Una fede senza dogmi
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Ferrarotti Una fede

senza dogmi

Sagittari Laterza

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https://archive.org/details/unafedesenzadogm00oooferr

31 Sagittari Laterza

©1990, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1990 Seconda edizione 1991

. Franco Ferrarotti

Una fede

senza dogmi

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 1991 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-3512-X

ISBN 88-420-3512-2

—_ PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Alcuni anni fa, all’università di Lovanio, si celebravano i trent'anni della valorosa rivista «Social Compass», diretta da Francois Houtart. Per ragioni che mi sono a tutt’oggi oscure, ero stato invitato a tenere il discorso d’apertura. Piuttosto provocatoriamente — ma ciò si era reso evidente solo a uno sguardo retrospettivo — avevo trattato il tema del falso allarme per la secolarizzazione e avevo invece insistito sulla persistenza del sacro e sulla fine prossima ventura del «Cristianesimo costantiniano». Altro che i piedi nel piatto! Non fu un caso se Jean Séguy, sempre guidato da un fiuto prodigiosamente acuto, subito reagì parlando di un «bruit de pieds», da parte mia, e qualche tempo dopo, alla Sorbona, di un «evento» — la fine di quel Cristianesimo — che si sarebbe fatto attendere. Certamente. Ma intanto gli sviluppi della situazione mondiale e i recenti dibattiti fra teologi hanno forse dato più ragione a me che a lui. Ad ogni buon conto, il problema è tuttora davanti a noi, reso anche più urgente dalle insufficienze ormai esplose, sul piano teorico ma anche su quello dell’organizzazione

politica, della concezione marxiana del religioso. Il rischio, ora, è quello di scambiare il dramma con la farsa, la «religione laica» e la «teologia per atei», di cui discorrevo nel primo volume della trilogia che viene a compimento, con il vago deismo salottiero degli immortali filistei della cultura, che sono gli uomini di scienza utilizzabili il più presto possibile, sempre sul mercato, volenterosi e pronti a vendersi al migliore offerente. Già V

Vico scorgeva nella sua Scienza Nuova i germi di una «religione laica» 0, com’egli scrive, di una «teologia civile» (si veda il capoverso 342 del tomo primo). Ma che la religione laica o «perenne», come amerei indicarla, non debba ridursi a fungere da puntello alla situazione politica e culturale esistente è stato mostrato, forse involontariamente, da Nietzsche nella prima «Considerazione inattuale», là dove il ritratto del «campione della cultura accademica», «uomo di fede e scrittore», David

Friedrich Strauss, viene impietosamente delineato. Al confronto, nella cultura italiana i pur apprezzabili libri di Giovanni Ferrara e di Ruggero Guarini sono pallidi vademecum. E tuttavia, la strada che indicano mi sembra quella giusta. Occorrerà precisarla e decidersi a batterla, con l’umiltà che si conviene agli «uomini senza miti» in un mondo ormai privo di certezze precostituite, in

cui la fede imparerà un giorno a camminare senza l’ausilio dei dogmi per rinascere, dopo l’apparente eclissi, trasfigurata. F.F. Roma,

8 dicembre

1989

ALLA

PREFAZIONE SECONDA EDIZIONE

Le recensioni dedicate a questo libro sono golarmente vivaci e numerose. Come mai? Ha cato un nervo scoperto del nostro tempo? Può è anche possibile che il libro sia semplicemente

state sinforse tocdarsi. Ma uscito sul

mercato nel momento opportuno, unendo la sua voce a quell’iniziale chiacchierio, dapprima sommesso e sussurrato come la «calunnia» rossiniana, ma che poi non tarda a prendere consistenza e volume e slancio, rumoroso e fin limaccioso, nel gran torrente delle capricciose mode culturali. Ammetto subito che un successo di vendite mi riesce sempre sospetto. Ad ogni buon conto, sono grato ai miei recensori, a tutti, anche ai meno

congeniali e a

quelli mal disposti, che concepiscono la recensione come un duello all’ultimo sangue con l’autore invece che come un servizio da rendere ai lettori potenziali. Ritengo che le polemiche, anche le più dure e ingenerose, siano utili. Ho già scritto, replicando a Paolo Miccoli e alle sue 0sservazioni, a tratti alquanto velenose (in «L’Osservatore romano» del 26 marzo 1990), che le critiche fanno bene agli autori, specialmente quando a un libro arrida un certo successo. Equivalgono alla stoppa che nell’antica Roma si bruciava alle spalle del generale vittorioso, del-

l’imperator, al suo trionfale rientro in città. Come dire:

sic transit gloria mundi. E un memento salutare. L’autore non insuperbisca. Naturalmente, anche il critico ha da essere, a sua volta, cauto. Con riguardo alla recensione pubblicata nell’ «Osservatore romano», temo che il mio illustre e severo interVII

locutore critichi, e critichi a fondo, ciò che peraltro non sembra aver letto con la lentezza dovuta. Per esempio, citare Thomas Hobbes a mio carico e non rendersi conto del mio cenno (p. 193) al rapporto fra Thomas Hobbes e Niccolò Machiavelli nei termini a suo tempo illustrati dal grande Leo Strauss, che in parte condivido — ma quante cose quel mio rapido cenno sottintende per il lettore provveduto! — è per lo meno corrivo, per non dire superficiale. Così mi sembra troppo facile rimproverarmi l’analisi e l’interpretazione della «Teologia della liberazione», forse l’espressione più matura del pensiero teologico e politico insieme dell’ America Latina di oggi, chiudendo la questione col dire che, dopo tutto, ormai non se ne parla più. Forse il mio critico non se ne rende conto, comodamente adagiato sui dogmi com’è, ma il suo argomentare è addirittura sinistro se appena si pensi che a Leonardo Boff è stato dalla Chiesa imposto il silenzio per un anno. Mi si dirà: cos’è un anno? Non è la «mordacchia»

di Giordano Bruno, d’accordo.

Qualche

progresso c’è stato. E sarebbe ingiusto non tenerne conto. I roghi non fumano più. Ma è un modo di argomentare che fa specie in chi mostri tanto disprezzo per i «gazzettieri», salvo poi a meritarsi la nomina a «gazzettiere onorario» quando fa chiaramente coincidere il successo con la verità. Mordacchia a parte, forse che ciò di cui non si parla più ha cessato per questo di essere importante? Ma allora, questi diligenti e ubbidienti custodi dell’ortodossia, donde traggono i loro criteri valutativi? Li traggono forse dalle analisi di mercato? Dovessimo ricavare il valore delle idee e più ancora degli ideali dalle loro quotazioni, per così dire, alla borsa-valori dell’attualità, allora sì che

cadremmo vittime di quell’«orizzontalismo stancante» che giustamente il mio recensore lamenta. Si può essere fondamentalmente vittoriosi pur nella sconfitta. Priamo perisce, ma glorioso. Esiste lo splendore del fallimento. Va richiamata la funzione epifanica e purificatrice di certe sconfitte. E strano che debba toccare a un «laico» — come il mio arcigno critico non si stanca di etichettarmi, quasi ad intimare un non expedit al trattare di teVII

mi che si suppongono riservati alla burocrazia ecclesiale accreditata — semplicemente rammentare che il successo pratico non garantisce nulla, che anzi è quasi sempre foriero di prevaricazione, anche quando non sia già in origine frutto di inganno o di violenza. Nonostante tutto e paradossalmente, una certa gratitudine è infine dovuta. In tempi in cui stanno crollando le divisioni ideologiche e la parola «ecumenismo» si spreca e corre per i trivi, è confortante imbattersi ancora in un genuino rappresentante della mentalità dogmatica, nel senso più ristretto del termine. C’è di più: il mio acerbo critico ha ragione su un punto essenziale e gira il ferro, con la crudeltà serena dell’inconsapevole, in una ferita aperta. È vero: nel piano generale del mio lavoro di ricerca, Una fede senza dogmi, pur ponendosi come il termine conclusivo della trilogia sul sacro, dopo Una teologia per atei e Il paradosso del sacro, è ai miei occhi poco più d’una scarna prefazione, se non un surrogato 0 un libro faute de mieux. Era in realtà mia intenzione riunire e riflettere sui punti di convergenza fra le cinque grandi religioni universali (giudaismo, cristianesimo, islamismo, induismo e buddismo), secondo esempi e stimoli che trovo addirittura, fra gli altri, nel Tertulliano del De testimonio animae, ossia in colui che passa per il campione dell’apologetica oltranzista, famoso per quella dichiarazione programmatica che alle soglie dell’epoca moderna sarà Cartesio a rovesciare: Credo quia absurdum. Trovo nell’aureo libretto di Tertulliano l’amorosa, quasi trepida ricerca dei frammenti di verità naturali già presenti negli scritti dei pensatori pagani e più ancora, al di là di questo lavoro di archeologia spirituale, non scevro di sospetti agli occhi di Tertulliano, mi incanta l’ardito tentativo di sondare una fonte nuova di verità: le pulsioni dell’anima pre-cristiana, della più semplice, di quella che nel suo sprotetto sentire riflette il sapere comune, la saggezza sapienziale degli analfabeti, la conoscenza ordinaria non appesantita dalle superfetazioni culturali scolastiche. Chiamerei quest’anima, che Tertulliano con tanta umile attenzione ausculta — se il mio recensore vaticano me lo consente —, l’anima senza IX

miti, al modo in cui Felice Balbo parlava di «uomini sen-

za miti», uomini puramente umani, ma già di per questo uomini sacerdoti all'uomo. «Novum testimonium advoco — scrive Tertulliano — immo omni litteratura notius,

omni doctrina agitatius, omni editione vulgatius, toto homine maius, id est totum quod est hominis. Consiste in medio, anima, seu divina [...] seu minime divina [...] seu de caelo exciperis [...] seu post corpus induceris». E ancora: «Sentis igitur perditorem tuum, et licet soli illum noverint Christiani, vel quaecumque apud deum secta, et tu tamen eum nosti dum odisti». So bene che per il mio programma, tendente a stabilire l’unità trascendentale delle verità parziali delle grandi religioni universali, avrei ancora bisogno di almeno trent’anni di piena lucidità intellettuale e di conoscenze storiche e linguistiche di cui non dispongo per ora nella misura necessaria. Eppure, c’è un /ògos spermatikòs nella storia umana che attende i suoi «speleologi» e i suoi attenti, umili, non dogmatici interpreti. Questa è la prova che ci si pone, il banco su cui dovrà misurarsi la nostra statura di uomini dell’epoca post-ideologica, universalistica in senso per la prima volta planetario, in una prospettiva che si ponga fuori ma non contro le religioni storiche positive e che solo Umberto Galimberti, fra i miei numerosi critici, mi sembra aver colto in tutta la sua portata. Oso pensare che non sarà certo qualche zelota della lettera o qualche industrioso sagrestano nostalgico dell’imprimatur, intento a spegnere moccoli con il suo berretto da notte illudendosi di sbarrare così il cammino delle idee, a distoglierci dall’impresa. Le Chiese potranno ben avere i loro successi, godere delle loro Canosse, rilanciare in Europa il sogno mortale di un nuovo sacro romano impero. Nessuno ha dimenticato che hanno aspettato secoli per riabilitare, in parte, Galileo. Non hanno ancora accettato, pur nei suoi limiti, né hanno

compreso fino in fondo la Rivoluzione francese, la tragedia dell’autonomia individuale. L’homo religiosus non potrà crescere che sulle rovine del monopolio del sacro da parte delle chiese burocratizzate. Fin qui, con poche variazioni e aggiunte, mi sono atx

tenuto al testo della mia «risposta interlocutoria» pubblicata in «l'Unità» (20 maggio 1990) e nella «Critica sociologica» (n. 91, inverno 1989-1990). Ma ora mi domando se la Aybris polemica non mi abbia portato troppo lontano. Che cosa c’è di vero nelle osservazioni di Paolo Miccoli? Dovrei riuscire a mettere da parte i sentimenti, e i risentimenti, personali, lo stato d’animo dell’autore che si sente frainteso e vilipeso. Che cosa resta di importante in quelle osservazioni? Non so se quelle di Una fede senza dogmi siano soltanto «illusorie acrobazie sulle metamorfosi del sacro». So che tentano di rispondere a bisogni autentici dell’uomo di oggi. Non mi sembra che questi bisogni siano riducibili a «propositi compromissori di mezza cultura» o a «sacralità neo-pagana». Una così radicata diffidenza verso ogni pur timido tentativo di vivere la religione come esperienza personale profonda può forse solo nascere dalla troppo lunga consuetudine con uno spirito dogmatico che fiuta in ogni sforzo di discorso aperto, irrituale e puramente umano, una minaccia o un pericolo da parare. Contrariamente allo scrittore dell’«Osservatore romano», quello di «Famiglia cristiana» (11 aprile 1990), don Claudio Sorge, riconosce che considero la religione come «una componente necessaria alla completezza dell’uomo», che sento «acuto il desiderio del sacro nel mondo». Naturalmente, soffro di parecchie mancanze: «per esempio, l’idea di rivelazione e di Chiesa, intesa in senso di realtà misteriosa, ma vera, viva, profetica e sacramentale [...] il sociologo afferma la necessità dello spirito religioso per la salvezza della scienza, afferma anche la bontà del progresso etico, pur avendo chiara la distinzione tra etica e religione. Quando dico ‘distinzione’, non intendo contrapposizione, ma una differenza per cui non si può identificare o ridurre la religione al problema etico». In altre parole, Sorge mi rimprovera di avere un «concetto non completo» di religione. Temo

proprio di non poterlo avere perché il suo «concetto completo» di religione è poi essenzialmente quello di cui le chiese erette in ierocrazie burocratiche pretendono il monopolio,

negando nella pratica pastorale l’ecumeniXI

smo e lo spirito inter-religioso del Concilio Vaticano II che nella teoria, se pure in sordina, continuano a proclamare o quanto meno ad ammettere. Noto a questo proposito una strana coincidenza con una certa sinistra politica che scorge nel sacro e specialmente nel «ritorno al sacro» solo la vana ricerca di una alternativa radicale al capitalismo. «L’intenzione di fondare la critica del modo di produzione capitalistico su qualcosa di ‘più essenziale’ — scrive Paolo Virno nel «Manifesto» del 1° agosto 1990 — è solo il segno di quanto questo modo di produzione goda di buona salute e abbia ridotto a mal partito i suoi avversari. Sintomo di una disperante povertà di strumenti teorici rispetto all’analisi degli attuali rapporti sociali, il balzo all’indietro verso il sacro assomiglia al comportamento di chi, sommerso da debiti, non trovi di meglio, per andare avanti, che contrarre nuovi debiti e poi altri ancora, per somme via via più cospicue. Convinto che, in ral modo, saranno dimenticate le prime pendenze». Rispetto al sacro come valore sottratto alle leggi del mercato e alla logica del-

l’organizzazione

burocratica,

si direbbe che abbiamo

qui due strumentalismi incapaci di trascendere la datità dell’esistente. Che si tratti dell’imprevisto, felice connubio di due dogmatismi, contrari e simmetrici? Intorno al dogmatismo della Chiesa cattolica ufficiale, pur dopo il Vaticano II, non si possono nutrire molti dubbi se appena si consideri il recente documento della Congregazione per la dottrina della fede, pubblicato nell’originale testo latino nell’«Osservatore romano» del 27 giugno 1990 sotto il titolo Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo (Instructio de ecclesiali theologi vocatione). La preoccupazione dominante del documento sembra consistere nella reiterazione dell’infallibilità della Chiesa e nella richiesta di obbedienza praticamente «cadaverica» da parte dei teologi. Se un teologo dovesse trovarsi non in sintonia con il magistero della Chiesa, lungi dal rivolgersi ai mezzi di comunicazione di massa, come

non

hanno

esitato a fare Hans

King,

Leonardo

Boff e altri, dovrebbe scegliere responsabilmente il silenzio, soffrire e pregare poiché, come si legge al paragrafo XII

36 dell’Istruzione, «la libertà dell’atto di fede non può giustificare il diritto al dissenso. In realtà, essa non significa affatto la libertà nei confronti della verità, ma il libero auto-determinarsi della persona in conformità con il suo obbligo morale di accogliere la verità». Sembra evidente che si tratta di un obbligo morale di accogliere una verità dall’esterno, non propria, non espressa dall’interno. Ma a questa verità pre-confezionata si pretende di preparare un’accoglienza interiormente positiva, come se fosse ciò che non è. Fa pensare — e non sembri troppo irrispettoso — ai grandi processi staliniani degli anni Trenta a Mosca, quando gli imputati si riconoscevano colpevoli e si coprivano il capo di cenere per non avere accolto subito e con gioia una verità — cioè la verità del dittatore — come verità propria, autodeterminata interiormente, in foro conscientiae. Che tutta l’/Istruzione sia pervasa da un orientamento autoritario e paternalistico è stato per tempo chiarito dai ventidue teologi di Tubinga, cui in Italia ha fatto immediatamente eco la rivista dei padri Dehoniani, «Il Regno»: «Senza il riferimento alle comunità viventi non si può leggere il vissuto della Chiesa, quindi né il ministero del vescovo né quello del teologo. [...] Chi per ipotesi non conoscesse la Chiesa cattolica e la ricchezza della sua vita negli ultimi decenni e volesse giudicarla dalla presente Istruzione, ne riceverebbe un’immagine impoverita e limitata». Il problema centrale che sottende il documento firmato da mons. Joseph Ratzinger è stato con forza espresso da mons. Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano: «E necessaria la fede per fare il teologo? In altre parole, può esistere un teologo ateo? La domanda non è oziosa. Vi sono infatti molte operazioni intellettuali fatte dai teologi che non esigono se non l’onestà e la competenza di un ricercatore serio [...] Ma quando nell’Istruzione si parla del ‘teologo’ si intende qualcosa di più [...] Il teologo è dunque colui che [...]

ripropone il contenuto della fede nel quadro concettuale, culturale e linguistico del suo tempo. E per fare ciò che ha bisogno di criteri di discernimento» (si veda C.M. Martini, Ma quella del teologo è proprio una vocazioXIII

ne?, in «Corriere della Sera», 1° luglio 1990). E vero. Occorrono dei «criteri di discernimento». Basterà alla bisogna la sola gerarchia? Ernesto Balducci ha qualche dubbio in proposito: «Il documento ha un’impostazione strutturalmente autoritaria, benché illuminata dal rico-

noscimento degli errori del passato. Non basta riconoscere errori inoppugnabili: occorre individuare le ragioni che li resero possibili, altrimenti si perpetuano le condizioni perché l’errore si riproduca [...] Magistero e teologo vengono assunti come figure isolate dal Popolo di Dio, che è oggetto delle loro premure, mentre in realtà il Popolo è il soggetto plenario dell’esperienza della fede, dentro il quale stanno magistero e teologo» (si veda «Corriere della Sera», 28 giugno 1990). Perfettamente in linea con l’orientamento autoritario espresso da mons. Joseph Ratzinger mi paiono invece le riserve critiche che Carlo Cremona fa valere nei riguardi di questo libro. «Mi chiedo — scrive Cremona — Franco Ferrarotti è un sociologo oppure un teologo? Perché il sociologo ha diritto di indagare sul beneficio o sul danno che la fede esercita sull’uomo; su come reagisce l’uomo di oggi o di altre epoche alle proposte della fede. Ma indagare sulla natura stessa della fede, è compito del teologo e non del sociologo» (si veda C. Cremona, Senza dogmi, che fede è?, in «Avvenire», 23 maggio 1990). E un peccato, per Carlo Cremona, che la rigida partizione fra discipline, quasi che si trattasse di esclusive «riserve di caccia» da cui tener lontani curiosi e intraprendenti bracconieri, non abbia più alcun credito fra le più aggiornate tendenze dell’epistemologia, inclini invece a favorire impostazioni della ricerca di tipo multidisciplinare, se non addirittura post-disciplinare. Più calzante, e incalzante, mi sembra l’istanza critica mossa da Aldo Di Lello (nel «Secolo d’Italia» del 25 febbraio 1990): «La prospettiva di Ferrarotti è in buona sostanza quella dello ‘‘scientista pentito”’, costretto a rivedere le sue teorie di fronte ai guasti prodotti dai dogmi della scienza stessa». La definizione di «scientista pentito» non mi dispiacerebbe se solo avessi un minimo d’orecchio per il pentimento. Riconosco volentieri i miei errori. Ma non rimXIV

piango nulla. E non mi pento di niente. Non è nel mio

carattere. Continua Di Lello: «La forma di religiosità che [...] indica nel fondo delle sue pagine è una religiosità profondamente rimodellata sui valori espressi nell’età del post-scientismo e nell’età delle esperienze ecclesiali ‘“democratiche’’, che sulla scorta della Teologia della liberazione di padre Boff contestano l’autorità della gerarchia. La strada è aperta per una visione del ‘‘sacro’’ totalmente individualistica, quasi fosse un rifugio privato all’angoscia». Alla luce di quanto scrivo a proposito della «morale dei positivisti» e della ripresa della critica di quel «rabbino della sociologia» che fu Emile Durkheim, l’interpretazione individualistica mi sembra difficile da sostenere mentre appare indubbiamente fondata la nozione di una religiosità eventualmente non lasciata in esclusiva nelle mani delle religioni burocratizzate. Un punto, questo, che è stato perspicuamente

colto da Francesco Er-

bani (nel «Mercurio» di «Repubblica» del 24 febbraio 1990), cui non sfugge la correlatività profonda, sul piano teoretico e su quello storico, fra monopolio ecclesiale del sacro e povertà o assenza della cultura laica al riguardo, nonostante le grandi eccezioni, in Italia, di figure come Carlo Cattaneo, Aldo Capitini, Ernesto Buonajuti, Ferdinando Tartaglia e, da ultimo, Lorenzo Milani, Felice Balbo e Claudio Napoleoni. Pur essendo l’esplorazione di questa correlatività l’intento profondo, forse il più importante, del mio libro, mirante a stabilire a quale tipo d’uomo, anche dal punto di vista antropologico e caratteriale, dia origine la simultanea presenza di una religione burocratizzata dominante e di una carente cultura laica, devo riconoscere che questo intento è sfuggito a molti, pur raffinati, commentatori. Così Giovanni Monastra (in «Diorama letterario» dell’aprile 1990) scrive che «debole ci appare il recupero del ‘‘sacro’’ tentato dal noto sociologo [...]: è un falso ‘“‘sacro’’, inteso come ripiego intimistico, consolazione individualistica, rifugio privato per chi fugge dall’angoscia, dalla solitudine e dalla spersonalizzazione della vita moderna». E Michele L. Straniero, non dimenticato auXV

tore di un interessante studio su Don Bosco, specialmente nei suoi difficili rapporti con i Valdesi, conclude, in chiave scopertamente ironica: «Ma perché questa religione civile dovrebbe essere più efficace e salvifica di quella tradizionale, o meno ingannevole, francamente Ferrarotti non è riuscito a spiegarcelo. Forse ci vorrà un quarto libro» (si veda in «Tuttolibri» della «Stampa» del 24 marzo 1990). Vien da rispondere: magari bastasse! Ma la portata del problema non è invece irrisa né superficialmente sminuita nelle interviste e nelle analisi di Pietro Greco (in «l’ Unità» del 24 gennaio 1990), di Aurelio Andreoli (nel «Secolo XIX» del 19 aprile 1990), di Maurizio Ortolani (nel «Giornale d’Italia» del 22 febbraio 1990) e di N. Sergio Turtulici (nell’«Eco della Valli Valdesi» del 16 marzo 1990), il quale mette acutamente in rilievo, come anche Antonio Saccà (nel «Tempo» del 1° marzo 1990), Maria Rosa Russo (nel «Giornale di Sicilia» del 2 aprile 1990) e Antonio Sambataro (in «La Sicilia» del 4 marzo 1990), la questione del rapporto fra il tempo dell’uomo e il tempo di Dio: «l’idea di Ferrarotti [...] è che non necessariamente la secolarizzazione, il tempo dell’uomo, escluda il tempo dell’eterno e di Dio, una religiosità da spendere nel rapporto con gli altri, nella vita civile, sia essa laica o illuminata dal raggio della fede». Tempo dell’uomo e tempo di Dio, dunque. Tempo quotidiano e tempo escatologico. Umberto Galimberti scorge i temi di cui mi occupo — dal cristianesimo e dalla scienza alla secolarizzazione e al sacro «nel suo commercio con il satanico» — oscillare fra questi due tempi, in uno spazio intermedio «dove gli eventi sono guardati sotto il profilo del loro senso ultimo, percorrendo la loro

traccia che è eterna perché radicata nell’anima dell’uomo come sua indelebile configurazione». É questo, a tutt'oggi, il commento più profondo e più penetrante a quanto ho cercato di dire in questo libro — un commento che non ha nulla di gratulatorio e che non mi induce ad autocompiacimenti ma mi apre, al contrario, nuove, impegnative direzioni di ricerca. «La Storia incontra XVI

l’Eterno — scrive Galimberti — e in questo faccia a faccia l’Eterno cede la sua marmoreità e la Storia la sua frettolosità. Questo spazio aperto tra il tempo quotidiano e il tempo escatologico è la condizione della grande oscillazione del Senso dove i temi acquistano vibrazione e spessore» (si veda U. Galimberti, Apriti, o scenario, a tutti gli eventi!, in «Sole-24 Ore», 18 febbraio 1990). Cogliere le tracce della temporalità fra questi due poli estremi, analizzarne l’intreccio che si fa trama di una vita, esprimerne il significato che è poi, in definitiva, il significato della vita, in cui il vario e imprevedibile esperire dell’individuo si rapprende e fissa in quello del gruppo e si fa storia e attraverso la polimorfica rete delle mediazioni dei movimenti sociali e delle istituzioni storiche si cristallizza nel costume e nella cultura socialmente determinata, comporta un compito, analitico e interpretativo, da far tremare. Sono grato, ciò nonostante,

a Um-

berto Galimberti di averlo reso così perspicuo da farmene intendere la natura di passaggio teoretico necessario e pertanto inevitabile.

EE, Roma,

15 agosto 1990

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Storia 10008

UNA FEDE SENZA

DOGMI

Les dogmes de la foi ne sont pas des choses à affirmer. Simone Weil, Lettre à un religieux

lx VERSO LA FINE DEL CRISTIANESIMO COSTANTINIANO?

1. La richiesta di rinnovamento

parte dal basso Fra gli anni 1960 e 1990, quando le distruzioni e le ferite della seconda guerra mondiale appaiono sufficientemente rimarginate e sembra che stiano per essere dimenticate, e le società industrializzate, potentemente attivate dai bisogni molteplici della ricostruzione, sembrano avviate sulla via di uno sviluppo graduale, pragmaticamente saggio, senza scosse eversive o traumi improvvisi, dietro la facciata liscia delle istituzioni formalmente codificate, sono al lavoro pressioni profonde e forze di straordinaria potenza. Non si preparano solo i movimenti di protesta che culmineranno, in maniera teatrale e spesso pittoresca, nel maggio del 1968. Forse meno appariscenti ma più profondamente radicati nel tessuto della società, si vanno preparando, anche nel mondo cattolico tradizionalmente legato e ligio alle direttive della gerarchia della Chiesa docente, insistenti e capillari richieste di rinnovamento. Queste richieste non partono dai vertici. E noto che i vertici hanno raramente interesse ai processi di rinnovamento — processi che per loro natura ne mettono a repentaglio le posizioni di vantaggio relativo. Il rinnovamento, quando parte, parte dal basso, si fa strada dalla periferia. Si pensi alle esperienze di don Enzo Mazzi all’Isolotto di Firenze, a quelle dell’abate Giovanni Battista Franzoni, a San Paolo fuori le Mura, a Roma 3

e, prima ancora, a certe pagine premonitrici delle Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani. È difficile riassumere la sostanza di queste richieste: vanno dall’esigenza di una partecipazione più attiva e più significativa alla vita della Chiesa alla denuncia dei legami di complicità o, quanto meno, di collaborazione fra la gerarchia della Chiesa e le forze economicamente e politicamente dominanti. Il «Popolo di Dio» vuol essere preso sul serio; anche all’interno della Chiesa si fa strada la protesta contro ogni tipo di delega in bianco. I suggerimenti, per qualche verso, profetici di Giovanni XXIII sono un primo segnale d’apertura. Sotto il suo impulso non fa meraviglia che la gerarchia cattolica si decida infine a rispondere collettivamente a quelle richieste, oscuramente prementi alla base della Chiesa e nella società extra-ecclesiale, con la convocazione del Concilio Vaticano II. Un papa vecchio e già malato, universalmente ritenuto un tipico papa di transizione, con il candore dei rivoluzionari autentici, imprime alla Curia

di Roma una svolta decisiva. Naturalmente, la valutazione complessiva dei lavori del Concilio Vaticano II e degli orientamenti che ne sono emersi non può dirsi conclusa; essa, anzi, è appena co-

minciata. Sarebbe superficiale e corrivo ritenere che esso rappresenti solo una risposta della Chiesa ai movimenti di contestazione di questo dopoguerra. Nessun dubbio che le sue radici coinvolgano almeno cinquant’anni di storia e che, per quanto riguarda in maniera specifica l’Italia, non si possa trascurare quel «movimento modernista» che agli inizi di questo secolo, con Romolo Murri e altri, doveva scuotere le coscienze cattoliche e turbarne la secolare, controriformistica acquiescenza. A

parte questo ampio retroterra storico, non vi è atto del Concilio che non abbia dietro di sé una non sempre chiara, anzi spesso difficile e tortuosa vicenda di cui costituisce lo sbocco, problematico e certamente non defini-

tivo. Ciò che in effetti colpisce nella storia della Chiesa è la sua capacità di aspettare, il suo sereno calcolare sul metro non della vita di un uomo né sulle fortuità di una biografia, bensì di prendere in considerazione la logica

4

ì

di sviluppo di una istituzione il cui arco evolutivo va analizzato e valutato in termini di secoli. Dal Concilio ci separano poco più di vent’anni. Vent'anni — è stato opportunamente osservato — che, nell’arco di tre pontificati, di Paolo VI, fino al 1978, di Giovanni Paolo I, papa per un mese, e di Giovanni Paolo II iniziato nello stesso anno, costituiscono probabilmente ancora un magma molto fluido di tendenze e manifestazioni, di spinte e controspinte, così che si può dire forse che siamo soltanto alla conclusione di una prima fase del postconcilio [...]. Si tratta pertanto di tentare un bilancio parziale e provvisorio del concilio, senza per questo naturalmente pretendere di fare una storia vera e propria della Chiesa nei vent’anni del postconcilio, perché sarebbe probabilmente una storia abbastanza diversa, o meglio l’inizio di una storia abbastanza diversa da quella precedente.

La cautela dello storico è lodevole e legittima. Qui si cercherà invece, con il coraggio che il lettore esigente non vorrà scambiare né per temerarietà né per eccessiva approssimazione, di cogliere il significato di quell’evento, per quanto è dato di vedere ai contemporanei, forse troppo immersi in una cronaca ancora calda di emotività per riuscire a conquistare e a mantenere la sobria distanza critica che sembra necessaria ad una valutazione se-

rena. Alla morte di Giovanni XXIII la direzione del Concilio Vaticano II passa nelle mani di Papa Montini, Pao-

lo VI, forse il papa intellettualmente più avvertito e raffinato di questo secolo. Egli traccia gli scopi del Concilio con grande chiarezza: a) l’auto-consapevolezza della Chiesa; b) il rinnovamento di essa; c) la riunificazione di tutti i Cristiani; d) il dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo. ! G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea,

Bari 1988, pp. 423-24.

Laterza,

Roma-

2. L’uomo

in carne ed ossa

Davanti alla precisa chiarezza di questi obiettivi è difficile sostenere, come pure è stato autorevolmente fatto?, che il Concilio Vaticano II altro non sia che un’opera-

zione di codificazione e di registrazione, per così dire, notarile, per cambiamenti già in precedenza elaborati e intervenuti. Nello stesso discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, tenuto nel 1962, Giovanni XXIII è pienamente consapevole delle novità che si vanno preparando e afferma testualmente: «Nel presente ordine di cose, la Buona Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera

degli uomini e per lo più oltre la loro stessa aspettativa, si svolgono verso il compimento dei suoi disegni superiori ed inattesi; e tutto, anche le umane diversità, dispo-

ne per il maggior bene della Chiesa». Oggi, però, ad oltre vent’anni dalla sua conclusione, il Concilio può ancora venir considerato come una svolta radicale e autentica nella vita della Chiesa oppure è stata posta in atto, dapprima con discrezione, sotto Paolo VI, e poi con maggior decisione sotto Giovanni Paolo II, un’opera di lento, ma

costante,

svuotamento

della sua sostanziale

portata innovatrice, tanto da legittimare il sospetto che esso sia stato, nella lettera e nello spirito, tradito invece che attuato? La questione non può essere adeguatamente trattata solo in base a sospetti e a indizi che non travalicano, nella maggior parte dei casi, il piano, frastagliato e capriccioso, della cronaca. Dietro a quell’interrogativo emergono problemi di principio che toccano il processo di rinnovamento della Chiesa e la stessa interpretazione del Cristianesimo in profondità. Occorre rivedere critica? Cfr. in particolare G. Girardi, Sandinismo, marxismo, cristianesimo: la

confluenza, Borla, Roma

1986, specialm. pp. 417-30; A. Colombo

(a cura

di), Religione, istituzione, liberazione, Borla, Roma 1983; AA.VV., La violenza dei cristiani, Cittadella, Assisi 1972; L. Newbigin, Una religione autentica per un mondo secolarizzato, Cittadella, Assisi 1971; P.E. Leger, L’uomoproblema sfida la Chiesa, Cittadella, Assisi 1970.

6

mente l’immagine dell’uomo che sta al centro delle posizioni assunte dagli ultimi papi. Per Giovanni XXIII l’uomo va sempre e sistematicamente al di là della lettera della norma. Sul formalismo giuridico e teologico vince l’uomo in carne ed ossa. Il primo gesto di quel papa indimenticabile fu nello stesso tempo semplice e rivoluzionario: la visita ai carcerati di Regina Coeli a Roma. Non solo: il ricordo, detto a loro con parole attinte non dai sacri testi ma dalla quotidianità più immediata e intellettualmente sprotetta, dei propri familiari, un giorno sorpresi a far legna in una riserva e quindi incarcerati. Come dire: sono uno di voi; conosco per esperienza diretta la vostra situazione; siamo tutti detenuti, incarcerati in questo mondo; contate su di me; sono uno dei

vostri. Questa sorta di «complicità papale» è un atto storicamente inedito. Non c’è più la cattedra di Pietro; c’è la mano tesa, l’abbraccio d’un essere umano a un altro essere umano; c’è il senso profondo e vissuto che nessuno è un'isola, che nessuno può salvarsi da solo; che i/ potere è un’occasione di colpa. Già in altra sede ho notato che con Giovanni XXIII,

con i suoi atteggiamenti pratici forse più che con il suo insegnamento esplicito, ha avuto inizio per la Chiesa un processo probabilmente destinato a durare a lungo nel tempo, nei decenni del prossimo millennio, un processo che forse non sarebbe errato o imprudente indicare come «la fine del Cristianesimo costantiniano». Questo figlio d’una famiglia contadina lombarda aveva imposto infatti il Concilio quasi come un consiglio di famiglia, una sorta di riunione familiare informale, con i suoi vescovi. Tutte le esperienze della Chiesa su scala mondiale andavano discusse e utilizzate per portare il Vangelo, allo stesso modo, in tutti i paesi della terra. La pratica secolare della diplomazia segreta del Vaticano, in cui eccelleva l’aristocratico Pio XII, straordinariamente versato nel diritto canonico e di casa presso tutte le cancellerie dei potenti, andava semplicemente abbandonata e dimenticata. Con l’enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII fissava i punti fondamentali per un nuovo ordinamento mondiale di pace e giustizia. s

Queste nuove prospettive, con riguardo alla struttura e al governo della Chiesa, trovarono poi, nel 1965, la loro espressione più autorevole nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Sembra indubbio che Giovanni XXIII riscopra e faccia valere, nella sua stessa condotta pratica come papa, la verità vissuta del «corpo mistico» in tensione polemica nei confronti della Chiesa gerarchicamente stratificata e anchilosata mentre esalta il «Popolo di Dio» quale categoria fondamentale e base del magistero ecclesiastico. La formula «servus servorum» riacquista il lui tutto il suo valore e la sua forza d’urto di pratica quotidiana al di là della connotazione puramente liturgica del rito formale?. Con Giovanni XXIII si ha finalmente la convalida, in termini pratici, della promessa evangelica che gli ultimi — i carcerati, gli esclusi, i segregati e gli emarginati — saranno i primi. Correlativamente, ciò sta a significare la rottura con i ceti dirigenti e i vertici sociali che sono spesso riusciti, sul piano storico, a unire, insieme e sotto

la benedizione della Chiesa, posizioni di oggettivo privilegio e autorevolezza morale. Ancora più esplosive sono le conseguenze, sul piano planetario, per quanto riguarda i rapporti con le altre religioni universali. Si può dire che con Giovanni XXIII la Controriforma della Chiesa cattolica si è finalmente chiusa e che la Chiesa di Roma si è aperta su un piede di sostanziale parità non solo verso i «fratelli separati» ma anche — ed è questa la novità assoluta — verso gli «uomini senza miti». Con questa formula Felice Balbo indicava quegli esseri umani i quali, pur non appartenendo ad alcuna chiesa o confessione religiosa, esprimono la convergenza fondamentale,

nella

loro

umanità

puramente

umana,

dei valori e dell’unità trascendentale delle religioni sto3 Cfr. il mio Oltre il razzismo. Verso la società multirazziale e multiculturale, Armando, Roma 1988, pp. 64-65. 4

* x

.

.

.

.

.

+

DARIO

.

Vedremo più avanti che fra i teologi odierni più critici della «teologia

classica» si parla ormai correntemente di «cristianità senza il nome».

8

riche positive. Si potrebbero forse definire anche, sulla scorta di Tertulliano, «naturaliter Christiani», se la semplicità delle loro virtù puramente umane, non li consegnasse, come cittadini ideali, a un orizzonte storico e religioso più ampio, più articolato e più mobile dell’ambito cristiano. In questo senso, quale che sia lo sviluppo futuro degli insegnamenti di Giovanni XXIII e del concilio da lui voluto, l’orientamento ecumenico legato a quegli insegnamenti e a quella pratica resterà per sempre esemplare. Con esso la Chiesa sembra tagliare i ponti con la civiltà euro-occidentale come unica depositaria dei valori dell’umanità civiles; si apre alle altre culture; appare disposta a scorgere nell’uomo e nella donna, indipendentemente dalla fede o dalla razza o dalla cultura, il centro unificatore e creatore del valore. La persona umana vale di per sé e in sé. Nessun crisma la può nobilitare o salvare dall’esterno; nessuna benedizione dall’alto la può nobilitare; esso è scopo, fine della storia e del proprio destino. Strumentalizzarla, anche a scopo di salvezza universale, vale a dire in vista della redenzione del genere umano, per trarlo dal fondo della caduta originaria e liberarlo dall’ossessivo «ricordo del frutto proibito», signi5 Cfr. F. Balbo, L’uomo senza miti, Einaudi, Torino 1945, pp. 13-15: «I

piccoli machiavelli delle decadenze dicono chiaramente coi loro esseri che il Grande Machiavelli ha bisogno di cuore, di anima, che senza i profeti (che per il Machiavelli sono disarmati) il mondo non può andare avanti, che il mondo muore senza santi. Il Grande Machiavelli è più di Machiavelli, è tutto l’uomo:

è anche profeta perché non si accontenta di dire «se gli uomini fossero buoni...», ma li fa buoni e si fa anche ammazzare da loro affinché vivano e si facciano migliori, conosce gli uomini come sono solo per farli essere come devono essere. Allora si comprende che il machiavelli è solo un mezzo per l’Uomo, ed è, come il suo opposto profeta disarmato, polvere che si perde, vanitas vanitatum. Sono uomini senza sangue e animalità senza Uomo, uomini non accesi, uomini che non soffrono con il mondo, che si condannano al nulla ... La fede nel Dio ignoto della coscienza oggi torna come ai primi tempi del Cristianesimo ultimi del mondo greco-romano e ci appare come la più nobile ed alta presa di Rione, la vera attitudine dell’uomo che non ha la Rivelazione, dell’uomo solo.. © Si veda in proposito, Di una prima formulazione del problema, il mio articolo Cristianesimo e limiti della cultura occidentale, in «Mondo economico», 19 maggio 1963; ora nel mio /dee per la nuova società, Vallecchi, Firenze

1966.

fica misconoscerne o tradirne le prerogative essenziali di creatura capace di creazione e di auto-creazione,

almeno

nel senso di una auto-consapevolezza che costituisce e garantisce l’autonomia della persona, quella che, con un bisticcio forse tollerabile, potremmo chiamare la «personalità» della persona”.

3. La rottura con la Chiesa dei concordati Come siamo lontani dalla Chiesa che firmava compromessi concordatari con regimi per principio e per prassi nemici della persona, come quelli fascisti e nazisti, op-

pure con le più recenti dittature che hanno insanguinato per anni l’ America Latina. E del resto, non è forse vero che tutti i governi assolutistici hanno avidamente ricercato la legittimazione attraverso -l’approvazione della Chiesa in base al principio «A Deo rex — a rege lex»? E straordinario dover notare, ad ogni buon conto, come dalla donazione di Sutri in poi, la Chiesa si sia sempre, programmaticamente, schierata dalla parte dell’ordine costituito, offrendo solidi argomenti a critici della religione che ne approfittavano per ridurre il fenomeno religioso a «narcotico del popolo», a inganno delle masse, in ogni caso a miserabile fenomeno residuale, destinato a scomparire con il progresso della razionalità fra gli uomini e nel mondo?*. La situazione ha commosso non solo

i pensatori «forti» dell’Illuminismo, ha anche acceso la ? Cfr. H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Comunità, Milano 1950, p. 3: «Il ricordo del frutto proibito è quello che c’è di più vecchio nella memoria di ciascuno di noi, come in quella della intera umanità. Noi ce ne accorgeremmo, se questo ricordo non fosse ricoperto da altri, ai quali preferiamo riportarci. Cosa non sarebbe mai stata la nostra infanzia se ci avessero lasciato fare! Saremmo passati di piacere in piacere. Ma ecco che un ostacolo sorgeva, non visibile né tangibile: una interdizione». 8 La concezione della religione come «oppio del popolo», un topos della propaganda marxistica nella sua forma ingenua e popolareggiante, ha ricevuto, insieme con la teoria della secolarizzazione, un rude colpo dagli eventi postconciliari e dalla ripresa d’una religiosità militante, tanto moralmente intransigente quanto politicamente attiva, contro i potentati economici e politici dominanti.

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fantasia dei poeti: «Per coloro ai quali la terra non ha più niente da offrire viene inventato il cielo [...] Evviva questa invenzione! Salute a una religione che versa nel calice amaro dell’umanità sofferente alcune gocce di dolce sonnifero, di oppio spirituale, qualche goccia d’amore, di speranza e di fede»?. AI di là della stereotipata e qualche volta francamente volgare propaganda anti-clericale, che ha generalmente visto il prete al servizio dei potenti e dei gruppi sociali privilegiati, del tutto immemore dell’evangelico «Vae divitibus!», occorre riconoscere che la Chiesa si stabilisce

come forza istituzionale consolidata solo al cessare delle persecuzioni imperiali dopo che, nel 312 dell’era volgare, ottiene lo status di «religio licita» dall’imperatore Costantino, figura quanto mai ambigua e rotta a ogni opportunismo pur di trionfare sugli avversari politici, tanto da far dipendere dal legame con la Chiesa e in generale con il Cristianesimo la sua stessa fortuna di capo militare e di suprema istanza di potere nell’impero ormai ipa €rasiio, Che fra la nuova teologia politica cristiano-imperiale e quella, classica, che faceva dell’imperatore il capo politico e il capo religioso dell’impero, tanto da unire strettamente religione e politica, corra un rapporto di continuità tale da rendere le due fasi contrarie e simmetriche, mi appare questione in sé ardua, che richiederebbe esami anche filologici approfonditi dei testi, purtroppo frammentari, di Marco Terenzio Varrone e di altri autori, che

hanno a fondo riflettuto sulla theo/ogia tuiva la base della religio publica dello che, oggi ancora, ha una distinta eco quali, in nome di un potere decisionista autonomo ° H.

Heine,

civilis che costiStato romano e in quei giuristi i e sovranamente

rispetto alla società, tendono a legittimare il Historisch-kritische

Gesamtausgabe

der

Werke,

vol.

XI,

Hamburg 1978, p. 103; su questa problematica si veda il mio Una teologia per atei, Laterza, Roma-Bari

1983.

10 Si vedano su Costantino i contributi di Santo Mazzarino; in particolare, per una interpretazione d’insieme, si veda S. Mazzarino, antico, nuova ed., Rizzoli, Milano 1987.

1l

La fine del mondo

potere non.in base alle domande della società ma solo in base alla sua capacità-facoltà di decidere, confondendo per questa via autorità come autorevolezza e autorità come bruto autoritarismo!!. La rottura con questo passato, operata da Giovanni XXIII, è clamorosa. Ma anche per questo il suo ulteriore sviluppo doveva incontrare ostacoli di grande momento. La teologia politica cesaro-papistica doveva necessariamente scontrarsi con il nuovo orientamento e cercare, con ogni mezzo — dalla denuncia delle innovazioni liturgiche, volute da Paolo VI, come innovazioni diaboliche alla ripresa della diplomazia segreta, per definizione subalterna alla ragion di Stato — di frenarne lo sviluppo. Il vescovo tradizionalista Marcel Lefebvre, già ordinario militare delle colonie francesi dell’Africa orientale, diviene il punto di riferimento e di raccolta delle forze cattoliche più retrive, timorose che la libertà all’interno della Chiesa possa determinare l’offuscarsi dell’idea del prete tenuto non solo al celibato, ma in primo luogo all’obbedienza e al rispetto della gerarchia ecclesiale, e che le aperture papali alle questioni della giustizia sociale finiscano per scuotere la piramide del potere vigente, travolgendo gli interessi costituiti. Mentre nell’enciclica Populorum progressio Paolo VI, pur fra incertezze sia di ordine morale sia, più ancora, di ordine conoscitivo, specialmente con riguardo agli aspetti economici, riconosce l’autonomia dei paesi del Terzo Mondo, il loro diritto di disporre da sé, in prima persona, delle ricchezze naturali che loro appartengono e cerca di sottrarre il Cristianesimo alla esclusiva tutela della civiltà euro-occidentale, egli perde la battaglia per il rinnovamento della Curia romana. La Chiesa continuerà ad essere governata al centro e dall’alto. I cattolici del dissenso e le comunità di base non interromperanno la loro lotta, ma non v’è dubbio che la battaglia si fa sempre più difficile. Può ben darsi che non sia del tutto !! Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie: Vier Kapitel zur Lehre von der Souverdinitàt, 1922; edizione riveduta e aumentata Duncker und Humblot, Berlin 1934.

2A

legittimo ridurre i comportamenti della Chiesa ufficiale di questo periodo sotto l’unico scopo di salvare la burocrazia della Curia romana, vista come intrinsecamente gerarchica e per definizione anti-democratica. Può essere che il principio della pars sanior non sia altro, in sé, che un salutare correttivo

della prassi democratica,

ad

evitarne l’impaludamento e la stagnazione dovuta al reciproco neutralizzarsi di forze contrarie e simmetriche, e

che quindi non ne comporti necessariamente la distruzione. Può essere che il pluralismo delle prospettive e delle posizioni, anche all’interno della chiesa, sia un fattore di dinamismo e di confronto dialettico, che troverebbe, tutto sommato, una convalida nel fatto stesso che il Cattolicesimo è intellettualmente assai più vivace nei paesi in cui più forte è stata la resistenza contro l’infallibilità papale, come in Francia, mentre in Italia, a parte la breve stagione modernistica, nulla vi è che si avvicini alla militanza spregiudicata di uomini come Ernest Hello, Louis Veuillot, Léon Bloy e così via.

4. Cade il vento dello spirito In Italia l’infallibilità papale e l’obbedienza abitudinaria alla gerarchia hanno certamente contribuito a porre in essere

un

cattolicesimo

bacchettone,

intellettualmente

povero e portato all’opportunismo privo di salde convinzioni. Ma è anche vero che neppure il principio democratico va assolutizzato senza il rischio di negarlo. La prassi democratica è di per sé un problema; non è la soluzione. Sta di fatto che con Paolo VI lo spirito del Concilio comincia a declinare. Il vento del rinnovamento cade. Si avverte una certa stanchezza. L’acuto senso problematico e la raffinatezza intellettuale di Paolo VI, un papa

nutrito di cultura francese, da Jacques Maritain al personalista e comunitario Emmanuel Mounier, vengono agevolmente scambiati per congenito amletismo. Lo scrupolo teologico passa per debolezza. E tuttavia, l’im13

magine dell’uomo che Paolo VI intrattiene rende giustizia alla complessità in cui si trova avviluppato e per certi aspetti prigioniero l’uomo moderno. L’uomo stesso, del resto, non è più visto come un dato. Si ritiene che non abbia natura, come la tavola o la pietra. Si comprende che l’uomo ha storia, che si sviluppa e diviene e avanza e talvolta subisce scacchi e drammaticamente indietreggia nella storia, in questa impresa che riassume lo sforzo collettivo, che non è mai generale, sovramondana, bensì pratica, immersa nel quotidiano, grondante di sudore e di sangue. Paolo VI è, in un senso che solo ai superficiali potrà apparire paradossale, «sartriano». Egli vede l’uomo in situazione. Non si può giudicare in astratto. Lo stesso peccato perde la sua assolutezza metafisica, di offesa all’equilibrio cosmico. L’uomo va giudicato nella sua situazione specifica, nei termini datati, storici, delimitati e delimitanti in cui si trova a vivere la sua vita. E difficile comprendere quella parte di responsabilità che i vescovi, nel Rapporto sulla fede, si sono accollata per l’allontanamento dalla Chiesa, specialmente da parte dei giovani, senza tener presente la concezione dell’uomo di Paolo VI. Nella stessa prospettiva il Sinodo dei vescovi ha preso posizione su due questioni qualificanti: a) le riforme sociali nel mondo esterno e, correlativamente,

il rinnovamento

interno della Chiesa;

b) la comprensione ecumenica tra le confessioni cristiane e il dialogo con tutte le principali religioni del mondo. Quanto al primo punto, la Chiesa ha dato prova di un coerente ed esplicito atteggiamento anti-razzistico, per il rispetto dei diritti umani, contro la corsa al riarmo, la privazione delle libertà elementari, il disprezzo della famiglia, gli investimenti per motivi bellici in concomitanza con i tagli delle spese sociali. Il rinnovamento interno ha certamente segnato il passo, ma almeno non si è proceduto, come da taluno si sperava, sulla strada della «restaurazione» aperta mentre si è riaffermata la necessità del ministero collegiale dei vescovi con il papa. A proposito, invece, dell’ecumenismo, una bella, per 14

quanto modesta, vittoria dello spirito del Concilio è stata quella che ha bloccato l’incorporazione, in una posizione inevitabilmente subalterna, del Segretariato per l’unità dei Cristiani nella Congregazione per la dottrina della fede, diretta dal cardinale Joseph Ratzinger, notoriamente favorevole a una estrema centralizzazione dell’autorità. Il documento del Sinodo e la relazione d’accompagno del cardinal Joseph Ratzinger tacciono però su questioni vitali. Quando non tacciono sui problemi, taccio-

no maestosamente sulle vie da battere per risolverli sul piano pratico. E incredibile che non si faccia cenno delle questioni che più direttamente toccano la vita quotidiana del fedele e più o meno pesantemente la condizionano: controllo delle nascite, ammissione dei divorziati alla comunione, celibato o matrimonio per i sacerdoti, posizione della donna nella Chiesa e nella società, comprensione ecumenica — quest’ultima non solo quanto a

dichiarazioni di principio, ma dal punto di vista delle iniziative pratiche di dialogo, incontro, discussione paritaria di problemi comuni, riconoscimento della Santa Cena delle altre chiese, liturgia della preghiera in comune e soprattutto raccomandazione della preghiera ecumenica. Si ha l’impressione che, dietro la cortina delle parole in apparenza progressive e aperte sul futuro, attraverso le omissioni e i silenzi, la Curia del centro abbia messo a punto un suo piano, strategico e tattico, per il recupero

delle posizioni perdute

con Giovanni

XXIII

e solo in

parte riconquistate con Paolo VI. E chiaro che la concezione dell’uomo è cambiata. Siamo tornati al diritto canonico medioevale, che del re-

sto non era mai stato abbandonato ma solo riadattato ai tempi oderni. L’uomo torna ad essere un dato fisso, un «oggetto» da controllare e su cui vigilare, paternamente, dall’alto. Giovanni Paolo II, privo nella sua storia personale di un passato democratico, papa che viene dalle trincee, che si può ben immaginare avanzante sugli scudi e con la corazza di un nuovo Giulio II, e per il quale il dogma va inteso come dato immodificabile, sacralmente astorîco, incarna mirabilmente il nuovo corso. La du15

rezza con cui ha criticato e finalmente condannato la «teologia della liberazione», obbligando al silenzio alcuni dei suoi più articolati esponenti, l’incomprensione di cui ha dato ampia prova con riguardo al dramma dei po-

poli latino-americani, ne sono la conferma. Si è cercato di dare un’interpretazione pretestuosa della «teologia della liberazione», come se questa nascesse da elucubrazioni puramente personali, e quindi esprimesse, al più, esigenze e frustrazioni individuali. Ma la liberazione su cui questa teologia riflette criticamente ha uno spessore sociale che va al di là delle vicende, pur importanti, dei singoli cultori: si tratta della nuova coscienza che masse umane, da tempo immemorabile immerse nella miseria e alle prese con la penuria e la precarietà endemica dei mezzi di sussistenza, vanno acquistando circa il loro diritto alla vita non subumana, alla dignità, al benessere. La povertà era un tempo dalla Chiesa additata e spie-

gata come un destino, l’opera misteriosa di una Provvidenza tanto sollecita degli esseri umani quanto imperscrutabile nei suoi disegni, all’occorrenza crudele. Ciò non è più accettato. La verità che sta al fondo e muove la teologia della liberazione è semplice: i poveri vogliono liberarsi dalla povertà cui sono costretti senza responsabilità e senza colpa. Si fa strada l’idea che i problemi dell’individuo povero non sono una questione solo individuale. Esiste una povertà determinata da fattori strutturali contro i quali non può nulla, o quasi nulla, la buona volontà individuale. I poveri sono in movimento, dentro la Chiesa, con la Chiesa, se necessario contro la

Chiesa. La Curia ha finito di dormire sonni tranquilli. I poveri sono stanchi di palliativi o di pannicelli caldi, di buone parole e di prediche che raccomandano la rassegnazione. I poveri vogliono la propria liberazione; vogliono una liberazione integrale. Il primo livello è quello della liberazione economica, politica e culturale dei popoli latino-americani; il secondo si realizza con la liberazione dell’individuo, dell’uomo specifico; il terzo è la liberazione dal peccato — una liberazione, quest’ultima, che è nello stesso tempo comunicazione con Dio e dia-

logo con i fratelli, coronamento 16

di tutto il processo di

emancipazione. Sono tre livelli uniti da un legame dialettico. Sono distinti, ma non separati. Si richiamano necessariamente l’un l’altro. Nessuno di questi livelli, preso a sé, costituisce la soluzione del problema della dipendenza. La dipendenza è un fenomeno globale. Non ci si può liberare economicamente senza liberarsi nello stesso tempo culturalmente e politicamente, senza d’altro canto, riconoscersi nella suprema eguaglianza che trova compimento nella trascendenza.

5. La teologia fra principî e storia Il nodo irrisolto della «teologia della liberazione» è dato dal rapporto fra liberazione dal peccato — e riconoscimento della trascendenza — e liberazioni storico-politiche. Per comprendere la natura di questo nodo e per avviare un processo di scioglimento, descrizione e spiegazione del nodo stesso, è preliminarmente essenziale determinare con la massima accuratezza l’intento profondo della teologia della liberazione. Nelle parole di uno degli esponenti più in vista, «la ‘teologia della liberazione’ è un tentativo di comprendere la fede dal punto di vista della prassi storico-liberatrice e sovversiva dei popoli di questo mondo, delle classi sfruttate, delle razze disprezzate, delle culture emarginate»!:. Sono sufficienti queste scarne frasi per far comprendere come la teologia della liberazione si configuri come teologia in antitesi con la teologia classica, o della tradizione. La teologia classica è una dottrina riflessa, che presume l’attingimento del piano discorsivo scientifico in senso pieno. La teologia della liberazione invece fa appello e si costituisce come «sapere comune» o «conoscenza ordinaria», strumento pratico di intervento su una situazione storica determinata. Non parte dalla Parola biblica, come prius assoluto. Parte invece dalla situazione stori!? G. Gutierrez, p. 46.

La forza storica dei poveri, Queriniana,

17

Brescia

1981,

ca determinata ed è infatti una riflessione critica «fatta dalla e sulla prassi storica confrontata con la Parola del Signore [...], una riflessione nella e sulla fede che si realizza a partire da un’opzione e da un impegno; a partire dalla solidarietà reale ed effettiva con le classi sfruttate» !3. Si noti bene: il punto di partenza non è la parola del Vangelo né l’insegnamento dell’ Antico Testamento. Il punto di partenza è: l’opzione, l’impegno, la solidarietà. Si parte dal basso. La «démarche» tradizionale, che dai principi scendeva al piano pratico per assorbirlo nell’empireo dei principi da cui si partiva, è rovesciata. Il primato della prassi è fuori discussione. Ciò spiega, o quanto meno rende plausibile, l’attenzione che i teologi della liberazione prestano alle circostanze storiche ed economiche di fatto dell’ America Latina. Sono teologi che lavorano, riflettono e intervengo-

no in un contesto specifico. Si legano a lotte politiche e sindacali a breve e a medio raggio, non per sfuggire alla meditazione sui grandi principi, ma, a quanto è dato di vedere, per non evadere dal presente e dai problemi che lo caratterizzano, oggi, qui e adesso, in nome della grande teologia classica. In questo senso, la «teologia della liberazione» si ricollega con il primo dissenso cattolico e chiarisce, una volta di più, le funzioni conservatrici della

religione istituzionalizzata. Questo chiarimento non si contenta d’una lata definizione concettuale. Cerca esempi e li trova, eloquenti, per citare un caso specifico, nella genesi stessa della pedagogia cristiana.

Questa,

è stato osservato,

«non

di-

scende certamente dalla formulazione del messaggio cristiano, ma

deriva dal processo

di istituzionalizzazione

della religione. Questo processo si è realizzato a tre livelli: il culto, la definizione intellettuale del messaggio religioso e l’organizzazione» !4. 13 Ivixp.75: 14 A. Sbisà, // primo dissenso cattolico, Le Monnier, Firenze 1976, p. 7; si veda inoltre la tesi di Marcello Azevedo, Communantés ecclésiales de base L’enjeu d’une nouvelle manière d’étre Eglise, Le Centurion, Paris 1986, secondo cui le «comunità di base» sarebbero il risultato dell’iniziativa consape-

18

In tutti e tre i livelli è assente /a dimensione dell’autodeterminazione individuale e di gruppo. La struttura di potere domina la religiosità della persona. Le condizioni economiche e politiche di fatto vengono, d’altro canto, scotomizzate dalla discussione sulle questioni di principio. Non dovrebbe dunque meravigliare che l’ordine sociale esistente sia stato metafisicamente, anche se surret-

tiziamente, legittimato. Le potenzialità rivoluzionarie e utopiche della religione biblica e del Cristianesimo sono state smussate, sussunte nello schema logico del discorso filosofico di ascendenza classica greca. Il potenziale sovversivo di quei messaggi è stato ricondotto nel solco delle categorie filosofiche correnti. La «teologia della liberazione» rompe con questa tradizione. La teologia la si fa a contatto diretto con le circostanze di fatto della gente e con i rapporti materiali di vita in cui entrano necessariamente fra di loro i conviventi. Per questa via Leonardo Boff lega la cristologia

della tradizione alla lotta politica immediata dell’uomo latino-americano. Viene obliterata la dichiarazione di Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo». Per Boff, Cristo annuncia una «risposta» che è già attuale, presente e attiva nella storia che si va facendo. Non è per domani. La sua «risposta» è già per l’oggi. Le formule cristologiche devono dunque rispondere alle domande dell’uomo latino-americano che è alle prese con i problemi di emancipazione sociale e culturale di oggi. Non si tratta dell’uomo in generale, cui prestano assorbente attenzione la filosofia e la teologia tradizionali. Il discorso di Boff non è essenzialistico. È radicato storicamente. È immediatamente traducibile in iniziativa politica. Le sue sono idee-forza, idee da usarsi come proiettili. L’aspetto forse più interessante negli scritti di Boff è da vedersi nel suo tentativo di ricreare le condizioni della vole e concertata del clero e dei religiosi e non sarebbero sorte spontaneamente dal basso; cfr. contra C. Moiari, M. Cuminetti, L. Della Torre, E. Chiavacci, E. Balducci, A. Hortelano, dapiccoli gruppi nella Chiesa, Cittadella, Assisi 1970; si veda anche L. Berzano, Partecipazione sociale e nuove forme religiose (con introd. di F. Barbano), Cooperativa Edizioni, Torino 1977.

19

Palestina al tempo di Gesù, di contestualizzare le parole di Gesù facendole scendere dal piano teologico ed escatologico al piano della quotidianità. Questa storicizzazione di Gesù costituisce evidentemente un pericolo per la gerarchia ecclesiale, avvezza e maestra sapiente nel rinvìo indefinito dell’impegno pratico, che è compromettente e mai totalmente risolutivo. Questa tecnica del rinvìo è nettamente rifiutata da Boff. Il Regno di Dio non significa per lui soltanto la «liquidazione del peccato, ma di tutto ciò che il peccato significa per l’uomo, per la società e per il cosmo. Nel regno di Dio il dolore, la cecità, la fame, le tempeste, il peccato e la morte non esisteranno più»!5.

6. La Chiesa come

struttura di servizio

e non di potere Non è una vana promessa da confondersi con quelle dei sermoni pastorali d’un tempo. La riflessione teologica di Boff è pienamente comprensibile solo tenendo presenti le caratteristiche dell'ambiente in cui viene svolgendosi, che è quello della Chiesa brasiliana. Le esperienze di base che Boff ha compiuto lo inducono a parlare di una necessaria «reinvenzione della Chiesa». Di fatto, a suo giudizio, «la Chiesa comincia a nascere dalla base, dal

cuore del popolo di Dio. Questa esperienza mette in crisi

il modo comune di pensare la Chiesa»!. Qui la teologia della liberazione si ricollega senza soluzione di conti!5 L. Boff, Gesù Cristo Liberatore, Cittadella, Assisi 1982, p. 56; ma il clima spirituale di questo cristianesimo militante di base, in radice anti-for-

malista e anti-gerarchico, è forse da ricercarsi in testimonianze che vanno al di là degli studi teologici e della pubblicistica politica; per esempio, in Léon Bloy, Le sang du pauvre, trad. it. Studio Editoriale, Milano 1987, p. 47: «Quei preti sono realmente spaventosi. Per merito loro il ricco è reso solido, come il cristallo con l’acido solforico, [...] Gesù è sull’altare, nel suo tabernacolo. Che ci resti. Noi, i suoi ministri, abbiamo i nostri affari, consistenti

nell’arraffare denaro con tutti i mezzi compatibili o incompatibili con la dignità della nostra sottana». !° L. Boff, Ecclesiogenesi, le comunità ecclesiali reinventano la Chiesa, Borla, Roma

1978, p. 47.

20

nuità alle esperienze dei cattolici del dissenso, in Italia e

altrove, e alle lotte delle comunità di base. Si pensi all’esempio di dom Giovanni Battista Franzoni. Anche nel caso dell’ex-abate di San Paolo fuori le Mura «la categoria popolo di Dio e Chiesa-comunione permette di redistribuire meglio la sacra potestas all’interno della Chiesa. Obbliga a ridefinire il compito del vescovo e del prete. Permette il sorgere di nuovi ministeri e di uno stile di vita religiosa incarnata nei ceti popolari. La gerarchia si fa puro servizio interno e non la costituzione di strati ontologici che aprono la strada a divisioni interne al corpo ecclesiale e a vere classi diverse di cristiani» !7. I difensori dell’ortodossia sono pronti a fronteggiare queste istanze critiche che arrivano al cuore del problema e che minacciano l’esistenza stessa della Chiesa costantiniana. Essi possono accettare che, in talune situazioni storiche, «il popolo sia stato espropriato dalla gerarchia e dal clero dei mezzi di produzione religiosa» siccome però la Chiesa — sottilmente argomentano — accanto all'elemento istituzione ha sempre anche e soprattutto l’elemento carismatico (lo Spirito, la salvezza del Cristo risorto), essa non è mai stata, né potrà essere, totalmente condizionata dalle deformazioni dell’istituzione, createsi dai condizionamenti storici. Oggi, anzi, ci sono segni che «l’esperienza della Chiesa come potere stia appressandosi al sospirato tramonto». Tale mutamento si deve proprio alla nuova genesi di Chiesa che viene dal popolo, in particolare dalle comunità ecclesiali povere. !8

La nuova genesi della Chiesa postcostantiniana non è tuttavia un idillio. Si viene sviluppando lentamente e oscuramente, al basso, coperta da pregiudizi che, come ha scritto il vescovo di Ivrea, Luigi Bettazzi, «spesso vengono presentati come necessità teologiche». Lo sforzo di dom Franzoni, secondo mons. Bettazzi, è quello di battersi «contro la strumentalizzazione della religione; !7 I. Boff, Chiesa e carisma, Borla, Roma 1984, p. 20. 18 Rua

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da I LIMITI DELLA SCIENZA E IL SUO ILLUSORIO TRIONFO

1. La vendetta differita delle scienze del pressappoco E curioso che un critico così acuto e, per certi aspetti, preveggente dell’Illuminismo come Friedrich Nietzsche finisca per sposarne l’interpretazione a proposito di un tema fondamentale come quello della religione. Questa viene presentata come inganno di massa, puro «oppio del popolo», subdolo mezzo per addormentare le masse. Il corollario di questa affrettata concezione del fenomeno religioso è intuibile: quanto più avanzerà la raziona-

lità e il mondo sarà rischiarato dai «lumi» della ragione, tanto più si restringerà l’ambito del religioso fino alla sua totale e definitiva scomparsa. Può darsi che questa concezione superficiale sia da addebitarsi all’irritante sovrabbondare statistico di preti e monache o anche, più semplicemente, alla sistematica violazione del secondo comandamento che avrebbe dovuto proibire o quanto meno scoraggiare di nominare il nome di Dio invano, specialmente da parte di coloro che hanno un commercio quotidiano e una sorta di giurisdizione professionale su quanto attiene alla divinità e ai poteri extraquotidiani!. ! Cfr. T. Goffi, Nominare il nome di Dio, in «Rivista di Teologia morale», XVI, 64, ottobre-dicembre 1984, pp. 535-38: «Storicamente Dio ha affi-

dato il nome Jahvé ad Israele perché lo glorifichi, perché lo faccia conoscere presso gli altri popoli. [...] La sacra Scrittura precisa che il nome di Dio deve

69

Si danno certamente alcuni inconvenienti della familiarità. È stato notato che Omero doveva essere irreligioso, dato che era di casa fra i suoi dèi e con essi si comportava così liberamente: «come lo scultore si comporta con la sua creta, cioè con la stessa disinvoltura che possedettero Eschilo e Aristofane, e per la quale si distinsero in epoca più recente i grandi artisti del Rinascimento, come anche Shakespeare e Goethe»?. Ma lo stesso autore è pronto a mettere in guardia contro le pretese del «sentimento religioso» e le sue insidie: Chi oggi fa nuovamente posto in sé al sentimento religioso, lo deve poi anche lasciar crescere, non può fare altrimenti. Allora gradualmente il suo essere si modifica, egli preferisce ciò che è annesso e connesso all’elemento religioso, l’intero circolo dei giudizi e dei sentimenti si copre di nuvole, sorvolate da ombre religiose. Il sentimento non può fermarsi; stiamo dunque in guardia.?

D’accordo. Stiamo in guardia. Ma contro chi? Contro che cosa? L’imperialismo interiore, per così dire, sarebbe dunque un attributo necessario e ineliminabile della religione. Ed è questa la ragione per cui «il cristianesimo sorse per alleviare il cuore; ma adesso deve prima opprimerlo, per poterlo poi alleviare. Per conseguenza essere invocato non astrattamente,

ma secondo concrete moralità storiche.

[...] La storia salvifica, narrata nella Scrittura, ci reca esempi sul come il nome. di Dio sia stato pronunciato talvolta invano e talvolta con devozione, cioè reso storicamente vacuo o pregnante di grandezza salvifica. [...] Nella Scrittura si supplica Dio a santificare il nome suo. Che cosa significa? A Dio si chiede non tanto di santificare il suo nome, che è già interamente e pienamente santo, ma di rendere noi santi così da saper testimoniare nella nostra esi-

stenza la santità del suo nome. Quando nella preghiera ebraica (Qaddis) e in quella evangelica (Matteo, 6, 9; Luca, II, 2) si chiede a Dio padre ‘sia santificato il nome tuo’, lo si supplica affinché renda la nostra esistenza testimonianza palese della sua misericordia». Si nota, da parte di numerosi teologi, lo sforzo inteso a interpretare i testi nel senso di una «teologia politica», contro le versioni privatizzanti del messaggio di Gesù, e di una «teologia della speranza», per cui in ambito protestante si è tentata una traduzione della speranza escatologica su un preciso piano storico e sociale; cfr. anche J. Comblin, Secolarizzazione: miti, realtà, problemi, in «Concilium», n. 7, 1969.

? F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, Adelphi, Milano 1965, p. 101.

3 Ivi, p. 100.

70

perirà». Come conciliare questa previsione la cui sicurezza è troppo esibita per non far temere una sua fragilità di fondo, con l’idea, francamente scientistica, che «quanto più l’ambito delle religioni e di ogni arte di narcosì si restringe, tanto più seriamente gli uomini si preoccupano di eliminare effettivamente le cause dei mali?»4. Questa nozione,

che tende a ridurre il fenomeno

re-

ligioso a una narcotizzazione di massa sulla quale per secoli i preti avrebbero bellamente campato, oggi si presenta, nel migliore dei casi, come una astuzia del concetto, e piuttosto grossolana per giunta. Esprime bene quell’entusiastico romanticismo della scienza che, dopo Auschwitz, Hiroshima e la crisi odierna dei sistemi ecologici, ha fatto il suo tempo, lasciandosi dietro una congrua scia di stermini, disastri, collere e delusioni. Accade allora che appunto le scienze dubbie, quelle cui sembrava difficile, se non impossibile, riconoscere uno status scientifico a livello pieno, in particolare le scienze sociali, godano oggi di una sorta di vendetta differita. Le scienze del pressappoco sono quelle che emergono vincenti.

2. Le critiche interne alla scienza E tuttavia, sarebbe incauto gioire. Il godimento potrebbe rivelarsi prematuro. Anche queste scienze da sempre problematiche mostrano carenze e limiti gravi. Il loro patetico tentativo di imitare le scienze impropriamente dette «esatte» le ha consegnate a una impostazione quantitativistica che ne riduce seriamente le potenzialità, mentre viene pomposamente mostrata quale indiscutibi-

le certificazione di scientifico rigore. E sufficiente pren4 Ivi, p. 89. È forse opportuno ricordare che la secolarizzazione, nell’ottica di Leonardo Boff, «si presenta come un’esigenza di autonomia, rivendicata dalla modernità, delle istanze di razionalità-politica, scientifica, econo-

mica, antropologica» (cfr. L. Boff, Quando la teologia ascolta il povero, Cittadella, Assisi 1984) per cui «la chiesa cessa di essere considerata l’unica mediatrice della grazia e del progetto storico di Dio» (/bid.).

71

dere una certa distanza per rendersene conto. Hanno sempre tutte le risposte pronte. E un vero peccato che non sappiano più quali siano i problemi. I sintomi esterni del loro disorientamento non mancano: l’eccesso di attivismo strumentale, la scotomizzazione del #é/0s, il lo-

ro successo mondano, fra la folla degli hommes d’argent dediti al commercio all’ingrosso su scala planetaria, dei politici, degli amministratori e dei mass-media. Da un punto di vista «interno» più profondo, le loro falle risultano

impressionanti

e risalta, d’altro

canto,

la ten-

denza inconsapevolmente autodistruttiva a scorgervi il segno certo della rispettabilità sociale e la conferma dell’avvenuto consolidamento: la profanazione dell’altro; l’utilizzazione predeterminata del non ancora pensato; quindi, inevitabilmente, l’atrofia del pensiero, il venir meno della sua nativa fluidità involontaria. E però tutto l’universo scientifico che oggi appare dominato dal senso di una precarietà endemica che ne intacca ed erode i fondamenti. Non è solo il neo-pirronismo di Francisco Sanchez a spargere dubbi sulla conoscenza scientifica e sulla sua validità. Il gustoso testo di Quod nihil scitur va forse inteso più in senso pedagogico che strettamente metodologico. Le questioni che solleva restano aperte. L’insegnante, alla fine del suo incessante indagare, si rivolge al giovane discepolo per essere in qualche modo «insegnato»: «Se mai acquisterai un qualche sapere, insègnamelo. Te ne sarò grato». L'importante è che non si spenga la coscienza problematica. Ben altro peso hanno le istanze critiche che alla scienza sono

mosse

dall’interno.

Edmund

Husserl

osserva,

nelle pagine iniziali della sua opera più nota, se non maggiore, che «il positivismo decapita, per così dire, la filosofia», ma non vi può essere alcun dubbio che egli ° Cfr. F. Sanchez, // n’est science de rien, Klineksieck, Paris 1984; è la traduzione francese, a cura di Andrée Comparot, dell’originale latino, del 1581, riveduto e in qualche parte modificato sulla base dell’edizione del 1636. © E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascen-

dentale, trad. it. a cura di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 39; per

U2

abbia, se non decapitato, seriamente ferito la sicurezza del procedimento scientifico e scosso le basi della sua legittimazione. Resta naturalmente in piedi l’interrogativo, per Husserl ma più ancora per tutti gli antipositivisti di maniera, che sono legione, come si possa decapitare la filosofia senza fare filosofia. I rilievi critici di Husserl rispondono a questo problema investendo un retroterra storico e culturale specifico, al di là della riflessione metodologica interna alla ricerca scientifica. Husserl assume qui il tono di uno storico delle idee: «L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venire determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla ‘prosperity’ che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per una umanità autentica». Si ha l’impressione che questi problemi decisivi Husserl li conosca da sempre. Che cosa poi sia l’autenticità dell’uomo, Husserl sembra già saperlo ancor prima di dare

inizio alle sue ricerche. Coincide con un suo implicito principio di preferenza. E un suo assunto meta-teorico, un concetto-limite che guida e nello stesso tempo giustifica, orientandola, l’indagine. Al «rivolgimento rivoluzionario» del Rinascimento*, in base al quale si ritiene che «l’uomo antico è quello che plasma se stesso esclusivamente in base alla libera ragione», Husserl osserva — con malcelata e forse contraddittoria ammirazione — che «la ragione è il tema esplicito delle discipline della conoscenza (cioè della conoscenza vera e autentica, razionale), della vera e autentica valutazione (i valori aualcuni cenni alla «crisi della razionalità scientifica», mi si consenta di rinviare

al mio // paradosso del sacro, Laterza, Roma-Bari 1983, specialmente al cap. III, La ragione contro se stessa, pp. 41-70.

? Husserl, op. cit., p. 35. 8 Circa la nozione di «rivoluzione scientifica» cfr. I. B. Cohen, La rivoluzione nella scienza (1985), trad. it. di L. Sosio, Longanesi, Milano 1988; in

sei parti, il libro tratta della «rivoluzione» come concetto dinamico, da un punto di vista sistematico e storico, di Copernico, Bacone, Descartes, Galileo, Newton, Harvey, della «rivoluzione chimica» di Lavoisier, della «rivoluzione

copernicana» di Kant, Darwin, Saint-Simon e Comte, Marx e Engels, Freud, e infine.del Novecento,

secolo rivoluzionario per eccellenza.

73

tentici come valori razionali), dell’azione etica (l’azione veramente buona, l’azione fondata sulla ragione pratica); la ragione è cioè un titolo sotto cui si raccolgono le idee e gli ideali ‘assolutamente’, ‘eternamente’, ‘sovratemporalmente’, ‘incondizionatamente’, ‘validi’»?.

In questa sovraesaltazione della ragione Husserl scorge un limite grave, la radice stessa della crisi destinata a pesare sull’umanità, e quindi non solo sulla scienza o sulle discipline del sapere teorico, come minaccia di inautenticità,

perdita

del senso

dell’orientamento.

Di

fatto: «la crisi della filosofia equivale a una crisi di tutte le scienze moderne in quanto diramazioni dell’universalità filosofica; essa diventa una crisi, dapprima latente e poi sempre più chiaramente evidente, dell’umanità europea, del significato complessivo della sua vita culturale, della sua complessiva «esistenza» !°.

3. L’eccesso

di razionalità

Dove va ricercata la ragione della «crisi della ragione» scientifica conoscitiva? Husserl non sembra nutrire dubbi: nell’eccesso di razionalità che ha sommariamente liquidato, avendola dapprima isolata ed esautorata, la vecchia metafisica. L’istanza propriamente filosofica, il senso di un valore qualitativo per definizione distinto e superiore al valore espresso dai dati empirici, precisamente misurabili in senso quantitativo tutto ciò che può

essere conosciuto senza essere per questo esattamente misurato e che la nuova scienza post-rinascimentale ha bruscamente messo da parte, relegandolo nella sfera di un’interiorità non perfettamente conoscibile, se non meramente superstiziosa, ecco quanto Husserl vede messo in pericolo dal nuovo «metodo» scientifico che si può dire incarnato, a suo giudizio, da Galileo. Non gli sfuggono le «promesse» della scienza: ? Husserl, op. cit., p. 38. 10 Ivi, pp. 41-42.

74

con la progressiva e sempre più perfetta capacità di conoscere il tutto, l’uomo consegue anche un dominio sempre più perfetto sul suo mondo pratico circostante, un dominio che si amplifica attraverso un progresso infinito. Ciò implica anche il dominio sull’umanità che rientra nel mondo reale circostante, e quindi anche il dominio su se stessi e sugli altri uomini, un dominio sempre maggiore sul proprio destino, e così una «felicità» sempre più perfetta, quella felicità che gli uomini possono in generale concepire razionalmente. [...] Così l’uomo diventa veramente l’immagine di Dio. In un senso analogo a quello in cui la matematica parla di punti infinitamente lontani, di rette, ecc. si può dire, ricorrendo ad una similitudine, che Dio è l’uomo infinitamente lontano. Il filosofo infatti, matematizzando

il mondo e la filosofia, ha correlativamente

idealizzato se stesso e insieme dio».!!

La prima, fondamentale critica husserliana alla scienza moderna riguarda dunque le sue esorbitanti «promesse», il suo entusiasmo geometrizzante, la sua pretesa, infine, di onniscienza. Facendo coincidere il conoscere con il misurare, e il misurare esattamente, in

senso quantitativo, la scienza moderna galileiana ha in realtà compiuto un’operazione riduzionistica, ha ridotto, in altre parole, la complessa, non esattamente precisabile natura umana alla «uni-dimensionalità» dei «meri uomini di fatto» !:. Ponendo la quantità al di sopra della qualità, ha ridotto il pensare al quantificare. Ubbidendo agli imperativi del culto della precisione quantitativa, ha espunto dal sapere umano tutto quel sapere comune, quelle conoscenze ordinarie, ma essenziali, che costituiscono la struttura culturale profonda dell’umanità, la saggezza sapienziale degli analfabeti, l’espressione delle esperienze specifiche, vissute, la «polpa» della quotidianità effettuale. Non ritengo che Husserl sia giunto alla rivalutazione !! Ivi, pp. 94-95. !2 Non è senza significato che il termine «uni-dimensionalità» sia poi stato ripreso da un hegeliano di sinistra come Herbert Marcuse, di cui si veda il celebre One-dimensional

Man,

New

York

1964 (trad. it. Einaudi,

Torino

1967) divenuto poi il livre de chevet della contestazione giovanile e studentesca del. ’68.

ia)

chiara dell’esperienza come quotidianità effettuale, tanto ambigua appare da ultimo la sua posizione fra il bisogno, ancora tutto idealistico, di una razionalità infinita, che sfidi il piano meramente meccanicistico e quantitativo, e l'ambizione, tutta positivistica 0, se si vuole, neo-positivistica, di ricerche rigorosamente delimitate, guidate da ipotesi suscettibili di verifica, pur nella consapevolezza che non si dà verifica definitiva, ma che ogni verifica non può che rinviare ad altre, infinite verifiche, secondo un «regressus in indefinitum» che già a Kant appariva assurdo. Drastico è tuttavia il suo giudizio su Galileo: lo scopritore della fisica e della natura fisica — oppure, per rendere giustizia ai suoi predecessori: colui che aveva portato a compimento le scoperte precedenti — è un genio che scopre e insieme occulta. Egli scopre la natura matematica, l’idea metodica, egli apre la strada ad una infinità di scopritori e di scoperte fisiche. Egli scopre, di fronte alla causalità universale del mondo intuitivo, ciò che da allora in poi si chiamerà senz’altro [...] /egge causale, la «forma a priori» del «vero» mondo (idealizzato e matematico), la «legge della legalità esatta», secondo la quale qualsiasi accadimento della «natura» — della natura idealizzata — deve sottostare a /eggi esatte. Tutto ciò è una scoperta e insieme un occultamento, anche se fino ad oggi l’abbiamo considerato una pura e semplice verità. 3

A questo punto Husserl si affretta a soggiungere, quasi ad evitare l’impressione di una critica puramente demolitrice e stroncatoria: Certo io pongo in tutta serietà Galileo alla testa dei grandi scopritori dell’epoca moderna, e così naturalmente ammiro in tutta serietà i grandi scopritori della fisica classica e post-classica, le loro attuazioni teoretiche che non sono affatto meramente meccaniche, che sono, anzi, sbalorditive.*

Però... C’è un però, emerge una riserva: dall’inter!* Husserl, op. cit., pp. 81-82; corsivo nel testo. !4 Ivi, p. 82; corsivo nel testo.

76

pretazione galileiana della natura da parte dei discepoli di Galileo e in generale di coloro che ne seguirono il metodo dovevano necessariamente scaturire corollari che travalicano la natura, conseguenze e modi di ragionamento destinati ad investire sfere e ambiti problematici che non si limitano e non riguardano solo la natura. In più luoghi mi sono soffermato sui limiti della ricerca scientifica, specialmente quando ceda alle suggestioni totalizzanti dello scientismo. Questo lamentevole esito non è peraltro inevitabile. Un ritorno ai classici dello stesso pensiero scientifico farebbe probabilmente rapida giustizia di quelle posizioni intellettualmente pigre malgrado i toni trionfalistici, le quali tendono a impoverire la ricerca scientifica in senso stretto enfatizzandone le tecniche specifiche e le procedure a scapito dei concetti propriamente teorici. Come è stato limpidamente osservato, dal punto di vista metodologico [...] il fatto più notevole è che Galileo si rende ben conto della impossibilità di una verifica diretta, nella esperienza, dei principi formulati mediante tali concetti; perfino la semplicissima definizione di moto naturalmente accelerato sfugge a una verifica siffatta; questa definizione implica infatti che negli stati più prossimi a quello iniziale la velocità sia infinitesimale — il che sembra contraddire all’osservazione diretta. [...] La consapevolezza metodologica di Galileo [...] si rivela con una chiarezza ancora maggiore a proposito dei principi generali della scienza del moto. Egli sa molto bene che tali principi, la cui formulazione richiede l’uso di concetti essenzialmente teorici, non possono venire verificati direttamente sui fatti. Il fisico dovrà dunque accoglierli a guisa di postulati, non diversamente da ciò che fa il matematico per i principi delle proprie teorie. Aggiungerà però un’esigenza estranea alla matematica pura: l’esigenza che almeno alcuni tra i teoremi deducibili da quei postulati trovino effettiva rispondenza nei fenomeni. '5

Lo scientismo

feticizza invece i fatti al di là e al di

!5S L. Geymonat, Per Galileo. Attualità del razionalismo, a cura di M. Quaranta, Bertani, Verona

1981, pp. 165-67.

a)

fuori dell’apparato teorico-concettuale, che anche per Comte è essenziale affinché i «fatti» comincino a parlare. Il fondatore del positivismo non è infatti da confondere con i fautori della grossolana impostazione «fattualistica», che dovrebbe rimandare, più che al positivismo al paleo-positivismo largamente inficiato di sensismo e di realismo ingenuo. Per Auguste Comte nessuna ricerca sarebbe stata mai possibile o anche solo ipotizzabile senza «la luminosa guida della teoria».

4. La boria dello scientismo Che cosa concludere?

Che la scienza, così come

è cor-

rentemente praticata, è priva di valore e che è preferibile rivolgersi all’alchimista, allo stregone, se non al carismatico,

o, ancor

più semplicemente,

al sacerdote?

In

molte culture europee occidentali, in particolare in quella italiana, l’interrogativo

è stato spesso formulato

e la

risposta data, fino a tempi recenti, non era in verità favorevole alla scienza. Il razionalismo metafisico dialettico nella sua versione crociana che ha dominato per circa mezzo secolo la cultura italiana riteneva le scienze del tutto prive di valore conoscitivo in senso proprio, in quanto le considerava fornite non di «concetti» nell’accezione rigorosa del termine, ossia filosofica-quidditativa, bensì di pseudo-concetti, o generalizzazioni settoriali, utili, forse, ma non da intendersi come logicamente vincolanti. I neo-idealisti crociani e gentiliani, molti dei quali in Italia si riversarono poi nel dopoguerra e andarono ad ingrossare le file dei marxisti ortodossi, tolleravano le scienze al più come insiemi di concetti classificatori, non privi d’una certa utilità pratica, ma sostan-

zialmente come «mezzi inferiori della vita intellettuale». La loro ostilità nei riguardi della scienza era una ostilità di principio. La loro negazione era radicale. Non riguardava solo le scienze sociali, ma tutte le scienze, comprese la fisica, la chimica, la biologia. Restava in piedi solo la storia, in cui del resto confluiva anche la filoso-

78

fia, poiché l’unico concetto accettabile di verità era quello concernente la stessa azione dell’uomo, che appunto poteva vichianamente conoscere veramente solo ciò che egli stesso faceva, le sue res gestae. Inutile osservare che le scienze erano così degradate al rango di attività conoscitive nel senso di una conoscenza puramente «meccanica» ed «esterna». Ma torna dunque la domanda: dov’è la discriminante fra pratica puramente empirica, magica o stregonesca, e attività scientifica? La discriminante c’è e va tenuta ben presente'6. Le angustie dello scientismo e della sua boria non ci devono far velo. Mentre la pratica magico-stregonesca è altamente individuale, legata a supposti poteri o doni («carismi») extra-quotidiani del singolo operatore per definizione incontrollabile, la ricerca scientifica è per principio aperta a tutti e da tutti controllabile; le proposizioni che la esprimono sono verificate, o falsificate, dai dati empirici messi in luce dalla ricerca, dati sulla cui consistenza chiunque può garantirsi. In altre parole, mentre la pratica magica o alchimistica resta un fatto essenzialmente misterioso — magico, appunto — la ricerca scientifica è essenzialmente una procedura pubblica e in quanto tale razionalmente vincolante ed intersoggettivamente valida. Abbiamo già accennato ai guasti dello scientismo e all’esigenza di un ritorno alla scienza come capacità dell’uomo di porsi in relazione problematica con se stesso, con gli altri uomini e con l’universo, pena la caduta in un neo-dogmatismo che significherebbe il tradimento e la morte della scienza stessa e dell’istanza critica che la sorregge. Qui è bene ribadire che una critica all’ingrosso della scienza — tale da equiparare scienza e scientismo — è sempre foriera di una situazione sociale di pericolo e di arbitrio, se non di ferocia e infine di barbarie collettiva, sia pure in nome della «verità interiore», dello «slancio vitale», dei «mondi vitali» intesi come moti 16 Secondo Cassirer scienza e magia hanno in comune

lo scopo: la sco-

perta e il dominio della realtà. Cfr. E. Cassirer, An Essay on Man, day, New York 1944, p. 101; trad. it. Armando, Roma 1977.

79

Double-

spontaneistici di per sé positivi in quanto segnali e campi privilegiati del vitalismo intellettualmente informe, e così via. La critica globalizzante e dogmatica della scienza segnala di regola un’involuzione che è nello stesso tempo culturale, sociale e politica. Mai forse come oggi è necessario por mano all’apologia della ragione — di una ragione che non esclude la ragionevolezza — ossia alle potenzialità della progettazione razionale di cui gli esseri umani sono capaci. Oggi come ieri è vero che il sonno della ragione genera mostri. Ma nello stesso tempo è necessario non dimenticare che il dogmatismo della ragione, come la tirannide del progresso, è ancora più insidioso del dogmatismo legato alle credenze tradizionali: perché si tratta di un dogmatismo che ci priva della sola arma di cui disponiamo contro di esso. Sia Husserl che Geymonat sembrano passare sotto silenzio o quanto meno trascurare le conseguenze dell’irruzione del «tempo». Le categorie scientifiche tradizionalizzate già ritenute necessarie, astoriche e, in primo luogo, intemporali, ne sono

sconvolte,

dedogmatizzate,

fluidificate.

Si

scopre alfine la storicità della scienza — questa qualità essenziale che in apparenza la degrada mentre in realtà le restituisce la sua caratteristica fondamentale, di là da ogni retorica del trionfalismo scientistico, di impresa puramente umana, intrisa di soddisfazioni e di lacrime, di

vittorie, di fallimenti e di sangue!7. !” Per alcune considerazioni intorno all’istanza critica nei confronti dell’essenzialismo in base alla categoria della «temporalità», si veda il mio // ricordo e la temporalità, Laterza, Roma-Bari 1987, specialmente il cap. I. Per

avere un primo, impressionante ragguaglio del profondo, rivoluzionario cambiamento di prospettiva che coinvolge tutte le scienze, si veda I. Prigogine; From Being to Becoming. Time and Complexity in the Physical Sciences, W.H. Freeman, New York 1978; trad. it. Einaudi, Torino 1986; in questo libro, che precede e prepara quello scritto con I. Stengers, La nuova alleanza: Metamorfosi della scienza (trad. it. Einaudi, Torino 1981), Prigogine sostiene che stiamo vivendo oggi una rivoluzione scientifica non dissimile da quella di Galileo; la sua riprova non andrebbe ricercata in specifiche scoperte, pur importanti, come quelle delle pulsar o dei quark; la presente rivoluzione scientifica scaverebbe ben più a fondo: mentre la scienza classica appariva sempre impegnata a descrivere e a spiegare il mondo dall’esterno e quindi secondo un'ottica asettica, come se si trattasse di una realtà estranea agli stessi ricer-

catori, al di fuori e al di là di ogni determinazione temporale, la ricerca attuale dà estremo

risalto e riconosce

l’importanza

s0

del tempo;

accanto

al tempo

S. L’irruzione del «tempo» nel ragionamento

scientifico

L’irruzione del tempo nella ricerca scientifica l’avvicina all’esperienza comune, riesce a coniugare discorso scientifico e quotidianità. Sia per le categorie scientifiche che per i gesti dell’esperienza quotidiana il tempo si pone come un fattore decisivo nello stabilire e nel mutare sensi, urgenze, ritmi, velocità e ritardi progettuali. Già oggi, in una società anche solo mediamente sviluppata dal punto di vista tecnico, sappiamo che più si ha fretta e meno si ha tempo. L’urgenza brucia il tempo in anticipo. Si può persino morire senza avere ancora vissuto. Alla fine non si dà più l’accorrere, ossia la fretta con un senso, con uno scopo, bensì il solo e semplice correre, senza sapere né per dove né perché: l’urgenza pura, divenuta abitudine interiore e modo di vita, priva di uno scopo che le dia un senso. Dunque, si dà oggi il «correre», ma sempre meno l’«accorrere», ossia il correre verso un obiettivo, motivato. La fretta non è più significativa!*. È stato però osservato: Comunque, coll’evocare le circostanze di questo discorso non intendiamo scusarne le insufficienze troppo evidenti con la fretta che gliene è derivata, poiché è dalla fretta stessa che esso prende il suo senso e insieme la sua forma. Abbiamo infatti dimostrato, in un sofisma esemplare del tempo intersoggettivo, la funzione della fretta nella precipitazione logica in cui la verità trova la sua condizione insuperabile. Nulla di creato che non appaia nell’urgenza, nulla nell’urgenza che non generi il proprio superamento nella parola. Ma anche nulla che vi divenga contingente quando venga per l’uomo il momento in cui può identificare in una sola ragione il partito che sceglie e il disordine che denuncia per comprenderne nel reale astronomico si afferma il «tempo interno», che presiede ai processi dinamici, reversibili e irreversibili, e che può ancora venir misurato con un orologio, ma ha un significato completamente differente. 18 Cfr. in proposito

il mio Storia e storie di vita, Laterza,

Roma-Bari

1983, specialmente pp. 4-9; inoltre, // ricordo e la temporalità, cit.

81

e anticipare con la sua certezza l’azione che li pone a confronto.!°

Kant pone le categorie dello «spazio» e del «tempo» sullo stesso piano. La logica filosofica della tradizione è geometrica e spaziale. Ma questo significa scimmiottare gli dei, supporre se stessi fuori dal tempo, fermare faustianamente l’istante, congelarlo, e in questo limbo risultante dall’arresto del tempo, disegnare i contorni asettici di un pensiero sempre eguale a se stesso, attivo

sotto

vuoto

spinto,

destorificato

e sovrumanizzato.

L’incanto romantico s’interrompe subito se si introduce la scansione del tempo: il rinvìo, la mozione sospesa, l’anticipo della certezza, l’angoscioso istante dello sguardo, il senso mortale della scadenza, dead-line, «linea della morte», appunto. La preoccupazione fondamentale — overriding — del condannato a morte è il buying time, il «comprare tempo», «durare» di più. L’anomalia di Gary Gilmore è in realtà un atto stoico, molto coerente con la violenza pura: il rifiuto del rinvio. Gilmore prende Hegel in parola: il criminale ha diritto alla sua pena. L’accettazione della morte come atto coronante una vita di violenza — intendendo per «violenza» lo strumento più idoneo per bruciare i margini — annullare il tempo: alla lettera «ammazzare il tempo», ossia «ammazzare chi vive ne/ e di tempo». Il caso-limite non esclude i casi della normalità. Un mondo dominato dalla tecnica non è forse un mondo legato a ritmi scanditi con precisione violenta, la cui trasgressione evoca sanzioni precise commisurate alla sua gravità? E già stato osservato che il nostro potrebbe essere definito come il tempo del limite di resistenza del congegno. Le macchine per giungere prima e ridurre le distanze hanno portato gli uomini a non giungere mai?0. !9 J. Lacan, La cosa freudiana, Einaudi, Torino 1972, pp. 87-88.

20 Si vedano in proposito i lavori di E. Castelli, specialmente L ‘esperienza comune, Bocca, Milano 1942, e quelli, più recenti, di G. Dorfles.

82

C’è un presente che non si può raggiungere. È il punto d’intersezione fra l’urgenza per risparmiare tempo e l’urgenza che, bruciando i margini, annulla anche il tempo. Ma ecco un paradosso che Chesterton, nel Ritorno di Don Chisciotte, ha colto molto bene e che di colpo fa cadere nella insignificanza la famosa disputa fra i tecnofili e gli anti-macchinisti: le macchine sono divenute così inumane che appaiono naturali, «remote e indifferenti» come la natura. Questo morto sistema è stato costruito su così vasta scala che non si sa dove andrà a parare né come. Ecco il paradosso! Le cose sono diventate incalcolabili per essere calcolate. Gli uomini sono legati a degli ordigni così giganteschi che essi non sanno su chi andrà a cadere il colpo. L’incubo di Don Chisciotte viene ad essere giustificato. I mulini sono giganti. Chi, che cosa ci salverà? Il granello di sabbia nell’in-

granaggio? L’esaurirsi delle fonti primarie di energia? Il caso o la distrazione di un tecnico che ha dormito poco la sera prima? I modelli letterari hanno anticipato la riflessione filosofica. Lafcadio, l’esangue eroe delle Caves du Vatican, uccide Fleurissoire, che non conosce, non odia, gettandolo dal treno in corsa.

che

Se posso contare fino a dodici, senza affrettarmi, prima di vedere nella campagna un fuoco, l’uomo è salvo. Comincio: uno; due; tre; quattro; (lentamente! lentamente!); cinque; sei; sette; otto; nove; ... Dieci, un fuoco ... Fleurissoire non gettò

neppure un grido. Sotto la spinta di Lafcadio e in faccia all’abisso bruscamente apertosi davanti a lui, fece un gran gesto per aggrapparsi ... Lafcadio sentì abbattersi sulla nuca una terribile graffiata, abbassò la testa e diede una seconda spinta più impaziente della prima.?'

2! A. Gide, Les caves du Vatican, Gallimard, Paris 1922, pp. 195-96; corsivo mio; trad. it. Feltrinelli, Milano 19834. Il riferimento più sopra a Gary Gilmore segnala il caso, piuttosto inconsueto, di un condannato a morte due

volte come la procedura penale in vigore negli Stati Uniti consentirebbe.

83

6. L’interferenza

del caso

Il delitto di Lafcadio nasce dalla interferenza del caso nel tempo-spazio scandito dal treno che corre nella campagna notturna. Quando qualcuno lo interroga sulle ragioni del suo delitto, risponde, con molta naturalezza: «Come pretendete che io vi spieghi ciò che io stesso non ho capito?». Non l’agire, dunque, come prassi e progetto, ma l’agire assurdo, l’agire che nega in radice il senso

umano come temporalizzazione progettata. Qui infatti si dispiega, come è stato rilevato, ciò che è sottinteso in tutte le pieghe del discorso e della struttura, la temporalità: Se discorso e struttura non si dispiegano uniformemente sulla superficie diseguale del sistema e hanno a che fare costitutivamente con il diverso, allora è proprio nella frattura e nella deriva a cui non possono non orientarsi che s’imbattono nel vuoto della temporalità. In questo vuoto il continuum della

struttura esistente si incrina nella discontinuità in cui emerge

una struttura su piani nuovi o diversi. E appunto nell’atto di tale emergere che, come cesura nel corpo di un testo dalle scritture in-interrotte, si scopre ciò di cui la struttura esistente non riesce a prendere visione perché scoprirebbe quel che invece non ha interesse a scoprire: /a sua fine e il suo passaggio al non essere più struttura [smagliature dell’esistente]. Così, per quel che concerne il Discorso, il tempo è in esso presente, ma non in quanto il Discorso parli esplicitamente del tempo, bensì perché tace e si interrompe, per poi riprendere con una trama diversamente annodata. Il tempo cioè è /a differenza nell’identità del Discorso, è la spaccatura in cui i sensi del linguaggio si spezzano e si ricompongono.??

E tuttavia, nell’arte, il divenire, il passare, non ha significato, il tempo che un brano musicale racchiude non è vero tempo perché di sviluppo (del succedere) nell’opera d’arte non si può parlare: è definitiva o non è. D’altro canto, l’esperienza della condensazione nell’istante Fa F. Totaro, Produzione del senso, Vita e Pensiero, Milano 1979, p. 81; corsivo mio. Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972.

84

di ciò che si realizzerà negli stati successivi è una delle esperienze più comuni (per esempio, quando si inizia un discorso, ciò che si dirà è, sia pure in modo

sommario,

condensato nell’istante stesso dell’inizio). Mozart si esprimeva dicendo che una melodia era per lui tutta condensata in un unico istante; il tempo della melodia era, in un certo senso, eferno?. Per questa ragione tempo e ritmo non vanno confusi. Il ritmo è solo l’ordine del movimento. Il tempo è il mezzo della progettualità, l’ordine delle cose da fare, il loro senso. La riflessione parte da esperienze elementari. Ricordi d’infanzia fissati sulla lastra interiore con l’ingannevole semplicità del tratteggiato in bianco e nero: un pomeriggio interminabile d’estate a giocare con insetti, lucertole, serpi di prato, in una roggia asciutta — e poi è subito sera, e il tempo è stato, più che vissuto, bevuto con una sola sorsata. Oppure la riflessione parte da impressioni di viaggio. Per esempio, l’essere fuori del tempo, la timelessness di un villaggio indiano come Sing-Pura, a cento miglia da New Delhi, quel molle «arrendersi» alle cose che sembra caratterizzare il mondo dell’accettazione, della ripetizione rituale, non ancora dominata dalla precisione meccanica degli orologi o dalla spinta utilitaria competitiva. Su questo fondo semi-conscio si innesta l’informazione culturale. Ci fu un’epoca in cui il tempo era una durata qualitativa, una qualità esistenziale, per cui volava via o opprimeva, «non finiva più», indipendentemente dalla sua misura meccanica quantitativa. Mi ha sempre meravigliato che Vico sbagliasse l’anno della sua nascita nella Autobiografia. John U. Nef, il famoso storico dell’industria del carbone, osserva che noi non conosciamo le date della vita di Rabelais. Non è solo una curiosità erudita. Indica la grande transizione del tempo come durata al tempo come sequenza discreta di fasi. Siamo nel tempo. Non possiamo evaderne. Siamo i/ tempo. È in declino la stessa funzione della religione come cura dei mali del tempo, del «secolo», in nome e per con23 Cfr. E. Castelli, Pensieri e giornate, Cedam, Padova 1963, p. 62.

85

to dell’«eterno». Il senso dell’eterno muta. Nell’epoca del consumismo Dio è sostituito dal supermercato. L’adagio contadino «Dio vede, Dio provvede» non tiene più. Le uscite tradizionali dalla storicità non tengono più. Siamo dunque il tempo. Ma se il tempo è atomizzato, segmentato, esaurito, noi, che cosa siamo? Gettati in un mondo schiacciato dalla pubblicità e dall’immediatezza, registriamo il dominio del presente e la scomparsa della distanza critica e della prospettiva. Il tempo esaurito, l’urgenza sono in relazione diretta con la caduta del senso prospettico, o «senso della distanza». Si fa invece strada il mito dell’immediatamente osservabile e sperimentabile. Ma è una immediatezza troppo ravvicinata per essere autentica, significante. Un modo di vita dominato dalle «istantanee» è un mondo di immagini prive di storia, di profondità; come si può vedere nell’atroce presentismo dei film: come vivere, cioè star fermo, sotto la lampada accecante di un interrogatorio di terzo grado che non finisce mai e che è, nello stesso tempo, rigorosamente logico e umanamente privo di senso. Lo scientismo rivela qui tutta la sua boria. Presumeva di of-

frire solo verità fuori dal tempo. Del tempo subisce invece tutta l’usura.

7. La secolarizzazione come prodotto della mentalità scientistica Il concetto di secolarizzazione così come è stato elaborato nel corso degli ultimi anni dai teologi e dai sociologi della religione è forse il prodotto più vistoso della mentalità scientistica, involontaria parte bigotta. Nessun dubbio

alleata della sua controche questo concetto sia

stato usato in maniera non sufficientemente

discrimi-

nante. E mancata la sua determinazione critico-linguistica. Forse il tentativo più consapevole è stato compiuto da Howard Becker, che distingue «società sacre» e «società secolari». Mentre però le prime sembrano piuttosto facili da definirsi, sintomaticamente

86

assai meno facile si

presenta il compito di caratterizzare le seconde. Per Becker, la «società sacra» è quella società i cui membri appaiono costantemente ostili o comunque riluttanti di fronte a qualsiasi cambiamento. Questo atteggiamento refrattario rispetto alle innovazioni deriverebbe dal fatto «che le società sacre inculcano nei loro membri fini facilmente classificabili sotto l’etichetta di sicurezza, risposta e riconoscimento,

con la sicurezza, in molti casi,

al primo posto delle priorità [...] le società che instillano nei loro membri tipi di condotta determinanti un elevato grado di resistenza al cambiamento sono per noi società sacre») 24.

Becker non si contenta però della bipartizione, in verità alquanto elementare, fra società «sacre» e società «secolari». Accanto alle società sacre tradizionali egli introduce il tipo delle «società sacre prescritte», caratterizzate da una serie di sanzioni ben definite e che non ammettono deroghe. A proposito di «società secolari», Becker si mostra assai cauto. A suo giudizio, in una società completamente secolare «la secolarizzazione darebbe come risultato ultimo l’emergere di un raggruppamento eterogeneo di unità umane senza alcun fine in comune» 5. Risultato che farebbe pensare, più che a una società per quanto frammentata e disorganica, a un mero coacervo di soggetti privi di alcun legame o rapporto. È invece un’osservazione di senso comune che le società, anche le più «secolarizzate», conservano sempre un certo grado di stabilità e di organicità. Queste caratteristiche di stabilità e di organicità indicano, a giudizio di Becker, qualche cosa di «sacro». Per questa ragione, egli 24 H. Becker, Through Values to Social Interpretation, Duke University Press, Durham 1950; trad. it. Comunità, Milano 1963, pp. 63-64. Becker si riconosce debitore di Robert E. Park per il termine «società sacra» (cfr. R.E.

Park, Human Migration and the Marginal Man, in «American Journal of Sociology», XXXIII, 1927-1928, pp. 881-93). Ma per una visione panoramica del problema,

cfr. D.A.

Martin,

A General

Blackwell, Oxford 1978.

25 Becker, op. cit., p. 39. x

87

Theory

of Secularization,

propone di parlare, anziché di «società secolari», di «società in via di secolarizzazione» ?°. La presentazione più raffinata del concetto di secolarizzazione è probabilmente quella di Peter L. Berger. Egli anticipa la critica temibile che si impernia sulla mancata distinzione fra processo di secolarizzazione e mutamento sociale in senso strutturale??. Berger distingue molto nettamente gli aspetti propriamente culturali e legati alla percezione soggettiva dai cambiamenti intervenuti nella struttura della società. Egli è così in grado di porsi al di là della polemica contingente rifacendosi al

concetto fondamentale di religione, da cui del resto il concetto di secolarizzazione necessariamente dipende. La possibilità, per Berger, di trattare il processo di secolarizzazione secondo un’ottica intellettuale articolata, che gli consenta di distinguere i differenti contesti sociali e culturali, per esempio l’Europa dagli Stati Uniti, deriva fondamentalmente dal suo concetto di religione come insieme di significati che concorre in maniera decisiva sia alla costruzione

del mondo, o della realtà so-

ciale, sia alla sua conservazione e indefinita perpetuazione. In altre parole, la particolare impostazione fenomenologica dell’analisi generale di Berger?8 gli permette una storicizzazione e una determinazione critica del fenomeno della secolarizzazione che sono invece negate ad altri sostenitori di questa tesi. Secondo Berger, siamo circondati da quella realtà sociale che noi stessi abbiamo creato poiché la società in termini dialettici non è altro 2° È appena il caso di menzionare qui le barocche tipologie cui Becker ha riservato gran parte del suo acume analitico; egli classifica le società come sacre tradizionali (due sottotipi) o prescritte (sei sottotipi) e come secolari normative (otto sottotipi) o anormative (quattordici sottotipi). 27 Cfr. fra gli altri, D. Bell, The Return of the Sacred? The Argument on the Future of Religion, in «British Journal of Sociology», XXVIII, 4, 1977,

pp. 419-49, in cui Bell critica il concetto di secolarizzazione in quanto i cambiamenti delle credenze religiose sono in primo luogo di tipo culturale e non dipendono dalla struttura sociale; a suo giudizio il ritorno del sacro ha luogo secondo una triplice modalità: moralismo; religione di salvezza; misticismo.

28 Cfr. in proposito P.L. Berger, Th. Luckmann, The Social Construction of Reality, Doubleday, New York 1966; trad. it., La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969.

88

che un prodotto dell’uomo, il quale è però a sua volta prodotto della società. La struttura dialettica del rapporto uomo-società comporta tre momenti fondamentali che si succedono in forma logica e non cronologica: l’esteriorizzazione (externalization), l’oggettivazione e

l’interiorizzazione. Questo rapporto

sembra arieggiare l’impostazione dialettica marxiana; in realtà, se ne distacca in maniera essenziale in un punto cruciale: nel momento prioritario della fondazione della esperienza storica. Per Marx, il dato prioritario fondamentale si lega alla struttura come insieme di rapporti sociali in quanto rapporti materiali

di vita essenzialmente extra-soggettivi, condizionati dai rapporti di produzione. Per Berger, invece, la priorità va riconosciuta all’uomo, a un’idea archetipica di uomo,

che sta a significare un soggetto meta-storico di derivazione indubbiamente religiosa in senso metafisico trascendentale.

8. Strutture sociali e consapevolezza umana L’uomo dunque, secondo Berger, «produce» la società. Ma nel processo di interiorizzazione la società, prodotta dalla externalization dell’uomo, non è soltanto qualcosa di «esterno», ma è anche «interna», si fa parte del

nostro io più intimo. Il tono di Berger, la modalità sia concettuale che espressiva, sembra allinearsi sul linguaggio durkheimiano: la società non condiziona soltanto le nostre azioni; informa, plasma, la nostra identità, il nostro pensiero, i nostri sentimenti. Avviene qui uno scambio curioso, che potremmo definire una reciprocità dialettica su un piano puramente orizzontale, tanto da far pensare ad un riflesso «speculare» fra due realtà equipollenti. Le strutture della società divengono, secondo Berger, le strutture della stessa consapevolezza dell’uomo (si noti, fra l’altro, che Berger non usa mai il termine durkheimiano di «individu», individuo, ma quello di «uomo», 89

man, quasi ad evitare un sospetto di predominio della società sull’individuo, preoccupazione che ovviamente non sfiora neppure Émile Durkheim). La prosa di Berger si fa poetica, ma non per questo riesce a risolvere quella che sembra una autentica aporia del suo discorso: «La società non si ferma alla superficie della nostra pelle, ma ci penetra nella misura in cui ci avvolge». Il «sapere della società» si travasa dunque nell’individuo il quale trova pertanto la sua «produzione» oggettivata nell’ordine sociale. Così si compie la «costruzione sociale della realtà», secondo un impianto teorico che Berger e Luckmann hanno sostanzialmente mutuato da Alfred Schutz con importanti apporti anche dalla cultura indigena americana, in particolare da George Herbert Mead e dai suoi concetti di «ruolo» e di «altro generalizzato» (generalized other). Ma è prima facie evidente che questo ordine sociale oggettivo è precario. La rottura radicale con il mondo sociale — la situazione di anomia — costituisce una minaccia permanente e una possibilità sempre aperta, data la natura essenzialmente psicologistica del processo di formazione della realtà sociale. L'individuo rischia di perdere il senso della sua identità e nello stesso tempo quello della realtà sociale in cui è inserito. L’anomia di Durkheim, ma opportunamente corretta con il contributo interpretativo di Robert K. Merton, offre a Berger la possibilità teorica di evitare il concetto di devianza e il problema della sua imputazione causale. Se infatti l’individuo o, meglio, l’uomo produce la società e la società produce a sua volta l’uomo, come potrebbe darsi devianza, vale a dire «deviazione» o «scarto» in questo gioco di specchi di alta; preordinata precisione? La società reagisce all’anomia in quanto fonte di as-

senza di significato, rottura del rapporto uomo-società. Il caos viene parato con la società che aiuta i suoi membri a restare «orientati»

o a «tornare

alla realtà», rico-

noscendo i «fatti della vita», la legge, il nomos stabilito dalla società, che pure è creata dagli individui. In questa funzione

di freno, di riorientamento

all’ovile degli erranti e dei marginali, 90

e di riconduzione

per così dire, la

funzione della religione è secondo Berger essenziale. Come amministratrice del sacro essa indica una realtà che dà senso e nello stesso tempo trascende l’uomo, lo ingloba, lo collega a un ordine sovrastante, a un disegno sovramondano altamente significativo. Perché il sacro non si contrappone soltanto al profano, bensì anche al caos. Esso è dunque il garante supremo dell’ordine sociale, è il «terribile contrario»

lazione dell’armonia cosmica.

del disordine e della vio-

E agevole comprendere a questo punto perché Berger si sottragga e non si leghi ad alcuna delle due fondamen-

tali concezioni della religione. Egli rifiuta sia la concezione sostanziale di religione, secondo la quale essa è definita e collocata nel sistema sociale in senso strutturale, come uno dei suoi aspetti più o meno rilevanti, oppure nella scrittura psicologica, come uno degli impulsi o dei bisogni fondamentali degli individui, sia la concezione funzionalistica, che è la concezione prevalente nelle scienze sociali, a partire da Durkheim e da Malinowski, e che consiste nel descrivere e nello spiegare che cosa la religione sia, vale a dire quale funzione assolva, per l’individuo e per il gruppo sociale e per la stessa società nel suo complesso. Tuttavia, le due concezioni non sono rifiutate con la stessa convinzione. Mentre la concezione funzionalistica è criticata a fondo, si può dire che Berger si collochi in una posizione neosostanzialistica, preoccupata di garantire la realtà e il peso del fenomeno religioso. Le stesse critiche rivolte da Berger alla concezione funzionalistica sono a questo proposito illuminanti??. 1. Le definizioni funzionali tendono ad avere una portata molto ampia e violano pertanto una premessa metodologica importante, relativa alla necessità che «ogni significato umano sia compreso [understood] dal di dentro»?°. 2? Cfr. P.L. Berger, Some second Thoughts on Substantive versus Functional Definitions of Religion, in «Journal for the Scientific Study of Religion», 2, 1974, pp. 125-33. 3° Ivi, p. 127 («Any human meaning must, first ofall, be understood in its own terms, from within, in the sense of those who adhere to it»).

91

2. Le definizioni funzionali sono viziate da un implicito «uso ideologico»; mentre infatti le definizioni sostanziali racchiudono un solo significato o un complesso di significati che si riferisce a enti trascendenti in senso convenzionale,

come Dio, dei, esseri

turali, le definizioni

e mondi sopranna-

funzionali rimandano

gnificati come nazionalismo, vita, e così via.

invece a si-

fede rivoluzionaria,

stili di

3. L’approccio funzionale al fenomeno religioso serve a fornire una serie di legittimazioni semi-scientifiche a una visione del mondo secolarizzata; la religione è equiparata ad altri fenomeni sociali e quindi stemperata nell’uniforme grigiore che caratterizza, secondo Berger, la realtà secolarizzata in cui ogni manifestazione della trascendenza è priva di significato. Ma per questa via l’ordine sociale, argomenta Berger, scoprendo qui tutto il suo orientamento di consapevole conservatore, rischia di perdere il suo fondamentale supporto legittimante, vale a dire la religione come fatto specifico?'. Da questo quadro concettuale generale discende la concezione del processo di secolarizzazione di Berger. Da esso inoltre derivano la percezione e la valutazione della liturgia, dei sacramenti e in generale di tutte le cerimonie e di tutti i comportamenti rituali «esterni», la cui importanza è spesso sottolineata fino a farne, in termini pratici, l’equivalente o quanto meno la conferma di

una presenza del sacro?:. Non meraviglia che, dicendo secolarizzazione, Berger abbia in mente «un processo attraverso il quale settori della società e della cultura sono 3! Per una critica in questo senso alla posizione di Berger, cfr., fra gli altri, P. Bourdieu, Genèse et structure du champ religieux, in «Revue frangaise de

Sociologie», 12, 1971, pp. 3-21; secondo Bourdieu, «la sociologie de Berger est une sociologie de l’ordre, dont la vision trop statique ne sait donner sa place à cette dimension» (cioè alla dimensione delle varie forme di contestazione sociale nel mondo contemporaneo).

32 Così il Protestantesimo sarebbe più «secolare» del Cattolicesimo: «Il Protestantesimo può essere descritto nei termini di un immenso restringimento [immense shrinkage] dell’area del sacro, in effetti, se messo a confronto con il suo avversario cattolico»; P.L. Berger, The Social Reality of Religion, Penguin Books, London

1973, p. 117.

92

sottratti

al dominio

delle istituzioni

e dei simboli

reli-

giosi» 33. *9. Un disincanto

che si reincanta

Come abbiamo più sopra osservato, Berger sfugge al semplicismo di una nozione di secolarizzazione che ne faccia tout court l’equivalente del processo di cambiamento sociale strutturale determinato dalla «rivoluzione industriale» e dall’avvento del capitalismo e dell’urbanizzazione su vasta scala. Ma non sfugge, tuttavia, a certe trappole ideologiche che lo inducono a idealizzare determinate tendenze isomorfiche, estrapolando generalizzazioni da scarse o inesistenti evidenze empiriche, fino ad affermare incautamente, se pure con accattivante ironia, che propaganda ateistica e propaganda religiosa si equivalgono in certe situazioni politico-culturali sia nei paesi socialisti che in quelli non socialisti. E evidente che Berger non poteva prevedere lo straordinario effetto politico di una posizione sostanzialmente religiosa, quanto a legittimazione di fondo, come quella emersa di

recente in Polonia nel caso del sindacato cattolico Solidarno$è. Forse sarebbe sufficiente questo esempio a far intendere la estrema fragilità, sia concettuale che come chiave interpretativa delle situazioni politico-culturali, di una nozione ibrida e confusa come quella di secolarizzazione. Naturalmente,

Berger mette le mani avanti: «il fatto-

re religioso non deve essere considerato attivo in uno stato di isolamento rispetto ad altri fattori, ma piuttosto in uno stato di rapporto dialettico con le infrastrutture ‘pratiche’ della vita sociale». Ma sembra chiaro che 33 Ivi, p. 113 («By secularization we mean the process by which sectors of society and culture are removed from the domination of religious institutions and symbols»). 34 Ivi, p. 116; corsivo nell’originale («The religious factor must not be considered as operating in isolation from other factors, but rather as standing in an ongoing dialectical relationship with the «practical» infrastructures of social life»).

93

non è sufficiente

invocare

il «rapporto

dialettico,

non

specificato e fondamentalmente equivoco dal punto di vista delle priorità e del quadro teorico generale in cui si suppone che sviluppi il suo dinamismo, per uscire da una aporìa la quale richiederebbe, più che abilità o sotterfugi linguistici, una resa dei conti propriamente teoretica. Lo stimolo di alcune intuizioni va comunque ritenuto. E in particolare degna di attenzione, in quanto sembra preludere al concetto di una sorta di «religione perenne», l’idea che nella multidimensionalità dell’esperienza religiosa della vita quotidiana esista una costante antropologica che riemerge sempre al di là e contro la posizione del mondo ufficiale della società che la nega. In verità, nelle società tecnicamente progredite che si suppongono fondate sul calcolo razionale e sulla mentalità scientifica, i segnali dell’al di là si moltiplicano. Sarebbe superficiale dismetterli e trascurarli come semplici manifestazioni di irrazionalità. Hanno, in ogni caso, il valore di un sintomo. In altra sede ho cercato di dimostrare che il rapporto fra razionale e irrazionale non è una dicotomia, bensì una polarità. Ciò che oggi appare come irrazionale può anche essere la prefigurazione del razionale di domani oppure l’espressione analogica, apparentemente irreale e inintelligibile, di un realissimo, diffuso bisogno allo stato aurorale,

di una do-

manda della società cui manca per ora una risposta adeguata. La razionalità non è in sé una datità immutabile. La razionalità è tale rispetto ai valori, che sono storicamente variabili. La riflessione intorno al sacro, alla sua natura ambigua, che nutre e incenerisce nello stesso tempo,

ci aiuta a comprendere la funzione sociale dell’utopia. La religione come struttura di potere che amministra il sacro è stata concepita come lo strumento fondamentale di legittimazione dell’ordine sociale esistente. Ma il sacro può anche prefigurare un ordine sociale ancora da costruire,

una comunità

e una moralità alternative.

La

religione non è solo quella codificata e variamente legata al potere del giorno, dominante e asservita a un tempo. Il futuro della religione è probabilmente subordinato al94

la possibilità/capacità di vivere l’esperienza religiosa in maniera diversa, meno formale, più intima, meno esterna, più profonda. Sta di fatto che le previsioni sulla scomparsa definitiva dell’esperienza religiosa e del senso del mistero non si sono avverate. I segnali sono più che mai numerosi. Nel cuore stesso dell’Europa, dove è nato l’illuminismo e si è sviluppata la civiltà tecnico-scientifica, vecchie credenze e nuovi «miti» si vanno consolidando. Se nel Mezzogiorno d’Italia si trovano ancora itarantolati, in Norvegia di recente ben centottantadue ragazze si sono fatte esorcizzare, in Germania undici tedeschi su cento affermano di credere nelle streghe e in Francia cinquantasette persone su cento si rivolgono alle chiromanti e credono negli oroscopi. Tutto ciò è da qualche commentatore ridotto a un atto di invidia per la scienza. In altre parole, si tratterebbe di una scorciatoia. I procedimenti scientifici, nei quali si realizza la razionalità odierna, sarebbero troppo complessi per l’uomo comune, non solo per essere praticamente duplicati e quindi ottenere i risultati oggettivi, ma anche solo per essere conosciuti nei loro particolari teorici e operativi. Questa conoscenza è ormai appannaggio di una ristrettissima élite che è così divenuta depositaria di fatto di un potere enorme e che, oggi, di fatto dispone dell’avvenire dell’umanità, se non altro perché sarebbe in grado di provocarne di fatto l’annientamento. Il potere della scienza — è stato osservato — sta sotto gli occhi di tutti, ma le chiavi del potere — la competenza scientifica e la sua utilizzazione — rimangono lontanissime dalle masse e dagli individui. Per l’umanità rimane un mistero come la scienza e la tecnica raggiungano i risultati che fanno sbalordire e rabbrividire il mondo. Il distacco dell’umanità dalle sorgenti del potere incomincia dalle cose apparentemente più semplici. [...] In questa situazione, la frustrazione è inevitabile e la gente cerca un sostituto del potere che le sfugge e che è avvolto dal mistero della complessità concettuale e dal segreto militare. Cerca un potere che ogni individuo sia in grado di controllare, accessibile anche ai più sprovveduti e ai più deboli, e per il quale ognuno possa sentirsi ancora al centro del

95

mondo. E il sostituto lo trova, di volta in volta, in quell’insieme di atteggiamenti, anche diversissimi tra loro, che oggi viene chiamato «l’irrazionale»: la religione, la droga, la vio-

lenza di ogni tipo esercitata contro gli ordinamenti sociali, il transfert televisivo dove milioni di persone si identificano ai simboli della potenza reale, le pratiche magiche, l’occultismo, la parapsicologia*.

Il ragionamento si potrebbe però agevolmente rovesciare. Non potrebbe darsi che fosse invece la scienza ad imitare disperatamente l’onnipotenza delle pratiche magiche, l’abolizione della frizione dello spazio e della logica monocausale che è alla base delle esperienze dei drogati, la serenità cui attinge chi abbia raggiunto l’atarassia stoica e lo stato nirvanico buddhista? Sta di fatto che la società odierna, imbevuta di tecnologia e pur dopo gli innegabili, sbalorditivi trionfi della scienza, si trova più che mai bisognosa di significati collettivi e ansiosamente ammaliata dal mistero. Dopo tre secoli di illuminismo e di razionalità scientifica, sta di fatto che questa società chiede di essere consolata, si sen-

te abbandonata e orfana al punto da rivolgersi ai piccoli dèi dell’astrologia e della cartomanzia. E troppo facile e anche piuttosto ingeneroso affermare che ciò è solo l’espressione di una meschina e stizzosa invidia di chi non sa, di chi non può capire. Sta di fatto che fondamentali bisogni umani sono stati lasciati scoperti e che la scienza, dopo aver rovesciato la religione rivelata della tradizione, con i suoi valori e le sue forme ritualistiche, e dopo averne criticato a fondo i presupposti, non ha saputo o non ha potuto colmare il vuoto che aveva scavato con le sue mani, non riesce a soddisfare la fame di verità sostanziale di cui il mondo contemporaneo sembra soffrire in misura crescente. E probabile che la pura verità scientifica, espressa in IS

35 E. Severino, Per invidia della scienza, in «Corriere della Sera», 30 giu-

gno 1982, p. 13; su questo tema, cfr. E. Balducci, // terzo millennio - saggio sulla situazione apocalittica, Bompiani, Milano 1981; R. Runcini, / cavalieri della paura, L. Pellegrini ed., Cosenza 1989, in cui si riprendono cause e modi della crisi di identità e di valori nella cultura europea tra le due guerre.

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una proposizione ‘standardizzata che si suppone da tutti controllabile e che si pone come empiricamente verificata, non esaurisca tutta la verità di cui gli esseri umani hanno bisogno. Nonostante i grandi successi della scienza, un mondo extra-scientifico continua a gettare su di essi la sua ombra inquietante. L’ostracismo di questo mondo in nome della razionalità è comprensibile, ma non sufficiente. Figure medioevali come diavoli e angeli, che si potevano ritenere per sempre ostracizzati dall’orizzonte mentale e morale dell’uomo contemporaneo, continuano in realtà la loro fortunosa carriera, più tracotanti che mai, nella società «laica» di oggi. 36 Cfr. per un esempio, fra gli altri, L. Villoresi, Pronto, c’è l’esorcista?, in «La Repubblica», 1-2 agosto 1982, p. 10. Cade qui a proposito una recente riflessione di Jacques Le Goff: «Il diavolo è un personaggio enigmatico e

spaesante nella misura in cui rinvia all'opposizione bene/male che non si giustappone alla coppia sacro/profano. Dato dalle religioni costituite come il nemico dell’uomo, esso sembra in definitiva incarnare piuttosto la parte di angoscia individuale e collettiva cembre 1981, p. 19); ma per una popolazioni primitive al mondo volo, Newton Compton editori,

degli uomini» (in «Notiziario Einaudi», divisione di insieme delle forze del male dalle contemporaneo, cfr. A.M. Di Nola, // diaRoma 1987.

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