Dante. Una vita d'amore e d'avventura. Beatrice, i lupi e le stelle


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Dante. Una vita d'amore e d'avventura. Beatrice, i lupi e le stelle

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FRANCO NEMBRINI

UNA VITA D’AMORE E D’AVVENTURA

NICE,

BEATR E L L E T S E L I LUPI E

N

FRANCO NEMBRINI

DANTE UNA VITA D’AMORE E D’AVVENTURA

BEATRICE, I LUPI E LE STELLE Illustrazioni di Andrea Iacobuzio

Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l'universo a Dio fa somigliante. Paradiso, canto I

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E T N A D I D O T E R G E S IL

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Chi è Dante Alighieri? Forse si potrebbe rispondere così: un uomo innamorato. Innamorato di tutto: della sua città, dei suoi amici, dello studio; innamorato di Beatrice e della poesia; e, per tutto questo e dentro tutto questo, innamorato di Dio. Innamorato della sua città, e perciò desideroso di contribuire al suo bene. Innamorato dei suoi amici, e perciò sempre pronto a dividere con loro gioie, dolori e scoperte. Innamorato del mondo, e perciò appassionato allo studio, ai libri che permettono di scoprire anche quel che non si può incontrare direttamente. Innamorato di Beatrice, la donna che gli ha cambiato la vita, e perciò pieno di desiderio di capire fino in fondo il mistero di quell’amore così strano – si sono incontrati solo due volte! – e finito così presto, con la morte di lei a ventiquattro anni. Innamorato della poesia, della parola bella che permette di comunicare a tutti la bellezza della vita. Innamorato, perciò, di Dio, perché capisce che è Lui la sorgente da cui tutto questo nasce e il porto a cui tutto questo tende; e quindi desideroso di comprendere, per quanto a un uomo sia possibile, il Suo mistero, di godere della Sua bellezza, di abbandonarsi al Suo abbraccio. Nelle pagine che seguono cercheremo di ripercorrere i grandi amori di Dante, che lui ha raccontato nella Commedia, una delle opere più straordinarie di tutta la letteratura, tanto che i posteri la chiameranno Divina. 4

Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente.

P

Vita nova

«L’amore è stato il signore della mia anima, che divenne prestissimo sua sposa, e cominciò a impadronirsi di me con tanta forza, per l’importanza che la mia mente gli riconosceva, che ero trascinato a obbedirgli completamente.»

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Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno tuo nome si spande! Commedia, Inferno, canto XXVI

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Durante il suo viaggio immaginario all’inferno, Dante lancia contro la sua città questa invettiva: «Rallegrati, Firenze, perché sei così grande che voli su tutto il mare e su tutta la terra, e il tuo nome si diffonde per tutto l’inferno». Firenze era sì ricca e potente, ma anche piena di uomini malvagi.

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A S O I G I T I L E A C C I R FIRENZE

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Dante ama moltissimo la sua città. Nel Duecento è una delle città più popolate e più ricche d’Europa, forse è proprio la più ricca. I mercanti fiorentini comprano e vendono stoffe, spezie e altro ancora in tutto il mondo allora conosciuto, guadagnando moltissimo; i banchieri della città prestano denaro perfino ai re; la moneta di Firenze, il fiorino, è usata in Francia, in Germania, in Inghilterra... Certo, non tutti i fiorentini sono ricchi, ci sono anche i poveri e tanti che semplicemente se la cavano più o meno bene, ma nell’insieme la città è prospera. I suoi abitanti sono riuniti in gruppi, chiamati arti o corporazioni, a seconda del mestiere che svolgono: troviamo l’arte dei mercanti, l’arte dei medici, quella dei fabbri... Le arti hanno come primo scopo favorire e sostenere il lavoro dei propri membri, però la loro azione si allarga a tutti gli ambiti della vita: per esempio, se un socio si ammala e non può lavorare l’arte gli dà un contributo; quando un socio muore è l’arte che paga i funerali; e così via. Al tempo di Dante ci sono in tutto ventuno arti, di cui sette maggiori e quattordici minori. I membri delle arti maggiori hanno anche il controllo della città: tocca a loro infatti scegliere i sei priori che formano il governo e durano in carica due mesi. Oltre che ricchi, i fiorentini sono anche – come in genere gli uomini del tempo – molto religiosi. In città troviamo centodieci chiese e almeno trenta monasteri, i documenti pubblici si aprono con la formula “In nome della 7

SS. Trinità”, ogni corporazione ha la sua chiesa e il suo santo protettore. Nei libri dove i mercanti tengono i loro conti c’è una pagina intestata a “Messer Domineddio”, nella quale vengono registrate le donazioni fatte a chiese, conventi, orfanotrofi, ospedali; così, grazie alla carità cristiana, la ricchezza dei benestanti arriva a sollevare almeno un po’ le miserie dei bisognosi. 8

Ricchi e religiosi, i fiorentini sono anche molto litigiosi. Le rivalità tra le arti e le famiglie, tra i ricchi e i poveri, tra i quartieri e perfino tra gli ordini religiosi, sono un elemento quotidiano della vita cittadina, e non è raro che finiscano con una rissa, una coltellata, o addirittura una vera e propria guerra. Ricca, religiosa e litigiosa: ecco la Firenze in cui Dante Alighieri viene alla luce. 9

A N R E T E È A S O C I OGN

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Sulla religiosità del Medioevo occorre fermarsi ancora un momento. Che cosa vuol dire che il Medioevo è un’epoca religiosa? Non significa che tutti gli uomini siano buoni, pii, onesti. Anche durante questi secoli sono deboli, come tutti, e peccano, come tutti: si fermano a desiderare le cose della terra, e molti rubano e ammazzano per averle. Hanno chiara, però, un’idea: che la loro vita ha un destino eterno. Che cioè quel che fanno resta scritto per sempre, che ogni loro azione è compiuta sotto lo sguardo di Dio. E a volte qualcuno prende questo sguardo molto seriamente e cerca di vivere all’altezza dell’amore di Dio. E quando nasce un uomo così, come Francesco, innamorato di Dio, molti sono pronti a seguirlo. Pensate: quando Francesco, poco più di una decina d’anni dopo aver iniziato a vivere in povertà e letizia, decide di radunare tutti quelli che in varie parti d’Italia hanno cominciato a imitarlo, ad Assisi arrivano circa cinquemila persone. Cinquemila! In un’epoca in cui non ci sono giornali, televisioni, cellulari... Che cosa li attira? Che cosa spinge uomini, donne, giovani, vecchi, ricchi, poveri, a lasciare tutto e a seguire un uomo come Francesco? Per noi oggi, che viviamo in un tempo molto diverso, è difficile capire, ma proviamo a immedesimarci. Gli uomini del Medioevo hanno chiaro che Dio è tutto, e perciò che la santità è la vocazione di tutti, anche del più incallito dei peccatori. Ecco, questa è la mentalità, ovvero l’idea della vita, dentro cui Dante nasce. 10

Per tal donna, giovinetto, in guerra del padre corse [...]; e dinanzi a la sua spirital corte

et coram patre le si fece unito; poscia di dì in dì l’amò più forte. Commedia, Paradiso, canto XI

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Una delle figure più straordinarie del Medioevo è Francesco d’Assisi, vissuto circa un secolo prima di Dante, il quale nel Paradiso ne tesse uno splendido elogio, presentandolo come innamorato di donna Povertà: «Per questa donna [la povertà] fin da giovane si mise contro il padre, e davanti alle autorità religiose e al padre la prese in sposa, e da allora la amò di giorno in giorno sempre di più».

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IL GIOVANE 12

DANTE

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Pareva alla gentile donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire uno figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi

O L O P O P L FIGLIO DE

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Dante Alighieri nasce tra la metà di maggio e gli inizi di giugno del 1265. In che giorno non sappiamo, allora non c’era l’ufficio anagrafe che registrava le nascite; la prima data certa della vita della maggior parte delle persone era quella del battesimo. Così, di Dante sappiamo che viene battezzato il 26 marzo del 1266 insieme a tutti i bimbi nati nell’anno nel meraviglioso battistero dedicato a San Giovanni, patrono della città. Della mamma sappiamo poco, solo che morì quando il piccolo Dante aveva forse cinque o sei anni; il papà, Alighiero, era uno dei tanti fiorentini che se la passavano più o meno bene, occupandosi di piccoli commerci e di prestiti di modesto importo. La famiglia in cui Dante cresce non è ricca ma neanche povera, ci appare come una dalle tante famiglie che formano il laborioso e tenace “popolo minuto” della città. 14

solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto l’avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante

P

Cinquant’anni dopo la morte di Dante, un altro grande scrittore fiorentino, Giovanni Boccaccio, ne scrive la vita e racconta che sua madre, mentre era incinta di lui, fece questo sogno: «Nel sonno la brava donna credeva di essere su un prato verde, sotto un altissimo alloro, accanto a una fonte di acqua purissima, e qui dava alla luce un figlio, il quale in brevissimo tempo, nutrendosi solo delle bacche che cadevano dall’alloro e delle acque della chiara fonte, le sembrava che diventasse un pastore, e cercasse di raggiungere le fronde dell’albero che l’aveva nutrito; e mentre cercava di arrampicarsi le pareva di vederlo cadere, e quando si rialzò lo vedeva non più un uomo, ma trasformato in pavone». È un’invenzione, naturalmente, ma ci fa riflettere sulla grande ammirazione di cui già allora godevano Dante e la sua poesia. L’alloro infatti è, dai tempi antichi, simbolo della poesia, perciò il fatto che Dante fin da piccolo si sia nutrito di bacche d’alloro rappresenta il suo amore profondo per la poesia. Il pavone è da sempre segno di gloria e di splendore.

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E R I U G E S A D O R T S E UN MA

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Anche dell’infanzia di Dante abbiamo ben poche notizie. Sicuramente è un ragazzino intelligente, curioso, che impara facilmente; che cosa e da chi, non sappiamo. Salvo per un particolare, fondamentale, che Dante racconta: ha incontrato un maestro. Si chiama Brunetto Latini, è uno degli uomini più colti della Firenze del tempo. Per Dante è molto più che un semplice insegnante: è un amico più grande, una guida più saggia, che racconta cose, suggerisce letture, incoraggia e corregge i tentativi del giovane. Insomma, un vero maestro.

Ché ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna. Commedia, Inferno, canto XV

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Nell’aldilà Dante incontra l’ombra del suo maestro e gli rivolge queste parole: «Ho impressa nella memoria, e adesso mi addolora, l’immagine paterna, buona e dolce, di voi, quando nel mondo poco a poco mi insegnavate che l’uomo ha un destino eterno». Dante è addolorato perché trova il suo maestro all’inferno, dato che ha commesso gravi peccati, ma gli dice che comunque gli è grato per come lo ha aiutato a diventare uomo.

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E R O M A IL PRIMO

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A un certo punto un avvenimento, semplice e inaspettato, segna la sua esistenza in modo così profondo che da allora in avanti vivrà sempre nel ricordo di quel momento, e tutto quel che gli accadrà gli servirà per comprenderne sempre di più il valore. Dante ha nove anni e sta partecipando come tutti i fiorentini alle feste di Calendimaggio, per l’arrivo della primavera, quando viene folgorato dalla vista di una fanciulla poco più giovane di lui, figlia di suoi vicini di casa: Beatrice. Dell’incontro Dante non ci dice niente di più, se non che il suo cuore «cominciò a tremare sì fortemente» che il tremito si trasmise a tutto il corpo. Da allora Dante cerca tutte le occasioni per rivederla. Non è facile, perché una ragazza di buona famiglia, come Beatrice, non esce mai di casa da sola, soprattutto se è stata promessa in sposa a uno dei banchieri più ricchi della città. A quel tempo infatti è normale che i matrimoni vengano combinati quando gli sposi sono ancora bambini, tanto che lo stesso Dante a dodici anni viene ufficialmente fidanzato a un’altra ragazza, Gemma Donati. Così, l’unico posto in cui Dante può vedere Beatrice è la chiesa: sa dove lei va a messa e fa in modo di essere lì, un po’ in disparte, così da osservarla senza essere notato. Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. [...] D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima. Vita nova

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, O D R A U UNO SG O T U L A S UN

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Solo un’altra volta Dante riuscirà a incrociare lo sguardo di Beatrice. Sono passati altri nove anni. Dante sta andando per i fatti suoi e improvvisamente se la vede venire incontro, sull’altro lato della strada, scortata da due anziane dame di compagnia. Lui si confonde, si appiattisce contro il muro, ma lei lo guarda e gli fa un cenno di saluto. Un cenno di saluto, uno sguardo: è poco, a noi sembra poco, ma per Dante è tutto. Beatrice lo ha guardato, lo ha salutato: significa che sa chi è – non avrebbe mai fatto un cenno a uno sconosciuto –, non è uno qualsiasi. Come accade anche a noi quando qualcuno che per noi è importante ci nota, ci prende in considerazione. Per Dante quello sguardo è tutto: a esso resterà fedele, pur fra mille debolezze, per tutta la vita.

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Passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e [...] mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. Vita nova

P «Mentre camminavo lungo una strada, [Beatrice] volse lo sguardo verso il punto in cui mi trovavo tutto confuso, e mi salutò in modo molto cortese, tanto che mi sembrò di provare una felicità assoluta.»

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E L I T N E G LA POESIA

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Intanto sta crescendo anche l’altro grande amore di Dante, la poesia. Come abbiamo visto, fin da piccolo a Dante piace leggere e studiare, e impara in fretta. Proprio nel periodo in cui lui cresce, a Firenze sta nascendo un linguaggio poetico nuovo, che Dante stesso chiamerà «dolce stil novo». Che cosa c’è di “nuovo” e di “dolce” in questo stile? Il modo in cui i poeti parlano della donna. La donna e l’amore, è ovvio, sono sempre stati fra i temi principali della poesia. Ma per gli stilnovisti – così verranno chiamati questi poeti – la donna ha qualche cosa di più. Non è solo, come era sempre stata, l’oggetto di un desiderio: è la fonte della salvezza. La bellezza, la nobiltà d’animo, la “gentilezza” – come si comincia a dire proprio allora – della donna sono segno di una Bellezza più grande, di un Amore più grande: dell’amore di Dio. È un’idea della donna che affonda le radici nella tradizione cristiana: come Maria, una donna, è stata lo strumento che ha reso possibile a Dio di incarnarsi, di rendersi presente agli uomini, così la bellezza e la dolcezza di ogni donna “gentile” rendono possibile a chi la guarda di intravedere qualcosa della bellezza e dell’amore di Dio. Dante capisce subito che questo stile poetico corrisponde a quel che è successo a lui con Beatrice, e anche lui comincia a scrivere le lodi della sua donna. 22

Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l’ha parlato.

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Vita nova

Dante dice di Beatrice che «Dio le ha fatto anche questo grandissimo dono: nessuno che abbia parlato con lei può finire all’inferno». La donna è quindi strada alla salvezza.

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Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, [...] sì che [...], vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio.

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Rime

Ecco la poesia in cui Dante dice quanto è bella l’amicizia che vive: «Guido, io vorrei che tu e Lapo e io fossimo presi da un incantesimo e messi su una nave, dove potessimo godere in pace della compagnia l’uno dell’altro, così che il desiderio di stare insieme crescesse continuamente». Perché quando un’esperienza è bella non si consuma, non ci si stufa; anzi, più la si vive più il desiderio di viverla aumenta.

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IL CIRCOLO I C I M A I L DEG POETI

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Dante non scrive solo poesie in lode di Beatrice, scrive anche di tanti altri argomenti. Il fatto è che all’epoca la poesia a Firenze è quasi una moda: per ogni evento politico, per ogni fatto di cronaca, per ogni fenomeno naturale, qualcuno compone un’ode, una ballata, un sonetto. Uno scrive, un altro risponde, i versi sono un po’ come i tweet e i whatsapp di oggi. A furia di botta e risposta, anche fra i poeti si creano amici e nemici, i tifosi di questo e i sostenitori di quell’altro; e anche Dante si fa il suo giro di amici. Dopo il suo secondo incontro con Beatrice, infatti, Dante fa un sogno. Scrive allora una poesia, chiedendo che qualcuno lo aiuti a interpretarlo. Il primo a rispondergli è Guido Cavalcanti, il più famoso degli stilnovisti: è l’inizio di un’amicizia che durerà fino alla morte di Guido. Ai due si aggiunge quindi Lapo Gianni, un altro giovane letterato. I tre sono spesso insieme, si ritrovano a bere, parlano di tutto: di poesia, di politica, di donne. Sanno scherzare, ma anche affrontare seriamente le sfide della vita. 25

A S S E M O R P A N I V I D LA

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Nel 1290 ecco la svolta: Beatrice muore. Nel frattempo Dante ha sposato Gemma, e Beatrice il suo banchiere, ma non è questo il punto. Il problema di Dante non era sposare Beatrice, averla per sé; era che la presenza, lo sguardo, la figura di lei erano per lui come un anticipo di paradiso. E adesso? Adesso, per prima cosa Dante cerca di rimettere in ordine le idee. E lo fa da letterato, scrivendo un libro: la Vita nova. È una specie di autobiografia, dove ripercorre gli episodi fondamentali della sua vita, cercando di dar loro un significato, e inserendo le poesie che a questi episodi sono legate. L’idea che tiene insieme tutto è quella del titolo: dall’incontro con Beatrice per Dante è nata una vita nuova, più lieta, più appassionata di quella di prima. Non è solo un’immagine poetica, è proprio l’esistenza che è cambiata; e il segno più grande di questa vita nuova è una capacità di perdono mai sperimentata prima: nessuno più gli è nemico, anzi Dante si sente afferrato da un amore che lo «facea perdonare a chiunque m’avesse offeso». Mentre scrive però si rende conto che quel che sta dicendo è troppo poco, non riesce a rendere l’idea della grandezza che ha vissuto. Così conclude con una promessa, fatta più a se stesso che agli altri: non dirà più niente di lei, fino a che non ne potrà parlare in modo più degno, più adeguato. È la promessa da cui nascerà, diversi anni più tardi, la Commedia. 26

Io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. [...] Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna.

P

Vita nova

Alla fine della Vita nova, Dante scrive di Beatrice: «Ho visto cose talmente grandi che ho deciso di non dir più niente di questa donna benedetta finché non ne potrò parlare in modo più degno. Così, se Dio vorrà che io possa vivere abbastanza a lungo, spero di parlare di lei come non si è mai parlato di nessun’altra».

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Io, che cercava di consolarme, [...] giudicava bene che la filosofia [...] fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno, se non misericordioso; [...] sì che in picciol tempo [...] cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.

P

Convivio

Dante spiega come si è innamorato della filosofia: «Io, che cercavo di consolarmi, pensai che la cosa più grande fosse la filosofia. E me la immaginavo come una donna gentile, e non potevo pensarla intenta ad alcuna azione che non fosse misericordiosa, così che in breve tempo cominciai a sperimentarne la dolcezza a tal punto che l’amore per lei mi liberava da tutti gli altri pensieri».

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: A N N O D UN’ALTRA A I F O S O L I F LA

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Dante intanto cerca di consolarsi. Forse – ma non siamo sicuri, le fonti sono incerte – lo fa anche gettandosi fra le braccia di qualche donna in carne e ossa. È possibile: può capitare a tutti di provare a dimenticare il dolore di un amore finito cercandone un altro. In ogni caso, anche se fosse successo, è certamente durato poco: Dante si accorge presto che non è quella la strada. Si rivolge allora a un’altra donna, fatta non di carne e ossa, ma di idee e di libri: la filosofia. Questa è una parola importante per dire una cosa semplice: il desiderio di sapere, di conoscere, di capire com’è fatto il mondo. Capendo com’è fatto il mondo, pensa, forse avrebbe capito anche il senso di quel che gli è successo. Così si immerge nello studio dei libri degli uomini che di più, nei secoli, hanno coltivato questo desiderio. Anche della filosofia Dante si innamora, e ne prova una grande dolcezza. Presto si accorge, però, che anche questo non basta.

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LE BATTAGLIE

DEL GUELFO BIANCO 30

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A C I T I L O P LA VITA

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L’ineffabile Provvidenza ha posto dunque innanzi all’uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, [...] e la felicità della vita eterna. [..]. A queste beatitudini occorre giungere con mezzi diversi. Per questo l’uomo ebbe bisogno di una duplice guida, in corrispondenza del duplice fine, cioè del Sommo Pontefice, per condurre il genere umano alla vita eterna mediante la dottrina rivelata, e dell’Imperatore, per dirigere il genere umano alla felicità terrena

Dante è diventato adulto e ha cominciato a partecipare alla vita della città. Per capire quel che gli succede poi, bisogna soffermarsi sulla situazione politica del tempo. Nel Medioevo le due figure principali dell’Europa occidentale sono il Papa e l’imperatore. In teoria i ruoli sono chiari e i compiti distinti. Il Papa, capo della Chiesa, ha l’autorità spirituale, cioè stabilisce che cosa è bene e che cosa è male secondo la legge di Dio; decide quali sono i peccati e quali le penitenze per essere perdonati; esercita il potere sui vescovi, i preti, i monaci... L’imperatore invece ha l’autorità temporale, cioè comanda l’esercito; deve difendere i confini dell’impero dai nemici esterni e far rispettare le leggi all’interno; esercita il potere sui re, i conti, i comuni. In sostanza deve garantire la pace, condizione necessaria perché ciascuno possa occuparsi liberamente della propria santificazione. Guelfi

Ghibellini

attraverso gli insegnamenti della filosofia.

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De monarchia

Dante riassume la convinzione del suo tempo che Dio ha dato agli uomini due guide da seguire, il Papa per arrivare alla felicità eterna e l’imperatore per vivere ordinatamente sulla terra.

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In pratica, però, le cose vanno diversamente. Qual è il rapporto fra le norme della Chiesa e le leggi dello Stato? Se un governante va contro le leggi della Chiesa, non ha il Papa il diritto di togliergli il potere? Il Papa, che è re di uno Stato, non deve combattere come tutti gli altri sovrani? Visto che spesso i vescovi e gli abati sono anche signori di un territorio, non ha l’imperatore il diritto di nominarli lui? E così via. Il risultato è che spessissimo, durante il Medioevo, Papi e imperatori si combattono per affermare ciascuno la propria superiorità. Così nel Duecento gli europei hanno finito per essere divisi in due partiti. I sostenitori del Papa sono detti guelfi; i seguaci dell’imperatore si chiamano ghibellini. In realtà, spesso a guelfi e ghibellini delle sorti del Papa e dell’imperatore interessa poco, semplicemente stanno con quello da cui sperano un aiuto. Se una città è guelfa automaticamente la sua rivale si mette con i ghibellini, e anche all’interno di ogni città ci sono un partito guelfo e uno ghibellino, pronti a ogni minima occasione a darsele di santa ragione e a chiamare in aiuto il potente protettore. 34

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O S O R O L A V O M O U UN

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Alla fine del Duecento, a Firenze comandano i guelfi, nella vicina Arezzo i ghibellini. L’11 giugno del 1289, nella piana di Campaldino, le due città si scontrano. In campo c’è anche Dante. Probabilmente non è la prima volta che combatte, ma certo è la sua prima battaglia importante. Il combattimento si conclude con il trionfo di Firenze e Dante, uno dei cavalieri della prima linea che sostengono l’urto iniziale con gli avversari, dà buona prova di sé. Così i concittadini cominciano a stimarlo non solo come poeta, ma anche come uomo valoroso. Dopo aver combattuto i nemici esterni della città, Dante si impegna anche nelle vicende interne. Per aver diritto a prendere parte alla vita pubblica però, come abbiamo detto, occorre far parte di un’arte: Dante si iscrive a quella dei medici e degli speziali. Come mai proprio a questa? Gli speziali sono gli antenati dei moderni farmacisti, si occupano di erbe curative, pomate, pozioni, veleni; secondo la mentalità del tempo, la conoscenza delle piante medicinali è un capitolo della filosofia che Dante ha studiato. Ecco così che Dante, 36

La battaglia di Campaldino, nella quale la parte ghibellina fu quasi al tutto morta e disfatta; dove mi trovai non fanciullo nell’armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima. Epistola Popolo mio, che mai ti ho fatto?

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Così in una lettera Dante ricorda la sua partecipazione alla «battaglia di Campaldino, nella quale i ghibellini furono sconfitti e quasi tutti uccisi; dove mi trovai a combattere non per la prima volta, dove ebbi molta paura, ma alla fine provai una grandissima contentezza».

per partecipare alla vita politica, entra fra gli speziali. È intelligente, abile, appassionato; a differenza di molti è anche interessato più al bene della città che al proprio. In questo modo, si mette sempre più in luce, fino a che, il 13 giugno del 1300, viene eletto fra i priori che governano la città. 37

A N N A D N LA CO E T R O M A

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Ma i fiorentini, l’abbiamo detto, sono litigiosi. Anche se i ghibellini sono stati cacciati, i guelfi sono divisi in due fazioni: i Bianchi e i Neri. I Neri, fra i quali ci sono i banchieri che amministrano i denari del Papa, sono legatissimi al Pontefice e, per non perdere il suo appoggio, sono anche disposti a concedergli la signoria sulla città. I Bianchi stanno con il Papa, sì, ma fino a un certo 38

Tutti li mali e tutti gli inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio Priorato ebbero cagione e principio. Epistola Popolo mio, che mai ti ho fatto?

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«Tutti i miei guai e le mie sventure ebbero origine dalle infelici vicende del periodo in cui fui priore.»

punto: l’indipendenza di Firenze viene prima. E i Neri sono subito pronti ad accusarli di essere, di nascosto, ghibellini. Dante è un guelfo bianco. Durante il suo governo, tuttavia, si mostra assai equilibrato; tra l’altro partecipa all’approvazione di un decreto che condanna all’esilio sia i più aggressivi fra i capi dei Neri sia i più turbolenti dei Bianchi. Fra i primi troviamo Corso Donati, cugino della moglie Gemma; fra i secondi perfino il grande amico Guido Cavalcanti. È chiaro che più che l’interesse della propria parte Dante cerca il bene della città, ma forse finisce con l’inimicarsi tutti. Scaduto il mandato come priore, i fiorentini lo scelgono fra gli ambasciatori che andranno a Roma a cercare un accordo con il Papa. Mentre Dante è a Roma arriva però a Firenze con i suoi soldati Carlo di Valois, fratello del re di Francia. Ha l’appoggio del Papa, che in teoria gli ha affidato il compito di mantenere la pace; in realtà sta apertamente dalla parte dei Neri. Così i Neri riprendono il controllo della città e si vendicano dei propri avversari: tutti i Bianchi più in vista vengono uccisi o costretti alla fuga, le loro case bruciate, i loro beni confiscati. Nel 1302 anche Dante, che non è ancora tornato a Firenze, riceve la notizia che è stato condannato a morte: se rimette piede in città lo attende il rogo. 39

Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale. Commedia, Paradiso, canto XVII

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Cacciaguida, un antenato di Dante, gli predice l’esilio che lo attende: «Tu scoprirai com’è amaro il pane degli stranieri, e quanto è duro scendere e salire per le scale di estranei».

E R R E T N L’ESILIO I E R E I N A R T S

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Inizia così per Dante un lungo e dolorosissimo esilio. Nei primi tempi vive in città vicine a Firenze come Siena e Arezzo, frequenta altri esiliati Bianchi, partecipa ai loro tentativi di riconquistare la città con le armi o di trovare un accordo per essere riaccolti. Ma tutti gli sforzi falliscono, e Dante si rende conto che tornare sarà difficilissimo. Non ha un soldo, e per vivere può contare su un’unica risorsa: la sua cultura. Comincia a girare fra le mille corti dell’Italia del tempo, si ferma dove trova un signore che apprezzi la sua poesia o che gli affidi un incarico come ambasciatore, a volte semplicemente che lo utilizzi come segretario. Lo troviamo così in Lunigiana alla corte dei Malaspina, a Verona dai Della Scala, in diverse città della Romagna. 40

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E N I D U T I L LA SO A I R O L G E LA

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A Dante l’ambiente delle corti non piace. Sono piene di personaggi che fanno di tutto per compiacere i loro signori, scrivono lodi esagerate, sono sempre pronti a sparlare gli uni degli altri. No, non è proprio l’ambiente di Dante, abituato a dire e a scrivere quel che pensa senza preoccuparsi delle conseguenze. E allora che cosa fa? Sta per conto suo. Sta in disparte, e studia. Studia e scrive. Spera che, se le sue opere lo renderanno famoso, magari i fiorentini si pentiranno di aver cacciato un uomo illustre e lo richiameranno in patria. Inizia così a scrivere il Convivio, dove affronta diversi grandi temi, usando sia il linguaggio della poesia sia quello della filosofia. Ben presto però lo abbandona, e si dedica al De vulgari eloquentia: un libro in latino, per dire che il “volgare” – cioè la lingua parlata dal volgo, ovvero dal popolo, quella che ha usato anche lui in tutte 42

...sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso. Commedia, Paradiso, canto XVII

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Cacciaguida predice a Dante che nell’esilio si ritroverà da solo, malvisto da tutti; ma gli altri non sono alla sua altezza, per cui questa solitudine sarà per lui motivo di gloria: «così che sarà bello per te essere rimasto in compagnia solo di te stesso».

le sue opere – è meglio del latino! Per spiegare, cioè, che se scrive in volgare non è perché non conosca il latino – lo sa usare molto bene, se vuole –, ma perché pensa che la letteratura, dovendo parlare a tutti, debba usare la lingua di tutti. Eppure anche il nuovo libro rimane incompiuto. Come mai? Non lo sappiamo. Un’ipotesi tuttavia la possiamo fare. Mentre scrive gli altri libri Dante – di questo siamo certi – ha cominciato a mettere mano anche alla Commedia. E verosimilmente si è reso conto che quella è la “sua” opera, lì può dire tutto quello che gli sta a cuore con un linguaggio che è davvero il suo. Allora abbandona il resto, e si dedica completamente al nuovo lavoro. 43

Rallegrati, povera Italia, perché il tuo sposo, consolazione del mondo e gloria della tua gente, il clementissimo Arrigo, divo Cesare e Augusto, si prepara alle nozze. Asciuga le lacrime e distruggi i segni del timore, dolcissima, perché chi ti libererà dal carcere degli empi è vicino.

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Epistola V

Quando nel 1310 il nuovo imperatore, Arrigo VII, scende in Italia, Dante spera che porti finalmente la pace, e che anche lui possa rientrare a Firenze; perciò scrive diverse lettere ad amici e a personaggi importanti, invitandoli a sostenere Arrigo. In una di esse paragona addirittura l’arrivo del sovrano a un matrimonio fra l’imperatore (lo sposo) e l’Italia (la sposa).

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O N G O S E UN BREV

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Per Dante le porte di Firenze, intanto, rimangono chiuse. Una speranza sembra riaccendersi con il nuovo imperatore, Arrigo VII, che sogna di pacificare la penisola sotto lo scettro imperiale. Dante si innamora del suo progetto, che porterebbe all’Italia la fine delle discordie e a sé la possibilità di rientrare nell’amata Firenze. Il bel sogno, però, dura poco. Molte città, Firenze in testa, si oppongono; Arrigo si rivela poco abile e si disperde fra mille contese; alla fine, nel 1313, la malaria lo stronca. E l’avversione dei fiorentini per Dante, che si è schierato con il nemico, aumenta. In realtà un paio d’anni dopo – siamo nel 1315 – Firenze offre un gesto di pacificazione. Propone agli esuli di tornare: se sono disposti a fare un gesto di penitenza, mettendo il piede per un attimo in carcere, saranno riaccolti in città. Ma Dante non è tipo da sottomettersi. Vuole tornare a testa alta, non riconoscere una colpa che non ha mai commesso. “Non è in questo modo che voglio tornare in patria – scrive pressappoco a un amico fiorentino che lo esorta ad accettare il compromesso. – Se riuscirete a trovare un altro modo che rispetti il mio onore l’accetterò ben volentieri; altrimenti «in Firenze non entrerò giammai»”. Sull’amore per Firenze prevale quello per la verità. E a Firenze, come ha scritto, non rientrerà «giammai».

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IL VIAGGIO

DIVINO

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Se mai continga che ’l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra,

IL POEMA SACRO

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Peregrinando da una città all’altra, si dedica completamente al suo poema. E poco a poco, canto dopo canto, viene alla luce la Commedia. Che cos’è questa Commedia? Non è facile dirlo. Poesia d’amore? Poesia religiosa? Poesia filosofica? Tutto questo, e molto di più. Certo, descriverla nella sua forma esterna è semplice. È un viaggio – immaginario, naturalmente – nell’aldilà, attraverso inferno, purgatorio e paradiso, fino a contemplare la luce splendente di Dio. Ma dentro, dentro c’è tutto. Ci sono la storia antica e quella recente, l’amore e la morte, la fedeltà e il tradimento, la vendetta e il perdono; ci sono la politica, l’astronomia, la fede, la letteratura; ci sono tutte le passioni umane e tutti modi in cui possono essere vissute; la storia del mondo e la vicenda personale di ognuno. 48

sì che m’ha fatto per molti anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov’io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò ’l cappello; Commedia, Paradiso, canto XXV

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«Se mai avvenga che la poesia che sto scrivendo [la Commedia], un’opera che coinvolge insieme la terra e il cielo e che per anni ha assorbito tutte le mie forze, riesca a piegare la crudeltà degli uomini che mi costringono a rimanere fuori dall’ovile dove ho dormito quando ero un agnello [cioè da Firenze], perché sono nemico dei lupi che ora ne fanno strazio, forse un giorno vi tornerò, accolto come poeta, con una voce diversa da quella di un tempo [la voce del poeta e non più quella del politico] e con i capelli bianchi, e in quello stesso luogo in cui sono stato battezzato riceverò il cappello», cioè la corona di alloro con cui allora viene riconosciuta a uno scrittore la dignità di poeta. Dante affida a quest’opera straordinaria l’ultima possibilità di commuovere i suoi concittadini per essere riaccolto in città.

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Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’, Commedia, Purgatorio, canto XXX

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Arrivato alla sommità del purgatorio, Dante si vede venire incontro Beatrice, e mentre lei arriva «tutti dicevano: “Benedetto tu che vieni!”». È strano. I beati si rivolgono a Beatrice, una donna, è lei che viene; l’aggettivo però è al maschile: «benedetto». Perché? Perché “Benedetto colui che viene” è l’acclamazione con cui viene accolto Gesù quando entra a Gerusalemme la domenica delle Palme. Perciò è come se Dante volesse dire: “questa che arriva è Beatrice, ma al tempo stesso è Gesù“.

O I D I D E L'IMMAGIN

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Da un capo all’altro del poema risplende l’immagine di Beatrice. Man mano che la vita e la stesura della Commedia procedono, infatti, Dante riconosce che Beatrice è, per lui, l’immagine del volto di Gesù e della Madonna che Dio gli ha mandato per salvarlo. L’identificazione con Gesù avviene nel verso del Purgatorio che abbiamo appena visto; quella con Maria in alcune strofe dei canti XXXI e XXXIII del Paradiso. Proviamo a leggerle: Dante rivolto a Beatrice: O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in inferno lasciar le tue vestige, di tante cose quant’ i’ ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute.

San Bernardo rivolto alla Madonna: Or questi, che da l’ infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute.

«Salute», «vedute», «virtute»: per parlare di Beatrice e di Maria, sceglie le stesse parole! Dante non fa queste cose a caso, anzi: spesso quando vuol attirare l’attenzione del lettore, quando vuol dirgli “stai attento, qui sto parlando della stessa cosa di cui ho parlato da un’altra parte”, usa proprio questo sistema. Allora il messaggio è chiaro: adesso Dante capisce! Beatrice l’ha mandata Maria, è lo strumento che Maria – per conto di Dio – ha scelto per raggiungerlo, là, in fondo all’inferno dov’era. 50

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O I R E D I S E IL D E D N A R G PIÙ

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Perché Dio ha mandato a Dante Beatrice? Perché lui potesse capire come mai tutte le cose che ha amato – Firenze, gli amici, la poesia, la filosofia, le donne, la stessa Beatrice – non sono abbastanza: perché il desiderio che abbiamo, il desiderio che ci fa amare tutte le cose, ce l’ha messo dentro Dio, e non è soddisfatto finché non raggiunge Dio. Non è che le cose – i soldi, la patria, gli amici, le donne – non siano buone, anzi: le ha fatte Dio, sono tutte un riflesso della Sua bellezza. Ma se il nostro desiderio si ferma alle cose tradisce, tradisce insieme se stesso e l’oggetto amato. Se invece lo sguardo si alza, riusciamo ad amare insieme le cose e Dio che ce le dona. La differenza fra chi sta all’inferno e chi è in purgatorio o in paradiso è tutta qui. I primi hanno amato solo la cosa bella, e l’hanno sciupata, hanno perso se stessi e la cosa amata. Gli altri hanno amato, dentro la cosa bella, anche il suo Autore, e hanno salvato se stessi e le cose. 52

E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia l’albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza a l’altra, e così di casa in casa, tanto che a l’albergo viene; così l’anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso.

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Convivio

Dante spiega come gli uomini, tutti, sono mossi da un desiderio che parte dalle cose che hanno intorno, ma non è soddisfatto finché non arriva fino a Dio: «Come un viaggiatore che va per una strada sconosciuta, e ogni casa che vede da lontano crede che sia l’albergo, e quando scopre che non è così si dirige verso la successiva, e così passa di casa in casa finché arriva all’albergo; così la nostra anima, appena entra nel cammino sconosciuto della vita, alza lo sguardo cercando il bene più grande, però, qualunque cosa veda che sembri avere in sé un qualche bene, crede che il bene più grande sia quello».

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O I Z I N I ' L E LA FINE

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Non sappiamo come e quando la Commedia cominci a circolare. Certamente durante la vita di Dante alcuni canti sono già noti. Altrettanto certamente, l’autore è molto in dubbio se pubblicarla tutta. Da una parte, infatti, è a quest’opera che affida le ultime speranze di rientrare a Firenze. Dall’altra, alcuni dei per-

E s’io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico. Commedia, Paradiso, canto XVII

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Anche se affida alla Commedia le ultime speranze di rientrare a Firenze, Dante non vuole per questo mentire; perché, scrive, «se io sono un amico timido del vero [cioè se non dico tutta la verità, se ho paura di dire la verità], ho paura di non vivere tra coloro che chiameranno questo tempo “antico”», cioè tra gli uomini dei secoli a venire. Insomma, scrive sì per il presente, ma soprattutto per il futuro, sa che la sua opera resterà nel tempo.

sonaggi che mette all’inferno sono ancora vivi al tempo, di molti sono vivi i figli, e i parenti sicuramente non sarebbero contenti di leggere i giudizi durissimi che il poema ne dà. In realtà, Dante sa bene che sta scrivendo un’opera che potrà essere apprezzata davvero solo dopo la sua morte. Morte che intanto si sta avvicinando. Dante non è vecchio – nel 1315 ha compiuto cinquant’anni –, ma la vita dura che ha vissuto si fa sentire. Nel 1319 si stabilisce a Ravenna, il cui signore, Guido da Polenta, è un suo grande ammiratore. Tanto che nell’estate del 1321 lo manda come ambasciatore a Venezia. Sulla via del ritorno però Dante, passando per una zona paludosa, si ammala di malaria. Il suo fisico, ormai indebolito, non riesce a resistere. E così, accompagnato dall’affetto degli amici ravennati, nella notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321, Dante si spegne. Ad assisterlo fino all’ultimo c’è la figlia, suor Beatrice. 54

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A Z N E S E R P UNA AMATA

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Suor Beatrice? Sì, la figlia Antonia si è fatta suora, e ha scelto proprio questo nome. Un fatto che forse ci permette di far luce su un aspetto importante della vita di Dante, a cui finora abbiamo accennato solo di sfuggita: Gemma Donati, sua moglie. A qualcuno infatti sarà venuto da domandarsi: ma come? Lui ama Beatrice, parla sempre di Beatrice, e intanto ha una moglie? Come avrà fatto Dante a parlare di Beatrice e a voler bene a Gemma? E come avrà fatto Gemma a sopportare un marito che parla sempre di un’altra? Di Gemma, invece, non parla proprio mai. Così molti studiosi hanno immaginato sul loro rapporto le cose più strane. 56

O donna in cui la mia speranza vige, [...] Tu m’hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt’i modi che di ciò fare avei la potestate. Commedia, Paradiso, canto XXXI

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Sono le ultime parole che Dante rivolge a Beatrice quando, in cima al paradiso, lei lo affida a San Bernardo: «O donna che rendi salda la mia speranza, tu mi hai condotto, da schiavo che ero, fino alla libertà, usando tutti i modi, tutti i sistemi che potevi adoperare». È il grande inno di gratitudine con cui Dante riconosce che a Beatrice deve la propria salvezza.

Eppure Antonia sceglie il nome di Beatrice. Scegliere il nome con cui si diventa frati o suore è una cosa seria: vuol dire che la persona che ha portato quel nome è stata importante, fondamentale per la vita di chi lo adotta. Se Beatrice fosse stata in casa motivo di discordia, se per la madre fosse stata una presenza fastidiosa, Antonia lo avrebbe saputo, ne avrebbe sofferto e non lo avrebbe certo scelto. Invece, fra tanti nomi illustri di sante a disposizione, proprio Beatrice. Perché? L’unica spiegazione plausibile è che Beatrice fosse, a casa Alighieri, una presenza amata. Cioè che Gemma e i figli abbiano capito che, se Dante era un buon padre, un buon marito, era grazie all’influsso che Beatrice aveva avuto su di lui. Per dir la stessa cosa con altre parole: quell’amore che Dante imparava da Beatrice doveva averlo poi vissuto con chi gli stava intorno. Ecco che cosa vuol dire che lei lo aveva «tratto a libertate»: gli ha insegnato ad amare tutti. Ed ecco perché Antonia entra in convento con il nome di “suor Beatrice”. 57

A C R E C I R LA À T I C I L E F DELLA

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A favore della maggior parte dei cittadini della città di Firenze che desiderano [...] essere istruiti nel libro di Dante, dal quale tanto nella fuga dei vizi quanto nell’acquisizione delle virtù quanto nella bella eloquenza possono anche i non grammatici essere informati, con reverenza si supplica voi, signori Priori [...] , [che] possiate scegliere un uomo valente e sapiente, bene dotto nella scienza di questo tipo di poesia, per il tempo che volete, non maggiore di un anno, perché legga il libro che volgarmente è chiamato El Dante, nella città di Firenze, per tutti coloro che vogliono ascoltare. Petizione del popolo di Firenze, 1373

Dante non tornerà mai a Firenze, ma la Commedia sì. Negli anni che seguono i fiorentini la leggono, se ne innamorano, vogliono capirla sempre di più. Tanto che nel 1373 inviano ai priori una richiesta affinché scelgano un «uomo valente e sapiente» (verrà poi scelto Giovanni Boccaccio, e sarà lui ad aggiungere al semplice titolo Commedia voluto da Dante l’aggettivo Divina che da allora l’ha sempre accompagnato) che la sappia spiegare a tutti. Perché? Perché tutti possano essere aiutati dall’opera di Dante a «fuggire i vizi e acquisire le virtù», cioè a vivere bene; tutti, anche quelli che non sanno leggere e scrivere (cioè i «non grammatici»). È questa, in sintesi, l’eredità che Dante lascia: un’opera straordinaria – alla quale «ha posto mano cielo e terra», come scrive lui stesso – che si rivolge a tutti. 58

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Certo, il volgare del Trecento per noi è un po’ difficile, la Commedia è piena di espressioni e di personaggi lontanissimi dalla nostra esperienza e dalla nostra sensibilità; così, nel tempo, si è affermata l’idea che sia una lettura per dotti, per specialisti. Ma non era questo l’intento di Dante. Perciò vale la pena di provare anche oggi a leggerla – magari con l’aiuto di qualche «uomo valente e sapiente» che ci aiuti a penetrarne le oscurità – come una compagnia nel viaggio di ciascuno alla scoperta della vita. Proprio come suggerisce Dante nei primi due versi del poema: «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura». Come per avvisare subito: “guardate che sto raccontando di me («mi ritrovai»), ma per parlare di tutti («nostra vita»)”. La Divina Commedia è il viaggio di tutti alla ricerca del compimento del proprio desiderio, cioè della felicità. E per metterlo bene in chiaro, Dante ci mette una specie di firma: chiude tutte e tre le cantiche con la stessa parola, «stelle». In questo modo, ci fa guardare al desiderio che tutti abbiamo, che ha la stessa meta: le stelle, Dio, la felicità per sempre. 60

E quindi uscimmo a riveder le stelle. Inferno, canto XXXIV

Puro e disposto a salire a le stelle. Purgatorio, canto XXXIII

L’amor che move il sole e l’altre stelle. Paradiso, canto XXXIII

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INDICE Il segreto di Dante Firenze ricca e litigiosa Ogni cosa è eterna Il giovane Dante Figlio del popolo Un maestro da seguire Il primo amore Uno sguardo, un saluto La poesia gentile Il circolo degli amici poeti La divina promessa Un’altra donna: la filosofia Le battaglie del guelfo bianco La vita politica Un uomo valoroso La condanna a morte L’esilio in terre straniere La solitudine e la gloria Un breve sogno Il viaggio divino Il poema sacro L’immagine di Dio Il desiderio più grande La fine e l’inizio Una presenza amata La ricerca della felicità 62

4 7 10 12 14 16 18 20 22 25 26 29 30 33 36 38 41 42 45 46 48 51 52 54 56 58

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