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Italian Pages 240 Year 2009
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MFS MONTEFALCONE STUDIUM
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In copertina Emil Nolde, Mare con barca a vela e piroscafo, 1946 (particolare)
Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)
Titolo dell’edizione originale Esquisse d’une morale sans obligation, ni sanction Traduzione di Anna M. Mandich (già Paravia 1999) Traduzione e cura di Ferruccio Andolfi delle Randbemerkungen di Nietzsche
ISBN 978
88 8103 623 3
© 1890 F. Alcan, Paris © 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 [email protected] www.diabasis.it
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Jean-Marie Guyau
Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione Con le annotazioni di Friedrich Nietzsche A cura di Ferruccio Andolfi
DIABASIS
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Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione
7
La ragionevole ossessione di Jean-Marie Guyau, Ferruccio Andolfi
38
Nota bio-bibliografica
41
Prefazione dell’autore
45
Introduzione CRITICA DEI DIVERSI TENTATIVI DI GIUSTIFICARE METAFISICAMENTE L’OBBLIGO
47 47 60 69 75 75 80 89 95
Capitolo primo: Morale del dogmatismo metafisico
L’ipotesi ottimista: provvidenza e immortalità L’ipotesi pessimista L’ipotesi dell’indifferenza della natura Capitolo secondo: La legge morale
Morale della certezza pratica Morale della fede Morale del dubbio
Libro primo DEL MOVENTE MORALE DAL PUNTO DI VISTA SCIENTIFICO: PRIMI EQUIVALENTI DEL DOVERE
97 105
Capitolo primo: L’intensità della vita è il movente dell’azione Capitolo secondo: La più alta intensità della vita
ha per correlato necessario la sua più larga espansione 111
Capitolo terzo: In quale misura il movente dell’attività può creare
una specie di obbligo: potere e dovere 120
Capitolo quarto: Il sentimento di obbligo dal punto di vista
della dinamica mentale come forza impulsiva o repressiva
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Libro secondo ULTIMI EQUIVALENTI POSSIBILI DEL DOVERE PER IL MANTENIMENTO DELLA MORALITÀ
137
Capitolo primo: Il piacere del rischio e della lotta
137 138
Il problema Il piacere del rischio e della lotta come quarto equivalente del dovere
come quarto equivalente del dovere
150
Capitolo secondo: Il rischio metafisico come quinto equivalente
del dovere: l’ipotesi 150 158 163
Il rischio metafisico nella speculazione Il rischio metafisico nell’azione
Libro terzo L’IDEA DI SANZIONE
165
Capitolo primo: Critica della sanzione naturale
167
La sanzione naturale La sanzione morale e la giustizia distributiva
e della sanzione morale 169 177
Capitolo secondo: Principio della giustizia
penale o difensiva nella società 190
Capitolo terzo: Critica della sanzione interiore e del rimorso
196 196 198
Capitolo quarto: Critica della sanzione religiosa e metafisica
207
Conclusione
213
Appendice Note a margine di Friedrich Nietzsche
La sanzione religiosa La sanzione dell’amore e della fraternità
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Ferruccio Andolfi
Nell’annunciare il «crepuscolo del dovere» un attento analista dei costumi sociali dei nostri giorni, Gilles Lipovetsky, dà per avvenuto quel processo verso una «morale senza obbligo né sanzione» di cui un suo connazionale, più di cent’anni prima, aveva registrato i primi segnali1. «In molti spiriti – scriveva Jean-Marie Guyau nel suo Esquisse d’une morale sans obligation, ni sanction (1885) – la legge rigorista del kantismo continua a regnare, ma non domina più nel dettaglio, la si riconosce in teoria e nella pratica si è costretti a scostarsene»2. Non sarei altrettanto sicuro che l’imperatività astratta del dovere, nella sensibilità come nelle teorie etiche dei nostri contemporanei, sia definitivamente tramontata, e neppure che le nuove forme di «responsabilità», che del dovere rappresentano gli «equivalenti» (per riprendere un termine di Guyau) siano così «indolori» come Lipovetsky se le rappresenta; tuttavia è indubbio che il dovere non è più avvolto dall’aura sacra che lo circondava, e che, quando non viene messo alla berlina dai troppo rumorosi e troppo ingenui superatori di ogni morale, viene privato almeno del suo lato più odioso e sovente reinterpretato come derivante dalla coscienza di una ricchezza di potenzialità che crea, in chi la detiene, un sentimento di responsabilità verso se stesso e verso gli altri. Ciò rende, credo, la riscoperta di Guyau – autore assai noto tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, e poi dimenticato – assai preziosa per la riflessione morale contemporanea. Nell’Esquisse egli rivendicava l’effetto realmente liberatorio della propria critica, che avrebbe offerto nuove opportunità alla formazione di piani di vita e d’azione individuali: «Tutto un campo di attività, chiuso finora dal fantasma dell’idea del dovere, si apre davanti a me; se mi accorgo che non vi è più alcun male reale nel fatto che io mi eserciti liberamente, ma invece ogni beneficio per me, come potrei non approfittarne?»3. La radicalità di questa posizione appare ancora più chiara se si riflette che insieme al carattere obbligatorio della legge morale viene contestata ogni
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sanzione che lo rafforzi pretendendo a sua volta di possedere un valore morale. Secondo questo modo di vedere non esiste infatti alcun legame necessario tra la moralità del volere e una ricompensa o una pena applicata alla sensibilità. Il principio della giustizia distributiva, giustificato sul terreno dello scambio mercantile e delle relazioni sociali, perde ogni legittimità quando lo si voglia considerare come un principio di ricompensa o di punizione in senso morale. La sanzione morale propriamente detta, non indirizzata cioè semplicemente alla difesa sociale, qualunque sia l’istanza che pretende di comminarla (la natura, la società, la religione o anche la coscienza nella forma del «rimorso»), è soppressa «perchè, come espiazione, è in fondo immorale»4. Forse il modo migliore per afferrare la novità così introdotta può essere quello di stabilire un confronto con la concezione della moralità che pochi anni più tardi, nell’introduzione alla prima edizione de La division du travail social (1893), avrebbe espresso Durkheim, codificando «la realtà morale quale esiste». Finché si rimane sul piano delle descrizioni di fatto, «ciò che distingue le regole morali – dichiara perentoriamente Durkheim – è che sono obbligatorie». «Ogni fatto morale – aggiunge, ed è difficile pensare che non intendesse alludere polemicamente anche a Guyau, da lui ricordato nelle stesse pagine – consiste in una regola di condotta sanzionata», e poco oltre: «la realtà di un obbligo è certa solo se si manifesta attraverso una sanzione»5. Anche i doveri cosiddetti individuali – quelli cioè che secondo Guyau corrispondono ad una libera creazione – sono tali solo in apparenza e dipendono piuttosto da condizioni sociali6. Sarebbe arbitrario porre sotto la stessa rubrica atti gratuiti che compiamo per il piacere di dispensare (dépenser) la nostra energia ed atti conformi a una regola, che soli meritano il titolo di morali. Le manifestazioni altruistiche non collegate a speciali obblighi, ma dipendenti piuttosto dal bisogno di donare, di uscire da sé e di occuparsi di altri, non appartengono al dominio della moralità ma a quello dell’estetica, o meglio di quel suo ambito speciale che Durkheim definisce «estetica della vita morale»7. Ora, la prospettiva di Guyau consisteva proprio, come vedremo, nello sfumare i confini tra il territorio dell’etica e quello dell’estetica, interpretando l’agire morale, nel suo aspetto più elevato, come luogo della libera creazione individuale di «ipotesi metafisiche», capaci di orientare la condotta ma non imponibili a tutti da parte di qualche autorità sociale. La dépense – un dispendio gratuito socialmente non esigibile – è per lui parte integrante della vita morale. Se agli occhi di Durkheim la moralità estetica di Guyau, con le sue im-
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plicazioni «anomiche», comportava un rischio per l’ordine sociale, altri più benevoli critici ne misero in luce il carattere utopico. Così Emile Fournière avanzò il dubbio che non fosse altro in effetti che una dissoluzione della morale coi suoi diritti e doveri, una riduzione di essa a «funzione naturale e spontanea dell’individuo sociale», e si chiese se non fosse adatta a una società nella quale i comportamenti immorali fossero ormai diventati una trascurabile eccezione. E tuttavia, la sua esperienza di uomo politico lo indusse a chiedersi anche, simpatizzando con Guyau, se certe leggi repressive, anziché svolgere efficacemente la funzione che loro compete di garantire la sicurezza sociale, non finissero per perpetuare e generare il male, ribadendo valori morali oramai superati8. Per valutare se Guyau sia stato davvero tradito da un eccesso di idealismo ci introdurremo ora nel laboratorio in cui presero forma le generose idee di questo giovane moralista. La conclusione a cui la ricostruzione del suo percorso teorico ci conduce è che egli abbia mantenuto invece una riserva critica rispetto ai miti progressivi della sua epoca. In particolare, come vedremo, l’ipotesi spenceriana di un’affermazione incondizionata, nel futuro, dell’istinto sociale altruistico viene contestata in nome di una visione più realistica e drammatica della duplicità della condizione dell’uomo, che ha il privilegio e la condanna, di dover sempre «ragionare» (raisonner) i propri desideri. Tra stoicismo ed epicureismo A ventiquattr’anni l’orientamento filosofico-morale di Jean Marie Guyau era già sufficientemente definito. La convinzione che i sentimenti e le teorie morali rivestano un’importanza crescente rispetto a un sentimento e a credenze religiose in declino appare già radicata. Il saggio La morale d’Epicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines (1878) affronta la ricostruzione della dottrina epicurea con la chiara coscienza di una sua rilevanza esemplare nel panorama delle soluzioni che l’umanità ha dato al problema morale. Nell’epicureismo egli riunisce, e oppone allo stoicismo, tutte le dottrine di tutti i tempi che in un orizzonte naturalistico assegnano all’uomo come fine supremo il piacere, la felicità o l’interesse personale. E si chiede se «dovere, moralità, merito», vale a dire le parole d’ordine dell’etica idealistica, non siano semplici espressioni figurate che l’umanità ha finito per prendere in senso proprio. O ancora – e qui, nella formulazione della domanda, a Epicuro si sovrappongono le figure degli utilitaristi ed evoluzionisti dei suoi tempi, da Bentham a
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Spencer – se non si debba «rimpiazzare il dovere con l’interesse comune, la moralità con l’istinto, l’abitudine utilitaria o il calcolo, il merito dell’azione con il godimento dell’oggetto stesso in vista del quale si agisce». Se l’epicureismo merita l’esame più coscienzioso è perché una parte dell’umanità ha sostenuto e continua a sostenere con sincerità e coraggio che «la vita ha per unico scopo l’interesse». La diffusione e la forza di questa credenza è per Guyau già un indizio che se essa non esprime tutta la verità, contiene almeno «una grande parte di verità»9. Lo sviluppo storico dell’epicureismo ne rappresenta una sorta di critica interna. Se nella formulazione originaria della dottrina il perseguimento del piacere ha una netta inflessione egoistica, malgrado il temperamento costituito dal tema complementare dell’«amicizia», nei moralisti inglesi diviene dominante la preoccupazione di legare il piacere personale al perseguimento del piacere altrui. L’io si distingue sempre meno dagli altri io o per lo meno ha bisogno di loro per costituirsi e sussistere. Il principio dell’egoismo puro viene superato dalla scuola inglese, e in particolare da Spencer, che ne rappresenta il culmine, a beneficio di sentimenti ego-altruistici, che preludono a loro volta a una piena affermazione dell’altruismo10. La tradizione «epicurea», dopo aver scoperto il primo segreto delle azioni, l’aspetto cioè per cui esse sono interessate, si è così approssimata al secondo e più fondamentale segreto, a cui appartiene l’avvenire, che tutte tendono al disinteresse11. Ma l’accesso a questo secondo segreto non era stato forse reso possibile in maniera più diretta dall’idealismo filosofico di quegli autori – Platone, Epitteto, Kant – che di Guyau erano stati i primi maestri? Da essi non si poteva apprendere l’amore disinteressato per il bene, l’appartenenza a un comune mondo razionale, il rispetto di un dovere impersonale? Alla filosofia di Epitteto, in particolare, Guyau aveva dedicato, nel 1875, un’Etude in margine alla propria traduzione del Manuale. Anche in questo caso nell’antico filosofo vengono cercate anticipazioni di un tema moderno, quello kantiano dell’autonomia morale. L’interesse di Epitteto, rispetto allo stoicismo delle origini, sta nella identificazione ch’egli compie della natura dell’uomo con la libertà che dà a se stessa la propria legge. L’eteronomia della sottomissione della volontà alla natura (il sequere naturam di Zenone) viene così superata e si presenta in primo piano la nozione di libertà autonoma12. Tuttavia Guyau non risparmia critiche neppure a questa forma più evoluta dello stoicismo, lamentando il suo carattere comunque troppo intellettualistico. La pretesa libertà resta pur
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sempre una comprensione e accettazione della necessità. Manca una percezione della infinita potenza della volontà, una visione espansiva del bene come processo di progressiva sottomissione della natura al nostro potere. E su queste basi il legame tra gli esseri è riposto in un amore più razionale che volontario, che esclude quanto in essi è più personale: «nell’attaccarmi alla ragione degli altri, a ciò che concepiscono piuttosto che a quel che vogliono e fanno, mi attacco proprio a ciò che in essi è impersonale, a ciò che propriamente essi non sono»13. Quest’affezione, che si vieta un attaccamento alla individualità degli altri, è una sorta di «egoismo della ragione». Una certa parzialità dunque affetta entrambe le tradizioni di pensiero morale che hanno riproposto nel tempo, in forme modificate, il vecchio conflitto tra epicureismo e stoicismo. Se i seguaci moderni di Epicuro non riescono a cogliere in maniera soddisfacente il carattere originario delle tendenze altruistiche, i loro avversari neostoici sembrano avere d’altra parte una percezione piuttosto limitata delle reali forze in gioco e ipotizzano una realizzazione impersonale di doveri che ha ben poco a che fare con un reale attaccamento alla individualità altrui. Un egoismo più sottile può perfino annidarsi nella magniloquenza di un dovere razionale che non vuole correre il rischio dell’attaccamento. Per questo Guyau intende contaminare creativamente le due tradizioni, usando la spregiudicatezza empirista per ridare senso a categorie che la retorica razionalista ha reso consunte14. I moralisti inglesi La Morale anglaise contemporaine (1a ed. 1879, 2a ed. 1885) è una corposa esposizione della morale dell’utilità e dell’evoluzione, che per la sua attendibilità meritò le lodi dello stesso Spencer15, e insieme il luogo di elaborazione di alcune delle idee centrali che saranno sviluppate nell’Esquisse (1885). La critica è condotta con simpatia, nella persuasione che ogni opera sincera del pensiero umano racchiuda una parte di verità che si tratta di liberare dai suoi limiti. Mi limiterò a indicare qui alcuni dei punti in cui la critica prelude alla formazione della concezione propria di Guyau. Nella presentazione di Bentham l’attenzione cade sul relativo trascendimento dell’egoismo che conduce a enfatizzare le gioie della simpatia e a far coincidere in ultimo la propria felicità con la più grande felicità del maggior numero16. Nello stesso tempo però si sottolinea che in nessun caso il sacrificio compiuto per virtù può diventare definitivo. La logica calcolistica degli
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utilitari equipara il sacrificio definitivo al vizio o a quel che l’economista definirebbe un consumo improduttivo. Ogni eccesso, la prodigalità dell’abnegazione non meno del vizio, è visto come una minaccia all’esistenza sociale17. Ora sarà appunto a partire da questo fenomeno inesplicato del sacrificio definitivo che Guyau finirà per postulare, al di là della morale positiva, il nuovo orizzonte delle «ipotesi metafisiche». In sede critica Guyau si interroga sulla effettuabilità del calcolo dei piaceri teorizzato da Bentham, che per altro verso viene riconosciuto come ideale «appropriato» della moderna vita «mercantile»18. Non solo non è possibile trovare misure comuni tra i vari parametri (intensità, durata, estensione ecc.) che dovrebbero intervenire nel calcolo, ma si danno intere specie di piaceri – i piaceri estetici o quelli sociali ad esempio – che paiono sfuggire ad ogni misurazione. Problematica appare inoltre la comparazione dei piaceri e delle pene. Il piacere infine è modificabile per effetto della stessa idea dell’attività interiore e della sua indipendenza19. Questi elementi riescono imponderabili per i sostenitori di un sistema egoista, che vengono così a trovarsi nell’imbarazzante situazione di doversi attenere al solo criterio della quantità senza poterlo d’altra parte applicare. Le difficoltà non vengono risolte neppure se ci si appella, come fa Stuart Mill, al criterio della qualità. Guyau si dichiara convinto, con Kant, che qualunque sia l’origine – sensibile o intellettuale – dei piaceri, essi siano comunque piaceri e affettino la stessa facoltà di desiderare. La nozione di qualità è vaga e superflua. Ciò che decide della «superiorità» di un piacere non è la sua diversa qualità in quanto piacere ma il fatto che ad esso sia legata un’idea di valore e di obbligo morale. È questa relazione che le conferisce quella «qualità», che Stuart Mill scambia per una «superiorità intrinseca». Posto tra Bentham e i suoi avversari egli si riduce a cercare timidamente un’idea intermedia: «vuole andare più oltre del primo ma non così lontano quanto i secondi, non si contenta dell’idea semplice di quantità ma non può parlare di moralità»20. Riesce piuttosto naturale pensare che questo confronto con Mill abbia rafforzato in Guyau la convinzione, in lui così caratteristica, di una specificità non riducibile dell’istanza morale. Il confine tra la prospettiva utilitaria e la moralità altruista sembra divenire ancora più sottile allorché la dottrina dell’egoismo, incapace come tale di fornire principi di condotta, è spinta, per una sorta di necessità logica, a sostituire il criterio della felicità individuale con quello della felicità sociale. Stuart Mill crede di poter dimostrare che una volta assunto che la felicità è un
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bene, e che la felicità di ciascun individuo è un bene per quell’individuo, ne segua che «la felicità generale è un bene per la collettività di tutti gli individui»21. Ma, obietta Guyau, non si dà felicità per una collettività bensì solo per gli individui reali che la compongono. Così riformulato il principio di Mill affermerebbe quindi che la felicità generale rappresenta il bene supremo e quanto vi è di più desiderabile per ciascun individuo – ma ciò non è affatto evidente22. È proprio riferendosi polemicamente a Stuart Mill che in apertura dell’Esquisse Guyau stabilirà che una morale fondata sui fatti non potrà mai presentare all’individuo per primo movente la felicità della società, perché «la felicità della società è spesso in opposizione a quella dell’individuo» e non può divenire per lui un fine se non sulla base di un atteggiamento di puro disinteresse, postulando cioè un fatto inverificabile. Di qui l’approccio «individualistico» al problema morale che Guyau rivendica come proprio, almeno finché si resta nei limiti della morale scientifica, la quale «non deve preoccuparsi dei destini della società se non in quanto implicano più o meno quelli dell’individuo»23. È con Spencer però che la dottrina dei moralisti inglesi raggiunge la sua sistematizzazione più compiuta. L’evoluzionismo è lo sviluppo logico e conseguente dell’utilitarismo. Con esso la ricerca di felicità viene iscritta in un ampio disegno cosmologico. Le regole del comportamento possono essere dedotte con necessità dalle leggi della vita24. Da un certo punto di vista l’intero impianto della filosofia di Guyau può essere interpretato come un tentativo di riprendere la definizione fondamentale che Spencer dà del processo evolutivo per volgerla contro l’immagine ch’egli ha dato del suo esito finale. La «persistenza della forza» costituisce il principio fondamentale che governa ogni essere, sotto il profilo morale non meno che sotto quello fisico e psicologico. Ma questa legge si attua in un processo di trasformazione o evolutivo, che può essere descritto come un passaggio dall’uniformità alla varietà ovvero come un costante approfondirsi della tendenza all’individuazione. Per Spencer gli individui, fa notare Guyau, non stanno a significare né le sostanze indivisibili dell’antica metafisica né le libere individualità dei moralisti, bensì combinazioni originali di elementi che presentano, man mano che si sale nella scala degli esseri, una più elevata capacità di conservarsi, facendo fronte alle azioni esteriori. Non è azzardato pensare che alcuni aspetti di questa concezione dell’individualità, ben lontana da quell’atomismo con cui l’individualismo viene per lo più troppo frettolosamente identificato, vengano fatti propri
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dallo stesso Guyau, pur all’interno di una visione più complessa del rapporto tra conservazione ed espansione di sé. La legge morale si presenta in questo quadro, secondo le parole di Spencer, come «la legge sotto la quale l’individuazione diviene perfetta»25. La condizione finale a cui approda questo processo non deve tuttavia essere immaginata in analogia al «regno dei fini» kantiano ove ogni individuo è autonomo e fine a se stesso, ma piuttosto come un organismo, ovvero come una condizione in cui ogni individuo è perfettamente adattato al suo ambiente. Nella situazione di equilibrio completo che mette fine alle oscillazioni l’individuo è finalmente tutto ciò che deve essere per la felicità della società, e reciprocamente la società tutto quel che deve essere per la felicità dell’individuo26. Il lato soggettivo di questo sviluppo è dato dal progressivo affermarsi di sentimenti ego-altruistici in luogo di quelli originariamente egoistici fino al definitivo prevalere di sentimenti altruistici, che cesseranno di essere associati a qualsivoglia sensazione sgradevole di sacrificio e finiranno per determinare una specie di concorrenza nell’abnegazione. Ora però l’autorità o imperatività di questi sentimenti non riceve da Spencer una caratterizzazione propriamente morale e sembra dipendere piuttosto dalla necessità oggettiva, ovvero iscritta nelle cose stesse, di questo stato di equilibrio finale27. Di nuovo, come nel confronto con Stuart Mill, Guyau connette la moralità, se questa non deve essere ridotta a costrizione fisica, alla possibilità da parte degli individui di sottrarsi all’uniformità di una sola legge per definire diversamente i loro percorsi. Anche ammesso che si debba assumere come meta del processo la felicità generale, non è forse possibile tendere ad essa attraverso le strategie più varie, in alcuni casi persino adottando provvisoriamente comportamenti «ingiusti»? Meglio correre il rischio dell’«anarchia» che quello del «dispotismo morale»28. Alla pretesa spenceriana di una legge universale uniforme a cui tutti gli individui debbano adattarsi può essere opposta una delle teorie a lui più care, quella che stabilisce che con il progredire delle specie, «all’individuo è assegnata una sfera d’azione sempre più larga». Con questa teoria viene sancito il suo diritto alla «libera iniziativa» e al «libero esame»29. Contro il dogmatismo Se il confronto con la concezione naturalista della morale può considerarsi sostanzialmente compiuto nella Morale anglaise, nel momento di formulare in positivo la propria concezione etica Guyau sente il bisogno di situarla nella
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cornice di una più vasta ricognizione dei sistemi etici contemporanei. In questo era stato preceduto dal suo patrigno e primo maestro Alfred Fouillée, autore di una Critique des systèmes de morale contemporains (1883), che nella prefazione dell’Esquisse Guyau ricorda come una delle opere che hanno avuto su di lui maggiore influenza. La Critica dei diversi tentativi di giustificare metafisicamente l’obbligo, che nella prima edizione dell’Esquisse (1885) segue la parte più propriamente teorica dedicata alla reinterpretazione del sentimento del dovere, funge invece da premessa nel progetto per la seconda edizione, che vide la luce postuma, a cura di Fouillée, nel 1890, e a cui si attiene la traduzione italiana qui presentata. Una prima distribuzione delle dottrine viene compiuta in base all’assunto proprio di alcune di esse di attingere il fondo delle cose e di darne una definizione in termini ottimistici, pessimistici o di neutralità teleologica. Ad essere contestata è la pretesa stessa, comune a tutte e tre gli orientamenti, di dare una definizione metafisica dell’essenza della realtà. Tuttavia alcune istanze di ciascuno di quei sistemi possono considerarsi legittime. Così l’ipotesi ottimista – di cui Guyau rintraccia svariate formulazioni nella storia del pensiero, da quelle classiche di Platone Spinoza e Leibniz fino alle prospettive dialettiche che nel male vedono solo l’occasione di un bene maggiore o a quelle evolutive che scommettono su un progresso continuo e inevitabile – produce nel suo insieme una specie di de-moralizzazione, favorendo atteggiamenti quietistici di tipo conservatore quanto mai lontani da quelle disposizioni attive di intervento sulla realtà a cui Guyau connette ogni possibile forma di moralità. Le ragioni relative di questa prospettiva emergono se essa viene messa a confronto con l’ipotesi opposta, pessimistica, che quando fosse fatta valere in modo rigoroso renderebbe problematica la stessa sopravvivenza. Una certa dose di felicità, ossia di prevalenza delle sensazioni di benessere su quelle di malessere, pare un’indispensabile condizione di esistenza. L’invito di Hartmann al «suicidio universale», nella sua paradossalità, ne è la riprova30. L’esperienza è contro i pessimisti: l’umanità prova il valore della vita col fatto stesso di ricercarla. Il calcolo dei piaceri e dei dolori a cui essi si appellano è, come abbiamo visto, ineseguibile, e in ogni caso condizionato da illusioni psicologiche che nel ricordo danno risalto piuttosto al dolore che alla voluttà e ci fanno ignorare il piacere generale di vivere e di agire. Né si possono derivare conclusioni pessimistiche da un’analisi della natura del piacere, che si congiungerebbe sempre a un bisogno, non potendosi dimostrare che lo sti-
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molo del bisogno sia in ogni caso sgradevole. Sul piano morale la superiorità di un essere è data da una spiccata sensibilità, che gli permette di soffrire intensamente, unita alla capacità di reagire con moti ancora più energici della volontà. In questo senso, se non se ne fa un sistema, il pessimismo è solo questa più viva percezione dei lati negativi dell’esistenza che può spingere a reagire attivamente contro di essi. Nessuna delle due prospettive può avvalersi di argomenti scientifici, dipendendo piuttosto da apprezzamenti individuali alquanto arbitrari. Più corrispondente allo stato delle scienze sembrerebbe la terza ipotesi che concepisce la natura come «indifferente». L’oceano che nell’immensità caotica dei suoi movimenti frustra ogni tentativo di imbrigliare la natura assegnandole fini è il simbolo di questa neutralità. Il modo cattivante in cui questa ipotesi è descritta potrebbe quasi indurre a credere che Guyau voglia presentarla come propria. E da un certo punto di vista, per quanto cioè essa esprime di negativo nei confronti delle due ipotesi precedentemente considerate, essa è davvero condivisa. Tuttavia egli si rifiuta poi di approvarla in quanto visione a sua volta dogmatica della realtà o pretesa di conoscere il fondo delle cose e di derivarne una legge certa di condotta. È visibile in quest’assunto una traccia della cautela antimetafisica di Kant, che nella Critica della ragion pura reputava indimostrabile sia l’esistenza che la non esistenza di un finalismo nella natura. Per apprezzare in pieno il senso della posizione assunta da Guyau è opportuno confrontarla con quella che emerge dalle note che Nietzsche appose a margine di queste pagine dell’Esquisse. Il punto di maggior consenso sembra essere dato dalla esclusione dell’ipotesi pessimistica. Egli esprime approvazione («sì») là dove Guyau afferma che «questa formula che si pretende scientifica non ha affatto senso»31. Conviene inoltre che la sofferenza può non essere il male peggiore per l’uomo se funge da stimolo all’azione e che il pungolo del bisogno, almeno sotto una certa soglia, può riuscire gradevole32. Esprime invece perplessità là dove Guyau fa coincidere l’esistenza del mondo con la sua desiderabilità33, imputandogli così implicitamente un eccesso di indulgenza verso il punto di vista ottimistico. Ma quel che qui ci interessa maggiormente sottolineare è che Nietzsche identifica come propria, annotando «moi», l’ipotesi dell’indifferenza della natura che, senza aderirvi, Guyau aveva illustrato con tanta efficacia. L’equilibrio di vita e morte di una natura non costretta ad essere feconda, l’agitazione dell’oceano che dà e toglie la vita con la stessa indifferenza, l’equilibrio nell’universo del bene e del male che si neu-
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tralizzano come i diversi movimenti delle onde: ecco i temi nei quali, come osservava già Fouillée, Nietzsche poté riconoscere «la propria dottrina di eterno equilibrio e di eterno ritorno»34. Dalla metafisica dell’indifferenza della natura illustrata nell’Esquisse discende una forma estrema di «scetticismo morale» che fa coincidere la volontà immorale con la volontà normale di tutti gli esseri e che doveva riuscire anch’esso congeniale a Nietzsche, come risulta di nuovo da una breve ma inequivocabile annotazione dello stesso tenore («moi»)35. Nulla potrebbe essere più distante invece dalla sensibilità di Guyau che quest’idea di una natura ridotta alla lotta tra un’infinità di egoismi ovvero di individui atomisticamente concepiti36. Dall’autonomia alla morale del dubbio Abbandonato il terreno del dogmatismo metafisico Guyau si trasferisce su quello della filosofia critica. Un regolamento di conti s’impone qui innanzitutto con l’etica kantiana, definita come una «morale della certezza pratica», e poi con gli sviluppi pratici del neocriticismo di Renouvier («morale della fede») e con l’originale sintesi di filosofia critica e filosofia evoluzionista tentata da Fouillée («morale del dubbio»). Alla necessità di intraprendere una critica approfondita del razionalismo morale egli era stato sicuramente sollecitato ancora una volta da Fouillée, che nella sua Critica dei sistemi morali contemporanei, in pagine di grande acutezza, aveva lamentato l’eccessiva disinvoltura con cui i kantiani, nel loro disdegno delle scienze concrete, storiche psicologiche e sociologiche, si erano ritenuti dispensati dall’estendere la critica della ragione dal campo speculativo a quello morale. Anche alcune idee ispiratrici dell’analisi di Fouillée vengono riprese dal suo giovane estimatore, a partire dal rilievo che la volontà morale non può astrarre da ogni oggetto e restare puramente formale37. Nel suo formalismo – riconosce Guyau – la morale kantiana si sottrae alle obbiezioni che possono essere mosse, in nome del relativismo culturale a cui la scienza è approdata, alle posizioni intuizioniste che privilegiano un determinato bene materiale. La purezza dell’intenzione si sottrae infatti in ogni caso alle critiche che possono investire il contenuto dell’azione. Ma il sentimento d’obbligo che Kant collega all’intenzione buona, si chiede Guyau, ha veramente il carattere «sovrasensibile» ch’egli pretende? O non è piuttosto, come hanno compreso i moralisti inglesi, di origine «sensibile», consistendo nella resistenza che incontriamo per effetto di leggi naturali nell’intraprendere
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una scelta? Per non averlo ammesso Kant è stato costretto ad arrestarsi di fronte al «mistero» di un sentimento patologico, il «rispetto», eccitato dalla sola forma della legge morale. Bisogna mettere in questione allora l’idea stessa di un sentimento provocato da una pura forma ovvero quella di un dovere indeterminato e puramente formale. Il dovere non vive nella coscienza se non si applica a un contenuto e non si rivolge a qualcuno. Il sentimento della obbligatorietà può nascere solo dalla rappresentazione della legge «in ragione della sua materia sensibile e del suo fine». La sua universalità resta vuota e inattiva finché non è concepita come universalità di qualche cosa o bene che sia oggetto del sentimento. Una pura relazione con l’universalità come tale non potrebbe produrre che una soddisfazione logica, la quale d’altronde sarebbe pur sempre soddisfazione di un istinto logico, cioè di una tendenza naturale. È impensabile che un essere umano persegua uno scopo considerandolo indifferente, assegnando cioè valore morale alla sola volontà di raggiungerlo: se così accadesse l’indifferenza finirebbe per toccare la stessa volontà. L’imperativo dunque non basta: è necessario che l’intelligenza lo approvi e che il sentimento si colleghi al suo oggetto. Nell’azione morale è così coinvolto l’intero essere nella varietà delle sue funzioni: «Tutti questi elementi, il piacevole, l’utile, il bello si ritrovano nell’impressione prodotta dalla ragione pura o dalla volontà pura»38. Il progresso compiuto da Kant con il superamento delle morali eteronome e l’affermazione dell’«autonomia» dell’agente morale nel suo subordinarsi a una legge universale di cui egli stesso, in quanto ragione, è autore, viene riconosciuto come il presupposto ormai imprescindibile del pensiero etico moderno e della stessa proposta di cui Guyau si fa portatore. La «rivoluzione» deve però essere completata, come vedremo, attraverso una considerazione più approfondita delle condizioni di una «vera autonomia»: la quale non comporta l’uniformità di un solo ideale bensì la moltiplicazione e la varietà degli ideali individuali – ciò che, formulando sinteticamente il proprio programma, nella prefazione dell’opera, egli designa come passaggio dall’autonomia all’«anomia»39. Il neocriticismo di Charles Renouvier e di Charles Secrétan viene caratterizzato, in modo efficace anche se certo con qualche semplificazione, come una forma di kantismo alterato che subordina la ragion pura alla ragion pratica con il risultato di sottrarre il dovere a ogni sorta di giustificazione razionale e farne
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il termine esso stesso di una «fede»40. Di fronte a questo richiamo tautologico al «dovere di credere nel dovere» diventa illegittimo persino porre la questione, sollevata da utilitari ed evoluzionisti, se esso non abbia un’origine naturale. Il dominio della fede religiosa, che ancora traspare in alcuni postulati della morale kantiana, si traduce in una diretta assolutizzazione della «fede morale». Questa non può vantare che un’assai problematica «evidenza interiore», a cui manca ogni carattere di «verità», se per verità deve intendersi il collegamento di una serie di fenomeni che si sostengono reciprocamente41. Per acquistarlo esso non può evitare di sottoporsi al vaglio del dubbio e della scienza, la quale è forse impotente a costruire un’etica ma può almeno sgombrare il terreno da credenze non giustificate. Al dovere di credere il non credente ha il diritto di opporre il dovere di dubitare. Se poi a sostegno del dovere si adduce la «necessità sociale», cioè la supposta funzione indispensabile che esso assolve per il mantenimento della società, anche di questo è lecito dubitare. Quanto meno questa necessità potrebbe essere provvisoria. Si può ipotizzare infatti che al dovere, «macchiato di sangue e di lacrime», accada quanto è già accaduto alla fede religiosa, di perdere il carattere di necessità sociale che ha rivestito per una lunga epoca storica. Allora esso tenderà a confondersi sempre più con lo sviluppo regolare e normale dell’io»42. La morale del dubbio, o meglio della «relatività delle conoscenze», nella formulazione che aveva ricevuto da Fouillée sembra dunque a Guyau, a conclusione di questa ricognizione dei motivi di debolezza delle varie espressioni del dogmatismo metafisico e morale, la posizione a cui ci si può meglio appoggiare per la fondazione della moralità. Il principio della relatività delle conoscenze risulta dalla stessa analisi della struttura della coscienza, la quale – ripete Guyau con Fouillée – «non si pone che ponendo davanti a sé altre coscienze simili»; esso ha una portata morale in quanto agisce come principio restrittivo dell’egoismo teoretico (il dogmatismo) e pratico (l’ingiustizia). Il dubbio tuttavia non resta per Fouillée, e tanto meno per Guyau, l’ultima parola: un dubbio completo finirebbe per astenersi non solo dall’ingiustizia ma dall’azione in generale. Dietro di esso è possibile scoprire «una credenza vaga che ignora se stessa»: posto tra diverse ipotesi l’uomo non rimane mai sospeso in una epoché pirroniana, sceglie comunque secondo proprie specifiche abitudini mentali e credenze. Un semplice riferimento all’«inconoscibile» non è in grado di fornire alcun criterio, né orientativo né limitativo, alla condotta. Perché esso possa agire occorre che «sia rappresentato in rapporto al mio
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atto», ovvero come un ideale o un avvenire nella cui realizzazione posso intervenire43. E qui si innesta la teoria, enunciata da Fouillée e condivisa dal suo discepolo, delle «idee-forza», che concepisce l’idea come un cominciamento d’azione o l’azione di realizzazione come verifica dell’idea. Così l’«altruismo intellettuale», che fa sì che possiamo pensare gli altri e metterci al loro posto, diventa principio di un «altruismo morale», che spinge ad amarli e ad agire in loro favore44. La prospettiva «liberale» del riconoscimento dei diritti si allarga in un più vasto orientamento alla fratellanza o solidarietà universale. Su questa larga base di idee condivise il discepolo fa tuttavia valere, cautamente e rispettosamente, una piccola ma importante inversione di prospettiva: la simpatia è il presupposto e non una conseguenza della capacità di pensare gli altri. «Noi crediamo, effettivamente – scrive – che esista una specie di “altruismo intellettuale”; solo che secondo noi questo disinteresse dell’intelligenza è solo uno degli aspetti dell’altruismo morale, invece di esserne il principio»45. Il potenziamento della vita e le ipotesi metafisiche La vita precede dunque la coscienza. Ed è nel movimento espansivo della vita che Guyau cerca il principio stesso della morale. Questo riferimento alla vita doveva suscitare già tra i contemporanei parecchie perplessità e l’accusa all’autore di essere restato impigliato in una concezione «metafisica»46. Ma l’abitudine, a quanto pare non recente, di squalificare una proposta teorica tacciandola di ‘metafisica’ non sempre giova alla sua comprensione. Per verificare se l’accusa ha senso serve a poco analizzare in se stessa la nozione di vita o anche risalire alle tradizioni all’interno delle quali era stata elaborata, e a cui Guyau poté rifarsi, da quella romantica a quella evoluzionista47, conviene esaminare piuttosto il modo in cui viene introdotta. La categoria di vita è invocata per riassumere, sul terreno di una morale che si pretende «scientifica», una serie di «fatti», l’ambito di ciò che è effettivamente «desiderato», prima che intervengano ulteriori speculazioni intorno al «desiderabile». Il potenziamento della vita è presentato come «lo scopo naturale delle azioni umane», in polemica con posizioni come quella epicurea che ripongono il fine dell’azione in una ricerca cosciente del piacere. I piaceri particolari, da intendere comunque aristotelicamente come conseguenze dell’espletamento di particolari attività e non come loro termine, rivestono un valore secondario rispetto al fatto stesso del vivere e al più fondamentale piacere che ne consegue48.
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Il rimando alla vita vuole sottolineare appunto che una volontà di accrescimento di sé e di espansione verso l’esterno opera in tutti gli esseri, al di sotto della finalità cosciente. Questo apparentamento degli esseri creerà le premesse per le ricerche etologiche che un seguace di Guyau, Kropotkin, condurrà su quel fenomeno animale e umano di espansione vitale ch’egli definisce «mutuo appoggio»49. L’intensificazione della vita negli esseri superiori è d’altronde immediatamente specificata come un bisogno di attività e di varietà nell’attività. Il pensiero, il lavoro e un amore generoso subentrano presto in luogo della indeterminatezza e cecità dell’istinto. La coscienza non interviene a distruggere l’istinto ma anzi a fortificarlo, dato che un’unica tendenza espansiva è comune alle due sfere, conscia e inconscia, dell’azione. La morale viene ad occupare appunto quello spazio di confine in cui la causalità inconscia degli impulsi si traduce in finalità cosciente50. Se si tien conto che a questo processo non viene assegnato, diversamente da quanto accade in Spencer, alcun fine certo, e che lo sviluppo di una forma superiore di moralità altruista è anzi fatto dipendere da «ipotesi» individuali di cui non si può fornire dimostrazione, si deve convenire che la «metafisica» di Guyau è di una qualità molto particolare e che i critici sopra ricordati «abusano del nome della metafisica» quando l’assumono come sinonimo di ciò che è contrario alla scienza51. Dobbiamo prendere sul serio il nostro autore quando, nella prefazione, annuncia il programma di «determinare la portata, l’estensione e anche i limiti di una morale esclusivamente scientifica»52. Per lui è essenziale in primo luogo dare un fondamento solido alla morale a partire dal principio evoluzionistico del potenziamento della vita. I primi equivalenti del dovere – la categoria kantiana che Guyau assume come punto di partenza dell’indagine pur negandone il carattere trascendentale – vengono rintracciati in poteri naturali – pratici intellettuali ed estetici: il potere di agire che si associa alla coscienza di un corrispondente dovere; quello di concepire idee, forze che spingono anch’esse obbligatoriamente all’azione in vista di un’unificazione dell’essere che ne costituisce la moralità profonda; e infine quello di provare superiori sensazioni estetiche, che mentre squarciano il velo dell’individualità creano legami e obblighi particolari. In generale si suppone che sia la coscienza del proprio potere a suscitare il sentimento di un obbligo, tanto più pressante ed esteso quanto più ampi sono i poteri di cui ciascuno dispone53. Questa parte della morale, suscettibile di essere condivisa nei suoi principi generali, non può dar luogo però, proprio perché fondata sui «fatti», ad alcuna forma di imperatività assoluta e categorica.
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Altrettanto essenziale sembra a Guyau elevare, al di sopra di questa morale positiva, un’ulteriore costruzione che dipende da ipotesi individuali. Ma queste, a loro volta, per il loro stesso carattere «arrischiato» non possono tradursi in imperativi categorici né vincolare universalmente. Quanto poco queste ipotesi, che, vertendo sulla sostanza delle cose e il destino degli esseri, possono essere dette metafisiche, comportino la soggezione degli individui a un destino metafisico prefissato, a qualche supposta legge della realtà, risulta dal procedimento «induttivo» da cui scaturiscono. Sono io a «creare» le ragioni metafisiche dei miei atti, a partire da inferenze che hanno come punto di partenza un sapere empirico e limitato54. A queste ragioni probabili non appartiene in nessun modo quell’oggettività che i kantiani riconoscevano alla legge morale universale ma neppure l’oggettività che un altro critico dell’universalismo kantiano, Simmel, avrebbe di lì a poco assegnato alla «legge individuale», cioè a quel dover essere ideale che scaturirebbe in modo oggettivamente riconoscibile dalla dinamica di ciascuna vita individuale55. La soluzione dualistica del problema morale, nel contemplare una duplicità di livelli – una morale dei fatti e un superiore livello di ipotesi metafisiche individuali che possono giustificare il puro disinteresse spinto fino al sacrificio senza compenso – appare segnata da una visione marcatamente eroica della vita morale, che non tiene in debito conto la novità intervenuta in essa con la «moralizzazione», progressivamente attuatasi nella modernità, della vita quotidiana. Non si potrebbe sostenere infatti che anche le più comuni scelte etiche, che Guyau fa rientrare nella «morale dei fatti», vengono affrontate attraverso l’ausilio di quelle ipotesi «metafisiche» individuali che egli vorrebbe riservare solo a scelte cruciali? L’anomia La condizione morale, caratteristica dei tempi moderni, in cui si confrontano e convivono innumerevoli piani di vita individuali è indicata nell’Esquisse con l’antico termine greco «a-nomia». Due anni più tardi lo stesso termine viene utilizzato nell’Irréligion de l’avenir (1887) per indicare «l’individualismo religioso». Solo nel 1893 Durkheim lo riprende, nella prima introduzione alla Division du travail social, in un’accezione negativa che finirà per divenire dominante ed oscurare l’uso fattone originariamente da Guyau. Durkheim recensì, nell’anno stesso della pubblicazione, l’Irréligion, senza discutere tuttavia espressamente il concetto di anomia56. L’introduzione origi-
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naria alla Division, quasi completamente espunta nelle edizioni successive, contiene invece una trasparente allusione polemica all’uso positivo di questo concetto da parte di Guyau: «Si rischia d’indebolire il sentimento dell’obbligo, cioè l’esistenza del dovere, ammettendo che c’è una moralità, e forse la più elevata, la quale consiste in libere creazioni dell’individuo non determinate da alcuna regola, che è essenzialmente anomica. Noi riteniamo invece che l’anomia sia la negazione di ogni morale»57. Durkheim non si sbagliava nel cogliere il punto cruciale di distanza tra la propria teoria e quella di Guyau in una diversa considerazione delle «creazioni libere dell’individuo» e della loro funzione rispetto alla crisi delle certezze tradizionali. Per Guyau l’anomia rappresenta un approfondimento dell’autonomia kantiana, un modo per portare alle sue estreme conseguenze l’istanza che ne sta alla base; d’altra parte, in quanto comporta la giustificazione di comportamenti differenziati costituisce l’antitesi della uniformità prescritta dal razionalismo kantiano. «Kant... ha creduto che la libertà individuale dell’agente morale potesse conciliarsi con l’universalità della legge. Ma, nel “regno della libertà”, il buon ordine deriva proprio dal fatto che non c’è alcun ordine imposto a priori. [...] La vera “autonomia” deve produrre l’originalità individuale e non l’universale uniformità»58. Essa configura, non solo sul piano morale ma su quello sociale, una strategia per fronteggiare il declino delle credenze condivise, la ‘morte di Dio’, esattamente opposta a quella durkheimiana, che reagisce alla crisi attraverso un richiamo alla credenza umanistica nell’uguaglianza degli individui e all’autorità obbligante e sanzionante della società59. L’unità e l’armonia, che sono di certo anche al centro delle preoccupazioni di Guyau, possono essere meglio garantite proprio attraverso la varietà delle credenze e dei comportamenti. «Quanto più numerose saranno le dottrine che si contenderanno la preferenza degli esseri umani, tanto meglio sarà per il futuro accordo finale»60. Questo è anche il filo sottile ma solido che congiunge la dottrina di Guyau ad alcune prospettive anarchiche61. Le ipotesi non sono però tutte di ugual valore. Sul piano storico-evolutivo è possibile ricostruire, come Guyau fa nella sua ultima monumentale opera, L’irréligion de l’avenir (1887), un «progresso delle ipotesi metafisiche». Tanto è vero che pur ammettendo in linea di principio una pluralità di ipotesi, virtualmente numerose quanto gli individui, Guyau finisce per privilegiare costantemente, nelle sue esemplificazioni di che cosa significhi la «scommessa»
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metafisica, una visione del mondo in cui è contemplato un alto grado di abnegazione – così alto da poter prevedere anche il getto della vita per altri, il «sacrificio definitivo» che viola la logica utilitaria del compenso (che è ancora quella dell’egoismo illuminato). A questo atteggiamento di compiuta solidarietà sociale corrisponde un sentimento cosmico e postreligioso (non antireligioso) di appartenenza a una grande società che abbraccia, oltre l’umanità, la totalità degli esseri, e, sul piano teorico, l’ipotesi più alta a cui ha condotto lo sviluppo dei grandi sistemi ideali religiosi e metafisici: il monismo della natura62. Paradossalmente questo punto culminante delle costruzioni metafisiche che hanno progressivamente sostituito i dogmi religiosi non comporta, come pure l’idea di monismo potrebbe suggerire, una dissoluzione degli individui, ma fornisce il contesto entro cui il problema dell’immortalità di quanto di più personale appartiene agli individui può essere finalmente posto, in modo non dogmatico63. Intensità, espansione, violenza La correlazione che Guyau stabilisce tra intensificazione ed espansione della vita e che costituisce certamente uno dei punti centrali della sua teoria etica non ha mancato anch’essa di suscitare, fin dagli inizi, molte polemiche. La vita, egli sostiene, può essere concepita da un certo punto di vista come una sorta di «gravitazione su se stessa», che corrisponde, sul piano biologico, alla nutrizione; ma questa sua intensificazione crea le premesse perché essa si riversi all’esterno, riproducendosi. La conservazione non è intesa nei termini di un semplice recupero delle forze ma come accumulazione di un surplus di forza che esige di spendersi attraverso la generazione, prototipo di ogni forma di fecondità – intellettuale, pratica e sentimentale. Questo «dispendio» (dépense), almeno se mantenuto entro certi limiti, non rappresenta una perdita ma fa parte della realizzazione normale dell’esistenza. «C’è una certa generosità inseparabile dall’esistenza e senza la quale si muore, ci si dissecca interiormente. Bisogna fiorire; la moralità, il disinteresse sono il fiore della vita umana»64. Vale la pena di notare che troviamo qui una prima formulazione di quella teoria della dépense, che, apprezzata da Nietzsche, avrebbe trovato larghi sviluppi nella filosofia antropologica francese di questo secolo, da Mauss a Bataille65. Essa si pone in alternativa alla concezione che degli istinti di simpatia e socievolezza ebbe la scuola inglese, e in particolare Spencer, che li presenta come acquisiti nel corso dell’evoluzione e quindi come più o meno avventizi. Al
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contrario, per Guyau «nel seno stesso della vita individuale c’è un’evoluzione che corrisponde all’evoluzione della vita sociale e la rende possibile, che ne è la causa invece di esserne il risultato»66. Ad alcuni critici la distinzione tra la teoria di Spencer, che fa acquistare all’individuo gli istinti di simpatia nel corso dell’evoluzione, e quella di Guyau, il quale afferma che si trovano in lui originariamente, è sembrata speciosa. Uno di loro osserva: «Che cosa importa che il sacrificio personale all’idea... sia un risultato dell’evoluzione superiore dell’istinto sociale o un’acquisizione sociale che epura il nostro egoismo primitivo e lo forza a preferire la parte migliore? L’essenziale è che esista allo stato di realtà attiva e benefica»67. Ma Guyau aveva delle buone ragioni per tener ferma la sua piccola innovazione teorica: era convinto infatti che, se si fosse posta a base delle azioni la tendenza egoistica al piacere, alla maniera degli edonisti, si sarebbe compromesso il passaggio dall’io al non io, dall’interesse personale all’interesse comune. Una volta presupposto come originario un univoco attaccamento dell’io a se stesso, la causa dell’io è sempre destinata a prevalere, perché «nell’io vi è qualcosa sui generis di irriducibile»68. Egli preferisce così postulare uno stato della vita per così dire anteriore alle opposizioni: nel suo sviluppo in gran parte inconscio la vita creerebbe diverse forme di attività che acquistano un carattere egoista e altruista solo dopo esser divenute coscienti. Una condizione di ricerca esclusiva del piacere egoista è tanto poco riscontrabile alle origini quanto poco è accertabile in generale una condizione corrispondente all’ipotesi del puro disinteresse69. Uno dei primi lettori che mise in dubbio la correlazione necessaria di intensità ed espansione in senso altruistico della vita fu Nietzsche, che pure mostra di condividere, prima e dopo aver conosciuto il libro di Guyau, l’idea che l’autoconservazione, come semplice mantienimento del livello dato di esistenza, dipenda dalla prodigalità dell’espansione di sé70. Egli considera «il massimo della distorsione l’interpretazione che il filosofo francese dà di questo eccesso come tendenza della vita a sacrificarsi, così esprimendosi: «A parte le secrezioni e gli escrementi ogni vita vuole soprattutto dare sfogo alla volontà di potenza»71. Ma anche un autore complessivamente vicino alle posizioni di Guyau e fortemente polemico verso la volontà di potenza nietzschiana, come Fouillée, si chiede se una misurazione quantitativa della vita consenta di concludere davvero, come fa Guyau, che la vita più intensa coincida sempre con la vita più estesa e generosa. Non potrebbe darsi, si chiede, che «l’energia vitale, e anche psichica, possa manifestarsi nel dominio sugli altri e nel
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loro impiego per i nostri propri fini, invece di manifestarsi nella subordinazione di noi stessi a fini universali»?72. L’intensificazione può compiersi secondo due diverse direzioni, centripeta e centrifuga, per cui sarebbe necessario stabilire più espressamente che «la direzione altruistica è il solo mezzo normale di mantenere la vita individuale al suo massimo di energia»73. Il senso della sua osservazione sta, possiamo presumere, nella richiesta di attribuire un peso più decisivo all’istanza della coscienza, se ci si vuole sottrarre all’ambivalenza della vita. Ma non bisogna fingersi il buon Guyau così ignaro degli aspetti duri e violenti dell’esistenza. Seppure egli non ne avesse avuto una diretta esperienza li avrebbe comunque appresi dalle descrizioni della lotta per la vita dei naturalisti inglesi. La selezione mediante la forza è per lui una realtà ben nota ed è anche stata a suo giudizio una condizione di progresso. Ma se essa esprime già in qualche modo il trionfo del migliore, c’è la speranza che in futuro la volontà compia ciò che ora fa la forza74. Lo sviluppo «normale» dell’essere umano comporta una crescente consapevolezza di ciò che in un modo o nell’altro tutti i sistemi morali, dice Guyau appellandosi a una specie di senso comune filosofico-morale, hanno insegnato: cioè che «l’individuo non può vivere unicamente di sé e per sé, che l’egoismo è un restringimento della sfera della nostra attività», e che l’essere umano si trova quindi di fronte all’alternativa di «disseccarsi o aprirsi». Se quei sistemi possono aver abusato di un linguaggio sacrificale, non si può contestare che «la virtù sia fecondità morale, allargamento dell’io, generosità»75. Quanto poi alla violenza – osserva Guyau in un passo di Educatíon et hérédité (1889, postumo) rispondendo proprio all’obbiezione secondo cui «la fecondità delle nostre diverse potenze interiori potrebbe soddisfarsi altrettanto bene nella lotta come nell’accordo con gli altri» – essa, anche ammesso che siamo capaci di trionfare della resistenza altrui, ci espone alla servitù verso il gruppo degli alleati a cui dobbiamo ricorrere, e, soprattutto, altera interiormente la volontà. «Il violento soffoca la parte simpatetica e intellettuale del suo essere, cioè quanto c’è in lui di più complesso e di più elevato dal punto di vista dell’evoluzione». Brutalizzando gli altri, abbrutisce se stesso, si impoverisce. Infine il despota, abituato a non incontrare più ostacoli, lascia campo libero alle sue inclinazioni più contraddittorie in una completa infantile «atassia»76. Nell’Esquisse questo squilibrio che contrasta con l’ideale umanistico di uno sviluppo armonico delle facoltà era già stato segnalato in
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un despota ambizioso, che parecchi filosofi dell’Ottocento hanno assunto a simbolo di volontà di potenza: Napoleone. A costui, che ha tentato di imprimere la propria effigie sul mondo e di sostituire la propria volontà a quella altrui, si può imputare un’indubbia «fecondità della volontà», ma la «sensibilità povera» e «un’intelligenza incapace di creare» e asservita all’ambizione, che si accompagnano a questa ipertrofia della volontà, attestano uno sviluppo unilaterale che va a detrimento di altri non meno importanti aspetti della fecondità della vita77. La giustificazione razionale dell’istinto sociale La convinzione che vivere più intensamente comporti una più larga socialità e l’abbandono della violenza in tutte le sue forme, compresa quella più sottile che si è espressa nella coazione dell’imperativo categorico, sta alla base dell’annuncio di una «morale senza obbligo né sanzione». In quest’attesa ‘utopica’ del tramonto del sentimento dell’obbligo Guyau si riallaccia a Spencer. Ma il modo in cui agli occhi dei due autori si realizza questa scomparsa non potrebbe essere più diverso. L’obiettivo della scomparsa del senso dell’obbligo viene raggiunto per una via opposta a quella contemplata dal filosofo inglese: non supponendo che l’istinto morale diventi irresistibile, ma al contrario che l’uomo non sia più posseduto da alcun istinto e sottoponga la sua condotta a un esame razionale. Restio ad ammettere una originarietà degli istinti sociali, Spencer prevede tuttavia che l’evoluzione dei sentimenti morali conduca a un punto in cui l’obbligo, che implica resistenza e sforzo, cesserà di esser tale per confondersi con l’istinto, con una sorta di spontaneità morale. L’uomo diverrà insomma «istintivamente» morale78. Ma può ancora dirsi morale un tale comportamento automatico, o l’idea di moralità non comporta piuttosto sempre un elemento di analisi cosciente? Questo è per Guyau un primo motivo per dissentire dalla teoria spenceriana. Già nella Morale anglaise egli aveva rivendicato alla coscienza il compito di guarirci dall’«ossessione inconscia» della sociabilità ragionando su di essa79. In secondo luogo non è accertabile in linea di fatto che la parte della coscienza riflessiva nella condotta umana vada diminuendo. Gli argomenti ch’egli porta al riguardo, confrontandosi con la teoria spenceriana del rapporto istinto-ragione, e che ribadisce con diversi accenti in tutte le sue opere, possono essere considerati una testimonianza del carattere accentuatamente drammatico che assume in lui la prospettiva evoluzionista80.
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Guyau conviene che la civiltà tende a sviluppare l’istinto altruistico. In futuro ci sarà sempre meno bisogno di appellarsi, per essere generosi, a elementi incerti quali le ipotesi metafisiche, e la morale positiva sarà sufficiente nel corso ordinario della vita. L’incivilimento conduce però anche allo sviluppo dell’intelligenza riflessiva, di quello spirito scientifico che è il grande nemico di ogni istinto. L’intervento della riflessione è d’altra parte non solo inevitabile ma anche opportuno. Di fronte a dilemmi morali di una certa complessità non c’è alcuna speranza che l’istinto da solo possa orientarsi. A Pollock, che in una recensione de La morale anglaise aveva affermato che le teorie morali sono prive d’influenza sulla pratica, Guyau risponde che le idee, e l’etica stessa, in quanto sistematizzazione teorica dell’evoluzione morale umana, sono produttrici di nuove pratiche, retroagiscono cioè sulla stessa evoluzione modificandone il corso. Questo gli permette tra l’altro di attribuire alla sua stessa demistificazione dell’idea di dovere una reale efficacia liberatoria81. Ma che cosa accadrà quando l’uomo morale vorrà spiegare e legittimare le cause della propria azione? Non ci sarà il rischio che la riflessività mini la solidità del senso morale, dato che «ogni istinto tende a distruggersi divenendo cosciente»? Guyau enumera una serie di casi in cui le opinioni etiche giungono a turbare istinti primari, come quello dell’allattamento o della riproduzione, o azioni (quali l’esecuzione di un brano musicale) che per essere ben eseguite richiedono un certo automatismo. In generale si può concludere che «ragionare su un sistema di azioni riflesse o di abitudini equivale a turbarlo». C’è da aspettarsi dunque che l’istinto morale possa ricevere qualche alterazione da uno sviluppo eccessivo dell’intelligenza riflessiva. Un certo conforto deriva dal fatto, rimarcato da Theodule Ribot, che «l’istinto scompare solo davanti a una forma di attività mentale che lo sostituisce ottenendo risultati migliori»82. Grazie a questa sostituzione si realizza una specie di armonia, o almeno di continuità, tra istinto e ragione. Se «la ragione, questo istinto superiore – scrive Guyau nei Problèmes de l’esthétique contemporaine riprendendo l’intuizione di Ribot – può, senza il medesimo sforzo, adempiere esattamente la stessa funzione... si sostituirà necessariamente all’istinto in virtù del “principio di economia” che regge la natura; la ragione non distrugge mai un istinto che nella misura in cui implica fatica e pena e in cui essa può rimpiazzarlo vantaggiosamente»83. Ora l’istinto sociale e persino la sua manifestazione più straordinaria, l’abnegazione, che sfiora il sublime, sono tali che troveranno sempre una giustificazione e un rinforzo nel pen-
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siero speculativo. Quest’ultimo anzi, come atto per eccellenza disinteressato, fornisce di per se stesso un sostegno all’istinto sociale84. E quando dovesse porsi in contrasto con istinti vitali essenziali, anziché assecondarli, correrebbe il rischio di danneggiare se stesso. Dobbiamo allora considerare «risolta» questa antinomia grazie alla supposizione di un’identità essenziale tra istinto e ragione85? Il «meglio» che viene trovato lo è da ogni punto di vista? Il dominio dello spirito di analisi, la riduzione della vita morale a una «serie di teoremi» alla maniera di Spinoza ha un prezzo: può rendere meno certo e immediato il conseguimento di obbiettivi morali, e in ogni caso, aggiunge Guyau con una movenza di pensiero che anticipa il Freud del Disagio della civiltà, compromette la felicità. Malgrado questa previsione di infelicità e di possibile alterazione del sentimento morale, che rende questa strada ardua e poco appetibile, conclude però stoicamente, il compito del filosofo resta quello di «ragionare» i propri istinti e di sforzarsi di giustificare razionalmente l’obbligo. Se la soluzione indicata da Guyau non appare troppo lineare, e sembra oscillare tra l’idillio di un’armonica composizione delle facoltà umane e il dramma del loro possibile contrasto, ciò dipende, credo, dalla mancata chiarificazione di che cosa significhi propriamente «giustificare un istinto». Questa giustificazione è talora intesa come una semplice sostituzione, supposta vantaggiosa, della ragione all’istinto, altre volte invece come l’autorizzazione data all’istinto di seguire il suo corso (che cos’altro significa altrimenti che l’istinto viene «rafforzato» dall’analisi?). Guyau non sembra rendersi ben conto insomma che le alterazioni dell’istinto da lui temute hanno a che fare proprio con quella forse non così auspicabile «sostituzione». Ad ogni modo, se manca una piena avvertenza dei prezzi che l’Io paga nel sostituirsi all’Es, la fermezza con cui egli mantiene aperta una tensione tra il desiderio naturale e l’istanza critica del pensiero, mai riassorbibile nel primo, e contesta la concezione spenceriana di un adattamento troppo facile e indolore degli istinti alle condizioni ambientali, rende la sua proposta un terreno assai avanzato di dibattito86. Se ne rese ben conto Nietzsche, che per la teoria spenceriana dell’adattamento dimostra sempre una profonda avversione87. Ne fanno fede le numerose note di approvazione incondizionata che appose alle pagine dell’Esquisse che trattano la questione. Egli sottolinea sia l’idea di un inevitabile passaggio dal piano delle convinzioni istintive a quelle ragionate che quella di un’inevitabile alterazione e distruzione dell’istinto per effetto di questo pas-
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saggio88. Possiamo d’altra parte immaginare fin dove arrivasse questo consenso. La tensione tra la ragione e l’istinto, che Guyau considera fondamentalmente una risorsa positiva che mette al riparo dall’inerzia di un altruismo troppo poco riflessivo, diventa per Nietzsche il segno di una inevitabile «decadenza». Note G. Lipovetsky, Le crépuscule du devoir. L’éthique indolore des nouveaux temps démocratiques, Gallimard, Paris 1992. 2 Esquisse d’une morale sans obligation, ni sanction, Alcan, Paris 1885, p. 57 [151]. Nelle pagine che seguono mi riferirò a questa prima edizione, riportando però tra parentesi i numeri di pagina corrispondenti alla riedizione recente e più accessibile dell’opera (Fayard, Paris 1985), che riproduce la seconda edizione della medesima, uscita postuma nel 1890, a cura di Alfred Fouillée, «conformemente al manoscritto lasciato dall’autore in vista di questa seconda edizione e con le diverse correzioni che aveva indicato». Le differenze tra le due edizioni sono marginali; la più notevole consiste in un diverso ordinamento delle parti. 3 Ivi, p. 57 [121]. 4 Esquisse, p. 4 [10]. Un intero capitolo dell’opera è dedicato alla discussione delle diverse figure della sanzione; il taglio dato a quest’introduzione mi permette solo di accennare a questo tema di grande rilievo, sul quale spero di tornare in un apposito studio. 5 E. Durkheim, De la division du travail social, Alcan, Paris 1893, pp. 24-25, trad. it. La divisione del lavoro sociale. Introduzione del 1893, a cura di Annamaria Contini, «La società degli individui», n. 10, 2001, pp. 134 s. La traduzione è accompagnata da commenti della curatrice e dello scrivente (ivi, pp. 111-116 e 151-156). 6 Ivi, p. 28, trad. it. p. 137. 7 Ivi, pp. 30-32, trad. it. p. 139 s. Per una particolare sottolineatura del momento estetico nella formazione delle teoria etica di Guyau rinvio alla monografia di Annamaria Contini, Jean Marie Guyau. Una filosofia della vita e l’estetica, Clueb, Bologna 1995. 8 E. Fournière, La morale d’après Guyau, in AA. VV., Questions de morale, Alcan, Paris 1900, p. 276 e p. 280. Fournière (1857-1914), autore anche di un Essai sur l’individualisme (Alcan, Paris 1901), ebbe responsabilità politiche come deputato socialista. 9 La morale d’Epicure et ses rapports avec le doctrínes contemporaines, Librairie Baillière, Paris 1878, p. 19. L’opera fu premiata dall’Académie des sciences sociales et politiques. Per una buona analisi dei suoi temi si veda la recensione di Emile Boirac nella «Revue philosophique de la France et de l’étranger», luglio-dicembre 1878, pp. 513-22 e 646-49. 10 La morale d’Epicure..., cit., p. 282 ss. 11 «Ognuno ha due segreti. Il primo è che tutte le sue azioni sono, da un lato, interessate; il secondo è che tutte, dall’altro lato, tendono più o meno al disinteresse. Helvetius, dopo La Rochefoucauld, ha rivelato solo il primo di questi segreti, non si è per nulla addentrato nel secondo, che ha anch’esso la sua importanza, essendo forse il segreto dell’avvenire» (ivi, p. 266). 12 Epictète, Manuel, traduction nouvelle, précédée d’une Etude sur la philosophie d’Epictète par J.-M. Guyau, Librairie Delagrave, Paris 1875, pp. XVI-XVII. 1
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Ivi, p. XXI. Sulla formazione di Guyau e sulle due tradizioni antagoniste ch’egli cerca di integrare ha scritto pagine lucidissime Annamaria Contini nell’opera sopra citata (nota 7). 15 In una lettera a Guyau che questi riporta nell’Avant-Propos alla seconda edizione de La morale anglaise contemporaine, Librairie Baillière, Paris 1885, nota 3, p. V. L’esattezza della ricostruzione è apprezzata anche da F. Pollock in una recensione dell’opera pubblicata in Mind (t. IV, 1880, p. 280 ss.). 16 La morale anglaise, Librairie Baillière, Paris 1879, p. 18 e p. 23. 17 Ivi, pp.13-16. 18 Ivi, pp. 203-215. 19 Ivi, p. 221. 20 Ivi, p. 239 e pp. 235 s. 21 Come si legge nel cap. IV di Utilitarism (1863), trad. it. Utilitarismo, Cappelli, Bologna 1981, p. 89 [modificata]. 22 Ivi, pp. 255-57. 23 Esquisse, pp. 7-8 [75-76]. 24 Sebbene i Data of Ethics, apparsi nel 1879, non potessero essere presi in esame nella prima edizione della Morale anglaise, che è dello stesso anno, Guyau mostra una singolare capacità di ricavare i principi cardine dell’etica spenceriana dalle altre opere già pubblicate del filosofo inglese (i Primi principi, i Principi di psicologia, i Principi di sociologia). La seconda edizione contiene invece precisi riferimenti anche al principale scritto etico di Spencer. 25 Social Statics, London 1850, p. 497. 26 La morale anglaise, 1a ed. 1879, cit., pp. 172-74. 27 Ivi, pp. 180 s.: cfr. Data of Ethics, London 1879, ch. 14: «Conciliation», trad. it. Conciliazione, «La società degli individui», n. 4, 1999, pp. 115-129. 28 «Con quale diritto vietare all’individuo di esaminare con i propri occhi la strada che gli si vuol far seguire e di giudicare il valore del criterio stesso che gli si vuole imporre? Io voglio servire la felicità sociale a modo mio; finché non mi avrete provato che il vostro è migliore, che cosa avete da dire?» (La morale anglaise, cit., p. 263). 29 Ivi. 30 La Phänomenologie des sittlichen Bewusstseins (Berlin 1879) di Eduard von Hartmann, discepolo di Schopenhauer, è citata nella prefazione dell’Esquisse come un’altra delle più recenti ed influenti opere di etica. Fouillée, che l’aveva discussa come opera rappresentativa della morale pessimista in Germania, contestava a Hartmann di poter fondare la fraternità sul pessimismo, il quale a suo giudizio avrebbe spinto invece più facilmente l’individuo a coltivare egoisticamente le sue limitate possibilità di soddisfazione (Critique des systèmes de morale contemporains, Baillière, Paris 1883, pp. 264-67). 31 Note a margine e sottolineature di F. Nietzsche all’Esquisse di J.-M. Guyau (d’ora innanzi citate come Note a margine), infra, in appendice, n. 58. Il numero si riferisce all’ordine progressivo assegnato ai passi di Guyau annotati da Nietzsche nell’appendice a questa versione italiana dell’opera. Da questo numero, riportato all’inizio di ogni passo di Guyau tra parentesi quadre, è possibile risalire sia alla pagina dell’edizione originale dell’opera come a quella della 13
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presente traduzione in cui il passo compare, indicate subito di seguito. Nell’attribuire una numerazione progressiva alle annotazioni di Nietzsche mi sono ispirato al criterio seguito da Hans Erich Lampl nella sua edizione (Randbemerkungen und Unterstreichungen F. Nietzsches zu Guyaus «Esquisse d’une morale sans obligation ni sanction», in Zweistimmigkeit-Einstimmigkeit? F. Nietzsche und J.-M. Guyau, Junghans, Cuxhaven 1990). Le due numerazioni tuttavia non coincidono in quanto Lampl segue l’ordine di ricorrenza dei passi nella seconda edizione dell’Esquísse e attribuisce inoltre un unico numero a tutti i passi annotati che compaiono in una medesima pagina. La trascrizione di Lampl non si discosta da quella di Peter Gast seguita già da E. Bergmann nella precedente edizione delle Randbemerkungen, apparsa in appendice alla traduzione tedesca dell’Esquisse (Sittlichkeit ohne Pflicht, Klinkhardt, Leipzig 1909). – Per una valutazione complessiva del rapporto di Nietzsche con Guyau rinvio allo studio di Annamaria Contini, Nietsche lettore di Guyau, «Poetiche. Rivista di letteratura», nuova serie, 3/2000, pp. 433-468, e al mio Nietzsche e Guyau: consensi, dissonanze, silenzi, «La società degli individui», n. 15, 2002, pp. 37-48. 32 Note a margine, n. 59 e n. 60. 33 Ivi, n. 62. 34 A. Fouillée, Les jugements de Nietzsche sur la morale anomique de Guyau d’après des documents inédits, in Nietzsche et l’immoralisme, Alcan, Paris 1902, p. 172 s. (ma già apparso in «Revue philosophique», 1901, II, pp. 569-599). 35 Note a margine, n. 64. 36 «In fondo al meccanismo universale si può supporre una sorta di atomismo morale, la lotta tra un’infinità di egoismi. Potrebbero allora esserci nella natura altrettanti centri quanti sono gli atomi, altrettanti fini quanti sono gli individui... e quei fini potrebbero essere opposti; l’egoismo sarebbe allora la legge essenziale e universale della natura. In altri termini vi sarebbe coincidenza di ciò che noi chiamiamo la volontà immorale nell’uomo con la volontà normale di tutti gli esseri. Sarebbe forse questo lo scetticismo morale più profondo» (J.-M. Guyau, Esquisse, pp. 102-103 [44-451]). Non posso affrontare qui la questione se lo scetticismo morale rivendicato da Nietzsche comporti senz’altro un atomismo morale. 37 In merito si veda A. Fouillée, Critique..., cit., libro IV, parte I, cap. I. 38 Esquisse, pp. 110-115 [52-56]. Quest’ultima frase è approvata da Nietzsche con un «bravo!» Ma se l’idea di una sinergia delle facoltà di intonazione estetica lo trova d’accordo, egli dichiara invece «inutile» che l’intelligenza «approvi» l’imperativo o che il sentimento si colleghi a un oggetto, presumibilmente perché «il maestro dell’eterno ritorno», come congettura Fouillée, «vorrebbe creare valori in un mondo in cui niente in definitiva ha valore»(cfr. Note a margine, n. 67 e n. 66, e A. Fouillée, Les jugements de Nietzsche..., cit., p. 172). 39 La morale futura, vi si legge, «non sarà soltanto autovnomoı, ma a[nomoı» (p. 3 [9]). Sul significato della categoria di anomia in Guyau e per un confronto con la posizione di Durkheim si veda M. Orrù, L’anomia come concetto morale: Jean-Marie Guyau ed Emile Durkheim, «Rassegna italiana di sociologia», a. XXIV, n. 3, luglio-settembre 1983, pp. 429-451; Id., Anomie. History and Meanings, Allen & Unwin, Winchester 1987; A. Izzo, Anomia, Laterza, Bari 1996; J. Riba, La morale anomique de J.-M. Guayu, L’Harmattan, Paris 1999. 40 Per una rappresentazione analoga ma più articolata del neocriticismo si veda la già ri-
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cordata Critique di Fouillée, libro II: «La morale del criticismo fenomenista», che rappresenta la fonte prossima dei giudizi espressi da Guyau. 41 Esquisse, p. 120 [60]. Merita di essere segnalato l’accordo espresso da Nietzsche (con un «bene») su questa definizione di verità: «Essa non trae la sua evidenza e la sua prova da un semplice stato di coscienza, ma dall’insieme dei fenomeni che si collegano e si sostengono l’un l’altro» (Note a margine, n. 69). Più in generale nelle annotazioni a questa sezione si può osservare un consenso incondizionato alla lotta intrapresa da Guyau contro il dogmatismo morale in nome delle istanze della scienza e del dubbio come pure alla sua previsione che il dovere, corrispondente a un’epoca di transizione, sia destinato a perdere ogni giustificazione storica. 42 Esquisse, pp. 123-126 [62-65]. 43 Ivi, pp. 129-132 [68-71]. 44 «L’altruismo morale ha la sua origine in questa sorta di altruismo intellettuale, di disinteresse intellettuale che fa sì che possiamo pensare gli altri, metterci al loro posto, trasporci in loro con il pensiero. La coscienza, proiettandosi così negli altri esseri e nel tutto, si collega agli altri e al tutto con un’idea che è al tempo stesso una forza» (A. Fouillée, Critique.., cit., p. X). I luoghi, citati da Guyau, in cui Fóuillée sviluppa in positivo questo punto di vista sono soprattutto la «Prefazione» e le «Conclusioni». 45 Esquisse, p. 135 [73]. 46 Cfr. ad es. Ch. Christophe, Le principe de la vie comme mobile morale selon J.-M. Guyau, «Revue de métaphisique et de morale», IX, 1901, pp. 343-60 e 387-528; G. Aslan, La morale selon Guyau et ses rapports avec les conceptions actuelles de la morale scientifique, Paris 1906. 47 Vladimir Jankélévitch ha sostenuto che Guyau si troverebbe al punto di confluenza di due tradizioni: quella evoluzionistica, che sacrifica l’idea di vita alle scienze e al meccanicismo fisico-chimico, e il vitalismo della Naturphilosophie romantica, riproposto dal biologismo contemporaneo, che tende a collegarsi all’ideale delle scienze morali e adotta un vocabolario di tipo estetico. In questo secondo movimento, rappresentato soprattutto da Nietzsche e Bergson, «la vita non è più l’“esistenza” in fondo statica dell’organismo che lavora a conservare il suo essere fisiologico con la nutrizione e ad assicurare la perpetuazione della sua specie con la riproduzione, è la durata spirituale di un individuo animato da una coscienza più o meno chiara che tende non solo a conservarsi, ma a superare il suo proprio essere la cui evoluzione consiste in un continuo zampillio di forme imprevedibili» (Deux philosophes de la vie: Bergson, Guyau, «Revue philosophique de la France et de l’étranger», IL, 1924, n. 1 e 2, pp. 402-449). 48 Esquisse, l. I, cap. I. 49 Autore nel 1891 de La morale anarchiste, P. Kropotkin raccolse più tardi le sue ricerche etologiche in Mutual aid (1902). Sia nella Morale anarchica come nella più tarda Etica (1922) egli riconosce come immediati precursori delle proprie posizioni Spencer ma più specialmente Guyau. 50 Esquisse, pp. 15-16 [83-84]. Per una particolare sottolineatura di questa funzione della morale di Guyau si veda l’interpretazione che ne fornisce Fouillée in La morale l’art et la religion d’après Guyau, Paris 1889, p. 94 s. – Al pari di Guyau, anche un altro filosofo della vita, Georg Simmel, collega la moralità alla tendenza dell’essere ad affermare una legge della propria vita piuttosto che ad aspirazioni teleologiche: cfr. Das individuelle Gesetz, «Logos», 1913, trad. it. La legge individuale e altri saggi, a cura di F. Andolfi, Armando, Roma 2001.
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L’osservazione è di Ladislas Spasowski, a cui si deve una delle migliori monografie sulla morale di Guyau. Questi, a giudizio del critico – un giudizio, crediamo, molto ragionevole – «non comprende affatto la vita nel senso di un’entità metafisica, come una fonte ontologica di energia, come una forza superiore, elevata al di sopra del mondo reale da dove darebbe impulso ai fenomeni del mondo dell’esperienza, ma assume la vita come un fatto dato: abbiamo a che fare con degli esseri viventi» (Les bases du système de la philosophie morale de Guyau, Thèse, Berne 1908, p. 58 e p. 64 s.). Guyau si limiterebbe insomma a dare una rappresentazione dello sviluppo della vita «normale», che conduce a una sintesi sempre più perfetta di differenziazione e integrazione dell’individuo (ivi, p. 62). 52 Esquisse, 2a ed., Fayard, Paris 1985, p. 10. 53 Esquisse, p. 26 sgg. [94 ss.]. L’avvio a questa inversione del rapporto tra coscienza del dovere e coscienza del potere era stato dato ancora una volta da Fouillée nelle pagine della sua Critique dedicate a discutere l’impostazione data al problema da Kant, che induceva l’esistenza di un potere dalla coscienza del dovere. «Resta da chiarire – aveva osservato in quell’occasione – se al contrario non bisogna aver coscienza del potere per avere davvero coscienza del dovere» (p. 160). La derivazione del dovere dal potere dovette invece suscitare una reazione di perplessità in Nietzsche che appose due punti interrogativi accanto ai passi di Guyau che trattano della questione. Il motivo non è difficile da immaginare: se poteva apprezzare il primato assegnato al potere, non c’erano ragioni per lui di farne la base per una nuova fondazione del sentimento «morale» dell’obbligo. 54 Nel capitolo dedicato al «rischio nella speculazione» il procedimento di formazione della legge «ipotetica» della condotta è così descritto: «Io so una cosa; per ipotesi e seguendo un calcolo personale di probabilità, ne inferisco un’altra (per esempio che il disinteresse è il fondo del mio essere e l’egoismo la semplice superficie, o viceversa); per deduzione, ne traggo una legge razionale della mia condotta. Questa legge è una semplice conseguenza della mia ipotesi, e non mi ci sento razionalmente obbligato che fino a quando l’ipotesi mi sembra la più probabile, la più vera per me» (Esquisse, pp. 229 s. [146]). In merito si veda L. Mugnier-Pollet, Pour une éthique probabilitaire d’après J.-M. Guyau, «Revue universitaire de science morale» (Genève), 1966, p. 39 ss. 55 Per le difficoltà del preteso oggettivismo della legge individuale simmeliana rimando alla mia introduzione all’edizione italiana del già citato La legge individuale. 56 E. Durkheim, Guyau. L’irréligion de l’avenir, étude de sociologie, «Revue philosophique», XXIII, 1887, pp. 299-311. 57 E. Durkheim, De la division du travail social, Alcan, Paris 1893, p. 32, trad. it. cit., p. 140 nota. Sul tema dell’anomia il sociologo ritorna diffusamente nel primo capitolo del terzo libro della Division («La divisione del lavoro anomico») e nello studio sul suicidio. Per un’ampia informazione e discussione dell’intera questione rinvio allo studio già citato di Marco Orrù, che già un quarto di secolo fa auspicava una revitalizzazione del pensiero di Guyau per un arricchimento della teoria sociale in una direzione non durkheimiana. 58 Esquisse, p. 231 [147]. L’elogio della diversità e dell’eterodossia non esclude però in Guyau l’aspettativa che le prospettive individuali possano nell’essenziale avvicinarsi. 59 La società resta in questa prospettiva una istanza esterna all’individuo. Anche quando
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Durkheim prese le difese dell’individualismo in un celebre pamphlet sugli intellettuali, egli non riuscì ad andare oltre l’immagine illuministica di individui essenzialmente uguali (L’individualisme et les intellectuels, «Revue Blue», sez. IV, X, 1898, trad. it. L’individualismo e gli intellettuali, in Id., La scienza sociale e l’azione, Il Saggiatore, Milano 1972). 60 Esquisse, p. 231 [48]. Le parole «pour l’accord futur et final» sono state aggiunte nella seconda edizione. 61 Soprattutto a quella già ricordata di Kropotkin. Nelle storie dell’individualismo dell’inizio del Novecento la figura di Guyau è costantemente associata a quella dell’anarchico russo e a volte a quella di Tolstoi, sotto la rubrica dell’«individualismo anarchico» (G. Calò, L’individualismo etico nel secolo XIX, Stab. tip. della R. Università, Napoli 1906) o «istintivistico» (G. Vidari, L’individualismo delle dottrine morali del secolo XIX, Hoepli, Milano 1909). Ma il tema della costruzione dell’armonia attraverso la varietà delle credenze è presente anche nella tradizione della filosofia della vita, da Schleiermacher a Simmel. 62 Sul naturalismo monista si veda il cap. V della terza parte de L’irréligion de l’avenir, Alcan, Paris 1887, pp. 436-479. 63 Devo limitarmi qui a segnalare, senza poterla illustrare, questa teoria molto particolare dell’immortalità che, senza fare riferimento ad alcuna trascendenza, non coincide tuttavia con la dottrina idealistica della semplice sopravvivenza nell’opera. In un saggio comparso in un numero monografico di «Sociétés» dedicato a Guyau, un critico francese ha recentemente visto in essa, non a torto, un tratto capace di caratterizzare l’intera posizione di Guyau (Jean Claude Leroy, Guyau, philosophe de l’immortalité, «Sociétés», n. 58, 1997/4, pp. 5-12). 64 Esquisse, p. 24 [91] 65 Cfr. M. Mauss, Essai sur le don, «Année sociologique», I, 1923-1924, trad. it. Saggio sul dono, in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1991; G. Bataille, La notion de dépense, in La part maudite, Editions de Minuit, Paris 1967, trad. it. Il dispendio, a cura di Elena Pulcini, Armando, Roma 1997. 66 Esquisse, p. 25 [92]. 67 E. Foumière, La morale d’après Guyau, cit., p. 270. 68 Esquisse, p. 207 [127]. 69 Per questa interpretazione cfr. H. Høffding, Philosophes contemporains, Alcan, Paris 1907, p. 128, e L. Spasowski, op. cit., p. 40 s. Quest’ultimo così riassume il punto di vista di Guyau sulla questione: «La vita, che appare sotto forme diverse di attività nel corso dello sviluppo, non tende affatto dall’inizio alla soddisfazione delle tendenze sedicenti egoiste o altruiste, poiché esclude le une e le altre, prese nel senso assoluto della parola, tende allo sviluppo di se stessa» (p. 41). 70 L’istinto basilare della vita tende alla «espansione di potenza» e può richiedere il sacrificio dell’autoconservazione (La gaia scienza, 349, vol. V, 2, p. 252). L’essere vivente «fa di tutto per non conservarsi, per divenire di più» (Frammenti postumi 1888: 14 [121], vol. VIII, 3, p. 91). Il genio è un «dissipatore». Al più la conservazione di sé è «una conseguenza dell’espansione di sé» (FP 1885-1886: 2 [68], vol. VIII, 1, p. 80). Le citazioni sono tratte dall’edizione Adelphi delle Opere di Nietzsche , a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1967 ss. 71 Note a margine, n. 28.
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A. Fouillée, La morale l’art la religion d àprès Guyau, cit., p. 103. Ivi. 74 La morale anglaise contemporaine, cit., p. 376. 75 L’irréligion de l’avenir, cit., p. 351 s. 76 Education et hérédité, Paris 1889, p. 53. Il passo è stato riportato in nota da Fouillée nella seconda edizione dell’Esquisse da lui curata (Fayard, Paris, pp. 92-93). 77 Esquisse, p. 23 [90 sg]. In questi passi Guyau, secondo Fouillée, avrebbe respinto «senza saperlo» il sistema morale di Nietzsche: non solo l’idea generale che la nostra potenza si soddisfi piuttosto nella lotta che nell’accordo ma persino temi particolari come quello del gruppo di «signori» alleati ed amici. Più calzante è la diagnosi fisiologica di Guyau che nell’esercizio della potenza vede piuttosto il rischio della disgregazione che non un indizio di salute. In Nietzsche si assisterebbe costantemente a una deformazione delle verità più semplici, mentre in Guyau «l’arditezza non esclude mai la rettitudine del buon senso». Anche il giudizio su Napoleone è ben più vero di quello di Nietzsche che si è fatto «romanticamente» affascinare dal grande conquistatore (Les jugements de Nietzsche .., cit., pp. 174-176). 78 Cfr. Data of Ethics, loc. cit. 79 La morale anglaise contemporaine, cit., pp. 323-324, trad. it. Istinto e riflessione in Spencer, «La società degli individui», n. 4, 1999, pp. 131-140. 80 Oltre alle pagine ricordate della Morale anglaise vanno presi in esame i seguenti testi: Les problèmes de l’esthétique contemporaine, Paris 1884, p. 137; Esquisse, pp. 52-58 [117-124]; L’irréligion de l’avenir, cit., pp. 374-375, Education et hérédité, cit., p. 65. 81 Esquisse, p. 57 [121]. 82 Th. Ribot, L’hérédité. Etude psychologique sur ses phénomènes, ses lois, ses causes, ses conséquences, Baillière, Paris 1882², p. 342, cit. in J.-M. Guyau, Esquisse, p. 53 [118] nota. 83 Problèmes de l’esthétique contemporaine, Paris 1984, p. 39. La stessa osservazione riappare nell’Irréligion de l’avenir. «L’intelligenza non paralizza un istinto che quando... può rimpiazzarlo vantaggiosamente» (p. 374). 84 «Ora il pensiero speculativo troverà sempre una giustificazione dell’istinto sociale nelle leggi dell’universo; anche dal punto di vista puramente scientifico e positivo, l’abbiamo mostrato altrove, la manifestazione più straordinaria dell’istinto sociale, l’abnegazione, rientra tuttavia per un lato nelle leggi generali della vita e perde il carattere anormale che qualche volta si è portati ad attribuirle: il pericolo affrontato per sé o per altri non è una pura negazione dell’io e della vita personale, è questa vita stessa portata al sublime dal sentimento del pericolo, del rischio, sentimento che la selezione ha sviluppato e reso assai potente nelle specie superiori: esporsi al pericolo rappresenta qualcosa di normale in un individuo ben costituito moralmente. Il sublime, in morale come in estetica, ha le stesse radici del bello. – L’istinto della speculazione non giungerà dunque ad alterare l’istinto sociale; potrà piuttosto fortificare nell’uomo il disinteresse, visto che la speculazione è l’atto più disinteressato della vita mentale» (L’irréligion de l’avenir, cit., p. 375). 85 È la tesi ad esempio di L. Spasowski, op. cit., p. 38. 86 Sono fuori strada quegli interpreti che, come Eugène Foumière, tendono ad appiattire troppo la figura di Guyau su quella di Spencer, e pensano di poter attribuire anche al primo l’i72
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dea che «la morale sparirà... passando finalmente allo stato di atto riflesso, grazie a un glorioso ritorno all’istinto» (La morale d’après Guyau, cit., p. 284). 87 L’adattamento comporta un assoggettamento strumentale dell’individuo a una totalità superiore (FP 1881: 10 [D6], vol. V, 1, p. 612); è un’attività di second’ordine, o semplice reattività, che disconosce l’essenza della vita, che è volontà di potenza (Genealogia della morale, 2, 12, vol. VI, 2, p. 278) – una volontà di potenza che dall’interno assoggetta a sé e si assimila sempre più «esterno» (FP 1886-1887: 7 [9], vol. VIII, 1, p. 280). Il sogno della scomparsa del contrasto tra egoismo e altruismo fa dimenticare che «non possiamo fare a meno del male né delle passioni» (FP 1881: 11 [73], vol. V, 2, nuova edizione riveduta, p. 356, e 1887: 10 [57], vol. VIII, 2, p. 137). 88 Note a margine, nn. 41-46.
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Nota bio-bibliografica
Jean-Marie Guyau nacque a Laval, in Normandia, il 28 ottobre 1854. La sua educazione fu curata dalla madre Augustine Tullerie, autrice di opere pedagogiche, e dal filosofo Alfred Fouillée, suo patrigno. A Fouillée, che gli sopravvisse, dobbiamo la maggior parte delle informazioni sulla sua vita, contenute in note introduttive all’opera La morale, l’art et la religion d’après Guyau (1889) e alla traduzione tedesca dell’Esquisse (Sittlichkeit ohne Pflicht, Leipzig 1909). Su queste e altre poche fonti Johann Hermann Hablitzel ha basato un’ampia e accurata ricostruzione della vita e dell’opera di Guyau, a cui rimandiamo il lettore desideroso di maggiori dettagli (Lebensphilosophie und Erziehung bei Jean-Marie Guyau, Bonn 1988, cap. I). Platone, Epitteto e Kant furono i primi autori amati dal precocissimo Guyau. A 17 anni, licenziato in lettere, si dedicò alla traduzione del Manuale di Epitteto, pubblicata nel 1875. Nel 1874 meritò il premio dell’Accademia di scienze morali e politiche per la memoria La morale d’Epicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines. Fu presto costretto ad abbandonare l’insegnamento, che teneva presso il liceo Condorcet di Parigi, a causa delle precarie condizioni di salute, dovute a una malattia tubercolare da cui mai si riebbe, e a trascorrere gli inverni in varie località del sud della Francia, e da ultimo in una villa di Mentone. Nel 1875 curò un’edizione di scritti di Pascal e la traduzione del De finibus bonorum et malorum di Cicerone. Nello stesso anno diede alle stampe il primo di una serie di scritti di pedagogia applicata (cioè di didattica della lettura), che nel corso del decennio successivo si trovarono in linea con la riforma dell’insegnamento primario promossa dal ministro dell’educazione Jules Ferry. Al 1876 risalgono le prime poesie, che saranno raccolte in Vers d’un phílosophe (1881), come pure una raccolta di estratti dei Padri della Chiesa. Nel 1878 compare La morale d’Epicure, prima parte dell’opera premiata dall’Accademia, nella quale Guyau introduce il concetto di vita destinato a diventare centrale nella sua filosofia. Nel 1879 viene pubblicata La morale anglaise contemporaine. Morale de l’utilité et de l’évolution. Si tratta della rielaborazione della seconda parte dell’opera premiata dall’Accademia. In essa Guyau si confronta con i filosofi inglesi dei secoli XVIII e XIX, con Bentham, Owen, Macintosh, James Mill, Stuart Mill,
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Grote, Bain, Bayley, Lewes, Sidgwick, Darwin e soprattutto con Spencer. La ricostruzione della morale di Spencer, compiuta a partire dalle opere non espressamente etiche del filosofo inglese (i cui Data of Ethics furono pubblicati solo in quel medesimo 1879) meritò l’apprezzamento dello stesso Spencer, il quale dichiarò in una lettera che Guyau aveva presentato la sua etica meglio di quanto egli stesso avrebbe saputo fare. Nel 1879 appare anche un articolo sulla «Revue philosophique», De l’origine des religions, che sarà rifuso nell’introduzione dell’Irréligion de l’avenir: esso dimostra come Guyau si sia occupato assai presto di studi filosofico-religiosi. Nel 1881 Guyau sposa Barbe Margherita André, da cui nasce, due anni più tardi, il figlio Augustin. Tra il 1881 e il 1883 Guyau affronta temi estetici in una serie di articoli che, modificati e ampliati, confluiscono nel volume Les problèmes de l’esthétique contemporaine (1884). Nella prefazione l’autore si volge contro la concezione dell’arte come puro gioco e fornisce questo motivo guida della propria estetica: «il principio dell’arte è la vita stessa. L’arte è quindi non meno seria della vita. Lo scopo del nostro libro è unicamente quello di fondare questo carattere serio dell’arte, cioè della poesia». Nel 1883 Guyau pubblica, nella «Revue philosophique», l’articolo Critique de l’idée de sanction, che fornirà la base del terzo libro dell’Esquisse. Nel 1885 compare l’Esquisse d’une morale sans obligation, ni sanction, comunemente considerato il ‘capolavoro’ di Guyau. Nello stesso anno esce un articolo sull’evoluzione dell’idea di tempo nella coscienza, che, ampliato, sarebbe stato pubblicato postumo in forma di libro da Fouillée con il titolo La genèse de l’idée de temps. Nel 1887 viene pubblicata L’irréligion de l’avenir. Etude sociologique, a cui Renouvier e Durkheim dedicano ampie recensioni e che Høffding non esita a considerare come l’opera più significativa di Guyau. Di essa un critico, Ernst Bergmann, ha scritto che suona dal principio alla fine come una preghiera, sebbene sia rivolta contro le religioni esistenti. L’irreligione non comporta un atteggiamento antireligioso, ma è piuttosto, secondo la dichiarazione stessa dell’autore, un grado più alto di religione e insieme di civiltà. Le pagine scelte dell’opera, che Banfi editò nella collana «Libretti di vita», reca non a caso il titolo La fede dell’avvenire (Torino, Paravia, 1924). Fouillée riferisce che nell’inverno 1887 Guyau (in sua compagnia) e Nietzsche soggiornarono a Nizza e a Mentone, senza peraltro saper nulla l’uno dell’altro. Né Guyau né Fouillée conoscevano il nome e le opere di Nietzsche, mentre Nietzsche conosceva l’Esquisse e l’Irréligion e aveva comprato queste opere nella libreria Visconti di Nizza. Le note apposte da Nietzsche a margine del-
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l’Irréligion sono andate perdute, mentre conservano un notevole valore documentario le note all’Esquisse, che vengono edite per la prima volta in italiano in appendice alla presente traduzione. Alla fine del 1887 la malattia di Guyau si aggravò, la morte sopravvenne a Mentone il 31 marzo 1888. Fouillée pubblicò postume ancora tre opere di Guyau, che questi aveva del resto già approntate: L’art au point de vue sociologique (1889), Education et hérédité. Etude sociologique (1889, raccoglie testi scritti tra il 1880 e il 1888), che incontrò molta fortuna tra i sociologi americani di inizio secolo, e La genèse de l’idée de temps (1890, trad. it. La genesi dell’idea di tempo, a cura di Donatella Pacelli, Roma, Bulzoni, 1994). A lui si deve anche la seconda edizione dell’Esquisse (1890; ristampata nel «Corpus des oeuvres de philosophie en langue française», Paris, Fayard, 1985), che si differenzia dalla prima soltanto per una diversa disposizione delle parti e per l’aggiunta, in nota, di alcuni passi di Education et hérédité. La prima traduzione italiana dell’Esquisse, basata su questa seconda edizione, è dovuta ad Angiolo Biancotti, con prefazione di Annibale Pastore (Torino, Paravia, 1923); una traduzione antologica è comparsa presso l’editore Le Monnier (Firenze, 1971), a cura di Maurizio Mamiani. Ringraziamenti I suggerimenti e le indicazioni biobliografiche di Annamaria Contini, Johann Hermann Hablitzel e Jordi Riba mi sono stati preziosi. Le ricerche sull’anomia di Marco Orrù, prematuramente scomparso, mi hanno offerto molte sollecitazioni. Rita Trascinelli ha dato impulso al progetto nella sua fase nascente; Sonia Spinoni mi ha aiutato nella messa a punto dell’appendice, mentre sono grato a Nausicaa Milani, che ha effettuato i controlli per questa riedizione dell’opera. Avvertenza Le note a pié di pagina tra parentesi quadre sono state aggiunte dal traduttore.
F. A.
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Prefazione dell’autore
Un pensatore perspicace ha detto che scopo dell’educazione è quello di dare all’uomo il «pregiudizio del bene1». Questa espressione evidenzia quello che è il fondamento della morale ordinaria. Per il filosofo invece non deve esserci nel comportamento alcun elemento di cui il pensiero non cerchi di rendersi conto, alcun obbligo che non si spieghi, alcun dovere che non vada motivato. Noi ci proponiamo dunque di ricercare quel che sarebbe e fin dove potrebbe giungere una morale in cui non avesse parte alcun pregiudizio, in cui tutto fosse ragionato e apprezzato nel suo giusto valore, sia in fatto di certezze, sia in fatto di opinioni e di ipotesi semplicemente probabili. Se la maggior parte dei filosofi, perfino quelli appartenenti alla scuola utilitaristica, evoluzionistica e positivistica, non sono riusciti pienamente nel loro compito, ciò dipende dal fatto che hanno voluto far passare la loro morale razionale come quasi adeguata alla morale ordinaria, come avente la stessa estensione, come quasi altrettanto «imperativa» nei suoi precetti. Questo non è possibile. Quando la scienza ha rovesciato i dogmi delle diverse religioni, essa non ha preteso di sostituirli tutti, né di fornire immediatamente un oggetto preciso, un alimento definito al bisogno religioso; la sua situazione rispetto alla morale è la stessa che rispetto alla religione. Nulla sta ad indicare che una morale puramente scientifica, cioè fondata unicamente su ciò che si sa, debba coincidere con la morale ordinaria, composta in gran parte di cose che si sentono o si presumono. Per far coincidere queste due morali i Bentham e i loro successori hanno troppo spesso violentato i fatti; hanno avuto torto. Del resto si può benissimo concepire che la sfera della dimostrazione intellettuale non eguagli in estensione la sfera dell’azione morale e che vi siano dei casi in cui una regola razionale certa possa venire a mancare. Finora nei casi di questo genere il costume, l’istinto, il sentimento hanno guidato l’uomo; li si potrà ancora seguire in futuro purché si sappia bene ciò che si fa e purché, seguendoli, non si creda di ubbidire ad un qualche precetto mistico, ma agli impulsi più generosi della natura umana insieme alle più giuste necessità della vita sociale. Non si mette in crisi la verità di una scienza, per esempio quella della mo-
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rale, mostrando che il suo oggetto come scienza è limitato. Invece, delimitare una scienza spesso vuol dire conferirle un maggior carattere di certezza: la chimica non è che un’alchimia limitata ai fatti osservabili. Allo stesso modo noi crediamo che la morale puramente scientifica non deve pretendere di abbracciare ogni cosa e che, lungi dal voler esagerare l’estensione del suo ambito, essa stessa deve lavorare a delimitarlo. Deve ammettere con franchezza: in questo caso non vi posso prescrivere nulla imperativamente in nome del dovere; allora non più obblighi né sanzioni; consultate i vostri istinti più profondi, le vostre più vive simpatie, le vostre ripugnanze più normali e umane; fate poi delle ipotesi metafisiche sulla sostanza delle cose, sul destino degli esseri e sul vostro; da questo momento preciso siete abbandonati al vostro «self-government». È questa la libertà in morale, che consiste non nell’assenza di ogni regola, ma nell’astensione dalla regola scientifica ogni volta che essa non può giustificarsi con sufficiente rigore. Allora comincia in morale la parte della speculazione filosofica che la scienza positiva non può né sopprimere, né interamente sostituire. Quando si sale una montagna si trova un punto in cui si è avvolti dalle nubi che nascondono la cima, si è perduti nell’oscurità. Così accade sulle altitudini del pensiero: una parte della morale, quella che viene a confondersi con la metafisica, può essere per sempre nascosta tra le nubi, ma bisogna anche che abbia una base solida e che si conosca con precisione il punto in cui l’uomo deve rassegnarsi ad entrare nella nube. Tra i lavori recenti sulla morale i tre che a diverso titolo ci sono parsi più importanti sono: in Inghilterra i Data of Ethics di Spencer; in Germania la Phänomenologie des sittlichen Bewußtseins di Hartmann; in Francia La critique des systèmes de morale contemporains di Alfred Fouillée2. Due punti ci sembrano emergere alla lettura di queste opere di ispirazione così diversa: da una parte la morale naturalistica e positiva non ci fornisce dei principi invariabili, sia in fatto di obbligo che in fatto di sanzione; dall’altra, se la morale idealistica può fornirne, è a titolo puramente ipotetico e non assertivo. In altri termini, ciò che è dell’ordine dei fatti non è universale e ciò che è universale è un’ipotesi speculativa. Ne risulta che l’imperativo, in quanto assoluto e categorico, scompare in entrambi i casi. Noi accettiamo per parte nostra questa scomparsa e, invece di rimpiangere la variabilità morale che ne risulta entro certi limiti, la consideriamo come la caratteristica della morale futura; questa, su diversi punti, non sarà soltanto aujtovnomo", ma a[nomo". Contrariamente alle speculazioni trascendentali di Hartmann sulla follia del voler vivere e sul nirvana imposto
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Prefazione
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dalla ragione come dovere logico, noi ammettiamo, con Spencer, che la condotta ha per movente la vita più intensa, più ampia, più varia, pur concependo in altro modo rispetto a Spencer la conciliazione della vita individuale con la vita sociale. D’altra parte, con l’autore della Critique des systèmes de morale contemporains, riconosciamo che la scuola inglese e la scuola positivista, che ammettono un inconoscibile, hanno avuto torto di proscrivere ogni ipotesi individuale su questo argomento; ma non pensiamo, con questo stesso autore, che l’inconoscibile possa fornire addirittura un «principio praticamente limitativo e restrittivo della condotta», principio di pura giustizia che sarebbe come un intermediario tra l’imperativo categorico di Kant e la libera ipotesi metafisica. I soli «equivalenti» o «sostituti» ammissibili del dovere, per utilizzare il linguaggio dell’autore di La liberté et le déterminisme3, ci sembrano essere: 1) la coscienza del nostro potere interiore e superiore, alla quale vedremo praticamente ridursi il dovere; 2) l’influenza esercitata dalle idee sulle azioni; 3) la fusione crescente delle sensibilità e il carattere sempre più sociale dei nostri piaceri e dei nostri dolori; 4) l’amore del rischio nell’azione di cui mostreremo l’importanza fino ad oggi misconosciuta; 5) l’amore dell’ipotesi metafisica che è una sorta di rischio nel pensiero. Questi diversi moventi riuniti sono per noi tutto ciò che una morale ridotta ai soli fatti e alle ipotesi che li completano potrebbe mettere al posto dell’antico obbligo categorico. Quanto alla sanzione morale propriamente detta, distinta dalle sanzioni sociali, si vedrà che noi la sopprimiamo puramente e semplicemente perché, come «espiazione», essa è in fondo immorale. Il nostro libro può dunque essere considerato come un saggio per determinare la portata, l’estensione e anche i limiti di una morale esclusivamente scientifica. Il suo valore, di conseguenza, può sussistere indipendentemente dalle opinioni che ognuno si fa sul fondo assoluto e metafisico della moralità.
Note A. R. Vinet. [H. Spencer, Data of Ethics, London, Williams and Norgate, 1879; E. Hartmann, Phänomenologie des sittlichen Bewußtseins, C. Duncker, Berlin 1879; A. Fouillée, La critique des systèmes de morale contemporains, G. Baillière, Paris 1883 (Nota del Traduttore)]. 3 [A. Fouillée, La liberté et le déterminisme, Ladrange, Paris 1872. (N.d.T.)]. 1 2
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Introduzione CRITICA DEI DIVERSI TENTATIVI DI GIUSTIFICARE METAFISICAMENTE L’OBBLIGO
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Morale del dogmatismo metafisico L’ipotesi ottimista: provvidenza e immortalità L’ipotesi pessimista L’ipotesi dell’indifferenza della natura
La morale della metafisica realistica ammette un bene in sé, un bene naturale distinto dal piacere e dalla felicità, una gerarchia possibile di beni nella natura e, per ciò stesso, una gerarchia di esseri differenti. Essa ritorna all’antica massima: «conformarsi alla natura». – Non è illusorio cercare così nella natura un modello del bene che possiamo realizzare e che ci obbliga? Si possono conoscere il fondo delle cose e il vero senso della natura per agire nella stessa direzione? La natura, scientificamente considerata, ha essa stessa un senso? – Tre ipotesi sono davanti a noi: l’ottimismo, il pessimismo, l’indifferenza della natura; esaminiamole via via, per vedere se possono giustificare metafisicamente l’obbligo assoluto, imperativo e categorico, della morale ordinaria. L’ipotesi ottimista: provvidenza e immortalità I. Filosofi come Platone, Aristotele, Zenone, Spinoza, Leibniz hanno sostenuto l’ottimismo e tentato di fondare una morale oggettiva in conformità con questa concezione del mondo. Si conoscono tutte le obiezioni a cui questo sistema ha già dato luogo. In realtà, l’ottimismo assoluto è più immorale che morale perché comporta la negazione del progresso. Una volta che è penetrato nello spirito produce, come sentimento corrispondente, la soddisfazione di ogni realtà: dal punto di vista morale, giustificazione di ogni cosa; dal punto di vista politico, rispetto di ogni potere, rassegnazione passiva, soffocamento volontario di ogni sentimento del diritto e, di conseguenza, del dovere. Se tutto ciò che esiste è bene, non bisogna cambiare nulla, non bisogna voler ritoccare l’opera di Dio, questo grande artista. Analogamente tutto ciò che accade è ugualmente bene; ogni avvenimento si giustifica poiché fa parte di un’opera divina compiuta nei suoi dettagli. Si giunge così non solo alla giustificazione, ma alla divinizzazione di ogni ingiustizia. Noi oggi ci stupiamo dei templi che gli antichi innalzavano a Nerone e a Domiziano; non solo essi rifiutavano di comprendere il crimine, ma lo adoravano: e noi ci comportiamo forse diversamente quando
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chiudiamo gli occhi sulla realtà del male terreno per poter poi dichiarare questo mondo divino e benedire il suo autore? Il culto dei Cesari era presso i Romani il segno di uno stato morale inferiore; reagendo su questo stesso stato, esso li avvilì e li degradò ancora di più. Si può dire altrettanto del culto di un dio creatore che dovrebbe rispondere di tutto e che, in realtà, è la suprema irresponsabilità. L’ottimismo beato è uno stato analogo a quello dello schiavo che si ritiene felice, del malato che non sente il suo male: almeno quest’ultimo non attribuisce un carattere divino alla sua malattia. La stessa carità, per sussistere, ha bisogno di credere alla realtà e all’indegnità delle miserie cui porta sollievo; se la povertà, il dolore, l’ignoranza (beati i poveri di spirito!), se tutti i mali di questo mondo non sono veri mali e, in fondo, ingiustizie e assurdità della natura, come potrà la carità mantenere il carattere razionale che è la condizione di esistenza di ogni virtù? E quando la carità, come una fiamma senza alimento, si spegnerà, chi darà valore al vostro mondo che voi immaginate come un’opera di carità assoluta, di bontà assoluta e onnipotente? Spesso perfino il pessimismo può essere superiore, come valore morale, all’ottimismo ad oltranza: esso non ostacola sempre gli sforzi volti al progresso; se è faticoso vedere tutto nero, talvolta ciò è più utile che vedere tutto rosa o azzurro. Il pessimismo può essere il sintomo di una sovraeccitazione morbosa del senso morale, logorato all’eccesso dai mali di questo mondo; l’ottimismo, da parte sua, indica troppo spesso un’apatia, un intorpidimento di ogni senso morale. Chiunque non riflette e si abbandona all’abitudine è tendenzialmente ottimista: il popolo ignorante, preso in massa, soprattutto nelle campagne, è quasi soddisfatto del tempo in cui vive, è abitudinario; il male più grande ai suoi occhi è il mutamento. Più una popolazione è inferiore, più è ciecamente conservatrice, ciò che costituisce la forma politica dell’ottimismo. Perciò nulla di più pericoloso che voler dare all’ottimismo una consacrazione religiosa e morale, e farne così il principio direttivo del pensiero e della condotta: lo spirito umano può allora essere paralizzato in tutti i suoi ingranaggi, l’uomo può essere de-moralizzato dal suo dio. Mi si permetta di raccontare un sogno. Una notte – forse un angelo o un serafino mi aveva preso sulle sue ali per portarmi nel paradiso del Vangelo accanto al «creatore» – mi sentivo volare nei cieli al di sopra della terra. Man mano che mi innalzavo sentivo salire dalla terra verso di me un lungo e triste rumore simile al mormorio monotono dei torrenti che si sente dall’alto delle montagne nel silenzio delle vette. Ma quella volta distinsi delle voci umane:
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Morale del dogmatismo metafisico
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erano singhiozzi mescolati a ringraziamenti, gemiti inframmezzati a benedizioni, erano suppliche desolate, sospiri di petti morenti che si effondevano misti all’incenso; e tutto ciò si fondeva in un’unica immensa voce, in una così straziante sinfonia, che il mio cuore si gonfiò di pietà; il cielo me ne parve oscurato e non vidi più il sole né la gioia dell’universo. Mi voltai verso colui che mi accompagnava. «Non sentite?» gli dissi. L’angelo mi guardò con un viso sereno e pacifico: «Sono, disse, le preghiere degli uomini che dalla terra salgono verso Dio». Mentre parlava la sua ala bianca brillava al sole; ma essa mi parve tutta nera e orribile. «Come mi scioglierei in lacrime se fossi quel Dio!» gridai, e mi misi a piangere proprio come un bambino. Lasciai andare la mano dell’angelo e mi lasciai ricadere sulla terra pensando che restava in me troppa umanità perché potessi vivere in cielo. Se l’ottimismo, invece di considerare il mondo allo stato attuale come buono, tentasse di ristabilire la nozione di un progresso continuo e regolato da una legge divina, riuscirebbe meglio ad assolvere il mondo e a fondare la moralità umana? Non lo crediamo. Se supponiamo con gli ottimisti un fine lontano che sia lo stesso per tutti gli esseri, i mezzi per raggiungerlo possono essere così divergenti che il moralista sarà impotente a dedurre dalla conoscenza del fine una regola pratica di condotta: tutte le strade portano a Roma; forse anche un gran numero di strade porta al fine universale, e l’ingiustizia può servire come la giustizia. Talvolta la lotta è per l’umanità stessa un mezzo per avanzare sicuro quanto l’unione e non si vede perché, da un punto di vista universalmente ottimistico, la buona volontà umana debba essere più conforme della cattiva volontà ai fini nascosti della natura o di Dio. Addirittura ogni volontà cosciente è spesso inutile e il bene sembra poter, almeno in parte, realizzarsi senza l’intervento dell’uomo. Una roccia sulla quale va a spaccarsi la testa di un bambino può servire più di quel bambino all’avvenire del globo perché essa concentra in sé da migliaia di anni una particella del calore solare e lavora, per la sua parte, a rallentare il raffreddamento della terra. La morale del dogmatismo ottimista ci ordina di contribuire al bene del tutto; ma vi sono per questo troppe vie possibili. Tutto può essere utile. Il professore di ginnastica che nella stessa camera riuniva il volto di Gesù Cristo e il proprio ritratto credeva di fare per l’umanità tanto quanto Gesù. Non aveva probabilmente torto rispetto all’evoluzione universale e provvidenziale. I popoli più grandi sono stati quelli che erano più forti e avevano l’appetito più robusto; i romani stupirono il
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mondo per la loro ingordigia; gli inglesi, i tedeschi, i russi (che avranno più tardi un ruolo così importante) sono grandi mangiatori; lo stesso egoista può lavorare al perfezionamento universale: può produrre una generazione sana, vigorosa, ardita. L’egoismo ha fatto la grandezza della razza inglese. Per molti aspetti Erasmus Darwin era uno schietto egoista: il genio di suo nipote lo ha giustificato. Se si considerano i risultati in funzione dell’insieme tutto diventa dunque relativo. Che cosa hanno tratto i negri di più evidente dal cristianesimo, secondo i viaggiatori? La legge religiosa che si voleva loro ispirare? No, la pulizia della domenica. E i popoli africani o asiatici che cos’hanno tratto dall’islamismo? Il fatto di bere acqua. Nel grande organismo dell’universo il microbo della febbre tifoide o del colera ha una funzione da svolgere che non può e non deve cessare di compiere; l’uomo ha, anch’egli, delle funzioni particolari, tanto l’uomo buono quanto il cattivo. Da una certa distanza il bene nasce dal male. È così che le grandi disfatte, le grandi carneficine sono spesso utili ai popoli. Si dice che Spinoza, malato, ridesse nel vedere il suo ragno favorito divorare le mosche che gli gettava; forse allora, riflettendo su se stesso, pensava a quel male interno che lo divorava; forse sorrideva di sentirsi lui pure avvolto in una tela di ragno invisibile che paralizzava la sua volontà mentre era silenziosamente divorato da una massa sterminata di mostri infinitamente piccoli. Ancora una volta, nell’immensità del mondo, le strade e i percorsi seguiti da ogni essere, invece di essere paralleli o concentrici, s’intersecano e si tagliano in vari modi: colui che viene a trovarsi nel punto d’intersezione di queste vie è inevitabilmente schiacciato. Vi è così al fondo della natura, che si pretende «buona al massimo grado possibile», un’immoralità fondamentale che risulta dall’opposizione delle funzioni fra gli esseri, dalla categoria dello spazio e della materia. Nell’ottimismo assoluto il bene universale è un fine che impiega e giustifica tutti i mezzi. Nulla ci dice, del resto, che la linea che conduce a questo bene universale passi direttamente attraverso l’umanità ed esiga da tutti gli individui quella dedizione all’umanità che i moralisti considerano normalmente come il fondo pratico dell’obbligo morale. Se una tigre credesse, salvando la vita di uno dei suoi simili, di lavorare per l’avvento del bene universale, forse si sbaglierebbe; è meglio per tutti che le tigri non si risparmino fra di loro. Così tutto si appiana e si confonde per la metafisica delle altezze: bene e male, individui e specie, specie e ambienti; non c’è più nulla di vile, come diceva l’ottimista Spinoza, «nella casa di Giove».
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Morale del dogmatismo metafisico
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Abbiamo tentato un’ultima ipotesi per salvare in qualche misura l’ottimismo, per scusare la causa creatrice o la sostanza eterna senza compromettere il senso morale e l’istinto del progresso. Ci siamo sforzati di mostrare nel male fisico (la sofferenza) e nel male intellettuale (l’errore, il dubbio, l’ignoranza) una conditio sine qua non del bene morale; con ciò si spera di giustificarli. Il fine dell’universo, si dice, non è estraneo alla volontà umana: il fine dell’universo è la moralità; ora la moralità suppone scelta e lotta, cioè suppone la realtà del male fisico o intellettuale e la possibilità del male morale. Ne consegue che tutto il male sparso con tanta liberalità in questo mondo non ha che un obiettivo: porre un’alternativa davanti all’uomo. Secondo questa dottrina, in cui il platonismo viene a confondersi con il kantismo, il mondo stesso non sarebbe che una sorta di formula vivente del problema morale. Vega della Lira o Arturo, tutti i soli, le stelle e i loro satelliti girerebbero per sempre nello spazio perché quaggiù un giorno, una volta (forse mai fino ad oggi, secondo Kant) si produca un piccolo moto di disinteresse, perché un bicchiere d’acqua sia dato con un’intenzione veramente buona a qualcuno che ha sete. Tutto ciò è bello, ma come dedurre un «dovere categorico» da un’ipotesi così incerta, così contraria – sembra – ai fatti? Se il mondo non vale che come semplice materia della carità, la sua esistenza sembra difficile da giustificare e le vie del Signore sono ben tortuose. L’ipotesi che esaminiamo presuppone l’esistenza del libero arbitrio, di un potere di scelta (almeno noumenico): senza libertà assoluta non vi è responsabilità assoluta, né di merito né di demerito. Accettiamo senza esame tutte queste nozioni: si può ancora dimostrare ai sostenitori delle stesse che questo mondo, fatto secondo loro per la moralità, è ben lungi dall’essere il migliore possibile da questo punto di vista. In realtà, se il merito è direttamente proporzionale alla sofferenza, io posso benissimo immaginare un mondo in cui la sofferenza sia ancora molto più intensa che non in questo; in cui il conflitto fra bene e male sia molto più lacerante; in cui il dovere, incontrando più ostacoli, sia più meritorio. Supponiamo addirittura che il Creatore accumuli davanti alla sua creatura tanti ostacoli che diventi per lei difficilissimo non cedere, non essere trascinata verso il male; il merito della creatura, se grazie a uno sforzo supremo trionfa, sarà infinitamente maggiore. Se ciò che vi è di più bello al mondo per Dio è la rassegnazione di Giobbe o la dedizione di Regolo, perché le occasioni di queste alte virtù sono così rare? E perché il progresso le rende ogni giorno ancora più rare? Nel nostro secolo un
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generale che facesse come Decio non favorirebbe affatto la vittoria dei suoi soldati; anzi il suo eroismo sarebbe un errore tattico. Il livello della virtù si abbassa ogni giorno. Noi non proviamo più quelle possenti tentazioni che facevano fremere i corpi muscolosi di San Gerolamo e di Sant’Antonio. Il progresso va il più delle volte in direzione contraria allo sviluppo della vera moralità, di quella che non nasce già fatta ma si costruisce da se stessa. Io forse ho in me una forza di volontà che una quindicina di secoli fa mi avrebbe fatto diventare un martire; oggi io resto, bene o male, un uomo comune per mancanza di carnefici. Come è dunque povero di vero merito il nostro secolo! Che decadenza agli occhi di un fautore della libertà e della moralità assolute! Se il mondo non ha come fine che quello di porci il problema morale, bisogna riconoscere che la barbarie lo poneva con molta maggior forza che non la civiltà. Noi stiamo troppo bene oggi per essere profondamente morali. Possiamo in generale soddisfare così facilmente i nostri desideri facendo il bene, che non vale quasi più la pena di fare il male, per lo meno il male pieno e grossolano. Quando Cristo fu tentato era in un deserto, sulla montagna; era pressoché nudo, spossato dal digiuno; oggi, che la maggior parte degli uomini sono ben vestiti e non digiunano più, non si vede più il diavolo così da vicino; ma, se non c’è più un tentatore, non c’è nemmeno più un Cristo. Per spiegare il mondo voi stabilite una sorta di antinomia fra la felicità sensibile e la virtù; dite: il mondo è tanto più perfetto quanto meno è felice, perché la perfezione sta nella volontà che trionfa del dolore e del desiderio1; ebbene, proprio in nome di questa stessa antinomia si può ancora condannare questo mondo. Ognuno dei suoi progressi può essere considerato come un passo indietro. Ogni qualità ereditaria che noi acquistiamo col tempo sopprime qualcosa del carattere assoluto della volontà primitiva. Per tutti gli esseri, tranne Dio, il solo mezzo per avvicinarsi all’assoluto è la povertà, la sofferenza, la fatica; tutto ciò che può limitare all’esterno la potenza di un essere gli permette di svilupparla meglio interiormente. Gli stoici amavano ripetere che Euristeo non era stato né nemico né invidioso di Ercole, ma anzi suo amico e benefattore; dicevano che ognuno di noi ha un suo Euristeo divino che lo esercita incessantemente alla lotta; essi rappresentavano il mondo intero, il grande Essere vivente, come una sorta di Alcide all’opera. E sia; ma ancora una volta il nostro Euristeo è ben poco ingegnoso a moltiplicare le nostre prove e le nostre fatiche. La sorte oggi ci vizia come i nonni in famiglia viziano i nipotini. Noi viviamo in un mondo troppo facile e troppo ampio e il continuo
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Morale del dogmatismo metafisico
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sviluppo della nostra intelligenza soffoca un passo dopo l’altro la nostra volontà. Bisogna essere logici: voi non potete giustificare il mondo se non mettendo il bene o la condizione del bene proprio in ciò che tutti gli esseri consideravano fin qui un male; la conseguenza è che gli esseri, i quali lavorano tutti ad evitare ciò che considerano un male, lavorano tutti contro la vostra teoria e l’evoluzione dell’universo va in un senso diametralmente opposto al vostro presunto bene. Allora voi condannate l’opera stessa che volevate assolvere. Ognuno è libero di porre il bene dove crede, ma in qualunque modo lo intenda non può far sì che questo mondo sia veramente buono. Non ci si può nemmeno consolare pensando che sia il peggiore dei mondi possibili e che costituisca così la prova suprema per la volontà. L’universo non è affatto un’opera estrema, nel male come nel bene; sarebbe già qualcosa se fosse assolutamente cattivo, e l’assoluto non è di questo mondo. Nulla quaggiù ci fa provare la soddisfazione di qualcuno che vede un fine perseguito e raggiunto. È impossibile indicare un piano nell’universo – fosse anche quello di abbandonare tutto alla spontaneità meritoria degli esseri. Il mondo non ha il suo fine in noi, come noi non abbiamo nel mondo il nostro fine fissato in anticipo. Nulla è fissato, ordinato e predeterminato; non vi è «adattamento» originario e preconcetto delle cose fra loro. Questo adattamento presupporrebbe un mondo delle idee preesistente al mondo reale, poi un demiurgo che ordina le cose su un piano dato, come fa un architetto: l’universo somiglierebbe allora a certi palazzi da esposizione in cui tutte le stanze, costruite separatamente l’una dall’altra, non hanno avuto poi bisogno che di essere armonizzate fra loro. Ma no: è piuttosto uno di quegli strani edifici ai quali ognuno ha lavorato per suo conto senza preoccuparsi dell’insieme; vi sono tanti scopi e tanti progetti quanti sono gli operai. È un disordine superbo, ma una tale opera manca troppo di unità perché la si possa lodare o biasimare in assoluto. Vedervi la completa realizzazione di un qualunque ideale significa sminuire il proprio ideale e dunque sminuire se stessi; è un errore che può diventare una colpa. Colui che ha un dio dovrebbe rispettarlo troppo per farne un creatore del mondo. II. Il rifugio dell’ottimismo è l’immortalità personale che sarebbe la grande scusa di Dio. Il credere nell’immortalità sopprime ogni sacrificio definitivo o per lo meno riduce questo sacrificio a poca cosa. Davanti all’infinito della durata la sofferenza non sembra più che un punto e l’intera vita attuale diminuisce stranamente di valore.
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L’idea del dovere assoluto e quella dell’immortalità sono intimamente legate: il dovere presente alla coscienza costituisce per gli spiritualisti il segno distintivo dell’individuo nel flusso delle generazioni animali, il suo sigillo di sovranità, il suo titolo ad un posto a parte nel «regno dei fini». Se invece il dovere assoluto si riduce ad un’illusione, l’immortalità perde la sua principale ragione di esistere, l’uomo diviene un essere come un altro; non ha più la testa in una luce mistica, come il Cristo sulla montagna che si trasfigurava levitando e appariva all’altezza dei divini profeti che volano nel cielo. Così l’immortalità è stata sempre il principale problema della morale come della religione. Un tempo esso era stato mal posto poiché era stato confuso con quello dell’esistenza di Dio. In fondo, l’umanità si preoccupa piuttosto poco di Dio; non un martire si sarebbe sacrificato per questo solitario dei cieli. Ciò che si vedeva in lui era la potenza capace di renderci immortali. L’uomo ha sempre voluto dare la scalata ai cieli e non può farlo da solo: ha inventato Dio perché Dio gli tendesse la mano; poi si è legato amorosamente a questo salvatore. Ma se si dicesse domani ai quattrocento milioni di cristiani: «Non c’è alcun Dio; ci sono soltanto un paradiso, un uomo-cristo, una verginemadre e dei santi», essi si consolerebbero presto. In effetti l’immortalità ci basta. Per me io non domando «ricompense», non mendico: nient’altro che la vita; essere riunito a quelli che ho amato; l’eternità dell’amore, dell’amicizia, del disinteresse. Mi ricordo la mia lunga disperazione il giorno in cui per la prima volta mi è entrata nella mente l’idea che la morte potesse essere un’estinzione dell’amore, una separazione dei cuori, un raffreddamento eterno; che il cimitero con le sue tombe di pietra e i suoi quattro muri potesse essere la verità; che dall’oggi al domani gli esseri che formavano la mia vita morale mi sarebbero stati tolti oppure io sarei stato tolto loro e noi non saremmo mai stati restituiti gli uni agli altri. Vi sono certe crudeltà alle quali non crediamo poiché superano la nostra immaginazione; ci diciamo: «È impossibile», perché interiormente pensiamo: «Io come potrei farlo?». La natura si personifica ai vostri occhi: la sua luce sembra una grazia che vi è stata fatta; vi è in tutte le sue creature una tale sovrabbondanza di giovinezza e di speranza che anche voi vi lasciate stordire da questa forza trainante della vita universale. Così la forma antica del problema religioso e morale, l’esistenza di Dio, si riconduce a questa forma nuova: l’immortalità. Questo problema, a sua volta, ci porta a chiederci se fin da ora io esisto; o se la mia personalità è un’illusione
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Morale del dogmatismo metafisico
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e se, invece di dire io, bisogna che dica noi, il mondo. Nel caso in cui nella natura un solo essere, per quanto misero all’apparenza, potesse dire io, senz’altro esso sarebbe eterno. Ci sono qui due grandi ipotesi a confronto. Per prima, la fusione reale di tutti gli io apparenti uno nell’altro, la penetrabilità reale di tutte le coscienze nella natura, la riduzione di tutte le pretese unità sostanziali a molteplicità fenomeniche, prospettive sfuggenti aperte, in noi come fuori di noi, nelle quali l’occhio si perde. Al posto di questa un’altra ipotesi: la natura ha uno scopo, l’individuo. Come un albero immenso in cui la linfa viene infine a concentrarsi in alcuni nuclei, così forse la linfa della natura si concentra in alcuni punti per fruttificare più tardi. Gli individui formerebbero allora dei gruppi duraturi; non ci sono forse degli isolotti nell’oceano? In più, alcuni di questi individui terrebbero l’uno all’altro e si legherebbero abbastanza da non separarsi mai. Se potesse essere sufficiente amarsi abbastanza per unirsi! Questa unione allora sarebbe l’eternità: l’amore ci renderebbe eterni. Purtroppo ci sono molte obiezioni contro l’immortalità. Una prima, e tra le più forti, può venire dalla teoria dell’evoluzione. Il carattere di ogni integrazione, di ogni individuazione è quello di essere provvisorio, di non servire se non a preparare un’integrazione più ampia, un’individuazione più ricca. Un individuo non è per la natura che un tempo d’arresto che non può essere definitivo, altrimenti essa verrebbe a fermarsi nel suo cammino. Gli antichi che, con Platone, immaginavano la natura come dominata da tipi immutabili ai quali essa conforma eternamente le sue creazioni, potevano supporre che le sue opere più riuscite, più vicine al tipo eterno, partecipassero dell’eternità: se la natura agisse secondo dei tipi, delle specie, delle idee, noi potremmo sperare, foggiandoci su queste idee, di diventare noi stessi immortali. Ma oggi predomina una concezione ben diversa. Al principio del secolo si poteva ancora credere che l’immobilità delle specie animali supponesse un piano concepito in precedenza, un’idea per sempre imposta alla natura vivente; dopo Darwin noi vediamo nelle specie stesse dei tipi passeggeri che la natura trasforma con i secoli, dei modelli che essa stessa plasma a caso e che ben presto manda in pezzi uno dopo l’altro. Se la specie è provvisoria cosa è dunque l’individuo? C’è tra l’individuo e la specie una solidarietà che non è stata sempre compresa. Si ripete continuamente che l’individuo e la specie hanno interessi contrastanti, che la natura sacrifica il primo alla seconda; non sarebbe altrettanto vero, e anche più vero, dire che essa li sacrifica entrambi e che ciò che condanna l’individuo è proprio la condanna della sua specie? Se la spe-
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cie fosse immutabile noi potremmo sperare di essere salvati per la nostra conformità con essa. Ma no, tutto è travolto dallo stesso turbine, specie ed individui; tutto passa e va all’infinito. L’individuo è un composto di un certo numero di pensieri, di ricordi, di volontà che si corrispondono a vicenda, di forze in equilibrio. Questo equilibrio non può sussistere che in un certo ambiente intellettuale e fisico che gli sia favorevole; ora questo ambiente non può essergli fornito che per un certo tempo. L’uomo, nella sua costituzione, non può essere giunto all’idea dell’eterno. Non vi sono progressi indefiniti in ogni senso né per un individuo né per una specie: l’individuo e la specie non sono altro che termini intermedi fra il passato e l’avvenire; il trionfo completo dell’avvenire ha bisogno della loro scomparsa. Passiamo a una seconda obiezione che si può fare all’immortalità. Se il pensiero, se la volontà fosse immortale ciò vorrebbe dire che in essa c’è una potenza superiore alla natura, capace di dominarla, di domarla: in questo caso, la vita sarebbe una sorta di lotta dello spirito contro la natura, la morte sarebbe la vittoria. Ma allora queste anime vittoriose perché si ritirano in disparte, lontane dall’eterna lotta che continua ad essere combattuta senza di loro? Perché ci abbandonano? E poiché la loro potenza non ha potuto essere sminuita dalla morte, perché non mettono questa potenza al servizio degli uomini loro fratelli? Era profonda senza saperlo quella credenza degli antichi che vedevano ovunque attorno a loro muoversi e agire l’anima degli antenati, sentivano rivivere i morti al loro fianco, popolavano il mondo di spiriti e li dotavano di un potere più che umano. Se il pensiero valica la morte esso deve diventare per gli altri una provvidenza. Sembra che l’umanità abbia il diritto di contare sui suoi morti come conta sui suoi eroi, sui suoi geni, su tutti coloro che camminano davanti agli altri. Se ci sono degli immortali essi devono tenderci la mano, sostenerci, proteggerci: perché si nascondono a noi? Che forza sarebbe per l’umanità sentire, come gli eserciti omerici, un popolo di dei pronto a combattere al suo fianco! E questi dei sarebbero i suoi figli, i suoi propri figli consacrati dalla tomba; il loro numero andrebbe sempre aumentando perché la terra feconda non cessa di produrre la vita e la vita si fonderebbe in immortalità. La natura creerebbe così essa stessa degli esseri destinati a diventare la sua provvidenza. Questa concezione è forse la più primitiva e allo stesso tempo la più seducente che abbia mai tentato lo spirito umano: secondo noi essa è inseparabile dalla concezione dell’immortalità. Se la morte non uccide, libera: essa non può gettare le anime nell’indifferenza o
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nell’impotenza; secondo l’antica credenza dovrebbero dunque esserci degli spiriti sparsi dovunque, attivi, potenti, provvidenziali. Le mitologie degli antichi o dei selvaggi, le superstizioni dei nostri contadini dovrebbero essere vere. – Eppure chi oserebbe affermarlo oggi o solo vedere la cosa come probabile? La scienza non ha mai constatato una sola volta l’esistenza di una buona o cattiva intenzione dietro un fenomeno della natura; essa tende a negare l’esistenza degli spiriti, delle anime e quindi della vita immortale. Credere alla scienza è, così sembra, credere alla morte. C’è una terza obiezione. È cosa illusoria questa comune induzione alla vita: io sono, dunque sarò. Questa illusione non è per questo meno naturale. Ancor oggi si trovano popolazioni africane presso cui non sembra neppure immaginabile per l’uomo la necessità assoluta di morire: presso questi popoli l’induzione fondata sulla vita prevale ancora su quella della morte. Noi, popoli civilizzati, non siamo più a quello stadio: sappiamo che la nostra vita attuale ha un termine; però speriamo sempre che riprenda sotto un’altra forma. La vita prova repulsione a rappresentarsi e ad affermare la morte. La gioventù è piena di speranza; l’esistenza esuberante e vigorosa fatica a credere al nulla. Colui che sente in sé un tesoro di energie e di attività, un accumularsi di forze vive, è portato a considerare questo tesoro come inesauribile. Molti uomini sono come i bambini: non hanno ancora provato il limite delle loro forze. Un bambino mi diceva, vedendo passare un cavallo al galoppo in un turbine di polvere: «Se volessi correrei anch’io così», e ci credeva. Un bambino capisce con difficoltà che non si può avere ciò che si desidera con tutto il cuore; stupito di ciò che fa, conclude di poter fare tutto. Nulla è più raro del giusto sentimento del possibile. Eppure ogni uomo, quando nella vita viene alle prese con certi avvenimenti, si sente di colpo talmente dominato, soggiogato, da perdere perfino il sentimento della lotta. Si può lottare contro la terra che ci trascina attorno al sole? Così colui che si avvicina alla morte si sente ridotto al nulla, si sente un giocattolo in balia di una potenza incommensurabile. La sua volontà, ciò che vi è di più forte in lui, non resiste più, si allenta come un arco spezzato, si dissolve gradualmente, sfugge a se stessa. Per capire quanto la vita è debole davanti alla morte bisogna essere passati non attraverso quelle malattie violente e brutali che stordiscono come una mazzata, ma attraverso quelle malattie croniche di lunga durata che non colpiscono direttamente la coscienza, che avanzano con progressi lenti e misurati, che addirittura, obbedendo ad una sorta di ritmo, sembrano talora arretrare,
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vi permettono di rifare conoscenza con la vita, con una mezza salute, poi di nuovo tornano, si abbattono su di voi, vi stritolano. Allora il paziente prova, in successione, le sensazioni di chi nasce alla vita e di chi se ne va verso la morte. Egli ha per un momento gli ardori della giovinezza, poi lo sfinimento, la prostrazione del vecchio. E mentre è giovane si sente pieno di fiducia in se stesso, nella potenza della sua volontà; si crede capace di dominare il futuro, pronto a vincere nella sua lotta contro le cose; il suo cuore trabocca di speranza e si spande su ogni cosa; tutto gli sorride, dai raggi del sole e dalle foglie degli alberi fino alle facce degli uomini; egli non vede nella natura, quell’indifferente, nient’altro che un’amica, un’alleata, una volontà misteriosa in consonanza con la sua; non crede più alla morte poiché la morte completa sarebbe una sorta di cedimento della volontà; ora, una volontà veramente forte non crede di poter avere cedimenti. Gli sembra così che a forza di volere potrà conquistare l’eternità. Poi, senza che se ne accorga chiaramente, questa pienezza di vita e di gioventù che costituiva la sua speranza se ne va a poco a poco, si allontana da lui, cala come l’acqua di un vaso che ineluttabilmente si abbassa senza che si sappia da dove se ne va. Contemporaneamente la sua fiducia nel futuro s’indebolisce e si turba: egli si chiede se la fiducia e la speranza non siano la coscienza fuggitiva di un’attività momentaneamente potente ma ben presto soggiogata da forze superiori. Invano allora la volontà si tende e si sforza di rialzarsi, ricade ben presto con tutto il suo peso piegandosi sotto l’organismo spezzato, come un cavallo abbattuto sotto il suo carico. Poi lo spirito si oscura: l’uomo sente nascere dentro di sé e diffondersi su tutti i suoi pensieri una sorta di crepuscolo, sente venire la sera. Si assiste allora a quel lavoro lento e triste della dissoluzione che segue necessariamente l’evoluzione: gradualmente l’essere si lascia andare e si dissolve; l’unità della vita si disperde, la volontà si esaurisce nel vano tentativo di riunire e mantenere sotto la stessa legge quel fascio di esseri che si divide e il cui assemblaggio costituiva l’io: tutto si disfa, si dissolve in polvere. Allora finalmente la morte diventa meno improbabile, meno inconcepibile per il pensiero: l’occhio vi si abitua come si abitua all’oscurità che sale quando il sole scende sotto l’orizzonte. La morte non appare più se non per ciò che è realmente: un’estinzione della vitalità, un inaridimento dell’energia interiore. E la morte così concepita lascia meno speranze: ci si riprende da uno stordimento accidentale, ma come riprendersi da un totale spossamento? È sufficiente che l’agonia sia piuttosto lunga per far capire che la morte sarà eterna. Non si riaccende una fiaccola interamente consu-
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mata. Ecco ciò che c’è di più triste nelle malattie lente che lasciano coscienti fino alla fine: esse tolgono prima la speranza; l’uomo sente il proprio essere minato fin nell’intimo; assomiglia a un albero che vede le proprie radici spezzarsi, a una montagna che assiste al proprio crollo. Si acquista così una sorta di esperienza della morte; ci si avvicina abbastanza ad essa per ottenerne, grazie a questo passaggio al limite familiare ai matematici, una conoscenza approssimativa. Annientamento, o almeno dispersione, dissoluzione, se è questo il segreto della morte è senz’altro terribile da conoscere, ma è senz’altro meglio conoscerlo. La vita veramente eterna sarebbe quella che non deve dividersi per attraversare le divisioni del tempo, che è presente in tutti i punti della durata e abbraccia in un colpo solo tutte le differenze che costituiscono per noi questa durata. Allora noi ci rappresenteremmo, immobili, come esseri sempre mutevoli; così sulle carte dei meteorologi si prevede e si rappresenta con linee fisse il turbine della tempesta che passa. Ma questa eternità, che si crede invidiabile, costituirebbe probabilmente la maggiore delle tristezze: infatti fra noi e l’ambiente l’opposizione sarebbe maggiore, lo strappo eterno. Noi vedremmo sfuggire ogni cosa prima di avere il tempo di legarci ad alcunché. Il dio delle religioni che, in quanto eterno, si rappresenta gli esseri trasportati dal tempo, non potrebbe essere altro che la suprema indifferenza o la suprema disperazione, la realizzazione della mostruosità morale o dell’infelicità. Malgrado tutte le obiezioni dei filosofi l’uomo aspirerà sempre, se non all’eternità atemporale, almeno a una durata indefinita. La tristezza che l’idea di tempo porta con sé sussisterà sempre: perdersi, sfuggire a se stessi, lasciare qualcosa di sé lungo la strada, come il gregge lascia dei fiocchi di lana sui cespugli. «Disperazione di sentir scorrere via tutto ciò che si possiede» diceva Pascal. Quando ci si volge indietro ci si sente sciogliere il cuore, come il navigante, trascinato in un viaggio senza fine, che scorga passando le coste della sua patria. I poeti hanno sentito cento volte queste cose. Ma non è una disperazione individuale: tutta l’umanità vi è coinvolta. Il desiderio dell’immortalità non è altro che la conseguenza del ricordo: la vita, cogliendo se stessa attraverso la memoria, si proietta istintivamente verso l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di ritrovarci e di ritrovare coloro che abbiamo perduto, di recuperare il tempo. Nelle tombe degli antichi popoli si accumulava tutto ciò che era caro al morto: le sue armi, i suoi cani, le sue donne; i suoi amici stessi si uccidevano talvolta sulla sua tomba; non potevano ammettere che l’affetto
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si potesse spezzare come un laccio. L’uomo si lega a tutto ciò che tocca, alla sua casa, a un pezzo di terra; si lega a esseri viventi, ama: il tempo gli strappa tutto ciò, incide profondamente in lui. E mentre la vita riprende il suo corso, cicatrizza le ferite come la linfa dell’albero ricopre i segni della scure, il ricordo, che agisce in senso inverso, il ricordo – questa cosa sconosciuta in tutta la natura – mantiene le ferite sanguinanti e di tanto in tanto le riapre. Ma questo ricordo degli sforzi passati e della loro inutilità finisce per darci le vertigini. Allora all’ottimismo succede il pessimismo. Il pessimismo si riconduce al sentimento dell’impotenza ed è il tempo che alla fine ci dà questo sentimento. – Il mondo, affermano gli stoici, è una grande festa. – Fosse anche così, rispondono i pessimisti, una festa umana dura soltanto un giorno, mentre il mondo è eterno; ebbene, è una cosa triste da immaginarsi una festa eterna, un gioco eterno, una danza eterna come quella dei mondi. Ciò che all’inizio era una gioia e un motivo di speranza diviene alla fine un’oppressione; una grande stanchezza vi prende: uno vorrebbe appartarsi e stare in pace; non può. Bisogna vivere. Chissà se la stessa morte sarà riposo? Si viene trascinati nel grande meccanismo, trasportati dal moto universale come quegli imprudenti che entravano nel cerchio misterioso formato dai korrigans2; un grande girotondo li avvolgeva, li trascinava, li affascinava e, ansanti, essi giravano fino a che la vita mancava loro assieme al respiro; ma il girotondo non s’interrompeva, si riformava più rapido e gli infelici spirando vedevano ancora turbinare su di loro l’eterno girotondo attraverso il velo della morte. Si capisce che gli eccessi dell’ottimismo abbiano prodotto la reazione pessimista. Il germe del pessimismo è in ogni uomo: per conoscere e giudicare la vita non vi è nemmeno bisogno di aver vissuto molto, è sufficiente aver sofferto molto. L’ipotesi pessimista Il pessimismo non è meno difficile da dimostrare dell’ottimismo: fondare una morale solida e oggettiva su uno dei due sistemi non è meno impossibile che fondarla sull’altro. Il pessimismo ha per principio la possibilità di un paragone scientifico tra le pene e i piaceri, paragone nel quale le pene prevalgono. Questo sistema si può esprimere così: la somma delle sofferenze in ogni vita umana è superiore a quella dei piaceri. Se ne deduce la morale del nirvana. Ma questa formula che si pretende scientifica non ha affatto senso. Si vogliono paragonare
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i dolori e i piaceri in rapporto alla durata? Il calcolo sarebbe evidentemente contrario ai pessimisti poichè in un organismo sano il dolore è generalmente breve. Si vogliono paragonare i dolori e i piaceri in rapporto all’intensità? Ma non sono valori fissi dello stesso tipo, uno positivo, l’altro negativo, uno che si può esprimere con il segno (+), l’altro con il segno (–). È tanto più impossibile stabilire tra un singolo piacere e un dolore un rapporto aritmetico in quanto il piacere, che varia in funzione dell’intensità del desiderio, non è mai lo stesso in due momenti della vita, e il dolore varia ugualmente secondo la resistenza della volontà. Inoltre, quando ci rappresentiamo una sofferenza o un piacere passati, i soli di cui abbiamo esperienza, non possiamo farlo se non con alterazioni di ogni genere e innumerevoli illusioni psicologiche. Generalmente i pessimisti sono portati a paragonare fra loro questi due estremi, la voluttà e il dolore: da qui la predominanza che assume ai loro occhi quest’ultimo. La voluttà propriamente detta è dopo tutto una rarità e un lusso; molte persone preferirebbero farne a meno e non soffrire: il godimento raffinato di bere in una coppa di cristallo non è paragonabile al tormento della sete. Ma la morale pessimista non tiene conto del piacere permanente e spontaneo di vivere: il fatto è che questo piacere, essendo ininterrotto, si attenua e si rimpicciolisce nel ricordo. È una legge della memoria che le sensazioni e le emozioni di uguale natura si fondono l’una nell’altra, si raccolgono in una sorta di cumulo vago e finiscono per non essere più che un punto impercettibile. Io vivo, gioisco e questa gioia di vivere mi appare al momento attuale come degna di pregio; ma se mi volgo ai miei ricordi vedo mescolarsi la serie indefinita di quei momenti gradevoli che formano la trama della vita, li vedo ridursi a poca cosa perché sono simili e non interrotti; di fronte a questi si ingrandiscono invece i momenti di voluttà e di dolore che sembrano isolati ed emergono soli sull’uniforme linea dell’esistenza. Ora, la voluttà, così distaccata dal piacere generale di vivere, non è più sufficiente nel mio ricordo a controbilanciare la sofferenza, e questo è dovuto ad altre leggi psicologiche. La voluttà si altera molto rapidamente nel ricordo (soprattutto quando non risveglia più il desiderio che entra come componente in ogni sensazione e in ogni rappresentazione gradevole). Per contro vi è nel dolore un elemento che non si altera con il tempo e che spesso si accresce: è quel che chiameremo il sentimento dell’intollerabilità. Un vivo dolore passato che, bene o male, era stato sopportato può apparire assolutamente insopportabile nel ricordo, sicché di fronte ad esso tutti i piaceri che hanno potuto precederlo o seguirlo per-
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dono il loro valore: di qui una nuova illusione ottica di cui tenere conto. Il dolore produce una sorta di angoscia di tutto l’organismo, un sentimento istintivo di pericolo che si risveglia al minimo ricordo; dunque la rappresentazione anche vaga di un dolore avrà sempre sull’organismo un effetto più grande dell’immagine di una voluttà attualmente non desiderata. In generale la paura è più facile da provocare che il desiderio e in certi temperamenti la paura ha tanta forza che alcuni uomini hanno preferito la morte a un’operazione dolorosa; questa preferenza non veniva certo da un disprezzo della vita ma dal fatto che il dolore sembra talvolta impossibile da sopportare e come al di sopra delle forze umane: semplice apparenza del resto che si spiega con una debolezza di carattere e in definitiva con una forma di viltà. Anche in un uomo coraggioso la previsione o la memoria di un vivo dolore avranno nel fisico una risonanza maggiore della previsione o della memoria di un piacere. Un soldato che rievoca i suoi ricordi a sangue freddo si rappresenterà la lacerazione interiore prodotta da una sciabolata con un’emozione più viva che qualunque altro grande piacere della sua vita; eppure nel mezzo dell’azione la sua ferita gli sarà sembrata poca cosa di fronte alla gioia della vittoria; ma la gioia della vittoria corrispondeva a un’eccitazione dell’animo che è scomparsa, mentre il pensiero della ferita fa ancor oggi fremere le sue membra. Noi ci sentiamo sempre prossimi alla sofferenza, mentre il godimento richiede condizioni molto più complesse alle quali possiamo riportarci col pensiero solo con difficoltà. Dunque la voluttà e il dolore non sono uguali nel ricordo. Citiamo ancora un’altra causa di errore nel confronto tra i tempi felici e quelli infelici della vita: i giorni felici sono quelli che passano più rapidamente e sembrano più corti; invece i giorni infelici si allungano, occupano, per così dire, più spazio nella memoria. Insomma il pessimismo si spiega in parte attraverso leggi psicologiche le quali fanno sì che i piaceri passati, di cui si è sazi, paiono non valere le pene sofferte. Ma d’altra parte vi sono altre leggi psicologiche secondo le quali i piaceri futuri paiono sempre avere un valore superiore alle pene che si soffriranno per raggiungerli. Queste due leggi si equilibrano: e ciò spiega il fatto che in genere l’umanità non è pessimista e che da parte loro i pessimisti più convinti raramente si danno la morte; si spera sempre qualcosa dall’avvenire, anche quando la considerazione del passato porta a disperare. C’è un piacere che muore, per così dire, dopo ogni azione compiuta, che se ne va senza lasciare traccia nel ricordo e che pure è il piacere fondamentale per eccellenza:
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è il piacere stesso di agire. Esso costituisce in gran parte l’attrattiva di tutti i fini desiderati dall’uomo; solo che questa attrattiva si ritira da essi una volta che li si raggiunge, una volta compiuta l’azione. Di qui lo stupore di colui che tenta di giudicare la vita riunendo i suoi ricordi e che non ritrova più nei piaceri passati una causa sufficiente a giustificare i suoi sforzi e le sue pene: durante la vita è nella natura dell’attività che bisogna cercare una giustificazione dello sforzo. Non tutte le gocce d’acqua cadute da una nuvola incontrano un calice di rosa; non tutte le nostre azioni portano a una voluttà precisa e tangibile; ma noi agiamo per agire, così come la goccia d’acqua cade per il suo peso: la goccia d’acqua stessa, se avesse coscienza, proverebbe una sorta di voluttà vaga ad attraversare lo spazio, a scivolare nel vuoto ignoto. Questa voluttà costituisce il fondo della vita; solo che essa scompare dal ricordo che non è più l’ignoto ma il noto e che ci offre insieme soltanto il passato e il passivo. La morale pessimista si basa dunque non su un ragionamento scientifico ma su un puro apprezzamento individuale in cui possono entrare come elementi non pochi errori. Perpetuamente noi scambiamo pene contro piaceri e piaceri contro pene; ma in questo scambio il solo criterio di valore è quello della domanda e dell’offerta, e raramente si può dire a priori che certi dolori valgano più di certi piaceri. Non esistono dolori che l’uomo non si esponga a sopportare per avere la possibilità di certi piaceri, quelli dell’amore, della ricchezza, della gloria, ecc. Continuamente si incontrano uomini che sono disposti a soffrire e a penare anche senza esservi spinti dalle necessità della vita. Se ne può concludere che la sofferenza non è il male più temibile per l’uomo, che l’inazione è spesso un male peggiore, che in aggiunta esiste un piacere particolare derivante dalla vittoria sulla sofferenza e in generale dalla profusione di ogni sorta di energia. L’infelicità come la felicità è in gran parte una costruzione mentale fatta a posteriori. Bisogna dunque diffidare ugualmente sia di coloro che si vantano di essere stati perfettamente felici, sia di coloro che affermano di essere stati totalmente infelici. La felicità raggiunta è fatta di ricordo e di desiderio, come l’infelicità assoluta è fatta di ricordo e di paura. Noi non abbiamo quasi mai avuto coscienza di essere pienamente felici, eppure ci ricordiamo di esserlo stati. Dov’è dunque la felicità assoluta se non è nella coscienza? In nessun luogo, essa è un sogno di cui noi rivestiamo la realtà, è l’abbellimento del ricordo così come l’infelicità assoluta ne è l’imbruttimento. La felicità, l’infelicità sono precisamente il passato, ossia ciò che non può più essere; sono
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anche il desiderio eterno che non sarà mai soddisfatto o il timore sempre pronto a rinascere al minimo allarme. La felicità o l’infelicità, nel senso abituale che noi diamo a queste parole, risultano così da una visione complessiva sulla vita umana che è spesso un’illusione ottica. Certi fiumi americani sembrano trasportare una massa d’acqua nera, eppure, se si prende un po’ di quest’acqua nel cavo della mano, essa è limpida e cristallina: il suo colore scuro che quasi spaventava era un effetto della massa e proveniva dal letto in cui scorre. Nello stesso modo ogni istante della nostra vita, preso a sé, può avere questa gradevole indifferenza, questa fluidità che lascia nel ricordo una traccia appena sensibile; eppure l’insieme appare oscuro, per via di qualche momento di dolore che proietta la sua ombra su tutto il resto, o felice grazie a qualche ora luminosa che sembra pervadere tutte le altre. In tutti questi problemi noi siamo dunque avviluppati in innumerevoli illusioni. Nulla di reale e di assolutamente certo se non la sensazione presente: bisognerebbe poter paragonare soltanto delle sensazioni simultanee di piacere e di pena; ma tutte le volte che il paragone riguarda sensazioni passate o future, esso implica errore. Non si può dunque dimostrare per esperienza o per calcolo la superiorità della quantità di pena su quella di piacere; anzi l’esperienza è contro i pessimisti perché l’umanità prova a posteriori il valore della vita ricercandola incessantemente. La morale pessimista cercherà allora forse di dimostrare il suo principio con qualche argomento tratto non più dal calcolo matematico ma dalla natura stessa del piacere. Una delle tesi del pessimismo è la seguente: poiché il piacere presuppone il desiderio e il desiderio il più delle volte si riconduce al bisogno e dunque alla sofferenza, il piacere presuppone la sofferenza e non è che un istante fuggevole fra due stati di sofferenza. Di qui quella condanna del piacere che si ritrova da Budda in avanti nella morale pessimista. Ma è molto inesatto rappresentare così il piacere legato a un dolore in quanto legato a un desiderio o addirittura a un bisogno. Solo a partire da un certo grado il bisogno diventa sofferenza; la fame, per esempio, è dolorosa, ma l’appetito può essere molto piacevole da provare. Lo stimolo del bisogno non è più allora che una sorta di gradevole solletico. Legge generale: in ogni essere intelligente un bisogno diventa gradevole ogni volta che non è troppo violento e che ha la certezza o la speranza della sua prossima soddisfazione. Esso allora si accompagna ad un anticipo di godimento. Certe pretese sofferenze che precedono il pia-
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cere, come la fame, la sete, il brivido d’amore entrano come elementi nell’idea che ci facciamo del piacere; senza di esse il godimento è incompleto. Ancor più, prese in sé, esse sono accompagnate da un certo godimento a condizione che non si prolunghino troppo; quando l’amante rievoca i suoi ricordi, i momenti di desiderio gli appaiono sommamente gradevoli; essi incorniciano l’istante del piacere acuto che altrimenti sarebbe troppo breve e fuggevole. Giustamente Platone ha detto che i dolori possono entrare nella composizione dei piaceri; ma i piaceri invece non entrano affatto nella composizione dei dolori. Il disgusto che segue l’abuso di certi piaceri non è del tutto inseparabile dal loro uso; non si introduce come elemento nella concezione che se ne ha. Il piacere ha dunque sul dolore questa superiorità: che può non produrne; mentre il dolore, almeno quello fisico, non può non produrre il piacere con la sua semplice scomparsa e talvolta si associa talmente al piacere da rappresentare esso stesso un momento gradevole. Le stesse sofferenze di origine intellettuale non sono del tutto incompatibili con i piaceri: quando esse non sono molto forti si fondono con i piaceri; esse danno loro soltanto un colore meno appariscente, li impallidiscono, per così dire, cosa che per loro non è male. La malinconia può acutizzare certe gioie. Da ogni parte dunque, checché ne dicano i moralisti depressi, il piacere avvolge la pena e viene perfino a mescolarvisi. Inoltre, più si va avanti, più si sviluppano e occupano una parte considerevole nella nostra vita piaceri che raramente corrispondono a un bisogno doloroso, come i piaceri estetici e intellettuali. L’arte è nella vita moderna una considerevole sorgente di piaceri che, per così dire, non hanno la sofferenza per contrappeso. Il suo scopo è quello di giungere quasi a riempire di piacere gli istanti più incolori della vita, cioè quelli in cui noi ci riposiamo dall’azione: è la grande consolazione dell’ozioso. Fra due momenti di sforzo fisico l’uomo incivilito, invece di dormire come il selvaggio, può ancora godere in modo intellettuale o estetico. E questo godimento può prolungarsi più di ogni altro: si riodono interiormente certe sinfonie di Beethoven molto tempo dopo averle ascoltate con le orecchie; se ne gode prima, anticipatamente, se ne gode durante e dopo. Per risolvere (ammesso che ciò sia possibile) la questione posta dalla morale pessimista crediamo ci si debba rivolgere non solo alla psicologia ma alla biologia e cercare se le leggi stesse della vita non implichino un plusvalore
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del benessere sulla pena. In questo caso la morale positiva che difendiamo avrebbe ragione di voler conformare le azioni umane alle leggi della vita invece di darsi come scopo, come fa la morale pessimista, l’annientamento finale della vita e del voler vivere. Prima di tutto che parte hanno i diversi sensi nel dolore? La parte della vista, come quella dell’udito, è quasi nulla poiché le dissonanze sensibili all’orecchio e le bruttezze che colpiscono l’occhio sono leggeri fastidi che è impossibile confrontare con le vive gioie dell’armonia e della bellezza. Il piacere prevale ancora molto nelle sensazioni che provengono dal gusto e dall’odorato: siccome in generale non si mangia se non ciò che piace a questi due sensi e siccome bisogna mangiare per vivere, la conservazione stessa della vita presuppone una soddisfazione periodica del gusto e dell’odorato (che gli è legato così intimamente). Infine ben poche vere sofferenze ci vengono dal tatto, se si localizza questo senso nella mano. Tutti, o quasi, i nostri mali fisici hanno la loro origine nel tatto in generale o nella sensibilità interna: quand’anche ci arrivassero da queste due direzioni più pene che gioie, ci si può chiedere se queste pene sarebbero sufficienti ancora a controbilanciare i piaceri di ogni genere forniti dagli altri sensi. Ma si pone un problema: è possibile, dal punto di vista biologico, che nella sensibilità interna i sentimenti di malessere e di sofferenza prevalgano mediamente su quelli di benessere? Noi crediamo che si possa dare una risposta decisiva a questa questione: se negli esseri viventi le sensazione di malessere prevalessero realmente su quelle di benessere la vita sarebbe impossibile. In effetti il senso vitale non fa che tradurci in linguaggio di coscienza ciò che avviene nei nostri organi. Il malessere soggettivo della sofferenza è soltanto sintomo di un cattivo stato oggettivo, di un disordine, di una malattia che comincia: è la traduzione di un disturbo funzionale o organico. Al contrario la sensazione di benessere è come l’aspetto soggettivo di un buono stato oggettivo. Nel ritmo dell’esistenza il benessere corrisponde così all’evoluzione della vita, il dolore alla sua dissoluzione. Non solo il dolore è la coscienza di un disturbo vitale ma tende ad accrescerlo: in una malattia non è bene sentire troppo il proprio male, altrimenti questa sensazione lo esagera; il dolore, che può essere considerato come ripercussione di un male fino al cervello, come un disturbo simpatico portato al cervello stesso, è un nuovo male che si aggiunge al primo e che, reagendo su di esso, finisce per accrescerlo. Così il dolore, che poco prima ci appariva come la coscienza di una parziale disintegrazione, ci appare ora esso stesso
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come un agente di disintegrazione. L’eccesso del dolore sul piacere è dunque incompatibile con la conservazione della specie. Quando in alcuni individui l’equilibrio tra sofferenza e benessere viene compromesso e la prima prevale, ciò costituisce un’anomalia che di solito porta presto l’individuo alla morte: l’essere che soffre troppo è inadatto alla vita. Perché un organismo sussista bisogna che nella sua interezza il suo funzionamento mantenga una certa regolarità; bisogna che il dolore sia bandito o almeno ridotto ad alcuni punti. Così, più la selezione naturale si compie senza ostacoli, più tende a eliminare i sofferenti; uccidendo il malato essa elimina anche il male. Se ai nostri giorni la filantropia riesce a salvare un certo numero di infermi, essa non ha ancora potuto salvare la loro razza, che in generale si estingue da sé. Immaginiamo una nave nella tempesta che sale e scende sulla cresta delle onde: la linea che segue potrebbe essere rappresentata da una serie di curve delle quali una parte segna la direzione dell’abisso, l’altra quella della superficie delle acque: se a un certo momento del tragitto la curva discendente prevalesse senza ritorno, ciò indicherebbe che la nave sprofonda e sta per inabissarsi. Lo stesso è per la vita, sballottata fra le onde del piacere e del dolore: se ci rappresentiamo queste ondulazioni con delle linee e se la linea del dolore si prolunga più dell’altra ciò vuol dire che stiamo affondando. Il tracciato che la sensazione imprime nella nostra coscienza non è che una figura che rappresenta il cammino stesso della vita; e la vita per sussistere ha bisogno di essere la perpetua vittoria del piacere sul dolore. Quel che noi diciamo qui della vita fisica, come ce la rivela il senso interno, è vero anche per la vita morale. Nell’ambito morale come in quello fisico la sofferenza segna sempre una tendenza alla dissoluzione, una morte parziale. Perdere una persona amata, per esempio, è perdere qualcosa di noi e cominciare noi stessi a morire. La sofferenza morale, qualora trionfi davvero, uccide moralmente, annienta l’intelligenza e la volontà. Così colui che, dopo qualche violenta crisi morale, continui a pensare, a volere e ad agire in un senso o nell’altro potrà soffrire, ma la sua sofferenza non tarderà ad essere controbilanciata e pian piano eliminata. La vita prevarrà sulle tendenze dissolutrici. Nell’ambito morale come in quello fisico l’essere superiore è quello che unisce la sensibilità più delicata alla volontà più forte; in lui la sofferenza è certo molto viva ma provoca una reazione ancora più viva della volontà; egli soffre molto ma agisce ancor di più, e siccome l’azione è sempre godimento il suo godimento generalmente supera la pena. L’eccesso della sofferenza sul
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piacere presuppone una debolezza o un cedimento della volontà e dunque della vita stessa: la reazione interna non corrisponde più all’azione esterna. Ogni sensazione è una specie di domanda formulata di fronte all’essere senziente: « Vuoi essere felice o infelice? Vuoi accettarmi o respingermi, sottometterti a me o vincermi?». Alla volontà la risposta. E la volontà che s’indebolisce si condanna da sola, comincia una sorta di suicidio. Nella sofferenza morale bisogna distinguere tra quella che è totalmente affettiva e quella che è tutta intellettuale: bisogna distinguere fra i pessimisti per principio, come Schopenhauer, e quelli che lo sono per reale tormento del cuore. La vita dei primi può assomigliare a quella di tutti e in definitiva essi possono essere molto felici perché è possibile essere intellettualmente tristi senza esserlo in fondo al proprio cuore. Non si svolge nessun dramma nella sola intelligenza o, se in qualche momento questo avviene, non tarda a calare pian piano il sipario, quasi da solo, su questa scena ancora troppo esterna a noi e si rientra nella vita comune che in generale non ha nulla di così drammatico. I pessimisti per principio possono dunque avere una lunga vita e una lunga prosperità: per così dire, essi sono felici loro malgrado. Ma non è la stessa cosa per coloro che trovano il mondo cattivo perché per loro è veramente cattivo; per coloro per i quali il pensiero pessimista non è che un’astrazione dei loro propri dolori. Costoro meritano maggiore compassione. Ma sono condannati in anticipo dalla natura e, per così dire, da se stessi: la piena coscienza della loro infelicità non è che la vaga coscienza della loro impossibilità di vivere. Tutte le sofferenze fisiche o morali, ipocondria, ambizioni frustrate, affetti spezzati, sono dunque come un’aria più o meno irrespirabile. I grandi sconsolati, i malati di spleen, i veri melanconici (ce ne sono tanti che lo sono per posa o per principio!) non hanno vissuto o non hanno avuto discendenti. Sono persone sensitive che una sola offesa può stroncare. Gli artisti del dolore come Musset, Chopin, Leopardi, Shelley, Byron, Lenau non erano fatti per la vita e la loro sofferenza, che ci ha dato dei capolavori, non era che il risultato di un cattivo adattamento all’ambiente, di una esistenza quasi fittizia che si può conservare per un certo periodo ma che non può donarsi. È possibile restituire una sorta di vita artificiale alla testa di un decapitato. Allora, se la sua bocca potesse aprirsi e articolare delle parole, queste non sarebbero certamente che grida di dolore; nella nostra società esiste così un certo numero di uomini nei quali il sistema nervoso predomina a tal punto che essi sono, per così dire, dei cervelli, delle teste senza corpo: tali
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esseri vivono soltanto se colti di sorpresa, per artificio. Non possono parlare che per lamentarsi, non possono cantare che per gemere e i loro lamenti sono così sinceri che ci arrivano fino al cuore. Tuttavia noi non possiamo giudicare sulla loro base l’umanità piena di vita, l’umanità da cui uscirà l’avvenire: le grida di dolore di costoro non sono altro che l’inizio dell’agonia. Arriviamo a questa conclusione: che una certa dose di felicità è la condizione stessa di esistenza. Hartmann suppone che, se un giorno la morale pessimista trionferà tra gli uomini, tutti si accorderanno per rientrare nel nulla: un suicidio universale porrà termine alla vita. Questa concezione ingenua racchiude però la seguente verità: se il pessimismo si radicasse troppo nel cuore umano, potrebbe diminuirne pian piano la vitalità e condurre non già al colpo di scena un po’ caricaturale di cui parla Hartmann, ma a un indebolirsi lento e continuo della vita: una razza pessimista che realizza nei fatti il suo pessimismo, aumentando cioè con l’immaginazione la somma dei suoi dolori, non resisterebbe nella lotta per l’esistenza. Se l’umanità e le altre specie animali resistono, è proprio perché la vita non è troppo malvagia per loro. Questo non è il peggiore dei mondi possibili poiché in definitiva c’è e continua ad esserci. Una morale dell’annientamento proposta a un qualunque essere vivente sembra dunque un controsenso. In fondo è una stessa ragione che rende l’esistenza possibile e desiderabile. L’ipotesi dell’indifferenza della natura Se la morale del dogmatismo cerca l’ipotesi più probabile allo stato attuale delle scienze, troverà che non è né l’ottimismo né il pessimismo: è l’indifferenza della natura. Questa natura ai cui fini il dogmatismo vuole che ci conformiamo mostra in realtà una indifferenza assoluta: 1) riguardo alla sensibilità; 2) riguardo alle direzioni possibili della volontà umana. L’ottimista e il pessimista, invece di cercare semplicemente di capire, sentono come i poeti, sono commossi, si irritano, si rallegrano, mettono nella natura il bene o il male, il bello o il brutto, delle qualità; ascoltate invece lo scienziato: non ci sono per lui che quantità, sempre equivalenti. La natura, a suo parere, diventa una cosa neutra, incosciente del piacere come della sofferenza, del bene come del male. L’indifferenza della natura ai nostri dolori o ai nostri piaceri è per il moralista un’ipotesi trascurabile perché senza effetto pratico: l’assenza di una provvidenza che allevii i nostri mali non cambierà in nulla la nostra condotta
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morale, una volta ammesso che i mali della vita non superano mediamente le gioie e che l’esistenza in sé resta desiderabile per ogni essere vivente. Ma è l’indifferenza della natura al bene o al male che interessa la morale; ora, di questa indifferenza si possono dare ragioni in quantità. La prima è l’impotenza della volontà umana in rapporto al tutto di cui non può cambiare in modo apprezzabile la direzione. Che cosa deriverà per l’universo da una certa azione umana? Non lo sappiamo. Il bene e il male per la natura non sembrano essere più contrari di quanto lo siano il caldo e il freddo per il fisico: sono delle gradazioni di temperatura morale ed è forse necessario che, come il caldo e il freddo, il bene e il male si equilibrino nell’universo. Forse nel mondo il bene e il male si neutralizzano in capo a un certo periodo di tempo, così come nell’oceano si neutralizzano i diversi movimenti delle onde. Ognuno di noi traccia la sua rotta, ma la direzione della scia importa poco alla natura; essa è destinata a cancellarsi rapidamente, a scomparire nella grande agitazione senza scopo dell’universo: sarà vero che i mari tremano ancora dietro la scia della nave di Pompeo? L’oceano stesso, pur solcato da migliaia di navi, ha forse oggi un’onda in più rispetto al passato? È forse certo che le conseguenze di una buona azione o di un crimine commessi centomila anni fa da un uomo dell’età terziaria hanno modificato il mondo in qualche cosa? Confucio, Budda o Gesù Cristo agiranno sulla natura fra un miliardo di anni? Supponete una buona azione compiuta da un’efemera: al pari di questo insetto essa muore in un raggio di sole; esso può forse ritardare di un milionesimo di secondo il cadere della notte che lo ucciderà? C’era una donna la cui innocente follia era di credersi fidanzata e alla vigilia delle nozze. La mattina svegliandosi chiedeva un vestito bianco, una corona nuziale e sorridente si vestiva. «Oggi verrà» diceva. La sera dopo l’inutile attesa la tristezza la invadeva; si toglieva allora l’abito bianco. Ma il giorno dopo con l’alba tornava la fiducia: «È per oggi» si diceva. E passava la vita in questa certezza sempre delusa e sempre viva togliendo il suo vestito della speranza solo per rimetterselo. L’umanità è come questa donna, dimentica di ogni delusione: essa attende ogni giorno l’arrivo del suo ideale; e sono centinaia di secoli che dice: «Sarà domani»; ogni generazione indossa di nuovo l’abito bianco. La fede è eterna come la primavera e i fiori. Tutta la natura è probabilmente nella stessa condizione, almeno la natura cosciente e intelligente: forse un’infinità di secoli or sono, in qualche stella ora ridotta in polvere, si attendeva lo sposo mistico. L’eternità, in qualunque modo la si concepisca, ap-
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pare come una delusione infinita. Non importa; la fede chiude quell’infinito disperante: fra i due abissi del passato e del futuro non cessa di sorridere al suo sogno; canta sempre lo stesso canto di gioia e di richiamo che crede nuovo e che già tante volte si è perso senza incontrare alcun orecchio; tende sempre le braccia verso l’ideale, tanto più dolce quanto più è vago, e si rimette in testa la corona di fiori senza accorgersi che da centomila anni è appassita. Renan ha detto: «Nella piramide del bene innalzata dagli sforzi successivi degli esseri ogni pietra conta. L’egizio del tempo di Chefren esiste ancora grazie alla pietra che ha posato». – Dove esiste? In un deserto in mezzo al quale la sua opera si erge senza scopo, altrettanto vana nella sua enormità quanto il più piccolo dei granelli di sabbia della sua base. La «piramide del bene» non avrà la stessa sorte? La nostra terra è perduta nel deserto dei cieli, la nostra stessa umanità è perduta sulla terra, la nostra azione individuale è perduta nell’umanità: come unificare lo sforzo universale? Come concentrare verso uno stesso scopo l’irradiarsi infinito della vita? Ogni opera è isolata: si tratta di un’infinità di microscopiche piramidi, di solitarie cristallizzazioni, di monumenti lillipuziani che non possono sovrapporsi in un tutto. L’uomo giusto e l’uomo ingiusto non pesano probabilmente uno più dell’altro sul globo terrestre che se ne va per la sua strada nell’etere. I moti particolari della loro volontà non possono ripercuotersi sull’insieme della natura più di quanto il battito d’ala di un uccello che vola sopra una nuvola sia in grado di rinfrescare la mia fronte. Il celebre ignorabimus si può trasformare in illudemur; l’umanità cammina avvolta nel velo inviolabile delle sue illusioni. Una seconda ragione che l’«indifferentismo» può opporre all’ottimismo è che il gran tutto, di cui non possiamo cambiare la direzione, non ha di per sé alcuna direzione morale. Assenza di fine, amoralità completa della natura, neutralità del meccanismo infinito. E in realtà lo sforzo universale non assomiglia affatto a un lavoro regolare con un proprio scopo; è già da molto tempo che Eraclito lo ha paragonato a un gioco; il gioco è quello dell’altalena che tanto fa divertire i bambini. Ogni essere fa da contrappeso a un altro. Il mio ruolo nell’universo è quello di paralizzare non so chi, di impedirgli di salire troppo in alto o di scendere troppo in basso. Nessuno di noi trascinerà il mondo la cui tranquillità è fatta della nostra agitazione. In fondo al meccanismo universale si può supporre una sorta di atomismo morale, la lotta tra un’infinità di egoismi. Potrebbero allora esserci nella natura altrettanti centri quanti sono gli atomi, altrettanti fini quanti sono gli in-
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dividui, o almeno altrettanti fini quante sono le collettività coscienti, le società, e quei fini potrebbero essere opposti; l’egoismo sarebbe allora la legge essenziale e universale della natura. In altri termini vi sarebbe coincidenza di ciò che noi chiamiamo la volontà immorale nell’uomo con la volontà normale di tutti gli esseri. Sarebbe forse questo lo scetticismo morale più profondo. Ogni individuo non sarebbe allora che una bolla di sapone e non varrebbe più di essa. La sola differenza fra l’io e il tu sarebbe che, nel primo caso, noi siamo dentro la bolla, nel secondo fuori; l’interesse personale non sarebbe che un punto di vista, il diritto ne sarebbe un altro; ma è naturale dare la preferenza al punto di vista in cui ci si trova piuttosto che a quello in cui non ci si trova. La mia bolla di sapone è la mia patria, perché dovrei romperla? L’amore di ogni essere determinato, in questa dottrina, sarebbe illusorio quanto lo può essere l’amore di sé. L’amore, razionalmente, non ha più valore dell’egoismo; infatti l’egoista si inganna sulla sua importanza, che esagera, l’amante o l’amico su quella dell’essere amato. Anche da questo punto di vista il bene e il male morale rimangono, per l’«indifferentista», cose del tutto umane, del tutto soggettive, senza rapporto fisso con l’insieme dell’universo. Forse non c’è nulla che offra all’occhio e al pensiero una rappresentazione del mondo più completa e più rattristante dell’oceano. È prima di tutto l’immagine della forza in ciò che ha di più selvaggio e di più indomito; è un dispiegamento, un lusso di potenza di cui nient’altro può dare l’idea; e tutto ciò vive, si agita e si tormenta eternamente senza scopo. Si direbbe talvolta che il mare è animato, che palpita e respira, che è un cuore immenso di cui si vede il sollevarsi possente e tumultuoso; ma l’aspetto desolante di ciò è che tutto quello sforzo, tutta quella vita ardente sono spesi in pura perdita; quel cuore della terra batte senza speranza; da tutto quell’urtare, da tutto quel cozzare delle onde non esce che un po’ di schiuma dispersa in goccioline dal vento. Ricordo che un giorno, seduto sulla sabbia, guardavo venire verso di me la massa mobile delle onde: arrivavano ininterrottamente dal fondo del mare bianche e mugghianti; sopra quella che moriva ai miei piedi ne scorgevo un’altra e più in là, dietro quella, un’altra, e ancora più lontano una moltitudine; insomma, fin dove la mia vista poteva arrivare vedevo tutto l’orizzonte alzarsi e muoversi verso di me: c’era lì un serbatoio di forze infinito, inesauribile; come sentivo l’impotenza dell’uomo ad arrestare lo sforzo di tutto quell’oceano in marcia! Una diga poteva infrangere uno di quei flutti, ne poteva in-
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frangere centinaia e migliaia; ma chi avrebbe avuto l’ultima parola se non l’immenso e infaticabile oceano? E io credevo di vedere in quella marea montante l’immagine dell’intera natura che assale l’umanità, la quale invano vuole dirigerne il corso, imbrigliarla, domarla. L’uomo lotta con coraggio, moltiplica i suoi sforzi, a tratti si crede vincitore; il fatto è che non guarda abbastanza lontano e non vede venire dal fondo dell’orizzonte le grandi onde che prima o poi distruggeranno la sua opera e travolgeranno anche lui. In questo universo, in cui i mondi ondeggiano come i flutti del mare, non siamo forse circondati e assaliti continuamente dalla moltitudine degli esseri? La vita ci turbina attorno, ci avvolge, ci sommerge: noi parliamo di immortalità e di eternità; ma eterno è soltanto ciò che è inesauribile, ciò che è abbastanza cieco e abbastanza ricco da dare sempre senza misura. Fa conoscenza con la morte colui che impara per la prima volta che le sue forze hanno un limite, che sente il bisogno di riposarsi, che lascia cadere le braccia dopo il lavoro. La sola natura è abbastanza infaticabile da essere eterna. Noi parliamo anche di un ideale; crediamo che la natura abbia uno scopo, che vada in qualche direzione; il fatto è che noi non la capiamo: la prendiamo per un fiume che scorre verso la sua foce e che un giorno vi giungerà, ma la natura è un oceano. Dare un fine alla natura vorrebbe dire limitarla, poiché un fine è un termine. Ciò che è immenso non ha un fine. Si è ripetuto spesso che «nulla esiste invano». Questo è vero nel particolare. Un chicco di grano è fatto per dare altri chicchi di grano. Noi non concepiamo un campo che non sia fertile. Ma la natura nel suo insieme non è costretta ad essere feconda: essa è il grande equilibrio tra la vita e la morte. Forse la sua più alta poesia viene dalla sua superba sterilità. Un campo di grano non vale l’oceano. L’oceano, per parte sua, non lavora, non produce, si agita; non dà vita, la contiene; o piuttosto la dà e la toglie con la stessa indifferenza: esso è il grande rollio eterno che culla gli esseri. Quando guardiamo i suoi abissi vi scorgiamo il formicolio della vita; non una sola delle sue gocce d’acqua è senza abitatori, e tutti si fanno la guerra gli uni con gli altri, si rincorrono, si evitano, si divorano; che cosa importa al tutto, che cosa importa all’oceano profondo di quei popoli che vengono portati alla ventura dai suoi flutti amari? Esso stesso ci offre lo spettacolo di una guerra, di una lotta senza tregua: le sue onde che si spezzano e delle quali la più forte ricopre e trascina la più debole, ci rappresentano in compendio la storia dei mondi, la storia della terra e dell’umanità. È, per così dire, l’universo diventato trasparente agli
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occhi. Questa tempesta delle acque non è che il seguito, la conseguenza della tempesta atmosferica: non è forse il fremito dei venti che si comunica al mare? A loro volta le onde aeree trovano la spiegazione dei loro moti nelle ondulazioni della luce e del calore. Se i nostri occhi potessero abbracciare l’immensità dell’etere noi non vedremmo dovunque che un urto assordante di onde, una lotta infinita perché senza ragione, una guerra di tutti contro tutti. Nulla che non sia travolto in questo vortice; la terra stessa, l’uomo, l’intelligenza umana non possono offrirci alcun punto fisso a cui sia possibile aggrapparci, tutto è trascinato via in ondulazioni più lente ma non meno irresistibili; anche qui regnano la guerra eterna e il diritto del più forte. Via via che rifletto mi sembra di vedere l’oceano che cresce intorno a me, che invade e trascina via tutto; mi sembra di non essere io stesso che uno dei suoi flutti, una delle gocce d’acqua dei suoi flutti; mi sembra che la terra sia scomparsa, che l’uomo sia scomparso e che non resti più nient’altro che la natura con le sue infinite ondulazioni, i suoi flussi e riflussi, i cambiamenti perpetui della sua superficie che ne nascondono la profonda e monotona uniformità. Fra le tre ipotesi, di una natura buona, di una natura cattiva e di una natura indifferente, come scegliere e decidere? È una chimera dare all’uomo come scopo quello di conformarsi alla natura. Questa natura noi non sappiamo cosa sia. Kant ha dunque avuto ragione di dire che non bisogna domandare alla metafisica dogmatica una legge certa di condotta.
Note 1 Cfr. queste idee riassunte in Ch. A. Vallier, De l’intention morale, Germer Baillière, Paris 1882. 2 [Spiriti maligni della tradizione bretone].
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La legge morale Morale della certezza pratica Morale della fede Morale del dubbio
Morale della certezza pratica La morale della certezza pratica è quella che ammette che noi siamo in possesso di una legge morale certa, assoluta, apodittica e imperativa. Alcuni si rappresentano questa legge come racchiudente una materia, un bene in sé che noi cogliamo per intuizione e il cui valore per la nostra ragione è superiore a tutto. Altri, con Kant, si rappresentano la legge come puramente formale e non racchiudente di per se stessa alcuna materia, alcun bene in sé, alcun fine determinato, ma solo un carattere di universalità che permette di distinguere i fini conformi o non conformi alla legge. Così, secondo gli intuizionisti, grazie a un’intuizione immediata noi cogliamo il valore e la dignità delle azioni, delle facoltà, delle virtù come la temperanza, il pudore, ecc.; secondo i kantiani, invece, il carattere morale di un’azione è provato solo quando si può generalizzare la massima di quest’azione e mostrare così la sua natura disinteressata. È soprattutto contro la prima concezione della certezza morale che vale il vecchio argomento scettico sulle contraddizioni dei giudizi morali, la loro relatività, la loro incertezza. Questo argomento ha un’influenza dissolutrice sulla concezione della legge stessa in quanto essa impone in modo assoluto questo o quell’atto, questa o quella virtù. È difficile rimanere fedeli ai riti di una religione assolutista quando questi riti cominciano a sembrarvi sommamente indifferenti e quando voi non credete più al dio particolare che essa adora. Il problema posto da Darwin sulla variabilità del dovere non cessa dunque di essere inquietante per chiunque ammetta un bene assoluto, imperativo, certo, universale: la formula del dovere cambierebbe totalmente per noi se fossimo i discendenti delle api? In ogni società ci sono dei lavori di diverso genere e che suppongono in generale una divisione del compito comune, delle corporazioni di mestiere; ora, da una corporazione all’altra i doveri possono benissimo cambiare e diventare strani come lo sarebbe la morale di uomini-api. Esistono, anche nella nostra at-
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tuale società, degli esseri neutri come in quella delle api e delle formiche; questi sono i monaci, la cui morale nel Medio Evo non era e non è forse ancora del tutto conforme a quella del resto della società. Sotto Carlo VII fu promulgato un atto che corrisponde alla soppressione dei maschi dopo la fecondazione: si sterminarono compagnie mercenarie che erano diventate inutili; si credeva di far bene. Sul pianeta Marte potrebbero esistere delle corporazioni di mestiere del tutto diverse dalle nostre con doveri reciproci del tutto contrari ai nostri, ma che si impongono mediante un obbligo formale altrettanto categorico. Anche sulla nostra terra noi vediamo talvolta prodursi un rovesciamento nella direzione della coscienza. Ci sono casi in cui l’individuo prova un sentimento di obbligo, rovesciato, a commettere atti normalmente ritenuti immorali. Citiamo, fra una moltitudine di esempi, quanto riportato da Darwin sulla concezione di alcuni doveri in Australia. Gli australiani attribuiscono la morte dei loro a un maleficio di qualche tribù vicina; così essi considerano come un obbligo sacro vendicare la morte di ogni parente andando a uccidere un membro delle tribù vicine. Il dottor Laudor, magistrato nell’Australia occidentale, racconta che un indigeno che lavorava nella sua fattoria perse una delle sue donne in seguito a una malattia; egli annunciò al dottore la sua intenzione di mettersi in viaggio per andare a uccidere una donna di una tribù lontana. «Gli risposi che se avesse commesso quell’atto lo avrei messo in prigione per tutta la vita». Egli dunque non partì e restò nella fattoria. Ma di mese in mese deperiva: il rimorso lo divorava; non poteva né mangiare né dormire; lo spirito della sua donna lo ossessionava, gli rimproverava la sua negligenza. Un giorno scomparve; in capo a un anno ritornò in perfetta salute: aveva compiuto il suo dovere. Vediamo dunque esteso fino ad atti cattivi o semplicemente istintivi un sentimento che è più o meno analogo all’obbligo morale. I ladri e gli assassini possono avere il senso del dovere professionale, gli animali possono provarlo vagamente. Il sentimento che si deve fare una cosa penetra in tutta la creazione tanto profondamente quanto vi penetrano la coscienza e il moto volontario. È noto ciò che accadde a A. de Musset nella sua giovinezza (si racconta la stessa cosa di Mérimée). Un giorno, dopo essere stato severamente sgridato per una marachella infantile, se ne andava in lacrime tutto contrito quando sentì i suoi genitori che dicevano dietro la porta chiusa: «Poverino, si sente proprio un delinquente!». Il pensiero che la sua colpa non aveva niente di serio e che il suo rimorso era una puerilità lo ferì nel profondo. Questo piccolo avvenimento si incise nella sua memoria per non uscirne mai più. La stessa cosa suc-
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cede oggi all’umanità; se essa immagina che il suo ideale morale è un ideale infantile variabile secondo il capriccio dei costumi, che la finalità e la materia di una folla di doveri sono puerili e superstiziose, essa sarà portata a sorridere di sé, a non mettere più nell’azione quella serietà senza la quale il dovere assoluto scompare. È una delle ragioni per cui il sentimento di obbligo ai nostri giorni perde il suo carattere sacro. Noi lo vediamo applicato a troppi oggetti, parlare a troppi esseri indegni (forse agli stessi animali). Questa variabilità degli oggetti del dovere prova l’errore di ogni morale intuizionista che pretende di essere in possesso assoluto di una materia immutabile del bene. Possiamo considerare questa morale, che un tempo fu adottata da V. Cousin, dagli scozzesi e dagli eclettici, come insostenibile allo stato attuale della scienza. Resta la morale formale e soggettiva dei kantiani, la quale non ammette di assoluto che l’imperativo e considera secondaria l’idea che ci si fa del suo oggetto e della sua applicazione. Contro una morale di questo genere ogni obiezione tratta dai fatti sembra perdere valore: non si può risponderle sempre distinguendo l’intenzione dall’atto? Se nella pratica l’atto è nocivo, l’intenzione poteva essere moralmente disinteressata, e ciò è tutto quello che richiede la morale di Kant. Soltanto si pone un nuovo problema: all’intenzione buona si collega un sentimento di obbligo veramente sovrasensibile e sovraintellettuale come lo vuole Kant? Il sentimento di obbligo, se lo si considera esclusivamente dal punto di vista della dinamica mentale, si riconduce al sentimento di una resistenza che l’essere prova ogni volta che vuole prendere questa o quella direzione. Questa resistenza, che è di natura sensibile, non può provenire dal nostro rapporto con una legge morale che per ipotesi fosse intellegibile e atemporale; essa proviene dal nostro rapporto con le leggi naturali ed empiriche. Il sentimento di obbligo non è dunque propriamente morale, è sensibile. Lo stesso Kant è costretto a riconoscere che il sentimento morale è, come ogni altro, patologico; solo egli crede che questo sentimento sia eccitato dalla sola forma della legge morale, facendo astrazione dalla sua materia; di qui risulta ai suoi occhi questo mistero che confessa: una legge intellegibile e sovrannaturale che però produce un sentimento patologico e naturale, il rispetto. «Ma è del tutto impossibile intendere, cioè far concepibile a priori, come uno schietto pensiero che non contiene in sé nulla di sensibile, produca una sensazione di piacere o dispiacere»; «... così a noi uomini è del tutto impossibile spiegare
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come e perché interessi noi la universalità della massima come di legge, e quindi la moralità»1. Vi sarebbe dunque qui un mistero; la proiezione della moralità nel campo della sensibilità sotto forma di sentimento morale sarebbe senza un possibile perché e tuttavia Kant afferma che essa è evidente a priori. «Non c’è da meravigliarsi, egli dice, di doversi contentare di questo, che si può ancora conoscere a priori, che un tale sentimento è indivisibilmente legato con la rappresentazione della legge morale in ogni essere razionale finito»2. La verità, crediamo, è che noi non vediamo realmente a priori alcuna ragione per collegare un piacere o un dolore sensibili a una legge che, per ipotesi, fosse soprasensibile ed eterogenea alla natura. Il sentimento morale non può spiegarsi razionalmente e a priori. D’altronde è impossibile cogliere nella coscienza umana il rispetto per una pura forma nel momento in cui si manifesta. Prima di tutto un dovere indeterminato e puramente formale non esiste: evidentemente noi non possiamo veder apparire il sentimento dell’obbligo se non quando c’è materia per il dovere e i kantiani stessi sono costretti a riconoscerlo. Il dovere dunque non è mai assunto nella coscienza se non come applicato a un contenuto da cui non lo si può scindere; non esiste dovere indipendentemente dalla cosa dovuta, dalla rappresentazione dell’azione. Ancor più, non esiste dovere se non verso qualcuno; i teologi avevano torto soltanto a metà quando rappresentavano il dovere come rivolto alla volontà divina: almeno si sentiva qualcuno dietro. Ora, in questa sintesi realmente indissolubile tra materia e forma il sentimento di obbligo si collega dunque soltanto alla forma? – In base all’esperienza noi crediamo che il sentimento di obbligo non sia legato alla rappresentazione della legge come legge formale, ma della legge in ragione della sua materia sensibile e del suo fine. La legge in quanto tale ha di afferrabile per il pensiero solo la sua universalità; ma a questo precetto: «agisci in modo tale che la tua massima possa diventare una legge universale» non si collegherà alcun sentimento di obbligo finché non sarà questione di vita sociale e delle propensioni profonde che essa risveglia in noi, finché noi non concepiremo l’universalità di qualcosa, di qualche fine, di qualche bene che sia oggetto di un sentimento. L’universale per l’universale non può produrre che una soddisfazione logica che è essa stessa ancora una soddisfazione dell’istinto logico nell’uomo, e questo istinto logico è una tendenza naturale, un’espressione della vita nel suo modo superiore, che è l’intelligenza, amica dell’ordine, della simmetria, della similitudine, dell’unità nella varietà, della legge e quindi dell’universalità.
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Si dirà che la forma universale ha essa stessa per ultimo contenuto la volontà, il volere puro? – La riduzione del dovere a una volontà della legge, che sarebbe ancora essa stessa una volontà puramente formale, lungi dal fondare la moralità, ci sembra produrre un effetto dissolvente su questa stessa volontà. Non si può volere un’azione in vista di una legge quando non si fonda questa legge sul valore pratico e logico dell’azione stessa. L’antica dottrina di Aristone, per esempio, non ammetteva alcuna differenza di valore, alcuna gradualità fra le cose; ma un essere umano non si rassegnerà mai a perseguire uno scopo dicendosi che questo scopo è in fondo indifferente e che la sua sola volontà di raggiungerlo ha un valore morale: questa volontà ben presto verrà meno e l’indifferenza passerà dagli oggetti alla stessa volontà. L’uomo ha costantemente bisogno di credere che c’è qualcosa di buono non solo nell’intenzione ma anche nell’azione. È demoralizzante la concezione di una moralità esclusivamente formale, distaccata da tutto; è il corrispettivo di quel lavoro che si fa compiere ai prigionieri nelle prigioni inglesi e che è senza scopo: girare una manovella tanto per girarla! Non ci si rassegna. Bisogna che l’intelligenza approvi l’imperativo e che il sentimento si colleghi al suo oggetto. Recentemente una ragazzina alla quale la madre aveva dato un soldo per fare delle compere è stata investita per strada. Non ha lasciato andare la moneta; riavendosi dallo svenimento, moribonda, ha riaperto la mano ben chiusa e ha teso alla madre la piccola moneta del cui modesto valore non si rendeva conto dicendole: «Non l’ho persa». Sublime innocenza infantile: per la piccola la vita aveva meno importanza di quella moneta che le era stata affidata. – Ebbene, qualunque sia il merito morale che uno stoico o un kantiano può ragionevolmente trovare in questo fatto, egli sarà assolutamente incapace di imitarlo. Al filosofo, consapevole del valore di un «obolo», mancherà la fede – forse non tanto nel proprio possibile merito quanto nel soldo. Bisogna dunque assolutamente, nel merito morale, trasfigurare ai propri occhi la materia dell’azione meritoria, attribuirle spesso un valore superiore al suo valore reale. È necessario un confronto non solo tra la volontà e la legge, ma tra lo sforzo morale e il valore del fine che esso persegue. – Se il merito stesso ci pare ancora buono, qualunque ne sia l’oggetto, ciò significa che noi vi vediamo una potenza capace di applicarsi a un oggetto superiore; vi vediamo un serbatoio di forza viva che è sempre prezioso anche quando questa forza può, nella fattispecie, essere mal impiegata. È dunque l’impiego possibile che approviamo nell’impiego attuale; ma è sempre l’impiego, non la forza
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per la forza, la volontà per la volontà. L’aquila, innalzandosi fino al sole, finisce per vedere tutte le cose livellarsi sulla terra; supponiamo di vedere, da un punto di osservazione piuttosto alto, livellarsi nell’universo tutte le nostre azioni: un gran numero di interessi e disinteressi umani ci apparirebbe allora ugualmente sciocco; il loro oggetto non ci sembrerebbe superiore alla moneta della bambina. Malgrado Zenone e Kant, noi non avremmo allora più il coraggio di volere e di meritare: non si vuole per volere e a vuoto. È dunque molto difficile ammettere che il dovere, variabile e incerto in tutte le sue applicazioni, rimanga certo e apodittico nella sua forma, nell’universalità per l’universalità o, se si preferisce, nella volontà per la volontà, nella volontà fine a se stessa. Il sentimento che si lega, secondo Kant, sia alla ragione pura, sia alla volontà pura, è l’interesse del tutto naturale che portiamo alle nostre facoltà o funzioni superiori, alla nostra vita intellettuale: non possiamo essere indifferenti all’esercizio razionale della nostra ragione che è, dopo tutto, un istinto più complesso, né all’esercizio della volontà che è, dopo tutto, una forza più ricca e una virtualità di effetti presentiti nella loro causa. È perché noi pensiamo ai diversi frutti dell’albero che l’albero è per noi prezioso; a meno che l’albero non ci sembri già di per sé bello; ma allora pare già esso stesso come una produzione, un’opera, un frutto vivo; soddisfa certe nostre tendenze, il nostro amore dell’«unità nella varietà», il nostro istinto estetico. Tutti questi elementi, il piacevole, l’utile, il bello si ritrovano nell’impressione prodotta dalla «ragione pura» o dalla «volontà pura». Se la purezza fosse spinta fino al vuoto ne risulterebbe l’indifferenza sensibile e intellettuale, ma non quello stato determinato dell’intelligenza e della sensibilità che si chiama affermazione di una legge e rispetto di una legge: non ci sarebbe più nulla a cui il nostro giudizio e il nostro sentimento potrebbero appigliarsi. Morale della fede Dopo il dogmatismo morale di Kant, per il quale la forma della legge è apoditticamente certa e pratica di per se stessa, troviamo un kantismo alterato che fa del dovere stesso un oggetto di fede morale, non più di certezza. Kant faceva cominciare la fede soltanto con i postulati che seguono l’affermazione certa del dovere; oggi si è fatta risalire la fede fino al dovere stesso. Se ai nostri giorni la fede religiosa propriamente detta tende a scomparire, essa è sostituita in un gran numero di spiriti da una fede morale. L’assoluto si è spostato, è passato dal campo della religione a quello dell’etica; ma anche qui
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non ha perduto nulla del potere che esercita sullo spirito umano. È rimasto capace di sollevare le masse, se ne è visto un esempio nella Rivoluzione francese; può provocare il più generoso entusiasmo; può anche produrre un certo tipo di fanatismo molto meno pericoloso del fanatismo religioso, ma che ha però i suoi inconvenienti. In fondo non vi è una differenza essenziale tra la fede morale e quella religiosa; esse si contengono reciprocamente; ma, malgrado il pregiudizio contrario ancora troppo diffuso ai nostri giorni, la fede morale ha un carattere più primitivo e più universale dell’altra. Se l’idea di dio ha mai avuto un valore metafisico e un’utilità pratica, è in quanto essa sembrava unire la forza e la giustizia; in fondo nell’affermazione riflessa della divinità era contenuta l’affermazione seguente: la forza suprema è la forza morale. Se noi non adoriamo più gli dei dei nostri avi, Giove, Geova, lo stesso Gesù, è fra l’altro perché ci consideriamo sotto parecchi aspetti moralmente al di sopra di essi; noi giudichiamo i nostri dei e, negandoli, non facciamo spesso altro che condannarli moralmente. L’irreligione che sembra dominare ai nostri giorni è dunque, sotto molti riguardi, il trionfo, almeno provvisorio, di una religione più degna di questo nome, di una fede più pura. Diventando esclusivamente morale la fede non si altera; al contrario si spoglia di ogni elemento estraneo. Le vecchie religioni non solo facevano appello alla credenza interiore ma invocavano la paura, l’evidenza ingannevole del miracolo e della rivelazione; pretendevano di basarsi su qualcosa di positivo, di sensibile, di grossolano. Tutti questi modi di accattivarsi la fiducia – «piper la confiance», come direbbe Montaigne – sono ora diventati inutili. Tutto si semplifica. Questa formula che ha avuto tanta influenza nel mondo, «è un dovere credere al proprio dio», si risolve in quest’altra che essa presupponeva: «è un dovere credere al dovere». L’espressione semplice e definitiva della fede è così trovata e nello stesso tempo è fondata una nuova religione. Poiché i templi hanno perso i loro idoli la fede si rifugia nel «santuario della coscienza». Il grande Pan, Dio-natura, è morto; Gesù, Dio-umanità, è morto; resta il dio interiore e ideale, il Dovere, che è forse anche lui destinato a morire un giorno. Se cerchiamo di analizzare questa fede nel dovere, così come si produce nei discepoli di Kant e anche in quelli di Jouffroy, vi notiamo parecchie affermazioni diverse, per quanto legate l’una all’altra, che si ritrovano d’altronde in ogni tipo di fede e formano i caratteri distintivi della religione rispetto alla scienza: 1) affermazione piena e intera di una cosa che non è suscettibile di prova positiva (il dovere, con la libertà morale per principio e con tutte le sue
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conseguenze); 2) altra affermazione che corrobora la prima, ossia che è moralmente meglio credere a questa cosa piuttosto che a un’altra o piuttosto che non credere affatto; 3) nuova affermazione con la quale si pone la propria credenza al di sopra della discussione, perché sarebbe immorale esitare un istante tra ciò che è meglio e ciò che è meno bene. Nello stesso tempo si dichiara la propria credenza immutabile perché è al di sopra di ogni discussione. La fede morale così definita riposa su questo postulato: ci sono dei principi che bisogna affermare non perché sono logicamente dimostrati o materialmente evidenti, ma perché sono moralmente buoni; in altri termini, il bene è un criterio di verità oggettiva. Questo è il postulato che contiene in fondo la morale dei neo-kantiani come Renouvier e Secrétan. Per giustificare questo postulato si fa notare che la caratteristica del bene è di apparire inviolabile, non solo all’azione ma al pensiero stesso; non è un’ingiustizia non solo fare il male ma anche pensarlo? Ora, si pensa al male nel momento in cui si dubita del bene. Bisogna dunque credere al bene più che a tutto il resto, non perché è più evidente di tutto il resto, ma perché non crederci sarebbe commettere una cattiva azione. Fra una proposizione semplicemente logica e il suo contrario c’è sempre un’alternativa che si pone: lo spirito resta libero fra le due e sceglie; qui l’alternativa è soppressa; la scelta non sarebbe altro che un errore: il vero non può più essere cercato indifferentemente dalle due parti. Ogni problema scompare perché un problema implicherebbe soluzioni multiple che richiedono una verifica; ora, non si verifica il dovere; vi sono interrogativi che non devono essere rivolti nemmeno a se stessi, vi sono questioni che non devono essere sollevate. Che cosa diventano, ad esempio, in presenza della fede nel dovere assoluto, le dottrine dei moralisti utilitaristi, degli evoluzionisti, dei seguaci di Darwin? Esse vengono respinte con tutta l’energia possibile senza essere talvolta neppure esaminate seriamente. La coscienza morale è sempre della partita; essa rappresenta nell’anima umana il partito ciecamente conservatore. Un credente convinto non vorrà mai fare a se stesso questa domanda: il dovere è solo una generalizzazione empirica? Gli sembrerebbe in questo modo di mettere in dubbio la sua «coscienza di uomo onesto»; fin dall’inizio egli dichiarerà la scienza impotente a trattare questo problema. Lo spirito scientifico, che è sempre pronto a esaminare il pro e il contro, che vede dovunque una duplice via, una duplice possibilità per il pensiero, deve dunque far posto per il credente a uno spirito completamente diverso: per lui il dovere è sacro in sé e comanda con tale forza
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che il pensatore stesso, posto di fronte ad esso, non può far altro che ubbidire. La fede nel dovere si colloca dunque, ancora una volta, al di sopra della regione in cui si muove la scienza e in cui si muove la stessa natura; colui che crede al dovere è sempre come lo cantava Orazio: Impavidum ferient ruinae. La fede morale sarebbe così salvaguardata dalla sua stessa essenza, che è di obbligare l’individuo a cedere davanti a lei. La fede nel dovere, quando è attaccata, cerca comunque di reggersi su diversi motivi: gli spiriti più superficiali invocano una specie di evidenza interiore, altri un dovere morale, altri ancora una necessità sociale. 1) C’è prima di tutto l’evidenza interiore, l’«oracolo» della coscienza che non ammette replica né esitazione; noi sentiamo il dovere parlare dentro di noi come una voce; crediamo al dovere come a qualcosa che vive e palpita in noi, come a una parte di noi stessi, ancor più, come a ciò che c’è in noi di migliore. Gli scozzesi e gli eclettici avevano tentato ancora pochi anni or sono di fondare una filosofia sul senso comune, cioè in fondo sul pregiudizio. Questa filosofia di apparenze è stata energicamente combattuta dai neo-kantiani; eppure tutto il loro sistema si basa anch’esso su di un semplice fatto di senso comune, sulla semplice credenza che l’impulso chiamato dovere sia di un altro ordine rispetto a tutti gli altri impulsi naturali. Queste frasi che ritornano così frequentemente in Cousin e nei suoi discepoli e che oggi ci fanno un po’ sorridere: «la coscienza proclama», «l’evidenza dimostra», «il buon senso vuole», sono davvero molto meno probanti in se stesse e nella loro generalità di altre come «il dovere comanda», «la legge morale esige», ecc.? Questa evidenza interiore del dovere non prova nulla. L’evidenza è uno stato soggettivo di cui ci si può spesso rendere conto con ragioni ugualmente soggettive. La verità non è solo ciò che si sente o ciò che si vede, è ciò che si spiega, ciò che si ricollega. La verità è una sintesi: è quello che la distingue dalla sensazione, dal fatto nudo e crudo; è un fascio di fatti. Essa non trae la sua evidenza e la sua prova da un semplice stato di coscienza, ma dall’insieme dei fenomeni che si collegano e si sostengono l’un l’altro. Una pietra non fa una volta, né due pietre né tre; servono tutte; bisogna che si appoggino una sull’altra; e anche ultimata la volta, toglietene qualche pietra e tutto crollerà: la verità è così; consiste in una solidarietà di tutte le cose. Non basta che una cosa sia evidente, bisogna che possa essere spiegata per acquistare un carattere veramente scientifico. 2) Quanto al «dovere di credere al dovere» è una pura tautologia e un circolo vizioso. Si potrebbe anche dire: è religioso credere alla religione, morale
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credere alla morale, ecc.... D’accordo, ma cosa s’intende per dovere, per morale, per religione? Tutto ciò è vero, cioè, tutto ciò corrisponde a una realtà? Ecco il problema, e bisogna esaminarlo se non si vuole rischiare di girare eternamente a vuoto. Quando io credo che sia la mia libertà sovrana ed autonoma a comandarmi questa o quell’azione, se invece fossero l’istinto ereditario, l’abitudine, l’educazione, che cosa diventerebbe allora il cosiddetto dovere? Non sono dunque, secondo l’osservazione di Darwin, che un cane da muta che caccia la selvaggina invece di bloccarla? Il mio dovere, al quale annetto tanta importanza, non ne ha dunque di più, fatte salve le debite proporzioni, di quanta ne abbia quello del cane di riportare la selvaggina o di dare la zampa? Potete essere indifferenti alle analisi che la scienza fa dell’oggetto al quale si rivolge la vostra fede? Forse la scienza fa fatica a fondare per conto suo un’etica nel senso stretto della parola, ma può distruggere ogni fede morale che si creda certa e assoluta. Insufficiente talvolta per edificare, essa possiede una forza dissolutrice incalcolabile. I fautori della fede morale non avrebbero ancora provato la loro tesi nemmeno se riuscissero a dimostrare che la loro etica è la più completa, quella che meglio risponde a tutti gli interrogativi dell’agente morale, quella che ha meno da temere dalle eccezioni, dalle sottigliezze della casistica, quella che può spingere l’agente morale a testa bassa nella devozione più assoluta. Quando i fautori della fede morale avessero dimostrato tutto ciò, non avrebbero ancora fatto nulla e non avrebbero fatto niente di più dei seguaci di una qualunque religione che potessero dimostrare che la loro è la migliore; gli apologisti che difendono un sistema particolare di morale o di religione non hanno dimostrato mai nulla perché vi è sempre un problema che essi dimenticano, quello cioè di sapere se c’è una religione che sia vera o una morale che sia vera. Storicamente ogni fede – a qualunque oggetto si applichi – è sempre parsa obbligatoria a colui che la possedeva. Il fatto è che la fede indica una certa direzione abituale dello spirito e si prova una certa resistenza quando si vuole cambiare bruscamente questa direzione. La fede è un’abitudine acquisita e una sorta di istinto intellettuale che pesa su di noi, ci costringe e, in un certo senso, produce un senso di obbligo. Ma la fede non può avere alcuna efficacia obbligante su colui che non la possiede ancora: non si può essere obbligati ad affermare ciò che non si sa e non si crede. Il dovere di credere non esiste dunque che per quelli che già credono: in altre parole la fede, quando è data, dà essa stessa, come ogni abitu-
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dine potente e radicata, il sentimento di obbligo che sembra esserle legato; ma l’obbligo non precede la fede, non la comanda, almeno razionalmente parlando. Non si può mai comandare alla ragione se non in nome di una scienza o di una credenza già formata; credere al di fuori di ciò che si sa non può dunque mai avere nulla di obbligatorio. D’altra parte un semplice dubbio sarebbe sufficiente per liberare da un obbligo che provenisse solo dalla fede. E questo dubbio, una volta cosciente di sé, creerebbe un dovere, quello della coerenza con se stesso, quello di non decidere alla cieca un problema incerto, di non chiudere una questione aperta, di modo che al «dovere di credere al dovere», immaginato da colui che ha la fede, si può opporre il dovere di dubitare del dovere, che si impone a colui che nega. Il dubbio obbliga, se si può dire che la fede obbliga. 3) Si è anche tentato di motivare la fede con la necessità sociale, motivo molto esteriore: io credo al dovere perché senza il dovere la società non potrebbe sussistere. È lo stesso argomento di cui si servono coloro che vanno a messa perché una religione è necessaria al popolo e bisogna dare il buon esempio. C’è in fondo alla fede così concepita un certo scetticismo. Un marito che ha dei sospetti preferisce non approfondirli, preferisce la tranquillità dell’abitudine alla possibile angoscia della verità. Così talvolta agiamo noi con la natura: preferiamo lasciarci ingannare da essa e seguirla; le chiediamo la pace morale prima che la verità. Ma la verità si apre sempre una strada in noi; si può applicare ad essa ciò che Cristo diceva di se stesso: «Sono venuto a portare la guerra nelle anime». Questo semiscetticismo della fede provoca e giustifica le obiezioni di uno scetticismo più completo e più logico. Necessità generalmente non è verità, diranno gli scettici; una necessità interiore può essere un’illusione necessaria, a maggior ragione lo è una necessità sociale. La morale pratica può essere fondata su un sistema di errori utili che la morale teorica spiega e raddrizza. Così l’ottica spiega matematicamente delle illusioni che ogni giorno la pittura, l’architettura e le altre arti sfruttano. L’arte è in parte fondata sull’errore, lo utilizza come un elemento indispensabile: arte e artificio sono tutt’uno. L’arte costituisce un termine medio fra il soggettivo e il reale; essa opera con metodi scientifici a produrre l’illusione, si serve della verità per ingannare e affascinare contemporaneamente; lo spirito impiega tutte le sue astuzie per attirare gli sguardi. Chi ci dice che la moralità non è allo stesso modo un’arte contem-
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poraneamente bella e utile? Forse anch’essa ci affascina mentre ci inganna. Il dovere può essere solo un gioco di colori interiori. Nei quadri di Claude Lorrain ci sono delle prospettive lontane, delle lunghe fughe fra gli alberi che danno l’idea di un infinito reale, un infinito di pochi centimetri quadrati. In noi stessi vi sono prospettive analoghe che possono essere solo apparenti. Quanto alla vita sociale essa si basa in gran parte sull’artificio; e per artificio non intendiamo qualcosa di opposto alla natura. Al contrario; niente si prende gioco di noi meglio della natura. In essa risiede la grande arte, cioè il grande raggiro, la cospirazione innocente di tutti contro uno. I rapporti reciproci fra gli esseri sono una serie di illusioni: gli occhi ci ingannano, le orecchie ci ingannano; perché il cuore dovrebbe essere il solo a non ingannarci? La morale, che cerca di formulare i rapporti più vari e più complessi che esistono fra esseri della natura, è forse anch’essa fondata sul maggior numero di errori. Molte credenze che la storia ci riporta e che hanno ispirato atti di abnegazione sono paragonabili a quei magnifici mausolei innalzati in onore di un nome: quando si aprono quelle tombe non si trova niente; sono vuote, ma la loro bellezza serve da sola a giustificarli e passando ci si inchina di fronte ad essi. Non ci si chiede se il morto sconosciuto valeva questi onori; si pensa che era amato e questo amore è il vero oggetto del nostro rispetto. Così accade degli eroi, ai quali la fede fece spesso compiere grandi azioni per piccole cause. Sono dei prodighi sublimi; quelle prodigalità sono state sicuramente uno degli elementi indispensabili del progresso. La necessità sociale della morale e della fede, aggiungeranno gli scettici, può essere solo provvisoria. Ci fu un tempo in cui la religione era assolutamente necessaria: essa non lo è più, almeno per un grandissimo numero di uomini. Dio è diventato e diventerà sempre più inutile. Chissà se accadrà lo stesso dell’imperativo categorico? Le prime religioni furono imperative, dispotiche, dure, inflessibili; erano discipline ferree; Dio era un capo violento e crudele che domava i suoi sudditi col ferro e col fuoco: davanti a lui ci si piegava, si tremava. Ora le religioni si addolciscono; chi crede davvero all’inferno ai giorni nostri? È un logoro spauracchio. Nello stesso modo si addolciscono le diverse morali. Lo stesso disinteresse non avrà forse sempre il carattere di necessità sociale che sembra avere oggi. Lo si è notato già da molto tempo, esistono illusioni provvisoriamente utili, superstizioni liberatrici. Se Decio non fosse stato superstizioso quanto i suoi soldati, se Codro fosse stato un libero pensatore, Atene e Roma sarebbero state probabilmente vinte. Le religioni,
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che per il filosofo non sono altro che un insieme di superstizioni organizzate e sistematizzate, sono fatte anch’esse per un tempo, per un’epoca: i loro dei non sono altro che le forme diverse di quella divinità greca, il Kairovı, l’utilità di un momento. L’umanità ha bisogno di adorare qualcosa, poi di bruciare ciò che ha adorato. Ora gli spiriti più elevati fra noi adorano il dovere; quest’ultimo culto, quest’ultima superstizione, non se ne andrà come le altre? L’idolo di bronzo al quale i Cartaginesi sacrificavano i loro figli è per noi oggetto di orrore; forse noi abbiamo conservato nel nostro cuore qualche idolo di bronzo al cui potere sfuggiranno i nostri discendenti. Già il diritto è stato guardato con sospetto dal nostro secolo; i socialisti hanno sostenuto che non esisteva diritto contro la pietà, e non si può ai giorni nostri mantenere il diritto se non a condizione di dargli una nuova estensione e di confonderlo quasi con il principio della fraternità. Forse, per un’evoluzione contraria, il dovere deve trasformarsi e confondersi sempre più con lo sviluppo regolare e normale dell’io. Non concepiamo noi ancora il dovere ad immagine della nostra società imperfetta? Ce lo figuriamo sporco di sangue e di lacrime. Questa nozione ancora barbara, necessaria ai giorni nostri, è forse destinata a scomparire. Il dovere corrisponderebbe allora ad un’epoca di transizione. Tali sono i dubbi che uno scetticismo integrale può opporre a questo mezzo scetticismo nascosto sotto la fede che invoca le necessità sociali. La questione resta sospesa e la fede non può uscirne che per una sorta di scommessa. Infatti la dottrina della fede morale, del dovere liberamente accettato dalla volontà, dell’incertezza troncata da un colpo di energia interiore, ricorda, come si è detto, la scommessa di Pascal. Solo che questa scommessa non può più avere delle motivazioni come quelle di Pascal. Oggi noi siamo certi che Dio, se esiste, non è l’essere vendicativo e crudele che Port-Royal immaginava; la sua esistenza sarebbe necessariamente per me un vantaggio e io me la auguro di tutto cuore, pur scommettendoci contro; per quanto improbabile ai miei occhi, essa resta infinitamente desiderabile: non è però una ragione per sacrificarle tutta la mia vita. A lungo si è accusato il dubbio di immoralità, ma nello stesso modo si potrebbe sostenere l’immoralità della fede dogmatica. Credere è affermare come reale per me ciò che io concepisco semplicemente come possibile in sé, talvolta addirittura come impossibile; è dunque voler fondare una verità artificiale, una verità di apparenza, è al tempo stesso chiudersi alla verità oggettiva che si respinge in anticipo senza conoscerla. La più grande nemica del progresso
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umano è la questione preliminare. Respingere non le soluzioni più o meno dubbie che ognuno può portare, ma i problemi stessi significa arrestare di colpo il movimento in avanti; la fede da questo punto di vista diventa una pigrizia di spirito. Persino l’indifferenza è spesso superiore alla fede dogmatica. L’indifferente dice: «non ci tengo a sapere», ma aggiunge: «non voglio credere»; il credente invece vuole credere senza sapere. Il primo almeno resta perfettamente sincero verso se stesso, mentre l’altro tenta di illudersi. Su qualunque questione il dubbio è dunque sempre migliore di quell’affermazione senza ritorno, di quella rinuncia a ogni iniziativa personale che chiamiamo fede. Questa sorta di suicidio intellettuale non è scusabile e ancora più strana è la pretesa di giustificarlo, come si fa di solito, invocando delle ragioni morali. La morale deve comandare allo spirito di cercare senza tregua, cioè proprio di guardarsi dalla fede. – «Dignità di credere!» – voi ripetete. L’uomo ha troppo spesso, lungo tutta la storia, posto la propria dignità negli errori e la verità gli è sembrata inizialmente una diminuzione di se stesso. La verità non vale sempre il sogno, ma ha dalla sua parte il fatto di essere vera: nell’ambito del pensiero non vi è nulla di più morale della verità; e quando non la si possiede in forma scientificamente certa non vi è nulla di più morale del dubbio. Il dubbio è la dignità del pensiero. Bisogna dunque scacciare da noi stessi il rispetto cieco per certi principi, per certe credenze; bisogna poter mettere tutto in questione, scrutare, penetrare tutto: l’intelligenza non deve abbassare gli occhi nemmeno davanti a ciò che adora. Su una tomba di Ginevra si legge questa iscrizione: «La verità ha una fronte di bronzo e quelli che l’avranno amata saranno sfrontati quanto lei». Ma, si dirà, se è irrazionale affermare nel proprio pensiero come vero ciò che è dubbio, bisogna pure però talvolta affermarlo nell’azione. – D’accordo, ma è sempre una situazione provvisoria e un’affermazione condizionale: faccio ciò, supponendo che sia il mio dovere, che io abbia addirittura un dovere assoluto. Mille azioni di questo tipo non possono stabilire una verità. La folla dei martiri ha fatto trionfare il cristianesimo, un piccolo ragionamento può bastare a rovesciarlo. Quanto ci guadagnerebbe l’umanità d’altronde se tutti i sacrifici avessero come scopo la scienza e non la fede, se si morisse non per difendere una credenza ma per scoprire una verità, per quanto minima! Così fecero Empedocle e Plinio e ai nostri giorni tanti scienziati, medici ed esploratori: quante esistenze perdute in passato per affermare oggetti di falsa fede che avrebbero potuto essere utilizzate per l’umanità e la scienza!
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Morale del dubbio Abbiamo visto la certezza del dovere, come l’ammetteva Kant, risolversi in fede, anche nei discepoli di Kant, e la fede stessa risolversi in un dubbio che non si vuole confessare. Ebbene, resta una terza posizione dello spirito, questa volta assolutamente sincera con sé e con gli altri: essa consiste nel sostituire la morale della certezza e la morale della fede con la morale del dubbio, nel fondare in parte la moralità sulla coscienza stessa della nostra ignoranza metafisica, unita a tutto ciò che sappiamo di scienza positiva. Questa situazione di spirito è stata recentemente analizzata e proposta come la migliore3. L’autore dell’Idée moderne du droit e della Critique des systèmes de morale contemporains ha cercato di riunire in una sintesi i risultati legittimi della filosofia evoluzionista e della filosofia critica. Il suo punto di partenza sperimentale, che nessuna dottrina può negare, è il fatto che noi abbiamo coscienza. Questo fatto, ben interpretato, è secondo lui il primo fondamento del diritto e del dovere di giustizia. Qual è effettivamente l’oggetto della coscienza nel senso più ampio del termine, e quale ne è il limite? – Essa si pensa, pensa le altre coscienze, pensa il mondo intero; e dunque ha al tempo stesso «un carattere individuale e una portata universale»; essa non si pone che ponendo davanti a sé altre coscienze simili a se stessa; non si coglie che in società con altri. Per ciò stesso la coscienza «comprende la sua limitazione, la sua relatività in quanto mezzo di conoscenza» perché non può spiegarsi in modo completo «né la propria natura come soggetto pensante, né la natura dell’oggetto che essa pensa, né il passaggio dal soggettivo all’oggettivo». Di qui il principio della relatività delle conoscenze che ha una portata morale fino ad oggi misconosciuta. «Un vero positivista, come un vero criticista e un vero scettico, deve mantenere in fondo al proprio pensiero un chissà e un forse... Non deve affermare l’adeguamento del cervello alla realtà, l’adeguamento della scienza alla realtà, ma solo alla realtà da noi conoscibile. L’esperienza stessa ci insegna che il nostro cervello non è fatto in modo da rappresentare sempre tutte le cose come sono indipendentemente da lui... Da un lato dunque l’oggetto sentito o pensato non è concepito come interamente penetrabile dalla scienza, penetrabile dal soggetto senziente e pensante. Dall’altro, il soggetto non è forse a sua volta interamente penetrabile per se stesso». Questo principio della relatività di tutte le conoscenze costruite con i dati della nostra coscienza è la condizione preliminare del diritto come del dovere di giu-
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stizia. In effetti un tale principio è prima di tutto «limitativo e restrittivo dell’egoismo teorico», che è il dogmatismo intollerante; in più è «restrittivo dell’egoismo pratico», che è l’ingiustizia. «Fare del proprio egoismo e del proprio io un assoluto significa dogmatizzare nell’azione come nel pensiero, significa agire come se si possedesse la formula assoluta dell’essere, cioè: – il mondo meccanicamente conoscibile è tutto, la forza è tutto, l’interesse è tutto. – L’ingiustizia è dunque una forma di assolutismo in azione dannosa per gli altri... Resteranno sempre cose inspiegabili meccanicamente, se non altro lo stesso moto e la sensazione, elemento della coscienza. Unita a tutte le altre considerazioni, l’idea di questo qualcosa di irriducibile che costituisce la nostra coscienza, restringendo la nostra conoscenza sensibile, ci impone anche razionalmente la restrizione dei nostri moventi sensibili, e ciò in relazione agli altri, in relazione al tutto. Il solipsismo, come dicono gli inglesi, è inammissibile in morale come in metafisica, benché sia forse logicamente irrefutabile in entrambe le sfere». Questa dottrina, lo si riconoscerà, racchiude una gran parte di verità. Bisogna soltanto rendersi conto del punto esatto a cui questa morale ci conduce e anche di quello in cui ci lascia. Essa costituisce uno sforzo per fondare proprio sul dubbio, o almeno sulla relatività delle conoscenze umane, un primo equivalente dell’obbligo e per far scaturire da un certo scetticismo metafisico l’affermazione della giustizia morale. In primo luogo si può accettare che la formula pratica del dubbio sia effettivamente l’abstine; ma non è solo dall’ingiustizia che il dubbio completo dovrebbe astenersi, è dall’azione in generale. Ogni azione è un’affermazione; è anche una sorta di scelta, di elezione; agendo, io colgo sempre qualcosa in mezzo alla nebbia metafisica, alla grande nube che avvolge il mondo e me stesso. Il perfetto equilibrio del dubbio è dunque uno stato più ideale che reale, un momento di transizione quasi inafferrabile. Se c’è vera moralità solo dove c’è azione, e se astenersi è ancora agire, ciò significa uscire dall’equilibrio. Così nella maggior parte dei casi concreti il dubbio metafisico non è un dubbio vero e intero, un’equivalenza perfetta creata nello spirito da diverse possibilità che si controbilanciano: esso avvolge il più delle volte una credenza vaga che ignora se stessa, o almeno, come riconosce Fouillée, una o più ipotesi; da qui deriva la sua possibile influenza pratica. L’uomo, posto fra le diverse ipotesi sul mondo, ha sempre qualche preferenza istintiva per qualcuna di esse; non resta sospeso nella ejpochv pirroniana; sceglie secondo le sue abitudini mentali, che variano da un
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individuo all’altro, secondo le sue credenze e le sue speranze, non secondo i suoi dubbi. Ma, si dirà, in ogni dubbio sincero c’è un elemento preciso e stabile: è la coscienza della nostra ignoranza sul fondo delle cose; è la concezione di una realtà semplicemente possibile che supererebbe il nostro pensiero, concezione del tutto negativa e limitativa che ha nondimeno un’importanza sovrana per restringere il nostro «orgoglio intellettuale». – Sì, ma la questione è di sapere se questa concezione ha la stessa importanza per limitare la nostra condotta. Notiamo prima di tutto che essa non sarebbe in grado di produrre un imperativo ed è quel che ha mostrato l’autore stesso della teoria che esaminiamo. Ciò che è in se stesso indeterminabile non può determinare e regolare la condotta con una legge che comanda: un ordine e una regola sono una determinazione. L’inconoscibile non può nemmeno limitare la condotta in modo categorico; un principio limitativo in quanto tale non può avere un carattere assoluto, a meno che non si presupponga che vi sia un assoluto dietro il limite. Ma andiamo avanti. Il dubbio sull’inconoscibile, di per sé e in quanto semplice sospensione del giudizio, potrebbe in qualche modo limitare la condotta? – Un limite non può, sembra, avere un’azione pratica su di noi finché ci muoviamo al suo interno; ora, noi non possiamo muoverci al di fuori dei fenomeni. Il vetro di un vaso non ha un effetto direttivo sulla condotta di un pesce finché esso non va a urtare contro le sue pareti. L’avvenire stesso agisce su di me solo in due modi: 1) in quanto nel mio pensiero me lo figuro per pura supposizione; 2) in quanto con i miei atti lo produco o contribuisco a produrlo o credo di produrlo. Finché l’avvenire non è rappresentato in una forma o nell’altra nella mia immaginazione esso mi resta estraneo, non può modificare in nulla la mia condotta. Perché l’inconoscibile abbia un effetto positivo e determinato sulla condotta, bisogna anche – crediamo, e anche Fouillée indubbiamente lo ammette – che non solo sia concepito come possibile, ma che sia rappresentato in una forma o nell’altra nel suo rapporto con il mio atto e sotto forme che non si contraddicano e non si distruggano a vicenda. Bisogna ancora che io immagini di poter esercitare un’azione qualunque su di esso o sulla sua realizzazione, in una parola bisogna che diventi, come dice Fouillée, un «ideale» più o meno determinabile per me, più o meno realizzabile per me, un avvenire. L’idea di una regola morale, anche restrittiva, suppone dunque come principio positivo non già la semplice concezione della possibilità dell’inconoscibile, bensì una rappresentazione della sua natura, una determinazione im-
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maginaria di questa natura e infine la credenza in un’azione possibile della volontà su di esso o sulla sua realizzazione futura4. E una volta ben stabilito che si tratta solo di ipotesi, la moralità, ivi compresi la giustizia stessa e il diritto, appare come metafisicamente ipotetica, se si fa astrazione dalle considerazioni tratte dalla scienza positiva, dalla dottrina dell’evoluzione, dalla teoria della felicità, dell’utilità, ecc. La teoria del dubbio come limite dell’egoismo corrisponde ad un punto, diciamo così, senza spessore, che il pensiero e l’azione attraversano senza fermarvisi. Era importante certo determinare questo punto e riservare un posto nella morale alla nostra ignoranza certa, al nostro dubbio certo e, per così dire, alla certezza della nostra incertezza; è quel che ha fatto Fouillée. In attesa che egli abbia sviluppato la parte positiva della sua dottrina, gli si può riconoscere di aver ridotto logicamente l’idea dell’imperativo al suo vero valore. Kant, lo abbiamo detto, vi vedeva una certezza, i suoi discepoli vi hanno visto un oggetto di fede; eccolo ricondotto ora ad una formula del nostro dubbio, ad una limitazione della nostra condotta resa possibile da una limitazione del nostro pensiero. Dopo essere stato un ordine imperativo, l’inconoscibile non è ora altro che un’interrogazione. Questa interrogazione si pone per ciascuno di noi; ma la risposta che ognuno di noi può dare è variabile secondo gli individui e lasciata alla loro iniziativa. Ricordiamo la tavola di salvezza di cui parla Cicerone, sulla quale un uomo si issa per salvarsi. Il dubbio metafisico, da solo, varrebbe ben poco ad impedirmi di fare, potendo, come quell’uomo. L’inconoscibile, in mezzo al quale viviamo e respiriamo, e che ci avvolge, per così dire, intellettualmente, assomiglia alquanto allo spazio vuoto che ci contiene fisicamente; ora, lo spazio vuoto è per noi l’assoluta libertà di direzione. Non può agire su di noi e regolare i nostri passi se non per mezzo dei corpi che contiene e che i sensi ci rivelano. Per chi ritiene il fondo delle cose inaccessibile al nostro pensiero sarà sempre dubbio che esso sia accessibile alla nostra azione. Ciò che è supremamente inconoscibile può dunque, senza che vi sia contraddizione, restare rispetto alla nostra volontà supremamente indifferente finché resterà per la nostra intelligenza un semplice oggetto di dubbio e di sospensione del giudizio. La teoria abbozzata nella Critique des systèmes de morale diventerà sufficientemente chiara e feconda solo quando il suo autore sarà riuscito a trarre, come ne ha l’intenzione, una regola restrittiva e soprattutto un «ideale persuasivo» non dai nostri dubbi sull’inconoscibile, semplice «condizione preli-
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minare» della moralità, ma dalla nostra conoscenza stessa e «dal fondo conosciuto della coscienza umana». Bisognerebbe potere, secondo le sue parole, rendere l’ideale morale «immanente» e mostrare che deriva dall’esperienza stessa. È d’altronde ciò che tenta già di fare in una delle pagine importanti della sua opera5. Esiste, secondo lui, nella costituzione stessa dell’intelligenza, una sorta di altruismo che spiega e giustifica l’altruismo della condotta. C’è, dice, un «altruismo intellettuale, un disinteresse intellettuale, il quale fa sì che noi possiamo pensare gli altri, metterci al loro posto, trasporci in loro con il pensiero. La coscienza, proiettandosi così negli altri esseri e nel tutto, si collega agli altri e al tutto con un’idea che è al tempo stesso una forza.» Noi crediamo, effettivamente, che esista una specie di «altruismo intellettuale»; solo che secondo noi questo disinteresse dell’intelligenza è solo uno degli aspetti dell’altruismo morale, invece di esserne il principio. Per concepire le altre coscienze, per mettersi al loro posto ed entrare, per così dire in loro, bisogna prima di tutto simpatizzare con esse: la simpatia delle sensibilità è il germe dell’estensione delle coscienze. Comprendere, in fondo è sentire; comprendere gli altri è sentirsi in armonia con gli altri. Questa comunicabilità delle emozioni e dei pensieri, che per il suo lato fisiologico è un fenomeno di contagio nervoso, si spiega in gran parte, lo vedremo, con la fecondità della vita, la cui espansione è quasi in ragione diretta della sua stessa intensità. È alla vita che chiederemo il principio della moralità. Note [I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di A. Vigorelli, trad. it. di P. Carabellese, Bruno Mondadori, Milano 1995, p. 127]. 2 [I. Kant, Critique de la raison pratique, trad. Barni, p. 121; cfr. pp. 258, 252, 256, 248, 251, 374. [ed. it.: Critica della ragion pratica, tr. di F. Capra riveduta da E. Garin, Laterza, Bari 19557, p. 99]. 3 Cfr. A. Fouillée, Critique des systèmes de morale, cit., Conclusion e Préface. 4 Del resto, l’autore della Critique des systèmes de morale fa lui stesso dell’ideale «una formula ipotetica dell’inconoscibile»; ideale che non può avere su di noi che una azione essa stessa condizionale. 5 [Cfr. A. Fouillée, Critique des systèmes de morale contemporains, cit.] Préface, p. IX. 1
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Libro primo DEL MOVENTE MORALE DAL PUNTO DI VISTA SCIENTIFICO: PRIMI EQUIVALENTI DEL DOVERE
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Capitolo primo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 14/10/2018
L’intensità della vita è il movente dell’azione
Noi non respingiamo affatto nella morale la parte della speculazione metafisica, purché essa si presenti per ciò che è, come una speculazione, e ne mostreremo noi stessi più tardi l’importanza. Ma un metodo rigoroso ci impone di cercare prima di tutto quel che può essere una morale esclusivamente fondata sui fatti e che di conseguenza non parte né da una tesi a priori né da una legge a priori che sarebbe essa stessa una tesi metafisica. Quali sono il punto di partenza e il punto di arrivo? Qual è il campo esatto della SCIENZA all’interno della morale? Ecco quel che dobbiamo esaminare. Una morale che invochi soltanto i fatti non può presentare fin dal primo momento all’individuo come primo movente dell’azione il bene o la felicità della società, perché la felicità della società è spesso in opposizione a quella dell’individuo. In questi casi di opposizione la felicità sociale in quanto tale non potrebbe diventare per l’individuo un fine riflessivo se non in virtù di un puro disinteresse; ma questo puro disinteresse è impossibile da constatare come fatto e la sua esistenza è stata in ogni tempo controversa. Così la morale positiva, per non racchiudere fin dal principio un postulato inverificabile, deve essere innanzitutto individualistica; essa non deve preoccuparsi dei destini della società se non in quanto essi racchiudono più o meno quelli dell’individuo. Il primo torto degli utilitaristi come Stuart Mill e anche degli evoluzionisti è stato quello di confondere l’aspetto sociale e quello individualistico del problema morale. È importante aggiungere che una morale individualistica, fondata su fatti, non è la negazione di una morale metafisica o religiosa, fondata, per esempio, su qualche ideale impersonale; essa non la esclude, è semplicemente costruita in un’altra sfera. È una casetta costruita ai piedi della torre di Babele; non impedisce affatto a questa di salire fino al cielo, se può; per di più chissà se la casetta non avrà alla fine bisogno di ripararsi all’ombra della torre? Noi non cercheremo dunque né di negare né di escludere alcuno dei fini proposti come desiderabili dai metafisici; ma lasceremo ora da parte la nozione del desiderabile e ci limiteremo a constatare prima di tutto ciò che è desiderato realmente1.
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Prima di introdurre nella morale la speculazione metafisica è essenziale in effetti determinare prima di tutto fino a che punto può giungere la morale esclusivamente scientifica. È quello che ci proponiamo di fare. I fini perseguiti effettivamente dagli uomini e da tutti gli esseri viventi sono molteplici; tuttavia, come la vita offre dovunque dei caratteri comuni e uno stesso tipo di organizzazione, è probabile che i fini ricercati dai diversi individui si riconducano più o meno di fatto all’unità. Questo fine ultimo e profondo dell’azione non potrebbe essere né il bene, concetto vago che quando lo si vuole determinare si risolve in ipotesi metafisiche, né il dovere che non appare neanch’esso alla scienza come un principio primitivo e irriducibile, e nemmeno forse la felicità nella piena accezione del termine, che Volney ha potuto chiamare un oggetto di lusso e la cui concezione suppone d’altronde uno sviluppo avanzatissimo dell’essere intelligente. Quale sarà dunque lo scopo naturale delle azioni umane? Quando un tiratore si è lungamente esercitato su un bersaglio e si considerano gli innumerevoli fori che ha fatto nel cartone, si vede che questi fori si ripartiscono piuttosto uniformemente attorno al centro del bersaglio. Nessuna pallottola avrà forse raggiunto il centro geometrico del cerchio, e alcune ne saranno lontanissime; tuttavia esse saranno raggruppate attorno a questo punto secondo una legge regolarissima che Quételet ha chiamato legge del binomio. Anche senza conoscere questa legge non ci si ingannerà al semplice aspetto dei fori da pallottola; si metterà il dito al centro dell’area in cui questi fori sono più frequenti e si dirà: «Ecco il punto del bersaglio che è stato preso di mira». Questa ricerca del bersaglio preso di mira dal tiratore può essere paragonata a quella intrapresa dalla scienza puramente positiva dei costumi quando si sforza di determinare lo scopo ordinario della condotta umana. Qual è il bersaglio costantemente preso di mira dall’umanità e che deve esserlo stato anche da tutti gli esseri viventi – perché per la scienza l’uomo oggi non è più un essere a parte del mondo e le leggi della vita sono le stesse dalla cima al fondo della scala animale; – qual è il centro dello sforzo universale degli esseri verso il quale sono stati diretti i colpi della grande casualità universale, senza che nessuno di questi colpi abbia forse mai colto perfettamente nel segno, senza che il centro sia mai stato pienamente raggiunto? Secondo gli «edonisti» la direzione naturale di ogni atto sarebbe il minimo di pena e il massimo di piacere: nella sua evoluzione la vita cosciente segue sempre la linea della minor sofferenza. Questa direzione del desiderio
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L’intensità della vita
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non può essere contestata da nessuno e, per parte nostra, l’ammettiamo; ma la definizione precedente è troppo angusta perché si applica soltanto agli atti coscienti e più o meno volontari, non agli atti inconsci e automatici che si compiono semplicemente secondo la linea della minore resistenza. Credere che la maggior parte dei movimenti partano dalla coscienza e che un’analisi scientifica delle molle della condotta debba tener conto solo dei moventi coscienti, sarebbe indubbiamente esser vittima di un’illusione. Per Maudsley e Huxley nella vita la coscienza è solo un epifenomeno, astraendo dal quale tutto si svolgerebbe nello stesso modo. Senza voler decidere in merito, e nemmeno sollevare questo problema, molto controverso sia in Inghilterra che in Francia, dobbiamo riconoscere che la coscienza abbraccia una porzione piuttosto limitata della vita e dell’azione. Anche gli atti che si concludono nella piena coscienza di sé hanno, in genere, il loro principio e la loro prima origine in istinti sordi e movimenti riflessi. La coscienza dunque non è altro che un punto luminoso nella grande sfera oscura della vita; è una piccola lente che raggruppa in fascio qualche raggio di sole ed è convinta che il suo fuoco è proprio quello da cui partono i raggi. La molla naturale dell’azione prima di apparire nella coscienza doveva già agire al di sotto di essa, nella regione oscura degli istinti; il fine costante dell’azione deve essere stato in origine una causa costante di movimenti più o meno inconsci. In fondo i fini sono solo delle cause motrici abituali pervenute alla coscienza di sé; ogni movimento voluto ha cominciato con l’essere un movimento spontaneo eseguito ciecamente perché presentava minor resistenza; ogni desiderio cosciente è stato dunque inizialmente un istinto. La sfera della finalità coincide, almeno nel suo centro, con la sfera della causalità (anche se, con i metafisici, si considera la finalità come primitiva). Questo problema, «qual è il fine, il bersaglio costante dell’azione?», diventa dunque, da un altro punto di vista, questo: «qual è la causa costante dell’azione?» Nel cerchio della vita il punto preso di mira si confonde con il punto stesso da cui parte il colpo. Noi crediamo che una morale esclusivamente scientifica per essere completa debba ammettere che la ricerca del piacere è solo la conseguenza dello sforzo istintivo per mantenere e accrescere la vita: lo scopo che, di fatto, determina ogni azione cosciente è anche la causa che produce ogni azione inconscia: è dunque la vita stessa, la vita più intensa e più varia nelle sue forme. Dal primo palpito dell’embrione nel grembo materno fino all’ultima convulsione del vecchio ogni movimento dell’essere ha avuto per causa la vita nella
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sua evoluzione; questa causa universale dei nostri atti, da un altro punto di vista, ne è l’effetto costante e il fine. L’analisi che precede concorda nel risultato con le analisi della scuola evoluzionista che qui non riprodurremo2. Il motivo sotteso a tutte le nostre azioni, la vita, è ammesso anche dai mistici, poiché questi suppongono in generale un prolungamento dell’esistenza al di là di questo mondo; e l’esistenza atemporale non è altro che vita concentrata in un punctum stans. La tendenza a perseverare nella vita è la legge necessaria della vita non solo nell’uomo ma in tutti gli esseri viventi, forse anche nell’ultimo atomo dell’etere, poiché la forza non è probabilmente altro che un’astrazione della vita. Questa tendenza è indubbiamente una sorta di residuo della coscienza universale tanto più che supera e avvolge la coscienza stessa. Essa è dunque contemporaneamente la più radicale delle realtà e l’inevitabile ideale. La parte della morale fondata unicamente e sistematicamente sui fatti positivi si può definire come la scienza che ha per oggetto tutti i mezzi per conservare e accrescere la vita, materiale e intellettuale. Le leggi supreme di questa morale saranno identiche alle leggi più profonde della vita stessa e in alcuni dei suoi teoremi più generali essa varrà per tutti gli esseri viventi. Se ci viene detto che i mezzi per conservare la vita fisica rientrano nell’ambito dell’igiene piuttosto che in quello della morale, risponderemo che la temperanza, da lungo tempo posta fra le virtù, è praticamente un’applicazione dell’igiene e che d’altronde una morale esclusivamente positiva, sotto il rapporto fisico e fatta astrazione da tutti gli altri rapporti, non può affatto differire da una igiene ampliata. Se ci viene chiesto che cosa significa accrescere l’intensità della vita, risponderemo che significa accrescere il campo dell’attività sotto tutte le sue forme (nella misura compatibile con il recupero delle forze). Gli esseri inferiori agiscono solo in una certa direzione; poi si riposano, si lasciano andare a un’inerzia assoluta, come ad esempio il cane da caccia che si addormenta fino al momento in cui ricomincerà a cacciare. L’essere superiore invece si riposa con la varietà dell’azione, come un campo con la varietà delle produzioni; lo scopo perseguito, nella cultura dell’attività umana, è dunque la riduzione allo stretto necessario di quelli che si potrebbero chiamare i periodi di maggese. Agire è vivere; agire di più significa aumentare il punto focale della vita interiore. Il peggiore dei vizi sarà da questo punto di vista la pigrizia, l’inerzia. L’ideale morale sarà l’attività in tutta la varietà delle sue manifestazioni,
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L’intensità della vita
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almeno di quelle che non contrastano l’una con l’altra o che non producono una dispersione durevole di forze. Per fare un esempio, il pensiero è una delle forme principali dell’attività umana: non, come aveva creduto Aristotele, perché il pensiero sia l’atto puro svincolato da ogni materia (ipotesi non verificabile), ma perché il pensiero è, per così dire, azione condensata e vita portata al suo massimo sviluppo. La stessa cosa vale per l’amore. Dopo aver posto, in termini molto generali, le basi di una morale della vita, vediamo quale parte è giusto assegnare all’edonismo o alla morale del piacere al suo interno. Il piacere è uno stato di coscienza che, secondo gli psicologi e i fisiologi, è legato a un accrescimento della vita (fisica o intellettuale); ne deriva che questo precetto, «accresci in modo costante l’intensità della tua vita», si confonderà alla fine con quest’altro, «accresci in modo costante l’intensità del tuo piacere». L’edonismo può dunque sussistere, ma in secondo piano e più come conseguenza che come principio. Tutti i moralisti inglesi dicono: «il piacere è la sola leva con la quale si può muovere l’essere». Intendiamoci. Ci sono due tipi di piacere. A volte il piacere corrisponde a una forma particolare e superficiale dell’attività (piacere di mangiare, di bere, ecc.), altre volte è legato al fondo stesso di questa attività (piacere di vivere, di volere, di pensare, ecc.); nel primo caso è puramente sensitivo, nell’altro è più profondamente vitale, più indipendente dagli oggetti esterni: fa tutt’uno con la coscienza stessa della vita. Gli utilitaristi o gli edonisti si sono troppo compiaciuti a considerare la prima specie di piacere; l’altra ha un’importanza superiore. Non si agisce sempre con lo scopo di perseguire un piacere particolare, determinato ed esterno all’azione stessa; talvolta si agisce per il piacere di agire, si vive per vivere, si pensa per pensare. C’è in noi della forza accumulata che chiede di essere spesa; quando il dispendio è impedito da qualche ostacolo, questa forza diventa desiderio o avversione; quando il desiderio è soddisfatto c’è piacere; quando è contrariato c’è pena; ma non ne risulta che l’attività accumulata si manifesti unicamente in vista di un piacere, con un piacere per motivo; la vita si manifesta e si esercita perché è la vita. Il piacere accompagna in tutti gli esseri la ricerca della vita, molto più di quanto non la provochi; bisogna innanzitutto vivere, poi godere. Si è creduto a lungo che l’organo creasse la funzione, si è creduto anche che il piacere creasse la funzione: «l’essere va, diceva Epicuro, dove lo chiama il suo piacere»; sono queste, secondo la scienza moderna, due verità incomplete e costellate di errori; all’origine l’essere non possedeva un organo già
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formato; ugualmente non aveva in qualche modo un piacere già formato; l’essere stesso agendo ha creato il proprio organo e il proprio piacere. Il piacere, come l’organo, procede dalla funzione. Più tardi, d’altronde, come l’organo stesso, esso reagisce sulla funzione; si finisce per agire in un dato modo perché si ha un organo sviluppato in un dato senso e si prova piacere andando in quella direzione. Ma il piacere non è primo; quel che è primo e ultimo è la funzione, la vita. Se per dirigere la natura non si ha bisogno di fare appello a un impulso estraneo o superiore ad essa, se la natura è, per così dire, automotrice e autonoma, non si ha bisogno nemmeno di fare appello a una determinazione inferiore e particolare, come quel certo piacere. Ciò che si può concedere agli edonisti è che non potrebbe esserci coscienza senza un piacere o un dolore vago; il piacere e il dolore potrebbero essere considerati come il principio stesso della coscienza; del resto la coscienza è la leva necessaria per produrre ogni azione diversa dal puro atto riflesso: la teoria inglese è dunque vera nel senso che ogni azione volontaria, che ha sempre bisogno, per così dire, di passare per la coscienza, si impregna necessariamente di un carattere gradevole o sgradevole. Agire e reagire significa sempre gioire o soffrire; significa sempre anche desiderare o temere. Ma questo carattere gradevole o sgradevole dell’azione non è sufficiente per spiegarla interamente. Il godimento, invece di essere un fine riflesso dell’azione, spesso ne è soltanto un attributo, come la coscienza stessa. L’azione scaturisce naturalmente dal funzionamento della vita, in gran parte inconscio; essa entra ben presto nel campo della coscienza e del godimento ma non è da lì che nasce. La tendenza dell’essere a perseverare nell’essere è il fondo di ogni desiderio senza costituire essa stessa un desiderio determinato. Un corpo in movimento nello spazio ignora la direzione in cui va e tuttavia possiede una velocità acquisita capace di trasformarsi in calore e anche in luce, secondo la resistenza dell’ambiente in cui passerà; è così che la vita diventa desiderio o timore, dolore o piacere, proprio in virtù della forza acquisita e delle iniziali direzioni verso cui l’evoluzione l’ha lanciata. Una volta conosciuta l’intensità di vita di un essere con i diversi sbocchi aperti alla sua attività, si può predire la direzione che questo essere si sentirà interiormente spinto a prendere. È come se un astronomo potesse predire il percorso di un astro grazie unicamente alla conoscenza della sua massa, della sua velocità e dell’azione degli altri astri. Si vede ora quale sia la sola posizione che può assumere una scienza dei costumi senza metafisica nella questione del fine morale, indipendentemente
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L’intensità della vita
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da tutte le ipotesi che la metafisica potrà aggiungervi più tardi. Data da una parte la sfera inconscia degli istinti, delle abitudini, delle percezioni sorde e dall’altra la sfera cosciente del ragionamento e della volontà riflessa, la morale si trova sul limite di queste due sfere: essa è la sola scienza che non abbia così per oggetto né dei fatti puramente inconsci né dei fatti puramente coscienti. Essa deve dunque cercare una tendenza che sia comune a questi due ordini di fatti e che possa collegare le due sfere. La psicologia classica si era sempre ristretta ai fenomeni coscienti, lasciando da parte lo studio del puro meccanismo; e allo stesso modo aveva proceduto la morale classica. Ma esse davano per dimostrato che il meccanismo non agisce sulla regione cosciente dello spirito e non vi provoca perturbazioni a volte più o meno inesplicabili: supporre così dimostrata l’indipendenza della sfera cosciente rispetto all’inconscio significava cominciare con un postulato che non ha giustificazione. Crediamo che per evitare questo postulato la morale scientifica debba cercare una molla d’azione che possa giocare contemporaneamente in entrambe le sfere e muovere insieme in noi l’automa e l’essere sensibile. L’oggetto della scienza dei costumi è quello di constatare come l’azione, prodotta dal solo sforzo della vita, esca incessantemente dal fondo inconscio dell’essere per entrare nel campo della coscienza; come poi l’azione possa trovarsi rifratta in questo nuovo ambiente, e spesso addirittura sospesa, per esempio quando c’è lotta tra l’istinto della vita e qualche credenza di ordine razionale. In questo caso la sfera della coscienza può fornire una nuova fonte di azioni che a loro volta ridivengono dei principi di abitudini o di istinti e rientrano così nel fondo inconscio dell’essere per subirvi innumerevoli alterazioni. L’istinto devia diventando coscienza e pensiero, il pensiero devia diventando azione e germe di istinto. La scienza morale deve tener conto di tutte queste deviazioni. Essa cerca il punto d’incontro in cui vengono a toccarsi e in cui si trasformano incessantemente l’una nell’altra le due grandi forze dell’essere, istinto e ragione; essa deve studiare l’azione di queste due forze una sull’altra, regolare la doppia influenza dell’istinto sul pensiero, e del pensiero e del cervello sugli atti istintivi o riflessi. Noi vedremo come, nel divenire cosciente di sè e senza contraddirsi razionalmente, la vita può dar luogo a una varietà indefinita di moventi derivati. L’istinto universale della vita, ora inconscio ora conscio, con gli aspetti diversi che gli vedremo rivestire, fornisce alla scienza morale il solo fine positivo; il che d’altronde non vuol dire che non ne esista nessun altro possibile e che la nostra
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esperienza sia adeguata a tutta la realtà immaginabile. La morale fondata sui fatti non può, ancora una volta, «constatare» che una cosa, cioè che la vita tende a conservarsi e ad accrescersi in tutti gli esseri, dapprima inconsciamente, poi con l’aiuto della coscienza spontanea o riflessa; che essa è così di fatto la forma primitiva e universale di ogni bene desiderato: non ne consegue che il desiderio della vita esaurisca assolutamente l’idea del desiderabile, con tutte le nozioni metafisiche e anche mistiche che vi si possono collegare: questa è una questione riservata che non sarà più propriamente oggetto di affermazione positiva, ma di ipotesi metafisica. Alla scienza importa fare una distinzione netta tra il certo e l’incerto, nella morale come negli altri studi. La certezza non ha mai nuociuto alla speculazione e nemmeno al sogno, la conoscenza dei fatti reali allo slancio verso l’ideale, la scienza alla metafisica: il mietitore che ammassa con cura nel suo granaio i covoni che ha raccolto e contato lui stesso non ha mai impedito al seminatore di andarsene in giro con la mano aperta, con l’occhio rivolto alle messi lontane a gettare al vento il presente, il noto, per veder germogliare un avvenire che ignora e nel quale confida. Note 1 Sulla distinzione tra desiderato e desiderabile cfr. la nostra Morale anglaise contemporaine [Alcan, Paris 1885], II ed. (II parte: De la méthode morale). 2 Cfr. la nostra Morale anglaise contemporaine, cit.
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Capitolo secondo
La più alta intensità della vita ha per correlato necessario la sua più larga espansione
Esistenza e vita, dal punto di vista fisiologico, implicano nutrizione, di conseguenza appropriazione, trasformazione per sé delle forze della natura: la vita è una sorta di gravitazione su se stessa. Ma l’essere ha sempre bisogno di accumulare un surplus di forza, anche per avere il necessario; il risparmio è la legge stessa della natura. Che cosa diventerà questo surplus di forza accumulato da ogni essere sano, questa sovrabbondanza che la natura riesce a produrre? – Potrà prima di tutto spendersi attraverso la generazione, che è un semplice caso della nutrizione. «La riproduzione, dice Haeckel1, è un eccesso di nutrizione e di accrescimento in seguito a cui una parte dell’individuo viene eretta a unità indipendente». Nella cellula elementare la generazione prende la forma di una semplice divisione. Più tardi avviene una sorta di distribuzione del lavoro e la riproduzione diventa una funzione speciale compiuta dalle cellule germinali: è la sporogonia. Più tardi infine due cellule, una ovulare e una spermatica, si uniscono e si fondono insieme per formare un nuovo individuo. Questo coniugarsi di due cellule non ha nulla di misterioso: il tessuto muscolare e quello nervoso risultano in larga parte da queste fusioni cellulari. Tuttavia con la generazione sessuata, o anfigonia, comincia, si può dire, una nuova fase morale per il mondo. L’organismo individuale cessa di essere isolato; il suo centro di gravità si sposta per gradi e va spostandosi sempre di più. La sessualità ha un’importanza capitale nella vita morale: se per assurdo la generazione asessuata avesse prevalso nelle specie animali e infine nel genere umano, la società esisterebbe a malapena. Come si è notato da molto tempo, le zitelle, i vecchi scapoli, gli eunuchi sono di solito più egoisti: il loro centro è sempre rimasto in fondo a loro stessi senza mai oscillare. Anche i bambini sono egoisti, non hanno ancora un surplus di vita da riversare all’esterno. È verso l’epoca della pubertà che i loro caratteri si trasformano: il ragazzo ha tutti gli entusiasmi, è pronto a tutti i sacrifici perché in effetti bisogna che sacrifichi qualcosa di sé, che in una certa misura si diminuisca: vive troppo per vivere soltanto per sé. L’epoca della generazione è anche quella della generosità. Il vecchio invece è spesso portato a ridiventare egoista. I malati hanno le
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stesse tendenze; tutte le volte che la fonte di vita diminuisce si produce nell’essere intero un bisogno di risparmiare, di conservare per sé: si esita a lasciar filtrare all’esterno una goccia della linfa interiore. La generazione ha per primo effetto quello di produrre un raggruppamento di organismi, di creare la famiglia e attraverso di essa la società; ma è solo uno dei suoi effetti più visibili e più grossolani. L’istinto sessuale, lo abbiamo già visto, è una forma superiore, ma particolare, del bisogno generale di fecondità: ora questo bisogno, sintomo di un surplus di forza, non agisce soltanto sugli organi speciali della generazione, agisce sull’intero organismo; esercita dall’alto in basso dell’essere una sorta di pressione di cui elenchiamo le diverse forme. 1) Fecondità intellettuale. – Non senza motivo si sono paragonate le opere del pensatore ai suoi figli. Una forza interiore costringe anche l’artista a proiettarsi all’esterno, a donarci le sue viscere, come il pellicano di Musset. Aggiungiamo che questa fecondità è in qualche modo in opposizione con la generazione fisica: l’organismo non può sopportare senza sofferenza questo doppio dispendio. Così nelle specie animali la fecondità fisica sembra decrescere in rapporto allo sviluppo del cervello. I grandissimi geni in generale hanno avuto figli solo al di sotto della media e la loro razza si è rapidamente estinta. Di certo grazie alle loro idee questi geni vivono ancor oggi nei cervelli della razza umana, ma il loro sangue non ha potuto mescolarvisi. La fecondità intellettuale può comportare anch’essa una sorta di depravazione: si può abusare del proprio cervello. Talvolta il giovane con un eccesso prematuro di lavoro intellettuale si logora per tutta la vita. La giovane americana può compromettere nello stesso modo la sua maternità futura o la sorte della generazione che nascerà da lei. Tocca alla morale restringere qui come altrove l’istinto di produttività. Come regola generale il dispendio deve essere solo un eccitamento della vita, non un logoramento. Comunque sia, il bisogno di fecondità intellettuale modifica profondamente, ancor più di quanto faccia la fecondità sessuale, le condizioni di vita dell’umanità. Il pensiero in effetti è impersonale e disinteressato. 2) Fecondità dell’emozione e della sensibilità. – Come l’intelligenza, anche la sensibilità vuole esercitarsi. Noi non ne abbiamo abbastanza di noi stessi; abbiamo più lacrime di quante ce ne servano per le nostre sofferenze, più gioie
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Intensità ed espansione della vita
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in serbo di quante ne giustifichi la nostra felicità. Bisogna andare verso gli altri, moltiplicare se stessi attraverso la comunione dei pensieri e dei sentimenti. Di qui quella sorta di inquietudine che si riscontra nell’essere troppo solitario, un desiderio inappagato. Quando si prova, ad esempio, un piacere artistico si vorrebbe non essere soli a goderne. Si vorrebbe far sapere agli altri che si esiste, che si sente, che si soffre, che si ama. Si vorrebbe squarciare il velo dell’individualità. – Vanità? – No, la vanità è ben lontana dal nostro pensiero. È piuttosto il contrario dell’egoismo. I piaceri molto inferiori, quelli sì che sono talvolta egoisti. Quando c’è un solo dolce, il bambino vuole essere solo a mangiarlo. Ma il vero artista non vorrebbe essere solo a vedere qualcosa di bello, a scoprire qualcosa di vero, a provare un sentimento generoso2. In questi alti piaceri c’è una forza di espansione sempre pronta a rompere l’involucro ristretto dell’io. Di fronte a questi piaceri ci si sente insufficienti, fatti unicamente per trasmetterli, come l’atomo vibrante dell’etere trasmette passo passo il raggio di luce siderale che lo attraversa e di cui non trattiene altro che la vibrazione di un istante. Eppure anche qui bisogna evitare un’espansione esagerata della vita, una sorta di depravazione affettiva. Ci sono uomini, rari in verità, che hanno vissuto troppo per gli altri e che non hanno trattenuto abbastanza di sé: i moralisti inglesi li biasimano con qualche ragione. È proprio certo che un grande uomo ha sempre il diritto di rischiare la sua vita per salvare quella di un imbecille? La madre che dimentica troppo se stessa può condannare in anticipo a una vita malaticcia e sofferente il figlio che porta in seno. Il padre di famiglia che sottopone se stesso e i suoi a privazioni quotidiane per lasciare un po’ di agiatezza ai figli finirà solo col lasciare una certa ricchezza ad individui mal riusciti, senza valore per la specie. 3) Fecondità della volontà. – Noi abbiamo bisogno di produrre, di imprimere la forma della nostra attività sul mondo. L’azione è diventata una sorta di necessità per la maggioranza degli uomini. La forma più costante e più regolare dell’azione è il lavoro, con l’attenzione che richiede. Il selvaggio è incapace di un vero lavoro, tanto più incapace quanto più è degradato. Gli organismi che rappresentano tra noi i residui dell’uomo antico – i criminali – hanno in generale come tratto distintivo l’orrore per il lavoro. Essi non si annoiano a non far nulla. Si può dire che la noia è nell’uomo un segno di superiorità, di fecondità del volere. Il popolo che ha conosciuto lo spleen è il più attivo dei popoli.
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Con il tempo il lavoro diventerà sempre più necessario per l’uomo. Ora il lavoro è il fenomeno sia economico che morale in cui meglio si conciliano l’egoismo e l’altruismo. Lavorare significa produrre e produrre significa essere utili a sé e agli altri. Il lavoro può diventare pericoloso soltanto per la sua accumulazione sotto forma di capitale; allora può assumere un carattere francamente egoista e, in virtù di un’intima contraddizione, portare alla propria soppressione grazie all’ozio stesso che permette. Ma nella sua forma vitale il lavoro è sempre buono. Tocca alle leggi sociali impedire i risultati negativi dell’accumulazione del lavoro – eccesso di ozio per sé ed eccesso di potere su altri – allo stesso modo in cui si fa attenzione ad isolare gli accumulatori di energia troppo potenti. Abbiamo bisogno di volere e di lavorare non solo per noi ma anche per gli altri. Abbiamo bisogno di aiutare gli altri, di dare anche noi una spallata al carro che trasporta faticosamente l’umanità; in ogni caso almeno gli ronziamo attorno. Una delle forme inferiori di questo bisogno è l’ambizione, in cui non si deve vedere solo il desiderio di onori e di fama, ma che è anche e prima di tutto un bisogno di azione o di parola, un’abbondanza di vita nella sua forma un po’ grossolana di potenza motrice, di attività materiale, di tensione nervosa. Certi caratteri hanno soprattutto la fecondità della volontà, come per esempio Napoleone; essi mettono sottosopra la superficie del mondo nel tentativo di imprimervi la loro effigie: vogliono sostituire la loro volontà a quella degli altri, ma hanno una sensibilità povera, un’intelligenza incapace di creare, nel senso ampio del termine, un’intelligenza che non vale per se stessa, che non pensa per pensare e di cui fanno lo strumento passivo della loro ambizione. Altri invece hanno una sensibilità molto sviluppata, come le donne (che hanno avuto un ruolo così grande nell’evoluzione umana e nella costituzione della morale); ma mancano loro troppo spesso l’intelligenza o la volontà. La vita ha insomma due facce: da un lato è nutrizione e assimilazione, dall’altro produzione e fecondità. Più essa acquisisce, più è necessario che spenda: è la sua legge. Il dispendio non è fisiologicamente un male, è uno dei termini della vita. È l’espirazione che segue l’inspirazione. Dunque il dispendio per gli altri, che la vita sociale esige, non è, a conti fatti, una perdita per l’individuo; è un accrescimento auspicabile e perfino una necessità. L’uomo vuole diventare un essere sociale e morale, resta sempre tormentato da questa idea. Le cellule delicate del suo cervello e del suo cuore aspirano a vivere e a svilupparsi come quegli «homunculi» di cui da
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Intensità ed espansione della vita
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qualche parte parla Renan: ognuno di noi sente in sé una sorta di spinta da parte della vita morale, come da parte della linfa fisica. Vita è fecondità e viceversa la fecondità è la vita traboccante, la vera esistenza. C’è una certa generosità inseparabile dall’esistenza e senza la quale si muore, ci si dissecca interiormente. Bisogna fiorire; la moralità, il disinteresse sono il fiore della vita umana. Si è sempre rappresentata la Carità sotto i tratti di una madre che tende a dei fanciulli il seno gonfio di latte; in effetti la carità non è altro che la fecondità traboccante: è come una maternità troppo ampia per limitarsi alla famiglia. Il seno della madre ha bisogno di bocche avide che lo sfiniscano; il cuore dell’essere veramente umano ha anch’esso bisogno di farsi dolce e soccorrevole per tutti: vi è nel benefattore stesso un appello interiore verso coloro che soffrono. Abbiamo constatato, perfino nella vita della cellula cieca, un principio di espansione il quale fa sì che l’individuo non può bastare a se stesso; la vita più ricca si trova ad essere anche la più incline a prodigarsi, in una certa misura a sacrificarsi, a parteciparsi con gli altri. Ne deriva che l’organismo più perfetto sarà anche il più socievole e che l’ideale della vita individuale è la vita in comune. Perciò si trova riposta nel fondo stesso dell’essere la sorgente di tutti quegli istinti di simpatia e di socievolezza che la scuola inglese ci ha troppo spesso presentato come acquisiti più o meno artificialmente nel corso dell’evoluzione e di conseguenza come più o meno avventizi. Siamo ben lontani da Bentham e dagli utilitaristi, i quali cercano di evitare dovunque la pena e vedono in essa l’inconciliabile nemica: è come se non si volesse respirare troppo forte per paura di sprecarsi. Anche in Spencer c’è ancora troppo utilitarismo. Troppo spesso, inoltre, egli guarda le cose dall’esterno e negli istinti disinteressati non vede che un prodotto della società. Nel seno stesso della vita individuale c’è, crediamo, un’evoluzione che corrisponde all’evoluzione della vita sociale e la rende possibile, che ne è la causa invece di esserne il risultato3.
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Note [Generelle] Morphologie [der Organismen, allgemeine Grundzüge der organischen Formen-Wissenschaft, mechanisch begründet durch die von Charles Darwin reformirte DescendenzTheorie, G. Reimer, Berlin 1866], II, 16. 2 Bisogna qui tuttavia distinguere tra il godimento dell’artista, che è sempre fecondo e dunque generoso, e quello dell’amatore d’arte, che può essere ristretto ed egoista poiché è del tutto sterile. Cfr. i nostri Problèmes de l’esthétique contemporaine [Paris, Alcan, 1884]. 3 «Ci è stato obiettato che la fecondità delle nostre diverse potenze interiori poteva soddisfarsi altrettanto bene nella lotta come nell’accordo con gli altri, nello schiacciamento delle altre personalità come nella loro valorizzazione. Ma, in primo luogo, si dimentica che gli altri non si lasciano schiacciare così facilmente: la volontà che cerca di imporsi incontra necessariamente la resistenza altrui. Anche se trionfa di questa resistenza, non può trionfarne da sola, deve appoggiarsi a degli alleati, ricostituire così un gruppo sociale e imporsi, nei confronti di questo gruppo amico, le stesse servitù da cui ha voluto affrancarsi nei confronti degli altri uomini, suoi alleati naturali. Ogni lotta finisce dunque sempre col limitare esteriormente la volontà; in secondo luogo la altera interiormente. Il violento soffoca tutta la parte simpatica e intellettuale del suo essere, vale a dire ciò che in lui c’è di più complesso ed elevato dal punto di vista dell’evoluzione. Brutalizzando gli altri, egli abbrutisce in qualche misura se stesso. La violenza, che sembrava così un’espansione vittoriosa della potenza interiore, finisce dunque per esserne una restrizione; dare per scopo alla propria volontà l’abbassamento altrui significa darle uno scopo insufficiente ed impoverirsi. Infine, con un’ultima disorganizzazione più profonda, la volontà giunge a squilibrarsi completamente con l’impiego della violenza; quando si è abituata a non incontrare all’esterno alcun ostacolo, come succede ai despoti, ogni impulso diventa in lei irresistibile; allora le tendenze più contraddittorie si succedono e si produce una completa atassia; il despota ritorna bambino, si vota a capricci contraddittori e la sua onnipotenza oggettiva finisce per condurre a una reale impotenza soggettiva» (Education et hérédité [Alcan, Paris 1889 (pubblicato da Fouillée)], p. 53).
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Capitolo terzo
In quale misura il movente dell’attività può creare una specie di obbligo: potere e dovere
Dopo aver stabilito questo principio che ci sembra essenziale, la fecondità morale, ci resta da vedere in che modo e sotto quale forma psicologica essa si manifesta: l’essere è portato ad espandersi verso gli altri dalla natura stessa e dall’espansione normale della sua volontà? O è semplicemente sollecitato dal miraggio di un piacere speciale, piacere della simpatia, della lode, ecc.? Vedremo, anche qui, che lo studio della «dinamica mentale» nella scuola inglese e in quella positivista è stato spesso elementare e incompleto. Il kantismo ha avuto questo grande merito, che nessuna teoria naturalistica potrebbe contestare, quello di considerare l’impulso primitivo, che costituisce uno degli elementi essenziali del dovere, come anteriore ad ogni ragionamento filosofico sul bene: nessuna ragione dimostrativa saprebbe in effetti cambiare di colpo la direzione e l’intensità di questo impulso spontaneo. La teoria dell’imperativo categorico è dunque psicologicamente esatta e profonda, come espressione di un fatto di coscienza; solo che Kant non aveva il diritto di considerare questo imperativo come trascendentale, senza darne una prova. «Una necessità pratica interna» può essere una necessità più o meno istintiva ed anche meccanica: nella moralità come nel genio può esistere una sorta di potere naturale che precede il sapere, un potere che ci porta ad agire e a produrre; la caratteristica delle tendenze naturali, delle abitudini, dei costumi, non è proprio quella di comandare senza fornire ragioni all’individuo? Il costume, nella coscienza individuale o nello stato, come diceva Pascal, è rispettato «per la sola ragione che è accettato». L’autorità della legge è talvolta «conchiusa in sè» e non si rifa ad alcun principio: «la legge è legge e nulla di più». In presenza di ogni potere anteriore ad esso, di ogni forza che non sia quella delle idee ragionate, l’intelletto gioca sempre il ruolo secondario che il kantismo ha mostrato: si sente davanti a un mistero. Non per questo d’altronde esso rinuncia a spiegarlo, anche solo in modo più o meno superficiale; al contrario non vi è nulla per cui l’intelligenza umana trovi tante spiegazioni quanto per una cosa per lei inspiegabile: quante teorie sul bene! Quante ragioni date di questa affermazione non ragionata: io devo, o, come dicevano gli antichi, si deve, dei`!
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In realtà il ragionamento in astratto è impotente a spiegare un potere, un istinto, a rendere conto di una forza infrarazionale nel suo stesso principio: ci vuole l’osservazione, l’esperienza. Una volta ammesso, con il kantismo, il fatto del dovere che si impone alla coscienza come una forza superiore, cerchiamo di constatare questo fatto nelle sue variazioni essenziali e nei suoi rapporti con gli altri fatti simili della coscienza; vedremo poi se sembra offrirci qualcosa di soprannaturale. Kant stesso ha posto il problema nella celebre prosopopea: «Dovere!... dove si trova la radice del tuo nobile lignaggio, che ricusa fieramente ogni parentela con le inclinazioni?...»1. Ma a questo interrogativo Kant non ha veramente risposto, non ha cercato quale legame di parentela poteva, malgrado l’apparenza, collegare il dovere «nobile» e «fiero» alle altre inclinazioni. – «La legge del dovere, diceva anche Confucio in un senso tutto kantiano, è un oceano senza riva: il mondo non può contenerla». – Ma talvolta a tre ore di distanza dalla riva la minima massa d’acqua sembra un oceano. Quando si naviga sul Rio delle Amazzoni ci si crede sul mare; per distinguere il fiume dal mare non bisogna cercare di guardare lontano, bisogna chinarsi sull’acqua e assaggiarla. L’analisi interiore è così il solo modo di apprezzare l’infinito reale o immaginario del nostro orizzonte morale. Noi ci porremo successivamente dai tre punti di vista della volontà, dell’intelligenza e della sensibilità. 1) Esistenza di un certo dovere impersonale creato dal potere stesso di agire. Primo equivalente del dovere. – Innanzitutto, come muovere la volontà senza fare appello ad un dovere mistico o a questo o quel piacere particolare? Quel che c’è di vero e di profondo nella nozione mal chiarita di dovere morale può sussistere, crediamo, anche dopo l’epurazione che le ha fatto subire la teoria precedentemente esposta. Il dovere si ricondurrà alla coscienza di una certa potenza interiore, di natura superiore a tutte le altre potenze. Sentire interiormente ciò che si è capaci di fare di più grande significa per ciò stesso prendere coscienza di ciò che si ha il dovere di fare. Il dovere, dal punto di vista dei fatti e facendo astrazione dalle nozioni metafisiche, è una sovrabbondanza di vita che domanda di esercitarsi, di donarsi; lo si è troppo spesso interpretato fino ad oggi come il sentimento di una necessità o di una costrizione, mentre è prima di tutto quello di una potenza. Ogni forza che si accumula crea una pressione sugli ostacoli posti davanti ad essa; ogni potere, considerato isolatamente, produce una sorta di obbligo che gli è proporzio-
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nato: poter agire è dover agire. Negli esseri inferiori, quelli in cui la vita intellettuale è ostacolata e soffocata, vi sono pochi doveri; ma vi sono pochi poteri. L’uomo civilizzato ha innumerevoli doveri, dato che ha un’attività ricchissima da profondere in mille modi. Da questo punto di vista, che non ha nulla di mistico, l’obbligo morale si riconduce a questa grande legge di natura: la vita può conservarsi solo a condizione di espandersi; è impossibile raggiungere con certezza uno scopo quando non si ha il potere di sorpassarlo, e, se si sostiene che l’io ha per scopo se stesso, è una ragione di più perché non possa bastare a se stesso. La pianta non può impedirsi di fiorire; talvolta per lei fiorire significa morire; non importa, la linfa continua a salire. La natura non guarda indietro per vedere ciò che abbandona; segue il suo cammino, sempre in avanti, sempre più in alto. 2) Esistenza di un certo dovere impersonale creato dalla concezione stessa dell’azione. Secondo equivalente del dovere: – Come la potenza dell’attività crea una sorta di obbligo naturale o di impulso imperativo, così l’intelligenza ha di per sé il potere di dare inizio ad un movimento. Quando ci si innalza ad un certa altezza si possono trovare dei motivi di azione che non agiscono più solo come moventi ma che, in sé e per sé, senza intervento diretto della sensibilità, sono motori dell’attività e della vita. Qui si applica di nuovo l’importante teoria che un filosofo contemporaneo ha proposto sulle idee-forza2. L’intelligenza e l’attività non appaiono più come separate da un abisso. Comprendere è già cominciare in se stessi la realizzazione di ciò che si comprende; concepire qualcosa di meglio di ciò che esiste è un primo lavoro per realizzare questa cosa. L’azione non è che il prolungamento dell’idea. Il pensiero è quasi una parola; noi siamo portati con tanta forza ad esprimere ciò che pensiamo che il bambino e il vecchio, meno capaci di resistere alla coazione di quest’impulso, pensano ad alta voce: il cervello fa naturalmente muovere le labbra. Nello stesso modo farà agire, farà muovere le braccia e il corpo intero, dirigerà la vita. Non ci sono due cose: concezione dello scopo e sforzo per raggiungerlo. La concezione stessa, lo ripetiamo, è un primo sforzo: si pensa, si sente, e poi segue l’azione. Dunque nessun bisogno di invocare la mediazione di un piacere esterno, nessun bisogno di un termine intermedio né di un ponte per passare dall’una all’altra di queste due cose, dal pensiero all’azione. Esse sono in fondo identiche. Ciò che si chiama obbligo o costrizione morale è, nella sfera dell’intelli-
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genza, il sentimento di questa radicale identità: l’obbligo è un’espansione interiore, un bisogno di perfezionare le nostre idee facendole passare nell’azione. Chi non agisce come pensa, pensa in modo incompleto. Così sente che gli manca qualcosa: non è intero, non è se stesso. L’immoralità è una mutilazione interiore. Ciascuno dei moti del nostro spirito solleva il corpo. Non agire secondo ciò che si crede il meglio significa assomigliare a qualcuno che non può ridere quando è felice né piangere quando è triste, che non può esprimere nulla all’esterno né tradurre nulla di ciò che prova. Sarebbe il supplizio supremo. Si è dunque distinta troppo nettamente la volontà dall’intelligenza, di modo che si è poi avvertito il bisogno di muovere la volontà esclusivamente per mezzo di moventi sensibili. Ma i moventi esterni non devono intervenire finché è sufficiente il meccanismo interno del pensiero e della vita. Si può dire che la volontà non è altro che un grado superiore dell’intelligenza e l’azione un grado superiore della volontà. La moralità dunque non è altro che l’unità dell’essere. L’immoralità invece è uno sdoppiamento, un’opposizione delle diverse facoltà che si limitano a vicenda. L’ipocrisia consiste nell’arrestare l’espressione naturale del proprio pensiero e nel sostituirle un’espressione contraria; in questo senso si potrebbe dire che l’immoralità è essenzialmente ipocrisia e di conseguenza arresto nello sviluppo dell’essere3. 3) Esistenza di un certo dovere impersonale creato dalla fusione crescente delle sensibilità e dal carattere più socievole dei piaceri elevati. Terzo equivalente del dovere. – Una nuova specie di obbligo deriva dalla natura stessa della sensibilità, che tende a trasformarsi per effetto dell’evoluzione. I piaceri superiori, che assumono nella vita umana una parte sempre maggiore – i piaceri estetici, il piacere di ragionare, di imparare e di capire, di cercare, ecc. – richiedono un numero molto inferiore di condizioni esterne e sono molto più accessibili a tutti rispetto ai piaceri propriamente egoistici. La felicità di un pensatore o di un artista è una felicità a buon mercato. Con un pezzo di pane, un libro o un paesaggio potete gustare un piacere infinitamente superiore a quello di un imbecille in una carrozza fregiata di stemmi e tirata da quattro cavalli. I piaceri superiori sono dunque al tempo stesso più intimi, più profondi e più gratuiti (senza esserlo sempre interamente). Essi tendono molto meno dei piaceri inferiori a dividere gli esseri.
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Così, per un’evoluzione naturale, il principio di una gran parte dei nostri piaceri sembra risalire dall’esterno all’interno. Il soggetto sensibile può trovare nella sua attività, e talvolta indipendentemente dalle cose, una sorgente varia di godimenti. Di conseguenza si chiuderà in se stesso e basterà a sé come il saggio stoico? Neanche per idea: i piaceri intellettuali hanno questo di notevole, che sono al tempo stesso i più interiori all’essere e i più comunicativi, i più individuali e i più sociali. Mettete insieme dei pensatori o degli amici del bello (purché non vi siano tra loro rivalità personali): essi si ameranno molto più rapidamente e in ogni caso più profondamente di altri uomini; riconosceranno immediatamente di vivere nello stesso mondo, quello del pensiero, si sentiranno parte di uno stesso tutto. Questo legame che si stabilirà fra loro legherà anche la loro condotta e imporrà nei rapporti reciproci una specie di obbligo particolare; è un legame emozionale, una comunione prodotta dall’armonia completa o parziale delle sensibilità e dei pensieri. Più si va avanti e più i piaceri umani sembrano prendere un carattere sociale e socievole. L’idea diventa una delle fonti essenziali del piacere. Ora l’idea è una sorta di spettanza comune a tutte le teste umane; è una coscienza universale in cui si riconciliano più o meno le coscienze individuali. E aumentando la parte dell’idea nella vita di ciascuno è chiaro che aumenta la parte dell’universale e tende a predominare sull’individuale. Le coscienze diventano dunque più penetrabili. Chi nasce oggi è destinato a una vita intellettuale molto più intensa di centomila anni fa, eppure, malgrado questa intensità della sua vita individuale, la sua intelligenza si troverà, per così dire, molto più socializzata; proprio perché è molto più ricca, essa possiederà molto meno in proprio. Lo stesso accade per la sua sensibilità. In definitiva, abbiamo detto altrove commentando Epicuro, che cosa sarebbe un piacere puramente personale ed egoistico? Ne esistono di questa specie, e che parte hanno nella vita? – A questa domanda sempre attuale risponderemo come già abbiamo risposto: quando si scende nella scala degli esseri si vede che la sfera in cui ciascuno di essi si muove è stretta e quasi chiusa; quando invece si sale verso gli esseri superiori si vede la loro sfera di azione aprirsi, estendersi, confondersi con la sfera di azione degli altri esseri. L’io si distingue sempre meno dagli altri io, o meglio ha sempre più bisogno di loro per costituirsi e per sussistere. Ora questa specie di scala che il pensiero percorre, la specie umana l’ha già percorsa in parte nella sua evoluzione. Il suo punto di partenza fu l’egoismo; ma l’egoismo, in virtù della fecondità stessa di ogni vita,
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è stato portato ad allargarsi, a creare fuori di sé nuovi centri per la sua azione. Contemporaneamente sono nati a poco a poco sentimenti corrispondenti a questa tendenza centrifuga che hanno in un certo senso ricoperto i sentimenti egoistici da cui pure derivavano. Andiamo verso un’epoca in cui l’egoismo primitivo sarà sempre più ricacciato in noi e soffocato, reso sempre più irriconoscibile. In quest’epoca ideale l’essere non potrà più, per così dire, godere in modo solitario; il suo piacere sarà come un concerto in cui il piacere degli altri entrerà a titolo di elemento necessario; e già ora, nella generalità dei casi, non è forse così? Si paragoni, nella vita comune, la parte lasciata all’egoismo puro e quella che occupa «l’altruismo», si vedrà come la prima è relativamente piccola; anche i piaceri più egoistici, in quanto assolutamente fisici, come il piacere di bere o di mangiare, non acquistano tutto il loro fascino se non quando li condividiamo con altri. Questo predominio dei sentimenti socievoli deve ritrovarsi in tutti i nostri godimenti e in tutte le nostre pene. Così l’egoismo puro non sarebbe soltanto, come abbiamo mostrato, una sorta di mutilazione di sé; sarebbe una impossibilità. Né i miei dolori né il mio piacere sono assolutamente miei. Le foglie spinose dell’agave, prima di svilupparsi e di allargarsi in enormi strisce, restano a lungo una sull’altra, formando come un solo cuore; in quel momento le spine di ogni foglia si imprimono sulla foglia vicina. In seguito tutte queste foglie hanno un bell’ingrandirsi e separarsi, questo segno resta e con loro s’ingrandisce: è un sigillo di dolore fissato su di esse per la vita. La stessa cosa succede nel nostro cuore, in cui si imprimono, fin dal seno materno, tutte le gioie e tutti i dolori del genere umano: su ciascuno di noi, qualunque cosa faccia, questo sigillo deve rimanere. Come l’io, insomma, è per la psicologia contemporanea un’illusione, come non esiste una personalità separata, come noi siamo composti da un’infinità di esseri e di piccole coscienze o stati di coscienza, così il piacere egoistico è, potremmo dire, un’illusione: il mio piacere non esiste senza il piacere degli altri, io sento che tutta la società deve collaborarvi più o meno, dalla piccola società che mi circonda, la mia famiglia, fino alla grande società in cui vivo4. In conclusione, una scienza veramente positiva della morale può, in certa misura, parlare di obbligo e ciò, da una parte, senza far intervenire alcuna idea mistica, dall’altra, senza invocare con Bain5 la «costrizione» esterna e sociale o il «timore» interiore. No, è sufficiente considerare le direzioni normali della vita psichica. Si troverà sempre una sorta di pressione interna esercitata dall’attività stessa in queste direzioni; l’agente morale, per una tendenza na-
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turale e razionale al tempo stesso, si sentirà spinto in questo senso e riconoscerà di dover fare una specie di colpo di stato interiore per sfuggire a questa pressione: questo colpo di stato si chiama errore o crimine. Commettendolo, l’individuo fa torto a se stesso: diminuisce e spegne volontariamente qualcosa della sua vita fisica o mentale. L’obbligo morale, che ha il suo principio nel funzionamento stesso della vita, si trova perciò ad avere il suo principio più in là della coscienza riflessa, nelle profondità oscure e inconscie dell’essere, o, se si preferisce, nella sfera della coscienza spontanea e sintetica. Il sentimento di obbligo naturale può ricondursi in gran parte a questa prima formula: io constato in me, grazie alla coscienza riflessa, dei poteri e delle modificazioni che non vengono da essa, ma dal fondo inconscio o subconscio di me stesso, e che mi spingono in una determinata direzione. Attraverso la sfera luminosa della coscienza passano così dei raggi provenienti da quel centro di calore oscuro che costituisce la vita interiore. Note [I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. cit., p. 107] Cfr. A. Fouillée, La liberté et le déterminisme [Alcan, Paris 1884], II ed. e la Critique des systèmes de morale contemporains, cit. 3 Questa teoria è stata completata da alcune importanti pagine di Education et hérédité: «Fra le idee-forza più potenti troviamo dapprima quella del tipo umano normale, idea estetica e morale che non è più difficile da acquisire di quanto non lo sia quella dell’albero o dell’animale, per esempio, e che, una volta acquisita, tende a realizzarsi in noi. Inoltre, siccome viviamo in società, noi concepiamo più o meno distintamente un tipo sociale normale. Dal funzionamento stesso di ogni società, come di ogni organismo, si sprigiona infatti l’idea vaga di ciò che è normale, sano, conforme alla direzione generale dei movimenti sociali. Il nostro temperamento, attraverso le innumerevoli oscillazioni dell’evoluzione, tende tuttavia ad adattarsi sempre più all’ambiente in cui viviamo, alle idee di sociabilità e di moralità. Il ladro di Maudsley, che trovava così «bello» rubare, anche se avesse avuto dei milioni, è una sorta di mostro sociale e deve averne una vaga coscienza, paragonandosi alla quasi totalità degli altri uomini; per essere pienamente felice avrebbe bisogno di incontrare una società di mostri simili a lui che gli rinviassero la sua immagine. Per quanto il rimorso abbia un’origine tutta empirica, il meccanismo stesso della natura che lo produce è razionale: tende a favorire gli esseri normali, cioè gli esseri socievoli e in definitiva morali. L’essere antisociale si allontana dal tipo dell’uomo morale quanto il gobbo dal tipo dell’uomo fisico; di qui una vergogna inevitabile quando sentiamo in noi qualcosa di antisociale: di qui anche un desiderio di cancellare questa mostruosità. Si vede l’importanza dell’idea di normalità nell’idea di moralità. Nell’essere un mostro, nel non sentirsi in armonia con tutti gli 1 2
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altri esseri, nel non potersi specchiare in essi o ritrovarli in se stesso c’è qualcosa di sconvolgente per il pensiero come per la sensibilità. Poiché l’idea di responsabilità assoluta non è più compatibile con lo stato attuale della scienza, il rimorso si riduce ad un rimpianto, il rimpianto di essere inferiori al proprio ideale, di essere anormali e più o meno mostruosi. Non si può sentire una certa imperfezione interiore senza provarne vergogna; questa vergogna è indipendente dal sentimento della libertà e tuttavia è già il germe del rimorso. Davanti al mio pensiero io rispondo in qualche modo di tutto ciò che c’è di cattivo in me, anche quando non sono io che ve l’ho messo, perché il mio pensiero mi giudica. La mostruosità produce inoltre il sentimento della solitudine assoluta e definitiva, che è il più doloroso per un essere essenzialmente sociale, perché la solitudine è una sterilità morale, un’impotenza senza rimedio. Oggi il rimorso può a volte tormentare i cuori proporzionalmente alla loro elevazione e agli scrupoli di una coscienza superiore; ma questa è un’eccezione, non la regola. Le eccezioni si spiegano col fatto che il progresso morale, come ogni progresso, tende a squilibrare il rapporto fra l’essere e il suo ambiente, fa dunque di ogni superiorità prematura una causa di sofferenza; ma questa alterazione provvisoria dell’equilibrio originario porterà un giorno a un equilibrio più perfetto. Gli esseri che servono così da transizione alla natura soffrono per diminuire il totale delle sofferenze della loro razza, sono i capri espiatori della specie. Essi ci avvicinano a quel momento ancora lontano, a quell’ideale limite, impossibile da raggiungere completamente, in cui i sentimenti di sociabilità, diventati il fondo stesso di ogni essere, saranno abbastanza potenti da rendere la quantità e la qualità delle sue gioie interiori proporzionata alla sua moralità, cioè alla sua stessa sociabilità. La coscienza individuale riprodurrà così esattamente la coscienza sociale che ogni azione capace di turbare quest’ultima turberà l’altra nella stessa misura; ogni ombra proiettata all’esterno verrà a proiettarsi su di noi: l’individuo sentirà nel suo cuore l’intera società vivente. In una parola noi pensiamo la specie, pensiamo le condizioni alle quali la vita è possibile nella specie, concepiamo l’esistenza di un certo tipo normale di uomo adattato a queste condizioni, concepiamo anche la vita dell’intera specie come adattata al mondo, e infine le condizioni alle quali quest’adattamento si mantiene. D’altra parte la nostra intelligenza individuale, la quale non è altro che la specie umana e perfino il mondo divenuti coscienti in noi, si risolve nella specie e nel mondo che tendono ad agire per nostro tramite. Nello specchio del pensiero ogni raggio inviato dalle cose si trasforma in un movimento. È noto il recente perfezionamento apportato al pendolo, grazie al quale esso può imprimere da solo ognuna delle sue oscillazioni leggere e impercettibili: un raggio di luce lo attraversa ad ogni intervallo; questo raggio si trasforma in una forza, spinge un meccanismo; il movimento del pendolo, senza aver perso forza per qualche frizione, diviene allora percepibile agli occhi grazie ad altri movimenti, si fissa in segni visibili e duraturi. È il simbolo di ciò che succede nell’essere vivente e pensante, in cui i raggi inviati dall’universalità degli oggetti attraversano il pensiero per iscriversi nelle azioni e dove ognuna delle oscillazioni della vita individuale lascia dietro di sé un riflesso dell’universale: la vita, imprimendo nel tempo e nello spazio la propria storia interiore, vi imprime la storia del mondo, che si fa visibile attraverso di essa. Una volta concepito, il tipo dell’uomo normale possibile si realizza più o meno in noi. Dal punto di vista puramente meccanico abbiamo visto che il possibile non è che un primo adatta-
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mento ad un ambiente, che permette, grazie ad un certo numero di modificazioni, di riadattarsi ad altri ambienti poco diversi. Dal punto di vista della coscienza il possibile è il sentimento di un’analogia nelle circostanze che richiama atti analoghi; è così che l’uomo intelligente concepisce la condotta che può tenere nei confronti degli altri ex analogia con la propria condotta verso se stesso; egli ritiene di poter placare la fame altrui come la propria, ecc. L’altruismo in più di un punto è concepito così proprio grazie all’egoismo. Ogni coscienza di un’analogia che soddisfi il pensiero apre una nuova via per l’attività, e l’attività tende a precipitarvisi. Non c’è dunque bisogno di cercare una regola fuori dalla natura umana, divenuta cosciente di sé e del suo tipo. La coscienza e la scienza hanno necessariamente un ruolo direttivo e regolatore. Comprendere è misurare. Tutto ciò che è veramente cosciente tende a diventare normale. L’obbligo morale è la forza inerente all’idea più prossima di universale, all’idea di ciò che è normale per noi e per tutti gli esseri. Poiché l’idea cosciente in effetti trae la maggior parte della sua forza dalla sua stessa generalità, l’idea-forza per eccellenza sarebbe quella dell’universale, se fosse concepita in modo concreto come la rappresentazione di una società di esseri reali e viventi. È quest’idea che noi chiamiamo il bene, e che forma, in ultima analisi, l’oggetto più alto della moralità. Essa ci appare dunque come obbligatoria» (Education et hérédité, cit., p. 54 ss.). 4 Cfr. la nostra Morale d’Epicure [et ses rapports avec les doctrines contemporaines, Baillière, Paris 1886], II ed., p. 283. 5 [A. Bain (1818-1903), difensore dell’associazionismo psicologico, di cui Guyau discute, nella Morale anglaise, l’opera The Emotions and the Will (1859)].
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Capitolo quarto
Il sentimento di obbligo dal punto di vista della dinamica mentale come forza impulsiva o repressiva
In qualunque modo ci si rappresenti il dovere, metafisicamente e moralmente, esso possiede comunque, in rapporto agli altri motivi o moventi, una certa potenza psico-meccanica: il sentimento di obbligo, considerato dinamicamente, è una forza che agisce nel tempo secondo una direzione determinata, con un’intensità maggiore o minore. Bisogna dunque cercare come sono nate in noi queste potenze di azione, queste forze impulsive che sono al tempo stesso idee e sentimenti. Vorremmo abbozzare qui la genesi dinamica del sentimento di obbligo e della sua azione dinamica, che considereremo ormai non come una limitazione o una restrizione dell’attività, ma come la conseguenza stessa della sua espansione. Un uomo celebre per la sua coraggiosa integrità, Daumesnil, diceva un giorno a un ministro di Carlo X: «Io non seguo la mia coscienza, è lei che mi spinge». Secondo questa finissima distinzione, si possono dividere gli impulsi di ordine morale e sociale in due categorie: nel primo caso siamo letteralmente spinti in avanti dal sentimento di un dovere, senza avere il tempo di discutere, di deliberare, di ragionare; nel secondo ci lasciamo trascinare dietro ad esso con la coscienza più netta di una resistenza possibile e già reale, di una certa indipendenza. Un esempio caratteristico di sentimento impulsivo e irriflesso ci è fornito dai poveri operai di un forno da calce nei Pirenei. Uno di essi, che era sceso nel forno per rendersi conto di non so quale guasto, cade asfissiato; un altro si precipita in suo aiuto e cade anche lui. Una donna testimone dell’incidente chiama aiuto; altri operai accorrono. Per la terza volta un uomo scende nel forno incandescente e soccombe subito dopo. Un quarto, un quinto tentano e soccombono anche loro. Ne restava uno solo; avanza e sta per saltare anch’egli quando la donna che si trovava lì si aggrappa ai suoi vestiti e, quasi pazza dal terrore, lo trattiene sul bordo. Poco dopo l’autorità giudiziaria, recatasi sul luogo per procedere a un’ìnchiesta, interrogò il sopravvissuto sul suo atto di abnegazione irriflessa e un magistrato cercò con gravità di dimostrargli l’irrazionalità della sua condotta; l’operaio gli diede questa risposta
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ammirevole: «I miei compagni morivano; bisognava andare». In questo esempio il sentimento di obbligo morale e di solidarietà umana aveva perso, in apparenza, la sua base razionale; restava nondimeno abbastanza potente da spingere successivamente cinque uomini al sacrificio inutile della loro vita. Non si contesterà che qui il sentimento del dovere ha la forma di un impulso spontaneo, di un dispiegamento improvviso della vita interiore verso gli altri, piuttosto che quella di un rispetto ponderato per una «legge morale» astratta e anche di una ricerca del «piacere» o dell’«utilità». Notiamo d’altronde che, con lo sviluppo dell’intelligenza e della sensibilità umane, è impossibile scoprirvi l’impulso morale allo stato di un riflesso quasi immediato senza che vi si mescolino idee generali e generose, o addirittura anche metafisiche. Altre volte il sentimento spontaneo del dovere, invece di spingere all’azione, la sospende bruscamente; esso può sviluppare allora quello che Maudsley e Ribot, con i fisiologi, chiamerebbero potere d’arresto o «di inibizione», non meno brusco, non meno violento di quanto lo sia il potere di impulso. «Ero ancora un bambino in calzoncini corti, racconta il predicatore americano Parker, non avevo più di quattro anni; non avevo mai ucciso la minima creatura vivente; eppure avevo visto altri bambini divertirsi ad ammazzare uccelli, scoiattoli e altri animaletti... Un giorno nell’acqua poco profonda di uno stagno scoprii una piccola tartaruga a chiazze che si riscaldava al sole; alzai il bastone per colpirla... D’improvviso qualcosa fermò il mio braccio e sentii in me una voce chiara e forte che diceva: questo è male! Sorpreso da questa nuova emozione, da questa potenza sconosciuta che in me e mio malgrado si opponeva alle mie azioni, tenni il bastone sospeso in aria finché non ebbi perso di vista la tartaruga... Posso affermare che nessun avvenimento nella mia vita mi ha lasciato un’impressione altrettanto profonda e durevole». In questo nuovo esempio l’azione improvvisa dell’inclinazione è più notevole ancora che nel precedente, perché sospende un’azione cominciata e oppone un brusco ostacolo alla scarica nervosa che stava per prodursi: è un colpo di scena, una rivelazione improvvisa. La potenza del sentimento è messa in rilievo più da un blocco che da un impulso, più da un divieto che da un ordine; così, dopo un’esperienza di questo genere, il sentimento di ciò che «si deve» può già rivestire, per la coscienza riflessa, un carattere mistico che non ha sempre negli altri casi. L’intelligenza, quando si trova messa così all’improvviso di fronte a un istinto profondo e forte, è portata a una sorta di rispetto religioso. Così, dal punto di vista ristretto della pura dinamica mentale in cui ci po-
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niamo, il dovere può già produrre un sentimento di rispetto che gli viene sia dalla sua grande potenza sospensiva che dalla sua origine misteriosa. La forza del sentimento morale acquista un carattere via via più notevole quando assume la forma non più di un impulso o di una repressione improvvisa, ma di una pressione interna, di una tensione costante. Nella maggior parte dei casi e nella maggioranza delle persone il sentimento di ciò che si deve fare non è violento ma è duraturo: in mancanza dell’intensità esso ha dalla sua parte il tempo che è ancora il più potente dei fattori. Una tensione poco forte ma che agisce in modo continuo e sempre nella stessa direzione deve necessariamente trionfare di resistenze molto più forti ma che si neutralizzano vicendevolmente. Quando nell’animo di Giovanna d’Arco apparve distintamente, per la prima volta, l’idea fissa di soccorrere la Francia, questa idea non le impedì di ricondurre il suo gregge all’ovile; ma poi l’ossessione di questa stessa idea doveva far deviare tutta la sua vita di giovane contadina, cambiare le sorti della Francia e modificare così in modo sensibile il cammino dell’umanità. Se consideriamo dunque il sentimento morale nelle sue analogie, non con la forza viva, ma con la forza di tensione, potremo renderci meglio conto in primo luogo della sua potenza e quindi della forma speciale che questa potenza assumerà più tardi nello spirito: il sentimento di obbligo morale. La forza di tensione può appartenere ad ogni istinto che risponda alle seguenti condizioni: 1) essere quasi indistruttibile; 2) essere quasi costante e non avere, ad esempio, le intermittenze della fame; 3) essere in armonia e in associazione, non in opposizione, con gli altri istinti che favoriscono la conservazione della specie. Osserviamolo subito, quel che si chiama propriamente obbligo morale non comporta l’esecuzione immediata dell’atto e neppure in modo generale la sua esecuzione: esso accompagna l’idea di un atto possibile e non necessario. In questo caso dunque il dovere non è più un impulso irresistibile, bensì duraturo; è un’ossessione sublime. Come ha mostrato Darwin, noi acquisiamo rapidamente l’esperienza del fatto che un’inclinazione non viene distrutta dalla sua violazione: la scontentezza che proviamo dopo aver disubbidito ad essa ci prova la nostra impotenza a sradicare l’istinto che abbiamo avuto il potere di violare. Questo istinto può essere, in ogni istante del tempo, inferiore alla somma di forze che richiede l’azione da compiere, ma appare nella coscienza come destinato a riempire la totalità del tempo e acquisisce così una potenza di nuovo tipo. Noi abbiamo dunque, tra le forze interiori, il sentimento di una
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forza che non è insormontabile, ma che è per noi indistruttibile (o almeno ci sembra tale in base a una serie di esperienze). Sotto questo aspetto l’obbligo, nel suo stato più elementare, è la previsione della durata indefinita di un’inclinazione impersonale e generosa, l’esperienza della sua indistruttibilità. Così non vi è coscienza chiara del legame dell’obbligo prima che vi sia stato rimorso più vivo o meno vivo, cioè persistenza dell’istinto malgrado la sua violazione: la colpa è un elemento necessario nella formazione della coscienza morale riflessiva. – In fondo è l’idea di tempo che comincia a dare il suo carattere particolare a questo istinto del dovere in cui Kant vedeva soltanto la manifestazione dell’atemporale. Nella foga della passione solo l’intensità attuale delle inclinazioni entra nel computo delle forze che agiscono sul cervello: l’avvenire o il passato non hanno influenza; ora, invece, il passato e l’avvenire, richiamati o intravvisti, sono una condizione della moralità. La pressione dei grandi istinti utili alla specie si trova accresciuta all’infinito quando nella nostra immaginazione si moltiplica per tutti i momenti del tempo. Per diventare morale un essere deve vivere nella durata. Conosciamo gli esempi con cui Darwin mostra che, se gli animali avessero la nostra intelligenza, il loro istinto darebbe luogo a un sentimento di obbligo. Questo sentimento di obbligo, feeling, dal punto di vista dinamico è indipendente dalla direzione effettivamente morale o non morale dell’istinto; dipende soltanto dalla sua intensità, dalla sua durata e dalla resistenza o dal sostegno che trova nell’ambiente. «Supponiamo, dice Darwin, per prendere un caso estremo, che gli uomini si fossero prodotti nelle condizioni di vita delle api: non c’è alcun dubbio che le nostre femmine non sposate, come le api operaie, considererebbero un sacro dovere uccidere i loro fratelli e che le madri tenterebbero di distruggere le loro figlie feconde senza che nessuno vi trovasse nulla da ridire»1. Ora, perché l’istinto morale, che nell’uomo si è trovato di fatto a coincidere con l’istinto sociale e umanitario, è così impossibile da appagare e non assume la forma periodica degli altri istinti? – Vi sono due tipi di istinti: gli uni portano a rimediare ad un dispendio di forze, gli altri a produrne uno. I primi sono limitati dal loro stesso oggetto: scompaiono una volta appagato il bisogno; sono periodici e non continui. La polifagia, per esempio, è una rarità. Gli altri tendono molto spesso a diventare continui, inappagati. Così in certi organismi depravati l’istinto sessuale può perdere il suo carattere abituale di
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periodicità e di regolarità per diventare ninfomania o satiriasi. Ogni istinto che porta ad un dispendio di forze può divenire così insaziabile: depravazione intellettuale, amore del denaro, del gioco, della lotta, dei viaggi, ecc. Bisogna anche distinguere tra gli istinti che richiedono un dispendio variato di forze e quelli che richiedono sempre lo stesso dispendio. Gli istinti che si applicano ad un organo determinato si esauriscono molto facilmente. Quelli che racchiudono una serie di tendenze indeterminate (come ad esempio l’amore dell’esercizio, del moto, dell’azione) possono essere soddisfatti molto più difficilmente, perché la varietà del dispendio costituisce una sorta di riposo. L’istinto sociale e morale, in quanto forza mentale, è di questo tipo: è dunque fra quelli che diventano facilmente insaziabili e continui. Ora, che cosa succede quando un istinto qualunque è diventato insaziabile? Ogni volta che si tratta di un istinto poco variato nelle sue manifestazioni si produce un logoramento dell’organismo che non può essere sufficiente a colmare il dispendio. La ninfomane non ha figli. Un eccessivo dispendio cerebrale blocca parimenti la fecondità, uccide prematuramente. L’amore esagerato del pericolo e della guerra moltiplica i rischi e diminuisce le possibilità di vita. Ma ci sono alcune rare inclinazioni che possono diventare insaziabili senza opporsi alla moltiplicazione della specie e anzi favorendola. In primo luogo vi è, naturalmente, l’inclinazione altruistica: la più adatta a produrre un sentimento forte e persistente dopo una soddisfazione passeggera. Anche dal punto di vista fisiologico è possibile mostrare così la necessaria formazione dell’istinto sociale e morale. L’istinto estetico, che porta l’artista a ricercare le belle forme, ad agire secondo un ordine e una misura, a perfezionare tutto ciò che fa, è assai simile alle inclinazioni morali e può, come queste, far nascere un certo sentimento rudimentale di obbligo: l’artista si sente interiormente costretto a produrre, a creare, e a creare opere armoniose; è offeso dalla mancanza di gusto tanto vivamente quanto molte coscienze comuni lo sono per un fallo della condotta; rispetto alle forme, ai colori o ai suoni, egli prova incessantemente quel doppio sentimento di indignazione e di ammirazione che si potrebbe credere riservato ai giudizi morali. L’artigiano stesso, il buon operaio si compiace di fare quello che fa, ama il suo lavoro, non può ammettere di lasciarlo incompiuto, di non perfezionare la sua opera. Questo istinto, che deve ritrovarsi perfino nell’uccello che costruisce il suo nido e che si è manifestato con straordinaria potenza in alcuni temperamenti di artisti, in un popolo come i Greci, avrebbe
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potuto indubbiamente dar luogo, sviluppandosi, ad un obbligo estetico analogo all’obbligo morale; ma l’istinto estetico era legato solo indirettamente alla propagazione della specie: per questa ragione non si è abbastanza generalizzato e non ha acquistato un’intensità sufficiente. Ha assunto reale importanza solo sul terreno della selezione sessuale: nei rapporti fra i sessi il gusto estetico ha qualcosa di simile al legame morale; il disgusto, se gli si vuole far violenza, termina in una sorta di rimorso. Il disgusto estetico, provato da un individuo per certi individui dell’altro sesso, si osserva perfino negli animali: si sa che uno stallone disdegnerà le giumente troppo ordinarie alle quali lo si vorrebbe accoppiare. Nell’uomo questo stesso sentimento – legato d’altronde a una quantità di altri, sociali o morali – produrrà effetti ben più decisi: le negre, che i padroni volevano accoppiare come gli animali e sposare a forza a maschi scelti da loro, sono arrivate al punto di strangolare i figli di questa unione forzata (eppure la promiscuità è frequente fra i negri). Un uomo che cerca di soddisfare il suo desiderio brutale con una donna fisicamente ed esteticamente troppo al di sotto di lui ne prova poi una vergogna interiore: ha il sentimento di una degradazione della razza. La giovane che sposa, per obbedire ai suoi genitori, un uomo che non le piace può sentire in seguito un disgusto, abbastanza vicino al rimorso morale, tanto forte da gettarsi dalla finestra della camera nuziale. In tutti questi esempi il sentimento estetico produce gli stessi effetti del sentimento morale: genio e bellezza obbligano; come ogni potenza che scopriamo in noi, essi ci conferiscono ai nostri occhi una dignità e ci impongono un dovere. Se il genio fosse stato assolutamente necessario ad ogni individuo per vincere nella lotta per la vita, esso si sarebbe probabilmente generalizzato: l’arte sarebbe oggi un fondo comune agli uomini, come la virtù. Al di fuori dell’istinto morale ed estetico, uno di quegli istinti che hanno potuto, in certi individui, svilupparsi abbastanza perché la scuola inglese vi vedesse un analogo del sentimento di obbligo è l’inclinazione così spesso addotta ad esempio da questa scuola: l’avarizia. Ma anche dal punto di vista ristretto e ancora grossolano in cui ci poniamo qui, notiamo l’inferiorità di questa inclinazione rispetto all’istinto morale. L’avarizia, diminuendo le comodità della vita, produce lo stesso effetto della miseria; non favorisce la fecondità perché l’avaro ha paura di avere figli; inoltre nel bambino ostacolato nel suo sviluppo dall’avarizia paterna si produce molto spesso una reazione che lo spinge alla prodigalità. Infine, ragione decisiva, l’avarizia, non avendo alcuna utilità sociale, non è stata incoraggiata dall’opinione pubblica. Suppo-
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nete una società di avari: ognuno avrà solo uno scopo, trasformare il proprio vicino in prodigo per mettere le mani sul suo oro; se tuttavia, per un’ipotesi assurda, gli avari si intendessero perfettamente fra loro e si eccitassero vicendevolmente all’avarizia, non tardereste a veder nascere un dovere di parsimonia forte quanto ogni altro sentimento di obbligo. Tra i nostri contadini francesi, e soprattutto fra gli ebrei, si può trovare questo obbligo poco morale innalzato quasi allo stesso livello dei doveri morali. Un membro di una società di avari si sentirebbe probabilmente più obbligato, ad esempio, alla parsimonia che alla temperanza, oppure al coraggio; proverebbe più rimorsi per aver mancato al primo obbligo che non agli altri. Da tutto ciò si può concludere, indipendentemente da molte altre considerazioni, che i diversi doveri morali, forme diverse dell’istinto sociale o altruistico, non potevano non nascere, e che non ne potevano nascere altri. Una nuova ragione che doveva assicurare il trionfo dell’istinto morale è l’impossibilità di placare il rimorso, di farlo cessare con una buona azione, come si fa cessare la fame. Calmata la fame, la sofferenza provata non è altro che un ricordo vago che si cancella; non è la stessa cosa per il rimorso; il passato pare come incancellabile e sempre cocente. Del resto tutti i bisogni che non sono troppo puramente animali non ammettono nemmeno queste specie di compensazione consentite per la fame e per la sete. Tale è l’amore. Si può rimpiangere indefinitamente l’ora d’amore che vi offriva la donna amata e che avete lasciato sfuggire senza averla mai potuta ritrovare: l’amante, come si vede in una commedia di Shakespeare, non può sostituire una donna con un’altra: Vidi che era bella, solo uscendo dai grandi boschi silenti... – Suvvia non pensiamoci più, ella disse – E io ci penso sempre... Alla fine il vantaggio più considerevole degli istinti morali, in quanto istinti, è che hanno l’ultima parola. Se mi sacrifico, o muoio oppure sopravvivo con la soddisfazione del dovere compiuto. Gli istinti egoistici sono invece sempre contrastati nel loro trionfo. Godere della soddisfazione del dovere compiuto significa dimenticare la sofferenza provata nel compierlo. Invece il pensiero di aver mancato al dovere porta qualcosa di amaro anche nel piacere. In genere il ricordo del lavoro, della tensione, dello sforzo impiegato per la soddisfa-
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zione di un istinto qualunque si cancella molto rapidamente; ma il ricordo dell’istinto non soddisfatto persiste quanto l’istinto stesso. Leandro dimenticava rapidamente nelle braccia di Ero lo sforzo fatto per attraversare l’Ellesponto; non avrebbe potuto dimenticare Ero nelle braccia di un’altra amante. Una volta stabilito l’istinto morale nella sua generalità, con la sua forza in costante tensione, in che ordine esso ha dato origine ai diversi istinti morali particolari la cui formula riflessa costituirà i diversi doveri? – In un ordine spesso contrario a quello logico adottato dai moralisti. La maggioranza dei moralisti mette in primo piano i doveri verso se stessi, la conservazione della dignità interiore; di seguito pongono i doveri di giustizia e quindi quelli di carità. Quest’ordine non ha nulla di assoluto e l’evoluzione delle inclinazioni morali si è spesso prodotta secondo un ordine opposto: il selvaggio ignora per lo più la giustizia e il diritto propriamente detti, ma è capace di provare un moto di pietà; ignora la temperanza, il pudore, ecc. ma in casi di necessità rischierà la vita per la sua tribù. La temperanza e il coraggio sono in gran parte virtù sociali e derivate. La temperanza, ad esempio, è ancora nelle masse una virtù sociale; se un uomo del popolo, al pranzo a cui è stato invitato, non mangia e non beve in abbondanza come all’osteria, lo fa più per paura di essere sconveniente o per timore di un’indigestione che non per un sentimento di delicatezza morale. Il coraggio non esiste senza un certo desiderio di lode e di onore; esso si è sviluppato ampiamente, come ha mostrato Darwin, grazie all’effetto della selezione sessuale. Infine i doveri verso se stessi, quali li concepisce un moderno, si riconducono in gran parte ai doveri verso gli altri. I moralisti distinguono i doveri negativi dai doveri positivi, l’astensione dall’azione. L’astensione, la quale suppone che uno sia padrone di sé, sui compos, è la prima virtù dal punto di vista morale: coincide con la giustizia; ma è molto meno primitiva dal punto di vista dell’evoluzione. Una delle cose più difficili da ottenere dagli esseri primitivi è proprio l’astensione. Così quello che chiamiamo il diritto e il dovere in senso stretto è per lo più successivo al dovere in senso esteso; esso presenta per i popoli primitivi un carattere spesso meno obbligatorio. Gettarsi nella mischia per soccorrere un compagno sembrerà a un selvaggio (e a molti uomini civilizzati) più obbligatorio e più onorevole che non l’astenersi dal prendergli la donna. Gli australiani, dice Cunningham, non considerano la vita umana più di quella di una farfalla; non di meno sono capaci, a tempo debito, di carità e anche di eroismo. I polinesiani praticano l’infanticidio senza ombra di rimorso; ma possono amare molto
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teneramente i bambini che hanno ritenuto valesse la pena di conservare. C’è nello sforzo richiesto dall’astensione uno spiegamento di volontà talvolta maggiore che non nell’azione, ma meno visibile; da questa minore visibilità i moralisti sono stati portati ad attribuirle un’importanza secondaria: non si sente lo sforzo di Ercole che solleva un fardello a braccio teso proprio perché questo braccio è immobile e non trema; ma questa immobilità costa più energia interiore di molti movimenti. Fino ad ora abbiamo considerato il sentimento morale soltanto come un sentimento cosciente del suo rapporto con gli altri sentimenti dello spirito umano che non ha però indagato il suo principio e le sue cause nascoste, che è dunque, in una parola, non filosofico. Che cosa succederà quando questo sentimento diventerà riflesso, ragionato, quando l’uomo morale vorrà spiegare le cause della sua azione e legittimarla? Se prestiamo fede a Spencer, l’obbligo morale, che implica resistenza e sforzo, dovrà scomparire un giorno per lasciar posto ad una sorta di spontaneità morale. L’istinto altruistico sarà così incomparabilmente forte che ci trascinerà senza lotta. Noi non misureremo nemmeno la sua potenza perché non avremo la tentazione di resistergli. Allora, si potrebbe dire, la forza di tensione che possiede l’idea del dovere si trasformerà, non appena se ne presenterà l’occasione, in forza viva e noi ne prenderemo, per così dire, coscienza solo come forza viva. Verrà un giorno – dice addirittura Spencer – in cui l’istinto altruistico sarà così potente che gli uomini si disputeranno le occasioni per esercitarlo, le occasioni di sacrificio e di morte. Spencer va troppo lontano. Egli dimentica che, se la civiltà tende a sviluppare indefinitamente l’istinto altruistico, se trasforma a poco a poco le regole più alte della morale in semplici regole di convenienza sociale, quasi di buona creanza, d’altra parte la civiltà sviluppa all’infinito l’intelligenza riflessiva, l’abitudine all’osservazione interiore ed esteriore, in una parola lo spirito scientifico. Ora lo spirito scientifico è il grande nemico di ogni istinto: è la forza dissolvente per eccellenza di tutto ciò che la natura da parte sua ha legato. È lo spirito rivoluzionario: lotta incessantemente contro lo spirito di autorità in seno alle società; lotterà anche contro l’autorità in seno alla coscienza. Qualunque origine si attribuisca all’impulso del dovere, se questo impulso non è giustificato dalla ragione, potrà trovarsi gravemente modificato dallo sviluppo continuo della ragione nell’uomo. La natura umana – diceva uno scettico cinese a Mencio, il fedele discepolo di Confucio – è così malleabile e
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flessibile che sembra un ramo di salice; l’equità e la giustizia sono come una cesta intrecciata con questo salice. – Ma l’essere morale ha bisogno di credersi una quercia dal cuore fermo, di non sentirsi cedere come il salice davanti alla mano che lo tocca; se la sua coscienza non è altro che una cesta intrecciata dall’istinto con qualche ramo flessibile, la riflessione potrà ben disfare ciò che l’istinto aveva fatto. Il senso morale perderà allora ogni resistenza e ogni solidità. Noi crediamo che sia possibile dimostrare scientificamente la legge seguente: ogni istinto tende a distruggersi divenendo cosciente2. Ci sono state fatte su questo punto, in Francia come in Inghilterra, un certo numero di obiezioni tendenti a stabilire che le teorie morali sono senza influenza sulla pratica. Avevamo mostrato che il senso morale, se per ipotesi viene spogliato di ogni autorità veramente razionale, si trova ridotto al ruolo di ossessione costante o di allucinazione. Ci è stato risposto che il senso morale non ha nulla in comune con un’allucinazione, perché non è né un giudizio né un’opinione. «La coscienza non afferma, comanda, e un comando può essere saggio o folle, non vero o falso»3. Ma, diremo a nostra volta, ciò che costituisce proprio il carattere non sensato di un comando è che non si spiega con ragioni plausibili, che corrisponde cioè a una visione falsa della realtà. Ogni comando racchiude così una «affermazione» e implica non solo «follia» o «saggezza», ma errore o verità. Allo stesso modo ogni affermazione racchiude implicitamente una regola di condotta: un folle non è soltanto ingannato dalle idee che lo ossessionano, è diretto da esse; le nostre illusioni ci comandano e ci governano. Il sentimento morale che mi impedisce di uccidere agisce su di me, come sentimento, attraverso le stesse molle dell’inclinazione immorale che spinge un maniaco a uccidere; noi siamo mossi entrambi nello stesso modo, ma secondo ragioni e moventi contrari. Bisogna dunque sempre giungere a valutare se la mia ragione possiede più valore razionale di quella dell’assassino. Tutto sta qui. Se ora, per apprezzare il valore razionale delle ragioni, ci rapportiamo a un criterio puramente positivo e scientifico, si produrranno un certo numero di conflitti fra l’utilità pubblica e quella personale, conflitti che è bene prevedere. Quanto alla speranza che l’istinto possa risolvere da solo questi conflitti, non la condividiamo; al contrario l’istinto si troverà sempre più alterato nell’uomo dai progressi della riflessione. Noi non potremmo dunque trovarci d’accordo con i nostri critici inglesi su questo punto essenziale. L’etica, che è una sistematizzazione dell’evoluzione morale nell’umanità, è forse priva di influenza su questa stessa evoluzione, e
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non può modificarne il senso in modo importante? In termini più generali, ogni fenomeno che giunge alla coscienza di sé non si trasforma sotto l’influenza stessa di questa coscienza? – Altrove abbiamo notato che l’istinto di adattamento, così importante nei mammiferi, tende oggi a scomparire in molte donne. Vi è un fenomeno che è ancora più essenziale, ed è anzi il più essenziale di tutti, quello della generazione, che tende a modificarsi secondo la stessa legge. In Francia (dove la maggior parte del popolo non è trattenuto da considerazioni religiose) la volontà personale si sostituisce parzialmente, nell’atto sessuale, all’istinto di riproduzione. Da ciò deriva l’accrescimento lentissimo della popolazione, che produce, nel nostro paese, da un lato la nostra inferiorità numerica rispetto alle altre nazioni del continente, dall’altro la nostra superiorità economica (molto provvisoria del resto e già compromessa). Ecco un esempio lampante dell’intervento della volontà nella sfera degli istinti. L’istinto, che non è più protetto da un credo religioso o morale, diventa impotente a fornire una regola di condotta. La regola è ricavata da considerazioni del tutto razionali e in generale da considerazioni di pura utilità personale, e non di utilità sociale. Il più importante dovere dell’individuo è tuttavia la procreazione che assicura la durata della razza. Così in molte specie animali l’individuo vive solo per generare e la morte segue immediatamente il momento della fecondità. Oggi questo dovere, primario in tutta la scala animale, si trova relegato agli ultimi posti nella popolazione francese, che sembra perseguire di proposito il massimo dell’infecondità. Non si tratta qui di biasimare, ma di constatare. La scomparsa graduale e necessaria della religione e della morale assoluta ci riserva molte sorprese di questo genere; se non c’è da spaventarsene, almeno bisogna cercare di prevederle all’interno di una prospettiva scientifica. Altra osservazione: il semplice eccesso di scrupolo può giungere a dissolvere l’istinto morale; per esempio nei confessori e nelle loro penitenti. Bagehot nota del pari che, ragionando eccessivamente sul pudore, si può indebolirlo e gradualmente perderlo. Tutte le volte che la riflessione si volge costantemente su un istinto, su un’inclinazione spontanea, tende ad alterarla. Questo fatto si spiegherebbe forse fisiologicamente con l’azione moderatrice della corteccia cerebrale sui centri nervosi secondari e su ogni azione riflessa. Se un pianista, ad esempio, suona a memoria un pezzo imparato meccanicamente, bisogna che lo suoni con sicurezza e disinvoltura, senza osservarsi troppo da vicino, senza voler rendersi conto del movimento istintivo delle dita: ragionare su un sistema di azioni riflesse o di abitudini equivale a turbarlo4.
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L’istinto morale, che l’evoluzione tende a fortificare in tanti modi, potrà dunque ricevere qualche alterazione dallo sviluppo eccessivo dell’intelligenza riflessiva. Nella morale bisogna distinguere certamente con cura le teorie metafisiche e la moralità pratica: questa distinzione noi l’abbiamo fatta altrove; ma non possiamo concedere ai filosofi inglesi che le teorie non influiscano mai sulla pratica, o almeno che influiscano così poco come essi sostengono. Pollock e Leslie Stephen paragonano la morale alla geometria: le ipotesi relative alla realtà del dovere, ci dice Pollock, non hanno maggior influenza sulla condotta di quanta ne abbiano le ipotesi relative alla realtà dello spazio e delle sue dimensioni. Pollock e Leslie dimenticano che, se lo spazio ha quattro dimensioni invece di tre, questo non interessa né le mie gambe né le mie braccia, che si muoveranno sempre nelle tre dimensioni note; se esistesse invece per me un mezzo per muovermi secondo nuove dimensioni, e se ciò potesse essermi vantaggioso in qualche modo, io mi affretterei a tentare di distruggere la mia precedente intuizione dello spazio lavorando a questo con tutte le mie forze. È proprio ciò che succede nell’ambito morale: tutto un campo di attività, chiuso fino ad allora dal fantasma dell’idea del dovere, si apre talvolta davanti a me; se mi accorgo che non vi è alcun male reale nel fatto che io mi eserciti liberamente, ma invece ogni beneficio per me, come potrei non approfittarne? La differenza tra le speculazioni scientifiche ordinarie e le speculazioni sulla morale è che le prime indicano semplici alternative per il pensiero, mentre le seconde indicano allo stesso tempo delle alternative per l’azione. Tutte le possibilità intravviste dalla scienza sono qui realizzabili per noi stessi: tocca a me realizzare l’iperspazio. Il risultato che ci predice Spencer – scomparsa graduale del senso di obbligo – potrebbe dunque ottenersi in una maniera molto diversa da quella di cui parla. L’obbligo morale scomparirebbe non perché l’istinto morale diverrebbe irresistibile, ma, al contrario, perché l’uomo non terrebbe più conto di nessun istinto, sottoporrebbe tutta la sua condotta a un esame razionale, svolgerebbe la sua vita come una serie di teoremi. Si può dire che per Vincenzo de’ Paoli l’obbligo morale, in ciò che ha di penoso e austero, era scomparso: egli era spontaneamente buono; ma si può dire anche che per Spinoza esso era ugualmente scomparso: egli si era sforzato di combattere ogni pregiudizio morale, obbediva ad un istinto solo nella misura in cui poteva accettarlo deliberatamente. Era un essere più razionale che morale. Subiva, non più l’obbligo sempre oscuro e, per così dire, opaco proveniente dalla sua natura
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morale, ma l’obbligo chiaro e come trasparente proveniente dalla sua ragione. E laddove quest’obbligo gli imponeva una qualunque sofferenza, egli doveva provare quel sentimento stoico e di origine intellettuale, la rassegnazione, piuttosto che quel sentimento cristiano di origine mistica, la gioia traboccante del dovere compiuto. Chiunque si analizzi eccessivamente è necessariamente infelice. Se dunque è possibile che lo spirito di analisi costi un giorno a qualcuno la sua moralità, gli costerà nello stesso tempo la felicità: sono sacrifici troppo grandi perché possano tentare molte persone. Eppure il compito del filosofo è di ragionare anche i suoi istinti; deve sforzarsi di giustificare l’obbligo, per quanto lo sforzo stesso per giustificare il sentimento morale rischi di alterarlo – rendendo l’istinto cosciente di sé, rendendo riflesso ciò che era spontaneo. Cerchiamo nel dominio dei fatti, in cui ci siamo metodicamente rinchiusi, tutte le forze che potranno lottare contro la dissoluzione morale e sostituire così l’obbligo assoluto degli antichi moralisti5. Note Cfr. [Ch. R. Darwin] The descent of man [and selection in relation to sex, Murray, London 1871] e la nostra Morale anglaise contemporaine, cit. – Si potrebbe cercare una verifica empirica di queste teorie sul rapporto tra istinto e obbligo; a questo scopo bisognerebbe continuare in modo metodico le esperienze iniziate da Charcot e Richet su quelle che chiameremo le suggestioni morali nel sonnambulismo provocato. Secondo queste esperienze, un ordine dato a una sonnambula durante il sonno viene da lei eseguito al risveglio, dopo un tempo più o meno lungo, senza che lei possa capire le ragioni che l’hanno spinta ad agire: sembra che l’ipnotizzatore sia riuscito così a creare dal nulla una tendenza interiore, un’inclinazione che persiste nell’ombra e s’impone alla volontà del paziente. In questi esempi curiosi il sogno del sonnambulo lo domina e dirige ancora la sua vita dopo il risveglio: è come un istinto artificiale allo stato nascente. Ecco, ad esempio, un caso curioso osservato da Richet. Si tratta di una donna che aveva la mania di non mangiare a sufficienza. Un giorno, durante il sonno, Richet le disse che doveva mangiare molto. Una volta sveglia la donna aveva completamente dimenticato la raccomandazione; nei giorni successivi tuttavia la religiosa dell’ospedale prese da parte Richet per dirgli che non capiva nulla del cambiamento avvenuto nella paziente. «Ora, gli disse, lei mi chiede sempre più di quello che le do». Se il fatto è stato osservato esattamente, vi è qui non solo esecuzione di un ordine particolare, ma impulso inconscio che si avvicina molto all’istinto naturale. Insomma, ogni istinto naturale o morale deriva, secondo l’osservazione di Cuvier, da una sorta di sonnambulismo, poiché ci dà un ordine di cui ignoriamo la ragione: noi sentiamo la «voce della coscienza» senza sapere da dove viene. Per variare le esperienze bisognerebbe ordinare alla paziente, non solo di mangiare, ma, per esempio, di alzarsi presto tutti i giorni, di lavorare assi1
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duamente. Si potrebbe arrivare in questo modo a modificare gradatamente il carattere morale delle persone e il sonnambulismo provocato potrebbe assumere importanza, come mezzo di azione, nell’igiene morale di alcuni malati. Se si potesse creare così un istinto artificiale, non dubitiamo che vi si unirebbe un certo obbligo mistico, a meno che questo non incontrasse la resistenza di altre inclinazioni preesistenti e più vive. Si potrebbe anche fare l’esperienza inversa e vedere se non fosse possibile annullare, con una serie di ordini ripetuti, questo o quell’istinto naturale. Si dice che si può far perdere la memoria ad una sonnambula, per esempio la memoria dei nomi; si può anche, secondo Richet, far perdere tutta la memoria (Revue Philosophique, 8 ottobre 1880); egli aggiunge: «Questa esperienza deve essere tentata con grande prudenza; ho visto sopravvenire in questo caso un tale terrore e un tale disordine nell’intelligenza, disordine che è perdurato per un quarto d’ora circa, che non vorrei rifare spesso questo tentativo pericoloso». Se si identifica la memoria, come fanno la maggior parte degli psicologi, con l’abitudine e l’istinto, si penserà che sia possibile anche annientare provvisoriamente, o almeno diminuire, in una sonnambula un determinato istinto, anche dei più fondamentali e obbligatori, come l’istinto materno, il pudore, ecc. Resta da sapere se questa soppressione dell’istinto non lasci qualche traccia dopo il risveglio. Si potrebbe allora provare la forza di resistenza dei diversi istinti, per esempio degli istinti morali, e constatare quali sono le più profonde e tenaci fra le inclinazioni, le egoistiche o le altruistiche. Si potrebbe in ogni caso tentare l’esperienza per distruggere le cattive abitudini o le manie ereditarie; si potrebbe vedere se una serie di ordini o di consigli ripetuti a lungo durante il sonno possa attenuare, ad esempio, la mania di grandezza o di persecuzione. Si comanderebbe di amare i propri nemici al pazzo che si crede oggetto di odio; si vieterebbe la preghiera al pazzo che crede di entrare in comunicazione diretta con Dio, ecc. In altre parole si tenterebbe di controbilanciare una mania naturale con un impulso artificiale creato durante il sonno. Si avrebbe così nel sonnambulismo un campo di osservazioni psicologiche e morali molto più ricco di quello offerto dalla follia. L’uno e l’altra sono squilibri del meccanismo mentale; ma nel sonnambulismo provocato questo squilibrio può essere calcolato e regolato dall’ipnotizzatore. – Dopo la prima edizione di questo libro molte esperienze di questo tipo sono state tentate, e con successo. 2 Cfr. la nostra Morale anglaise contemporaine, cit. (parte II, libro III). Questo ammette anche Th. Ribot (L’hérédité [étude] psychologique [sur ses phénomènes, ses lois, ses causes, ses conséquences, Germer-Baillière, Paris 1882], II ed., p. 342); ma aggiunge: «L’istinto scompare solo davanti a una forma di attività mentale che lo sostituisce facendo meglio... L’intelligenza non potrebbe uccidere il sentimento morale se non trovando di meglio». Sicuramente, a condizione che si prenda la parola meglio in un senso tutto fisico e meccanico; ad esempio, è meglio, è preferibile per il cuculo deporre le uova nel nido degli altri uccelli, ma questo non sembra essere meglio in senso assoluto né soprattutto per gli altri uccelli. Un miglioramento dal punto di vista dell’individuo e anche della specie potrebbe dunque non essere sempre identico a ciò che noi chiamiamo «il miglioramento morale». È questo in ogni caso un problema che merita di essere esaminato: ed è proprio quello che esaminiamo in questo volume. 3 Cfr. F. Pollock, Mind (t. IV, p. 446). 4 Cfr. su questo punto i [nostri] Problèmes de l’esthétique contemporaine, cit., p. 137. 5 Come complemento dei capitoli precedenti è essenziale leggere anche i capitoli paralleli
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di Education et hérédité sulla Genèse de l’instinct moral. Possiamo citarne qui soltanto le conclusioni. «Le analisi precedenti portano a questa conclusione, che essere morale significa innanzitutto sentire la forza della propria volontà e la molteplicità delle potenze che ognuno porta in sé; in secondo luogo concepire la superiorità dei possibili aventi per oggetto l’universale su quelli che si riferiscono solo a oggetti particolari. La rivelazione del dovere è al tempo stesso la rivelazione di un potere che è in noi e di una possibilità che si estende al più grande gruppo di esseri su cui abbiamo influenza. C’è qualcosa di infinito percepito attraverso i limiti che l’obbligo particolare ci impone, e questo infinito non ha nulla di mistico. Nel dovere noi sentiamo, proviamo, come direbbe Spinoza, che la nostra personalità può svilupparsi sempre di più, che siamo noi stessi infiniti per noi, che il nostro oggetto più certo di attività è l’universale. Il sentimento di obbligo non si riferisce a un’inclinazione isolata proporzionalmente alla sua sola intensità; è proporzionale alla generalità, alla forza di espansione e di associazione di un’inclinazione. È per questo che il carattere obbligatorio delle tendenze essenziali della natura umana cresce man mano che ci si allontana dalla pura necessità inerente alle funzioni grossolane del corpo. Abbiamo dunque sottolineato, in sintesi, i tre stadi seguenti nello sviluppo dell’istinto morale: 1) impulso meccanico, che appare solo momentaneamente nella coscienza per tradursi in inclinazioni cieche e in sentimenti irrazionali; 2) impulso ostacolato senza essere distrutto, che tende di per sé a invadere la coscienza, a tradurvisi incessantemente in sentimento e a produrre una ossessione durevole; 3) idea-forza. Il sentimento morale, che raggruppa attorno a sé un numero crescente di sentimenti e di idee, diventa non solo un centro di emozioni, ma un oggetto di coscienza riflessa. Nasce allora l’obbligo: è una specie di ossessione ragionata, un’ossessione che la riflessione non dissolve ma fortifica. Prendere coscienza di doveri morali significa prendere coscienza di poteri interiori e superiori che si sviluppano in noi e ci spingono ad agire, di idee che tendono a realizzarsi grazie alla loro forza propria, di sentimenti che per la loro stessa evoluzione tendono a socializzarsi, a impregnarsi di tutta la sensibilità presente nell’umanità e nell’universo. L’obbligo morale, in una parola, è la duplice coscienza: 1) della potenza e della fecondità di idee-forza superiori che si avvicinano per il loro oggetto all’universale; 2) della resistenza delle inclinazioni contrarie ed egoistiche. La tendenza della vita al massimo di intensità e di espansione è la volontà elementare; i fenomeni di impulso irresistibile, di semplice ossessione durevole, infine di obbligo morale sono il risultato dei conflitti o delle armonie di questa volontà elementare con tutte le altre inclinazioni dell’anima umana. La soluzione di questi conflitti non è altro che la ricerca e il riconoscimento dell’inclinazione normale che racchiude in noi il maggior numero di tendenze ausiliari, che si è associato al maggior numero delle altre nostre tendenze durevoli e che ci avvolge così con i più stretti legami. In altri termini è la ricerca dell’inclinazione più complessa e insieme più persistente. Ora questi caratteri appartengono all’inclinazione rivolta verso l’universale. L’azione morale è dunque come il suono che risveglia in noi il maggior numero di armonici, le vibrazioni più durevoli e al tempo stesso più ricche» (Education et hérédité, cit., p. 65).
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Libro secondo ULTIMI EQUIVALENTI POSSIBILI DEL DOVERE PER IL MANTENIMENTO DELLA MORALITÀ
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Capitolo primo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 14/10/2018
Il piacere del rischio e della lotta come quarto equivalente del dovere
Il problema Richiamiamo alla mente il problema capitale che si pone ad ogni morale esclusivamente scientifica: fino a che punto la coscienza riflessiva può sentirsi legata da un impulso, da una pressione interiore che, per ipotesi, ha solo un carattere naturale, non mistico e nemmeno metafisico e che, per di più, non è completata dalla prospettiva di alcuna sanzione extrasociale? In che misura la coscienza riflessiva deve razionalmente obbedire ad un «obbligo» di questo genere? Una morale positiva e scientifica, abbiamo detto, non può dare all’individuo che questo comando: sviluppa la tua vita in tutte le direzioni, sii un individuo quanto più possibile ricco di energia intensiva ed estensiva; perciò sii l’essere più sociale e socievole. – In nome di questa regola generale, che è l’equivalente scientifico dell’imperativo, una morale positiva può prescrivere all’individuo certi sacrifici parziali e misurati, può formulare tutta la serie dei doveri medi nei quali si trova racchiusa la vita ordinaria. In tutto ciò, ben inteso, nulla di categorico, di assoluto, ma eccellenti consigli ipotetici: se tu persegui questo obiettivo, la massima intensità di vita, fai questo; insomma è una buona morale media. Come si regolerà questa morale per ottenere dall’individuo, in alcuni casi, un sacrificio definitivo e non più solo parziale e provvisorio? La carità ci spinge a dimenticare quello che ha dato la nostra mano destra, d’accordo; ma la ragione ci consiglia di sorvegliare bene quello che dà. Gli istinti altruistici, invocati dalla scuola inglese, sono suscettibili di ogni genere di restrizioni e di alterazioni; basarsi soltanto su tali istinti per esigere il disinteresse equivale ad introdurre una specie di lotta fra essi e le inclinazioni egoistiche; ora queste ultime sono sicure di prevalere nella maggioranza degli individui perché hanno una radice visibile e tangibile, mentre le altre appaiono alla ragione individuale come il risultato di influenze ereditarie con le quali la razza cerca di ingannare l’individuo. Il ragionamento egoistico è sempre pronto ad intervenire per paralizzare i primi moti spontanei dell’istinto sociale.
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Il ruolo dei centri nervosi superiori consiste in effetti nel moderare l’azione dei centri inferiori, nel regolare i moti istintivi. Se cammino su un sentiero di montagna con un precipizio al mio fianco e un rumore o un timore improvviso mi fanno trasalire, la semplice azione riflessa mi porterà a buttarmi di lato; ma allora la ragione modererà il mio movimento avvertendomi che vicino a me c’è un precipizio. L’edonista si trova in una situazione in un certo senso analoga quando si tratta di gettarsi ciecamente in un atto di abnegazione: il ruolo della ragione è quello di mostrargli l’abisso, di impedirgli di lanciarsi alla leggera sotto l’impulso del primo moto istintivo; e l’«azione inibitrice» della ragione sarà in questo caso altrettanto logica, altrettanto potente nei confronti delle inclinazioni altruistiche di quanto può esserlo nei confronti della semplice azione riflessa. È questo che altrove abbiamo obiettato alla scuola inglese. L’io e il non-io sono dunque uno di fronte all’altro. Sembrano in realtà due valori incommensurabili; c’è nell’io qualcosa sui generis, di irriducibile. Se il mondo, per l’edonista, è quantitativamente superiore al suo io, il suo io deve sembrargli sempre qualitativamente superiore al mondo, dato che per lui la qualità è nel godimento. «Io sono, dice, e voi siete per me solo in quanto esisto e mantengo la mia esistenza: questo è il principio che domina la ragione e i sensi». Fino a che ci si attiene all’edonismo non si può logicamente essere obbligati a disinteressarsi di sé. Ora, l’edonismo nel suo principio fondamentale, che è la conservazione ostinata dell’io, è inconfutabile dal punto di vista dei fatti. Solamente l’ipotesi metafisica può tentare di far superare alla volontà il passaggio dall’io al non-io. Dal punto di vista positivo e fatta astrazione da ogni ipotesi, il problema che abbiamo posto ora sembra, di primo acchito, teoricamente insolubile. Eppure questo problema può trovare una soluzione almeno approssimativa nella pratica. Il piacere del rischio e della lotta come quarto equivalente del dovere È raro che i sacrifici definitivi si presentino nella vita come certi; ad esempio, il soldato è tutt’altro che sicuro – anzi – di cadere nella mischia; non vi è che una semplice possibilità. In altri termini c’è un pericolo. Ora bisogna vedere se il pericolo, anche indipendentemente da ogni idea di obbligo morale, non sia un ambiente utile allo sviluppo della vita stessa, un potente eccitante di tutte le facoltà, capace di portarle al loro massimo grado di energia e anche di produrre un massimo grado di piacere.
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Il piacere del rischio e della lotta
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L’umanità primitiva ha vissuto in mezzo ai pericoli; deve dunque essere rintracciabile ancor oggi in molti individui una naturale predisposizione ad affrontarli. Il pericolo era, per così dire, il gioco degli uomini primitivi, come oggi il gioco è per molte persone una sorta di simulacro del pericolo. Questo gusto del pericolo, affrontato per se stesso, si trova persino negli animali. A questo riguardo c’è un curioso racconto di un viaggiatore in Cambogia: «Un branco di scimmie scorge un coccodrillo con il corpo immerso nell’acqua e la bocca spalancata per afferrare ciò che gli passerà vicino; esse sembrano accordarsi, si avvicinano piano piano e cominciano il loro gioco, di volta in volta attrici e spettatrici. Una delle più agili o delle più imprudenti giunge, di ramo in ramo, fino a rispettosa distanza dal coccodrillo; si tiene sospesa per una zampa e con la destrezza della sua razza avanza, si ritrae, ora allungando una zampata al suo avversario, ora fingendo soltanto di colpirlo. Altre scimmie, divertite da questo gioco, vogliono parteciparvi; ma siccome gli altri rami sono troppo alti formano una catena tenendosi le une alle altre sospese per le zampe; così si dondolano, mentre quella che si trova più vicina all’animale anfibio lo tormenta più che può. A volte la terribile mascella si chiude, ma senza afferrare la scimmia audace: allora sono gridi di gioia e sgambettamenti; a volte invece una zampa viene presa nella morsa e l’acrobata trascinata sott’acqua con la rapidità di un lampo. Allora tutto il branco si disperde lanciando gridi e gemiti; ma ciò non impedisce alle scimmie di ricominciare lo stesso gioco qualche giorno e a volte perfino qualche ora più tardi»1. Il piacere del pericolo è legato soprattutto al piacere della vittoria. Tutti amano vincere non importa chi, sia pure un animale. Si ama provare a se stessi la propria superiorità. Un inglese che venne in Africa col solo scopo di cacciare, un certo Baldwin, si pose un giorno questo problema dopo essere sfuggito alle zanne di un leone: – perché l’uomo rischia la vita senza alcun interesse? «È un problema che non tenterò di risolvere, rispose. Tutto quello che posso dire è che si prova nella vittoria una soddisfazione interiore per cui val la pena di correre tutti i rischi, anche quando non c’è nessuno ad applaudire». Per di più, anche dopo aver perduto la speranza di vincere, ci si ostina nella lotta. Qualunque sia l’avversario, ogni combattimento degenera in duello accanito. Bombonnel, dopo essere rotolato con una pantera fino sull’orlo di un precipizio, ritrasse la testa dalle fauci aperte dell’animale e con uno sforzo prodigioso lo gettò nel burrone. Si rialza, accecato, sputando un bel po’ di sangue e non rendendosi ben conto della situazione; non pensa che ad una
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cosa, cioè che probabilmente morirà per le ferite e che prima di morire vuole vendicarsi della pantera. «Non penso al mio male. Tutto preso dal furore che mi travolge, tiro fuori il coltello da caccia e, non sapendo che ne è della bestia, la cerco da ogni lato per ricominciare la lotta. In questa posizione mi trovarono gli arabi quando arrivarono». Questo bisogno del pericolo e della vittoria che attira il guerriero e il cacciatore lo si ritrova nel viaggiatore, nel colono, nell’ingegnere. Una fabbrica francese di dinamite ha inviato di recente un ingegnere a Panama; all’arrivo egli morì. Un altro ingegnere partì, giunse a destinazione, e morì otto giorni dopo. Un terzo si è subito imbarcato. La maggior parte delle professioni, come quella dei medici, fornirebbe una quantità enorme di esempi del genere. L’attrazione invincibile del mare deriva in gran parte dal pericolo costante che presenta. Il mare tenta una dopo l’altra tutte le generazioni che nascono sulle sue rive e, se il popolo inglese ha acquisito un’intensità di vita e una forza di espansione tali da permettergli di espandersi nel mondo intero, si può dire che lo deve all’educazione ricevuta dal mare, ossia dal pericolo. Dobbiamo notare che il piacere della lotta si trasforma senza scomparire, si tratti della lotta contro un essere animato (guerra e caccia), o della lotta contro ostacoli visibili (mare, montagna), o della lotta contro cose invisibili (malattie da guarire, difficoltà di ogni genere da vincere). La lotta riveste sempre lo stesso carattere di duello appassionato. Il medico che parte per il Senegal, in verità, è deciso ad una sorta di duello con la febbre gialla. La lotta passa dal campo fisico al campo intellettuale senza perdere nulla del suo ardore e della sua ebbrezza. Essa può passare così nel campo propriamente morale: vi è una lotta interiore della volontà contro le passioni, accattivante come ogni altra, in cui la vittoria produce una gioia infinita, ben compresa dal nostro Corneille. Insomma l’uomo ha bisogno di sentirsi grande, di avere di tanto in tanto coscienza del carattere sublime della sua volontà. Questa coscienza egli l’acquisisce nella lotta: lotta contro di sé e contro le sue passioni, o contro ostacoli materiali e intellettuali. Ora questa lotta, per soddisfare la ragione, deve avere uno scopo. L’uomo è un essere troppo razionale per approvare del tutto le scimmie della Cambogia, che giocano per diletto con le fauci dei coccodrilli, o l’inglese Baldwin che per cacciare raggiunge il centro dell’Africa; l’ebbrezza del pericolo esiste a tratti in ognuno di noi, anche nei più timidi, ma questo istinto del pericolo richiede di essere impiegato più razionalmente. Per quanto, in molti casi, vi sia solo una differenza superficiale fra la temerarietà e il co-
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raggio, colui che cade combattendo per la patria, ad esempio, ha coscienza di non aver compiuto un’opera vana. Il bisogno del pericolo e della lotta, quando è così diretto e utilizzato dalla ragione, acquista un’importanza morale tanto maggiore in quanto è uno dei rari istinti che non hanno direzione fissa: può essere utilizzato senza resistenza per tutti i fini sociali. C’era dunque nella scommessa di Pascal un elemento che egli non ha messo in luce. Ha visto soltanto il timore del rischio e non il piacere del rischio. Per capire bene l’attrattiva del rischio, anche quando le probabilità di insuccesso sono molto numerose, si possono invocare parecchie considerazioni psicologiche: 1) Nel calcolo non bisogna far entrare solo le probabilità buone e quelle cattive, ma anche il piacere di tentare la sorte, di avventurarsi; 2) Un dolore semplicemente possibile e lontano, soprattutto quando non è mai stato provato, corrisponde a uno stato ben diverso da quello in cui siamo attualmente, mentre un piacere desiderato è più in armonia con il nostro stato presente e acquisisce così per l’immaginazione un valore considerevole. Per certi caratteri il ricordo di un dolore può essere penoso mentre la possibilità vaga e indeterminata di un dolore può lasciarli indifferenti; così è raro – soprattutto nella giovinezza, età ottimista per eccellenza – che un’occasione di dolore ci sembri equivalente a un’occasione di grande piacere. Questo spiega, ad esempio, l’audacia mostrata in ogni tempo dagli amanti nell’affrontare ogni specie di pericolo per ricongiungersi. Si ritrova questa audacia perfino tra gli animali. Il dolore, visto da lontano, soprattutto quando non è già stato sperimentato a più riprese, ci sembra in genere negativo e astratto, il piacere positivo e palpabile. Inoltre, tutte le volte che il piacere corrisponde a un bisogno, la rappresentazione del godimento futuro è accompagnata dalla sensazione di un dolore attuale: il godimento appare allora non solo come una specie di lusso, ma come la cessazione di un dolore reale, e il suo valore aumenta ulteriormente. Queste leggi psicologiche sono la condizione stessa della vita e dell’attività. Siccome la maggior parte delle azioni comporta contemporaneamente una probabilità di dolore e una probabilità di piacere, è l’astensione che, dal punto di vista puramente matematico, dovrebbe, il più delle volte, avere la meglio ma sono, di fatto, l’azione e la speranza a prevalere; tanto più che l’azione stessa è la base del piacere. 3) Altro fatto psicologico: chi è sfuggito venti volte a un pericolo, ad esempio ad una pallottola, ne conclude che continuerà a sfuggirvi. Si produce così
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un’abitudine al pericolo che il calcolo delle probabilità non potrebbe giustificare e che entra però come elemento nell’audacia dei veterani. Inoltre l’abitudine al pericolo produce un’abitudine alla morte stessa, una sorta di familiarità ammirevole con questa vicina che è stata, come si dice, «vista da presso»2. Al piacere del rischio si aggiunge spesso quello della responsabilità. Fa piacere rispondere non solo del proprio destino, ma di quello altrui; dirigere, per quanto si può, il destino del mondo. Questa ebbrezza del pericolo, mescolata alla gioia del comando, questa intensità di vita fisica e intellettuale, esaltata dalla presenza stessa della morte, è stata espressa con selvaggio misticismo da un maresciallo tedesco, Manteuffel, in un discorso pronunciato in Alsazia-Lorena: «La guerra! Sì, signori. Io sono un soldato: la guerra è l’elemento del soldato e mi piacerebbe provarla. Questo sentimento elevato di comandare in battaglia, di sapere che la pallottola del nemico può chiamarvi in ogni istante davanti al tribunale di Dio, che la sorte della battaglia e dunque i destini della Patria possono dipendere dagli ordini che si danno: questa tensione dei sentimenti e dello spirito è divinamente grande!». Il piacere del pericolo o del rischio, più o meno degenere, ha un suo ruolo in una quantità di circostanze sociali. Ha un’importanza considerevole nella sfera economica. I capitalisti che rischiavano le loro economie nell’impresa del canale di Suez imitavano a modo loro gli ingegneri che vi rischiavano la vita. La speculazione ha i suoi pericoli e sono proprio questi pericoli a costituirne l’attrattiva. Il semplice commercio del bottegaio all’angolo della strada comporta anch’esso un certo numero di rischi: se si paragona il numero dei fallimenti a quello delle imprese, si vedrà che questo rischio ha la sua importanza. Così il pericolo, diminuito e degradato all’infinito, dal pericolo di perdere la vita fino a quello di perdere il proprio denaro, rimane uno dei tratti importanti dell’esistenza sociale. Non c’è movimento nel corpo sociale che non implichi un rischio. E l’audacia ragionata a correre questo rischio si identifica, da un certo punto di vista, con l’istinto stesso del progresso, con il liberalismo, mentre il timore del pericolo si identifica con l’istinto conservatore, che in definitiva è destinato ad essere sempre battuto finché il mondo vivrà e progredirà. Nel pericolo corso per l’interesse di qualcuno (il mio o quello di un altro) non vi è dunque nulla di contrario agli istinti profondi e alle leggi della vita. Anzi esporsi al pericolo è qualcosa di normale in un individuo ben costituito moralmente; esporvisi per altri è solo fare un passo di più nella stessa dire-
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zione. La dedizione rientra da questo punto di vista nelle leggi generali della vita a cui sembrava inizialmente sfuggire del tutto. Il pericolo affrontato per sé o per gli altri – coraggio o dedizione – non è una pura negazione dell’io e della vita personale: è questa stessa vita portata fino al sublime. Il sublime, in morale come in estetica, sembra inizialmente in contraddizione con l’ordine, che costituisce più propriamente la bellezza; ma è solo una contraddizione superficiale: il sublime ha le stesse radici del bello, e l’intensità di sentimenti che presuppone non impedisce una certa razionalità interiore. Quando si è accettato il rischio, si è accettata anche la possibilità della morte. In ogni lotteria bisogna prendere i numeri cattivi come quelli buoni. Così colui che vede arrivare la morte in queste circostanze si sente, per così dire, legato ad essa: l’aveva prevista e voluta, pur sperando di sfuggirle; dunque non indietreggerà se non per un’incoerenza o per una povertà di carattere che di solito si designa con il nome di vigliaccheria. Certo colui che abbandona la patria per evitare il servizio militare non sarà necessariamente per tutti un oggetto di orrore (constatiamolo con dispiacere); ma colui che, rassegnato a diventare soldato e avendo accettato il suo compito, fugge davanti al pericolo e fa un voltafaccia nel momento decisivo, sarà reputato vile e indegno. A maggior ragione sarà reputato tale l’ufficiale che, in anticipo, aveva accettato non solo di marciare fino alla morte, ma di marciare in testa, di dare l’esempio. Così il medico non può moralmente rifiutare le proprie cure durante un’epidemia. L’obbligo morale prende la forma di un obbligo professionale, di un contratto liberamente voluto, con tutte le conseguenze e tutti i rischi che comporta3. Più andremo avanti tanto più l’economia politica e la sociologia si ridurranno alla scienza dei rischi e dei mezzi di compensarli, in altri termini, alla scienza dell’assicurazione. E la morale sociale si ridurrà all’arte di utilizzare in modo vantaggioso per il bene di tutti questo bisogno di rischio che prova ogni esistenza individuale un po’ energica. In altri termini si cercherà di rendere sicuri e tranquilli gli economi di se stessi, mentre si renderanno utili coloro che sono, per così dire, prodighi di se stessi. Ma procediamo oltre. L’agente morale può essere posto non di fronte al semplice rischio ma davanti alla certezza del sacrificio definitivo. In certe zone il contadino, quando vuole rendere fertile il suo campo, utilizza talvolta un mezzo energico: prende un cavallo, gli apre le vene e con la frusta in mano lo lancia fra i solchi; il cavallo sanguinante si trascina attraverso
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il campo che si allunga sotto le sue zampe malferme; la terra si arrossa sotto di lui, ogni solco beve la sua parte di sangue. Quando, spossato, cade rantolando lo si costringe ancora a rialzarsi, a dare il resto del suo sangue alla terra avida senza trattenere nulla. Alla fine l’animale si abbatte per l’ultima volta; lo si seppellisce nel campo ancora rosso; tutta la sua vita, tutto il suo essere passa alla terra rigenerata. Questo seme di sangue diventa una ricchezza: il campo così nutrito abbonderà di grano, di benefici per il contadino. Le cose non sono molto diverse nella storia dell’umanità. La legione dei grandi sfortunati, dei martiri ignorati o gloriosi, tutti quegli uomini la cui infelicità fa il bene altrui, tutti quelli che sono stati forzati al sacrificio o che lo hanno cercato, se ne sono andati per il mondo seminando la loro vita, versando il proprio sangue dai fianchi aperti come da una sorgente viva: hanno fecondato l’avvenire. Spesso si sono ingannati e la causa che difendevano non valeva i loro sacrifici: nulla di più triste che morire invano. Ma, per chi considera le medie e non gli individui, il sacrificio è una delle molle più preziose e più potenti della storia. Per far fare un passo avanti all’umanità, questo grande corpo pigro, è stato necessario fino ad ora uno scossone che annientasse degli individui. Il più umile, il più mediocre degli uomini, può dunque trovarsi davanti all’alternativa del sacrificio certo della sua vita o di un obbligo da adempiere: può essere un soldato, ma anche una guardia, un pompiere, ecc., e queste situazioni che chiamiamo modeste sono di quelle che possono talvolta richiedere atti sublimi. Ora, come chiedere a qualcuno il sacrificio della propria vita, se si è fondata la morale solo sullo sviluppo regolare di questa stessa vita? C’è una contraddizione in termini. È l’obiezione capitale che abbiamo fatto altrove ad ogni morale naturalistica e davanti alla quale siamo ricondotti per necessità di cose. Dal punto di vista naturalistico in cui ci situiamo, l’atto stesso di vigilare sui semplici interessi altrui non è superiore all’atto di vigilare sui propri interessi, se non in quanto indica una maggiore capacità morale, un surplus di vita interiore. Senza di ciò sarebbe solo una sorta di mostruosità, come quelle piante che non hanno foglie e nemmeno quasi radici, solo un fiore. Per prescrivere l’abnegazione bisognerebbe trovare qualcosa di più prezioso della vita; ora, empiricamente, non c’è nulla di più prezioso, la vita non è commensurabile con tutto il resto; il resto la presuppone e trae da essa il proprio valore. Non si può convincere l’utilitarista inglese che la moralità conservata grazie al sacrificio della vita non equivale all’avaro che muore per conservare il suo tesoro. Nulla di più naturale che chiedere a qualcuno di morire per voi o per un’idea, quando co-
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stui ha una fede piena nell’immortalità e si sente già spuntare le ali da angelo; ma se non crede? Se avessimo la fede, nessuna difficoltà; è una cosa così comoda una benda sugli occhi! Si grida: vedo, so, credo; non si vede niente, si sa ancor meno, ma si ha la fede che sostituisce tutto, si fa ciò che essa comanda, si va al sacrificio con la testa levata verso il cielo; ci si fa schiacciare gioiosamente tra gli ingranaggi della grande macchina sociale e talvolta anche senza un motivo giustificato, per un sogno, per un errore, come gli indù che si gettavano pancia a terra sotto le ruote insanguinate del carro sacro, felici di morire sotto il peso dei loro idoli giganteschi e vuoti. Non avendo la fede, come chiedere un sacrificio definitivo all’individuo senza basarsi su un principio diverso dallo sviluppo di questa stessa vita, che si tratta di sacrificare interamente o in parte? Cominciamo col riconoscere che in alcuni casi estremi – rarissimi del resto – il problema non ha una soluzione razionale e scientifica. Nei casi in cui è impotente, la morale deve lasciare ogni spontaneità all’individuo. Il torto dei gesuiti è non tanto quello di aver voluto ampliare la morale, quanto di avervi introdotto quel detestabile elemento che è l’ipocrisia. Prima di tutto bisogna essere franchi con se stessi e con gli altri; il paradosso non ha nulla di pericoloso quando si presenta arditamente a tutti gli sguardi. Ogni azione può essere considerata come un’equazione da risolvere; ora, ci sono sempre, in una decisione pratica, dei termini noti e un’incognita che si deve trovare; ma una morale scientifica non può trovarla sempre; certe equazioni sono dunque insolubili o almeno non possono presentare soluzioni indiscutibili e categoriche. Il torto dei moralisti è di pretendere di risolvere in modo definitivo e universale problemi che possono avere una quantità di soluzioni singole. Aggiungiamo che l’incognita fondamentale, la x che si trova in un certo numero di problemi, è la morte. La soluzione dell’equazione data dipende allora dal valore variabile che si attribuisce agli atri termini, che sono: 1) la vita fisica da sacrificare; 2) l’azione morale da compiere. Esaminiamo questi due termini. Diciamo che la soluzione dipende prima di tutto dal valore che si dà alla vita. Certo la vita è per ognuno il più prezioso dei beni perché è la condizione degli altri; ma quando gli altri si riducono quasi a zero la vita stessa perde il suo valore: diventa allora un oggetto spregevole. Si prendano due individui, uno che ha perso coloro che amava, l’altro che possiede una numerosa famiglia la cui sorte dipende da lui: essi non sono uguali davanti alla morte. Per impostare bene questo problema capitale del disprezzo della vita bisogna accostarlo ad un’altra importante questione: la dedizione ha più di un’a-
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nalogia con il suicidio, poiché in entrambi i casi si tratta di una morte consentita e perfino voluta da un individuo che sa cos’è la vita. Per spiegare il suicidio bisogna ammettere che la durata delle gioie normali della vita ha poco valore in confronto all’intensità di certe sofferenze; e reciprocamente sarà anche vero che l’intensità di certe gioie sembra preferibile a tutta la durata della vita. Berlioz mette in scena un artista che si uccide dopo aver provato il più alto piacere estetico che gli sembra si debba provare nella vita: non vi è tanta follia quanta si potrebbe credere in quest’azione. Supponete di poter essere per un istante Newton che scopre la sua legge, o Gesù che predica l’amore sulla montagna: il resto della vostra vita vi sembrerebbe scolorito e vuoto; potreste comperare quest’istante a qualunque prezzo. Date a qualcuno la scelta tra rivivere la durata monotona dell’intera esistenza o rivivere il piccolo numero di ore perfettamente felici che si ricorda: poche persone esiteranno. Estendiamo la cosa al presente e al futuro: vi sono ore in cui l’intensità della vita è tale che, messe sulla bilancia con tutta la serie possibile degli anni, la farebbero pendere dalla loro parte. Ci vogliono tre giorni per salire su un’alta cima delle Alpi; si riconosce che questi tre giorni di fatica valgono il breve istante che si trascorre sulla bianca vetta, nella tranquillità del cielo. Vi sono del pari momenti della vita in cui si ha l’impressione di essere su una vetta e di volare; dinanzi a questi istanti tutto il resto diventa indifferente. La vita – anche dal punto di vista positivo in cui ci poniamo qui – non ha dunque quel valore incommensurabile che sembrava avere inizialmente. Talvolta si può, senza essere irrazionali, sacrificare la totalità dell’esistenza per uno solo dei suoi momenti, come si può preferire un solo verso a tutto un poema. Finché ci saranno dei suicidi nell’umanità, sarebbe inspiegabile che non ci fossero atti di abnegazione definitivi e senza speranza. Si può solo rimpiangere una cosa, cioè che la società non cerchi di trasformare il più possibile i suicidi in atti di dedizione4. Si dovrebbero offrire sempre un certo numero di imprese rischiose a coloro che sono stanchi di vivere. Il progresso umano avrà bisogno, per compiersi, di tante vite individuali che si dovrebbe far attenzione che nessuna si perda invano. Nell’istituzione filantropica detta delle Dame del Calvario si vedono delle vedove consacrarsi a curare malattie ripugnanti e contagiose; questo impiego, a profitto della società, delle vite che la vedovanza ha più o meno spezzato e reso inutili è un esempio di ciò che si potrebbe fare, di ciò che si farà certamente nella società futura. Esistono migliaia di persone per le quali la vita ha perso la maggior parte del suo valore; queste persone pos-
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sono trovare un vero conforto nella dedizione: bisognerebbe utilizzarle. Bisognerebbe ugualmente utilizzare tutte le capacità; ora, vi sono capacità speciali per i mestieri pericolosi e disinteressati, temperamenti fatti per sacrificarsi e mettere costantemente a repentaglio la propria vita. Questa capacità di dedizione ha la sua sorgente in una sovrabbondanza di vita morale; tutte le volte che, nel suo ambiente, la vita morale di un individuo è bloccata, compressa, bisognerebbe cercarle subito un altro ambiente dove essa ritrovi la possibilità di un’estensione indefinita, di un impiego infaticabile per l’umanità. La vita, oltre a non essere sempre oggetto di preferenza, può diventare, in alcuni casi, oggetto di disgusto e di orrore. C’è un sentimento peculiare dell’uomo che finora non abbiamo ben analizzato: l’abbiamo già chiamato sentimento dell’intollerabilità. Per influenza dell’attenzione e della riflessione certe sofferenze fisiche, e soprattutto morali, si accrescono nella coscienza al punto di oscurare tutto il resto. Una sola pena è sufficiente a cancellare tutta la moltitudine dei piaceri della vita. Probabilmente l’uomo ha il privilegio di poter essere, se vuole, l’animale più infelice della creazione, per la tenacia che può comunicare alle sue pene. Ora, uno dei sentimenti che possiedono al massimo grado questo carattere dell’intollerabilità è quello del disonore, della «decadenza morale»: ad esempio, la vita acquistata a prezzo del disonore può non sembrare sopportabile. Ci obietteranno che un vero filosofo epicureo o utilitarista può guardare dall’alto questi sentimenti di pudore morale che hanno sempre qualcosa di convenzionale; ma noi risponderemo che sono molto meno convenzionali di certi altri, come il culto del denaro. Si vedono ogni giorno persone rovinate finanziariamente che non possono più sopportare la vita e a cui la filosofia non rende grandi servigi. Ora c’è una sorta di fallimento morale ancor più temibile, sotto tutti i rapporti, dell’altro. Ciò che è semplicemente gradevole, come questo o quel piacere della vita, e perfino la somma dei piaceri della vita, non può mai compensare ciò che appare, a torto o a ragione, come intollerabile. Certe sfere particolari dell’attività finiscono per acquistare un’importanza tale nella vita che non si possono toccare senza nuocere alla vita stessa nella sua sorgente. Non possiamo immaginare Chopin senza il suo pianoforte: vietargli la musica sarebbe stato come ucciderlo. Nello stesso modo l’esistenza non sarebbe stata probabilmente sopportabile per Raffaello senza le forme, i colori e un pennello per riprodurli. Così, quando l’arte acquista tanta importanza
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quanta ne ha la vita stessa, non c’è da stupirsi che la moralità abbia, agli occhi dell’uomo, un valore anche maggiore: questa è in realtà una sfera di attività più vasta dell’arte. Se lo scettico trova che ci sia una certa vanità e una certa illusione nel sentimento morale, troverà che ce n’è ancor più nel sentimento artistico: coloro che l’arte ha ucciso sono morti più completamente che se fossero caduti per l’umanità; e tuttavia coloro che l’arte ha ucciso o ucciderà sono numerosi: più numerosi devono essere coloro che si sacrificano per un ideale morale. Prendete un albero, di cui un ramo cresca a dismisura e si radichi nel terreno circostante, come succede all’albero gigante dell’India: col tempo il ramo nasconderà lo stesso tronco; esso sembrerà sostenerlo e farlo vivere. La vita morale e intellettuale è così una specie di pollone, un ramo potente della vita fisica: si sviluppa a tal punto nell’ambiente sociale che un individuo ucciso, per così dire, nella vita morale sembra per questo più completamente annientato: è un tronco che ha perduto tutta la sua forza e il suo fogliame, un vero cadavere. «Perdere, per vivere, le stesse ragioni di vivere!». Il verso di Giovenale è sempre vero, anche per chi respinge le dottrine stoiche. Lo scettico più disincantato si impone ancora una regola di condotta che domina la sua vita, un ideale almeno pratico; la vita, in certi momenti, può non sembrargli degna di essere conservata qualora debba rinunciare a quest’ultimo resto di ideale. Se in nessuna dottrina il sentimento morale può, da solo, dare alla sensibilità la vera felicità positiva, esso è però capace di rendere la felicità impossibile al di fuori di sé, e questo praticamente basta. Per gli esseri che sono giunti a un certo grado dell’evoluzione morale la felicità non è più desiderabile se si realizza al di fuori del loro stesso ideale. Il sentimento morale vale dunque ancor più per la sua potenza distruttiva che per la sua potenza creativa. Lo si potrebbe paragonare a un grande amore che spegne tutte le altre passioni; senza questo amore la vita ci è intollerabile e impossibile; d’altra parte sappiamo che non sarà contraccambiato, che non può e non deve esserlo. Solitamente si compiangono quelli che hanno in cuore tali amori, amori senza speranza, che nulla può saziare; eppure noi ne nutriamo tutti uno altrettanto potente per il nostro ideale morale, dal quale non possiamo razionalmente attenderci alcuna sanzione. Questo amore sembrerà sempre vano dal punto di vista utilitaristico poiché non deve affatto contare su una soddisfazione, su una ricompensa; ma, da un punto di vista più elevato, queste soddisfazioni e queste pretese ricompense possono a loro volta apparire come una vanità.
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Il piacere del rischio e della lotta
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Riassumendo, il valore della vita è una cosa del tutto variabile e che talvolta può ridursi a zero, a meno di zero. L’azione morale, invece, ha sempre un certo valore; è raro che un essere sia sceso così in basso da compiere, ad esempio, un atto di viltà con la più perfetta indifferenza o addirittura con piacere. Ora, per farsi un’idea del valore che l’azione morale può acquistare in alcuni casi, bisogna tener presente che l’uomo è un animale pensante o, come abbiamo detto altrove, un animale filosofico. La morale positiva non può tener conto delle ipotesi metafisiche che l’uomo si compiace di fare sul fondo delle cose. D’altronde, una morale esclusivamente scientifica non può dare una soluzione definitiva e completa al problema dell’obbligo morale. Bisogna sempre superare la pura esperienza. Le vibrazioni luminose dell’etere si trasmettono da Sirio fino al mio occhio, questo è un fatto; ma per riceverle devo aprire o chiudere l’occhio? – Non si può, a questo riguardo, trarre una legge dalle vibrazioni stesse della luce. Analogamente la mia coscienza riesce a concepire gli altri, ma devo aprirmi interamente agli altri o devo chiudermi a metà? – Ecco un problema la cui soluzione pratica dipenderà dall’ipotesi personale che avrò fatto sull’universo e sul mio rapporto con gli altri esseri... Soltanto, queste ipotesi devono restare assolutamente libere e personali ed è impossibile sistematizzarle in una dottrina metafisica che si imponga universalmente alla ragione umana. Vedremo come, grazie alla forza dell’ipotesi individuale, non esiste sacrificio assoluto che non possa diventare non solo possibile, ma quasi facile in alcuni casi. Note H. Mouhot, Voyage dans les royaumes de Siam et de Cambodge [de Laos et autres parties centrales de l’Indochine, Hachette, Paris 1868]. 2 Anche nell’intimo della maggior parte dei criminali si ritrova un istinto prezioso dal punto di vista sociale e che bisognerebbe utilizzare: l’istinto di avventura. Questo istinto potrebbe trovare una utilizzazione nelle colonie, nel ritorno alla vita selvaggia. 3 I rischi possono così moltiplicarsi incessantemente e avviluppare l’individuo in una rete sempre più stretta, senza che si possa logicamente e moralmente tirarsi indietro. «L’esaltazione dei sentimenti di collera e di generosità cresce in modo direttamente proporzionale al danno», fa osservare giustamente Espinas nelle obiezioni che ci ha rivolto, senza sapere che in fondo eravamo dello stesso parere su tutti questi punti (Revue philosophique, anno 1882, tomo II). 4 Recentemente, in Place des Invalides, mentre un cane rabbioso stava per gettarsi su dei bambini, un uomo accorse verso di lui, lo abbattè, gli spezzò la colonna vertebrale e lo gettò nella Senna; siccome volevano far medicare i numerosi morsi che aveva riportato, egli si allontanò dalla folla dicendo che voleva morire perché «sua moglie gli aveva spezzato il cuore». Non dovrebbe esserci altro genere di suicidi. 1
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Capitolo secondo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 14/10/2018
Il rischio metafisico come quinto equivalente del dovere: l’ipotesi
Il rischio metafisico nella speculazione Abbiamo constatato la notevole influenza pratica che può avere il piacere del pericolo o del rischio; ci resta da vedere l’influenza non meno grande di quello che Platone chiamava il kalo;" kivnduno", del gran rischio metafisico in cui il pensiero ama avventurarsi. Perché io possa ragionare fino in fondo certi atti morali che superano la morale media e scientifica, perché io possa rigorosamente dedurli da principi filosofici o religiosi, bisogna che questi principi siano essi stessi posti e determinati. Ma non lo possono essere che per ipotesi; bisogna dunque che io stesso crei, in definitiva, le ragioni metafisiche dei miei atti. Dato l’inconoscibile, la x che sta dietro le cose, bisogna che me lo rappresenti in un certo modo, che lo concepisca sull’immagine dell’atto che voglio compiere. Se, ad esempio, voglio compiere un atto di carità pura e definitiva, e voglio giustificare razionalmente questo atto, bisogna che immagini una carità eterna presente al fondo delle cose e di me stesso, che renda obiettivo il sentimento che mi fa agire. L’agente morale ha qui lo stesso ruolo dell’artista; deve proiettare all’esterno le tendenze che sente in sé e fare del suo amore un poema metafisico. La x inconoscibile e neutra corrisponde al marmo che foggia lo scultore, alle parole inerti che si allineano e prendono vita nella strofe del poeta. L’artista non foggia che la forma delle cose: l’essere morale, che è sempre un metafisico spontaneo o riflesso, foggia il fondo stesso delle cose, configura l’eternità sul modello dell’atto fuggente da lui concepito e dà così a quell’atto, che senza di ciò sembrerebbe sospeso in aria, una radice nel mondo del pensiero. Il noumeno, in senso morale e non puramente negativo, siamo noi che lo creiamo; non acquista valore morale che in virtù dell’immagine sotto la quale ce lo rappresentiamo: è una costruzione del nostro spirito, della nostra immaginazione metafisica. Si dirà che vi è una certa ingenuità in questo sforzo di voler assegnare un tipo ed una forma a ciò che è per essenza senza forma e inafferrabile. – È possibile, da un punto di vista strettamente scientifico. Vi è sempre nell’eroismo
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Il rischio metafisico
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una certa ingenuità semplice e grandiosa. In ogni azione umana esiste una parte di errore, d’illusione; può darsi che questa parte vada aumentando man mano che l’azione esce dalla mediocrità. I cuori più amanti sono quelli che sono maggiormente ingannati; i geni più alti sono quelli in cui si rileva un maggior numero di incoerenze; i martiri sono stati spesso dei sublimi fanciulli. Quante puerilità nelle idee degli alchimisti che hanno però finito per creare una scienza! È in parte in conseguenza di un errore che Cristoforo Colombo ha scoperto l’America. Non si possono giudicare le teorie metafisiche in base alla loro verità assoluta che è sempre inverificabile; ma uno dei mezzi per giudicarle è di apprezzarne la fecondità. Dunque non chiedete loro di essere vere, indipendentemente da noi e dalle nostre azioni, ma di diventarlo. Un errore fecondo può essere più vero in questo senso, dal punto di vista dell’evoluzione universale, di una verità troppo angusta e sterile. È triste, dice da qualche parte Renan, pensare che è il signor Homais1 ad aver ragione e a veder giusto così, di primo acchito, senza sforzo né merito, senza sollevare gli occhi da terra. – Ebbene no, Homais non ha ragione, chiuso com’è nel suo piccolo cerchio di verità positive. Ha potuto benissimo «coltivare il suo giardino», ma ha scambiato il suo giardino con il mondo e si è ingannato. Sarebbe stato forse meglio per lui innamorarsi di una stella, insomma essere affascinato da qualche chimera ben chimerica, che almeno gli avrebbe fatto realizzare qualcosa di grande. Vincenzo de’ Paoli aveva certo il cervello ben più colmo di falsi sogni di Homais; ma si dà il caso che la piccola porzione di verità contenuta nei suoi sogni sia stata ben più feconda della massa di verità di senso comune colte da Homais. La metafisica è, nel campo del pensiero, ciò che sono il lusso e le spese per l’arte in campo economico: una cosa tanto più utile quanto meno sembra inizialmente necessaria; si potrebbe farne a meno e si soffrirebbe molto di questa rinuncia; non si sa esattamente dove abbia inizio, e meno ancora dove termini, e tuttavia l’umanità vi si lascerà sempre andare, come su un pendio irresistibile e dolce. Inoltre, vi sono alcuni casi – gli economisti l’hanno dimostrato – in cui il lusso diviene di colpo necessario, in cui si ha bisogno, per far fronte alla vita, di ciò che precedentemente rappresentava un’eccedenza. Così vi sono delle circostanze in cui la pratica ha di colpo bisogno della metafisica: non si può più vivere, né soprattutto morire senza di essa. La ragione ci fa scorgere due mondi distinti: il mondo reale in cui viviamo e un certo mondo ideale in cui pure viviamo, dove il nostro pensiero si ritempra incessantemente e del quale non si può non tener conto; soltanto che,
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quando si tratta del mondo ideale, nessuno è più d’accordo: ciascuno lo concepisce a modo suo; qualcuno lo nega del tutto. È tuttavia dal modo in cui si concepisce il fondo metafisico delle cose che dipende il modo in cui ci si obbligherà all’azione. Infatti una gran parte delle più nobili azioni umane sono state compiute in nome della morale religiosa o metafisica; è dunque impossibile trascurare questa fecondissima fonte di attività. Ma non è meno impossibile imporre all’agire una regola fissa tratta da una sola dottrina; anzichè regolare in forma assoluta l’applicazione delle idee metafisiche, importa solo delimitarla, assegnarle la sua legittima sfera senza lasciarla sconfinare in quella della morale positiva. Occorre contare sulla speculazione metafisica in morale come si conta sulla speculazione economica in politica e in sociologia. Soltanto che, in primo luogo, bisogna persuadersi che il suo ambito è quello del sacrificio praticamente improduttivo per l’individuo, della dedizione assoluta al punto di vista terreno; al contrario l’ambito della speculazione economica è quello del sacrificio produttivo, del rischio corso in vista di un interesse. In secondo luogo bisogna lasciarle il suo carattere ipotetico. Infatti io so una cosa; per ipotesi e seguendo un calcolo personale di probabilità, ne inferisco un’altra (per esempio che il disinteresse è il fondo del mio essere e l’egoismo la semplice superficie, o viceversa); per deduzione, ne traggo una legge razionale della mia condotta. Questa legge è una semplice conseguenza della mia ipotesi, e non mi ci sento razionalmente obbligato che fino a quando l’ipotesi mi sembra la più probabile, la più vera per me. Si ottiene, così, una specie di imperativo razionale e non categorico, sospeso ad una ipotesi. In terzo luogo bisogna ammettere che questa ipotesi può variare secondo gli individui e i temperamenti intellettuali; è l’assenza di una legge fissa che si può designare con il termine di anomia, in opposizione all’autonomia dei kantiani. Con la soppressione dell’imperativo categorico, il disinteresse e la dedizione non vengono soppressi ma muterà il loro oggetto; uno si voterà ad una causa, l’altro ad un’altra. Bentham ha consacrato tutta la sua vita alla nozione d’interesse; è un genere di dedizione; ha subordinato tutte le sue facoltà alla ricerca dell’utile per sé e necessariamente anche per gli altri: il risultato è che egli è stato realmente molto utile, altrettanto e più di un apostolo del disinteresse come Santa Teresa. L’ipotesi produce praticamente lo stesso effetto della fede, anzi genera una fede susseguente, ma non affermativa e dogmatica come l’altra; la morale, naturalistica e positiva alla sua base, al vertice viene a dipendere da una libera
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metafisica. C’è una morale invariabile, quella dei fatti; e per completarla, laddove essa non è più sufficiente, una morale variabile ed individuale, quella delle ipotesi. Così si trova scossa la vecchia legge apodittica: l’uomo, liberato grazie al dubbio da ogni obbligo assoluto, riacquista in parte la sua libertà. Kant ha cominciato nel campo della morale una rivoluzione quando ha voluto rendere la volontà «autonoma», invece di farla inchinare davanti a una legge esterna ad essa; ma si è fermato a metà strada: ha creduto che la libertà individuale dell’agente morale potesse conciliarsi con l’universalità della legge, che ciascuno dovesse conformarsi ad uno stesso tipo immutabile, che il «regno» ideale delle libertà fosse un governo regolare e metodico. Ma, nel «regno delle libertà», il buon ordine deriva proprio dal fatto che non c’è alcun ordine imposto a priori, alcun accordo preconcetto; da qui, a partire dal punto in cui si arresta la morale positiva, si manifesta la maggior diversità possibile nelle azioni, la maggior varietà negli stessi ideali perseguiti. La vera «autonomia» deve produrre l’originalità individuale e non l’universale uniformità. Se ciascuno si fa da sé la propria legge, perché non dovrebbero esserci più leggi possibili, per esempio quella di Bentham e quella di Kant?2 Quanto più numerose saranno le dottrine che si contenderanno la preferenza degli esseri umani, tanto meglio sarà per il futuro accordo finale. L’evoluzione degli spiriti, come l’evoluzione materiale, è sempre un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo: realizzate l’unità completa nell’intelligenza e annullerete l’intelligenza stessa; foggiate tutti gli spiriti allo stesso modo, date loro le stesse credenze, la stessa religione, la stessa metafisica, allineate il pensiero umano e andrete proprio contro la tendenza essenziale del progresso. Nulla di più monotono ed insipido di una città dalle strade ben allineate e tutte simili tra loro; coloro che immaginano la città intellettuale su questo modello, immaginano un controsenso. Si dice: «la verità è una; l’ideale del pensiero è questa unità stessa, questa uniformità». La vostra verità assoluta è un’astrazione, come il triangolo perfetto o il cerchio perfetto dei matematici; nella realtà tutto è infinitamente molteplice. Così, quante più persone vi sono che pensano in modo differente, maggiore è la somma di verità che finiranno per abbracciare e nella quale alla fine si riconcilieranno. Non bisogna dunque temere la diversità delle opinioni; bisogna, al contrario, provocarla: due uomini sono d’opinione contraria? Tanto meglio forse; essi sono molto più nel vero che se pensassero tutti e due la stessa cosa. Quando più persone vogliono vedere per intero un paesaggio, non hanno che un mezzo, volgersi la
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schiena. Se si mandano dei soldati in avanscoperta, e vanno tutti dalla stessa parte osservando un solo punto dell’orizzonte, ritorneranno molto probabilmente senza aver scoperto nulla. La verità è come la luce, non ci viene da un solo punto; ci è rinviata da tutti gli oggetti contemporaneamente, ci colpisce in tutti i sensi ed in mille modi: bisognerebbe avere cento occhi per afferrarne tutti i raggi. L’umanità nel suo insieme ha milioni di occhi e di orecchi; non consigliatele di chiuderli o di volgerli da un solo lato; deve aprirli tutti insieme, volgerli in tutte le direzioni; bisogna che l’infinità dei suoi punti di vista corrisponda all’infinità delle cose. La varietà delle dottrine prova la ricchezza e la potenza del pensiero: così questa varietà, lungi dal diminuire col tempo, aumenterà ulteriormente, quand’anche si dovessero raggiungere accordi d’insieme. La divisione nel pensiero e la diversità nei lavori intellettuali è necessaria quanto la divisione e la diversità nei lavori manuali: questa divisione del lavoro è la condizione d’ogni ricchezza. In altri tempi il pensiero era infinitamente meno diviso che nella nostra epoca: tutti erano imbevuti delle stesse superstizioni, degli stessi dogmi, delle stesse falsità; quando si incontrava un individuo, si poteva subito e senza conoscerlo dire: «ecco ciò che crede»; si potevano calcolare le assurdità che la sua testa racchiudeva, fare un bilancio del suo cervello. Ancora ai nostri giorni molte persone delle classi inferiori o superiori si sono fermate a questo punto: la loro intelligenza è modellata su un tipo convenzionale. Fortunatamente il numero di questi spiriti inerti e senza spinta diminuisce ogni giorno di più: aumenta il ruolo dell’iniziativa; ciascuno tende a farsi la propria legge e il proprio credo. Magari potessimo giungere un giorno al punto che non esista più in nessun luogo un’ortodossia, cioè una fede generale che inglobi tutti gli spiriti; che il credere sia una faccenda del tutto individuale, e l’eterodossia la vera ed universale religione! La società religiosa (e ogni morale assoluta sembra l’ultima forma della religione), questa società interamente unita da un patrimonio comune di superstizioni, è una forma sociale dei tempi passati che tende a scomparire e che sarebbe strano assumere come ideale. I re se ne vanno; i preti se ne andranno anch’essi. La teocrazia potrà ben sforzarsi di venire a patti con il nuovo ordine, stipulando concordati di altro genere: la teocrazia costituzionale non può soddisfare in modo definitivo la ragione più di quanto lo faccia la monarchia costituzionale. Lo spirito francese soprattutto non si accontenta di accomodamenti, di mezze misure, di tutto ciò che è solo parzialmente giusto e parzialmente vero; in ogni caso non è in ciò che porrà il suo
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ideale. In materia religiosa o metafisica il vero ideale è l’indipendenza assoluta degli spiriti e la libera diversità delle dottrine. Voler governare gli spiriti è ancor peggio che voler governare i corpi; bisogna rifuggire da ogni sorta di «direzione di coscienza» o di «direzione di pensiero» come da un vero flagello. Le metafisiche autoritarie e le religioni sono briglie adatte a popoli bambini; è tempo di procedere da soli, di avere in orrore i pretesi apostoli, i missionari, i predicatori d’ogni specie, di essere noi stessi la nostra guida, di cercare in noi la «rivelazione». Non c’è più alcun Cristo: che ciascuno di noi sia Cristo a se stesso, si leghi a Dio come vorrà o potrà, oppure rinneghi Dio; che ciascuno concepisca l’universo secondo il modello che gli sembrerà più probabile, monarchia, oligarchia, repubblica o caos; tutte queste ipotesi sono sostenibili, e devono quindi essere sostenute. Non è del tutto impossibile che una di esse raccolga un giorno il maggior numero di probabilità e faccia pendere a suo favore la bilancia tra gli spiriti umani più colti; non è impossibile che questa dottrina privilegiata sia una dottrina di negazione; ma non si deve sconfinare in un avvenire così problematico e credere che distruggendo la religione rivelata o il dovere categorico si getti l’umanità, bruscamente, nell’ateismo e nello scetticismo morale. Nell’ambito intellettuale non vi possono essere rivoluzioni violente e repentine, ma solo una evoluzione che si accentua con gli anni: è proprio questa lentezza degli spiriti nel percorrere da un capo all’altro la catena dei ragionamenti che, nell’ambito sociale, fa fallire le rivoluzioni troppo brusche. Così, quando si tratta di pura speculazione, gli uomini meno temibili e più utili sono i più rivoluzionari, quelli il cui pensiero è il più audace; li si deve ammirare senza temerli: possono tanto poco! La tempesta che sollevano in un piccolo punto dell’oceano produrrà sulla massa immensa appena un’impercettibile ondulazione. D’altra parte, nella pratica, i rivoluzionari si ingannano sempre, perché credono sempre la verità troppo semplice, hanno troppa fiducia in se stessi e immaginano di aver trovato e determinato il termine del progresso umano; mentre invece la caratteristica del progresso è di non aver termini, di raggiungere quelli che gli si propongono solo trasformandoli, di risolvere i problemi solo mutandone i dati. Beati, dunque, oggigiorno coloro ai quali un Cristo potesse dire: «Uomini di poca fede...», se ciò significasse: uomini sinceri che non volete illudere la vostra ragione ed abbassare la vostra dignità d’esseri intelligenti, uomini di spirito veramente scientifico e filosofico che diffidate delle apparenze, che
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diffidate dei vostri occhi e delle vostre menti, che incessantemente ricominciate a scrutare le vostre sensazioni e a provare i vostri ragionamenti; uomini che, soli, potrete possedere qualche particella della verità eterna, proprio perché non crederete mai di possederla interamente; uomini che ne avete abbastanza della vera fede tanto da cercare sempre, invece di riposarvi gridando: ho trovato; uomini coraggiosi che camminate là dove gli altri si fermano e s’addormentano: l’avvenire è vostro, siete voi che foggerete l’umanità delle età future. La morale stessa, ai giorni nostri, ha compreso la sua parziale impotenza a regolare a priori e in modo assoluto tutta la vita umana; essa lascia una più larga sfera alla libertà individuale; è minatoria solo in un numero assai ristretto di casi e là dove sono implicate le condizioni assolutamente necessarie d’ogni vita sociale. I filosofi non si attengono più ormai alla morale rigorista di Kant che regolamentava tutto nel foro interiore, interdicendo ogni trasgressione, ogni libera interpretazione dei comandamenti morali. Era ancora una morale analoga alle religioni ritualiste, per le quali questa o quella cerimonia mancata costituiscono un sacrilegio, e che dimenticano la sostanza per la forma; era una specie di dispotismo morale, che si insinuava dovunque, e che tutto voleva governare. In questo momento, in molti spiriti, la legge rigorista del kantismo continua a regnare, ma non domina più nel dettaglio; la si riconosce in teoria e nella pratica si è costretti a scostarsene. Non è più quel Giove che scuoteva il mondo corrugando la fronte; è un principe liberale cui si disobbedisce senza correre grandi rischi. Forse che non c’è qualcosa di meglio di questa regalità bonaria? E l’uomo, quando giunge ai confini della morale e della metafisica, non deve forse respingere ogni sovranità assoluta, per rimettersi francamente alla speculazione individuale? Quanto più è grossolano un meccanismo, tanto più ha bisogno di essere messo in moto da un motore violento e anch’esso grossolano; con un meccanismo più delicato basta la punta di un dito per produrre effetti considerevoli; così accade nell’umanità. Per mettere in moto i popoli antichi è stato necessario inizialmente che la religione facesse loro promesse enormi di cui si garantiva l’autenticità: si parlava di montagne d’oro, di ruscelli di latte e di miele. Avrebbe Ernán Cortés conquistato il Messico se non avesse creduto di veder brillare in lontananza le pretese cupole d’oro della sua capitale? Per eccitare gli uomini si presentavano ai loro occhi immagini appariscenti, colori sgargianti, come si fa vedere il rosso ai tori. Occorreva allora una fede robusta per trionfare della naturale inerzia. Si voleva qualcosa di certo; si toccava il proprio
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dio con un dito, lo si mangiava e lo si beveva: allora si poteva tranquillamente morire per lui, con lui. Più tardi il dovere è parso, e pare ancora a molti, una cosa divina, una voce dall’alto che si fa sentire in noi, che ci parla e ci dà ordini. Gli scozzesi parlavano addirittura di «senso» morale e di «tatto» morale. Occorreva questa concezione grossolana per vincere istinti ancor troppo grossolani. Oggi, una semplice ipotesi, una semplice possibilità, basta per attirarci, per incantarci. Il martire non ha più bisogno di sapere se «in cielo lo aspettano le palme» o se una legge categorica gli comanda l’abnegazione. Si muore per conquistare, non la verità intera, ma il più piccolo dei suoi elementi; uno scienziato si sacrifica per una «cifra». L’ardore nella ricerca sostituisce la certezza stessa dell’oggetto cercato; l’entusiasmo prende il posto della fede religiosa e della legge morale. L’altezza dell’ideale da realizzare sostituisce l’energia della fede nella sua realtà immediata. Quando si spera qualcosa di molto grande, si attinge nella bellezza dello scopo il coraggio di affrontare gli ostacoli; se le possibilità di raggiungerlo diminuiscono, il desiderio aumenta in proporzione. Più l’ideale è lontano dalla realtà, più è ambito, e poiché il desiderio stesso è la forza suprema, esso ha al suo servizio il massimo di forza. I beni troppo comuni della vita sono sì poca cosa che in confronto l’ideale sognato deve sembrare immenso; tutti i nostri piccoli godimenti si annientano dinanzi a quello di realizzare un pensiero elevato. Se anche questo pensiero non avesse alcuna importanza nell’ambito della natura e anche della scienza, esso può essere davvero tutto in rapporto a noi: è l’obolo del povero. Cercare la verità, questa azione non presenta più nulla di condizionale, d’incerto, di fragile. Si possiede qualcosa, forse non proprio la verità (chi la possiederà mai?), ma almeno lo spirito che la fa scoprire. Quando ci si arresta ostinatamente ad una dottrina sempre troppo angusta, è una chimera che ci sfugge tra le mani; ma andare sempre avanti, cercare sempre, sperare sempre, questo solo non è una chimera. La verità è nel movimento, nella speranza e non è senza ragione che si è proposta, come complemento della morale positiva, una «filosofia della speranza»3. Un fanciullo vide una farfalla azzurra posata su un filo d’erba; la farfalla era intirizzita dal vento del nord. Il bimbo raccolse il filo d’erba, e il fiore vivente che era su di esso, sempre intirizzito, non se ne staccò. Tornò a casa tenendo in mano la bella cosa trovata. Un raggio di sole brillò; colpì l’ala della farfalla e di colpo, rianimato e leggero, il fiore vivente volò via nella luce. Noi tutti, studiosi e lavoratori, siamo come la farfalla: la nostra forza non è fatta che di un raggio di luce; – anzi nemmeno: della speranza di un raggio. Bi-
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sogna dunque saper sperare: la speranza è la forza che ci porta in alto e in avanti. – Ma è un’illusione! – Che ne sapete? Non bisogna dunque fare un passo nel timore che la terra ci sfugga un giorno sotto i piedi? Non basta guardare molto lontano, nell’avvenire o nel passato, occorre guardare in se stessi; bisogna vedervi le forze vive che chiedono di dispiegarsi, e bisogna agire. Il rischio metafisico nell’azione «In principio era l’azione», dice Faust. Noi la ritroviamo anche alla fine. Se le nostre azioni sono conformi ai nostri pensieri, si può dire anche che i nostri pensieri corrispondono esattamente all’espansione della nostra attività. I sistemi metafisici più astratti non sono essi stessi che formule di sentimenti, e il sentimento corrisponde alla tensione più o meno grande dell’attività interiore. C’è un punto intermedio tra il dubbio e la fede, fra l’incertezza e l’affermazione categorica, è l’azione; grazie ad essa soltanto l’incerto può realizzarsi e diventare realtà. Non vi chiedo di credere ciecamente a un ideale, vi chiedo di lavorare alla sua realizzazione. – Senza crederci? – Per crederci. Ci crederete quando avrete lavorato per produrlo. Tutte le vecchie religioni hanno voluto farci credere con gli occhi e con le orecchie. Ci hanno mostrato Dio in carne ed ossa e i san Tommaso lo hanno toccato con mano e sono stati convinti. Oggi non possiamo più essere convinti in questo modo. Anche se vedessimo, udissimo e toccassimo con mano, negheremmo ancora ostinatamente. Non ci persuadiamo di una cosa impossibile solo perché crediamo di vederla o di toccarla: la nostra ragione è ora abbastanza forte da farsi beffe di ciò che vedono i nostri occhi e i miracoli non potrebbero più convincere nessuno. Ci vuole dunque un nuovo mezzo di persuasione che le religioni stesse avevano già usato a loro profitto; questo mezzo è l’azione: crederete in proporzione a ciò che farete. Solo, l’azione non deve consistere in pratiche esteriori e riti grossolani; la sua fonte deve essere tutta interiore; la nostra fede verrà allora veramente dall’interno e non dall’esterno: avrà per simbolo non l’abitudine di un rito, ma la varietà infinita dell’invenzione, dell’opera individuale e spontanea. L’umanità ha atteso a lungo che Dio le apparisse, ed egli le è apparso, e non era Dio. Il momento dell’attesa è passato; ora è il momento del lavoro. Se l’ideale non è già tutto costruito come una casa, dipende da noi lavorare insieme per costruirlo. Le religioni dicono: spero perché credo e perché credo in una rivelazione
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esterna. – Bisogna dire: credo perché spero, e spero perché sento in me un’energia tutta interiore che deve esser presa in considerazione nella soluzione del problema. Perché guardare solo un lato della questione? Se c’è il mondo ignoto, c’è l’io noto. Ignoro di cosa sono capace al di fuori e non ho alcuna rivelazione, non sento alcuna «parola» risuonare nel silenzio delle cose, ma so quello che voglio interiormente, ed è la mia volontà che farà la mia potenza. Solo l’azione dà fiducia in sé, negli altri, nel mondo. La pura meditazione, il pensiero solitario finisce per togliervi delle forze vive. Quando si resta troppo a lungo sulle alte cime, vi prende una sorta di febbre, di infinita stanchezza; non si vorrebbe più ridiscendere, ci si vorrebbe fermare, riposarsi; gli occhi si chiudono; ma, se si cede al sonno, non ci si rialza più: il freddo che penetra dalle cime vi gela fino al midollo delle ossa; l’estasi indolente e dolorosa da cui vi sentivate invadere era l’inizio della morte. L’azione è il vero rimedio al pessimismo, che d’altronde può avere la sua parte di verità e di utilità quando è preso nel senso più elevato. Il pessimismo infatti consiste nel lamentarsi non di ciò che nella vita c’è, ma di ciò che non c’è. Quel che c’è nella vita non costituisce affatto il principale oggetto delle tristezze umane, e la vita in se stessa non è un male. Quanto alla morte, è semplicemente la negazione della vita. Si vorrebbe non morire, noi e i nostri cari, ma perché si aspira ad un’esistenza superiore, come si vorrebbe conoscere la verità, vedere Dio, ecc. Il bambino che vuole raggiungere la luna piange un quarto d’ora e poi si consola; l’uomo che vorrebbe possedere l’eternità piange anch’egli, almeno interiormente; se è filosofo fa un grosso libro, se è poeta una poesia, se non è capace non fa nulla; poi si consola e riprende la vita indifferente di tutti; indifferente, no, perché ci tiene: in fondo essa è piacevole. Il vero pessimismo può essere ricondotto in fondo al desiderio dell’infinito, la grande disperazione alla speranza infinita; è proprio perché è infinito e inestinguibile che il pessimismo si muta in disperazione. A che cosa si riduce in gran parte la stessa coscienza della sofferenza? Al pensiero che sarebbe possibile sottrarvisi, alla concezione di uno stato migliore, cioè di una sorta di ideale. Il male è il sentimento di un’impotenza; proverebbe l’impotenza di Dio se si supponesse un Dio ma, quando si tratta dell’uomo, prova invece la sua potenza relativa. Soffrire diventa il segno di una superiorità. Il solo essere che parla e pensa è anche il solo capace di piangere. Un poeta ha detto: «L’ideale sboccia tra i sofferenti»; non è piuttosto l’ideale stesso a generare la sofferenza morale, a dare all’uomo la piena coscienza dei suoi dolori?
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In realtà, certi dolori sono un segno di superiorità: non tutti possono soffrire così. Le grandi anime dal cuore straziato assomigliano all’uccello colpito da una freccia al culmine del suo volo: esso getta un grido che riempie il cielo, sta per morire, eppure vola ancora. Leopardi, Heine o Lenau non avrebbero probabilmente scambiato con i più vivi godimenti quei momenti di angoscia in cui hanno composto i loro più bei canti. Dante soffriva come solo si può soffrire di pietà quando scrisse i suoi versi su Francesca da Rimini: chi di noi non vorrebbe provare una pena simile? Vi sono delle ambasce infinitamente dolci. Vi sono punti in cui il dolore e l’acuto piacere sembrano confondersi: gli spasmi dell’agonia e quelli dell’amore hanno tra loro qualche analogia; il cuore si scioglie nella gioia come nel dolore. Le sofferenze feconde sono accompagnate da un godimento ineffabile; assomigliano a quei singhiozzi che, resi dalla musica di un maestro, diventano armonia. Soffrire e produrre significa sentire in sé una potenza nuova risvegliata dal dolore; siamo come l’Aurora scolpita da Michelangelo che, aprendo i suoi occhi piangenti, sembra vedere la luce solo attraverso le lacrime: sì, ma quella luce dei giorni tristi è ancora luce e vale la pena di essere guardata. L’azione, nella sua fecondità, è anche un rimedio allo scetticismo: essa si crea, lo abbiamo visto, la propria certezza interiore. Che ne so se vivrò domani, se vivrò fra un’ora, se la mia mano potrà terminare questa riga che sto cominciando? La vita, da ogni parte, è avvolta dall’ignoto. Eppure io agisco, lavoro, intraprendo; e in tutti i miei atti, in tutti i miei pensieri presuppongo quell’avvenire sul quale nulla mi dà diritto di contare. La mia attività supera ad ogni istante il momento presente, trabocca sull’avvenire. Io spendo la mia energia senza temere che questo dispendio sia una perdita secca, mi impongo delle privazioni contando che l’avvenire le compensi, vado avanti per la mia strada. Questa incertezza che, opprimendomi da ogni parte in egual misura, equivale per me ad una certezza e rende possibile la mia libertà, è uno dei fondamenti della morale speculativa con tutti i suoi rischi. Il mio pensiero, come la mia attività, procede innanzi; dà ordine al mondo, dispone dell’avvenire. Mi sembra di essere padrone dell’infinito perché il mio potere non equivale ad alcuna quantità determinata; più faccio e più spero. Per avere i vantaggi che le abbiamo attribuito, l’azione deve dedicarsi a qualche opera precisa e, fino a un certo punto, prossima. Voler fare del bene, non al mondo intero o all’intera umanità, ma a uomini determinati; alleviare una miseria presente, alleggerire qualcuno da un peso, da una sofferenza, ecco
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ciò che non può ingannare: si sa quel che si fa; si sa che lo scopo meriterà i nostri sforzi, non nel senso che il risultato ottenuto avrà un’importanza considerevole nella massa degli avvenimenti, ma nel senso che ci sarà sicuramente un risultato e un risultato buono; che la nostra azione non si perderà nell’infinito, come un lieve vapore nell’azzurro cupo dell’etere. Far scomparire una sofferenza è già un fine soddisfacente per un essere umano. Si cambia così di un infinitesimo la somma totale del dolore nell’universo. La pietà resta – inerente al cuore dell’uomo e vibrante nei suoi più profondi istinti – anche quando la giustizia puramente razionale e la carità universalizzata sembrano talvolta perdere il loro fondamento. Anche nel dubbio si può amare; anche nella notte intellettuale che ci impedisce di perseguire uno scopo lontano si può tendere la mano a colui che piange ai nostri piedi. Note [Personaggio di Madame Bovary al quale Flaubert assegna il ruolo di portavoce della mediocrità e della ristrettezza di vedute tipiche della provincia francese]. 2 Beninteso, non abbiamo mai pensato di considerare, come ci hanno rimproverato E. Boirac, H. Lauret [Critique d’une morale sans obligation ni sanction, Paris 1885] e altri critici, tutte le ipotesi metafisiche uguali per il pensiero umano. C’è una logica astratta delle ipotesi in base alla quale possono essere classificate e ordinate secondo una scala di probabilità. Tuttavia la loro efficacia pratica non sarà ancora a lungo esattamente corrispondente al loro valore teorico. (Cfr. nel nostro volume Irréligion de l’avenir [Alcan, Paris 1887] il capitolo sul Progrès des hypothèses métaphysiques). 3 Cfr. A. Fouillée, La science sociale contemporaine [Hachette, Paris 1880], libro V. 1
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Libro terzo L’IDEA DI SANZIONE
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Critica della sanzione naturale e della sanzione morale
L’umanità ha quasi sempre considerato la legge morale e la sua sanzione come inseparabili: per la maggioranza dei moralisti il vizio, razionalmente, porta con sé la sofferenza, la virtù costituisce una sorta di diritto alla felicità. Perciò l’idea di sanzione è parsa finora una delle nozioni basilari ed essenziali di ogni morale. È vero che secondo gli stoici e i kantiani, la sanzione non serve affatto a fondare la legge; tuttavia ne è complemento necessario: secondo Kant, il pensiero di ogni essere ragionevole unisce a priori l’infelicità al vizio, la felicità alla virtù, attraverso un giudizio sintetico. Agli occhi di Kant, la forza e la legittimità di questo giudizio è tale che, se la società umana si dissolvesse per sua propria volontà, dovrebbe innanzitutto, prima della dispersione dei suoi membri, giustiziare l’ultimo criminale chiuso nelle sue prigioni: dovrebbe liquidare questa sorta di debito del castigo che ricade su di essa e ricadrà più tardi su Dio. Anche certi moralisti deterministi, che negano in definitiva il merito e il demerito, sembrano però vedere un legittimo bisogno intellettuale in questa tendenza dell’umanità a considerare ogni atto come seguito da una sanzione. Alcuni utilitaristi, infine, come ad esempio Sidgwick, sembrano anche ammettere non so quale legame mistico fra un certo genere di condotta e un certo stato, felice o infelice, della sensibilità; Sidgwick crede di potere, in nome dell’utilitarismo, far appello alle pene e alle ricompense dell’altra vita: la legge morale, senza una sanzione definitiva, gli sembrerebbe sfociare in una «fondamentale contraddizione»1. Poiché l’idea di sanzione è uno dei principi della morale umana, si ritrova anche al fondo di ogni religione – cristiana, pagana o buddista. Non esiste religione che non ammetta una provvidenza, e la provvidenza non è che una specie di giustizia distributiva che, dopo aver agito in modo incompleto in questo mondo, si prende la rivincita nell’altro: questa giustizia distributiva è ciò che i moralisti intendono per sanzione. Si può dire che la religione consiste essenzialmente in questa credenza, che vi è una sanzione metafisicamente legata ad ogni atto morale, in altri termini, che deve esistere, nell’ordine profondo delle cose, una proporzionalità fra lo stato buono o cattivo della
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volontà e lo stato buono o cattivo della sensibilità. Su questo punto sembra dunque che la religione e la morale coincidano, che le loro mutue esigenze si accordino, anzi che la morale si completi con la religione; l’idea di giustizia distributiva e di sanzione, posta di solito in prima fila fra le nostre nozioni morali, richiama in effetti naturalmente, sotto una qualche forma, quella di una giustizia celeste. Noi vorremmo qui abbozzare la critica di questa importante idea di sanzione per purificarla da ogni specie di alleanza mistica. È vero che esiste un legame naturale o razionale fra la moralità del volere e una ricompensa o una pena applicata alla sensibilità? In altri termini, il merito intrinseco ha il diritto di vedersi associato ad una gioia e il demerito a un dolore? Questo è il problema che può essere posto anche sotto forma di esempio, se ci chiediamo: – Esiste qualche specie di ragione (se si escludono le considerazioni sociali) perché il più grande criminale riceva, per il suo delitto, anche solo una puntura di spillo, e l’uomo virtuoso un premio per la sua virtù? L’agente morale stesso, se si escludono le questioni di utilità o di igiene morale, ha il dovere, nei confronti di se stesso, di punire per punire o di ricompensare per ricompensare? Noi vorremmo mostrare come sia moralmente condannabile l’idea che la morale e la religione comuni si fanno della sanzione. Dal punto di vista sociale, la sanzione veramente razionale di una legge non potrebbe essere che una difesa di questa legge, e questa difesa, inutile nei confronti di ogni atto passato, la vedremo volgersi solo verso l’avvenire. Dal punto di vista morale, sanzione sembra significare semplicemente, secondo l’etimologia stessa, consacrazione, santificazione; ora, se per coloro che ammettono una legge morale è proprio il carattere santo e sacro della legge che le dà forza di legge, ciò deve implicare, secondo l’idea che ci facciamo oggi della santità e della divinità ideale, una sorta di rinuncia, di supremo disinteresse; più una legge è sacra, più deve essere disarmata, in modo tale che, in sé e per sé e al di fuori delle convenienze sociali, la vera sanzione sembri dover essere la completa impunità dell’azione compiuta. Così vedremo che ogni giustizia propriamente penale è ingiusta; anzi, ogni giustizia distributiva ha un carattere esclusivamente sociale e non può giustificarsi che dal punto di vista della società: in generale quel che chiamiamo giustizia è una nozione tutta umana e relativa; solo la carità o la pietà (senza il significato pessimistico che le dà Schopenhauer) è un’idea veramente universale che nulla può limitare o restringere.
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La sanzione naturale I moralisti classici vedono abitualmente nella sanzione naturale un’idea dello stesso ordine di quella di espiazione: la natura comincia, secondo loro, ciò che la coscienza umana e Dio devono continuare. Chiunque violi le leggi naturali si trova dunque già punito in un modo che annuncia e prepara, secondo loro, la punizione che risulta dalle leggi morali. – Nulla di più inesatto ai nostri occhi di questa concezione. La natura non punisce nessuno (nel senso che la morale classica dà a questa parola) e la natura non ha nessuno da punire perché non c’è nessun vero colpevole contro di essa: non si viola una legge naturale, o allora non sarebbe più una legge naturale; la pretesa violazione di una legge naturale non è mai altro che una verifica, una dimostrazione visibile. La natura è un grande meccanismo che funziona sempre e che la volontà dell’individuo non potrebbe ostacolare un istante: essa stritola tranquillamente chi cade fra i suoi ingranaggi; essere o non essere, essa non conosce altra punizione né altra ricompensa. Se pretendiamo di violare la legge della gravità sporgendoci troppo dalla torre Saint-Jacques saremo rapidamente costretti a verificare di persona questa legge sfracellandoci al suolo. Se si volesse, come un certo personaggio di un romanziere moderno, fermare una locomotiva lanciata a tutta velocità opponendole una lancia di ferro, si proverebbe a proprie spese l’inferiorità della forza umana rispetto a quella del vapore. Analogamente l’indigestione di un ghiottone o l’ubriachezza di un bevitore non hanno nella natura alcun carattere morale o punitivo: esse permettono semplicemente al paziente di calcolare la forza di resistenza che il suo stomaco o il suo cervello possono offrire all’influenza nociva di una certa quantità di cibo o di alcool: è ancora un’equazione matematica quella che si pone, più complicata questa volta, e che serve a verificare i teoremi generali dell’igiene e della fisiologia. D’altronde questa forza di resistenza di uno stomaco o di un cervello varierà molto a seconda degli individui: il nostro bevitore imparerà che non può bere come Socrate, e il nostro mangiatore che non ha lo stomaco dell’imperatore Massimino. Notiamo che le conseguenze naturali di un atto non sono mai legate all’intenzione che ha dettato questo atto: se vi gettate in acqua senza saper nuotare, che sia per un atto di altruismo o per semplice disperazione, annegherete altrettanto velocemente. Se avete uno stomaco buono e nessuna disposizione alla gotta, potrete quasi impunemente mangiare in eccesso; se invece siete dispeptici sarete condannati a soffrire incessantemente il supplizio della relativa inanizione. Altro esempio: avete ceduto ad un accesso d’intemperanza; aspettate
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con inquietudine la «sanzione della natura»: qualche goccia di un medicamento la eviterà cambiando i termini dell’equazione che si pone nel vostro organismo. La giustizia delle cose è dunque sia assolutamente inflessibile dal punto di vista matematico, sia assolutamente corruttibile dal punto di vista morale. Per meglio dire, le leggi della natura, in quanto tali, sono immorali o, se si vuole, a-morali, proprio perché sono necessarie; esse sono tanto meno sante e sacre, comportano tanto meno una vera sanzione quanto più sono effettivamente inviolabili. L’uomo vi vede soltanto un ostacolo mobile che tenta di far arretrare. Tutte le sue audacie contro la natura non sono altro che esperienze fortunate o sfortunate e il risultato di queste esperienze ha un valore scientifico e niente affatto morale. Si è tentato tuttavia di mantenere la sanzione naturale stabilendo una sorta di armonia segreta, resa visibile dall’estetica, tra il corso della natura e quello della volontà morale. La moralità comunicherebbe necessariemente a quelli che la possiedono una superiorità nell’ordine stesso della natura. «L’esperienza, si è detto, constata una dipendenza tale fra il bene morale e il bene fisico, fra il bello o il brutto espressi materialmente e il bello o il brutto nell’ordine delle passioni e delle idee, e si vedono così bene gli organi modificarsi, modellarsi secondo le loro funzioni abituali, che non vi è dubbio che la vita umana prolungata, se potesse esserlo abbastanza, con l’abbandono sempre più istintivo di certi uomini a tutti i vizi, il dominio acquisito da certi altri che volgono al bene le loro facoltà, ci mostrerebbe a lungo andare dei mostri da una parte e degli uomini veri dall’altra2». Notiamo innanzitutto che questa legge di armonia fra la natura e la moralità che ci si sforza di stabilire è valida molto più per la specie che per la vita individuale, anche prolungata: occorre una serie di generazioni e di modificazioni specifiche perché una qualità morale si esprima in una qualità fisica e un difetto in una bruttezza. Inoltre i sostenitori della sanzione estetica sembrano confondere interamente l’immoralità con ciò che possiamo chiamare la bestialità, cioè l’abbandono assoluto agli istinti grossolani, l’assenza di ogni idea elevata, di ogni ragionamento sottile. L’immoralità non è necessariamente così; può coincidere con la raffinatezza dello spirito, può non abbassare l’intelligenza; ora, ciò che si esprime negli organi del corpo è più l’abbassamento dell’intelligenza che la deviazione della volontà. Non ci si rappresenta una Cleopatra o un don Giovanni come se dovessero necessariamente smettere di rappresentare il tipo della bellezza fisica, anche se si suppone prolungata la loro esistenza. Gli istinti
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Critica della sanzione naturale e della sanzione morale
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di astuzia, di collera, di vendetta che troviamo tra gli italiani del sud non hanno alterato la rara bellezza della loro razza. D’altronde molti esempi di condotta che ci paiono dei vizi nello stato sociale avanzato in cui ci troviamo, sono virtù allo stato di natura; non ne può dunque derivare alcuna bruttezza veramente ripugnante, alcuna alterazione notevole del tipo umano. Al contrario le qualità e talvolta le virtù della civiltà, se spinte all’eccesso, potrebbero produrre facilmente delle mostruosità fisiche. Si vede su quale fragile base si appoggia chiunque tenti di inferire la sanzione morale e religiosa dalla sanzione naturale3. La sanzione morale e la giustizia distributiva Già Bentham, Mill, Maudsley, Fouillée, Lombroso hanno combattuto l’idea di castigo morale; essi hanno voluto togliere alla pena ogni carattere espiatorio e ne hanno fatto un semplice mezzo sociale di repressione e di riparazione; per giungere a ciò si sono in genere basati sulle dottrine deterministiche o materialistiche ancor oggi discusse; così Janet, in nome dello spiritualismo classico, ha creduto di dover mantenere nella sua ultima opera, malgrado tutto, il principio dell’espiazione riparatrice dei crimini liberamente commessi. «Il castigo, dice, non deve essere solo una minaccia che garantisca l’esecuzione della legge, ma una riparazione o una espiazione che ne corregga la violazione. L’ordine turbato da una volontà ribelle è ristabilito dalla sofferenza che è la conseguenza dell’errore commesso»4. – «È soprattutto alla legge morale, si è detto ancora,5 che è necessaria una sanzione... Questa è una legge severa e santa solo a condizione che il castigo sia legato alla sua violazione e la felicità alla sua osservanza». Noi crediamo che questa dottrina della remunerazione sensibile, e soprattutto dell’espiazione, sia insostenibile da qualunque punto di vista ci si ponga, anche supponendo che esista una «legge morale» che si rivolge imperativamente ad esseri dotati di libertà. È una dottrina materialistica opposta a sproposito al preteso materialismo dei suoi avversari. Cerchiamo, al di là di ogni pregiudizio, di ogni idea preconcetta, quale ragione morale vi possa essere perché un essere moralmente cattivo riceva una sofferenza sensibile, e un essere buono una sovrabbondanza di godimenti; vedremo che non c’è alcun motivo e che, invece di trovarci in presenza di una proposizione «evidente» a priori, siamo davanti a un’induzione grossolanamente empirica e fisica, tratta dai principi del taglione o dell’interesse ben inteso. Questa induzione si nasconde sotto tre nozioni pseudo-razionali: 1) quella di merito; 2) quella di ordine; 3) quella di giustizia distributiva.
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I. Nella teoria classica del merito l’espressione: «ho demeritato», che dichiarava dapprima semplicemente il valore intrinseco del volere, assume il senso seguente: «ho meritato un castigo», ed esprime ormai un rapporto dall’interno all’esterno. Questo brusco passaggio dal morale al sensibile, dalle parti profonde del nostro essere alle parti superficiali, ci pare ingiustificabile. Lo è nell’ipotesi del libero arbitrio ancor più che in ogni altra. Secondo questa ipotesi infatti le diverse facoltà dell’uomo non sono veramente legate e determinate reciprocamente: la volontà non è il puro prodotto dell’intelligenza, derivata essa stessa dalla sensibilità; la sensibilità non è dunque più il vero centro dell’essere e diventa difficile capire come possa rispondere per la volontà. Se quest’ultima ha voluto liberamente il male la colpa non è della sensibilità, che ha giocato solo il ruolo di movente e non di causa. Aggiungete il male sensibile del castigo al male morale dell’errore, col pretesto dell’espiazione, e avrete raddoppiato la somma dei mali senza porre riparo a nulla: assomiglierete a quel medico di Molière il quale, chiamato per guarire un braccio malato, tagliò l’altro al suo paziente. Senza le ragioni di difesa sociale (di cui ci occuperemo più tardi) il castigo sarebbe biasimevole quanto il crimine e la prigione non sarebbe migliore di coloro che la abitano; diciamo di più: i legislatori e i giudici, condannando deliberatamente i colpevoli, diventerebbero simili a loro. Se si fa astrazione dall’utilità sociale, che differenza ci sarà tra il delitto commesso dall’assassino e il delitto commesso dal boia? Quest’ultimo non ha nemmeno, come circostanza attenuante, qualche ragione di interesse personale o di vendetta; l’omicidio legale diventa assurdo ancor più dell’omicidio illegale. Il boia imita l’assassino, come altri assassini lo imiteranno a loro volta, subendo anch’essi quella specie di fascino che esercita il delitto e che fa praticamente del patibolo una scuola del crimine. È impossibile vedere nella «sanzione espiatrice» qualcosa che assomigli ad una conseguenza razionale della colpa; è una semplice sequenza meccanica o, per meglio dire, una ripetizione materiale, una copia di cui la colpa è il modello. II. S’invocherà, con V. Cousin e P.-A. Janet, quello strano principio dell’ordine che, turbato da una «volontà ribelle», può essere ristabilito solo dalla sofferenza? Qui si dimentica di distinguere fra la questione sociale e la questione morale. L’ordine sociale è stato in effetti l’origine storica del castigo e la pena era inizialmente, come ci ha mostrato Littré, solo un compenso, un’indennità materiale, richiesta dalla vittima o dai suoi parenti; ma, quando ci si pone al di fuori del
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Critica della sanzione naturale e della sanzione morale
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punto di vista sociale, la pena può compensare qualcosa? Sarebbe troppo comodo che un delitto potesse essere fisicamente riparato dal castigo e che si potesse pagare il prezzo di una cattiva azione con una certa dose di sofferenza fisica, come si comperavano le indulgenze della Chiesa con moneta sonante. No, quel ch’è fatto è fatto; il male morale resta, malgrado tutto il male fisico che vi si può aggiungere. Se sarebbe razionale perseguire con i deterministi la guarigione del colpevole, è irrazionale cercare la punizione o la compensazione del delitto. Questa idea è il risultato di una sorta di matematica e di contabilità infantile. «Occhio per occhio, dente per dente»6. Per chi ammette l’ipotesi del libero arbitrio, uno dei piatti della bilancia è nel mondo morale, l’altro nel mondo sensibile, uno in cielo, l’altro sulla terra: nel primo vi è una volontà libera, nel secondo una sensibilità determinata; come stabilire un equilibrio fra loro? Il libero arbitrio, se esiste, è per noi del tutto inafferrabile; è un assoluto e noi non abbiamo presa sull’assoluto: le sue risoluzioni sono dunque in se stesse irreparabili, inespiabili; sono state paragonate a lampi ed effettivamente esse abbagliano e scompaiono; l’azione buona o colpevole discende misteriosamente dalla volontà nel campo dei sensi, ma poi è impossibile risalire da questo campo a quello del libero arbitrio per coglierla e punirla; il lampo scende e non risale. Non esiste, fra il «libero arbitrio» e gli oggetti del mondo sensibile, altro legame razionale che il volere proprio dell’agente; bisogna dunque, perché il castigo sia possibile, che il libero arbitrio stesso lo voglia, ed esso può volerlo soltanto se si è già migliorato abbastanza profondamente da avere in parte cessato di meritarlo: questa è l’antinomia alla quale conduce la dottrina dell’espiazione quando cerca non solo di correggere ma di punire. Fino a quando un criminale resta veramente tale si pone per ciò stesso al di sopra di ogni sanzione morale; bisognerebbe convertirlo prima di colpirlo e, se è convertito, perché colpirlo? Colpevole o no, la volontà dotata di libero arbitrio supererebbe a tal punto il mondo sensibile, che la sola condotta da tenere davanti ad essa sarebbe quella di inchinarsi; una volontà di questo tipo è un Cesare irresponsabile che si può ben condannare in contumacia e giustiziare in effigie per soddisfare la passione popolare, ma che in effetti sfugge ad ogni azione esterna. Durante il Terrore bianco si bruciarono delle aquile vive in assenza di colui che esse simboleggiavano; i giudici umani, nell’ipotesi di un’espiazione inflitta al libero arbitrio, non fanno niente di diverso; la loro crudeltà è vana quanto irrazionale; mentre il corpo innocente dell’accusato si dibatte fra le loro mani, la sua volontà, che è la vera aquila, l’aquila sovrana dal libero volo, si libra inafferrabile al di sopra di loro.
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III. Se cerchiamo di approfondire questo principio ingenuo o crudele dell’ordine messo in rilievo dagli spiritualisti, e che richiama un po’ troppo l’«ordine regna a Varsavia», esso si trasforma in quello di una pretesa giustizia distributiva. «A ciascuno secondo le sue opere», questo è l’ideale sociale della scuola sansimoniana ed è anche l’ideale morale di Janet7. La sanzione non è allora altro che un semplice caso della proporzione generale stabilita fra ogni lavoro e la sua remunerazione: 1) colui che fa molto deve ricevere molto; 2) colui che fa poco deve ricevere poco; 3) colui che fa il male deve ricevere il male. – Notiamo prima di tutto che quest’ultimo principio non può dedursi affatto dai precedenti: se il più piccolo atto positivo sembra dover richiedere un minimo riconoscimento, non ne deriva che un’offesa debba avere per conseguenza la vendetta. Inoltre, gli altri due principi stessi ci sembrano contestabili, almeno in quanto formule dell’ideale morale. Qui ancora si confondono il punto di vista morale e quello sociale. Il principio «a ciascuno secondo le sue opere» è un semplice principio economico; riassume molto bene l’ideale della giustizia commutativa e dei contratti sociali, per nulla quello di una giustizia assoluta che darebbe a ciascuno secondo la sua intenzione morale. Significa semplicemente questo: bisogna, indipendentemente dalle intenzioni, che gli oggetti scambiati nella società siano di ugual valore e che un individuo che dà un prodotto di un prezzo considerevole non riceva in cambio un salario insignificante: è la regola degli scambi, quella di ogni lavoro interessato, non è la regola dello sforzo disinteressato che la virtù esigerebbe per ipotesi. C’è e deve esserci, nei rapporti sociali, una certa tariffa delle azioni, non delle intenzioni; tutti noi vigiliamo affinché questa tariffa sia osservata, affinché un commerciante che spaccia una merce contraffatta o un cittadino che non compie il suo dovere civico non ricevano in cambio la quantità normale di denaro o di reputazione. Bene; ma come assegnare un valore a una virtù che sia veramente «morale»? Quando non si considerano più i contratti economici e gli scambi materiali, ma la volontà in se stessa, questa legge perde ogni valore. La giustizia distributiva, in ciò che ha di plausibile, è dunque una regola puramente sociale, puramente utilitaristica, che non ha più senso fuori da una qualunque società. La società si basa interamente sul principio di reciprocità, vale a dire che, se si produce il bene e l’utile ci si aspetta in cambio il bene, e se si produce qualcosa di dannoso ci si aspetta altrettanto; da questa reciprocità del tutto meccanica, che si ritrova nel corpo sociale come negli altri organismi, risulta una proporzionalità grossolana
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Critica della sanzione naturale e della sanzione morale
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tra il bene sensibile di un individuo e il bene sensibile degli altri, una mutua solidarietà, che prende la forma di una sorta di giustizia distributiva; ma, ancora una volta, si tratta di un equilibrio naturale piuttosto che di una equità morale di distribuzione. Il bene non ricompensato, non valutato per così dire al suo vero prezzo, il male non punito ci colpiscono semplicemente come un fenomeno antisociale, come una mostruosità economica e politica, come una relazione nociva tra gli esseri; ma, dal punto di vista morale, non è così. In fondo il principio «a ciascuno secondo le sue opere» è un’eccellente formula sociale di incoraggiamento per il lavoratore o l’agente morale; gli impone come ideale una sorta di «lavoro a cottimo» che è sempre molto più produttivo del «lavoro alla giornata» e soprattutto del lavoro «intenzionale»; è una regola eminentemente pratica, non una sanzione. Il carattere essenziale di una vera sanzione morale, infatti, sarebbe quello di non costituire mai un fine, uno scopo; il bambino che ripete correttamente la sua lezione col semplice scopo di ricevere poi dei confetti non li merita più, dal punto di vista della morale, proprio perché li ha presi come scopo. La sanzione deve dunque essere del tutto fuori dalle regioni della finalità, e a maggior ragione dell’utilità; la sua pretesa è di agire sulla volontà in quanto causa, senza volerla dirigere secondo uno scopo. Così nessun artificio può trasformare il principio pratico della giustizia sociale: «Aspettatevi di ricevere dagli uomini in proporzione di ciò che avrete dato loro» nel principio metafisico: «Se la causa misteriosa che agisce in voi è buona in sé e per sé noi produrremo un effetto gradevole sulla vostra sensibilità; se è cattiva, faremo soffrire la vostra sensibilità». La prima formula – proporzionalità degli scambi – era razionale perché costituiva un movente pratico per la volontà ed era rivolta all’avvenire; la seconda, che non contiene alcun motivo di azione e che, per un effetto retroattivo, guarda al passato invece di modificare l’avvenire, è praticamente sterile e moralmente vuota. La nozione di giustizia distributiva ha dunque valore solo in quanto esprime un ideale puramente sociale le cui leggi economiche tendono da sole a produrre la realizzazione; diventa immorale se le si dà un carattere assoluto e metafisico e si vuole farne il principio di un castigo o di una ricompensa. È del tutto comprensibile che la virtù abbia per sé il giudizio morale di tutti gli esseri e che il crimine l’abbia contro di sé; ma questo giudizio non può uscire dai limiti del mondo morale per mutarsi nella minima azione coercitiva e afflittiva. L’affermazione: «sei buono, sei cattivo» non potrà mai diventare: «bisogna farti godere o soffrire». Il colpevole non potrebbe avere il privilegio
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di costringere l’uomo dabbene a fargli del male. Il vizio e la virtù sono dunque responsabili solo davanti a se stessi e tutt’al più davanti alla coscienza altrui; dopo tutto il vizio e la virtù sono soltanto forme che si dà la volontà e al di sopra di queste forme sussiste sempre la volontà stessa, la cui natura sembra consistere nell’aspirazione alla felicità. Non si vede perché questo desiderio eterno non dovrebbe essere soddisfatto in tutti. Le belve umane devono essere, in assoluto, trattate con indulgenza e pietà come tutti gli altri esseri; poco importa che si consideri la loro ferocia come fatale o come libera, esse sono sempre da compiangere moralmente; perché si vorrebbe che fossero da compiangere anche fisicamente? Ad una bimba fu mostrata una grande immagine colorata che rappresentava dei martiri; nell’arena leoni e tigri si pascevano del sangue cristiano; in disparte un’altra tigre era rimasta in gabbia sotto chiave e guardava con aria sconsolata. «Quei poveri martiri, fu chiesto alla bimba, non li compiangi?» – «E quella povera tigre, rispose lei, che non ha nessun cristiano da mangiare?». Un saggio privo di pregiudizi avrebbe sicuramente pietà dei martiri, ma ciò non gl’impedirebbe di avere pietà anche della tigre affamata. È nota la leggenda indù secondo la quale Buddha diede il suo corpo in pasto a una belva che moriva di fame. Questa è la pietà suprema, la sola che non racchiuda qualche ingiustizia nascosta. Una simile condotta, assurda dal punto di vista pratico e sociale, è la sola legittima dal punto di vista della pura moralità. Alla giustizia gretta e tutta umana, che rifiuta il bene a colui che è già abbastanza infelice per il fatto di essere colpevole, bisogna sostituire una giustizia di più ampio respiro, che dia il bene a tutti, non solo ignorando con quale mano lo dà, ma non volendo nemmeno sapere quale mano lo riceve. Questa specie di titolo alla felicità che viene riservato solo all’uomo dabbene, e al quale corrisponderebbe per tutti gli esseri inferiori un vero diritto all’infelicità, è un resto degli antichi pregiudizi aristocratici (nel senso etimologico della parola). La ragione può compiacersi nel supporre un certo legame fra la sensibilità e la felicità perché ogni essere dotato di sensibilità desidera il godimento e odia il dolore per propria natura. La ragione può anche supporre un legame fra ogni volontà e la felicità, perché ogni essere suscettibile di volontà aspira spontaneamente a sentirsi felice. Le differenze tra le volontà subentrano solo quando si tratta di scegliere le vie e i mezzi per arrivare alla felicità; certi uomini credono la loro felicità incompatibile con quella altrui, altri cercano la loro felicità in quella altrui: ecco ciò che distinge i buoni dai malvagi. A questa divergenza nella direzione di questa o quella volontà corrisponderebbe, se-
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Critica della sanzione naturale e della sanzione morale
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condo la morale ortodossa, una differenza essenziale nella natura stessa del volere, nella causa profonda e indipendente che si manifesta esteriormente in quella divergenza; d’accordo, ma questa differenza non può sopprimere il rapporto permanente fra la volontà e la felicità. I colpevoli conservano anche oggi davanti alle nostre leggi un certo numero di diritti; conservano tutti quei diritti in assoluto (per chi ammette un assoluto): così come un uomo non può vendere se stesso come schiavo, non può neppure togliersi da solo questa sorta di titolo naturale che ogni essere senziente crede di avere alla felicità finale. Finché gli esseri liberamente o fatalmente malvagi persevereranno nel volere la felicità, non vedo quale ragione si possa invocare per negargliela. C’è, direte, la ragione, sufficiente da sola, che sono cattivi. – È dunque solo per renderli migliori che ricorrete alla sofferenza? No; questo non è per voi che uno scopo secondario che potrebbe essere raggiunto con altri mezzi; il vostro scopo principale è di produrre in loro l’espiazione, cioè l’infelicità senza utilità e senza oggetto. Come se non fosse abbastanza per loro l’essere cattivi! I nostri moralisti sono ancora rimasti all’arbitraria distribuzione che sembra ammettere il Vangelo: «A quelli che hanno già sarà dato ancora, e a quelli che non hanno nulla sarà tolto anche il poco che possiedono». L’idea cristiana di grazia sarebbe tuttavia accettabile ad una condizione: se fosse cioè universalizzata, estesa a tutti gli uomini e a tutti gli esseri; se ne farebbe così, invece di una grazia, una sorta di debito divino; ma ciò che colpisce profondamente in ogni morale ispirata poco o molto al cristianesimo è l’idea di una elezione, di una scelta, di una distribuzione della grazia. Un dio non ha da scegliere tra gli esseri per vedere quelli che vuole infine rendere felici; perfino un legislatore umano, se pretendesse di dare un valore assoluto e veramente divino alle sue leggi, sarebbe costretto a rinunciare anche a tutto ciò che richiama una «elezione», una «preferenza», una pretesa distribuzione e sanzione. Ogni dono fatto ad una parte (partiel)è necessariamente anche un dono di parte (partial), e sulla terra come in cielo non dovrebbero esserci favori. Note Cfr. la nostra Morale anglaise contemporaine, cit. [p. 143 ss.]. Ch. Renouvier, Science de la morale [Ladrange, Paris 1869, 2 vol.], I, p. 289. 3 Ad esempio, Renouvier dice: «È permesso vedere nella remunerazione futura un prolungamento naturale della serie di fenomeni che fin da ora fanno dipendere dalla moralità le condizioni fondamentali e perfino le condizioni fisiche della felicità.» (Science de la morale, cit., p. 290). 4 P.-A. Janet, Traité de philosophie [élémentaire, Delagrave, Paris 1880], p. 707. «La prima 1 2
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legge dell’ordine, aveva detto V. Cousin, è di essere fedele alla virtù; se la si trasgredisce, la seconda legge dell’ordine è di espiare la colpa con la punizione... Nell’intelligenza all’idea di ingiustizia corisponde quella di pena.» Due dei filosofi che hanno protestato di più in Francia contro la dottrina secondo la quale le leggi sociali sarebbero espiatorie e non semplicemente difensive, Franck e Renouvier, sembrano tuttavia ammettere come evidente il principio di una remunerazione legata alla legge morale. «Non si tratta di sapere, dice Franck, se il male merita di essere punito, perché questa proposizione è evidente di per sé.» (Philosophie du droit pénal [Baillière, Paris 1864], p. 79). «Esigere dalla virtù di non aspettarsi alcuna remunerazione, dice inoltre Renouvier, sarebbe andare contro la natura delle cose.» (Science de la morale, cit., p. 286). E.-M. Caro va più in là e nei due capitoli dei Problèmes de morale sociale [Hachette, Paris 1876] si sforza, basandosi su De Broglie, di mantenere sia il diritto morale sia il diritto sociale di punire i colpevoli. 5 H. Marion, Leçons de morale [Colin, Paris 1882], p. 157. 6 Uno dei principali rappresentanti in Francia della morale del dovere, Renouvier, dopo aver vivamente criticato lui stesso l’idea comune della punizione, ha fatto però grandi sforzi per salvare il principio del taglione, interpretandolo in un senso migliore. «Preso in se stesso e come espressione di un sentimento dell’anima in presenza di un delitto, il taglione sarebbe ben lungi dal meritare il disprezzo o l’indignazione di cui lo ricoprono alcuni pubblicisti le cui teorie penali sono spesso mal fondate sotto il profilo della giustizia». (Science de la morale, cit., t. II, p. 296). Secondo Renouvier, non sarebbe male che il colpevole subisse l’effetto della sua massima eretta a regola generale: ciò che è irrealizzabile è l’equivalenza matematica che il taglione presuppone tra la pena e l’ingiuria. – Ma, risponderemo, se questa equivalenza fosse realizzabile, non per questo il taglione sarebbe più giusto; perché non possiamo, checché ne dica Renouvier, erigere a legge generale la massima e l’intenzione immorale di colui che ha provocato il taglione; non possiamo nemmeno erigere a legge generale la massima della vendetta, che restituisce i colpi ricevuti; non potremmo generalizzare che il male fisico e l’effetto doloroso, ma la generalizzazione di un male è essa stessa moralmente un male; non restano dunque che ragioni personali o sociali di difesa, di precauzione, di utilità. Secondo Renouvier, il taglione, una volta purificato, può esprimersi in questa formula che egli dichiara accettabile: «Chiunque ha violato la libertà altrui ha meritato di soffrire nella sua»; ma questa stessa formula, secondo noi, non è ammissibile dal punto di vista della generalizzazione kantiana delle intenzioni. Non si deve far soffrire il colpevole né limitare la sua libertà per il fatto che nel passato ha violato la libertà altrui, ma in quanto è capace di violarla di nuovo; non si può dunque dire che un atto passato meriti una pena, e la pena non si giustifica mai se non per la previsione di atti simili in avvenire: essa non si lega a delle realtà, ma a delle semplici possibilità che si sforza di modificare. Se il colpevole si esiliasse liberamente in un’isola deserta, dalla quale gli fosse impossibile ritornare, la società umana (e in generale ogni società di esseri morali) si troverebbe disarmata contro di lui; nessuna legge morale potrebbe esigere che, avendo violato la libertà altrui, egli soffrisse nella sua. 7 La morale [Delagrave, Paris 1874], p. 577.
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La nostra società attuale non può certo realizzare il lontano ideale dell’indulgenza universale; ma ancor meno può prendere come modello di condotta l’ideale opposto della morale ortodossa, cioè la distribuzione della felicità e dell’infelicità secondo il merito e il demerito. Abbiamo visto che non c’è nessuna ragione puramente morale per supporre che il vizio sia punito e la virtù premiata. A maggior ragione bisogna riconoscere che non esiste nel diritto puro una sanzione sociale e che i fatti designati con questo nome sono semplici fenomeni di difesa sociale1. Ora, dal punto di vista teorico puro nel quale ci siamo posti fin qui, dobbiamo scendere nella sfera più torbida dei sentimenti e delle associazioni di idee nella quale i nostri avversari potrebbero riprendere vantaggio. La maggioranza della specie umana non condivide minimamente le idee degli indù e di ogni vero filosofo circa l’identità di giustizia assoluta e carità universale: ha forti prevenzioni contro la tigre affamata per la quale Buddha si sacrificò, e ha naturali preferenze nei confronti delle pecore. Non le sembra soddisfacente che la colpa rimanga impunita e la virtù senza ricompensa. L’uomo è come quei bambini che non amano le storie in cui i bambini buoni sono mangiati dai lupi e che vorrebbero invece veder mangiati i lupi. Anche a teatro si pretende generalmente che la virtù sia ricompensata e il vizio punito e, se non lo sono, lo spettatore se ne va scontento con la sensazione di un’aspettativa delusa. Da dove deriva questo sentimento tenace, questo bisogno persistente di una sanzione nell’essere socievole, questa impossibilità psicologica di accettare l’idea del male impunito? In primo luogo l’uomo è un essere essenzialmente pratico e attivo che tende a trarre da tutto ciò che vede una regola di azione e per il quale la vita altrui è una perpetua morale esemplificata; con il meraviglioso istinto sociale che possiede, l’uomo sente subito che un crimine impunito è un elemento di distruzione sociale, ha il presentimento di un pericolo per se stesso e per tutti gli altri: è come un cittadino rinchiuso in una città assediata che scopre una breccia aperta.
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In secondo luogo quel cattivo esempio è come una specie di esortazione personale al male, sussurrata al suo orecchio contro la quale si rivoltano i suoi istinti migliori. Questo dipende dal fatto che il buon senso popolare fa sempre entrare la sanzione nella formula stessa della legge e considera la ricompensa o il castigo come dei moventi. La legge umana ha il duplice carattere di essere determinata dall’utile e dalla necessità: il che è esattamente l’opposto di una legge morale che comanda senza movente a una volontà libera. Esiste una terza ragione ancora più profonda dell’indignazione contro l’impunità: l’intelligenza umana fa fatica ad arrestarsi all’idea di male morale; ne è rivoltata ben più di quanto non lo sia per una mancanza di simmetria materiale o di esattezza matematica. L’uomo, essendo essenzialmente un animale socievole, zwvon politikovn, non può rassegnarsi al successo definitivo di atti antisociali; là dove sembra che tali atti siano umanamente riusciti, la natura stessa del suo spirito lo spinge a volgersi verso il sovrumano per domandare riparazione e compenso. Se le api, incatenate all’improvviso, vedessero l’ordine delle loro celle distrutto sotto i loro occhi, senza avere speranza di porvi mai rimedio, tutto il loro essere sarebbe sconvolto, ed esse si aspetterebbero istintivamente un intervento qualunque che ristabilisse l’ordine – un ordine per esse immutabile e sacro quanto può esserlo quello degli astri per un’intelligenza più progredita. Lo spirito stesso dell’uomo si trova compenetrato dall’idea di sociabilità; noi pensiamo, per così dire, sotto la categoria della società come sotto quella del tempo e dello spazio. L’uomo, per la sua natura morale (quale gli è stata fornita dall’eredità), è così portato a credere che nell’universo l’ultima parola non debba mai rimanere al malvagio; s’indigna sempre contro il trionfo del male e dell’ingiustizia. Questa indignazione si constata nei bambini prima ancora che sappiano parlar bene e se ne ritroverebbero numerose tracce perfino fra gli animali. Il risultato logico di questa protesta contro il male è il rifiuto di credere al carattere definitivo del suo trionfo. Dominata interamente dall’idea di progresso, essa non può sopportare che un essere rimanga a lungo bloccato nel suo cammino in avanti. Infine ci sono anche da far valere delle considerazioni estetiche, inseparabili dalle ragioni sociali e morali. Un essere immorale racchiude una bruttezza ben più ripugnante della bruttezza fisica, su cui la vista preferisce non posarsi. Si vorrebbe dunque correggerlo o evitarlo, migliorarlo o sopprimerlo. Ricordiamoci la difficile posizione dei lebbrosi e degli impuri nella società antica: erano trattati come noi oggi trattiamo i colpevoli. Se i romanzieri o gli au-
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tori drammatici in genere non lasciano il crimine troppo apertamente impunito, notiamo anche che non hanno l’abitudine di rappresentare i loro personaggi principali, soprattutto le loro eroine, come francamente brutti (gozzuti, gobbi, orbi, ecc.); se talvolta lo fanno, come Victor Hugo per il suo Quasimodo, il loro scopo allora è di farci dimenticare quella deformità per tutto il resto dell’opera o di servirsene come antitesi; per lo più il romanzo termina con una trasformazione dell’eroe o dell’eroina (come nella Petite Fadette o in Jane Eyre). La bruttezza produce dunque, in minor grado, lo stesso effetto dell’immoralità, e noi sentiamo il bisogno di correggere tanto l’una quanto l’altra; ma come correggere dall’esterno l’immoralità? L’idea della pena inflitta come reattivo si presenta subito alla mente; il castigo è uno di quei vecchi rimedi popolari come l’olio bollente nel quale venivano immerse prima di Ambroise Paré le membra dei feriti. In fondo il desiderio di vedere il colpevole punito «viene da una buona indole». Si spiega soprattutto con l’impossibilità in cui si trova l’uomo di rimanere inattivo e indifferente di fronte a un qualsiasi male; egli vuole tentare qualcosa, toccare la piaga, sia per chiuderla, sia per applicarvi un revulsivo, e la sua intelligenza è sedotta dall’apparente simmetria che ci offre la proporzionalità del male morale e del male fisico. Egli non sa che ci sono cose che è meglio non toccare. I primi che fecero degli scavi in Italia e che trovarono delle Veneri con un braccio o una gamba in meno provarono quell’indignazione che ancor oggi noi sentiamo davanti a una volontà mal equilibrata: essi vollero riparare il male, rimettere un braccio preso altrove, aggiustare una gamba; oggi, più rassegnati e più cauti, noi lasciamo i capolavori così come sono, superbamente mutilati; in questo modo la nostra stessa ammirazione delle opere più belle non è priva di una certa sofferenza: ma noi preferiamo soffrire piuttosto che profanare. Questa sofferenza di fronte ad un male, questo sentimento dell’irreparabile dobbiamo provarlo in grado ancora maggiore davanti al male morale. Solo la volontà interiore può efficacemente correggere se stessa, come soltanto i lontani creatori delle Veneri di marmo potrebbero ridar loro quelle membra levigate e bianche che sono state spezzate; noi ci siamo ridotti alla cosa più dura per l’uomo, all’attesa dell’avvenire. Il progresso definitivo non può venire che dall’interno degli esseri. I soli mezzi che possiamo impiegare sono tutti indiretti (per esempio l’educazione). Quanto alla volontà stessa, essa dovrebbe appunto essere sacra per coloro che la considerano libera, o almeno spontanea: essi non possono senza contraddizione e senza ingiustizia cercare di mettere le mani su di essa.
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Così il sentimento che ci spinge a desiderare una sanzione è in parte immorale. Come molti altri sentimenti, ha un principio assolutamente legittimo e cattive applicazioni. Fra l’istinto umano e la teoria scientifica della morale esiste dunque una certa opposizione. Noi mostreremo che questa opposizione è provvisoria e che l’istinto finirà per essere conforme alla verità scientifica. Perciò tenteremo di analizzare più a fondo di quanto non abbiamo ancora fatto il bisogno psicologico di una sanzione nell’essere che vive in società, ne abbozzeremo la genesi e vedremo come, prodotto dapprima da un istinto naturale legittimo, esso tende a ridursi, a limitarsi sempre più col progresso dell’evoluzione umana. Se esiste una legge generale della vita, è questa: ogni animale (potremmo estendere la legge anche ai vegetali) risponde ad un attacco con una difesa che è a sua volta per lo più un attacco di risposta, una sorta di contraccolpo: si tratta di un istinto primitivo, che ha origine nel moto riflesso, nell’irritabilità dei tessuti viventi, e senza il quale la vita sarebbe impossibile: gli animali, privati del cervello non cercano ancora di mordere chi li pizzica? Gli esseri nei quali questo istinto era più sviluppato e più sicuro sono sopravvissuti più facilmente come le rose munite di spine. Negli animali superiori, come l’uomo, questo istinto si diversifica, ma continua a esistere; in noi c’è una molla pronta a scattare contro chi la tocca, come nelle piante che lanciano frecce. È in origine un fenomeno meccanico inconscio; ma questo istinto, quando diventa cosciente, non s’indebolisce come tanti altri2; è infatti necessario alla vita dell’individuo. Per vivere, in ogni società primitiva, bisogna poter mordere chi vi ha morso, colpire chi vi ha colpito. Ancor oggi, quando un bambino, anche solo giocando, ha ricevuto un colpo che non ha potuto restituire, è scontento, ha il sentimento di una inferiorità: invece, quando ha reso il colpo, accentuandolo anzi con maggiore energia, è soddisfatto, non si sente più inferiore, ineguale nella lotta per la vita. Lo stesso sentimento si ritrova negli animali: quando si gioca con un cane, bisogna lasciarsi prendere la mano di tanto in tanto se non si vuol farlo arrabbiare. Nei giochi dell’uomo adulto si ritrova lo stesso bisogno di un certo equilibrio fra le possibilità: i giocatori desiderano sempre, secondo l’espressione popolare, trovarsi almeno «in pareggio». Senza dubbio, con l’uomo, intervengono nuovi sentimenti che si aggiungono all’istinto primitivo: sono l’amor proprio, la vanità, la preoccupazione dell’altrui opinione; comunque
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sia, si può distinguere al di sotto di essi qualcosa di più profondo: il sentimento delle necessità della vita. Nelle società selvagge un essere che non sia capace di restituire, magari con gli interessi, il male che gli è stato fatto è un essere mal attrezzato per l’esistenza, destinato prima o poi a scomparire. La vita stessa nella sua essenza è una rivincita, una rivincita permanente contro gli ostacoli che la intralciano. Così la rivincita è fisiologicamente necessaria per tutti gli esseri viventi ed è talmente radicata in loro che l’istinto brutale sussiste fino al momento della morte. È nota lo storia di quello svizzero mortalmente ferito che, vedendo passare di fianco a lui un capo austriaco, trovò la forza di prendere un masso e di spaccargli la testa, annientando se stesso con quest’ultimo sforzo. Si potrebbero citare ancora molti altri fatti di questo genere, in cui la rivincita non è più giustificata dalla difesa personale e si prolunga, per così dire, al di là della vita, grazie a una di quelle contraddizioni numerose e talvolta feconde che producono nell’essere sociale ora sentimenti cattivi, come l’avarizia, ora sentimenti utili, come l’amore della gloria. A tutto questo meccanismo, notiamolo, la nozione morale di giustizia o di merito rimane ancora estranea. Se un animale senza cervello morde chi lo ferisce, l’idea di sanzione non c’entra per nulla; se voi chiedete a un bambino o a un uomo del popolo perché picchia qualcuno, penserà di giustificarsi pienamente dicendovi che è stato picchiato per primo. Non domandategli altro: in fondo, per chi considera soltanto le leggi generali della vita, questa ragione è più che sufficiente. Siamo qui all’origine stessa e come al punto di emergenza fisica di quel preteso bisogno morale di sanzione che fino ad ora non ci offre nulla di morale, ma che sta per modificarsi. Supponiamo che un uomo, invece di essere lui stesso oggetto di un attacco, ne sia semplice spettatore e veda l’aggressore vigorosamente respinto; egli non potrà mancare di applaudirlo, perché si metterà mentalmente al posto di colui che si difende e, come ha evidenziato la scuola inglese, simpatizzerà con lui. Ogni colpo dato all’aggressore gli sembrerà così una giusta compensazione, una legittima rivincita, una sanzione3. Stuart Mill ha perciò ragione di pensare che il bisogno di veder punito ogni attacco contro l’individuo si riconduce al semplice istinto di difesa personale; solo che ha troppo spesso confuso la difesa con la vendetta e non ha mostrato che questo istinto stesso si riduce a un’azione riflessa eccitata direttamente o simpaticamente. Quando quest’azione riflessa è eccitata per simpatia, sembra
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rivestire un carattere morale assumendo un carattere disinteressato: quel che chiamiamo sanzione penale non è dunque in fondo che una difesa esercitata da individui al posto dei quali noi possiamo trasporci mentalmente, contro altri al posto dei quali non vogliamo metterci. Il bisogno fisico e sociale di sanzione ha un duplice aspetto, poiché la sanzione è sia castigo, sia ricompensa. Se la ricompensa ci pare naturale quanto la pena, è perché anch’essa trae origine da un’azione riflessa, da un istinto primitivo della vita. Ogni carezza chiama e aspetta in risposta un’altra carezza; ogni testimonianza di benevolenza provoca negli altri una testimonianza simile: questo è vero da un capo all’altro della scala animale; un cane che avanza pian piano muovendo la coda per leccare un suo simile si arrabbia se si vede accolto a morsi, come può indignarsi un uomo dabbene se riceve del male in cambio delle sue buone azioni. Estendete per mezzo della simpatia e generalizzate quest’impressione inizialmente tutta personale, arriverete a formulare questo giudizio: è naturale che ogni essere che contribuisce alla felicità dei suoi simili ne riceva in cambio i mezzi per essere felice. Se ci consideriamo solidali gli uni agli altri, ci sentiamo impegnati da una sorta di debito nei confronti di ogni benefattore della società. Al determinismo naturale che lega la buona azione alla buona azione si aggiunge così un sentimento di simpatia, e anzi di riconoscenza, nei confronti del benefattore: ora, in virtù di un’illusione inevitabile, la felicità ci pare sempre più meritata da quelli che ci ispirano simpatia4. Dopo questo rapido sguardo alla genesi dei sentimenti che suscita nell’uomo la punizione dei cattivi o la ricompensa dei buoni, si capirà come si è formata la nozione di una giustizia distributiva inflessibile che proporziona il bene al bene e il male al male: non è altro che il simbolo metafisico di un vivace istinto fisico che rientra in fondo in quello della conservazione della vita5. Resta da vedere come, nell’ambiente in parte artificiale della società umana, quest’istinto si modifica a poco a poco in modo tale che un giorno la nozione di giustizia distributiva finirà per perdere anche l’appoggio pratico di cui gode ancora oggi nel sentimento popolare. Seguiamo dunque il progresso della sanzione penale con l’evolversi delle società. In origine il castigo era molto più forte della colpa, la difesa superava l’attacco. Irritate una belva ed essa vi sbranerà; attaccate un uomo di mondo e vi risponderà con una battuta; ingiuriate un filosofo e non vi risponderà nulla. È la legge di economia della forza che produce questo crescente addolcimento della sanzione penale. L’animale è una molla regolata grossolana-
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Principio della giustizia penale o difensiva nella società
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mente, il cui scatto non è sempre proporzionato alla forza che lo provoca; le cose non vanno diversamente nell’uomo primitivo, e anche nel sistema penale dei primi popoli. Per difendersi contro un aggressore lo si schiacciava. Poi ci si accorse che non c’era bisogno di avere la mano così pesante: si tentò allora di proporzionare esattamente la reazione riflessa all’attacco; è il periodo riassunto nel precetto «occhio per occhio, dente per dente» – precetto che esprime un ideale ancora infinitamente troppo elevato per i primi uomini, un ideale che noi stessi oggi siamo ben lontani dall’aver raggiunto completamente, benché lo superiamo da altri punti di vista. Occhio per occhio, è la legge fisica dell’uguaglianza tra l’azione e la reazione che deve reggere un organismo perfettamente equilibrato e che funzioni in modo molto regolare. Con il tempo soltanto l’uomo si accorge che per la sua conservazione personale non è nemmeno utile rapportare con assoluta esattezza la pena inflitta alla sofferenza ricevuta. Egli tende dunque e tenderà sempre più in avvenire a diminuire la pena; economizzerà i castighi, le prigioni, le sanzioni di ogni genere; sono dispendi di forza sociale perfettamente inutili non appena superano il solo scopo che li giustifica scientificamente: la difesa dell’individuo e del corpo sociale aggredito. Oggi si riconosce sempre più che ci sono due maniere di colpire l’innocente: 1) colpire colui che è totalmente innocente; 2) colpire troppo il colpevole. Il rancore stesso, l’odio, lo spirito di vendetta, questo vano impiego delle facoltà umane, tendono a scomparire per lasciar posto alla constatazione del fatto e alla ricerca dei mezzi più razionali per impedire che si ripeta. Cos’è l’odio? Una semplice forma dell’istinto fisico di conservazione, il sentimento di un pericolo sempre presente nella persona di un altro individuo. Se un cane pensa a un bambino che gli ha gettato una pietra, un meccanismo naturale di immagini associa ora per lui all’idea del bambino l’azione di gettare il sasso: da qui collera e digrignar di denti. L’odio ha avuto dunque la sua utilità e si giustifica pienamente in uno stato sociale poco avanzato: era un prezioso eccitante del sistema nervoso e, per suo tramite, del sistema muscolare. Nello stato sociale superiore, in cui l’individuo non ha più bisogno di difendersi, l’odio non ha più senso. Se si viene derubati, si ricorre alla polizia; se si viene picchiati, si richiedono i danni e gli interessi. Già oggi a provar odio ci sono rimasti solo gli ambiziosi, gli ignoranti o gli stupidi. Il duello, questa cosa assurda, sparirà; d’altronde ai giorni nostri è regolato nei minimi dettagli come una visita ufficiale e spesso non ci si batte che formalmente. La pena di morte scomparirà o sarà conservata solo come mezzo di
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prevenzione con lo scopo di spaventare meccanicamente i criminali di razza, i criminali meccanici. Le prigioni e i bagni penali saranno probabilmente demoliti per essere sostituiti dalla deportazione, che è l’eliminazione nella sua forma più semplice; già la prigione si è addolcita6; vi si lasciano penetrare di più l’aria e la luce: le sbarre di ferro, che segregano il colpevole senza velare troppo i raggi del sole, raffigurano simbolicamete l’ideale della giustizia penale, che può essere espresso con questa formula scientifica: il massimo di difesa sociale con il minimo di sofferenza individuale. Così, più andiamo avanti, più la verità teorica si impone persino alle masse e modifica il bisogno popolare di castigo. Oggi, quando la società punisce non è mai per l’atto che è stato commesso nel passato, è per gli atti che il colpevole o altri, seguendo il suo esempio, potrebbero commettere in futuro. La sanzione vale solo come promessa o minaccia che precede l’atto e tende meccanicamente a produrlo; una volta compiuto, essa perde tutto il suo valore: è un semplice scudo o un semplice meccanismo deterministico e nient’altro. È proprio per questo che, per esempio, non si puniscono più i pazzi: si è rinunciato dopo aver riconosciuto che il timore del castigo non aveva alcuna efficacia su di loro. Appena un secolo fa, prima di Pinel, l’istinto popolare voleva che fossero puniti come tutti gli altri colpevoli, il che prova quanto le idee di responsabilità o di irresponsabilità siano vaghe nel concetto comune e utilitario della sanzione sociale. Il popolo non parlava in nome di quelle idee metafisiche quanto piuttosto in nome dell’interesse sociale, quando un tempo reclamava castighi crudeli in armonia con i suoi costumi; tanto meno i legislatori devono mettere in primo piano quelle idee quando, al giorno d’oggi, lavorano per ridurre la pena allo stretto necessario. Il «libero arbitrio» e la «responsabilità assoluta», da soli, non legittimano un castigo sociale più di quanto lo facciano l’irresponsabilità metafisica o il determinismo metafisico; ciò che solo giustifica la pena è la sua efficacia dal punto di vista della difesa sociale7. Come i castighi sociali si riducono ai nostri tempi allo stretto necessario, così le ricompense sociali (titoli di nobiltà, cariche onorifiche, ecc.) diventano anch’esse molto più rare ed eccezionali. Un tempo, quando un generale era vinto, lo si condannava a morte e talvolta lo si metteva in croce; quando era vincitore, lo si nominava imperator e lo si portava in trionfo: ai nostri giorni un generale per vincere non ha bisogno di aspettarsi né tali onori né una fine così misera. Poiché la società poggia su un insieme di scambi, colui che rende un servizio conta, in base alle leggi economiche, di ricevere non una sanzione ma
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semplicemente un altro servizio: degli onorari o un salario sostituiscono la ricompensa propriamente detta; il bene chiama il bene per una sorta di equilibrio naturale. In fondo la ricompensa, così come esisteva ed esiste ancor oggi nelle società non democratiche, costituiva sempre un privilegio. Per esempio, l’autore che il re un tempo sceglieva per dargli una pensione era certamente uno scrittore privilegiato, mentre oggi l’autore i cui libri si vendono è semplicemente uno scrittore letto. La ricompensa era un tempo considerata a tal punto come un privilegio che diventava spesso ereditaria, come i feudi e i titoli; la cosiddetta giustizia distributiva produceva infatti le ingiustizie più terribili. Inoltre, chi era ricompensato perdeva in dignità morale; perché ciò che riceveva gli appariva soltanto come un dono anziché un possesso legittimo. Dobbiamo notare che il regime economico che tende a predominare da noi ha, per certi versi, un aspetto molto più morale del regime della cosiddetta giustizia distributiva: infatti, anziché fare di noi dei vassalli, ci fa legittimi e assoluti possessori di tutto ciò che guadagniamo col nostro lavoro e le nostre opere. Tutto ciò che un tempo si otteneva per ricompensa o per favore si otterrà sempre più per concorso. I concorsi, in cui Renan vede una causa di decadimento per la società moderna, permettono oggi all’uomo di talento di crearsi da sé la propria posizione e di dovere solo a se stesso il posto che raggiunge. Ora i concorsi sono un mezzo per sostituire la ricompensa e il grazioso dono con un pagamento esigibile. Più andiamo avanti, più ognuno di noi sente ciò che gli è dovuto e lo reclama; ma ciò che si deve a ciascuno perde sempre più il carattere di una sanzione per assumere quello di un impegno che lega sia la società che l’individuo. Al pari delle ricompense sociali determinate che abbiamo ricordato, le altre ricompense più vaghe della stima pubblica e della popolarità tendono anch’esse a perdere la loro importanza con il progresso stesso della civiltà. Fra i selvaggi un uomo popolare è un dio o quasi; presso i popoli già civilizzati è ancora un uomo di dimensioni sovrumane, uno «strumento provvidenziale»; verrà il momento in cui agli occhi di tutti sarà un uomo e nient’altro. L’esaltazione dei popoli per i Cesari e i Napoleoni passerà gradualmente; la fama degli scienziati ci appare già oggi come la sola veramente grande e duratura; ora, essendo questi ammirati soprattutto dalle persone che li capiscono e non potendo essere capiti che da un piccolo numero, la loro gloria sarà sempre ristretta a un cerchio poco ampio. Perduti nella marea crescente delle teste umane, gli uomini di talento o di genio si abitueranno dunque ad aver bisogno, per trovar sostegno nei loro lavori, solo della stima di un piccolo numero
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e della loro propria. Si apriranno una via quaggiù e l’apriranno all’umanità, spinti più da una forza interiore che dall’attrattiva di ricompense. Più andiamo avanti, più sentiamo che il nome di un uomo diventa poca cosa; noi ci teniamo ancora solo per una sorta di puerilità cosciente; ma l’opera, per noi stessi come per tutti, è la cosa essenziale. Le alte intelligenze, mentre nelle alte sfere lavorano quasi silenziosamente, devono vedere con gioia i piccoli, gl’infimi, quelli che sono senza nome e senza merito avere una parte crescente nelle preoccupazioni dell’umanità. Oggi ci si sforza molto di più di addolcire la sorte di coloro che sono infelici o anche colpevoli che di colmare di benefici coloro che hanno la fortuna di essere sul primo gradino della scala umana: per esempio, una nuova legge che riguarda il popolo o i poveri potrà interessarci più di un avvenimento accaduto a un personaggio importante; un tempo era il contrario. Le questioni personali cederanno progressivamente il posto alle idee astratte della scienza o al sentimento concreto della pietà e della filantropia. La miseria di un gruppo sociale attirerà l’attenzione e la benevolenza più fortemente del merito di questo o quell’individuo: si preferirà aiutare coloro che soffrono piuttosto che ricompensare in modo brillante e superficiale coloro che hanno agito bene. Alla giustizia distributiva – che è una giustizia del tutto individuale e personale, una giustizia di privilegio (se i termini non si contraddicessero fra loro) – deve dunque sostituirsi un’equità di carattere più assoluto la quale in fondo coincide con la carità. Carità per tutti gli uomini, qualunque sia il loro valore morale, intellettuale o fisico, questo deve essere lo scopo ultimo perseguito anche dall’opinione pubblica. Note Ci sarà mossa certo l’antica obiezione: «Se le punizioni non fossero da parte della società che mezzi di difesa, sarebbero colpi e non punizioni». (P.-A. Janet, Cours de philosophie, p. 30). – Al contrario, quando le punizioni non sono giustificate da esigenze di difesa, allora sì che sono veri colpi, con qualunque eufemismo le si voglia designare; se si prescinde da ragioni di difesa sociale non si trasformerà mai in un atto morale, ad esempio, l’atto di infliggere cento colpi di bastone sulla pianta dei piedi di un ladro per punirlo. 2 Cfr. sull’argomento la Morale anglaise contemporaine, cit., parte II, libro III. 3 Perché si metterà al posto di colui che si difende e non dell’altro? Per molte ragioni, che non implicano ancora il sentimento di giustizia che intendiamo spiegare: 1) perché l’uomo attaccato e sorpreso è sempre in una situazione di inferiorità, più atta a suscitare l’interesse e la pietà; quando siamo testimoni di una lotta, non prendiamo sempre le parti del più debole anche senza sapere se è lui che ha ragione? 2) la situazione dell’aggressore è antisociale, contraria alla mutua sicurezza che ogni associazione comporta; e, siccome noi facciamo sempre parte di una 1
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qualche società, simpatizziamo con quello dei due avversari che si trova nella situazione più simile alla nostra, la più sociale. Ma supponiamo che la società di cui un uomo fa parte non sia la grande associazione umana e sia, ad esempio, un’associazione di ladri; allora nella sua coscienza si produrranno dei fatti piuttosto strani: egli approverà un ladro che si difende contro un altro ladro e lo punisce, ma non approverà un gendarme che si difende contro un ladro in nome della grande società; proverà un’invincibile ripugnanza a mettersi al posto del gendarme e a simpatizzare con lui, il che falserà i suoi giudizi morali. Così le persone del popolo si schierano in ogni rissa contro la polizia, senza nemmeno informarsi di che cosa si tratta; e all’estero noi saremmo portati a prendere le parti dei francesi, ecc. La coscienza è piena di fenomeni di questo genere, complessi al punto da sembrare in contraddizione fra loro, e che tuttavia rientrano sotto un’unica legge. La sanzione è essenzialmente la conclusione di una lotta alla quale assistiamo come spettatori e in cui parteggiamo per l’uno o per l’altro degli avversari: se si è gendarmi o cittadini dabbene, si approveranno le manette, la prigione e al bisogno la forca; se si è ladri o lazzaroni [in italiano nel testo, N.d.T.] o a volte semplicemente gente del popolo, si approverà la fucilata tirata da un cespuglio, il pugnale conficcato misteriosamente nella schiena dei carabinieri [in italiano nel testo, N.d.T.]. Sotto tutti questi giudizi morali o immorali resterà identica solo la constatazione di questo dato dell’esperienza: colui che colpisce deve aspettarsi naturalmente e socialmente di essere colpito a sua volta. 4 Un pessimista potrà forse negare quest’istinto naturale di gratitudine e ci obietterà che invece l’uomo è naturalmente ingrato. Nulla di più inesatto: è smemorato, ecco tutto. I bambini, gli animali lo sono ancora di più. C’è una grande differenza fra queste due cose. L’istinto della gratitudine esiste in tutti gli esseri e sussiste finché dura vivo e intatto il ricordo del beneficio; ma questo ricordo si altera molto rapidamente. Istinti molto più forti, come l’interesse personale, l’orgoglio, ecc., tendono a cancellarlo. Per questo quando ci mettiamo al posto di un altro siamo così stupiti di non vedere una buona azione ricompensata, mentre proviamo spesso così poco rimorso quando ci dimentichiamo noi stessi di rispondere ad un beneficio ricevuto. Il sentimento della gratitudine è uno di quei sentimenti altruistici naturali che, trovandosi in contraddizione con l’egoismo anch’esso naturale, sono più forti quando si tratta di apprezzare la condotta altrui che quando si tratta di regolare la nostra. 5 Questo istinto, dopo aver creato il sistema complesso delle pene e delle ricompense sociali, si è trovato fortificato dall’esistenza stessa di questo sistema di protezione. Noi non abbiamo tardato a riconoscere che, quando danneggiavamo qualcuno in un modo o in un altro, dovevamo aspettarci una repressione più o meno forte: così si è stabilita un’associazione naturale e razionale (già segnalata dalla scuola inglese) fra una certa condotta e un certo castigo. Troviamo nella Revue philosophique un curioso esempio di associazione nascente di questo tipo in un animale: «Finora, dice Delboeuf, non ho visto a questo riguardo fatti di portata così significativa. L’eroe è un cagnolino, incrocio fra un cane lupo e un épagneul. Si trovava in quell’età in cui cominciano per la sua specie i seri doveri della vita sociale. Autorizzato a soggiornare nel mio studio, vi faceva spesso i suoi bisogni. Da tutore inflessibile ogni volta gli facevo rimostranze sull’orrore del suo comportamento, lo portavo a forza in cortile e lo mettevo in piedi in un angolo. Dopo un certo tempo che variava in base all’importanza del suo delitto, lo facevo tornare. Quest’educazione gli fece capire piuttosto rapidamente alcuni articoli del codice della buona edu-
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cazione... canina al punto che potei credere che si fosse finalmente corretto dalla sua tendenza a dimenticare la buona creanza. Oh delusione! Un giorno, entrando in una camera, mi trovo di fronte ad un nuovo misfatto. Cerco il cane per fagli sentire tutta l’indegnità della sua ricaduta; non c’è. Lo chiamo, non viene. Scendo in cortile.... Era lì, in piedi, in un angolo, con le zampe anteriori ripiegate miseramente sul petto, l’aria contrita, pieno di vergogna e pentimento. Fui disarmato.» (J. Delboeuf, Revue philosophique, aprile 1881). In Romanes si possono trovare citati fatti più o meno analoghi. 6 Per tutti i delitti che non comportano la deportazione Le Bon ha proposto con ragione l’ammenda, o un lavoro obbligatorio (industriale o agricolo), oppure un servizio militare forzato sotto una severa disciplina (Revue philosophique, maggio 1881). Sappiamo che le nostre prigioni sono luoghi di perversione più che di conversione. Sono luoghi di riunione e di associazione per i malfattori, dei «club antisociali». Ogni anno, scriveva un presidente della corte di cassazione, Béranger, centomila individui «vanno lì ad immergersi sempre più nel delitto», cioè un milione in dieci anni. Di qui il considerevole aumento dei recidivi (questo aumento è in media di più di duemila all’anno). 7 Bisogna dunque approvare la nuova scuola di giuristi, particolarmente numerosa e brillante in Italia, che si sforza di porre il diritto penale al di fuori di ogni considerazione morale e metafisica. Notiamo però che questa scuola ha torto quando, dopo aver messo da parte ogni idea di responsabilità metafisica, pensa di essere forzata dai propri principi a mettere da parte anche «l’elemento intenzionale volontario». Secondo Lombroso, E. Ferri e Garofalo, il giudizio legale deve poggiare solo sull’azione e sui moventi sociali o antisociali che l’hanno prodotta, senza mai pretendere di apprezzare la potenza più o meno grande e la qualità intrinseca della volontà. Garofalo e Ferri si basano su un esempio che si rivolge contro di loro: citano quell’articolo del codice italiano e francese che punisce con la prigione e l’ammenda «l’omicidio, le percosse e le ferite involontarie» (Garofalo, Di un criterio positivo della penalità, [Vallardi], Napoli, 1880, [ma 1882]; E. Ferri, Il diritto di punire [come funzione sociale], [Loescher], Torino 1882). Secondo loro questo articolo di legge, che non tiene in alcun conto la volontà del colpevole, considera soltanto l’atto bruto, del tutto distaccato dall’intenzione che lo ha dettato: questa legge, secondo loro, sarebbe uno dei modelli a cui le leggi del futuro devono avvicinarsi. – Ma non è affatto esatto che l’articolo in questione non tenga alcun conto della volontà del colpevole; se le percosse o le ferite dette involontarie (o piuttosto dovute a imprudenza) fossero veramente tali, non le si punirebbe perché la punizione sarebbe inefficace; la verità è che esse si producono per mancanza di attenzione; ora l’attenzione è opera della volontà, perciò può essere eccitata o sostenuta meccanicamente dal timore della pena, per questo la pena interviene. La vita in società esige proprio dall’uomo, fra tutte le altre qualità, una certa dose di attenzione, una potenza e una stabilità della volontà di cui il selvaggio, ad esempio, è incapace. Il diritto penale ha come scopo, fra gli altri, quello di sviluppare la volontà in questo senso; così è ancora a torto che Carrara e E. Ferri non trovano «nessuna responsabilità sociale» in colui che ha commesso un crimine senza farlo di propria iniziativa e secondo un movente antisociale, ma perché un altro lo ha costretto a dare una pugnalata o a versare del veleno. Un uomo di questo genere, checché ne pensino i moderni giuristi italiani, costituisce un certo pericolo per la società, probabilmente non a causa delle sue passioni o delle sue azioni personali, ma semplicemente per la debolezza della sua volontà: è
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uno strumento invece di essere una persona; ora è sempre pericoloso avere in uno Stato degli strumenti anziché dei cittadini. Può esistere qualcosa di antisociale non solo nei moventi esterni che agiscono sulla volontà, ma anche nella natura di questa volontà; ora, dovunque si trovi qualcosa di antisociale, c’è materia per una sanzione legale. Non bisogna dunque considerare il sistema penale umano come appartenente al medesimo ordine della sanzione cosiddetta naturale, che trae le conseguenze di un dato atto, per esempio quello di cadere in acqua, senza preoccuparsi della volontà e dell’intenzione che hanno preceduto questo atto (E. Ferri, Il diritto di punire, cit., p. 25). No, il determinismo interiore dell’individuo non può sfuggire interamente alla valutazione legale, e dal fatto che un giudice non deve mai domandarsi se un atto è moralmente o metafisicamente libero non consegue in alcun caso che egli debba tralasciare di esaminare con quale dose di attenzione e di intenzione, cioè con quale grado di volontà cosciente questo atto è stato compiuto. Pian piano il castigo è diventato oggi solo una misura di precauzione sociale; ma questa precauzione deve tener presente, oltre all’atto e ai suoi moventi, la volontà che vi si nasconde: questa volontà, quale che sia la sua natura ultima e metafisica, è meccanicamente una forza la cui intensità più o meno grande deve entrare nei calcoli sociali. Sarebbe assurdo per un ingegnere che volesse arginare un fiume preoccuparsi unicamente del volume delle acque, senza far entrare nel conto la forza della corrente che le trascina. Notiamolo bene d’altronde, che noi non facciamo della «volontà» una facoltà misteriosa posta dietro ai motivi. La volontà di cui ho voluto parlare è semplicemente per noi il carattere – il sistema delle tendenze di ogni sorta alle quali l’individuo è abituato ad obbedire e che costituiscono il suo io morale – cioè, in definitiva, la resistenza più o meno grande che questo fondo di energia interiore è suscettibile di presentare ai moventi antisociali. Crediamo che la valutazione dei tribunali si baserà sempre non solo sulla constatazione dei moventi determinanti di un dato atto, ma sulla persona stessa e sul carattere dell’accusato; bisognerà sempre giudicare più o meno, non solo i motivi o moventi, ma le persone (le quali sono soltanto sistemi complicati di motivi e moventi che si controbilanciano e formano un equilibrio mobile). In altri termini, esiste solo una responsabilità sociale, e niente affatto una responsabilità morale; ma aggiungo che l’individuo non deve solo rispondere di questo o quell’atto antisociale e dei moventi passeggeri che hanno potuto spingerlo a quest’atto: deve rispondere del suo stesso carattere ed è soprattutto questo carattere che le leggi penali devono cercare di riformare. I giurati vogliono sempre giudicare la persona, si lasciano commuovere dai precedenti buoni o cattivi – spingendo spesso la cosa all’eccesso; ma in linea di principio non credo che abbiano torto, poiché un atto non è mai isolato, è semplicemente un sintomo e la sanzione sociale deve riferirsi a tutto l’individuo.
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Capitolo terzo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 14/10/2018
Critica della sanzione interiore e del rimorso
Ogni sanzione esterna, pena o ricompensa, ci è parsa ora come una crudeltà, ora come un privilegio. Se non vi è così alcuna ragione puramente morale per stabilire, dall’esterno dell’essere, una proporzione assoluta fra la felicità e la virtù, vi è forse una ragione morale per vedere questa proporzione realizzata all’interno dell’essere, grazie alla sua sensibilità? In altri termini, deve e può esistere nella coscienza, per utilizzare termini kantiani, uno stato patologico di piacere o di pena che sanzioni la legge morale, una specie di patologia morale, e la moralità deve a priori avere conseguenze per il sentimento? Immaginiamo, per ipotesi, una virtù così eterogenea alla natura da non avere alcun carattere sensibile e da non trovarsi in accordo con alcun istinto sociale o personale, con alcuna passione naturale, con alcun pavqo", bensì solo con la ragion pura; immaginiamo d’altra parte una direzione immorale della volontà che, pur essendo la negazione delle «leggi della ragion pura pratica», non incontrasse al tempo stesso resistenza da parte di un’inclinazione naturale o di una passione naturale (nemmeno per ipotesi il piacere naturale di ragionare bene, il sentimento piacevole dell’esercizio logico secondo le regole). In questo caso (che non può d’altronde riscontrarsi nell’umanità), sarebbe razionale che a un merito e a un demerito senza alcun rapporto con il mondo sensibile venissero ad aggiungersi una pena o una gioia sensibili, una patologia? Così la soddisfazione morale o il rimorso, in quanto piacere e pena, in quanto passioni, cioè in quanto semplici fenomeni della sensibilità, sembrano a Kant non meno inesplicabili dell’idea stessa del dovere. Egli vede in ciò un mistero1; ma questo mistero si risolve in una impossibilità. Se il merito morale fosse pura conformità alla legge razionale come tale, pura razionalità, puro formalismo, se fosse l’opera di una pura libertà trascendente ed estranea ad ogni inclinazione naturale, non produrrebbe alcun godimento nell’ordine della natura, alcuna espansione dell’essere sensibile, alcun calore interiore, alcun battito del cuore. Parimenti, se la cattiva volontà, fonte del demerito, potesse ipoteticamente non trovarsi in contrasto con alcuna delle inclinazioni naturali del nostro essere, ma le servisse tutte, essa non produrrebbe alcuna
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Critica della sanzione interiore e del rimorso
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sofferenza; il demerito in questo caso dovrebbe anzi portare naturalmente alla perfetta felicità sensibile e passionale. Se non è così, è perché l’atto morale o immorale, anche quando si suppone sovrasensibile nella sua intenzione, incontra anche nella nostra natura «patologica» aiuti o ostacoli; se noi godiamo o soffriamo, non è più perché la nostra intenzione è conforme o contraria a una legge razionale fissa, a una legge di libertà soprannaturale, ma perché si trova al tempo stesso conforme o contraria alla nostra natura sensibile, sempre più o meno variabile. In altre parole, la soddisfazione morale o il rimorso non provengono dal nostro rapporto con una legge morale del tutto a priori, ma dal nostro rapporto con le leggi naturali ed empiriche. Anche il semplice piacere che la ragione può provare nell’universalizzare una massima di condotta si spiega solo con la tendenza naturale dello spirito a superare ogni limite particolare e, in modo generale, con la tendenza di ogni attività a continuare incessantemente il movimento cominciato. Se non si fanno intervenire considerazioni empiriche, ogni godimento morale o anche razionale o perfino puramente logico, diventerà non solo inesplicabile, ma impossibile a priori. Si potrà ancora ammettere una superiorità dell’ordine della ragione su quello della sensibilità e della natura, ma non una risonanza possibile di questi due ordini uno nell’altro, risonanza che è completamente a posteriori. Perché la sanzione interiore fosse veramente morale, bisognerebbe che non avesse nulla di sensibile o di patologico, cioè proprio nulla di gradevole o di penoso per il sentimento. Bisognerebbe che fosse l’apatia degli stoici, cioè una serenità perfetta, una atarassia, una soddisfazione sovrasensibile e sovrapassionale; bisognerebbe che fosse, relativamente a questo mondo, il nirvana dei buddisti, il completo distacco da ogni pavqo"; bisognerebbe dunque che perdesse ogni carattere di sanzione sensibile. Una legge sovrasensibile non può avere che una sanzione sovrasensibile e dunque estranea a ciò che si chiama piacere e dolore naturale; questa sanzione è per noi altrettanto indeterminata quanto lo stesso ordine sovrasensibile, che rimane una x. In fondo la sanzione detta morale e realmente sensibile è un caso particolare di quella legge naturale secondo la quale ogni dispiegamento di attività è accompagnato da piacere. Questo piacere diminuisce, scompare e lascia il posto alla sofferenza secondo le resistenze interne o esterne che l’attività incontra. All’interno dell’essere l’attività può incontrare queste resistenze sia nella natura spirituale e nel temperamento intellettuale, sia nel carattere e nel tempera-
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mento morale. Le attitudini spirituali differiscono evidentemente secondo gli individui; un poeta sarà difficilmente un buon notaio, e si capiscono così le sofferenze di Alfred de Musset praticante in uno studio. Un poeta immaginifico sarà difficilmente anche un matematico, e si comprendono le proteste di Victor Hugo contro la «tortura delle X e delle Y». Ogni intelligenza sembra avere un certo numero di direzioni verso cui la spingono di preferenza abitudini ereditarie; quando si scosta da tali direzioni, soffre. Questa sofferenza può essere in certi casi un vero strazio ed avvicinarsi molto al rimorso «morale». Supponiamo, ad esempio, un artista che sente in se stesso il genio e che si è trovato per tutta la vita condannato a un lavoro manuale; questo sentimento di un’esistenza perduta, di una missione incompiuta, di un ideale non realizzato lo perseguiterà, ossessionerà la sua sensibilità quasi come la coscienza di una caduta morale. Ecco dunque un esempio dei piaceri e dei dolori che ci si deve attendere da ogni dispiegamento di attività in qualunque ambito. Dal temperamento intellettuale passiamo ora al temperamento morale; anche qui ci troviamo in presenza di una massa di inclinazioni istintive che produrranno la gioia o il dolore a seconda della docilità o della resistenza della volontà: inclinazioni all’avarizia, alla carità, al furto, alla socievolezza, alla ferocia, alla pietà, ecc. Queste tendenze così diverse possono coesistere in uno stesso carattere e tirarlo in tutte le direzioni; la gioia che prova l’uomo dabbene nel seguire i suoi istinti sociali avrà dunque come corrispettivo quella provata dal colpevole nel seguire i suoi istinti antisociali. Sono note le parole di quel giovane malfattore citate da Maudsley: «Dio! Com’è bello rubare! Se anche avessi dei milioni vorrei ancora essere un ladro.» Quando questa gioia di fare il male non è compensata da alcun rimpianto o rimorso successivo (ed è quel che succederebbe, secondo i criminologi, nei nove decimi dei criminali di razza) ne consegue un rovesciamento completo nella direzione della coscienza, simile a quello che si produce nell’ago magnetizzato; poiché i cattivi istinti soffocano tutti gli altri, è quasi soltanto da essi che viene la sanzione patologica. Se il giovane ladro di cui parla Maudsley avesse perduto un’occasione di rubare, avrebbe certo sofferto interiormente, avrebbe provato come l’abbozzo di un rimorso. Il fenomeno patologico designato con il nome di sanzione interiore può dunque essere considerato in se stesso indifferente alla qualità morale degli atti. La sensibilità sul cui terreno si producono i fenomeni di questo genere, non ha affatto la fissità della ragione; appartiene al numero di quelle cose «ambigue e a doppio uso» di cui parla Platone: può favorire il male come il bene.
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Critica della sanzione interiore e del rimorso
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I nostri istinti, le nostre inclinazioni, le nostre passioni non sanno quel che vogliono; hanno bisogno di essere diretti dalla ragione, e la gioia o la sofferenza che possono cagionarci non deriva affatto dalla loro conformità con il fine proposto dalla ragione, ma dalla loro conformità con il fine verso il quale si volgono naturalmente da se stessi. In altri termini, la gioia di fare il bene e il rimorso di fare il male non sono mai proporzionali in noi al trionfo del bene o del male morale, ma alla lotta che hanno dovuto sostenere contro le inclinazioni del nostro temperamento fisico o psichico. Se gli elementi del rimorso o della gioia interiore, provenienti dalla sensibilità, sono generalmente variabili, ce n’è uno tuttavia che presenta una certa fissità e che può esistere in tutti gli spiriti elevati: intendiamo parlare della soddisfazione che prova sempre un individuo quando si sente classificato fra gli esseri superiori, conforme al tipo normale della sua specie, adattato, per così dire, al suo proprio ideale; questa soddisfazione corrisponde alla sofferenza intellettuale di sentirsi decaduto dal proprio rango e dalla propria specie, degradato al livello degli esseri inferiori. Purtroppo una tale soddisfazione, un tale genere di rimorso intellettuale, si manifestano chiaramente solo negli spiriti filosofici; inoltre questa sanzione limitata ad un esiguo numero di esseri morali comporta una certa antinomia provvisoria. In effetti la sofferenza prodotta dal contrasto fra il nostro ideale e il nostro stato reale deve essere in noi tanto maggiore quanto più abbiamo coscienza dell’ideale perché allora acquisiamo una visione più netta della distanza che ce ne separa. La sensibilità della coscienza aumenta dunque man mano che essa si sviluppa, e la vivacità del rimorso è una misura dello stesso sforzo che compiamo per innalzarci alla moralità. Come gli organismi superiori sono sempre più sensibili a ogni specie di dolore che proviene dall’esterno e, per esempio, mediamente un bianco soffre nella sua vita più di un negro, così gli esseri meglio organizzati moralmente sono più esposti degli altri a questa sofferenza che viene dall’interno e di cui hanno sempre presente la causa: la sofferenza dell’ideale non realizzato. Il vero rimorso, con le sue raffinatezze, i suoi scrupoli dolorosi, le sue torture interiori, può colpire gli esseri non in ragione inversa, ma in ragione diretta del loro perfezionamento. In definitiva, la morale comune e anche la morale kantiana tendono a fare del rimorso una espiazione, un rapporto misterioso e inesplicabile fra la volontà morale e la natura; nello stesso modo tendono a fare della soddisfazione morale una ricompensa. Per parte nostra, abbiamo cercato di ricondurre il rimorso sensibile a una semplice resistenza naturale delle tendenze più profonde
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del nostro essere e la soddisfazione sensibile ad un sentimento naturale di facilità, di agio, di libertà che proviamo quando cediamo a queste inclinazioni. Se c’è una sanzione sovrasensibile, questa deve essere, ancora una volta, estranea al senso propriamente detto, alla passione, al pavqo". Siamo lungi dal negare l’utilità pratica di quelli che si chiamano i piaceri morali e le sofferenze morali. La sofferenza, ad esempio, se non si giustifica come punizione, si giustifica molto spesso come utilità. Il rimorso acquisisce un valore quando può servirci a qualcosa, quando è la coscienza di un’imperfezione ancora attuale sia nelle sue cause, sia nei suoi effetti, e di cui l’atto passato era semplicemente il segno; allora esso non si riferisce all’atto in questione, ma all’imperfezione rivelata dall’atto o alle conseguenze che ne derivano; è un pungolo che serve a spingerci avanti. Da questo punto di vista, che non è propriamente quello della sanzione, la sofferenza del rimorso, e anzi ogni sofferenza in genere, ogni austerità acquista un valore morale non trascurabile e che invece troppo spesso gli utilitaristi trascurano. È noto l’orrore di Bentham per tutto ciò che gli ricordava il «principio ascetico», per tutto ciò che gli appariva come sacrificio anche minimo di un piacere; aveva torto. La sofferenza talvolta può essere sul terreno morale quel che sono gli amari in medicina, un tonico potente. Il malato stesso ne sente il bisogno: chi ha abusato del piacere è il primo a desiderare il dolore, ad assaporarlo; per una ragione analoga dopo aver abusato di dolciumi si giunge a gustare un’infuso di china. Il vizioso giunge ad odiare non soltanto il suo vizio, ma gli stessi godimenti che gli procurava; li disprezza a tal punto che per dimostrarlo a se stesso ama sentirsi soffrire. Ogni macchia ha bisogno di una sorta di solvente per essere cancellata; il dolore può essere un tale solvente. Se esso non può mai costituire una sanzione morale, poiché il male patologico e il male morale sono eterogenei, può talvolta divenire un utile cauterio. Sotto questo nuovo aspetto ha un incontestabile valore terapeutico; ma prima di tutto, perché sia veramente morale, deve essere accettato, richiesto dall’individuo stesso. Inoltre bisogna ricordarsi che una cura non deve durare troppo a lungo e soprattutto non essere eterna. Le religioni e la morale classica hanno capito quanto vale il dolore, ma ne hanno abusato; hanno fatto come quei chirurghi che si stupiscono talmente dei risultati delle loro operazioni da non chiedere più altro che di tagliare braccia e gambe. «Tagliare» non può mai essere uno scopo, il fine ultimo deve essere quello di «ricucire». Il rimorso serve solo per condurre più sicuramente ad una risoluzione definitivamente buona.
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Critica della sanzione interiore e del rimorso
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Abbiamo mostrato che si può considerare il rimorso sotto un duplice aspetto, sia come la constatazione dolorosa e relativamente passiva di un fatto (disobbedienza a un’inclinazione più o meno profonda dell’essere, decadenza dell’individuo in rapporto alla specie o al proprio suo ideale), sia come uno sforzo ancora più o meno penoso, ma attivo ed energico, per uscire da questo stato di decadenza. Sotto il primo aspetto il rimorso può essere logicamente e fisicamente necessario; ma diventa moralmente buono solo quando riveste il secondo carattere. Il rimorso è dunque tanto più morale quanto meno assomiglia ad una vera e propria sanzione. Ci sono temperamenti in cui questi due caratteri del rimorso sono separati abbastanza nettamente; ve ne sono alcuni che possono provare un dolore molto cocente e del tutto vano; ve ne sono altri, nei quali predominano la ragione e la volontà, che non hanno bisogno di soffrire molto per riconoscere di aver agito male e imporsi una riparazione; questi ultimi, dal punto di vista morale, sono superiori, il che prova che la pretesa sanzione interiore, come tutte le altre, si giustifica solo come un mezzo di azione. Nota Critique de la raison pratique, trad. Barni, p. 121 [Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 127]. P.-A. Janet, ispirandosi certamente a Kant e forse ai teologi, rinuncia anche a dedurre il sentimento del rimorso dall’immoralità; sembra vedervi la prova di una sorta di misteriosa armonia prestabilita fra la natura e la legge morale. «Il rimorso, dice, è il dolore cocente, il morso che tortura il cuore dopo un’azione colpevole. Questa sofferenza non ha alcun carattere morale e deve essere considerata come una sorta di castigo inflitto al crimine dalla natura stessa.» (Traité de philosophie, cit., p. 673). 1
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Capitolo quarto Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 14/10/2018
Critica della sanzione religiosa e metafisica
La sanzione religiosa Quanto più avanziamo in questa critica, tanto più la sanzione propriamente detta, cioè la «patologia» morale, ci appare come una sorta di parapetto che trova la sua utilità solo là dove c’è un sentiero tracciato e qualcuno che vi cammina. Oltre la vita, nell’eterno precipizio, i parapetti diventano del tutto superflui. Una volta terminata «la prova» dell’esistenza, non c’è più da ritornarci sopra se non, ben inteso, per trarne esperienze e saggi insegnamenti nel caso in cui si dovessero ricominciare nuove prove. Questo non è il pensiero ispiratore delle principali religioni umane. Le religioni, in quanto prescrivono una certa regola di condotta, l’obbedienza a certi riti, la fede in questo o quel dogma, hanno tutte bisogno di una sanzione per confermare i loro comandamenti. Esse sono tutte d’accordo nell’invocare la sanzione più temibile che si possa immaginare: a coloro che hanno violato in un modo o in un altro i loro ordini promettono pene eterne e fanno minacce che superano ciò che l’immaginazione dell’uomo più vendicativo può sognare di infliggere al suo nemico più mortale. In questo, come su molti altri punti, le religioni sono in totale disaccordo con lo spirito del nostro tempo; ma è strano pensare che esse sono seguite ancora da un grande numero di filosofi e di metafisici. Ci si raffigura Dio come la più terribile delle potenze e se ne conclude che, quando è irritato, deve infliggere il più terribile dei castighi. Si dimentica che Dio, questo supremo ideale, dovrebbe essere incapace di fare del male a chiunque e a maggior ragione di rendere male per male. Proprio perché Dio è concepito come la massima potenza, potrebbe limitarsi a infliggere il minimo di pena; perché più grande è la forza di cui si dispone, meno si ha bisogno di usarla per ottenere un dato effetto. Siccome inoltre si vede in lui la bontà suprema, è impossibile rappresentarselo mentre infligge anche solo questo minimo di pena; bisogna che il «padre celeste» abbia almeno questa superiorità sui padri terreni, di non frustare i suoi figli. Infine, siccome egli è per definizione la suprema intelligenza, non possiamo credere che faccia qualcosa senza ragione; ora, per quale
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Critica della sanzione religiosa e metafisica
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ragione farebbe soffrire un colpevole? Dio è al di sopra di ogni oltraggio e non ha bisogno di difendersi; non ha dunque bisogno di colpire. Le religioni sono tutte portate a rappresentarsi il malvagio come un Titano in lotta contro Dio stesso: è naturale che Giove, una volta vittorioso, prenda ormai delle misure precauzionali e schiacci il suo avversario sotto una montagna. Strana idea di Dio se si immagina che possa lottare materialmente con i colpevoli senza perdere nulla della sua maestà e santità. Dal momento in cui la «legge morale» personificata inizia una tale lotta fisica con i colpevoli, perde proprio il suo carattere di legge; si abbassa fino a loro, decade. Un dio non può lottare con un uomo: si espone a essere battuto, come l’angelo vinto da Giacobbe. I casi sono due: o Dio, questa legge vivente, è l’onnipotenza, e allora noi non possiamo veramente offenderlo, ma egli non deve nemmeno punirci; o noi possiamo veramente offenderlo, ma allora abbiamo qualche potere su di lui, egli non è l’onnipotenza, non è l’«assoluto», non è Dio. I fondatori delle religioni hanno creduto che la legge più santa dovesse essere la legge più forte: è assolutamente il contrario. L’idea di forza si risolve logicamente nel rapporto di una potenza a una resistenza: ogni forza fisica è dunque moralmente una debolezza. Strana concezione e del tutto antropomorfica quella di supporre Dio provvisto di un carcere o una «geenna», col demonio come servitore e carceriere. Insomma, il demonio non è più responsabile dell’inferno di quanto non lo sia il boia degli strumenti di supplizio che gli si mettono fra le mani; egli può essere anzi da compatire per il lavoro che gli viene imposto. La vera responsabilità passa al di sopra della sua testa; egli è solo l’esecutore delle alte opere divine e un filosofo potrebbe sostenere, non senza verosimiglianza, che il vero demonio qui è Dio. Se una legge umana, se una legge civile non può fare a meno della sanzione fisica, ciò avviene, lo abbiamo visto, in quanto essa è civile e umana. Non è lo stesso per la «legge morale» che si suppone non protegga che un principio e che ci si rappresenta come immutabile, eterna, in qualche modo impassibile: non si può essere passibili davanti ad una legge impassibile. Siccome la forza non può nulla contro la legge, questa non ha bisogno di risponderle con la forza. Chi crede di aver rovesciato la legge morale deve ritrovarla sempre ritta davanti a sé, come Ercole vedeva incessantemente rialzarsi dalla sua stretta il gigante che immaginava aver battuto per sempre. Essere eterno, ecco la sola vendetta possibile del bene nei riguardi di coloro che lo violano. Se Dio avesse creato delle volontà di natura così perversa da essergli indefinitamente contrarie, sarebbe ridotto di fronte a loro all’impotenza, non
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potrebbe che compiangerle e compiangere se stesso di averle fatte. Il suo dovere non sarebbe di colpirle, ma di alleviare il più possibile la loro sventura, di mostrarsi tanto più dolce e buono quanto peggiori esse sono: i dannati, se fossero davvero inguaribili, avrebbero insomma più bisogno delle delizie celesti degli stessi eletti. Di due cose l’una: o i colpevoli possono essere ricondotti al bene, e allora il preteso inferno non sarà altro che un’immensa scuola in cui si cercherà di aprire gli occhi a tutti i reprobi e di farli risalire il più presto possibile in cielo; o i colpevoli sono incorreggibili, come maniaci incurabili (il che è assurdo), e allora saranno anch’essi eternamente da compiangere e una bontà suprema dovrà cercare di compensare la loro miseria con tutti i mezzi immaginabili, con la somma di tutte le felicità sensibili. In qualunque modo lo si intenda, il dogma dell’inferno appare così proprio come il contrario stesso della verità. Del resto, dannando un’anima, cioè cacciandola per sempre dalla sua presenza, o, in termini meno mistici, escludendola per sempre dalla verità, Dio si escluderebbe lui stesso da quell’anima, limiterebbe da sé la sua potenza e, per dirla tutta, si dannerebbe pure in una certa misura. La pena del danno ricade su colui che la infligge. Quanto alla pena del senso, che i teologi tengono distinta, essa è evidentemente ancor più insostenibile, anche se presa in senso metaforico. Invece di dannare, Dio non può che chiamare eternamente a sé quelli che se ne sono allontanati; bisognerebbe dire, con Michelangelo, che Dio distende le sue due braccia sulla croce simbolica soprattutto per i colpevoli. Noi ce lo rappresentiamo come uno che guarda tutto troppo dall’alto perché ai suoi occhi i reprobi siano altro che degli infelici; ora, gli infelici non dovrebbero essere, in quanto tali, se non sotto altri rapporti, i prediletti della bontà infinita? La sanzione dell’amore e della fraternità Finora abbiamo considerato come legati i due aspetti della sanzione: castigo e ricompensa; ma forse è possibile considerarli separatamente l’uno dall’altro. Certi filosofi, ad esempio, sembrano disposti a negare la ricompensa propriamente detta e il diritto alla ricompensa per ammettere come legittimo soltanto il castigo1. Questa prima posizione è, secondo noi, la più difficile da sostenere nell’esame della questione. – Ce n’è una seconda, opposta, assunta da un altro filosofo e che dobbiamo esaminare per dovere di completezza: rifiutare del tutto il castigo, sforzandosi però di mantenere un rapporto razionale tra il merito e la felicità2.
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Critica della sanzione religiosa e metafisica
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Questa dottrina rinuncia all’idea kantiana che fa del merito la conformità ad una legge tutta formale. L’universo è rappresentato come un’immensa società, in cui ogni dovere è sempre un dovere verso un essere attivo, vivo. In questa società «colui che ama deve essere amato»; cosa c’è di più naturale? Dire che l’uomo virtuoso merita la felicità «è dire che ogni buona volontà gli vuol bene in cambio del bene che egli ha voluto». Il rapporto del merito alla felicità diventa allora «un rapporto tra volontà e volontà, tra persona e persona, un rapporto di riconoscenza e quindi di fraternità e di amore morale»3. Così nell’idea di restituzione e di riconoscenza si troverebbe il legame cercato tra la buona azione e la felicità. L’amabilità sarebbe il nuovo principio della sanzione, principio che, escludendo il castigo, sarebbe sufficiente a giustificare una sorta di ricompensa, non materiale ma morale. Questa sanzione, dobbiamo notarlo, non è valida per un essere che per ipotesi venisse considerato assolutamente solitario; ma, secondo la dottrina che stiamo esaminando, non esiste da nessuna parte un essere simile; non si può uscire dalla società perché non si può uscire dall’universo: la legge morale è dunque in fondo solo una legge sociale, e quello che abbiamo detto dei rapporti attuali fra gli uomini vale anche per i rapporti ideali fra tutti gli esseri. Da questo punto di vista la ricompensa diventa una sorta di «risposta» d’amore; ogni buona azione assomiglia ad un «appello» rivolto a tutti gli esseri del vasto universo; pare illegittimo che questo appello non sia inteso e che l’amore, infecondo, non produca la riconoscenza: l’amore suppone la reciprocità dell’amore, di conseguenza la cooperazione e il concorso, e quindi la soddisfazione della volontà e la felicità. Quanto all’infelicità sensibile di un essere, questa si spiegherebbe, in tale dottrina, con la presenza di una volontà cieca che si erge contro di lui dal seno della natura, dal seno della società universale. Ora, se per ipotesi un essere è veramente amante, diventerà amabile non solo agli occhi degli uomini, ma agli occhi di tutte le volontà elementari che costituiscono la natura; acquisirà così una sorta di diritto ideale ad essere rispettato e aiutato da esse e dunque ad essere felice con il loro aiuto. Si possono considerare tutti i mali sensibili – sofferenze, malattie, morte – come provenienti da una sorta di guerra e di odio cieco delle volontà inferiori; quando quest’odio prende per vittima l’amore stesso, noi ce ne indigniamo, e a ragione. Se l’amore altrui non deve essere pagato che con amore, noi abbiamo almeno la coscienza che deve esserlo con quello dell’intera natura, non solo con quello di un determinato individuo; questo amore della natura, così universalizzato, diventerà per colui che ne è
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oggetto motivo di felicità, e persino di felicità sensibile: il legame fra la buona volontà e la felicità, che volevamo spezzare, sarà nuovamente ristabilito. Quest’ipotesi, ne conveniamo, è la sola e ultima risorsa per giustificare metafisicamente il sentimento empirico di indignazione che produce in noi il male sensibile quando accompagna la buona volontà. Ma consideriamo attentamente che cosa comporta l’ipotesi. In questa dottrina dovremmo ammettere senza prova che tutte le manifestazioni di volontà che costituiscono la natura sono analoghe per essenza e per direzione e convergono verso lo stesso punto. Se il bene che persegue, ad esempio, una società di lupi fosse, in sostanza, tanto diverso dal bene perseguito dalla società umana quanto sembra esserlo in apparenza, la bontà di un uomo non avrebbe razionalmente nulla di rispettabile per quella di un lupo, né quella di un lupo per un uomo. Bisogna dunque completare l’ipotesi precedente con quest’altra, molto seducente e molto audace, che abbiamo noi stessi enunciato altrove come possibile: «All’evoluzione esterna, le cui forme sono così variabili, non potrebbe corrispondere una tendenza, un’aspirazione interiore, eternamente uguale e che travaglia tutti gli esseri? Non ci potrebbe essere in essi una connessione di tendenze e di sforzi analoga alla connessione anatomica segnalata da G. Saint–Hilaire negli organismi?»4. Secondo questa dottrina, l’idea di sanzione viene a fondersi con l’idea più morale di «cooperazione»; colui che fa il bene universale lavora ad un’opera così grande che ha idealmente diritto al concorso di tutti gli esseri, membri della stessa totalità, dal primo organismo unicellulare fino alla corteccia cerebrale dell’organismo più evoluto. Chi fa il male invece dovrebbe ricevere da tutti un «rifiuto a cooperare», che sarebbe una sorta di punizione negativa; egli si troverebbe moralmente isolato mentre l’altro sarebbe in comunione con l’universo. Così ristretta, purificata, salvata dalla metafisica, quest’idea di un’armonia finale fra il bene morale e la felicità diventa sicuramente ammissibile. Ma, in primo luogo, non si tratta più della sanzione di una legge formale: tutto quel che rimaneva dell’idea di legge propriamente necessaria o imperativa, o di sanzione ugualmente necessaria è scomparso. Non è più la legge formale di Kant, né il giudizio sintetico a priori attraverso cui la legalità sarebbe unita alla felicità come ricompensa; in una parola, non è più un regime di legislazione, e dunque di vera sanzione. Possiamo anche dire che siamo trasportati qui in una regione superiore a quella della giustizia propriamente detta: è la
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regione della fraternità. Non si tratta più della giustizia commutativa perché l’idea di fraternità esclude quella di uno scambio matematico, di un bilancio di servizi esattamente misurabili ed uguali sotto l’aspetto della quantità: la buona volontà non misura il contraccambio in base a quanto ha ricevuto; rende due e anche dieci per uno. Non è nemmeno più una giustizia distributiva in senso proprio perché l’idea di una distribuzione esatta, anche morale, non è più quella della fraternità. Il figliol prodigo potrà essere festeggiato più del figlio saggio. Si potrà amare un colpevole e il colpevole avrà forse più bisogno di ogni altro di essere amato. Ho due mani, una per stringere la mano di quelli che procedono al mio fianco nella vita, l’altra per rialzare quelli che cadono. A costoro potrei perfino tendere entrambe le mani. Così in questa sfera i rapporti puramente razionali, le armonie puramente intellettuali e, a maggior ragione, i rapporti legali sembrano scomparire; per ciò stesso scompare il rapporto veramente razionale, logico e anche quantitativo che collegherebbe la buona volontà ad una determinata proporzione di bene esteriore e di amore interiore. Da qui risulta una sorta di antinomia: l’amore è una grazia particolare e un’elezione che non assomiglia affatto a una sanzione, o una sorta di grazia generale e un’eguaglianza ideale estesa a tutti gli esseri, che non assomiglia neppur essa a una sanzione. Se io amo un uomo più di un altro, non è detto che il mio amore sia in proporzione diretta al suo merito, e se amo tutti gli uomini nella loro umanità, se li amo universalmente, nella stessa misura, la proporzione tra il merito e l’amore sembra di nuovo scomparire. D’altronde le «buone volontà» stesse non vorrebbero certamente, nel regno della giustizia ideale, essere oggetto di alcun segno di preferenza; le vittime volontarie dell’amore non accetterebbero di essere privilegiate rispetto agli altri in una ridistribuzione di beni sensibili. Obietterebbero che, dopo tutto, la sofferenza volontaria è meno da compatire della sofferenza imposta: per chi ammette la superiorità dell’ideale sulla realtà l’uomo dabbene è il ricco, anche quando questa ricchezza sovrasensibile dovesse presentare per lui inconvenienti e pene sensibili. Queste sono le difficoltà che solleva, secondo noi, questa teoria. Queste difficoltà non sono forse insormontabili, ma la loro soluzione implicherà certamente una modifica profonda dell’idea tradizionale di sanzione; poiché, per ciò che riguarda la pena, il castigo sarà scomparso, e per ciò che riguarda la ricompensa, il compenso di pura giustizia sembrerà scomparire in relazioni superiori di fraternità, sfuggendo a precise determinazioni. Da una parte il male
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sensibile (compresa la morte) ci indigna sempre moralmente, indipendentemente dal carattere buono o cattivo della volontà che ostacola; la sofferenza ci colpisce in se stessa e indipendentemente dal suo punto di applicazione: una distribuzione di sofferenza è dunque moralmente inintellegibile. Dall’altra, per ciò che riguarda la felicità, vogliamo che tutti siano felici. Queste nozioni portano un grave turbamento nel bilancio della sanzione. La proporzionalità, la razionalità, la legge novmo" (da nevmw), sono applicabili solo a relazioni di ordine e di utilità sociale, di difesa e di scambio, di commutazione e di distribuzione matematica. La sanzione propriamente detta è dunque un’idea del tutto umana che entra come elemento necessario nel concetto della nostra società, ma che si potrebbe eliminare senza contraddizione da una società superiore, composta di saggi come Buddha o Gesù. Insomma, gli utilitaristi e i kantiani, ai due poli opposti della morale, sono però vittime dello stesso errore. L’utilitarista, che sacrifica una minuscola parte della sua esistenza con la speranza di vedere un giorno questo sacrificio rendergli qualcosa nell’aldilà, fa un calcolo irrazionale dal suo punto di vista: perché, in assoluto, per il suo sacrificio interessato non gli è dovuto nulla di più di quanto gli sarebbe dovuto per una cattiva azione interessata. D’altra parte il kantiano che si sacrifica ad occhi chiusi solo per la legge, senza calcolare nulla, senza chiedere nulla, non ha neppure lui alcun vero diritto ad un compenso, ad un indennizzo: è razionale che, quando non si mira ad uno scopo, vi si rinunci, e il kantiano non mira alla felicità. Ci si obietterà che se la legge morale ci obbliga, è essa stessa tenuta a fare qualcosa nei nostri confronti. Ci si dirà che può esserci un «ricorso dell’agente contro la legge». Che se, ad esempio, la legge esige senza compenso l’annientamento dell’io, essa è la crudeltà suprema; e «può essere giusta una legge crudele?»5. – Noi risponderemo che bisogna distinguere qui fra due cose: le circostanze fatali della vita e la legge che regola la nostra condotta in queste circostanze. Le congiunture fatali della vita possono essere crudeli; accusatene la natura; ma una legge non può mai apparire crudele a colui che crede alla sua legittimità. Colui che considera ogni macchia come un crimine non può trovar crudele il rimanere casto. Per chi crede in una «legge morale» è impossibile giudicare questa legge ponendosi da un punto di vista umano, poiché essa è, per ipotesi, incondizionata, irresponsabile e ci parla, così riteniamo, dal fondo dell’assoluto. Non fa con noi un contratto di cui possiamo dibattere continuamente le clausole, soppesare i vantaggi e gli inconvenienti.
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Critica della sanzione religiosa e metafisica
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In fondo – perfino nella morale kantiana – la sanzione non è che un supremo espediente per giustificare razionalmente e materialmente la legge formale del sacrificio, la legge morale. Si aggiunge la sanzione alla legge per legittimarla6. La dottrina dei kantiani, spinta fino alle ultime conseguenze, dovrebbe piuttosto sfociare logicamente in una completa antinomia fra il puro «merito morale» e l’idea di una ricompensa o anche di una qualunque speranza sensibile; essa dovrebbe potersi riassumere in questo pensiero di una donna orientale riportato da Joinville: «Yves, frate predicatore, vide un giorno a Damasco una vecchia che portava nella mano destra una scodella di fuoco e nella sinistra un flacone pieno d’acqua. Yves le chiese: “Cosa vuoi farne?” – Lei gli rispose che con il fuoco voleva bruciare il paradiso e con l’acqua spegnere l’inferno. E lui le chiese: “Perché lo vuoi fare?” “Perché non voglio che si faccia il bene per avere la ricompensa del paradiso o per paura dell’inferno, ma semplicemente per l’amore di Dio”». Una conciliazione degli opposti punti di vista sembrerebbe possibile se si potesse dimostrare che la virtù comprende analiticamente la felicità; che scegliere fra la virtù e il piacere significa pur sempre scegliere fra due gioie, una inferiore, l’altra superiore. Ne erano convinti gli stoici, Stuart Mill e lo stesso Epicuro. Questa ipotesi può forse verificarsi per un piccolo numero di anime elette, ma la sua completa realizzazione non è davvero «di questo mondo»: quaggiù la virtù non è a se stessa una perfetta ricompensa sensibile, un pieno compenso (praemium ipsa virtus). Vi sono poche probabilità che un soldato, che cade in prima linea colpito da una pallottola, provi nel sentimento del dovere compiuto una somma di godimento equivalente alla felicità di un’intera vita. Riconosciamolo dunque, la virtù non è la felicità sensibile. Anzi, non vi è alcuna ragione naturale e non vi è nemmeno alcuna ragione puramente morale perché lo diventi in seguito. Così, quando si pongono certe alternative, l’essere morale ha la sensazione di essere preso in un ingranaggio: è legato, è prigioniero del «dovere»; non può liberarsi e non può far altro che aspettare il movimento del grande meccanismo sociale o naturale che deve stritolarlo. Egli si abbandona, rimpiangendo forse di essere stato la vittima prescelta. La necessità del sacrificio, in molti casi, è un numero perdente; eppure lo si estrae, lo si mette in fronte, non senza una certa fierezza, e si va. Il dovere allo stato acuto fa parte degli avvenimenti tragici che piombano sulla vita; ci sono esistenze che vi sono quasi sfuggite: in generale le si considera felici.
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Se il dovere può fare così realmente delle vittime, queste vittime acquisiscono allora titoli eccezionali a un compenso sensibile, un diritto alla felicità sensibile superiore a quello degli altri infelici, degli altri martiri della vita? Non sembra. Ogni sofferenza, involontaria o voluta, ci sembra richiedere sempre una compensazione ideale, e ciò unicamente perché è una sofferenza. Compensazione, cioè bilanciamento, è una parola che indica un rapporto logico e sensibile, per nulla morale. La stessa cosa vale per le parole ricompensa e pena che hanno lo stesso senso; sono termini della lingua della passione trasposti a sproposito nella lingua della morale. La compensazione ideale dei beni e dei mali sensibili è tutto quello che si può conservare delle idee comuni sul castigo e la ricompensa. Bisogna ricordarsi che l’antica Nemesi non puniva soltanto i cattivi ma anche i fortunati, coloro che avevano avuto dalla vita una parte di godimento maggiore di quella loro spettante. Analogamente il cristianesimo primitivo considerava i poveri, gli infermi di corpo e di spirito, come coloro che avevano maggiori possibilità di divenire un giorno gli eletti. L’uomo ricco del Vangelo viene minacciato dell’inferno senza altra ragione apparente che la sua stessa ricchezza. I primi saranno gli ultimi. Ancor oggi questo movimento di altalena nella grande macchina del mondo ci pare desiderabile. L’ideale sembrerebbe l’uguaglianza assoluta di felicità fra tutti gli esseri, quali che siano; la vita invece è una consacrazione perpetua dell’ineguaglianza; la maggior parte degli esseri viventi, buoni o cattivi, potrebbe dunque pretendere idealmente una riparazione, una sorta di bilanciamento delle gioie, un livellamento universale. Bisognerebbe appianare l’oceano delle cose. Nessuna induzione tratta dalla natura può far supporre che ciò abbia mai luogo, anzi; e d’altra parte da nessun sistema morale si può trarre, con una deduzione rigorosa, il riconoscimento di un vero diritto morale a una tale compensazione della pena sensibile. Questa compensazione, desiderata dalla sensibilità, non è affatto un’esigenza della ragione; essa è del tutto dubbia per la scienza, forse addirittura impossibile7. Note 1 «Ammettiamo senza esitare la massima stoica: la virtù è premio a se stessa... Potremmo forse concepire un triangolo geometrico che per ipotesi fosse dotato di coscienza e di libertà e che, dopo essere riuscito a liberare la sua pura essenza dal conflitto delle cause materiali che tendono da ogni parte a far violenza alla sua natura, avesse bisogno di ricevere dalle cose esterne un premio per essersi liberato dal loro dominio?»(P.-A. Janet, La morale, cit., p. 590). 2 A. Fouillée, La liberté et le déterminisme, cit.
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Ibid. Cfr. la nostra Morale anglaise contemporaine, cit., p. 370 e A. Fouillée, La science sociale contemporaine, cit., libro V. 5 P.-A. Janet, La morale, cit., p. 582. 6 Questa petizione di principio, nascosta sotto il nome di postulato, è ancor più sensibile nei sistemi di morale che tentano di tenere più apertamente una via mediana fra l’utilitarismo egoistico e il disinteresse assoluto dello stoicismo. Di questo tipo sembrano essere la morale di Renouvier in Francia e quella di Sidgwick in Inghilterra. «La ragione, dice Renouvier (con cui il moralista inglese è su questo perfettamente d’accordo), non ha prezzo e non si fa riconoscere se non in quanto è supposta conforme alla causa finale, che funge da principio delle passioni, cioè alla felicità... Il postulato di una conformità finale della legge alla felicità... è l’induzione, l’ipotesi propria della morale... Si rifiuta questo postulato?... L’agente morale potrà opporre all’obbligo di giustizia un altro obbligo, quello della propria conservazione, e al dovere l’interesse così come se lo rappresenta... In nome di che cosa gli imporremo di optare per il dovere?» (Science de la morale, cit., t. I, p. 17). Renouvier, spirito molto sinuoso e circospetto, cerca poi di diminuire la portata di questa confessione con una distinzione scolastica. La sanzione, dice, è meno un postulato della morale che un postulato delle passioni, «necessario per legittimarle e farle entrare nella scienza». Purtroppo ha appena riconosciuto che non può esserci scienza della morale indipendentemente dalle passioni, e che l’obbligo dell’interesse è una potenza logicamente equivalente all’obbligo morale. Se le passioni postulano una sanzione, d’altra parte la morale postula le passioni: è un circolo. Nella morale così concepita il dovere, almeno dal punto di vista logico, si trova sullo stesso piano dell’interesse: si pongono Bentham e Kant uno di fronte all’altro, si riconosce che hanno entrambi ragione, e ci si sforza di far loro volere le stesse cose in nome di princìpi contrari. La sanzione serve come terreno di accordo e il remuneratore supremo da giudice di pace. Noi non dobbiamo apprezzare qui il valore di questi sistemi di morale. Constatiamo soltanto che il formalismo di Kant vi scompare, che «l’obbligo di compiere il dovere unicamente per dovere» non esiste più ed è considerato come un puro paradosso (Science de la morale, cit., t. I, p. 178); che la sanzione non è più una conseguenza del dovere, ma semplicemente una condizione; allora quest’idea cambia completamente aspetto; il castigo e la ricompensa non sono più considerati come legati alla condotta morale da un giudizio sintetico a priori, ma vengono richiesti preventivamente dagli agenti per giustificare dal punto di vista sensibile il comando della «legge». L’atto morale non costituisce più in se stesso e da solo un diritto alla felicità; ma ogni essere sensibile sarebbe naturalmente in grado di sperare nella felicità e rinunciarvi nell’atto morale. Renouvier e Sidgwick, cessando di sostenere che il dovere merita una ricompensa, dicono semplicemente che l’agente morale, aspettandosi una ricompensa, sarebbe ingannato se un giorno non la ricevesse; essi invocano, per così dire, come solo argomento la veracità del desiderio allo stesso modo in cui Cartesio invocava la veracità di Dio; ma l’una e l’altra possono riuscire dubbie per ogni morale veramente scientifica. 7 «Non crediamo che la fede nella sanzione religiosa porti un grande cambiamento nell’impressione che la vista di un essere moralmente malato suscita in ogni essere sano. Il crimine non può offrire per l’uomo che un’unica attrattiva, quella della ricchezza che ha la possibilità di procurarsi. Ma la ricchezza, qualunque pregio abbia agli occhi del popolo, non manca però di 3
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una misura comune con tutto il resto. Proponete a un povero di farlo milionario a prezzo della gotta, se ha appena un briciolo di ragione rifiuterà. Proponetegli di essere ricco a condizione di essere zoppo o gobbo, probabilmente rifiuterà ugualmente, soprattutto se è giovane; tutte le donne rifiuterebbero. La difficoltà di reclutamento per certi mestieri, anche ben retribuiti, come quello di boia, mostra ancora che agli occhi del buon senso popolare il denaro non è tutto. Se fosse tutto nessuna minaccia religiosa potrebbe impedire l’universale assalto alle ricchezze. Conosco donne e anche uomini che rifiuterebbero una fortuna se dovessero acquisirla con il mestiere di macellaio, tanto sono forti certe ripugnanze, anche puramente sentimentali ed estetiche. L’orrore morale del crimine, più potente nella generalità dei cuori di ogni altra ripugnanza, ci terrà dunque sempre lontani dai criminali, quali che siano le prospettive dell’aldilà. Questo orrore sarà inevitabilmente più forte quando, al sentimento abituale di odio, di collera e di vendetta che ci causa la presenza di un criminale, si sarà gradualmente sostituito il sentimento della pietà, – di quella pietà che proviamo per gli esseri inferiori o mal riusciti, per le mostruosità inconsce della natura. Il solo elemento rispettabile e durevole nell’idea di sanzione non è né la nozione di pena né quella di ricompensa, è la concezione secondo cui il bene ideale deve avere una forza sufficiente di realizzazione per imporsi alla natura e invadere il mondo intero: ci parrebbe bene che l’uomo giusto e mite avesse un giorno l’ultima parola nell’universo. Ma questo regno del bene che l’umanità sogna non ha bisogno, per stabilirsi, dei procedimenti della regalità umana. Il sentimento morale può considerarsi destinato ad essere la grande forza e la grande molla dell’universo; questa ambizione della moralità di invadere progressivamente la natura per mezzo dell’umanità è ciò che vi è di più elevato nel campo filosofico; è anche quel che vi è di più proprio a mantenere lo spirito di proselitismo. Nessun mito è qui necessario per eccitare l’ardore del bene e il sentimento della fraternità universale. Ciò che è grande e bello basta a se stesso, porta in sé la sua luce e la sua fiamma.» (Irréligion de l’avenir, cit., p. 358).
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Conclusione
Non sarà inutile, in conclusione, riassumere le principali idee che abbiamo sviluppato in questo lavoro. Il nostro scopo era di cercare che cosa sarebbe una morale senza alcun obbligo assoluto e senza alcuna sanzione assoluta; fin dove può spingersi per questa via la scienza positiva e dove comincia il campo delle speculazioni metafisiche? Dopo aver scartato metodicamente ogni legge anteriore e superiore ai fatti, di conseguenza a priori e categorica, siamo dovuti partire dai fatti stessi per trarne una legge, dalla realtà per trarne un ideale, dalla natura per trarne una moralità. Ora, il fatto essenziale e costitutivo della nostra natura è che siamo esseri viventi, senzienti e pensanti; è alla vita, sotto la sua forma sia fisica che morale, che abbiamo dovuto domandare il principio della condotta. È inevitabile che questo principio presenti un duplice carattere perché la vita stessa si sdoppia, per così dire, nell’uomo in vita incosciente e vita cosciente. La maggior parte dei moralisti non vede altro che il campo della coscienza; invece è l’inconscio o il subconscio ad essere la vera base dell’attività. La coscienza, è vero, alla lunga può reagire e distruggere gradualmente, con la chiarezza dell’analisi, quel che la sintesi oscura dell’eredità aveva accumulato negli individui o nei popoli. La coscienza possiede una forza dissolvente di cui la scuola utilitaristica e anche quella evoluzionistica non hanno tenuto abbastanza conto. Di qui la necessità di ristabilire l’armonia fra la riflessione della coscienza e la spontaneità dell’istinto inconscio: bisogna trovare un principio di azione che sia comune alle due sfere e che, di conseguenza, acquistando coscienza di sé, giunga piuttosto a fortificarsi che a distruggersi. Questo principio crediamo di averlo trovato nella vita più intensa e più estesa possibile, sotto l’aspetto fisico e mentale. La vita, prendendo coscienza di sé, della sua intensità e della sua estensione, non tende a distruggersi: non fa che accrescere la propria forza. Tuttavia, nel campo della vita, vi sono anche delle antinomie che si producono quando le individualità entrano in conflitto, quando entra in gioco la
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competizione di tutti gli esseri per la felicità e, talvolta, per l’esistenza. Nella natura l’antinomia prodotta dallo struggle for life non si risolve in nessun modo: il sogno del moralista è quello di risolverla o almeno di ridurla il più possibile. Perciò il moralista è tentato di invocare una legge superiore alla vita stessa, una legge intellegibile, eterna, soprannaturale. Noi abbiamo rinunciato ad invocare questa legge, almeno come legge: abbiamo ricollocato il mondo intellegibile nel mondo delle ipotesi, e non è da una ipotesi che può discendere una legge. Di nuovo siamo dunque costretti a rivolgerci alla vita per regolare la vita. Ma allora è una vita più completa e più ricca che può regolare una vita meno completa e meno ricca. Questa è, in effetti, la sola regola possibile per una morale esclusivamente scientifica. Il carattere della vita che ci ha permesso di unire in una certa misura l’egoismo e l’altruismo – unione che è la pietra filosofale dei moralisti – è quel che abbiamo chiamato la fecondità morale. Bisogna che la vita individuale si diffonda per altri, in altri e, se necessario, faccia dono di sé; ebbene, questa espansione non è contro la sua natura: è invece secondo la sua natura; anzi, è la condizione stessa della vera vita. La scuola utilitaristica è stata costretta ad arrestarsi, più o meno esitante, davanti a quest’antitesi perpetua dell’io e del tu, del mio e del tuo, dell’interesse personale e del nostro interesse generale; ma la natura vivente non si arresta davanti a questa divisione netta e logicamente inflessibile: la vita individuale è espansiva verso gli altri perché è feconda, ed è feconda proprio perché è la vita. Dal punto di vista fisico, lo abbiamo visto, è un bisogno dell’individuo quello di generare un altro individuo, tanto che questo altro diventa come una condizione di noi stessi. La vita, come il fuoco, si conserva solo comunicandosi. E ciò è vero dell’intelligenza non meno che del corpo; come la fiamma l’intelligenza non si può chiudere in se stessa, è fatta per irradiare. Medesima forza di espansione si ritrova nella sensibilità: noi dobbiamo condividere la nostra gioia, dobbiamo condividere il nostro dolore. Tutto il nostro essere è socievole: la vita non conosce le classificazioni e le divisioni assolute dei logici e dei metafisici: non può essere completamente egoista anche se lo volesse. Noi siamo aperti da ogni parte, da ogni parte invasori e invasi. Ciò deriva dalla legge fondamentale che la biologia ci ha dato: la vita non è solo nutrimento, è produzione e fecondità. Vivere significa spendere non meno che acquistare. Dopo aver stabilito questa legge generale della vita fisica e psichica, abbiamo indagato come si può derivarne una sorta di equivalente dell’obbligo.
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Che cos’è insomma l’obbligo, per chi non ammette imperativi assoluti né leggi trascendenti? – Una certa forma d’impulso. Infatti, analizzate «l’obbligo morale», il «dovere», la «legge morale»: quel che dà loro un carattere attivo è l’impulso che ne è inseparabile, è la forza che chiede di essere esercitata. Ebbene, è proprio questa forza impulsiva che ci è sembrata il primo equivalente naturale del dovere soprannaturale. Gli utilitaristi sono ancora troppo assorbiti da considerazioni finalistiche: sono interamente tesi allo scopo, che è per loro l’utilità, riducibile essa stessa al piacere. Essi sono edonisti, cioè fanno dei piaceri, di tipo egoistico o simpatetico, la grande molla della vita mentale. Noi invece ci poniamo dal punto di vista della causalità efficiente e non della finalità; constatiamo in noi una causa che agisce addirittura prima che intervenga, come scopo, l’attrazione del piacere: questa causa è la vita che tende per la sua stessa natura ad accrescersi e ad espandersi e trova così, di conseguenza, il piacere senza assumerlo necessariamente come fine. L’essere vivente non è un puro e semplice calcolatore alla Bentham, un finanziere che fa sul suo libro mastro il bilancio dei profitti e delle perdite: vivere non è calcolare, è agire. Nell’essere vivente c’è un accumulo di forza, una riserva di attività che viene spesa non per il piacere di essere spesa, bensì perché bisogna che venga spesa: una causa non può non produrre i suoi effetti anche prescindendo dalla considerazione del fine. Siamo così giunti alla nostra formula fondamentale: il dovere è solo un’espressione distaccata del potere che tende necessariamente a passare all’atto. Noi designiamo come dovere solo il potere che supera la realtà, che in rapporto ad essa diventa un ideale, che diventa ciò che deve essere perché è ciò che può essere, perché è il germe dell’avvenire che supera già il presente. Nella nostra morale non c’è nessun principio soprannaturale; è dalla vita stessa e dalla forza inerente alla vita che tutto deriva: la vita si fa da sé la propria legge con la sua aspirazione a svilupparsi incessantemente; si fa il suo obbligo ad agire con il proprio potere di agire. Come abbiamo mostrato, invece di dire: devo, dunque posso, è più vero dire: posso, dunque devo. Da ciò risulta l’esistenza di un certo dovere impersonale creato dal potere stesso di agire. Questo è il primo equivalente naturale del dovere mistico e trascendente. Il secondo equivalente lo abbiamo trovato nella teoria delle idee forza, sostenuta da un filosofo contemporaneo: l’idea stessa di un’azione superiore, come quella di ogni azione, è una forza che tende a realizzarla. Anzi l’idea è già l’ini-
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zio della realizzazione dell’azione superiore; l’obbligo è da questo punto di vista solo il sentimento della profonda identità che esiste fra pensiero e azione; è per ciò stesso il sentimento dell’unità dell’essere, dell’unità della vita. Chi non conforma la sua azione al suo pensiero più elevato è in lotta con se stesso, diviso interiormente. Anche su questo punto l’edonismo è superato; non si tratta di calcolare i piaceri, di fare della contabilità e delle valutazioni finalistiche: si tratta di essere e di vivere, di sentirsi essere, di sentirsi vivere, di agire in conformità al proprio essere e alla propria vita, di non essere una sorta di menzogna in atto, bensì una verità in atto. Un terzo equivalente del dovere è ricavato dalla sensibilità e non più, come i precedenti, dall’intelligenza e dall’attività. Consiste nella fusione crescente delle sensibilità e nel carattere sempre più socievole dei piaceri elevati; di qui risulta una sorta di dovere o di necessità superiore che ci spinge ancora naturalmente e razionalmente verso gli altri. In virtù dell’evoluzione i nostri piaceri acquistano maggiore ampiezza e diventano sempre più impersonali; non possiamo godere nel nostro io come in un’isola chiusa: il nostro ambiente, al quale ci adattiamo ogni giorno di più, è la società umana, e noi non possiamo essere felici al di fuori di questo ambiente, come non possiamo respirare fuori dall’atmosfera. La felicità puramente egoistica di certi epicurei è una chimera, un’astrazione, un’impossibilità: i veri piaceri umani sono tutti più o meno sociali. L’egoismo puro, abbiamo detto, invece di essere una reale affermazione di sé, è una mutilazione di sé. Così nella nostra attività, nella nostra intelligenza, nella nostra sensibilità, c’è una pressione che si esercita in senso altruistico, c’è una forza di espansione potente quanto quella che agisce negli astri: ed è questa forza di espansione, divenuta cosciente del suo potere che dà a se stessa il nome di dovere. Ecco il tesoro di spontaneità naturale che è la vita e che crea al tempo stesso la ricchezza morale. Ma, abbiamo visto, la riflessione può trovarsi in antitesi con la spontaneità naturale, può lavorare a restringere sia il potere che il dovere di socievolezza, quando la forza di espansione verso gli altri si trova casualmente in opposizione con la forza di gravitazione su di sé. Per quanto la lotta per la vita diminuisca col progredire dell’evoluzione, essa riappare in certe circostanze che sono ancora frequenti ai giorni nostri. Senza una legge imperativa come portare allora l’individuo ad un disinteresse definitivo, e a volte al sacrificio di sé? Oltre a questi moventi che abbiamo esaminato precedentemente e che
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agiscono costantemente in circostanze normali, ne abbiamo trovati altri che abbiamo chiamato amore del rischio fisico e amore del rischio morale. L’uomo è un essere amico della speculazione, non solo in teoria ma in pratica. Dove cessa la certezza non per questo cessano il suo pensiero e la sua azione. Alla legge categorica può sostituirsi senza pericolo una pura ipotesi speculativa; nello stesso modo alla fede dogmatica si sostituisce una pura speranza e all’affermazione l’azione. L’ipotesi speculativa è un rischio del pensiero; l’azione conforme a quest’ipotesi è un rischio della volontà; l’essere superiore è quello che intraprende e rischia di più sia col pensiero che con gli atti. Questa superiorità deriva dal fatto che egli ha un maggior tesoro di forza interiore, dal fatto che ha più potere; proprio per questo ha un dovere superiore. Il sacrificio stesso della vita può essere ancora in certi casi un’espansione della vita, divenuta così intensa da preferire uno slancio di sublime esaltazione ad una serie di anni terra terra. Vi sono dei momenti, lo abbiamo visto, in cui è possibile dire allo stesso tempo: vivo, ho vissuto. Se certe agonie fisiche e morali durano anni, e se si può, per così dire, morire a se stessi per un’intera esistenza, anche l’inverso è vero e si può concentrare un’intera vita in un momento d’amore e di sacrificio. Infine, come la vita si crea il proprio obbligo di agire in virtù del suo stesso potere di agire, così si crea la propria sanzione con la sua azione stessa perché agendo gode di sé. Se agisce di meno gode di meno, se agisce di più maggiore è il godimento. Anche nel donarsi la vita si ritrova, anche nel morire essa ha coscienza della sua pienezza, che riapparirà altrove indistruttibile sotto altre forme, perché nulla al mondo va perduto. Insomma, solo la potenza della vita e l’azione possono risolvere, se non interamente, almeno in parte, i problemi che si pone il pensiero astratto. Lo scettico, in morale come in metafisica, crede d’ingannarsi, lui e tutti gli altri, che l’umanità s’ingannerà sempre, che il cosiddetto progresso sia un segnare il passo; ha torto. Non vede che i nostri padri ci hanno risparmiato gli errori nei quali sono caduti e che noi risparmieremo i nostri ai nostri discendenti; non vede che c’è d’altronde in tutti gli errori una parte di verità, e che questa piccola parte di verità va crescendo e affermandosi. Su un altro versante colui che ha una fede dogmatica crede di possedere, diversamente da tutti gli altri, l’intera verità definita e imperativa: ha torto. Non vede che ci sono errori mescolati ad ogni verità, che non c’è ancora nulla nel pensiero umano di abbastanza perfetto da essere definitivo. Lo scettico crede che l’umanità non
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proceda, il secondo che sia arrivata; c’è una via di mezzo tra queste due ipotesi: bisogna dirsi che l’umanità è in cammino e camminare. Il lavoro, come abbiamo detto, vale la preghiera; vale di più della preghiera, o meglio è la vera preghiera, la vera provvidenza umana: agiamo invece di pregare. Riponiamo le nostre speranze solo in noi stessi e negli altri uomini, contiamo su di noi. La speranza, come la provvidenza, vede talvolta davanti a sé (providere). La differenza tra la provvidenza soprannaturale e la speranza naturale è che la prima pretende di modificare immediatamente la natura con mezzi anch’essi soprannaturali, l’altra modifica inizialmente solo noi stessi; è una forza che non ci è superiore ma interiore: siamo noi ad esserne spinti. Resta da sapere se noi procediamo da soli, se il mondo ci segue, se il pensiero potrà mai trascinare la natura; – andiamo sempre avanti! Noi siamo come sul Leviathan, al quale un’ondata aveva strappato il timone e un colpo di vento spezzato l’albero. Era perduto nell’oceano, come la nostra terra nello spazio. Vagò così a caso, spinto dalla tempesta, come un grande relitto carico di uomini; eppure arrivò. Forse la nostra terra, forse l’umanità arriveranno anch’esse a una meta ignota che si saranno create da sole. Nessuna mano ci dirige, nessun occhio vede per noi; il timone è spezzato da lungo tempo, o piuttosto non lo abbiamo mai avuto, è da costruire: è un grande compito, ed è il nostro compito.
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Appendice NOTE DI FRIEDRICH NIETZSCHE A MARGINE DELL’«ESQUISSE D’UNE MORALE SANS OBLIGATION, NI SANCTION»
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Questa ragionevole ossessione di Jean-Marie Guyau viene stampata nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle Cartiere Fedrigoni dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Diabasis nell’aprile dell’anno duemila nove
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