dare coraggio a chi in futuro si trasferirà effettivamente su Marte e dovrà abituarsi a una vita di reclusione: I live in Manhattan, a most artificial region of the Earth, not very different from a settlement on Mars. I am far removed from nature and I like it that way. I do not like to leave Manhattan, and I rarely do. […] I am at home only with concrete and asphalt beneath my feet. I don’t want the open sky; I want the warm enclosure of tall buildings. (Asimov 1991: xix)
Certo, i dubbi sulla possibilità di una colonizzazione sono molti, soprattutto in considerazione del fatto che più passa il tempo, più appare chiaro che se il pianeta è stato abitato ciò è successo milioni di anni fa: ma, grazie alla letteratura e al cinema, siamo ormai ampiamente preparati a quasi tutto. Basti pensare al romanzo di Arthur C. Clarke The Sands of Mars, al ciclo di romanzi di Ben Bova che vedono l’umanità aprirsi la strada nel sistema solare, a tutti gli autori come Ray Bradbury o Kim Stanley Robinson, che hanno descritto le difficoltà incon53 (26/02/2015). 54 “Mars One mission: a one-way trip to the red planet in 2021”, in: (26/02/2015).
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trate per rendere il Pianeta Rosso abitabile per i terrestri. D’altra parte ci sono romanzi meno ottimistici, come The Last Hope of Earth di Lan Wright o One in The Three Hundred Trilogy di J. T. McIntosh, ma la possibilità di impiantare davvero una colonia marziana è un’idea ormai saldamente radicata nell’immaginario collettivo. Tanto che, come scrive Riccardo Staglianò in un articolo del 2013 intitolato “E i cosmoturisti fanno già la fila come a Gabicce”, nonostante il clima gelido di Marte, l’assenza di acqua e la presenza di radiazioni killer “molti si prenotano per visitarlo. Una coppia ha fissato la vacanza per il 2018. Ecco […] la nuova frontiera dei tour operator”55. Un progetto bizzarro è quello delineato da Oliver Morton, il quale parte dalla considerazione che “death on Mars has a literature all of its own”, in quanto molti personaggi di romanzi e film trovano la morte sul Pianeta Rosso: “This is not at all surprising. Mars is a desert, and in America the literature and iconography of the desert are filled with death”, commenta (2003: 315). Non solo: egli ricorda anche che molti scrittori nel XIX secolo immaginavano Marte “as a home for the souls of the dead” (Ibidem: 317). Ebbene, sulla base di queste premesse propone che su Marte vengano inviati equipaggi composti non da esseri viventi, ma da persone decedute, in modo che i loro corpi possano fertilizzare il terreno per le generazioni a venire, così come è avvenuto nei deserti della Terra laddove vi sono delle oasi, luoghi in cui in cui presumibilmente morirono in passato grossi animali: Take away the water and a human body contains some twenty kilograms of interesting nutrients. On the earth, we take these for granted. On Mars, they would be worth something. A human body, carefully desiccated, might in a few decades, or a century, be sent to Mars for the equivalent of a few thousand dollars; dead people are far cheaper to send there than live ones”. (Ibidem: 319)
La soluzione più probabile sembra, tuttavia, quella delineata dal citato Bignami in una recente intervista: ovvero che, ora che l’interesse politico è crollato, sarà l’economia a “rilanciare la conquista dello spazio” e per questo è importante attirare sempre più finanziatori privati a sostenere l’impresa56. In questo modo, continua lo studioso, “È un po’ quello che fecero gli Stati europei del XVI secolo, finanziando le prime esplorazioni nautiche. Così lo spazio diventerà luogo di sana competizione economica”57. Ammetto che faccio un po’ fatica a credere che sarà “sana” una competizione modellata su quella che ricorda Bignami, dato che è impossibile evocare il perio55 Riccardo Staglianò, ne Il Venerdì di Repubblica, 12/07/2013, pp. 22-23 (cit. p. 22). 56 G. F. Bignami, Intervista concessa ad Alex Saragosa, in “Parola di scienziato: l’uomo abiterà (presto) su Marte”, Il Venerdì de La Repubblica, 22/05/2015, p. 65. 57 Ibidem.
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do coloniale (dal XVI al XX secolo) senza fare riferimento alla sottesa economia schiavista, al genocidio dei nativi, a guerre sanguinose. Sono perplessa, anche, nel leggere di sfruttamento delle risorse, cooperazione internazionale, ricadute positive e progresso tecnologico, visto che Bignami non è un economista, ma un astrofisico, cioè un esperto di antimateria, galassie e simili. Evidentemente la sua collaborazione con Sommariva, economista e co-autore di Oro dagli asteroidi, asparagi da Marte (2015), lo ha persuaso che “far vivere parte dell’umanità altrove” servirà a “salvare la specie”58. Personalmente sono molto dubbiosa anche riguardo a questo salvataggio parziale auspicato dallo scienziato, un po’ perché mi ricorda il finale del film Dr Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Stanley Kubrick 1963) e un po’ poiché – pur comprendendo le nobili finalità del ragionamento, che mira ad assicurare la pace e la prosperità a dispetto delle condizioni avverse in cui tra breve si troverà la Terra – mi chiedo se si tratterà/tratterebbe di cavie da inviare su un luogo ostile (in tal caso, la parte di umanità più fortunata rimarrebbe sulla Terra) o, al contrario, di una élite che potrà/potrebbe svignarsela al momento giusto (in tal caso, sulla Terra rimarrebbero i meno fortunati, che non possono permettersi il viaggio). Per contro, ammiro incondizionatamente la progettualità dell’astrofisico, che si (ci) proietta verso altri mondi e altre dimensioni, e di cui condivido le giustificate preoccupazioni relative a cambiamenti climatici, attività vulcaniche, cadute di comete, convinta come sono che ognuno di noi abbia grosse responsabilità in merito, a partire dai governi, che dovrebbero preoccuparsi per il clima, l’inquinamento e la gestione delle emergenze molto più di quanto non stiano facendo. Peraltro, condivido la visione di “uno scenario geopolitico di riduzione delle tensioni internazionali a seguito dello sfruttamento minerario degli asteroidi” (Bignami e Sommariva 2015: 100), ove ciò significhi ridurre gli armamenti, e a vantaggio (non a seguito) di altre attività (fra cui lo sfruttamento minerario, perché no). Continuo comunque a percepire un certo disagio nel leggere termini che da decenni siamo abituati a considerare quantomeno politically incorrect – come sfruttamento, civilizzazione e colonizzazione, qui sparsi a piene mani. Pur trovando molto interessanti i concetti di “spazioporto” e di “ascensore spaziale” (passim), temo che la nuova figura che si profila all’orizzonte, ovvero “l’homo sapiens marziano”, la cui prima generazione rappresenterà “la versione moderna degli uomini e delle donne di frontiera” (Ibidem: 109), avrà precise caratteristiche di classe e di genere: Prevediamo un mercato planetario per gli asparagi di Marte […] Anche se il loro costo sarà elevato sulla Terra, questo non impedirà certo ai super ricchi del futuro, a cena con la loro compagna (da lasciare a bocca aperta), di ordinare asparagi, aggiungendo distrattamente: “Per favore, che siano freschi di astronave, 58 Ibidem.
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mi raccomando… Sai, cara, su Marte gli asparagi terrestri crescono belli grossi, perché la gravità è minore…” (Ibidem: 112)
Proprio nei giorni in cui mi accingo a concludere questo volume è uscito un altro volumetto che non ipotizza, bensì prevede dati alla mano l’abitabilità di Marte in un prossimo futuro. Nel suo How We’ll Live on Mars (2015), il giornalista del Washington Post Stephen Petranek afferma, infatti, che gli umani vivranno sul Pianeta Rosso entro il 2027 e che trasferirsi su Marte non è solo plausibile, ma inevitabile: serviranno 300 anni per terraformare completamente il pianeta, “but we can turn it into a veritable second Garden of Eden”59. Come vedremo nei prossimi capitoli, l’immagine del giardino dell’Eden e l’allusione a una nuova Genesi serviranno spesso a nascondere o sdrammatizzare un topos ben più inquietante, cioè quello dell’Apocalisse, topos ricorrente nella fantascienza e spesso utilizzato da chi vede nella corsa allo Spazio una nuova possibilità per il genere umano dopo la catastrofe nucleare e il disastro ecologico. Per ora pare che dobbiamo accontentarci di far viaggiare solo i nostri nomi nello Spazio: mi riferisco all’iniziativa con cui la NASA ha invitato persone di tutto il mondo a inviare, tra il 2014 e il 2015, il proprio nome per essere inserito in un microchip al silicio diretto su Marte a bordo delle sonde Orion e InSight60. Nel sito, accanto alle istruzioni, c’erano vari pulsanti per inviare una cartolina a Curiosity, scaricare app (tra cui “Be a Martian”) e fare varie esperienze interattive, nonché mappe, foto in 3D, ecc. A conclusione del capitolo, ricordo che nel 1955 ad Anaheim (California) veniva inaugurato Disneyland: fra le attrazioni figurava “Rocket to the Moon”, che diventò “Flight to the Moon” nel 1967. Il 21 marzo 1975 cambiò nome perché l’uomo era già stato sulla Luna: la destinazione diventò Marte. Il gioco chiuse nel 1992, ma undici anni dopo nacque “Mission: Space” a Disneyworld, Orlando (Florida) nell’ambito di Epcot Future World, uno dei 4 parchi tematici dove, da alcuni anni, adulti e bambini possono godersi una piacevole e avventurosa “Mars Ride”61. E a ragione Michele Serra, nella sua rubrica “Satira preventiva”, può fantasticare su un mirabolante matrimonio fra vip culminante in un viaggio di nozze con camera con vista su un cratere di Marte62.
59 (15/07/2015). 60 (10/03/2015). 61 (21/03/2015). 62 Michele Serra, “Beatrice, Pierre e le nozze su Marte”, L’Espresso, n. 32, anno VXI, agosto 2015, p. 11. Per ulteriori notizie e curiosità riguardanti Marte si rimanda al sito , che contiene numerosi articoli scientifici e divulgativi anche suddivisi per tematiche (15/09/2015).
2. IL MARZIANO MANIFESTO
Se mai un giorno dovessimo trasferirci su Marte, ci andrete senza di me. (Fred Vargas, Parti in fretta e non tornare, 2001) The fact that humans could feasibly become Martians is the strongest of the links between Mars and the earth. (Oliver Morton, Mapping Mars, 2003)
2.1. Il Manifest Destiny
L’espressione “Destino Manifesto” risale al 1845, quando il giornalista John O’Sullivan la usò per la prima volta nel numero di luglio-agosto della Democratic Review per descrivere la convinzione che gli americani fossero “destinati” (dal volere divino) a espandere i territori della giovane repubblica federale verso ovest. In realtà questa idea era già diffusa ben prima di O’Sullivan; risaliva, infatti, ai primi insediamenti coloniali nel New England e a quell’errand (missione, compito) che nel progetto puritano aveva presto rimpiazzato la semplice necessità di sfuggire alle persecuzioni europee. Nel 1630, oltre un secolo prima della Guerra per l’Indipendenza, John Winthrop dichiarò (quando era ancora sulla nave che lo avrebbe portato nel Nuovo Mondo, quindi addirittura ancor prima di scendere sul suolo americano): “we shall be made a story and a byword through the world”1. La sua vi1 John Winthrop, A Model of Christian Charity (1630), in: (20/01/2015).
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sione di quella che, su ispirazione biblica, egli chiamò la City Upon the Hill sarebbe poi confluita per vie imperscrutabili nella retorica della Rivoluzione: Thomas Paine in Common Sense scriverà che quest’ultima non è “the affair of a city, a country, a province, or a kingdom, but of a continent” (2005: 25). E Thomas Jefferson, anni dopo la Dichiarazione d’Indipendenza, pronuncerà parole ancor più esplicite: “this country remains to preserve light and liberty” (cit. in Dion 1957: 240). Tutto ciò si ricollega anche alla teoria dell’Eccezionalismo Americano, che nasce ufficialmente con l’opera del francese Alexis de Tocqueville La democrazia in America (1831), dove il termine viene usato per la prima volta, pur affondando le sue radici nel citato discorso di John Winthrop. Il momento storico in cui O’Sullivan dà un nome al Destino Manifesto è caratterizzato dal desiderio di assecondare il nuovo e robusto tipo di nazionalismo che si sta diffondendo, e che affonda le sue radici nella III Letter of an American Farmer di J. Hector St. John de Crèvecoeur2: quella che sancisce, mediante il concetto della transplantation, la nascita della nuova “razza” costituita dagli europei trapiantati appunto nel fertile suolo dell’Alma Mater d’America. Il nuovo uomo americano (o nuovo Adamo) viene considerato “superiore” proprio grazie a questa ibridazione col territorio; lo stesso territorio sul quale sorgeva la virtuale city upon the hill progettata dai puritani per essere un modello per il mondo intero contro la wilderness (che era il lato oscuro della natura “civilizzata”, ovvero la foresta, il deserto, l’“Altro”). Se la città sulla collina aveva rappresentato, per le generazioni precedenti (ma non solo: molti presidenti americani hanno utilizzato questa immagine prima o poi nei loro discorsi ufficiali e continuano a farlo), un punto di riferimento, successivamente a questo punto si aggiunge una linea: quella della Frontiera, che in America non sarà un segno di demarcazione fisso bensì il suo esatto contrario – un confine fluido, mobile, dinamico, in continuo spostamento verso il Pacifico. Una linea fatta di uomini e donne, carovane, cavalli, armi, commerci, conflitti, massacri, al di qua della quale prendeva forma la “civiltà” occidentale e al di là della quale la wilderness arretrava irrevocabilmente. Lo storico della Frontiera, Jackson Turner, ha ben spiegato (1893)3 il processo di avanzamento, durato decenni e compiutosi solo a fine Ottocento davanti all’Oceano; e dopo di lui diversi studiosi hanno riflettuto sul suo significato e sulle sue conseguenze (per esempio Billington 1963 e 1966; Brown 2009; Hine e Faragher 2008). Anche questa immagine è stata a sua volta usata spesso dai Presidenti degli USA; tra i vari casi spicca John Fitzgerald Kennedy che, come vedremo più avan2 J. Hector St John de Crèvecoeur, Letter III, “What is an American”, in Letters from an American Farmer (1782), (20/01/2015). 3 Frederick Jackson Turner, The Significance of the Frontier in American History (1893), (20/01/2015).
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ti, elaborò la variante della new frontier. Il termine è poi stato usato in molti altri contesti, dal progresso tecnologico e scientifico alla corsa allo Spazio e così via. La Frontiera è dunque un fenomeno centrale per capire una delle caratteristiche più controverse della cultura americana: la coesistenza, per certi versi paradossale, di un forte senso di democrazia (radicato sui valori fondanti di libertà, uguaglianza, diritti civili, ecc.) da un lato; e, dall’altro, l’altrettanto forte spinta espansionistica, tale che spesso si è parlato, e non del tutto a sproposito, di Impero e di imperialismo4. Solo se comprendiamo la coerenza intrinseca di queste due nozioni apparentemente antitetiche potremo capire come mai la Frontiera, che pure distrusse e cancellò vegetazione, animali e uomini, ridisegnando il territorio a partire da un genocidio, è stata considerata un grande movimento democratico: si basava infatti sul valore dei singoli individui, tutti percepiti come uguali (l’età di Jackson incrementò ulteriormente la mentalità per cui every man is equal ), purché si trovassero, per così dire, dal lato giusto della linea. Su questo aspetto della Frontiera Regeneration through Violence di Richard Slotkin (1973) ha evidenziato bene come, dietro all’esperienza di rigenerazione come metafora strutturante della conquista del Nuovo Mondo, si celi una realtà fatta di battaglie, sopraffazione e violenza. Il “Destino” di dominare il territorio e di espandersi era “manifesto”, cioè palese, in quanto voluto dall’alto; e dunque la legittimazione era potente. Convertire gli (o sbarazzarsi in altro modo degli) indigeni, costruire case e città, allevare bestiame, commerciare, erano tutte motivazioni ritenute più che sostenibili; e quando poi, nel 1848, fu scoperto l’oro in California, il numero di pionieri e avventurieri che si riversarono nel Continente raggiunse cifre straordinarie. O’Sullivan in realtà aveva esposto la teoria del Destino Manifesto ancor prima di pronunciarne il nome. Nel 1839, infatti, aveva scritto: “The expansive future is our arena. We are entering on its untrodden space, with the truths of God in our minds. […] We are the nation of human progress, and who will, what can, set limits to our onward march? Providence is with us, and no earthly power can” (1839: 427). Il certificato di nascita del termine risale invece a un articolo pubblicato sei anni più tardi, in cui O’Sullivan sostiene l’annessione del Texas da parte degli Stati Uniti, contro il Messico che lo riteneva invece proprio territorio, durante la campagna presidenziale che vedeva scontrarsi Henry Clay e James Polk. In un clima particolarmente acceso, egli accusò chi si opponeva all’annessione di voler bloccare “the fulfillment of our manifest destiny to overspread the continent allotted by Providence for the free development of our yearly multi4 Si rimanda alla classica distinzione proposta negli studi di Relazioni Internazionali dai teorici realisti, secondo i quali il concetto di democrazia si applica solo agli stati, mentre nelle relazioni tra gli stati vige la cosiddetta “anarchia internazionale” (manca un’autorità/legge superiore): questo spiega gli USA “simbolo della democrazia” ma anche belligeranti e imperialisti.
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plying millions”5. I dissidi riguardavano anche l’istituzione della schiavitù: gli stati del sud, infatti, volevano aumentare le piantagioni annettendo stati in cui adottare il sistema schiavista, mentre a nord della linea Mason-Dixon cresceva l’opposizione. L’ideologia sottesa al Destino Manifesto creò dunque fin dall’inizio forti controversie e una vera e propria guerra culturale che avrebbe portato di lì a pochi anni al dramma della Guerra Civile. Il Destino Manifesto tuttavia non si esaurì né con la minaccia della secessione, né con l’arrivo sulle coste del Pacifico. Al contrario, continuò e continua a informare l’immaginario degli americani (o meglio, della élite americana, quella che un tempo si definiva con l’acronimo WASP ovvero White Anglo-Saxon Protestant: cattolici, asiatici, afroamericani, nativi, chicani e altri erano esclusi dal “Destino” di supremazia) e a guidare il loro progetto politico nei confronti del resto del mondo. Basti pensare come nelle guerre recenti (spesso chiamate “missioni di pace”) gli Stati Uniti si siano fatti promotori di valori e interessi nazionali nel nome di un progetto di redenzione (vedasi l’espressione “esportazione della democrazia”). Il richiamo a questa missione, come scrive Stephanson, si è sempre accompagnato all’espansionismo, giustificato dalla salvaguardia dei valori storici di democrazia e libertà (1995). L’espressione “Destino Manifesto” è stata riattualizzata in varie occasioni, dagli anni della Guerra Fredda contro l’“Impero del Male” comunista fino alle posizioni intransigenti dei due Bush (padre e figlio), e sicuramente lo sarà ancora in futuro. Nonostante la sua natura pregiudiziale e discriminatoria, infatti, continua a esercitare un certo fascino e a essere utilizzata non solo nella politica estera o nella retorica di stampo patriottico, ma anche in altri settori, dalle scienze al commercio, dall’informatica alla cultura pop6. 2.2. Scudo Spaziale, Guerre Stellari e New Frontiers
È stato necessario riferirci all’ideologia del Destino Manifesto per inquadrare meglio la nozione di “Marziano” Manifesto che sta alla base del nostro discorso. Si tratta, naturalmente, di un gioco di parole, che nasconde però alcune lineeguida importanti del presente lavoro. In primo luogo, gli alieni (e in particolare i marziani) rappresentano un’arena significativa di incontro/scontro ideologico nella cultura americana. In secondo luogo, essi riflettono in modo evidente i 5 John O’Sullivan, “Annexation”, in The United States Democratic Review, 17 (85) (July-August 1845): 5. (20/01/2015). 6 ; (20/01/2015).
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desideri, le pulsioni, le paure e le idiosincrasie dei terrestri, e nello specifico degli americani. In terzo luogo, dato che la Frontiera è stata a lungo percepita come uno spazio “destinato” a espandersi senza limiti, ne consegue che prima o poi il terreno di confronto con l’alieno (sia un essere vivente a noi percepibile mediante i sensi, sia una creatura virtuale, sia una semplice trasmissione di onde, o un luogo, o altro) dovrà pur presentarsi. Dunque, prendere a prestito l’aggettivo “Manifesto”, così carico di simbolismi, pregiudizi e anche promesse, a definire il “Marziano”, non è solo un gioco ma anche un modo di avvicinare la tematica dell’incontro (im)possibile con la tipologia più estrema di “Altro” che si possa immaginare. E sul concetto di impossibilità mi permetto un breve inciso, per citare una frase illuminante che ho letto di recente in una bella Introduzione ad alcuni scritti del filosofo José Ortega y Gasset: “L’uomo è un essere utopico che si propone solamente l’impossibile” (Piro 2012: 19). Abbiamo dunque parlato di Frontiera e della sua fluidità; c’è però nella storia statunitense anche un movimento contrario, che porta a erigere steccati e a chiudere per così dire le porte in difesa del territorio. “Good fences make good neighbors”, ironizza un proverbio popolare, ma c’è poco da scherzare sul caso tristemente noto del confine tra USA e Messico: mi riferisco naturalmente alla barriera di separazione detta “muro di Tijuana”, la cui costruzione fu avviata nel 1994 per impedire agli immigranti illegali, in particolar modo messicani e centroamericani, di oltrepassare il confine sulle basi di un triplice progetto (Gatekeeper in California, Hold-the-Line in Texas e Safeguard in Arizona) e al muro, lungo quasi 1000 km, fatto costruire in seguito al Secure Fence Act del 2006, approvato dal secondo governo di George W. Bush Junior, a cui si aggiungono le varie leggi restrittive nei confronti degli emigranti. Ritorneremo più avanti su questi aspetti; ci soffermeremo qui invece sul cosiddetto “Scudo Spaziale”, prima di ritornare al concetto di Frontiera e alle sue rivisitazioni contemporanee. Con “Scudo Spaziale” – traduzione italiana di Strategic Defense Initiative (SDI), fantasiosamente ribattezzato anche “Guerre Stellari” in seguito all’omonimo film di fantascienza con cui ebbe inizio la lunga saga di Star Wars (1977) – si intende il programma di difesa strategica proposto il 23 marzo del 1983 dall’allora presidente Ronald Reagan per proteggere gli Stati Uniti da attacchi di missili balistici intercontinentali con testate nucleari. Il programma si proponeva di individuare tutti i mezzi offerti dalla tecnologia spaziale, dai raggi laser ai cannoni elettronici, che avrebbero potuto servire a trasferire la guerra dai mari al cielo. In realtà esisteva già una sorta di accordo tra USA e URSS: per evitare la reciproca distruzione in caso di conflitto atomico, le due potenze avevano, infatti, adottato da tempo una strategia denominata Mutual Assured Destruction (MAD), ma evidentemente Reagan non la riteneva più sufficiente a garantire la pax ato-
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mica. Il presidente consultò dunque i più importanti scienziati statunitensi e incoraggiò la ricerca sulle possibilità tecnologiche di sviluppare nuove armi capaci di contrastare i missili con testate nucleari7. Il crollo dell’Unione Sovietica segnò la fine del programma SDI. La denominazione “Scudo Spaziale” è tuttavia utilizzata ancor oggi nei media per indicare il sistema missilistico americano e si riferisce dunque alle armi presenti non tanto a terra (cioè: sulla Terra), quanto nello Spazio. Questa precisazione è importante per due ragioni. La prima è che mediante il concetto di Scudo (o di Protezione, o di Difesa) si erge una barriera ideale fra gli Stati Uniti e i paesi avversari che non coincide più con un confine terrestre, ma si sposta nel “vuoto” che ci separa da un lato dalla superficie terrestre, dall’altro dai corpi celesti. Certo, c’erano già gli aerei e gli elicotteri militari, ma ora missili, sonde, satelliti e stazioni orbitanti vanno a popolare questo “vuoto” che sempre più diventa potenziale territorio di guerra. La seconda ragione è che il concetto di “Scudo” ci permette di comprendere i profondi legami esistenti fra la corsa agli armamenti e la corsa alla conquista dello Spazio: è una barriera che in realtà nasconde un’altra faccia, quella relativa a un implicito progetto di avanzamento, in altre parole è una riedizione in chiave cosmica e ostile della ormai nota Frontiera. Sono stati e sono tuttora molti gli storici, i critici, i politici, gli uomini d’affari, gli scienziati, i pubblicitari, e così via a servirsi di questo termine per indicare il progresso, l’innovazione, le scoperte in ogni settore, dalla ricerca di laboratorio al mercato finanziario, dall’elettronica all’informatica. Tra le molteplici reinterpretazioni del termine Frontiera, tuttavia, ve n’è una che ritengo particolarmente significativa in questo contesto. Si tratta naturalmente di quella di J. F. Kennedy, il quale, nel suo celebre discorso del 15 luglio 1960 in cui accetta la candidatura per il partito democratico (poi divenuto noto come il New Frontier Speech), si richiama esplicitamente all’idea della Frontiera: […] Today some would say that […] there is no longer an American frontier. But I trust that […] we stand today on the edge of a New Frontier – the frontier of the 1960s – a frontier of unknown opportunities and perils – a frontier of unfulfilled hopes and threats. […] I tell you the New Frontier is here, whether we seek it or not. Beyond that frontier are the uncharted areas of science and space […] I am asking each of you to be pioneers on that New Frontier8. 7 ; (21/01/2015). 8 (21/01/2015).
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Come si può vedere, la scienza e lo spazio figurano come strettamente coinvolte nel processo di avanzamento di questa Nuova Frontiera; tanto che due soli anni dopo, col discorso “Address at Rice University on the Nation’s Space Effort” (meglio noto come il “We choose to go to the Moon” Speech), Kennedy comincia a convincere i cittadini americani della necessità di finanziare la NASA per organizzare la prima spedizione di astronauti sul nostro satellite, e formula la sua promessa: “it will be done before the end of this decade”9. Sfortunatamente Kennedy morirà assassinato l’anno seguente (1963), senza poterne vedere il compimento, che avviene – se non vogliamo credere ai sostenitori del Moon Hoax10 – il 20 luglio 1969. Da quella data, ben dodici uomini cammineranno sulla Luna. Un mese prima dell’allunaggio muore in America, senza riuscire a vedere i primi passi dell’uomo sulla Luna, lo scrittore e storico della scienza Willy Ley, autore, insieme a Werner von Braun, di tre libri sull’esplorazione dello spazio: Across the Space Frontiers (1952), Conquest of the Moon (1953) e The Exploration of Mars (1956). In quest’ultimo, egli esprime la sua convinzione che presto l’uomo partirà alla volta di Marte: “we, the genus homo of the earth, will set foot on Mars within a matter of decades”11. Nell’agosto del 1969 von Braun (ingegnere aerospaziale e autore di Progetto Marte, figura controversa in quanto collaboratore prima dei nazisti e poi degli americani) presenta al Congresso un piano per l’invio di astronauti su Marte, che però non viene approvato probabilmente per due ragioni: l’impegno militare in Vietnam e il fatto che, con lo sbarco sulla Luna, la gara spaziale contro l’Unione Sovietica è già stata praticamente vinta (Bignami e Sommariva 2015). Spiro Agnew, vice-presidente dal 1969 al 1973, ripropone di effettuare una spedizione umana su Marte, prevedendo l’atterraggio di una missione americana sul Pianeta Rosso entro il 2000 (Mallove 1991), ma i programmi d’esplorazione spaziale vengono interrotti, come vedremo, fino agli anni ’90. Frattanto, nel 1977 Gerard K. O’Neill suggerisce che con l’attuale tecnologia sarebbe possibile costruire habitat permanenti nello Spazio con gli stessi comfort della Terra e propone stazioni spaziali permanenti capaci di contenere migliaia o perfino milioni di persone. 9 (21/01/2015). 10 Nel corso degli anni si è, infatti, formato un movimento di scettici che, adducendo varie prove, sostengono che in realtà l’uomo non è mai andato sulla Luna. Per approfondimenti sul dibattito si rimanda ai numerosi siti, tra cui ad esempio: ; (21/01/2015). Iniziatore del movimento fu Bill Kaysing, autore di We Never Went to the Moon: America’s Thirty Billion Dollar Swindle (1974). 11 Cit. in Robert H. Baker, “How to Get to Mars and Back” (recensione di The Exploration of Mars di W. Ley e Werner von Braun, Viking Press 1956), The Saturday Review, July 14, 1956, in: (04/03/2015).
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Nel 1988 la Planetary Society12, che ha sede a Pasadena (California), emette una dichiarazione riguardante Marte (Mars Declaration) che traccia differenze e analogie con la Terra e in particolare con il paesaggio americano, quasi per invitare a familiarizzare con la wilderness marziana: Mars is the world next door, the nearest planet on which human explorers could safely land. Although it is sometimes as warm as a New England October, Mars is a chilly place […] There are pink skies, fields of boulders, sand dunes, vast extinct volcanoes that dwarf anything on Earth, a great canyon that would cross most of the United States, sandstorms, […] and many other mysteries. (cit. in Mallove 1991: 337)
In un articolo più recente, un membro della Society conferma che “The Goal Is Mars”13. E quando il presidente George W. Bush Junior, nel 2004, dichiara la sua intenzione di mandare uomini su Marte “in the twenty-first century” (cit. in Markley 2005: 347), la NASA presenta un progetto del costo di 450 miliardi di dollari: un piano che viene criticato da Robert (Bob) Zubrin (ingegnere aerospaziale, autore di diversi volumi tra cui The Case for Mars e presidente della Mars Society, su cui ritorneremo), il quale propone invece un progetto molto più economico (fra i 20 e i 50 miliardi) chiamato Mars Direct e ispirato alla “triumphal experience of the American frontier” (Markley 2005: 347). L’equipaggio dovrebbe servirsi delle risorse disponibili sul pianeta stesso, così come avevano fatto i pionieri: “the way the West was won […] ’s also the way Mars can be won” (cit. in Ibidem). Nel frattempo, nei primi anni ’90 l’artista Jon Lomberg viene incaricato dalla Planetary Society di predisporre un CD (intitolato Visions of Mars) contenente una storia delle immagini di Marte da inviare sul pianeta: “The disc would provide a record for the future settlers on Mars of how their ancestors imagined the planet” (Crossley 2011: 16). La sonda russa che dovrebbe eseguire l’incarico, però, va a schiantarsi sulle Ande; successivamente verrà effettuato un altro tentativo, e nel 2008 il Phoenix Mars Lander porterà effettivamente con sé un DVD nella regione settentrionale di Marte. Crossley cita questo episodio all’interno di un più vasto discorso sull’importanza di raccogliere e conservare tutti i testi e le raffigurazioni del pianeta, in quanto il giorno in cui ci saranno colonie su Marte questi testi costituiranno la mitologia di una nuova civiltà. A mio parere le considerazioni di Crossley sono molto interessanti non tanto perché riflettono una pur legittima preoccupazione riguardante la vita intellettuale e culturale dei futuri coloni, quanto perché dimostrano che la colonizzazione è sempre prima culturale che politica, facendoci comprendere come abbiano ragionato anche gli europei che si recavano nel Nuovo Mondo, a prescindere dall’esistenza di popoli autoctoni. 12 (04/05/2015). 13 Bill Nye, 11/07/2012, in Ibidem.
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Tornando agli anni ’90, nel 1991 lo scienziato Eugene Mallove esprime la sua convinzione che la prima spedizione su Marte avverrà nei primi anni del XXI secolo, forse nel 2010. Ma l’elemento più interessante è la sua reinterpretazione della nozione dell’alma mater esposta da J. Hector St John de Crèvecoeur nelle Letters from an American Farmer (precisamente la III, già citata, intitolata “What Is an American?”, 1782): The most important concept to bear in mind about colonizing Mars is the art of defying apparent natural laws by pulling oneself into the air by the shoestrings – the “bootstrap” philosophy. When settlers crossed the Atlantic hundreds of years ago, they didn’t bring with them all that was eventually to be on the North American continent. Rather, they brought simple tools and supplies that were to be the seeds of a continental culture based on indigenous resources. They were aided in no small way by trans-oceanic trade and sustenance but everything that grew up in the New World didn’t arrive fully formed. It was seeded and nurtured by the vast resources of the continent and the multiplying human population. The same will be true for colonizing Mars. […] Before leaving England, the Pilgrims didn’t study the greenhouse cultivation of corn or techniques to purify precious water […]. (Mallove 1991: 339. Corsivi miei)14
Mediante il riferimento esplicito ai semi portati dai terrestri e alle risorse preesistenti su Marte, lo studioso si allinea alla suddetta visione di Crèvecoeur, il quale, descrivendo i territori americani, citava “the severity of the climate, the inclemency of the seasons, the sterility of the soil” e, a proposito della trasformazione degli europei in americani, parlava di Alma Mater e di transplantation: They brought along with them their national genius […] urged by a variety of motives, here they came. Every thing has tended to regenerate them; new laws, a new mode of living, a new social system; here they are become men […] in Europe they were as so many useless plants, wanting vegetative mould, and refreshing showers; they withered, and were mowed down by want, hunger, and war; but now by the power of transplantation, like all other plants they have taken root and flourished! […] He is an American, who leaving behind him all his ancient prejudices and manners, receives new ones. […] He becomes an American by being received in the broad lap of our great Alma Mater. […] Men are like plants; the goodness and flavour of the fruit proceeds from the peculiar soil and exposition in which they grow. We are nothing but what we derive from the air we breathe, the climate we inhabit, the government we obey, the system of religion we profess, and the nature of our employment […]15.
14 Testo integrale in: (04/05/2015). 15 Ibidem.
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In questa ottica, il vero “marziano” non sarebbe (sarà) l’eventuale indigeno, bensì l’americano (o comunque il terrestre) che si trapianterà su Marte. Mallove prosegue nella sua visione, scrivendo che “The dawn of the twenty-second century […] may see the emergence of a United States of Mars” e (collocandosi su un fronte opposto rispetto ad Asimov, citato a conclusione del capitolo precedente) esprimendo la speranza che “life on Mars will continue to bear a closer resemblance to living in Vermont or Wyoming than to life in New York City or Los Angeles” (1991: 352, 353). D’altra parte, c’è chi pensa che la colonizzazione di Marte si potrebbe collegare piuttosto all’esigenza di ospitare detenuti in soprannumero, come fecero gli inglesi nel XVIII secolo con le colonie nel New South Wales in Australia, rendendo Marte una nuova Botany Bay (Adler 2014). L’analogia con i Pilgrim Fathers è ripresa anche da Bignami e Sommariva, i quali sostengono l’attuabilità di una base permanente su Marte. Secondo i due studiosi gli aspiranti coloni dovrebbero chiedere il supporto economico e lo stato giuridico alle Nazioni Unite: Questo schema è simile […] a quello adottato dai padri pellegrini per il finanziamento della colonia del Massachusetts. I membri di quella spedizione firmarono il cosiddetto Mayflower Compact, cioè un “patto di alleanza” […] con il quale decisero di creare un’“istituzione politica” ed essere vincolati dalle sue leggi. Questo patto di alleanza diventò la base del governo nella colonia del Massachusetts. Incapaci di finanziare i costi dell’emigrazione con le proprie scarse risorse, i padri pellegrini costituirono una società, di proprietà dei membri della spedizione. Il capitale fu fornito da un gruppo di uomini d’affari di Londra che si aspettava di trarre profitto dalla colonia. Così facendo, i membri della spedizione, i Pilgrim Fathers, si imbarcarono sul Mayflower a Plymouth il 16 settembre del 1620, alla volta del Massachusetts. Il resto è storia. (2015: 115)
Quanto mi piacerebbe che, ad attendere i moderni eredi dei Pellegrini, i terrestri trovassero schierati gli omini verdi che da secoli popolano Marte nella nostra immaginazione, possibilmente più agguerriti e smaliziati di quanto non furono gli Indios o i Pawnees, e che costoro li ricacciassero sul pianeta da cui provengono e che hanno ormai sfruttato fino all’osso! A proposito di sfruttamento: in queste pagine abbiamo trascurato di parlare dei due satelliti marziani, che invece rappresentano sia una preziosa risorsa mineraria, sia un’opportunità di lancio verso Marte, in quanto potrebbero fungere da tappa intermedia. Uno dei primi a rendersi conto, nel 1969, di tale possibilità, e poi a proporre una missione nel 1977, anno del centenario della scoperta delle lune marziane, fu Fred Singer, della George Mason University, Virginia, il quale suggerì una spedizione esplorativa e le diede il nome “Mission PhD” (acronimo di Phobos e Deimos). Nel nuovo millennio, l’erede più vicino al Sogno di Kennedy (e alla dichiara-
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zione di Bush) sembra essere il presidente Obama, il quale, in un discorso pronunciato presso il Kennedy Space Center il 15 aprile del 2010, ha proclamato: “By the mid-2030s, I believe we can send humans to orbit Mars and return them safely to Earth. And a landing on Mars will follow. And I expect to be around to see it”16. E c’è chi comincia credere che “l’idea che Marte possa diventare la Nuova Frontiera, l’equivalente di quel che fu la California ai tempi della febbre dell’oro, nel 1848”17, sia non solo credibile, ma realizzabile. Lo stesso avviene già molto prima in ambito letterario, rispetto al quale Paul A. Carter riconosce l’attrazione che esercita Marte “as a nineteenth-century frontier America” (1977: 65). In un articolo contenente una lunga intervista rilasciata dal moon walker Edward “Buzz” Aldrin al settimanale Wired, Giovanni F. Bignami scrive che per l’astronauta americano “la missione dell’America è rilanciare lo spirito di frontiera delle esplorazioni spaziali che ci porteranno, fra vent’anni, a creare una colonia di pionieri sul Pianeta Rosso”18. Interrogato sull’argomento, Aldrin risponde: Nel 2025 prevedo l’atterraggio su Phobos, […] allo scopo di allenarci alle distanze e alle missioni lunghe. Infine, nel 2031, l’atterraggio su Marte. […] Per il 2019 saremmo pronti per andare su Marte tecnicamente, se lo volessimo. Ma non per tornare. Sarebbe cioè possibile far atterrare un equipaggio con tante provviste e tanta buona volontà, armato di vero spirito pionieristico. Potrebbero ingegnarsi a sopravvivere, passando da Robinson Crusoe a pionieri capaci di estrarre risorse dal luogo dove sono. E poi procedere a riprodursi sul posto. Nel giro di venti anni, la popolazione potrebbe cominciare a stabilizzarsi […]19.
Bignami commenta: “qui Buzz sembra fortemente ispirato nella sua visione alla storia dei pionieri americani, tutti morti, per una ragione o per l’altra, dopo essere arrivati nel Nuovo Mondo”20. Come scrive ancora Morton, The frontier metaphor is applied to a space exploration of all sorts, from Apollo to Star Trek to the International Space Station. But when applied to Mars it gains a special immediacy. Mars may not be very similar to the American West – but it is similar enough to give the metaphor substance. Well before the space age, it was natural for American imagination to see Mars in terms of the West: remote, dry, a test of character. (2003: 87)
16 (28/01/2015). 17 Federico Rampini, “I marziani siamo noi”, cit., p. 21. 18 Giovanni F. Bignami, “È già nato l’uomo che andrà su Marte. Intervista a Buzz Aldrin”, in Wired, luglio 2009, pp. 70-83 (cit. p. 70). 19 Ibidem, p. 83. 20 Ibidem.
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Si ricollegano alla stessa visione gli scritti del citato Zubrin, a partire da un articolo intitolato “The Significance of the Martian Frontier” (1994), interamente costruito su un’analogia con la Frontiera idealizzata da Turner e culminante nella seguente dichiarazione: “I believe that humanity’s new frontier can only be on Mars”21. Dopo aver delineato le tappe della Frontiera americana nel XIX secolo, egli passa a elencare i motivi per cui la nuova frontiera debba essere Marte (e non la Luna o altri pianeti) e formulare l’agenda della sua colonizzazione: […] Mars has what it takes. It’s far enough away to free its colonists from intellectual, legal, or cultural domination by the old world, and rich enough in resources to give birth to a new. The Red Planet may appear at first glance to be a desert, but beneath its sands are oceans of water in the form of permafrost, enough in fact (if it were melted and Mars’ terrain were smoothed out) to cover the entire planet with an ocean several hundred meters deep. […] For the rest, all the metals, silicon, sulfur, phosphorus, inert gases and other raw materials needed to create not only life but an advanced technological civilization can readily be found on Mars. The United States has, today, all the technology needed to send humans to Mars. […] Once humans have reached Mars, bases could rapidly be established to support not only exploration, but experimentation to develop the broad range of civil, agricultural, chemical and industrial engineering techniques required to turn the raw materials of Mars into food, propellant, ceramics, plastics, metals, wires, structures, habitats, etc. As these techniques are mastered, Mars will become capable of supporting an ever-increasing population, with an expanding division of labor, capable of mounting engineering efforts on an exponentially increasing scale. Once the production infrastructure is in place, populating Mars will not be a problem – under current medical conditions an immigration rate of 100 people per year would produce population growth on Mars in the 21st century comparable to that which occurred in Colonial America in the 17th. […]22.
Due anni dopo esce The Case for Mars (1996), un saggio in cui l’immaginazione supera il senso di realtà, partendo da premesse teorico-culturali che sono le medesime sia dell’articolo sopra menzionato, sia di gran parte della narrativa fin qui considerata. Il testo, che conferma le idee già espresse in precedenza da Zubrin sulla necessità dell’apertura di una nuova Frontiera su Marte, consiste, infatti, in un: […] triumphalist reading of American history […] In large measure, his vision of the American frontier seems lifted from a 1960s high school textbook. Celebrating (and simplifying) Frederick Jackson Turner’s frontier thesis, he offers an idealized American past as a template for Martian exploration […] his rhetoric recalls nineteenth-century apologies for the United States’ westward expansion. (Markley 2005: 350) 21 Testo integrale in: (24/04/2015). 22 Ibidem.
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Nel 2001 uscirà anche un suo romanzo, First Landing, e alcuni anni dopo un altro saggio, dal titolo How to Live on Mars: A Trusty Guide for Surviving and Thriving on the Red Planet (2008). Si tratta di una sorta di manuale di sopravvivenza fisica, economica e psicologica sul Pianeta Marte, una guida particolarmente utile vista la decadenza irrefrenabile del nostro pianeta. Come commenta Morton, “Zubrin’s passionate commitment to a Martian frontier is inseparable from his belief in the increasing decadence of the earth” (2003: 260). In una recensione intitolata “A New Land of Opportunity” e pubblicata sul Wall Street Journal il 21 dicembre 2008, Glenn Harlan Reynold scrive a proposito del volume: Back when America was being settled, enterprising authors in Europe published books and pamphlets aimed at would-be immigrants, offering advice on how to flourish in the New World. Some of the advice was sound, and some of it wasn’t, but readers devoured them anyway. With How to Live on Mars, Robert Zubrin has produced a new entry in the genre – a guidebook for settlers to a place that hasn’t been settled yet, written in the present tense of a future that won’t happen for a hundred years. It makes for amusing and interesting reading and in some ways may capture the feel of a colonization-in-progress Mars better than more sober works about the challenges of planetary habitation23.
2.3. I programmi NASA, ovvero: Has Curiosity killed the cat?
La cosiddetta “era spaziale” nasce in Unione Sovietica con il lancio, il 4 ottobre 1957, dello Sputnik, il primo satellite artificiale della Terra, seguito tre anni dopo dal primo lancio di un uomo, Jurij Gagarin, nello Spazio. Da questo momento in poi tutta la storia del volo spaziale americano e sovietico s’interseca al punto che, come vedremo, non è possibile parlare dell’uno senza riferirsi all’altro. Allo stesso modo vedremo intersecarsi continuamente la scienza e la fiction, che si rivelano più collegate fra loro di quanto comunemente si possa immaginare. In realtà l’aspirazione al volo spaziale ha origini antiche, ma è rimasta a lungo nel dominio dell’immaginazione, ovvero nei romanzi d’anticipazione o racconti fantastici e nelle fantasie degli scienziati, che si sono arrovellati per molto tempo sulle modalità per superare il problema di creare una forza propulsiva in grado di condurre un corpo fuori dal campo di gravità terrestre. I cinesi furono i primi a costruire razzi, seguiti dai mongoli e dagli arabi prima e dagli inglesi poi, ma fu solo verso la fine dell’Ottocento che fu elaborato dallo scienziato sovietico Konstantin Eduardovic Ziolkovskij un modello matematico dei propellenti chimici; parecchi 23 (29/01/2015).
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anni più tardi, nel 1926, l’americano Robert H. Goddard fu il primo a costruire e lanciare un razzo a propellente chimico. Sovvenzionato dallo Smithsonian Institute, fu inizialmente dileggiato dalla stampa e ignorato dal Governo. Fu solo dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, avvenuto il 7 dicembre 1941, che Goddard fu chiamato a collaborare con la Marina Militare (Crema e Castellani 1997). Fra gli anni ’30 e ’40 è però la Germania ad acquisire il predominio nel campo della missilistica. La figura di maggior rilievo è Hermann Oberth, matematico, fisico, astronomo e vorace lettore di Verne, nonché autore de Il razzo verso gli spazi interplanetari (1923). Quando lavorò come consulente tecnico per il film The Girl in the Moon di Fritz Lang (il celebre regista di Metropolis, 1926), come ricompensa gli fu finanziata la costruzione di un razzo a propellente liquido: sebbene l’impresa non poté essere completata, anche a causa della revoca del permesso da parte delle autorità, egli vinse un premio “per il miglior contributo scientifico al progresso della navigazione interplanetaria” (Crema e Castellani 1997: 17). I primi razzi effettivamente portati a termine dalla Società per il Viaggio Spaziale (di cui Oberth fu prima membro, poi presidente) furono chiamati Mirak I e Mirak II, seguiti da Repulsor: il nome di quest’ultimo era ispirato al propulsore usato dai marziani nel racconto di Kurd Lasswitz Su due pianeti (Crema e Castellani 1997). Con l’avvento del nazismo nel 1933 la Società per il Viaggio spaziale cessa di esistere, ma gli esperimenti continuano a sud di Berlino. Si progetta la realizzazione di armi segrete, e vengono costruiti sia missili (Max e Moritz) sia razzi (serie A e serie V). Nel 1945, tuttavia, numerosi scienziati e tecnici si consegnano agli americani, che li invitano a continuare la loro attività negli Stati Uniti: sarà qui, infatti, oltre che nell’Unione Sovietica, che le ricerche proseguiranno e s’intensificheranno nel dopoguerra. Fra i risultati ricordiamo il razzo Aerobee, il Bumper 7 (che nel luglio 1950 volò a una velocità pari a nove volte quella del suono), e il progetto Viking. Teniamo presente che esiste un vero e proprio dialogo fra immaginazione e scienza, fra il mondo della creatività letteraria e cinematografica e il progresso tecnologico: come oggi si tende a riconoscere, molti programmi spaziali dei tardi anni ’50 e primi anni ’60 “were, in part, the progeny of the science-fiction novels, stories, comic books, and films of the interwar and postwar periods” (Markley 2005: 232). Nonostante la comunicazione, da parte dal presidente Dwight D. Eisenhower (il quale fonderà la NASA, National Aeronautics and Space Administration, nel 1958), dell’imminente invio del primo satellite artificiale americano, sono i sovietici, nell’ottobre del 1957, a mandare in orbita il già citato Sputnik. L’evento lascia l’opinione pubblica americana “sbigottita e amareggiata” (Crema e Castellani 1997: 23) e il primo tentativo americano, il Vanguard, fallisce la sua missione ed esplode. Un mese più tardi, Sputnik II entra in orbita con una cagnolina
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a bordo, di nome Laika; e solo il primo gennaio 1958 il razzo Jupiter C manda in orbita il primo satellite americano, Explorer I: “L’annuncio della riuscita del lancio fu accolto con il suono delle sirene delle fabbriche, delle auto della polizia e dei pompieri e i manifestanti innalzavano scritte del tipo: ‘Sputnik fatti in là, lo spazio è anche nostro, i nostri razzi non falliscono’” (Ibidem). Come si può vedere, la Guerra Fredda si riflette anche sulla conquista dello spazio. Gli Stati Uniti reagiscono con tenacia allo svantaggio iniziale e proseguono la corsa per la conquista della Luna creando una serie di laboratori scientifici e di programmi spaziali (tra cui il Marshall Space Flight Center in Alabama, il Johnson Space Center in Texas, il Jet Propulsion Laboratory in California, ecc.). Per i lanci, nel 1949 la scelta cade su Cape Canaveral, in Florida (che sarà ribattezzato Kennedy Space Center nel 1964). Sono tuttavia ancora i sovietici a portare a segno nuovi successi: nel gennaio 1959 la sonda Lunik I passa molto vicina alla superficie lunare (6500 km); nel settembre dello stesso anno Lunik II lascia sulla Luna, a est del Mare Serenitatis, una targa commemorativa con falce e martello e il ritratto di Vladimir Lenin, il grande rivoluzionario e politico comunista scomparso nel 1924; il mese successivo, infine, Lunik III compie il primo giro intorno alla Luna, inviando sulla Terra le prime fotografie del satellite, compresa la faccia che normalmente non vediamo dalla Terra24. Il disappunto dell’opinione pubblica americana cresce, e non basta la scoperta delle “fasce di Van Hallen” (anelli in cui il campo magnetico terrestre intrappola le particelle cosmiche) per far ritrovare la fiducia nella scienza astronautica made in USA. Sarà il nuovo presidente J. F. Kennedy, che succede all’amministrazione repubblicana, a ridare nuova fiducia agli americani, lanciando la sfida di cui già si è parlato. Dopo vari lanci di satelliti contenenti scimmie (essendo le reazioni di queste ultime ritenute dagli americani più simili a quelle umane), nasce il progetto Apollo, che porterà l’uomo sulla Luna, associato al programma Gemini (che prevede il lancio di due uomini). Intanto la Russia manda la prima donna nello spazio (Valentina Vladimirovna Tereshkova, nel 1963) e Alexey Leonov effettua la prima passeggiata nello spazio (18 marzo 1965), inaugurando quella che sarà poi chiamata dagli americani EVA (Extra Vehicular Activity). Pur profondamente prostrati dall’assassinio di Kennedy, gli americani rispondono con la prima passeggiata spaziale made in USA (Edward White, 3 giugno 1965) e con il primo incontro (rendez vous) tra Gemini 6 e Gemini 7, il 15 dicembre dello stesso anno.
24 Il dark side of the Moon è la faccia della Luna che non vediamo dalla Terra: il motivo per cui vediamo sempre la stessa parte del satellite deriva dalla tipologia del movimento di rotazione della Luna, che è sincrono col suo moto di rivoluzione intorno alla Terra.
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La Luna viene raggiunta il 20 luglio del 1969 dall’Apollo 11. L’equipaggio è composto di tre uomini, uno dei quali resterà dentro la navicella (Michael Collins). Neil Armstrong prima e Edwin Buzz Aldrin poco dopo camminano sul suolo lunare e piantano la bandiera americana sul Mare Tranquillitatis: l’evento è trasmesso in diretta in tutto il mondo. Le missioni Apollo continuano fino al 1972 (Apollo 17): “in tutto sono stati raccolti 4 quintali e 15 chilogrammi di campioni di rocce lunari, ma la NASA aveva impiegato 25 miliardi di dollari” (Crema e Castellani 1997: 37). Anche i due pianeti più vicini alla Terra, Venere e Marte, sono oggetto di forte interesse. Certo, Marte è ben più lontano (la sua distanza dalla Terra è mille volte maggiore di quella che separa la Terra dalla Luna), ma è stato osservato fin dall’antichità, anche a occhio nudo, e ha sempre dato l’impressione di avere caratteristiche simili a quelle del nostro pianeta. I russi fanno un primo tentativo verso Marte nel 1960, con le sonde Marsnik 1 e 2 (conosciute anche come Mars 1960A e Mars 1960B), che però fallisce. Fallirà anche il secondo tentativo, nel 1962, con Mars 1. Nove anni dopo partono le due sonde gemelle Mars 2 e Mars 3 (1971), e nel 1973 è la volta di Mars 4, 5, 6 e 7. I lander riportano numerose immagini che rivelano la presenza di montagne alte oltre 20 km; la temperatura risulta variabile tra i – 110° C e i + 13° C, un calcolo che si rivelerà abbastanza esatto. Ma lo scopo principale è battere sul tempo gli americani. Nel frattempo, gli americani lanciano le sonde Mariner 3 e Mariner 4 nel 1964. Mentre ci si prepara al lancio, la NASA organizza una conferenza a cui partecipano diversi scienziati e quasi tutti concordano sulla possibilità che ci sia vita (sebbene non tutti ammettano l’esistenza di megafauna) su Marte; quando però le sonde arrivano vicino al pianeta, “the photographs of a cratered, barren surface suggested a planet more inhospitable to life than even the most pessimistic participants at the NASA institute imagined” (Markley 2005: 230). Mariner 4 sorvola Marte e trasmette ventidue immagini storiche, anche se ancora di non buona qualità. La delusione è forte anche perché, dopo un viaggio di 520 milioni di km, alla squadra interdisciplinare che deve interpretare i dati appare “un mondo arido e disseminato di crateri, del tutto simile alla desolata superficie lunare” (Crema e Castellani 1997: 39). Inoltre, secondo i dati rilevati la pressione atmosferica sul pianeta corrisponde alla pressione terrestre a 30 km d’altitudine, valore che esclude completamente la presenza di acqua liquida sulla superficie di Marte. Nel 1969 Mariner 6 e Mariner 725 raccolgono 201 immagini, ma solo del 20% della superficie; esse rivelano un paesaggio diverso da quello lunare. Il polo sud, per esempio, appare quasi del tutto ricoperto da ghiaccio secco. Si comincia a delineare una nuova disciplina, la geologia planetaria (planetary geology), chia25 Il Mariner 5 non è legato a Marte, in quanto il suo scopo era studiare l’atmosfera di Venere.
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mata anche, nel caso di Marte, “areology”, destinata a modificare molti dei suoi presupposti ogni volta che una navicella farà ritorno da Marte, così come ogni volta saranno ridiscusse le questioni relative alla exobiology. In un contesto di così grande variabilità, appare chiaro come “Even as the canals began to vanish from maps of Mars, the fourth planet became a speculative laboratory for questions, philosophical as well as scientific, about the origins, distribution, and evolutionary course of life” (Markley 2005: 237). Nel 1971 la telecamera di Mariner 9 mostra per la prima volta una tempesta di polvere globale sul pianeta. Tale fenomeno, conosciuto ormai da quasi un secolo, è dovuto al fatto che Marte è situato su un’orbita particolarmente ellittica, a cui consegue un’elevata variabilità dell’irraggiamento solare a seconda delle stagioni. Grazie a Mariner 9 vengono raccolte oltre 7000 immagini, che coprono il 98% del pianeta e mostrano i suoi rilievi principali, le colate laviche, i vulcani e l’immensa Valles Marineris, un canyon lungo 5000 km e profondo più di 6 (Rocard 2009) e ritraggono anche i due asteroidi Phobos e Deimos (Bignami e Sommariva 2015). La NASA cura anche una pubblicazione, Mars as Viewed by Mariner 9, un capitolo della quale si intitola “Similarities: Mars, Earth, and Moon”: S. E. Dwornik vi dichiara che è impossibile guardare le immagini di Marte senza scoprire “features reminiscent of those on our native planet” (cit. in Markley 2005: 240). Pur allontanandosi le ipotesi di una vita simile alla nostra su Marte, si torna però quindi paradossalmente a ragionamenti di tipo analogico. Si inizia infatti a capire che studiare Marte può aiutare gli scienziati a predire il futuro della Terra e questo giustifica la prosecuzione della ricerca di tracce di vita, anche se nasce un dibattito sulla giustificazione di queste ricerche dai costi altissimi (Ibidem: 243). Nel 1975 gli americani lanciano Viking 1 e Viking 2 al fine di effettuare rilevamenti fotografici e di valutare la possibilità di vita sul pianeta; entrambi arriveranno su Marte l’anno seguente. Sono costituiti da due parti, una fissa che resta in orbita (orbiter) e un lander che atterra sulla superficie. Quello di Viking 1 si posa su Chryse Planitia e quello di Viking 2 su Utopia Planitia. Le immagini (50.000) confermano il colore rosso del pianeta e il rilevatore individua una piccola quantità di vapore acqueo nell’atmosfera. Viene anche prelevato del materiale per essere analizzato, ma gli esperimenti effettuati non danno risultati tali che ci si possa pronunciare sull’esistenza di attività biologica sul pianeta. Le foto rivelano tuttavia che il suolo è molto ossidante a causa della presenza di ferro, il che non è favorevole all’esistenza di molecole organiche; di conseguenza, i più pessimisti concludono che “Marte è tre volte sterile: prima di tutto per assenza di acqua liquida, poi a causa delle radiazioni UV incidenti sulla superficie e dei raggi cosmici, e infine a causa del suolo molto ossidante” (Rocard 2009: 50).
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Le fotografie che arrivano da Mariner 9 e dai Viking alterano profondamente la visione del pianeta. Le analogie, tuttavia, persistono: le due missioni “revealed no obvious signs of life: no plants, no lichen-like growth on the rocks, no macrobes sniffing the lander. The rocks-strewn plains photographed by the two landers, though, seemed hauntingly earthlike” (Markley 2005: 251. Corsivi miei). C’è chi parla di “a heat-sensitive synthesis of organic matter on Mars” (Ibidem: 252), ma le interpretazioni sono più di una; se vita c’è stata in un lontano passato, i microrganismi sono morti. Si preferisce dare una spiegazione non biologica e alla fine s’incolpano i “falsi positivi” e viene decretata “The absence of organic matter in the Martian surface” (Ibidem: 256). Tutto questo ha anche ripercussioni di tipo esistenziale: significa, dopo tutta la fatica che si è fatta per superare l’antropocentrismo, che “we are alone”, cioè “alone in the universe” (Ibidem: 268). I commenti sopra riportati condensano e confermano la visione relativamente pessimistica di Norman Horowitz, lo scienziato che aveva predisposto gli esperimenti effettuati dal Viking per il rilevamento della vita su Marte. Lo scrittore e divulgatore scientifico Benjamin William “Ben” Bova, invece, suggerisce che potrebbe esistere una vita su Marte, se fosse basata su una chimica e su una biologia diverse da quelle terrestri; e predice missioni umane su Marte entro la fine del XX secolo (Rovin 1978). Anche Robert Shapiro, docente di chimica alla New York University, concorda; per molti scienziati la vita su Marte rimane dunque ancora uno scenario plausibile (Markley 2005). Gli studi successivi dimostreranno – grazie a una recente branca della biologia, la microbiologia estremofila (extremophile microbiology), che non esisteva negli anni ’70 – che può esserci sufficiente acqua nel sottosuolo marziano da permettere forme di vita microbica sopra o subito sotto la superficie. Nello stesso anno in cui vengono lanciati i Viking statunitensi (1975) avviene anche la storica passeggiata spaziale con rendez vous fra una navicella americana (Apollo) e una sovietica (Soyuz), con stretta di mano fra i due equipaggi: anche questo evento viene trasmesso in diretta televisiva, il che amplifica la popolarità dell’evento e accorcia le distanze fra realtà scientifica e tecnologica e immaginazione. L’incontro si ripeterà nel 1995 e inaugurerà un periodo di missioni congiunte. Intanto continuano i lanci sovietici (Phobos 1 Phobos 2 nel 1988, che falliscono) e le missioni americane (prima Viking, poi Observer) su Marte. Nel 1986 un ex amministratore della NASA presenta un piano spaziale che prevede, tra le altre cose, un insediamento su Marte entro il 2035. Nel 1996 la NASA lancia il Mars Global Surveyor, che condurrà osservazioni per la durata di un anno marziano. Nello stesso anno la Russia lancia il Mars 96, che viene perduto; e di nuovo la NASA lancia il Mars Pathfinder, che impiega solo sette mesi per arrivare su Marte e per tutto il 1997 raccoglie dati sulla superficie con l’aiuto del Sojourner,
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ottenendo risultati “scientificamente importanti e, a volte, spettacolari” (Crema e Castellani 1997: 92). La NASA intensifica le missioni sia grazie a costi più ridotti che in passato, sia perché ha deciso di utilizzare soltanto i periodi più favorevoli alla partenza, ossia quelli in cui la distanza fra la Terra e Marte scende al suo minimo. Nel 1992 viene organizzata una missione più modesta, Mars Observer, con a bordo solo sette strumenti scientifici (contro i quaranta del russo Mars 96), che però si rivela un insuccesso: smette infatti di funzionare nell’agosto del 1993, mentre si avvicina al pianeta. Nasce quindi un nuovo progetto di lanci definito dallo slogan “better, faster, cheaper”, che si traduce col progetto Mars Surveyor. La sonda Mars Pathfinder inaugura l’era dell’esplorazione on line, mirata a dimostrare la possibilità di atterrare e spostarsi su Marte a costi limitati; contiene un piccolo veicolo a sei ruote (rover) chiamato Sojourner, che ha la funzione di “esplorare” il pianeta per qualche metro intorno alla sonda. Pathfinder impiega sette mesi per arrivare su Marte, e la data dell’arrivo è stata regolata in modo tale da farlo atterrare il giorno della festa dell’Indipendenza, il 4 luglio 1997. La sonda invia nuove immagini del paesaggio marziano, che hanno un forte impatto mediatico tanto che questa sarà ricordata come la prima missione spaziale on line su Internet. Senza dubbio l’avvento del World Wide Web rafforza il rinnovato interesse per Marte: il numero di connessioni supera gli otto milioni in tre mesi. Dal Pathfinder arrivano anche immagini tridimensionali, visibili nel sito che viene aperto nel 1994. A tutto ciò si aggiunge il fatto che negli stessi anni vengono trovati sulla Terra organismi estremofili che “could survive the Martian environment that Horowitz had declared uninhabitable” (Markley 2005: 263). Sull’onda di questo successo, tra il 1996 e il 2001 vengono inviati Mars Global Surveyor, Mars Climate Orbiter (che però non riesce a entrare in orbita e supera Marte nel 1999), Mars Polar Lander (che va a distruggersi sulla superficie pochi mesi dopo) e Mars Odyssey. Il primo dei tre, Mars Global Surveyor, riesce a individuare un campo magnetico su Marte, rileva la presenza di ematite, ed evidenzia due tipi di regioni: a sud Syrtis Major, Terra Cimmeria e Noachis Terra, dove predomina il basalto26; a nord Acidalia Planitia, il nord-ovest di Syrtis Major e le pianure di Vastitas Borealis, dove predomina l’andesite27. L’altimetro laser MOLA permette inoltre di avere una conoscenza tridimensionale di Marte: è l’unico pianeta che conosciamo così a fondo. Nell’emisfero sud, poi, risultano 26 Il basalto è una roccia effusiva di origine vulcanica, di colore scuro o nero con un contenuto di silice (SiO2) relativamente basso ( 02/03/2015). 27 L’andesite (che deve il suo nome alla catena montuosa delle Ande, di cui è caratteristica) è una roccia ignea effusiva (considerata il corrispondente effusivo della diorite comune negli strato-vulcani, dove forma spessi flussi di lava ed eruzioni a temperature comprese fra i 900 e i 1100 °C. Le lave dell’Etna appartengono in gran parte alle andesiti e a basalti andesitici ( 02/03/2015).
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visibili in almeno duecentocinquanta siti degli scoli che avrebbero originato fossati in tempi relativamente recenti; il fenomeno, presentato in un articolo da M. Malin e K. Edgett (2000), suscita stupore e un acceso dibattito. Essi immaginano un meccanismo secondo cui dei tappi di ghiaccio formatisi lungo i bordi dei crateri avrebbero potuto rompersi liberando violentemente acqua ricca di sali minerali. Se così fosse, significherebbe che l’acqua si trova nel sottosuolo ad appena qualche centinaio di metri. Un’altra interpretazione è quella data da Philip Christensen (University of Arizona), secondo cui in estate al polo sud grandi quantità di ghiaccio d’acqua comincerebbero a sublimare e fondere; ciò farebbe aumentare la temperatura e la pressione, permettendo all’acqua di scorrere in superficie. Uno degli obiettivi di Mars Express sarà proprio di verificare se esistono tali riserve d’acqua nel sottosuolo (Rocard 2009). Una doppia curiosità. La prima: nel 1998 viene creata da Zubrin la Mars Society28, un’associazione non-profit con sede a Lakewood (Colorado) che promuove la conoscenza, l’esplorazione e la possibile colonizzazione di Marte. Nasce negli USA ma presto apre affiliazioni in molti Paesi di tutto il mondo, tra cui l’Italia nel 2005. Considerata da Markley un gruppo di fanatici intenti a trasformare il Pianeta Rosso “into another San Fernando Valley” (2005: 351), comprende anche l’esperienza di “Mars Underground” fondata da Tom Mayer (“a hippie band of Colorado visionaries”, Ibidem), che darà il titolo a un documentario uscito nel 200729. Ciò che unisce la maggior parte dei membri della Mars Society è la convinzione che la colonizzazione di Marte rappresenti una tappa necessaria per sfuggire a (o prevenire) una catastrofe inevitabile sul nostro pianeta. La seconda curiosità: la cosiddetta “bandiera di Marte”, un tricolore usato per rappresentare il pianeta in via non ufficiale (ma approvato dalla Mars Society e dalla Planetary Society) viene portato in orbita a bordo dello Space Shuttle Discovery dall’astronauta John Mace Grunsfeld nella missione STS-103, nel 1999. Essa descrive la storia futura di Marte: la parte rossa, vicina al pennone, indica Marte com’è oggi; la banda verde e quella blu indicano rispettivamente la vegetazione e l’acqua, cioè rappresentano il pianeta come potrà forse tornare a essere in futuro. La Martian Trilogy di Kim Stanley Robinson ha fornito l’idea per la bandiera, che sventola sulla Flashline Mars Arctic Research Station nell’Isola di Devon in Canada. Intanto, il fallimento sia di Mars Polar Orbiter sia del suo lander (tanto che si parla di “maledizione di Marte”) fa capire che per aumentare le probabilità di successo è necessario creare un’infrastruttura di navigazione analoga alla rete GPS terrestre. Nel 2001 viene così lanciato Mars Odyssey, che percorre senza intoppi 460 28 (01/05/2015). Tra le notizie più curiose ci sono quelle che rimandano alla MDRS (Mars Desert Research Station), nello Utah, dove vengono effettuati esperimenti e simulazioni. 29 (01/05/2015).
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milioni di km e porta sul pianeta tre strumenti. Il primo è il GRS (Gamma Ray Spectrometer), che resta in orbita e consente l’analisi della superficie permettendo di realizzare una carta di Marte elemento per elemento; grazie a esso la superficie del pianeta risulta costituita da due strati: quello superiore povero di idrogeno e, sotto, uno strato di spessore non identificato molto ricco di idrogeno. Durante l’inverno la calotta è ricoperta di ghiaccio secco (CO2) in prossimità del polo, di bassa densità, simile alla brina. Il secondo strumento è THEMIS (THermal EMission Imaging Spectrometer), una telecamera termica sensibile alla temperatura, che può operare giorno e notte dando informazioni sulle proprietà fisiche, tra cui la temperatura, e rilevare gli eventuali hot spots, aree più calde per la vicinanza di attività vulcanica sotterranea. Il terzo strumento è il MARIE (Martian Radiation Environment Experiment), che ha per obiettivo la preparazione di future missioni abitate, e in particolare lo studio delle radiazioni che colpiranno l’equipaggio. Mars Odyssey rileva la presenza di depositi di cloruri, e anche la presenza di acqua in epoca remota (da 3 a 4 miliardi di anni fa), poi evaporata; l’abbondanza di potassio, torio e ferro ridà vigore all’ipotesi che su Marte siano esistiti, un tempo, grandi oceani, e indica la presenza di “abundant water ice just below the surface in large areas of the planet”, una probabilità che sarà confermata dalle foto inviate successivamente da Spirit e Opportunity (Markley 2005: 264). La sonda si trova tuttora su Marte e trasmette immagini sul sito . Un’altra missione è la Mars Exploration Rover, che nel gennaio 2004 porta sul pianeta due veicoli a sei ruote in grado di studiare i siti di atterraggio, cercare rocce e polveri, studiarne la composizione, determinare la natura dei processi geologici, valutare se l’ambiente sia mai stato o no favorevole alla vita. I due rover si chiamano Spirit e Opportunity: il nome viene deciso in seguito a un concorso bandito dalla NATO in collaborazione con la Lego (la nota casa produttrice di costruzionigiocattolo in plastica). Sulle 10.000 proposte giunte da bambini di tutta la nazione, è risultata vincitrice Sophie Collins, una bimba siberiana adottata di nove anni, che nella sua motivazione ha scritto: “I used to live in the orphanage. It was dark and cold and lonely. At night, I looked up at the sparkly sky. I felt better. I dreamed I could fly there. In America, I can make all my dreams come true. Thank you for the ‘Spirit’ and the ‘Opportunity.’”30 Come osserva Rocard, “La scelta dell’orfanella mira a sensibilizzare il pubblico ma anche i più giovani, perché sognino lo spazio e Marte in particolare e immaginino che questi sogni possano diventare realtà. Dopotutto i giovani d’oggi sono i futuri astronauti di domani che s’imbarcheranno per Marte” (2009: 80-81. Corsivi miei). Spirit atterra nel cratere Gusev, mentre per Opportunity si sceglie Meridiani Planum. Lo scopo di entrambi i rover è capire se in questi luoghi l’acqua sia rimasta 30 (28/01/2015).
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per un tempo sufficiente a permettere la formazione della vita. Ognuno può percorrere circa 40 metri in un sol, ovvero un giorno marziano (24 ore e 39 minuti). Spirit rileva la presenza di basalto-olivina, ma non si arriva a poter affermare che un tempo il cratere fosse un lago; anzi, le rocce mostrano di non aver subito alcuna alterazione dall’acqua. Uscito dal cratere e procedendo verso le colline, il rover fa due importanti scoperte presso un affioramento roccioso chiamato West Spur: trova, infatti, quantità significative di zolfo, cloro e bromo e un ossido di ferro privo di olivina. Questo significa che piccole quantità di acqua devono aver interagito con la roccia; in altre parole, in questa regione per brevi periodi l’acqua scorreva in un ambiente acido e salato. Opportunity, dal canto suo, durante l’esplorazione cade in un piccolo cratere (che verrà battezzato Eagle dal gergo del golf: fare eagle significa finire un percorso in un colpo mentre la difficoltà ne prevede tre. Ma eagle, è bene ricordare, significa anche aquila e l’aquila è il simbolo degli USA). In questo cratere il paesaggio è completamente diverso da quelli che abbiamo visto finora: il suolo è costituito da polvere molto scura, uniforme, priva di rocce o frammenti. Affiorano invece rocce sul fianco del cratere. Nella polvere vengono individuate minuscole sferette simili a mirtilli, costituite di ematite. Le rocce invece risultano formate da strati, il che suggerisce un’origine sedimentaria: si sono formate con ogni probabilità a causa del passaggio di acqua limpida a una velocità tra i 10 e i 50 cm al secondo. Vi sono anche molti sali (zolfo, cloro e bromo) e un solfato di ferro idrato (jarosite), un minerale che si forma in un ambiente acquoso molto acido, che sono il segno dello scorrere, per milioni di anni (più di tre miliardi di anni fa) dell’acqua nella roccia a brevi intervalli a cui seguivano lunghi periodi secchi. L’acqua, poi, deve aver stagnato per secoli, prima di evaporare. Dopo aver visitato anche il cratere Endurance, il rover si dirige poi verso lo scudo termico sganciato durante l’arrivo su Marte, per verificare come ha reagito all’impatto. È proprio durante questa operazione che accade un imprevisto: al momento dello scatto delle fotografie dello scudo, una strana roccia si è trovata in secondo piano, per cui gli operatori (da Terra) hanno spostato il rover puntandolo verso di essa, che è risultata un meteorite metallico molto simile a quelli che si rinvengono nell’Antartico. Ha poi proseguito verso altre mete – il cratere Erebus, il cratere Victoria, e così via. Queste missioni, tuttora in corso, hanno avuto un’eco mediatica senza precedenti: Rocard riporta dieci miliardi di connessioni a Internet nei primi cinque anni (2009). Nel frattempo anche l’Europa, la Cina, il Giappone e l’India hanno portato avanti progetti legati a Marte. Fra le collaborazioni con gli USA vale la pena ricordare il MARSIS (Mars Advanced Radar for Subsurface and Ionospheric Sounding), uno strumento realizzato dall’Università di Roma e dal Jet Propulsion Laboratory di Pasadena (California). Il PFS (Planetary Fourier Spectrometer) invece, costruito sotto la responsabilità dell’italiano Vittorio Formisano dell’IFSI-CNR, ha permesso
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di scoprire metano nell’atmosfera di Marte: la sua origine è ancora avvolta nel mistero, in quanto le ipotesi legate a passaggi di comete o a vulcani sono state scartate da due ricercatori americani, M. J. Mumma e V. A. Krasnopolski, i quali optano per un’origine biologica legata a batteri (cit. in Rocard 2009). Nel 2005 viene lanciato anche il satellite Mars Reconnaissance Orbiter, dotato di una potente telecamera ad altissima risoluzione (HiRISE) e di vari spettrometri e radar, che arriva su Marte nel 2006. Fra le altre cose, conferma che l’azione dell’acqua sulla superficie o in prossimità della superficie è durata per centinaia di milioni di anni. Sul suolo del pianeta si individuano anche tracce di carbonati, che contraddicono l’idea della prevalente acidità di Marte. In seguito, la missione di esplorazione più importante è la MSL (Mars Science Laboratory), che porta su Marte (nel cratere Gale) il rover Curiosity nel 2012. Il rover è tuttora sul pianeta e il suo scopo è di analizzare campioni di terreno e di roccia e di investigare sulla passata e presente capacità di Marte di sostenere la vita. Curiosity trasporta strumenti scientifici molto avanzati rispetto a qualunque altra missione precedente. Curiosity ha confermato che 3,6 miliardi di anni fa Marte non era arido come appare oggi, ma sulla sua superficie esistevano corsi d’acqua e un lago con gli elementi necessari per l’esistenza di microrganismi: Mentre la vita nasceva sulla Terra, i piccoli fiumi marziani che scendevano dai fianchi del Monte Sharp alimentavano il bacino, che sorgeva sul fondo di un cratere creato dall’impatto con un meteorite. Il lago, riscaldato dal Sole, conteneva carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo e zolfo. […] Il cratere Gale, il bacino ricoperto dall’antico lago, è stato soprannominato “la scatola nera della vita” e si trova vicino all’equatore marziano. Fra le sue rocce e argille, il robot della NASA […] ha trovato tutti gli ingredienti necessari alla sopravvivenza di un tipo particolare di batteri, detti “chemiolitoautotrofi”. In mancanza di “cibo” migliore o di fotosintesi, queste forme di vita possono ricavare energia da rocce e minerali31.
Nel 2014 la rivista Science ha pubblicato diversi articoli che dichiarano che l’area denominata Yellowknife Bay nel Gale Crater potrebbe aver ospitato in un passato remoto un lago nel quale la vita di specie quali i microbi chemiolitoautotrofi era teoricamente possibile. Come spiega Andrea Billi, si tratta di dichiarazioni straordinarie, in quanto “Gli organismi chemiolitoautotrofi sono in grado di sfruttare le reazioni inorganiche redox come fonte di energia e la CO2 come fonte di carbonio necessaria per la sintesi della materia organica”32. 31 Elena Dusi, “Marte. Quel cratere è una scatola nera”, La Repubblica, 10/12/2013, p. 37. (15/09/2015). 32 Andrea Billi, “Dal Curiosity nuove immagini su Marte”, Scienze e ricerche, 10 agosto 2014,
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2.4. Mars-scapes
Il paesaggio di Marte appare ora molto meno misterioso che in passato. Le migliaia di fotografie e filmati che oggi possiamo guardare in qualsiasi momento hanno aumentato da un lato la percezione di una distanza quasi incolmabile dal “nostro” modo di vivere, ma dall’altro hanno accorciato le distanze regalandoci una simultaneità che ci avvicina in modo virtualmente elevatissimo al pianeta, o almeno alle “dramatic features” (Morton 2003: 40) della sua superficie. Sebbene il paesaggio di Marte si configuri come diverso e straniante – “Mars is on one hand somewhat earthlike, but on the other hand it’s peculiarly Martian, unique, different from earth” (Morton 2003: 187) – sono state tracciate frequentemente analogie con la Terra, come si può vedere in questo esempio: “[Mars is] a planet with mountains larger than its moons […] The mountains of Mars are the size of American states” (Ibidem: 102). Se da un lato le analogie rispondono all’esigenza di studiare la storia geologica ed evolutiva dell’ambiente – “ancient rocks and landscape structures were to be understood through the study of modern environments that provided analogies to their creation” (Ibidem: 149) – dall’altro i paesaggi di Marte (sia quelli reali sia quelli immaginati che vedremo più avanti) evocano un luogo della mente che fatica a essere riconosciuto se non mediante un confronto, e che tuttavia crea forti sensazioni di displacement (e non di belonging) per il fatto innegabile di essere “an empty planet almost devoid of places” (Ibidem: 236). Non c’è atmosfera respirabile; l’acqua, ammesso che ci sia, sembra essere nascosta nel sottosuolo; e la vita, se anche ci fosse, sarebbe presente solo in forme microbiche. Come non bastasse, mancano tutti quegli aspetti cognitivi e affettivi che fanno di un territorio un vero “paesaggio”. Parlare di paesaggio marziano (o Mars-scape) significa, dunque, unire alle conoscenze scientifiche una buona dose d’immaginazione, e anche tenere in considerazione tutto quello che abbiamo imparato sulla nozione di “paesaggio” negli ultimi decenni grazie non solo alla geografia (penso soprattutto ai concetti di “paesaggio geografico” e “paesaggio sensibile”)33, ma a tre altre importanti discipline: la psicologia, l’ecologia e i soundscape studies. La prima di esse ci insegna, mediante la teoria delle affordances (Gibson 1977), che ogni luogo, evento, oggetto possiede qualità fisiche tali che permettono ai viventi di dedurne intuitivamente le possibilità d’uso in: (28/01/2015). Per notizie e fotografie sempre aggiornate si rimanda al sito della NASA e al sito (19/04/2015). 33 Lucio Gambi, “Critica ai concetti geografici di paesaggio umano”, in: (12/07/2015). Si veda anche Biasutti 1947. Ringrazio inoltre Evaristo Lodi per le preziose conversazioni sugli scritti di Salvatore Settis ed Emiliano Sereni.
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o d’interazione. Ne consegue che anche ogni paesaggio avrà la sua affordance, che modellerà il tipo di relazione che il vivente instaura con esso. L’ecologia invece, grazie alla più recente formulazione della teoria dell’eco-field (Farina e Belgrano 2004)34, ci ha mostrato come sia possibile integrare il concetto di individuo con la nozione di habitat o di nicchia ecologica: secondo tale teoria, può definirsi eco-field ogni configurazione spaziale portatrice di significato e/o utilità per le funzioni vitali di un organismo. Tutti gli eco-fields di un individuo costituiscono il suo “paesaggio cognitivo” o Umwelt. Infine, i soundscape studies (studi sul paesaggio sonoro, di cui l’iniziatore è il canadese Raymond Murray Schafer negli anni ’70) hanno per così dire fornito una colonna sonora alla nostra visione del paesaggio, ricordandoci che quest’ultimo è fatto anche di elementi acustici, di onde, di vibrazioni. Autorevoli articoli ci ricordano che il suono non si può propagare su Marte, a causa dell’elevata rarefazione della sua atmosfera; in un articolo del 12 giugno 2006, uscito sulla versione digitale di Science, per esempio, Kim Krieger riportò gli studi effettuati da alcuni ricercatori secondo i quali se un suono viaggia sulla Terra per qualche chilometro, su Marte si smorza dopo poche decine di metri. I suoni più tenui si smorzerebbero ancora prima; nessuno potrebbe, ad esempio, origliare una conversazione privata. Henry Bass, un fisico dell’Università del Mississippi a Oxford, ha fatto notare che se (o quando) gli uomini andranno su Marte si dovranno progettare dispositivi che trasmettano anche le basse frequenze dell’atmosfera marziana35. In un forum, alla domanda “perché dopo tante missioni su Marte non abbiamo ancora sentito alcun suono?”, impariamo che “probabilmente con un microfono potremmo sentire il fruscio del vento sul microfono stesso, e forse le vibrazioni durante l’avanzamento di un ipotetico rover... non molto altro”36. In un altro sito, leggiamo invece che “È probabile che su Marte [i suoni] risultino più acuti rispetto alla Terra”37. C’è dunque ancora una discreta confusione. Qualche informazione in più ci viene, curiosamente, da un esperto di archeoacustica. Nel suo recente volume intitolato Sonic Wonderland, che descrive, come recita il sottotitolo dell’edizione italiana, “le meraviglie sonore del mondo”, Trevor Cox non si limita al nostro pianeta ma include i paesaggi sonori spaziali. In particolare, ci informa che:
34 Si veda anche Almo Farina, “L’eco-field, un nuovo modello interpretativo della complessità dei sistemi ambientali: verso un codice ecologico” . 35 , tradotto in: (28/01/2015). 36 (28/01/2015). 37 (28/01/2015).
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If a pipe organ were taken to Mars for a performance of Bach’s Toccata and Fugue in D Minor, the astronauts would find the notes coming out of their musical instruments at a lower frequency. The atmosphere of Mars would transpose the music to roughly G-sharp Minor. The frequency of the note produced by an organ pipe depends on the time it takes sound to travel up and down the length of the tube. Because Mars has a thin, cold atmosphere of carbon dioxide and nitrogen, sound moves at about two-thirds the speed it does on Earth. The slower round trip up and down the organ pipe produces a lower frequency. Given the toxic gases in the atmosphere, visiting astronauts would not be taking their helmets off to sing. But if someone did dare to do this, the voice would drop in pitch like the organ pipe, turning tenors into Barry White soundalikes. Unfortunately, the sexy voice would not carry very far, because Mars’s thin atmosphere is almost a vacuum. (2014: 218)
Negli anni scorsi, in realtà, erano molte le aspettative acustiche relative a missioni che sono poi fallite, come possiamo vedere in questo articolo scritto da Claudia di Giorgio su La Repubblica il 2 dicembre 1999 (il giorno prima del programmato arrivo del Mars Polar Lander) e intitolato “Un microfono su Marte: suoni dal Pianeta Rosso”: “se tutto andrà bene”, diceva, “oltre a vedere, ascolteremo anche”. Nel corso della missione, infatti, un microfono avrebbe dovuto captare i suoni della zona circostante: Nessuno sa esattamente cosa aspettarsi, ma è certo che anche se l’atmosfera marziana è molto diversa dalla nostra, la pressione è sufficiente a trasmettere segnali acustici percepibili dall’uomo. A catturarli sarà uno speciale strumento, il Mars Microphone, costruito nei laboratori spaziali dell’università di Berkeley e finanziato con le donazioni degli oltre centomila membri della Planetary Society, la più grande organizzazione mondiale di appassionati dello spazio. A fondarla, tra gli altri, è stato Carl Sagan, l’astrofisico e scrittore scomparso recentemente, che nel 1996 suggerì alla Nasa di inviare un microfono sul Pianeta Rosso. Il Mars Microphone è il primo strumento scientifico finanziato da un’istituzione privata non commerciale che partecipa a una missione planetaria38.
Queste le promesse contenute nel sito della NASA: purtroppo il lander andò perduto il 3 dicembre del 199939, e anche Phoenix nel 2008 fallì lo scopo: 38 (28/01/2015). 39 Il 7 dicembre 1999 il sito annunciava: “MARS MICROPHONE- Martian Soundscape: The Pulse of the Planet daily radio program offers free legal online mp3 downloads, exploring the world of sound in nature, culture and science, with audio adventures, world music, extraordinary sound portraits, science diaries, and nature ring-tones; an amazing sonic experience. […] This month, scientists are waiting for their first whispers of the Martian soundscape […] Scientists hope to get their first taste of the Martian soundscape later this month. Pulse of the Planet, is presented by DuPont, bringing you the miracles of science, with additional support provided by the National Science Foundation” (31/05/2015).
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Once Mars Polar Lander touches down on Mars and starts beaming the Mars Microphone data to Earth, humankind will hear – for the first time – sounds from the Red Planet. Will we hear anything on Mars? After all, the Martian atmosphere, which is mostly carbon dioxide, is about a hundred times thinner than Earth’s – effectively a vacuum compared to the air we breathe. Yet the tenuous Martian winds are substantial enough to sculpt dunes, entrain thin clouds, raise global dust storms, and even strike up miniature tornadoes called dust devils. This thin atmosphere will surely create and carry sounds. What kinds of sounds? Janet Luhman, who heads up the team that built the instrument at the University of California at Berkeley’s Space Sciences Laboratory, expects the microphone to capture a variety of natural and artificial sounds. Luhman has pointed out that dust devils, gusts, and even lightning caused by dust storms should all be audible. The wind speeds inferred by the whistling spacecraft structure can be combined with the sound of dust grains hitting the sides of the spacecraft to investigate how it lifts different-sized grains. The microphone may also detect rare events such as sonic booms caused by meteors, and possibly infrasonic waves kicked up by the solar wind as it strikes the upper atmosphere. And the microphone will surely hear the daily sounds of the spacecraft itself40.
Se, per quanto riguarda la realtà, dobbiamo accontentarci di simulazioni (come quella delle tempeste elettriche marziane annunciata il 31 marzo 2015 dal Daily Mail )41 e lo stesso Curiosity stranamente non è dotato di un microfono – la letteratura e il cinema, come vedremo nei prossimi capitoli, abbondano di riferimenti sonori e costruiscono quindi un vero e proprio panorama marziano (o paesaggio, o ambiente) sonoro complesso. Dal canto loro, anche la psicologia e l’ecologia ci saranno di grande aiuto nel considerare l’aspetto delle relazioni fra esseri viventi (umani e “alieni”) e l’ambiente, un tema che sarà centrale nell’analisi dei romanzi e film di ambientazione marziana. Prima di passare ai paesaggi dell’immaginazione, tuttavia, diamo uno sguardo alla composizione del suolo di Marte. Innanzitutto, esso è situato fra la Terra e la cintura di asteroidi, ed è definito “pianeta tellurico”: pianeta perché è un corpo celeste che ruota seguendo un’orbita attorno alla sua stella centrale (in questo caso, il Sole); tellurico perché, come Venere, possiede caratteristiche simili alla 40 (28/01/2015). Solo di recente la NASA ha diffuso un video completo di traccia sonora comprendente le immagini inviate da Opportunity tra il 2004 e il 2015. Prevedibilmente, l’effetto è risultato alquanto straniante: “crank up the volume and you’ll hear the spooky, haunting sound of what i’s like to be all by yourself on an alien planet” ( (18/08/2015). 41 (31/05/2015).
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Terra. Il suo raggio è di 3200 km, circa la metà di quello terrestre. L’atmosfera è composta per il 95% di anidride carbonica, al 2,7% da azoto molecolare, all’1,6% da argon e a meno dell’1% da ossigeno e monossido di carbonio. La temperatura di superficie è molto fredda, tra i 0° C e i – 100° C, ed è stata paragonata a quella dell’Antartico; il suo interno, invece, è caldo. Marte è stato sottoposto nel corso del tempo a un intenso bombardamento meteoritico (cosa che si evince dalla quantità di crateri), che ha perdurato fino a oggi diminuendo gradualmente. C’è poca acqua in superficie, anche sotto forma di ghiaccio, perfino ai poli (che sono formati soprattutto di biossido di carbonio congelato). Si sa ormai che un tempo l’acqua fluiva sulla superficie, e ciò pare accadere ancora oggi, seppure stagionalmente, secondo le ultime scoperte. È possibile inoltre che la vita esista sotto forma batteriologica. La storia geologica del pianeta viene suddivisa in tre periodi: Noachiano (il più antico), Esperiano e Amazzoniano (il più recente). Le maggiori manifestazioni geologiche marziane comprendono: 1. Il vulcanismo (vi sono vulcani e colate laviche simili a quelli delle isole Hawaii). Il Mons Olympus è il più grande vulcano (spento) del sistema solare, con un diametro di oltre 600 km e un’altitudine di 27.000 metri. 2. L’attività tettonica (che si traduce in numerose spaccature, faglie e corrugamenti). I Tharsis Montes rappresentano il fenomeno tettonico più degno di nota, con i loro oltre 5000 km di diametro e uno spessore di circa 5 km. Anche la Valles Marineris, gigantesco canyon profondo, in media, 6000 metri, è un fenomeno legato all’attività tettonica. 3. Valli ramificate (valley network) e canali di deflusso (outflow channel) dovuti allo scorrere dell’acqua in epoche remote. 4. La criosfera, definita come uno strato di sottosuolo ricco di acqua ghiacciata. Quando questa era sottile o assente, si sarebbero formate le valli ramificate, attraverso il riemergere dell’acqua dal sottosuolo. I canali di deflusso, invece, si sarebbero formati più tardi, e portano tutti verso le piane a nord. Si è ipotizzato che sia esistito in passato un oceano circumpolare artico, che però non ha lasciato tracce visibili. Ancor oggi non abbiamo una prova definitiva che acqua liquida si sia conservata per un tempo sufficiente alla comparsa della vita, come vedremo più avanti. A tutto questo si aggiungono i venti marziani, capaci di sollevare grandi quantità di polvere o sabbia. Vi sono poi i meteoriti marziani, che non solo raggiungono anche il nostro pianeta, ma che potrebbero addirittura contenere organismi. Nel 1996, come già detto, il meteorite ALH84001 fu studiato con nuove tecniche che evidenziarono la presenza di “nanobatteri” e questo provocò un intenso
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dibattito, ma a parte l’incertezza della provenienza, la tesi che ebbe la meglio fu quella di una contaminazione durante la permanenza sulla Terra (Rocard 2009). In conclusione di questo capitolo, non può mancare un accenno alle numerose e suggestive fantasie sorte intorno alla conformazione di alcune strutture misteriose che qualcuno ha creduto o crede di vedere sulla superficie del pianeta. Una delle aree su cui si sbizzarriscono i sostenitori di antiche civiltà marziane è quella che riguarda i volti e i petroglifi fotografati sul Pianeta. Tra gli innumerevoli volumi dedicati ai “volti” marziani, ve ne sono alcuni che si muovono tra scienza e pseudoscienza e che sono diventati dei veri best seller. Uno dei più noti è probabilmente The Face on Mars. The Evidence of a Lost Martian Civilization di Brian Crowley e James J. Hurtak (1986), che descrive la zona delle cosiddette piramidi di Cydonia, una regione costellata di colline e valli che si intersecano in modo quasi labirintico, tra le quali è possibile individuare il “volto” fotografato da Viking 1 nel 1976 e poi da Viking 2. Un altro volume analogo è The Monuments of Mars di Richard Hoagland (1987), in cui l’autore sostiene che vi siano diversi artefatti visibili su Marte nella regione Cydonia, fra cui “a gigantic, sphinx-like sculpted face, a trapezoidal pyramid, a fortress, and the remains of a city” (in Crossley 2011: 240). In The Mars Mystery: the Secret Connection between Earth and the Red Planet (1999) anche Graham Hancock, già autore di Fingerprints of the Gods, si sofferma a lungo sulla misteriosa face e chiama Marte “the murdered planet” poiché, da pianeta lussureggiante di fiumi e vegetazione qual era, secondo la sua opinione fu colpito in epoca remota da un asteroide che portò a un’estinzione di massa e lo rese il luogo arido e inospitale che è oggi. Nello stesso anno esce Dead Mars, Dying Earth di John E. Brandenburg e Monica Rix Paxson (1999) e una decina d’anni dopo il solo John E. Brandenburg – che, è bene sottolinearlo, è un docente di fisica del plasma – pubblica Life and Death on Mars: The New Mars Synthesis (2011), dove ribadisce le teorie di cui sopra, e più recentemente Death on Mars: The Discovery of a Planetary Nuclear Massacre (2015), dove avanza una nuova teoria: Marte sarebbe stato un pianeta abitato da creature simili a noi, che a un certo stadio della loro civiltà si autodistrussero con una devastante guerra nucleare. Andare su Marte e analizzarne il territorio potrebbe quindi rivelarsi prezioso perché i terrestri possano evitare una sorte analoga. Sebbene queste teorie, per ora, siano state smentite dagli organi ufficiali42, recentemente Curiosity ha inviato a Terra fotografie di quello che ad alcuni sembra essere un petroglifo (o incisione rupestre) raffigurante creature molto simili a quelle che troviamo nell’antica arte egizia43. 42 (25/01/2015). 43 (29/01/2015).
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Sta di fatto che se la vita al momento non sembra compatibile con le condizioni del pianeta, il discorso cambia se ipotizziamo l’esistenza passata di una civiltà evoluta. È quantomeno affascinante pensare che: Esiste la possibilità che circa 100.000 anni orsono forme di vita tecnologicamente evolute abbiano colonizzato il genere umano sulla Terra. È dunque possibile che gli stessi esseri abbiano temporaneamente occupato anche il suolo marziano, lasciando i segni del loro passaggio […]. Molte interessanti teorie riguardano anche la probabilità che gli alieni abbiano costruito le piramidi egizie, forse anche per via delle analogie riscontrate tra le costruzioni rinvenute su Marte e quelle che sorgono nella piana di Giza. Infatti, si può notare come il volto umano che emerge dalle foto scattate sul pianeta rosso riveli curiose analogie con i monumenti di cui abbiamo appena parlato. Si potrebbe ipotizzare che in passato due civiltà (una in Egitto e una su Marte) fossero riuscite a stabilire una connessione tra loro. (Bianchi 2009: 21)
Anche le enormi figure antropomorfe, zoomorfe e geometriche dell’altipiano di Nazca in Perù, visibili solo dall’alto, vengono spesso messe in relazione con antiche civiltà aliene (Ibidem) e perfino in stretta relazione con le “enigmatic structures” individuate sulla superficie di Marte44. Fantasia o realtà? Un sito che divulga ogni sorta di storie tanto fantasiose quanto spettacolari è , dove nella stessa pagina45 troviamo una quantità di informazioni molto discutibili tra cui: la notizia del ritrovamento di una testa dal cranio allungato, appartenente probabilmente a un Rettiliano sepolto verticalmente; la foto di un’ombra umana su Marte (proveniente nientemeno che dal sito della NASA); la notizia dell’affioramento di un’antica cupola marziana; e la foto di un disco volante che osserva Curiosity. Per vedere immagini ugualmente suggestive ma autentiche (e a elevatissima risoluzione) si rimanda invece al sito già citato , che aggiorna continuamente in tempo reale l’archivio fotografico. Le immagini, del resto, arrivano in risoluzione sempre più alta, e sono corredate da informazioni e commenti molto interessanti; in ad esempio (23 agosto 2012) troviamo splendide foto in 3D di Phobos riprese dalla sonda Mars Express, inviata dall’ESA (European Space Agency) nel 2003; tra le altre cose, The image includes a profile of Stickney crater, which dominates the right-hand side, and the grooves associated with the impact of the asteroid that created it thousands of years ago. Phobos is the larger of Mars’ two moons and with an orbital period of 7 hours 39.2 minutes, it whizzes through the Martian sky fast 44 (02/01/2015). 45 (29/01/2015).
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enough to rise and set twice a Martian day. Discovered by Asaph Hall at the United States Naval Observatory in 1877, it’s more of a “pocket” moon, with a diameter of only 22.2 kilometers (13.8 miles). Back in 1958, Russian astrophysicist Iosif Samuilovich Shklovsky suggested that it was a space station built by some alien species. The origin of Phobos is still uncertain, but it’s more likely that it and the other moon Deimos are captured asteroids rather than ancient spacecraft46.
Più recentemente, le immagini contenute nel sito mostrano una sorprendente quantità di dettagli accompagnati da spiegazioni che grazie a Internet sono oggi accessibili a tutti: New images taken by the ESA’s Mars Express orbiter have provided a fresh look at a region believed to be hiding large volumes of water ice just beneath the surface – something that could serve as a water source for future manned missions to the Red Planet. The area in question is an ancient Martian mountain range known as the Phlegra Montes, spanning some 1,400 km (870 miles) across the planet’s northern lowlands region. It’s thought to be the product of tectonic forces, which brought it into existence between 3.65 and 3.91 billion years ago. The new images […] add weight to the theory that glaciers once developed in the region, supporting the notion that ice may still reside there today, as little as 20 m (66 ft) below the surface. Given its position in the mid-latitudes of Mars, you wouldn’t naturally expect to find glaciers in the region. […] An examination of the images reveals multiple small valleys cut through the hills towards areas of lower elevation, as well as aprons of rocky debris surrounding the hills – something that’s caused by the movement of subsurface ice and is routinely seen in glacial regions back on Earth. The mountainous region sits in stark contrast to the vast, flat plain visible in the upper portion of the observations. Close inspection of the lava plain revealed subtle ridges – features that form as lava cools – that suggest it’s the product of volcanic activity originating from the Hecates Tholus volcano some 450 km (280 miles) to the west. This isn’t the first time that Mars Express has been used to study the geologically turbulent region. Back in 2011, it worked in concert with the Mars Reconnaissance Orbiter to image the range, finding similar evidence of glacial activity, something that points to the presence of water ice not far below the surface47.
The Guardian, poi, ha recentemente diffuso una notizia straordinaria divulgata dalla NASA, concernente la conferma dell’esistenza di un enorme oceano su 46 David Szondy, “Mars Express takes close up of Phobos”, August 23, 2012, in: (23/02/2015). 47 Chris Wood, “Mars Express images help decipher the geological history of the Red Planet”, February 20, 2015, in: (23/02/2003). Il sito, corredato di news e videoclip, che contiene lo slogan di sapore post-kennediano “The next giant leap for mankind”.
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Marte in tempi preistorici: “A massive ancient ocean once covered nearly half of the northern hemisphere of Mars making the planet a more promising place for alien life to have gained a foothold, NASA scientists say”48. Si sarebbe trattato di un oceano grande quanto l’Atlantico, capace di creare dunque un ambiente adatto al formarsi della vita, per quanto l’astrobiologo scozzese Charles Cockell abbia commentato: “That life was possible does not make it inevitable though. Of course, it could have been uninhabited”49. Resta il fatto che se da un lato sta rinascendo l’idea di Marte come un pianeta “wet and warm”, solcato da fiumi e laghi, dunque abitabile, dall’altro dobbiamo renderci conto che l’abitabilità del pianeta appartiene probabilmente al lontano passato di un’altra civiltà, non al futuro della nostra. Come ci ricorda giustamente lo scienziato della NASA Michael Mumma, “A major question has been how much water did Mars actually have when it was young and how did it lose that water?”50 – un interrogativo inquietante, che ci proietta non più a immaginare una via di salvezza per l’umanità su Marte, bensì a riflettere sulle catastrofi che ci aspettano (e che forse sono già iniziate) sulla Terra. Nelle prossime pagine cercheremo dunque di analizzare proprio la modalità con cui è mutata la presenza del Pianeta Rosso nell’immaginazione culturale umana (e americana in particolare) dall’incubo dell’invasione aliena al sogno della colonizzazione, dal desiderio di fuga su un mondo incontaminato al terrore che una devastazione ecologica simile a quella in corso sul nostro pianeta sia già avvenuta in passato proprio su Marte. Nel corso della nostra riflessione, che, pur mantenendo uno sguardo globale, si concentrerà maggiormente sull’area statunitense, non dovremo mai dimenticare la natura interdisciplinare della ricerca su Marte, che comprende la geologia, la chimica, la biologia, l’astronomia accanto alla letteratura, alla sociologia, all’antropologia e alle scienze della comunicazione. Inoltre la scienza s’interfaccerà spesso con la fantascienza, così come la realtà si sovrapporrà con la fiction (narrativa, cinema, televisione, fumetto). Pur parlando, infatti, linguaggi diversi, tutte queste discipline testimoniano, ciascuna a suo modo, ma intrecciandosi fra loro, l’evoluzione e la persistenza dell’immagine di Marte nel pensiero politico, ecologico, filosofico e scientifico.
48 (08/03/2015). Cfr. anche il sito della NASA (08/03/2015). 49 (08/03/2015). 50 Ibidem.
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Thy expected alien Am I. Weird of shade And doomfire face: All thy senses Cry to my Mourning mysteries Which yesterday Were commonplace. (Frank Herbert, Carthage: Reflections of a Martian, 1971) If Ronald Reagan can talk to Russians, some among the four billion of us are capable of talking to Martians. (Larry Niven, The Alien in Our Minds, 1987) Look at the stars was it a wink I saw on Mars? (da Ufo: testo e musica di Tullio Dobner, inedito, per gentile concessione dell’autore)
3.1. Alien-Nation
Giunti a questo punto del nostro percorso, è bene soffermarci a riflettere sul significato del termine “alieno” e tenere bene a mente, anche nelle pagine che seguiranno, che, soprattutto, “alieno” significa “estraneo” o “straniero”. Il fatto, poi, che gli immigranti siano stati in passato addirittura definiti alien race rivela che “The
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alien is the creation of a need – man’s need to designate something that is genuinely outside himself, something that is truly nonman, that has no initial relation to man except for the fact that it has no relation” (Slusser e Rabkin 1987: 6). Il termine, così come lo usiamo oggi soprattutto in ambito fantascientifico, non ha pertanto sempre designato i possibili abitatori di altri mondi. Di derivazione latina (alienus), esso indica, come si è detto, lo straniero, il forestiero, dunque una persona che non è residente in un Paese, o che non vi ha cittadinanza. In America si distingue tra legal alien (un non-cittadino con permesso di soggiorno), resident alien (un non-cittadino con residenza temporanea), non-resident alien (un non-cittadino in visita nel Paese per affari o cure mediche o altro), e illegal alien (un non-cittadino che è entrato nel Paese senza autorizzazione). A queste categorie si aggiunge quella degli enemy aliens, riconosciuti come nemici della Nazione. Da tali definizioni, tratte da , si vede bene come in tutti i casi, anche all’interno della legalità, s’insista sulla non appartenenza, sulla non cittadinanza (tutti gli alieni sono non-citizens). Dunque anche il turista, lo sportivo, lo studente possono essere considerati “alieni”. La voce alien è riportata fin dai tempi del Devil’s Dictionary dello scrittore satirico americano Ambrose Bierce (1906): “An American sovereign in his probationary state”1. Bierce, che non menziona direttamente i marziani, inserisce però nel suo libro un dialogo tra un Terrestrial e un Lunarian, ispirato – a quanto afferma – a un vecchio libro di cui dà titolo (The Lunarian Astonished ) e riferimenti (Boston 1803) fittizi. È vero peraltro che la nozione di “alieno”, come vedremo, è strettamente intrecciata con la storia e la cultura occidentale (europea e statunitense): There are few to whom SF aliens are truly alien – the natives are too close to name them as selves, while we others know only too well who the aliens are and where they come from. We’d better speak of “alienations” or “alien nations” than of “aliens” as such. Science-fiction films elaborate and literalize the guiding metaphors of Euromasculine science and Americanized technocracy […]. (Sofia 1987: 107)
Nella storia e nella geografia statunitensi Ellis Island, primo punto di accoglienza e di smistamento di milioni di immigrati in arrivo nel Nuovo Mondo, pur avendo significato per molti di essi la libertà, era al contempo sede di infiniti controlli, ispezioni mediche invasive, umiliazioni, finanche persecuzioni e talvolta rimpatrio. Non tutti gli immigranti, però, venivano sottoposti a questa dura selezione: la procedura era d’obbligo solo per chi viaggiava in terza classe, più quelli di prima o seconda classe che avevano problemi legali o di salute. È interessante notare che nel corso del tempo i termini immigrant e alien vennero gradualmente 1 The Devil’s Dictionary (1906), in: (17/02/2015).
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a differenziarsi: il primo conserva un carattere neutro, mentre il secondo assume una sfumatura negativa in espressioni composte come “suspected enemy aliens” (durante la prima Guerra Mondiale) o “suspected alien radicals” (durante la red scare)2, e viene usato anche per indicare leggi come la Alien Contract Labor Law (1885), che, in controtendenza rispetto alla legislazione precedente (che aveva favorito e sostenuto con leggi appropriate l’immigrazione), fu la prima di una serie di manovre restrittive, secondo la quale gli aliens non potevano più entrare negli Stati Uniti d’America con un contratto di lavoro. Fatto sta che alien per molto tempo definisce non solo l’immigrato generico, ma in particolar modo, per così dire, l’immigrato di serie B. Il termine derivante, alienation, ha dunque caratterizzato spesso lo stato d’animo di chi soffriva per varie cause – la povertà, un lavoro mal pagato, la scarsa conoscenza della lingua del paese ospitante – e anche perché non si sentiva “a casa” (in americano home significa sia patria, sia casa). L’alieno sofferente (“alienato”) non era semplicemente un immigrato o figlio o nipote di immigrati, bensì un individuo che non si sentiva “appartenente” (belonging) ma fuori posto, estraneo, “diverso”. Quasi tutte le opere letterarie di minoranze (linguistiche, religiose, culturali) oppresse riflettono questo sentimento di esclusione, e nel caso delle hyphenated cultures, ovvero le culture col trattino (ad esempio gli ebrei-americani, o gli afro-americani), questa alienazione è ancor più sentita; tanto che il trattino, percepito a livello dell’identità come una ferita, un taglio (non solo grafico), è stato progressivamente eliminato e ora si parla più propriamente di American Jews, African Americans e così via. Come arriviamo, allora, all’altro uso del termine? Dobbiamo partire da molto lontano: non da un altro continente, ma da altri mondi. Ovvero, dall’Outer Space, lo Spazio Profondo. Fin da tempi remoti l’immaginazione umana ha ipotizzato l’esistenza di creature provenienti da altri mondi o dimensioni: Probably since humans first saw the stars in the night sky, we have wondered about the universe: What’s out there? How and when did it begin? How big is it? Will it end, and when? What’s our place and purpose in it, if any? And knowing that we live in a huge cosmos with cold, empty spaces between the stars, always there is one last question: Are we alone? (Perkowitz 2007: 19)
Le religioni offrono numerosi esempi di possibili esseri di altri mondi (basti pensare agli angeli), e l’osservazione dello Spazio ha ampliato la nostra percezione del cosmo, rendendolo potenzialmente abitato da ogni sorta di creatura, mostri o umanoidi, cloni o batteri. La caratteristica comune di molti di questi esseri immaginari è il miscuglio di alterità e analogia, ovvero una “diversità” nel senso di “identità opposta”, dal latino alter. Nella letteratura di fantasia, il primo esempio di capovolgi2 (29/01/2015).
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mento della prospettiva lo offre il celebre racconto breve di Fredric Brown “Sentry” (1954), dove l’osservatore e il “diverso” si scambiano le parti: cosicché quello che viene percepito come l’“altro da sé” è, inaspettatamente, l’uomo. Il termine alien a identificare l’entità extra-planetaria nasce e si sviluppa, come vedremo, con la fantascienza; tuttavia sarà solo nel 1979 che, con il film Alien di Ridley Scott (che presenta un essere malvagio di origine extraterrestre che s’impianta all’interno del corpo umano), il termine cessa definitivamente di appartenere in via prioritaria all’ambito giuridico-sociologico e viene formalizzata la sua parallela afferenza alla sfera dell’immaginario spaziale. Vedremo poi come l’alieno del cinema sia destinato a proliferare presto in una moltitudine di tipologie che rientrano tutte comunque nella stessa categoria. Tre anni dopo, nel 1982, grazie a un film completamente diverso, il blockbuster E.T. The Extra-Terrestrial di Steven Spielberg (che, al contrario, ritrae un alieno timido e gentile), anche l’espressione E.T. entra a pieno titolo nell’immaginario collettivo. Come abbiamo visto, i due film citati hanno in comune la presenza di alieni; su questo ritorneremo nelle prossime pagine. Fermiamoci invece, ora, ad analizzare brevemente ciò che sta dietro a due acronimi che incontriamo di frequente: ETI (Extra-Terrestrial Intelligence o Intelligences: personalmente preferisco il plurale) e UFO (Unidentified Flying Object o Objects: idem come sopra). Del secondo (e di nuovo di alieni) parleremo più avanti; concentriamoci ora sul primo dei due acronimi (che sono comunque collegati a doppio filo: basti pensare alla cosiddetta Extraterrestrial Highway, un appellativo con cui viene chiamata l’autostrada 375 che attraversa la cittadina di Rachel, a causa della quantità di avvistamenti di UFO segnalati nella zona tra la California e il Nevada). 3.2. ETI (Extra-Terrestrial Intelligences)
L’acronimo ETI indica la possibilità di una vita intelligente su altri pianeti; niente a che vedere, diciamolo subito, con la pura probabilità che esistano forme di vita come batteri o altri microrganismi. È essenziale, infatti, se vogliamo formulare ipotesi sulla vita extraterrestre – un evento che la scienza del calcolo ritiene rarissimo – chiederci in via preliminare “che cosa intendiamo per vita e in particolare per vita intelligente” (Sindoni 1997: 21). Solitamente siamo interessati, infatti, non tanto a ipotizzare che su un pianeta lontano dal nostro nascano spore o microbatteri, quanto “sapere se ci sono esseri come noi, con cui poter comunicare, scambiare esperienze, confrontare il livello tecnologico”, ecc. (Ibidem: 22). Secondo Stephen R. Kellert e Edward O. Wilson, co-autori di Biophilia. The Biophilia Hypothesis (1993), gli esseri umani sarebbero addirittura predetermina-
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ti geneticamente a manifestare interesse per altre forme di vita, siano esse sulla Terra o su pianeti lontani. Pur essendo l’immaginario culturale abitato anche da alieni privi di corpo o di forma riconoscibile – per esempio, gli orrori innominabili e indescrivibili che incontriamo in “The Damned Thing” di Ambrose Bierce (1893) o in “The Color Out of Space” o “The Dunwich Horror” di H. P. Lovecraft (1927 e 1928), percepiti e presentati al lettore come forme di vita aliena3 – è più frequente incontrare, nella letteratura e nel cinema, alieni che almeno per una certa percentuale sono “riconoscibili” come nostri cugini dello spazio. Tornando alla domanda sopra riportata, giustamente lo scienziato e scrittore Clifford Pickover la riformula in modo identico, ma aggiungendo nella risposta la parola “alien”: “‘What is life?’ In fact, the very contemplation of alien lifeforms begins with this question” (1998: 101). Pickover è un vero esperto di alieni: non solo come autore dei romanzi Chaos in Wonderland, dove creature chiamate Latoocarfians pensano a una velocità non raggiungibile dai terrestri e sognano strutture frattali, e Time, A Traveler’s Guide, in cui “tachion aliens” viaggiano a una velocità superiore a quella della luce (Ibidem: 113, 164), ma anche come scienziato. Nel suo volume sulla scienza degli alieni, per il quale sceglie un approccio non narrativo, egli ipotizza l’esistenza di altre forme di vita partendo da presupposti scientifici che includono l’analogia con la Terra. Come egli sottolinea, infatti, “there are already alien worlds right here among us. Every Earthly creature perceives the world in an ‘alien’ way” (Ibidem: 10). E fa l’esempio dei sensi: ogni specie vede, sente, percepisce la realtà in modo diverso e dunque è “aliena” per un’altra specie. Questa della biodiversità terrestre è una chiave di lettura importante per comprendere la nozione di alienità: gli alieni potrebbero anche essere fatti di pura energia, potrebbero avere più sessi o non averne affatto, e così via. È importante anche comprendere la posizione degli scienziati rispetto al tema della possibile evoluzione della vita. Pickover cita la “panspermia”, una teoria riguardante la possibile disseminazione cosmica della vita: le sue origini sono antiche (c’è chi la fa risalire addirittura ad Anassagora, 500-428 a.C.) ma fu formulata compiutamente nel 1954 dal britannico J. B. S. Haldane, e successivamente rielaborata nel 1973 da parte di Francis Crick e Leslie Orgel, i quali suggerirono che “distant creatures purposedly sent out spores of different worlds” (cit. in 1998: 97). In questo caso, riflette Pickover, “If aliens were aware of planets that contained oceans with organic material, a single bacterium dropped into such an ocean might be sufficient to seed it for life” (Ibidem: 98). Uno sviluppo ancora più radicale di tale teoria è la continuous panspermia proposta da Sir Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe, secondo i quali i microbi raggiungono costantemente 3 Si rimanda, per un approfondimento su questo tema, a Pagetti 1989 (capitolo 3) e Calanchi 1999 (capitolo 3).
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la Terra viaggiando sulle comete; sarebbero soprattutto virus e causerebbero le maggiori epidemie. Questo ci porta a un serio interrogativo riguardante la possibilità che gli alieni, come avviene in molti film di fantascienza, possano infettare gli umani o viceversa: Is there the slight chance that aliens could infect us? Could aliens, even if coming with only peaceful intentions, do what the Europeans did to the Native Americans when they came to America bringing viruses to which Native Americans had no immunity? One chance of infection arises if all life in the galaxy were related as a result of spores carried in comets and meteorites. Under these circumstances, there’s a slight possibility that viruses aliens could bring would be devastating to humanity. If this were true, then our viruses would probably be equally deadly to them. However, if life arose independently on Earth, then it is extremely unlikely that a virus from an alien world would have any effect on humans. (Ibidem: 98-99)
Il riferimento ai nativi americani è assolutamente pertinente perché, pur nella negazione finale della possibilità di contagio, fa comprendere molto bene come l’approccio al pianeta Marte proceda frequentemente a livello d’immaginario (non solo letterario, ma anche scientifico e culturale) lungo gli stessi binari già tristemente percorsi nella colonizzazione del Nuovo Mondo. Pickover prosegue l’analogia anche quando esprime dubbi sull’eventuale benevolenza degli alieni: I’m not confident that a space-faring society capable of crossing interstellar distances must consist of benign or caring beings. The ocean voyages of Europeans during the Renaissance period of exploration were in some ways comparable to today’s space explorations. One of the motivations for the exploration of the New World was to convert the inhabitants to Christianity, by force if necessary. In fact, during this period of exploration, the Native Americans were not useful for any specific task in the courts of Spain and France, yet they were shipped there as objects of curiosity and for prestige purposes. Might aliens wish to take us back home as showpieces? (1998: 172)
Mentre i fisici e gli astronomi tendono a pensare che, una volta che la vita abbia origine su un pianeta, l’evoluzione di qualche specie capace di comunicazione interstellare sia quasi inevitabile, compatibilmente con i tempi dell’evoluzione stessa, i biologi evoluzionisti sono convinti che l’evoluzione della razza umana abbia richiesto la convergenza di un numero di eventi improbabili per cui non può ripetersi (Adler 2014), anche se le recenti scoperte in ambito biochimico e biomolecolare ci dicono che la vita – perfino sulla Terra – esiste in una gamma incredibilmente varia di forme e perfino negli ambienti a noi più inospitali, e quindi è molto probabile che si sia diffusa anche su altri pianeti. Riguardo alla teoria secondo la quale gli umani avrebbero origine aliena si rimanda a Brennan 2000.
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Il dibattito sulla vita extraterrestre non si esaurisce però con le scoperte scientifiche più recenti, ma entra nel vivo del dibattito culturale soprattutto quando lascia da parte la microbiologia e ipotizza forme di vita superiori, partendo dall’astronomia per arrivare nei territori dell’antropologia, della mitologia, della teologia e degli studi culturali: One of the most pervasive cultural influences of astronomy has been the idea that life forms, perhaps far superior to our own, may exist beyond the Earth. This idea may be tied to the gods and goddesses of ancient myth […] What is certain is that we live in a time when the search for extraterrestrial life surrounds us. […] In short, from the halls of science to popular belief, extraterrestrials are a part of our culture […] the extraterrestrial life debate has played an important role in both scientific and popular cultures, as well as in shaping our worldview. (S. J. Dick 1996: 133)
La possibile presenza di altri mondi abitati è stata dibattuta fin da tempi in cui ancora non si parlava di evoluzione e offre tuttora alcune prospettive e intuizioni affascinanti. La teoria dell’esistenza di un’infinità di mondi è molto antica; nella civiltà occidentale risale agli atomisti greci (V sec. a.C.), seguiti poi da Epicuro (342-270 a.C.); in epoca romana, Lucrezio (94-50 a.C.) aggiunge l’ipotesi della presenza della vita in essi. Mentre Aristotele (384-322 a.C.) si pronuncia contro la possibilità di altri mondi, Plutarco (c.46-c.125 d.C.) ne è un acceso sostenitore e in De facie in orbe Lunae si pone domande circa l’abitabilità del nostro satellite. Da Agostino (354-430 d.C.) in poi si apre il dibattito sul fatto che la teoria di mondi infiniti e abitati possa contraddire l’esistenza di un solo Dio onnipotente, minando così il dogma della Creazione; Tommaso D’Aquino (1225-1274) si esprime a favore della non contraddizione, ma sarà solo a partire dal 1277, grazie al vescovo di Parigi Etienne Tempier, che l’ipotesi limitativa secondo cui “the First Cause cannot make many worlds” inizierà a essere gradualmente abbandonata (Crowe 1986: 6). William of Ockham (1287-1347), frate francescano inglese e teologo noto per la teoria del “rasoio di Occam” che da lui prende il nome, sostiene che Dio potrebbe aver creato altri mondi con elementi diversi da quelli conosciuti da Aristotele; alla sua teoria seguono le più svariate fantasie sulla struttura di tali mondi (fra cui quella dei globi concentrici), finché il francese Nicole Oresme (1320-1382) conclude che “God can and could in his omnipotence make another world besides this one or several like or unlike it” (cit. in Crowe 1986: 7-8). Riguardo al fatto, poi, che questi mondi siano abitati o meno, il tedesco Nikolaus Krebsvon Kues (noto anche come Nicolaus Cusanus o Cusano) nel De Docta Ignorantia (1440) “endorses the idea of other inhabited worlds”, tutti originati da Dio: “He even speculates on the nature of his extraterrestrials”, la cui natura sarà a suo parere “more spiritual” rispetto a coloro che vivono sulla Terra, definiti “more gross and
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material” (Ibidem). La nozione di universo abitato o “crowded universe” nasce nel Cinquecento e trae origine dal “principio della mediocrità”, chiamato anche principio copernicano: l’idea, cioè, che il nostro pianeta sia un tipico pianeta che ruota intorno a una tipica stella in una tipica galassia, e che non ci sia dunque nulla di eccezionale, ovvero di singolare, nell’abitabilità della Terra. Galileo Galilei (1564-1642) s’inserisce nella disputa sostenendo che non ci possono essere abitanti sui pianeti, se per abitanti intendiamo animali e uomini, mentre per Giordano Bruno (1548-1600), come per Democrito, Epicuro e Lucrezio, “l’universo è infinito ed eterno e anche abitato” (Fantoli 2008: 48). Keplero, pur non condividendo la visione infinitista di Bruno, parla di abitanti della Luna in Astronomiae Pars Optica (1604) e in Somnium (1608) e conserverà per tutta la vita l’idea che stelle e pianeti possano essere abitati “da esseri simili a noi” (Ibidem: 54). Tali esseri sarebbero di dimensioni gigantesche ma dotati di una breve vita; avrebbero costruito città, fortificazioni e giardini. Il dibattito che, prevedibilmente, segue tali affermazioni è interessante non tanto per i suoi risvolti fisici o biologici quanto per le sue implicazioni teologiche e filosofiche, visto che rischia di mettere in discussione il posto privilegiato dell’uomo nell’universo. Si tratta di un dibattito internazionale e interdisciplinare, che attraversa le scienze e la filosofia, e che vede impegnati dal Seicento in poi molti pensatori tra cui gli inglesi Nicholas Hill, Richard Bentley, John Locke e il reverendo John Wilkins; l’anglo-irlandese George Berkeley; i francesi Pierre Gassendi, René Descartes (conosciuto anche come Cartesio), Bernard Le Bovier de Fontenelle, Pierre-Simon Laplace e Pierre-André Lalande; i tedeschi Otto von Guericke, Gottfried Leibnitz, Immanuel Kant e William Herschel; l’olandese Christiaan Huygens e lo svedese Emanuel Swedenborg tra i sostenitori dell’esistenza (o per lo meno, della possibilità) di molti mondi abitati (Fantoli 2008; Sindoni 1997). Tra i suddetti, giusto per fare un esempio, Leibnitz rivendica – molto prima di Arthur Conan Doyle via Sherlock Holmes4 – il diritto di ritenere una cosa possibile finché non è dimostrabile la sua impossibilità. Fra i tanti contributi degni di nota, ricordiamo la pubblicazione anonima da parte di John Wilkins, di The Discovery of a World in the Moone, or, a Discourse Tending to Prove That ‘Tis Probable There May Be Another Habitable World in That Planet (1638), dove si ipotizza che gli extraterrestri potrebbero essere creature di mezzo fra uomini e angeli; il Democritus Platonissans (1646) dell’inglese Henry More, che parla di altre “Earths […] peopled with men and beasts” (cit. in Crowe 1986: 17); e ancora Richard Bentley, che si chiede: se la Terra è stata fatta per 4 Nel capitolo VI di The Sign of the Four (1890) Sherlock Holmes dice a Watson: “when you have eliminated the impossible, whatever remains, however improbable, must be the truth”. Il concetto è ripetuto in altre occasioni. Cfr. (24/02/2015).
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gli uomini, “why may not all other Planets be created […] for their inhabitants which have Life and Understanding?” (Ibidem: 23); infine, Christiaan Huygens, secondo il quale gli extraterrestri devono avere “the same arts and area of knowledge as we have” (cit. in Ibidem: 126). Anche il già citato Leibnitz (1646-1716) crede nell’esistenza degli extraterrestri, e Joseph Addison e Richard Steele ospitano articoli a sostegno della loro esistenza sul famoso giornale inglese The Spectator (1711-1712). A metà del Settecento, “the idea of a plurality of worlds was winning international acceptance. Revolutionary this transformation was, although from the perspective of the present its foundation was frail […] However that may be, the era of the extraterrestrial had begun, and it would continue even to the present” (Crowe 1986: 37). Intanto, “pluralism was crossing the Atlantic to the British colonies, where that popular and pliable doctrine received a warm welcome” (Ibidem: 106). Fra quanti, nel Nuovo Mondo, si occupano di astronomia e di pianeti abitati figurano non solo personalità del livello di Cotton Mather o Benjamin Franklin, su cui ritorneremo nel prossimo capitolo, ma anche personaggi meno noti, come Samuel Ellsworth, che nel suo almanacco del 1785 descrive gli abitanti di vari pianeti attribuendo loro caratteristiche derivanti dal mito classico: “That mythology motivated his assigning of such characteristics to his extraterrestrials is indicated by his Venusians being much given to licentious love and his Martians having a warlike disposition” (Crowe 1986: 109). O ancora come John Winthrop, il primo astronomo americano, che, nelle sue Lectures on Comets tenute a Harvard nel 1759, esprime dubbi sull’abitabilità delle comete5; oppure David Rittenhouse, astronomo e matematico, che il 24 febbraio 1775, nella sua Oration rivolta alla American Philosophical Society6, descrive Marte “as having a ‘dense atmoshere’” (Ibidem: 113); senza dimenticare Tom Paine, politico rivoluzionario, scrittore e principale ispiratore della Dichiarazione d’Indipendenza, che “in the mid -1790s […] proclaimed that a thinking man could not accept both Christianity and pluralism” (Ibidem: 116). Se il poeta Philip Freneau preferisce Giove a Marte (“On the Nocturnal View of the Planet Jupiter, and Several of His Satellites, though a telescope”, 1809), nel 1825 l’ex presidente degli Stati Uniti John Adams (che fin da giovane aveva dimostrato interesse per la dottrina pluralista dei mondi abitati) scrive a un altro ex presidente, Thomas Jefferson, una lettera in cui gli raccomanda di non assumere professori europei dell’università della Virginia perché “They all believe that great Principle which has produced this boundless universe […] And until this awful 5 (08/02/2015). 6 (08/02/2015).
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blasphemy is got rid of, there never will be any liberal science in the world” (cit. in Crowe 1986: 116). Tornando in Europa, l’idea di pluralità dei mondi si rafforza con l’inglese Thomas Wright – il primo a descrivere la struttura della Via Lattea nel 1750, – che parla di “Beings not unlike the mortal human” (cit. in Crowe 1986: 43); con Kant (1724-1804), formulatore dell’ipotesi nebulare o protoplanetaria, il quale sostiene che tutti i pianeti devono essere abitati e, a proposito di Marte, scrive che i terrestri non sono gli unici peccatori del Sistema solare e che forse lo sono anche i marziani (Ibidem); e con lo svizzero Johann Heinrich Lambert (1728-1777), secondo il quale tutti i corpi celesti sono abitabili e possono risiedervi “innumerable inhabitants of all possible kind and form” (Ibidem: 57). Il citato Herschel sostiene invece – sulla base della somiglianza fra Terra e Luna – che anche quest’ultima è abitata, tanto da scrivere: “For my part, were I to choose between the Earth and Moon I should not hesitate to fix upon the moon for my habitation” (cit. in Ibidem: 63). L’astronomo è inoltre convinto che la vita esista non solo sulla Luna, ma anche sugli altri satelliti e pianeti. Le somiglianze fra la Terra e Marte sono messe in evidenza in un suo scritto del 1784, in cui Herschel sostiene che il Pianeta Rosso “has a considerable but moderate atmosphere, so that its inhabitants probably enjoy a situation in many aspects similar to ours” (cit. in Ibidem: 66). Nel 1750 Pierre Louis Moreau de Maupertuis, allora direttore dell’Accademia delle Scienze di Berlino, pubblica Essai de Cosmologie, in cui sostiene l’abitabilità degli altri pianeti per analogia con la Terra. Nell’Accademia lavora anche Leonhard Euler (conosciuto in Italia come Eulero, 1707-1783), matematico e filosofo svizzero che si occupa anche della questione dei mondi abitati: con tipica logica illuministica egli scrive in una lettera che, se noi chiamiamo la Terra “mondo”, ne deriva che ogni pianeta, e ogni satellite, “has the equal right to the same appellation” (cit. in Crowe 1986: 128). A questa visione, Charles Bonnet aggiunge una versione settecentesca di quella che oggi chiamiamo biodiversità (e che Crowe definisce “his delight in diversity”, 1986: 130) su scala cosmica: in un capitolo del suo libro Contemplation (1764-1765) che si intitola “Variety of Worlds” leggiamo, tra l’altro, che “just as no two terrestrial leaves are identical, so also we should not expect that any two planets […] are the same”; dunque, “The assortment of beings which is proper to our world will probably not coincide with that of any other world” (Ibidem: 130). Di diverso parere è Georges-Louis Leclerc de Buffon, spesso citato semplicemente come Buffon, che nel 1775 scrive che a temperature uguali dovrebbero per forza corrispondere specie uguali, e redige una tabella in cui riporta l’inizio e la fine della vita sui vari pianeti e satelliti: secondo i suoi calcoli, la vita su Marte c’è stata, è durata 56.641 anni, ma è già cessata (Crowe 1986). Intanto, il filo-
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sofo francese Voltaire pubblica Micromégas (1752), il cui protagonista viaggia in compagnia di un saturniano su vari pianeti finché una cometa lo porta su Giove e di qui sulla Terra, “Mars being too small for their comfort. They do, however, note the two Martian moons” (Ibidem: 121). Il suo connazionale Jean Le Ronde D’Alembert (1717-1783), co-autore con Diderot della famosa Encyclopedie, include Marte fra i pianeti che lui immagina coperti di montagne, illuminati dal sole, con laghi e mari, e abitati (Ibidem). Una delle questioni più affascinanti è quella che si può forse definire “diversità controllata”. Intendo con questa espressione indicare la tendenza a immaginare l’“altro” rispetto all’“umano” come diverso, sì, ma non troppo. Spesso, infatti, quando immaginiamo gli alieni è come se ci guardassimo allo specchio: in parte li immaginiamo come noi, anche quando proiettiamo su di loro i nostri pregiudizi e le nostre paure (Pickover 1998). Del resto l’antropologia, che è lo studio dell’uomo, nasce, come osservano giustamente Slusser e Rabkin, proprio nel momento in cui l’uomo si confronta con un suo simile e lo vede come diverso da sé (1987). Michael Beehler, nel saggio intitolato “Border Patrols,” individua nel perturbante di Freud e nel sublime di Kant le due “master narratives’’ dell’incontro fra essere umano e alieno: “internalization and externalization” (1987: 34). In altre parole, The alien […] always positions itself somewhere between pure familiarity and pure otherness, between the speech of the same and the speech of the other. Taking its place on the border between identity and difference, it marks that border, articulating it while at the same time disarticulating and confusing the distinctions the border stands for. Pure betweenness, it mobilizes the border as a network of interferences, the site of the mutual parasitism or polyglossia of languages, an unsettling and unsettled turbulence or over-running no institutional power is strong enough to neutralize. (Ibidem: 37)
Un esempio. Nel momento in cui, mettiamo, Fontenelle (1657-1757) affermava l’esistenza di un universo infinito e abitato, egli dichiarava al contempo che “tali abitanti non erano uomini come noi”; e si serviva di un’analogia “tra il caso dei selvaggi dell’America, a malapena ‘uomini’, e quello degli abitanti della Luna e degli altri pianeti” (cit. in Fantoli 2008: 113). Una diversità, dunque, che se da un lato implica una visione egemone e colonialista, dall’altro esclude anche una diversità più radicale (pensiamo, ad esempio, a esseri invisibili, o a batteri). Si tratta pertanto di una diversità “controllata”, cioè riconoscibile, catalogabile, riconducibile comunque a un’umanità: abnorme, ma pur sempre umanità. Questa ambiguità è ben resa dal poeta italiano Giacomo Leopardi, nel suo “Dialogo della Terra e della Luna” (Operette morali, 1824-1832):
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LUNA […] – Fatto sta che io sono abitata. TERRA – Di che colore sono cotesti uomini? LUNA – Che uomini? TERRA – Quelli che tu contieni. Non dici tu d’essere abitata? LUNA – Sì. E per questo? (cit. in Ibidem: 166)7
Il fatto che la Terra veda come indissolubile il legame fra la parola “uomini” e la parola “abitare” ci fa capire come spesso le nostre idee sugli extraterrestri siano viziate da una visione antropocentrica e da un pregiudizio radicato che non ci permette di immaginare creature troppo diverse da noi. Nel corso dell’Ottocento troviamo, ancora, gli scozzesi Thomas Chalmers e Thomas Dick e altri a difendere la pluralità dei mondi e la loro abitabilità. In particolare, Dick e i tedeschi Carl Friedrich Gauss e Franz von Gruithuisen sostengono l’esistenza dei “seleniti” e vorrebbero mettersi in comunicazione con loro; dal connazionale Ludwig Feuerbach in poi, invece, cominciano a farsi strada una maggior cautela e un atteggiamento più dubbioso. Se il francese Auguste Compte ritiene altamente probabile che gli altri pianeti provvisti d’atmosfera siano abitati, l’inglese William Whewell considera questa idea inverosimile, con l’unica eccezione di Marte: una posizione che sarà condivisa dal connazionale Richard Anthony Proctor (Fantoli 2008). Finché Flammarion (1842-1925), difendendo l’abitabilità sugli altri pianeti – “the habitation of Mars by a race superior to ours seems […] [is] very probable” (cit. in Markley 2005: 60), – non invocherà il classico argomento dell’analogia: al contrario, pur convinto della somiglianza fra la Terra e Marte, ammetterà unicamente la possibilità di “forme di vita totalmente diverse”, giungendo ad accusare di antropomorfismo la visione dei pianeti abitati immaginati da chi l’ha preceduto (Fantoli 2008: 187). Anche l’italiano Schiaparelli, come già sappiamo, è sostenitore della presenza di creature intelligenti su Marte: chi avrebbe realizzato le opere idrogeologiche visibili sulla sua superficie, se non “ingegneri” e “statisti”? (cit. in Fantoli 2008: 196). E l’astronomo americano Lowell, nel trattato intitolato Mars, si spinge ancora oltre, “suggerendo la possibilità che i ‘marziani’ siano creature giganti, con un fisico cinquanta volte più efficiente del nostro, dotati di una mente altamente intelligente e possibilmente in possesso di invenzioni non ancora da noi sognate” (Ibidem). Nel trattato successivo, Mars and Its Canals (1909) – dedicato a “G. V. Schiaparelli, the Columbus of a New Planetary World” – il direttore dell’Osservatorio di Flagstaff scrive: That Mars is inhabited by beings of some sort or other we may consider as certain as it is uncertain what those beings may be. The theory of the existence of intelligent 7 Il testo integrale si può leggere in: (08/02/2015).
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life on Mars may be likened to the atomic theory in chemistry in that in both we are led to the belief in units which we are alike unable to define. Both theories explain the facts in their respective fields and are the only theories that do, while as to what an atom may resemble we know as little as what a Martian may be like8.
Antoniadi, nello stesso anno, sostiene che Marte è un “mondo vivente e probabilmente ancora abitato” (Fantoli 2008: 196). Evidentemente tutti questi personaggi sono così convincenti che “Da allora il termine ‘marziani’ divenne quasi sinonimo di extraterrestri” (Sindoni 1997: 73). Il periodo che comprende le due guerre mondiali non vede un proseguimento significativo del dibattito (anche se, come vedremo, fu caratterizzato da molti avvistamenti di UFO); tuttavia, questo si intensifica nuovamente negli anni ’60 del XX secolo. A questi anni risale la cosiddetta “Equazione Drake” (o Formula di Green Banks). Nel 1960 l’astronomo Frank Drake ha già condotto la prima ricerca di segnali radio provenienti da civiltà extraterrestri presso il National Radio Astronomy Observatory di Green Bank (West Virginia). Invitato, l’anno successivo, a partecipare a un incontro organizzato dalla National Academy of Sciences sul tema dell’intelligenza extraterrestre, egli descrive i calcoli elaborati secondo i quali è possibile stimare il numero di civiltà extraterrestri esistenti in grado di comunicare nella nostra galassia. Pur convinto dell’esistenza di almeno 10.000 civiltà extraterrestri di livello avanzato nella sola Via Lattea, egli conclude però che vi sono scarse possibilità che due o più civiltà avanzate si possano mettere in contatto fra loro: ipotizzando civiltà che, come la nostra, siano contemporaneamente in possesso di potenti telescopi e ordigni termonucleari, è evidente che queste si autodistruggerebbero in tempi relativamente brevi. Nasce in quegli anni anche il progetto SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), che esiste ancor oggi e ha un sito dedicato, . Esso prende le mosse da un articolo di Giuseppe Cocconi, astronomo specializzato in raggi cosmici, e Philip Morrison, fisico del MIT, intitolato “Searching for Interstellar Communications” e pubblicato su Nature nel 1959. I due vi sostengono che “se ci fossero degli extraterrestri e volessero comunicare con noi, essi ci invierebbero dei segnali facilmente distinguibili, qualcosa che facesse capire a una civiltà intelligente che il segnale proviene da un’altrettanto intelligente civiltà” (cit. in Sindoni 1997). Nel 1967 l’astronomo inglese Jocelyn Bell crede di aver individuato segnali provenienti dallo Spazio, ma si scoprirà presto che i suoi little green men sono generati da stelle di neutroni rotanti (Sindoni 1997). Nello stesso anno a Green Bank si riuniscono undici scienziati, tutti premi Nobel, per esaminare la possibilità dell’esistenza di altre civiltà nell’universo: “Tutti furono concordi in un solo punto e cioè che nella nostra Galassia ci dovrebbero essere non meno di 50 milioni di civiltà” 8 (08/02/2015).
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(Galli 1975: 16). Sempre nello stesso anno Joseph Allen Hynek (coordinatore dei progetti Signe, Grudge e Blue Book) comunica alla rivista Newsweek la fondazione (risalente al 1963) del cosiddetto Invisible College, una rete di fisici e scienziati uniti dalla comune volontà di portare avanti, in forma anonima, ricerche sugli UFO (Galli 1975). Hynek lavora per anni alla classificazione degli UFO e annuncia anche la scoperta di onde provenienti da civiltà aliene. A questo proposito vale la pena introdurre un nuovo acronimo, CHZ, che indica il concetto di “Circumstellar Habitable Zone”. Esso viene introdotto negli anni ’50 da Hubertus Strughold, uno scienziato tedesco che dopo aver lavorato in Germania durante il nazismo (e aver probabilmente collaborato a esperimenti umani nel campo di concentramento di Dachau) giunge nel 1947 negli Stati Uniti nell’ambito della “Operation Paperclip”, un progetto finalizzato a evitare che le conoscenze scientifiche tedesche finissero nelle mani dell’URSS, grazie al quale numerosi scienziati ex-nazisti emigrarono in USA. Strughold pubblica nel 1953 The Green and the Red Planet: A Physiological Study of the Possibility of Life on Mars, dove utilizza l’espressione “ecosfera” parlando delle zone in cui potrebbe nascere la vita. Nello stesso anno un astronomo del Colorado, Harlow Shapley, pubblica Liquid Water Belt, che sottolinea l’importanza dell’acqua allo stato liquido per permettere la vita; e sei anni dopo l’astrofisico Su-Shu Huang di Chicago introduce il termine “habitable zone” applicandolo alla “planetary habitability and extraterrestrial life”9. La sua teoria viene sviluppata nel 1964 da Stephen H. Dole (New Jersey), autore di Habitable Planets for Man, che fra le altre cose stima il numero approssimativo di pianeti abitabili nella Via Lattea in circa 600 milioni. Negli anni ’70 si comincia a parlare di “Goldilocks Zone” a indicare una regione circostante una stella in cui la temperatura consenta l’esistenza di acqua allo stato liquido. Nel 1993 il geologo e climatologo James F. Kasting della Penn State University chiamerà questo tipo di regione “circumstellar habitable zone”10. Nel 2000 il paleontologo Peter Ward (University of Adelaide) e l’astronomo Donald Brownlee (University of Washington) introducono una variante, ovvero la nozione di “galactic habitable zone”, che poi sviluppano assieme al cubano Guillermo Gonzales (Ball State University), a indicare “the region where life is most likely to emerge in a galaxy”11. In seguito queste teorie verranno accusate di “carbon chauvinism”, in quanto c’è chi sostiene che il concetto debba essere esteso ad altri elementi che potrebbero permettere la vita in altre forme12. Una definizione data di recente riporta l’attenzione sull’acqua: “Un pianeta è definito abitabile se orbita a una distanza dal suo sole tale da permettere che l’acqua sia in forma liquida” (Bignami e Sommariva 2015: 27). 9 (19/02/2015). 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ibidem.
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Pickover sottolinea l’importanza dell’ambiente in cui si forma la vita, compresa quella umana, anche a prescindere dalla genetica, e mette in guardia contro l’eccessivo ottimismo di chi pensa di poter contattare gli alieni: […] humans are a moment in astronomic time, transient guests on Earth. Our minds have not sufficiently evolved to comprehend all the mysteries of outer space, of alien minds, and of alien races. Our brains […] may not permit us to communicate with many forms of alien life or to understand their thought processes […] Humans can barely imagine an alien’s Umwelt. (1988: 11, 59)
Se anche, poi, riuscissimo nel nostro intento, “It is doubtful that intelligent alien beings would share any of our facial expressions and body languages […] This disparity in gestures will further enhance their ‘alienness’” (Ibidem: 43). Pur sapendo bene che “obviously Hollywood production costs can be kept down if aliens are simply humans wearing sophisticated masks and makeup”, è dunque estremamente difficile che gli alieni ci assomiglino e siano pertanto descrivibili come umanoidi: “The only chance of finding aliens that look exactly like us is in parallel universes” (Pickover 1988: 15, 17). L’approccio di Pickover alla possibile esistenza degli alieni tende al rigore scientifico: egli s’interroga non solo sulla plausibilità di una somiglianza rispetto agli umani, ma ipotizza come potrebbero essere tali creature sulla base delle più sostenibili analogie rispetto alla biodiversità terrestre: “The enormous diversity of life today represents only a small fraction of what is possible […] Evolution on Earth tells us a lot about possible alien shapes” (Ibidem: 16). Infatti, se è vero che la biodiversità è estremamente ampia, è vero anche che essa opera all’interno della cosiddetta “convergent evolution” per cui vi sono comunque alcuni punti comuni (Ibidem). Per esempio, se esseri alieni si sono sviluppati come gli umani dall’acqua essi avranno probabilmente una simmetria bilaterale; così è anche nella maggior parte degli alieni nel cinema, anche se un’altra forma utilizzata occasionalmente è quella radiale (Ibidem). È più difficile, continua, che gli alieni siano creature volanti, a meno che non si trovino su pianeti con gravità minore e atmosfera più densa rispetto alla Terra (Ibidem). Lo scienziato prosegue chiedendosi come sarebbero i cervelli di questi possibili alieni. Una buona probabilità è che avrebbero un cervello molto sviluppato, simile a quello del polpo, l’invertebrato più intelligente sulla Terra, che ha tentacoli molto sensibili, i sensi molto sviluppati, e un grande cervello che si sviluppa intorno all’esofago; può vedere la luce polarizzata, allungare le zampe e cambiare il colore della pelle (Pickover 1988). I sensi potrebbero essersi sviluppati in modi diversi: Pickover ricorre alla letteratura e cita At the Mountains of Madness di Lovecraft, dove “The Old Ones” vedono attraverso filamenti simili a peli o capelli (Ibidem), The Jupiter Theft di Donald Moffitt, dove i Cygnans possiedono molte laringi, e Conscience
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Interplanetary di Joseph Green, dove i Cryers fanno tutti parte di un’intelligenza collettiva chiamata Unity – un po’ come Borg in Star Trek, una caratteristica che sulla Terra ritroviamo nelle società delle api (Ibidem). Pickover ricorda che in Antartide sono stati trovati alghe, batteri, licheni e muschi “clinging to life in a valley sufficiently cold and dry to mimic Mars. If there is life on Mars, or a fossil remnant of life from that planet’s earlier, wetter history, it may resemble these Antarctic colonies” (1998: 73). Il luogo più probabile dove trovare alien life è sotto la superficie del terreno, a un livello in cui vi sia più calore e probabilmente acqua. Pickover racconta che nel 1996 fu scoperto nella caverna di Movile a Dobrogea, Romania, un microbo la cui struttura genetica risultò costituita per due terzi da geni mai visti prima, alcuni simili a quelli degli umani, alcuni a quelli dei batteri, ma appartenente a ogni evidenza a una terza tipologia. Si tratta di un microrganismo che vive a temperature freddissime, si nutre di metallo e assorbe senza problemi alte dosi di radiazioni. È a forme di vita primitive come questa (archaea) che dobbiamo pensare se vogliamo trovare vita su Marte (Pickover 1998). Oggi l’ipotesi “vitalista” si dirige principalmente in quattro direzioni. Da un lato, si cercano scientificamente tracce di “vita” nei meteoriti o sulla superficie di Marte, intendendo con questo termine microrganismi fossili (i quali potrebbero, tra l’altro, confermare l’ipotesi che la vita sulla Terra sia di origine extraterrestre); altri studiosi – sulla scia dell’italiano Guglielmo Marconi, che già nel lontano 1927 credette di aver ricevuto un segnale radio da extraterrestri, e incuranti del cosiddetto paradosso di Fermi (“se ci sono gli extra-terrestri, dove sono tutti quanti?”) cercano di mettersi in contatto con possibili abitanti di altri mondi grazie a potenti radiotelescopi, sfidando l’immensa difficoltà della decodificazione dei messaggi che dovessero arrivare; vi è poi chi, non del tutto convinto che vi sia vita su altri pianeti, progetta di portarvela dalla Terra, per esempio immettendo piante o batteri “estremofili”13 geneticamente modificati nell’ambiente marziano; infine, vi sono persone persuase che vi siano a tutti gli effetti viaggiatori cosmici e che essi siano umanoidi, guidino astronavi o dischi volanti e ci facciano spesso visita. A questi ultimi è dedicata la nostra prossima tappa. 13 Con questo aggettivo si indicano i microrganismi capaci di sopravvivere negli ambienti più ostili, per esempio caldo o freddo eccessivo, pressione altissima o bassissima, presenza di sostanze altamente tossiche. Oggi è un termine molto usato, ma Pickover ci ricorda che “The term ‘extremophile’ reflects a bias: Aliens living in environmental extremes would think we were the extremophiles, because from their point of view, we are the ones who live under extreme conditions” (1998: 62). L’alterità intercambiabile dell’organismo estremofilo ricalca quella altrettanto intercambiabile di alienness nel citato racconto “Sentry” di Fredric Brown o in “Why Are Americans Afraid of Dragons?” di Ursula K. Le Guin, dove gli alieni siamo noi.
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3.3. UFO (Unidentified Flying Objects)
Innanzitutto, cerchiamo di dare una breve descrizione di un UFO. Vi sono una quantità di classificazioni, tra cui quella proposta da Bruno Galli, che comprende cinque tipologie: 1. oggetto insolito, sferico, discoidale poggiato sul terreno o a pochi metri d’altezza; 2. oggetto insolito a forma di cilindro o sigaro; 3. oggetto insolito di forma sferica fermo nel cielo; 4. oggetto insolito “che si muove nel cielo”; e 5. oggetto insolito “che non sembra di struttura materiale o solida” (1975: 108). Questa classificazione, come si può ben vedere, di fatto non esclude praticamente nulla. Dopo il 1989 verranno segnalati UFO di una nuova varietà, il cosiddetto “triangolo volante” (Bianchi 2003: 12). Per avere un’idea della percezione di un disco volante, riportiamo una descrizione piuttosto suggestiva, che coinvolge più sensi: I rumori prodotti dagli ufo sono di solito sibili o ronzii vibratori durante il loro passaggio a bassa quota. Durante la partenza il rumore che producono assomiglia generalmente a quello del vapore che esce da una valvola. L’atterraggio è sempre accompagnato da impronte e da un odore di ozono e di metallo rovente. Le luci, variando continuamente d’intensità, sono quelle dell’arcobaleno. I fari, che spesso usano nei voli a bassa quota, emettono una “luce fredda”, come quella dei batteri luminosi, chiamata scientificamente “bio-luminescenza”. (Galli 1975: 11)
Mentre tutto ciò che avviene ad almeno 200 metri dall’osservatore va sotto il nome di “fenomeni a distanza” (luci notturne, oggetti in volo, apparizioni su schermi radar, ecc.), gli incontri ravvicinati (close encounters) si verificano a distanza minore e forniscono i dati più interessanti. Per inciso, anche in questo caso la fortuna del termine è legata al regista Steven Spielberg e al suo film Close Encounters of the Third Kind, uscito nel 1977. Per gli ufologi esistono cinque (o perfino sei) gradi di “incontro”: come vedremo tra breve, i primi due rientrano nell’universo del razionalmente plausibile e non coinvolgono necessariamente “ufonauti” (per esempio, potrebbe trattarsi di veicoli dell’aeronautica, o di frammenti di meteoriti), mentre dal terzo al quinto o sesto grado dobbiamo verosimilmente entrare in una dimensione molto vicina alla ESP (Extra Sensorial Perception). Per questi ultimi tipi si parla di “Oz Factor”, il nome dato alle sensazioni descritte da chi ha sperimentato questo tipo di incontri: “There include a sense of isolation, lack of environmental sounds and with disorientation of time and space” (Randles 1997: 110). Per la precisione, Encounters with Unidentified Flying Objects have been categorised into five groups as close encounters of the first, second, third, fourth and fifth kind. When a person sees a UFO within 150 metres, it’s an encounter of the first kind. When
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an encounter with a UFO in the sky or on the ground leaves evidence behind such as scorch marks on the ground or indents, etc., it’s of the second kind. When an encounter is with visible occupants inside the UFO, it’s of the third kind. The fourth kind involves the person being taken and experimented on inside the alien craft. The fifth kind involves direct communication between aliens and humans14.
Secondo una diversa classificazione, il quinto tipo è detto anche “esogamia” e prevede l’unione biologica con esseri extraterrestri, e ce ne sarebbe anche un sesto che indica il decesso del soggetto in seguito a incontri delle precedenti categorie (Bianchi 2003: 45). Partiamo col primo tipo. L’avvistamento di misteriosi oggetti volanti è cosa antica, e anche se l’ufologia moderna nasce ufficialmente in America negli anni ’40 del Novecento, gli episodi di avvistamenti misteriosi sono narrati in ogni epoca. Per fare un esempio, in Italia c’è chi sostiene la teoria di avvistamenti di UFO durante il fascismo (Pinotti e Lissoni 2011), e non dimentichiamo che Guglielmo Marconi (che faceva la spola tra l’Italia, Londra e New York) non era il solo a sperare di intercettare messaggi alieni: All’epoca gli alieni erano i marziani: così almeno si credeva. Dunque per ventiquattr’ore, dalle 22.50 del 21 agosto 1924, quando Marte si era venuto a trovare nel punto più vicino alla Terra, per ordine del governo americano tutte le radiotrasmittenti del paese avevano taciuto, permettendo così all’inventore Francis Jenkins di mettere in funzione un apparecchio destinato a captare presunti “programmi televisivi dei marziani”. (Ibidem: 100)
Limitandoci agli Stati Uniti, tutto ebbe inizio il 25 febbraio 1942, quando sul cielo di Los Angeles vennero avvistati misteriosi velivoli argentei. Il Los Angeles Examiner uscì con un titolo a mezza pagina a caratteri cubitali che diceva: “AIR BATTLE RAGES OVER LOS ANGELES”; meno di un mese dopo, un altro oggetto misterioso fu avvistato da un pilota, e nel 1945 cinque bombardieri e un idrovolante scomparvero nel cosiddetto “triangolo delle Bermuda” dopo che gli strumenti di bordo erano impazziti. Gli scettici obiettarono che, tutto sommato, si era in tempo di guerra; ma quando, due anni dopo, Kenneth Arnold, un uomo d’affari dell’Idaho, dichiarò di aver visto e descrisse una fila di oggetti volanti piatti e luminosi, il fatto suscitò un’eco senza precedenti e il dibattito si rianimò. Fu in quell’occasione che un giornalista coniò l’espressione flying saucers, letteralmente “piattini volanti”, un’espressione destinata a diventare la definizione americana per i dischi volanti. Nel settembre dello stesso anno il generale Nathan Twining, capo di stato maggiore dell’esercito e comandante dell’aviazione, scrisse 14 Articolo del 22/03/2003, di S.P.S. Jain, Mumbai, in: (19/02/2015).
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una lettera ai settori governativi raccomandando la formazione di un gruppo di studio sul problema dei dischi volanti. Il gruppo di studio (progetto Sign) fu formato e rimase operativo fino alla fine del 1948, e a febbraio 1949 fu sostituito dal progetto Grudge che emise un rapporto a fine anno. Frattanto, nel 1947 aveva avuto luogo il noto incidente di Roswell, nel New Mexico: alcune persone trovarono frammenti misteriosi (R. L. Thompson 1993) che vennero immediatamente requisiti dai militari. Nonostante la versione ufficiale parlasse di un pallone sonda dell’esercito, questo caso fu dibattuto per decenni e parallelamente nacque anche la leggendaria descrizione di quattro corpi verosimilmente alieni rinvenuti sul terreno: stando a quanto riportò un testimone oculare, si trattava di esseri provenienti dallo spazio (Ibidem). Per fare solo alcuni altri esempi, nel 1948 il tenente pilota George F. Gorman ingaggiò un duello aereo con un UFO e nel Kentucky migliaia di persone assistettero al passaggio di un oggetto circolare volante (caso Mantell); nel 1952 Washington fu teatro di tre casi clamorosi, di cui uno alla Casa Bianca: “Le sette ‘macchie’ si erano fermate su Washington City e stavano volteggiando sulla Casa Bianca e sul Campidoglio, scendendo sempre più in verticale. Esse si muovevano lentamente, a bassa quota, con precise manovre che facevano credere fossero guidate da una mente” (Galli 1975: 51). Nello stesso anno George Adamsky, un americano di origine polacca, rivelò pubblicamente di aver avuto un contatto con gli alieni e di essere anche salito a bordo di una delle loro astronavi (Bianchi 2003). Negli anni ’50 e nei decenni successivi furono aperte numerose inchieste e avviati altri progetti (commissione McClennan, Project Twinckle, Project Magnet, Blue Book, Rapporto Robinson, Rapporto Condon, Rapporto CIRVIS; cfr. Bianchi 2003) e nel 1958 il matematico e ingegnere francese Aimé Michel coniò il termine “ortotenia”, che si riferiva a ipotetiche leggi che governerebbero le rotte aeree degli UFO. Michel (a cui si unì poi anche l’astronomo Jaques Vallée, consulente della NASA per la realizzazione della mappa di Marte) cercò di verificare se i velivoli seguissero un itinerario prestabilito, nel qual caso avrebbe potuto dimostrare che erano guidati da esseri intelligenti. L’elemento più interessante del suo studio è che egli scoprì che la massima frequenza degli avvistamenti riportati avveniva negli anni pari (1948, 1950, 1952, ecc.) in coincidenza con l’opposizione Marte-Terra. Verificò la descrizione di “ondate” sulla costa occidentale USA nell’aprile del 1948 (“quasi volessero subito scoprire lo stabilimento della prima bomba atomica”), poi “Nel giugno 1950 visitarono la metà occidentale degli USA, l’Atlantico settentrionale e centrale e tutto il SudAmerica; nell’agosto 1952 Nuova York e Washington” (Ibidem: 72-73). Nel 1952 H. Marshall Chadwell, vice-direttore della Scientific Intelligence, scrisse al direttore della CIA per informarlo sulla grande quantità di lettere, comunicati
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e rapporti ricevuti. Fu quindi stilato un rapporto segreto che insisteva sulla minaccia che gli UFO costituivano per la sicurezza nazionale (R. L. Thompson 1993). Una caratteristica interessante degli avvistamenti riguarda proprio la loro impennata nel decennio che segue la seconda Guerra Mondiale. Questo potrebbe facilmente far pensare a un collegamento fra le attività degli UFO e gli esperimenti atomici. A supporto dei sostenitori dell’esistenza di UFO esistono numerosi rapporti che indicano prove concrete (incontri del secondo tipo), come tracce di atterraggi sul terreno, fotografie, filmati, ferite fisiche (o viceversa guarigioni), mutilazioni di bestiame, interruzione temporanea di motori. È molto diffusa l’idea che le autorità governative abbiano raccolto una grande quantità di materiale ma lo tengano nascosto: si tratterebbe di occultamento di informazioni, soprattutto per quanto riguarda il materiale contenuto nel progetto Blue Book, un dossier di stato riguardante l’investigazione del fenomeno UFO e ufficialmente chiuso nel 196915. È vero d’altra parte che potrebbe trattarsi di percezioni illusorie, turbe mentali o falsi ricordi, così come di pure frodi individuali, o perfino di un complotto organizzato su scala mondiale. Uno degli studi scientifici più autorevoli fu quello condotto dal fisico Edward U. Condon con il sostegno della University of Colorado tra il 1967 e il 1969, che si concluse con il cosiddetto Condon Report che sanciva l’improbabilità che questi UFO, ammesso che esistessero, fossero guidati da esseri intelligenti provenienti da altri mondi. Condon collegava dunque questo genere di studi a quelli sullo spiritismo e alle ricerche nel campo del paranormale. Nello stesso anno William Marcowitz pubblicò un articolo sugli UFO su Science, “The Physics and Metaphysics of Unidentified Flying Objects”16, che avrebbe poi incluso nel libro di Donald Goldsmith The Quest for Extraterrestrial Life (1980). Sugli avvistamenti da parte di astronauti e radio-amatori esiste un’ampia letteratura: in particolare, molte teorie sono sorte intorno all’interruzione di una conversazione durante il primo allunaggio. Secondo una di queste, Hynek fu informato da qualcuno che nel corso della missione Apollo 11 “Neil Armstrong, Edwin Aldrin, and Michael Collins said they observed a UFO”17. Ma la NASA non diede alcuna spiegazione. Secondo altre fonti, pare che Aldrin riuscì addirittura a “filmare” le astronavi sulla Luna: un’immagine a colori apparve su vari giornali, fra cui l’italiano L’Europeo, ma anche in questo caso la NASA reagì con un secco no-comment (Galli 1975: 124). Secondo alcuni radioamatori, Neil Armstrong aveva descritto “tanti 15 (29/01/2015). Il Blue Planet Project sarebbe invece un altro dossier secondo il quale esiste una base segreta nel New Mexico dove si sperimenterebbero ibridazioni fra tecnologia terrestre e aliena. Secondo il dossier oltre 150 specie aliene avrebbero già visitato la Terra. 16 Cfr. (02/01/2015). 17 (02/01/2015).
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oggetti enormi… allineati sull’altro bordo del cratere”; nacque così la leggenda secondo la quale fu dichiarato pazzo, perse l’impiego alla NASA e fu assunto infine come docente di ingegneria all’università di Cincinnati, Ohio (Ibidem: 123-124). Nonostante queste notizie non corrispondano a quanto emerge dalle fonti ufficiali, sappiamo comunque che Armstrong annunciò poco dopo il suo rientro sulla Terra che non avrebbe mai più volato nello Spazio; che di lì a poco si dimise dalla NASA e si dedicò all’insegnamento, e che mantenne sempre un basso profilo nonostante l’eccezionalità della sua impresa. R. L. Thompson riporta un sondaggio pubblicato dalla rivista Industrial Research Development nel 1970 da cui si ricava che su 1200 scienziati e ingegneri il 61% crede all’esistenza degli UFO; per il 40 % di loro, poi, gli UFO provengono dallo Spazio, per il 2% dagli Stati Uniti, e per meno dell’1% dai Paesi comunisti. L’8 % dice di averne visto uno (1993: 26). L’autore sostiene che molti scienziati in realtà credono all’esistenza degli UFO (come dimostra, per esempio, l’esistenza del National Investigation Committee on Aerial Phenomena, attivo dagli anni ’50 agli anni ’80, che fra l’altro pubblicò l’ampia raccolta di testimonianze intitolata The UFO Evidence nel 1964), ma abbiano paura di esporsi al ridicolo (Ibidem). Altri, di dichiarata fede ufologica, sono deceduti in circostanze misteriose (per esempio l’eminente scienziato James McDonald, morto apparentemente suicida nel 1971). È un fatto, comunque, che alcuni illustri docenti universitari di materie scientifiche abbiano fondato nel 1982 la Society for Scientific Exploration al fine di promuovere lo studio di fenomeni anomali con cui la scienza ufficiale preferisce non avere a che fare. Per quanto riguarda le tipologie successive all’incontro del primo tipo, in alcuni casi i testimoni (contactees) hanno riportato, spesso molto tempo dopo e sotto ipnosi, di avere avuto brevi incontri con gli alieni, oppure di essere stati rapiti (kidnapped o spacenapped o abducted ) e sottoposti a indagini mediche o addirittura a fecondazione, oppure di aver comunicato telepaticamente con esseri intelligenti, di aver fatto brevi viaggi sui loro veicoli e di avere stabilito con loro una relazione amichevole. L’ipnosi ha ricoperto un ruolo molto importante nella riemersione di ricordi legati agli incontri; numerosi psicologi e psichiatri citano centinaia di casi in cui il/la paziente ha riferito di un rapporto di qualche tipo con esseri alieni. R. L. Thompson riporta numerosi esempi di psichiatri e psicologi che hanno individuato un’analogia tra le vittime di abduction e le vittime di stupro, come Elizabeth Slater; oppure, che hanno ipotizzato l’esistenza di uno stato di coscienza intermedio fra la salute mentale e la pazzia, come Kenneth Ring; oppure, ancora, che hanno notato l’aumento delle facoltà paranormali nei rapiti, come Karla Turner. Elenca inoltre molte esperienze di vario tipo nel suo libro. Tra i casi di incontro ravvicinato più interessanti c’è quello riferito al congresso degli Stati
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Uniti nell’aprile del 1966 da Raymond Fowler (poi autore del libro The Watchers, 1990, in cui egli descrive gli alieni come “Osservatori” del nostro mondo) con una relazione di 33 pagine; oppure quello riferito nell’aprile del 1964 da un giovane contadino della Newark Valley, Gary Wilcox, al quale – stando al suo racconto – si presentarono degli omini alti circa un metro, che indossavano tute bianche e gli chiedevano, con voce metallica, del fertilizzante da portare con sé su Marte; o, ancora, quello di un certo Barney Hill, che nel 1961 sostenne di essere stato rapito da esseri con la pelle grigiastra che comunicavano tra loro mentalmente (R. L. Thompson 1993). Tra gli anni ’50 e ’60 troviamo anche la nutrita testimonianza di un ex soldato dell’esercito, Howard Menger, che dichiarò di aver avuto molti contatti con gente dello spazio proveniente anche da Marte (Ibidem). Ma come sono, fisicamente parlando, questi alieni? Fermo restando, e vale la pena ribadirlo, che “alien life […] could be invisible to the naked eye, like Martian bacteria. It could be primitive and immobile, like lichen, and equally unthrilling to observe”; oppure, che potrebbe trattarsi di “emotionless plants” (Perkowitz 2007: 43, 44), ci soffermeremo sulle rappresentazioni, tra quelle di cui disponiamo, che danno invece agli alieni corpi e volti. La già citata ricercatrice inglese Jenny Randles, autrice di Alien Contact: The First Fifty Years (1997), un libro documentatissimo e corredato di fotografie e disegni originali, ha suddiviso gli esseri alieni legati ai rapimenti in due gruppi principali: i cosiddetti “Greys”, esseri piccoli e brutti alti da un metro a un metro e mezzo, che spesso indossano uniformi verdastre, e creature più sottili, alte oltre un metro e ottanta, dai lineamenti di tipo scandinavo18. In Alien Contact l’autrice parla anche di molti altri fenomeni legati agli UFO (dal rilascio di impianti nei corpi dei rapiti ai cerchi nel grano e così via), riportando numerosi casi tra cui il Manhattan Transfer (una celebre abduction avvenuta in un appartamento nel cuore di Manhattan nel 1989) e menzionando anche la già citata “Face on Mars”. Quella umanoide non è, naturalmente, l’unica forma in cui l’alieno viene visto o percepito. Sono stati descritti esseri simili a lucertole (chiamati anche Rettiliani o Reptilians), oppure manifestazioni simili a fasci di luce; altri ancora sono simili a robot o a mostri di vario tipo. Alcuni si sono presentati ai loro contactees come Reticolani (Reticulans): sarebbero piccoli, senza capelli e con la testa grossa, e proverrebbero da un sistema stellare chiamato La Rete o Zeta Reticuli (R. L. Thompson 1993). Una catalogazione degli alieni è stata realizzata da Brad Steiger, che li ha suddivisi in quattro gruppi secondo gli elementi descritti dai testimoni di incontri ravvicinati. Quelli di tipo Alpha sono di piccole dimensioni, macrocefali, con occhi grandi. Quelli di tipo Beta sono alti, biondi, con i capelli lunghi; appartengono a 18 Il libro è visibile integralmente nel sito: (02/01/2015).
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questa categoria, per esempio, le Beta F, creature femminili bellissime e dolcissime (spesso scambiate per apparizioni della Madonna). Quelli di tipo Gamma sono umanoidi alti fino a 3-4 metri; i Delta, infine, sono mostruosi e molto grandi, spesso rettiliformi, o simili a insetti o pipistrelli (cit. in Bianchi 2003). Nella narrativa di fantascienza le tipologie sono innumerevoli (e, per quanto riguarda Marte e i marziani nella letteratura americana, si rimanda ai capitoli successivi): vorrei qui accennare soltanto a due romanzi dello scrittore belga J. H. Rosny, tradotti in inglese come Navigators into Infinity (1925) e The Astronauts (1960), che mostrano quattro specie di vita su Marte: i marziani, simili ai terrestri, un’antica razza in declino; animali che si nutrono l’uno dell’atro senza uccidere la loro preda; una specie in evoluzione, dotata di proprietà elettriche, che si sta espandendo sul pianeta a discapito delle altre; e infine creature luminose che viaggiano un milione di volte più veloci di noi. Ricordo anche la lunga saga di Well of Souls (undici romanzi dal 1977 al 2000), dove lo scrittore statunitense Jack Chalker descrive il mondo come una griglia esagonale contenente 1560 aree corrispondenti a diverse creature. Gli scopi degli alieni sono ritenuti molteplici. Essi ci farebbero visita per osservarci, per imparare (o viceversa per insegnare), per catturare energia, per metterci in guardia contro i pericoli dell’inquinamento nucleare, oppure per migliorare la loro specie o incrociarla con la nostra (fecondando le rapite e poi estraendo l’embrione o il feto), e così via. La ricercatrice americana Linda Howe ha affermato che una volta le fu mostrato un documento top secret secondo il quale gli extraterrestri in contatto con il governo statunitense sarebbero venuti sulla Terra diverse volte per manipolare il DNA nei primati terrestri esistenti (R. L. Thompson 1993). Un’ipotesi interessante è quella proposta nel volume Antropologia degli alieni, incentrata sul tentativo di dimostrare “come certe descrizioni degli alieni […] in realtà propongano elementi caratteristici delle figure del mito” (Centini et al. 1998: 8). Sebbene un’antropologia degli extraterrestri, spiegano gli autori, possa sembrare una contraddizione o una forzatura metodologica, in realtà il termine stesso, “antropologia”, è in primo luogo uno strumento che ci permette di studiare l’“altro” al fine di “classificarne l’aspetto fisico e la cultura” (Ibidem). In questo contesto, è parso agli autori che molte delle descrizioni fisiche fatte da contactees siano condizionate da archetipi o stereotipi provenienti dal mondo del mito o dalla fantascienza (e non il contrario, come più spesso si è propensi a credere), e portatrici di una dicotomia di base (alieni buoni vs alieni cattivi, il mostro e l’angelo custode). Basandosi su studi precedenti (fra cui quelli del citato Steiger e lo studio minuzioso del brasiliano Jaser Pereira), gli autori individuano ben 21 tipologie di alieno, ognuna corredata di scheda descrittiva, completa di casi di avvistamento e dati relativi all’eventuale presenza nel cinema. Nonostante solo un piccolo numero di tipologie riguardino alieni “visti” o “incontrati” in ambito
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statunitense, e molte siano invece riferite a contesti italiani locali (e facciano veramente sorridere), riportiamo qui una breve sintesi di tutte le 21 schede in quanto contengono comunque riferimenti al cinema o alla televisione americani: 1. Tipologia: Ominide; Soggetto: Entità biologica; Extraterrestre. Macrocefali, alti fra il metro e 20 e il metro e 60, naso e orecchie sostituite da fori, pelle grigiastra, organo sessuale unico, QI oltre 200; forse esseri sintetici. Quasi tutti i casi riportati sono avvenuti negli USA. 2. Tipologia: Ominide; Soggetto: Nano dalle orecchie di elefante. Più bassi, privi di vestiti, dita ad artiglio, bocca consistente in una fessura. Un esempio: la figura dello Jedi nella saga Star Wars. 3. Tipologia: Ominide; Soggetto: Ominide rosso di Varginha (Brasile). Esili, con un grosso cranio, emettono un suono simile al ronzio dell’ape. Ne troviamo uno nel film E.T. The Extra-Terrestrial. 4. Tipologia: Ominide; Soggetto: Umanoide di Basiliano (Udine). Faccia allungata, occhi a mandorla, orecchie a punta. Ne è un esempio il dottor Spock, il “vulcaniano” del ciclo Star Trek. 5. Tipologia: Umanoide; Soggetto: Umanoide di Iarga. Aspetto quasi animalesco, orecchie e bocca grandi, gambe corte e tozze. Li ritroviamo nella razza dei Klingon, sempre in Star Trek. 6. Tipologia: Umanoide; Soggetto: Uomini pelosi di Licata e Valle di Lauro. Alti circa quattro metri, assomigliano a orsi bruni. Ci ricordano Chewbacca, l’accompagnatore alieno di Luke “Skywalker” in Star Wars. 7. Tipologia: Ominide; Soggetto: Orango padano. Basso e coperto di pelame scuro; immediato è il riferimento al film King Kong. 8. Tipologia: Ominide; Soggetto: Antropomorfo di Parma. Colore verde, pelle grinzosa, occhi lampeggianti. Assomigliano a creature vegetali o spiriti arborei. I riferimenti vanno a The Day of the Triffids. 9. Tipologia: Uomo; Soggetto: Uomini biondi e asessuati. Sembrano uomini ma sono alti tre metri e hanno il corpo ricoperto di piume; hanno le ali. Ne troviamo uno in The Man Who Fell to Earth. 10. Tipologia: Uomo; Soggetto: MIB (Men In Black – Uomini in nero). Uomini maschi adulti, vestiti completamente di nero. Resi famosi dal film Men in Black, ne è una variante Darth Vader in Star Wars. 11. Tipologia: Mostri/Animali; Soggetto: Chupacabras (Succhiacapre). Creature bipedi alate, con occhi rossi; possono cambiare colore e succhiano il sangue delle loro vittime. Hanno qualche somiglianza con i vampiri19; viene citato Quatermass II. 19 Vivian Carol Sobchack cita in proposito Michel Laclos, “Martians, Venusians or mutants evolved from vampires”, in Le fantastique au cinema, Pauvert, Paris 1958, p. xxviii (1980: 28).
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12. Tipologia: Mostri/Animali; Soggetto: Gigante del caso Hickson. Alti sui due metri, pelle grigiastra, senza collo. Hanno escrescenze coniche al posto del naso e delle orecchie. 13. Tipologia: Mostri/Animali; Soggetto: Dargos di Titania. Esseri mostruosi e giganteschi con occhi gialli e triangolari. 14. Tipologia: Mostri/Animali; Soggetto: “Cosa” dagli occhi rossi. Creature alte quasi due metri, con occhi ovali rossi e arti esili. Vi sono vari riferimenti sia letterari (i racconti di H. P. Lovecraft) sia cinematografici (The Blob, Close Encounters of the Third Kind). 15. Tipologia: Mostri/Animali; Soggetto: Uomo falena. Umanoidi alati alti sui due metri, fortemente ibridati. Riferimenti a La metamorfosi di Kafka e, nel cinema, a The Fly e Starship Troopers. 16. Tipologia: Mostri/Animali; Soggetto: Ibrido squamato. Esseri di bassa statura dal volto umano, con un cono affusolato al posto delle gambe, ricoperti da una corazza fatta di squame. Si rimanda a Creature from the Black Lagoon. 17. Tipologia: Mostri/Animali; Soggetto: Rettiloide. Creature robuste completamente ricoperte di scaglie, con dita artigliate e una coda lunga e possente. I riferimenti cinematografici sono numerosi, da The Beast from 20.000 Fathoms e Twenty Million Miles to Earth fino ad Alien, Jurassic Park e Relic. 18. Tipologia: Robot; Soggetto: Discoide/Macchina. Oggetti antropomorfi di colore variabile, dotati di maniglie, saracinesche e/o antenne. Riferimenti a Forbidden Planet e Doctor Who. 19. Tipologia: Robot; Soggetto: Umanoide. Alti circa due metri, indossano tuta e cinturone metallico. 20. Tipologia: Apparizioni; Soggetto: Nuvola multiforme. Nuvolette che assumono l’aspetto di una forma umana. Riferimenti a Ghost, Ghostbusters, Poltergeist. 21. Tipologia: Apparizioni; Soggetto: Essere fosforescente. Creature alte circa sei metri, longilinei, con tuta bianca fosforescente e capelli molto lunghi (Cfr. Centini et al. 1998). Al di là della difficile interpretazione di alcuni passaggi (si veda, ad esempio, la differenza fra Ominide, Umanoide e Antropomorfo, oppure la compresenza di alieni, dinosauri e fantasmi), la classificazione, seppur bizzarra, è oltremodo interessante perché gli autori – un antropologo, un insegnante di lettere e un sociologo – mescolano elementi desunti dall’antropologia culturale (il mito e l’archetipo) con elementi legati alla geografia, alla cinematografia e allo studio
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dei media, inserendo la figura dell’alieno in un contesto interdisciplinare di tipo umanistico-sociologico. Non è, chiaramente, una pubblicazione che possa vantare rigore scientifico, ma come testo divulgativo ha il pregio di tentare una catalogazione di creature straordinarie la cui risonanza archetipica e i cui collegamenti al cinema di fantascienza sono forse gli aspetti più intriganti. Prima di concludere questa parte ritengo opportuno tornare a parlare di alieni e spendere due parole sui loro linguaggi. Per iniziare, citiamo il progetto esposto nel volume Lincos. Design of a Language for Cosmic Intercourse, pubblicato nel 1960 dall’olandese Hans Freudenthal, professore di matematica a Utrecht e visiting professor a Yale, che proponeva di sviluppare un linguaggio (trasmettibile tramite onde radio) con cui gli umani di diverse nazioni potessero comunicare con gli alieni. Lincos sta per Lingua Cosmica, e consiste di simboli matematici, biologici e linguistici. Un’interessante recensione dell’epoca descrive nei dettagli le differenze fra lingua scritta e parlata e ne elenca i segni e i fonemi, riportando alcuni esempi20. Il testo, letto integralmente, riserva la piacevole sorpresa di una fluidità e di un approfondimento tali da consigliarne la lettura. Inoltre vi sono tematiche estremamente significative per gli studi culturali, quali ad esempio la trattazione del concetto di “equality” in un contesto linguistico in cui non sia presente la terminologia adeguata a esprimerlo, oppure l’ambiguità o le carenze di determinate strutture sintattiche rispetto alla maggiore chiarezza e completezza della matematica. Freudenthal mette in conto sia l’eventualità che non vi sia vita sugli altri pianeti, sia che possano già esistere lingue cosmiche ideate da alieni, sia che gli alieni possano non comprendere la lingua che lui propone: Of course I do not know whether there is any humanlike being on other celestial bodies, and even if there were millions of planets in the universe inhabited by humanlike beings, it is possible that our nearest neighbour lives at a distance of a million light-years and, as a consequence, beyond our reach. On the other hand it is not unthinkable that inhabitants of other planets have anticipated this project. A language for cosmic intercourse might already exist. Messages in that language might unceasingly travel through the universe, maybe on wavelengths that are intercepted by the atmosphere of the earth and the ionosphere, but which could be received on a station outside. On such an outpost we could try to switch into the cosmic conversation. Long ago I thought cosmic radiation to be a linguistic phenomenon, but at the present state of our knowledge this seems to be very improbable. It is not easy to state a priori how to distinguish messages from purely physical phenomena. But should the case really arise, we shall know how to answer the question: we should try to understand the message. This, I suppose, intelligent beings in the universe will do if they receive our messages. They will try to decipher them and to translate them into their own 20 (30/03/2015). Si indicheranno i numeri di pagina riferiti a questa edizione.
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language. This task might be easier than that of terrestrial decipherers who have to discover the key of a code. Indeed our objective is just the opposite of that of the sender of coded information. We want to communicate with everybody who might receive our messages, whereas the sender of a coded message wishes to keep secret the information contained in his message. But in spite of our efforts even intelligent receivers might interpret our messages as physical phenomena or as music of the spheres. (pp. 14-15)
Fonemi e strutture morfologiche si uniscono in questo linguaggio a variabili, formule e funzioni, soggiacendo a un disegno che è principalmente matematico, dunque universale: “Mathematics is the most abstract subject we know and at the same time a subject that may be supposed to be universally known to humanlike intelligent beings” (p. 21). È difficile non andare col pensiero indietro di tre secoli, a quel volume straordinario che s’intitola Key into the Language of America (conosciuto anche come A Help to the Language of the Natives in that part of America called New England), in cui Roger Williams nel 1643 descriveva le lingue dei nativi della Nuova Inghilterra tentando una sorta di dizionario linguistico-culturale che potesse servire anche come strumento di comunicazione fra le diverse culture21. È interessante ricordare che l’anno successivo alla pubblicazione di Lincos, il 1961, vide la formulazione della cosiddetta equazione di Drake (o formula di Green Bank) da parte dell’astronomo e astrofisico Frank Drake, di cui si è già parlato. Dagli anni ’60 a oggi sono stati fatti molti altri tentativi, ivi compresa la preparazione di time capsules contenenti brani musicali, formule matematiche e ogni sorta di testimonianze terrestri, di cui finora però non è stato possibile verificare l’efficacia22. Per quanto riguarda i linguaggi alieni, a meno che non vogliamo credere che ne facciano parte l’antico maya o i geroglifici egiziani, come qualcuno afferma23, dovremo affidarci per ora all’immaginazione, dunque soprattutto alla filmografia e alla letteratura; del resto, “science fiction words have officially entered the English tongue”, e lo stesso Oxford English Dictionary include fra le sue voci “Godzilla” e spiega che la serie Star Wars “has made ‘droid’ a synonim for ‘robot’, and […] President Ronald Reagan’s 1983 antimissile Strategic Defense Initiative is called ‘Star Wars’” (Perkowitz 2007: 13). Anche espressioni come “the Matrix” o “May the Force be with you” sono entrate nel linguaggio comune, perlomeno in quello dei fan. 21 Roger Williams, A Key into the Language of America (1643), in (20/09/2015). 22 Il sito come dice il nome contiene dieci proposte diverse per comunicare con gli alieni (30/03/2015). Si veda anche il più scientifico: (30/03/2015). 23 (30/03/2015).
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H. Beam Piper, in un suo saggio incluso in un’antologia curata da Asimov24, si pone il problema di svelare il segreto della lingua (e della scrittura) dell’ormai morta civiltà marziana, mentre Samuel Delany fa affrontare ai personaggi del suo racconto “Babel-17”25 la decodificazione del linguaggio alieno che dà il titolo al racconto stesso, dalla cui conoscenza dipendono le sorti di una guerra stellare, e presenta anche un’altra lingua aliena, quella parlata sul pianeta Ciribia-IV, nella quale esistono tre forme della parola “io” a seconda della temperatura del corpo. Robert Shekley, invece, pone il dubbio di una “sostanziale intraducibilità delle lingue aliene” nel racconto “Shall we have a little talk? (Mun mun)”, la cui lingua – Hon – resta incomprensibile nonostante tutti gli sforzi dei personaggi in quanto muta continuamente: a suo confronto l’inglese è un “ghiacciaio eterno” (Giovannoli 1982: 22, 23)26. Sheckley, per così dire, “rivendica la totale alterità dell’alieno, la sintassi del quale […] sembra essere definita negativamente a partire dalle strutture sintattiche umane e terrestri (che forse sono soltanto quelle occidentali e moderne) […] Alieno è ciò che parla una lingua diversa da quella delle disgiunzioni esclusive, che ci costringe ad abbandonare quella lingua” (Ibidem: 29). Nel suo racconto “The Language of Love” (1957), poi, il popolo del pianeta Tyana II ha un linguaggio specifico per esprimere l’amore in tutte le sue varietà e sfumature; il problema è che gli abitanti sono sul punto di estinguersi perché parlano d’amore anziché riprodursi (Cain e Conley 2006). Tra i casi citati dalla vastissima Encyclopedia of Fictional and Fantastic Languages vale la pena ricordare, ancora, il racconto lungo “First Contact” (1945) di Murray Leinster, per il suo modo molto atipico di rappresentare il linguaggio degli alieni: questi ultimi infatti comunicano tra loro attraverso microonde, sebbene sia gli umani sia gli alieni siano convinti che gli altri comunicano tra loro usando la telepatia (cit. in Cain e Conley 2006), e il film The Fifth Element di Luc Besson (1997), dove la bellissima aliena di nome Leeloo Mina Lekatariba Laminatcha Ekbat D Sebat “speaks a hurried, vowel-rich tongue […] the divine language, the ancient language, spoken throughout the universe before time was time” (Ibidem: 68). Alcune frasi vengono tradotte nel corso del film, come ad esempio “Akta Gamat”, che significa “mai senza il mio permesso”. Tra i linguaggi alieni che troviamo nei romanzi uno dei più famosi è il “‘monotonous crying’ of the dying Martian – ‘Ulla, ulla, ulla, ulla’” (Markley 2005: 124) in The War of the Worlds di H. G. Wells, su cui ritorneremo: un grido disumano, simile a un verso d’animale, non interpretabile e tanto inquietante che si decise di non includerlo nel radiodramma che ne trasse Welles nel 1938 per paura di turbare 24 H. Beam Piper, “Omnilingual”, in Asimov (ed.) 1971. 25 Samuel Delany, “Babel-17” (1966), Galassia 143, 1971. 26 Nel volumetto di Giovannoli sono inclusi un’interessante Appendice intitolata “Alcune lingue aliene” (pp. 24-18) e un capitolo dal titolo “La sintassi dell’alieno” (pp. 29-35).
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eccessivamente i radioascoltatori. Tra le frasi aliene presenti nei film di fantascienza e poi diventate celebri, una delle più citate (per es. Perkowitz 2007: 13) è “Klaatu barada nikto!”, pronunciata nel film The Day the Earth Stood Still (1951) quando l’alieno Klaatu27 (un umanoide che si esprime in perfetto inglese) spiega alla terrestre Helen Benson, la quale gli ha offerto rifugio, che se dovesse succedergli qualcosa dovrà dire le suddette parole al robot Gort in modo che lo faccia rivivere (anche se solo temporaneamente) e possa così impedire che la Terra venga distrutta. Un articolo di Tauna le Marbe pubblicato sulla rivista Fantastic Films nel 1978 (“The Language of Klaatu”) si spinge a cercare di comprenderne il significato letterale. Ma più spesso il linguaggio alieno rimane incomprensibile e inquietante; in questi casi “The sounds referred to alien creatures create a sinister aural motif ” (Sobchack 1980: 216) allo scopo di aumentare il senso di alterità e di minaccia. Se andiamo più indietro nel tempo, troviamo Cyrano de Bergerac, il quale in L’autre mond: Les Etats et Empires de la Lune (1649, pubblicato postumo nel 1656) divideva la popolazione della Luna in due classi sociali: i nobili, che parlano una lingua musicale, e il popolo, che si esprime con una lingua gestuale (Marrone 2004); e in Les Etats et Empires du Soleil (1650-1655, pubblicato postumo nel 1662) scriveva che su uno dei pianetini che girano intorno al Sole “si sente parlare una lingua armonica, euritmica e secondo natura, tale che, senza bisogno d’impararla, la si poteva capire immediatamente” (Ibidem: 35). Mentre nel primo caso l’incomprensibilità è funzionale al racconto, e incoraggia addirittura uno studio per la sua comprensione, nel secondo caso le lingue aliene riportano al mito della protolingua, o della lingua pre-babelica, una lingua immaginata come armoniosa e universale. Un altro esempio interessante lo offre il “lunariano” del vescovo inglese Francis Godwin. Si tratta della lingua aliena che incontriamo nel suo libro The Man in the Moone, pubblicato postumo a Londra nel 1638: un idioma parlato su tutto il satellite, che non assomiglia a nessun’altra lingua conosciuta e non è fatto di parole e lettere, ma di toni e di strani suoni (Marrone 2004). Più tardi nello stesso secolo sia Fontenelle sia Huygens ipotizzano che gli altri pianeti siano abitati, e questo include “la possibilità di innumerevoli altre lingue, di molti diversi modi di comunicare o di non comunicare” (Ibidem: 188). A metà del Settecento un certo François-Annibal Chevalier de Béthune pubblica a Parigi la Rélation du Monde de Mercure (1750), dove gli abitanti di Mercurio vengono descritti come membri di un’umanità superiore, in armonia con la natura, in grado di parlare con gli animali in una lingua naturale fatta di gesti e non di parole: non possedendo la voce, infatti, essi si esprimono in un “linguaggio muto” fatto di espressioni del volto, azioni e posture che permettono loro di comunicare “altrettanto bene di come facciamo noi con le parole” (Ibidem: 189). 27 Come si è visto nell’Introduzione, Klaatu ha ispirato anche un gruppo musicale pop.
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Più recentemente, vale la pena citare la trilogia28 dell’americana Suzette Haden Elgin, professore emerito di linguistica, dove al vertice della società troviamo la potente lobby dei linguisti, detentori del monopolio delle traduzioni da/nelle lingue extraterrestri, che ne tramanda il segreto di generazione in generazione, affiancata da un dipartimento occulto che sperimenta l’apprendimento di lingue aliene sui bambini terrestri, i quali però muoiono perché gli idiomi alieni distruggono il loro sistema nervoso (Marrone 2004). L’idioma cosmico di Star Trek, infine, è una lingua chiamata klingon, consistente in un miscuglio di yiddish e giapponese: A ideare il klingon fu Mark Okrand intorno al 1980 quando nella produzione del serial si sentì la necessità di far parlare agli extraterrestri una lingua aliena inaudita. Vennero creati quindi allo scopo un vocabolario, delle regole grammaticali e una sintassi del tipo oggetto-verbo-soggetto (tanto per fare al contrario del consueto soggetto-verbo-complemento), in modo che il risultato di tutto questo fosse un linguaggio dal suono il più possibile desueto all’orecchio umano29. Nel 1985 Okrand pubblicò addirittura Il dizionario di Klingon e successivamente le Conversazioni in Klingon. “Parli Klingon?” si dice “Tlingan khol da-gialt-A”; “Non capisco” si traduce “gi-YAGI-be”; “Guidami a bordo”, “khi-GIOL”, dove le maiuscole e le minuscole sembrano star a indicare le differenze tonali tipiche delle lingue orientali. Il Seicento utopico aveva già usato questo espediente come effetto estraniante per le sue lingue. Il successo del klingon comunque fu imprevedibile e i seguaci del “cult” Star Trek studiarono e cominciarono a parlare tra loro effettivamente questo linguaggio quasi esso fosse un contrassegno d’appartenenza al gruppo. Tanto che in alcuni istituti universitari statunitensi furono perfino intrapresi corsi informali sull’argomento mentre dei veri studiosi di linguaggio furono così attratti da questo gioco che alcuni di loro tentarono di cambiare alcune regole grammaticali del klingon mentre altri cercarono di modificarne la pronunzia. (Ibidem: 260-261)
È senz’altro opportuno anche tenere presente la nostra probabile inadeguatezza a comprendere messaggi provenienti da altri mondi. Pickover dedica un intero capitolo del suo libro The Science of Aliens alla “comunicazione”, ovvero alla possibile decifrazione di messaggi in codice, che potrebbero essere di tipo logico-matematico, ondulatorio-vibrazionale, o di tutt’altro genere. Nel capitolo sono inseriti cinque esercizi di auto-verifica (con soluzione) che l’autore pone al lettore: si tratta di cinque simulazioni di “alien messages” di cui lo stesso Pickover ammette la difficoltà: “Don’t feel bad if none of these messages are comprehensible to you, because far less than 0,0001 percent of the people on our planet could possibly recognize the significance of these alien signals” (1998: 150). 28 Native Tongue (1984), The Judas Rose (1987) ed Earthsong (1994). 29 Qui Marrone cita un articolo di P. Querio, “Star Trek inventa una nuova lingua”, La Stampa, 31/03/1993.
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Per concludere questa sezione, citiamo il CUFO (Center for UFO Studies), un gruppo internazionale di scienziati, accademici, ricercatori e volontari impegnato nell’analisi del fenomeno UFO allo scopo di promuovere un interesse scientifico serio e una ricerca rigorosamente documentata sulla materia. Sul fronte dei rapimenti, invece, vorrei spendere un’ultima parola relativamente alle storie narrate dalle donne: queste sono infatti estremamente interessanti da un punto di vista narratologico, al di là della loro verosimiglianza e/o autenticità, e sono così numerose da andar formando un piccolo corpus letterario che ha molte analogie con le captivity narratives americane di età coloniale (le storie di uomini e soprattutto donne rapiti dai nativi): un corpus che potrebbe offrire numerosi elementi di interesse per chi si occupa di gender studies e di letteratura del trauma. Infine, l’incontro con l’alieno spaziale può innescare reazioni di repulsione/rifiuto o viceversa processi di accoglienza/inclusione che vanno a interagire con quella che è stata definita theory of recognition (teoria sociale del riconoscimento) e che riguarda le politiche identitarie, di inclusione e il dibattito sull’eguaglianza30, anche se in questo contesto è più frequente il caso della misrecognition. È forse vero che tutte le narrazioni di un incontro con un alieno, fuori e dentro gli ambiti della letteratura e del cinema, in un modo o nell’altro “traducono il nostro desiderio di misurare, se non di creare, la distanza che ci separa dagli altri” (Fadda 2003: 12). 3.4. L’Area 51
Cominciamo con un numero: il 51, appunto. Andando a ritroso, il numero 50 rappresenta le stelle della bandiera statunitense (detta anche Stars and Stripes), indicanti (dopo l’annessione dell’Alaska e delle Hawaii nel 1959) i 50 stati dell’Unione. “51° stato” è un modo di riferirsi a un ipotetico stato supplementare degli USA a indicare un’eccessiva americanizzazione o influenza statunitense percepita come negativa. Questa espressione è stata utilizzata in modo provocatorio, ora per designare il Regno Unito (vedasi Heartland, una canzone del 1986 dei The The che ripete più volte “this is the 51st State/of the USA”), ora per indicare l’Italia (“Italia allo sbando: meglio diventare il 51esimo stato americano o essere inglobati da uno stato scandinavo?”, 4 novembre 2010; “Quasi un plebiscito, vittoria schiacciante dei SI al referendum in Italia per scegliere se aderire agli Stati Uniti d’America come cinquantunesimo stato”, 15 marzo 2014)31. Ma tale numero è legato soprattutto alla famosa e controversa Area 51, ovvero “il 51° stato americano, una terra di 30 Si vedano gli studi di Axel Honneth, Nancy Fraser e, più recentemente, S. Thompson 2006. 31 Rispettivamente: (04/02/2015) e: (04/02/2015).
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Alieni a stelle e strisce
nessuno controllata dai servizi segreti” (Bianchi 2003: 56) intorno alla quale sono nate nel corso degli anni ogni sorta di teorie del complotto e racconti più o meno fantasiosi32. Solo nel 1994 il Pentagono ne ha finalmente ammesso l’esistenza; e solo dopo la fine della Guerra Fredda, e dopo decenni di silenzi e smentite, il velo di segretezza ha cominciato a cadere. Difficile, poi, dire quanto sapessero circa l’esistenza e le funzioni dell’Area 51 gli stessi presidenti. Nel film Independence Day di Rolan Emmerich (1996) il presidente viene informato della sua esistenza solo quando gli alieni attaccano la Terra; ma questa, naturalmente, è la finzione. Il soprannome dell’Area 51 è “Dreamland”, una denominazione che nasce in ambito non militare ma letterario, ovvero dall’omonima poesia di Edgard Allan Poe in cui un viaggiatore passa attraverso un luogo, ma è come se non lo vedesse: By a route obscure and lonely, Haunted by ill angels only, […] I have reached these lands but newly […] But the traveller, travelling through it, May not – dare not openly view it; Never its mysteries are exposed To the weak human eye unclosed; So wills its King, who hath forbid The uplifting of the fring’d lid; And thus the sad Soul that here passes Beholds it but through darkened glasses. […]33.
Dreamland, tuttavia, è anche, più in generale, un termine che indica “la terra dei sogni, l’ultima Frontiera. […] Dreamland esisteva già, come simbolo dell’immaginario, ben prima dell’avvistamento segnalato dal pilota Kenneth Arnold il 24 giugno 1947”34. È superfluo, credo, ricordare la centralità del termine dream, “sogno”, nella storia e nell’immaginario americano, dall’American Dream che portò in America nel corso dei secoli milioni di emigranti in cerca di libertà e opportunità, fino al celebre discorso di Martin Luther King “I have a dream” (1963) e oltre. Sulla carta geografica, l’Area 51 consiste in una vasta zona desertica situata nel 32 In Italia ricordiamo i fumetti di Martin Mystère, creati nel 1982 da Alfredo Castelli, in cui l’Area 51 è un ramo di un’organizzazione chiamata “Altrove” dove ci sono “marziani, mutanti, esperimenti di telepatia” (Melati 2012: 19). 33 “Dreamland”, 1844. La poesia completa si può vedere in: . Si veda Piero Melati, “È Dreamland ma lì nascono le armi del futuro”, Il Venerdì di Repubblica, 20 gennaio 2012, pp. 18-20. 34 Ibidem, p. 19.
3. Incontri ravvicinati di quale tipo?
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Nevada, vicino alla distesa di sale chiamata Groome Lake, a 75 miglia a nord di Las Vegas; la sua posizione è stata a lungo tenuta segreta, tanto che non compariva neppure sulle mappe. Di sicuro oggi si sa che contiene (o conteneva) una base militare; c’è chi parla di laboratori sotterranei dove si effettuano (o effettuavano) test su attrezzature aeree o esperimenti nucleari, oppure si studiano (o studiavano) nuove tipologie di armi; altri invece parlano di ricerche sui dischi volanti e altri ancora sostengono che vi si trovino corpi mummificati di alieni. “Pietra miliare della cultura mitologica a stelle e strisce, l’Area 51 è al centro dell’universo degli ufologi, è il palcoscenico dove si rappresentano decine di balletti i cui protagonisti sono gli alieni, gli agenti segreti del governo americano, gli scienziati e i militari”35: così viene descritta l’Area 51 in un articolo uscito su Panorama nel 2013. Secondo le notizie ufficiali, la base militare divenne attiva nel 1955; ospitava i prototipi di aerei spia (U2), e per questa ragione la gente credette di vedere gli UFO. Nel 1957 fu evacuata per permettervi l’effettuazione di esperimenti atomici (nel 1946 era stato varato l’Atomic Energy Act); in seguito ospitò un nuovo progetto (sull’aereo da ricognizione A-12) e continuò le sperimentazioni sugli aerei militari nei decenni seguenti (per esempio lo Stealth F117). Coloro che non accettano le spiegazioni della storia ufficiale hanno creato una serie nutrita di teorie della cospirazione, che si possono fondamentalmente riunire in due tipologie. Da un lato si è parlato di sperimentazione di armi laser o a energia, di tecnologie per il controllo dei cambiamenti climatici e di ricerche dedicate alla possibilità di viaggiare nel tempo o al teletrasporto. Dall’altro, si sostiene che il governo ha sempre voluto nascondere le scoperte sugli alieni. In particolare, si tratterebbe delle analisi condotte sui corpi di alcuni visitatori spaziali rinvenuti tra i resti dell’astronave caduta il 7 luglio 1947 a Roswell, New Mexico; e c’è anche chi ipotizza che vi siano state svolte le riunioni del Governo Occulto Mondiale, che, insieme agli alieni che da tempo coabitano con gli umani sul nostro pianeta, controlla la vita di tutti i terrestri. C’è in realtà anche una terza categoria di persone convinte che l’Area 51 sia stata il set cinematografico su cui il governo americano avrebbe messo in scena lo sbarco sulla Luna (con Stanley Kubrick come consulente alla regia), che in realtà non si sarebbe mai verificato. Tra le altre, Panorama riporta la testimonianza di un lavoratore nell’Area 51, Bob Lazar di Las Vegas36, citato anche nel documentario Dreamland: Area 51 (1996); egli racconta la sperimentazione di una collaborazione fra alieni e umani basata su un sistema di comunicazione telepatica37 e menziona il caso 35 Articolo del 23 agosto 2013, in: (04/02/2015). 36 Per approfondimenti: (10/09/2015). 37 Per approfondimenti: (04/02/2015). 38 Per approfondimenti: (04/02/2015). 39 Angelo Aquaro, “Nella base del mistero dove dormono i segreti d’America”, Il Venerdì di Repubblica, 20 gennaio 2012, pp. 14-18.
3. Incontri ravvicinati di quale tipo?
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libro ha suscitato pareri diversi tra cui molte critiche di sensazionalismo, e molte testate giornalistiche vi hanno evidenziato errori e inesattezze. Tuttavia, ai nostri fini si tratta di uno studio importante in quanto, nel tentativo di gettar luce sui misteriosi “alieni” dell’Area 51, apre in realtà la via a nuovi dubbi e nuove incertezze nonché a nuove riflessioni sul tema dell’Altro. Ha sollevato molta eco, ancor più recentemente, una dichiarazione rilasciata poco prima di morire da Boyd Bushman (28 ottobre 2014). Si tratta di una confessione-video in cui lo scienziato descrive con dettagliata precisione UFO e alieni e mostra fotografie scattate negli anni in cui lavorò nell’Area 5140. In precedenza, altri video erano stati girati sull’argomento; fra questi, destò parecchio scalpore quello riguardante Ed Slade (ex lavoratore nell’Area 51, definito più volte “serious” e “superpatriot” dal presentatore del video, Glenn Canady), ucciso, pare, mentre svolgeva indagini41. Ed Slade era stato il progettista del razzo per il modulo lunare che avrebbe dovuto portare i primi astronauti sulla Luna; quando questo non fu usato capì che la NASA era ricorsa a una tecnologia legata agli studi di Nikola Tesla – ingegnere e inventore serbo naturalizzato americano – e iniziò a fare domande, ragione per cui fu allontanato con garbo. Le sue ricerche nell’Area 51 lo portarono a formulare l’ipotesi che gli alieni ivi conservati fossero in realtà gli Angeli Caduti (Fallen Angels) di cui parla la Bibbia. Morì in circostanze misteriose, vittima, si dice, dell’esposizione a microonde dannose per il cervello; c’è chi parla di omicidio di stato42. Per concludere, tra le leggende che riguardano i presidenti si inizia con George Washington, il quale, in un ritratto, ha alle spalle una specie di astronave e racconta egli stesso di essere stato “visitato” da misteriose creature nel 1777 mentre si trovava a Valley Forge. La visione del primo presidente degli USA, pubblicata oltre un secolo dopo, ha incoraggiato ipotesi aliene oltre che interpretazioni in chiave mistico-religiosa o massonica. Ecco l’incipit: I do not know whether it is owing to the anxiety of my mind, or what, but this afternoon, as I was sitting at this table engaged in preparing a dispatch, something in the apartment seemed to disturb me. Looking up, I beheld standing opposite me a singularly beautiful being. So astonished was I, for I had given strict orders not to be disturbed that it was some moments before I found language to inquire the cause of the visit. A second, a third, and even a fourth time did I repeat my question, but received no answer from my mysterious visitor except a slight raising of the eyes. By this time I felt strange sensations spreading through me. I would have risen but the riveted gaze of the being before me rendered volition 40 (04/02/2015). 41 e (04/02/2015). 42 (04/02/2015).
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impossible. I assayed once more to speak, but my tongue had become useless, as if paralyzed. A new influence, mysterious, potent, irresistible, took possession of me. All I could do was to gaze steadily, vacantly at my unknown visitor43.
Il racconto prosegue con l’ospite misterioso che mostra a Washington la potenza futura dell’America e l’assetto mondiale. Fra i presidenti più recentemente connessi agli alieni ricordiamo Richard Nixon44 e Jimmy Carter45, e soprattutto Dwight Eisenhower, il quale secondo alcune fonti sarebbe stato invitato a incontrare leader alieni in più occasioni; per esempio, tra il 17 e il 24 febbraio 1954, mentre si trovava a Palm Springs, egli scomparve misteriosamente46, e c’è chi sostiene abbia avuto tre incontri segreti con delegazioni aliene47.
43 (21/03/2015). Si veda l’ebook Final Warning: A History of the New World Order Part One di David Allen Rivera (2004), che riporta il racconto per intero. 44 (21/03/2015). 45 (21/03/2015). 46 (21/03/2015). 47 (21/03/2015).
PARTE II
4. UN CANONE MARZIANO
If he who looks upon the stars Through the red atmosphere of Mars Could see our little creeping ball Across the disk of crimson crawl As I our sister planet see… (Oliver Wendell Holmes, The Flâneur, 1882)
4.1. Mars World Lit
Anche sul fronte della scrittura creativa, Marte si è rivelato una fonte inesauribile di idee e ha offerto un panorama – sebbene spesso più visionario che realistico o verosimile – di notevole interesse. Se è vero che solo di recente è stato dichiarato che “the time seems to have come for a history of the literary images and narratives of Mars […] The range of Martian literature has not been fully grasped” (Crossley 2011: ix, 4), già Robert Markley nel suo ampio ed esaustivo Dying Planet (2005) aveva colto la grande importanza che la fantascienza e la letteratura in generale hanno rivestito nella strutturazione del discorso – scientifico, divulgativo, culturale – su Marte, facendo la scelta coraggiosa e suggestiva di alternare i capitoli del suo libro in modo che a un capitolo “scientifico” ne segua uno “letterario” e viceversa. In questo modo, favorisce la comprensione delle numerose connessioni esistenti fra l’immaginazione degli autori e le scoperte in ambito astronomico, fisico o biologico. Tali connessioni operano in due sensi: talvolta la realtà nutre per così dire la fantasia, talvolta invece è quest’ultima a dare l’input o perlomeno a intuire ciò che potrebbe accadere nella realtà. Inoltre, tramite le pagine dei romanzi o le scene dei
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Alieni a stelle e strisce
film ci vengono offerti gli strumenti per comprendere meglio il contesto storicosociale a cui si riferiscono, illuminando periodi e geografie e dialogando con le istanze più significative delle varie epoche. Un esempio. Nel terzo volume di Robinson Crusoe, intitolato “Serious Reflections” (1719), lo scrittore britannico Daniel Defoe descrive Marte mediante un dialogo fra Robinson e un amico, in cui i due discutono sulla nozione di abitabilità e diversità dei mondi. Marte vi viene definito arido, poco illuminato, privo di piogge, vapore acqueo e rugiada, in poche parole inabitabile. La sua descrizione, a una lettura superficiale, potrebbe sembrare di scarso interesse; eppure, come ha osservato Markley, essa “registers some of the crucial concerns of eighteenth- and nineteenth-century thinkers who speculated about the possibility of life on the planet” (2005: 31). A volte la letteratura ha anticipato addirittura le scoperte scientifiche, come nel caso delle due lune di Marte, che, come si è visto, furono descritte già nel 1726 da Jonathan Swift nei Gulliver’s Travels e nel 1752 da Voltaire in Micromégas, oppure come nel caso del viaggio sulla Luna (dall’America, e con un equipaggio di tre uomini) profetizzato da Jules Verne (Dalla Terra alla Luna) nel 1865, oppure nel primo viaggio su Marte, descritto nel romanzo utopico Across the Zodiac dello scrittore britannico Percy Greg (1880), dove troviamo per la prima volta la parola “astronaut”: un romanzo il cui protagonista esclama, appena giunto sul pianeta: “All that Columbus can have felt when he first set foot on a new hemisphere I felt in tenfold force” (cit. in Crossley 2011: 44). Siamo in piena epoca vittoriana, e “Mars naturally enough becomes an extension of or parallel to Victoria’s empire” (Ibidem). Altre volte, invece, l’interesse per il Pianeta Rosso ha rappresentato un’occasione per parlare dei problemi dell’umanità, come avvenne nel 1901 quando lo scrittore austriaco Otto Dross pubblicò il citato Marte, un mondo in lotta per la sopravvivenza o come quando, pochi anni prima, il tedesco Kurd Lasswitz, nel romanzo Su due pianeti (1897), aveva descritto una civiltà marziana avanzata i cui abitanti stavano esaurendo l’acqua e si nutrivano di cibi sintetici. Senza contare la satira (anonima) Politics and Life on Mars. A Story of a Neighbouring Planet (1883), in cui “This wise and happy Martial people nationalised the land, or rather the water, for they lived in the water”1, o le descrizioni (mozzafiato) dell’anonimo autore di The Fantastical Excursion into the Planets (1839), che raffigurano un “darkly monumental landscape” tale da far pensare al Paradise Lost di Milton (Crossley 2011: 33). Un altro elemento da tenere in considerazione è la caratterizzazione prevalentemente maschile di questa narrativa. Non mancano, beninteso, scrittrici che 1 (25/03/2015).
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scelgono Marte come fulcro dei loro racconti e romanzi (anzi, incontreremo diverse autrici), ma in genere le narrazioni riflettono un modello maschile e maschilista, prevedendo, nella maggior parte dei casi, uno o più viaggiatori maschi i quali spesso incontrano principesse (o comunque personaggi femminili di un certo fascino o carisma) su Marte, e questo avviene anche nella produzione protofemminista (Crossley 2011). Poiché Marte, come si è più volte detto, costituisce a livello di immaginario una sorta di nuova Frontiera, è logico che “the masculinist romancers of Mars add the frontiersman ethos of American westward expansionism” (Crossley 2011: 153). Il fatto stesso, poi, che i presunti marziani riflettano spesso a livello di genere la stessa suddivisione dei terrestri dà già un’idea del forte pregiudizio di base che sottende la narrazione, anche se ci sono casi in cui gli alieni non sono sessualmente riconoscibili secondo le medesime categorie dei terrestri. Troveremo questa caratterizzazione anche nella narrativa più recente, quella che riguarda cioè (come il romanzo The Martian di Andy Weir) la sopravvivenza dell’umano su Marte, poiché “Alpha-males in the Martian romances are all committed believers in the survival of the fit, biologically and socially” (Ibidem: 161). Muovendosi fra le visioni opposte dell’utopia e della distopia, fra la speranza di un mondo migliore e le più amare tensioni apocalittiche, il fin de siècle britannico vede uscire da un lato A Plunge into Space (1890) di Robert Cromie, un tipico romanzo utopico, dall’altro Honeymoon in Space (1900) di George C. Griffith, che descrive lo scontro spaziale con una società che ha eliminato le emozioni2. Nell’Europa continentale danno la propria versione immaginifica di Marte altri scrittori, tra cui i francesi Camille Flammarion, autore di Uranie (1889), dove le anime dei defunti rinascono sotto forma di organismi marziani, e Gustave Le Rouge, che pubblica Le Prisonnier de la planète Mars nel 1908. Nello stesso anno il sovietico Aleksandr Aleksandrovic Bogdanov pubblica Krasnaja zvezda (La stella rossa), ambientato, come il suo seguito Inžener Menni (L’ingegner Menni, 1912), in un’utopica società marziana socialista. Ma l’opera più nota e significativa dell’epoca è The War of the Worlds dello scrittore inglese H. G. Wells, pubblicata a puntate nel 1897 e in volume nel 1898, uno dei primi esempi di invasione extraterrestre nella letteratura. I marziani sono non solo tecnologicamente avanzati, ma crudeli e invulnerabili alle armi degli umani, salvo venire finalmente uccisi dai batteri presenti nell’atmosfera terrestre. Il romanzo è stato visto come un’accusa del colonialismo e ha dato origine a una quantità di adattamenti, sequels, riscritture e imitazioni, come vedremo nel capitolo settimo. 2 G. C. Griffith, Honeymoon in Space (1901), in: (17/02/2015).
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Proseguendo nel XX secolo, lo scrittore russo Aleksej Tolstoj pubblica nel 1922 il romanzo Aelita, o il declino di Marte (tradotto in Italia solo nel 1982), “a restaging of the 1905 revolution on Mars” (Markley 2005: 146). Il romanzo ha un tale successo che il nome della protagonista diventa di moda e viene dato a moltissime bambine. Nel 1924 il regista Jakov Protazanov ne trae il film omonimo, considerato il primo kolossal sovietico di fantascienza. La vicenda narra di due sovietici che vanno su Marte, dove trovano vita intelligente e, reduci dalla Rivoluzione d’Ottobre, cercano di rovesciare la tirannia che lo governa. Uno dei due si innamora di Aelita, una ragazza dalla pelle azzurra, e resta con lei sul pianeta, dove però li attende una fine tragica. Si scopre anche che la popolazione marziana discende da Atlantide, ed era partita molto tempo prima dalla Terra. Il britannico Olaf Stapledon pubblica invece nel 1930 Last and First Men: A Story of the Near and Far Future, dove i marziani hanno la forma di nuvole e la capacità di comunicare telepaticamente, costituendo un’unica coscienza collettiva sul loro pianeta. Marte prova a invadere la Terra, ma i terrestri riescono a battere gli alieni, anche perché i marziani che arrivano sul nostro pianeta fuoriescono dalla mente comune e iniziano a concepire pensieri propri. La vittoria è però fatale ai terrestri, poiché le molecole delle nubi marziane, che si disperdono sul loro pianeta, sono tossiche e causano il declino dell’umanità. Tuttavia, nelle ere successive, molte specie animali – comprese nuove specie umane – si adatteranno alle nuove sostanze includendole nel proprio corpo, e assumendo così a loro volta capacità telepatiche. Nel 1937, con il romanzo Star Begotten, H. G. Wells modifica radicalmente l’immagine dei marziani che aveva delineato in The War of the Worlds: qui i marziani – che non appaiono mai nella narrazione, ma le cui caratteristiche vengono dedotte dai personaggi mediante un ragionamento logico-deduttivo – sono descritti come una sorta di fratelli maggiori e più saggi degli umani, di cui guidano a distanza l’evoluzione mediante una dosata irradiazione di raggi cosmici. L’anno successivo Clive Staples Lewis (oggi più noto come l’autore delle Chronicles of Narnia) pubblica una Space Trilogy di cui fa parte Out of the Silent Planet (1938). Vi si narra di tre uomini, Weston, Devine e Ransom, che compiono un viaggio interplanetario dalla Terra a Marte (chiamato Malacandra nel racconto). Ransom, il quale era stato portato con la forza da Weston e Devine sul Pianeta Rosso per essere consegnato ai suoi abitanti, i sorns, riesce comunque a fuggire, e così scopre la geologia, la flora, la fauna e le culture presenti su Malacandra e viene a conoscenza della relazione fra la Terra (chiamata Thulcandra, ovvero “pianeta silenzioso”) e gli altri pianeti e forme di vita presenti nel sistema solare. La lista potrebbe continuare, ma ci porterebbe fuori tema e richiederebbe troppo spazio. Dovendo operare delle scelte, preferisco concentrarmi ora sul Canone americano, diversamente da Crossley che mescola autori inglesi e americani
4. Un Canone marziano
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e talvolta inserisce anche traduzioni di autori di diverse nazionalità. Pur apprezzando la sua scelta, che va nella direzione di una più ampia world literature, seppure limitata a un medesimo contesto linguistico, ho preferito concentrarmi sulla letteratura degli Stati Uniti per non perdere quei riferimenti storici e culturali specifici della storia americana (coloniale e postcoloniale) che invece ritengo centrali nella trattazione dei testi presi in esame e del “marziano” come fenomeno culturale americano. Certamente Marte continua ad apparire qua e là nelle narrazioni di tutti i Paesi, interpretando le ansie, le paure, le speranze del momento e del luogo e facendo proprie le istanze e le preoccupazioni politiche, sociali, ambientali. Parallelamente, il progredire dell’esplorazione spaziale se da un lato tiene vivo l’interesse per il pianeta, che appare sempre più vicino, dall’altro lo sottrae sempre più al mondo della pura immaginazione e della speculazione. Per riprendere il filo della nostra ricerca e ritrovare il senso di genuina meraviglia nei confronti dei misteri del cosmo propongo dunque, a questo punto, di tornare indietro di alcuni secoli, nell’America coloniale. 4.2. Nel Nuovo Mondo: The Wonders of the Invisible World e gli almanacchi
Nella letteratura angloamericana, l’interesse della scrittura creativa per Marte risale, di fatto, all’Ottocento. È molto interessante tuttavia studiarne i prodromi: andremo dunque indietro di un ulteriore paio di secoli per osservare come iniziò, nel Nuovo Mondo, la curiosità per lo Spazio Profondo. È bene innanzitutto precisare che Spazio e Cielo (nel senso di Heaven) sono coincidenti per i primi colonizzatori del New England. Religiosissimi, perseguitati in patria e qui tenaci difensori della loro comunità di eletti, i Pilgrim Fathers prima e i puritani di Winthrop poi si ispirano alla Bibbia per trarre conforto, informazioni, immagini e simboli relativi alla realtà che li circonda. Le foreste, i fiumi e le montagne di queste terre selvagge sono definite con un unico vocabolo: wilderness, come il deserto nel quale, nel Nuovo Testamento, Cristo fu tentato dal demonio. Allo stesso modo, infatti, essi devono guardarsi dalle tentazioni offerte da ciò che vi si può celare, siano uomini, animali, piante, pericoli tangibili insomma, sia un invisible world che sfida tanto la ragione quanto la fede. Per capire meglio questo punto possiamo tracciare un’analogia con il personaggio di Prospero, il quale (in The Tempest di William Shakespeare3, 1611) è talmente preoccupato per i mostri che può incontrare sull’isola dove è naufragato che chiede alla divinità “to guarantee permanent control over the natural world and its potential aliens” (Slusser e Rabkin 1987: 8). 3 Per inciso: Shakespeare conosce Marte, al punto che ne cita il moto retrogrado in All’s Well That Ends Well (1602-1603).
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Il fatto che un trattato dal titolo così evocativo come The Wonders of the Invisible World (Cotton Mather, 1693) riporti come sottotitolo “Being an account of the tryals of several witches lately executed in New England”4 ci fa comprendere quale fosse l’atteggiamento puritano nei confronti di tutto ciò che pure veniva definito wonder: in realtà, nulla di “meraviglioso”, di “ammirevole”, di “sorprendente” in senso positivo, ma al contrario tutto ciò che si poteva collegare alla stregoneria (witchcraft), alla superstizione, ai riti pagani, alla magia. Di qui ai processi, e alle esecuzioni, il passo è breve: chi veniva condannato ed eliminato era in realtà Satana, poiché era lui il vero colpevole. Le persecuzioni, iniziate nel 1691 a Salem in seguito allo strano comportamento di due ragazze (subito interpretato come opera del demonio), si propagarono presto in tutto il Massachusetts e durarono quasi un anno, portando alla tortura e alla prigionia centinaia di persone (nella maggioranza donne) di cui venti furono giustiziate. Cotton Mather (pastore protestante e medico: era stato lui a portare le vaccinazioni nelle colonie) nella sua trattazione non difende le vittime, ma si esprime contro i metodi utilizzati, ritenendoli troppo duri; del resto, è convinto assertore che gli spiriti siano creature del diavolo, e che siano reali, non frutto di fantasie allucinatorie. I suoi scritti ebbero comunque il risultato di accelerare la fine delle persecuzioni. L’idea stessa che un invisible world esista e sia abitato (da qualcosa o qualcuno) ci fa capire molto della mentalità del tempo. In un’epoca in cui ancora poco (o nulla) si sapeva di malattie come l’epilessia, la depressione, l’isteria, e in un territorio in cui i confini tra wilderness e civilization andavano continuamente ridefiniti, i processi alle streghe e le accuse di possessione furono la conseguenza estremizzata di quella che Sacvan Bercovitch, il massimo studioso del puritanesimo americano, giustamente interpreta come l’ansia che Dio potesse abbandonare il suo popolo (1980); e offrono, a ben vedere, al moderno ricercatore molti punti di analogia con le narrazioni moderne di avvistamenti UFO e di abductions, e perfino con le fantasie di invasioni aliene. Un esempio interessante del tentativo (o meglio, del progetto) di ricollegare tutto a Dio, senza lasciare spazi di dubbio o di fraintendimenti, nelle fessure dei quali potrebbe insinuarsi una visione pagana (o scientifica), è offerto da un capitolo del Magnalia Christi Americana intitolato “The Voice of God in the Thunder” (1703), dove Cotton Mather spiega un fenomeno atmosferico come il tuono in termini metafisici: FIRST, it is to be premised, as herein implied and confessed, that the thunder is the work of the glorious God. It is true, that the thunder is a natural production, and by the common laws of matter and motion it is produced; there is in it a concourse 4 Cotton Mather, The Wonder of the Invisible World (1693), ed. by Reiner Smolinsky, in (20/09/2015).
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of divers weighty clouds, clashing and breaking one against another, from whence arises a mighty sound? which grows yet more mighty by its resonancies. The subtil and sulphureous vapours among these clouds take fire in this combustion, and lightnings are thence darted forth; which, when they are somewhat grosser, are fulminated with an irresistible violence upon our territories. […] But, still, who is the author of those laws, according whereunto things are thus moved into thunder? yea, who is the first mover of them? Christians, ’tis our glorious God5.
Se andiamo indietro di qualche decennio, troveremo il padre di Cotton, Increase Mather, anch’egli pastore protestante e scrittore: con lui ci avviciniamo ancor di più all’oggetto del nostro discorso. Egli rivela, infatti, un crescente interesse per l’astronomia, sollecitato dal passaggio delle comete del 1680 e 1682. Il suo approccio, analogamente a quello che avrà suo figlio, non è certo scientifico, ma è finalizzato a provocare il terrore nei suoi ascoltatori: In November of 1680, a large comet appeared in the morning sky over Boston. Visible over New England until mid-February, this blazing star prompted the Reverend Increase Mather to provide the Puritans of Boston with a theological explanation of the phenomenon. In the sermon Heaven’s Alarm to the World (1681), Mather sternly views the appearance of this comet as being a sign of God’s displeasure and a herald of some mysterious calamity destined to fall upon the Boston populace. Less than two years later a second comet appeared over Boston, again prompting Mather to deliver a sermon concerning the divine and portentous nature of comets. While this second sermon, The Voice of God in Signal Providences (1682), retains much of the traditional theology evident in the first, Mather’s reading of the heavenly sign here undergoes an interpretive shift. The minister adapts his rhetorical position to acknowledge what he sees as a linguistic component to the comet’s presence. […] Although Mather was familiar with conventional scientific thought prior to the appearance of the comet of 1680, his first comet sermon, Heaven’s Alarm, reflects little scientific analysis. Instead, it relies on Biblical references and highly charged theological implications to direct the significance of the comet beyond the realm of natural phenomenon to that of prophetic wonder6.
Le “extraordinary stars sometimes appearing in the heavens” e i “fearful sights” di cui parla Increase Mather offrono lo spunto per ricollegarci a un altro genere letterario dell’epoca, solitamente poco studiato, ma che invece a noi interessa molto: quello degli almanacchi, che ci danno numerose indicazioni sulle conoscenze 5 Cotton Mather, Magnalia Christi Americana (1703), in: (06/02/2015). 6 Andrew P. Williams, “Shifting Signs: Increase Mather and the Comets of 1680 and 1682”, Early Modern Literary Studies 1.3 (1995): 4.1-34, in: (06/02/2015).
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astronomiche e astrologiche del tempo e riflettono, tra il 1650 e il 1800, “the rise of the Enlightenment in America”7. Pur presentando nozioni scientifiche in modo estremamente semplificato e divulgativo, essi sono una miniera preziosa per comprendere la cultura early American: Almanacs were written by and for people of every class. Their necessity was universal, and their content reflects all levels of American society. The almanac (from the Arabic word for “a timetable of skies”) has a distinguished history in America […] Almanacs came to the New World in 1639, when William Pierce published his Almanack Calculated for New England. […] almanacs included astronomical data, poetry, and assorted municipal information. Most contained sixteen pages – a cover, introduction, twelve calendar months with astronomical charts, and two miscellaneous pages that often included an astronomical essay8.
Gli almanacchi furono molto in voga anche durante l’età illuministica e, in un certo qual modo, servirono “to translate the latest findings about the universe for the reader” (Ruffin 1997: 308). In particolare, essi giocarono un ruolo importante nel dibattito fra modello geocentrico (tolemaico) ed eliocentrico (copernicano): Most importantly, almanacs dealt profusely with astronomy and astrology, each of which changed profoundly with the new science. Almanacs from the latter half of the seventeenth century and the eighteenth century reflect many new scientific ideas, including the increasing empiricism in astronomy and astrology. But common Americans often did not accept these new concepts, and many almanacs continued to advance traditional ideas. Through their commentary on astronomy and astrology, almanacs reflect the progress of the Enlightenment in America and the tension between common people and scientists. One of the greatest manifestations of the Enlightenment was the debate over the structure of the universe9.
Gli almanacchi restarono a lungo legati al modello geocentrico, e fu solo tra gli anni ’20 e ’30 del Settecento che iniziarono a spostarsi verso il nuovo modello che, tuttavia, rimaneva ostico per la gente comune. D’altra parte, già da tempo lo stesso Cotton Mather, che come abbiamo visto era teologo e scienziato, sosteneva che la religione e la scienza potevano coesistere, cosicché si finì per creare quella che è stata definita “a hybrid cosmology that, while gradually introducing new scientific thought, neither contradicted their secular knowledge nor offended their spiritual beliefs” (Ruffin 1997: 312). I tempi erano ormai maturi per adottare uno sguardo più scientifico sul cosmo, 7 Daniel Winik, “‘Information of the Unlearned’: The Enlightenment in Early American Almanacs, 1650-1800”, in: p. 174. 8 Ibidem, p. 162. 9 Ibidem, p. 163.
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e la “novel conception of the universe” si sostituì gradualmente alla nozione di “divinity and the heavens”10. Tuttavia la posizione critica che i puritani avevano avuto verso il soprannaturale fu condivisa dagli illuministi, sebbene per ragioni diverse: negli anni ’30 e ’40, gli anni del cosiddetto Great Awakening, un periodo d’intensa rivitalizzazione religiosa, “The liberal New Lights rejected the notion of divine intervention, and the conservative Old Lights viewed the occult as subversive to the power of God” (Eisenstadt 1998: 146). Intanto Benjamin Franklin – inventore, scienziato, politico (nonché uno dei Padri Fondatori firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza), – il quale nel suo almanacco parlò di “Stars unnumber’d” e “Planets in pure Streams of Ether driven”11, prendeva una chiara posizione contro gli astrologi: “Through mocking satire, Franklin suggested that astrology was a fallen art”12. Eppure l’astrologia, che si può definire l’arte di collegare alle stelle gli eventi umani, aveva rivestito un ruolo eccezionale negli almanacchi e nella cultura popolare. I puritani erano abituati a interpretare eventi, fenomeni metereologici, malattie, successi e insuccessi come metafore, o meglio, allegorie del volere divino; e anche se l’astrologia usciva dai confini del “lecito”, ed era anzi percepita come opera del demonio, si trattava pur sempre di utilizzare linguaggi simbolici, di tracciare analogie, di cercare spiegazioni ai misteri della realtà nell’ambito di una dimensione non immediatamente percepibile. Inoltre l’astrologia aveva anche risvolti pratici, se non propriamente scientifici: comprendeva infatti – a fianco dell’astrologia “occulta”, che col passare degli anni venne sempre più messa in dubbio – sezioni preziose come le previsioni del tempo, i suggerimenti per i raccolti, le fasi lunari e i calendari. È quantomeno curioso, tuttavia, notare che i toni più accesi non li troviamo tanto contro l’astrologia, quanto contro l’astronomia: per fare un esempio, nel 1666 Josiah Flint, nel suo trattato The Worlds Eternity Is an Impossibility, condannava con queste parole la nozione copernicana secondo la quale l’universo è infinito: “Impious, Blasphemous, and detractive from the transcendent excellency of the Divine Majesty, have been the bold assertions of men unacquainted with, and unguided by the Spirit of Truth”13. Gli almanacchi includevano anche osservazioni su fenomeni naturali surreali e inesplicabili che riguardano molto da vicino quanto riportato nel capitolo precedente. Per fare solo un paio di esempi, nei primi almanacchi un’eclisse era descritta non come un fenomeno spiegabile scientificamente, bensì come “a mystical event with unsure and dangerous ramifications”; e nel suo almanacco 10 Ibidem, p. 174. 11 Preface to “Poor Richard’s Improved Almanac, 1748,” in: (10/09/2015). 12 D. Winik, op. cit., p. 170. 13 Ibidem, pp. 164-165.
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del 1648 Samuel Danforth riportò che una misteriosa “great light” era apparsa nel cielo l’11 luglio del 164114. In realtà i confini tra astronomia e astrologia spesso si sovrapponevano, come possiamo evincere da questo racconto riguardante un ministro di culto del Connecticut di nome Jared Eliot: […] in 1761, he published an essay on agricultural science, examining the common practice of cutting shrubs under the astrological sign of Leo in order to curtail their regrowth. An occult astrologer would have explained the phenomenon in terms of the mystical influence of the heavens. But Eliot, referring to Isaac Newton’s analysis of lunar gravity, concluded that since “the Moon’s Attraction hath great Influences on all Fluids,” the position of the planets physically affected water in the shrubs15.
4.3. Eureka: A Prose Poem
È difficile dire se e come tutto questo abbia influenzato la letteratura successiva della nuova nazione. Si sa che nell’Ottocento Nathaniel Hawthorne inserì numerose storie e figure legate alle vicende di Salem e al New England puritano nei suoi romanzi, da The Scarlet Letter a The House of the Seven Gables, e costruì un intero racconto (“Young Goodman Brown”, 1835) sulla vicenda onirico-simbolica di un giovane che una notte lascia a casa la moglie (di nome Faith, Fede) per recarsi a un sabba nel bosco. Un interesse più scientifico per il cosmo e i suoi possibili abitatori emerge invece, in forma narrativa, soprattutto nella produzione di Edgar Allan Poe, considerato il padre di numerosi generi tra cui la fantascienza: è in questo genere che secondo Carlo Pagetti “l’alienità del sovrannaturale” assume il linguaggio della “perturbazione cosmica” (1989: 1, 2). Su Poe ritorneremo ancora, ma è bene precisare subito l’importanza di tale autore non solo nel contesto in cui visse e lavorò, ma anche in tutta la letteratura e cultura successiva. Autore citatissimo e apprezzato prima in Europa che nel suo Paese, escluso a lungo dal Canone letterario e poi rivalutato fin quasi a farne un’icona, amato dai lettori prima che dai critici, Poe è importante anche per i suoi interessi cosmologici. Egli scrisse, infatti, sulle origini dell’universo, su tecnologie che oggi chiameremmo futuribili, su uomini artificiali, dimostrando sempre una forte curiosità scientifica, uno scetticismo informato e costruttivo, e una profonda ironia che talvolta si muta in contestazione sociale: È quest’ultimo [Poe] a impegnarsi più di tutti a esplorare un’ampia varietà di metafore tratte dalla speculazione scientifica: il viaggio favoloso fino alla luna, la 14 Ibidem, p. 169. 15 Ibidem, p. 171.
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ricostruzione ironica della retorica scientifica, le entità che parlano di mondi futuri, il messaggio dal futuro: in Mellonta Tauta (1849) e altrove, la scienza fornisce la base di ironiche affabulazioni sulla limitatezza delle ambizioni nazionali, culturali e commerciali, mostrate come fragili e relative. (Proietti 2009: 275)
Poe scriveva sui giornali e li leggeva avidamente. S’interessava a tutto, dalla fisica all’ingegneria e dal magnetismo al mesmerismo, consapevole del crescente ruolo della scienza (comprese le pseudoscienze) e della sua spendibilità mediatica nella società del suo tempo (Martinez 2014). Fu proprio grazie a questa sua consapevolezza e a questo suo interesse che aprì la strada a quella che sarebbe poi stata chiamata fantascienza: Poe was completely in tune with everything that was happening with the science of his time. […] Plenty of real science also was going on at the time – people were fascinated by electricity and magnetism and the use of telescopes to explore the universe. […] Before the big bang theory, 19th-century astronomers came up with nebular theory, according to which the stars and planets were born in cloudy nebulae, such as the one visible in Orion’s belt. […] As today, people in the 1840s struggled to understand what science was telling them about determinism, free will, and the nature of God. […]16
James Gunn, nella sua opera antologica in sei volumi intitolata The Road to Science Fiction. From Heinlein to Here (1977-1998), che comprende anche il racconto di Poe “Mellonta Tauta”, sostiene che diversi racconti scritti da Poe gli furono ispirati proprio dall’ammirazione che egli, a differenza di altri autori suoi contemporanei, dimostrava per le nuove conquiste che la scienza stava ottenendo nella sua epoca. Il dibattito scientifico era, infatti, molto acceso a metà dell’Ottocento e, tra gli interessi di Poe, troviamo prevedibilmente anche l’interesse per gli astri e per l’universo, unito alla curiosità per macchine volanti e nuove tecnologie: Poe’s dabblings in the realm of science fiction are hardly recognizable as such today. There are no flying saucers, laser guns or time machines in Poe’s writings. His works are limited more or less to the scientific understandings of his own day. The closest of Poe’s tales to modern science fiction is perhaps “The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall,” at the end of which the hero claims to have taken a balloon to the moon. There, he describes “a fantastical-looking city” occupied by “a vast crowd of ugly little people” who have no ears and use “a singular method of inter-communication [telepathy]”17. 16 Faye Flamm, “Uncovering Edgar Allan Poe – the science bluff”, 14/10/2010, in: (10/09/2015). 17 (08/02/2015).
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Poe scrisse anche la storia di una cometa che colpisce la Terra (“The Conversation of Eiros and Charmion”, 1839) otto anni prima che Maria Mitchell, la prima astronoma americana, scoprisse la cometa che oggi porta il suo nome (1847); e l’anno successivo, verso la fine della sua breve vita (sarebbe morto nel 1849, all’età di quarant’anni) pubblicò Eureka: An Essay on the Material and Spiritual Universe, “a straight-up cosmological, scientific work” in cui egli “tried to reconcile Romanticism with a pro-science, pro-technology world view”18. Nell’incipit, Poe mette subito in chiaro che il suo essay in realtà è un poem, e ha una natura estetica prima ancora che scientifica: “I offer this Book of Truths, not in its character of Truth-Teller, but for the Beauty that abounds in its Truth; constituting it true. To these I present the composition as an Art-Product alone: – let us say as a Romance; or, if I be not urging too lofty a claim, as a Poem”19. E verso la fine del saggio aggiunge: “the Universe […] in the supremeness of its symmetry, is but the most sublime of poems. Now symmetry and consistency are convertible terms: – thus Poetry and Truth are one”20. Che la bellezza possa costituire un fondamento per la verità, o addirittura che le due siano una cosa sola, appare veramente poco scientifico; d’altra parte, gli scienziati – i Truth-Tellers – hanno spesso nel corso della storia sottolineato l’armonia intrinseca del cosmo (astronomia), l’equilibrio delle forme (architettura) e così via. E non a caso l’opera è dedicata ad Alexander von Humboldt, uno scienziato prussiano più vecchio di lui di quarant’anni (che però gli sarebbe sopravvissuto di dieci): geografo, naturalista, esploratore, si occupò di botanica, fondò la biogeografia, viaggiò a lungo in Sud America e nel 1845 scrisse Kosmos (Cosmos. A Sketch of the Phisical Description of the Universe), in cui cercava di unire in un unico grande disegno le varie scienze (astronomia, geografia, geologia, botanica e così via). Humboldt, nella Premessa al suddetto trattato, scriveva qualcosa di simile (ma dalla parte opposta, cioè dalla parte della scienza) al disclaimer di Poe: The very abundance of the materials which are presented to the mind for arrangement and definition, necessarily impart no inconsiderable difficulties in the choice of the form under which such a work must be presented, if it would aspire to the honor of being regarded as a literary composition. Descriptions of nature ought not to be deficient in a tone of life-like truthfulness, while the mere enumeration of a series of general results is productive of a no less wearying impression than the elaborate accumulation of the individual data of observation. I scarcely venture to hope that I have succeeded in satisfying these various requirements of composition […]21. 18 Ibidem. Su Poe e la scienza si rimanda anche al sito (06/02/2015). 19 Edgar Allan Poe, Eureka, in: (09/02/2015). 20 Ibidem. 21 A. von Humboldt, Cosmos, in: (09/02/2015). Corsivi miei.
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Una volta sancita la parallela scientificità e poeticità del suo componimento, Poe passa a specificare cosa intende quando parla di Universo: “in this essay, I mean to designate the utmost conceivable expanse of space, with all things, spiritual and material, that can be imagined to exist within the compass of that expanse”22. L’universo è dunque nella sua visione un luogo che comprende tutto ciò che si possa immaginare esistere al suo interno, intendendo dunque possibili forme di vita. E Poe esplicita ulteriormente la sua visione auspicando un rapido cambiamento di prospettive tale da inserire l’umanità in un contesto interplanetario: We need so rapid a revolution of all things about the central point of sight that, while the minutiae vanish altogether, even the more conspicuous objects become blended into one. Among the vanishing minutiæ, in a survey of this kind, would be all exclusively terrestrial matters. The Earth would be considered in its planetary relations alone. A man, in this view, becomes mankind; mankind a member of the cosmical family of Intelligences 23.
La visione di Poe relativamente alla possibilità che esistano altri mondi abitati (the cosmic family of Intelligencies) è decisamente chiara e bene argomentata. Ma voglio citare un altro passo molto significativo, legato al concetto di “infinito”, un concetto che come abbiamo visto era centrale nel dibattito teologico e scientifico del tempo: Let us begin, then, at once, with that merest of words, “Infinity.” This, like “God,” “spirit,” and some other expressions of which the equivalents exist in all languages, is by no means the expression of an idea – but of an effort at one. It stands for the possible attempt at an impossible conception. […] As regards that infinity now considered – the infinity of space – we often hear it said that “its idea is admitted by the mind – is acquiesced in – is entertained – on account of the greater difficulty which attends the conception of a limit.” But this is merely one of those phrases by which even profound thinkers, time out of mind, have occasionally […] The quibble lies concealed in the word “difficulty.” “The mind,” we are told, “entertains the idea of limitless, through the greater difficulty which it finds in entertaining that of limited, space.” Now, were the proposition but fairly put, its absurdity would become transparent at once. Clearly, there is no mere difficulty in the case. The assertion intended, if presented according to its intention and without sophistry, would run thus: – “The mind admits the idea of limitless, through the greater impossibility of entertaining that of limited, space.”
Qui, mediante un lungo ragionamento analitico Poe inverte la questione posta all’inizio, facendo così diventare pienamente ammissibile la nozione di “infinito” tramite l’impossibilità logica della sua stessa negazione. In una nazione come 22 E. A. Poe, Eureka, op. cit. 23 Ibidem. Corsivi miei.
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quella americana, legata come si è visto al concetto dinamico di Frontiera (e nel 1848 siamo in piena epoca della Frontiera, un’epoca che si concluderà solo nel 1890), questa idea di “infinito” – ben diverso da quello leopardiano, che era solo immaginato perché la siepe “il guardo esclude”24 – assume una colorazione particolarmente intensa e geo-storicamente contestualizzata. Proseguendo nel ragionamento, Poe nel tracciare la differenza tra belief e faith sembra quasi fare il verso alla dialettica del suo personaggio Dupin, il celebre investigatore dei suoi tre racconti d’indagine25: “We believe in a God. We may or may not believe in finite or in infinite space; but our belief, in such cases, is more properly designated as faith, and is a matter quite distinct from that belief proper – from that intellectual belief – which presupposes the mental conception”26. In realtà Poe si concentra sulla differenza tra le parole per giungere a focalizzare l’attenzione proprio sull’oggetto del nostro discorso, ovvero lo Spazio, sottolineando l’importanza dell’immaginazione e del ragionamento necessari a ricercarne le origini piuttosto che la (il) fine: It will now be understood that, in using the phrase, “Infinity of Space,” I make no call upon the reader to entertain the impossible conception of an absolute infinity. I refer simply to the “utmost conceivable expanse” of space – a shadowy and fluctuating domain, now shrinking, now swelling, in accordance with the vacillating energies of the imagination. […] In fact, while we find it impossible to fancy an end to space, we have no difficulty in picturing to ourselves any one of an infinity of beginnings27.
Nel suo lungo trattato, Poe si sofferma anche sulla formazione della Luna, che descrive come il culmine del lungo processo di restringimento del Sole conclusosi col suo arrivo nell’orbita della Terra, un processo durante il quale ha incontrato anche Marte: “continuing to shrink, the Sun, on becoming so small as just to fill the orbit of Mars, now discharged this planet – of course by the process repeatedly described. Having no moon, however, Mars could have thrown off no ring”28. Al di là degli errori in cui Poe cade quando scende nei particolari, e delle fantasticherie a cui si abbandona spesso e volentieri, rimane interessante il suo interrogarsi sull’infinito, la sua insofferenza esistenziale nel doversi fermare ai confini (confines, non frontier) di quello che lui chiama Universo delle Stelle per differenziarlo dall’Universo dello Spazio: 24 Giacomo Leopardi, “L’infinito” (1826), in: (09/02/2015). 25 E. A. Poe, “The Murders in the Rue Morgue” (1841), “The Mystery of Marie Rogêt” (1842) e “The Purloined Letter” (1844), in: (25/06/2015) 26 E. A. Poe, Eureka, op. cit. 27 Ibidem. 28 Ibidem.
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We comprehend, then, the insulation of our Universe. We perceive the isolation of that – of all that which we grasp with the senses. We know that there exists one cluster of clusters – a collection around which, on all sides, extend the immeasurable wildernesses of a Space to all human perception untenanted. But because upon the confines of this Universe of Stars we are compelled to pause, through want of farther evidence from the senses, is it right to conclude that, in fact, there is no material point beyond that which we have thus been permitted to attain? Have we, or have we not, an analogical right to the inference that this perceptible Universe – that this cluster of clusters – is but one of a series of clusters of clusters, the rest of which are invisible through distance – through the diffusion of their light being so excessive, ere it reaches us, as not to produce upon our retinas a light-impression – or from there being no such emanation as light at all, in these unspeakably distant worlds – or, lastly, from the mere interval being so vast, that the electric tidings of their presence in Space, have not yet – through the lapsing myriads of years – been enabled to traverse that interval? Have we any right to inferences – have we any ground whatever for visions such as these? If we have a right to them in any degree, we have a right to their infinite extension. […] My question, however, remains unanswered: – Have we any right to infer – let us say, rather, to imagine – an interminable succession of the “clusters of clusters,” or of “Universes” more or less similar?29
L’interminabile successione di universi più o meno simili diventerà, nel secolo seguente, una tematica portante non solo della fantascienza, ma anche dell’astronomia (si scopriranno un numero sempre maggiore di pianeti e galassie e si indagherà sulla minore o maggiore probabilità di esistenza della vita su di essi) e della fisica (mi riferisco, naturalmente, ai cosiddetti “universi paralleli”: si veda il concetto di multiverso, coniato dallo scrittore e psicologo americano William James nel 1895 e poi riproposto in modo più rigoroso in ambiente scientifico da Hugh Everett III nel 1957 con la sigla MWI, che sta per Many Worlds Interpretations). Poe anticipa, inoltre, anche il concetto di durée formulato dal filosofo francese Henry Bergson nel 1889 e la nozione di spazio-tempo di Albert Einstein (teoria della relatività ristretta, 1905) quando scrive: “In this Essay, we have proceeded step by step, enable us clearly and immediately to perceive that Space and Duration are one”30. Quanto all’esistenza di altri mondi abitati, e quindi di extraterrestri – anche se lui non li chiama così – leggiamo in conclusione del saggio: There was an epoch in the Night of Time, when a still-existent Being existed – one of an absolutely infinite number of similar Beings that people the absolutely infinite domains of the absolutely infinite space. […] during the long succession of ages which must elapse before these myriads of individual Intelligences become blended – when the bright stars become blended – into One. Think that the sense of 29 Ibidem. 30 Ibidem.
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individual identity will be gradually merged in the general consciousness – […]31.
Certo, la visione di Poe è sostanzialmente di natura metafisica; tuttavia, il riferimento alle innumerevoli creature che popolano lo spazio infinito non può non farci pensare che è proprio qui, da queste parole, che nasceranno i mondi abitati della fantascienza americana. Non per nulla Poe diventerà un pilastro fondamentale della science fiction e un riferimento costante dei vari scrittori. A lui saranno infatti molti a ispirarsi, e in molti modi diversi: qualcuno citandolo apertamente (Ray Bradbury sarà fra questi, come vedremo), qualcuno riprendendone lo stile e i temi (per esempio Stephen King nel racconto “1922”, nella raccolta Full Dark, No Stars, 2010), qualcuno facendolo rivivere in pastiches, riscritture e ibridazioni di vario tipo (per esempio i francesi Jean-Marc e Randy Lofficier in Edgar Allan Poe on Mars: The Further Memoirs of Gullivar Jones, 2007, dove Poe incontra il protagonista del romanzo dell’autore inglese Edwin Lester Linden Arnold Gulliver of Mars, 1905). 4.4. Weird Tales, Amazing Stories, Wonder Stories, fumetti e graphic novels
Prima di affrontare il corpus letterario e cinematografico americano dedicato a Marte e/o ai marziani, è opportuno spendere qualche parola sulle riviste che hanno gettato le basi della – o meglio, letteralmente inventato la – fantascienza nel Nuovo Mondo. La prima è Weird Tales, una celebre rivista mensile dedicata alla letteratura fantasy e horror di cui il primo numero uscì a Chicago nel marzo del 1923 e l’ultimo nel settembre del 1954. Più volte riesumata – negli anni ’70, per esempio, e anche di recente, tanto che ha ripreso le pubblicazioni da pochi anni, – fu fondata da J. C. Henneberger, ex giornalista e grande ammiratore di Poe, e i suoi primi editors furono Edwin Baird e Farnsworth Wright. L’aggettivo weird (che significa strano, bizzarro, misterioso, stravagante) fu utilizzato per includere in uno stesso “genere” diverse tipologie di narrazione, comprese la saggistica e la poesia, tutte però in qualche modo legate al fantastico, all’orrore, al macabro, all’occulto. Nei suoi trent’anni di attività pubblicò racconti di autori molto diversi tra loro, quali ad esempio H. P. Lovecraft e Tennessee Williams. I temi andavano dalle storie di fantasmi a quelle di invasioni aliene; oltre ad autori contemporanei, ripubblicava anche racconti di scrittori del passato (fra cui Hawthorne e Poe)32. Weird Tales fu fondata solo tre anni prima di un’altra rivista storica, Amazing Stories (da amazing, cioè meraviglioso, sbalorditivo, stupefacente) che sarebbe diventata, nel corso del tempo, un vero e proprio spazio di coltura, fermentazione 31 Ibidem. Corsivi miei. 32 Per approfondimenti si rimanda a Leif Sorensen, “Weird Tales: The Unique Magazine”, in: (09/02/2015).
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e propulsione per il nuovo genere della science fiction (o Sci Fi, o SF) nelle sue due maggiori varianti, tecnologica e fantasy, e nei suoi due maggiori indirizzi, la critica sociale e la fantasia escapista. Ma facciamo un salto indietro. Fin dal 1908 Hugo Gernsback, belga emigrato in USA, aveva fondato numerose riviste, tutte legate in un modo o nell’altro alla scienza e in particolar modo all’elettricità – Modern Electrics, Electrical Experimenter (poi ribattezzata Science and Invention), Practical Electrics (poi ribattezzata The Experimenter), ecc. – scrivendovi anche articoli (per esempio, “Wireless on Saturn” nel dicembre del 2008). Nel 1924 effettuò un sondaggio: scrisse a 25.000 persone chiedendo loro cosa ne pensassero della possibilità di creare “a magazine devoted to scientific fiction”33. La risposta che ottenne, per sua stessa ammissione, non fu affatto incoraggiante. Due anni dopo, tuttavia, riprese l’idea, chiuse The Experimenter, e nominò T. O’Conor Sloane editor della nuova rivista, che chiamò Amazing Stories (1926). Fu un successo immediato: la “scientific fiction” divenne “scientifiction” (il termine science fiction non esisteva ancora), e due anni dopo la rivista fu affiancata dal trimestrale Amazing Stories Quarterly. Dopo varie peripezie e vari passaggi di mano, e dopo aver attraversato periodi molto difficili (soprattutto durante la Depressione, la seconda guerra mondiale e la guerra di Corea), alla fine degli anni ’50 vide nascere anche la collana Amazing Stories Science Fiction Novels. I periodi di maggior successo di pubblico si ebbero intorno al 1938 (con Raymond A. Palmer come editor) e al 1959, quando passò sotto la guida di una donna, Cele Goldsmith. Fu poi nuovamente venduta nel 1965 e vide un altro periodo glorioso negli anni ’70 quando, grazie all’editor Ted White, ricevette per tre volte il prestigioso Hugo Award. La fine del decennio vide alla sua guida un’altra donna, Elinor Mavor (sotto lo pseudonimo di Omar Gohagen); in questo periodo Amazing Stories si unì a un’altra rivista del gruppo, Fantastic, e assunse il titolo Amazing Science Fiction Stories. Dopo altre vendite e alti e bassi, dal 2012 è una rivista online. Per tutto questo tempo, i rapporti con la comunità degli scrittori di fantascienza e con quella degli appassionati di fantascienza sono stati altalenanti. Se l’approccio iniziale di Hugo Gernsback, il suo fondatore, era per così dire pedagogico, in quanto egli era convinto che, attraverso il divertimento, la fantascienza potesse educare i lettori (“Not only do these amazing tales make tremendously interesting reading – they are also always instructive”34, si legge nel primo numero) il grande pubblico sembrava però preferire storie sensazionali senza preoccuparsi troppo del loro significato; tuttavia la rivista riuscì a creare, nel corso del tempo, una fandom specialistica che si rivelò sempre più importante e influente. 33 Ibidem. 34 Hugo Gernsback, cit. in: (09/02/2015).
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Con grande anticipo rispetto ai blog e forum di oggi, le colonne di Amazing Stories includevano, infatti, commenti, critiche e spunti di discussione dei lettori, che venivano incoraggiati a entrare in contatto e a confrontarsi tra loro. Vi erano ospitati inoltre sia autori del passato (per esempio, Edgar Allan Poe, con “The Facts in the Case of M. Valdemar”), sia gli scrittori contemporanei (come Ray Bradbury, Isaac Asimov, Edgar Rice Burroughs e Ursula K. Le Guin). Questo se da un lato rafforzò il genere, dall’altro portò alcuni critici – fra cui il britannico Brian Aldiss – a distinguere tra SF “alta” (Wells, Orwell e Huxley) e “bassa” (quella cioè delle riviste pulp americane, letta da un pubblico più semplice, emerso “dal milione di immigrati” arrivati negli USA con retroterra familiari non benestanti e non WASP (Proietti 2009: 277). Anche Wonder Stories, un’altra rivista fondata da Gernsback, merita di essere menzionata nell’Olimpo delle riviste. Come le altre, cambiò spesso di proprietà e titolo fra il 1929 e il 1955, chiamandosi prima Science Wonder Stories e poi Thrilling Wonder Stories (dopo che fu venduta a Ned Pines). Nel 1955 si unì con Startling Stories e poi scomparve completamente, non prima, però, di aver pubblicato importanti successi come “A Martian Odyssey” di Stanley Weinbaum. Fu anche su questa rivista che l’espressione science fiction fu usata per la prima volta. Un episodio degno di essere menzionato è lo scambio epistolare fra uno degli editors, David Lasser, e lo scrittore Jack Williamson (1932), in cui Lasser sottolineava l’importanza della plausibilità scientifica citando come esempio una scena di un racconto che stava scrivendo Williamson in cui i terrestri dovevano decifrare una lingua scritta marziana: “You must be sure and make it convincing how they did it; for they have absolutely no method of approach to a written language of another world”35. Un altro editor successivo, Sam Merwin Junior, pubblicò numerosi racconti di Bradbury, alcuni dei quali furono inseriti nelle Martian Chronicles, su cui ritorneremo. Intanto, nel 1930 inizia la pubblicazione anche Astounding Stories, una rivista destinata ad avere grande successo e continuità: cambierà nome diverse volte, diventando prima Astounding Science-Fiction nel 1938 (sotto la direzione di Campbell Jr., che, “non ancora trentenne, […] modificherà la science fiction dalle fondamenta e darà inizio a quella che da tutti è stata definita la Golden Age, l’età dorata della fantascienza americana”; Farnararo 2003: 17), poi Analog Science - Fact & Fiction nel 1960, e infine, nel novembre 1992, Analog Science Fiction & Fact, dove la fiction assume un ruolo di primo piano rispetti ai puri e semplici fatti. La rivista, ancora oggi molto letta e apprezzata, è presente nella biblioteca della Stazione Spaziale Internazionale. Ricordiamo infine Planet Stories, pubblicata dal 1939 al 1955, inizialmente rivolta ai giovanissimi e dedicata esclusiva35 David Lasser, cit. in: (10/02/2015).
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mente ad avventure spaziali, che pubblicò, fra gli altri, racconti di Isaac Asimov, Philip K. Dick, Leigh Brackett e Ray Bradbury. A questi ultimi due si deve una visione romanticizzata di Marte che deve molto alle descrizioni di Barsoom nei romanzi di Edgar Rice Burroughs. Tutte queste riviste, sebbene appartenenti al reame del pulp, cioè della letteratura stampata a basso costo (ma, è bene ricordarlo, non necessariamente di altrettanto bassa qualità) rivestirono un ruolo fondamentale nel creare la cosiddetta Golden Age della fantascienza americana (1938-1946), contrassegnata da un maggiore approfondimento psicologico e da un maggiore rigore scientifico, e nel lanciare importanti scrittori che avrebbero lasciato un’impronta profonda nella storia della letteratura e della cultura americana. Inoltre gli aggettivi usati per descrivere l’appartenenza al nuovo genere della Sci Fi, tutti sinonimi di fantastico, meraviglioso, straordinario, ecc. servirono anche come richiamo per i lettori, contribuendo a creare un ponte significativo fra scrittori e readership, una sorta di complicità che se da un lato si rifaceva ai modelli degli shilling shockers inglesi e dei dime novels americani di fine Ottocento, dall’altro creava le fondamenta per la letteratura di massa (e la pop culture) del Novecento. Compresi i fumetti. Premessa: non sono una lettrice di fumetti. Non lo dico vantandomi, anzi è una premessa doverosa per spiegare le mancanze che agli esperti sembreranno insopportabili. Farò comunque del mio meglio per riportare alcuni fra i titoli che mi sono sembrati più interessanti anche dalla prospettiva degli studi culturali36. Nelle mie ricerche, in ordine cronologico mi sono imbattuta per prima cosa in un fumetto non propriamente americano: si tratta, infatti, di Paolino Paperino e il mistero di Marte (1937) di Federico Pedrocchi, la prima storia lunga italiana firmata dalla Disney. Vi si narra di come due loschi figuri portino Paperino su Marte per aiutarli a trovare una macchina che dona una forza sovrumana. Paperino sarà però il primo a usarla, riuscendo così a sconfiggerli. In realtà ho poi scoperto che quello che è considerato il primo fumetto con personaggi alieni si intitola The Marsoozalums; apparve sul New York Journal nel 1901 e aveva come protagonisti dei piccoli marziani; il secondo, Mr Skygack, from Mars, fu invece pubblicato a Chicago nel 1907, e mostrava un marziano intento a studiare gli umani sulla Terra. Un discorso a parte merita il personaggio letterario di “John Carter of Mars” (il protagonista del ciclo marziano di Edgar Rice Burroughs), che ha avuto dagli anni ’30 a oggi numerosissime trasposizioni a fumetti. Ne citiamo qualcuna: la prima apparizione è nella rivista The Funnies della Dell Comics (1939-1941), con tavole di John Coleman Burroughs, figlio dello scrittore, che ne realizzerà altre per il Chicago Sun (1941); tre racconti nella rivista Four Color (1952-1953 e ri36 Le mie ricerche si sono svolte principalmente in rete: cfr. e le documentatissime pagine web dei vari fumetti e giornali citati.
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stampate nel 1963-1964); una versione inglese dal titolo The Martian, pubblicata sul British Sun Weekly (1958-1959); una versione ceca dal titolo Dobrodrużství Johna Cartera (Le avventure di John Carter), pubblicata su ABC (1968-1971); varie storie pubblicate sulle riviste Tarzan (1972), Weird Worlds (1972-1973), Tarzan Family (1976), John Carter Warlord of Mars (1977-1979); la miniserie Tarzan / John Carter: Warlords of Mars (1996). Al 1939 risale Rex Dexter of Mars, creato da Dick Briefer. Vi si narra di come Montague Dexter costruisca una navicella spaziale da presentare all’Esposizione Universale dell’anno e, per dimostrare che funziona, voli con la moglie su Marte. Le cose però non vanno secondo i piani, e la navicella si distrugge nell’impatto col pianeta. Dexter impiega sessant’anni a ricostruirla, ma quando conclude il lavoro è troppo vecchio per tornare sulla Terra; cosa che farà invece il figlio Rex, il quale vi giungerà nel 2000 per scoprire che L’Europa è stata completamente devastata negli anni ’50 da una guerra atomica, a causa della quale anche l’America rischia la distruzione. Sarà Rex ad aiutare l’esercito, e da quel momento la sua missione sarà aiutare gli americani contro le minacce terrestri e aliene. Apriamo una parentesi: la World’s Fair 1939-40 si tenne effettivamente a New York e fu la seconda esposizione americana più grande della storia, dopo quella del 1904. Vi parteciparono oltre 44 milioni di persone e fu la prima esposizione dedicata al futuro: il suo slogan era “Dawn of a New Day” e il pieghevole della manifestazione ribadiva più volte la parola “tomorrow”37. Teniamo presente anche che solo un anno prima (1938) Orson Welles aveva scatenato il panico in tutta la nazione con la sua trasmissione radiofonica sull’invasione marziana del New Jersey, come vedremo nel prossimo capitolo. Capiamo bene come le due forze in gioco, la visione ottimistica del progresso tecnologico da un lato, e la paranoia da invasione dall’altro, formassero un cocktail vincente per il mondo del fumetto, che alla scrittura univa le potenzialità del disegno. Su questo poi si innestava la paura (profezia?) del conflitto atomico, che si sarebbe ulteriormente rinforzata dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor (1941) e la violenta reazione americana (Hiroshima e Nagasaki, 1945), andandosi ad aggiungere alle preoccupazioni preesistenti e alle ansie esistenziali archetipiche. Lars of Mars, creato da Murphy Anderson and Jerry Siegel nel 1951, interpreta in modo ancora più esplicito tali paure. Un agente governativo marziano (Lars) viene mandato sulla Terra allo scopo di impedire che la bomba a idrogeno venga utilizzata. I marziani conoscono, infatti, i rischi di tale tecnologia, avendola sperimentata essi stessi in guerre interplanetarie milioni di anni prima. Lars, una volta giunto sulla Terra, s’imbatte in un set televisivo e gli viene offerto un ruolo di attore nello show Man from Mars. Lars decide di accettare in modo da poter lavorare sotto 37 (10/09/2015).
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copertura. Sarà costretto a misurarsi con criminali e agenti sovietici, aiutato dall’Interplanetary Intelligence Department. Questo fumetto presenta due elementi interessanti: il primo riguarda la presenza della televisione, il medium di massa più importante degli anni ’50 (ne riparleremo nell’ottavo capitolo); il secondo riguarda la presenza del Soviet, che in piena Guerra Fredda incarna il “nemico assoluto” del tempo, addirittura potenzialmente più pericoloso degli alieni. Intanto, nel 1948 la Warner Bros aveva creato il simpatico personaggio di Marvin the Martian, un antagonista di Bugs Bunny che ritroveremo anche nella miniserie del 2000 Superman & Bugs Bunny. Ha un cane che si chiama k-9, parla con accento inglese (tranne che nel primo episodio) e a volte è accompagnato da altri marziani liofilizzati che aumentano di dimensione aggiungendo una goccia d’acqua. A questo proposito è interessante osservare che la liofilizzazione (freezedrying) su scala industriale inizia durante la seconda guerra mondiale per favorire il trasporto di farmaci contenenti siero; di qui si estende poi ad altri settori. E proprio fra gli anni ’40 e ’50 nascono nelle più prestigiose università americane (tra cui MIT e California University) le Scienze e Tecnologie Alimentari. A puro titolo di curiosità, un secolo prima, nel 1853 (dunque in piena epoca della Frontiera, e alle soglie della Guerra Civile) il newyorkese Gail Borden, stabilitosi in Texas, aveva scoperto il modo per disidratare il latte (o meglio, lo aveva riscoperto perché il metodo era già noto nell’antichità), ottenendo il latte condensato o in polvere e creando fabbriche negli stati di New York e Illinois38. Nel 1955 compare sulla rivista Detective Comics J’onn J’onzz, più noto come Martian Manhunter. Il protagonista (un marziano dalla pelle verdastra amico di Superman e, come lui, membro della JLA, Justice League of America) è arrivato sulla Terra con un raggio teletrasportatore, ma non potendo tornare su Marte assume un’altra identità e, avendo deciso di combattere il crimine, diventa il detective John Jones, residente a Middletown, USA. Nel corso del tempo sviluppa abilità precognitive, la telepatia, e scopre che può volare. In alcune avventure combatte nella New Mars insieme con Batman e Superman. Pur avendo precorso John Carter nella letteratura, Gullivar Jones approda al mondo dei fumetti solo nel 1972, sulla rivista Creatures on the Loose prima e su Monsters Unleashed poi. In un graphic novel intitolato Watchmen (1986-1987), invece, il dottor Manhattan, capace di vedere la realtà a livello subatomico, si autoesilia su Marte quando viene convinto che i suoi poteri provocano il cancro nelle persone che lo hanno frequentato. Dal 1985 al 1995 troviamo una striscia intitolata Calvin & Hobbes incentrata sulle avventure di Calvin, un bambino di sei anni dalla fervida immaginazione, e dell’inseparabile Hobbes, la sua piccola tigre di pezza animata. In una delle loro 38 (18/02/2015).
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avventure i due, indignati dall’inquinamento sulla Terra, emigrano su Marte a bordo del loro carretto. Quando si rendono conto che i marziani li temono a causa della cattiva fama dei terrestri, però, decidono di lasciare il pianeta e di tornare a casa. Questo fumetto è interessante perché vi troviamo riflessa la preoccupazione ambientale, che a partire dagli anni ’70 si fa sempre più pressante a livello di opinione pubblica anche se non altrettanto nell’agenda politica. L’EPA (Environment Protection Agency) fu creata nel 1970 allo scopo di stabilire la pericolosità delle sostanze e i livelli di esposizione accettabile e numerosi stati elaborarono di conseguenza una legislazione in merito (ad esempio, in California nel 1986 il Cal/EPA Office of Environmental Health Hazard Assessment redasse una lista di sostanze la cui pericolosità richiedeva informazioni di etichettatura). Nixon inaugurava nel 1970 la cosiddetta Environmental Decade, durante la quale furono firmati, tra gli altri, il National Environmental Policy Act (NEPA), i Clean Air Act Amendments e i Federal Water Pollution Control Act Amendments. Purtroppo due amministrazioni successive segnarono un passo indietro nella lotta all’inquinamento: Reagan (1981-1989) durante il primo mandato ridusse il budget dell’EPA del 30% e ordinò drastiche riduzioni e sostituzioni di personale, e durante il secondo fece rimuovere i pannelli solari che Carter (1977-1981) aveva installato sul tetto dell’ala ovest della Casa Bianca (e che sarebbero stati reintrodotti solo da Obama nel giugno 2014). Quanto a George W. Bush Senior (1989-1993), che ebbe sempre un atteggiamento protettivo verso le lobbies e interessi di famiglia in campo petrolifero, nel 1992 si oppose alle richieste avanzate dall’Earth Summit di Rio de Janeiro nell’Agenda 21, rifiutandosi di firmare la Convenzione sulla biodiversità (42 articoli che stabiliscono norme per la protezione delle specie e regolano le ricerche nel campo delle biotecnologie) e ottenendo che non fosse incluso un preciso calendario di riduzione delle emissioni di anidride carbonica39. Nel nuovo millennio segnalo il primo episodio della seconda serie del graphic novel di Alan Moore The League of the Extraordinary Gentlemen (2002-2003), che si svolge su Marte. Vi incontriamo almeno cinque tipi di marziani tratti da differenti opere letterarie (da H. G. Wells e E. R. Burroughs a C. S. Lewis), oltre a John Carter e Gullivar Jones. Nel fumetto Kylion (2004), invece, Marte viene “terraformato” in modo da permettere la vita, lasciando che la Terra, intanto, possa guarire da tutto l’inquinamento causato dagli umani nel corso dei secoli. Terraforming o terraformazione è un termine coniato negli anni ’40 dallo scrittore Jack Williamson con cui si indicano i processi artificiali atti a rendere abitabile 39 Franco Foresta Martin, “Bush blocca il vertice di Rio”, ne Corriere della Sera, 9 giugno 1992, p. 12. Cfr. anche: (18/02/2015).
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per l’uomo un altro pianeta. Il termine apparve per la prima volta sulla rivista Astounding Science-Fiction; a partire dagli anni ’80 Christopher McKay pubblicò diversi contributi su riviste prestigiose, tra cui nel 1994, con Robert Zubrin, un lungo articolo divulgativo su Analog Science Fiction and Fact, dove essi elencavano metodi e tecniche necessari per “terraformare” Marte (ossia, renderlo più caldo, rendere la sua atmosfera e respirabile, e così via). Nei manga ARIA di Kozue Amano (2002-2008), infine, Marte si terraforma in modo naturale poiché, entrando inaspettatamente nella stessa orbita della Terra, le sue acque si riscaldano e si sciolgono, mentre il manga Terra Formars di Yu Sasuga (2011) è ambientato su Marte cinquecento anni dopo l’inizio della sua terraformazione. Come si può vedere, più si avanza nel nuovo millennio, più i racconti convergono sul progetto di colonizzazione e/o terraforming del pianeta, complici le esplorazioni e i programmi spaziali degli ultimi anni.
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He who gets his feet in the air is lost. (Proverbio marziano, in William Simpson, The Man from Mars, 1891) Ana cal tantil to ti. (Ninna-nanna marziana, in Louis P. Gratacap, The Certainty of a Future Life in Mars, 1903)
5.1. “I wish I were in the Planet Mars!”
Devo premettere che la narrativa marziana costituisce un Canone di straordinario interesse e complessità. Solo negli ultimi anni, grazie anche a studiosi come Markley e Crossley, si è iniziato a “mappare” con una certa sistematicità la mole di racconti e romanzi che in un modo o nell’altro ruotano intorno a Marte. Una prima criticità emersa è che occorre sdoganare questa produzione dall’etichetta di “narrativa di fantascienza”, non per togliere valore al genere (che anzi occupa un ruolo fondamentale sia nella letteratura sia nella cultura americana) quanto perché molti romanzi, semplicemente, non possono essere considerati suoi prodotti. Una seconda criticità che ci troviamo ad affrontare è che a tutt’oggi non esiste un Canone ufficialmente riconosciuto, non esistono Storie della Letteratura Marziana, e anche le pur lodevoli Antologie di racconti non sono supportate da un solido apparato critico. Quanto alla critica stessa, poi (terza criticità), occorrerebbe cercare e raccogliere i contributi sparsi che si trovano nei volumi e negli atti dei convegni, in quanto sono pochi finora i testi che si sono occupati dell’argomento in modo
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“robusto”. Una nota di merito va alle università, istituzioni, fondazioni, siti web di associazioni (anche di fans) che hanno digitalizzato veri e propri capolavori fino a pochi anni fa introvabili, e spesso oggi fuori commercio, ritirati dalle biblioteche (la scritta withdrawn o discharged appare purtroppo su molti frontespizi), mai tradotti, poco commentati, per lo più sconosciuti. Al di là della qualità letteraria, per lo meno discontinua, il loro valore culturale è incommensurabile. Volendo dare una prima strutturazione a una possibile suddivisione in base ai contenuti, mi sento di delineare tre macroaree: una prima che possiamo far rientrare nella letteratura dell’utopia, e che va grosso modo da metà Ottocento agli anni ’30 del Novecento; una seconda che possiamo legare ai temi dell’invasione, che va dagli anni ’30 agli anni ’60-’70 del Novecento, con punte che raggiungono anche gli anni ’90; e una terza collegata al progetto di terraformazione, che inizia all’incirca negli anni ’60 e prosegue tuttora. Questi periodi però sono solo indicativi, perché ci sono eccezioni (la più interessante delle quali vede l’alieno arrivare da solo sulla Terra), così come ci sono narrazioni che non rientrano in nessuna di queste categorie. Per questo motivo ho deciso di strutturare questo lungo capitolo in modo cronologico, una scelta che consentirà a chi lo legge di seguire via via i testi di cui si parla collocandoli nel giusto contesto in prospettiva storico-culturale. Mentre troviamo già in Poe un personaggio in viaggio verso la Luna (in “The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall”, 1835), gli scrittori americani iniziano a interessarsi di Marte e dei marziani solo verso la fine dell’Ottocento, alternando visioni utopiche a visioni distopiche e mescolando cognizioni scientifiche e tecnologiche con quello che i fans chiamano sensawonda (sense of wonder): se “Viaggiare – s’intende metaforicamente – fino a Marte vuol dire, per lo scrittore di fantascienza, compiere un rito iniziatico, misurarsi con una tradizione consolidata, verificare meccanismi narrativi e strutture simboliche” (Pagetti 2007: 8), queste prime generazioni di scrittori affascinati dal mondo extraplanetario si muovono su un terreno, per così dire, ancora relativamente vergine ma pur sempre già esistente a livello dell’immaginazione mitologica. Uno dei primi autori che si cimentano con questo mito è William Henry Rhodes, che nel racconto “The Telescopic Eye”, pubblicato sul San Francisco Evening Post nel 1876, descrive un bambino terrestre considerato cieco perché non vede ciò che ha vicino, mentre, ad esempio, riesce a vedere benissimo gli abitanti della Luna; dopo varie peripezie, “the account ends with his great joy at finally focusing his orbs on a Martian city!” (Moskowitz 1973: xlvii). Una variazione sul tema è, nel 1898, “The Blindsman’s World” di Edward Bellamy (autore del più noto Looking Backward, 1888), “a utopia of the Martians who cannot remember the past but can the future” (Ibidem: lxvii). Al 1887 risale invece Bellona’s Bridegroom di Hudor Genone (pseudonimo di William James Roe),
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dove troviamo il primo disco volante (“ethereal disc”) della letteratura americana e un sedicente marziano che poi si rivelerà un terrestre, anzi un americano: “With footwear manufactured in Massachusetts, he can’t be a Martian, and the old man is forced to reveal that he actually is an old man, a physicist who had traveled from Earth to Mars” (Crossley 2011: 50). Il fatto più curioso, tuttavia, è che i marziani esistono davvero; non solo, ma parlano tutti inglese: “And so with exquisite absurdity Roe takes one step further the conventional utopian assumption that a highly civilized world eventually will achieve a single global language” (Ibidem: 51). Sono, tuttavia, due donne dello Iowa, Alice Ilgenfritz Jones ed Ella Merchant, che pubblicano il primo romanzo dedicato integralmente a Marte. Nell’utopia femminista Unveiling a Parallel: A Romance by Two Women of the West (1893)1 un americano narra in prima persona la sua visita su Marte. Il problema del viaggio è risolto con un facile espediente: “I shall not weary you with an account of my voyage, since you are more interested in the story of my sojourn on the red planet than in the manner of my getting there. […] traveling was as swift as thought” (p. 6). È chiaro che l’intento delle autrici non sta nelle spiegazioni scientifiche, bensì nella descrizione di un’utopia in chiave femminista, vista comunque (e apprezzata) attraverso gli occhi di un giovane che si trova catapultato in due diverse città marziane, Thursia e Caskia: nella prima la parità di genere si esprime a livello di voto, di affari, di politica, di attività sessuale e del tempo libero – le donne bevono e fumano (sotto forma di vaporizzazione), – mentre nella seconda tutto è legato alla spiritualità. Il pianeta è pre-lowelliano, senza canali, e “It is not literally red, by the way; that which makes it appear so at this distance is its atmosphere, – its ‘sky,’ – which is of a soft roseate color, instead of being blue like ours. It is as beautiful as a blush” (p. 6). Dopo aver iniziato lo studio della lingua (che è molto musicale) insieme alla sua guida, un giovane di nome Severnius, e apprezzato il cibo (costituito prevalentemente di frutta), il narratore incontra la prima “donna” (chiamata effettivamente woman nel testo), Elodia: “She regarded me as I have sometimes regarded unEnglish foreigners in the streets of New York” (p. 31). È interessante notare che la prima sensazione di alterità la troviamo espressa in questa occasione, cioè nell’incontro con una persona di sesso femminile, una marziana (Marsian, non Martian). Il senso di estraneità si acuisce durante il pranzo, quando il narratore apprende che Elodia, sorella di Severnius, non solo lavora, ma svolge un’occupazione tipicamente maschile: 1 Alice Ilgenfritz Jones ed Ella Merchant, Unveiling a Parallel: A Romance by Two Women of the West (1893), in: (22/06/2015). Si indicheranno i numeri di pagina riferiti a questa edizione.
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My look of amazement arrested his attention. “Why are you so surprised?” he asked. “Do not your women engage in business?” “Well, not to such an extraordinary degree,” I replied. “We have women who work in various ways, but there are very few of them who have large business interests, and they are not entrusted with important public affairs, such as municipal government and the management of schools!” “Oh!” returned Severnius with the note of one who does not quite understand. “Would you mind telling me why? Is it because they are incapable, or – unreliable?” Neither of the words he chose struck me pleasantly as applied to my countrywomen. […] “They are both capable and reliable, in as far as they have had experience. But their chances have been circumscribed […]”. (pp. 42-43)
Alle donne marziane sono aperte tutte le professioni e naturalmente hanno diritto di voto. Non solo: alla radice di tutto c’è la religione, una religione assolutamente egalitaria: Severnius startled me suddenly with another question: “What, may I ask, is your theory of Man’s creation?” “God made Man, and from one of his ribs fashioned woman,” I replied catechetically. “Ours is different,” said he. “It is this: A pair of creatures, male and female, sprang simultaneously from an enchanted lake in the mountain region of a country called Caskia, in the northern part of this continent. They were only animals, but they were beautiful and innocent. God breathed a Soul into them and they were Man and Woman, equals in all things.” (pp. 57-58)
Le autrici sono molto abili a porre subito la questione in questi termini, dimostrando di conoscere bene dove la concezione patriarcale della società occidentale affonda le sue radici. E rivelano anche una precoce consapevolezza del gender, pur nominando solo sex e nature: “Excuse me,” interposed Severnius. “You have shown me in the case of your own sex that human nature is the same on the Earth that it is on Mars. You would not have me think that there are two varieties of human nature on your planet, corresponding with the sexes, would you?” (p. 84)
Il romanzo continua su questo stile, anticipando Herland di Charlotte Perkins Gilman (1915) di quasi venticinque anni. La “rieducazione” del protagonista avviene progressivamente; man mano che egli acquisisce nuove informazioni i paragoni con New York risultano sempre meno sostenibili e i suoi pregiudizi vengono smontati e abbandonati fino a fargli capire l’assoluta perfezione della società marziana. Anche la seconda città ha molto da insegnargli: qui tutto è governato dalla coscienza, dal rispetto, dall’amore; non esiste il peccato. Il narratore s’innamora
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nuovamente, stavolta di una donna chiamata Ariadne: guardando i suoi occhi, nella conclusione del romanzo, prima di ripartire per la Terra, egli vede “a new heaven and a new earth” (p. 269). Le due donne, Elodia e Ariadne, se da un lato anticipano come si è detto le istanze femministe e di genere, dall’altro sono ancora fortemente vincolate al retaggio puritano, tanto da far ricordare la famosa poesia di Anne Bradstreet “The Flesh and the Spirit” (1678)2, scritta in forma di dialogo/duello allegorico tra due sorelle che rappresentano le tentazioni del corpo e l’elevazione dell’anima. La divisione fra corpo e anima, carne e spirito non è ancora risolta nel protofemminismo delle due autrici, ma è comunque interessante che l’arena su cui si gioca l’educazione di genere del protagonista sia il pianeta Marte: un mondo lontano eppure visibile dalla Terra, maschile (Ares è il dio della guerra) eppure femminile (sister planet), al centro del dibattito contemporaneo eppure antico e misterioso. È interessante osservare che nello stesso anno esce la terza edizione di The Man from Mars di William Simpson – pubblicato a San Francisco nel 1891 col sottotitolo: His morals, politics, and religion – accompagnata da questa dicitura: “Revised and Enlarged by an Extended Preface and a Chapter on Woman Suffrage”3. La Prefazione (che occupa più di sessanta pagine) parla in realtà più di Dio, della S. Trinità e di Satana di quanto non parli di Marte; e anche il romanzo, in realtà, non è ambientato sul Pianeta Rosso. Tuttavia come vedremo riveste una notevole importanza nella costruzione sia dell’immaginario marziano sia delle politiche di genere. L’Introduzione si apre con una presentazione in prima persona che, se non dice ancora nulla del narratore, ci dà le sue coordinate geografiche: “My habitation is upon a plateau on a mountain in California” (p. 65). Poco dopo si narra di come il narratore/protagonista si sia trovato lì per motivi di caccia e di come abbia trascorso una notte da solo “in this weird place” (Ibidem); nelle pagine seguenti impariamo che egli si è talmente affezionato a questo luogo da aver acquistato il terreno ed esservisi trasferito. Si è costruito una capanna con le proprie mani e comunica col mondo soprattutto attraverso i libri. La descrizione che segue include un suggestivo paesaggio sonoro che, insieme alla capanna, ci riporta all’immaginario di Walden (e in particolare al capitolo “Sounds”) di Henry David Thoreau, scrittore e filosofo trascendentalista, anche se là eravamo nel New England4: “This charming spot has its voices, as restless as the lights and shadows which play about within. Each miniature waterfall has its liquid note; 2 Anne Bradstreet, “The Flesh and the Spirit” (1678), in: (10/09/2015). 3 William Simpson, The Man from Mars (1891), in: (14/04/2015). Si indicheranno i numeri di pagina riferiti a questa edizione. 4 H. D. Thoreau, Walden (1854), in: (14/04/2015).
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while during certain hours there comes from every quarter of the foilage above a confused melody of birds […]” (p. 68). E arriviamo al primo capitolo, dove apprendiamo che il narratore ha un telescopio, e che: “The heavenly body which most engages my attention is, excepted our satellite, the nearest one to us, our neighboring planet Mars. I believe that body to be inhabited by beings in many respects like those of the earth” (p. 75). Spiega poi le ragioni della sua convinzione, che sono quelle tradizionali di tipo analogico. Finché, una sera, I looked out into the night. […] A gentle breeze was stirring out of the West […] Looking again, […] I descried the figure of a man, not far from my window; and, strange to say, I was neither alarmed nor startled at his presence. His face, of which I saw but little more than its profile, was turned upward looking at the moon, and its expression was unmistakably one of admiration and wonder. His long, and apparently well-cared-for hair and beard, reflected a golden sheen under the light above. His arms were folded, and his shape and attitude impressed me as being majestic. (pp. 82-83)5
Il secondo capitolo si apre con l’ingresso dello sconosciuto, una persona piacevole e garbata che saluta così il narratore: “My brother, […] you have a beautiful world. That moon of yours is magnificent” (p. 85). Ma il suo interlocutore non ha ancora capito con chi sta parlando, e difatti poco dopo gli chiede: “Do you think Mars inhabited?” e la risposta che riceve è: “I am a good proof that it is” (Ibidem). A questo punto è inevitabile che il narratore sia esterrefatto. Il visitatore, quindi, gli spiega con calma: “I am here by a process as yet unknown to you, and which may be best described in your language as reflection. I am here by reflection. That is to say, my natural body is at my home, on the planet, which you call Mars” (p. 86). E poco oltre gli dirà: “I know your thoughts” (p. 87). Qui non si tratta della consueta variazione sul tema delle ombre proiettate sulla parete della caverna di Platone. Se la riflessione e la rifrazione erano concetti già ben noti negli ambienti scientifici, così come la telepatia tra i cultori delle pseu5 Il brano ricorda molto da vicino un passo di The Hound of the Baskervilles di Arthur Conan Doyle, il quale potrebbe esservisi ispirato per questa descrizione di Holmes che si nasconde nella brughiera: “And it was at this moment that there occurred a most strange and unexpected thing. […] The moon was low upon the right, and the jagged pinnacle of a granite tor stood up against the lower curve of its silver disc. There, outlined as black as an ebony statue on that shining background, I saw the figure of a man upon the tor. Do not think that it was a delusion, […] I assure you that I have never in my life seen anything more clearly. As far as I could judge, the figure was that of a tall, thin man. He stood with his legs a little separated, his arms folded, his head bowed, as if he were brooding over that enormous wilderness of peat and granite which lay before him. He might have been the very spirit of that terrible place”. Testo integrale in: (16/04/2015).
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doscienze, non così si può dire per quello che dal punto di vista della tecnologia potrebbe spiegare la presenza del marziano nella capanna del narratore solitario: ossia, la televisione – che nasce solo nel 1925 grazie all’ingegnere scozzese John Logie Baird, ma che sarà diffusa negli USA solo dopo gli anni ’30 del Novecento – e l’olografia – che verrà teorizzata dallo scienziato ungherese e premio Nobel Dennis Gabor solo negli anni ’70 del Novecento, e che vedrà il suo massimo sviluppo solo con la nascita della tecnologia laser (un esempio tipico nel cinema è la principessa Leila in Star Wars, il cui primo episodio esce nel 1977). Se da un lato, dunque, l’espediente scelto dall’autore sembra essere una pura fantasia allo scopo di avvalorare i suoi obiettivi edificanti, dall’altro contiene un forte elemento di anticipazione scientifica. Il testo continua con l’elenco dei settori in cui Marte supera la Terra (civiltà più avanzata, maggiori conoscenze in ambito chimico, rispetto per gli animali, dieta vegetariana, niente guerre, un’unica religione, ecc.); quanto alla Terra, il marziano è lapidario: “You have only measured us as a planet. We have measured you as a people. […] In your present state, you appear to us as a world of discord, confusion, and strife” (pp. 87, 97). Il romanzo prosegue secondo gli schemi della tipica narrativa utopica, regalando a tratti brani straordinari come quello che segue, che risuona in modo evidente con la Dichiarazione d’Indipendenza americana: “The planet Mars is held to be the inheritance of those who are born upon it. Admitting the self evident and uncontrovertible justice of this view, our government ages ago assumed the ownership and property control of it in trust for the equal benefit of all” (p. 150). Una parte importante è quella dedicata alla politica – si parla del regime capitalista come di “misgovernment” e della diseguaglianza di genere e di classe come “relics of barbarism” (pp. 217, 219) – e in particolare alle donne: “Your estimate of the mental capacity of women is singularly erroneous […] with the enfranchisement of women the humanities of life would enter more largely into your politics […] your legislation in the hands of men alone has accomplished but little alleviating the distresses of humanity”, e così via (p. 216). Se il romanzo termina con un riferimento al Messia, il messaggio complessivo del romanzo suona però molto più vicino a quello marxiano (del resto, lo “spettro del comunismo” si aggirava per l’Europa già da metà Ottocento: ma qui siamo negli USA), soprattutto nei casi in cui il marziano accusa direttamente i terrestri parlando di “your breathless pursuit of wealth, beyond all reasonable limit” (p. 272). Anche in questo caso il termine pursuit non è casuale ma risuona con quella pursuit of happiness che, nello spirito più autentico dei Padri Fondatori era (forse) tutt’altra cosa. Nei romanzi appena analizzati e in quelli che troveremo nei primi anni del nuovo secolo all’interesse per Marte si aggiunge quello per la telepatia (grazie
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agli studi di Roger Luckhurst), la reincarnazione e la teosofia, che spesso vanno a far parte del plot insieme ad altri elementi legati alla spiritualità, ai medium e alla religione: non solo “Nineteenth-century spiritualists imagined Mars as a home for the souls of the dead” (Morton 2003: 317), ma troviamo anche casi di teletrasporto, smaterializzazione, magnetismo. Del resto, la scienza coesisteva spesso, in quegli anni, con lo spiritualismo e il soprannaturale (basti pensare che la psicologia non aveva ancora uno statuto di scienza autonoma e veniva considerata una branca della filosofia), anche se non senza conflitti. Molte narrazioni pubblicate da medium sono collegate a Marte, così come dipinti (per esempio la paesaggistica della medium svizzera Hélène Smith). Al 1893 risale, ancora, A Cityless and Countryless World di Henry Olerich, una sorta di manuale di catechismo finalizzato a riformare la società americana. I marziani sono chiamati Marsites ma, in realtà, “That a reformer whose principles are being urged is a ‘Marsite’ is incidental; he could just as easily be from Holstein, Iowa – Olerich’s own hometown” (Crossley 2011: 97). Pochi anni dopo James Cowan, Connecticut, scrive Daybreak: A Romance of an Old World (1896)6. Qui Marte è un mondo antico ma ancora abitato: viene definito “an afternoon planet” (capitolo 6) e quindi è un po’ più avanti rispetto alla Terra quanto a progresso, come bene evidenzia l’estratto che segue: “I perceive,” said our friend, “from this and other things you have told me, that your development is going on in about the order which has prevailed on Mars. Do not be discouraged in your efforts to bring that mysterious and wonderful agent, electricity, into complete subjection. You will find it your most useful servant, and in connection with aluminum it will enable you to solve numerous problems and remove many difficulties from your path of progress. Here we have made full use of both of these valuable helps. Electricity enters into every department of life. It runs our errands, takes us from place to place, builds our houses, cooks our food, and even is applied to the growth of our food when we are in haste for any article. Its laws are so well understood that there is no fear of personal injury from its use, and I will show you how familiar an aid it is to us. Here,” he continued, taking from his pocket a brightly polished case of metal, “is a compact storage battery, containing, not electricity itself, of course, but elements so prepared that a simple touch will start into motion a powerful current, able to perform almost any task I may ask of it. This case, you see, is so small and light that it is no burden, and yet it contains power enough to serve me for many days. Of course, all our work of a fixed character has appliances with the power permanently attached, and these portable reservoirs are carried about with us only for detached and unexpected tasks.” (Capitolo 7)
6 James Cowan, Daybreak: The Story of an Old World (1896), in: (25/03/2015). Mancando i numeri di pagine, citeremo i capitoli.
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L’elettricità è un argomento estremamente attuale all’epoca in cui viene scritto il romanzo, e l’autore ne immagina gli usi futuri che a noi lettori del terzo millennio tutto sembrano fuorché scienza marziana. Quanto ai trasporti, “Of course we navigate the air, swiftly and safely […] often on a pleasant day the sky over a great city will be as full of air ships, or balloons as we still sometimes call them, as its harbor is of pleasure boats” (Ibidem). Sulle strade si muovono “modern electric cars” (Ibidem), ma esiste anche un trasporto all’interno di lunghi tubi simili alla metropolitana. I treni viaggiano sempre verso ovest: […] it was now late in the day, and I began to wonder how we were to continue the trip without being out in the night. When I mentioned my thought to Thorwald, he removed the difficulty in a moment by saying: “We simply travel west and leave the night behind us. You know the surface of Mars, even at the equator, goes east at the rate of only five hundred miles an hour, and as our modern cars take us much faster than that, it is easy for us to keep ahead of the night by going in the right direction. So in making long trips we try to travel west.” “But suppose you want to go east?” “Then we go west to get east, and we arrange the speed so as to get to our destination in the day-time.” (Capitolo 14)
È fin troppo facile ricollegarsi ancora a Thoreau, che in Walden (1854)7 appuntava che, nelle sue passeggiate, finiva sempre per dirigersi “westward”, e che scriveva in Walking (1862): Every sunset which I witness inspires me with the desire to go to a West as distant and as fair as that into which the sun goes down. He appears to migrate westward daily, and tempt us to follow him. He is the Great Western Pioneer whom the nations follow. We dream all night of those mountain-ridges in the horizon, though they may be of vapor only, which were last gilded by his rays. The island of Atlantis, and the islands and gardens of the Hesperides, a sort of terrestrial paradise, appear to have been the Great West of the ancients, enveloped in mystery and poetry. Who has not seen in imagination, when looking into the sunset sky, the gardens of the Hesperides, and the foundation of all those fables?8
Del resto il sogno americano nasce proprio su questa “Westernalization” del sogno della Terra Promessa (che diventa Land of Opportunity), la quale, se nell’antichità si trovava a est, dalla scoperta dell’America si riposiziona a ovest. E Thoreau si sente spinto verso ovest perché è lì che si trovano la wilderness e la libertà a cui aspiravano i suoi progenitori: 7 H. D. Thoreau, Walden (1954), in: (25/03/2015). 8 H. D. Thoreau, Walking (1862), in: (25/03/2015).
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Thoreau’s own natural tendency is to head west, where the earth is “more unexhausted and richer,” toward wildness and freedom. The east leads to the past – the history, art, and literature of the Old World; the west to the forest and to the future, to enterprise and the adventure of the New World. As a nation, we tend toward the west, and the particular (in the form of the individual) reflects the general tendency. […] America, whose landscape has not yet been completely civilized, suggests “more of the future than of the past or present.” […] Thoreau takes up the subject of the wild (synonymous with the west), “wild lands where no settler has squatted.”9
Marte, dunque, pur nella sua perfezione, ricalca il modello terrestre e in particolare americano. La vicenda prende poi una piega religiosa quando il terrestre e il marziano parlano di Gesù Cristo e l’uno impara così dall’altro che il Figlio di Dio ha vissuto un’esperienza analoga su entrambi i pianeti, morendo e resuscitando su entrambi, il che rende terrestri e marziani “brothers” anche in senso profondo e spirituale (Capitolo 20). Ma il brano sull’elettricità resta il più significativo. Non è un caso che negli anni seguenti troviamo una serie di romanzi chiamati “Edisonades”, fra cui Edison’s Conquest of Mars (1898) di Garrett P. Serviss, seguito non autorizzato del celebre The War of the Worlds del britannico H. G. Wells, un romanzo che ebbe molte imitazioni e sequels oltreoceano, su cui ritorneremo nel capitolo settimo. E non c’è da stupirsi, visto che si tratta del racconto del primo grande conflitto interplanetario e che fu pubblicato contemporaneamente anche negli USA, sulla rivista Cosmopolitan, da aprile e dicembre 1897. Il romanzo è importante in quanto riprende esplicitamente la retorica della Frontiera: “If Edison’s Invasion of Mars exhibits the hallucinogenic optimism of nineteenth-century American scientific romance, it also describes the limits of efforts to restage the ‘conquest’ of the (American) frontier on the red planet” (Markley 2005: 183). Se nel suddetto sequel l’Edison del titolo è, naturalmente, Thomas Alva, l’inventore della lampadina a incandescenza, un altro inventore famoso appare in To Mars With Tesla; or, the Mystery of the Hidden World (1901) di J. Weldon Cobbs, che apre il Novecento. Nel romanzo, Nikola Tesla è assistito da un giovane nipote di Edison (il quale, nella realtà, fu un acerrimo rivale di Tesla)10 nel tentativo di comunicare col 9 (25/03/2015). 10 La rivalità tra Edison e Tesla (che lavorò per lui presso il laboratorio di Menlo Park) è legata sia a questioni economiche sia al fatto che Edison, il quale non aveva una conoscenza approfondita di matematica e fisica, non intuì il grande potenziale della corrente alternata. Tesla fu sottostimato e non fu retribuito adeguatamente; solo più tardi Edison si pentì di non aver ascoltato il giovane Tesla e di non aver usato la corrente alternata per primo. A questo proposito si raccomanda la visione e l’ascolto dell’esilarante “Nikola Tesla vs Thomas Edison. Epic Rap Battles of History Season 2”, che presenta una versione rap delle divergenze fra i due scienziati: (26/05/2015).
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pianeta Marte. Vediamo quindi come fin dai primordi del genere la scienza s’interfaccia con l’immaginazione, e la narrazione si fa più attraente per il lettore servendosi dell’autorevolezza di scienziati in carne e ossa e, per giunta, americani. Nella realtà, Nikola Tesla spent 50 years of his life trying to find a way to communicate with Mars. Tesla believed that Mars was inhabited with intelligent Martians and had a civilization, as evidence by the canals of the red planet – Mars, which could be seen by telescope. This belief about Martians was common at the time when Tesla was alive. […] Nikola Tesla contributed to the exploration of cosmos by discovering the first wireless robot in 1898 which he demonstrated in Madison Square Garden. This was the first radio guided robot. Tesla discovered remote control, so important to send signals to satellites and spaceship around the globe, to guide their movement. Tesla discovered cosmic radio waves in his laboratory in Colorado Springs, 1899. Cosmic radio waves are important for the analysis of planetary matter and the composition of stars/planets, which emit those cosmic waves. Today there are numerous installations in the world made by the United States, Russia, Japan, etc. which are analyzing cosmic radio waves. Tesla is one of the first scientists in the world who used the ionosphere for scientific purposes […] The ionosphere is used for radio communications around the globe. The HAARP project is based on Tesla’s principles. When Tesla built the Wardenclyffe Tower in Shoreham, Long Island, he included the “Tesla Tower” function for communication with Mars11.
Un parere meno indulgente è quello espresso da Crossley: Several people, including the Croatian-American inventor Nikola Tesla, proposed wireless telegraphy to get in touch with the Martians. At the century’s turn, Tesla provoked widespread ridicule for his claim that some noises that he could not account for on his wireless apparatus in Colorado constituted a message from “the inhabitants of Mars”. (2011: 171)
5.2. “Not totally alien”
Tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo secolo l’infatuazione per Marte giunge al suo apice, tanto che si parla di “Mars-mania” (Crossley 2011: ix, 36). Perfino sui giornali troviamo pubblicità ispirate al Pianeta Rosso: in una del 1901, per esempio, un marziano proietta verso la Terra un raggio di luce che contiene le parole “send us up some Pears’ Soap” (Ibidem: 11). Nel 1892 troviamo Messages from Mars, By the Aid of the Telescope Plant di Robert D. Braine, scrittore e musicista: dedicato a Flammarion, vede il protagonista naufrago nell’Oceano Indiano su un’isola che è in diretta comunicazione con Marte 11 (12/03/2015).
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(il cui vero nome è Oron). Qui incontra un mondo utopico che l’autore costruisce, diversamente dalle tipiche narrazioni utopiche, per negazione e sottrazione: The Oronites have no money – no banks, no burglars – no absconding bank cashiers – no stocks – no bonds – no stock companies – no railroads, no ships – no sailors – no cities – no wharves – no boats – no canals – no bridges – no horses – no wagons – […] (cit. in Ibidem: 61)
La decostruzione del sistema americano capitalistico (non vi sono né denaro né banche) passa attraverso la decostruzione della mitologia western (il cavallo, la ferrovia) e dei simboli della metropoli (le banche, i ponti). Nel 1903 esce a New York The Certainty of a Future Life in Mars. Being the Posthumous Papers of Bradford Torrey Todd a cura di Louis P. Gratacap, per molto tempo direttore dell’American Museum of Natural History12. Quest’ultimo, nella presentazione, accosta termini come “amazing” e “incredulity” a espressioni quali “reasonable belief ” per condurre il lettore verso un “marvelous field of investigation” ai limiti della realtà, pur specificando che non si tratta di un “hoax” (p. iv) e inserendo in appendice The Planet Mars di Schiaparelli. Il primo capitolo si apre con la promessa di portare “a very comforting and indisputable proof ” dell’esistenza dell’aldilà (p. 9): presenterà, infatti, “incontrovertible evidence” che la nostra vita umana continua, dopo la morte, su Marte. Curioso fin da ragazzo di esplorare il cielo, e avendo trascorso molto tempo nel laboratorio/osservatorio del padre, professor Dodd, il narratore ricorda la sua adolescenza, le sue domande, l’avvento dell’elettricità nel 1881 (pp. 17 e ss.) anticipata dagli esperimenti del padre, e i propri esperimenti. Marte viene nominato la prima volta quando il narratore annuncia che la vita umana può continuare sul Pianeta Rosso, dopo la morte, “for some of us” (p. 21). Si delinea così, attraverso una sorta di selezione implicita in queste parole, l’immagine di una variante del sistema purgatorio-paradiso per cui c’è tutta la teoria evoluzionistica dentro il concetto di “heavens” (p. 118). Subito dopo, infatti, si torna a parlare di scienza – fra l’altro vengono menzionati Gustav Ludwig Hertz, Guglielmo Marconi e la “wireless telegraphy” (pp. 25-26) – e questo ci fa capire che scienza e religione (o spiritualità) procederanno per tutto il volume non in opposizione bensì a braccetto, rinforzandosi l’un l’altra nei rispettivi punti di forza. Il padre e il ragazzo decidono poi di trasferirsi da New York alla Nuova Zelanda, per cercare punti di osservazione migliori (l’obiettivo principale 12 L. P. Gratacap (ed.), The Certainty of a Future Life in Mars. Being the Posthumous Papers of Bradford Torrey Todd (1903), in: (24/03/2015). Un’osservazione curiosa: il testo scansionato conserva macchie e bolle di umidità che rendono le pagine visivamente evocative della superficie marziana. Anche in questo caso, vi sono i numeri di pagina, a cui ci riferiremo per le citazioni.
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del padre è mettersi in contatto con la moglie defunta) e mentre stanno viaggiando verso la California lui legge Esoteric Buddhism13 e riflette sugli scritti di Helena Petrovna Blavatski e dei teosofi, sviluppando una propria teoria della reincarnazione in cui questa avviene a livello interplanetario. Si diverte così a immaginare i poeti su un astro, i romanzieri su un altro, gli scienziati su un altro ancora, e così via; e su ognuno di essi immagina un’Utopia. Ipotizzando l’esistenza di una “planning, upholding mind” che ci governa, e certo che “no conceivable limitation could be placed upon its expansion and conquests”, il protagonista ne deduce che “it would be incomprehensible that the colonizing (so to speak) of the central mind occurred only on one sphere, when it doubtless might be embodied in other beings, on hundreds or thousands or millions of spheres” (p. 29). Se così fosse, continua, “the abyss of space would eventually thrill with the vibrations of conscious communion between remote worlds” (Ibidem). Se questo si riallaccia da un lato alla poetica trascendentalista, ricalcando quasi alla lettera la “vibration of the universal lyre” evocata da Thoreau in “Sounds” (Walden, 1854), dall’altro anticipa la fisica quantistica e in particolare la teoria dell’entanglement, che possiamo far risalire al celebre articolo sul paradosso pubblicato nel 1935 da Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen e alla recensione che scrisse Erwin Schrödinger. Giunti in Nuova Zelanda, i due si dedicano dunque all’osservazione di Marte. Il narratore utilizza alcune pagine per spiegare la scelta di questo pianeta (la sua osservabilità grazie al tipo di orbita, analogie varie con la Terra, ecc.) come sede della fase dello spirito, in un’ottica per cui a ogni pianeta corrisponde una fase diversa della rigenerazione. Infine il padre espone il suo progetto sotto forma di invocazione: “O my child, […] if only the viewless abyss of space between our world and Mars might be bridged by the noiseless and unseen waves of a magnetic current” (p. 36). Il primo tentativo di contatto radio viene effettuato nell’agosto del 1890, in occasione di un’opposizione di Marte. A un certo punto i due iniziano a ricevere messaggi (in alfabeto Morse)14 che non sono però in grado di decodificare, ma la cui evidente intenzionalità viene sottolineata e più volte ribadita e che è improbabile provengano dalla Terra. Per dovere di cronaca, aggiungo che 13 Gratacap cita come autore il colonnello Olcutt, ovvero Henry Steel Olcott, presidente della Theosophical Society e autore di numerosi testi fra cui Buddhist Catechism, una biografia di M.me Blavatsky e People from the Other World (1875). Il testo integrale di quest’ultimo è visibile in: (24/03/2015). In realtà l’autore di Esoteric Buddhism è Afred Percy Sinnett (1883), il quale nel 1980 ebbe un incontro con Blavatsky e Olcott. 14 L’alfabeto Morse fu inventato da Samuel Morse nel 1835 e realizzato dal suo collaboratore Alfred Vail due anni dopo. È una forma di comunicazione consistente nella trasmissione di impulsi di diversa durata. Per maggiori approfondimenti si rimanda ai siti e (17/09/2015).
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una parte viene trascritta in linee e punti vergati a mano sulla pagina dattiloscritta e quindi il lettore può cercare di decodificarli a sua volta. Il secondo capitolo si apre con la considerazione che evidentemente “there is a Martian language”: si tratta di una lingua soprattutto vocalica, “consisting of short vocalic syllables” (p. 53). Il professore vede nel messaggio il desiderio dei marziani, fatti di “transplanted human spirits”, di mettersi in comunicazione con la Terra (Ibidem). A questo proposito, è interessante notare che nel romanzo Marte è chiamato “sister planet” (p. 47) e la collina su cui si effettuano le osservazioni “Martian Hill” (p. 61). Questa terminologia, unita ad altre parole incontrate in precedenza (expansion, conquest, colonizing, transplanted), ci dice molto sulle forti radici americane di questo testo, che affondano nell’esperienza della Frontiera, della transplantation, della “City upon the Hill” e delle metafore familiari (la sisterhood di Marte ben s’inserisce nel contesto che comprende i Pilgrim Fathers, i Founding Fathers e il bond of brotherly affection di matrice puritana). Sul letto di morte il padre, convinto che Marte rappresenti “his future post mortem home”, informa il figlio di aver imparato talmente bene l’alfabeto Morse che riuscirà a mandargli dall’aldilà messaggi nella sua lingua, in modo da farsi capire con chiarezza: “I shall be heard by you in English words, opening up the mysteries of other worlds!” (p. 66). Nelle pagine successive incontriamo nuovamente una parte più “scientifica”, ricca di riferimenti a vari scienziati del tempo, alla Royal Society, e a un volume di Hugh MacColl intitolato Mr Stranger’s Sealed Packet (1889), in cui il protagonista, dopo aver costruito una macchina ingegnosa, raggiunge Marte, che è popolata di esseri chiamati “Marticoli” (p. 70). La narrazione riprende con i tentativi (vani) di contatto, che durano circa un anno. Quando, finalmente, i messaggi iniziano ad arrivare, il narratore commenta: “The abyss of Death was bridged!” (p. 74). Il terzo capitolo riporta la lunga trascrizione del messaggio del prof. Dodd e rappresenta il fulcro utopico del romanzo. Egli si trova sulla Hill of Phosphori (un’altra collina), circondato da cori di spiriti incorporei, il tutto avvolto in una marmorea fluorescenza, diretto alla City of Lights (descritta in seguito come “throbbing metropolis”, p. 86), in attesa di riprendere un corpo. La musica rappresenta un elemento fondamentale su Marte, in quanto “it creates matter” (p. 87). Il pianeta è abitato da una popolazione indigena “fair and white” (p. 88); non ci sono nazioni e il regime è di stampo socialista. I marziani sono tendenzialmente vegani (si alimentano di sola frutta, di cereali e, in rarissime occasioni, della carne di un unico volatile detto imilta) e in città non hanno mezzi di trasporto, ma camminano; non hanno ferrovie, ma solo un complicato sistema labirintico di canali; non hanno libri, riviste e simili, ma solo musica. Si dedicano principalmente all’agricoltura, all’ingegneria e all’astronomia. Il loro linguaggio è vocalico e monosillabi-
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co e assomiglia al mongolo, “but without the guttural clicks and coughs” (p. 91). A un certo punto il professore incontra un altro ex-terrestre, uno scienziato come lui e, come lui, destinato a restare su Marte per molti anni, il quale gli dà ulteriori informazioni. I marziani sono sostanzialmente di due razze: una è “prehistoric” e quindi naturale, l’altra invece è “supernatural”, essendo composta dagli esseri che vi arrivano da altri pianeti e soprattutto dalla Terra (p. 99). Questi esseri non sono, comunque, immortali: “The Martians are not immortal. They vanish in time” (Ibidem). Ci si può ammalare, ma non si muore: si evapora. Non ci sono industrie, e le varie attività vengono svolte una volta che i nuovi arrivati diventano “Martianized” e vengono inviati in diverse zone del pianeta (p. 103). Marte, da Giardino dell’Eden, si sta rivelando sempre più una sorta di Ellis Island utopizzata. Nel quarto capitolo il padre racconta al figlio che ora è diventato un “flesh and blood Martian” e che ora si trova nella City of Scandor (p. 112) in compagnia di Lavoisier, Galvani, Galileo, Newton, Avogadro e altri eminenti scienziati di ogni tempo e paese – fra cui anche l’americano Benjamin Franklin (inventore, scienziato e politico nonché uno dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza). La musica è una costante e si sottolinea la sua analogia con “the soft vocalization of Italian” (p. 116). Viene anche descritto un cereale che si chiama rint e che rappresenta l’alimento principale insieme alla frutta, al vino e al latte (tutti di origine vegetale), e si riporta anche una frase di saluto nella lingua marziana: “Aru meta voluca volu li tonti tan dondore mal per vuele vonta bidi ami” (p. 123). Ma il punto più interessante è quello che riguarda la ricezione da parte dei marziani della scoperta che si può comunicare con la Terra, scoperta che era stata profetizzata da qualcuno: Forerunners […] had given some account of the strange new spirit from the Earth. […] It had been the dream of the Martians, the sensation of their daily lives, the hope of returning to their former dwelling places, some token, word, salutation, indeed to somehow begin that almost apocryphal conception of binding the Universe into a conversational unit. (p. 135)
Questa profezia della radio come una sorta di antenata del World Wide Web su scala planetaria è ora sul punto di attuarsi. Il professore propone, davanti a un’immensa audience che lo acclama: […] let me bridge the millions of miles to our earth, and in an instant stir the populations of the Earth into fierce attention, so that from now on through all the coming years you Martians shall speak with the people of the earth and again from Mars, as from some relay station, messages shall pass outward to the stars, and thus from planet to planet the reinforced utterance may pierce the universe of worlds. (p. 141)
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Volta in persona lo chiama fuori dall’assemblea e lo assiste nell’invio del primo messaggio; gli viene detto, però, che per varie ragioni dovrà attendere prima di inviare il secondo, e nel frattempo è invitato a visitare Scandor dove, fra le altre cose, potrà ammirare le opere di un artista marziano di nome Hinudi, che è in un certo senso “the reincarnated Leonardo da Vinci of our Earth” (p. 151). Nel quinto capitolo, dopo i giardini e le fontane, sono descritti nei dettagli i canali, e di nuovo incontriamo la musica sotto forma di una ninna nanna armoniosa che inizia con le parole “Ana cal tantil to ti” (p. 159): essa fa tornare indietro nel tempo Dodd col pensiero, facendogli ricordare “incidents of life in New York City” e creando un’atmosfera tale che “it seemed to establish us, or rather me, to give me identity, and build up the growing certainty that I had come from the earth, and was re-embodied in this new sphere of active feeling and experience” (p. 160). Qui la memoria si lega alla ricostruzione dell’identità terrestre / americana sollecitata dall’ascolto della ninna-nanna: la condizione hyphenated del padre, metà terrestre e metà marziano, oppure non più del tutto terrestre ma non ancora del tutto marziano, ricalca i tipici percorsi identitari legati all’americanizzazione degli immigrati rispetto al Vecchio Mondo. Successivamente vengono menzionati i due satelliti di Marte, compreso il fatto che furono scoperti da Asaph Hall nel 1877, dei quali viene descritta “the nocturnal glory they both lend to the Martian life” (p. 162). La descrizione dei due satelliti è una delle più suggestive che siano mai state tentate: On all sides the undulating ground, covered with cultivation, varied with thick patches of trees, with here and there shining lights from villages and isolated homes, carried the eye onward to a rising hill country, beyond which, again, silhouetted against the shining sky where Phobos began to rise mountain tops were just discernible. Deimos, the outer moon, was already shining, and its pale, sick light imparted a peculiar blueness impossible to describe upon all surfaces it touched. Here was the phenomenon we witnessed with increasing pleasure. Phobos was emerging from a cloud and its yellow rays possessing a greater illuminating power, mingled suddenly with the blue and spectral beams of Deimos and the land thus visited by the complimentary flood of light from these twin luminaries seemed suddenly dipped in silver. A beautiful white light, most unreal, as you mortals might say, fell on tree and water, cliff, hill, and villages. The effect was not unlike that instant in photography when a developing plate shows the outlines of its objects in dazzling silver before the half tints are added, and the image fades away into indistinguishable shadow. (p. 162)
L’accenno finale alla fotografia, che da un lato sembra interrompere la visione incantata del cielo di Marte per riportarci alla realtà tecnologica del tempo, dall’altro conferisce a quest’ultima un’aura di mistero tale da farla sembrare quasi più fantastica della fantasticheria stessa.
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Intanto il professore, che spera di potersi rincontrare con la moglie, ma che non è ancora pronto a fondersi nell’armonia eterea marziana, nota uno straordinario miglioramento delle proprie condizioni: “I feel wonderfully active and vitalized. My senses are acute. I see further, hear further, smell further than I ever did on earth, and it even seems to me I can anticipate things” (p. 164). Tuttavia egli prova una forte malinconia per la Terra e fa addirittura un sogno in cui è a New York col figlio: “I dreamt of the Earth, the pictures naturally recalled, by these surroundings, of my life on the Hudson River in New York, and it seemed so real, that I should find myself with you working away in the old laboratory at Yonkers near the Albany Road” (p. 174). Dopo varie peripezie, il professore si sente finalmente trasformato: “I was a Martian. The light of recognition came back again to my eyes my tongue was loosened, my senses accommodated themselves to the stupendous circumstances about me” (p. 197). Mentre, sulla Terra, la fidanzata del narratore non vede l’ora che “this awful telegraphic work would be over, and we could be happy together without a thought of that cold, far-away Mars!” (p. 212), lui riceve l’ultimo drammatico messaggio del padre: Marte è stato colpito da una pioggia di meteoriti che l’hanno distrutto in gran parte, ma al contempo si è ricongiunto con l’amata moglie. Nel finale il figlio informa il padre che è gravemente malato e sta per raggiungerlo, e il volume termina con le parole: “the blight of Death is only an incident in a continuous renewal of Life” (p. 219). Come abbiamo visto, qui Marte serve soprattutto come espediente per riflettere sulla vita, sulla morte e sull’amore; ciononostante, sono inserite nel romanzo pagine ispirate alla scienza e alla tecnologia, destinate ad aumentare la verosimiglianza di quanto narrato. In entrambe le tipologie, comunque, sia nelle pagine più puramente narrative sia in quelle più vicine alla trattazione erudita emerge fortissimo il contesto storico-culturale americano, con i suoi valori, i suoi pregiudizi, i suoi luoghi e i suoi personaggi. Sempre nel 1903 esce Journeys to the Planet Mars15 di Sara Weiss, un romanzo di oltre 500 pagine scritto da una sedicente sensitiva che include tredici illustrazioni della presunta flora marziana (tra cui il “fiore nazionale”, che si chiamerebbe roden) e narra dei viaggi in cui la medium viene condotta su Marte (il cui nome è Ento, che significa “chosen” o “set apart”, p. iv) da vari spiriti fra cui quelli di Giordano Bruno e di Charles Darwin. La stessa autrice scriverà nel 1906 un altro testo basato sulla scrittura automatica marziana: Decimon Huydas: A Romance of 15 Il titolo completo è: Journeys to the Planet Mars or Our Mission to Ento (Mars), Being a Record of Visits made to Ento (Mars) by Sara Weiss, psychic, under the guidance of a Spirit Band, for the purpose of conveying to the Entoans, a knowledge of the continuity of Life, Transcribed Automatically by Sara Weiss under the Editorial Direction of (Spirit) Carl De L’Ester. Testo integrale in: (21/04/2015).
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Mars. L’idea che sta alla base di entrambi i volumi è che il progresso tecnologico aumenterà le possibilità di comunicare con Marte (e dunque migliorerà i rapporti già esistenti fra gli spiriti di Marte e i medium terrestri) tramite le onde radio, il magnetismo, e così via. Nel frattempo in Europa, nel 1905, esce Lieut. Gullivar Jones: His Vacation (poi ripubblicato come Gulliver of Mars, questa volta con la e)16 di Edwin Lester Linden Arnold, che ispirerà molti romanzi successivi, fumetti (Gullivar Jones Warrior of Mars) e anche una riscrittura del 2007, Edgar Allan Poe on Mars: The Further Memoirs of Gullivar Jones dei citati autori francesi Jean-Marc Lofficier e Randy Lofficier (dove un guerriero leggendario proveniente dall’antico passato di Marte, Gullivar Jones, e un giovane scrittore residente a Baltimora nel 1827, naturalmente Edgar Allan Poe, si incontrano e uniscono le forze per contrastare le malvagie macchinazioni di Rodrik-Usher the Damned). Lieut. Gullivar Jones utilizza Marte per parlare dell’America e dell’identità americana tramite una doppia ibridazione fra un personaggio della letteratura inglese (Gulliver, creato da Jonathan Swift) e un autore americano (Poe). Inoltre, è interessante osservare la modalità fantastica con cui il narratore/protagonista si ritrova in viaggio per Marte: una modalità che vuol forse essere un omaggio a uno dei primi eroi della letteratura americana, Rip van Winkle, che nel racconto omonimo di Washington Irving (1819) si addormenta nel 1770 e si risveglia alla fine della Guerra d’Indipendenza per trovare una società radicalmente cambiata: “[…] Oh, I wish I were anywhere but here, anywhere out of this redtape-ridden world of ours! I WISH I WERE IN THE PLANET MARS!” How can I describe what followed those luckless words? Even as I spoke the magic carpet quivered responsively under my feet, and an undulation went all round the fringe as though a sudden wind were shaking it. It humped up in the middle so abruptly that I came down sitting with a shock that numbed me for the moment. It threw me on my back and billowed up round me as though I were in the trough of a stormy sea. Quicker than I can write it lapped a corner over and rolled me in its folds like a chrysalis in a cocoon. I gave a wild yell and made one frantic struggle, but it was too late. […] I felt myself lifted from the floor, pass once round the room, and finally shoot out, point foremost, into space through the open window, and go up and up and up with a sound of rending atmospheres that seemed to tear like riven silk in one prolonged shriek under my head, and to close up in thunder astern until my reeling senses could stand it no longer, and time and space and circumstances all lost their meaning to me17.
16 Edwin Lester Linden Arnold, Gulliver of Mars (1905), in: (19/02/2015). Le pagine non sono numerate. 17 Ibidem.
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Giunto in volo su Marte, il narratore cade al suolo scontrandosi con una classe di studenti che stanno ascoltando una lezione, e riesce faticosamente a districarsi. Ciò che segue include i tipici clichés dei romanzi utopici: se da un lato non riconosce il genere di queste strane creature (him, or her – which was it?) e non ne comprende la lingua (He… said something incomprehensible), dall’altro ha la gradevole sorpresa di trovarsi fra esseri gentili e premurosi: When we had done the mass disentangled itself and I was able to raise my head from the shoulder of someone on whom I had fallen, lifting him, or her – which was it? – into a sitting posture alongside of me at the same time, while the others rose about us like wheat-stalks after a storm, and edged shyly off, as well as they might. Such a sleek, slim youth it was who sat up facing me, with a flush of gentle surprise on his face, and dapper hands that felt cautiously about his anatomy for injured places. He looked so quaintly rueful yet withal so good-tempered that I could not help bursting into laughter in spite of my own amazement. Then he laughed too, a sedate, musical chuckle, and said something incomprehensible, pointing at the same time to a cut upon my finger that was bleeding a little. I shook my head, meaning thereby that it was nothing, but the stranger with graceful solicitude took my hand, and, after examining the hurt, deliberately tore a strip of cloth from a bright yellow toga-like garment he was wearing and bound the place up with a woman’s tenderness18.
A questo punto il protagonista si chiede dove sia finito: “Where was I? It was not the Broadway; it was not Staten Island on a Saturday afternoon”19. Il senso di straniamento, reso esplicito mediante il ricorso alla toponomastica dei luoghi conosciuti newyorkesi che fanno da punto di riferimento, si acuisce con il secondo contatto col “marziano”, il quale riesce a “insegnargli” la sua lingua in modo telepatico. È chiaro – e sarà più volte ribadito – che lo stranger è il narratore, sempre più stupito di fronte a questo popolo gioioso, sorridente, ordinato e capace di trasmettere la conoscenza tramite una sorta di processo ipnotico rapido e profondo: When my friendly companion found I could not understand him, he looked serious for a minute or two, then shortened his brilliant yellow toga, as though he had arrived at some resolve, and knelt down directly in front of me. He next took my face between his hands, and putting his nose within an inch of mine, stared into my eyes with all his might. At first I was inclined to laugh, but before long the most curious sensations took hold of me. They commenced with a thrill which passed all up my body, and next all feeling save the consciousness of the loud beating of my heart ceased. Then it seemed that boy’s eyes were inside my head and not outside, while along with them an intangible something pervaded my brain. The sensation at first was like the application of ether to the skin – a cool, 18 Ibidem. 19 Ibidem.
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numbing emotion. It was followed by a curious tingling feeling, as some dormant cells in my mind answered to the thought-transfer, and were filled and fertilised! My other brain-cells most distinctly felt the vitalising of their companions, and for about a minute I experienced extreme nausea and a headache such as comes from over-study, though both passed swiftly off. I presume that in the future we shall all obtain knowledge in this way20.
La fiducia nel futuro (scientifico e tecnologico) è più volte reiterata e argomentata in tutta la narrazione in modo non puramente utopico, ma circostanziato, come nel brano che segue, dove gli antichi wonders of the invisible world hanno ceduto definitivamente il posto alle extraordinary marvels della scienza, e dove l’assunto leibniziano-sherlockiano riguardante “the impossible” assume dimensioni cosmiche: I may strengthen my claim on your credulity by pointing out the extraordinary marvels which science is teaching you even on our own little world. To quote a single instance: If any one had declared ten years ago that it would shortly be practicable and easy for two persons to converse from shore to shore across the Atlantic without any intervening medium, he would have been laughed at as a possibly amusing but certainly extravagant romancer. Yet that picturesque lie of yesterday is amongst the accomplished facts of today! Therefore I am encouraged to ask your indulgence, in the name of your previous errors, for the following and any other instances in which I may appear to trifle with strict veracity. There is no such thing as the impossible in our universe!21
Poco dopo, tuttavia, il protagonista, nell’apprendere dove si trova, in preda a una sorta di vertigine interplanetaria non può non esclamare: “Mars! oh, dreadful, tremendous, unexpected!”22. Fra le cose “inattese” vi è senza dubbio l’aspetto del genere sessuale. Un/a marziano/a interpellato/a dal narratore, infatti, sostiene di non essere né maschio né femmina e il dialogo che segue ci ricorda da vicino quello leopardiano citato in precedenza: “Come,” I said laughingly, “speak! it engenders ambiguity to be so ambiguous of gender! But An, be reasonable; man or maid you must be.” “Must be; why?” “Why?” Was ever such a question put to a sane mortal before? I stared at that ambiguous thing before me […] “’Tis you yourself are one or other,” said that individual, by this time pink with anger, “and if you think because I am what I am you can safely taunt me, you are wrong. […]”23 20 Ibidem. 21 Ibidem. 22 Ibidem. 23 Ibidem.
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Non si tratta, però, dell’anticipazione letteraria e utopica di una rivendicazione transgender: al contrario, impariamo subito dopo che le creature descritte nel brano appartengono a una razza di schiavi, un tempo donne che volevano imitare gli uomini e per questo furono punite e diventarono “toilers only”24. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che il movimento delle suffragette, nato in Inghilterra, diede origine a varie forme di lotta anche negli Stati Uniti a partire dal 1869, ma le donne riuscirono a ottenere il diritto di voto solo nel 1920, dopo la fine della prima guerra mondiale. Quanto ai diritti degli omosessuali, bisogna aspettare addirittura gli anni ’60 del Novecento, anche se già nel 1897 a Berlino era stato costituito un comitato (WHK, Wissenschaftlich-humanitäres Komitee o Comitato Scientifico-Umanitario, fondato da Magnus Hirschfeld) per organizzarsi contro le leggi penali che li discriminavano e far conoscere il problema all’opinione pubblica. Il comitato riuscì a raccogliere oltre 5000 firme tra cui quella di Albert Einstein25. Nel 1905, anno in cui esce negli USA il romanzo oggetto della nostra analisi, negli ambienti della cultura ci si trovava già dunque in pieno dibattito e la vicenda narrata coglie e veicola sulla pagina le preoccupazioni del tempo. Nel corso della storia (che a poco a poco assume le tinte di un miscuglio tra romanzo cavalleresco – con il prevedibile innamoramento tra protagonista e principessa e conseguente rapimento e rocambolesco salvataggio – e, come si diceva, narrazione utopica) apprendiamo altri dettagli della vita su Marte: per esempio, che “The Martians […] arranged their calendar by the varying colours of the seasons, and loved blue as an antidote to the generally red and rusty character of their soil”26. La precisazione cromatica non può non ricordare i colori della bandiera americana: il rosso e il blu accompagnano dunque il terrestre anche su Marte. Dopo aver affrontato ogni sorta di peripezie e aver incontrato vari tipi di forme di vita, nel finale il protagonista torna – sullo stesso tappeto magico su cui aveva viaggiato all’inizio – nella sua New York, semplicemente esprimendo il desiderio di tornarci (“I wish I were in New York!”)27, dove chiederà alla sua ragazza di sposarlo subito, ottenendo a fatica da lei il permesso di raccontare tutta la vicenda senza omettere alcun fatto, compresi i suoi sentimenti per la principessa marziana. Pur non essendo ambientato su Marte, Captain Stormfield’s Visit to Heaven, l’ultimo romanzo scritto da Mark Twain (due capitoli furono pubblicati sullo Harper’s Magazine nel 1907 e 1908, poi il volume uscì nel 1909, poco prima 24 Ibidem. 25 Sappiamo però che con l’avvento del nazismo i diritti degli omosessuali come quelli di altre minoranze furono poi completamente ignorati e che anzi essi subirono persecuzione e reclusione nei campi di sterminio. 26 Edwin Lester Linden Arnold, op. cit., in: (19/02/2015). 27 Ibidem.
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della morte dell’autore) merita una breve menzione. La vicenda narra di come il capitano Stormfield muoia e inizi a vagare nello spazio su una cometa, poi sotto forma di cometa stessa, finché arriva in Paradiso, ma nel distretto sbagliato. Nessuno capisce da dove venga, e San Francisco, California e United States sono parole prive di senso: “Well, quick! Where are you from?” “San Francisco,” says I. “San Fran - WHAT?” says he. “San Francisco.” He scratched his head and looked puzzled, then he says - “Is it a planet?” By George, Peters, think of it! “PLANET?” says I; “it’s a city. And moreover, it’s one of the biggest and finest and -” “There, there!” says he, “no time here for conversation. We don’t deal in cities here. Where are you from in a GENERAL way?” “Oh,” I says, “I beg your pardon. Put me down for California.” […] “I don’t know any such planet - is it a constellation?” “Oh, my goodness!” says I. “Constellation, says you? No – it’s a State.” “Man, we don’t deal in States here. WILL you tell me where you are from IN GENERAL - AT LARGE, don’t you understand?” “Oh, now I get your idea,” I says. “I’m from America, - the United States of America.” […] “Where is America? WHAT is America?” The under clerk answered up prompt and says – “There ain’t any such orb.”28
Risale al 1909 un altro testo molto interessante, che condivide alcuni aspetti con i romanzi precedenti. L’autore è James B. Alexander e il titolo è The Lunarian Professor and His Remarkable Revelations Concerning the Earth, the Moon and Mars, i cui capitoli XIII e XIV sono dedicati a Marte e ai marziani. Riportiamo qualche stralcio di conversazione fra il narratore (terrestre) e il professore (lunariano), il quale, essendo già stato tre volte su Marte, è in grado di descrivere nei dettagli le strane creature che vi abitano, simili a grandi stelle marine: “[…] I would give anything for information about Mars and the Martians.” “[…] You see our folks first went there about 10,000 years ago. They found the planet inhabited by two bitterly hostile races that did little else than hunt each other.” “They must be like our race then,” I observed. “Yes,” he said, “in respect to their warlike instincts, but not as to their forms. They are not human nor even vertebrate, but they are built on the radiate plan. In short they are almost exactly like your star fishes, but enormously bigger. I have seen them as large as twelve feet across, though their more common size at maturity 28 M. Twain, Captain Stormfield’s Visit to Heaven (1909), in: (03/07/2015). La citazione appartiene al primo capitolo (il testo non è numerato).
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is six to eight feet. The difference between the two races is that in one there are six spokes or limbs radiating from the central body and in the other there are but five. These limbs may be called either legs or arms, for they serve as either and are sometimes one and sometimes the other. There is a fleshy disc that forms the extremity of each limb, around which like the petals of a flower are the flingers or toes, about like so many thumbs. […] When they move on land it is always in an up-right position, and they roll along edgewise like a wheel destitute of felloes rolling on the ends of the spokes. The central piece or hub constitutes the body including the stomach, heart, lungs etc., as well as the sense organs and brain. The shape of the body is like a short stout cylinder tapering to a rounded point at each end from one and a half to two feet in diameter, the legs radiating from the sides. At the center of one end of this body is the mouth, and the brain is located all round it in what we would call the cheeks. There is no neck. There are six eyes immediately around the mouth corresponding with the six legs, and just outside of the eyes are six ear holes with closable lips, but no outside flaps or shells. Outside of these are six breathing or blow holes leading into the lungs. The mouth is round and the lips pucker together when closing. There is no up or down to the Martian man, he stands equally well on any pair of his legs and handles equally well with any of his hands, and this is one of his greatest drawbacks. […] when the Martian has a mind to, he can walk extremely well sideways on two legs, that is, the head or mouth going forward. And this is the way he should walk as our people long ago pointed out to the Martians. […]”29
Il professore insiste sugli insegnamenti che i marziani avrebbero ricevuto molti secoli orsono dai lunariani: “They have plenty of iron on Mars and our folks taught them how to smelt and work it”30. Quanto ai dubbi che il narratore esprime circa la possibile intelligenza di queste creature, gli vengono fugati in questo modo: “Intelligence,” said the Professor, “does not depend on the form. Any form on which it is possible for the forces of the environment such as light heat contact etc., to make an impression, already has intelligence; the ability to be impressed is intelligence. If any organism can be impressed, then if you give it time enough it can be impressed indefinitely, because each impression differentiates it and adds to its sensitiveness, that is, its ability to be further impressed. The reason why inferior races so generally remain inferior is the jealousy and hostility of the superior. The dominant race is always hostile to any other race that shows any intelligence, and proceeds to kill it oft; for fear it will become a rival. It is thus that the race of man has no rivals that compare with him in intelligence, no ‘connecting links’ between him and the monkeys. He was jealous of them and exterminated them. […]”31.
29 James B. Alexander, The Lunarian Professor and His Remarkable Revelations Concerning the Earth, the Moon and Mars (1909), in: (17/02/2015). Le pagine non sono numerate. 30 Ibidem. 31 Ibidem.
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Nel capitolo successivo impariamo che anche i famosi canali sono stati costruiti dai lunariani, i quali hanno investito molto denaro ed energia per opere d’ingegneria marziana. Il testo rivela numerosi spunti interessanti, quali la descrizione del regime (che è monarchico), della religione, del modo di baciarsi, e così via, anche se in queste parti risulta piuttosto in linea con i modelli della narrativa utopica e non sempre innovativo. Nel 1910 esce The Man from Mars, Or Service for Service’s Sake di Henry Wallace Dowding, variazione sul tema dell’utopia di Marte (con tanto di Messia e di eguaglianza di genere): ambientato in parte a Roma, include una Costituzione Marziana. Il libro esce sull’onda dell’interesse suscitato per l’opposizione del 1909, quando fu fatta una vera e propria campagna perché tutti i cittadini americani provassero a comunicare col Pianeta Rosso tramite specchietti. Negli anni successivi furono portati avanti addirittura progetti per costruire sistemi elaborati di specchi allo scopo di raggiungere Marte con i riflessi (Crossley 2011). Nello stesso anno troviamo anche un libro per ragazzi, Through Space to Mars, or The Longer Journey on Record di Roy Rockwood. Così sono descritti gli strani abitanti (strange race of beings, queer people) di Marte nel capitolo XXII: There were men and boys and a few women in the crowd, but they were unlike any men, boys or women they had ever seen. Their heads were about three times as large as those of the ordinary person, and the eyes, ears and nose were of extraordinary size. Indeed, the eyes bulged out in quite an unpleasant fashion, and the ears of the Martians were not unlike those of an elephant in proportion, though they were shaped more like those of a human being. As for a Martian nose, it was elongated, and capable of being moved in any direction, as were also the ears32.
È interessante notare questi alieni che sono uomini e donne ma non assomigliano a nessun uomo o donna o bambino sulla Terra, nella consueta alternanza di analogia e differenziazione. Seguono le avventure dei protagonisti nella bellissima città di Martopolis, la scoperta che i marziani possiedono una misteriosa luce rossa che è fonte di energia, e varie altre vicende. Nel 1911 Hugo Gernsback inizia a pubblicare a puntate su Modern Electrics Magazine quello che nel 1925 diventerà un romanzo vero e proprio: Ralph 124C 41+ A Romance of the Year 2660, che narra “the abducting of the heroine by a Martian” (Rottensteiner 1975: 43). Il titolo nasce da un gioco di parole: “124C 41+” va letto infatti come “One to foresee for one another”. Nello stesso anno esce To Mars via the Moon. An Astronomical Story di Mark Wicks, britannico ma dedicato a Lowell e collegato anche al romanzo di Gratacap, in quanto l’eroe appena arriva 32 Roy Rockwood, Through Space to Mars, or The Longer Journey on Record (1910), in: (22/04/2015). Le pagine non sono numerate.
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su Marte incontra suo figlio reincarnato. Il volume si apre con un disegno dell’autore che rappresenta la “View from the Air-ship, over the Canals and the City of Sirapion” seguita dalla seguente epigrafe: “What a splendid view we then had over the country all around us!... Across the country, in line after line, were the canals which we had been so anxious to see, extending as far as the eye could reach!”33. Nel romanzo – che assomiglia quasi più a un lungo trattato in forma di romanzo – la vicenda è intervallata da spiegazioni scientifiche che ricalcano il dibattito del tempo e riportano anche i nomi degli scienziati in esso coinvolti (Schiaparelli, Lowell, Hall, Sipher, Flammarion, ecc.). Vi sono continue digressioni, ma anche splendide illustrazioni e anche parti comiche, come quando i personaggi esclamano “By Jove!” (p. 162), oppure come le battute seguenti, che hanno l’evidente funzione di agganciare l’attenzione del lettore: “Professor,” said John, “when we get to Mars, it will be rather a curious experience for us to see two moons shining in the sky at the same time!” “My word!” exclaimed M’Allister, “two moons shining at once! If I go out and see such a sight as that, I shall think the whisky has been a wee bit too strong for me!” (p. 129)
Appena giunge su Marte, l’equipaggio viene salutato da una folla ordinata e composta, dalla quale si stacca un bellissimo giovane che dà loro il benvenuto in inglese: “As he took my hands within his, the young man looked straight into my eyes, his own beaming with pleasure: then said in English, ‘Welcome, sir, most welcome to Mars!’” (p. 167). Il volto non gli è nuovo: difatti capirà che si tratta del figlio, che aveva perduto sulla Terra. Da qui in avanti il romanzo entra nei consueti binari della narrativa utopica, compresa la dieta vegetariana degli abitanti di Marte e la loro società perfetta. E quando il narratore spiega ai marziani, compiaciuto, delle recenti scoperte di Tesla, i marziani se ne rallegrano ma gli mostrano che sono molto più avanti, in quanto posseggono un sistema di comunicazione mentale o telepatica, che il narratore definisce “wireless telegraphy” (p. 192). La telepatia è “one of the senses I told you we Martians possessed; but some of our people who are somewhat deficient in this sense still use the small pocket receivers and transmitters which have long become obsolete amongst the generality of our population” (Ibidem). Il sistema di canali è talmente sofisticato da permettere una vegetazione lussureggiante, e l’aria e il calore permettono perfino una fauna: 33 Mark Wicks, To Mars via the Moon. An Astronomical Story (1911), in: (25/03/2015). Si indicheranno i numeri di pagina riferiti a questa edizione.
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The trees were something like our willows, but taller than elms, and had a multitude of very long, thin, and supple branches, with very little bare trunk. They were planted rather close together, all along each side of the canal, with their trunks sloping slightly towards the water. The long branches thus met at the sides and high overhead, intertwining together, and forming a high leafy archway extending all along the canal in both directions as far as the eye could see. The thick, soft Martian grass along each side of the canal was like a velvet-pile carpet to walk upon; the sunlight filtering between the green leaves of the trees cast bright flecks of light on the clear shimmering water which ran beneath them; whilst water-fowl swimming here and there gave a bright touch of colour and the animation of life which so adds to the general charm of such scenery. Some of the water-fowl were very large birds, with brilliant coloured plumage. (p. 199)
Quanto alla concezione marziana di vita e di morte, questa si colloca di nuovo all’incrocio fra spiritualità (qui abbiamo, anzi, un accenno specifico che rimanda a una religione monoteista ma che potrebbe anche alludere al “Grande Architetto dell’Universo” della Massoneria, visto che poi a p. 289 si parla di “Great Ruler of the Universe”) e teoria evoluzionistica: “You know I once lived upon the earth. I died; or, as I prefer to say, I ‘passed’ from thence, and was born again upon Mars. Some day I must also pass from here; whither I know not, but to another life in some other world; and the Great Father of All will provide for me!” (p. 203). Alla fine il protagonista decide di restare su Marte mentre i compagni riprendono il viaggio diretti sulla Terra e la narrazione passa di mano riprendendo essenzialmente i toni di una lezione. Anche questo romanzo, come i precedenti, ritrae dunque Marte come un pianeta ecologicamente gemello della Terra, e i marziani come “mirror images of Americans or western Europeans” (Markley 2005: 118). Tuttavia, secondo la tradizione del romanzo utopico, Marte e i marziani rappresentano uno stadio più evoluto della società umana; non ci sono crimini, non c’è nessuno che non lavora (e le macchine, comunque, aiutano i cittadini senza alienarli), e tutto tende all’armonia e all’ordine. In questi stessi anni inizia la pubblicazione quella che è forse la più celebre saga marziana: quella cioè di Edgar Rice Burroughs, più noto come il creatore di Tarzan, che comprende Under the Moons of Mars (costituita da A Princess of Mars, The Gods of Mars e The Warlords of Mars, 1912-1914 su riviste, 1917-1919 in volume), considerata “anello di congiunzione darwiniano tra l’epica western e la space opera” (Casadio 2007: 16), e i romanzi Thuvia Maid of Mars (1920), The Chessmen of Mars (1922), The Master Mind of Mars (1928), A Fighting Man of Mars (1931), Swords of Mars (1936), Synthetic Men of Mars (1940), Llana of Gathol (1948) e John Carter of Mars (1964). I volumi sono tutti reperibili in rete e offrono un panorama dettagliato di una visione marziana che muta nel tempo, ibridandosi con il genere fantasy e con la mitologia, dove Marte è un pianeta
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“as full of life as quite Earthlike” (Asimov 1991: 17) e storie d’amore e guerra si svolgono su uno sfondo ancora poco noto e con scarso approfondimento psicologico. Interessanti alcuni dettagli, come il “salve” marziano (kaor), la musica tramandata da tempi immemorabili, l’esistenza di una tecnologia simile al moderno ologramma, e l’immancabile conflittualità permanente che rende i terrestri (che affrontano, nella realtà, ben due guerre mondiali mentre escono i libri di Burroughs) molto simili ai marziani. Come scrive Markley, Burroughs reimagines on Mars – rechristened Barsoom – a heroic version of the vanishing American frontier, but one interlaced with strains of chivalric medievalism, technological romance, social Darwinism, Lowellian planetology, and sword-and-sorcery adventure. This strange brew of heroic values, science fiction, and nativism produced in the figure of John Carter the first of the superheroes who would dominate popular culture for nearly a century. (2005: 183)
Marte/Barsoom è insomma “the dark underside of the American technotopia” (Ibidem: 184), arena su cui fantasie romantiche ed escapiste dialogano con i problemi di razza e con le recenti scoperte scientifiche e tecnologiche fra cui l’elettricità. Under the Moons of Mars, poi reintitolato A Princess of Mars, esce inizialmente sulla rivista The All-Story. Questo, grosso modo, l’inizio della vicenda: inseguito dagli Apaches all’indomani della sconfitta del sud, il virginiano John Carter, capitano dell’esercito confederato, si rifugia in una grotta (siamo in Arizona) che sembra essere un sito sacro dei nativi: qui egli “looks up at Mars, named for the god of war, […] and his longing transports him in a convenient astral body across the void to the red planet, where he finds himself hatching in a great incubator among a number of Green Martians” (Rottensteiner 1975: 46). Questi marziani hanno quattro braccia, gli occhi su antenne, e sono alti quindici piedi. Dopo varie peripezie il capitano diventa amico di un capo tribù e sposa una regina di Marte. Questo romance esemplifica perfettamente l’Ethos rinnovato della Frontiera: There is no space vehicle to take the hero from Arizona to Mars; there appears simply to be a permeable border between the two places. Arizona, and specifically Mars Hill in Flagstaff, was the location of the Lowell Observatory, but perhaps even more significantly, Arizona was the last major western territory to achieve statehood, becoming the forty-eighth state in 1912 […] In that year, the end of Arizona’s frontier became definitive. Before long, it would be a commonplace in the literature of Mars that no place on Earth looked more like the Red Planet than northern Arizona. […] In A Princess on Mars, the connections to the American Wild west are pervasive. […] Throughout his adventures on Mars, Carter repeatedly connects the Martians – especially those with red skins – to their terrestrial counterparts in the American West.” (Crossley 2011: 154-155)
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Il paesaggio marziano aggiunge alle caratteristiche del territorio americano un incombente senso di morte: “Burroughs’s Mars is a dying world of deserts, its air has become so thin that it has to be manufactured by the Red Men of Barsoom (Mars) in the great Atmosphere Factory” (Rottensteiner 1975: 47). Il pianeta è popolato da razze di ogni colore, compreso il verde e il rosso; secondo alcuni Marte sembra un circo Barnum, “e chissà perché Burroughs diede a Marte il nome di ‘Barsoom’” (Casadio 2007: 19); mentre altri lo definiscono piuttosto un pianeta “medievaleggiante” (Proietti 2009: 278), un mondo morente, in cui i mari si stanno prosciugando e le antiche civiltà sono decadute; i suoi abitanti sono divisi in etnie caratterizzate dal diverso colore della pelle, nemiche le une delle altre. Possiamo ben parlare di una “ideologia nostalgica (un misto di rimpianto per il vecchio Sud schiavista, un western idealizzato e l’esotismo coloniale) e talvolta francamente razzista” (Ibidem: 279). Nel 1920 esce in California A Trip to Mars di Marcianus Filomeno Rossi, i cui capitoli più interessanti sono indubbiamente il X, intitolato “Radio telephony to the antipodes of Mars” e il XIV, “Radio Telegragraphy and Telephony encircle the globe”34. Fin dall’inizio, insieme all’ammirazione per il Creatore dell’Universo, s’insinua la meraviglia per le onde radio e si citano gli esperimenti di Gernsback e Macaroni (sic!), che ha meravigliato il mondo raccontando di aver ricevuto “strong wireless signals which seemed to come from beyond the earth” (p. 6). L’accenno ai due inventori (il secondo è naturalmente Marconi, che difatti sarà nominato correttamente in seguito), i cui nomi sono evidenziati in grassetto, ha la funzione di gettare le basi “scientifiche” della narrazione, che prosegue poi secondo gli schemi del racconto d’avventura. Le analogie con la Terra e con gli USA sono frequenti, a partire dalla visione di miniere di diamanti “as abundantly as mercury on the mountains of Almaden in California” (p. 21) e continuando con “the Campanian desert, resembling the western zone of the United States of America, covered with red sand” (p. 33) e con le praterie: “The Prairies are like our Western American deserts, resembling California, but the oasis is often thousands of miles in extent, making fine natural pasture for great herds of domestic ox, resembling buffalo” (pp. 36-37). Gli abitanti di Marte (Aeriolus) sono piccoli uomini alati, alti come bambini di cinque anni, tranne il Re (che proviene dalla Terra, essendo stato catapultato su Marte durante un’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.: motivo per il quale i visitatori terrestri si fanno intendere in latino e vengono salutati con “Ave, ave”) e una razza di creature definite “nympths”, che camminano a quattro zampe e che sono “our inferior race, the same as your terrestrial negroes” (p. 26): possono 34 Marcianus Filomeno Rossi, A Trip to Mars (1920), in: (22/04/2015).
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parlare, cantare, nuotare e volare. Ma la cosa più incredibile è quello che risponde il visitatore terrestre: “By Jove, […] I once saw one of these creatures in a museum in Nevada” (p. 26) e per dimostrarlo cita un trattato pubblicato a Milano, Italia, nel 1907, dove si menzionano appunto “uccelli con cocuzzo come homo” (Ibidem) che risultano essere dunque aborigeni marziani. Queste creature possono viaggiare su vari pianeti all’interno di “shells” e, quando sono stanche, se ne tornano sulla “Mother Mars” (p. 27). Uno dei dialoghi più memorabili è quello che troviamo fra i due viaggiatori (il Capitano e il Professore) durante il pranzo di benvenuto, quando viene servito loro il vino: “Say, Captain, suppose we tell the King about prohibition on Mother Earth.” “Keep silent, Professor, you always with your Americanate. Do you want to be thrown out of this Planet?” Said the Captain seriously. (p. 28)
L’allusione al Proibizionismo, che durò negli Stati Uniti dal 1919 al 1933, è da un lato esilarante, dall’altro ci fa comprendere come la sineddoche Stati Uniti = Terra fosse diffusa e praticata. Anche se il compagno lo redarguisce, il professore compie un errore culturalmente molto interessante. Inoltre è significativo che l’autore, di chiara origine italiana, metta nel suo romanzo non solo un accenno per così dire folkloristico (le “Americanate”) ma anche un riferimento a un tema di così stringente attualità come quello del cosiddetto Noble Experiment, consistente nella proibizione della fabbricazione e vendita di alcolici sul territorio nazionale (XVIII emendamento). Ma il tema più interessante è quello che riguarda le comunicazioni. A un certo punto i visitatori vanno a dormire: The Captain is soon sound asleep. He dreams and imagines he is having a wireless communication with Mother Earth. He first starts by picturing in his mind how to send a shell to the Earth […] Then he would visualize systems comprising wireless apparatus and transmit the message on the antennas on land. (p. 29)
I visitatori inviano poi effettivamente un messaggio telegrafico alla Terra dalla Mars Radio Station, in seguito alla quale ricevono una telefonata dal San Francisco Examiner, che vorrebbe intervistarli: i presidenti di tutte le nazioni e i direttori degli osservatori di tutto il mondo “are already with telephones in their hands” (p. 36). Il professore rilascia una lunga intervista, al termine della quale informa i colleghi che “radio telegraphy has encircled Mother Earth and that wireless communication had been received at the Aeriolus from all parts of the terrestrial globe” e che sarà di ritorno tra breve, compiendo un viaggio della durata di quattro minuti e ventuno secondi (p. 38).
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Nel capitolo IX arriviamo al climax relativo alla comunicazione radio, che anticipa in modo sorprendente la comunicazione satellitare e il World Wide Web: A new era that will cause the globe to be enveloped in radio oscillation is demonstrated in that shell35 invented by me. This invention actually brings true the dreams of our Earthy friends Marconi and Tesla, who have predicted that the day would come when wireless waves would encircle the globe. I have invented that shell equipped with a wireless transmitter, adjusted to a receiver […] This shell, becoming a satellite of this globe, travelling round and round it for eternity, could be used as a transmitter to encircle this Planet Mars, governed by the etheric waves. (p. 62)
Il solo problema che rimane sembra essere quello della diversità delle lingue, ma anche questo è presto risolto: su Marte c’è anche la Sibilla Cumana, esperta di decrittazione. Fra le altre notizie che apprendiamo ci sono quelle riguardanti il clima – “The climate is similar to that of California and Italy” (p. 37) – e la struttura sociale: i marziani lavorano solo un’ora al giorno, esclusa la domenica (gran parte del lavoro è svolto da scimmie/schiavi). Il romanzo si fa sempre più assurdo man mano che ci si avvicina al finale, col rientro del professore sulla Terra, da cui ripartirà nuovamente poco dopo. Fra i molti romanzieri che imitano Burroughs e i romances d’inizio secolo troviamo Otis Adelbert Kline con The Outlaws of Mars (1933 su rivista, 1961 in volume), mentre bisogna aspettare Stanley G. Weinbaum per trovare un maggiore approfondimento psicologico e una più acuta riflessione socio-esistenziale. Nel suo racconto “A Martian Odyssey” (1934) Marte è un “alien, sometimes Dadaist territory” che ha tutte le caratteristiche “of a Dali surrealist painting” (Crossley 2011: 181, 182) abitato da creature pacifiche, spesso intelligenti quanto gli esseri umani ma con una psicologia del tutto diversa e incomprensibile. Mentre il protagonista della storia, Jarvis, un chimico, sta esplorando il pianeta, il suo veicolo si blocca e lui deve fare ritorno alla base a piedi. Lo accompagna un indigeno simile a uno struzzo, che gli dimostra comprensione e lealtà, anche se il terrestre non riesce a capire i suoi ragionamenti e fa molta fatica, come vedremo, a comunicare con lui: “per la prima volta l’incontro con l’alieno è un problema di comunicazione con l’Altro” (Proietti 2009: 278, 279).
35 Una curiosità: il termine shell, letteralmente conchiglia o guscio, e che qui significa ora navicella, ora proiettile, ora semplicemente dispositivo, viene usato anche da Bradbury in Fahrenheit 451 per indicare le cuffiette radio con cui si può ascoltare musica a distanza (seashells).
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Le prime parole di Jarvis, uno dei quattro membri del primo equipaggio umano giunto “on the mysterious neighbor of the earth, the planet Mars”36, riguardano il paesaggio marziano: “Air you can breathe!” he exulted. “It feels as thick as soup after the thin stuff out there!” He nodded at the Martian landscape stretching flat and desolate in the light of the nearer moon […]37.
Il senso di vicinanza dato dal termine neighbor è rafforzato dalla dichiarazione che segue: “They were true pioneers, these four of the ‘Ares’”38. L’analogia storicoculturale con l’età della Frontiera è palese e informa tutto il racconto; non solo per la tipologia del paesaggio, facilmente assimilabile alla wilderness, ma anche per gli incontri con le strane specie marziane, che si possono facilmente ricollegare al wonder provato nei confronti di animali mai visti in Europa (come il bisonte, il coyote o il condor) e degli indigeni, spesso descritti nei testi di epoca coloniale non come esseri umani, ma come bestie o come diavoli: The Martian wasn’t a bird, really. It wasn’t even bird-like, except just at first glance. It had a beak all right, and a few feathery appendages, but the beak wasn’t really a beak. It was somewhat flexible; I could see the tip bend slowly from side to side; it was almost like a cross between a beak and a trunk. It had four-toed feet, and four fingered things – hands, you’d have to call them, and a little roundish body, and a long neck ending in a tiny head – and that beak39.
Il narratore prosegue nel suo racconto ai compagni, descrivendo il primo tentativo di comunicazione con l’alieno, a cui decide di dare un nome su base onomatopeica, Tweel: […] At least, Tweel is as near as I can pronounce it without sputtering. He called it something like “Trrrweerrlll. […] So – we stared at each other. Finally the creature went into a series of clackings and twitterings and held out its hands toward me, empty. I took that as a gesture of friendship. […] I decided to attempt some sort of communication with the Martian. I pointed at myself and said “Dick”; he caught the drift immediately, stretched a bony claw at me and repeated “Tick.” Then I pointed at him, and he gave that whistle I called Tweel; I can’t imitate his accent. Things were going smoothly; to emphasize the 36 Il racconto “A Martian Odyssey” di Stanley G. Weinbaum, pubblicato originariamente nel numero di gennaio 1934 di Wonder Stories, 1934, è incluso nell’antologia Mars We Love You (eds J. Hipolito and W. E. McNelly, 1973), pp. 55-84. Qui ci riferiamo al sito: (24/02/2015). Le pagine non sono numerate. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 Ibidem.
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names, I repeated “Dick,” and then, pointing at him, “Tweel.” We just couldn’t connect. I tried “rock,” and I tried “star,” and “tree,” and “fire,” and Lord knows what else, and try as I would, I couldn’t get a single word! Nothing was the same for two successive minutes, and if that’s a language, I’m an alchemist! Finally I gave it up and called him Tweel, and that seemed to do. […] it was just that we were somehow mysteriously different – our minds were alien to each other. And yet – we liked each other!40
Come si vede, la comunicazione passa attraverso varie fasi: dall’imitazione dei suoni e dei gesti (un comportamento che verrà studiato scientificamente negli anni ’80 e ’90 del Novecento nell’ambito della teoria dei neuroni specchio)41 alla frustrazione dovuta al senso di incapacità di entrare in relazione (I couldn’t imitate, I couldn’t get) e infine all’accettazione della diversità (mysteriously different, alien to each other) e al suo superamento (and yet, we liked each other). Proseguendo nel suo tentativo di stabilire una relazione con l’alieno sulla base di possibili conoscenze comuni, Jarvis prova con la matematica: After a while I gave up the language business, and tried mathematics. I scratched two plus two equals four on the ground, and demonstrated it with pebbles. Again Tweel caught the idea, and informed me that three plus three equals six. Once more we seemed to be getting somewhere42.
E poi con l’astronomia: So, knowing that Tweel had at least a grammar school education, I drew a circle for the sun, pointing first at it, and then at the last glow of the sun. Then I sketched in Mercury, and Venus, and Mother Earth, and Mars, and finally, pointing to Mars, I swept my hand around in a sort of inclusive gesture to indicate that Mars was our current environment. I was working up to putting over the idea that my home was on the earth. Tweel understood my diagram all right. He poked his beak at it, and with a great deal of trilling and clucking, he added Deimos and Phobos to Mars, and then sketched in the earth’s moon! Do you see what that proves? It proves that Tweel’s race uses telescopes – that they’re civilized!43 40 Ibidem. 41 Cfr. per esempio V. S. Ramachandran, “Mirror Neurons and imitation learning as the driving force behind ‘the great leap forward’ in human evolution”, uno studio approfondito sull’importanza dei neuroni specchio nello studio dell’imitazione e del linguaggio, in: (24/02/2015) e Michael Arbib, “The Mirror System Hypothesis. Linking Language to Theory of Mind”, Interdisciplines, 2005, (15/09/2015). 42 (24/02/2015). 43 S. G. Weinbaum, “A Martian Odyssey”, op. cit.
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La sua fiducia in una comune “civiltà” è riservata a Tweel, beninteso, ma non alle razze che incontrerà in seguito: […] the point I’m making is that Tweel and his race are worthy of our friendship. Somewhere on Mars – and you’ll find I’m right – is a civilization and culture equal to ours, and maybe more than equal. And communication is possible between them and us; Tweel proves that. It may take years of patient trial, for their minds are alien, but less alien than the next minds we encountered – if they are minds44.
Jarvis esprime in maniera esplicita la sua confusione davanti all’alterità attraverso le espressioni more than equal e less alien, tramite le quali cerca di riconoscerne le affinità. Al contrario, i suoi tentativi si bloccano davanti all’estrema, inaspettata biodiversità che regna su Marte. Oltre allo strano uccello amichevole egli incontrerà, infatti, forme di vita del tutto diverse da quelle terrestri, con cui non entrerà in relazione alcuna: una “nondescript creature” quasi immortale fatta di pietra, che passa tutta la sua vita a costruire piramidi con i blocchi di silice che produce respirando; un predatore (“dream-beast”) che attira le sue vittime creando loro allucinazioni piacevoli; “nasty sound clouds” e, infine, una civiltà sotterranea di esseri a forma di barile45. L’alieno piumato alla fine si meriterà tutto il riconoscimento di Jarvis per avergli salvato la vita, al punto che verrà per così dire “eletto” a uomo, anche se l’allusione all’umanità verrà, subito dopo, giustamente ridimensionata: “I said, ‘Thanks, Tweel. You’re a man!’ and felt that I wasn’t paying him any compliment at all. A man! There are mighty few men who’d do that”46. È curioso, infine, citare una frase che troviamo nella versione precedente del racconto (“The Valley of Dreams”, che poi viene pubblicato come sequel): “Remember how the public mobbed the first moon pictures? Our shots ought to pack ’em to the doors. And the broadcast rights, too; we might show a profit for the Academy”47. La frase suona profetica: passeranno esattamente trentacinque anni prima che ciò che qui è narrato al passato accada nella realtà. Il dialogo, poi, continua in modo altrettanto profetico ma, al contempo, umoristico, tanto da sembrare quasi una parodia postmoderna: “What interests me,” countered Jarvis, “is a personal profit. A book, for instance; exploration books are always popular. Martian Deserts – how’s that for a title?” 44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Testo integrale in: (24/02/2015).
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“Lousy!” grunted the captain. “Sounds like a cook-book for desserts. You’d have to call it Love Life of a Martian, or something like that […]”48
Il finale riprende un tono molto più serio. I terrestri decidono di tornare sul proprio pianeta senza fondare colonie, ma lo spirito “imperialista” permane nella scelta, a cui si allude, di offrire agli indigeni la tecnologia che permetterà loro di utilizzare l’energia atomica, incoraggiandoli a sviluppare la loro civiltà in modo che un domani possano entrare in rapporti commerciali con loro (una ben bieca promessa col senno del poi, appena stemperata dalla “scommessa” finale sulla probabilità che i marziani, in cambio, avranno qualcosa da insegnare ai terrestri): This lousy, dried-up pill of a desert called Mars’ll never support much human population. The Sahara desert is just as good a field for imperialism, and a lot closer to home. […] The only value we’ll find here is commercial trade with the Martians. Then why shouldn’t I give Tweel a chance for survival? With atomic energy, they can run their canal system a hundred per cent instead of only one out of five […] They can repopulate those ghostly cities; they can resume their arts and industries; they can trade with the nations of the earth – and I’ll bet they can teach us a few things […]49.
Nel 1922 esce The Planet Mars and Its Inhabitants. A Psychic Revelation by Eros Urides (a Martian)50, a cura di J. L. Kennon. Per la prima volta troviamo un libro “scritto da un marziano”, anche se con la curatela di un terrestre. L’espediente narrativo fittizio nasconde una serietà di intenti che non cede mai spazio alla parodia: Kennon, coadiuvato da un angelo, trascrive fedelmente ciò che il marziano comunica nei suoi messaggi. Per il resto è il consueto romanzo utopico, in questo caso imbevuto di forte religiosità, e Marte vi appare geograficamente molto simile alla Terra. Del 1934 è il racconto, meno interessante, “Old Faithful” di Raymond Z. Gallun, in cui un marziano fugge dal governo dispotico del suo pianeta e, con l’aiuto di una cometa, raggiunge la Terra, dove riesce a incontrare gli umani con cui era entrato in contatto radio; ma morirà perché l’atmosfera terrestre è troppo densa per lui. Negli anni ’30, gli anni della Depressione e della pulp fiction, i romanzi “marziani” riflettono seppure in modi diversi le problematiche relative alle politiche governative, alla disoccupazione, alle relazioni fra diverse etnie, alla crescita urbana, alle identità di genere: 48 Ibidem. 49 Ibidem. 50 J. L. Kennon (ed.), The Planet Mars and Its Inhabitants. A Psychic Revelation by Iros Urides (a Martian) (1922), in: (21/04/2015).
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Lowellian Mars offered fictional analogues, even uncanny anticipations, of the problems that confronted millions of people worldwide: food shortages, massive unemployment, drought, the dust bowl, forced migration, political turmoil, violence […] By the 1930s, Mars became a site for anxieties not only about ecological degradation but about its sociopolitical consequences. (Markley 2005: 198-189)
Marte viene, così, a rappresentare una “American frontier that had disappeared into the unheroic task of managing water” (Ibidem: 199). Lo stesso Weinbaum, in un racconto del 1935 (“The Planet of Doubt”, Astounding Stories) riconosce che “Mars, the desert planet with its great decadent civilization, was yet stranger, but not totally alien”51 e C. S. Lewis in Out of the Silent Planet (1938) “brings the dying planet within the orbit of Christian theology” (Markley 2005: 201). In “The Ideal” (Weinbaum 1934) la descrizione di Marte lascia invece il posto a una più ampia riflessione (meta)fisica e, fra le altre cose, viene annunciata la scoperta di nuove particelle: lo spation e il chronon (“The particles of matter are called electrons, protons, and neutrons, and those of energy, quanta. I now add two others, the particles of space I call spations, those of time, chronons”); il cosmon (“the ultimate unit, the universal particle, the focus in which matter, energy, time, and space meet, the unit from which electrons, protons, neutrons, quanta, spations, and chronons are all constructed. The riddle of the universe is solved by what I have chosen to name the cosmon”) e infine lo psychon, ovvero “the unit particle of thought”52. Sebbene questo ci abbia allontanato dal deep focus sul Pianeta Rosso, tale proliferazione di particelle elementari è a mio parere molto interessante poiché l’autore inserisce la materia cosmica (il cosmon) nel dibattito del tempo sulle energie sottili (si veda, per esempio, la formulazione del concetto di orgone energy proposto negli anni ’30 da Wilhelm Reich) e in generale sulle pseudoscienze. Nel 1940 esce un altro romanzo parapsicologico, The Marsian di J. W. Gilbert, che riprende la denominazione Marsian proposta a suo tempo da Alice Ilgenfritz Jones ed Ella Merchant. Il romanzo è ricco di esperimenti telepatici, fenomeni psichici e segnali cosmici di una nuova guerra mondiale sulla Terra.
51 S. G. Weinbaum “The Planet of Doubt” (1935), in: (24/02/2015). 52 S. G. Weinbaum, “The Ideal” (1949), in: (24/02/2015).
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5.3. “Explorers of a new frontier”
Durante la seconda guerra mondiale e nel secondo dopoguerra l’interesse per Marte prosegue e s’intensifica non tanto dal punto di vista dei viaggi interplanetari sensazionali, ma sfociando in nuove riflessioni di tipo esistenziale, filosofico e sociale. Dedicheremo agli anni ’50 parte del capitolo ottavo, dunque per ora basti ricordare che in questo periodo la letteratura di fantascienza catalizza (e cerca di esorcizzare) molte delle ansie legate al pericolo comunista e alla Guerra Fredda, assumendo comunque una propria fisionomia e riflettendo sempre il dibattito culturale e scientifico. Gran parte della produzione della straordinaria scrittrice e sceneggiatrice Leigh Brackett, che va dal 1940 alla metà degli anni ’70, è ambientata sul Pianeta Rosso, che viene descritto come inaridito e morente, cosparso di rovine di città antiche e misteriose e di canali prosciugati. Il primo racconto di questa “stylist of pop sublime” (Markley 2005: 215), “Martian Quest”, esce sulla rivista Astounding Science-Fiction (1940), seguito da molti altri fra cui “Shadow over Mars”, pubblicato su Startling Stories nel 1944, “Black Amazon of Mars”, pubblicato su Planet Stories nel 1951 e, nello stesso anno, “People of the Talisman”, che insieme formano il cosiddetto “ciclo di Eric John Stark”. La scrittrice s’impone nell’Olimpo prevalentemente maschile della fantascienza proprio grazie alle sue personalissime descrizioni di Marte, per le quali si è parlato di romance e di fantasy, e che sono state spesso svilite, come nel caso di Crossley che le definisce “nothing more than an exotic setting for tired heroics and bland fantasy” (2011: 212), altre volte invece apprezzate: […] l’abilità della Brackett si dimostra nel fatto che il lettore pur nell’irrealtà della vicenda, non ha mai un atteggiamento di rifiuto anzi, e la fusione degli elementi del genere fantastico e di quello fantascientifico è piena e totale. E va messo in rilievo come, a parte i primi racconti dedicati al pianeta rosso, anche nelle prime storie del ciclo di Stark, il protagonista non sia tanto Eric Stark quanto Marte. Un Marte assolutamente memorabile, che fa il paio con quello che affiora dalle pagine de Le Cronache Marziane di Ray Bradbury. Il pianeta rosso cessa di essere semplice sfondo e diventa mito: un mondo morente, in piena decadenza da un passato splendido, ritratto con trasporto elegiaco che rimane nella mente molto più dei personaggi che lo popolano. È lui il vero protagonista delle narrazioni della Brackett […]53.
Autrice anche di un romanzo hardboiled, Brackett utilizza un immaginario “overtly masculinist” e se da un lato ricalca i suoi Maestri, dall’altro traccia le basi per gran parte della fantascienza (letteraria e cinematografica) degli anni a veni53 Lanfranco Fabriani, “Leigh Brackett poetessa di Marte”, in: (17/02/2015).
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re: “Brackett appropriates the style of Chandleresque fiction to offer a cultural history of the deterioration of Mars. By displacing the rhetoric of western colonialism on Mars, she recasts such exploitation in a particularly American idiom; her metaphors […] yoke the orientalist descriptions of the dangerous back alleys of Martian cities” (Markley 2005: 216). Soprattutto, Brackett non vuole distaccarsi dal modello Lowelliano: come scrive lei stessa, “I offer you these legends of Old Mars as true tales, inviting all dreary realities to keep a respectful distance” (Brackett 1967: 5). La scrittrice, dunque, reinterpreta e fa suo il timore espresso da Poe nel “Sonnet to Science”: “The Mars of fantasy remains for Brackett far more enticing to the imagination than the Mars of scientific investigation” (Crossley 2011: 232). Come è stato giustamente osservato, molti protagonisti della narrativa di quegli anni tendono a essere “either outcasts or disillusioned functionaries struggling against endemic corruption, more like Raymond Chandler’s Philip Marlowe than a warrior-hero” (Crossley 2011: 211). Autori come Kornbluth e Merril contestano la metafora della Frontiera che risaliva a Burroughs (Canfield 2001) appropriandosi piuttosto delle convenzioni della hard-boiled detective fiction e mandando su Marte “rugged loners seeking some semblance of justice on a corrupt and violent world” (Markley 2005: 213). Ne sono alcuni esempi Police Your Planet di Lester del Rey (serializzato nel 1953, poi pubblicato come volume nel 1956), in cui la città di Marsport assomiglia alla Los Angeles di Chandler, il protagonista assomiglia al Sam Spade di Dashiell Hammett e Solar Security assomiglia alla Continental Agency dello stesso Hammett, “that seems the only bulwark against utter chaos” (Ibidem: 214). Di The Martian Chronicles di Ray Bradbury, che esce nel 1950, parleremo nel capitolo ottavo. Mi limiterò qui a dire che l’interesse di Bradbury per Marte non si esaurisce con le Cronache, ma si esprime anche in una quarantina di altri racconti (Eller e Touponce 2004) fra cui uno dei più interessanti è “The Other Foot” (1951), dove gli afroamericani hanno colonizzato Marte. Dopo che una guerra atomica ha semidistrutto la Terra, alcuni superstiti bianchi si rifugiano su Marte, e a questo punto i coloni devono decidere cosa fare di loro: “In this sciencefictional tale of role reversal, Ray asks if centuries of racial intolerance, injustice, and hatred continue to persist in a new planetary milieu” (Weller 2005: 168). Anche il racconto “The Mad Wizards of Mars” (poi reintitolato “The Exiles”, 1949) si svolge su Marte, dove Poe vive come entità fino a quando il suo ultimo lavoro viene distrutto sulla Terra, mentre in “The Visitor” (1948) il terrestre Leonard Mark, giunto su Marte, viene accolto da un numero incredibile di esuli che soffrono di nostalgia per la Terra e gli chiedono com’è diventata New York. La risposta – “New York grew up out of the desert, made of stone and filled with
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March winds. Neons exploded in electric color. Yellow cabs glided in a still night. Bridges rose” – viene trasmessa in modo telepatico (Bradbury 1997: 90). Sempre del 1948 è “Mars Is Heaven!”, che narra la storia della prima spedizione terrestre su Marte. I membri dell’equipaggio sono sconvolti nel ritrovarsi in una piccola città che sembra americana, i cui abitanti credono di vivere nel 1926; fra questi ci sono vecchi amici e parenti defunti degli astronauti. Si diffonde una strana euforia tra l’equipaggio, e solo il capitano, John Black, rimane scettico. Solo nel cuore della notte ha un’illuminazione: in realtà i marziani, grazie alla loro telepatia, hanno allestito questa trappola sofisticata per i terrestri. Ma è troppo tardi, e tutti vengono uccisi. Questo racconto è particolarmente interessante perché reinterpreta il mito di Marte come sede di un aldilà (lo abbiamo visto in alcuni romanzi dell’Ottocento) mostrandoci con cinica modernità la sua inconsistenza. Ritroveremo una versione di questo racconto nelle Martian Chronicles. I romanzi di questi anni inaugurano la narrativa del dopoguerra (e dell’era post-atomica), testimoniando seppure con voci diverse una profonda crisi della storia, delle geografie e delle identità (non solo nazionali, ma anche etniche e di genere) tradizionalmente intese. Nel 1951 Arthur C. Clarke pubblica The Sands of Mars, nel quale lo scrittore immagina che il pianeta sia stato colonizzato da anni e che due piccole comunità vivano in due città protette da una cupola. Il protagonista, un terrestre, partecipa agli eventi che portano i coloni a sviluppare una tecnica atta a dotare il pianeta di un’atmosfera ricca di ossigeno mediante alcune piante indigene modificate (una tecnica che ritroviamo anche in Bradbury), a terraformare Phobos in un piccolo sole, e a pronunciare una vera e propria dichiarazione di autonomia della colonia rispetto al pianeta Terra. In pratica, “se Cronache marziane si rifà all’arrivo degli europei sul continente americano, Clarke si ispira alla Dichiarazione d’Indipendenza Americana del 1776”54. Le vicende vedono i coloni “on an Antoniadian planet that lacks sufficient food, water, and air to support human life” (Markley 2005: 294), ma il cuore del romanzo sta nella “evocation of the otherness of other worlds in a language that eschews romanticized fantasy in favor of an unadorned, sometimes clinical, language of physical description” (Crossley 2011: 210). The Sands of Mars inaugura una nuova direzione della narrativa marziana, legata al progetto di terraformazione. Inoltre il romanzo fu scritto prima che fossero disponibili fotografie del pianeta. La possibilità di terraformare un ambiente ostile alla vita umana si combina con “the analogy between Martian settlements and the American colonies in the ‘new World’; the individual process of becoming Martian; the collective struggle for planetary self-sufficiency and for independence from commercial interests on Earth” (Ibidem). Definito “antiromantic Martian Odyssey” (Ibidem), il romanzo 54 (17/02/2015).
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presenta anche un aspetto metanarrativo, avendo come protagonista uno scrittore autore di un romanzo intitolato Martian Dust. Ancora, nel 1951 esce il primo racconto dello scrittore di origine canadese Alfred E. van Vogt, “The First Martian”, in cui gli indios che abitano sulle Ande vengono individuati come i coloni più adatti per vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte. L’anno prima era uscito “The Enchanted Village” (1950), dove un terrestre, l’unico sopravvissuto di un incidente spaziale (“‘Explorers of a new frontier’ they had been called before they left for Mars”)55, atterra in uno strano villaggio vivente su Marte, che misteriosamente riesce a farlo sopravvivere: “Il villaggio, progettato per essere funzionale a organismi alieni, è all’inizio poco confortevole per il nuovo abitante. A poco a poco però sembra adattarsi alle esigenze dell’uomo” (Giovannoli 1982: 31). Nel 1952 Isaac Asimov (con lo pseudonimo Paul French) ambienta su Marte Dave Starr, Space Ranger, il primo di una serie di sei romanzi per ragazzi che avranno come protagonista “Lucky” Starr. Il pianeta è un immenso deserto rosso colonizzato dai terrestri, in cui il protagonista scopre resti di una cultura autoctona in caverne scavate nel sottosuolo; si tratta di una civiltà talmente evoluta da essere costituita “di puro pensiero”. Nello stesso anno Asimov pubblica anche un racconto legato al terraforming e intitolato “The Martian Way” (1952), ambientato in una tetra città di minatori in cui l’acqua viene ad assumere un ruolo prioritario nei rapporti fra i coloni su Marte e la Terra, finché questi ultimi iniziano a recidere “the umbilical cord that ties Mars to Earth” (Asimov 1992: 45). L’anno prima, in Duel on Syrtis, Poul Anderson descrive uno spietato cacciatore umano che insegue illegalmente prede marziane attraverso i deserti di Marte. Nel 1952, “under the shadow of the threat of atomic war” (Crossley 2011: 228), Cyril M. Kornbluth e Judith Merril pubblicano Outpost Mars, che offre una visione satirica del capitalismo e della corruzione politica. Nel romanzo, ambientato nel XXI secolo, Marte è coltivabile grazie alla scoperta del cosiddetto “oxygen enzyme”, che permette agli umani di respirare l’atmosfera marziana. La chimica permette di alterare le piante indigene e i coloni coltivano e immettono sul mercato anche una droga marziana che chiamano “marcaine”; alla lunga, verranno ripetuti gli stessi errori che sono stati fatti sulla Terra. Qui i “cattivi”, dunque, non sono i marziani: pur avendo l’umanità avuto, per così dire, una seconda chance, “The villains are the forces of American capitalism projected a century into the future” (Markley 2005: 212). Una frontiera su cui si gioca il futuro della colonia è il corpo: alcuni bambini con anomalie genetiche fatali sulla Terra possono, infatti, sopravvivere su Marte. Inoltre, essi sviluppano abilità telepatiche, rovesciando le proprie sorti e diven55 (17/02/2015).
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tando molto più “evoluti” degli altri. La rigenerazione potrà però partire solo dal rifiuto del sistema basato sullo sfruttamento e sul profitto: While Flash Gordon and Buck Rogers pursued pulp fiction’s manifest destiny in space, Mars remained a favored setting for critiques of American capitalism and imperialism, and for bitter condemnations of humankind’s stupidity and blindness in transposing its self-destructive tendencies onto another world. […] Evolution serves as a progressive political agenda. (Ibidem: 210-211, 213)
Nel 1952 esce ancora Marooned on Mars di Lester del Rey, che vuole essere “science-factual” e, infatti, è ricco di riferimenti di tipo storico-scientifico, a cui si aggiunge anche una Prefazione intitolata “Tomorrow’s World”. In realtà il suo realismo è poco convincente e una sorta di nostalgia per la visione romantica di Marte trapela in numerose pagine. Per inciso, un membro dell’equipaggio è afroamericano. Una satira delle invasioni extraterrestri è Martians, Go Home! di Fredric Brown (1954 su rivista, 1955 in volume), in cui sulla Terra appaiono istantaneamente milioni di omini verdi estremamente maleducati e irriverenti, ma intangibili, quindi impossibili da scacciare. La capacità di vedere nel buio e attraverso gli oggetti consente loro di rivelare informazioni segrete provocando guai a non finire in ambito pubblico e privato. Forse l’aspetto più interessante sta nella doppia citazione da H. G. Wells (la prima parte si intitola esattamente come la prima parte del romanzo The War of the Worlds, “The Coming of the Martians”) e Orson Welles (nel momento in cui agli ascoltatori del programma radiofonico viene raccomandato di non farsi prendere dal panico. Torneremo su The War of the Worlds nel capitolo settimo). Inoltre il protagonista, come in The Sands of Mars, è uno scrittore, e tra le possibili conclusioni del romanzo – che ha un finale aperto – c’è l’eventualità che i marziani non siano altro che un’invenzione dello scrittore stesso. Negli stessi anni esce The Titan di P. Schuyler Miller (1952), che esplora le implicazioni della desertificazione “at a time when the dust bowl and Depression loomed large in public consciousness” (Markley 2005: 200). Un racconto del 1957, “Omnilingual” di H. Beam Piper, è particolarmente interessante in quanto narra di alcuni scienziati terrestri che cercano di decodificare la lingua marziana risalente a una civiltà scomparsa da 5000 anni: “the key to the aliens’ language is uncovered when the archaeologists find the Martian periodic table of the (then) ninety-two elements” (Ibidem: 209). La chimica diventa così una semiotica universale, anche se comprensibile solo a chi ha un certo livello di studio. Il tema della cultura torna in Stranger in a Strange Land di Robert A. Heinlein (1961), il cui protagonista è un essere umano allevato dai saggi marziani: tornato sulla Terra al termine dell’adolescenza, scoprirà la sua totale estraneità alla cultura terrestre,
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che egli percepisce come “aliena”. Questo romanzo inaugura gli anni ’60, toccando tematiche legate all’insofferenza ai vincoli e ai pregiudizi sociali, alle istanze di libertà sessuale e al superamento della discriminazione razziale: la sua ambizione dichiarata è “delineare una ‘storia futura’ dell’America” (Proietti 2009: 280). In realtà questo interesse storico di Heinlein emerge anche in un romanzo precedente, Double Star (1956), in cui lo scrittore “appropriates the rhetoric of frontier individualism and (trans)human rights to depict contact with the ancient race of Martians as a form of intercultural exchange” (Markley 2005: 274), e ancor prima nel romanzo per ragazzi Red Planet: A Colonial Boy on Mars (1949), dove la “Proclamation of Autonomy” sul Pianeta Rosso è modellata sulla Dichiarazione d’Indipendenza Americana. In Stranger, invece, l’apprendimento marziano (grokking) avviene attraverso un “somatic understanding of and union with the others […] to grok is to experience, believe, and know simultaneously” (Ibidem: 275). Il suo romanzo successivo, Podkayne of Mars (1963), una sorta di fairy tale in cui il viaggio verso Marte avviene su un’astronave simile a un transatlantico (compresa la suddivisione in prima e seconda classe, la presenza di un salone da ballo, ecc.), delinea, attraverso una visione di tipo socialista, il recupero dell’innocenza e del sogno della frontiera in termini meno ideologici e più efficaci (Markley 2005), tanto da essere accostato da Salvatore Proietti (2009) a On the Road di Kerouac, uscito solo pochi anni prima, nel 1957. Avvicinandosi agli anni ’60, “Cold war fears are projected into the form of a totalitarian ecology”: è quanto accade in Not in Solitude di Kenneth F. Gantz (1959), che descrive “a nightmarish ecology on Mars: a single life-form – an intelligent and omnivorous plant – had spread across the planet and destroyed all other life” (Markley 2005: 280). Se Markley nota quasi un “sense of betrayal born from the failure of Mars to be what ‘it ought to be’” (Ibidem: 282), la metafora della pianta non riguarda in realtà la realtà marziana, bensì la colonizzazione americana. Nella narrativa degli anni ’60, come vedremo, ci si inizia a preoccupare meno delle tipologie di forme di vita su Marte e più dei significati – psicologici, sociali ed esistenziali – attribuibili al pianeta. Se “What finally put an end to the myth of Martian life was the coming of the space age” (Asimov 1991: xvii), il lancio del Mariner 4 il 28 novembre del 1964 e il suo arrivo nell’orbita marziana nel Giorno dell’Indipendenza del 1965, con relativa trasmissione di immagini fotografiche, segnarono a tutti gli effetti l’inizio di una nuova fase anche nella narrativa. Il pianeta non era né un nuovo Eden, né una nuova versione della Terra dell’Abbondanza; però assomigliava alla Luna, e quindi poteva essere concepibile (con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ne derivavano) colonizzarlo e terraformarlo. Se, da un lato, i programmi spaziali erano al loro apice “and writers
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had to absorb new discoveries on an almost yearly basis”56, parallelamente nuove istanze di tipo sociologico, ecologico e psicologico rivelavano la loro urgenza e premevano per essere incluse e metabolizzate nella produzione letteraria. Nel 1963 esce The Man Who Fell to Earth di Walter Tevis, che diventerà un classico della letteratura marziana, da cui sarà tratto il film omonimo di Nicolas Roeg con David Bowie nel 1976. Nel romanzo, che narra non di un viaggio su Marte ma, al contrario, di un extraterrestre che giunge sulla Terra nella speranza di trovare aiuto per poter salvare il proprio pianeta, Mars is never specified as the home planet of the alien disguising himself as a Kentuckian and calling himself T. J. Newton, but persistent suggestions indicate that the planet Anthea – located in our solar system, dying of thirst, its minerals and fuels nearly exhausted, its population reduced to a fading remnant of a vibrant and advanced civilization – is clearly the Mars of the popular lore. (Crossley 2011: 225)
Al di là della trama, che vede uno scienziato del Midwest intento a sforzarsi di capire “whether Netwon’s strangeness means that he’s from Mars or Massachusetts”, l’interesse principale di questa “cultural fable” sta nel modo in cui costruisce l’ambivalente identità dell’alieno, “both an observer of and a participant in the culture of degenerate America” (Crossley 2011: 225). Nonostante il tono prevalentemente elegiaco, il libro contiene un forte grido di accusa contro le corporazioni, la corruzione, l’avidità, il consumismo e la burocrazia che governano il Paese, definito “this cheap and alien place” (Tevis 1976: 47, corsivo mio). Teniamo presente che finora, a parte The Man from Mars, non abbiamo visto casi come questo. E anche lì, in realtà, si trattava di una sorta di ologramma. Qui invece abbiamo una novità: l’alieno in entrambi i sensi che abbiamo analizzato nel capitolo terzo, immigrato ed extraterrestre: non solo, immigrato clandestino ovvero, secondo la corretta dicitura statunitense, “illegal alien”. In questo senso, lo sfortunato viaggiatore spaziale è assimilabile ai cosiddetti “undocumented”, ovvero gli immigrati privi di documenti che non hanno alcun diritto politico di appartenenza. Negli anni ’60 iniziavano i movimenti di protesta per i diritti civili delle minoranze, ma solo recentemente il documentario The Undocumented di Marco Williams (2013) ha portato sul grande schermo una storia che sembra più fantascientifica della fantascienza stessa: la storia delle centinaia di emigranti che, cercando di arrivare dal Messico negli Stati Uniti, hanno trovato la morte nel deserto di Sonora in Arizona. Gli undocumented rappresentano oggi una porzione della popolazione che negli ultimi anni ha cercato di far valere i propri diritti: soprattutto un gruppo (bipartisan) che si è autonominato The Dreamers è riuscito a far arrivare al Senato nel 2011 il DREAM Act (l’acronimo sta per: 56 (09/03/2015).
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Development, Relief, and Education for Alien Minors) che può concedere “conditional permanent residency” a chi sia arrivato negli USA prima del sedicesimo anno di età, vi abbia frequentato le scuole o fatto il servizio militare e possegga “good moral character”. Questo è quanto si legge nel portale del sito: Over three million students graduate from U.S. high schools every year. Most get the opportunity to test their dreams and live their American story. However, a group of approximately 65,000 youth do not get this opportunity; they are smeared with an inherited title, an illegal immigrant. These youth have lived in the United States for most of their lives and want nothing more than to be recognized for what they are, Americans. The DREAM Act is a bipartisan legislation ‒ pioneered by Sen. Orin Hatch [R-UT] and Sen. Richard Durbin [D-IL] ‒ that can solve this hemorrhaging injustice in our society. Under the rigorous provisions of the DREAM Act, qualifying undocumented youth would be eligible for a 6 year long conditional path to citizenship which requires completion of a college degree or two years of military service. When will the DREAM Act pass? Do I qualify?57
Questo solo per sottolineare quale sarebbe la condizione dell’ipotetico alieno solitario che sbarcasse negli Stati Uniti e volesse risiedervi: se negli anni ’60 avrebbe forse fatto la stessa fine dei due protagonisti del film Easy Rider di Dennis Hopper (1969), a tutt’oggi non avrebbe diritto né di residenza, né di cittadinanza. Non avrebbe documenti, non avrebbe diritto all’assistenza sanitaria, non avrebbe diritto a un lavoro. E non potrebbe nemmeno rivalersi come Dreamer. Al 1964 e 1965 risalgono rispettivamente Martian Time-Slip e The Three Stigmata of Palmer Eldritch di Philip K. Dick: entrambi i romanzi descrivono “a near-future Mars, colonized by terrestrials and with the features of a frontier society” (Crossley 2011: 227), anche se l’euforia della conquista è già scomparsa, tanto che nel secondo romanzo i coloni su Marte fanno consumo di una droga chiamata “Can-D” per combattere la depressione e il senso di alienazione. Martian Time-Slip è un romanzo complesso, dai numerosi risvolti psicologici e psicoanalitici, ambientato su Marte in un’epoca futura ma non troppo (il 1994) in cui la colonizzazione è iniziata negli anni ’70 e ora si stanno riproducendo le stesse modalità terrestri di speculazione, corruzione e discriminazione. Anzi: un personaggio dichiara che il pianeta è un ambiente ancor più inesorabile della Terra, in quanto separa senza pietà gli “adatti” dai “non adatti”. Il personaggio più importante del romanzo è paradossalmente un bambino autistico, e quindi emarginato: Manfred, orfano di un padre suicida, incapace di relazionarsi con 57 (29/04/2015). Ringrazio Eduardo De Barberis per le proficue chiacchierate nel merito.
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l’esterno ma in grado di vedere nel futuro. Gli insegnanti sono robot i cui nomi sono ispirati a personalità terrestri (troviamo, fra gli americani, Mark Twain e Edison), mentre la razza indigena dei Bleekmen, in parte addomesticata e addestrata a servire i terrestri, in parte libera, è una minoranza oppressa, destinata all’estinzione, caratterizzata da un aspetto che ricorda gli aborigeni e i boscimani, da una spiritualità analoga a quella dei nativi americani, e da una storia di schiavismo modellata su quella degli afroamericani: The surviving remnant of the indigenous Martians […] are nomadic, impoverished, and marginalized by American colonists, except for those that have been “tamed” – that is, turned into servants. The relationship of the Bleekmen to Black Americans is enforced by their dark skin, the repeated reference to them as “niggers”, and their deferential addressing of every male colonist as “Mister”. (Crossley 2011: 227)
Marte è un pianeta appena abitato e già degradato, “both colony and frontier” (Markley 2005: 278), la cui ambientazione ricorda “un viaggio negli Inferi, tra gironi danteschi entro cui si agitano i dannati della Terra, inviati a colonizzare un presunto Paradiso che invece non solo riproduce in modo semplificato, barbarico, brutale, il luogo di partenza, ma nega qualsiasi possibilità di ritorno […] Marte è solo parzialmente il ritorno al mito della Frontiera” (Pagetti 2007: 10). Se il viaggio su Marte ricorda “l’immersione nel cuore delle tenebre di cui scrive Joseph Conrad”, e se è Manfred, e non i marziani, il vero alieno (“un’alienità che uomini e donne portano dentro di sé”), quello che vediamo dietro la raffigurazione di Marte è la Terra stessa, e ancor più nello specifico “un’America da incubo”, i cui coloni “stanno per colonizzare l’inferno” (Ibidem: 11-13). E sarà, paradossalmente, proprio Manfred, con il suo gubble indistinto e con i suoi disegni premonitori, a sovvertire le regole della comunicazione e a vincere lo spazio e il tempo. Markley sottolinea come “Dick’s tendency to turn Mars into a marker of psychological difference or alienation becomes a means to depict the wasteland of midcentury existence” (2005: 276). Anche prima di romanzi come i citati Martian Time Slip e The Three Stigmata of Palmer Eldritch, i racconti di Philip K. Dick (ad esempio “The Impossible Planet”, pubblicato su Imagination nel 1953) fanno di Marte “the setting for a nightmarish surrealism”: quello che gli interessa del Pianeta Rosso è “its potential for reflecting the psychic dislocation and confusion – the ‘gubble’ – of life in postwar America” (Ibidem). Riprendendo le immagini di devastazione ecologica dovute alla guerra e all’esaurimento delle risorse, questi racconti “employ Mars both as a reflection of contemporary problems and as an intimation of Earth’s future” (Ibidem). Per gli esseri umani non sembrano esserci speranze, né sulla Terra né su Marte: se in “Martians
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Come in Clouds” (uscito su Fantastic Universe nel 1953) alcuni vecchi e pacifici rifugiati marziani chiedono asilo sulla Terra ma l’ultimo di loro viene ucciso dai tipici “ignorant and fearful small-town Americans” (Ibidem), in “Survey Team”, anch’esso pubblicato su Fantastic Universe nel 1954, i sopravvissuti terrestri di un’interminabile guerra che ha distrutto il pianeta volano verso Marte, ma solo per trovarla altrettanto devastata: “There are no Martians, just the wreckage of an industrial civilization that has cannibalized an entire world […] Mars is imagined in explicitly terrestrial images of decay” (Ibidem: 277). Nel 1967 esce Welcome to Mars di James Blish, scritto in realtà prima che il Mariner 4 raggiungesse Marte, come si è detto, il 14 luglio 1965: nonostante l’autore temesse che potesse risultare “grotesquely out-of-date by the time that it was released”58, gran parte della critica fu di diverso avviso, e c’è anche chi pensa esattamente il contrario, ovvero che “its particular charm is precisely the bizarre conjunction of realism and fantasy” (Ketterer 1984: 284). Si tratta di un romanzo per ragazzi, i cui protagonisti, due teen-agers, viaggiano verso Marte usando uno strumento antigravitazionale fatto in casa e, giunti sul pianeta, trovano rifugio all’interno di un cratere scoprendo così un’antica civiltà sotterranea. Come vediamo, la narrativa si sta modificando “to accommodate a planet that had become a rocky wasteland” (Markley 2005: 282). In linea generale, “With the success of the first three Mariner missions, Mars became paradoxically a less interesting and more complicated object for scientific writers” (Markley 2005: 267). Se da un lato gli scrittori si devono adeguare alle nuove scoperte, dall’altro c’è chi preferisce aggirare l’ostacolo rappresentato dall’esplorazione in corso ambientando la vicenda o nel lontano passato, o nel lontano futuro; così fanno, per esempio, lo scrittore lituano americano Algis Budrys in The Iron Thorn (1967), storia di ambientazione mitologica che introduce gli Amsir, creature simili a uccelli che abitano su Marte e che si scoprirà essere stati originati da esperimenti genetici iniziati sulla Terra; Philip K. Dick in Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), dove i coloni hanno bisogno di immaginare un passato mitico e, pertanto, “Mars represents a nostalgic desire among authors, readers, and moviegoers to reimagine the dying world as a new frontier, a stage to act fantasies of humankind’s destiny as a spacefaring civilization, or as a bolt-hole to escape ecological – or nuclear – devastation on Earth” (Ibidem: 269-270; e Lin Carter in The Man Who Loved Mars (1973), che mette in campo tribù guerriere e antiche civiltà che molto ricordano i romanzi di Burroughs e Brackett, pur citando esplicitamente Mariner 4 e Mariner 9. Nel frattempo, nel luglio del 1969 i Mariner 6 e 7 entrano nell’orbita marziana e rivelano che le calotte polari non sono fatte di ghiaccio d’acqua ma 58 Ibidem.
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di diossido di carbonio congelato; contemporaneamente, da un osservatorio in Texas si vedono piccole quantità di vapore acqueo nell’atmosfera del pianeta, che rimane comunque realisticamente inospitale. Arthur C. Clarke è il primo a dare una descrizione realistica di Marte, in un racconto pubblicato nel 1971, “Transit of Earth”, scritto nella forma di un monologo pronunciato da un astronauta destinato a morire. È l’ultimo sopravvissuto di una spedizione inviata a osservare l’allineamento dei pianeti da un punto strategico di osservazione su Marte, e non c’è nessuno che possa salvarlo. Come ultimo gesto, si dirige verso le montagne di Marte per esplorarle. Da notare che era stato il citato Mariner 7 a “scoprire” le montagne marziane, così come il Mariner 9 nel 1972 scoprirà il più grande vulcano del sistema solare, Olympus Mons, l’immenso canyon poi denominato Valles Marineris, lungo come “the distance between New York and Los Angeles”59, e numerosi letti di fiumi prosciugati. Nel 1971 esce un’antologia intitolata Mars, We Love You. Tales of Mars, Men and Martians, contenente una ventina di contributi fra estratti e racconti, alcuni originali, a cura di Jane Hipolito e Willis E. McNelly con un’Introduzione di Isaac Asimov (intitolata “The Romance of Mars”). Nello stesso anno si tiene, presso il Jet Propulsory Laboratory (Pasadena, California), un convegno intitolato “Mars and the Mind of Man”, in cui si parla del ruolo di Marte nella costruzione di una nuova mitologia: uno dei principali relatori è Bradbury. In questo periodo troviamo anche romanzi per così dire ibridi, che cercano di unire le recenti scoperte scientifiche all’immaginazione letteraria: così fanno ad esempio Martin Caidin in Destination Mars: in Art, Myth, and Science (1972) o Jeff Rovin in Mars! (1978), “part scientific exposition, part pop-culture catalogue of science fiction, part overview of the history of astronomy, and part anticipation of planned and imagined missions to the red planet in the last decades of the twentieth-century” (Markley 2005). Sul fronte della narrativa pura e semplice, invece, The Far Call dello scrittore canadese Gordon R. Dickson (1978) si concentra su una spedizione internazionale su Marte che viene sabotata dalle bieche manovre politiche delle nazioni partecipanti, mentre il romanzo di Lin Carter The Man Who Loved Mars (1973), seguito da The Valley Where Time Stood Still (1974), The City Outside the World (1977) e Down to a Sunless Sea (1984), tutti di ambientazione marziana, è assolutamente fantastico e non contiene alcun riferimento alla realtà degli anni ’70, mentre accenna brevemente al Mariner 4. Qui Marte è fatta di deserti, città abbandonate, antiche tribù e misteriosi rituali. Un romanzo che vale la pena citare anche se non è americano è The Earth is Near del ceco Luděk Pešek (1974), autore di numerosi articoli su Marte e space artist, il quale critica la tendenza generale a tradurre Marte “into 59 (09/03/2015).
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a twenty-first century American – or Americocentric – frontier” (Ibidem: 283). Nel 1975 vengono lanciate le sonde Viking e per festeggiarle la rivista Analog pubblica un numero speciale dedicato a Marte nel mese di dicembre 1974. Contiene tre racconti: “Encounter below Tharsis” di Bob Buckley, “The Weather on Mars” di Alex e Phyllis Eisenstein, e “Nix Olympica” di William Walling, più alcuni articoli scientifici e divulgativi sul pianeta. Nel 1976 le due sonde toccano Marte – la prima in Chryse Planitia, la seconda in Utopia Planitia – e inviano le prime fotografie, che mostrano inequivocabilmente il colore del cielo: “No one had expected it to be salmon pink. In ‘Transit of Earth’ Arthur C. Clarke describes the sky as being dark blue; in The Far Call Gordon R. Dickson describes it as being pale blue; and though no color is explicitly mentioned in Frederick Pohl’s Man Plus it is clear that he envisages the sky as being black”60. Le immagini inviate dai Viking: […] offer two different kinds of invitations to the human imagination: on the one hand, Mars becomes ahuman, evoking the sense that to understand areography – ancient flood plains, immense canyon systems, and gargantuan shield volcanoes – one must extend history itself into the geological, or rather, areological past, an imaginary that extends three or four billion years back in time. But this ahuman quality provokes as well the desire to impose human desires on alien landscapes, to remake Mars in the image of an unspoiled Earth […] The Viking photographs also inspired a generation of science-fiction writers to recast the old-fashioned adventure novel as a hi-tech confrontation with the unearthy nature of vast canyons, ancient riverbeds, and massive craters. (Markley 2005: 286)
Una parentesi è d’obbligo per chiarire la questione del cielo “rosa” di Marte. Come scrive Morton, in realtà la polvere rende il cielo marziano “yellow brown, rather than an earthly blue – or, as is often claimed, pink” (2003: 93). L’idea che il cielo marziano fosse rosa si diffuse in seguito alle foto inviate dal Viking, ma il colore era dovuto al fatto che la gamma cromatica era limitata e le lenti non erano state ben calibrate; dopo vari tentativi (fra cui un eccesso di rosso, dovuto anche alla “tremendous bias to make Mars red”), quando si arrivò a una più esatta definizione il colore reale risultò essere un “moderate yellowish brown” (Ibidem: 94). Man Plus esce più o meno nello stesso periodo in cui le sonde Viking atterrano su Marte, e racconta la storia della preparazione di un cyborg progettato per resistere alle condizioni di vita sul Pianeta Rosso. Il personaggio scelto per sottoporsi a questo esperimento viene trasformato chirurgicamente mediante la sostituzione della maggior parte dei suoi organi, e quando giunge su Marte è piacevolmente stupito nel vedere che il pianeta sembra fatto apposta per lui, tanto che lo chiama “fairland”. È una vicenda particolarmente suggestiva, in cui 60 Ibidem. Pohl scriverà anche un seguito, Mars Plus (1994).
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il senso di alienazione e di displacement lascia, alla fine, il posto alla gioia di ritrovare una nuova collocazione, una nuova identità proprio nel luogo più alieno, più estremo, e proprio in seguito alla trasformazione del corpo. Il post-umano è ormai diventato la nuova Frontiera. Questo romanzo anticipa da questo punto di vista Climbing Olympus di Kevin J. Anderson, più noto come l’autore della saga di Star Wars (1994), dove troviamo umani chirurgicamente alterati per sopravvivere nelle condizioni estreme di Marte: “Cyborgs are the future’s response to the problem of Martian settlement” (Ibidem: 299). C’è una sorta di rinascita politica implicita in questo progetto, o meglio di rigenerazione nazionale, in quanto il terraforming porta a riappropriarsi di uno “spirit of adventurous conquest, naturalized as essential to human – specifically American – identity” (Ibdem: 300). Pohl viene ricordato anche per aver anticipato – pur senza usare il termine “areoformazione”, che sarà coniato da Robinson nei suoi ultimi romanzi – il concetto del “remaking of humanity to fit the conditions of Mars” (Crossley 2011: 285). Nel corso di questi decenni, l’accrescersi delle conoscenze scientifiche su Marte fa gradualmente abbandonare le speranze sull’esistenza di forme di vita intelligenti sul pianeta, e l’atterraggio delle prime sonde non conferma nemmeno l’esistenza di vita primitiva, seppure in forma microbica. Questo provoca una diminuzione – ma non la scomparsa totale – di storie relative a un Marte abitato, portando la fantascienza a considerare il pianeta soprattutto come base di future colonie terrestri61. Inoltre non dobbiamo dimenticare che lo sbarco dell’uomo sulla Luna (1969) ha già messo in un certo senso fine all’epoca della pura immaginazione: “When Neil Armstrong set foot on the Moon, it was evident that the facts of science had overtaken the old fantasies of the space adventure story” (I. F. Clarke 1979: 12). Ciononostante, vi sono diversi casi di persistenza di un immaginario fiabesco di Marte. Un esempio è il racconto “In the Hall of the Martian Kings” di John Varley (1978), che ignora completamente le scoperte scientifiche recenti. Tra le fantasie legate a Marte troviamo anche Jesus on Mars di Philip José Farmer (1979), in cui una spedizione che comprende un cristiano, un musulmano e un ebreo scopre una comunità ebraica ortodossa che abita dentro a caverne sotto a superficie di Marte. La popolazione è formata in parti uguali da una “razza aliena” (Krsh) e dai discendenti di terrestri rapiti dai Krsh 2000 anni prima, ed è governata da un essere soprannaturale che si fa chiamare Jesus. Non si capisce bene se quest’ultimo sia alieno o no, ma alla fine torna sulla Terra e conquista (e converte) tutta l’umanità.
61 (17/02/2015).
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5.4. “Magnificent desolation”
Negli anni ’80 l’esplorazione di Marte vede una sosta, anche se continuano a circolare le migliaia (circa 55.000) di fotografie ottenute grazie ai lander. Di conseguenza, […] much of the Mars fiction written during the 1980s took the form of actionadventure escapism. As Lowell’s “discoveries” at the turn of the century inspired many a writer to write of green-skinned girls living beside ancient canals, so did more recent discoveries inspire the fantasies of the eighties. Three plot elements became so overused that they turned into clichés: the terraforming of Mars; the discovery of alien artefacts on Mars; and the rebellion of brave and freedom-loving colonists against a repressive government on Earth62.
A questi tre elementi si può aggiungere l’attenzione multietnica, presente sia nell’ultimo testo citato sia nei seguenti. In Menace Under Marswood di Sterling E. Lanier (1983), ambientato su Marte terraformato secoli prima, l’eroe Mohammed Slater deve combattere contro un nucleo di resistenza che utilizza armi di provenienza aliena, mentre in Crescent in the Sky di Donald Moffitt (1989) “a partially terraformed Mars is the setting for a Martian Islamic caliphate” (Markley 2005: 299). L’ingresso dei personaggi musulmani si può forse collegare al fatto che negli anni ’70 è nato il concetto di political correctness e la predominanza WASP si sta stemperando definitivamente nella salad bowl (un concetto che nasce in California negli anni ’80) delle diverse etnie, culture e religioni. Frontera di Lewis Shiner (1984) narra di una colonia di sopravvissuti su Marte – “a desolation that went on endlessly” (p. 147) – abbandonati dalla Terra, troppo impegnata a gestire i suoi guai. Solo quando un gruppo di mutanti particolarmente geniali riescie a costruire un teletrasportatore, una delle corporazioni che governano la Terra decide di inviare una missione di salvataggio su Marte, naturalmente allo scopo di appropriarsi della nuova tecnologia. Lo stesso fa una risorta Russia comunista, cosicché la colonia si ritrova intrappolata fra le due potenze. Analoga atmosfera troviamo in Icehenge di Kim Stanley Robinson (1984). Narrato da tre diversi personaggi, il romanzo parla del ritrovamento di manufatti alieni, ma è soprattutto una riflessione sul significato della Storia. È ambientato in un futuro in cui Marte è stato terraformato e poi distrutto dalle rivolte dei coloni: ora la gente vive fino a 500 anni circa e questo offre al romanziere lo spunto per riflettere su tematiche quali la memoria e la storia. Dello stesso autore – oltre alla Mars Trilogy che vedremo tra breve – è Pacific Edge (1990), in cui troviamo un episodio particolarmente significativo: un gruppo di personaggi sono riuniti 62 (09/03/2015).
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davanti al televisore per vedere l’atterraggio su Marte. Pochi secondi prima dell’evento, però, decidono di togliere il volume in modo da non sentire le banalità che verranno pronunciate, ricordando l’atterraggio sulla Luna. Nel 1984 esce The Greening of Mars di James Lovelock (studioso britannico più volte docente negli USA e collaboratore della NASA, nonché formulatore, nel 1979, della Gaia Hypothesis, che vede la Terra come un unico organismo vivente) e Michael Allaby; in questo romanzo Marte viene immaginato come una biosfera, una sorta di paradiso bucolico abitato da coloni di seconda generazione, geneticamente modificati e vegani. Michael Lindsay Williams in Martian Spring (1986) risolve invece in modo molto ingenuo e poco sostenibile (da un punto di vista sia ecologico, sia etico) il problema del terraforming: riprende, infatti, il vecchio tema dell’esplosione nucleare, ma questa volta l’esplosione, avvenuta in orbita, provoca un sorprendente cambiamento climatico sul pianeta, compresa la comparsa di vegetazione e un’atmosfera respirabile. A tutto questo si aggiunge una razza di alieni telepatici ibernati sotto la superficie di Marte. Il fatto che il pianeta venga riscaldato periodicamente mediante un effetto-serra controllato denota un’ansia ecologica tipica degli anni ’80: “the greenhouse effect induced by the Martian spring […] relocates fears of eco-devastation within a cyclical paradigm that naturalizes the effects of otherwise catastrophic global change” (Markley 2005: 298-299). Nel 1988 esce una saga in 10.000 strofe intitolata Genesis, an Epic Poem, scritta dal poeta e accademico eclettico Frederick Turner, che può essere definita una sorta di poema omerico della futura colonizzazione di Marte. La curiosa parziale omonimia con Frederick Jackson Turner, l’autore di The Significance of the Frontier in American History (1893), non sembra spiegabile col ricorso a uno pseudonimo, giacché mi risulta che Frederick Turner insegni effettivamente presso l’università del Texas a Dallas. Turner è autore anche di un precedente romance in prosa, A Double Shadow (1979), una sorta di pastorale allegorica anti-modernista in cui egli usa “his visionary Mars of the future to articulate the ecopoetics and neo-Arcadianism” che stanno alla base della sua produzione saggistica (Crossley 2011: 247). Forse la nota più originale sta nel fatto che all’interno del romanzo egli cita fonti scientifiche fittizie, come Introduction to Martian Morphology di Gunther o The Geology of Mars di Mutch. In ogni modo, l’esperimento di Turner (sia il poema sia la prosa) ha un suo fascino in quanto “epic account of the process by which a wasteland became a thing of beauty”: il che, dimostrando “that the bareness of Mars has an aesthetic of its own” (Ibidem: 254), si inquadra in una poetica del sublime. I primi anni ’90, in parte a causa dei successi nell’esplorazione di Marte – nel 1992 viene lanciata la prima sonda americana su Marte, dopo un lungo lasso di tempo trascorso dal lancio di Viking 2 nel 1975 – vedono un nuovo intensificarsi
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dell’interesse anche letterario per il pianeta, unitamente a una crescente preoccupazione che da un lato riguarda l’ambiente e dall’altro l’affermarsi delle biotecnologie. Ma non mancano le parodie: nel 1990 esce Voyage to the Red Planet di Terry Bisson, che narra di una bizzarra spedizione su Marte in una navicella spaziale chiamata Mary Poppins. Nel 1991 viene pubblicato Red Genesis di Sondra Catherine Sykes, ambientato in un futuro in cui la colonizzazione di Marte è iniziata da tempo: al 2015 risale il primo avamposto, al 2028 la prima stazione vera e propria, al 2038 la prima epidemia, ecc. La vicenda è intervallata da lunghe spiegazioni che riguardano le modalità di emigrazione su Marte: impariamo che ogni potenziale colono deve studiare e addestrarsi per almeno due anni prima di ricevere il permesso di emigrare, e che una parte dell’addestramento prevede il soggiorno all’interno di una biosfera (sulla Terra) per almeno 10 mesi. Troviamo anche numerosi dettagli di tipo psicologico, per esempio il fatto che il motivo più frequente per tornare sulla Terra sia la “Pink Sky Syndrome” (Sykes 1991: 89) – le persone non riescono ad abituarsi al cielo rosa, reso tale dalla polvere rossa alzata dal vento, ma lo vogliono azzurro – oppure i problemi identitari di chi non si sente, come il protagonista, Graham Sinclair, che sta viaggiando verso Marte all’inizio della storia, né terrestre né marziano, e appena arriva su Marte si rende conto che deve smettere di pensare in termini di “home” (Ibidem: 97). Esistono vaccini contro la febbre marziana, una malattia simile alla malaria: chi la prende non guarisce mai del tutto, ma se la porta dentro tutta la vita. Ci sono cinque colonie su Marte; della prima, risalente al 2038 e distrutta da un’epidemia, sopravvivono solo sette persone. Tra esse, una si chiama Jeremiah (contiene i coloni più austeri, che cercano di tornare alle origini: rifiutano la tecnologia e pare vogliano rifondare un’America ottocentesca); un’altra Sera (unico insediamento permanente, ospita i cosiddetti Contaminanti e vi si fanno ricerche genetiche sulla razza umana); un’altra ancora Venture (gente dura, esploratori, poche donne). Vi sono olodiscs da consultare/ascoltare in poltrona e pomodori grandi come palloni da basket; la cosa di cui si ha più bisogno su Marte è l’abilità di eseguire lavori manuali. Fra le nozioni che attingono alla realtà abbiamo il giorno marziano, Sol, che dura 24 ore e 39 minuti e mezzo; i riferimenti al Mons Olympus, di cui si dice che se fosse sulla Terra si estenderebbe da San Francisco a Los Angeles; e quelli alla “Face”, che sembra un viso lungo 1600 km. La ricerca di analogie serve in realtà per sottolineare le differenze: “Everywhere you turn, everywhere you look, she [= Mars] reminds you of her difference” (Sykes 1991: 89), oppure “The New World he was coming to did not have a Lady with a Torch to welcome him” (Ibidem: 94).
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Il territorio non ha nulla di emozionante. Nonostante ci sia l’acqua più pura di tutto l’universo, c’è molta polvere, aria pesante, terreno rovente, temperatura a 62 gradi. I coloni devono indossare tute e stare dentro cubicoli e quando arrivano le tempeste di sabbia le colonie sono isolate; non ci sono gallerie sotterranee, perché manca un’organizzazione unitaria. Non ci sono uccelli, solo insetti e rospi; soprattutto di notte si sente solo il rumore dell’acqua. Per il resto, è tutto silenzioso. Questa la vicenda: Sinclair, ex miliardario ed ex direttore di una compagnia colpevole di un immane disastro ecologico (aver sprigionato nubi tossiche che hanno causato la morte di tre milioni e mezzo di persone sulla Terra), viene punito dalla Corte con l’esilio su Marte, ma nel corso della sua permanenza scoprirà che i coloni sono usati come cavie inconsapevoli di un esperimento antropologico e metterà la sua preziosa esperienza al servizio della comunità per cambiare le cose sul pianeta. Questo romanzo è interessante non solo dal punto di vista della verosimiglianza scientifico-tecnologica, ma anche per l’approfondimento psicologico e del contesto sociale: “More than this, Red Genesis is the story of Graham’s adjustment to a frontier society, his finding a place on a world which never wanted him, and his development as a human being”63. Il progetto di rendere Marte autosufficiente dalla Terra lo colloca in una categoria diversa dai tipici romanzi di terraforming: qua abbiamo una sorta di USAforming, in quanto il riferimento ai Padri Fondatori è palese. Inoltre molti dialoghi contengono citazioni dall’Antico Testamento e la colonia più importante ha un nome biblico (Jeremiah) e questo ci ricorda non solo il romanzo di Philip K. Dick, dove avevamo New Israel, ma anche la fondazione delle stesse colonie americane da parte dei Pilgrim Fathers e dei puritani di Winthrop, il cui progetto, come sappiamo, comprendeva la fondazione di una New Jerusalem, ovvero di una City Upon the Hill. Anche qui ci sono dissidi religiosi fra colonie (viene in mente l’espulsione dal Massachusetts di Roger Williams, che poi fondò il Rhode Island); qui però non c’è un Thanksgiving Day ma una festa per il Solstizio (ibridata da un tableau vivant della natività), in una sorta di rinnovato paganesimo di tipo sincretico-ambientale. Del resto, il terreno è arido e cosparso di vulcani, crateri e polvere, ma vi sono serre in cui cresce una vegetazione rigogliosa che permette ai coloni di ricordare il ciclo delle stagioni. La durata media della vita, che sulla Terra è di centodue anni, scende a trentasette su Marte a causa delle dure condizioni di vita, delle febbri marziane, delle temibili tempeste di sabbia e degli incidenti di vario tipo. L’attività più redditizia è l’estrazione di acqua dal sottosuolo e il suo commercio con la Terra (cfr. Isaac Asimov nel citato “The Martian Way”). Non vi sono bambini, le donne sono 63 (04/03/2015).
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poche, e la colonia ha leggi proprie, seppur modellate su linee-guida terrestri; manca ancora una struttura sociale vera e propria. Nel corso della vicenda, però, si attuerà un progetto rivoluzionario sul tipo di quello americano per unire le varie colonie nella rivendicazione dell’indipendenza, tanto che Graham a un certo punto viene definito “George Washington of Mars” (e avrà una figlia femmina, a simboleggiare l’avvento di una new age all’insegna della parità di genere). Un altro tema riguarda il rapporto fra presunta normalità e anormalità, che s’inserisce nel più ampio contesto del dibattito sull’eugenetica e sul post-umano. Su Marte si cerca di ottenere una razza pura, allontanando i “contaminati” e utilizzando “stabilizzatori umorali”; ma ci sono personaggi che iniziano a dubitare di questa nozione di purezza, ricordando che sulla Terra geni musicali, artistici e letterari come van Gogh o Mozart o – di nuovo – Edgar Allan Poe difficilmente avrebbero potuto sviluppare il loro talento e la loro creatività in tali condizioni. È interessante notare che Poe è citato in più di un’occasione, in particolare una sua poesia, “Tamerlane” (1827), e un suo racconto, “The Pit and the Pendulum” (1842). Se il secondo offre al protagonista un’allusione alla sua condizione esistenziale precaria (sospeso com’è fra Terra e Marte, manipolazione e libero arbitrio, punizione e salvezza), il primo, che in apparenza ha ben poco a che vedere con la vicenda, dischiude, a un’attenta lettura, analogie sorprendenti. Troviamo, infatti, disseminate nei suoi versi, che pure parlano d’altro, una serie di espressioni – “the red flashing of the light”, “the heavy wind”, “the chilly air”, “proud natural towers of rock”, “in the wilderness alone”, “deserts”64 – che sembrano effettivamente riferirsi proprio al Pianeta Rosso. Anche Herman Melville, un altro grande scrittore dell’Ottocento americano, viene citato nel corso di un dialogo: in particolare vengono menzionati il suo romanzo epico Moby Dick (1851)65 e il racconto breve “Bartleby” (1853)66, appartenenti a due fasi distinte della vita dello scrittore: di statura quasi mitologica il primo, di natura più surreale e premodernista il secondo, rappresentano due modalità opposte di eroismo, e due dinamiche ben diverse, ma ugualmente autodistruttive, di relazione con l’Altro. Nel 1991 esce anche The Martian Rainbow di Robert L. Forward, che, pur citando spesso le missioni Viking, sembra riesumare lo stile dialogico dei pulps anni ’30. L’eroe e l’anti-eroe sono due gemelli, Gus e Alexander Armstrong. Gus è uno scienziato buono e intelligente che vive su Marte, mentre Alexander è un generale megalomane che s’impadronisce della Terra nei panni di un capo carismatico religioso. I coloni che vivono su Marte si oppongono alla sua tirannia, 64 E. A. Poe, “Tamerlane” (1827), in: (03/03/2015). 65 Herman Melville, Moby Dick (1851), in: (04/03/2015). 66 H. Melville, “Bartleby” (1853), in: (04/03/2015).
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aiutati da una sorta di sottosuolo marziano sulla Terra, dalla scoperta di robot alieni congelati nelle nevi su Marte, e dalla sostituzione di un gemello con l’altro nel climax della storia. Nel 1992 esce The Season of Passage di Christopher Pike, che pur citando i Viking riprende l’idea dei canali su Marte (che, fra l’altro, è abitato da vampiri). Il romanzo contiene un’allusione a The Martian Chronicles, che uno dei sei personaggi sta leggendo. Nello stesso anno esce Beachhead di Jack Williamson, uno scrittore prolifico, attivo fin dagli anni ’20, che scrisse fino all’età di novantotto anni. Nel romanzo in questione, le potenze della Terra (Europa, Russia, Giappone e America) controllano le spedizioni sulla Luna e su Marte e stanno cercando di stabilire la prima colonia sul pianeta. Dopo un lungo allenamento e una dura selezione, il protagonista, Sam Houston Kelligan, innamorato di Marte fin da bambino (a sei anni leggeva Heinlein) e costantemente criticato dai genitori, che non fanno che ricordargli che loro hanno contribuito a fondare il Texas, riesce a coronare il suo sogno; dovrà però vedersela non solo con una strana e inquietante forma di vita marziana consistente in un virus letale nascosto nella polvere che ricopre il pianeta, ma anche con gli stessi terrestri, corrotti e speculatori. Intanto la Mars ConQuest, Inc. pubblicizza Marte con un prospetto promozionale che mostra una lussureggiante città-giardino sotto una cupola di cristallo posta su una collina rossa e rocciosa. Si tratta inequivocabilmente di una nuova versione della City Upon the Hill, oltre che di una reinterpretazione del Giardino dell’Eden (fin dal nome, “Gardens of Heaven”). E il finale vede Sam Houston rinunciare alla moglie e al figlio per tornare su Marte, dove iniziare una nuova vita, come un nuovo Adamo. Nel 1992 escono anche diversi racconti, fra cui “Danny Goes to Mars”, una parodia politica su Dan Quayle a opera di Pamela Sargent, e “The Martians” di Frederick Pohl, che verrà pubblicato come romanzo col titolo Mining the Oort lo stesso anno. La vicenda narra la terraformazione di Marte dalla prospettiva marziana, in particolare attraverso gli occhi di Dekker DeWoe, l’eroe marziano della storia. Egli è cresciuto imbevuto di ideali marziani e crede nel cosiddetto “Martian dream” (l’allusione all’American Dream è palese), che però è destinato a infrangersi. Il romanzo è ben costruito dal punto di vista sia della verosimiglianza scientifica sia del background sociale. Come scrive Arthur C. Clarke nella sua Introduzione a Beachhead di Jack Williamson (1992), Marte rimane “the hope for science fiction” (cit. in Markley 2005: 270). Nonostante il periodo che va dal 1993 al 1999 veda, come si è osservato in precedenza, alcuni fallimenti nelle missioni su Marte, l’interesse per l’ecosistema marziano non si attenua: semmai si sposta un po’ dalla biologia alla geologia, visto che sono proprio i geologi che continuano a essere convinti che vi sia acqua
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sotto la superficie del pianeta, e in quantità addirittura maggiore di quella ipotizzata da Lowell. Per questi motivi il rover della missione Pathfinder nel 1997 è stato soprannominato “Twelve-inch tall geologist” (Markley 2005: 311). Anche l’interesse dei romanzieri non subisce alcuna diminuzione, anzi viene ulteriormente alimentato dall’interesse dei geologi. La cosiddetta Mars Trilogy – composta da Red Mars, Green Mars e Blue Mars – di Kim Stanley Robinson (rispettivamente 1993, 1994, 1996) si concentra sul processo di terraformazione del pianeta, che dal suo stato iniziale (arido) viene reso abitabile coltivandovi sopra delle piante finché non diventa un pianeta simile alla Terra (cioè, ricco di acqua). Un tema che vi ritroviamo è la lotta per l’indipendenza della colonia marziana dalla Terra, un elemento che abbiamo già visto in Arthur C. Clarke e che ritroveremo anche nelle opere di Greg Bear (per esempio Moving Mars 1993, che riprende il pensiero di Carl Sagan sulla possibilità di forme di vita che abbiano saputo adattarsi a vivere su Marte), nel film Total Recall di Paul Verhoeven (1990, basato sul racconto di Philip K. Dick “We Can Remember It For You Wholesale”) e nella serie televisiva Babylon 5, come pure in diversi videogiochi67. La trilogia “riepiloga ancora una volta i miti astronomici e letterari che hanno plasmato la nostra percezione del pianeta ‘rosso’ spingendo anche la cultura scientifica della fine dell’800 e del ’900 a ipotizzare o, piuttosto, fantasticare l’esistenza di antiche civiltà scomparse, di potenti sistemi idraulici (i canali di Marte), di abitanti tecnologicamente avanzati” (Pagetti 2007: 7). Una lettura interessante di Blue Mars è quella proposta da Burling, il quale, accostando il romanzo a The Dispossessed di Ursula K. Le Guin (1974), ne dà un’interpretazione in chiave marxista. Soprattutto si concentra su due passaggi della vicenda. Nel primo, […] Nirgal, a native-born Martian, has temporarily joined “the ferals”, a purposedly non-technological social group living as close to the natural world as possible, and representing what Marx terms the tribal or primitive mode of production […] A tribal culture depicted as engaging in rhythmic percussion and dancing is unremarkable from the traditional aesthetic perspective, inasmuch as one would not expect such a society to be capable of producing or practising “civilised” complex musical forms. (Burling 2009: 59)
L’autore dell’articolo sottolinea il rapporto fra “the primitive (precapitalist) mode of production and the purpose of music”, convinto che i modi in cui la musica viene prodotta e consumata siano in relazione con la tipologia della società e del background culturale (Burling 2009: 59). La musica viene qui a rappresentare non una forma di proprietà intellettuale, bensì una “collective, dynamic social 67 (04/03/2015).
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experience outside material exchange in which anyone and everyone can play. This means that there is no labour category of ‘musician’, no separate category of ‘audience’, and no special instruments” (Ibidem). L’altro episodio è quello in cui i protagonisti si imbattono in una banda che suona “twenty different drum rhythms at once”: di nuovo, la musica esiste al di fuori del ciclo di produzione e consumo: per il native-born Martian, essa “emphasises egalitarian social relations – though this time not in a tribal mode of production, but rather in a post-capitalist economy” (Burling 2009: 60). È questo un chiaro esempio di paesaggio sonoro che offrirebbe molti spunti di ulteriore approfondimento: se è vero che nel romanzo il suono viene rappresentato “as a metaphor for the newly emerging political sensibilities on Mars” (Ibidem: 61), è vero anche che sono molti i romanzi su Marte dove la musica riveste un ruolo importante, e questo apre un campo d’indagine estremamente ampio e interessante per gli studi comparati e per i soundscape studies. Se Red Mars, Green Mars, and Blue Mars esplorano i problemi politici, sociali e morali di una Terra inquinata e sovrappopolata (Markley 2005), anche nel successivo The Martians (1999) Robinson userà il terraforming marziano “to rethink the complex relationships between planetary ecology […] and political economy” (Ibidem: 357). In tutti i suoi romanzi e racconti, Robinson si sofferma però anche sui cambiamenti che Marte opera sui coloni – “The terrain itself suggests the inadequacy of frontier metaphors and economic rationalization to describe areoformation” – e sulla “impossibility of fitting Mars into paradigms imported from Earth” (Ibidem: 372-373). Marte si rivela dunque un mondo autenticamente “altro”, nel quale ogni possibile analogia si scontra – a livello politico, non geologico o biologico – con la trasformazione implicita nel transplanting prima ancora che nel terraforming. Tornando al 1992, in quell’anno esce anche Mars Prime di William C. Dietz, dove troviamo una nuova colonia su Marte. Qui però, a differenza degli “élite settlers” immaginati da Robinson, i coloni sono i “convicts, misfits and adventurers that have always populated human frontiers”68. Labyrinth of Night di Allen Steele (1992) affronta invece il tema della tecnologia aliena, collegandosi alle fotografie inviate da uno dei Voyager in orbita negli anni ’70 che ritraevano: […] some oddities near the Cydonia region of Mars: a configuration of shadows that looked like a mile long human face and a cluster of what appeared to be pyramids. Fringe elements immediately seized on these as evidence of alien intelligence. Steele chooses to treat these ideas seriously, and builds a novel around the mystery. The human aspects of the story deal with the small scientific mission 68 (04/03/2015).
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investigating the face, and the attempts of a paranoiac military officer to destroy what they find there as a “threat” to the human race69.
Come si può vedere, nel suo romanzo “The so-called ‘face on Mars’ has replaced Lowell’s ‘canals’ as the reigning image of retrograde visions” (Crossley 2011: 240). Sempre del 1992 è China Mountain Zhang di Maureen F. McHugh, ambientato in un futuro dominato dalla Repubblica Popolare Cinese. È iniziato un programma di colonizzazione di Marte con l’invio di volontari sul pianeta allo scopo di trasformare il territorio desertico del Pianeta Rosso in terreno produttivo, ma gli emigranti partono anche per diverse ragioni personali. Vediamo qui come la memoria storica dell’emigrazione in terra americana si mescola con le paure attuali relativamente alla perdita di predominio degli Stati Uniti nell’arena internazionale globale e in particolare all’avanzata della potenza cinese. Un altro elemento connotativo della narrativa di fine millennio è l’idea che nell’antichità la superficie di Marte possa aver consentito una vita simile a quella terrestre. Si ispira a questa idea, per esempio, il citato Moving Mars di Greg Bear (1993), dove un progetto di terraformazione di Marte porta a una rinascita di antiche forme di vita sul pianeta, che sono state dormienti per tutto il tempo in cui Marte è stato un ambiente inospitale. In questi anni si diffonde una nuova vena utopica: nel 1994 esce il citato Climbing Olympus, che vede il crollo dell’Unione Sovietica e la rivolta cecena. Marte diventa qui non tanto un’estensione dell’Impero quanto “a symbol of hope and a possible escape route […] a site for utopian beginnings” (Crossley 2011: 287). Tra i vari scrittori attivi negli anni ’90 e nel primo decennio del nuovo millennio si distingue anche il citato Ben Bova70, scienziato e scrittore Navajo, autore di oltre 120 tra articoli e romanzi nonché past president della National Space Society e della Science Fiction Writers of America. È l’autore della saga Grand Tour, ambientata su tutti i pianeti del sistema solare, di cui fanno parte Mars (1992), Return to Mars (1999) e Mars Life (2008). I suoi romanzi sono ambientati in un futuro che vede gli ambientalisti in lotta contro i sostenitori dell’industria e il pensiero laico scientifico in opposizione al fondamentalismo religioso che esercita il suo controllo sul governo USA bloccando i finanziamenti per le missioni nello Spazio. Nel primo romanzo, il geologo mezzosangue Navajo Jamie Waterman viene reclutato a far parte della prima spedizione umana su Marte. Dopo varie peripezie, scoprirà gli indizi di un’antica civiltà. Bova sposa in questo romanzo l’ipotesi che Marte, un tempo abitato, fu colpito da un frammento dello stesso meteorite che provocò l’estinzione dei dinosauri sulla Terra. La descrizione del paesaggio di Marte deve molto all’este69 Ibidem. 70 Questo il suo website: (08/03/2015).
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tica del sublime: “Magnificent desolation. […] The world he saw was magnificent, beautiful in a strange, clean, untouched way. Proud and austere, its desert harsh and totally empty, its cliffs stark and bare. Mars was barren yet splendidly beautiful in its own uncompromised severity” (Bova 1992: 70). Nel secondo romanzo Jamie Waterman è tornato sulla Terra, dove è stato acclamato come un eroe. Per sei anni ha tenuto conferenze su Marte e raccolto fondi per una nuova spedizione, che ora è possibile grazie ai finanziamenti ricevuti da un ricco industriale. Waterman, però, non è interessato alla speculazione, bensì vuole tornare a visitare i misteriosi resti di abitazioni che ha scoperto nella Valles Marineris. Ritroviamo qui l’analogia fra la colonizzazione di Marte e quella dell’America del Nord, resa in questo caso più drammatica dalla presenza del nativo americano: “You want to change the entire planet, make it just like Earth.” “That’s the basic idea. Then it’ll be a lot safer for visitors. Then we can build permanent settlements on Mars. Build cities, colonies.” “Just like the Europeans did to the Americas,” Jamie said. […] And you’ll put the lichen on a reservation, where the visitors can come and stare at them.” (Bova 1999: 69-70)
Nel terzo romanzo, Jamie Waterman è diventato il direttore del Mars Program, che si batte per riuscire a portare avanti nonostante i tagli decisi dal governo. Il suo maggior desiderio è preservare la vita e la cultura autoctona, soprattutto dopo la conferma dell’esistenza di un villaggio marziano e della testimonianza di un’antica razza intelligente. È interessante notare che, da buon nativo americano, troverà la risposta alle sue ansie e ai suoi dubbi nei sogni. È dunque il suo retaggio culturale, la spiritualità profonda del suo popolo, basata in gran parte sul potere del sogno e della visione, che gli darà lo strumento (non scientifico) che sta cercando. Quanto al paesaggio, ritroviamo un territorio spazzato dalle consuete tempeste di sabbia, la cui descrizione deve molto all’iconografia western, come in questo esempio: “They shut down the probe for the night and trudged wearily back toward the camper, two thoroughly tired men alone in the rocky cold wilderness of Mars. The massive cliffs loomed over them, glowing russet and pink in the slanting light of the setting sun”71. Nel 1997 esce Mars Underground di William K. Hartmann, ambientato nel 2032. La razza umana ha già stabilito colonie su Marte. Da anni il dottor Alwyn Stafford fa ricerche sull’evoluzione della vita sul pianeta, ma la risposta sembra essere sempre la stessa: i soli microrganismi rinvenuti sono morti da tempo. Poi, ricercando ancora più a fondo nel deserto, farà una scoperta che potrebbe 71 (08/03/2015).
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cambiare radicalmente il ruolo dell’umanità nel cosmo. Il romanzo si conclude infatti, come un cerchio che si chiude, con l’attivazione di un meccanismo alieno sepolto sotto la calotta polare meridionale, “a forgotten relic that has only ‘the same meaning as an arrowhead in an Illinois cornfield’. It is a reminder of the limits of human knowledge” (Markley 2005: 290). Nel 1998 viene pubblicato Semper Mars di Ian Douglas, il primo volume di una trilogia che va dal 2040 al 2067. Nel romanzo, le scoperte effettuate su Marte, relative a rovine di antiche civiltà, innescano una guerra globale. Si scopre poi che non vi sono resti di civiltà aliene solo su Marte, ma anche sulla Terra e sulla Luna. Il racconto “Rainbow Mars” di Larry Niven, compreso nell’antologia omonima, Rainbow Mars (1999), si muove in un ambito più postmoderno e surreale, narrando di alcuni visitatori terrestri che, giunti su Marte, lo trovano abitato dai personaggi creati dalla fantasia di Edgar Rice Burroughs, Ray Bradbury, C. S. Lewis, H. G. Wells e Stanley G. Weinbaum. Fra gli animali, troviamo Moby Dick. In realtà si tratta di numerosi universi paralleli: come si può vedere, l’interesse della fantascienza si sta spostando su settori limitrofi quali la cyber fiction e l’intelligenza artificiale. Nel 1999 esce The Martian Race di Gregory Benford, che narra del fallimento di una missione della NASA su Marte; quando il governo statunitense abbandona tutti i progetti di voli spaziali, sarà il miliardario John Axelrod a raccogliere la sfida di lanciare il primo equipaggio umano sul pianeta (dove si troveranno segni di vita). L’uscita del libro avrebbe dovuto coincidere con l’arrivo su Marte del Polar Lander, che invece andò a schiantarsi sulla superficie. Interessante l’ultima frase del romanzo, pronunciata davanti alle telecamere all’arrivo su Marte: “Hello, Mars. From a member of the Martian race” (Benford 1999: 337). Questo finale bene interpreta lo spirito di una nuova fase della narrativa marziana, che vedrà il processo non tanto di terraformazione del Pianeta, ma per così dire di marzianizzazione dei terrestri. La narrativa più recente, infatti, si concentrerà prevalentemente sul processo “by which terrestrial human beings become Martian” (Crossley 2011: 279). I romanzi di questo periodo, a partire da Bova, descrivono l’esplorazione su Marte come: […] part epic journey, part heroic quest, and part “realistic” depiction of the bestlaid plans gone awry as astronauts encounter crisis after crisis on an alien world. Such novels […] declare their faith in the future of space travel while offering cautionary tales about the perils that astronauts may face on Mars and the dire consequences for humanity if we fail to open a new frontier on the red planet. (Markley 2005: 286)
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Molti romanzi e saggi di questi anni, tra cui Labyrinth of Night di Allen Steele (1992), Red Planet Run di Dana Stabenow (1995), Mars Underground di William K. Hartmann (1997), Semper Mars di Ian Douglas (1998), si concentrano sulla scoperta di artefatti alieni dal significato spesso ambiguo o incomprensibile. Per Markley, la benevolenza degli alieni suggerisce da un lato una sorta di alternativa in chiave New Age alla religione e alla scienza, dall’altro la loro assenza suggerisce che hanno dovuto soccombere al fato entropico di un pianeta morente (2005). Inoltre Semper Mars e Labyrinth of Night introducono elementi di politica internazionale, in quanto “the United States battles forces of evil (the United Nations!) to control alien technology found inside the Face on Mars” e Semper Mars può essere definito uno “space opera paean to the US Marines” (Ibidem: 291). Se già i romanzi di Frederick Pohl e Kevin Anderson offrono “a space-age version of the sublime” (Markley 2005: 287), man mano che ci si avvicina al nuovo millennio tale versione del sublime si sviluppa ulteriormente, alimentandosi di profezie di catastrofi terrestri e di preoccupati interrogativi esistenziali sul futuro dell’umanità: nei romanzi Menace under Marswood di Sterling Lanier (1983), Mars di Ben Bova (1992), Semper Mars di Ian Douglas (1998) e Mars Crossing di Geoffrey Landis (2000) si delinea progressivamente una visione sempre più complessa e post-umana del sublime: […] technological disasters force humans to march across the planet’s surface, dealing with psychological conflicts, the hostility of the environment, and political and philosophical questions about humankind’s future as an interplanetary species. In transforming nature-writing into the areological sublime, these novels reflect complex responses to the prospect of traversing an alien world: awe at the vastness and strangeness of Mars, a compulsion to exploit its resources, and a desire to transform that world into another Earth. The Martian landscape takes the measure of the human will to explore and survive. (Ibidem: 287)
Questa visione si radicalizzerà, come vedremo, nel secondo decennio del nostro secolo, soprattutto con il romanzo The Martian. Giunti nel nuovo millennio, in realtà la narrativa marziana si fa meno presente e sembra esaurire la sua vena in alcune parodie e riscritture, tra cui i racconti (entrambi usciti nel 2002) “Flower Children of Mars” di Mike Resnick e M. Shayne Bell, dove John Carter (il protagonista dei romanzi di Burroughs) incontra un gruppo di figli dei fiori pacifisti su Marte, e “A Martian Theodicy” di Paul Di Filippo, sequel comico della “Martian Odyssey” di Stanley Weinbaum. Ormai si è abbandonata definitivamente l’idea che Marte possa essere abitato, e la possibilità di vedere immagini del pianeta in 3D nel proprio computer portatile e quasi in tempo reale rende certamente meno suggestiva qualsiasi fantasticheria vada ad aggiungersi a quelle che dall’Ottocento a pochi anni fa hanno
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intrattenuto migliaia e migliaia di lettori. Un testo interessante, tuttavia, è il citato The Martian di Andy Weir (2011), di cui Ridley Scott ha tratto l’adattamento cinematografico. Da osservare in prima istanza che il marziano del titolo non è un indigeno del Pianeta Rosso, bensì un terrestre che, durante una missione, rimane l’unico superstite, abbandonato dai compagni che lo credono morto. Invece lui, grazie all’allenamento e a un carattere forte e intraprendente, inizia a organizzarsi e alla fine, aiutato anche dal pianeta Terra (e da un’imprevista collaborazione USA-Cina), riesce a sopravvivere e a tornare sano e salvo sul suo pianeta. La vicenda attinge, sia per tematiche, sia per stile, a tutta la letteratura e al cinema precedenti, dal più volte citato Robinson Crusoe al film Saving Private Ryan (Steven Spielberg, 1998). Narrato in prima persona sotto forma di journal, con l’intervento successivo di un montaggio alternato col pianeta Terra, il volume è interessante anche per la sua acuta consapevolezza che tutte le nostre più sofisticate specializzazioni servono a ben poco se non in un’ottica interdisciplinare – e difatti il “marziano” deve affrontare problemi su più livelli ed è costretto a mettere in campo tutte le sue conoscenze di botanica, ingegneria, chimica, fisica e informatica, mentre a Terra la politica e la scienza si interfacciano costantemente con i media. I numerosi riferimenti alla Terra e in particolare agli Stati Uniti sono uno degli elementi che rendono apprezzabile il romanzo e ci fanno perdonare il suo filo-americanismo buonista. Il Thanksgiving Day “visto” da Marte, o il deserto rosso assimilato alla prateria dei western, oppure la disco music e i romanzi polizieschi che rappresentano il cordone ombelicale col pianeta d’origine, assumono sfumature tra il comico e l’apocalittico. Marte è una landa desolata, un’esemplificazione perfetta della nozione di wilderness, e la parola “desert” ricorre per tutto il romanzo (“Desert plains”, p. 98; “I am the desert wanderer”, p. 105; “Desert world”, p. 284; “Desert terrain”, p. 309; “Frigid desert”, p. 341). Il problema maggiore per il protagonista non è il possibile incontro con una popolazione aliena, a cui si allude solo in un’occasione e con tono umoristico, bensì la solitudine, tanto che l’euforia di essere il primo a calpestare Marte cede presto il posto all’inquietudine di essere “the first person to be alone on an entire planet” (p. 99): All around me there was nothing but dust, rocks, and endless empty desert in all directions […] Mars is a barren wasteland and I am completely alone here. I already knew that, of course. But there’s a difference between knowing it and really experiencing it. All around me there was nothing but dust, rocks, and endless empty desert in all directions. (Weir 2014: 75)
L’ansia dell’invasione e il sogno della colonizzazione cedono dunque il passo a un nuovo concetto di cittadinanza o nazionalità (o planetarietà) legato allo jus soli. Il terrestre, nel momento in cui diventa “marziano”, non rivendica possesso (su base individuale o nazionale) ma diritto di appartenenza.
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Il romanzo ripropone in termini ancora più estremi la “depopulation” di Marte che abbiamo visto negli ultimi romanzi, e che già Markley nel 2005 aveva individuato come cifra della narrativa del nuovo millennio; una cifra necessaria per immaginare scenari su cui i terrestri possano ripristinare un proprio stato di natura (o impiantare una propria cultura), e particolarmente importante in quanto ci fa riflettere sulle implicazioni tecnologiche ed etiche del “transplanting humans to a new world” e su cosa significhi “to be in such wilderness” (2005: 380, 359). Come vediamo, sono sempre le stesse parole che ritornano – Frontier, transplanting, wilderness – a ricordarci che la mentalità coloniale è una camicia di forza da cui si fatica a uscire. Una mentalità che racchiude anche pregiudizi consolidati di genere: credo sia sufficiente la “postmodernist vision of the Sleeping Beauty” (Ibidem: 364) che si riporta di seguito per comprendere come Marte sia visto, anche da scienziati e seri intellettuali, con lo stesso spirito di conquista e con lo stesso sguardo egemone che nella tradizione maschile e patriarcale è stata riservata alle donne: “As Chris McKay recently put it, ‘Mars lived fast, died young, and left a beautiful body – the Sylvia Plath approach to planetary science. We could play Ted and just ignore it, or we could do something better and bring it back to life’” (Donna Shirley, cit. in Ibidem). La violenza sessista di questa similitudine, che ha radici antiche e che qui viene riproposta col cattivo gusto di darle un nome, un cognome e uno status intellettuale, pur stemperata debolmente dall’encomiabile utopia di riportare in vita la grande poetessa americana morta suicida, si commenta da sola. Sylvia Plath (1932-1963) non può risorgere. Quello che possiamo fare è leggere e amare le poesie di Sylvia Plath, renderla immortale in questo modo, l’unico che è dato agli umani. I romanzi e i racconti su Marte, che formano un corpus vastissimo di cui abbiamo esplorato solo una parte, sono a mio parere, come le poesie di Plath, un tesoro almeno altrettanto prezioso dell’acqua dentro e sopra il pianeta, e pertanto da conservare, studiare, leggere e interpretare, col dovuto rispetto, con curiosità e con passione. Anche se l’enorme fioritura degli anni passati è difficilmente destinata a ripetersi, le continue scoperte, e notizie e immagini che arrivano dalla NASA e dai vari siti web mantengono vivo il dibattito sul pianeta e probabilmente offriranno sempre nuove idee e fonti di ispirazione agli scrittori; e c’è chi è convinto che “the genre is still flourishing: and probably will do so as long as Mars remains in the sky”72. Anche perché, come abbiamo visto, il discorso su Marte convoglia – e declina in modo sempre nuovo – diverse preoccupazioni e diversi obiettivi che cambiano nel tempo pur ricollegandosi sempre a concetti-chiave della cultura USA. 72 (04/03/2015).
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Vale la pena concludere con due parole sul contributo della critica alla costruzione di un Canone letterario che includa la fantascienza. Se, in ordine di tempo, la prima voce critica autorevole appartiene a Sam Moskowitz (The Immortal Storm: A History of Science Fiction Fandom, 1954; Explorers of the Infinite: Shapers of Science Fiction, 1963; Seekers of Tomorrow: Masters of Modern Science Fiction, 1974), a partire dagli anni ’70 troviamo Leslie Fiedler, nome universalmente noto a chi si occupi di letteratura angloamericana, che cura un’antologia (In Dreams Awake, 1975) e nel decennio successivo pubblica saggi seminali fra cui “Mythicizing the City” (1981) e “The Criticism of Science Fiction” (1983) in cui, tra gli altri, cita studiosi come James Gunn e Kingsley Amis e giunge a legittimare pienamente la buona science fiction di alcuni autori come Letteratura a tutti gli effetti. David Ketterer renderà omaggio alle intuizioni di Fiedler in un articolo intitolato “‘In [Mutant] Dreams Awake’: Leslie Fiedler and Science Fiction” (1999), in cui riflette sull’influenza del grande studioso sulla critica fantascientifica. In Italia, vorrei ricordare i contributi del già citato Carlo Pagetti, che fin dal 1970 si occupa di Sci Fi (da Il senso del futuro: la fantascienza nella letteratura americana, 1970, a I marziani alla corte della regina Vittoria, 1986, dedicato ai romanzi di H. G. Wells, e oltre); di Franco La Polla, purtroppo precocemente scomparso, autore di un’antologia di scritti su Star Trek (1995-1999); di Nicoletta Vallorani e Valerio Evangelisti, entrambi scrittori di genere oltre che validi studiosi; e del collega Salvatore Proietti, che dal 1990 a oggi ha all’attivo un numero sterminato di pubblicazioni in questo ambito, tra cui un capitolo dedicato alla fantascienza ne Il novecento USA a cura di Sara Antonelli e Giorgio Mariani (2009). Le voci “Marte” e “marziani” non compaiono invece nel pure esauriente dizionario Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z di Mario Maffi, Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (2012): si parla però di marziani alla voce “Alien”.
6. I MARZIANI SULLO SCHERMO
…magari è il nostro cinema che ha la presunzione di raccontare quello che non conosce. (Emma Neri, “Se dalle ‘carrette del mare’ sbarcano marziani”, Tracce.it - rivista Italiana di Comunione e Liberazione, 3 ottobre 2011).
6.1. “Shall we go out and claim the planet in the name of Brooklyn?”
Ho citato in epigrafe di questo capitolo un vecchio articolo tratto da una rivista online che non frequento abitualmente: il solo motivo che mi ha indotta a farlo è che l’articolo in questione parlava in modo improprio sia di marziani, sia di migranti, sia di cinema. Immaginiamo per un momento che le “carrette del mare” siano astronavi, e che i profughi siano alieni in fuga da un pianeta dilaniato dalla guerra e dall’ineguaglianza sociale. Come ci comporteremmo? L’articolo è del 2011 e oggi, alla fine del 2015, la situazione non è certo migliorata. Eppure parliamo più volentieri di Marte che della Libia, più volentieri della stazione orbitante internazionale che di Lampedusa, più volentieri dell’esistenza di acqua su Marte che della necessità di accogliere profughi. Lo spettro del terrorismo, poi, fa di questi “marziani” un potenziale nemico ostile, oltre che inopportuno. L’articolo dichiara che gli immigrati sono, ormai, protagonisti assoluti del cinema italiano, seppur travestiti simbolicamente da “marziani”, e a dimostrazione cita i film di Crialese, Pacinotti, i fratelli Manetti e Zalone. Ma ricorda al contempo che il cinema, per essere grande, ha bisogno di uno “sguardo consapevole” su di sè e sulla storia, e aggiunge: “Lo sapeva Amelio che, nel 1994,
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aveva girato Lamerica soltanto tre anni dopo l’inizio degli sbarchi albanesi sulle nostre coste”1. Questo breve cappello introduttivo risponde alla mia esigenza di fare una premessa: qui non parleremo sempre di un “grande cinema”, pur citando alcuni capolavori assoluti. A volte citeremo film di serie B, di cassetta, di scarsa qualità. Ma saranno tutti, senza alcuna eccezione, testimonianze preziose della loro epoca, del dibattito culturale in corso, dello “stato delle cose” in ambito filosofico, sociologico, scientifico. A volte sarà facile intravedere, dietro l’apparenza mostruosa degli alieni che incontreremo sullo schermo, il prototipo del profugo, del rifugiato, dell’essere vivente in fuga da un mondo che muore; altre volte vedremo invece nei loro occhi il riflesso dei nostri stessi progetti di invasione e dominio. In ogni modo, non illudiamoci troppo: non è che il cinema, per raccontare, deve necessariamente raccontare quello che si conosce. Nel cinema “marziano” avviene l’esatto contrario, sempre: anche quando riconosciamo il decennio a cui un film appartiene, anche quando riusciamo a farne un’analisi ben contestualizzata, questi film parlano di una realtà che non conosciamo e che forse non conosceremo mai. Marte esiste, lo sappiamo, ma tutto ciò che lo riguarda, marziani per primi, è opera della nostra immaginazione. Questo vale per il cinema ancor più che per la letteratura, poiché, a differenza di quest’ultima, esso non può fare a meno dell’immagine e del suono, quindi deve mentire di più, se così si può dire, oppure mentire a un livello di maggior raffinatezza. Detto questo, gran parte del cinema di fantascienza ritrae sia personaggi che vanno su Marte a vario titolo, sia marziani che in un modo o nell’altro scendono sulla Terra. Soprattutto in determinati periodi, come vedremo, il cinema “marziano” attraverso queste due modalità principali accentra e condensa le aspettative, oppure le ansie e le paure, della popolazione. In particolare per diversi decenni “se ad un livello esteriore le creature sono spesso provenienti dagli spazi astrali, su quello metaforico, esse rappresentano esclusivamente la preoccupazione della società americana nei confronti del pericolo sovietico e il rosso pianeta Marte non di rado diventa il loro pianeta d’origine” (Liberti 2003: 28). Anche se il primo film di fantascienza in assoluto che conosciamo è Voyage dans la Lune di Georges Méliès (1902), che non parla di Marte ma pure nasce in un periodo in cui “era ancora molto viva la discussione sui canali di Marte”, cfr. Sindoni 1997: 85), ci aspetteremmo che il cinema “marziano” sia nato negli USA. In realtà non è così: non nacque a Hollywood, e nemmeno in Unione Sovietica, ma in Italia, nel 1910, per la Latium Film. La pellicola si intitolava 1 Emma Neri, “Se dalle ‘carrette del mare’ sbarcano marziani”, Tracce.it - rivista Italiana di Comunione e Liberazione, 3 ottobre 2011, in: (21/05/2015).
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Un matrimonio interplanetario2 e fu distribuito anche in Francia (Un mariage interplanétaire) e in Inghilterra (Marriage in the Moon). Si tratta di un cortometraggio muto, della durata di circa dieci minuti, di Enrico Novelli (più noto come Yambo), che narra la storia d’amore fra un terrestre e una bella marziana, sollecitata dalla tecnologia (nasce infatti grazie all’osservazione tramite telescopio e viene portata avanti tramite lo scambio di segnali radiotelegrafici). Questa la trama: l’italiano Aldovino, studiando il cielo con il telescopio, scorge sul pianeta Marte la bellissima Yala e se ne innamora. Con un telegrafo chiede al padre di lei il consenso per il matrimonio, ma questi gli risponde che acconsentirà soltanto se lui sarà in grado di volare fino alla Luna, dove tra un anno esatto sarà ad attenderlo. L’impresa sembra impossibile, ma Aldovino costruisce una navicella, si lancia nello spazio spinto da un cannone e giunge puntuale all’appuntamento. Nel 1913 esce il film britannico A Message from Mars, tratto da una commedia di Richard Ganthony del 1899 e diretto da Wallett Waller. Ne esisteva in realtà anche una versione precedente, della New Zealand (Franklyn Barrett 1903). Nel 2014 è stato restaurato e ora è visibile nel sito del British Film Institute. Si tratta di una sorta di Christmas Carol in cui il marziano Ramiel viene mandato sulla Terra per salvare un’anima perduta. È stato osservato che il film “impressed less from its Mars (‘ not perhaps entirely convincing’) than for its London” (Gifford 1971: 73). Nell’epoca del muto troviamo due film con lo stesso titolo, A Trip to Mars. Il primo è legato a un episodio increscioso. Siegmund Lubin – così come aveva fatto con La lune à un mètre di Méliès (1898) riproponendolo in USA col titolo A Trip to the Moon l’anno successivo – quando uscì Voyage dans la Lune (Méliès 1902) duplicò anche questo e ne depositò i diritti col titolo A Trip to Mars. Anche il secondo A Trip to Mars (Ashley Miller, 1910), prodotto dalla Edison Manufacturing Company3, sfruttò illegalmente il film originario di Méliès. Anche se, secondo alcuni, il suddetto cortometraggio è di fatto il primo film di fantascienza made in USA, è nel 1922 che abbiamo la prima vera e propria pellicola americana, The Man from M.A.R.S. (conosciuto in seguito come RadioMania), film muto stereoscopico diretto da Roy William Neill che utilizza il sistema di visione 3-D, basato sul principio della Alternate Image (Teleview) messo a punto da Laurens Hammond e William F. Cassidy. L’incontro con i marziani avviene solo in sogno, ma il film è interessante per un altro aspetto, ovvero l’invenzione dell’orologio digitale molto in anticipo sulla tecnologia che lo renderà possibile nella realtà. Due anni dopo, la Russia risponde con il primo 2 Enrico Novelli (Yambo), Un matrimonio interplanetario (1910), in: (26/02/2015). 3 Ashley Miller, A Trip to Mars (1910), in: (02/03/2015).
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film di fantascienza sovietico: il citato kolossal muto Aelita di Yakov Protazanov (1924), tratto da un racconto di Aleksej Tolstoj. Tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’30 accadono tre fatti importanti: l’avvento del sonoro nel 1927; l’introduzione della censura attraverso il Codice Hays o Production Code (linee-guida, redatte da Will H. Hays, che stabilivano quali film fossero o non fossero “moralmente accettabili”) nel 1930; e, nei primi anni del nuovo decennio, in piena crisi economica, la distinzione tra film definiti A e B a seconda delle sale a cui erano destinati. Questo consentiva ai cinematografi di noleggiare un film a prezzo pieno e uno a prezzo più basso; con un solo biglietto si potevano vedere due film e quindi il successo o l’insuccesso di un film lo si decretava nelle sale (Cozzi 2009). Just Imagine esce nel 1930: diretto da David Butler, è il primo Sci Fi musical, prodotto negli anni della Grande Depressione e ambientato 50 anni più avanti nel futuro. Il protagonista, da New York City, raggiunge Marte a bordo di un’astronave; troverà il pianeta abitato da una popolazione composta di esseri dalla doppia personalità, una buona e l’altra cattiva. Il film, con le sue “jolly songs about the good old days, was a box-office disaster. Its relentless jollity seemed out of place following the stock-market crash, and its story line about young lovers proving themselves, giggling Martians twins in silver deco outfits, and jokes about a twinkling fun city of the future already seemed dated in 1930” (Frayling 2005: 75). Anche l’invenzione del paesaggio non va molto oltre la descrizione di un’improbabile “Martian surface, where the corn grows high” (1976: 123). Nel 1938 (lo stesso anno dello “scherzo” di Welles che vedremo nel prossimo capitolo) troviamo Flash Gordon’s Trip to Mars (1938), un serial cinematografico della Universal in 15 episodi basato sulla striscia a fumetti in quadricromia Flash Gordon, ideata da Alex Raymond nel 1934. Il film vede Flash Gordon combattere contro la malvagia regina di Marte per difendere la Terra. Dal serial verrà tratto lo stesso anno un lungometraggio dal titolo Mars Attacks the World. Le implicazioni politiche sono evidenti: come ha scritto Crossley, “As the Hitler menace grew in 1938 and 1939, Mars in its most bellicose associations […] kept pace. A new set of fifteen episodes of the popular Flash Gordon movie serial in the late 1938 shifted the location from Ming’s fictional planet to the more topical Mars” (2011: 192). Nel 1945 abbiamo la serie The Purple Monster Strikes di Ronald Davidson, trasmessa quasi vent’anni dopo alla TV come D-Day on Mars (1966), dove il marziano di turno, un mostro giunto da solo sulla Terra, si presenta in modo amichevole, per poi uccidere l’astronomo Cyrus Layton che l’ha ospitato nel suo laboratorio e – “helped by capsules of Martian atmosphere, which render him transparent and enable him to take over earthmen” (Gifford 1971: 75) – impossessarsi del suo corpo al fine di dare il via all’invasione della Terra. Le sue armi
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funzionano con l’ossido di carbonio, un gas che è non solo in grado di uccidere istantaneamente, ma ben conosciuto e facilmente assimilabile a livello di immaginario con le armi chimiche sperimentate per tutta la prima Guerra Mondiale, la Guerra Fredda e le guerre successive. Ma è soprattutto negli anni ’50 che esplode la produzione cinematografica legata allo Spazio. Potremmo quasi dire che la fantascienza negli anni ’50 e ’60 prepara il terreno per lo sbarco sulla Luna, da un lato rappresentando l’arena su cui si consuma, seppur metaforicamente, il conflitto aperto e perenne col mondo comunista, dall’altro inglobando importanti problematiche sociali. Se infatti molti studiosi (per esempio Biskind 1983) hanno collegato film di questo periodo alla “caccia alle streghe” antisovietica condotta dal senatore McCarthy e alla paranoia incoraggiata dall’House Committee on Un-American Activities (Cornea 2007), dall’altro vi sono studiosi (fra cui Sobchack) che hanno seriamente riconsiderato il genere riconoscendogli il merito di aver indagato le dinamiche familiari, di aver effettuato una riflessione sulla storia del cinema, di aver problematizzato i rapporti fra scienza e religione e, non ultimo, di aver raggiunto una audience globale (Ibidem). Questo decennio rappresenta dunque un periodo particolarmente significativo nella storia del cinema di fantascienza, in quanto è soprattutto grazie ai film d’invasione di questi anni che “‘Martian’ has become a kind of shorthand for ‘extraterrestrial’” (Markley 2005: 227) e nasce una forte sinergia tra il paesaggio marziano e quello terrestre (e, in particolare, americano): Given its hold on the midcentury imagination, it is hardly surprising that Mars and invading Martians dominated movie serials and B movies from the 1930s to the 1960s. Audiences watched updated Martians devastate Los Angeles in George Pal’s 1952 version of The War of the Worlds, which won an Oscar for its special effects. Earthlings retaliated by sending legions of B movie actors and actresses to invade the red planet. They found a Mars that, inevitably, was as hostile as the deserts of Southern California. (Ibidem: 222)
Da questo momento in poi, inoltre, ogni descrizione di Marte sarà filtrata attraverso le lenti della guerra nucleare, del pericolo dell’infiltrazione comunista, della crisi ecologica e delle minacce che la rivoluzione sessuale e il progresso tecnologico verranno a rappresentare per l’identità maschile (Markley 2005). Infine, nella cinematografia dell’epoca della Guerra Fredda troviamo uno sviluppo considerevole della componente sonora, il che ha numerose implicazioni di tipo psicologico e culturale: al fine di esprimere l’ansia e la paura molte colonne sonore, infatti, “used the fluid vibrations and glissandi of the theremin synthesizer to signify otherworldliness and/or threat” (Hayward 2004A: 9). Il
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theremin4 può essere considerato “as an audio marker of the otherness of Outer Space and the hostile Martian environment and populace”; spesso è usato in combinazione con altri strumenti elettronici e a percussione “to evoke alienness” o “to auralise the otherworldliness of outer or cyber space through the combination of music and sound design”, col risultato che “the primacy of vision in the cinematic experience can (at least) be balanced” (Ibidem: 10, 25). A causa dei suoi “eerie otherwordly tones” (Hollings 2014: 71), il theremin viene usato in molti film del periodo, compresi film non di fantascienza come ad esempio Spellbound di Hitchcock. È interessante a questo proposito quanto scrive Hollings riguardo a un film di cui si è già parlato nel terzo capitolo, e su cui ritorneremo ancora, ricollegandolo al new order dell’era atomica: The inclusion of the Theremin on the soundtracks for such films indicates that a specific shift in perceptions has taken place. This is particularly true of The Day the Earth Stood Still, where Klaatu’s identity is deliberately left open to interpretation. At one specific point in the film we see Klaatu inside his spaceship operating its controls by moving his hands in empty space, just as if he were playing a Theremin. His ability to control the entire planet’s power supply by invisible means also links him in the popular imagination to visionary Serbian inventor Nikola Tesla, the originator of AC electricity. Able to interact and converse with it in a language that only he and Gort seem to understand, Klaatu speaks to the invisible new order of the atomic age. (Ibidem: 72)
Nel 1950 esce Flying Disc Man from Mars, diretto da Fred C. Brannon, dove “a character named Mota […] lands in a volcano that erupts after a dozen chapters, sending Mota and his saucer back to Mars in many scattered fragments” (Rovin 1975: 43). Nello stesso anno troviamo anche Rocketship X-M, diretto da Kurt Neumann, il primo film di fantascienza degli anni ’50 a mostrare una spedizione terrestre che arriva su Marte (per errore: era infatti diretta sulla Luna) e a coniugarla con il rischio atomico: il pianeta infatti è desolato e abitato da pochi marziani mutanti, gli unici sopravvissuti di una civiltà che si è autodistrutta con una guerra nucleare. I superstiti, che vivono in edifici a forma di cupola costruiti dai loro antenati, sono ridotti al livello di trogloditi, e sono diventati non vedenti come effetto della mutazione. Nonostante le loro deformità, i mutanti attaccheranno comunque i membri della spedizione riuscendo a ucciderne tre, e i superstiti avranno un incidente mortale durante il viaggio di ritorno sulla Terra. Questo film è spesso citato perché è una 4 Il theremin è il primo strumento elettronico che sia stato inventato. L’aspetto curioso è che fu creato non negli USA, bensì dall’inventore russo Leon Theremin nel 1919, due anni dopo la rivoluzione bolscevica. Per approfondimenti si veda: (23/03/2015).
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testimonianza molto significativa del clima di paura dell’atomica che caratterizza quegli anni; in particolare, “The closeup of a Martian woman with blank eyes is one of the most shocking scenes in any SF film” (Warren 1982: 15). Inoltre, Marte “fu simulato egregiamente girando le scene al Red Rock Canyon o nel deserto di Mojave a sud di Los Angeles, e tingendo di rosso le scene” (Casadio 2007: 30). Girato, dunque nel deserto della California, Rocketship X-M porta sul grande schermo inquietanti analogie che affondano le loro radici nella “Lowell’s vision of a planet far gone toward ecological disaster” (Markley 2005: 222); si tratta di un Marte post-Barsoomiano, a cui alla visione di Lowell si aggiunge anche un tipico tocco degli anni ’50 che ritroveremo nella produzione narrativa di Philip K. Dick: […] the film transforms ecological devastation into the result of a catastrophic nuclear blast. Nature has not been the foe – the Martians have bombed themselves almost out of existence. […] implicitly, the prospect of nuclear devastation is itself a displacement for anxieties about ecological degradation that are an integral part of Martian science fiction. Until the climactic confrontation with the Martians, there is no plant life visible; the sepia tones defamiliarize an environment within a few hours drive of Hollywood. At the same time, the audience can recognize, in an era before computer-generated special effects, that the “devastation” of Mars exists on Earth. The worst imaginings of postnuclear “blast-effect” are evident in the “nameless horror” of the desert. As the camera pans over rock formations and sand, the California desert figures an unthinkable landscape of the imagination. A complex ecosystem is reduced to a visual analogue for a dead world. The southwestern deserts that helped to structure Lowell’s visions of planetary evolution, even in 1950, represent the values and assumptions that have outlived the canals and assumed an existence of their own. (Ibidem: 225)
Quanto ai marziani, qui essi diventano “umani” a tutti gli effetti: “their desires and aggressiveness mirror our own. […] The Martians are primitive mutants, bombed back into a stone-age of aggressiveness and fear” (Markley 2005: 226). Il secondo film a mostrare una spedizione terrestre che arriva su Marte sarà, l’anno successivo, Flight to Mars (1951)5, diretto da Lesley Selander. La vicenda racconta di come, attirato da segnali provenienti da Marte, il Pentagono invii un missile sul pianeta. Il carburante però finisce a causa di un imprevisto e i marziani, mostrandosi amichevoli, invitano i terrestri nella loro città sotterranea e si offrono di riparare il razzo; in realtà vogliono invadere la Terra, perché Marte è destinato a morire entro dieci anni. La figlia di un ingegnere marziano, nel frattempo, s’innamora di uno dei membri della spedizione e alla fine i terrestri riusciranno a rientrare. Marte è un pianeta gelido sotto un cielo arancione e i marziani sono deludenti per chi ama gli effetti speciali, in quanto essi “look and act like ordinary beings” 5 Lesley Selander, Flight to Mars (1951), in: (02/03/2015).
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(Warren 1982: 33). In realtà è significativo che il film, proiettato in pieno conflitto coreano, riproduca la stessa atmosfera del nostro pianeta, una società identica alla nostra, dove si parla sempre inglese (Casadio 2007). Sono state notate anche alcune ingenuità, come il fatto che la gravità esiste anche nello spazio e i marziani usano le stesse tute di Destination Moon (Ibidem). Nel già citato film The Day the Earth Stood Still di Robert Wise, che esce lo stesso anno (1951), giunge a Washington un alieno di nome Klaatu che dopo aver viaggiato per 250 milioni di miglia ha l’unico obiettivo di impedire agli umani di distruggere la Terra. Arriva però in un momento politicamente molto delicato per gli Stati Uniti, tanto che la storia fantasiosa e la realtà della Guerra Fredda si intrecciano molto strettamente nella vicenda: prima gli sparano addosso, poi le sue buone intenzioni sono dichiarate impossibili da attuare, rendendo di fatto l’alieno (il presunto invasore) una vittima: […] who’d want to be Klaatu? While recovering from his shooting in a military hospital, he asks the Secretary to the President to convene a meeting of all the world’s leaders. No can do, the Secretary replies, the current Cold War climate makes your request impossible. […] No wonder Klaatu decides not to bother with the educated ruling élite and goes out among the ordinary people instead. (Hollings 2014: 66)
Non sono, tuttavia, le persone comuni a rivestire il ruolo principale, quanto i media: i giornali che riportano la notizia della sua fuga, la radio che avverte la popolazione che non si tratta di un falso allarme, e i televisori intorno ai quali si riuniscono le tipiche famigliole costituiscono il fulcro della vicenda (Holling 2014). Come scrive Roy Menarini, Si apre così una polarità tra quotidianità e differenza che spesso prende la forma di una opposizione tra familiare e alieno, dove per familiare si intende il termine nella sua più ampia estensione: ovvero nell’accezione di “conosciuto” ma anche in quella effettiva di “appartenente alla famiglia, al nucleo domestico” […] Non è un caso che Klaatu trovi l’unico ambiente non ostile della nazione americana in un nucleo familiare imperfetto, quello costituito dalla vedova di un soldato morto per la patria nelle Filippine, e dal suo giovane figlio. (2003: 36)
Ancora, è significativo il fatto che non sappiamo nulla della provenienza reale di Klaatu, eppure i titoli dei giornali, nel film, scrivono: “Man from Mars Escapes”. Sono dunque i media a creare i marziani? È emblematico che la stessa critica accetti la provenienza marziana di Klaatu: “Ultimatum alla Terra (Robert Wise, 1951) presenta senza possibilità di equivoci un marziano per così dire democratico e benpensante, dotato di indubbia sensibilità civica e sociale, ed esorta gli
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spettatori a raccogliere il suo invito a pensare alla difesa ecologica del pianeta più che a quella militare” (Fink 1998: 208-209). L’aspetto interessante di questo commento è che utilizzando il termine “marziano” si conferisce di fatto autorità al medium (in questo caso la stampa) e al viaggiatore spaziale una sorta di “cittadinanza onoraria”, gli si riconosce cioè una familiarità che in questo caso è funzionale al discorso pacifista-ecologista. Scopo dichiarato di tale inclusione è infatti, come ricorda ancora Fink, “ribadire che non c’è alcun bisogno di alieni per distruggerci visto che rischiamo quotidianamente di distruggerci da soli, fra noi terrestri, con l’ideologia del sospetto nei confronti dei ‘diversi’” (1998: 209). Non tutti i film del tempo hanno risvolti così significativi e didattici. Tuttavia, la paura che l’uomo possa distruggere da solo la sua razza e il suo habitat è una costante, soprattutto nell’era atomica. Il protagonista di Zombies of the Stratosphere (Fred C. Brannon 1952), l’eroe volante Larry Martin, deve impedire agli invasori marziani di usare una bomba a idrogeno per far uscire la Terra dalla sua orbita, allontanandola dal Sole in modo che Marte possa prendere la sua posizione. Nel medesimo anno esce un altro film dello stesso regista (Radar Men from the Moon, 1952), e anche qui i “cattivi” rubano e accumulano materiale per costruire la famigerata bomba H. Nel 1953 troviamo invece Abbott and Costello Go to Mars!, una slapstick comedy dove il comandante del primo razzo lanciato su Marte afferma: “God put man on earth, but nothing is mentioned in the Bible about him going to other planets!”6. Su Red Planet Mars7 (Harry Horner 1952), basato su una commedia del 1932 scritta da by John L. Balderston e John Hoare, ritengo opportuno soffermarmi un po’ di più, poiché il film riveste un certo interesse storico-culturale. Innanzitutto è, insieme a Invasion U.S.A. (Alfred E. Green 1952) e Invaders from Mars (William Cameron Menzies 1953), un film che “è corretto etichettare come anti-comunista” (Casadio 2007: 197). Fa parte infatti di una serie di prodotti culturali che “overtly promoted a paranoid fear (and hatred) of communism as a dehumanizing force, often with aliens standing in for communism” (Booker 2006: 5-6). Inoltre la pellicola, mettendo in scena un complotto sovietico teso a distruggere la civiltà occidentale con l’aiuto di Marte (Warren 1982), “expressed hope for a deus ex machina that would convert the Russians and rescue the world from nuclear holocaust” (Lipschutz 2001: 8-9)8. Come è stato osservato, in que6 Charles Lamont, Abbott and Costello Go to Mars! (1953), in: (02/03/2015). 7 Harry Horner, Red Planet Mars (1952), in: (02/03/2015). 8 È interessante anche il fatto che Lipschutz usi la parola “holocaust”, generalmente usata per indicare la Shoah, a indicare invece la possibile distruzione atomica. Userà lo stesso termine an-
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sto film, che mescola fantascienza, spionaggio e intrighi internazionali, “Mars is not only Heaven […] but is on the side of Eisenhower Administration” (Strick 1976: 12) e si è notato che “It is so far the only hysterically anticommunist religious science fiction picture” (Warren 1982: 87). Questa la vicenda: una coppia di giovani scienziati tentano di mettersi in contatto radio con Marte trasformando “sound into light” e usando uno strumento chiamato “hydrogen valve”, che è in grado di amplificare le onde sonore rendendo così possibile la trasmissione di messaggi “over the thirty-five million miles separating the two planets”9. Nonostante la scarsa conoscenza della fisica (il suono non si propaga nel vuoto interplanetario, e le onde radio sono di natura elettromagnetica) il riferimento all’idrogeno “obviously meant to echo the ‘hydrogen bomb’” (Warren 1982: 97) che si stava testando in quegli anni, in modo da suscitare una paura molto simile a quella dell’atomica. L’analogia è evidente in alcuni momenti-chiave del film: per esempio, in una delle prime sequenze la donna esprime paura e cerca di frenare gli esperimenti del compagno dicendogli: “scientists have made the volcano we are sitting on” e subito dopo, a proposito della fissione nucleare, gli pone una domanda che tuttora dovrebbe farci riflettere: “is terror energy?”10. Dopo vari tentativi, i due riescono a ricevere messaggi da Marte, dai quali apprendono che “Martians live 300 years, their agriculture is super-efficient, they derive all their energy needs from cosmic ‘radiation’” (Warren 1982) e queste notizie provocano il collasso dell’economia della società americana. Il segretario alla Difesa accusa lo scienziato con queste parole: “you’ve done more damage to the Free World in a few days than the Communists have done in years”11. Frattanto, i messaggi da Marte provocano un risveglio religioso in URSS, dove il Soviet viene rovesciato, cosicché la Russia ritira tutte le sue truppe. A un certo punto però si scopre che i messaggi non venivano da Marte, ma erano frutto delle macchinazioni di un ex nazista al fine di distruggere le due superpotenze, USA e URSS. Ma c’è un ennesimo colpo di scena: gli ultimi messaggi proverranno veramente da Marte, poiché il contatto avviene effettivamente “with God, who, it is discovered, lives on Mars” (Rovin 1975: 107); di conseche per parlare del romanzo Fail-Safe (1962), “written by Eugene Burdick and Harvey Wheeler and published in the same year as the Cuban Missile Crisis”, dove “a holocaust is avoided by the simultaneous nuclear destruction of both New York and Moscow” (Ibidem: 9). Naturalmente il termine viene usato in questa accezione anche da molti altri studiosi, ma mi pare comunque opportuno tenere presente che la sua applicazione nel contesto atomico rivela la forte consapevolezza del rischio nucleare (l’ordine è di milioni di possibili vittime). 9 Harry Horner, op. cit. 10 Ibidem. 11 Ibidem.
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guenza, “the world undergoes a spiritual transformation that ends the threat of nuclear annihilation” (Strick 1976: 99). La soluzione che il film offre è, dunque, “a reactionary Christian revolution. […] In accord with a Christian worldview and the apocalyptic imagination, the Martian transmissions reveal a heavenly kingdom for the faithful, and destruction for the wicked” (Shapiro 2002: 79, 80). Più recentemente è stato osservato che il film contiene “questions concerning paternal authority”, mettendo in scena il “new man of science as societal patriarch” (Cornea 2007: 41, 42), ed è una testimonianza importante del rapporto tra cittadini /elettori e media negli anni ’50 (Hollings 2014) e della nuova percezione della figura dello scienziato (Brodesco 2008). Al 1953 risalgono due film di invasione: The War of the Worlds di Byron Haskin, tratto dall’omonimo romanzo di H. G. Wells (per il quale si rimanda al prossimo capitolo) e il citato Invaders from Mars12, che mette in scena “the first aliens in colour, long men in green controlled by ‘the ultimate brain of all’, a tentacled head in a globe” (Gifford 1971: 81). Il film sviluppa ulteriormente l’idea dell’invisibilità ricorrendo a una master mind marziana che prende il controllo dei terrestri: “enclosed in its magically suspended transparent globe, it is an exotic head and upper torso around which its graceful tentacles curl like vines. Seen in close-ups, the eyes in its wizened glowing face move in what seems a mechanical unison from side to side, while its expression remains frozen” (Sobchack 1980: 91). The War of the Worlds si apre con un prologo in bianco e nero e una voce fuori campo (un espediente molto in voga dagli anni ’40) che descrive il progresso tecnologico degli armamenti fra la prima e la seconda Guerra Mondiale. Si passa poi a un acceso Technicolor che fa risaltare la serie di dipinti di Chesley Bonestell che ritraggono tutti i pianeti tranne Venere. Ci si sofferma successivamente su Marte, in quanto i suoi abitanti, afferma il narratore, sono sicuramente interessati a invadere il nostro fertile e rigoglioso pianeta. Poi inizia la vicenda vera e propria, ambientata nella cittadina fittizia di Linda Rosa (in realtà Corona) in California, in un non meglio identificato “Pacific Tech” (Pacific Institute of Technology”). Le scene nella chiesa in cui, verso la fine del film, la gente si riunisce a pregare, sono girate presso la St. Brendan’s Catholic Church di Los Angeles. È stato osservato da più parti che il film presenta numerose differenze rispetto al testo di Wells; una delle più evidenti sta nella scelta di insistere sulla forza morale del pastore Collins (laddove il romanzo lo dipingeva come un codardo) e nell’enfatizzare il potere della religione e dell’intervento divino. I marziani atterrano più o meno allo stesso modo, anche se con astronavi cilindriche e non simili a meteoriti; lo spettatore non li vede cibarsi del sangue dei terrestri (cosa che invece è descritta 12 W. C. Menzies, Invaders from Mars (1953), in: (15/09/2015).
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nel romanzo) ed essi vengono sconfitti dai microrganismi terrestri dopo tre giorni dal loro arrivo anziché tre settimane. Inoltre i marziani sono molto diversi d’aspetto: nel romanzo sono grosse creature con tentacoli e occhi luminosi, mentre nel film, forse anche per problemi di budget, sono creature più piccole, con due braccia sottili e un unico occhio (non li si vede dal tronco in giù). Le macchine da guerra sono invece più simili: in entrambi i casi hanno una sorta di lungo collo, dal quale osservano ciò che li circonda, e hanno tre gambe, ragione per cui sono chiamate tripods, cioè tripodi, nel romanzo (ma non nel film). Anche le armi sono analoghe, mentre il micidiale black smoke del romanzo è sostituito dallo skeleton beam del film, un raggio in grado di distruggere i legami sub-atomici della materia. Infine, la trama è in parte diversa: mentre il romanzo narra la vicenda di uno scrittore del XIX secolo (a cui poi si aggiunge suo fratello, studente di medicina), il protagonista del film è uno scienziato californiano che nel corso della storia si innamora di un’ex compagna di college. È chiaro dall’impostazione del film, dalla recitazione, dalla location e dal finale che si tratta di un prodotto inequivocabilmente figlio della sua epoca. Come vedremo nel capitolo ottavo, gli anni ’50 sono caratterizzati dalla Guerra Fredda e dalla paura della guerra atomica e giustamente è stato sottolineato il profondo legame tra il film e la minaccia di una distruzione di massa (Booker 2010). Anche Invaders from Mars, un altro film che è stato considerato espressione della paranoia anti-aliena / anti-comunista, “is a direct descendant of Well’s prototypical story idea: The invaders from Mars come to earth bent on enslaving humanity. There is nothing benevolent or innocent about these aliens; their very appearance […] evokes fear and revulsion” (Lucanio 1987: 111). La testa marziana, in grado di controllare telepaticamente “a troop of drone-like mutant slaves, who do all of its physical work” (Booker 2006: 6-7), richiama fin troppo esplicitamente le ansie relative alla società sovietica. Il bene e il male sono estremizzati: significativamente, la storia è raccontata dal punto di vista di un bambino e “The ‘Martian intelligence […] takes on the connotation of the absolute ruler of darkness, the devil” (Ibidem: 121). Nulla a che vedere con il film comico britannico Devil Girl from Mars (David MacDonald 1954): qui il diavolo vuole instaurare un vero e proprio reign of terror (Warren 1982). In World without End di Edward Bernds (1956), come vedremo, ci sarà un piccolo cambiamento, in quanto troviamo un gruppo di astronauti diretti su Marte i quali però, grazie a un time warp, arrivano sulla Terra nel 2508 d.C.. Iniziano a moltiplicarsi le versioni del marziano, che da un lato può essere considerato di matrice terrestre in quanto radicato nell’immaginario tradizionale popolare – “Science fiction cinema […] assimilated all the themes of traditional fantasy. Martians, Venusians or mutants evolved from vampires” e si muove
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su scenari che ricalcano “Western iconographies” e una “Western topography” (Warren 1982: 28, 64 ss.), – mentre dall’altro può essere del tutto sganciato da ciò che fa pensare all’umano: “While in horror film “it seems absolutely dramatically necessary for the Monster to have an anthropomorphic form, in Sci Fi this is not essential” (Ibidem: 30). La figura dell’alieno riveste un’importanza cruciale nel cinema, poiché, a differenza della pagina scritta, è necessario creare, e non semplicemente alludere a, una sua raffigurazione. Troviamo quindi declinate nell’alieno cinematografico un’ampia gamma di possibilità, dall’estremo realismo alla scelta dell’impalpabilità, e la scelta è collegabile sia allo specifico rapporto (ecologico, etico, esistenziale) con l’ambiente, sia alla scelta di minore o maggiore senso di familiarità che si vuole imprimere: The SF film, although it strives in part to transcend the limits of human knowledge and imagination, is not aimed finally toward achieving total abstraction. There is, indeed, an urge toward abstraction contained in these alien images – and it is very much connected to a basic thematic concern common to all SF films: man and his relationship to the physical environment which surrounds him. […] There are three primary ways in which the wonder of alien visual surfaces in SF films can be subverted, bringing us back to a sense of comfortable familiarity with what we see. The first way is through repetition of the alien image so that it becomes familiar […] The second method is the humanization of the alien image so that we understand it rather than wonder at it. The third way is a deemphasis of the alien image by the camera in order to remove the viewer’s attention from it […] (Ibidem: 103, 104)
Accade però, al contempo, che il senso di familiarità che si prova verso un alieno che percepiamo come simile a noi possa capovolgersi nel momento in cui lo vediamo compiere azione malvagie: “While we may react with varying degrees of detached wonder to invading Martians or Metalunan Mutants who are distinctly seen as ‘other’ than ourselves, our responses to those aliens clothed in our own familiar skins are another matter entirely” (Warren 1982: 120-121). È proprio sul difficile e insidioso discrimine tra familiarità e alterità che si gioca il fascino misto a orrore che percepiamo per la creatura aliena: una creatura “altra”, che spesso (anche se nella SF non necessariamente, come abbiamo visto) rendiamo antropomorfa come nel corso della storia l’uomo ha fatto con gli dei e le creature sovrannaturali: It is precisely the Otherness of the alien that has lent him his peculiar fascination over the centuries. […] Yet there is a reason in our persistent anthropomorphizing of the Other: we require our gods resemble us, else how will they understand our hopes and fears? We must believe that the gods, or the godlike aliens we search for
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in the night sky, in some sense created us in their image, and to that end, in an act of sympathetic magic, we create them in ours. (Tomkins 1978: 9)
Al contrario dei film di invasione, The Angry Red Planet di Ib Melchior (1959) racconta la prima missione spaziale umana che giunge su un “bizarre and occasionally overworked Mars” (Sobchack 1980: 95). Un membro dell’equipaggio, Sam, poco prima di atterrare sul pianeta esclama: “Shall we go out and claim the planet in the name of Brooklyn?”, riecheggiando in modo colloquiale il saluto più pomposo, ma analogo, del capitano di Destination Moon, un film di Irving Pichel uscito nel 1950 in cui un equipaggio diretto sulla Luna viene deviato da un meteorite e finisce su Marte, dove il capitano dichiara: “By the grace of God and in the name of the United States of America, I take possession of this planet!” (cit. in Ibidem: 61). Sobchack vede giustamente una sorta di risonanza parodica fra i due saluti, ma quel che conta è che con stili diversi entrambi i film sanciscono seppure in maniera fittizia il possesso di un altro mondo (pianeta o satellite) da parte degli USA, sia che si parli di un quartiere popolare di New York, sia che si parli della nazione, con tanto di benedizione divina. È stata sottolineata l’importanza degli effetti visivi: a proposito del film si è parlato di “visually exciting adventures” e del fatto che “the voyage to Mars is visually encapsulated” (Ibidem: 74-75). Anche Conquest of Space di Byron Haskin (1955), tratto da un romanzo di Willy Ley e da uno di Werner von Braun, narra la prima, drammatica spedizione sul Pianeta Rosso da parte di un equipaggio di astronauti americani. Nonostante le pretese di verosimiglianza, il film è stato definito “awful” (Rovin 1975: 79) e, tra le altre cose, Marte è erroneamente descritto come un pianeta giovane, vergine e verdeggiante (Gifford 1971, Strick 1976). I protagonisti devono affrontare varie avventure mentre sono bloccati su Marte, ma arriva il Natale, che salva tutti con la neve che cade in abbondanza (Casadio 2007); poi però un terremoto – anzi, un “Marsquake” (Warren 1982: 212) – mette seriamente a repentaglio la loro vita. Infine il capitano riesce a ripartire. Mentre l’umoristico Invasion of the Saucer Men di Edward L. Cahn (1957) presenta marziani cattivissimi che assomigliano a quelli che incontreremo nell’ultimo capitolo in Mars Attacks!, nel 1956 esce il citato World without End di Edward Bernds in cui, di ritorno da una spedizione su Marte nel 1957, un equipaggio cade vittima della dilatazione temporale e viaggia nel tempo scoprendo che la Terra verrà distrutta da una guerra atomica nel 2188. It! The Terror from beyond Space di Edward L. Cahn (1958) è ambientato invece nel 1973 e narra di una missione di soccorso inviata su Marte per riportare sulla Terra l’unico superstite. Accadono morti misteriose finché i membri dell’equipaggio si accorgono che un mostruoso rettile marziano assetato di sangue, “both brutal and bloody”, è salito con loro a bordo dell’astronave (Rovin 1975: 81).
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Un tema portante di molti film di questo periodo è offerto dalla presenza della famiglia come microcosmo sociale e fulcro di resistenza (culturale, religiosa, politica): “Non bisogna dimenticare quanto il cinema hollywoodiano, negli anni Cinquanta, si impegni in un elogio della dimensione del ‘famigliare così insistito da apparire sospetto” (Fadda 2003: 13). Se già in Invaders from Mars – un film contraddistinto da una forte tendenza a “pictorialize the unfamiliar”, pieno di “visual tension”, che si svolge su un “alien landscape” e che mette in scena la “viewer’s alienation from the familiar” (Sobchack 1980: 87-89, 108) – le prime vittime dei marziani sono i genitori di un bambino, poi una bambina e un poliziotto, The Day Mars Invaded Earth (Maury Dexter 1963, B/N)13, dove la Terra cade sotto il dominio dei marziani, creature fatte di pura energia, “presents us with the final and cinematically singular perversion of familial togetherness: a scientist and his family are ‘taken over’ in an atypical finale, the end of the film revealing them ‘incinerated by the Martians’ rays and their ash silhouettes flushed down their empty swimming pool”14. Questo non fa che confermare il fatto che dietro al plot fantascientifico esiste sempre, ed è ben visibile, la struttura sociale di riferimento in tutti i suoi aspetti, a partire dalla famiglia: “the SF film is always embedded in its (and our) technological, political, social, and linguistic present” (Sobchack 1980: 223). Il film, significativamente, è caratterizzato però da un finale diverso dai precedenti – “a twist – this time the Martians win!” (Gifford 1971: 94). 6.2. “A galaxy of gore”
Negli anni ’60 la paura dell’invasione sembra esaurirsi gradualmente, e le preoccupazioni morali lasciano il posto alla sopravvivenza del più adatto (Strick 1976). Al 1959 risale The Angry Red Planet (noto anche come Invasion of Mars oppure Journey to Planet Four), diretto da Ib Melchior, al quale furono dati solo dieci giorni e un budget di 200.000 dollari per girare il film. Per tutte le scene su Marte fu usata una tecnica chiamata CineMagic, mista di riprese e animazioni, che si rivelò un vero insuccesso: “This movie features some of the worst acting and special effects in history. One must see the ridiculous batrat-spider-crab to believe it” (Rovin 1975: 80). Questa la vicenda: di ritorno da una missione su Marte, dopo vari incontri con piante carnivore e amebe gigantesche con un occhio solo, e una strana flora aliena che inizia a crescere sulle braccia dei terrestri, i superstiti tornano sulla Terra accompagnati da un 13 Maury Dexter, The Day Mars Invaded Earth (1963), in: (02/03/2015). 14 Susan Sontag, “The imagination of disaster”, in Commentary, 40, 1965, p. 47, in: (11/05/2015).
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nastro registrato in cui una voce marziana intima ai terrestri di non farsi mai più vedere sul pianeta. Se The Day Mars Invaded Earth può essere definito “a rare example of Martian victory” (Strick 1976: 12), nella commedia d’invasione The Three Stooges in Orbit di Edward Bernds (1962) troviamo una spia marziana travestita da maggiordomo, mentre in Battle Beyond the Sun, edizione americana del film sovietico Nebo Zovyot (Aleksandr Kozyr, Mikhail Karukov 1959) prodotta da Roger Corman e Francis Ford Coppola (1962), un equipaggio russo salva una spedizione americana naufragata su Marte. Il film narra la corsa spaziale fra le due potenze, ciascuna delle quali impegnata a portare per prima i propri uomini su Marte. Due anni dopo, Robinson Crusoe on Mars di Byron Haskin (1964) ci mostra una Terra che, “combined with a few special effects, was framed in such a way that it appeared alien”, cosicché “Death Valley is transformed into the alien landscape of a hostile Mars” (Sobchack 1980: 108). Il trailer della recente versione in DVD del film promette “unexpected terrors of outer space” e la visione di un mondo che “no one has ever seen”15 – anche se in realtà, come si è detto, il film fu girato “in the bleak hostility of California’s Death Valley” (Strick 1976: 124). Considerato “one of the best science-fiction movies ever made on the problems of being cast adrift on a desert planet” (Ibidem), il film presenta fra le altre peculiarità una scimmietta in tuta spaziale e un alieno che viene chiamato, prevedibilmente, Friday: How the Earthman finds food, water, and oxygen on the barren Martian surface is engrossing, the logic behind the film is reasonable, and the arrival of his man Friday – an escaped alien slave […] – makes the story complete. The picture was filmed in Death Valley, over whose angry terrain were superimposed an impressive red-orange sky and flaming fireballs that swoop over the Martian surface in answer to flame geysers that dot the landscape. And the finale – the heroes’ arrival at the Martian polar ice cap – is a sight to behold. (Rovin 1975: 131)
Nel 1964 esce anche Santa Claus Conquers the Martians di Nicholas Webster, universalmente riconosciuto come uno dei cento peggiori film della storia del cinema e definito addirittura “complete garbage” (Rovin 1975: 167), e l’anno successivo Frankenstein Meets the Space Monster (Robert Gaffney 1965), considerato “utterly inane” (Ibidem). In Queen of Blood di Curtis Harrington (1966) un gruppo di astronauti torna da Marte con una vampira di nome Velona: definita “a deathless witch who devours men”, quest’ultima è responsabile di “turning the milky way into a galaxy of gore”16. Nel 1967 troviamo Mars Needs Women 15 (10/03/2015). 16 In questo caso ritengo sia sufficiente (ma ne vale la pena) vedere il trailer: (02/03/2015).
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di Larry Buchanan, una produzione a basso costo per la TV dai risvolti comici. Nel 1968 esce il capolavoro 2001 A Space Odyssey di Stanley Kubrick: pur non riguardando nello specifico Marte, può essere interessante ricordare che mentre preparava il film il regista “si spaventò perché il Mariner 4 si era avvicinato a Marte e quindi la tecnologia stava minacciando la sua opera” (Moscati 2001: 119). Quando, nel 1978, uscirà Capricorn One di Peter Hyams, che narra di una falsa missione su Marte a scopi politici (una farsa che un tenace giornalista scoprirà dopo varie peripezie), il pensiero andrà giocoforza anche a Kubrick, accusato da alcuni sostenitori delle teorie del complotto di aver filmato in studio l’atterraggio dei primi uomini sulla Luna. Il film è infatti liberamente ispirato al citato libro di Bill Kaysing. Certamente l’arrivo dell’uomo sulla Luna cambia le cose; se, da un lato, fa apparire come possibile un’impresa che fino a poco tempo prima sembrava relegata al territorio dell’immaginazione, dall’altro sposta il fulcro dell’interesse sull’obiettivo successivo, secondo la consueta dinamica della Frontiera intesa come movimento inarrestabile: “After the man went to the Moon, the next area for colonization, of course, was the planet Mars, containing better prospects for being inhabited thanks to those canals and subtle colour changes” (Strick 1976: 123). Capricorn One ha come protagonisti i tre membri dell’equipaggio che dovrebbe partire per Marte e un quarto personaggio, un giornalista, che non è convinto dell’esito della missione e inizia a fare indagini. Nel momento in cui, inseguito dai servizi segreti, riesce a trovare l’unico superstite della missione, inizia la seconda parte del film, ovvero il difficoltoso viaggio di ritorno dei tre astronauti intenzionati non solo a sopravvivere e ritornare dai loro cari, ma a rivelare all’opinione pubblica come sono realmente andate le cose. È la prima parte del film, quella che segue l’equipaggio prima recluso sul set nascosto in una base nel deserto, poi in fuga nello stesso deserto, quella che contiene le sequenze di maggiore interesse. Se all’inizio i tre uomini accettano di interpretare il loro ruolo perché temono ritorsioni contro le loro famiglie, quando appare chiaro che essi devono risultare morti decidono di fuggire, separandosi, nel deserto che circonda la base segreta. I loro passi su Marte – in realtà, il set artificiale – ripresi e trasmessi dalle TV di tutto il mondo anticipano quelli della fuga – vera, quest’ultima – in un territorio arido e ostile che pur essendo americano ricorda Marte molto più dello stesso set predisposto dalla regia. La mancanza di acqua, l’assenza di punti di riferimento, la presenza di scorpioni e serpenti non ha nulla, in realtà, di “marziano”: ricorda molto più verosimilmente i tipici scenari dei film western, i paesaggi ostili di quella Frontiera e di quella wilderness che abbiamo evocato più volte. I membri dell’equipaggio sono in pericolo non su Marte, ma qui, sulla Terra; e non in un altrove non specificato, o in un paese straniero, ma in quella stessa America che li acclama come eroi. Il vero e il falso, l’eroismo e la fuga, la realtà e la rappresentazione formano un
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caleidoscopio ambiguo e instabile da cui non sembra esserci via di scampo: solo due dei quattro protagonisti dimostreranno a se stessi e alla Nazione che vale ancora la pena lottare per la vita e per la verità dell’informazione in un’epoca in cui entrambe sono fortemente a rischio. Total Recall di Paul Verhoeven (1990), basato sul racconto di Philip K. Dick “We Can Remember It for You Wholesale” (1966), presenta invece una società, la Rekall, che organizza viaggi virtuali. A essa si rivolge l’operaio edile Doug Quaid (ex agente segreto a cui è stata cancellata la memoria) per fare un viaggio su Marte, ma si troverà coinvolto in un’azione per rovesciare il governo dittatoriale instauratosi sul pianeta. Alla fine del film, dopo varie peripezie, Quaid attiva un marchingegno costruito dagli alieni molto tempo prima, che in pochi minuti terraforma Marte. Non si capisce il motivo per cui i marziani (ora estinti o fuggiti su altri pianeti) l’abbiano costruito senza mai azionarlo, tuttavia “this miraculous alien technology suggests that these vanished aliens have anticipated and indeed determined human desires” (Markley 2005: 289). Se, da un lato, Total Recall s’inserisce nella cultura del post-umano, dall’altro rappresenta la volontà di chiudere l’epoca dell’ansia ecologica: “The surreal ending […] transform Mars into an Edenic amalgam of two planets, a brave old-new world of blue skies, panoramic vistas, and unspoiled terrain” (Ibidem: 301). C’è, tuttavia, un displacement stridente fra l’uomo e l’ambiente, in quanto non si capisce mai bene fino in fondo quale sia la realtà fenomenologica e quale quella virtuale (ammesso che si possa ancora parlare di fenomenologia) visto che il futuro del pianeta (uomini compresi) è garantito non dagli umani, ma dalla razza aliena scomparsa. Forse anche per il fatto che l’eroe è impersonato da Arnold Schwarzenegger, “The blue-skied Mars” risulta quasi la “totemic promise that the future governor of California embodies as a paean to Reaganesque America: the heroic individual has freed both atmospheric oxygen and the captive labor represented by the genetically monstrous workers, promising a brave new world ripe for capitalistic investment. In the beginning, to paraphrase John Locke, all the (Martian) world was America – a world endlessly open to exploitation” (Markley 2005: 302). Dello stesso anno è Martians Go Home di David Odell (1990), tratto dal citato romanzo omonimo di Fredric Brown, uscito su rivista nel 1954 e in volume l’anno successivo, un film comico in cui un cantante invita involontariamente un miliardo di marziani sulla Terra. Questi non sono cattivi ma rappresentano una grande seccatura per i terrestri, costretti a subire il loro humor e a sopportare i loro scherzi di cattivo gusto. My Favorite Martian di Donald Petrie (1999) è ispirato alla sitcom televisiva omonima degli anni ’60, di cui ricalca la trama.
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6.3. “Promise me that when I die, you’ll scatter my ashes on Mars”
Gli anni 2000 si aprono con un rinnovato interesse per Marte, incoraggiato dalle missioni che sono riprese negli anni ’90: In particolare, “The years 2000 and 2001 […] were marked by a series of Mars-exploration films, which clearly looked back to such precedessors as Rocketship X-M (1950), Conquest of Space (1955), and Robinson Crusoe on Mars (1964), while renewing a fascination with the planet Mars that had marked science fiction since the time of Wells” (Booker 2006: 23). In particolare, di quest’ultimo film è particolarmente interessante la location, che gli garantì la definizione di “scientifically authentic” (così negli annunci) anche se oggi sappiamo bene che non è così: “The choice of California’s Death Valley for shooting the Martian scenes is inspired and the film skilfully deploys Defoe’s Crusoe story of survival by wits as a way of engendering a romance about the wilderness of Mars, but scientifically speaking it is far from authentic” (Crossley 2011: 9). Alcuni di questi film sono molto ambiziosi. Mission to Mars di Brian De Palma (2000) riprende l’idea della prima spedizione umana su Marte, seguita a breve da una seconda spedizione di soccorso in quanto la prima è stata colpita da uno strano fenomeno che uccide quasi tutti i membri dell’equipaggio. Questa seconda missione porta alla scoperta di cosa sta dietro alla “Face on Mars”, ovvero i resti di un’antica, avanzata civiltà marziana che un tempo abitava il pianeta e che, costretta a lasciare Marte, mandò un’astronave sulla Terra per disseminarla col DNA marziano e dare così l’avvio alla vita sul nostro pianeta: di conseguenza, “Humans are thus in a very real sense the cousins of the ancient inhabitants of Mars” (Crossley 2011: 9). In Red Planet di Antony Hoffman (2000) la sovrappopolazione e il degrado ambientale sulla Terra hanno costretto gli umani a rivolgersi a Marte. Quando il processo di terraforming rallenta in modo inspiegabile, viene inviata una missione a controllare, ma viene quasi distrutta appena entrata nell’orbita marziana. Giunti comunque sul pianeta, i membri superstiti trovano che i livelli di ossigeno sono aumentati considerevolmente (grazie alla stessa eruzione solare che ha danneggiato la loro astronave appena entrata nell’orbita marziana) al punto che l’atmosfera è diventata respirabile. Essi riescono avventurosamente a tornare sulla Terra e a riferire che “the surface of Mars is now swarming with ‘nematodes’ […] and that these creatures […] are now themselves producing oxygen in large quantities. The implication is that the human project to colonize Mars has been saved” (Crossley 2011: 23-24). Il progetto va comunque a buon fine non grazie alla tecnologia umana, e nemmeno a un tardivo senso di responsabilità, ma solo al caso (alla “natura”, se vogliamo, o alla Provvidenza). È stato anche osservato che questo film, narrando l’avventura di alcuni superstiti di un viaggio su Marte, “descrive una specie di
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conversione a ‘U’ verso un ritorno a immagini in cui si racchiudono o si racchiuderebbero i segreti dell’esistenza” (Moscati 2001: 117). Il volto di pietra coricato nella polvere secolare rivela che l’invisibile può farsi visibile (e viceversa) e trasforma i terrestri in “pellegrini del sacro” (Ibidem). Ghost of Mars di John Carpenter (2001) è un film d’azione, una sorta di western ambientato nel futuro: da tempo abitato da coloni terrestri, “the Red Planet has become the manifest destiny of an over-populated Earth”17. Nel corso della vicenda, da una miniera fuoriescono gli spiriti dell’antica razza marziana, che si impossessano dei corpi di alcuni di loro trasformandosi in feroci assassini che uccidono qualunque terrestre gli capiti a tiro. In questo caso la colonna sonora gioca un ruolo importante in quanto i musicisti “provided a series of hard, abrasive riffing tracks that gave further edge and intensity to the film’s narrative of a small group of police under unrelenting attack from murderous humans possessed by Martian spirits” (Hayward 2004A: 24). War of the Worlds di Steven Spielberg (2005), tratto dall’omonimo romanzo di Wells, è un remake del film del 1953. Come vedremo nel capitolo settimo, il testomadre di Wells ha creato una serie di riscritture, adattamenti e rimediazioni che si sono succeduti nel tempo. Il film di Spielberg presenta sia analogie sia differenze rispetto sia al romanzo sia al film del 1953. Innanzitutto notiamo la presenza di una star (Tom Cruise) che catalizza gran parte delle aspettative e dell’attenzione del pubblico, un pubblico ben diverso sia dalla readership vittoriana sia dagli spettatori degli anni ’50, che decreterà il suo enorme successo: 234 milioni di dollari nei soli USA. In secondo luogo, anche la trama si aggiusta alla mutata fisionomia socioculturale, presentando un padre divorziato a cui l’ex moglie ha affidato i bambini per qualche giorno, proprio subito prima dell’inizio dell’invasione aliena. Terzo, il setting si sposta dalla West Coast al New England, riportando l’azione dalla California al Connecticut, al New Jersey, a New York e alla Virginia. Tra le somiglianze, anche qui abbiamo un narratore che spiega che gli extraterrestri stanno progettando di invadere la Terra, e anche qui i microrganismi terrestri hanno la meglio sugli alieni. Inoltre Spielberg recupera i tripodi wellsiani, ma con una novità: essi non viaggiano nello spazio, ma erano sepolti nel sottosuolo del nostro pianeta. Questo apre una nuova ipotesi e sollecita una nuova inquietudine: ovvero, che i marziani fossero già stati sulla Terra in passato, che ci stessero osservando da tempo, e che aspettassero solo il momento giusto per rifornirsi di cibo. Teniamo presente che nel 2005 il dramma dell’11 settembre è ancora molto vicino e il trauma che ne consegue si intreccia spesso nei 09/11 dramas al tema della famiglia (pensiamo ad esempio a Extremely Loud and Incredibly Close di Stephen Daldry, 2011, tratto dal romanzo di Jonathan Safran Foer) o meglio 17 (01/04/2015).
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alla necessità di tenere insieme famiglie spezzate o ferite. Qui la figura del padre diventa fondamentale per proteggere i figli non solo dall’invasione marziana, ma da un ulteriore trauma da separazione. Lo stesso Spielberg ha descritto War of the Worlds come l’opposto di Close Encounters: se là un uomo lascia la propria famiglia per unirsi agli alieni, qui l’obiettivo è tenere insieme la famiglia18. Nello stesso anno esce Doom (Andrzej Bartkowiak 2005), ispirato all’omonimo videogioco su cui ritorneremo, che narra la storia di un gruppo di marines inviati su Marte attraverso un portale, per limitare la diffusione di un virus. Ambientato nell’anno 2046, racconta di un centro di ricerca su Marte attaccato da misteriosi assalitori. Un gruppo di marines viene inviato sul pianeta, dove scoprirà i resti di un’antica razza geneticamente modificata: in realtà si tratta di umani che sono stati mutati grazie all’aggiunta di un cromosoma marziano chiamato C24. Mr Nobody di Jaco Van Dormael (2009) è ambientato nel 2092 e si muove su diversi percorsi temporali. In uno di questi, la moglie esprime al protagonista – Nemo Nobody, un uomo di 118 anni destinato a diventare l’ultimo sopravvissuto sulla Terra – un desiderio bizzarro: “Promise me that when I die, you’ll scatter my ashes on Mars”. In Watchmen di Zack Snyder (2009), trasposizione cinematografica dell’omonima miniserie a fumetti di Alan Moore e Dave Gibbons, su Marte si autoesilia il Dr Manhattan dopo essere stato accusato di provocare il cancro alla gente. Nel 2011 troviamo il film d’animazione Mars Needs Mom (Simon Wells) e infine nel 2012 John Carter di Andrew Stanton, la prima trasposizione del citato romanzo A Princess of Mars di Edgar Rice Burroughs, che narra la storia del capitano confederato John Carter teletrasportato sul pianeta. Al momento in cui scrivo è uscito da poco nelle sale The Martian di Ridley Scott (2015), tratto dal romanzo di Weir e interpretato da un convincente Matt Damon nei panni del “sopravvissuto” sul Pianeta Rosso19. Il film presenta sublimi paesaggi marziani modellati sulla realtà che ormai conosciamo grazie a Curiosity: sono straordinari, sì, ma ormai privi degli elementi che tradizionalmente vi si associavano nel cinema (la speranza/paura di incontrare altre forme di vita). La loro algida ostilità si stempera nella capacità del suolo di generare, una volta adeguatamente concimato, il cibo che serve al protagonista per sopravvivere: il terrestre diventa infatti il “marziano” del titolo grazie a una sperimentazione di terraformazione (piantare patate) e comunque il suo obiettivo rimane sempre quello di andarsene. 18 (04/05/2015). 19 Una curiosità: il film è stato denunciato per plagio dallo sceneggiatore russo Mikhail Raskhodnikov, il quale, sostenendo di aver inviato un suo script intitolato Marsianin nel 2008 a diverse case di produzione internazionali, chiede alla Fox un risarcimento di 50 milioni di rubli. Nel frattempo, in Italia la Newton Compton ha fatto uscire una nuova edizione de L’uomo di Marte intitolata come il film, Sopravvissuto, ed esponendo il volto del “marziano” Matt Damon in copertina.
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6.4. TV, videogames e altri media
Cominciamo col dire che Marte viene più volte citato in quasi tutte le serie di Star Trek (primo episodio: 8 settembre 1966). È il pianeta più popolato del Sistema Solare dopo la Terra e la Luna e in orbita sopra Utopia Planitia vi è il Cantiere navale omonimo, in cui sono state varate tutte le navi stellari di Classe Galaxy, compresa l’Enterprise-D. La serie marziana più famosa è però certamente My Favorite Martian, una sitcom che va in onda dal 1963 al 1966. Tutto inizia con l’arrivo sulla Terra di un marziano, Exodus, che viene accolto da un giornalista e che si presenta a tutti gli altri sotto mentite spoglie. Le vicende successive saranno costituite in gran parte dai suoi tentativi di riparare vari guai e fraintendimenti da lui stesso creati. Cambiamo continente per incontrare la serie giapponese20 a cartoni animati Daitarn 3 (1978), i cui protagonisti si ritrovano a combattere contro cyborg marziani chiamati Meganoidi. Alcuni episodi, in particolare quelli conclusivi, sono ambientati su Marte. I cyborg sono sfuggiti al controllo del loro creatore e vogliono schiavizzare l’umanità; i loro comandanti sono in grado di trasformarsi in Megaborg, enormi robot da combattimento. Tornando negli Stati Uniti, nel 1980 troviamo The Martian Chronicles, una miniserie televisiva tratta dal romanzo omonimo di Ray Bradbury, e nel 19931996 la serie a cartoni animati Biker Mice from Mars, che ha come protagonisti dei motociclisti marziani dall’aspetto di topi umanoidi, che devono salvare l’universo dalle macchinazioni di alieni malvagi simili a pesci. Escape from Mars di Neill Fearnley (1999) è un film per la TV che descrive il primo tentativo di colonizzare Marte nel 2016 e le peripezie a cui vanno incontro i terrestri dell’equipaggio. Butt-Ugly Martians (2001-2002) è invece un’altra serie (a cartoni animati) in cui troviamo tre abitanti di Marte che, mandati dal loro imperatore a invadere la Terra, finiscono con l’affezionarsi ai terrestri. Un’ulteriore serie animata è Futurama (1999-2013), ambientata nel 3000; in essa Marte è abitabile in seguito a un programma di terraforming e fra l’altro è sede di un’importante università. Anche The X-Files, altra famosa serie televisiva (ideata da Chris Carter e prodotta dalla FOX a partire dal 1993) che ha avuto un enorme impatto grazie ai vari temi trattati come il paranormale, le teorie del complotto, mutazioni genetiche, UFO e rapimenti alieni, contiene un episodio della prima stagione (intitolato “Space”) che presenta l’immagine del volto di Cydonia sulla superficie di Marte: la si vede all’inizio dell’episodio e, pur trattandosi di un falso, è stata ispirata dalla famosa foto fatta dal Viking 1 il 25 luglio 1976 nella regione Cydonia del pianeta. 20 Una breve menzione alla produzione giapponese è d’obbligo data la sua diffusione anche sulla piazza statunitense e globale.
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Passando all’ambito dell’anime 21, troviamo Cowboy Bebop (1998-1999), molti episodi del quale sono ambientati su Marte, pianeta natale del protagonista Spike Spiegel, e Cowboy Bebop: the movie (2003, noto anche col sottotitolo Knockin’ on Heaven’s Door), che si svolge interamente sul Pianeta Rosso durante Halloween. Armitage III, una serie anime prodotta nel 1994, narra di un futuro in cui, tra le altre cose, la sovrappopolazione della Terra ha portato alla terraformazione e alla colonizzazione di Marte. Fra i videogames di ambientazione marziana ricordiamo innanzitutto Zak McKracken and the Alien Mindbenders (1988), dove degli alieni chiamati Caponians cercano di impadronirsi della mente della popolazione terrestre mediante un dispositivo che annulla le onde cerebrali. Per sventare la minaccia il protagonista (un giornalista affiancato da tre studentesse dell’università di Yale) visita l’interno della “Mars face” nella pianura di Cydonia e una misteriosa piramide marziana. Nel 1991 esce Worlds of Ultima II: Martian Dreams, che si svolge su Marte ed è ambientato nell’epoca vittoriana, quando si rende necessario salvare alcune eminenti personalità terrestri che sono state lanciate sul pianeta con un grande cannone (simile a quello descritto nel romanzo di Verne De la Terre à la Lune) a seguito di un sabotaggio. Anche Elite 2 (che è soprattutto un gioco di simulazione di guerra), del 1993, inizia con uno scenario ambientato su Marte, mentre uno dei videogames più noti è legato alla serie Doom iniziata nel 1993. Gli eventi di Doom e Doom II si svolgono nelle basi militari terrestri presenti sulle due lune di Marte, Phobos e Deimos, dove gli esperimenti col teletrasporto hanno aperto un varco direttamente con l’Inferno. In Doom III, l’ultimo della serie, l’azione si sposta direttamente su Marte. A partire dal secondo titolo della serie giapponese Metal Slug (1996-2014), tra i nemici da affrontare vi sono anche i marziani, dapprima alleati poi avversari dell’esercito nemico, e in Metal Slug 6 alleati dei terrestri contro un’altra popolazione di mostri. I marziani in questi giochi sono rappresentati come creature simili a meduse, e vengono chiamati semplicemente Mars People. Nel nuovo millennio troviamo Red Faction (2001), che narra la storia della rivolta di una colonia mineraria marziana contro il governo autocratico del pianeta (ci sono anche due seguiti, Red Faction II e Red Faction: Guerrilla, 2002 e 2009) e Spore (2008), dove Marte è situato nella “Zona abitabile” del Sistema Solare (nonostante nella realtà sia classificato come T0, ossia non abitabile).
21 L’anime è un prodotto tipicamente giapponese, ma molto conosciuto anche in Europa e negli Stati Uniti grazie alla TV satellitare e a Internet che ne hanno fatto un fenomeno globale.
PARTE III
7. CASO 1: WAR OF THE WORLDS DI ORSON WELLES1
7.1. “The Man from Mars”
(The) War of the Worlds 2 è un testo talmente citato, riscritto e rimedializzato che può dare un certo spaesamento a chi vi si accosti per la prima volta3. Tutto ha inizio con il romanzo di Herbert George Wells, pubblicato in Inghilterra nel 1897 a puntate sul Pearson’s Magazine (e contemporaneamente, come si è anticipato, negli USA) e in volume l’anno successivo. È riconosciuto come il primo 1 Alcune idee del presente capitolo sono state esposte in “Sounds from Outer Space: Soundscapes in Sci-Fi”, in: Atti del convegno Landscape and Imagination (Paris 2-4 May 2013), eds C. Newman, Y. Nussaume, B. Pedroli, UNISCAPE Firenze 2013, pp. 249-252, e nella Mars Encyclopedia (eds Howard V. Hendrix e Laurel L. Hendrix), in corso di pubblicazione. 2 (07/04/2015). L’articolo “The” appare nel romanzo di Wells e nel film di Haskin, mentre non c’è nella versione radiofonica di Welles e nell’adattamento cinematografico di Spielberg. 3 Colgo l’occasione per ricordare un prodotto italiano di straordinaria qualità, Well[e]s Experiment: La Guerra dei Mondi, videoinstallazione sonora del 2005 a cura di Roberto Vecchiarelli (Accademia di Belle Arti di Urbino, testi) ed Eugenio Giordani (Laboratorio Elettronico di Musica Sperimentale del Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro LEMS, musiche). La videoinstallazione traspone in formato televisivo la famosa trasmissione radiofonica condotta da Orson Welles nel 1938, ed è un omaggio a questo futuro regista che già in giovane età era conscio della potenza e della capacità pervasiva dei media. Il mondo raccontato in Well[s]s Experiment “non è più popolato da uomini ma da ombre che li sostituiscono. La voce narrante di un sopravvissuto denuncia la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa: il flusso di immagini che proviene dagli schermi converte la realtà in un mondo fittizio in cui realtà e finzione si confondono. Il telespettatore è sopraffatto dal mondo illusorio e autoreferenziale di una televisione che non interpreta la realtà, ma ne crea una propria”, in (29/04/2015).
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romanzo che vede combattere una guerra fra terrestri e una popolazione aliena, imbevuto di retorica colonialista e darwinismo sociale e al contempo influenzato da elementi di forte religiosità. Il romanzo sollecitò una miriade di imitazioni, trasposizioni e riscritture, fra cui The War of the Worlds aka H. G. Wells’ The War of the Worlds (1953): un film interpretato da Gene Barry e Ann Robinson e diretto da Byron Haskin su sceneggiatura di Barré Lyndon, in cui i militari usano l’atomica contro gli invasori e “although the Martian base is near Los Angeles, no one seems worried about collateral damage” (Perkowitz 2007: 96), e War of the Worlds (2005), un film interpretato da Tom Cruise e diretto da Steven Spielberg con la sceneggiatura di Josh Friedman e David Koepp, dove “invaders aren’t necessarily Martian; they may come from further away” (Perkowitz 2007: 25). Via via che le frontiere dello Spazio si spostano, e che Marte ci appare più vicino, per rappresentare l’alterità estrema si ricorre di conseguenza ad altri mondi sempre più lontani, anche se “‘Martians’ continued to signify a radical alterity, particularly in those media such as radio, comic books, and sciencefiction novels […] As the archetype of all remorseless invaders, ‘Martians’ signify the dark, nightmarish underside of a modernist ideology that places its faith in science, technology, and progress” (Markley 2005: 206). Le rivisitazioni del testo di Wells comprendono anche racconti, come “World of the Wars” di Bruce McAllister (1971) che mediante il gioco di parole del titolo smaschera il razzismo della società americana; romanzi, come Sherlock Holmes’s War of the Worlds di Manly W. Wellman e Wade Wellman, pubblicato a New York nel 1975, dove Marte è visibile attraverso una sfera di cristallo che mette gli umani in comunicazione col Pianeta Rosso (una contaminazione con “The Crystal Egg” dello stesso Wells, 1897) e “Holmes felt that mankind was a race of creatures much lower in evolution than the Martians” (Wellman e Wellman 1975: 43); e prodotti musicali, come il concept album di Jeff Wayne (1978 e versione successiva 2012) che ha originato una live performance con orchestra sul palco, megavideo, una quantità di luci e di effetti speciali e una voce marziana fuori campo4. Anche i Queen hanno inciso una canzone, Radio Ga Ga (1984), in cui viene brevemente citata la trasmissione radio dell’invasione marziana. Ciò che molti critici tendono a dimenticare (si vedano per esempio Gifford 1971, Strick 1976, Warren 1982, Hayward (ed.) 2004, Casadio 2007) è che tutti i lavori sopra menzionati sono debitori nei confronti di un certo O. Welles non meno che nei confronti di H. G. Wells. Tra le numerose trasposizioni di ogni 4 (02/04/2015). Un’ottima registrazione dal vivo della performance eseguita presso la Manchester Arena l’8 dicembre 2012 è visibile in: (02/04/2015).
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tempo e paese, infatti, la più celebre e discussa è senza dubbio quella di cui ci occuperemo in questo capitolo: pur portando lo stesso titolo del romanzo originale, essa è associata a un autore che non è britannico ma americano, non è uno scrittore ma un regista, non vive nell’Ottocento ma nel Novecento, e ha quasi lo stesso cognome: Orson Welles. Se l’opera di Wells “dà forma non solo alla psicosi di fine Ottocento, quella di una guerra mondiale (che diventerà tremenda realtà)”, essa “proietta tale psicosi, per la prima volta nella storia letteraria, negli spazi sconosciuti e nei mondi lontani al di là di essi – anche se Wells si limita a Marte, scelta canonica per l’epoca e ancora per molti decenni a venire, anche in virtù delle prime significative osservazioni astronomiche sul pianeta” (Centini et al. 1998: 40). Il romanzo di Wells, infatti, “was preceded by two decades of intense speculation about Mars and Martians” (Markley 2005: 115), e lo stesso Wells aveva speculato sulla possibilità della vita su Marte in un articolo apparso sul Saturday Review il 4 aprile del 1896, dove concludeva che la questione “remains unanswered, probably unanswerable” (cit. in Ibidem). Sta di fatto che, contrariamente ai suoi predecessori che avevano immaginato una sorta di utopia marziana, “the terror induced by Wells’s Martians in 1898 and their offshoots (such as Orson Welles’s invaders in 1938) stems from their absolute alienness, their lack of a recognizable psychology, sociology, or politics”(Ibidem: 123). L’“insatiable lust to consume human blood” suggerisce che “Martians have perfected what the European colonial powers practice with more malice but less efficiency: the technologies to overspread planets, exhaust available resources, reshape what is left of the environment to their own ends, and then seek new territories, new worlds, to invade” (Ibidem: 124). Il romanzo, che si gioca proprio sul conflitto fra l’Apocalisse portata dagli invasori e la familiarità del paesaggio inglese di fine secolo, è modellato sul perturbante freudiano e presenta alieni di tipo anamorfico: […] The War of the Worlds (1898), in which the protagonist narrates a Martian invasion of contemporary England, is set exclusively in a familiar society. However, the apocalyptic present that it depicts contains an anamorph in the form of the Martians themselves. These aliens – shapeless masses that “heaved and pulsated convulsively” – are the anamorphic stain on Wells’ portrait of fin-de-siecle England. “Vital, intense, inhuman, crippled and monstrous”, they are the element of the unheimlich excavated in England’s so called home counties. The Martians inspire “disgust and dread” in the protagonist when he sees them creeping from “the Thing” in which they have landed, and in an insane panic he attempts to make an escape – “but I ran slantingly and stumbling”, he reports, “for I could not avert my face from these things”. That slanting movement, caused by an obscene fascination with the aliens, perfectly describes the anamorphic perspective that this archetypal science fiction instates. (Beaumont 2009: 40)
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Se il dibattito sulla vita nello spazio interessa poco o niente il giovane Welles, la absolute alienness e l’anamorfismo dei marziani-vampiri (in realtà, cugini di grado nemmeno tanto distante dei colonizzatori terrestri) di Wells gli offrono la preziosa opportunità di portare tutto questo sulla nuova arena che in quegli anni si sta costruendo intorno al medium radiofonico: Questo romanzo riceverà una prima, potente amplificazione massmediatica nel 1938, quando un giovane attore, l’allora semisconosciuto Orson Welles, ne farà una riduzione radiofonica: gli ascoltatori che si sintonizzarono a trasmissione già iniziata scatenarono un’ondata di panico collettivo, espressione, ancora una volta (e nuovamente profetica), della paura di un conflitto di dimensioni planetarie, ma insieme di tutto ciò che è sconosciuto, che è al di là della comune osservazione, che non si sintonizza sui normali canali comunicativi degli esseri umani […] (Centini et al. 1998: 40)
Ma chi è Welles? Orson Welles è stato un grande, anzi un grandissimo regista, attore, sceneggiatore e produttore americano. Nato nel 1915 a Kenosha, nel Wisconsin, e morto nel 1985 a Hollywood, è considerato uno dei maggiori registi del XX secolo e tra i più grandi storytellers di ogni tempo. Le sue tecniche hanno rappresentato una forte innovazione non solo nel cinema, ma anche nel teatro e nella radio, e in tutti questi media Welles ha saputo portare una varietà di soggetti – dai marziani a Shakespeare al noir – che rendono la sua opera estremamente ricca e diversificata. Dopo un’infanzia segnata da numerose difficoltà, Welles ricevette un’istruzione anticonvenzionale a Woodstock, Illinois, che gli permise di seguire le sue inclinazioni e di seguire le sue materie preferite. Era una specie di enfant prodige, e iniziò a sperimentare il teatro giovanissimo. Dopo il diploma, sebbene avesse vinto una borsa di studio di Harvard, scelse di viaggiare e riprese solo successivamente gli studi presso l’Art Institute of Chicago. Nei primi anni ’20 diresse alcune produzioni teatrali, fra cui un adattamento sperimentale del Macbeth in cui recitavano attori di colore. Ma la svolta avvenne con la sua partecipazione al Federal Theatre Project nell’ambito della Works Progress Administration di Roosevelt. In un periodo di profonda crisi economica, grazie al New Deal c’era spazio per i giovani artisti dotati di ingegno e fu così che Welles co-fondò il Mercury Theatre diventandone presto il “most dynamic showman” (Naremore 1978: 7). La fama arrivò quasi per caso, grazie all’adattamento di The War of the Worlds che, come altri romanzi, fu trasmesso alla radio nella serie The Mercury Theatre on the Air. Era la puntata di Halloween del 1938 e la sua scelta di spostare l’azione dall’Inghilterra al New Jersey, più alcuni altri accorgimenti a effetto, scatenò prima il panico nella audience, e poi la notorietà in tutta la nazione. Grazie alla fama inattesa, rinforzata dalla foto di copertina del Time, Welles (che aveva appena
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ventitré anni) fu invitato a lavorare a Hollywood, dove rimase dal 1939 al 1948. Nel corso della sua carriera e dopo, a Welles è sempre stata riconosciuta una forte personalità e fra gli appellativi con cui è stato definito troviamo “an American genius” (Higham 1985) e “maestro” (Mereghetti 2008). Fin dai tempi del Mercury, il suo obiettivo non è stato semplicemente di intrattenere ma anche di incoraggiare un dialogo fra attore e pubblico e fra i classici e la contemporaneità. Tra i suoi film ricordiamo Citizen Kane (1941), The Magnificent Ambersons (1942), The Lady from Shanghai (1947), Mr Arkadin (1955), Touch of Evil (1958), F for Fake (1974) e gli adattamenti shakespeariani (Macbeth, Othello e Falstaff – in USA Chimes at Midnight, – rispettivamente 1948, 1952 e 1965). 7.2. Una guerra a colori: The Red Decade e i “perfidi e verdastri marziani”
Gli anni ’30 sono stati chiamati Red Decade o anche Marx Decade non a causa della paura del comunismo (la Red Scare si concentra principalmente fra il 1918 e il 1920 e tra il 1947 e gli anni ’60) ma, al contrario, perché sono anni in cui gli Stati Uniti, dopo la Grande Crisi del 1929, si avvicinano a un welfare state di ispirazione socialista. Grazie al New Deal (inaugurato dal presidente Roosevelt nel 1933, durante il suo primo mandato: lo stesso anno in cui finisce il Proibizionismo negli USA e Hitler sale al potere in Germania) e a un’agenda politica che prevede la ridistribuzione della ricchezza nazionale, una serie di riforme (fra cui il Social Security Act nel 1935), un maggiore coinvolgimento dello Stato nella gestione della vita economica e culturale del Paese e la creazione di numerosi posti di lavoro mediante l’allestimento di importanti opere pubbliche, si respira in questi anni un’aria diversa, che comprende la fioritura di sperimentazioni artistiche e una serie di opportunità di lavoro per i giovani e per gli intellettuali. Inoltre sono gli anni in cui il Partito Comunista (Communist Party USA o CPUSA), fondato nel 1919, gioca un ruolo importante nella fondazione della maggior parte delle associazioni sindacali e nella lotta contro la discriminazione razziale, contando in certi periodi più membri del Partito Socialista (Socialist Party of America, 1901-1972, poi divenuto Socialist Party USA o SPUSA). È un periodo in cui troviamo anche numerosi intellettuali che si dichiarano esplicitamente appartenenti a una sinistra d’ispirazione trotzkista (anti-stalinista), e due riviste particolarmente rappresentative dell’epoca sono il Marxist Quarterly e la Partisan Review. La prima uscita del Marxist Quarterly fu annunciata in questo modo sulla American Sociological Review nell’ottobre 1936: The Marxist Quarterly. Announcement is made of the imminent appearance of The Marxist Quarterly. The announcement states: “This will be a learned journal
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appearing quarterly, with particular reference to the various social science disciplines but not to the exclusion of the natural sciences where the materials are relevant. The first issue will be published during the autumn of 1936.” The Journal is addressed to professional students and “to the ideologically minded sections of the labor movement.” It will publish articles setting forth theoretical expositions and amplifications of Marxist principles and application of such principles to the various social science fields. It will have departments devoted to chronicles and communications, book reviews, and notes on the activities of the learned societies5.
Si trattava dunque, nelle intenzioni dei suoi fondatori – Louis Hacker, docente di storia alla Columbia University, e Lewis Corey, anch’egli legato all’intellighenzia newyorkese pur senza appartenere all’Accademia, – di un’iniziativa che avrebbe collegato il mondo della cultura “alta” (learned, ideologically minded) alla società e ai lavoratori (social science, labor movement, social scene): un’iniziativa apprezzabile, ma che ebbe vita breve6. L’aperta ostilità non solo contro i membri del partito (discriminati sul posto di lavoro) ma anche verso i simpatizzanti comunisti (spesso accusati di un-Americanness) sarebbe sfociata nella cosiddetta “caccia alle streghe” del senatore McCarthy e nelle black lists degli anni ’50, le cui basi si stavano di fatto creando già negli anni ’30. Maggiore fortuna (e durata) ebbe la Partisan Review, attiva fino a metà degli anni ’50. Definita “the best and most influential literary magazine in America” (Dvosin 1978: ix), la Partisan Review fu uno dei fulcri più fervidi della vita intellettuale americana nel periodo che stiamo analizzando. Fondata nel 1934 a New York da Philip Rahv e William Phillips insieme a un gruppo di trotzkisti del City College, riuniva un gruppo di giovani scrittori, poeti e saggisti intorno a una serie di valori politici, sociali e culturali condivisi: il cosmopolitismo, l’ideologia marxiana anti-capitalista, il superamento della dicotomia fra arte commerciale e arte intellettuale e una visione laica e responsabile nei confronti della Storia. Nel 1938 da mensile diventò trimestrale e cambiò titolo (A Quarterly of Literature and Marxism), operando una svolta liberale che la porterà ad allontanarsi progressivamente dal partito comunista (Calanchi 2008). Ma le riviste e i giornali non sono più, oramai, l’unico strumento di comunicazione di massa. Gli anni ’30 e ’40 sono infatti definiti anche “Radio Days”7: la 5 American Sociological Review, vol. 1, no. 5, Oct. 1936, pp. 804-807 (p. 804). 6 Un articolo che esamina in modo approfondito l’ostilità contro gli studiosi marxisti americani in rapporto alla nascita degli American Studies come “quintessential alternative” al marxismo è “The Special American Conditions: Marxism and American Studies” di Michael Denning, American Quarterly, pp. 356-380 (358), in: (03/04/2015). Sul ruolo della rivista si veda anche Christopher Phelps, “Science & Society and the Marxist Quarterly”, Science & Society, vol. 57, no. 3, Fall 1993, pp. 359-362. 7 Radio Days (1987) è un film di Woody Allen ambientato proprio negli anni ’30 e ’40. Non solo: contiene anche una breve sequenza dedicata alla sera in cui fu trasmessa alla radio War of the
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radio, infatti, è entrata ormai in tutte le famiglie e connette la nazione e il mondo, mescolando l’ambito pubblico e quello privato come mai era successo prima, e aggiungendo l’elemento sonoro alla suggestione di imparare cose e fatti lontani. Lo stesso presidente Roosevelt sceglie la radio per inviare alle famiglie una serie di trenta messaggi, che diventano celebri col nome di fireside chats, fra il 1933 e il 1944. In realtà già durante la prima Guerra Mondiale la radio era stata utilizzata come mezzo di propaganda, ma questa fu la prima volta in cui si creò una comunicazione per così dire intima e diretta fra il governo della nazione e i cittadini. Per meglio comprendere tale familiarità può essere utile riportare questo aneddoto: Albert Einstein, when asked, in 1938, to explain radio, is widely reported to have said: “You see, wire telegraph is a kind of very, very long cat. You pull his tail in New York and his head is meowing in Los Angeles. Do you understand this? And radio operates exactly the same way: you send signals here, they receive them there. The only difference is that there is no cat.”8
Prima del 1934 le università e i distretti scolastici iniziarono a portare avanti un’intensa sperimentazione pedagogica, finché, quando il Communications Act del 1934 privatizzò l’uso della radio, si aprì un dibattito sul fatto che questo mezzo di comunicazione fosse o meno uno strumento di educazione/istruzione. Nel 1935 fu costituito il Federal Radio Education Committee (FREC), che diede l’incarico a Hadley Cantril, docente di psicologia a Princeton, di redigere uno studio sulla ricezione della radio da parte della audience9. Egli organizzò pertanto una piccola squadra di collaboratori che tra il 1936 e il 1939 condussero ricerche sugli effetti dei media, ricerche che avrebbero costituito il primo nucleo dei vari Dipartimenti di Comunicazione di Massa fondati dopo la seconda guerra mondiale. Cantril unì i metodi di ricerca dei network commerciali con la psicologia sociale, suddividendo gli ascoltatori in gruppi a seconda delle caratteristiche demografiche e creando distinti profili sociali. Tra i soggetti di studio vi erano il modo in cui “radio aesthetics influenced social opinion”, le implicazioni politiche dell’uso della radio a scopo di propaganda, l’utilizzo della voce e la formazione dell’opinione pubblica10. Worlds. In quell’occasione, infatti, il corteggiatore di turno della zia nubile del piccolo narratore, apprendendo dell’invasione marziana tramite l’autoradio, abbandona l’auto e la fidanzata e corre via in preda al panico. 8 (03/04/2015). 9 Lo studio fu pubblicato nel 1940. Pur menzionando in copertina la collaborazione di Hazel Gaudet e Herta Herzog, esso non citava un altro importante contributo, quello del ricercatore austriaco ebreo emigrato in USA Paul F. Lazarsfeld, con cui Cantril aveva avuto numerosi dissidi. Per un approfondimento su questo punto si rimanda a Pooley e Socolow 2013. 10 (07/04/2015).
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Il 31 ottobre del 1938 i ricercatori di Princeton colsero l’occasione per sperimentare le loro teorie. Intervistarono un certo numero di persone che avevano ascoltato la trasmissione ed emerse che “they had not been listening very closely, but disruptions to the familiarity of the broadcast in the form of news flashes made them so terrified that they forgot what they had heard just a few minutes before”11. Il fatto era significativo in quanto per la prima volta era stato possibile misurare un evento mediatico e avere i dati relativi a una reazione del pubblico. Inoltre fu chiaro il potere dei media come strumento di propaganda e si iniziò a lavorare anche sulla predizione dei comportamenti del pubblico. Hadley Cantril, aiutato da Hazel Gaudet e Herta Herzog, pubblicò i risultati dello studio nel 1940; di questo testo esiste anche un riassunto scritto successivamente dallo stesso Cantril, dove si legge tra l’altro: On the evening of October 30, 1938, thousands of Americans became panicstricken by a broadcast purported to describe an invasion of Martians which threatened our whole civilization. Probably never before have so many people in all walks of life and in all parts of the country become so suddenly and so intensely disturbed as they did on this night. Such rare occurrences provide opportunities for the social scientist to study mass behavior. The fact that this panic was created as a result of a radio broadcast is today no mere circumstance. The importance of radio’s role in current national and international affairs is too well known to be recounted here. By its very nature radio is the medium par excellence for informing all segments of a population of current happenings, for arousing in them a common sense of fear or joy, and for exciting them to similar reactions directed toward a single objective. […] At least six million people heard the broadcast. At least a million of them were frightened or disturbed. For weeks after the broadcast, newspapers carried human-interest stories relating the shock and terror of local citizens. (1954: 411-412)
Oltre all’effetto di realtà dato dal mezzo in sé, questi commenti degli intervistati mostrano l’aggiunta autorevolezza conferita al programma dalle varie menzioni dell’Università, dall’Esercito e dal Governo, le massime istituzioni del Paese: “I believed the broadcast as soon as I heard the professor from Princeton and the officials in Washington.” “I knew it was an awfully dangerous situation when all those military men were there and the Secretary of State spoke.” (Cantril 1954: 414)
Come è stato infatti osservato, Many of the respondents testify both to a faith in authority figures – the “scientists” and “government officials” interviewed early in the broadcast – that overwhelmed 11 Ibidem.
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any willing suspension of disbelief and to the ability of radio to create a sense of the “reality” of events. “I believed the broadcast”, said one listener, “as soon as I heard the professor from Princeton and the officials in Washington”. Another declared, “If so many astronomers saw the explosions [on Mars], they must have been real”. (Markley 2005: 205)
Naturalmente, anche “Tuning in late was very decisive in determining whether or not the listener would follow the program as a play or as a news report” (Markley 2005: 416), così come il discontinuo livello d’attenzione durante la trasmissione, la conoscenza o meno del testo di partenza (il romanzo di H. G. Wells) e la minore o maggiore assiduità di ascolto del programma. I motivi del panico, invece, sono stati riferiti a uno stato preesistente di fede religiosa o di paura di una qualche invasione: We have found that many of the persons who did not even try to check the broadcast had preexisting mental sets that made the stimulus so understandable to them that they immediately accepted it as true. Highly religious people who believed that God willed and controlled the destinies of man were already furnished with a particular standard of judgment that would make an invasion of our planet and a destruction of its members merely an “act of God.” This was particularly true if the religious frame of reference was of the eschatological variety providing the individual with definite attitudes or beliefs regarding the end of the world. Other people we found had been so influenced by the recent war scare that they believed an attack by a foreign power was imminent and an invasion – whether it was due to the Japanese, Hitler, or Martians was not unlikely. (Ibidem: 419)
Infine, anche il malessere dato dal persistere della crisi economica e il conseguente disagio psicologico vengono chiamati in causa: The prolonged economic unrest and the consequent insecurity felt by many of the listeners was another cause for bewilderment. The depression had already lasted nearly ten years. People were still out of work. Why didn’t somebody do something about it? Why didn’t the experts find a solution? What was the cause of it anyway? Again, what would happen, no one could tell. Again, a mysterious invasion fitted the pattern of the mysterious events of the decade. The lack of a sophisticated, relatively stable economic or political frame of reference created in many persons a psychological disequilibrium which made them seek a standard of judgment for this particular event. (Markley 2005: 421)
L’impatto della trasmissione sui cittadini americani si spiega dunque da una parte con l’ansia latente causata da anni di depressione economica in patria, dall’altra con ciò che sta avvenendo sullo scenario internazionale: l’invasione dell’Austria da parte di Hitler, il Trattato di Monaco che permette alla Germania di annetter-
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si parti della Cecoslovacchia, la colonizzazione della Libia da parte dell’Italia in procinto di concludersi (Naremore 1978; Caccia 1997). Tutte queste ragioni sono state oggetto di discussione da più parti e ancor oggi vengono citate nei testi che si occupano di fantascienza, alieni, mass media e psicologia di massa. Se qualcuno ha interpretato il panico come la dimostrazione che gli USA non erano pronti a un confronto armato – “If Americans had fled like children before a joke, what would happen in the case of a real invasion?” (Higham 1985: 128) – altri hanno osservato che prodotti culturali come quello di Welles servirono proprio a preparare (psicologicamente e culturalmente) la popolazione: “la metafora dell’arrivo minaccioso dei marziani […] serve nel 1938 al futuro autore di cinema Orson Welles […] per canalizzare i timori di invasione diffusi in America”, così come la stessa metafora servirà nuovamente “nel 1953 a un regista meno prestigioso, Byron Haskin, […] per contribuire alla psicosi della Guerra Fredda (salvo esorcizzarla in un finale consolatorio, che vede i perfidi e verdastri marziani sconfitti da un germe non meglio identificato quando gli umani, viste inutili le armi, si rivolgono in preghiera all’onnipotenza divina”; Fink 1998: 207-208). Ma c’è anche un’altra ipotesi che non contraddice, ma si affianca alla precedente: Il discorso in realtà non dovrebbe essere così schematico: l’adattamento radiofonico di Orson Welles, qualunque ne sia stato l’impatto sugli ascoltatori dai nervi più scoperti, era anzitutto un discorso all’interno del medium e sul medium radiofonico, un’operazione squisitamente autoriflessiva tesa a dimostrare, in modo allora probabilmente inatteso e persino frustrante, che anche una presenza domestica e amichevole come la radio, così fedele alla sua funzione di “caminetto dell’etere” in età rooseveltiana, era capace di ingannare e deliberatamente di mentire. (Ibidem: 208)
Più recentemente, la giornalista Annie Jacobsen, nel suo dossier Area 51, ha dedicato alla trasmissione di Welles numerose pagine in cui inserisce il panico di migliaia di americani nel preciso quadro politico sopra citato: “Just two weeks before, Adolf Hitler’s troops had invaded Czechoslovakia, leaving the security of Europe unclear […] Death rays and Martians may have been pure science fiction in 1938 but the concepts played on people’s fears of invasion and annihilation” (2011: 21).
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7.3. Mercury on the Air
La radio è la grande protagonista di questa opera, la quale a sua volta diventa l’epitome dei Radio Days e segna una nuova fase anche nella narrativa marziana. Come ha evidenziato Crossley, “The post – World War I era of Martiana that began with efforts to send radio signals to the red planet came to an end in a celebrated event in which radio signals brought Mars to Earth” (2011: 189). Facciamo un passo indietro. Come si è detto, il Mercury Theatre comprendeva una sezione radiofonica chiamata Mercury on the Air, all’interno della quale Welles e i suoi collaboratori avevano il compito di selezionare alcuni testi e ricavarne una sceneggiatura in modo da poterli recitare alla radio. Fra i testi scelti troviamo, per esempio, Treasure Island, Dracula e The Invisible Man. Ogni episodio aveva la durata di 60 minuti, interrotti di tanto in tanto da stacchi pubblicitari. Se nessuno, però, diede segni di squilibrio mentale vaneggiando di vedere pirati, vampiri, o uomini invisibili aggirarsi per le strade della nazione, quando andò in onda il testo di Wells-Welles le cose andarono diversamente. War of the Worlds12 fu trasmesso sabato 30 ottobre 1938, alla vigilia di Halloween (per dovere di cronaca, ricordo che solo dieci giorni dopo, nella notte fra il 9 e il 10 novembre, ci sarebbe stata la notte dei Cristalli, il terrificante pogrom globale organizzato in tutta la Germania). Ispirato al romanzo omonimo, la vicenda si concentrava su un’invasione marziana che però avveniva nel New Jersey, e si concludeva con la sconfitta degli alieni grazie a batteri terrestri. La puntata in questione causò a Welles numerosi appellativi, fra cui “The Man from Mars” (Callow 2006) e “the man who caused the Mars panic” (Naremore 1978: 20). In realtà non era tutta opera sua: la rielaborazione del testo era stata infatti da lui eseguita insieme allo scrittore Howard Koch (che sarebbe poi stato il coautore della sceneggiatura di Casablanca)13. I due avevano pensato di strutturare la prima parte del programma come un falso notiziario, portando gradualmente la audience a credere che ciò che sentivano stava accadendo veramente. Gli ascoltatori furono informati ben quattro volte che ciò che ascoltavano era pura fantasia, e al termine della trasmissione lo stesso Welles in persona li rassicurò che non aveva avuto luogo alcuna invasione. Inoltre, il nome della stazione 12 Cast: Welles, Frank Readick, William Alland, Ray Collins, Kenneth Delmar, Paul Stewart, Richard Wilson, Carl Frank, William Herz, Stefan Schnabel, Howard Smith. Colonna sonora: Bernard Herrmann. 13 Una curiosità: Spielberg prima di fare il film del 2005 riuscì ad acquistare l’unica copia originale esistente dell’adattamento, ovvero quella appartenuta a Howard Koch, che aveva appunto lavorato con Welles al progetto del radiodramma, ma che il giorno della messa in onda non era presente al Mercury Theatre; la sua copia, quindi, non fu sequestrata dalla polizia come avvenne per tutte le altre.
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radio (Intercontinental Radio) era assolutamente immaginario. Ciononostante, l’illusione di realtà ebbe la meglio: il mezzo radiofonico possedeva una forte autorevolezza e si serviva di effetti realistici, tanto che gli ascoltatori si convinsero facilmente che era in atto un’invasione del New Jersey da parte dei marziani, i quali stavano marciando verso Manhattan. Inoltre, furono utilizzati nomi di scienziati e accademici simili a quelli reali. Bisogna infine tenere presente che gli Stati Uniti non erano mai più stati attaccati dopo la guerra del 1812 (durante la quale, nel 1814, il Maine era stato invaso dagli inglesi), e che non erano mai stati bombardati dal cielo; inoltre, i canali di Marte erano ancora presenti nel dibattito del tempo (Higham 1985; Taylor 1986). E c’è chi ha commentato che le cose avrebbero potuto anche andar peggio, poiché all’ultimo momento “The cries of the advancing Martians, ‘Ulia, Ulia, Ulia’, were […] deleted because CBS thought they sounded too terrifying” (Brady 1989: 167). Molti autori hanno registrato “the panic rush for shelter, the heart attacks, the suicide attempts, the miscarriages” (Taylor 1986: 39). Fu certamente uno spettacolo incredibile: migliaia di persone in fuga, “speeding along highways to try to distance themselves from the Martian menace” (Berg 2003: 407). È stato calcolato che dei 6 milioni di persone che ascoltarono il programma, 1,7 milioni pensarono che fosse un notiziario vero, e altri 1,2 milioni pur capendo che si trattava di un radiodramma ne furono spaventati. Il New York Times ricevette 875 chiamate telefoniche e commentò in prima pagina: “RADIO LISTENERS IN PANIC, TAKING WAR DRAMA AS FACT”; e il New York Daily News occupò metà della prima pagina con queste parole a caratteri cubitali: “FAKE RADIO ‘WAR’ STIRS TERROR THROUGH U.S.” (Brady 1989: 173). In un primo momento tutto questo creò qualche problema legale al giovane Welles e ai suoi collaboratori, ma i problemi furono presto superati e quello che viene ritenuto il programma più sensazionale nella storia della radio rese Welles famoso da un giorno all’altro. Il suo volto apparve sulla copertina del Time; la zuppa Campbell14 decise di sponsorizzare il Mercury Theatre on The Air, che divenne The Campbell Playhouse; e George Schaefer, il leader della RKO, firmò un contratto con Welles e lo convinse a fare cinema. War of the Worlds diventò anche un importante caso di studio dell’isteria di massa (cfr. Cantril 1954), rivelando al contempo il potere dei media, in particolare della radio, le cui enormi potenzialità erano già state riconosciute al tempo dell’affondamento del Titanic (1912) e venivano utilizzate, come si è detto, dallo 14 Non è l’unica occasione in cui la zuppa Campbell si interfaccia con la storia della cultura americana e con la produzione culturale di massa: anni dopo, infatti, sarà immortalata dal celebre esponente della pop art Andy Warhol (Campbell’s Soup Cans, 1962). L’opera, conservata presso il Museum of Modern Art di New York, è visibile in: (27/05/2015).
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stesso Roosevelt nei suoi fireside chats (1933-1944). In particolare, in questo radiodramma la radio da un lato assolve gli spettatori “from the need to produce proofs of the calamity, since they are giving eyewitness accounts of sights we cannot see” e dall’altra parte li porta a visualizzare individualmente ciò che sentono, il che li rende “responsible for what they thought they saw” (Conrad 2003: 112). È forse una leggenda, ma pare che tre anni dopo Welles stesse leggendo poesie di Walt Whitman alla radio quando fu interrotto dalla notizia dell’attacco giapponese a Pearl Harbor e molte persone pensarono che fosse un’altra bufala (Welles e Bogdanovich 1992). Questo episodio illumina anche un aspetto importante della fantascienza, quello cioè di essere “genere di confine, di per sé portato a valicare soglie di ogni tipo”: è quanto succede appunto col radiodramma di Welles, relativamente al quale il fatto di aver “invaso con successo il dominio dei media non strettamente verbali” fu confermato dalle reazioni isteriche di massa suscitate dal radiodramma stesso (Fink 1988: 111). Grazie a questo suo essere genere di confine, la fantascienza ha spesso anticipato la “svolta della narrativa verso la metanarrativa e del cinema verso il cinema al quadrato o fra virgolette” e il caso di Welles è uno dei più straordinari: “la paura che questa trasmissione doveva scatenare fra gli ascoltatori nasceva proprio, al di là dei ‘contenuti’ abbastanza ingenui e facili a smascherarsi, nell’accorto dosaggio di elementi metalinguistici, per cui i personaggi venivano spesso presentati come se fossero appena emersi dalla vasta e oscura comunità dei radioascoltatori” (Ibidem: 117). Il fatto che gli eventi descritti nel programma “suonassero” reali è quello che più convinse gli ascoltatori che fossero reali. Welles non solo poteva contare su una “fascinating, hypnotic voice” (Salotti 1978: 12), ma, “in adapting the book for a radio play, Welles made an important change: under his direction the play was written and performed so it would sound like a news broadcast about an invasion from Mars, a technique that, presumably, was intended to heighten the dramatic effect”15. Al tempo stesso, “he and Koch achieved an ironic distance between themselves and their sign-systems, as if they were trying not only to grip the listener but to joke about the power of radio itself ” (Naremore 1978: 25). Il fatto, comunque lo si osservi, rivelò le potenzialità nascoste della radio come potente mezzo di comunicazione di massa. Sarebbero passati ancora trent’anni prima che il famoso sociologo canadese Marshall McLuhan riconoscesse esplicitamente tali potenzialità e definisse la radio “tribal drum”, sostenendo che “it attuned and synchronised the central nervous systems of the people who listened, creating a state of trance” (cit. in Conrad 2003: 111). 15 “War of the Worlds, Orson Welles, and The Invasion from Mars”, in: (15/09/2015).
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Inoltre il radiodramma rivelò il grande potere del suono, delineando il primo importante paesaggio sonoro della fantascienza: non solo “the battery of special effects […]: hissings and hummings from the spaceship, the clanking of extraterrestrial metal, the coughing of pilots flying through suffocating smoke, and the thud of bodies hitting the floor” (Conrad 2003: 118), ma anche i suoni nello studio di registrazione (le voci, la musica, gli applausi), quelli solo riferiti dall’annunciatore (le esplosioni su Marte, il rumore della folla, le campane) e quelli della guerra in corso, una guerra interplanetaria, con i suoi rumori inquietanti (armi, scoppi, fuga, ecc.) che svolsero egregiamente il compito di suscitare la paura negli ascoltatori. 7.4. Analisi del testo
Il programma si apre con l’annunciatore che informa che la CBS (Columbia Broadcasting System) sta per presentare War of the Worlds, tratto dal romanzo di H. G. Wells. Subito dopo Welles fa un lungo discorso in flashback come se parlasse dal futuro, centrato sul fatto che il mondo all’inizio del XX secolo era sicuramente sorvegliato da altri esseri intelligenti; la Terra è solo un piccolo frammento dell’Universo, e il tempo e lo spazio sono avvolti nel mistero: “We know now that in the early years of the twentieth century this world was being watched closely by intelligences greater than man’s and yet as mortal than his own” (Welles 1990: 20)16. Su questo racconto si innesca la narrazione della vicenda: “In the thirty-ninth year of the twentieth century […] near the end of October […] thirty-two million people were listening in on radios” (p. 22). L’elemento metanarrativo, dunque, è già presente fin dall’inizio: la doppia finzione, la scatola cinese, è già esplicitata. Welles parla dal futuro di un passato che, di fatto, è il presente, e parlando dal futuro racconta non la storia di Wells, bensì quella dei radioascoltatori: “thirty-two million people were listening in on radios”. L’incipit, che avrebbe la funzione di predisporre la audience a una variante contemporanea del “once upon a time” delle fiabe, ha successo però soltanto se l’utente si è già sintonizzato sul canale; in caso contrario, naturalmente, l’effetto di realtà potrebbe – e difatti fu così che andò per molte persone – superare la finzione. Seguono un bollettino metereologico e un pezzo musicale di Ramon Raquello. A un certo punto abbiamo la prima interruzione, quando un annunciatore riporta una notizia relativa a strane esplosioni su Marte, “like a jet of blue flame” (p. 26). È di nuovo la volta della voce di Welles, che torna per impersonare l’astronomo e docente di Princeton prof. Pierson, il quale nega ogni possibilità di vita sul Pianeta Rosso: 16 D’ora in avanti si indicheranno solo i numeri di pagina, riferiti a questa edizione.
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Phillips: Professor, would you please tell our radio audience exactly what you see as you observe the planet Mars though your telescope? Pierson: Nothing unusual at the moment, Mr. Phillips. A red disk swimming in a blue sea. […] Not canals, I assure you, Mr Phillips., although there’s the popular conjecture of those who imagine Mars to be inhabited. […] Phillips: Then you’re quite convinced as a scientist that living intelligence as we know it does not exist on Mars? Pierson: I should say the chances against it are a thousand to one. (pp. 32-34)
Il professore precisa inoltre, al fine di tranquillizzare i radioascoltatori, che Marte dista dalla Terra “approximately forty million miles”, vale a dire “a safe enough distance” (p. 34). È interessante soffermarci su questo punto, perché quando il giornalista chiede al professore “cosa vede”, lui risponde “nulla di insolito”. Questo è il primo di molti esempi di inadeguatezza della vista rispetto all’udito, il senso che qui è più sollecitato, trattandosi di una trasmissione radiofonica. Tanto che anche quando l’oggetto misterioso fiammeggiante arriva sulla Terra il suo impatto verrà misurato non solo in termini visivi – “The flash in the sky was visible within a radius of several hundred miles – ma anche in termini sonori – “the noise of the impact was heard as far north as Elizabeth” (p. 40). Il fatto, poi, che il proprietario della fattoria su cui cade l’oggetto stia “listening to the radio” quando avviene il fatto (p. 46) crea un legame molto stretto fra gli ascoltatori e i personaggi del dramma. Infine, quando i giornalisti chiedono all’uomo: “Then you saw something?”, lui risponde: “Not first off. I heard something […] a hissing sound. Like this ssssss… kinda like a fourt’ of July rocket” (p. 48). Quindi la sua esperienza è chiaramente di tipo acustico. A tutto questo si aggiunge l’utilizzo di una toponomastica locale che sollecita un nuovo livello di attenzione: i luoghi sono indubbiamente americani, riconoscibili, familiari; non si parla più dei canali di Marte, ma del New Jersey. Inoltre la radio è lo strumento più efficace per restituire all’udito il suo spazio fra le sensazioni e le emozioni: mentre possiamo solo immaginare l’oggetto fiammeggiante, presto potremo sentire – noi, in prima persona – i rumori dell’invasione. Il giornalista Phillips, dopo la breve intervista al proprietario della fattoria si rivolge nuovamente agli ascoltatori:
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Phillips: Ladies and gentlemen, […] I wish I could convey the atmosphere… the background of this… fantastic scene. […] Now, ladies and gentlemen, there’s something I haven’t mentioned in all this excitement, but it’s becoming more distinct. Perhaps you’ve caught it already on your radio. Listen: (long pause)… Do you hear it? It’s a curious humming sound that seems to come from inside the object. I’ll move the microphone nearer. Here (pause) Now we’re not more than twentyfive feet away. Can you hear it now? […] (pp. 52-54)
Questo passo è estremamente interessante perché ci mostra la qualità intrinseca del mezzo radiofonico e, di qui, le sue potenzialità non solo comunicative, ma narrative. Mediante il progetto di una descrizione cognitiva del paesaggio (l’atmosfera, il background), poi, il giornalista stabilisce una sorta di palinsesto in cui tutti i pezzi del mosaico – i marziani, l’agricoltore, il cilindro-meteorite, ma anche se stesso e i presenti, le automobili che arrivano, e ancora il microfono che crea un ponte con gli ascoltatori di tutto il Paese, e ogni singola radio in ogni singola casa – diventano parti integranti di un copione in fieri. Il futuro, sembra dirci Welles, non sta nell’immaginare invasioni marziane, ma nell’imparare a gestire l’invasione, già avvenuta, della nostra intimità domestica a opera non dei Tripodi, ma della Radio. Dopo vari rumori inquietanti (fra cui uno “humming” che viene aumentato di volume avvicinando un microfono, e un “clanking”, pp. 54, 56) il misterioso oggetto cilindrico si apre, si intravedono dei tentacoli, e un alieno fuoriesce e incenerisce i presenti con un’arma che funziona a raggi incandescenti. È così orribile da essere “indescribable”: “The eyes are black and gleam like a serpent. The mouth is V-shaped with saliva dripping from its rimless lips that seem to quiver and pulsate” (p. 58). La precisazione sull’avvicinamento del microfono (che poi cadrà facendo precipitare tutto nel silenzio) e l’insistenza sia sui suoni sia sulle immagini gradualmente fa dimenticare alla audience il tempo nella narrazione, che viene così a coincidere col tempo presente dell’ascolto, mentre al contempo i curiosi accorsi sul luogo diventano veri e propri eye-witnesses (e non semplici personaggi del radiodramma) per chi ascolta. Dopo uno stacco di pianoforte, un altro professore, di nome Indellkoffer, spiega che le esplosioni che si avvertono su Marte sono di natura vulcanica. Tuttavia seguono notizie molto più allarmanti provenienti da molto più vicino: sparatorie, evacuazioni, e la dichiarazione dello Stato di Guerra nel New Jersey. L’annunciatore finalmente ammette che “those strange beings who landed in the Jersey farmlands tonight are the vanguard of an invading army from the planet Mars” (p. 80). Da questo momento il notiziario si fa più concitato e si trasforma
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in una pressante radiocronaca che, nel percorrere la geografia degli Stati Uniti orientali, assume il ritmo degli eventi sportivi: Communication lines are down from Pennsylvania to the Atlantic Ocean. Railroad tracks are torn and service from New York to Philadelphia discontinued except routing some of the trains through Allentown and Phoenixville. […] By morning the fugitives will have swelled Philadelphia, Camden and Trenton, it is estimated, to twice their normal population. […] We take you now to Washington for a special broadcast on the National Emergency […] (pp. 82-84)
È solo dunque a radiodramma inoltrato che abbiamo la certezza che i marziani sono venuti sulla Terra con intenti ostili, e poco dopo appare già chiaro che le armi degli umani non sono adeguate a distruggerli. Dal punto di vista del paesaggio sonoro, è interessante notare che l’ordine di evacuazione alla popolazione verrà impartito non dalla radio, bensì attraverso il suono di un medium molto più tradizionale: “The bells you hear are ringing to warn the people to evacuate the city as the Martians approach” (p. 106). Applicando il lessico del padre degli studi sul paesaggio sonoro, il musicista e studioso canadese Schafer, diremo che i rumori delle armi e delle esplosioni appartengono alla categoria definita “Sound Imperialism”, e che lo stesso speaker può essere considerato “imperialistic” poiché è in grado, grazie al suo ruolo, di dominare lo spazio acustico (1994: 77); al contrario, le campane comunicano un senso del divino, essendo tradizionalmente considerate l’espressione del potere supremo, quello di Dio. Per questa ragione possiamo definire il loro suono “Sacred Noise” (p. 76). Se i marziani mostrano inizialmente qualche difficoltà a muoversi nell’atmosfera terrestre a causa della forza di gravità, dietro di loro arrivano i Tripodi: enormi macchine da guerra che si rivelano subito indistruttibili dalle armi terrestri e che iniziano a distruggere tutto ciò che incontrano sul loro cammino, comprese le ferrovie e i ponti. Milioni di persone si riversano nelle strade: sembra quasi “New Year’s Eve in city” (p. 108). Nel frattempo, mentre i cilindri marziani continuano a cadere su tutto il Paese, il Ministro degli Interni (di cui non viene menzionato il nome) tiene un discorso alla nazione: […] Fortunately, this formidable enemy is still confined to a comparatively small area, and we may place our faith in the military forces to keep them there. In the meantime placing our faith in God we must continue the performance of our duties each and everyone of us, so that we may confront the destructive adversary with a nation united, courageous, and consecrated to the preservation of human supremacy on this earth. (pp. 84-86)
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A parte il geniale utilizzo della parola performance, usata nel corso del radiodramma nel suo doppio significato, troviamo nel discorso sopra menzionato tutta la retorica dell’apparato governativo unita ai valori della nazione (unity, supremacy) e a una doppia fede, nell’esercito e in Dio. Poco dopo un reporter, dalla cima del CBS building, descrive così l’invasione marziana di New York City: “five great machines” stanno attraversando il fiume Hudson, la gente si butta nell’East River “like rats”, altri cadono “like flies” (pp. 110-112). Sembra che sia ormai la fine. Poi ecco un intermezzo, prima e dopo il quale l’annunciatore ricorda al pubblico che si tratta di una commedia: “You are listening to a CBS presentation of Orson Welles and the Mercury Theatre on the Air […] The performance will continue after a brief intermission […]” (pp. 112-114). Subito dopo ricominciano i bollettini di guerra, sempre più concitati: le notizie arrivano da Langham Field, Virginia; Basking Ridge, New Jersey; Morristown; le Watchung Mountains; Middlesex; Plainfield; Winston Field, Long Island; Bayonne; Newark; New York City (pp. 88-106). Il professor Pierson risulta disperso, ma, dopo un nuovo intervallo, ecco che invece è proprio quest’ultimo, e non il giornalista, a riprendere la parola. Non vi sono più né microfoni né riferimenti alla radio, ma un lungo monologo esistenziale: As I set down these notes on paper, I’m obsessed by the thought that I may be the last living man on earth. […] All that happened before the arrival of these monstrous creatures in the world now seems part of another life… a life that has no continuity with the present, furtive existence of the lonely derelict who pencils these words on the back of some astronomical notes bearing the signature of Richard Pierson. (pp. 114-116)
Il superstite della catastrofe non ha in mano un microfono, ma una matita; non parla alla nazione, ma scrive su un pezzo di carta, anzi, sul retro di un pezzo di carta che porta il suo nome. È l’inizio, per Welles, di quella che potremmo chiamare la sua poetica del frammento, di un percorso che lo porterà a costruire tutto il suo primo film, Citizen Kane, su un nome – Rosebud – e il suo ultimo, F for Fake, su una singola lettera dell’alfabeto. Se la signature è l’unico vincolo con la sua vita precedente, è solo attraverso il quaderno (la carta) che Pierson può ristabilire un contatto con gli ascoltatori; è solo ri-trasformandoli in lettori che può far proseguire la storia: “In writing down my daily life I tell myself I shall preserve human history between the dark covers of this little book that was meant to record the movements of the stars” (pp. 116-118). Qualcosa di analogo accadrà nel finale del già citato romanzo di Bradbury Fahrenheit 451, in cui i book people, e non i televisori o i telefoni, diventeranno i depositari della memoria e della Storia.
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Ma le sorprese non sono finite. Nel corso della sua narrazione, che a un certo punto inizia a essere scritta al passato, Pierson incontra uno sconosciuto, un altro superstite come lui: Pierson: Have you seen any Martians? Stranger: They’ve gone over to New York. At night the sky is alive with their lights. Just as if people were still living in it. By daylight you can’t see them. (p. 126)
Mentre Pierson pensa che tutto sia finito, lo sconosciuto gli comunica il suo folle piano, consistente nel sopravvivere sottoterra, allo scopo di formare una nuova razza di esseri umani superiori che nel futuro potranno sgominare i marziani e dominare il mondo: Stranger: I’ve got it all figured out. We’ll live under ground. I’ve been thinking about the sewers. Under New York are miles and miles of ‘em. […] And we’ll get a bunch of strong men together. No weak ones, that rubbish, out. […] You and me and a few more of us we’d own the world. (pp. 138, 140)
Il professore/Welles non è interessato al progetto e saluta l’uomo, continuando da solo il suo cammino nella città di New York. Di nuovo abbiamo un deep focus sul luogo in cui ci troviamo: di nuovo, incontriamo nomi che dovevano suonare familiari agli ascoltatori e che possiamo seguire su una mappa – lo Holland Tunnel, Canal Street, la Quattrordicesima Strada, poi le strade dalla Trentesima alla Cinquantesima, fino a Times Square; e poi Broadway, il Capital Theatre, Columbus Circle, il palazzo della General Motors, Central Park, la Sessantesima Strada. Ci si sofferma poco, in genere, su questa parte che in un certo senso fa crollare tutto lo “scherzo” e che pure, forse, è quella più interessante dell’intero radiodramma. Lo sconosciuto rappresenta evidentemente l’Europa e in particolare la Germania nazista, con le sue fantasie di superiorità razziale e il suo progetto di dominio sul mondo; una figura a cui si ispirerà indubbiamente Kubrick nel suo film Dr Strangelove (1963), che si conclude proprio su un progetto analogo di sopravvivenza (in quel caso, alla guerra nucleare) di un gruppo ristretto di scienziati e politici nel sottosuolo. Il professore / Welles, al contrario, rappresenta l’America, o meglio il mondo ancora libero, minacciato dall’invasione non tanto dei marziani quanto di chi, come lo sconosciuto, vuole governare il mondo. Non si tratta più, dunque, del “reign of terror” tardo-vittoriano che costituiva l’agenda politica dell’Invisible Man di Wells (1897), bensì del terrore ancora più profondo che dominerà le grandi
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distopie del Novecento, da George Orwell ad Aldous Huxley a Ray Bradbury, autore non solo delle Martian Chronicles che analizzeremo nel prossimo capitolo, ma di molti altri romanzi e racconti fra cui il più volte citato Fahrenheit 451. L’incontro fra il professore e lo sconosciuto nel radiodramma wellesiano sembra anticipare proprio quest’ultimo romanzo nel suo desiderio di far riflettere sull’importanza della responsabilità e sulle conseguenze delle proprie scelte, anche individuali, di fronte all’apocalisse. In questo senso, War of the Worlds è vicino alla poetica di autori che dagli anni ’30 in poi iniziano a ragionare proprio sulla responsabilità, o scegliendola come propria poetica (è il caso di Delmore Schwartz, cfr. Calanchi 2008) o, come farà Philip Roth in A Plot Against America (2004), immaginando una Storia alternativa in cui il regime USA è filonazista e antisemita. Ci si sofferma poco, in genere, anche sul senso di solitudine provato da Pierson nel pieno centro di Manhattan (“I stood alone on Times Square”, p. 142) e sul momento epifanico in cui comincia a vedere i marziani morti, dalla cima di una collinetta del parco: “there, before my eyes, stark and silent, lay the Martians, with the hungry birds pecking and tearing brown shreds of flesh from their dead bodies” (p. 146). I marziani sono dunque usciti dalle loro macchine infernali per entrare a far parte del cerchio della vita: non più predatori ma vittime, attaccati dai batteri prima e dagli uccelli poi, ci sembrano, finalmente, quasi umani. Come il romanzo di Wells, il radiodramma di Welles termina dunque con i marziani sconfitti all’ultimo momento dai batteri terrestri, contro i quali essi non possiedono l’adeguata reazione immunologica. Spesso è stato sottolineato che tali batteri sono in realtà prodotti della Creazione, dunque c’è lo zampino di Dio nella conclusione della vicenda – i batteri sono “the humblest thing that God in His wisdom put upon this earth” (pp. 146-148) – anche se personalmente non mi dispiace l’interpretazione secondo cui “La guerra dei mondi può essere letto come un racconto di divenire molecolare: la vittoria dell’uomo deriva da un’alleanza seppure inconsapevole con i microrganismi” (Giovannoli 1982: 30). Questa interpretazione laica (che va contro le conclusioni dei vari film ispirati al romanzo e del radiodramma stesso, dove le persone superstiti si dirigono verso la chiesa, pregano e cantano inni) dà anche maggiore rilievo alla figura dello scienziato, che rimane eticamente coerente con se stesso e i propri principi fino alla fine. Da un punto di vista scientifico, tuttavia, credo abbia ragione piuttosto Pekowitz, che scrive: “In all versions of The War of the Worlds, the Martians go down because they’re susceptible to earthy bacteria, which implies anatomical similarities between the two species” (2007: 45). Il fatto che i batteri siano alleati dei terrestri è dunque meramente casuale (o, al massimo, va spostato su un piano culturale), mentre la vera affinità (quella biologica) si gioca fra essi e gli invasori, come del resto spiega Pickover (1998), che abbiamo citato nel terzo capitolo del presente lavoro.
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In realtà, il dramma non si è del tutto concluso. Con un nuovo cambiamento di tempi verbali, il professore, che ora si trova nuovamente nel suo studio all’Università, riprende la narrazione al presente, esprimendo amarezza unita a nuovi dubbi esistenziali: It may be, that the destruction of the Martians is only a reprieve. To them, and not to us, is the future ordained perhaps. Strange it now seems to sit in my peaceful study at Princeton […] Strange to see from my window the university spires […] Strange to watch children […] Strange to see young people […] Strange to watch the sightseers enter the museum where the dissembled parts of a Martian machine are kept on public view […] Strange when I recall the time when I first saw it […] (pp. 148-150)
L’uso del tempo presente (rivolto a chi? A se stesso? Ai lettori? Agli ascoltatori? Alle generazioni future?) e la ripetizione dell’aggettivo Strange (che se da un lato ci riporta allo Stranger, dall’altro pare ripercorrere a ritroso, col ritmo di una marcia, e alternando perfino see e watch con la medesima regolarità con cui si mettono avanti il piede sinistro e il destro) ci danno un contrasto significativo tra il senso di una ritrovata familiarità, intimità, belonging, e anche realtà (l’invasione è definita “a remote dream”, p. 148) e lo straniamento di ritrovarsi in un mondo vivo che pure ha sperimentato – e potrà di nuovo sperimentare in futuro – la propria distruzione. In ogni modo, le ultime parole di Pierson, che evocano nel gran finale “that last great day” dell’invasione marziana (Ibidem) non sono la vera conclusione del radiodramma. Dopo un ultimo brano musicale, infatti, la voce di Welles ricorda ai radio-ascoltatori che si è trattato di uno scherzo di Halloween: This is Orson Welles, ladies and gentlemen, out of character to assure you that the “War of the Worlds” has no further significance than as the holiday offering it was intended to be… […] and remember, please, for the next day or so, the terrible lesson you learned tonight. That grinning, glowing, globular invader of your living-room is an inhabitant of the pumkin patch, and if your doorbell rings and nobody’s there, that was no Martian… It’s Halloween! (MUSIC) (pp. 150-152)
È interessante osservare che alla radice dello “scherzo” c’è comunque un intento didattico, consistente nel dimostrare che il nemico non viene dallo spazio bensì dall’interno stesso delle nostre case: la zucca di Halloween, forse; o, piuttosto,
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quel vero intruso nella nostra intimità, le cui onde ci giungono “across an immense ethereal gulf ” (p. 20) che non è lo Spazio Profondo bensì lo spazio molto più domestico attraversato dalle onde radio. Chissà quale scherzo avrebbe potuto escogitare Welles oggi, nell’epoca di Facebook e della telefonia smart. In ogni modo, tre anni più tardi, con il citato Citizen Kane (1941), il film con cui approderà alla regia cinematografica, Welles avrà modo di formulare meglio la sua ipotesi legata alla comunicazione delle informazioni nella società di massa, facendo comprendere agli spettatori come chi ne detiene il monopolio sia in grado d’influenzare l’opinione pubblica e possa agire nei confronti della società come un moderno tiranno. Il testo di Wells e la trasposizione radiofonica che ne fa Welles affrontano dunque, sebbene in tempi, luoghi e modi diversi, il tema comune di una guerra simbolica contro una razza aliena che però ha molti aspetti in comune con quella umana, o è simbolo della sua tecnologia, se è vero quello che Reed scrive riferendosi alle intenzioni di Wells: “As his short essay ‘The Man of the Year Million’ indicates, the Martians are simply humans evolved to a new form. […] In them, man again confronts an alien version of his own nature simplified to blood and brain (1987: 110). Per quanto rappresenti dunque un nostro lato oscuro molto violento e cruento, l’aggressività dei “marziani” è motivata dal fatto che il loro pianeta sta morendo: una motivazione che non viene esplicitata o problematizzata nel radiodramma di Welles, che è più interessato all’effetto sugli ascoltatori. Se in Wells sono in gioco dinamiche che, in fondo, ricalcano quelle della colonizzazione delle Americhe (la conquista del Nuovo Mondo da parte del Vecchio Mondo), tanto che anche la Provvidenza viene chiamata in causa come complice “a monte” della rappresaglia batteriologica (“Fortunately, God sometimes grants us a reprieve”, scrive Rabkin 1987: 78), a Welles preme modernizzare il racconto e dislocarlo nella geografia americana, attualizzarlo prendendosi gioco della Scienza e dell’Accademia e mostrando che il futuro – nel bene e soprattutto nel male – è nei Media, e mettendo in rapporto il terrore marziano con l’orrore della Guerra imminente: “On October 30, 1938 Eastern standard Time, the Martians landed in New Jersey. […] The Martian reign of terror, the scenes of destruction, are of an extraordinary vividness […] For the first time, the horrors of modern warfare were described” (1975: 36. Corsivi miei). Gli alieni di Welles sono in realtà invisibili alla audience, così come quelli di Welles lo erano stati per i lettori: è l’immaginazione che, in entrambi i casi, deve supplire alla vista e creare la condizione mentale di sospensione dell’incredulità. Tuttavia, se è vero che “We don’t read The War of the Worlds for its views on Martian biology or psychology, but for the sensations of encounter” (Benford 1987: 25), proviamo a pensare a quanto maggiore debba essere stata la sensazione di
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quell’incontro (un incontro ravvicinato del terzo tipo che si svolgeva nella stessa nazione di chi ascoltava) raccontato ad arte, con tanto di voci concitate, rumori sinistri e grida, da uno strumento potente come la Radio. Diverso è il caso, naturalmente, delle successive trasposizioni cinematografiche, le quali si spendono in effetti speciali di tipo soprattutto visivo che se da un lato sono finalizzati a “stupire”, dall’altro devono dare un senso di realtà per spaventare gli spettatori con l’idea di una minaccia possibile. Questo è particolarmente vero per il primo dei due adattamenti, che inaugura per così dire una scuola: “most of the ‘evil’ Hollywood aliens since 1953’s The War of the Worlds have had a tendency to look mean and cranky, or like skull-faced sex fiends” (Pickover 1998: 14). È bene anche ricordare che il film esce nei Tranquilized Fifties e che dialoga in maniera esplicita sia con l’arena politica nazionale: Despite the closed American frontier, The War of the Worlds repeats a familiar American myth: the East is a place of thought, knowledge and authority while the West is a place of action […] Washington, D.C., coordinates the world’s defenses against the invaders, and it is the president who gives permission to drop the bombs on the Martians. Of course, the action takes place in the most Western continental state, California, where the Martians first arrived. (Shapiro 2002: 88)
sia con lo scenario internazionale: The real villains in The War of the Worlds […] are not the invading Martians themselves, who are glimpsed only briefly and appear as relatively frail creatures. Rather, the terrifying Martian machines provide the film’s menace – the graceful deadly cobraheaded attack vehicles that float around impersonally murdering everyone according to no human rationale. The film, released in 1953 during the gathering popular reaction against what was seen as a soulless technology that had placed all humanity under the shadow of the Bomb, accurately portrays the sullen helplessness infecting the country at the time. The ultimate manipulators of that weaponry […] emerge as blindly malevolent power seekers. Their film presentation as “Martians” – at a time when “alien” Chinese and North Koreans were battling Americans in the skies over Korea and even more frighteningly faceless technicians on both sides of the Iron Curtain were assumed to be preparing nuclear Doomsday Machines for Armageddon – is simply a question of cosmetics. (Tomkins 1978: 23-24)
Una “cosmesi” che se da un lato non disdegna gli effetti speciali sonori – “In War of the Worlds (1953), while the mechanical Martian warships emit whining rays which sound like the product of angry rotors […] the Martian probes sound (and look) like electronic snakes mechanically hissing” (1980: 218) – dall’altro punta decisamente sulla vista e sul colore:
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The resultant orgy of technicolored destruction, Martians versus the US army, heat rays versus atom bombs, came out as a victory for the special effects team, despite the death by heart attack of Gordon Jennings upon completion of the film. […] Gene Garvin created a Martian shriek by blending the scrape of dry ice across via microphone with a girl’s scream recorded backwards. Only one actual Martian was seen, designed by Albert Nozaki and sculpted from papier-maché and sheet rubber by Charles Gemora – who also played the part. (Gifford 1971: 81-82)
Curiosamente Gifford (e, come si è detto, non è il solo a farlo) opera una cancellazione totale del radiodramma di Welles quando scrive che “George Pal moved H. G. Wells’ The War of the Worlds from 1898 to 1953, and from Waking to Los Angeles” (1971: 81), come se in mezzo non ci fossero stati l’invasione marziana del New Jersey, l’assedio di Manhattan e il panico provocato dal programma. Eppure certamente nell’immaginario USA doveva essere molto più vivo il ricordo di quel fatto avvenuto sul suolo nazionale solo quindici anni prima, e che era finito su tutti i giornali, rispetto al romanzo del britannico Wells di fine Ottocento. Una delle ragioni di tale scelta (che almeno in parte ritengo comunque dovuta alla tipica sudditanza delle arti figurative al testo letterario) può essere ricercata nel fatto che il testo-madre contenga precise indicazioni di tipo storico-culturale che è opportuno tenere presenti per dare una giusta interpretazione della vicenda (al di là dei suoi effetti speciali): “The most resounding attack from space in all science fiction is […] War of the Worlds, the novel by H. G. Wells […] The Martian fighting machines, symbols of colonialism, Darwinism, the extremes of technology, and the menace of the oncoming 20th century itself, seem to have stalked this world ever since” (Strick 1976: 10-11). È interessante che Strick metta il film in relazione con la Guerra Fredda e che parli di “atomic-age Martian holocaust” (Ibidem: 12); inoltre, anche se la sua analisi ignora completamente il radiodramma di Welles, essa ha il merito di includere le illustrazioni apparse sulle riviste di fantascienza, dimostrando un interesse che non si ferma alle fonti letterarie: “Originally illustrated in the pages of Pearson’s by Warwick Goble, who saw them as tentacular lozenges mounted on angular oylons, they had become more like floating doorknobs by the time of their appearance on the cover of Amazing Stories in August 1927” (Ibidem: 11). Anche per Casadio, un altro studioso che sembra ignorare Welles, il film “sembra un candidato ideale come veicolo volontario di una ‘propaganda’ pro armamenti, contro un’invasione russa paventata dai parlamentari repubblicani”: per questo l’ambientazione fu trasportata nella California del presente, e i tripodi wellsiani furono rimpiazzati con dischi volanti (2007: 180). Sullo spostamento della scena in California è forse opportuno spendere ancora due parole. Il percorso che va dall’Inghilterra di Wells al New England di Welles
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e di qui alla West Coast di Pal non può certo essere casuale: risponde invece a una precisa geografia politica che va contestualizzata. Se il cuore dell’Impero britannico alla fine del XIX secolo era appunto l’Inghilterra, infatti, negli anni ’30 il fulcro del progresso e della modernità è certamente Manhattan, con i suoi grattacieli proiettati verso il futuro come razzi. Negli anni ’50, invece, gli anni del dopo – Pearl Harbor e del dopo – Hiroshima, la California rappresenta il punto nevralgico del sistema che è stato attaccato e diventa simbolicamente, nel cinema marziano, il punto di approdo privilegiato dell’invasione: Initially mistaken for fireballs or meteors, their spaceships choose neither to land on earth nor to crash into it. Instead they slam down upon the rural terrain, quickly transforming the California countryside into an arid wasteland that even the animals are soon fleeing. […] The Martians continue to widen their area of devastation, as if trying to transform the whole of Earth into a vast desert. (Hollings 2014: 100)
Parallelamente, “the atomic strike against the Martians looks remarkably like an AEC test being carried out in the Nevada desert” (Holling 2014: 100). È fin troppo facile riferirsi non solo alla wasteland eliotiana, ma anche alla wilderness, che fin dai tempi dei puritani e dei pionieri occupa tanto spazio nell’immaginazione americana. La wilderness è infatti uno dei nomi che nella Bibbia vengono dati proprio al deserto, luogo di tentazione, di morte e di incontro con l’“altro”: Home to the crashed saucer and beloved of the Martian invader, the desert continues to exert its powerful hold over the popular imagination, becoming a favored location in which to meet representatives from other worlds […] Encounters with beings from other worlds tend to isolate the individuals involved, stranding them in a cultural desert […] The Martian invaders in The War of the Worlds love the dry wilderness so much that they bring it with them, as if attempting to re-create conditions on their home planet wherever they go. […] “out there” is rapidly becoming “out here.” (Ibidem: 103, 105, 106)
Quanto alla reazione di Wells, lo scrittore, che aveva scelto Londra come sede finale della distruzione marziana in quanto “capital city of the most powerful country on the planet, headquarters of an empire” (Crossley 2011: 118) se la prese col giovane Welles per ovvie ragioni: He thought, with some justice, that it coarsened a serious political allegory into a sensational hoax. But the radio script also highlighted an aspect of The War of the Worlds that has made it a central text in the cultural history of Mars. In shifting the locale from London and its suburbs to New York City and rural New Jersey, Orson Welles was participating in a century-long series of adaptations of Wells’s novel that paid homage to its mythic universality by altering its local particularity
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in order to make the geographical details of the imagined invasions familiar with various audiences. Even well-informed U. S. Anglophiles sitting by their Philco radios in 1938 might have been vague about the location of the Chobham Road, Horsell Common, Putney Hill, and other places designed by Wells to be instantly recognizable to British readers. Orson Welles sought American equivalents to that sense of journalistic immediacy with dispatches from Princeton University, reports of black smoke pouring through Times Square, and the view of a gigantic Martian machine in Central Park. (Ibidem: 115)
In realtà, come ricorda ancora Crossley, la prima idea, quella originaria, dello spostamento dell’azione in America non fu né di Pal, né di Welles. Prima di uscire in volume, infatti, il romanzo uscì, come si è già detto, a puntate: sul Pearson’s Magazine in Inghilterra e sul Cosmopolitan negli Stati Uniti. Quando il New York Journal e il Boston Post chiesero i diritti per ripubblicare la serie tra la fine del 1897 e l’inizio del 1898, Wells acconsentì, non sapendo che la geografia sarebbe stata alterata: New Yorkers reading their evening papers learned about the Martians’ sacking of such landmarks as the Brooklyn Bridge, St. Patrick’s Cathedral, Columbia University Library, and Grant’s Tomb. In Boston, readers could track the invasion from Concord to Lexington to Waltham before the Martians headed for Boston Harbor and the industrial center of the city. (2011: 116)
Già allora Wells s’infuriò, ma ormai era troppo tardi. La storia delle metamorfosi geografiche era iniziata, e sarebbe culminata col film Mars Attacks!, a cui è dedicato l’ultimo capitolo di questo libro.
8. CASO 2: THE MARTIAN CHRONICLES DI RAY BRADBURY1
8.1. L’autore
Ray Douglas Bradbury nasce a Waukegan, Illinois, nel 1920 e muore a Los Angeles, California, nel 2012, essendovisi trasferito con la sua famiglia fin dall’età di 14 anni dopo vari spostamenti tra cui un periodo di permanenza a Roswell, nel New Mexico – “UFOlogists know this southwestern town as the infamous site of a purported crash of an unidentified flying object in July 1947, the year that Ray Bradbury’s first book, Dark Carnival, was published” (Weller 2005: 35) – e uno a Tucson: “he would miss the adventurous Marscape of Arizona”, scriverà il suo biografo (Ibidem: 39). Sebbene l’avventura e la fantascienza sembrino predominanti nella vita dello scrittore, Bradbury ha sempre preferito andare in bicicletta piuttosto che guidare l’automobile, è salito per la prima volta in aereo dopo che ha compiuto sessant’anni, e non ha mai amato i computer e le e-mail. Dotato di memoria eccezionale (sosteneva di ricordarsi perfino il giorno della sua nascita), amante dell’illusionismo (da ragazzino ebbe una sorta di “iniziazione” da Mr Electrico, 1 Alcune idee del presente capitolo sono state esposte nel mio “Sounds from Outer Space: Soundscapes in Sci-Fi”, in: Atti del convegno Landscape and Imagination (Paris 2-4 May 2013), eds C. Newman, Y. Nussaume, B. Pedroli, UNISCAPE Firenze 2013, pp. 249-252, e in una voce da me curata nella Mars Encyclopedia (eds Howard V. Hendrix e Laurel L. Hendrix), in corso di pubblicazione. Un grazie a Maria Chiara Basaglia che si è laureata presso l’Università degli Studi di Urbino nell’a.a. 1999-2000 con la prof.ssa Gabriella Morisco, con una tesi intitolata “Ray Bradbury: narratore del futuro tra nostalgia e poesia”, che ho consultato nella composizione di questo capitolo e che ricordo con piacere perché è stata la mia prima correlazione nell’Università di Urbino.
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un celebre mago del tempo), ha pubblicato, nel corso della sua vita, più di trenta libri, qualcosa come seicento racconti, e numerose commedie, poesie, sceneggiature, e inoltre due opere e vari musical, tanto da diventare l’autore americano più antologizzato. Non potendo permettersi studi universitari, fin da ragazzo leggeva in modo onnivoro e sognava di fare teatro (Mass 2004). I suoi primi successi letterari sono legati a racconti horror, polizieschi e fantascientifici apparsi su riviste degli anni ’40; l’interesse della critica arriva solo in un secondo momento. La forma preferita è la short story, e del resto gli autori che più lo hanno influenzato sono i grandi maestri del racconto breve: Edgar Allan Poe, Sherwood Anderson, Isaac Asimov. Il suo stile si coniuga spesso con una prosa poetica, molto ricca di metafore e al crocevia tra fantascienza, fiaba e fantasy tale. Bradbury si sposa nel 1947 e pochi anni dopo pubblica le sue opere principali: The Martian Chronicles nel 1950, The Illustrated Man nel 1951 e Fahrenheit 451 nel 1953, quest’ultimo un capolavoro distopico scritto durante il maccartismo in difesa della libertà d’espressione. Il libro, “a powerful statement on the ability of the printed word to inform, enlighten, educate, and heal”, è anche “a clear warning of the dangers of letting media and the government invade people’s lives” (Mass 2004: 59). Dal romanzo sarà tratto il celebre film omonimo di François Truffaut (1966), mentre The Martian Chronicles ispireranno la serie televisiva omonima nel 1980. 8.2. I Tranquilized Fifties
Gli anni in cui viene scritto, pubblicato e letto The Martian Chronicles rappresentano uno dei periodi più interessanti e controversi della storia degli USA. Il volume di Bradbury esce nel 1950, quindi siamo esattamente a cavallo fra due decenni: gli anni ’40, ricordati spesso come quelli della seconda Guerra Mondiale e del secondo dopoguerra, si aprono con l’attacco di Pearl Harbor (1941) e si chiudono con l’inizio del maccartismo e l’applicazione del programma messo a punto dalla Commissione per le attività antiamericane. Il maccartismo, detto anche witch hunt (caccia alle streghe), deve il suo nome al senatore repubblicano Joseph McCarthy, che in quegli anni si fece promotore di una vera e propria campagna persecutoria contro persone e istituzioni legate in qualsiasi modo al partito comunista, dall’adesione dichiarata alla semplice espressione di simpatia2. Gli anni ’50 iniziano dunque nel clima di tensione della Guerra Fredda, che vede le due superpotenze mondiali, gli USA e l’URSS, rispettivamente detentrici dei valori del capitalismo e del comunismo, impegnate in un duello consistente 2 Anche se non se ne parla quasi mai, ci fu anche una campagna contro gli omosessuali, definita da alcuni “The Lavender Scare”.
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nell’attesa di essere attaccate e nella conseguente preparazione (militare, tecnologica, culturale) all’eventualità di una guerra totale: Questa è l’America della guerra fredda, della paura della bomba, questi sono gli Usa intaccati dal cancro del maccartismo, da un regolamento di conti e una cultura del sospetto che porta a respingere tutto quello che potrebbe risultare “estraneo” alle certezze consolidate, sia esso la minaccia del comunismo o l’invasione proveniente dal “pianeta rosso”, invocata o respinta nei continui avvistamenti di U.F.O. (una costante negli Usa dell’epoca). (Fadda 2003: 10)
Ma sono, questi, anche gli anni definiti Tranquilized, cioè “sedati”: se da un lato la minaccia atomica pende sulle vite di tutti i cittadini, scatenando visioni apocalittiche, dall’altro si cerca di esorcizzare la paura accontentandosi del relativo benessere economico che questi anni regalano dopo la crisi e la guerra: simbolo del periodo è la villetta suburbana con la macchina parcheggiata accanto al giardino, una sorridente massaia che inforna piatti prelibati e il marito che giunge a casa dal lavoro esclamando la frase di rito: “Honey, I’m home!”3. Tuttavia serpeggia, tra gli anni ’40 e ’50, un sentimento di paura, un timore diffuso e costante che nemmeno il cartone animato Duck and Cover (che insegna ai bambini come difendersi in caso di attacco nucleare)4, la canzone “We Will All Go Together When We Go” di Tom Lehrer (che invita tutti a rallegrarsi perché, se cadrà la bomba, moriremo tutti insieme e nessuno resterà a piangere)5, o l’ironia più colta e complessa della poesia “Bomb” di Gregory Corso (scritta a forma di fungo atomico)6 riescono completamente a esorcizzare (Calanchi 2015). Se, da un lato, il futuro sembra promettere un’epoca di prosperità e di progresso tecnologico, dall’altro questo stesso futuro sembra a rischio in un modo che non si è mai visto prima, e questo lo porta al centro del dibattito culturale: Between 1947 and 1959, the future was written about, discussed, and analyzed with such confidence that it took on a tangible presence, especially in the United States, where an unprecedented economic boom, coupled with a growing sense of importance on the international stage, prompted Henry R. Luce […] to speak with renewed vigor of the “American Century”. This was manifest destiny writ large at a time when the United States not only remained the sole nation to possess an atomic arsenal but also maintained strict copyright control over the A-bomb footage shot at Hiroshima and Nagasaki. (Hollings 2014: xiii) 3 La frase deve probabilmente la sua fama al film Pleasantville di Gary Ross (1998), che ricostruisce splendidamente lo scenario e l’atmosfera di quegli anni. 4 (10/04/2015). 5 (10/04/2015). 6 (10/04/2015).
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Gli anni ’50 vedono anche, come si è sottolineato nei capitoli precedenti, la diffusione di riviste e l’uscita di numerosi romanzi e film di fantascienza, nonché una quantità di episodi di avvistamenti di UFO che danno molto lavoro agli psichiatri (Hollings 2014), la diffusione dell’LSD e della torazina e, naturalmente, lo sviluppo della televisione, il medium che in questi anni supera definitivamente la radio: Few inventions have had as much effect on contemporary American society as television. Before 1947 the number of U.S. homes with television sets could be measured in the thousands. By the late 1990s, 98 percent of U.S. homes had at least one television set, and those sets were on for an average of more than seven hours a day. The typical American spends (depending on the survey and the time of year) from two-and-a-half to almost five hours a day watching television. It is significant not only that this time is being spent with television but that it is not being spent engaging in other activities, such as reading or going out or socializing7.
La televisione, pur diversificandoli secondo la sua propria struttura, assorbe parte dei metodi e dei contenuti dalla radio, dal teatro, dalla fotografia e dal cinema, entrando presto anche nell’arena della politica e della propaganda di mercato. Rispetto alla radio, la novità di “vedere” volti, paesaggi e merce insieme a voci e rumori fa della televisione uno strumento di informazione, comunicazione e persuasione ancora più potente e potenzialmente pericoloso: tra i primi ad accorgersene ci sarà proprio Bradbury, che ne sottolinea gli aspetti più inquietanti nel già citato Fahrenheit 451. Una lettura affascinante della fine dell’epoca della radio e dell’avvento della televisione è quella proposta da Hollings, il quale, parlando del film The War of the Worlds di George Pal, ne ricorda alcune battute: “All radio is dead”, dichiara un annunciatore radiofonico prima di lasciare il microfono e affidare le sue parole a un registratore; e un soldato informa il suo generale: “Well, sir, radio’s out”. Come sostiene Hollings, “it is significant that the first thing the Martians do is disrupt the electromagnetic field in the areas they take over” (2014: 113). Il fatto che la radio non funzioni, mentre “field phones are OK”, significa che “The future may still be received rather than transmitted, but the means of reception is now under serious review” (Ibidem: 114). Non a caso in molti racconti del tempo si parla di telepatia, tanto da far concludere allo studioso: “In short, the Martians are the new media: or at least the possibility of them” (Ibidem).
7 Mitchell Stevens, “History of Television”, Grolier Encyclopedia, in: (10/04/2015).
8. Caso 2: The Martian Chronicles di Ray Bradbury
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8.3. Il romanzo
The Martian Chronicles non è in realtà un romanzo in senso tradizionale, ma appunto una serie di ventisei “cronache”8 che narrano la conquista di Marte da parte dei terrestri. Bradbury, più che interessarsi agli aspetti scientifici di una possibile colonizzazione del pianeta, sottolinea la somiglianza tra questa e la conquista del Nuovo Mondo: gli umani si insediano sul suolo marziano senza alcuna considerazione per gli indigeni, che vengono uccisi dalle malattie portate dalla Terra, come accadde appunto ai nativi americani. Per colmo di umiliazione, quando l’antica civiltà marziana è ormai distrutta i terrestri abbandonano Marte per unirsi agli amici e familiari che stanno combattendo una devastante guerra mondiale sul proprio pianeta di origine. Alla fine del romanzo, l’ultima famiglia di coloni residenti sul pianeta vede i propri volti riflessi in un canale di Marte: “When one of the children asks his father where the Martians are, the man points to their reflections in the water […] Metaphorically, the imaginary colonists of the future are identified with the ghosts of a long vanished past, and, for Bradbury and many others, Mars remains a planet haunted by both its past and its future” (Markley 2005: 22). Nonostante The Martian Chronicles sia stato considerato un importante testo della letteratura fantascientifica e “a pivotal event in the field’s growing respectability” (Eller e Touponce 2004: 134,105), Bradbury ha dichiarato che il suo unico romanzo di fantascienza è Fahrenheit 451: “The Martian Chronicles is fantasy”, aggiunse (Roach 2000: 21). Se a questa precisazione affianchiamo il seguente commento – “In The Martian Chronicles Bradbury frequently describes the future on Mars in terms of the midwest in the 1920’s. […] Like other forms of literature, SF treats the present, not the future” (Huntington 1975: 352) – comprenderemo che abbiamo a che fare con un testo complesso, in cui il presente, il passato (recente) e il futuro si intrecciano al paesaggio i cui motivi di interesse non si esauriscono nella pur altamente suggestiva ambientazione marziana. Inoltre, le vicende narrate sono costruite senza una vera e propria cornice, ma piuttosto in una modalità che potremmo definire caleidoscopica, prendendo a prestito una metafora usata dallo stesso Bradbury nel racconto intitolato “Night Meeting”, in cui l’identità stessa di Marte è assimilata a un caleidoscopio. Eller e Touponce parlano addirittura di “carnivalesque kaleidoscopic combination of elements” (2004: 140), aggiungendo il Carnevale – presente anche questo nei racconti in vari modi, tra cui l’abitudine marziana di indossare maschere – come ulteriore elemento stilistico e strutturale/strutturante. 8 L’edizione a cui faccio riferimento è quella del 1979 (Bantam Books, New York). Successivamente furono aggiunti due racconti: “The Fire Balloons” e “The Wilderness”. Inoltre in un’edizione del 1997 tutta l’azione si sposta avanti di 30 anni.
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Bradbury in realtà ignora completamente le scoperte scientifiche, astronomiche e tecnologiche del XX secolo, e crea una versione personale di Marte a partire dalla letteratura del XIX secolo e, appunto, dalla realtà delle piccole cittadine del Midwest. Tuttavia alcune delle sue invenzioni letterarie rappresentano straordinarie anticipazioni della tecnologia più avanzata – solo per fare un paio di esempi, su Marte i libri si suonano, non si leggono, e questo li rende molto simili a CD o e-books. Nelle sue descrizioni di Marte – chiamato Tyrr dai suoi abitanti – fu influenzato in parte da Schiaparelli e da Lowell, in parte da Burroughs; il suo è un paesaggio romantico con un’atmosfera impossibile, altrettanto impossibili sabbie e colline azzurre (che riflettono le blue hills dei paesaggi dell’Arizona) e un paesaggio sonoro improbabile. Molti dettagli non quadrano con la scienza, come nel caso dei due satelliti: The fact that Deimos moves round Mars only slightly slower than Mars spins on its axis makes its passage from east to west remarkably leisurely; it lingers in the sky for sixty hours at a time. Phobos, by way of contrast, races round its orbit considerably faster than the planet spins on its axis, which means it rises in the west and sets in the east just four hours or so later. Ray Bradbury was unaware of this oddity of the Martian sky when writing The Martian Chronicles. (Morton 2003: 101)
Del resto, “Science fiction is the art of the possible. Fantasy is the art of the impossible” (Roach 2000: 21). E, come commenta Weller, “It was the metaphor that mattered” (2005: 158). Per quanto riguarda i marziani, essi hanno la pelle scura, occhi dorati e poteri telepatici; possiedono libri di storia che cantano e orologi che parlano. Hanno emozioni, amano la musica e possono essere definiti “the defenders of truth and beauty” (Kirk 1969: 117). Le loro case sono fantasiose benché fragili: alcune di cristallo, altre costruite come giardini verticali con frutti che crescono lungo i muri. I marziani alla fine saranno distrutti, prevedibilmente, dai germi umani (nello specifico, la varicella). In particolare, “As a matter of fact, this novel about Mars, Martians, and Earthmen has an important psychological and social value, since invites readers “to look closely at themselves and the world in which they live” (Mass 2004: 10). Il testo tocca infatti varie tematiche, quali il razzismo, l’integrazione e l’importanza dell’immaginazione in una società apparentemente democratica, che di fatto incoraggia o quantomeno tollera la repressione e la censura. Vi sono inoltre numerosi riferimenti letterari, che come vedremo vanno a formare un sotto-testo altrettanto ricco e significativo. In breve, The Martian Chronicles “is a text that stands outside genre categories”, ed è “interwoven with philosophical themes, reinvented by Bradbury in his own unique way as a diagnosis of 1950s American culture” (Eller e Touponce 2004: 134-135).
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Sebbene avesse vissuto per un certo periodo a Roswell, New Mexico (sede, come si è visto nel capitolo terzo, di un famoso avvistamento alieno), e pur essendo stato influenzato senza dubbio dai romanzi di Edward Rice Burroughs, Lewis Carroll e Edgar Allan Poe (come vedremo, The Martian Chronicles contiene anche una riscrittura di “The Fall of the House of Usher” e molte citazioni da Poe), Bradbury sostenne di essersi ispirato soprattutto a Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson (1919): scrivendo la sua raccolta di storie, infatti, anch’egli voleva ricreare un mondo a partire dall’esperienza quotidiana di personaggi comuni, pur ambientandole su Marte. Del resto le identità – terrestre (o americana) e marziana – sono intercambiabili per gran parte delle vicende, tanto che a un certo punto gli stessi terrestri sono scambiati per marziani dai marziani stessi. Molti anni dopo, quando il primo Viking atterrò su Marte (1976), Bradbury, euforico, festeggiò tutta la notte, e quando un giornalista gli chiese cosa pensasse ora che era chiaro che non c’era vita su Marte lui gli rispose: “You idiot! You fool! There is life on Mars – look at us! Look at us! We are the Martians!” (Aggelis, ed. 2004: 154). Questo atteggiamento rispecchia la filosofia presente anche in The Martian Chronicles, che, a dispetto della sua ambientazione marziana, delle sue due lune, delle tempeste di sabbia, sembra essere molto più interessato a come il pianeta influenzi l’attività percettiva, sensoriale e mnemonica e le vite stesse delle persone che sono venute a colonizzarlo. C’è infatti un costante flusso di immagini, metafore e ricordi che connettono il presente su Marte al passato sulla Terra, l’atteggiamento dei nativi a quello dei coloni, il passaggio dallo stupore alla volontà di dominio (un binomio ben delineato nell’espressione Marvelous Possessions che Stephen Greenblatt ha usato per un suo testo seminale del 1991), la trasformazione del paesaggio del West all’epoca dei pionieri al modo in cui “the rocketship-locusts transform the Martian landscape” (Eller e Touponce 2004: 11). E non è un caso che, nell’edizione inglese (1951), il romanzo si intitolasse The Silver Locusts a indicare la consapevolezza di Bradbury nei confronti della colonizzazione: “The original British title, The Silver Locusts, suggests something of Bradbury’ view of the plague of Earthlings descending on the fourth planet” (Markley 2005: 218). The Martian Chronicles rivela certamente le ansie degli anni ’50, specialmente quelle legate alla Guerra Fredda e alla minaccia nucleare. Lo stesso Bradbury scrisse nel 1950: “I decided first of all that there would be certain elements of similarity between the invasion of Mars and the invasion of the Wild West” (Weller 2005: 155). Stava pensando con ogni probabilità a un periodo della storia americana “when things were plenty empty, still, and lonely” e per questo immaginava Marte come una sorta di nuova Frontiera o, perlomeno, di nuovo orizzonte geografico-culturale; pertanto il suo libro viene a essere una sorta di
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cautionary tale che mette in guardia non solo contro la guerra atomica, ma anche “against the cultural perils that lay ahead” (Ibidem: 156). Come ammette uno dei personaggi, “We Earth Men have a talent for ruining big, beautiful things” (Bradbury 1979: 54). Grazie al suo “elaborate system of parallels with myths of the American frontier” (Mogen 1986: 82-93) – among which the myth of “rejuvenating wilderness” (Eller e Touponce 2004: 136) – Marte è nelle Chronicles una sorta di “allegory transplanted to another world” (Weller 2005: 159), un mondo pieno di problemi umani e nel contempo un luogo che ci si aspetta sia “a land of milk and honey” (Bradbury 1979: 31). Ma si tratta anche di un’opportunità per narrare storie che “actually confronted contemporary concerns such as racism, the anti-Communist witch hunt, environmental pollution, and nuclear war” (Weller 2005: 203). 8.4. Analisi del testo
I racconti, i cui titoli sono preceduti da una data, come in un journal, sono stati raggruppati da Edward J. Gallagher (1980) in tre sezioni: la prima è composta dai primi sette racconti e riguarda i primi quattro tentativi da parte dei terrestri di mettere piede su Marte. La maggior parte di essi si comporta in modo arrogante e irrispettoso verso gli indigeni – anche per questo motivo sono state individuate analogie con i nativi americani – e i marziani al contrario sono descritti come creature sagge che vivono in armonia con la natura. Tale suddivisione mi pare convincente e quindi mi ci atterrò. Premetto che le analisi varieranno da racconto a racconto, per lunghezza, temi e metodi d’analisi, in quanto si tratta di racconti estremamente diversi caratterizzati da una relativa discontinuità (anche dal punto di vista della qualità letteraria, dell’interesse culturale, dello stile). I racconti9 della prima sezione (ognuno dei quali è preceduto dalla data in cui si svolgono i fatti) sono: • “Rocket Summer”; • “Ylla”; • “The Summer Night”; • “The Earth Men”; • “The Taxpayer”; • “The Third Expedition”; • “And the Moon Be Still as Bright”. 9 Mi riferisco a Bradbury 1979. D’ora in avanti si indicheranno solo i numeri di pagina, riferiti a questa edizione.
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La seconda sezione consta di quindici racconti e sviluppa la storia della realizzazione delle colonie su Marte, dalla costruzione della prima fino alla distruzione dell’ultima di esse. È chiaro fin dall’inizio che i coloni americani proiettano su Marte le loro paure, le speranze, i desideri, la nostalgia, e cercano di rendere familiare tutto ciò che appare loro strano, diverso, misterioso. Le differenze sono ben sottolineate e il linguaggio rappresenta la prima barriera. Questi i titoli: • “The Settlers”; • “The Green Morning”; • “The Locusts”; • “Night Meeting”; • “The Shore”; • “Interim”; • “The Musicians”; • “Way in the Middle of the Air”; • “The Naming of Names”; • “Usher II”; • “The Old Ones”; • “The Martian”; • “The Luggage Store”; • “The Off Season”; • “The Watchers”. La terza e ultima sezione è composta di quattro storie (da “The Silent Towns” a “The Million-Year Picnic”), l’ultima delle quali termina simbolicamente con una famiglia di terrestri che cercano invano i marziani, vedendo invece se stessi riflessi nell’acqua di un canale. Questi i titoli: • “The Silent Towns”; • “The Long Years”; • “There Will Come Soft Rains”; • “The Million-Year Picnic”. Nel complesso i racconti narrano, come l’autore informa in epigrafe, di come “the People of Earth came to Mars”. La scelta del verbo come invece di go è cruciale, in quanto significa che le storie sono narrate dal punto di vista di Marte e non della Terra. Pur parlando di una nuova Frontiera (Mass 2004) Bradbury intende colmare la distanza che tradizionalmente separa gli uomini e gli alieni (Nolan 2004), dimostrando meno interesse per la scienza o per le descrizioni realistiche (per esempio, non si preoccupa del fatto che su Marte non vi sia un’atmosfera respirabile) di quanto non ne abbia invece per la filosofia (Eller e Touponce
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2004), per il mito, la metafora e l’allegoria (Weller 2005). Da un lato, i racconti riflettono preoccupazioni del tempo, come il razzismo, l’anticomunismo, l’inquinamento ambientale e la guerra nucleare (Ibidem); dall’altro riprendono l’analogia classica fra la colonizzazione di Marte e quella del West, aggiungendo un moderno senso di alienazione e displacement. Ogni storia racconta un diverso episodio della colonizzazione di Marte, ed è narrata da una prospettiva diversa. I marziani hanno voci, punti di vista, abitudini, tradizioni, città e sentimenti; alcuni di loro sono amichevoli, altri no. Il paesaggio è molto interessante: pur nella sua scarsa verosimiglianza, anzi forse proprio per questa, conferisce a tutte le vicende un’atmosfera sognante, estranea e familiare insieme, su cui molto giocano come vedremo anche gli aspetti sonori. Le Cronache si aprono col brevissimo racconto intitolato “January 1999: Rocket Summer”, il cui incipit ci porta subito in medias res: One minute it was Ohio winter, with doors closed, windows locked, the panes blind with frost, icicles fringing every roof, children skiing on slopes, housewives lumbering like great black bears in their furs along the icy streets. And then a long wave of warmth crossed the small town. A flooding sea of hot air; it seemed as if someone had left a bakery door open. The heat pulsed among the cottages and bushes and children. The icicles dropped, shattering, to melt. The doors flew open. The windows flew up. The children worked off their wool clothes. The housewives shed their bear disguises. The snow dissolved and showed last summer’s ancient green lawns. (p. 1)
Siamo ancora sulla Terra, quindi; ancora non si parla di Marte. Più precisamente, siamo negli Stati Uniti; ancor più precisamente, in Ohio. È inverno, fa freddo, ci sono i ghiaccioli sui cornicioni delle case, poi d’un tratto arriva un’ondata di calore tale da sciogliere la neve. L’ambientazione è domestica, intima: ci sono bambini, casalinghe affaccendate, e la similitudine utilizzata (la bakery door open) rimanda a un immaginario popolare condiviso che dà anche il calore extra delle cose buone (il pane). Così è descritto l’arrivo del razzo su un prato dell’Ohio: attraverso un repentino cambio di temperatura. Poi la storia s’interrompe. Il secondo racconto, “February 1999: Ylla” si svolge a distanza di un mese, ma non in Ohio: qui siamo già su Marte. Troviamo qui forse l’unica opportunità di osservare (e udire) la vita marziana quotidiana. La casa dei protagonisti, situata sulle rive di un mare vuoto e fossile, è fatta di cristallo e gira seguendo il movimento del sole; gli elettrodomestici sono in realtà strumenti del tutto naturali (per pulire la casa, per esempio, c’è una polvere che si getta sui mobili: poi, soffiandoci sopra, si disperde portando via con sé lo sporco) e formano un tutt’uno con l’edificio, un vero e proprio organismo che vibra e respira. In questo racconto si conferma una cifra stilistica di Bradbury già incontrata
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in “Rocket Summer”, ovvero l’amore per le similitudini e le metafore. Una di queste è legata al sistema di condizionamento, che consiste in una sorta di piacevole vaporizzazione: “On hot days it was like walking in a creek” (p. 2). Come possiamo vedere, questa analogia ribalta la prospettiva della similitudine vista poco sopra: mentre nel primo racconto il gelo del paesaggio si scioglie nella metafora familiare del forno, qui il calore della casa lascia spazio alla fresca sensazione di camminare all’aperto, nell’acqua fresca di un ruscello. È un procedimento tipico di Bradbury, il quale, mediante tale tattica, se da un lato crea straniamento dall’altro riporta sempre un equilibrio. La vicenda riguarda una coppia, Ylla e Yll K. Stanno vivendo momenti difficili: la loro unione è in crisi, anche perché essendo telepatici sanno dell’imminente arrivo dei terrestri (un altro riferimento ai nativi americani, i cui sciamani previdero l’arrivo dell’uomo bianco nei loro sogni e visioni). In particolare, Ylla ha incontrato nelle sue visioni telepatiche il capitano terrestre Nathaniel York, un uomo più alto dei marziani (il marito commenta: “a misshapen giant”, p. 3) e dagli incredibili occhi azzurri, pelle bianca e capelli neri (“the most unlikely color” per un marziano, Ibidem), e sogna che lui la porterà con sé. Ma il marito, sospettoso e irascibile, le impedirà di fuggire, imbraccerà un’arma (un bizzarro fucile che funziona ad api) e si sbarazzerà così dei primi terrestri sbarcati su Marte. È interessante notare che il marito, Mr K., incarna la tipica diffidenza per lo straniero, di cui lui critica tutto, dal colore degli occhi e dei capelli all’altezza, dal fatto che possa arrivare dal cielo (“what nonsense”, Ibidem) al suo “stupid name” (p. 4); tuttavia, la sua gelosia esplode nel momento in cui sente la moglie parlare e cantare nel sonno, usando parole che appartengono evidentemente alla lingua sconosciuta dei terrestri: “You should have heard yourself, fawning on him, talking to him, singing with him, oh gods, all night; you should have heard yourself!” (pp. 8-9). E quando il terrestre viene ucciso (cosa che Ylla apprende sentendo da lontano lo sparo), lei non ricorda più la canzone: il primo incontro fra un marziano (in questo caso una marziana) e un terrestre si conclude così, con una simbolica e struggente amnesia sonora. È interessante osservare che è un racconto in gran parte costruito attorno al paesaggio sonoro: all’inizio sentiamo infatti una musica che esce da una scatola metallica su cui sono incisi geroglifici, mentre un certo Mr K. sta leggendo secondo quelle che impareremo essere le modalità marziane: “he brushed his hand, as one might play a harp. And from the book, as his fingers stroke, a soft ancient voice, which told tales” (p. 2). È sorprendente che Bradbury, nel 1950, abbia immaginato una variante del fonografo che è qualcosa di molto simile a un e-book, o a un tablet, ante-litteram. Ma è altrettanto interessante sottolineare che Bradbury sceglie di iniziare le sue Martian Chronicles con un soundscape e
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non con un semplice landscape. Lasciando da parte ogni considerazione scientifica riguardante la trasmissione dei suoni nell’atmosfera di Marte, diremo che nel contesto dell’opera bradburiana il paesaggio sonoro che viene a delinearsi è quello che Schafer chiamerebbe “hi-fi soundscape” poiché, a causa dell’ambiente privo di inquinamento acustico, i suoni e i rumori possono essere percepiti con chiarezza (1994: 43). Gradualmente, alla musica proveniente dal libro si aggiungono altri elementi sonori: “Mrs K stood between the pillars, listening to the desert sands heat” (p. 2); “In the distance she heard her husband playing his book” (p. 3). Poi, in successione: a. Suoni d’acqua, del vento, eco: sono alcuni dei tipici “keynote sounds” (Ibidem: 9) creati dalla geografia di un paesaggio. b. Canzoni, voci, passi: fanno parte delle cosiddette “biofonie”, ovvero suoni prodotti dagli esseri viventi. c. Il ronzio di un’arma (che viene confrontato a quello di un insetto), un orologio vocale (voice-clock) (che ripete “time, time, time, time”, p. 11), e due spari: tutti i suoni b) e c) appartengono alla categoria dei “soundmarks” ovvero suoni tipici di una comunità o società (Schafer 1994: 10). L’orologio in particolare è un elemento importante del paesaggio sonoro in quanto misura il passare del tempo in modo sonoro, ma non con un normale ticchettio, bensì con una biofonia (la voce). Questo è un caso particolarmente significativo dei cosiddetti “Sounds of Time” (Ibidem: 55). Inoltre, mentre i suoni a) e b) hanno una caratterizzazione neutra o positiva, i suoni c. hanno una sfumatura negativa in quanto sono associati con la guerra e con la fretta. Sebbene l’insetto fornisca un anello di collegamento col mondo della natura, e l’orologio parlante sia dolce come “water tapping on velvet” (p. 11), i due spari pongono drammaticamente termine sia alla storia, sia a una vita umana. Il racconto, infatti, iniziato con un libro che canta, si conclude con una sparatoria: due suoni opposti, in quanto il primo rappresenta l’armonia e la felicità, e ricorda quasi una ninna-nanna, mentre l’altro è appunto associato alla morte. L’arrivo degli umani su Marte non può che portare disgrazia a entrambi. È significativo, dunque, che Bradbury scelga di dirci tutto questo attraverso il suono. A questo punto possiamo dare anche la giusta interpretazione del fatto che il senso di apprensione di Ylla riguardo al primo razzo terrestre in arrivo su Marte sia paragonato a un “thunderstorm”. Bradbury traccia un parallelo con la tradizione orale omerica e con la mitologia greca (Eller e Touponce 2004), ma viene da pensare anche al significato del tuono nella letteratura americana delle origini. Una poesia come “Verses upon the Burning of Our House” di Anne Bradstreet
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(1666)10 o un trattato come il citato The Voice of God in the Thunder di Cotton Mather (1703)11 ci rivelano che il rumore del tuono – in un’epoca fortemente intrisa di religiosità, e che ancora non conosceva l’elettricità e i motori – era un evento veramente pauroso, spiegabile solo con l’esistenza di un potere superiore (Mather parla di “mighty sound” e di “explosion”, mentre in Bradstreet il rumore dell’incendio evoca quello del tuono legandosi ad aggettivi come fearful e dreadful). Il passato si ricollega così al presente e al futuro, creando una continuità a livello di immaginario visivo e sonoro al di là dei ben diversi contesti storico-culturali. Nel terzo racconto, che si intitola “August 1999: The Summer Night”, ritroviamo “a serene music” which “flow[s] up like blossom scent on the still air” (p. 14). È una “strange song” (p. 15) cantata da adulti e bambini, le cui parole gli stessi marziani non comprendono; proviene chiaramente da un altro mondo o dimensione. Poiché questi esseri, come si è già detto, sono telepatici, possiamo immaginare che stiano ricevendo segnali dagli umani in procinto di atterrare su Marte. Anche in questo caso Bradbury sceglie una forma di telepatia sonora piuttosto che per immagini. Nel racconto successivo, “August 1999: The Earth Men”, i terrestri sono sbarcati su Marte, ma non vengono riconosciuti come tali. In primo luogo, gli abitanti non si chiamano marziani, né il loro pianeta si chiama Marte, bensì Tyrr; in secondo luogo, non considerano gli umani reali e credono che si tratti di “sensual hallucination” e “auditory fantasy” (p. 29). Questo l’incipit, uno dei brani più esilaranti e al contempo significativi delle Martian Chronicles: Whoever was knocking at the door didn’t want to stop. Mrs. Ttt threw the door open. “Well?” “You speak English!” The man standing there was astounded. “I speak what I speak,” she said. “It’s wonderful English!” The man was in uniform. There were three men with him, in a great hurry, all smiling, all dirty. “What do you want?” demanded Mrs. Ttt. “You are a Martian!” The man smiled. “The word is not familiar to you, certainly. It’s an Earth expression.” He nodded at his men. “We are from Earth. I’m Captain Williams. We’ve landed on Mars within the hour. Here we are, the Second Expedition! There was a First Expedition, but we don’t know what happened to it. But here we are, anyway. And you are the first Martian we’ve met!” “Martian?” Her eyebrows went up. “What I mean to say is, you live on the fourth planet from the sun. Correct?” “Elementary,” she snapped, eyeing them. “And we” – he pressed his chubby pink hand to his chest – “we are from Earth. Right, men?” “Right, sir!” A chorus. 10 Testo integrale in: (26(04/2015). 11 Testo integrale in: (26/04/2015).
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“This is the planet Tyrr,” she said, “if you want to use the proper name.” “Tyrr, Tyrr.” The captain laughed exhaustedly. “What a fine name! But, my good woman, how is it you speak such perfect English?” “I’m not speaking, I’m thinking,” she said. “Telepathy! Good day!” And she slammed the door. A moment later there was that dreadful man knocking again. She whipped the door open. “What now?” she wondered. The man was still there, trying to smile, looking bewildered. He put out his hands. “I don’t think you understand –” “What?” she snapped. “The man gazed at her in surprise. “We’re from Earth! ” “I haven’t time,” she said. “I’ve a lot of cooking today and there’s cleaning and sewing and all. You evidently wish to see Mr. Ttt; he’s upstairs in his study.” (pp. 16-17)
I terrestri sono esterrefatti per il mancato stupore dei marziani, per la loro totale indifferenza. Mentre si aspettavano un comitato di accoglienza, ricevono solo una porta in faccia. Del resto, essi non mostrano alcun rispetto per il nome del pianeta, e la marziana – la cui superiorità intellettuale è sancita, oltre che dalla telepatia, dal suo uso (involontario?) dell’espressione tipicamente associata a Sherlock Holmes, elementary – non ha tutti i torti a considerarli “dreadful”. Dopo tre tentativi falliti di vedere il padrone di casa, la moglie li indirizza alla casa di un altro personaggio, che li accoglie con maggiore cortesia ma con il medesimo disinteresse circa la loro provenienza: “Now,” lectured Mr. Aaa, “do you think it fair of Mr. Ttt to be so ill-mannered?” The four men gazed up through the heat. The captain said, “We’re from Earth!” “I think it very ungentlemanly of him,” brooded Mr. Aaa. “A rocket ship. We came in it. Over there!” “Not the first time Ttt’s been unreasonable, you know.” “All the way from Earth.” “Why, for half a mind, I’d call him up and tell him off.” “Just the four of us; myself and these three men, my crew.” “I’ll call him up, yes, that’s what I’ll do!” “Earth. Rocket. Men. Trip. Space. […] Mr. Aaa, I’d like to tell you. We came sixty million miles.” Mr. Aaa regarded the captain for the first time. “Where’d you say you were from?” The captain flashed a white smile. Aside to his men he whispered, “Now we’re getting someplace!” To Mr. Aaa he called, “We traveled sixty million miles. From Earth!” Mr. Aaa yawned. “That’s only fifty million miles this time of year.” (pp. 19-20)
Presi dallo sconforto, gli americani pensano che forse dovrebbero ripartire e riatterrare, in modo da dare ai marziani il tempo di preparare loro una festa di benvenuto. Ma poi incontrano una bambina che li indirizza a un terzo personaggio,
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il quale li informa che devono firmare dei moduli: “Well, I haven’t the forms with me here, I don’t think.” He rummaged through the desk drawers. “Now, where did I put the forms?” He mused. “Somewhere. Somewhere. Oh, here we are! Now!” He handed the papers over crisply. “You’ll have to sign these papers, of course.” (p. 22)
Subito dopo vengono condotti lungo un corridoio. Aprendo la porta si ritrovano nel bel mezzo di una festa, e finalmente l’incredulità e la frustrazione cedono il posto alla soddisfazione. Ma qualcosa non va. Alcuni dei partecipanti dicono infatti di venire chi da Saturno, chi da Giove, alcuni addirittura dalla Terra stessa, da un luogo chiamato Tuiereol. La comicità della scena iniziale si fa sempre più surreale: “[…] Where on Earth is this Tuiereol? Is it near America?” “What is America?” “You never heard of America! You say you’re from Earth and yet you don’t know!” Mr. Uuu drew himself up angrily. “Earth is a place of seas and nothing but seas. There is no land. I am from Earth, and know.” (p. 25)
In breve gli umani capiscono di essere stati rinchiusi in una specie di manicomio12. Il prossimo incontro sarà infatti con uno psicologo, che ritiene il capitano “insane” e i suoi compagni “secondary hallucinations” (pp. 26-27). Per convincerlo, i terrestri lo conducono nel punto dove è atterrata la loro astronave: lo psicologo vi entra, vi rimane a lungo, e una volta uscito esclama: “This is the most incredible example of sensual hallucination and hypnotic suggestion I’ve ever encountered. I went through your ‘rocket,’ as you call it.” He tapped the hull. “I hear it. Auditory fantasy.” He drew a breath. “I smell it. Olfactory hallucination, induced by sensual telepathy.” He kissed the ship. “I taste it. Labial fantasy!” He shook the captain’s hand. “May I congratulate you? You are a psychotic genius!” (p. 29)
Convinto che l’unico modo per salvare il povero malato di mente sia ucciderlo, lo psicologo spara al capitano e poi in successione a quelle che crede siano allucinazioni. Quando però vede che i corpi restano lì, immobili, e non spariscono, compie l’ultimo gesto possibile – non per vergogna o senso di colpa, ma per “curare” anche se stesso dalla visione: si spara, uccidendosi. Il brevissimo racconto intitolato “March 2000: The Taxpayer” ci introduce 12 C’è qui un’evidente somiglianza con il colpo di scena che troviamo in un racconto di Poe, “The System of Doctor Tarr and Professor Fether” (1845), in: (29/04/2015).
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una serie di temi che sono centrali non solo nelle Chronicles, ma nell’intera poetica bradburiana. Sono passati molti mesi dal fallimento dell’ultima spedizione su Marte e qui siamo di nuovo negli USA, precisamente in Ohio. Dopo il grandangolare su Marte, abbiamo un deep focus su un normale cittadino, “uno che paga le tasse”, che vuole andare su Marte. Già questo cambio di prospettiva è interessante, perché sposta l’oggetto dello sguardo su un individuo: non un equipaggio, non una famiglia, ma un singolo individuo nella democratica America. Il discorso si fa ancora più intrigante quando l’uomo – qui Bradbury utilizza uno splendido discorso indiretto libero – espone le ragioni per cui vuole andare su Marte: la guerra nucleare è imminente, e nessun essere umano dotato di buon senso vorrebbe restare sulla Terra. Il cittadino americano D.O.C. che reclama una via di fuga, che chiede di diventare lui l’emigrante, il fuggitivo, “l’alieno” su un altro pianeta, da un lato incorpora le ansie legittime della popolazione negli anni ’50, la quale, in piena Guerra Fredda e nel mezzo di una sperimentazione atomica che veniva condotta anche sul suolo nazionale, non doveva certo dormire sonni tranquilli; dall’altro rappresenta l’ultimo stadio del New Adam americano, l’ultimo erede di quell’Homo Novus che aveva conquistato il Nuovo Mondo e che ora, in base alle stesse ragioni (il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità) lo rinnega: He wanted to go to Mars on the rocket. He went down to the rocket field in the early morning and yelled in through the wire fence at the men in uniform that he wanted to go to Mars. He told them he was a taxpayer, his name was Pritchard, and he had a right to go to Mars. Wasn’t he born right here in Ohio? Wasn’t he a good citizen? Then why couldn’t he go to Mars? He shook his fists at them and told them that he wanted to get away from Earth; anybody with any sense wanted to get away from Earth. There was going to be a big atomic war on Earth in about two years, and he didn’t want to be here when it happened. He and thousands of others like him, if they had any sense, would go to Mars. See if they wouldn’t! To get away from wars and censorship and statism and conscription and government control of this and that, of art and science! You could have Earth! He was offering his good right hand, his heart, his head, for the opportunity to go to Mars! What did you have to do, what did you have to sign, whom did you have to know, to get on the rocket? (p. 31)
Ma l’uomo non viene ascoltato: a nulla vale il suo appello alla ragione, nessuno accoglie il suo desiderio di sfuggire alla censura e al controllo del governo sull’arte e sulla scienza; e anche la sua citazione biblica – a land of milk and honey, – che dovrebbe toccare le corde di chiunque abbia vissuto il Sogno Americano, cade nel vuoto. Alla fine verrà portato via in un cellulare della polizia, anche lui preso per pazzo, ironicamente, come è accaduto ai suoi connazionali su Marte:
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They laughed out through the wire screen at him. He didn’t want to go to Mars, they said. Didn’t he know that the First and Second Expeditions had failed, had vanished; the men were probably dead? But they couldn’t prove it, they didn’t know for sure, he said, clinging to the wire fence. Maybe it was a land of milk and honey up there, and Captain York and Captain Williams had just never bothered to come back. (Ibidem)
Ciononostante, il mese successivo ecco una nuova spedizione inviata su Marte. “April 2000: The Third Expedition” (che abbiamo già incontrato col titolo “Mars in Heaven!”) narra l’arrivo sul pianeta di un equipaggio di sedici uomini (uno è morto durante il viaggio). Con enorme sorpresa, questo è quanto trovano: The rocket landed on a lawn of green grass. Outside, upon this lawn, stood an iron deer. Further up on the green stood a tall brown Victorian house, quiet in the sunlight, all covered with scrolls and rococo, its windows made of blue and pink and yellow and green colored glass. Upon the porch were hairy geraniums and an old swing which was hooked into the porch ceiling and which now swung back and forth, back and forth, in a little breeze. At the summit of the house was a cupola with diamond leaded-glass windows and a dunce-cap roof! Through the front window you could see a piece of music titled “Beautiful Ohio” sitting on the music rest. Around the rocket in four directions spread the little town, green and motionless in the Martian spring. There were white houses and red brick ones, and tall elm trees blowing in the wind, and tall maples and horse chestnuts. And church steeples with golden bells silent in them. The rocket men looked out and saw this. Then they looked at one another and then they looked out again. They held to each other’s elbows, suddenly unable to breathe, it seemed. Their faces grew pale. “I’ll be damned,” whispered Lustig, rubbing his face with his numb fingers. “I’ll be damned.” […] “It’s a small town with thin but breathable air in it, sir.” “And it’s a small town the like of Earth towns,” said Hinkston, the archaeologist. “Incredible. It can’t be, but it is.” (pp. 32-33)
Stupiti, gli uomini si chiedono se sia possibile che “a Martian composer would have published a piece of music titled, strangely enough, ‘Beautiful Ohio’? All of which means that we have an Ohio River on Mars!” (pp. 33-34) e la prima risposta che si danno è che i due ultimi membri della spedizione scomparsi siano in realtà vivi e vegeti sul pianeta. Ma poi si rendono conto che sono atterrati sull’altro emisfero del pianeta e la stranezza della cosa fa esclamare a uno di loro: “It may be, sir, that we’re looking upon a phenomenon that, for the first time, would absolutely prove the existence of God, sir” (p. 34).
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I membri dell’equipaggio si lasciano facilmente sedurre dalle sembianze familiari della cittadina: “[…] It’s a good, quiet green town, a lot like the old-fashioned one I was born in. I like the looks of it.” “When were you born, Lustig?” “Nineteen-fifty, sir.” “And you, Hinkston?”
“Nineteen fifty-five, sir. Grinnell, Iowa. And this looks like home to me.” (p. 35)
L’unico a continuare a essere sospettoso è il capitano; gli altri si fabbricano un’ipotesi secondo la quale qualcuno deve essere arrivato segretamente su Marte prima ancora della prima Guerra Mondiale; qualcuno addirittura potrebbe essere arrivato nei secoli precedenti. Tra le ragioni della persuasione collettiva c’è l’ascolto di musiche note suonate al piano, e la melodia proveniente da un grammofono: di nuovo l’elemento sonoro è, se non prevalente, fondamentale nel creare l’atmosfera e il senso di contiguità spazio-temporale con gli USA. Il paesaggio di Marte viene percepito come un vero e proprio paesaggio cognitivo13, in quanto sistema complesso che contiene non solo elementi geografici e topografici ma che è caratterizzato anche a livello culturale, storico, affettivo, emotivo. Il processo di riconoscimento che tale paesaggio stimola nei terrestri è talmente sofisticato che essi non tengono minimamente conto della possibilità che tutto questo sia un’allucinazione o una trappola predisposta per catturarli. Il racconto ci dimostra la forza ambivalente della percezione umana nella costruzione del senso: da un lato abbiamo la realtà di ciò che ci circonda, dall’altro il significato simbolico che noi le attribuiamo. L’osservatore/ascoltatore funziona quindi come un’interfaccia tra la fenomenologia del paesaggio e la sua interpretazione: ed è su quest’ultima che emozioni come la nostalgia, e funzioni fisiologiche (ma anche culturali) come la memoria, si innestano con almeno altrettanta forza rispetto alle percezioni sensoriali, tanto da non lasciare alcuno spazio all’idea di una possibile discontinuità. Tant’è vero che, in seguito alle insistenze dei compagni, il capitano si lascia convincere a suonare il campanello di una casa, e viene salutato in inglese da una donna che darà loro la seconda sorpresa:
13 Utilizzo il termine nella definizione che ne dà Farina (2006), riferendomi in particolare alla visione del paesaggio come entità complessa percepita e interpretata a più livelli cognitivi dagli organismi, ovvero come entità di processo e non solo struttura geografica ed ecosistemica attraverso la quale gli esseri viventi utilizzano meccanismi di riconoscimento delle configurazioni, interpretazione dei segni e accumulo degli apprendimenti in una memoria non genetica.
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The house smelled old, and of the attic, and infinitely comfortable. You could hear the tinkle of ice in a lemonade pitcher. In a distant kitchen, because of the heat of the day, someone was preparing a cold lunch. Someone was humming under her breath, high and sweet. Captain John Black rang the bell. […] “This,” explained the woman, as if she were addressing a child, “is Green Bluff, Illinois, on the continent of America, surrounded by the Atlantic and Pacific oceans, on a place called the world, or, sometimes, the Earth. Go away now. Goodbye.” (pp. 37-38)
Increduli, gli uomini si chiedono se per caso non siano atterrati per sbaglio davvero sulla Terra, oppure se non abbiano viaggiato nel tempo14 anziché nello spazio. Finché giungono a una terza ipotesi: “That woman in that house back there just thinks she’s living on Earth. It protects her sanity. She and all the others in this town are the patients of the greatest experiment in migration and hypnosis you will ever lay eyes on in your life” (p. 39). Questa sembra un’ipotesi più accettabile, ed è rinsaldata da un’analogia: “like the Pilgrims, these people came here to escape Earth” (p. 40). I Pilgrims sono naturalmente i Padri Pellegrini che arrivarono sulle coste dell’Atlantico a bordo del Mayflower nel 1620, e che sfuggivano alla persecuzione religiosa. Nuovamente la storia americana sembra intrecciarsi con quella marziana, ma subito dopo ci attende un nuovo colpo di scena: un membro dell’equipaggio riconosce i suoi nonni, morti da trent’anni. Sono vivi, stanno bene, e invitano nella propria abitazione lui e i suoi compagni. Da questo momento in poi il racconto ricalca il modello dei romanzi ottocenteschi che abbiamo esaminato, in cui Marte raccoglie le anime dei defunti in attesa di essere reincarnate o come ultima sede di purificazione. Solo il capitano Black rimane diffidente; razionale fino all’ultimo, egli incarna lo spirito laico, agnostico, abituato a usare la logica e il ragionamento scientifico. Eppure tutto sembra contraddirlo, a partire dal dialogo seguente: “Is this Heaven?” asked Hinkston.
“Nonsense, no. It’s a world and we get a second chance. Nobody told us why. But then nobody told us why we were on Earth, either. That other Earth, I mean. The one you came from. How do we know there wasn’t another before that one?” (p. 41) 14 Il dibattito sulla possibilità di viaggiare nel Tempo è molto vivace all’epoca in cui escono le Chronicles. Iniziato con la formulazione della teoria della relatività ristretta di Einstein nel 1905, è in corso ancor oggi negli ambienti della fisica quantistica e della matematica, nonostante i dubbi espressi anche recentemente da Stephen Hawking. Troveremo un vero e proprio incontro fra due viaggiatori nel Tempo in un racconto successivo delle stesse Chronicles: Bradbury coglie l’aspetto più suggestivo e le implicazioni esistenziali-relazionali del problema, senza entrare nello specifico del discorso scientifico.
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Gli uomini sono presi da una tale euforia che abbandonano l’astronave per ricongiungersi chi con i genitori, chi con vecchi amici e parenti. Il capitano Black è adirato perché non hanno obbedito agli ordini, ma quando gli va incontro suo fratello, che lo conduce dai genitori, anche lui sembra finalmente lasciarsi convincere: “He ran up the steps like a child to meet them” (p. 44). Cenano insieme, ballano insieme, e alla fine si persuade a riposarsi per la notte prima di tornare sulla Terra, come è sua intenzione. Quando è sdraiato, però, inizia a ripensare a tutta la giornata, agli eventi e all’emozione che ha provato; e il pensiero lucido torna ad avere gradualmente il sopravvento: He lay peacefully, letting his thoughts float. For the first time the stress of the day was moved aside; he could think logically now. It had all been emotion. The bands playing, the familiar faces. But now... How? he wondered. How was all this made? And why? For what purpose? Out of the goodness of some divine intervention? Was God, then, really that thoughtful of his children? How and why and what for? […] Mom. Dad. Edward. Mars. Earth. Mars. Martians. Who had lived here a thousand years ago on Mars? Martians? Or had this always been the way it was today? Martians. He repeated the word idly, inwardly. He laughed out loud almost. He had the most ridiculous theory quite suddenly. It gave him a kind of chill. It was really nothing to consider, of course. Highly improbable. Silly. Forget it. Ridiculous. But, he thought, just suppose... Just suppose, now, that there were Martians living on Mars and they saw our ship coming and saw us inside our ship and hated us. Suppose, now, just for the hell of it, that they wanted to destroy us, as invaders, as unwanted ones, and they wanted to do it in a very clever way, so that we would be taken off guard. Well, what would the best weapon be that a Martian could use against Earth Men with atomic weapons? The answer was interesting. Telepathy, hypnosis, memory, and imagination. Suppose all of these houses aren’t real at all, this bed not real, but only figments of my own imagination, given substance by telepathy and hypnosis through the Martians […] And this town, so old, from the year 1926, long before any of my men were born. From a year when I was six years old and there were records of Harry Lauder, and Maxfield Parrish paintings still hanging, and bead curtains, and “Beautiful Ohio,” and turn-of-the-century architecture. What if the Martians took the memories of a town exclusively from my mind? […] And suppose those two people in the next room, asleep, are not my mother and father at all, but two Martians, incredibly brilliant, with the ability to keep me under this dreaming hypnosis all of the time […]. (pp. 45-47)
Tramite questo lungo ragionamento, e ricorrendo al discorso indiretto libero prima e a un cambio di persona (dalla terza alla prima singolare) poi, il narratore porta il lettore a comprendere la gravità della situazione molto prima di tutti gli
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altri personaggi, e a sentirsi drammaticamente solidale con Black. Come si può prevedere, però, è troppo tardi. Il capitano cerca di fuggire, con la scusa di avere sete, ma non riesce nemmeno a raggiungere la porta. Faranno tutti la stessa fine: massacrati su Marte da una popolazione ostile, telepatica e ben organizzata. Il racconto successivo, “June 2001: And the Moon be Still as Bright”, chiude la prima sezione. Il titolo riprende un verso della poesia “So we’ll go no more a-roving” del poeta romantico inglese George Gordon (Lord) Byron (1817), che riflette sull’inevitabilità della morte15. Mentre i membri della quarta spedizione sul pianeta camminano tra le rovine di una città marziana, Jeff Spender, il protagonista del racconto, recita alcuni versi della poesia: “He thinks it could have been written as well by the last Martian poet to express his feelings” (Eller e Touponce 2004: 147). Questo racconto introduce anche gli unici personaggi che ritorneranno in altri punti della raccolta: il capitano Wilder, il geologo Hathaway e Sam Parkhill. È però Spender il primo dei terrestri a mostrare sensibilità, immaginazione e rispetto per la cultura indigena. Tuttavia, scoprono presto che i marziani sono ormai estinti a causa della varicella: un’altra analogia con lo sterminio degli indios e dei nativi americani, in parte provocato dalle malattie portate dagli europei. È interessante anche notare che il virus, l’arma batteriologica usata (inconsapevolmente) dall’uomo contro gli alieni fin da The War of the Worlds di Wells, colpisce qui gli abitanti di un altro pianeta sul loro stesso pianeta, non un esercito invasore sulla Terra. Dietro Spender occhieggia Bradbury (“Spender is the author’s mask”, scrivono Eller e Touponce 2004: 144), il quale dimostra in questo caso di essere, se così si può dire, filo-marziano. Spender ammira dei marziani anche la saggezza di fronte al proprio destino, l’accettazione della morte come parte della vita; essi hanno raggiunto “a wisdom based on eutopic harmonies between man and nature, between religion and science” (Aldridge 1984: 76). Così come Spender è rispettoso e gentile, allo stesso modo Biggs rappresenta lo stereotipo del conquistatore: manda in frantumi bottiglie di vino come a battezzare il canale alieno e vomita sul pavimento del tempio sacro marziano. Egli è il tipico rappresentante dell’umanità degradata che, pur possedendo una tecnologia avanzata, ha perduto il contatto con la natura, il senso civico e il rispetto di sé come essere vivente, e non sa più vivere in armonia con l’ambiente. Un terzo personaggio importante è Cheroke, il quale si ricollega fin dal nome ai nativi americani: quando gli viene chiesto come si sentirebbe se fosse un marziano, risponde: “I know exactly how I’d feel… I’ve got some Cherokee blood on me. My grandfather told me lots of things about Oklahoma Territory. If there’s a Martian around, I’m all with him!” (p. 59). Per questa ragione Spender, che a un 15 Testo della poesia in: (26/04/2015).
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certo punto diventa una sorta di vendicatore solitario (viene chiamato The Lonely One, come in un Western) e inizia a uccidere i suoi stessi compagni proclamando di essere un marziano, offre a Cheroke la possibilità di unirsi a lui. In seguito al suo rifiuto, anche lui verrà ucciso: è il sesto. A questo punto, Spender sa di essere destinato a morire: il capitano e gli altri iniziano infatti una caccia all’uomo che si concluderà con la sua uccisione. Prima, però, lui e il capitano fanno una lunga chiacchierata in cui Spender spiega all’altro che ha iniziato a sentirsi “marziano” perché guardando le città marziane ha immaginato che i loro abitanti dovevano essere creature buone e pacifiche, amanti dell’arte, e capaci – diversamente dagli umani – di coniugare scienza e religione; di conseguenza, ha deciso di uccidere i suoi stessi compagni per il modo in cui si comportavano. Per spiegarsi meglio, Spender ricorre a una metafora che ci riporta alla realtà americana e in particolare ai pregiudizi anti-messicani, citando subito dopo uno dei maggiori simboli nazionali, la Casa Bianca: When I was a kid my folks took me to visit Mexico City. I’ll always remember the way my father acted – loud and big. And my mother didn’t like the people because they were dark and didn’t wash enough. And my sister wouldn’t talk to most of them. I was the only one who really liked it. And I can see my mother and father coming to Mars and acting the same way here. Anything that’s strange is no good to the average American. If it doesn’t have Chicago plumbing, it’s nonsense. The thought of that! Oh God, the thought of that! And then – the war. You heard the congressional speeches before we left. If things work out they hope to establish three atomic research and atom bomb depots on Mars. That means Mars is finished; all this wonderful stuff gone. How would you feel if a Martian vomited stale liquor on the White House floor? (p. 65)
Nonostante la sintonia che viene temporaneamente a crearsi fra i due (Spender si fa anche promettere che, se sarà lui a morire, il capitano farà il possibile perché prima di distruggere il pianeta si lascino lavorare gli archeologi), Spender verrà ucciso e sepolto su Marte; ma il capitano erediterà per così dire il suo modo di pensare, tanto da sferrare un pugno a un membro dell’equipaggio per aver rotto un vetro mancando così di rispetto al luogo. Anche in questo racconto la componente sonora è fondamentale e forma una sorta di filo conduttore che si snoda fra le righe, dalla prima all’ultima pagina. Uno dei suoni più frequenti è quello geofonico del vento (che spesso è il solo rumore che si sente nel silenzio assoluto), mentre forse il più evocativo è quello antropofonico (cioè tecnofonico) prodotto da uno strumento musicale, un’armonica, che si ricollega però a una biofonia in quanto “gives a sound like a dying animal” (p. 56). Anche in questo caso il paesaggio sonoro si configura come un sistema complesso che sottolinea non solo la vicenda, ma anche il paesaggio in-
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teriore, quello dei sentimenti, fornendo indicazioni e suggestioni di tipo esistenziale e commentando per così dire i riti di passaggio fra la vita e la morte. La seconda sezione, come abbiamo anticipato, è dedicata alla colonizzazione, di cui ogni racconto illustra una fase e un aspetto diverso. Molti personaggi americani proiettano sulla Frontiera marziana i propri sogni e le proprie illusioni, mescolati alla nostalgia per il pianeta natale. In un modo o nell’altro, tutti loro cercano di trasformare ciò che è “alieno” in qualcosa di riconoscibile e familiare. Questo consente a Bradbury di delineare un quadro sfaccettato che mostra i tanti aspetti dell’America dei suoi giorni, focalizzandosi in alcuni casi (in particolare in “Night Meeting e “Usher II”) sulla diffidenza e l’ostilità per il diverso. Il primo racconto, brevissimo, è intitolato “August 2001: The Settlers”. Questo l’incipit: The men of Earth came to Mars. They came because they were afraid or unafraid, because they were happy or unhappy, because they felt like Pilgrims or did not feel like Pilgrims. There was a reason for each man. They were leaving bad wives or bad jobs or bad towns; they were coming to find something or leave something or get something, to dig up something or bury something or leave something alone. They were coming with small dreams or large dreams or none at all. But a government finger pointed from four-color posters in many towns: THERE’S WORK FOR YOU IN THE SKY: SEE MARS! (p. 73)
Il racconto apre la storia della venuta dei terrestri su Marte. Dopo varie spedizioni e vari fallimenti, ecco che arrivano gli uomini “veri”, cioè non equipaggi di astronauti, bensì persone normali: coloni, emigranti, pellegrini (di nuovo l’analogia coi Pilgrims), ognuno con le sue buone ragioni, col suo sogno, col suo progetto. L’individualismo maschilista della Frontiera (“There was a reason for each man”) rivive nel Martian Dream rappresentato dallo slogan che richiama l’attenzione degli americani in cerca di un lavoro. Ma la nostalgia è alle porte – è un nuovo disagio, anzi una vera e propria sindrome chiamata The Loneliness, che nasce “when the state of Illinois, Iowa, Missouri, or Montana vanished into cloud seas, and, doubly, when the United States shrank to a misted island and the entire planet Earth became a muddy baseball tossed away, then you were alone, wandering in the meadows of space, on your way to a place you couldn’t imagine” (Ibidem). Nel racconto successivo, “December 2001: The Green Morning”, i terrestri non sono più “The Lonely Ones” del racconto precedente, pellegrini dello spazio in viaggio verso un Nuovo Mondo sconosciuto e misterioso. Fin dall’incipit il protagonista, Benjamin Driscoll, è già su Marte e non sogna, bensì progetta, di vederlo ricoperto di vegetazione. La sua rêverie costruisce, come di consueto in Bradbury, anche un suggestivo paesaggio sonoro:
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[…] he crouched by the path and cooked a small supper and listened to the fire crack […] The thing that he wanted was Mars grown green and tall with trees and foliage […] the trees would distill an icy air for the lungs, and a gentle rustling for the ear when you lay night in your snowy bed and were gentled to sleep by the sound. He lay listening to the dark earth gather itself, waiting for the sun, for the rains that hadn’t come yet. His ear to the ground, he could hear the feet of the years ahead moving at a distance, and he imagined the seeds he had placed today sprouting up with green and taking hold on the sky, pushing out branch after branch, until Mars was an afternoon forest, Mars was a shining orchard. (pp. 73-74)
Questo brano è molto interessante perché riflette una chiara utopia (coloniale) di terraformazione pur affondando le sue radici in un romanticismo (ecologico) che risuona con l’immagine dei nativi americani “ear to the ground”. Prosegue poi con la citazione di una nota leggenda del folklore americano, quella di Johnny Appleseed: “That’s what I’m here for,” he said. The fire popped. “In school they told a story about Johnny Appleseed walking across America planting apple trees. Well, I’m doing more. I’m planting oaks, elms, and maples, every kind of tree, aspens and deodars and chestnuts. Instead of making just fruit for the stomach, I’m making air for the lungs. When those trees grow up some year, think of the oxygen they’ll make!” (pp. 74-75)
Johnny Appleseed, il cui vero nome era John Chapman (1774-1845), è un personaggio realmente vissuto: infermiere e missionario, è noto come il pioniere americano che introdusse la coltivazione di mele in vaste aree dell’Ohio, Illinois e Indiana. Il progetto del suo emulo su Marte consiste nel fare qualcosa di simile, non solo per sviluppare le coltivazioni, ma soprattutto allo scopo di aumentare la concentrazione di ossigeno nell’aria mediante la sintesi clorofilliana. Per questo ha piantato una gran varietà di piante, e resta a lungo in attesa della pioggia. Quando questa finalmente inizia a cadere, egli si addormenta felice, e la mattina seguente ha una bellissima sorpresa: It was a green morning. As far as he could see the trees were standing up against the sky. Not one tree, not two, not a dozen, but the thousands he had planted in seed and sprout. And not little trees, no, not saplings, not little tender shoots, but great trees, huge trees, trees as tall as ten men, green and huge and round and full, trees shimmering their metallic leaves, trees whispering, trees in a line over hills, lemon trees, lime trees, redwoods and mimosas and oaks and elms and aspens, cherry, maple, ash, apple, orange, eucalyptus, stung by a tumultuous rain, nourished by alien and magical soil and, even as he watched, throwing out new branches, popping open new buds. (p. 77. Corsivi miei)
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Il potere della transplantation assume qui connotati quasi soprannaturali: il suolo marziano, magico e alieno al tempo stesso, diventa una sorta di nuova Alma Mater sul modello di quella descritta da Crèvecoeur nelle più volte citate Letters from an American Farmer16. Continuando l’analogia, come l’europeo che, arrivato e per così dire “trapiantato” nel Nuovo Mondo diventa americano, così l’americano ora può finalmente diventare marziano, se è vero che “Ubi panis ibi patria, is the motto of all emigrants”17. “February 2002: The Locusts” è un altro brevissimo racconto che funziona come raccordo fra la visione bucolica del racconto precedente e quelli successivi. Le locuste del titolo sono, naturalmente, gli umani che arrivano su Marte (ben determinati a cambiarne l’aspetto, renderlo familiare, dunque snaturarlo), portati da razzi il cui rumore ricorda quello dei tamburi. Di nuovo un suono, e di nuovo l’evocazione della cultura indigena americana (il rullare dei tamburi indicava un’imminente battaglia, oppure pericolo, e veniva udito da molto lontano): The rockets set the bony meadows afire, turned rock to lava, turned wood to charcoal, transmitted water to steam, made sand and silica into green glass which lay like shattered mirrors reflecting the invasion, all about. The rockets came like drums, beating in the night. The rockets came like locusts, swarming and settling in blooms of rosy smoke. And from the rockets ran men with hammers in their hands to beat the strange world into a shape that was familiar to the eye, to bludgeon away all the strangeness, their mouths fringed with nails so they resembled steel-toothed carnivores, spitting them into their swift hands as they hammered up frame cottages and scuttled over roofs with shingles to blot out the eerie stars, and fit green shades to pull against the night. (p. 78)
Successivamente arrivano le donne, altrettanto determinate a terraformare e americanizzare il pianeta con tegami e tessuti (il cliché è funzionale alla prosecuzione dell’analogia con la Frontiera americana), finché sul pianeta ci sono novantamila persone e altre stanno facendo i bagagli sulla Terra. “August 2002: Night Meeting” ha come protagonista un nuovo personaggio, Tomás Gomez, un vecchio che rappresenta un modo di pensare del tutto opposto all’omologazione descritta nel racconto precedente: We’ve got to forget Earth and how things were. We’ve got to look at what we’ve in here, and how different it is. I get a hell of a lot of fun out of just the weather here. It’s Martian weather. Hot as hell daytimes, cold as hell nights. I get a big kick out of the different flowers and different rain. I came to Mars to retire and I wanted to retire in a place where everything is different. An old man needs to have things different. […] If you can’t take Mars for what she is, you might as well go back to Earth. (p. 79) 16 J. Hector Saint John de Crèvecoeur, Letter III, in: (27/04/2015). 17 Ibidem.
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Gomez incarna un modo di vivere alternativo su Marte, non centrato sulla colonizzazione ma su un senso di comunione profonda. Ed è proprio lui che vive l’esperienza epifanica di un vero incontro con un vero marziano, preannunciato, come si potrebbe facilmente immaginare, da un suono: Perhaps five minutes later there was a sound. Off in the hills, where the ancient highway curved, there was a motion, a dim light, and then a murmur. Tomás turned slowly with the coffee cup in his hand. And out of the hills came a strange thing. It was a machine like a jade-green insect, a praying mantis, delicately rushing through the cold air, indistinct, countless green diamonds winking over its body, and red jewels that glittered with multifaceted eyes. Its six legs fell upon the ancient highway with the sounds of a sparse rain which dwindled away, and from the back of the machine a Martian with melted gold for eyes looked down at Tomás as if he were looking into a well. Tomás raised his hand and thought Hello! automatically but did not move his lips, for this was a Martian. But Tomás had swum in blue rivers on Earth, with strangers passing on the road, and eaten in strange houses with strange people, and his weapon had always been his smile. He did not carry a gun. And he did not feel the need of one now, even with the little fear that gathered about his heart at this moment. The Martian’s hands were empty too. For a moment they looked across the cool air at each other. It was Tomás who moved first. “Hello!” he called. “Hello!” called the Martian in his own language. They did not understand each other. “Did you say hello?” they both asked. “What did you say?” they said, each in a different tongue. They scowled. “Who are you?” said Tomás in English. “What are you doing here?” in Martian; the stranger’s lips moved. “Where are you going?” they said, and looked bewildered. “I’m Tomás Gomez.” “I’m Muhe Ca.” Neither understood, but they tapped their chests with the words and then it became clear. (p. 81)
Presto la barriera della lingua scompare e i due cominciano a capire di appartenere a due diversi livelli temporali: in uno le strade sono pulite, nell’altro impolverate; in uno i canali sono vuoti, nell’altro pieni di lavender wine; si accusano l’un l’altro di appartenere al passato, di essere fantasmi, di essere ciechi e sordi; finché si riconciliano nell’unica dimensione possibile, che è quella dell’accettazione dell’attimo fuggente del presente (per illusorio che sia) in cui essi riescono a comunicare fra loro e a condividere con l’Altro le proprie emozioni:
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“I felt the strangeness, the road, the light, and for a moment I felt as if I were the last man alive on this world.” “So did I.” (p. 85)
Se la Terra, la patria lontana dell’americano, si ridimensiona e diventa sempre più distante – “‘Earth, a name, nothing,’ said the Martian,” (Ibidem) – anche il concetto di Tempo si relativizza: “[…] You are a figment of the Past!” “No, you are from the Past,” said the Earth Man, having had time to think of it now. “You are so certain. How can you prove who is from the Past, who from the Future? What year is it?” “Two thousand and one!” “What does that mean to me?” Tomás considered and shrugged. “Nothing.” (Ibidem)
Poco importa se la decadenza e la morte toccheranno (o hanno già toccato) le loro rispettive culture: i due sconosciuti – “Two strangers passing in the night, that is; two strangers passing” – si stringono la mano prima di separarsi, pur senza riuscire a toccarsi: “Their hands did not touch; they melted through each other”, poiché ognuno dei due è incorporeo per l’altro (p. 86). E si sorridono, compiaciuti della loro reciproca complicità. L’ostilità per il diverso lascia qui il posto alla sua piena accettazione, che si tratti di un individuo in carne e ossa o di una proiezione fantasmatica. “October 2012: The Shore” è un altro brevissimo racconto che funge da passaggio: la prima parte ricalca le prime fasi della Frontiera americana, mentre la seconda sembra riferirsi piuttosto all’emigrazione successiva. I coyotes, i cattlemen, le prairies e le stesse waves, termine con cui sono state definite le varie “ondate” migratorie nei testi storici, creano un ponte con l’esperienza americana dei secoli precedenti, e l’accenno alle donne (che non sono le madri di famiglia che portano pentole e tappezzeria) le situa implicitamente nel contesto dei saloons: Mars was a distant shore, and the men spread upon it in waves. Each wave different, and each wave stronger. The first wave carried with it men accustomed to spaces and coldness and being alone, the coyote and cattlemen, with no fat on them, with faces the years had worn the flesh off, with eyes like nailheads, and hands like the material of old gloves, ready to touch anything. Mars could do nothing to them, for they were bred to plains and prairies as open as the Martian fields. They came and made things a little less empty, so that others would find courage to follow. They put panes in hollow windows and lights behind the panes. They were the first men. Everyone knew who the first women would be. (p. 87)
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Con la “seconda ondata” ci spostiamo dal West alla realtà delle grandi metropoli. Bradbury spiega qui il motivo per cui solo gli americani vanno su Marte: un motivo plausibile, visto che ben due guerre mondiali erano già scoppiate in Europa all’epoca in cui scriveva, ma soprattutto funzionale al suo obiettivo, che è quello di rappresentare in primo luogo la realtà americana: The second men should have traveled from other countries with other accents and other ideas. But the rockets were American and the men were American and it stayed that way, while Europe and Asia and South America and Australia and the islands watched the Roman candles leave them behind. The rest of the world was buried in war or the thoughts of war. So the second men were Americans also. And they came from the cabbage tenements and subways, and they found much rest and vacation […] after long years crushed in tubes, tins and boxes in New York. (Ibidem)
“February 2003: Interim” è talmente breve e significativo che vale la pena riportarlo per intero: They brought in fifteen thousand lumber feet of Oregon pine to build Tenth City, and seventy-nine thousand feet of California redwood and they hammered together a clean, neat little town by the edge of the stone canals. On Sunday nights you could see red, blue, and green stained-glass light in the churches and hear the voices singing the numbered hymns. “We will now sing 79. We will now sing 94.” And in certain houses you heard the hard clatter of a typewriter, the novelist at work; or the scratch of a pen, the poet at work; or no sound at all, the former beachcomber at work. It was as if, in many ways, a great earthquake had shaken loose the roots and cellars of an Iowa town, and then, in an instant, a whirlwind twister of Oz-like proportions had carried the entire town off to Mars to set it down without a bump…. (pp. 87-88)
Proseguono qui i riferimenti all’America e anzi troviamo citati alcuni stati (Oregon, California e Iowa) e uno dei più noti racconti della letteratura americana per bambini, The Wonderful Wizard of Oz di Frank Baum (1900). È come se, dopo tutto lo straniamento della prima sezione, ora che siamo effettivamente su Marte la distanza dalla Terra si sentisse paradossalmente in modo più acuto e persistente. I riferimenti ai luoghi, ai prodotti e fenomeni meteorologici tipici (il legname, l’uragano), agli edifici e ai testi di culto (le chiese, i salmi), e perfino agli oggetti legati alla scrittura (la macchina da scrivere, la penna) e alla letteratura (Il mago di Oz) evocano tutto ciò che ci si è lasciati alle spalle e al contempo ridisegnano il paesaggio di Marte su un modello esplicitamente americano. Il breve racconto seguente, “April 2003: The Musicians”, narra di una banda di ragazzini che di nascosto ai genitori vanno a giocare in una delle città-fantasma che i vigili del fuoco stanno ripulendo progressivamente. Il fascino del luogo
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proibito si mescola all’orrore di ossa che rivivono una seconda vita diventando silofoni e arpe fra le mani dei bambini che si improvvisano musicisti. La ghost town ricorda il Far West ma suggerisce anche la wasteland di uno scenario postatomico, unendo passato e presente in un estremo tentativo di aprire, su Marte, una nuova pagina nella storia dell’umanità di cui solo le nuove generazioni innocenti possono essere protagoniste. Segue un lunghissimo racconto intitolato “June 2003: Way in the Middle of the Air”, che mostra Marte da una nuova prospettiva: migliaia di coloni di colore, infatti, fuggono dalla Terra, dall’oppressione e dalla violazione continua dei principi democratici, e Marte diventa il simbolo del loro riscatto. Questo l’incipit: “Did you hear about it?” “About what?” “The niggers, the niggers!” “What about ‘em?” “Them leaving, pulling out, going away; did you hear?” “What you mean, pulling out? How can they do that?” “They can, they will, they are.” “Just a couple?” “Every single one here in the South!” “No.” “Yes!” “I got to see that. I don’t believe it. Where they going – Africa?” A silence. “Mars.” “You mean the planet Mars?” “That’s right.” […] “Could they do that?” demanded Samuel Teece, pacing about the porch. “Ain’t there a law?” (pp. 89-91)
I bianchi sono stupefatti e indignati, e la maggior parte non vuole lasciarli andare18, come mostra questo dialogo: “[…] you know what’s up on that planet Mars? There’s monsters with big raw eyes like mushrooms! You seen them pictures on those future magazines you buy at the drugstore for a dime, ain’t you? Well! Them monsters jump up and suck marrow from your bones!” 18 Un film che potrebbe essersi ispirato a questo racconto è A Day Without a Mexican di Sergio Arau (2004). In questo caso i messicani che vivono in California non vanno su Marte ma, semplicemente, spariscono, suscitando un forte disappunto e provocando un imprevisto impatto sull’economia e sulle politiche relazionali. Ma si può risalire ancora più indietro, al controverso scritto di Karl Marx “A World without Jews”, in The Western Socialist, vol. 27, no. 212, no. 1, 1960, pp. 5-7. 14/05/2015.
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“I don’t care, don’t care at all, don’t care.” Belter watched the parade slide by, leaving him. Sweat lay on his dark brow. He seemed about to collapse. “And it’s cold up there; no air, you fall down, jerk like a fish, gaspin’, dyin’, stranglin’, stranglin’ and dyin’. You like that?” “Lots of things I don’t like, sir. Please, sir, let me go. I’m late.” (p. 94)
E dopo che i neri sono effettivamente partiti, qualcuno commenta ottusamente: “I can’t figure why they left now. With things lookin’ up. I mean, every day they got more rights. What they want, anyway? Here’s the poll tax gone, and more and more states passin’ anti-lynchin’ bills, and all kinds of equal rights. What more they want? They make almost as good money as a white man, but there they go.” (p. 96)
Anche in questo caso Bradbury si dimostra molto attento al contesto socio-culturale del suo tempo. Proprio negli anni in cui escono le Chronicles nasce il Civil Rights Movement, nell’ambito del quale, fra le altre cose, i reduci afroamericani della seconda Guerra Mondiale reclamano eguali diritti. Gli anni ’50 e ’60 vedranno l’affermarsi della figura carismatica di Martin Luther King e delle azioni di protesta non violenta, ma, nonostante quello che affermano i bianchi nel racconto di Bradbury, l’eguaglianza resterà a lungo un’utopia. “2004-2005: The Naming of Names” affronta un altro momento cruciale della terraformazione di Marte, ovvero quello del processo di nominazione. La data stavolta non si riferisce a un mese bensì a due interi anni, il tempo che serve agli americani per dare un nuovo nome ai luoghi della loro colonia: They came to the strange blue lands and put their names upon the lands. Here was Hinkston Creek and Lustig Corners and Black River and Driscoll Forest and Peregrine Mountain and Wilder Town, all the names of people and the things that the people did. Here was the place where Martians killed the first Earth Men, and it was Red Town and had to do with blood. And here where the second expedition was destroyed, and it was named Second Try, and each of the other places where the rocket men had set down their fiery cauldrons to burn the land, the names were left like cinders, and of course there was a Spender Hill and a Nathaniel York Town.... (p. 102)
I nuovi nomi ricordano non solo i caduti, ma il Paese d’origine; e a essi vanno progressivamente ad aggiungersi altri nomi legati alla Terra: “IRON TOWN, STEEL TOWN, ALUMINUM CITY, ELECTRIC VILLAGE, CORN TOWN, GRAIN VILLA, DETROIT II, all the mechanical names and the metal names from Earth”, laddove “The old Martian names were names of water and air and hills” (pp. 103, 102). Le locuste, quindi, hanno concluso la loro impresa di distruzione e devastazione dell’ecologia indigena, un’ecologia che informava anche la toponomastica e le dava un valore ben diverso da quello dei conquistatori.
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Con il racconto successivo, “April 2005: Usher II”, torniamo a un tema particolarmente caro a Bradbury, ovvero il controllo dell’immaginazione. Il protagonista infatti tenta di conservare quella memoria culturale e letteraria che i suoi simili vogliono distruggere. Il potere consolatorio e salvifico della letteratura, che costituirà il tema principale di Fahrenheit 451, è presente anche nei racconti “Pillar of Fire” (1948) e “The Smile” (1952). La vicenda narra di un eccentrico americano di nome Stendhal la cui biblioteca è stata distrutta a causa della censura; si reca così su Marte, sperando nella libertà di parola e di pensiero. Ma anche su Marte la “Moral Climates” e la “Society for the Prevention of Fantasy” stanno ricreando la stessa situazione. Stendhal decide pertanto, aiutato da Pykes, ex attore di film horror, di ricostruire la House of Usher seguendo le istruzioni offertegli dal racconto di Poe e di trasformarla in una trappola per i membri della suddetta organizzazione. La casa, un oscuro e cadente edificio reso ancor più lugubre dall’ausilio della tecnologia, accoglie gli invitati che, uno a uno, vengono assassinati da copie perfette dei personaggi usciti dalle pagine di Poe, per essere sostituite da automi replicanti. “The Fall of the House of Usher” non è l’unico racconto a cui Bradbury si ispira (l’incipit è ripreso alla lettera); troviamo anche altre citazioni, fra cui l’idea del ballo ripresa da “The Masque of the Red Death” e le tipologie degli omicidi che si ispirano a “The Murders in the Rue Morgue”, “The Pit and the Pendulum” e “The Cask of Amontillado”. Il capo d’accusa – condannare Poe senza averlo veramente letto – contiene in sé una sfumatura ironica ma è allo stesso tempo un drammatico avvertimento contro ogni tentativo di limitare il libero pensiero e contro l’ostentazione di una cultura fasulla. Al termine del racconto Stendhal fugge verso ovest, forse alla ricerca di una nuova Frontiera. “August 2005: The Old Ones” è un altro racconto brevissimo (anche questo sarà qui riportato per intero): stavolta sono gli anziani ad arrivare su Marte, l’ultima ondata di americani: And what more natural than that, at last, the old people come to Mars, following in the trail left by the loud frontiersmen, the aromatic sophisticates, and the professional travelers and romantic lecturers in search of new grist. And so the dry and crackling people, the people who spent their time listening to their hearts and feeling their pulses and spooning syrups into their wry mouths, these people who once had taken their cars to California in November and thirdclass steamers to Italy in April, the dried-apricot people, the mummy people, came at last to Mars... (pp. 118-119)
“September 2005: The Martian” si ricollega al racconto precedente in quanto narra di una coppia di vecchi genitori che hanno perso il figlio. Una sera inaspettatamente questi si ripresenta, ma dopo l’incredulità e l’emozione appare gradualmente chiaro che si tratta di un’entità marziana misteriosamente sopravvissuta, in grado di
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appropriarsi dell’identità di altre persone. Dopo varie peripezie, al termine del racconto i due vecchi sono di nuovo soli. Il tema non è del tutto originale: la capacità dei marziani di appropriarsi dell’identità altrui era già stata descritta nella seconda sezione, anche se in questo caso Marte è già stato colonizzato e teoricamente non dovrebbero esservi più marziani superstiti. La persistenza delle allucinazioni, degli incontri stranianti prolunga dunque il senso d’isolamento e alienazione sul pianeta anche dopo che la terraformazione è stata completata. Il breve racconto “November 2005: The Luggage Store” si apre con la notizia, ricevuta via radio, che è imminente una guerra che coinvolgerà anche gli Stati Uniti. Due personaggi, Father Peregrine e un rivenditore di valigie, la commentano e il primo chiede all’altro se pensa che i coloni torneranno effettivamente sulla Terra. Questi risponde: “yes, I think we’ll all go back. I know, we came up here to get away from things – politics, the atom bomb, war, pressure groups, prejudice, laws – I know. But it’s still home there. You wait and see. When the first bomb drops on America the people up here’ll start thinking” (p. 132). La frase dell’uomo – “it’s still home there” – ci fa capire che Marte non è mai diventato veramente la nuova patria degli americani; la colonizzazione è troppo recente, e se accadrà qualcosa essi faranno certamente ritorno alla Terra, nonostante siano fuggiti proprio dalla guerra e dalle bombe. La brevità del racconto, che si conclude con Father Peregrine (fin troppo ovvia l’associazione coi Pilgrim Fathers) che acquista una valigia, quasi a predisporsi per il ritorno, sembra voler dire che l’uomo è comunque inserito in un loop, in un cerchio esistenziale da cui non c’è salvezza. “November 2005: The Off Season” ha come protagonisti una coppia di personaggi che hanno visto in Marte un luogo migliore per sviluppare la loro libera iniziativa commerciale. In particolare il marito, Sam Parkhill, assapora con soddisfazione l’imminente successo: “Best hot dogs on two worlds! First man on Mars with a hot-dog stand!” (p. 133)19. La moglie, invece, è diffidente ed esprime in primo luogo il consueto pregiudizio antietnico: 19 La storia dell’hot dog è strettamente legata agli Stati Uniti: oltre ad essere il paese dove se ne consumano di più, è proprio a New York che ad alcuni immigrati tedeschi venne l’idea di mettere i würstel, tipici del loro paese d’origine, dentro panini lunghi e stretti. Si racconta che il primo hot dog fu venduto nel 1860. (03/05/2015). Secondo altre fonti, l’hot dog fu inventato in Louisiana nei primi anni del XX secolo. (03/05/2015). La catena McDonald’s invece nasce nel 1955 (03/05/2015) interpretando proprio lo spirito imprenditoriale del racconto di Bradbury. Ci sono numerosi siti che riguardano la possibilità di creare una catena intergalattica e vari fotomontaggi con la M simbolo del McDonald’s su Marte (per esempio si legga l’articolo in: mentre per una bellissima immagine si rimanda a (03/05/2015).
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“I don’t trust those Earth people,” she said. “I’ll believe it when I see them ten thousand rockets arrive with the one hundred thousand Mexicans and Chinese on them.”
“Customers.” He lingered on the word. “One hundred thousand hungry people.” (p. 134)
per poi passare, immediatamente dopo, alla preoccupazione concernente la guerra atomica: “If,” said his wife slowly, watching the sky, “there’s no atomic war. I don’t trust no atom bombs. There’s so many of them on Earth now, you never can tell.” (Ibidem)
Queste due preoccupazioni della moglie anticipano ciò che sta per succedere: di lì a poco, infatti, una voce proveniente da una maschera azzurra fluttuante nell’aria si rivolge all’uomo dicendogli che gli deve parlare con urgenza. Se il lettore è sorpreso, il personaggio non lo è: anzi, replica con tono seccato: “I don’t like strangers. I don’t like Martians.” (Ibidem) Si tratta infatti di un altro dei marziani sopravvissuti all’epidemia che li ha decimati (The Disease), circa un centinaio in tutto, entità incorporee che vivono nascoste sulle colline e che da qualche giorno gli fanno visita per avvertirlo del pericolo che sta correndo la Terra. Il fatto che non gli piacciono gli stranieri accomuna Sam alla moglie, mentre la sua indifferenza rispetto alla guerra nucleare lo fa apparire ancora più insensibile ed egoista. Quando il marziano sta per mostrare a Sam un oggetto mediante il quale potrà capire quello che succede sulla Terra, lui lo scambia per un’arma, e lo uccide. Lo stesso farà con altri che lo inseguono, finché finalmente la numerosa delegazione marziana che riesce a parlargli gli dice che non vogliono fargli alcun male, ma vogliono anzi nominarlo proprietario di tutto l’emisfero di Marte su cui si trova. Increduli, Sam e la moglie rientrano a casa e si mettono a cucinare per le migliaia di terrestri che si aspettano arriveranno presto: quando d’un tratto, guardando la Terra, un puntino nel cielo, la vedono cambiare di colore ed esplodere. La metafora finale, pronunciata dalla moglie in una frase che rivolge al marito, rappresenta il modo amaro e autoironico di dire addio ai propri sogni, a quel residuo estremo e fallimentare del Sogno Americano che ha ormai perso tutta la sua energia ed è diventata cieca avidità e ricerca di benessere materiale. “November 2005: The Watchers” chiude la seconda sezione. La Terra è un pianeta morente da cui arriva uno straziante messaggio in codice Morse: AUSTRALIAN CONTINENT ATOMIZED IN PREMATURE EXPLOSION OF ATOMIC STOCKPILE. LOS ANGELES, LONDON BOMBED. WAR. COME HOME. COME HOME. COME HOME. (p. 145)
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La ripetizione del refrain COME HOME, che continuerà a spezzare il racconto fino alla sua conclusione, evoca nella sua concisione di invito-ordine-preghiera il dramma incommensurabile e definitivo di un’apocalisse non più rimandabile. La terza e ultima sezione tratta essenzialmente della possibile rigenerazione dell’umanità dopo una devastante guerra nucleare globale. Ora i terrestri non sono più invasori, coloni, conquistatori, ma veri e propri emigrati, fuggiaschi, rifugiati. La sezione si apre con “December 2005: The Silent Towns”, in cui un uomo che vive come un eremita sulle colline azzurre di Marte, Walter Gripp, emerge dal suo isolamento per scoprire che il pianeta è stato completamente evacuato: sono tutti tornati sulla Terra, dove è in corso una guerra atomica. Mentre cammina per le strade deserte, si rende conto di essere l’ultimo uomo su Marte. C’è una frase in particolare che mi ha colpita rileggendo questo racconto: “Across town was a rocket port. […] If you dropped a dime in the telescope and pointed it at Earth, perhaps you could see the big war happening there. Perhaps you could see New York explode” (p. 146). Avevo letto le Martian Chronicles due volte: entrambe prima dell’11 settembre 2001. Rileggendo “The Silent Town” in questa occasione, a quattordici anni da quel crollo che fu trasmesso da tutte le televisioni del mondo, più e più volte, a diverse velocità e da diverse angolazioni, ho pensato che anche in questo caso Bradbury ha dimostrato una capacità di preveggenza straordinaria. La descrizione di quello che accade sulla Terra attraverso la lente di un telescopio piazzato su Marte mi ha fatto pensare al giorno in cui milioni di telespettatori di tutto il mondo videro crollare le Twin Towers dentro i piccoli schermi dei loro televisori. Credo che in questa frase si concentri tutta la consapevolezza socio-culturale di Bradbury, tutta la sua profetica filosofia dei media che sarà poi espressa in modo più compiuto nel più volte citato Fahrenheit 451. Non a caso, nel prosieguo del racconto il ruolo di protagonista viene assunto dall’altro dei due principali mezzi di comunicazione dell’epoca: il telefono. Mentre cammina per le strade della città, l’uomo sente, infatti, squillare un telefono: si affretta verso la casa da cui proviene il suono, ma quando arriva è troppo tardi. Disperato, spera che la persona all’altro capo richiami, ma non è così. Decide allora di prendere l’elenco del telefono e inizia a comporre tutti i numeri che trova, in ordine alfabetico: Finally, exhausted, he picked up the thin directory which listed every phone on Mars. Fifty thousand names. He started with number one. Amelia Ames. He dialed her number in New Chicago, one hundred miles over the dead sea. No answer. Number two lived in New New York, five thousand miles across the blue mountains.
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No answer. He called three, four, five, six, seven, eight, his fingers jerking, unable to grip the receiver. (p. 149)
Dopo vari tentativi a vuoto, ha l’idea di provare a chiamare un centro estetico, il posto più probabile dove trovare una donna: e in effetti gli risponde una felice Genevieve Selsor, ma la linea cade quasi subito. E poiché il centro che ha chiamato si trova a New Texas City, a una notevole distanza, l’uomo prende un’automobile dal garage dell’abitazione e parte a tutta velocità verso la sua meta. La donna però non c’è, perché intanto è andata a cercarlo nel luogo da cui lui proveniva; dopo varie peripezie i due si incontrano, ma lui ha la spiacevole sorpresa di trovarsi davanti una donna grassa e golosa, probabilmente pazza, che lo vuole sposare immediatamente e che non corrisponde affatto all’idea che lui si era fatto di lei; ragione per la quale fugge appena può e decide che da quel giorno non risponderà più al telefono, se dovesse sentirne uno suonare. Il racconto, che pure può risultare fastidiosamente superficiale e misogino, ha un finale grottesco e pieno di amarezza. In fondo, sembra dire Bradbury, il destino dell’uomo così come della donna, sulla Terra come su Marte, è la solitudine. In “April 2026: The Long Years” sono passati dodici anni dalla Great War sulla Terra, e ormai “the stage of actively forgetting must be accomplished” (Ellis e Touponce 2004: 145). Ritroviamo un personaggio già visto, Hathaway, il quale, per riuscire a sopravvivere da solo su Marte, si è creato una famiglia di robot. Un giorno arriva sul pianeta un’astronave: dentro c’è il capitano Wilder e i due si riconoscono e sono felici di rivedersi dopo vent’anni. Chiacchierano del più e del meno, nominando anche altri personaggi che abbiamo incontrato, fra cui il venditore di hot dog che è tornato sulla terra dopo una settimana dall’apertura del suo esercizio, e Walter Gripp, che nonostante l’invito di Wilder a tornare sulla Terra ha deciso di restare su Marte a fumare sulla sua sedia a dondolo (un’altra immagine che ci ricollega all’immaginario tipicamente Western). Quando Hathaway invita il capitano e gli altri membri dell’equipaggio a colazione, questi si accorgono che i suoi figli non hanno l’età che dovrebbero avere: anzi, attraverso una breve indagine scoprono che figli e moglie sono morti di un virus misterioso nel 2007. Comprendono così che si tratta di robot molto sofisticati costruiti da Hathaway per riuscire a sopportare la solitudine. Allorché Hathaway muore improvvisamente per un attacco cardiaco, i membri dell’equipaggio, dopo aver salutato la sua “famiglia” e averlo seppellito, rientrano sulla Terra. Su Marte rimangono le quattro figure destinate a durare molto più degli esseri umani, e sulla madre che guarda il cielo si chiude, enigmatico, il racconto. Bradbury anticipa qui il filone del post-umano, che avrà molta fortuna a partire dagli anni ’60 (dai racconti e romanzi di Philip K. Dick fino ad A.I.
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Artificial Intelligence di Steven Spielberg, 2001, e al recente EX_MACHINA di Alex Garland, 2015), segnando l’avvento di una durevole discussione sui temi dell’identità e del concetto di umanità. “August 2026: There Will Come Soft Rains” ci riporta sulla Terra subito dopo la conclusione della Guerra. Non ci sono sopravvissuti, e la protagonista del racconto è l’ultima casa ancora in piedi, un’abitazione modernissima e ipertecnologica che finirà in fiamme a causa di un banale cortocircuito. La casa (che anticipa di mezzo secolo sia l’abitazione hi-tech che troveremo nel film Nirvana di Gabriele Salvatores, 1997, sia molte delle attuali tecnologie, dal navigatore satellitare allo smartphone) è una sorta di utopia domestica che ti sveglia, ti prepara i pasti, ti dà le informazioni meteorologiche, ti ricorda gli impegni e ti intrattiene nel tempo libero. Nel racconto in questione, è difficile decidere se si prova maggiore inquietudine nel leggere le descrizioni di tutta questa tecnologia in funzione senza più gli umani a fruirne, oppure quelle che riguardano (e seguono) l’esplosione. In entrambi i casi, comunque, si tratta di un’inquietudine collegata alla consapevolezza della transitorietà e fragilità della vita umana rispetto non solo all’ambiente naturale, ma anche alla stessa tecnologia che l’uomo ha creato. Inoltre i gadget domestici ci riportano a quell’illusione di felicità domestica suburbana che contraddistingue gli anni ’50. Il titolo del racconto è tratto da quello di una poesia dell’americana Sara Trevor Teasdale, che la scrisse nel 1920 riferendosi alla possibilità che il genere umano potesse perire in una guerra, con grande anticipo dunque sulla creazione delle armi atomiche20. Certamente nel 1950 l’immagine delle soft rains non fa tanto venire in mente le dolci piogge primaverili quanto il fall-out atomico. E, analogamente al racconto precedente, chi vince la morte è la macchina, ovvero il corpo artificiale – e quando anche questo è distrutto rimane la sua essenza più eterea e invisibile, la sua anima, la voce: Smoke and silence. A great quantity of smoke. Dawn showed faintly in the east. Among the ruins, one wall stood alone. Within the wall, a last voice said, over and over again and again, even as the sun rose to shine upon the heaped rubble and steam: “Today is August 5, 2026, today is August 5, 2026, today is...” (p. 172)
Il racconto che chiude la sezione, e le Chronicles, si intitola “October 2026: The Million-Year Picnic” ed è uno tra i più commentati, soprattutto per la scena finale, che sancisce l’avvenuta e definitive trasformazione dei terrestri in marziani e dunque apre alla speranza, solo ora, di una nuova rigenerazione possibile. Innanzitutto, i personaggi (una famiglia costituita da padre, madre e tre figli maschi) sono su 20 Testo della poesia in: (26/04/2015).
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Marte non per colonizzarlo, ma perché sono fuggiti; il padre, un ex governatore di stato, ha infatti deciso di portare segretamente su Marte la sua famiglia per iniziare tutto da capo. Per assicurarsi la possibilità della continuazione della specie, stanno arrivando anche degli amici (che, prevedibilmente, hanno figlie femmine). Il padre, una volta sul pianeta, fa scegliere a moglie e bambini in quale città abitare – sono tutte abbandonate – nonostante le titubanze mostrate da uno dei figli: “From now on? […] What about Minnesota?” (p. 178). I ragazzini sono elettrizzati all’idea di poter incontrare dei marziani e il padre decide di distruggere tutto quello che potrebbe riportarli sulla Terra e anche solo ricordare loro la vita che si sono lasciati alle spalle, compresa una radio. Sono dei veri pionieri, e possiedono solo provviste per pochi anni e un fucile. Progressivamente, nel corso della storia, il picnic diventa la metafora della rinascita di una nuova civiltà e i bambini assumono il ruolo principale, in quanto sono gli unici ancora capaci di provare quel senso di meraviglia, quel wonder, da cui tutto può avere nuovamente inizio. E quando essi, al termine del racconto, affacciandosi su un canale, chiedono al padre di mostrar loro un marziano, egli mostra loro le loro stesse immagini riflesse nell’acqua: “There they are […] the Martians were there” (p. 182). Al di là dei significati evidenti del finale, che si rifà al mito classico di Narciso, alla teoria del Doppio e a tutta la problematica identitaria delle hyphenated cultures (si può parlare di “Martian-Americans”?) questa scena è particolarmente significativa anche perché si ricollega ai dibattiti del tempo sull’esistenza o meno dell’acqua su Marte e alla ricaduta di tali dibattiti sull’immaginario letterario. Morton, partendo da Stranger in a Strange Land di Heinlein e finendo col romanzo di Bradbury, scrive: “The lack of water served to differentiate imagined versions of Mars from the earth – but the fact that there was some water there, just a little, meant that even such unearthly place could still be related to the human world as an alternative, a warning, or a promise. Hence the power of the scene that ends Ray Bradbury’s Martian Chronicles […]” (2003: 150). Da un certo punto di vista, come si è detto, è vero che questi terrestri in fuga, questi rifugiati, non hanno l’arroganza dei conquistatori o il progetto politico degli invasori. Ma è proprio così? Marte (o meglio, Tyrr) è ancora Marte senza i marziani? Non è, in fondo, quella di Bradbury, la dimostrazione (seppur letteraria) che l’unico obiettivo raggiungibile è quello della terraformazione, laddove ogni tentativo di contatto fra umani e alieni è destinato a fallire? Del resto, gli stessi bambini sono così descritti: “They stood there, King of the Hill, Top of the Heap, Ruler of All They Survived, Unimpeachable Monarchs and Presidents, trying to understand what it meant to own a world and how big a world really was” (p. 180). Saranno pure giochi di bambini, ma si parla di regime, di gerarchie e di possesso. E se è vero che tutta la famiglia si sta “marzianizzando” – il viso del
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padre ricorda le rovine di un’antica civiltà marziana, gli occhi della madre sono limpidi come l’acqua dei canali, e il viso di uno dei tre figli è come un’antica immagine scolpita sulle mura di Marte – non si starà trattando di un’appropriazione piuttosto che di un adattamento al territorio? Certamente tutta la mitologia su cui si è costruito il mito della Frontiera – dall’arrivo degli europei agli scontri con i nativi, fino all’avanzamento verso ovest – è ben presente a Bradbury, che lo ha dichiarato esplicitamente in un’intervista rilasciata nel 1965 a D. Cunningham (cit. in Wolfe 1980). È con questo passato che Bradbury vuole misurarsi, creando una sorta di parallelo fra la colonizzazione americana e le colonie letterarie che crea nelle Chronicles e che, in fondo, sono piccole città del Midwest trasportate su Marte, e chiedendosi cosa accadrebbe se la classe media americana degli anni ’50 avesse improvvisamente l’opportunità di accedere a una nuova Frontiera (Ibidem). Resta il fatto che il tono predominante dell’opera non è né l’ottimismo di Turner, né quello dell’utopia; piuttosto, su tutto grava il senso di un’apocalisse imminente, unito a un realismo grottesco e surreale che, se di tanto in tanto rende possibile l’illusione, la sconfessa appena si volta pagina. Anche da questo punto di vista The Martian Chronicles ben rappresentano la loro epoca e anzi inaugurano un’era di ancor maggiore fragilità, ambivalenza, conformismo e paranoia. Negli anni a venire la politica, l’economia e la cultura saranno dominate dalla paura da un lato e dalla frenesia consumistica dall’altro, il tutto nutrito dal potere crescente – rispetto ai libri e ai giornali – della televisione e delle nuove tecnologie.
9.
CASO 3: MARS ATTACKS! DI TIM BURTON
9.1. Il regista
Timothy William (Tim) Burton nasce il 25 agosto 1958 a Burbank, un sobborgo di Los Angeles, in una famiglia middle class. Presto lascia genitori e fratello minore per vivere con la nonna. Della sua infanzia racconta poco – soprattutto ricorda la passione per i film dell’orrore (adorava Vincent Price e i film della Hammer) e le sue fantasticherie di trasformare la realtà banale del sobborgo americano in un luogo del mistero o del terrore, alla Edgar Allan Poe. Abile nel disegno e cimentandosi giovanissimo nel cinema amatoriale, nel 1976 vince una borsa di studio per entrare al California Institute of Arts e tre anni dopo, a soli ventun anni, viene reclutato dalla Disney. Dopo qualche tempo trascorso a disegnare cose che non sono nelle sue corde, due giovani dirigenti gli danno l’opportunità che sognava: girare Vincent, un cortometraggio in bianco e nero dedicato a Vincent Price (il quale accetta di fare la voce narrante) che vincerà vari festival. Nel 1984 Burton realizza Frankenweenie, pastiche del celebre Frankenstein di James Whale (1931), che viene considerato la matrice di Edward Scissorhands (1990) e che verrà riproposto nel 2012. Il film, però, non piace alla Disney, che decide di ritirarlo dal circuito commerciale; attira tuttavia l’attenzione di Stephen King, che, convinto del talento di Burton, lo segnala a una produttrice della Warner. Qui Burton realizzerà il lungometraggio Pee-wee’s Big Adventure (1985), basato su uno show televisivo di grande successo, con la colonna sonora di Danny Elfman, un giovane musicista che poi lo accompagnerà in tutta la sua carriera. Il lungometraggio registra un grande successo di pubblico, sebbene venga definito dalla critica “una delle peggiori commedie dell’anno” (Ferenczi 2010: 20).
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Il film successivo, Beetlejuice (1988), è un successo mondiale che conferma quella che sarà l’impronta di Burton, ovvero il sovvertimento delle aspettative e del Canone su uno sfondo che non ha nulla di hollywoodiano ma riporta a un “altrove” cupo e comico insieme: “Tim Burton mette in pratica un’idea che non lo abbandonerà più: il riso e la paura riguardano emozioni assai vicine tra loro ed è interessante passare, in maniera del tutto estemporanea, dall’uno all’altra” (Ibidem: 21, 29). La vicenda narra di una coppia di spiriti che cercano in ogni modo di scacciare l’ingombrante famigliola (viva) che si è trasferita nella loro abitazione: il dialogo fra morte e vita, realtà e rappresentazione (si veda il modellino della città nel solaio), sogno e finzione ritornerà in Tim Burton’s Nightmare before Christmas (Henry Selick 1993), così come torneranno – rafforzandosi nel tempo – i gusti neogotici e post-punk di Burton, che predilige per i suoi attori un pallore mortale e abiti neri. Una scommessa difficile è Batman (1989), che Burton accetta di girare dopo aver visto e apprezzato la “nuova cupezza che lo sceneggiatore e disegnatore Frank Miller ha aggiunto al personaggio nel Ritorno del Cavaliere Oscuro” (Ferenczi 2010: 33): nonostante scateni l’ira dei fan scegliendo come protagonista Michael Keaton, Burton firma un altro successo, anche grazie alla colonna sonora “maestosa e malinconica” di Elfman, ai disegni della metropoli “nera, sporca, consumata dal crimine” di Furst e alla presenza di Jack Nicholson nei panni del Joker (Ibidem: 35). Tre anni dopo, anche Batman Returns (1992) è un successo. Tra i due film, il citato Edward – variazione sul tema del mito di Frankenstein e intensa riflessione sul rapporto fra normalità e alterità, tra fantasia post-gotica e tipica way of life americana – segna l’ingresso di Johnny Depp nel cinema di Tim Burton: un incontro (che sarebbe sfociato in una collaborazione duratura) “tra due grandi brontoloni, timidi e introversi, incapaci di finire una frase, ma soprattutto l’unione tra due outsider” (Ibidem: 41). Nel 1993, in occasione di Halloween, esce il citato Nightmare before Christmas, un cupo film d’animazione tra il fantastico e il macabro che narra il rapimento di Babbo Natale da parte del malvagio Jack Skellington, il quale si sostituisce a lui terrorizzando i bambini coi suoi doni. Il film diventerà un successo mondiale (in Giappone le figurine saranno a lungo oggetto di culto) e nel 2006 uscirà nuovamente in 3D. Sull’onda del film, nel 2005 uscirà intanto anche un altro film d’animazione, Corpse Bride, che (come già Beetlejuice) si basa sulla fragile linea di demarcazione fra vivi e morti e diventerà un altro cult internazionale. Frattanto, nel 1994 esce un prodotto completamente diverso: Ed Wood, un bizzarro film in bianco e nero, collage sperimentale di filmati di repertorio e scene umoristiche dedicato a un regista di B-movies – che fu amico di Bela Lugosi (il più noto interprete di Dracula) e diresse Plan 9 from Outer Space del 1959 (i cui
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dischi volanti aprono lo stesso film di Burton), ritenuto uno tra i peggiori nella storia del cinema. Miglior sorte tocca a Ed Wood, che pur senza essere un successo né di pubblico né di critica porta a casa un Oscar per il miglior attore non protagonista (Martin Landau nei panni di Bela Lugosi). Da segnalare una scena che ritrae Orson Welles (interpretato da Vincent D’Onofrio): la scena si svolge in un bar dove Ed Wood, travestito da donna, vede, “seduto in un cono d’ombra con aria altrettanto pensosa, un ‘confratello’: Orson Welles. Inizia allora a conversare con lui e scopre che i loro problemi nel fare i registi sono praticamente identici, soltanto il talento li divide” (Ferenczi 2010: 67). L’interesse per Ed Wood e la scena con Welles confluiscono in un film che esce nel 1996, Mars Attacks!, che riprende il cinema di fantascienza degli anni ’50 ammiccando anche allo “scherzo” di Halloween del giovane Welles. A questo film segue un periodo di progetti che non vengono portati a termine – Superman, The Fall of the House of Usher, un remake di X: The Man with the X-Ray Eyes di Roger Corman (1963) – durante il quale Burton pubblica una raccolta di disegni e poesie, The Melancholy Death of Oyster Boy & Other Stories (1997). Due anni dopo arriva quella che molti considerano la sua opera migliore, Sleepy Hollow (1999), basata su un celebre racconto dello scrittore americano Washington Irving1 e ambientata nel 1799. Il film narra, sullo sfondo di una rivalità amorosa, la vicenda di un sanguinario cavaliere senza testa che terrorizza una cittadina del New England. In realtà la sceneggiatura è molto diversa dall’originale e contiene veri e propri anacronismi, traendo spunti da Edgar Allan Poe, da Mario Bava e dai film della Hammer per riproporre una propria visione dell’epoca che chiude il secolo dei lumi (ma anche dell’espressività gotica) e apre il secolo dell’investigazione scientifica (ma anche della psicanalisi). Attraverso la figura dell’insegnante/ detective Ichabod Crane, eroe più fragile che trionfante, Burton ci parla degli incubi del Nuovo Mondo inventando una sorta di horror che, rifacendosi alla storia della guerra d’indipendenza americana, allude implicitamente alla violenza sulla quale il Paese si è costruito. Qualcosa di tutto questo tornerà nel film Dark Shadows (2012), adattamento di una serie televisiva degli anni ’60: una malinconica e straordinaria rivisitazione del mito del vampiro in cui i fantasmi del passato tornano prepotentemente (e letteralmente) a rivivere negli anni ’70 sullo sfondo di una tipica cittadina americana della East Coast. Attraverso la figura del vampiro redivivo, alle prese con abbigliamento, musica e ritmi di vita dei Seventies, Burton ha qui l’opportunità di proseguire la sua analisi del rapporto con la diversità, con la memoria e con i vincoli familiari e sociali; un’analisi che a partire da Edward percorre tutto il suo 1 “The Legend of Sleepy Hollow” (1820), testo integrale in: (17/05/2015).
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cinema (e che ritroveremo anche in Mars Attacks!, sebbene mascherata da satira). Il seguente Planet of the Apes (2001), remake dell’omonimo film del 1968, è una megaproduzione priva dei toni burtoniani più autentici, e, nonostante la novità della partecipazione in rete dei fan, che possono proporre finali diversi, non ottiene il successo sperato. Ben diverso Big Fish (2003), “passeggiata attraverso un’America sognata” (Ferenczi 2010: 82) che affronta un altro aspetto della cultura americana, ovvero il genere, poco conosciuto in Europa, del tall tale ovvero del racconto gonfiato, eccessivo, esagerato: una tipica produzione orale dei tempi della Frontiera, legata alla necessità di creare un repertorio popolare di leggende e miti, poi confluita nel cosiddetto hoax, termine con cui oggi si usa indicare una “bufala” o leggenda metropolitana. In realtà il tall tale ha una precisa dignità letteraria (lo troviamo ad esempio in Mark Twain e nei cosiddetti umoristi della Frontiera) e personalmente lo ritengo un espediente perfetto per rappresentare il difficile momento di riconciliazione fra un padre e un figlio, per problematizzare il momento della crescita, per mostrare l’inconsistenza dei confini illusori tra il mondo reale e quello dell’immaginazione. Le tecniche (flashback, deep focus, cinepresa fissa, recitazione volutamente artificiosa, ecc.) sono state in genere poco apprezzate da chi non ha compreso le radici profondamente americane di questo film. Per contro, Charlie and the Chocolate Factory (2005), tratto da un romanzo di Roald Dahl, viene girato a Londra e, nonostante la sua stravaganza alla Monty Python, ha anche molti aspetti dickensiani. Nel 2007 esce Sweeney Todd, adattamento di un musical definito black operetta (Ferenczi 2010: 86) che narra con toni espressionistici la storia di una terribile vendetta, seguito (dopo la mostra prestigiosa dedicatagli dal MOMA, il Museum of Modern Arts di New York, nel 2009) da Alice in Wonderland (2010), libero adattamento del racconto di Lewis Carroll in cui immagini generate al computer e sofisticati trucchi digitali si mescolano a riprese reali. Se può sembrare un segno di “anglicizzazione” (Ibidem: 93), i film successivi – il citato Dark Shadows e il più recente Big Eyes (2014) – ci riportano sul suolo americano. Non solo: il tema del falso artistico (già presente nell’ultima opera del più volte citato Orson Welles, il capolavoro F for Fake, 1973) ripropone il tema del difficile rapporto fra realtà e immaginazione, verità e menzogna, innestandosi sugli ancor più fragili rapporti familiari e di coppia sullo sfondo dell’America degli anni ’50 e ’60. Il film non ha avuto il successo sperato, ma Tim Burton ha sicuramente ancora in serbo molte carte da giocare.
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9.2. I Nineties
Gli anni ’90, l’ultimo decennio del Novecento, diversamente dal fin de siècle precedente sono caratterizzati dalla consapevolezza che non solo sta per finire un secolo, ma un intero millennio. Dal punto di vista socioculturale sono gli anni dei telefoni cellulari e del World Wide Web, del multiculturalismo (l’immigrazione dall’America latina, dai Caraibi e dall’Asia è in crescita), della political correctness (ovvero la ricerca di un linguaggio e atteggiamenti privi di ogni pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativi a disabilità) e del consolidarsi di capitalismo e neoliberismo sullo sfondo della sempre più minacciosa catastrofe ecologica; dal punto di vista politico, a poco tempo di distanza dalla caduta del Muro di Berlino (1989) e dallo scioglimento dell’Unione Sovietica (1991) si inizia già a profilare il nuovo Nemico Assoluto che sostituirà il Comunismo, ovvero il terrorismo (dai primi attacchi al World Trade Center di New York e a Oklahoma City, rispettivamente 1993 e 1995, fino a quello delle Twin Towers l’11 settembre 2001); si registrano numerosi conflitti (nei Balcani, in Cecenia, Algeria, Etiopia, Somalia, Pakistan…) e, nel 1990-1991, la prima Guerra del Golfo, nel corso della quale gli Stati Uniti (sotto la presidenza di George W. Bush Senior) bombardano l’Iraq, colpevole di aver invaso il Kuwait. Una delle operazioni più celebri, Desert Storm, darà il suo nome a un videogioco (oltre a creare un mercato di oggettistica e collezionismo). Il presidente che domina questo decennio è tuttavia il democratico Bill Clinton, che, nonostante il coinvolgimento in uno scandalo privato di tipo sessuale (il caso Lewinsky), ha una popolarità elevata e riesce a portare a termine due mandati. Nel suo libro intitolato Between Hope and History (1996), un titolo tratto dai versi del poeta irlandese premio Nobel Seamus Heaney, le parole d’ordine sono tre: Opportunity, Responsibility e Community. Il suo progetto, sintetizzato nel sottotitolo, Meeting America’s Challenge for the 21st Century, si fonda infatti sul rinnovo di quel patto fra cittadini e Stato da cui è nata la comunità americana, un patto che apre le porte della terra dell’opportunità a chi abbia senso di responsabilità – sia cioè un buon cittadino. Ma già nelle prime pagine aggiunge altre parole-chiave: parla infatti di un’America che rispetti “our diversity” e che continui a essere “the strongest force for peace, freedom, and prosperity” (Clinton 1996: 6). Ricordiamoci queste parole quando analizzeremo il film di Tim Burton. Sul fronte della tecnologia e nelle comunicazioni, infine, si registrano i cambiamenti più significativi. È negli anni ’90 infatti che, sulla scia del progetto World Wide Web nato nel 1989, si diffonde l’uso di massa del PC (Personal Computer) e la consultazione di Internet. Nascono e si sviluppano i siti web, l’invio di e-mail inizia a sostituire la normale corrispondenza e l’instant messaging e le
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buddy lists diventano popolari. Nasce il commercio sul web, si diffondono i CD, i DVD, le macchine fotografiche digitali e i telefoni cellulari, e si formano i grandi colossi che poi occuperanno tutto il mercato: Microsoft e Apple. I giovani di questo decennio sono stati chiamati in molti modi: net generation o web generation o global generation per i motivi sopra esposti, o anche millennium generation. Se la generazione X, secondo una bella (e amara) definizione di Newsweek, sono “the generation that dropped out without ever turning on the news or tuning in to the social issues around them”2, i giovani degli anni ’90 si trovano a cavallo fra la generation Y e la generation Z e in genere hanno un buon livello culturale, sono politicamente più consapevoli e molto tecnologizzati. Nel campo della letteratura e del cinema, si assiste all’ultima stagione del cosiddetto post-moderno, oramai messo abbondantemente in discussione e contestato per il vuoto contenutistico che spesso lo ha caratterizzato. Si vedono i primi segni di un ritorno a un senso di autenticità e responsabilità: in Italia è fondamentale il manifesto dei Wu Ming, collettivo di scrittori anticonformisti che nel 2008, sulla scia della convergence culture proposta da Henry Jenkins (2006), propongono l’etichetta New Italian Epic per designare la produzione che, a partire dal 1993, ha l’obiettivo di restituire alla narrazione la sua dimensione storica e la caratteristica di coinvolgere i nuovi media nel racconto letterario. Negli anni ’90 siamo ancora lontani da tutto questo, ma ci si sta avvicinando a grandi passi. Siamo per così dire in un periodo che un redivivo Northrop Frye (penso ad Anatomy of Criticism, 1957) potrebbe forse definire dell’inverno, caratterizzato dalla satira come genere letterario. Il film che andremo a esaminare è senza dubbio un’opera che rappresenta il tramonto, o finanche la conclusione, di una stagione e di un’epoca: il citazionismo assurto a cifra stilistica, il sovvertimento sfrenato di norme e situazioni, l’ironia estrema e cinica, la rappresentazione della morte nel modo più estremo e brutale, il dileggio (reale) del politically correct e quello (apparente) dell’ecologia e del dialogo fra le culture sono tutti elementi caratterizzanti di questo film e del periodo a cui appartiene. La volontà di scioccare il pubblico divertendolo insieme, una tendenza che Burton condivide in parte con registi come i fratelli Cohen e Quentin Tarantino (e che, nelle serie TV, ritroviamo in The Simpsons, American Dad e The Griffiths) è, dopo tutto, il segnale di un’epoca capace di profonda autocritica ma priva di illusioni e scettica perfino sulla propria potenziale progettualità. Il finale del film, come vedremo, se da un lato si inserisce nella consueta tipologia dello happy ending hollywoodiano con tanto di deus ex machina (una variante di quelli che concludono numerosi film di fantascienza), dall’altro offre spunti importanti di riflessione sui rapporti fra le generazioni (l’anziano, solita2 (18/05/2015).
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mente emarginato, qui diventa chiave di volta ed eroe), sul valore (anche sociale e culturale) della memoria, e implicitamente sulla nuova epoca che vede l’alba in questo decennio: l’epoca appunto delle nuove tecnologie che stanno per soppiantare la TV (qui ridotta ad arena passiva del duello fra umani e marziani e a “occhio” collettivo sui massacri che si compiono nel mondo). Certo, nel film è una vecchia canzone country che salva il Pianeta, ma dietro la parodia occhieggia già la silenziosa rivoluzione della connettività e della condivisione (i CD-R nascono nel 1988, i CD-RW nel 1997, YouTube nel 2005). 9.3. Il film
La storia del film ha inizio nel lontano 1962. In quell’anno, infatti, fu realizzato un set di figurine intitolato Mars Attacks, da vendere assieme alle gomme da masticare della Bubble. Le immagini sulle figurine, però, erano così impressionanti che furono ritirate dal commercio a causa delle proteste dei genitori. Il ricordo delle figurine Mars Attacks ha ispirato Tim Burton per la storia, l’ambientazione e la fisionomia dei suoi alieni. Mars Attacks! esce nel 1996 (lo stesso anno in cui esce il citato libro di Clinton) e non è un successo: otterrà infatti solo il 39° posto nella classifica degli incassi nazionali. Uno scarso risultato, specialmente se confrontato col suo diretto concorrente uscito nello stesso anno, Independence Day di Rolan Emmerich, che incassa nei soli USA 306 milioni di dollari. La pellicola, che può ben essere definita una black comedy, è in effetti parecchio disturbante. Parodia dei film di fantascienza degli anni ’50, soprattutto Earth vs the Flying Saucers di Fred F. Sears (1956) e The War of the Worlds di Byron Haskin (1953), con riferimenti anche a Invaders from Mars di William C. Menzies (1953) e The Day the Earth Stood Still di Robert Wise (1951), è una sorta di B-movie girato con larghi mezzi e un cast ricchissimo tra cui figura Jack Nicholson; vi sono numerosi camei e apparizioni speciali: Danny De Vito, Michael J. Fox, Tom Jones, Pam Grier e molti altri. Tuttavia, non è il cast la prima cosa che ricordiamo dopo aver visto il film, ma l’espressione malvagia degli alieni, la loro ingiustificata e ingiustificabile crudeltà psicologica, il fatto che taglino a pezzi la gente (e gli animali) e li riassemblino, e soprattutto il loro perenne ghigno: è l’inspiegabile attrazione che proviamo per quelle buffe creature poco più alte dei puffi a regalarci l’orrore estremo dell’esperienza grottescamente traumatica in cui consiste la visione del film. Mars Attacks! è, prevedibilmente, basato in gran parte sugli effetti speciali, curati dalla Industrial Light & Magic. Inizialmente i marziani, gli “omini verdi dell’immaginario popolare, creature dal cervello ipertrofico e dalla voce starnaz-
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zante” (Ferenczi 2010: 71-72), dovevano essere animati con la tecnica dello stop motion. La produzione decise invece poi per la computer grafica e il progetto passò da Barry Purves alla Industrial Light & Magic di Lucas. La colonna sonora è interamente di Danny Elfman, tranne la musica utilizzata come arma contro i marziani, una canzone del cantante country Slim Whitman3. Questa la trama. Una flotta di dischi volanti circonda la Terra. Nonostante qualche allarmismo, il presidente USA Jim Dale sceglie la via della moderazione e decide che, per stabilire il primo contatto, venga organizzato un festoso comitato di accoglienza. Il primo impatto tuttavia è devastante: una colomba bianca, che viene fatta volare in cielo in segno di pace tra i due popoli, suscita un’impensabile reazione violenta dei marziani, i quali estraggono potenti e leggerissime armi laser e compiono un vero e proprio massacro. Successivamente, tramite una paziente opera diplomatica, si comprende che si è trattato di un malinteso culturale. A questo punto i marziani sono invitati al Congresso degli Stati Uniti, dove però la situazione degenera nuovamente fino ad arrivare a un secondo massacro. Da questo momento inizia uno sterminio indiscriminato a livello globale: tutto sembra perduto, finché una nonnina e suo nipote troveranno involontariamente in una canzone country l’inattesa soluzione per liberarsi degli invasori. I marziani, è bene precisarlo, sono esseri piccoli e macrocefali, orribili e animati da un cieco furore distruttivo, ragione per cui ricordano quelli di (The) War of the Worlds. Si tratta di nemici, di invasori, a cui viene negato ogni possibile punto di vista, a cui non viene concesso alcun motivo per agire come agiscono. Sono rappresentati come essere malvagi, sadici, avidi: semplicemente, vogliono impadronirsi del Pianeta. Ma i loro antenati più diretti non sono i marziani di Wells né quelli di Welles, bensì i marziani cattivissimi di un film degli anni ’50 per ragazzi: Invasion of the Saucer Men di Edward L. Cahn (1957), definito addirittura C-movie da Vivian Carol Sobchack, un esempio precoce di black humor che certamente Tim Burton conosce e di cui eredita per così dire lo spirito (1980). La testa dentro un globo invece la troviamo in Invaders from Mars di William Cameron Menzies (1953), ma le citazioni sono molteplici e comprendono, tra gli altri, anche The Day the Earth Stood Still di Robert Wise (1951), Earth vs the Flying Saucers di Fred F. Sears (1956) e The War of the Worlds di Byron Haskin (1953). Gli anni ’90 sono anni di pace relativa e della diffusione del citato credo del politically correct, che in questo film, come vedremo, viene parodiato. Il “cultural misunderstanding”, un’espressione che ricorre più volte sia nel film sia nel ro3 La sequenza finale, in cui la nonnina si toglie le cuffie facendo sì che i marziani siano costretti ad ascoltare la canzone in questione, è visibile in: (18/05/2015); per ascoltare solo la canzone, si rimanda a: (18/05/2015), mentre il testo della stessa è in: (18/05/2015).
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manzo, si dimostra una debolezza del sistema più che un punto di forza per relazionarsi con l’Altro, e questo sembra smentire decenni di lotte per i diritti civili e per l’accettazione delle minoranze. Quella che presenta Tim Burton è un’umanità (prevalentemente americana) inetta, incapace di difendersi, sia che si tratti dei guerrafondai sia dei pacifisti new age, sia dei politici, sia degli intellettuali. Nonostante la forte componente militare del film, giustamente sottolineata da Roberto Nepoti (2001), gli unici a salvarsi (e a salvare il pianeta) saranno i disadattati e gli emarginati: sono loro i personaggi con cui il regista si identifica, e sarà proprio grazie a questi “eroi per caso” che la Terra sopravviverà all’invasione. Tra le caratteristiche sonore del film notiamo l’uso del theremin: “Mars Attacks! opens with images of a huge fleet of flying saucers, spread out across space, approaching the Earth. These images are accompanied by a lush, harmonically integrated score where the theremin lines are a smooth melodic response to the choral melodies that precede it” (Hayward 2004B: 179). È chiaro che questo strumento, che abbiamo già incontrato nei film di fantascienza degli anni ’50, può a ragione essere considerato “the Martians’ specific anthem” pur riflettendo in questo caso un clima geopolitico molto diverso da quello della Guerra Fredda; mancando la minaccia comunista, si può definire “threat-free” (Ibidem). La colonna sonora del film comprende anche, come si è detto, una canzone, Slim Whitman’s 1955 recording of the Broadway show-tune standard Indian Love Call. […] It is the sonic oddness / otherness of Whitman’s music and its marked difference from the smooth dissonances of Elfman’s score, which produces such a deadly impact on the Martians who encounter them, causing their invasion attempt to be foiled. In this regard, the score’s theremin-derived sounds are “normal”, stable and hegemonic; whereas Whitman’s recording is aberrant. (Hayward 2004B: 179)
La musica degli anni ’50, cioè, crea più inquietudine e senso di alterità rispetto al theremin – che viene solitamente considerato “a prominent cinematic marker of aural otherness and weirdness”, ovvero “aurally emblematic of alienness” (Ibidem: 183, 184) – e in questo ribaltamento di prospettive sta uno degli aspetti più originali (e postmoderni) del film: This music enters the narrative “in the final part of the film, when all seems lost, when the Martians are gleefully conquering and trashing the planet. It emerges as a significant voice and presence when a group of Martians burst into an old people’s home and begin to terrorise and kill the inhabitants. Finding one elderly woman unaware of their presence, a Martian carefully lines up a ray gun at her head and then pulls off her // headphones […] As soon as the sound of Whitman’s record emerges from the discarded headphones, the Martian’s brain starts to boil and then explodes. As the woman and her grandson discover, Whitman’s recorded music has the same effect on all Martians […] Transmitted throughout the world,
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deterritorialising and reterritorialising, the sound of Whitman’s music obliterates the Martians and saves the planet. (Hayward 2004B: 179-180)
Questa immagine del suono che deterritorializza e contemporaneamente ri-territorializza pone lo spettatore/ascoltatore in una posizione di inquietudine e di smarrimento: da un lato si ricollega all’esistenza di rituali specifici entro una determinata comunità, dall’altro risuona nella memoria individuale con pratiche culturali (sacre o profane) condivise. Il fatto che i marziani non si riconoscano in questa canzone, che non ne abbiano memoria, che non si sia impiantata nel loro spazio interiore, tuttavia, non sarebbe sufficiente a provocare uno shock culturale acustico, un “soundclash of epic proportions” (Hayward 2004B: 183), se non fosse associata alla particolare tipologia della canzone stessa, che non è un successo internazionale o un inno nazionale ma appartiene al genere country, una “marginal cultural tradition unpasteurised by postmodernity” (Ibidem). 9.4. Analisi del testo
L’analisi di Mars Attacks! si può effettuare seguendo più percorsi: partendo dal film, e dunque ragionando su scene e sequenze, montaggio, colonna sonora ed effetti speciali; oppure, partendo dal romanzo che Jonathan Gems (commediografo, sceneggiatore e regista inglese che vive a Los Angeles) ha tratto dal suo stesso script; oppure, ancora, – ed è stata la mia scelta – tenendo presente entrambi, ma citando preferibilmente dalla sceneggiatura. Il romanzo si apre con una pagina non numerata, che precede lo stesso frontespizio (titolo compreso) e riporta questo testo: COME ON, FOLKS, LET’S HEAR IT FOR THE NEWCOMERS TO THE NEIGHBORHOOD Listen to your President and your First Lady. Don’t be prejudiced against the Martians just because they have those ugly space suits, monstrous heads, nasty faces, and other disgusting features that make them the last beings in the universe that you’d like to take out for lunch. Instead, remember that they’re our neighbors in space […]. (Gems 1996)4
Se l’invito all’ascolto (“Listen”) pronunciato dal Presidente degli Stati Uniti può ricordare il radiodramma di Welles, il tono umoristico e l’insistenza, seppure 4 D’ora in avanti si indicheranno solo i numeri di pagina, riferiti a questa edizione.
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in chiave parodica, sulla neighborhood – un tema molto sentito dagli americani tanto che è usato sia per indicare il “vicino di casa” sia “il tuo prossimo” in senso biblico, e che è stato ampiamente studiato e messo in evidenza nella letteratura e nel cinema (Calanchi 1990) – ci fanno capire fin dall’inizio che qui sono in gioco molte componenti della cultura americana. Il film, invece, inizia con un antefatto – la mandria che prende fuoco nel Kentucky – seguito dai titoli di testa, che scorrono mentre ascoltiamo il theremin e vediamo flotte di dischi volanti molto simili a quelli di Ed Wood. Poi l’azione ha inizio alla Casa Bianca. Sia nel romanzo sia nel film la vicenda, che si svolge in varie parti degli USA, narra l’arrivo di migliaia di navi marziane dai diversi punti di vista di vari personaggi, di cui veniamo a conoscere gradualmente le microstorie. Abbiamo appunto, a Washington, la famiglia presidenziale (Mr James Dale, la moglie Marsha e la figlia Taffy) e lo staff (più alcuni ospiti) della Casa Bianca: Jerry Ross, press secretary; il professor Donald Kessler, docente di scienze astronautiche della Oxford University (nel romanzo si insiste sulle sue origini britanniche) e “the chairman of the American Academy of Astronomics, uh, Astronautics”, come lo presenta Nathalie nel programma da lei condotto, Today in Fashion (p. 93); più lo stato maggiore, composto dal Generale Jack Decker e dal Generale Bill Casey: il primo interventista e guerrafondaio, il secondo, afroamericano, più disposto al dialogo; a Las Vegas troviamo Byron Williams, un ex campione di pugilato di colore ora costretto a lavorare in un casinò in costume da antico egizio, e ancora innamorato della moglie, Louise (in parte africana, in parte spagnola e in parte Cherokee), da cui è separato e che abita a Washington con i figli; una coppia che si trova sempre a Las Vegas, evidentemente in crisi, composta dal giocatore professionista Arthur Land (Art), in cerca di finanziatori per un hotel-casinò che si chiamerà “The Galaxy” e aprirà nel 2003, e dall’insofferente moglie Barbara, che, da quando ha smesso di bere, ha iniziato a leggere e si sta avvicinando a movimenti spirituali ed ecologisti; una giornalista televisiva di Manhattan di nome Nathalie West, col suo inseparabile chihuahua (Poppy); e, a Perkinsville, Kansas, il giovane Richie Norris, cameriere da “Bob’s Donuts” (anche questo avrà la sua importanza) definito “retarded” dal fratello militare (Billy-Glenn), i loro genitori e la nonna ultraottuagenaria, chiamata semplicemente Grandma. Sia la comicità della vicenda, sia l’importanza dei legami familiari, sia lo stretto intreccio con i media sono palesi fin dalle prime pagine, quando troviamo Taffy che mangia una pizza davanti alla TV. Nello schermo suo padre, un emozionato Presidente, sta informando la nazione circa il fatto che sono stati captati segnali che avvertono dell’arrivo di astronavi dallo spazio e dunque confermano l’esistenza di vita intelligente aliena, al che la figlia commenta ad alta voce: “Glad
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they got it somewhere” (p. 57). Il New York Times titola: “EXISTENCE OF INTERPLANETARY LIFE CONFIRMED” e il New York Post, semplicemente: “MARTIANS!!!!” (p. 60). Ancora, la notizia relativa al bestiame in fiamme (una conseguenza dell’atterraggio degli UFO, spesso rappresentata nel cinema o raccontata, nella realtà, da sedicenti testimoni oculari) viene presentata in modo umoristico dal Weekly World News con queste parole: “KENTUCKY FRIED CATTLE!” (p. 64), e questo è il dialogo fra il giovane Richie e sua nonna: “This Martian thing is awesome, huh?” Richie said sociably. “Has anyone seen my Muffy?” asked Grandma. (p. 68)5
Spostandosi a Washington, l’atteggiamento del Presidente è pacifista, mentre uno dei due generali, impegnato in una partita di golf nel club più esclusivo della città, non la pensa come lui: “So, Jack, what’d the President say?” […] “You wanna know what he said? […] He said: ‘Peace and Love. Open the gates and let the invaders in!’” […] “George Bush would never let this happen […] I am not going to give America away without a fight!” (p. 71)
L’esplicito riferimento al più volte citato George H. W. Bush (presidente repubblicano nel periodo 1989-1993 legato in particolare alla prima Guerra del Golfo) contestualizza la vicenda in epoca di regime democratico (Bill Clinton: due mandati, 1993-2001) pur introducendo un presidente fittizio. Molti altri presidenti sono nominati nel corso della vicenda, da Roosevelt (l’attuale First Lady vuole cambiare la tappezzeria della Roosevelt Room, e più tardi nella storia il Presidente terrà un discorso alla TV parlando davanti al caminetto acceso, un evidente riferimento ai fireside chats di Roosevelt) a Lincoln (il Presidente, sebbene più preoccupato dell’abito da indossare - “I’ll wear my blue Cerruti suit”, pensa che dovrà tenere alla nazione un discorso “alla Abraham Lincoln”, p. 28) ad altri che vedremo in seguito. L’uso del termine invaders chiarisce invece senza ambiguità la posizione dei militari, che non hanno alcuna propensione all’accoglienza (cfr., nuovamente, Dr Strangelove). A questo punto l’autore del romanzo fa una cosa strana, aprendo il capitolo 7 con un’epigrafe di San Francesco d’Assisi e dedicando tre pagine a una lunga riflessione sulla discriminazione etnica, di cui riportiamo alcuni stralci: 5 Muffy è il nome del gatto impagliato che la nonna tiene sempre con sé, considerandolo ancora vivo.
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It has long been considered ironic that the capital city of the United States […] contains some of the worst slums in the country. These ugly, depressed, and scary-looking areas are inhabited mostly by angry African-Americans. Indeed, there are slaves in America today. There are at least two million illegal immigrants living in the U.S.. These “illegals” have no civil rights and are exploited by employers who pay them slave wages. […] And what about Native Americans? They were robbed of their land and systematically murdered, as government policy. Killing Indians was not even a crime until 1892 because the government did not recognize them as human beings. […] it wasn’t until 1922 that Indians were given the vote. The black man had the vote in 1846. So, why aren’t Native Americans more angry? (pp. 73-75)
Nel chiedersi la ragione per cui le persone di colore sono più arrabbiate delle altre minoranze, il narratore da un lato ha lo spunto per presentare un nuovo personaggio, Louise, la moglie di Byron, e i suoi due figli, Cedric e Neville, che hanno progettato di marinare la scuola (e giocano a un videogame che, profeticamente, prevede combattimenti contro crudeli alieni verdi e si chiama Flesh Eaters), dall’altro allarga polemicamente lo sguardo sulla società multietnica e sui conflitti che la attraversano. Nel frattempo, alla Casa Bianca la famiglia presidenziale sta guardando la TV: il programma in corso prevede un’intervista di Nathalie al professor Kessler, un prodigio definito “braniac” che spiega: “The Martian canals are actually canyons. […] Some of them are over a hundred miles deep. I think we can assume that Martian civilization has developed under the surface of the planet” (p. 94). Mentre la giornalista ha occhi solo per l’affascinante professore, “The First Lady didn’t like this Martian civilization. She didn’t like that it had developed under the surface of the planet. It seemed suspiciously furtive” (pp. 94-95). E non si sbaglia, perché, al primo apparire di un marziano nello schermo TV, “If his appearance was scary, his voice was worse. It sounded like a mix between a rattlesnake and a screeching crow. […] ‘I am not having that thing in my house!’ she said” (pp. 100-101). Se il professor Kessler ricorda il docente di Princeton di War of the Worlds, la moglie del Presidente incarna la repulsione istintiva nei confronti del diverso, tanto che ora comprendiamo che, a livello di percezione, c’è qualcosa che collega gli slums sopra citati con le abitazioni sotterranee dei marziani, che vengono addirittura definiti things come un tempo i nativi o gli schiavi. Eppure, quella della First Lady è una reazione che ci pare quasi legittima, una legittimità che viene accentuata nel film in quanto lo spettatore vede con i suoi occhi l’alieno e ne sente la voce stridula. Tuttavia il Presidente continua a mostrarsi tollerante e comprensivo: è il tipico rappresentante di una élite culturale bianca, campione di buona educazione e cultore di una ineccepibile political correctness che porterà
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avanti a dispetto di tutto. Da un’altra parte dell’America, Richie guarda stupefatto lo schermo TV e nel vedere il marziano tracciare un ampio cerchio con la mano, esclama: “Whoa! […] He just made the international of the donut!” (p. 102). La ciambella, oltre a rappresentare il marchio del locale in cui lavora Richie, è uno dei maggiori simboli americani e compare spesso nelle serie TV (cfr. The Simpsons); inoltre essendo di forma circolare è anche un mandala e questo ci ricollega allo spirito new age che il film mette a tratti in ridicolo. Il capitolo 10, come già il 7, ci propone una nuova pausa di riflessione. L’epigrafe, questa volta, è tratta da una canzone dei marines e riporta, fra gli altri, i seguenti versi: “We fight our country’s battles / In the air, on land, and sea; / First to fight for right and freedom / And to keep our honor clean” (p. 103). Questo, poi, l’incipit del capitolo: If the Founding Fathers could return to America in the beginning years of the twenty-first century to inspect the political system they had created in the closing years of the eighteenth century, they would find much to surprise them. The writers of the Constitution would surely catch their breath at the sheer size of the federal bureaucracy. […] No changes would be more astounding than those surrounding the Presidency. […] Today, most Americans believe it is the President who embodies the popular will […] (pp. 103-104)
Come già in precedenza, questo incipit ha una doppia funzione. Da un lato, è semplicemente un modo per introdurre il personaggio di James Dale, che si sente investito di una responsabilità superiore alle sue forze e difatti poche righe più avanti se ne lamenterà in un sintetico ma incisivo discorso indiretto libero – “Yesterday it was the Cubans, now it was the Martians” (p. 104); dall’altro, inserisce la vicenda in una prospettiva storica, ricordando ai lettori che i fatti si svolgono, sebbene parecchi anni dopo, nella stessa nazione voluta dai Padri Fondatori. Mentre il Generale Decker ritiene necessario l’intervento armato, anche solo a scopo preventivo, il Presidente pende dalle labbra di Kessler, che è stato invitato alla Casa Bianca: “How about their intentions, Professor? Are they friendly?” Kessler nodded slowly. “Given their extremely high level of technical development, logic dictates they are an advanced culture. Therefore they are more than likely to be peaceful and enlightened.” (p. 106)
Poco dopo è la volta di un altro ospite, il Dr Ziegler, che ha messo a punto un programma di traduzione grazie al quale è possibile, tramite computer, comunicare con i marziani. Il fatto che, nel romanzo (non così nel film) il dottore sia tedesco e parli con accento inconfondibile ci riporta nuovamente al già più volte
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citato Dr Strangelove; l’effetto comico della scena, però, è dato dal fatto che, pur traducendo il linguaggio marziano, le frasi non siano comprensibili: The synthetized voice continued: “For the fundamental truth is self-determination of the cosmos, for dark is the suede that mows like a harvest”. “What the hell is that supposed to mean?” complained General Decker. All around the conference table, no one spoke. (p. 108)
Pur nella sua ambiguità, la frase non può non risuonare ironicamente con la self-evident truth contenuta nella più volte citata Dichiarazione d’Indipendenza Americana e con l’uso frequente delle metafore nei discorsi presidenziali. Cambiando location, vediamo Barbara a un incontro di ex alcolisti, dove inneggia all’imminente arrivo dei marziani da una prospettiva decisamente new age: “Please come to Earth! Please! Begged Barbara. “Please! Please! Please! We need you!” […] “[…] I’m feeling so optimistic because of these Martians. We’re not alone in the Universe! […] Our planet was suffering, with the ozone and the rain forest […] But then the Martians heard our global cry for help. People say they’re ugly, but I think they’re here to show us the way! They’ve come to save us!” (pp. 55, 110-111)
In un nuovo cambio di scena siamo in Kansas, dove Richie e la sua famiglia salutano il fratello, in partenza per la missione di accoglienza dei marziani (in realtà i suoi intenti sono parecchio ostili; prima di partire esclama, infatti: “If any of them Martians come around here, I’m gonna kick their butts! ”, p. 69). Appare chiaro che Richie è sottovalutato fin da piccolo mentre c’è un forte rapporto d’affetto con la nonna, che qui Richie riconduce nella casa di riposo in cui risiede. Una volta tornata nella sua stanza, la vecchia signora si mette subito in ascolto del suo cantante preferito, Slim Whitman, e nel romanzo (non così nel film) le infermiere devono intervenire per pregarla di abbassare il volume o mettersi le cuffie. Questo episodio, in apparenza poco significativo, si rivelerà fondamentale nel finale. Di nuovo alla casa Bianca, l’addetto stampa insiste sulla necessità di “establish contact, work out whatever communication problems” (p. 126) e poche pagine dopo apprendiamo che l’arrivo dei marziani è imminente: atterreranno a Pahrump, nel deserto del Nevada. Sono tutti euforici, e moltissimi americani convergono nel luogo designato: oltre a giornalisti, politici e miltari, “There were all-sorts: UFO-watchers, New-Age hippies, crystal-gazers, astrologers, Branch Dividians, dolphin-swimmers, Freemen, Trekkies, ravers, and lots of retired senior citizen in RVs. Cars, trucks, and RVs lined the highway for a mile and a half ” (pp. 144145). Solo Barbara, prevedendo la confusione, preferisce appartarsi su una collina
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poco distante, “where she could watch the Martian landing alone. She sensed that the Martians would bring a powerful energy with them and she needed a place to meditate, to get centered – the better to experience it” (p. 145). Uno striscione saluta i marziani a lettere cubitali: “WELCOME TO EARTH!” (Ibidem). Intanto, alla Casa Bianca il Presidente guarda la scena dall’immancabile televisore: “The President was couch commander, having possession of the remote control” (p. 151). L’ironia è palese: proprio lui, che è animato da spirito d’accoglienza, non è potuto essere presente al primo appuntamento per ragioni di sicurezza. Insieme a lui, “Via the TV cameras, over a billion people, all over the world, saw the first Martians to arrive on Earth” (p. 153). Se non è ancora il World Wide Web, è la sua antenata, la mondovisione. Ed ecco lo sbarco: General Casey hopped forward and extended his hand. The Martian ambassador stepped back […] He had clearly offended the Martian somehow. […] Then Casey had an inspiration. He turned to the Martian ambassador and, bowing slightly, drew a large circle in the air. The Martian ambassador relaxed, took a step forward, and began to speak. (p. 154)
Subito interviene il computer-traduttore, che regala al pubblico la prima grande emozione: “The crowd waited expectantly as the computer spat out the Martian argot. […] “We come in peace. We come in peace! We come in peace!” […] Everyone clapped and cheered. Even the soldiers applauded” (pp. 154-155). A questo punto, però, abbiamo il primo, tragico colpo di scena: A handsome, bearded hippie, dressed like Jesus, pulled out a white dove from under his tunic. “They came in peace!” he cried, in ecstasy, and tossed the dove into the air. […] The Martian ambassador saw the bird coming, barred his teeth, and hissed. One of the Martians pulled a raygun from his holster and – Pzzzzzttt! – the dove instantly exploded. […] All the Martians started firing! […] The soldiers ran. The hippie was cut in half by a proton beam. […] The guests crashed through the barriers and joined the spectators, who were dashing to their vehicles, falling over each other in a mad scramble to escape. Death rays cut them down, like wheat before a scythe. Throughout the United States, and the rest of the world, people watched what later became known as the “Pahrump Massacre”, live on their TV sets. […] All around the landing site, Martians were slaughtering humans. (pp. 156-157, 159)
La crudezza della scena, e di quelle che seguiranno, è resa ancor più drammatica per il fatto di giungere completamente inaspettata, sia per i personaggi, sia per gli spettatori e i lettori; ovvero, se anche ce la si aspettava, si poteva supporre che
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sarebbe stata più mite, attutita dal tono da commedia che ci aveva accompagnati fino a quel momento. Il fatto che dei protagonisti (lo stesso Casey per primo, poi il marito di Nathalie) vengano massacrati (per non parlare della stessa Nathalie e del suo cagnolino, che vengono rapiti e “riassemblati” in due orrendi corpi per metà umani e per metà canini) e per di più in diretta televisiva, spiazza lo spettatore che si deve per così dire ri-sintonizzare sul tono che ha preso la vicenda. Mentre il professor Kessler continua a parlare di “fraintendimento culturale” e insiste sulla necessità di stabilire una comunicazione più adeguata, la reazione apparentemente inspiegabile, eccesiva e violenta dei marziani alla stretta di mano e alla colomba bianca mette d’un tratto a nudo la fragilità e la relatività della nostra cultura, di ogni cultura: “Maybe on Mars, doves mean war?” (p. 162). Il Las Vegas Examiner intitola “MARS TRAGEDY” (p. 163) e, tra i decessi, segnala con tanto di fotografia anche quello del fratello di Richie: “Photographed through the smoke, the image had a mysthic, heroic, Iwo Jima quality”; il titolo del servizio è: “AMERICAN HERO” (pp. 163, 164). Billy-Glenn è morto dopo aver esclamato: “Die, you alien shithead!” e impugnando la bandiera americana; prevedibilmente, ha un funerale da eroe e Richie subisce l’ennesima frustrazione dai familiari. Il riferimento a Iwo Jima colloca l’eroe nell’Olimpo dei caduti americani nel corso di guerre passate alla storia. La battaglia citata si svolse nell’Oceano Pacifico, nell’omonima isola giapponese, disabitata, tra le forze USA al comando dell’ammiraglio Raymond Spruance e l’esercito giapponese al comando del generale Tadamichi Kuribayashi. Insieme a Okinawa, Iwo Jima rappresentava una posizione militare strategica per gli americani, che la occuparono fino al 19686. Il fatto che il padre sia un veterano del Vietnam e il fratello venga equiparato ai caduti di Iwo Jima fa risaltare ancor di più l’antieroismo di Richie. Il generale Decker, nel frattempo, continua e invocare la soluzione nucleare, inascoltato, mentre il Presidente, che sa bene cosa sia un fall-out, si preoccupa che le scuole restino aperte e la spazzatura venga raccolta dalle strade, e vuole collaborare piuttosto con altri capi di stato. A Las Vegas, per contro, mentre Barbara è disperata, Art è soddisfatto: se arriveranno i marziani, ci saranno più ospiti nel suo hotel. Significativamente, il messaggio successivo del Presidente avviene non attraverso la TV, bensì tramite una registrazione fatta al computer e trasmessa via radio. Il Presidente, che parla di “cultural misunderstanding”, viene ascoltato anche dai marziani, che reagiscono “with a sound similar to that of a burp” (pp. 165, 167). È questo uno dei rari momenti in cui abbiamo una prospettiva marziana, e tanto basta per farci capire che i terrestri si fanno illusioni se credono che davvero gli alieni siano venuti in pace. 6 (27/05/2015).
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Difatti i colpi di scena si susseguono, sempre più rapidi: invitati al Congresso per ripartire da dove i saluti erano stati interrotti, e dove gli americani prestano attenzione a che la loro sensibilità non venga urtata (vi sono cartelli con scritto: “NO APPLAUSE! NO BIRDS!”, p. 182), i marziani, nonostante avessero inviato una richiesta formale di scuse, operano una seconda strage, anche stavolta totalmente immotivata. Il professor Kessler viene tramortito e portato sull’astronave, dove finisce nello stesso laboratorio in cui si trova Nathalie: di lui resterà solo la testa, che farà comunque in tempo a esprimere a quella di Nathalie il suo amore, ricambiato. Intanto, “In the Oval Office, everyone stared at the carnage on TV” (p. 188). Le stragi continueranno sia negli USA sia negli altri paesi del mondo, e ogni volta saranno mostrate in TV. Si deve quindi passare all’azione, e la scena si sposta dallo Studio Ovale alla War Room, allestita – racconta il romanzo – per volere del presidente Ronald Reagan, che l’aveva vista nel film Dr Strangelove e ne voleva una autentica: The story goes that, after his inauguration, Reagan was given a complete tour of the White House. At the end of the tour, he asked: “Where’s the War Room?” When he was informed there was no such thing, he was vexed. Ronald Reagan, not only an ex-movie star and ex-governor of California but also an ex-president of the Screen Actor’s Guild, had thought the War Room in the film Dr Strangelove was real. One of the first acts as President was to demand that a War Room be built. The result was a vast circular hall, with giant maps of the world on the walls. These maps had imbedded circuits, connected to computers […] In the center of the War Room, built into the floor, was an enormous map of the world, also fed electronically. (pp. 191-192)
Siamo solo nel 1996, ma accanto a giornali, radio e TV fa la sua comparsa il computer, che presto dall’ambito strettamente militare passerà nella vita civile e occuperà un ruolo sempre più rilevante nella società dell’informazione e della comunicazione. Qui, tuttavia, solo una élite è ammessa a tale tecnologia avanzata: quella, cioè, a cui appartiene il Presidente, la cui scrivania è definita “high-tech desk” e intorno al quale le luci nascoste creano “a cathedral-like atmosphere” (p. 192). L’accenno alla liturgia religiosa, che qui viene evocata dalla politica, allude a un probabile vuoto spirituale del mondo occidentale (non è un caso che Barbara si rivolga alle filosofie new age e Byron sia buddista). Di nuovo cinema e storia, realtà e immaginazione si intrecciano. E, di nuovo, un past President viene chiamato in causa: dopo Bush e Reagan, più avanti sarà la volta di Jefferson e Washington, visti con rispetto e ammirazione molto maggiori, i cui ritratti sono appesi alle pareti della Casa Bianca, nella Hall of the Presidents.
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Jerry Ross, infatti, incontra una donna provocante e sensuale e la invita alla Casa Bianca sperando in un’avventura sessuale, e prima di condurla in una stanza segreta che si apre premendo sul naso della statua di JFK, e che chiamano Kennedy Room, le mostra i ritratti dei Presidenti: “Ah, see that one? That’s Thomas Jefferson – he wrote the Constitution. And this, of course” – he pointed to the next painting – “is George Washington. He never told a lie” (p. 205). L’elemento comico/drammatico è dato dal fatto che Jerry Ross non sa che si sta rivolgendo a un crudele marziano travestito da quella che lui crede sia una sensuale ragazza straniera. Dopo averlo tramortito e avergli staccato un dito con un morso, la “marziana” si dirige verso la stanza da letto presidenziale, dove incenerisce il cane della coppia, un golden retriever, che dorme accanto al letto. Arrivano le guardie del corpo, e il Presidente e la moglie riescono a mettersi in salvo. La First Lady morirà poi, schiacciata sotto l’enorme “Nancy Reagan Chandelier”, durante l’attacco successivo, che ha luogo un giorno in cui la First Family sta prendendo il tè col Dalai Lama. In quel frangente, sarà in corso contemporaneamente anche una visita scolastica guidata a cui partecipano Neville e Cedric, che non vedranno l’ora di imbracciare le armi aliene dopo averle strappate a due marziani morti, e inizieranno a sparare traducendo in realtà il loro videogioco. L’attacco coinciderà con il momento in cui la guida mostra ai ragazzini il ritratto di un ennesimo presidente, James Monroe. Due parole sono opportune a questo proposito, in quanto il nome di Monroe è legato alla dottrina elaborata da John Quincy Adams e pronunciata nel corso del messaggio annuale al Congresso nel 1823. Tale dottrina, considerata la prima formulazione teorica del cosiddetto imperialismo statunitense, esprime l’idea della supremazia degli USA nel continente americano, dichiarando che gli USA non tollereranno alcun tipo di ulteriore colonizzazione da parte degli europei, e al contempo afferma la volontà di non intromettersi nelle dispute europee. Considerata la prima formulazione teorica del cosiddetto imperialismo USA, fu usata anche durante la Guerra Fredda per giustificare gli interventi in America centrale e meridionale7. A Las Vegas, intanto, Art cerca di convincere i possibili finanziatori stranieri del suo hotel del fatto che, anche in un momento di “intergalactic emergency”, bisogna investire denaro. Ormai si è convinto, infatti, che saranno i marziani i suoi nuovi clienti: questo il testo di una sua telefonata alla sua segretaria, qualche tempo prima: “Hey, Melanie, you know how we’ve been busting our buns trying to come up with themes for restaurants?” “Yes.” “Well how about this: Martian-style.” 7 (27/05/2015).
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“Martian-style?” “Yes, you know, we find out how the Martians do their restaurants and we copy it! It’s great! We’ll be the first guys in Vegas to do the Martian thing! […] Now, we need pictures. Martian stuff. Anything you can get. See what you can rustle up, okay?” “Yes, sir.” He clicked off the intercom. […] “Hmm,” he mused. “The Martian Lounge… The Red Planet Pizza Kitchen… Mars-burgers!” (pp. 124-125)
Anche Las Vegas, però, viene attaccata. Si forma un bizzarro gruppo di fuggiaschi: Barbara, Byron Williams, una ballerina e il cantante Tom Jones che interpreta se stesso – e sa guidare un aereo che li porterà in salvo. Byron riesce così a tornare a casa dalla sua famiglia, mentre gli altri atterrano in un luogo selvaggio pieno di animali che si avvicinano a loro felici e scodinzolanti come in un cartone animato della Disney. Nel frattempo, il Generale Decker è stato rimpicciolito e schiacciato sotto la suola di una scarpa marziana, e il Presidente (che a un certo punto aveva acconsentito suo malgrado a dare l’autorizzazione alla guerra nucleare, che era però fallita) lancia un ultimo, accorato appello agli invasori: “Why are you doing this? Isn’t the Universe big enough for both of us? What is wrong with you people?” (p. 263). Dale gioca infine l’ultima carta, proponendo in extremis di allearsi: “We could work together. Why be enemies? Just because we’re different? Is that why? […] We could work together! […] Think how strong we would be! Earth and Mars together!” (p. 264). Il suo interlocutore marziano sembra commuoversi: una lacrima scende lungo la sua guancia. Gli porge la mano, ma questa diventa una specie di serpente che trafigge Dale a morte. Dunque la sconfitta è totale: se la comunicazione interculturale e la disponibilità al dialogo non funzionano, non funziona neanche l’apparato militare, nemmeno l’arma atomica. I marziani distruggono tutto e tutti: uomini, città, monumenti, dal cuore degli USA a quello della vecchia Europa (Parigi, Londra) fino all’India e all’isola di Pasqua. Questa la descrizione di New York: In New York, the island of Manhattan looked like a scuttled battleship – a big, black, smoking hulk. Brooklyn was on fire, blazing out of control; Queens had been completely demolished, and the South Bronx looked pretty much like it always does. Oddly, the Statue of Liberty was unharmed. For some reason, the Martians had spared it, leaving it to reign over the smoldering boneyard that had once been the Big Apple. (p. 257)
Anche in questo frangente drammatico emerge la nota ironica (relativa alla cattiva fama del Bronx), mentre il fatto che la Statua della Libertà sia stata risparmiata lascia aperte molte possibilità: si tratta di un senso di rispetto tardivo e seletti-
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vo da parte dei marziani verso il monumento-simbolo dell’America? O non si tratta piuttosto dell’ultima beffa, la più atroce, visto che la statua è costretta per così dire a guardare lo spettacolo di assoluta distruzione ai suoi piedi? Oppure, ancora, esiste un tabù per il quale nemmeno un regista trasgressivo come Tim Burton si sente di distruggere questo totem (cosa peraltro già fatta in almeno 22 film8 tra cui il celebre The Planet of the Apes)? Oppure, dal momento che poi il film ha un lieto fine, la sopravvivenza della Statua ha un significato funzionale, in quanto pegno di un futuro che la vedrà ancora ritta in piedi nonostante tutto? Di sicuro il fatto che sia una banale canzone country a salvare New York, gli USA e il mondo, al di là della parodia dei classici finali dei film di Sci Fi, legittima quel tipo di eroismo che consiste nel vivere una vita normale, lontana dall’avidità, dal successo, un’esistenza marginale nel rispetto dei valori esistenziali più profondi. Non è un caso che, nell’avvicinarsi al finale, troviamo nuovi elementi di comicità legati ai Presidenti; per esempio, quando: “a crowd of tourists visiting Mount Rushmore were alarmed to see a spaceship soar up to the famous carved heads of the Presidents. An intensely bright zigzagging beam pulsed from the ship and into the stone faces. […] After a while, […] The Presidents’ heads emerged, but now they had been recurved into the features of famous Martians!” (p. 258). La scena è in realtà più efficace nel film, dove vediamo con i nostri occhi i volti “sacri” di Thomas Jefferson, George Washington, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln cambiare aspetto e assumere la fisonomia odiosa degli invasori spaziali. Eppure siamo più divertiti che scandalizzati. Lo stesso vale per il finale, quando alcuni marziani armati fino ai denti stanno per assassinare la nonna di Richie, e a questo punto, quando tutto ormai sembra perduto, The room instantly filled with the sound of Slim Whitman yodeling. All of a sudden, queasy expressions creased the faces of the Martians. Their eyeballs bulged, their cerebra vibrated, and small green capillaries burst in their brains! Grandma peered at her visitors, and adjusted her spectacles. Richie got up – he couldn’t believe what he was seeing. The Martians were dancing up and down, shrieking, their brains expanding and contracting. (pp. 259-260)
A questo punto Richie riesce a portare la “country music of deliverance to the world” (p. 275) a una stazione radio e a farla trasmettere in tutto il mondo, salvando così la nazione e la Terra. Diventa dunque un eroe (inter)nazionale e attira perfino l’attenzione della figlia del Presidente, che dopo averlo insignito della massima onorificenza possibile gli chiede se abbia una ragazza. La sua riscossa 8 Il sito (27/05/2015) elenca nei dettagli, con tanto di immagini, tutti i film in cui la Statua della Libertà viene distrutta, decapitata, mutilata, spostata, ecc.
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è quella del figlio minore nella mitologia, dell’eroe comune e incompreso, della persona buona e generosa che alla fine vince contro il Male. Mentre lui si preoccupava di salvare la nonna, i suoi genitori, asserragliati nel loro trailer, pensavano invece solo a se stessi: il padre ritenendo inutile salvare la nonna, “halfway to outer space already”, e la madre, preoccupandosi solo per il suo prezioso televisore: “I’ll tell ya one thing, Richie […] they ain’t gettin’ the TV” (p. 238). Al di là dei colpi di scena e delle varie trasgressioni compiute da Tim Burton e dal suo staff, il finale è tipicamente hollywoodiano: i marziani vengono sconfitti, la riscossa dei terrestri parte dall’America, l’eroe è un bravo ragazzo qualunque, e alla fine anche l’amore trionfa. Rivedere questo film dopo l’11 settembre lascia comunque un amaro in bocca che nel 1996 non si sentiva. La scena, in particolare, in cui un’astronave marziana, colpita dalla musica mortale di Slim Whitman, va a colpire un grattacielo ricorda troppo da vicino il crollo delle Twin Towers per poter essere vista col sorriso sul volto. Il film, visto allora, sembrava un intelligente prodotto postmoderno, di cui si potevano apprezzare le citazioni, la satira, perfino il cinismo; al di là della disillusione provocata dalla riesumazione di alieni cattivissimi, dopo anni di buonismo spielberghiano, il film non trasmetteva allo spettatore il disagio che dà oggi. Anche la visione del Taj Mahal che esplode alle spalle del gruppetto di marziani che si stanno facendo fotografare da un compagno (nel 1996 non erano ancora stati inventati i selfie) e le statue dell’isola di Pasqua che cadono una dopo l’altra come birilli sotto lo sguardo attonito degli indigeni non possono non ricordare lo scempio effettuato nel corso delle guerre recenti e negli episodi di recrudescenza fondamentalista. Forse, dopo tutto, Tim Burton ha rappresentato non i marziani, ma gli umani, che stanno distruggendo senza ragione e senza alcuna pietà se stessi e il pianeta su cui vivono. Se è vero che, come diceva Bradbury, e come hanno detto tanti altri, i marziani siamo noi, vedere oggi questo film mette i terrestri e gli americani di fronte alla necessità, all’urgenza quasi, di ritrovare un senso di responsabilità condivisa, di rispetto, di civiltà autentica prima di mettere piede su un altro pianeta.
CONCLUSIONE?
Al termine di questo volume, che apre una collana dal titolo suggestivo come Rewind, sarei tentata di “riavvolgere” quello che ho scritto e di tornare alle parole citate nell’Introduzione: “Se fossi un marziano…” – sì, perché tutto nasce da lì, da un desiderio e da un sogno. La letteratura, il cinema, la filosofia si interrogano sempre, come la scienza, sui nostri desideri e sui nostri sogni, ora alimentandoli, ora dimostrandocene l’impossibilità. Come abbiamo visto, la nazione americana ha contribuito in larga misura al consolidamento del mito di Marte e alla strutturazione della figura del marziano nell’immaginario collettivo, riversando nella narrativa e nei film l’inquietudine data dall’incontro con il diverso, la paura dell’invasione, l’utopia di nuove frontiere e il progetto di nuove colonizzazioni. Nel corso del tempo i marziani sono stati assimilati prima ad angeli protettori, poi ai comunisti, poi a terroristi spaziali; infine, da quando abbiamo avuto le prove che Marte è disabitato da tempo, l’immaginazione ha creato nuove storie di archeologia spaziale, di catastrofi ecologiche o nucleari che da un lontano passato si proiettano sul nostro futuro. Ma il fascino del Pianeta Rosso rimane, e anzi la sua attrazione nei confronti delle nostre fantasie e dei nostri progetti è in continua crescita. È estremamente probabile che, nel momento in cui questo libro sarà pubblicato, le notizie che contiene su Marte siano ormai superate, e che l’attenzione sia convogliata su pianeti ancora più lontani (come Plutone, che abbiamo “sfiorato” proprio mentre correggevo le bozze, o Kepler 452B1, il pianeta “gemello” della Terra, “the nearest thing yet to an Earth 2.0”, su cui potrebbe esserci acqua e dunque 1 (23/07/2015).
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vita, scoperto a 1400 anni luce da noi). Così come, nel campo della letteratura e del cinema, sicuramente sono usciti e stanno uscendo nuovi libri e nuovi film che qui, per ovvi motivi, non sono stati presi in considerazione. Voglio però dire due parole sul perché chiudiamo con The Martian, e su come questo romanzo e il film omonimo si ricolleghino all’ultimo capitolo del libro, dedicato a un’opera ben diversa quale è Mars Attacks! Il film di Tim Burton uscì nel 1996, quasi vent’anni fa. Non c’era stato, come si è già detto, l’11 settembre. Il disastro ambientale sulla Terra sembrava ancora evitabile. E Curiosity non stava ancora passeggiando su Marte. Mars Attacks! è caustico, cinico, surreale, scorretto, postmoderno e comico: tutte caratteristiche che non ritroviamo in The Martian. Abbiamo forse perso il senso dell’umorismo? Non proprio, perché il protagonista della vicenda ne ha una notevole dose. Ma è cambiata completamente la prospettiva. I marziani non ci sono: poco importa che ci siano mai stati o no, o come siano andati a finire, e poco importerebbe sapere che, magari, abitano sotto terra per tutto il tempo della vicenda, incuranti del terrestre solitario che cerca solo un modo per ristabilire i contatti con la Terra ed escogitare il sistema che possa riportarlo sul suo pianeta d’origine. Il protagonista, terrestre e americano, è il marziano del titolo: solo questo importa. Nel momento in cui è vittima di un naufragio spaziale è, per dirla con Hawthorne, outcast of the universe, non è un invasore, né un fuggiasco, e nemmeno un colono: è un viaggiatore di passaggio, impegnato a fare i bagagli per tornare sulla Terra. Prima di lui c’erano stati i personaggi di The Certainty of a Future Life on Mars, The Martian Race, The Martian Chronicles; e sicuramente others will follow, come diceva Stevenson in The Strange Case of Doctor Jekyll and Mister Hyde. Questo personaggio è diverso: la sua vicenda unisce Robinson Crusoe e Hansel e Gretel, in quanto deve non solo dimostrare a se stesso e al mondo che è in grado di farcela, ma vuole rientrare alla base. E, a differenza dei protagonisti di altri film recenti come Interstellar o Gravity, che pur nel loro temporaneo esilio spaziale rimangono terrestri e americani per tutto il tempo della loro avventura, Mark Watney capisce che, per tornare, deve “diventare marziano”, e sarà questa sua doppia nazionalità/cittadinanza (“pianetanza”?), o meglio questa sua in-betweenness, a dargli una marcia in più, sulla scia della transplantation di cui si è parlato più volte. Non per conquistare il pianeta, però, questa volta, ma per tornare a casa. La mia conclusione, dunque, non conclude nulla. Per questo il punto interrogativo. Credo infatti che il discorso sia ben lontano dall’essere concluso; e spero che l’interesse per la narrativa e la cinematografia marziana diventi parte integrante degli studi culturali americani. Perché sono certa che Marte riserverà ancora molte sorprese, e che i marziani continueranno a esistere, con i loro corpi verdi o trasparenti, avvolti o meno dai colori della bandiera americana, in quelli che Edgar Allan Poe chiamava “i cieli incastonati di pietre preziose” dell’immaginazione.
POSTFAZIONE IL PRIMO MARZIANO, FORSE UN NUOVO MARZIANO: DUE PAROLE SU THE MARTIAN DI ANDY WEIR
Tullio Dobner
La scelta di Marte come palcoscenico per la rappresentazione della tenacia della specie umana (e, al contempo, come schermo su cui si proiettano le varie fasi della storia della cultura americana) ha svariate ragioni, tecniche, storiche, razionali e inconsce, tutte illustrate e spiegate benissimo nelle brillanti pagine che precedono questa mia nota. Coincidenza vuole però che, per mitologia e astrologia, Marte simboleggi energia, forza di volontà, dinamismo, determinatezza, impulsività. In sintesi, tutte le caratteristiche-chiave della personalità di Mark Watney. Mark Watney è il protagonista di The Martian, e posso dire di aver vissuto con lui su Marte per tutto il tempo della mia traduzione. Quando ho finito di tradurre The Martian, ho fatto una cosa che non aveva precedenti in 45 anni di professione. Ho scritto ad Andy Weir e gli ho fatto i complimenti. Non sto cercando di insinuare che The Martian sia il miglior romanzo che ho avuto la ventura di tradurre tra i 500 che sono passati sul mio tavolo. Io non so qual è stato il migliore, non so se c’è un migliore in assoluto, e se nei primi anni della mia carriera non ho manifestato la mia ammirazione ad altri autori, alcuni famosi, fu solo perché non c’era modo di contattarli; ma ho apprezzato un lavoro fatto bene da ogni punto di vista nei confini che secondo me il suo autore si era prefissato.
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Ho avuto la personale impressione che il proposito di Weir fosse di divertire divertendosi a scrivere qualcosa di meno che sciocco. Come gli ho scritto, oggi un prodotto di letteratura di svago così ben riuscito è una rarità. Per i pochi che non lo sapessero, aggiungo che il suo romanzo fu rifiutato da più di un editore, finché, spinto dagli amici, Weir lo mise a disposizione su Amazon per 99 centesimi di dollaro e vendette 35.000 copie in tre mesi. Magari è per questo che i romanzi ben fatti sono una rarità. Dopo la prima piacevole sorpresa di questa chicca letteraria, sono rimasto nuovamente sorpreso dall’accoglienza dei lettori. In tanti hanno dichiarato di essersi appassionati fin da subito, di essersi sentiti costretti a leggerlo d’un fiato, di essersi divertiti dall’inizio alla fine. A dispetto, hanno confessato in tanti, della grande quantità di tecnicismi, molti dei quali, per alcuni lettori, peggio che astrusi. Weir è riuscito nell’operazione davvero speciale di infarcire la sua storia di innumerevoli momenti di scienze applicate presentandole in modo che le possa leggere anche il profano, senza annoiarsi mai. Sono leccornie per chi sa di cosa sta scrivendo, sono coreografia per chi ne è ignaro. Weir ci presenta l’apoteosi del bricoleur: Mark, il suo personaggio, è idraulico, elettricista, contadino e vivaista, tecnico di hardware, di lavatrici, di lavastoviglie, antennista, meccanico d’automobili, manovale, lattoniere, esperto di fotovoltaico, spazzacamino, perito radiotecnico, piccolo chimico, ingegnere elettronico, boy scout che accende fuochi strofinando legnetti e ripara gli strappi con il nastro adesivo, e… mi scuso, ma non riesco a metterli tutti. Mentre traducevo, partecipavo: mi ero immedesimato nel protagonista, soffrivo, gioivo, tifavo. E la particolare posizione del traduttore impedisce normalmente questo tipo di coinvolgimento. Non succede quasi mai. E mi sono interrogato sul perché io e tanti lettori fossimo caduti vittime di questa malia. Il titolo originale, The Martian, ha una sua giustificazione o giustezza, perché Mark è il primo marziano, forse un nuovo marziano. Se un abitante di Catania è un catanese, se un abitante del Belgio è un belga, credo che un abitante di Marte sia un marziano. E il nostro immigrato dalla Terra, volente o nolente, abita su Marte, quindi da quando il destino lo ha costretto a prendere la cittadinanza, è a tutti gli effetti un marziano. Immigrato o autoctono, Mark deve fare principalmente una cosa elementare: vivere. Qui secondo me si nasconde il motivo della risonanza da tutti condivisa che ha questa storia nel nostro inconscio junghiano: apparentemente Mark deve “sopravvivere”, ma nel modo in cui Weir ci propone la sua condizione, Mark deve più semplicemente “vivere”. Perché il limite temporale delle sue traversie non è preciso, è solo virtuale. Come il mio e il vostro. Di conseguenza la sintesi
Postfazione: Il primo marziano, forse un nuovo marziano
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dei suoi sforzi è la vita in quanto tale, perché vivere, in fondo, significa risolvere problemi e superare ostacoli, giorno dopo giorno, senza scadenze. Mark Watney è tutti noi. Ma anche qualcosa di più. E anche se non stiamo parlando dei grandi classici della letteratura che ci hanno illustrato i fondamentali vizi dell’umanità, le sue virtù – posto che ce ne siano, – le sue forze e debolezze, le sue grandiosità e miserie, Weir ci parla di qualcosa che ci unisce tutti, ci parla di quell’animale umano di cui scrisse mirabilmente negli anni ’50 l’antropologo Weston La Barre. La Barre non era credente, ma riconosceva l’esistenza di un “principio vitale”, una spinta fatta di istinto innato e di un’autoconsapevolezza intrinseca che arrivava a definire “intelligenza” e che è presente in tutto ciò che nell’universo ha capacità di riproduzione. La spinta a “esserci”. Può darsi che tutti i romanzi siano, in fondo, delle allegorie, ma questo lo è sicuramente. Credo che eserciti un fascino irresistibile su lettori di tutte le tendenze perché è una sinossi della storia dell’umanità. Tutte le “competenze” che mette in pratica Mark rappresentano le conquiste dell’evoluzione dell’animale uomo e vengono in soccorso a quello che nell’uomo è ancora e per sempre animale, la sua animalità, la sua “anima” nel senso più esclusivamente laico, il principio vitale di La Barre. Per una volta, leggendo The Martian, il lettore legge la propria storia, senza rendersene conto legge la cronaca della propria vita quotidiana, riconosce istintivamente l’allegoria della propria esistenza, non solo quella personale, ma quella della specie a cui appartiene. Allora si capisce perché si immedesima e si lascia stregare. Credetemi: io su Marte ci sono stato.
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Collana Rewind Studi culturali britannici e angloamericani British and Anglo-American Cultural Studies
1. Alessandra Calanchi, Alieni a stelle e strisce. Marte e i marziani nell’immaginario USA.
Finito di stampare nel mese di ottobre 2015 da Digital Team (Fano - PU) per conto di Aras Edizioni srl su carta Bioprima book 85 gr/mq.