Vite dei filosofi all'asta-La morte di Peregrino. Testo greco a fronte 8843042351, 9788843042357

Tra le "Vite dei filosofi all'asta" e "La morte di Peregrino" si apre una medesima scena e si s

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Italian Pages 238 [240] Year 2007

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Vite dei filosofi all'asta-La morte di Peregrino. Testo greco a fronte
 8843042351, 9788843042357

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BIBLIOTECA MEDIEVALE/ II4 Collana diretta da Mario Mancini, Luigi Milone e Francesco Zambon

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a:

Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 229 oo186 Roma telefono o6 42 81 84 I7 fax o6 42 74 79 31

Siamo su: http://www.carocci.it http://www.facebook.com/caroccieditore

Luciano di Samosata

Vite dei filosofi all'asta La morte di Peregrino A

cura di Massimo Stella

Volume pubblicato con il contributo del MIUR e dell'Università degli Studi di Bologna.

ra

ristampa, giugno 2017 edizione, giugno 2007 © copyright 2007 by Carocci editore S.p.A., Roma ra

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari

ISBN 978-88-430-4235-7 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Ringraziamenti l 7

Luciano e le disavventure della filosofia: sapienti, retori e cristiani sulla pubblica piazza l 9

BIQN OPALIL l 74 VITE DEI FILOSOFI ALL'ASTA l 75

OEPI THL OEPEfPINOY TEAEYTHL l r36 LA MORTE DI PEREGRINO l 137

Note

Opere citate in forma abbreviata l 234

Ringraziamenti

Nel licenziare questo libro desidero ringraziare maestri, colleghi e amici che mi hanno sostenuto e consigliato durante il lavoro. Un ringraziamento particolare va innanzitutto a Mario Mancini, che ha creduto fermamente nell 'utilità di pubblicare un titolo lucia­ neo nella collana da lui diretta, manifestandomi, tra l'altro, un ' ami­ cizia personale tra le più rare. Per le ripetute letture e i preziosi suggerimenti quando il libro era ancora allo stato di manoscritto, ringrazio il mio maestro Diego Lanza, Anna Beltrametti e Maria Michela Sassi. Sono grato alle letture platoniche di Patrizia Pinotti e alla loro consueta intelligenza. Davide Susanetti ha condiviso con me tutto il percorso intellet­ tuale di questo lavoro e qualche eccentricità culinaria. Francesca Macrì, che mi ha oltretutto offerto un sostegno impa­ gabile nel lavoro editoriale, e Andrea Trapani hanno generosamente profuso fondamentali suggerimenti in ben più di una scelta toscaneg­ giante nella traduzione, omaggio senz' altro impari all'insuperabile mo­ dello di Luigi Settembrini, mentre Sonia Maura Barillari mi ha consi­ gliato preziosi ritocchi all'italiano pseudo-dantesco di alcuni passi. Francesco Massa mi ha assistito con la più impeccabile efficien ­ za negli ultimi controlli redazionali. Marzia Bambozzi e mia sorella Emanuela hanno più di una vol­ ta messo a mia disposizione la loro conoscenza capillare della lingua tedesca. Infine Maria Tasinato, cui devo già molte passioni e che, de par ses charmes, mi ha introdotto al fascino misterioso del tardo-antico. Incalcolabile è la gratitudine che devo alla pazienza, alla mitezza e alla generosità di mia madre. Bruno Menezes Ribeiro , cui il libro è dedicato, mi offre giornal­ mente validi spunti di riflessione sulla differenza tra buona e catti­ va filosofia . 7

Avvertenza: Il testo greco su cui si è condotta la traduzione e che è riprodotto a fronte è quello stabilito da A. M. Harmon (voll. 1-V), K. Kilburn (vol. VI), M. D . Macleod (voll. VII-VIII), Lucian, " Loeb Classical Library'', Harvard University Press, London-Cambridge (MA) 1913-67, 8 voll.

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Luciano e le disawenture della filosofia: sapienti, retori e cristiani sulla pubblica piazza

La causa universale è una corrente in piena: tutto trasporta. E che roba da poco sono questi omi­ ciattoli che si danno l'aria dei filosofi, che fanno la politica e la morale! Gente col moccio al naso! Marco Aurelio, Pensieri, lX, 29 State in guardia, voi filosofi e amici della cono­ scenza; e guardatevi dal martirio! Dal soffrire per "amore della verità!" [... ]. Si corrompe, nella vo­ stra coscienza, ogni innocenza e ogni delicata neu­ tralità [... ]. Questi ripudiati della società, questi lungamente perseguitati [ ... ] finiscono sempre per diventare, sia pure sotto i più spirituali ca­ muffamenti, e forse a loro stessa insaputa, degli assetati di vendetta e dei raffinati avvelenatori. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male La filosofia non come pensiero, ma come teatro: teatro di mimi dalle scene multiple, fuggevoli e istantanee dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno. Miche! Foucault, Theatrum Philosophicum I

L'ultima scena della filosofia: da Platone a Luciano

Non esistono più veri filosofi. Filosofia è rimasta orfana di ogni suo congiunto. Se ne sta ridotta in gramaglie, alla mercé d'un raccogliticcio di figuri, piccoli e brutti come i lo­ ro mestieracci da piazza, che la insolentiscono e la ricopro­ no di vergogna. Sinché la povera Filosofia, senza più fami9

glia e senza più degni pretendenti, è costretta a contrarre nozze. E un giorno, un ferraio, nanerottolo e pelato, si infi­ la in un bel bagno, si caccia addosso il vestito della festa e impalma Filosofia condannandola a futuri e copiosi parti di figli bastardi. Sembrerebbe proprio la trama d'un dialogo di Luciano, per chiunque abbia un po' di familiarità con le trovate mer­ curiali del celebre scrittore di Samosata. Ma non si tratta di Luciano. Altri potrebbe pensare a una commedia di Aristofa­ ne, e non penserebbe a torto, ché ben nota è l'elettiva paren­ tela tra Luciano e il grande comico. Si tratta, invece, di Plato­ ne, altro nume tutelare della scrittura lucianea, il celeberrimo filosofo, che così ritrae, attraverso le parole di Socrate, nel se­ sto libro della Repubblica 1, il destino cui è incorsa la filosofia nella sua democratica Atene. È una scena da ridere, sì, di pri­ mo acchito, ma, al contempo e ripensando, cupa, che, forse, rinnova le atmosfere sinistre d'un antico archetipo narrativo, il romanzo nero della vergine perseguitata 2• È una scena eu­ pa in cui la vergine Filosofia è infangata da nozze vili che as­ somigliano a un forzato meretricio, se non ancor più offesa dal parto immondo cui è obbligata. Ma il vero incubo platonico, il mostro, l'homme noir della storia, non è quel nanetto schifo­ so e grottesco che, paludandosi degli abiti di Filosofia, pre­ tenderebbe di farsi chiamare "filosofo". Il vero incubo è la fol­ la, e la sua spaventosa scena, la piazza. Nessuno dubita che Platone sia il fondatore della filosofia. Ma forse non è mai stato messo veramente in luce come la fon­ dazione platonica della filosofia avvenga a partire dal convin­ cimento che, nel mondo presente, di filosofia e di filosofi non

1 . Cfr. 495c-496a. 2. Devo alla lettura del bel saggio di Patrizia Pinotti, L'asino, il re, la fan­ ciulla gravida e il cigno, in M . Guglielmo, E. Bona (a cura di) , Forme di co­

municazione nel mondo antico e metamorfosi del mito: dal teatro al romanzo, Edizioni dell'Orso, Alessandria 2003, pp. 49-78 , in particolare p. 66, l'esser­ mi risovvenuto di questo passo platonico e l'averlo ricompreso come modu­ lo romanzesco.

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ce ne sono più e non ce ne sono mai stati. Come tutti i grandi "inattuali" del nostro pensiero, come Nietzsche, ad esempio, o come De Maistre, Platone rifiuta il presente, rifiuta ogni me­ diazione con ciò che è in atto. E ciò che è in atto nella città de­ mocratica di v e IV secolo a.C. è, secondo Platone, la prosti­ tuzione del pensiero. Ne sono esecutori i volgari omiciattoli di oggi, sofisti, retori, maestri e politici di mestiere o aspiran­ ti, rappresentati dall'immondo nano calvo. Ma i veri respon­ sabili del meretricio sono i guastatori di ieri, quelle grandi na­ ture che sarebbero nate per la filosofia e tuttavia si sono la­ sciate traviare, a loro volta traviando e perdendo anche gli al­ tri per lasciare il posto alle caricature d'uomo e d'intellettua­ le che imperversano nel presente3• Sicché Platone dedica tut­ ta la sua scrittura all'indagine di questo pervertimento, con­ ducendola però, rigorosamente, sulla scena di luoghi chiusi e appartati, siano i l locus amoenus del Fedro o le case della più scelta élite cittadina, come nella Repubblica o nel Protagora o nel Simposio, sia il ginnasio frequentato dalla jeunesse dorée del tempo, come nel Carmide, sia, infine, il carcere-cenacolo del Pedone. Ma, in generale, il dialogo di Platone è un luogo chiuso, esclusivo. Non ci sono scene affollate in Platone, non c'è la piazza. O meglio c'è, ma unicamente sotto forma di spet­ tro evocato, di terribile spauracchio, così come accade nella Repubblica 4, prendendo altresì le sembianze dell'assemblea politica cittadina o del teatro di Dioniso. Perché la piazza è il luogo degli intellettuali da sbarco, il luogo dove questi sedi­ centi filosofi, i sofisti, nonché i poeti, nonché i mestieranti del­ la politica, consumano la loro ignobile alleanza con il popolo della città. È il luogo, infine, e questo sì è davvero fatalmente rovinoso più di ogni altra cosa, dove i migliori hanno finito per soccombere, o perché se ne sono lasciati distruggere o perché hanno distrutto. Nasce, dunque, la filosofia, con Pla­ tone, nella speranza e nella promessa che essa non si conceda mai più alla folla. 3· Cfr. Repubblica, 494a ss. 4· Tra i libri V e VI, VIII e IX.

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Ironia del destino - diciamo pure vicende della storia questo spettro, a quasi cinque secoli di distanza, è diventato realtà di carne e ossa. Ed è proprio con la voce e la scrittura di Luciano, con lui più d'ogni altro, che la grande paura del­ la filosofia si avvera. Con Luciano, alla filosofia non resta che la piazza5• Le Vite dei/iloso/i all'asta e il Peregrino, che qui si presen­ tano in traduzione e commento al lettore, illustrano al meglio il terribile avveramento dell'incubo platonico. Nelle Vite dei/i­ faso/i all'asta assistiamo alla vendita degli "stili di vita", per co­ sì dire, ispirati ciascuno alla vicenda intellettuale, più che bio­ grafica, dei maggiori maestri del passato. Si vende lo stile pita­ gorico (Pitagora), quello cinico (Diogene), dell'edonismo cire­ naica (Aristippo), del filosofo folle che piange e ride sulla nul­ lità del mondo (è la coppia Democrito-Eraclito), lo stile socra­ tico (Socrate), quello epicureo (Epicuro), quello stoico (Cri­ sippo), nonché quello aristotelico (Aristotele) e, infine, quello scettico (Pirrone). A dire il vero, poi, più che d'una vendita, si tratta d'una svendita: questi articoli, alla fine, non costano mol­ to. L'articolo pitagorico, ad esempio, "viene via" a dieci mine, quello cinico è quasi regalato a due oboli, quello stoico è un ve­ ro affare per dodici mine, quello scettico è un'occasione per una sola mina. Costa un po' di più l'aristotelico, tra le proteste del compratore che mal tollera le venti mine, mentre l'articolo più caro, quello sì l'unico costoso, viene due talenti: è il socra­ tico. Alcuni sono perfino così guasti che non si vendono nean­ che: sono il modello cirenaica e quello democriteo-eracliteo.

5· La piazza, va da sé, è metafora che si fa specchio della società imperia­ le avanzata. Per questa dimensione cfr. P. Veyne, Le pain et le cirque: sociolo­ gie historique d'un pluralisme politique, Seui!, Paris 1976. E mi sembra, in ge­ nerale, che alla scrittura di Luciano e ai suoi orizzonti culturali si addicano me­ glio queste " grandi piazze " , questi vasti panorami antropologici, piuttosto che le " piccole patrie" della Grecia mummificata e rianimata dai neoatticizzanti, cfr. T. Withmarsh, Greece Is the World: Exile an d Identity in the Second Sophis­ tic, in S. Goldhill (ed . ) , Being Greek un der Rome: Cultura! Identt!y, the Second Sophistic an d the Development o/ Empire, Cambridge University Press, Cam­ bridge 2001, pp. 269-305.

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Insomma, diremmo oggi, un'autentica fiera del saldo! E chis­ sà se quell'implicito omaggio dei due talenti tributato a Plato­ ne attraverso Socrate non sia soltanto un riconoscimento del­ l'incomparabile qualità della di lui scrittura e pensiero, ma an­ che un sarcastico saluto a chi, proprio nel mentre si vende il protagonista dei suoi dialoghi, tanto aveva paventato la merci­ ficazione della filosofia ... Una vendita, anzi una svendita, che si fa, com'è ovvio, in piazza. I venditori sono Zeus ed Ermes. Mettono giù i banchi e chiamano i clienti: «Vengano, signori, vengano! Si vendono vite filosofiche per tutti i gusti! ». Scena da mercato in piena regola. Ed è una scena un po' triste. Er­ mes, lui, si diverte, perché a lui sta piazzare gli articoli e tratta­ re con i clienti. Zeus, invece, ha poca parte e, per quel poco che dice, ha l'aria di non infischiarsene un bel nulla di quel che ven­ de. Ha fretta, come il commerciante che deve liberarsi di un fondo di magazzino, e non gli interessa più nemmeno vendere bene: vuol solo disfarsi del fastidioso ingombro della mercan­ zia. Figuriamoci dunque se gliene cale di trattare bene i com­ pratori o illustrare i prezzi! E i clienti, loro, non comprano per­ ché vogliono diventare filosofi: hanno bisogno di schiavi. Quello che compra il modello Socrate, l'unico cliente ad ave­ re un nome, è in cerca di un pedagogo per suo figlio. Si chia­ ma sì Dione, ma dell'uomo che condivise con il compagno Pla­ tone più di un'avventura politica non ha alcun ricordo: non c'è più memoria del passato. Quello che compra il modello Pirro­ ne ha bisogno di uno da mettere alla macina. Colui che si por­ ta a casa l'articolo stoico, il modello Crisippo, è attirato dal fat­ to che, almeno a detta di Ermes, si tratta di articolo multiuso: solo lui è bello, giusto, coraggioso, re, retore, ricco, legislatore, così come cuoco, calzolaio, fabbro eccetera eccetera. Mentre quello che si aggiudica il pitagorico viene colpito, oltre che dal­ l'aspetto divino della merce, dalla possibilità di essere immor­ tale, di cambiare molte vite: forse ha bisogno di un astrologo, o di un indovino. L'acquirente del modello Diogene compra solo perché il prezzo è talmente basso che non ha nulla da per­ dere e tutt'al più se ne servirà come giardiniere o marinaio, o forse lo metterà a zappare o a portare acqua o a fare il porti13

naio. Quanto al compratore dell'articolo epicureo, non sappia­ mo neanche di che servo abbia bisogno in particolare: si limita a informarsi che non mangi troppo e cose troppo costose, visto che deve pur mantenerlo. Quanto infine a quello che si compra l'aristotelico, lo fa, su consiglio di Ermes, perché pare che co­ stui abbia un gruzzolo personale. I compratori, dunque, non vogliono né chiedono di diventare filosofi. E non si tratta di un dettaglio, soprattutto se ci ricordiamo delle Nuvole di Aristofa­ ne6 - che è senza dubbio un modello forte per le Vite dei/ilo­ so/i lucianee-, quel prototipo di commedia intellettuale-filoso­ fica in cui l'uomo della piazza, Strepsiade, va a scuola da So­ crate perché vuole imparare la filosofia. Certo, il suo scopo è quello di liberarsi dai debiti facendo uso della filosofia, ma alla filosofia è pur sempre riconosciuto un ruolo, anzi il ruolo d'ul­ timo grido delle professioni, del mestiere intellettuale per ec­ cellenza7. Non così per gli acquirenti lucianei. Per loro il mer­ cato delle vite filosofiche non è che mercato di schiavi e da es­ so in nulla si distingue. Perché questa differenza? Ad Aristofa­ ne interessa parodiare e, parodiando, illuminare pratiche e di­ namiche culturali della città, tra le quali il vero e proprio boom della filosofia ad Atene nella seconda metà del v secolo a.C. Lu­ ciano pare invece voler definitivamente liquidare, letteralmen­ te liquidare, a costo di scontare e quasi regalare. Da una scena di piazza all'altra, dal mercato al bagno di fol­ la dello spettacolo pubblico: eccoci nel Peregrino. Ed è un ve­ ro pullulare di persone, un trionfo del pigia-pigia che culmina nel parapiglia generale, al punto che Luciano ammette di es­ sersene fuggito, a un certo punto, per il timore di venir schiac­ ciato e calpestato. D'altra parte siamo, nel Peregrino, alle Olim6. Che Dario del Corno evoca nella sua introduzione all'edizione Rizzo· li delle Vite ( cfr. Le maschere della filosofia, introduzione a Luciano, I filosofi all'asta, Il pescatore, La morte di Peregrino, Rizzoli, Milano 2004, pp. r-rv, in particolare p. m), riconoscendo in Strepsiade Io stampo, se così si può dire, dei compratori lucianei. 7· Sull'Atene delle professioni e il ruolo che la scrittura filosofica occupa in essa è fondamentale D . Lanza, Lingua e discorso nell'Atene delle professio· ni, Liguori, Napoli 1979.

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piadi, l'occasione pubblica più affollata 8 dell'intero mondo greco. Perché Peregrino, filosofo cinico che ha praticato tutte le possibili vie della filosofia e a un certo punto si è pure con­ vertito al cristianesimo, ha scelto proprio il grande scenario delle Olimpiadi per allestire l'ultima delle sue già tante rap­ presentazioni: il proprio rogo. Lo si vede bene: se nelle Vite la scena da piazza era il mercato degli schiavi, qui è lo spettacolo di massa. C'è intanto la declamazione pubblica dei filosofi pre­ dicatori, come è il caso di Teagene, che, nel ginnasio di Elide, in cui confluiscono e defluiscono i viaggiatori alla volta di Olimpia e dei giochi, sbraita con voce chioccia e catarrosa da­ vanti a uno stuolo di teste le sue esortazioni alla virtù e con­ clude con l'annuncio dell'apoteosi del divo Peregrino. Ed è uno spettacolo di scalmane retoriche irrorate di copiosissimi sudori e di urla tonitruanti, di lacrime, singhiozzi e chiome ar­ tatamente strappate, sicché nell'immagine di questo vocifera­ tore fracassone risuona tutto il tumulto della piazza nella sua sgangherata scompostezza, nel suo sciamare e riconfluire senz'ordine né argine: in breve, siamo al circo. Ma la vita di Pe­ regrino in generale, così come la racconta il secondo, anonimo oratore salito sulla tribuna subito dopo Teagene, è un inces­ sante darsi in pasto al pubblico, al pubblico più grande possi­ bile: persino il carcere, il carcere in cui viene rinchiuso, anzi, egli stesso fa di tutto per venir rinchiuso come sovversivo cri­ stiano onde far parlare di sé la gente, è un luogo stipato di ac­ coliti, donne, bambini, avventori, un va e vieni incessante - e come non ricordare, per contrasto, il carcere-cenacolo del Pe­ done platonico, dove pochissimi entrano, soltanto gli iniziati alla filosofia, e nessuno che non sia, oltre che maschio adulto e filosofo, sincero amico? Ma non solo. C'è la recita interpreta­ ta davanti alla cittadinanza tutta di Pario, la città natale di Pe-

8. Luciano ricorre all'aggettivo polyanthrop6taton, cfr. PAR. 1. M. M. Sassi ha bene messo in evidenza che il rapporto tra festa pubblica, viaggio e filosofia è topico nella tradizione antica, cfr. Il viaggio e la festa. Note sulla rappresenta­ zione dell'zdeale filosofico della vita, in G. Camassa, S. Fasce (a cura di) , Idea e realtà del viaggio. Il viaggio nel mondo antico, ECIG, Genova 1991, pp. 17-36.

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regrino, in abiti cinici, sulla questione dell'eredità; c'è il perio­ do egiziano in cui il nostro, in perfette sembianze d'asceta in­ diano, si espone a pubbliche dimostrazioni di martirii corpo­ rali, stravaganti esercizi penitenziali e, beffa suprema, clamo­ rose ostensioni d'indifferenza al mondo, come, ad esempio, masturbarsi davanti alla gente. C'è ancora la storia dell'espul­ sione da Roma, che lo fa balzare al vertice del pettegolezzo giornaliero; nonché l'insensato attacco a Erode Attico, grande e amato benefattore di Olimpia - e in Olimpia medesima da­ vanti al più gran concorso di folla -, quel celeberrimo oratore e ricchissimo costruttore dell'acquedotto, il quale, per la pri­ ma volta, portava l'acqua nella città dei giochi panellenici, dis­ setando migliaia di persone e risolvendo l'eterno problema sa­ nitario che vessava il grande concorso olimpico... e tutto per il gusto di farsi chiacchierare dalla massa, a rischio persino del linciaggio collettivo! E poi c'è il gran finale: il rogo, preceduto da un ultimo bagno di folla. È il culmine dell'intero racconto: innumerevoli sono i convenuti a sentire le ultime parole di Pe­ regrino prima della sua dipartita. Il portico del tempio è zep­ po di ascoltatori: una massa in conflitto con se stessa, divisa com'è tra fautori fanatici e altrettanto fanatici detrattori del fi­ losofo asceta in odore di ciarlataneria e santità. Si viene anche alle mani. Questi a gridare: «Salvati, per pietà! »; quelli a dar loro sulla voce: «E crepa una buona volta! ». L'atmosfera è vio­ lenta e sinistra. A quel punto Luciano commenta: E tuttavia lui, così com 'era circondato dalla folla, si toglieva il ca­ priccio della celebrità guardando dall' alto la massa dei suoi ammira­ tori, senza rendersi conto, il poveretto, che molto più grandi sono le masse che seguono i condannati alla croce o al patibolo 9.

Ma non è solo un commento. È anche una chiave. Il pubbli­ co suicidio di Peregrino, quanto all'effetto, è meno efficace sì, ma è pur sempre come lo spettacolo di un supplizio capitale, come lo è una cattiva replica, d'accordo, e tuttavia come un 9· Cfr. PAR. 34-

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supplizio capitale. La gente non viene a sentire il filosofo, vie­ ne a vedere Peregrino come si va a vedere un condannato a morte prima dell'esecuzione. E sul patibolo non sale soltanto e tanto Peregrino: vi sale anche e soprattutto la filosofia. Ma in che senso la filosofia, già svenduta sul mercato nelle Vite, viene ora messa a morte sulla pubblica piazza? 2

Il gioco dell'imitatore e il gioco dell'autore: la mimesis tra scrittura, filosofia e retorica

Bisogna ripartire dalla scena. La piazza, quanto meno la piaz­ za platonica da cui Luciano prende le mosse nelle Vite e nel Peregrino, è qualcosa di più che un semplice simbolo di de­ gradazione e involgarimento: Vedi un po' se anche tu sei della mia opinione. Se un falegname si mettesse a fare il lavoro del calzolaio o viceversa, o si scambiassero i ferri del mestiere e i ruoli, oppure se uno solo si mettesse a fare tut­ ti e due i mestieri: pensa che confusione ! E non ne verrebbe un gran danno alla città? [. . ] Beh , figurati allora che disastro sarebbe se uno che è nato artigiano, o comunque un tizio qualsiasi che venga paga­ to per il lavoro che fa, alzasse il tiro perché si è arricchito, o perché si è guadagnato un grosso seguito, o perché si è messo a fare il pre­ potente o insomma mettila come ti pare, e desse la scalata al ceto dei guerrieri, oppure se un guerriero desse la scalata al ceto dei custodi e dei consiglieri, anche se non ne è degno, e si scambiassero ferri del mestiere e ruoli, o ancora se uno solo si mettesse a fare il lavoro di tutti questi presi insieme ! Sicché il danno più grande per la città è questo scambiarsi ruoli e compiti tra le tre classi e questo trasfor­ marsi dell 'una nell' altra ! E non potremmo a giusto titolo chiamarla la peggior forma di crimine? '0 .

Così il Platone della Repubblica evoca l'agorà di Atene, dove si aggirano, impunemente, disprezzabili artigiani e lavoratori più o meno arricchiti e prepotenti che giocano il criminoso ro. Cfr.

Repubblica, 434a-c. 17

gioco della polyp ragmosyne, ovvero l'arte dello scambiare un'identità, un ruolo, una prerogativa, un lavoro con un altro o con altri. Ma la taccia di polypragmosyne arriva a investire anche alcune eminenti figure intellettuali. Il sofista, così come è descritto da Platone nelle prime pagine del dialogo omoni­ mo, è il campione della polypragmosyne, e viene sinistramen­ te dipinto, tra l'altro, come un "rivenditore al dettaglio di no­ zioni", come un "mercante dell'anima", su tutto uno sfondo di mestieri, mestierini e mestieracci che non possono altrove pullulare e prosperare se non nelle piazze cittadine II. Per non parlare dei poeti, e specificamente degli autori di teatro, di­ pinti come "uomini molteplici" 12 che sanno imitare ogni ge­ nere di cosa. Eccoci dunque al punto: la piazza, che sia mercato, teatro, festa cittadina, giochi, comizio, è il luogo dove un uomo può essere molte cose e molte cose possono coesistere in un solo uomo, dove l'uno e il molteplice si sovrappongono e si confondono, dove, meglio, non esiste l'essere perché l'uno non è più uguale a se stesso e dunque si frange e si rifrange in una multiformità in cui tutto è e non è, in cui tutto è appa­ renza e rappresentazione. Da Platone in poi questa dimensio­ ne prende il nome di mimesi. Nelle sue Vite Luciano mette in scena una vendita al mer­ cato. Ma che cosa si vende? Vite filosofiche. E tuttavia questa risposta, che parrebbe del tutto immediata, abbisogna di più d'una riflessione. Luciano orchestra infatti un gioco sottile, uno scintillio intermittente, si direbbe, a fior di pagina. Si ven­ dono sì vite, ma noi lettori siamo messi ognora di fronte a un personaggio parlante, di foggia sempre strana, di abitudini e opinioni ancor più strane. Il personaggio non ha nome pro­ prio. Il primo è definito "pitagorico", il secondo "sozzone del Mar Nero", il terzo "cirenaico", la coppia del quarto e del

So/ista, 223b-226a . 12. Cfr. ancora Repubblica, 398a (pantodap6s), ma cfr. anche 598e ss. In 397e si parla, con implicito riferimento al poeta, di diplous anèr... pollaplous. n. Cfr.

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quinto "quello di Abdera e quello di Efeso", il sesto "l'Ate­ niese", il settimo "l'epicureo", l'ottavo "quello del portico", il nono "il peripatetico", il decimo "lo scettico". E questa ano­ nimia è assai significativa, perché suggerisce l'assoluta generi­ cità della figura che di volta in volta sentiamo parlare. Che senso ha dunque questa genericità e che cosa, alla fine, viene messo in vendita, vite o personaggi? Il fatto è che Luciano sfrutta tutte le ambiguità che la lingua gli consente. Essendo in greco "vita", bios, di genere maschile, si apre l'arco di una straniante sovrapposizione tra la "vita" e l' "uomo", sicché, quando Zeus o Ermes dicono, ad esempio, "il pitagorico", possono indicare contemporaneamente il personaggio o la vi­ ta. Tale identificazione non lascia dubbi sulla consistenza del personaggio che ci troviamo di fronte: essendo la vita puro e astratto paradigma, anche il personaggio risulta essere pura immagine, vuoto simulacro, animazione e simulazione priva di verità '3• E si tratta, sia nel caso della vita che del personag­ gio, di repliche, di copie, per meglio dire di stereotipi. Perché è il gioco dello stereotipo quello che interessa giocare a Lu­ ciano e per uno scopo ben preciso. Poiché non esiste stereo­ tipo senza che ne esista l'originale, il lettore è solleticato a ri­ trovare di questi vuoti modelli il vero archetipo. Sicché egli si diletterà di scorgere Pitagora nel pitagorico, So erate nell'ate­ niese, Crisippo nello stoico, Aristippo nel cirenaica e così via. Ma gli originali sono irrimediabilmente perduti. Nel leggere le Vite viviamo così uno straniante intrattenimento orchestra­ to tra l'allusione all'originale assente e la ripetizione della co­ pia: in altri termini ancora, assistiamo all'ingannevole moto di andirivieni tra l'inimitabile dell'originale e l'imitato infinita­ mente imitabile della copia, per ritrovarci infine calati intera-

1 3 . Ciò risulta tanto più interessante se si considera, come ha indicato Giuseppe Cambiano in un saggio fondamentale, cfr. La filosofia in Grecia e a Roma, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 3 ss . , che la figura del filosofo nel mon­ do antico si distingue da quella del filosofo moderno e contemporaneo, e già a partire dallo stesso Medioevo, essenzialmente in quanto esempio di vita, al di là della sua dottrina o dei suoi libri .

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mente nel territorio della mimesi così come essa è definita dal Platone di Repubblica X'4. Dal pullulare di questa stordente molteplicità di copie pas­ siamo alla scena del Peregrino. Lì il protagonista è uno solo, il solo Peregrino. Ma Peregrino è uno? Il secondo nome di Pe­ regrino è Proteo, il celebre demone egiziano di america me­ moria che sa trasformarsi in ogni forma voglia, persona, cosa, elemento naturale: Sai quell'animaccia nera di Peregrino, o come lui stesso preferiva far­ si chiamare, Proteo? Bene: gli è capitato proprio lo stesso che al Pro­ teo d'Omero ! Tante cose è stato e tante forme ha cambiato in nome del successo, che ti finisce per diventare fuoco ! '5

Così esordisce l'opera lucianea dedicata a Peregrino. Peregri­ no non è dunque uno. È il tipico uomo che Platone definireb­ be "molteplice". Non a caso, il filosofo di Atene associa co­ stantemente Proteo al poeta '6, al sofista'7, al mondo del tea­ tro'8. E ancora Proteo è l'immagine mitica di riferimento, per quanto non esplicitamente nominata, cui si ispira il ritratto del falso sapiente delineato da Platone nel So/ista: è costui una bel­ va multiforme, imprendibile perché in continua metamorfosi, perché composita, perché costituita di molte identità, poiché figura dai molti saperi e dalle molte professioni nonché indi­ scussa maestra dell'apparenza'9• Vertiginosi, d'altra parte, so­ no il numero e la natura dei modelli che Peregrino ripete a ogni iniziativa, a ogni nuova avventura, senza risparmiare addirit­ tura l'Olimpo: Eracle, Asclepio, Dioniso, Zeus, tra gli dèi; Em14. Per il discorso sull'imitazione in Platone scelgo qui di rimandare, nel­ l'immenso cumulo bibliografico, allo splendido e spesso dimenticato libro della narratrice inglese lris Murdoch , The Fire and the Sun , Oxford Univer­ sity Press, Oxford 1977. 15. Cfr. Peregrino, 1 . 1 6 . Cfr. Ione, 451e. 17. Cfr. Eutidemo, 288b-c. 18. Cfr. Repubblica, 381d. 1 9 . Cfr. ad esempio 226a; 235b-c; 236d.

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pedocle, Diogene, Antistene, Socrate, Cratete, Musonio, Dio­ ne, Epitteto, tra i filosofi, nonché, tra i vari esempi orientali di sapienti ispirati, Cristo e i brahamani indiani. Persino i disce­ poli di Peregrino iterano l'esempio dei discepoli di Socrate nel carcere. Infine, e forse soprattutto, Peregrino è un attore: tut­ to, nella vita di Peregrino, è messa in scena, tragoidia, anzi, la sua intera vita è rappresentazione, drama. Ma, come si evince chiaramente dal racconto di Luciano, nulla di tutto questo ap­ parato è originale. Il teatro e il repertorio di Peregrino sono mera copia. Peregrino non è che un imitatore. E se poi proprio ha le smanie di far l'Eracle sulla p ira perché non sce­ gliersi, quatton quattoni, un bel monte con tant'alberi e colà darsi fuoco in santa pace, tutt 'al più portandosi dietro il suo Filottete, ti­ po Teagene? N o ! Lui, a Olimpia, nel più gran parapiglia della festa, e poco ci manca che lo faccia in scena, va a darsi fuoco ! 20 Tra l'altro, Eracle , se anche ha osato fare quel che ha fatto, è perché il sangue del centauro l'aveva dissennato e gli mangiava l'ossa. E que­ sto qui, che motivo ha per gettarsi nel fuoco? Per Zeus ! È che vuoi fare pubblica prova di sopportazione come i brahamani. L'ha detto Teagene che gli somiglia, come se anche tra gli indiani non ce ne fos­ se di matti vanagloriosi . Ma allora che li imiti d avvero ! Perché i brahamani non si gettano a piedi giunti sulla pira ! Lo dice Onesicri­ to, il comandante di Alessandro che racconta del rogo di Calan o ! Eh no: loro, una volta innalzata la pira, le si mettono vicino, senza muo­ vere un muscolo, e si fanno rosolare. Soltanto dopo ci salgono sopra con dignità, e bruciano senza muoversi neppur d 'un fiato ! 21

Come si vede, Luciano contesta a Peregrino, attraverso la vo­ ce del narratore anonimo, la pertinenza dell'imitazione. E la capziosità di questa protesta, che si spinge all'accusa di inve­ rosimiglianza suffragata dalla controprova storica, non è poi funzionale ad altro se non a sottolineare come ogni trovata di Peregrino sia soltanto riproduzione.

20. Cfr. PAR. 21 . 21. Cfr. PAR. 25.

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Nelle Vite siamo dunque messi di fronte a un dé/ilé di co­ pie le quali, con il Peregrino, trovano la loro unitaria rappre­ sentazione in quella copia che contiene tutte le altre possibili: Peregrino è infatti il paradigma indefinitamente e infinitamen­ te plurivoco in cui tutti gli altri paradigmi possono convivere. Va da sé che si tratta qui, nelle Vite come nel Peregrino, di pessime imitazioni. E questa degradazione prende la forma di una follia miserabile: quelle brutte copie di filosofi che ci ve­ diamo sfilare davanti non sono che monomaniaci in balia del loro ticchio: il riso ossessivo e incessante del democriteo, il pianto dirotto e continuo dell'eracliteo, l'impenetrabile cata­ tonia del pirroniano, l'iracondia violenta e sporcacciona del cinico, la logica delirante e surreale dello stoico, i progetti vi­ sionari e la fissazione erotica del socratico, la stramberia mi­ sticheggiante del pitagorico... sembra di visitare, se così si può dire, la corsia di un manicomio! Quanto a Peregrino, anche lui è un povero, biasimevole pazzo in preda all'incontrollabi­ le tara della mitomania, la kenodoxia, che lo porterà all'ulti­ mo, folle gesto suicida. E c'è un famoso passo della Repubbli­ ca io cui la pratica dell'imitazione, rappresentata per antono­ masia dal teatro, non è altrimenti che una fiera di folli. Quan­ do Socrate identifica colà tragedia e commedia con la ripro­ duzione di storie vergognose agite da vigliacchi, malfattori, criminali che si nuocciono a vicenda, tra lo strepito di inaudi­ ti rumori di scena- muggiti di tori, nitriti di cavalli, scrosci di tuoni -, chiedendo poi al suo interlocutore, Glaucone, se mai siano tali i modelli da offrire alla città, questi risponde indi­ gnato: «Ma non avevamo già stabilito di vietare queste cose da folli e la loro imitazione?»22• D'altra parte, come Platone in­ segna a Luciano, l'imitazione non può mai essere buona... Ma perché, appunto, rimettersi sulle orme del grande fi­ losofo di Atene? Perché rianimare il vecchio teatro platonico della mimesi e dell'imitazione? Là dove è giocoforza che la fi­ losofia e la sua verità vincano? E poi Luciano, proprio lui, un

22. Cfr. Repubblica, 396b 8-9.

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retore, nemico per vocazione, verrebbe da dire, di quel teatro e della sua filosofia? Già! In effetti, grava su Luciano la fama universale di "re­ tore". E, forse, Luciano sarebbe d'accordo, se "retore" si di­ cesse, almeno, nel senso in cui lo si diceva al suo tempo, quan­ do non si distingueva, anzi, non si voleva più distinguere tra re­ torica e filosofia, come Filostrato avrebbe poi, di lì a poco, sancito23• Il fatto è che nel momento in cui oggi si definisce Luciano "retore", lo si dice, seppur involontariamente, nel senso platonico, sicché egli ne esce come un artigiano della parola, magari brillante, ma senza vera autonomia intellettua­ le. Eppure questo è, evidentemente, soltanto un pregiudizio. Forse, invece, è proprio il contrario. Forse, la rianimazione del fantasma platonico è proprio il segno di una grande auto­ nomia intellettuale che, davvero, sarebbe arduo distinguere da un dirompente atto filosofico. Sulla scena delle Vite e del Peregrino, l'imitazione, con la sua giostra di copie, modelli e originali perduti, è un sottilissimo stratagemma. Luciano gio­ ca a occupare il posto dell'osservatore platonico, sotto menti­ te spoglie, per rovesciarne, alla fine, il punto di vista. Come? Con una mossa tanto impercettibile quanto fatale: «soccor­ rendo la falsità della falsa sembianza, la somiglianza stessa del simulacro»24, e facendo quindi silenzio, un silenzio assoluto, definitivo, sulla verità. Sicché, qualsiasi distinzione platonica tra filosofia e retorica viene immancabilmente a cadere, come anche, di conseguenza, tra mimesi e verità. E se mai qualcosa 23. Cfr. Vite dei so/isti, I, 481 e 484, dove, in un contesto che, allusiva­ mente, ma inequivocabilmente, polemizza proprio con il non sapere di So­ crate, la sofistica è detta essere «retorica filosofeggiante>>, mentre la filosofia non si distingue da quest'ultima che per l'ostentazione della propria socrati­ ca ignoranza. Su tutto questo cfr. le osservazioni importanti di B. Cassin, Du faux ou du mensonge à la fiction , in Ead. (éd . ) , Le plaisir de parler. Etudes de sophistique comparée, Minuit, Paris 1986, pp. 3-29, e altresì Ead . , L'ef/et so­ phistique, Gallimard, Paris 1995. 24. Sono le parole di Miche! Foucault che introduce il Deleuze lettore del Sofista platonico, cfr. Theatrum Philosophicum, introduzione a G. Deleuze, Dzf/erenza e ripetizione, trad. it. Il Mulino, Bologna 1971, pp. VII-XXIV, in par­ ticolare p. IX.

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di platonico rimane ancora in piedi, dopo questo crollo cla­ moroso, è ormai, senza scampo, in senso antiplatonico. Se si può ancora dire "retorica" in senso platonico, lo si dirà della filosofia e contro la filosofia. Se per Platone "retorica" signi­ fica, da un lato, persuasione fallace e, dall'altro, insegnamen­ to professionalizzato, per Luciano "retorica" sarà piuttosto ogni aspirazione morale alla e della filosofia. Lo si vede mol­ to bene dalle Vite. Le vite paradigmatiche, il bios pitagorico, cinico, epicureo, stoico, scettico, socratico, sono appunto mo­ delli morali. E questi modelli non vengono squalificati come vuote copie soltanto, né tanto, perché usate e abusate, trite e ritrite, malintese e mal proposte, nonché imitazioni di imita­ zioni ad in/initum. Le vite morali sono retorica per il princi­ pio su cui sono fondate: la pretesa delle distinzioni di merito, la pretesa dell'esemplarità, la pretesa del giudizio di valore, la pretesa di indicare la via maestra alla virtù. La critica di Lu­ ciano è dunque molto profonda e più radicale di quanto non appaia. Tutte le filosofie antiche sono infatti costruite su que­ ste posizioni di principio: lo sono tutte quelle che noi oggi usiamo chiamare "filosofie ellenistiche", lo è per molta parte quella aristotelica, e lo è sopra tutte e prima di tutte quella pla­ tonica con le sue discriminazioni tra il buono e il cattivo, tra il vero e il falso, tra il giusto e l'ingiusto, tra il politico e il ti­ ranno ecc. e con le sue costruzioni di archetipi valoriali, come il perfetto filosofo, il perfetto virtuoso, la perfetta città ecc. La critica di Luciano risale dunque dalle derive, dalle copie, dal­ le imitazioni sino ai grandi maestri del passato, sino agli origi­ nali assenti echeggiati in quelle perdute derive, in quelle brut­ te e malfatte imitazioni, per svelare e forse mettere sotto ac­ cusa la platonica retoricità della filosofia tout court, di tutte le filosofie, sia quelle d'autore sia quelle contraffatte e falsifica­ te dai ripetitori e dagli imitatori, quando esse pretendano di edificare e ammaestrare, di farsi guida alla saggezza. Ed è nel Peregrino e attraverso la figura di Peregrino, ennesima e pes­ sima imitazione, che Luciano dà il nome a questa eccedente, velleitaria, universale pretesa della filosofia: "vanagloria", ke­ nodoxia . Il rogo di Peregrino è dunque il brucia-tutto, il falò 24

della vanità filosofica, della vanagloria che intrinsecamente in­ nerva la filosofia nel suo retorico sogno di virtù, perché non esiste, secondo Luciano, alcun sogno di virtù che possa dirsi legittimo. Non c'è più dunque alcuna speranza per la filosofia? C'è forse mai un altro modo di fare filosofia che non sia quello di ascendere sul piedistallo della virtù? C'è. C'è la scrittura. La scrittura è d'altra parte legata alle sorti della filosofia da quando Platone ha scritto i suoi dialo­ ghi. E, specificamente, la scrittura filosofica di Platone non scaturisce da altro che dall'intellettualizzazione del raccon­ to25• È qui che Platone, rifiutato e avversato da Luciano in quanto padre morale, di Luciano resta, tuttavia e nonostante tutto, il grande, forse il solo unico vero ispiratore: nella scrit­ tura come gioco intellettuale. È quel Platone che, nonostante l'etica e forse malgrado se stesso, riconosce e svela appunto la natura Iudica, intellettualmente Iudica, della sua scrittura fi­ losofica nel Fedro26• La salvezza della filosofia sembra dunque consistere per Luciano non nella sottomissione a quel magi­ stero che si chiama "paternità dell'anima", ma nella scrittura come affermazione della propria dignità d'autore. Perché con Luciano il solo modo di essere filosofi è essere autori. È que­ sta la mimesi che non è più imitazione e riproduzione di mo­ delli, ma rappresentazione autoriale. Nelle Vite e nel Peregri­ no, Luciano giustappone dunque questi due piani della mi­ mesi sottoponendoli all'arbitrato del suo lettore: il piano del­ la mimesi in quanto gioco dell'imitatore, che è quello delle vi­ te morali infinitamente imitabili e della vita imitata da più mo­ delli, e il piano della mimesi in quanto gioco dell'autore che è il racconto stesso di Luciano, il libro di Luciano che noi let­ tori, tenendolo nelle nostre mani, andiamo leggendo.

25. È ciò che ho cercato di mostrare nel mio libro platonico, cfr. M. Stel­ la, I.:illusion philosophique. La mort de Sacra te sur la scène des Dialogues pla­ toniciens, Millon, Grenoble 2006. 26. Cfr. 276c-277a.

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3 Filosofia della parodia

«A colpi di mimesi parodica, Luciano sembra realizzare la pa­ rodia della mimesi e dell'estetica incentrata sull'opposizione di verosimile e meraviglioso»27. Così Anna Beltrametti, in un saggio ormai classico nella let­ teratura critica su Luciano, descrive il procedimento fonda­ mentale che anima la scrittura dell'autore: il doppio e contem­ poraneo movimento tra mimesi parodica e parodia della mi­ mesi. La scrittura di Luciano è infatti nel suo complesso paro­ dia, parodia in quanto scrittura parodica e, al contempo, in quanto parodia della scrittura. Una parodia che, soprattutto, non è soltanto, né tanto, esercizio retorico, quanto piuttosto ri­ generazione semantica2 8, cioè rinnovata donazione di senso a scritture, generi, immaginari, rappresentazioni depositati nel­ la consuetudine della tradizione. Lasciamo per ora da parte la questione di come Luciano realizzi la sua parodia nelle Vite e nel Peregrino 29 e chiediamoci piuttosto: in che cosa consiste la "rigenerazione semantica" lucianea? In altri termini: qual è l'effetto di pensiero che la parodia di Luciano riesce a sortire? La sostanza parodica delle Vite e del Peregrino sta nel gio­ co che abbiamo testé cercato di mostrare: quello della copia e della moltiplicazione delle copie, quello della compresenza e della compossibilità di molti e, in prospettiva, di tutti i mo­ delli imitabili. Sicché, in Luciano, tutto risulta imitabile, tut­ to ripetibile. Nulla è più originale né eccezionale, nulla è più falso, nulla è più vero, nulla è più verosimile, nulla è più inve­ rosimile né meraviglioso. Sembrerebbe allora che Luciano

27. Cfr. A. Beltrametti, Mimesiparodica e parodia della mimesi, in D. Lan­ za, O. Longa (a cura di) , Il meraviglioso e il verosimile. Tra Antichità e Me­ dioevo, Olschki, Firenze 1989, pp. 221-6, in particolare p. 220. 28. Scrive ancora A. Beltrametti, La parodia letteraria, in G . Cambiano, L. Canfora, D . Lanza (a cura di) , Lo spazio letterario della Grecia antica, Sa­ lerno editrice, Roma 1993, vol. 1/3 , pp. 275-302, in particolare p . 291 . 29 . Di questo c i occupiamo più avanti, cfr. p p . 33 ss.

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giunga all'azzeramento del senso. Quale rigenerazione se­ mantica allora? Evidentemente, Luciano vuole mettere il suo lettore di fronte a un'impasse, vero e proprio cercle vicieux, da cui è im­ possibile uscire se non supponendo che la sua parodia evada i limiti del letterario inteso stricto sensu come fatto retorico e linguistico, come parole 30, per diventare langue, dimensione intellettuale. Quando si è terminata la lettura delle Vite e del Peregrino si ha l'impressione di un grande vuoto. Davanti a noi si erge un cumulo di macerie. Irrecuperabili brandelli, disperati lacerti, inservibili frustoli di un'intera cultura, quella greca antica e "pagana" ormai al suo definitivo tramonto, cultura che viene identificata tout court da Luciano con la filosofia, quasi la filo­ sofia fosse, e forse non a torto, l'espressione più significativa di quel mondo vicino a finire. C'è di che rimanerne inquietati. Dell'antica saggezza3' Luciano sembra proprio non salvare nulla. Viene in mente uno dei più tetri, ma non sarebbe un'e­ sagerazione dire il più macabro, tra gli scritti di Luciano, I lon­ gevi, un'operetta nera costruita come una rapsodia di iscrizio­ ni tombali che recano il nome del defunto, la sua condizione in vita, il gran numero d'anni che visse. Si tratta di grandi re e di grandi saggi del passato, tra cui filosofi, retori e storici. Ce li vediamo sfilare davanti in tutta la loro funerea decrepitezza in un trionfo del memento mori e della vanitas mundi. E viene altresì in mente la provocazione di un celeberrimo filosofo del­ la nostra modernità, S0ren Kierkegaard, non a caso assiduo lettore di Luciano, che, sulla scorta dei Dialoghi dei morti lu-

30. Per cui cfr. l'analisi di A. Camerotto, La metamorfosi della parola: stu­ di sulla parodia in Luciano di Samosata, Istituti editoriali e poligrafici inter­ nazionali, Pisa-Roma 1998. 3 1 . Agli occhi di Luciano, il mondo che lo precede e la sua cultura non sono meno " antichi " e " classici " che ai nostri. Per questo processo di " clas­ sicizzazione" cfr. le prospettive aperte dal volume curato da}. I . Porter, Clas­ sica! Pasts: The Classica! Traditions o/ Greece an d Rome, Princeton University Press, Princeton 2006.

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cianei, immagina di leggere alcuni suoi discorsi al cospetto d'u­ na spettrale società letteraria, il Circolo notturno dei sympara­ nekr6menoi, ovverosia dei commorientes, percorrendo, di con­ ferenza in conferenza, il vasto territorio dell'immaginario oc­ cidentale divenuto ormai un'erma, melancolica, lugubre landa raccolta intorno a un tristo e solitario sepolcro32• Così sembra parlare Luciano a noi lettori, quasi fossimo una società di visi­ tatori che si aggirano in un paesaggio di rovine come a condi­ videre con lui, nostra guida, il gusto del necrologio culturale. Tutto in Luciano sembra morto, estinto. Nelle Vite e nel Pere­ grino, in particolare, la saggezza ha pareggiato il conto con l'i­ diozia, se addirittura non è venuta a identificarsi con essa, la virtù ha pareggiato il conto con la vergogna. Nulla resta del­ l'antico: sembra che Luciano effettivamente rompa un autore­ vole schema di civiltà, la continuità tra antichi e moderni, in nome della quale, assegnando il necronimico agli antenati estinti e il tecnonimico ai loro figli simbolici, si inventa un pa­ trimonio culturale da ereditare e si elabora un'identità stori­ ca33• All'opposto dei letterati, dei filosofi e degli scienziati ap­ partenenti alla prima generazione dell'ellenismo34, Luciano non si riconosce mai come figlio del passato e impedisce a noi stessi di farlo, non ricompone mai le rovine lungo una linea ge-

32. Cfr. Enten-Eller, a cura di A. Cortese, trad. it. Adelphi, Milano 1990', vol. IL Si tratta delle tre conferenze Il riflesso del tragico antico nel tragico mo­ derno, Silhouettes e Il più infelice. Per l'espressione symparanekr6menoi co­ me calco lucianeo cfr. la nota del curatore a p . 196. Per l'immagine dell'Occi­ dente come sepolcro " del più infelice" cfr. ivi, p . u6: «Mettiamoci in marcia, cari symparanekr6menoi, come crociati, non verso quel santo sepolcro del fe­ lice Oriente, ma verso questa tal triste tomba dell'infelice Occidente». 33· Processo ben descritto da J. Assmann, La memoria culturale. Scrittu­ ra, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, trad. it. Einaudi, To­ rino 1997. Ma cfr. anche le fondamentali riflessioni di Claude Lévi-Strauss nel suo Il pensiero selvaggio, tra d. i t. Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 41-4 e quelle di Tristi Tropici, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1975, p. 217. 34· Per la posizione assunta dal mondo intellettuale del primo ellenismo tra III e n secolo a . C . rispetto alla tradizione antica, cfr. M. Stella, Il mito co­

me costruzione dell'antico tra narrazione, sapere e ideologia. Il racconto degli Argonauti, in " L'Immagine riflessa " , nuova serie, V, 1996, pp. 75-108 . 28

nealogica35• Sicché, nel leggere Luciano, veniamo rimandati a noi stessi, nella consapevolezza che si tratta di ben poco36• Ma è proprio in questo punto, nel punto di più alto annichilimento, che si apre la vista su un orizzonte al di là delle rovine. Perché se è vero che le rovine rimangono a terra, lì, davanti a noi, per sempre, è anche vero che esse ritornano o, meglio, continuano a ritornare. E la questione del ritorno diventa allora centrale. Di opera in opera, di testo in testo, vediamo ininterrottamente sfi­ lare al nostro cospetto queste ombre, rianimate dalla scrittura di Luciano. Che vuol dire, dunque, l'interminabile parata di spet­ tri del tempo andato, l'incessante rassegna delle macerie com­ pilata e ricompilata di volta in volta? Vuol dire che il presente non si distingue più dal passato, perché gli è immediatamente contemporaneo. Si prenda ad esempio il caso della vita eracli­ tea. Tutto ciò che essa dice al cliente è un centone di citazioni dall'ipotetico grande libro di Eraclito sulla natura. L'antico Era­ clito convive inestricabilmente dentro e con la sua folle, assurda copia piangente. La vita di Peregrino, poi, è un esempio pre­ sente di come il contemporaneo si autolegittimi nella straniante condivisione con le morte esemplarità dell'oltretomba sapien­ ziale. E ciò è possibile perché il mondo che Luciano descrive, potremmo dire con il Nietzsche del Crepuscolo degli tdoli, è ri­ diventato fabula: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: qua­ le mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? ... Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente.'» 37• Il mondo cui Luciano pensa è fabula, cioè "qualcosa che si racconta e che non esiste se non nel racconto"3 8• Mythos, di3 5 · Per questo atteggiamento culturalmente catastrofista cfr. le Tesi di fi­ losofia della storia di Walter Benjamin, in I d . , Angelus Novus, trad . it. Einau­ di, Torino 1995, pp. 75-86 (ed. or. 1962 ) . 3 6 . Parafrasando J.-F. Lyotard, La condizione post-moderna. Rapporto sul sa­ pere, trad. it. Feltrinelli, Milano 1979, pp. 30-6. Ma cfr. anche G. Vattimo, La fi­ ne della modernità, Garzanti, Milano 1985, per il concetto di " fine della storia" . 37· Cfr. Il crepuscolo degli idoli, trad. it. Adelphi, Milano 1983, p . 47· 38. Così spiega Pierre Klossowski l'aforisma di Nietzsche, cfr. Nietzsche, le polythéisme et la parodie, in I d . , Un si funeste désir, Gallimard, Paris 1994, p . 181 (ed. or. 1962) .

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rebbero i Greci. Luciano ha demolito il mondo vero che la fi­ losofia pretenderebbe di rappresentare, cioè il mondo della verità e della virtù. L'antologia platonica è divenuta impossi­ bile, perché non esiste più il vero essere: chi e che cosa è il ve­ ro Eraclito? Chi e che cosa il vero Diogene? Chi e che cosa il vero Socrate? La morale è divenuta impossibile perché non è più esemplarmente inimitabile, come dimostra l'imitazione polimorfa di Peregrino. Ma la fine della verità e della morale porta con sé anche l'apparenza. Poiché l'essere e la virtù sono diventati retorica, cioè imitazioni, la retorica, luogo per eccel­ lenza, secondo Platone, della mimesi imitativa, dell'opinione, della falsa parvenza, non ha davvero più ragione di essere chiamata tale. E ciò che resta è questo continuo ritornare del racconto, in cui rivivono contemporaneamente il presente e il passato senza distinzione di valore. Potremmo dire ancora con Nietzsche «incipit parodia» 39 • È qui che inizia, infatti, che si dischiude la dimensione parodica della scrittura lucianea: nel ritorno del racconto. Anzi, di tutti i racconti possibili. Poi­ ché non è dato parlare di un solo racconto, ma soltanto di molti racconti, così come non è dato parlare di un mythos, ma soltanto di molti mythoi, e poiché essi sono sempre compre­ senti in quanto non hanno più tempo, la scrittura di Luciano è coesistenza di molte storie l'una insieme, dentro, contro l'al­ tra nello spazio che era occupato dall'antologia e dalla mora­ le, dalla filosofia e dalla retorica. Possiamo chiamare il rac­ conto anche "scrittura"40• L'uno e l'altra si coimplicano e si identificano con la parodia. La rigenerazione semantica in39· Cfr. La gaia scienza, trad. it. Adelphi, Milano 1977, p. 28. È la prefa· zione del 1886, par. I, alla seconda edizione. 40. Con il Deleuze acutissimo interprete delSo/ista platonico e dell'idea di mimesi i vi sviluppata, potremmo dire che la scrittura, superando il cerchio della somiglianza, si fa simulacro o fantasma: «Il simulacro o fantasma non è semplicemente la copia di una copia, una somiglianza infinitamente vaga, un'icona degradata . Se il simulacro produce un effetto esterno di somiglian· za, lo fa come illusione, [. .. ] ha interiorizzato la dissimilitudine, la divergen· za dei suoi punti di vista, talché mostra più cose, racconta più storie alla val· ta>> (Dz//erenza e ripetizione, cit. , p. 207, corsivo mio ) .

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dotta dalla parodia su cui ci interrogavamo all'inizio consiste dunque nella legittimazione senza frontiere del racconto e del­ la scrittura . E questo crollo delle frontiere non è additato sol­ tanto da Luciano. Se ne accorge anche la filosofia del suo tem­ po. Se ne accorge specialmente un filosofo d'eccezione, Mar­ co Aurelio, che siede sul soglio imperiale: Prova a pensare, e mettili l'uno in fila all' altro, tutti i più svariati ge­ neri d'uomo, uomini dalle più diverse occupazioni, uomini dei più diversi popoli, uomini ormai morti, fino ad arrivare a Filistione, a Fe­ bo e a Organione. Ora considera tutte le specie dei viventi. Noi dob· biamo andare in quel luogo in cui sono andati tanti straordinari re· tori, tanti venerabili filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate, e prima tan· ti eroi, e poi tanti condottieri, tiranni . . . E oltre ad essi Eudosso, lp­ parco, Archimede . . . e ancora altri uomini d'ingegno, uomini magna­ nimi, uomini solerti, malandrini, arroganti, uomini che si son fatti beffe di questa nostra vita umana soggetta a morte ed effimera, co­ me Menippo, e quant'altri . . . Pensa che tutti costoro giaccion o diste­ si da tempo. Che c'è di terribile in questo per costoro? E per chi non ha nemmeno un nome? C'è una cosa sola che ha davvero valore: vi­ vere secon d o verità e giustizia mostrandosi benevoli anche con i mentitori e gli ingiusti 41•

Lo si vede bene: è un catalogo alla rinfusa. Confusione simu­ lata, sì, dalla convenzione letteraria dell'elenco-riassunto. Ma pur sempre confusione. Dove tutto convive senza gerarchia. Dove tutti i tipi d'uomo convivono e dunque le loro storie. Dove persino la filosofia, con le sue pretese di giustizia e ve­ rità, apre le porte della benevolenza agli amanti della menzo­ gna e agli ingiusti. Ma ritorniamo ancora per un attimo, per concludere, alle battute finali del Peregrino, che contengono forse il passo più decisivo verso la parodia. Lo spettacolo è ormai terminato. Peregrino è bruciato insieme alla sua vanagloria e Luciano se ne sta tornando a Olimpia, quando incontra dei ritardatari: 41 . Marco Aurelio, Pensieri, VI, 47· E questo è solo un esempio dei molti che si possono trovare nella scrittura dell'imperatore filosofo.

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Ne rimandai indietro molti dicendo che ormai era tutto finito, tranne quelli che erano proprio fanatici e volevano vedere il posto del rogo e magari raccogliere qualche reliquia. E che barba star lì a racconta­ re e rispondere a tutte quelle domande particolareggiate ! Che se poi ne incontravo uno sveglio, gli raccontavo le cose così nude e crude co­ me le racconto a te, ma se ti beccavo uno di quei gonzi pronti a bersi qualsiasi cosa, gli mettevo in scena tutta una storia di mia invenzione, che non appena la pira fu accesa e Proteo ci si gettò sopra, subito si sentì un gran terremoto e un boato e dal centro del rogo si alzò in vo­ lo un avvoltoio dicendo con tonante voce umana: «La terra lascio e l'Olimpo attingo». E loro restavano lì istupiditi, si gettavano a terra in ginocchio e mi chiedevano se l'avvoltoio era andato a est o a ovest: io gli rispondevo quello che mi veniva in mente lì per lì 42 •

Quando tutto è finito, quando il racconto è ormai finito, ri­ tornano i racconti, quelli inventati da Luciano. E sono essi al­ trettanto legittimi agli occhi del pubblico quanto quello che noi abbiamo appena letto. Ma c'è qualcosa di ulteriore. Una volta arrivato a Olimpia, dopo lo spettacolo della pira, Lucia­ no incontra ancora un vecchio: Quando ritornai alla festa, t'incontro un vecchio tutto bianco che, per Zeus, con la barba che si ritrovava e quell ' aspetto venerabile, aveva un'aria del tutto affidabile : ebbene, costui andava dicendo tra l'altro che subito dopo il rogo aveva visto P roteo con una veste bian­ ca e addirittura lo aveva poc' anzi lasciato mentre camminava su e giù per il Portico delle Sette Voci splendidamente incoronato di ulivo. E per finire aggiunse la storia dell' avvoltoio, giurando di averlo visto egli stesso alzarsi in volo dalla p ira, proprio quell ' avvoltoio che io poco prima avevo fatto volare per canzonare i gonzi e gli idioti 43 .

L'aspetto del vecchio, il suo cultus, mal cela in lui il filosofo 44. Ebbene, questo filosofo, venerando e canuto dalla lunga bar-

42. Cfr. PAR. 39· 43· Cfr. PAR. 40. 44· Leggendo le osservazioni di Maria Tasinato sul Philopseudes lucianeo (cfr. Narratori attossicati: il tema dell'incredulo in Luciano, in Ead . , Parva in­ naturalia, Esedra, Padova 1998, pp. 87-96, in particolare pp. 90-r) viene natu-

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ba bianca, racconta le stesse storie che Luciano aveva appena finito di raccontare ai ritardatari di prima. È come dire, ciò che tu raccontz; ciò che tu scrivz; può essere contemporaneamente raccontato e scritto da un altro, il racconto che tu scrivi può es­ sere contemporaneamente scritto da un altro. Si tratta della ri­ sposta più potente, e forse la più intelligente, al Fedro platoni­ co, là dove Platone tenta disperatamente di bloccare e impe­ dire il processo di autolegittimazione del racconto con la me­ tafora della scrittura-prole talora legittima talora bastarda di un padre assente, l'autore45• Una risposta, quella di Luciano, immancabilmente parodica. Anzi la risposta della Parodia stessa, se questa potesse mostrarsi in una prosopopea: procla­ miamo una grande amnistia narrativa in cui vengano cancella­ ti tutti i debiti morali e tutte le forme di discendenza. E guar­ diamoci le spalle: nel mondo della fabula potrebbe essere che l'autore del mio racconto sia uno diverso da me! 4

Modelli e palinsesti parodici 4.1. Riscritture platoniche... a partire da Aristofane

La parodia è sostanzialmente riscrittura46, che si articola su due diversi e contemporanei livelli: da un lato le consuetudini discorsive- i generi e le forme -, dall'altro le rappresentazioni e le proiezioni intellettuali47• Proprio su quest'ultimo versan­ te, prima ancora che su quello dell'ordine retorico, le Vite e il Peregrino si rivelano riscritture parodiche d'un medesimo

rale accostare questo vegliardo contaballe del Peregrino al vecchio canuto fi­ losofo che colà compare ( cfr. PAR. 5 ) , anch'egli apparentemente credibilissi­ mo, in realtà un bugiardone di prima categoria. 45· Cfr. Fedro, 275d ss. 46. Cfr. G . Genette, Palimpsestes, Seui!, Paris 1982. 47· Per gli assunti teorici da cui parte Maria Grazia Bonanno nella sua analisi della parodia aristofanea, cfr. Metateatro in parodia, in Ead . , I.:allusio­ ne necessaria, Ateneo, Roma 1990, pp. 241 -75.

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ideologema platonico: il legame necessario tra morte e magi­ stero sapienziale48 . Sicché, sullo sfondo del Peregrino sta il Pe­ done, scopertamente evocato, mentre il racconto di Er dal de­ cimo libro della Repubblica, per quanto meno dichiaratamen­ te, costituisce il fil rouge delle Vite. Tutto il Peregrino è un controcanto del Pedone. Ma perché proprio il Pedone? Perché Luciano è un acutissimo ricettore della scrittura e, insieme, della filosofia platonica, ma, soprat­ tutto, il suo più brillante smascheratore. Come tale, Luciano ha ben presente che il Pedone è l'opera in cui Platone, all'in­ terno della sua scrittura e più che in ogni altro suo dialogo, fonda una volta per sempre l'autorevolezza della parola filoso­ fica; come tale, Luciano sa altrettanto bene che tutta la tradi­ zione filosofica successiva riconosce nel Socrate del Pedone il modello per eccellenza del saggio: non solo senza Socrate, ma specificamente senza il Socrate del Pedone non esisterebbe quell'archetipo normativo di sapiente che tutte le scuole di pensiero ellenistico, in primis la stoica e l'epicurea, sono anda­ te modellando e rimodellando per secoli49• Rovesciare il Pedo­ ne platonico significava pertanto creare un potente effetto cor­ rosivo contro mezzo millennio di filosofia greca. Dicevamo che tutto del Peregrino rimanda al Pedone. In­ nanzitutto il tema della morte come testimonianza e conferma della parola, d'una morte che, per essere tale, deve necessa­ riamente rivelarsi eccezionale. Una morte che susciti ammira­ zione, meraviglia. Una morte amministrata dunque da un'a­ bile e sorvegliata regia. In altri termini, una morte gestita co­ me una messa in scena. E questo è il punto: la commedia del-

48 . È il teatro platonico della morte, su cui cfr. A. Tagliapietra, Il velo di A/cesti. La filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli, Milano 1997 e D. Susa­ netti, Il cigno antitragico. L'esperienza del teatro dall"'Alcesti" euripideo al "Pe­ done" platonico, in L. M. Napolitano-Valditara (a cura di) , Antichi e nuovi dia­ loghi di sapienti e di eroi, EUT, Trieste 2002. 49· Cfr. A . A . Long, Socrates in Hellenistic Philo.wphy, in " Classica! Quarterly " , XXXV III, 1988, pp. 1 50-71, ma anche P. Hadot, Che cos'è la filoso­ fia antica?, trad. it. Einaudi, Torino 1998, pp. 214 ss.

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la morte. La spettacolarità degradata della morte di Peregri­ no è uno smascheramento di quella raffinata, discreta, ele­ gantemente sommessa, d'alto bordo, verrebbe da dire, del So­ crate platonico. E funziona, in senso parodico, come vero e proprio antidoto, primariamente antiplatonico, e quindi, a ca­ scata, come contravveleno di tutte le altre possibili recite del­ la morte filosofica5 0• Platone aveva racchiuso il segreto del magnetismo emanato dalla fine di Socrate tra due parentesi, tracciate, con estrema consapevolezza dei tempi narrativi e scenici, l'una all'inizio del dialogo argomentativo vero e pro­ prio, al paragrafo 7ob, l'altra alla fine e appena prima dell'as­ sunzione della cicuta, al paragrafo n5a. Due parentesi che fos­ sero visibili, certo, ma non troppo, che rimandassero certo l'u­ na all'altra, ma non in modo eccessivamente stringente e non troppo da vicino, e soprattutto travestite da boutades di stile squisitamente socratico5 ': Ma insomma, se mi si ascolta davvero , credo che nessuno - nemme­ no uno che facesse il poeta comico - mi potrebbe spacciare per un ciarlatano che chiacchiera a vanvera (7ob ) . Bene, quanto a m e . . . «il fato m'invola», direbbe u n attor tragico ! Ed è ormai ora che faccia il mio bagno rituale (u5a) .

Ecco le due parentesi. Apparentemente due battute, si dice­ va. Ma è con queste due battute che Platone, mettendo in cor­ tocircuito tragedia e commedia, proclama il suo incipit co­ moedia e chiude con l'ancor più ironico p la udite: tragoedia fi­ nita est, rivelando così che il Socrate del suo Pedone non è sta­ to altro se non il commediante di un gioco illusorio - illusion comique direbbe il francese - in cui si è simulato il miraggio

50. Su questa recita rimandiamo alle imprescindibili osservazioni di F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, trad. it. Adelphi, Milano 1977, pp. 30-3. Ma cfr. anche gli aforismi 36 e 340 della Gaia scienza e il par. 53 dell'Anttài­ sto, trad. it. Adelphi, Milano 1977. 51. Cfr. 337a: he eiothufa eironefa Sokratous, dice Trasimaco irritato da So­ era te .

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della morte filosoficamente fondata: «Lascia dunque che ti racconti con ordine la vicenda di questo dramma: sai che drammaturgo fosse lui [Peregrino] e quanto ha recitato per tutta la vita, senza paragone con Sofocle e con Eschilo»52• Così Luciano, già nell'apertura del Peregrino, ci rimanda al Socrate commediante del Pedone, e quindi continuamente ci risollecita, per tutto il corso dell'opera, con spie lessicali e con segnali che rinviano all'orizzonte della rappresentazione tea­ trale53 , trasformando le discrete parentesi platoniche in sono­ ri proclami. E l'irrisione parodica di Luciano è tanto più forte quanto più è e rimane sostanzialmente isolata nella tradizione, ma soprattutto in quanto si oppone macroscopicamente alla ri­ cezione stoica del Socrate istrione di Platone, ricezione curia­ le, paludata, seria se non seriosa e compunta, che fa del filo­ sofo, da Aristone di Chio e Crisippo a Panezio a Cicerone a Epitteto e Seneca, un distaccato, altero, ascetico, indifferente attore - beninteso: ognora attor tragico e giammai attor comi­ co - sul transeunte ed effimero palcoscenico della vita54. Ha scritto di recente un celebre storico della filosofia: «Bisognava che Socrate morisse perché la filosofia incominciasse a vive­ re»55. Ed è senz'altro vero. Ma perché questa morte risultasse 52. Cfr. Peregrino, r . 5 3 - Rimandiamo, per i vari riferimenti, alle note d i commento a d loc. che seguono la traduzione del testo. 54· Gli storici dello stoicismo fanno risalire la metafora del filosofo atto­ re ad Aristone di Chio, e quando citano Platone si rifanno al Filebo, con la sua celeberrima immagine della tragedia e commedia della vita e alle Leggi con la sua altrettanto famosa immagine dell'uomo burattino degli dèi e della legislazione come "tragedia verissima e perfetta " . Così fa ad esempio Pierre Hadot nella sua preziosa Introduzione al Manuale di Epitteto, tra d. it. Einau­ di, Torino 2006, pp. 73 ss. Si sa dalle Diatribe, IV, r, r69 che Epitteto è perfet­ tamente conscio della commedia socratica della morte, condotta, dice il filo­ sofo stoico, con perfetta consapevolezza dell 'opportunità. Eppure , nono­ stante ciò, la critica non mette pienamente a fuoco il ruolo di Fedone 70b e n 5a in questa tradizione. Quanto al filosofo stoico come attore, cfr. M. Ve­ getti, La saggezza dell'attore. Problemi dell'etica stoica, in " Aut Aut " , 195-6, 1983, pp. 19-41; I d . , L'etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 287 ss. 55· Così Luc Brisson, nella sua introduzione a P laton, Apologie de Sacra­ te. Criton , Flammarion, Paris 1997, p. 74·

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così eccezionale da essere esemplare e apparire come suprema testimonianza della verità filosofica, essa doveva mostrarsi co­ me frutto di una scelta. Per produrre questo effetto, Platone sceglie, tra il Critone e il Fedone, la formula del suicidio neces­ sarzò 5 6 . Pur potendo evadere dal carcere, pur potendo salvar­ si, Socrate decide di restare e di morire. Una ribellione ubbi­ diente, un acconsentire alla condanna a morte: un suicidio ne­ cessario, appunto. E di qui discende altresì motu proprio il sui­ cidio necessario del filosofo stoico, quand'egli si veda costret­ to a uscir di vita o perché il tiranno lo obbligherebbe ad atti nefandi, o perché, per diverse ragioni, egli non potrebbe più esercitare la sua virtù 57• Di contro, quello di Peregrino è sì un suicidio, ma un suicidio non necessario e, pertanto, frustraneo, inopportuno, superfluo, gratuito. Un puro gesto di mitoma­ nia, di kenodoxia o doxokopia, attraverso il quale Luciano ri­ sponde alla meléte thandtou, all'esercizio della morte platoni­ co e stoico: risponde che la morte mirabile del filosofo non di­ mostra nulla, non testimonia nulla se non la sua vanità, il suo vacuo desiderio di innalzarsi al di sopra degli altri uomini, di additarsi a esempio, a modello da idolatrare. E non è del solo Luciano la denuncia contro la vanagloria filosofica, contro la kenodoxia : questo malessere e questo male è avvertito anche all'interno dello stoicismo stesso, e, significativamente, da un suo outsider che non fa di mestiere il filosofo e il professore di filosofia, ma l'imperatore: Basta questo a condurti lungo la via che libera dalla vanagloria (to aken6doxon) : a questo punto della tua vita intera, a partire da quand'e­ ri giovane, hai ormai perso la possibilità di essere filosofo, perché tu stesso sai, e molti altri sanno che tu sei stato ben l ungi dall'essere un filosofo . È una bella macchia, tale che non è più facile per te rag­ giungere la fama filosofica. Lo impedisce quello che abbiamo detto

56. Di " morte necessaria" parla a giusto titolo M. M . Sassi, Apologia e Cri­ ton e: una vita filosofica, una morte necessaria, in Platone, Apologia di Socrate­ Critone, Rizzoli, Milano 1993, pp. p8. 57· Cfr. ancora Vegetti, L'etica degli antichi, cit . , pp. 294 ss.

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prima. Se dunque ti sei davvero reso conto del problema, lascia per­ dere come puoi diventar famoso 58 •

Ancor più interessante è che anche Marco Aurelio, unico tra gli stoici59, dubiti dell'aureola di gloria che circonda in primis la morte di Socrate e più in generale tutta la sua figura ideale: Come facciamo a sapere se un qualsiasi Telauge sia stato migliore di Socrate? Perché non basta che il modo in cui è morto Socrate sia più famoso, non basta che abbia discusso in modo più abile con i sofisti, che abbia trascorso un'intera notte tra i ghiacci con più resistenza, che si sia opposto all'ordine di arrestare Leonte di Salamina con più no­ biltà e che abbia camminato per le vie con quel suo contegno altero [. .. ] . Bisogna piuttosto chiedersi: che anima aveva davvero Socrate? 60

La domanda avanzata da Marco Aurelio non può avere rispo­ sta e incrina, pertanto, irrimediabilmente, l'idealità di Socrate e della sua morte nel protestarne la vana celebrità6 1• Luciano 58. Cfr. Marco Aurelio, Pensieri, VIII, r. Per il rifiuto della kenodoxia filo­ sofica è fondamentale anche IX, 29. 59· Segnaliamo la critica a Socrate, fondata peraltro su elementi cinici, del pirroniano Timone contenuta nei suoi Silli. Timone attacca in Socrate il typhos, la vana superbia, cfr. M . Di Marco (a cura di) , Timone, Silli, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1989. Anche gli epicurei contestavano Socrate per la sua ironia, ricompresa come superbia e indisponibilità al dialogo, cfr. K. Kleve, Scurra Atticus: The Epicurean View o/Socrates, in G . Pugliese Carratelli (a cu­ ra di) , Syzetesis. Studi sull'epicureismo greco e romano offerti a Marcello Gi­ gante, Macchiaroli, Napoli 1983, pp. 227-53. Ma in realtà né la critica epicurea né quella cinico-pirroniana raggiungono la potenza del dubbio insinuato da Marco Aurelio e nemmeno la profondità e la radicalità della dissacrazione lu­ cianea . Pur distruggendo il modello socratico, Timone non resiste infatti a glorificare Pirrone contro Socrate, ricostruendo in questo modo il modello ideale del filosofo e così gli epicurei, biasimando Socrate, non intendevano in ogni caso discutere l'eccellenza della vita filosofica. 6o. Cfr. Marco Aurelio, Pensieri, VII, 66. 6r. Condivido questa interpretazione con M . Tasinato, Marco Aurelio: va­ ne speranze per un'estetica, in " Simplegadi " , VII, 2002, pp. 33-45, in particolare p. 42, nel vasto panorama di una critica diversamente orientata a salvare co­ munque l'idealità socratica. Cfr. ad esempio il commento ad loc. (VIII, r) di P. Hadot , La citadelle intérieure. Introduction aux Pensées de Mare Aurèle, Fayard, Paris 1993.

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sceglie invece la via della profanazione allusiva mettendo in scena un vanaglorioso impazzito fuori di ogni controllo in cui si rispecchia, stravolta, la recita del Socrate morente e martire della verità. Nell'uno e nell'altro caso, con Socrate e al di là di Socrate, la dignità della filosofia ne esce a pezzi. Luciano sco­ pre le carte della sua parodia del Pedone con due segnali: Proteo venne preso e sbattuto in prigione, cosa che, pure questa, gli procurò non poco successo in seguito, a lui, al suo mostruoso stam· po e alla sua sitibonda vanagloria. [ .. .] Già fin dall' alba si potevano vedere vecchie vedove ed orfani far la posta davanti al carcere. I ca­ poccia della setta poi dormivano perfino all 'interno del carcere, ché le guardie le avevano corrotte per bene. Per non parlare dei pranzi epuloneschi che vi si facevano e delle letture dai loro testi sacri . E per giunta il perfetto Peregrino - si faceva ancora chiamare così - veni­ va da loro apostrofato col n ome di "novello Socrate " 62 . Al che io mi avvicino e gli dico: «Ma andiamocene via, deficienti ! Vi pare un bello spettacolo stare a vedere un vecchio che si dà fuoco e ci riempie tutti del suo fumo schifoso? O per caso state aspettando un pittore che vi ritragga come i discepoli di Socrate in prigione?» 63 •

L a ricontestualizzazione parodica sfregia i l carcere come luo­ go simbolico della dignità filosofica in un porto di mare, in un via vai di gente indistinta, dove pullulano tante Santippe mol­ tiplicate, le vedove, e tanti figli di Socrate, gli orfani, tra le lo­ ro braccia, mentre i discepoli del saggio sono dei bivaccatori accampati. E che dire poi, se si pensa al ripudio socratico del­ la parola scritta e all'unica concessione in puncto martis costi­ tuita dalla versificazione delle favole di Esopo, che dire, dun­ que, di questa variopinta masnada di fanatici lettori? Infine, e definitivamente, il cenacolo del maestro e dei discepoli di­ venta un album di famiglia, d'una famiglia di cretini, di idioti vanitosi. Ma la parodia di Luciano raggiunge la sua più squi­ sita sottigliezza là dov'è più coperta e meno palpabile, cioè nel

62. Cfr. PAR. 12. 63. Cfr. PAR. 37·

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rovesciamento della dinamica emotiva che dentro gli animi dei discepoli accompagna, all'interno del Pedone, la recita di So­ crate. Là dove, nel Pedone, è tutto un delicatissimo equilibrio di pianto, riso e sorriso, tutta una sorvegliatissima calibratura di turbamento e serenità, distillato dal narratore Pedone nella celeberrima formula del thaumdsion pathos 64, della sensazione straordinaria, nel Peregrino, dall'inizio alla fine del dialogo, è invece un tumultuare frastornante di risate sgangherate e a cre­ papelle, dell'anonimo narratore, di Luciano stesso e del de­ stinatario del racconto, e di pianti da sceneggiata, di Teagene, nuovo Critone, di urla di prostrazione del pubblico, mentre la sensazione straordinaria diventa stupore idiota della massa di ammiratori ai piedi del folle suicida 6 5. Per non parlare poi delle botte che volano qua e là tra le opposte fazioni del pub­ blico di Peregrino, perché Luciano introduce sulla scena - se quella del filosofo è una recita, che sia spettacolo davvero e fi­ no in fondo! - anche i denigratori e gli avversari accanto ai fe­ deli discepoli. Il sottotesto delle Vite è invece costituito, si diceva, dal racconto di Er contenuto nel decimo libro della Repubblica 66 • È evidente che le Vite sono l'ennesimo dialogo lucianeo con i morti e dei morti. Le vite messe in vendita incarnano infatti fi­ losofi scomparsi da secoli e ci troviamo dunque ancora una volta di fronte a uno scenario infero. Ma c'è anche, appunto, la vendita. Ed è proprio il cortocircuito tra l'aldilà e il merca­ to a innescare la memoria della più celebre scena, non di ven­ dita, ma di assegnazione delle vite, all'interno dell'intera tra­ dizione greca: il sorteggio, klérosis, dei modelli di vita che le anime dei morti, ai piedi delle tre Parche, devono affrontare prima di reincarnarsi, così come lo racconta Socrate riportan-

64. Cfr. 58b- 59b. 65. Per i rimandi precisi e una discussione più dettagliata rimandiamo al­ le note ad loc. che seguono la traduzione del testo. 66. Per ulteriori e più specifici riferimenti al racconto oltremondano del Gorgia rimandiamo alle note di commento ad loc. che seguono la traduzione del testo.

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do l'esperienza del panfilio Er67. Klérosis, sorteggio, dunque, quello platonico e non prasis, vendita. Ma la vendita scaturi­ sce indubitabilmente dal sorteggio e, anzi, lo sovverte parodi­ camente, ché del sorteggio il mercato coglie l'intrinseco ridi­ colo, géloion. Già Platone definiva lo spettacolo, thean, di questo sorteggio «lacrimevole», eleinén, «ridicolo», geloian, e «perturbante», thaumasian 6 8• Luciano ne focalizza il ridico­ lo6 9• Ma che cosa c'è di ridicolo in questa scena platonica? Lu­ ciano se lo è chiesto e si è dato una risposta che traluce dalle Vite. Il sorteggio platonico è una soluzione astuta, un trucco, per liberare gli dèi dalla responsabilità di segnare il destino degli uomini. Sicché l'uomo viene lasciato solo con la sua scel­ ta, la quale però pare tutt'altro che libera! In quanto deter­ minata dal caso, infatti, essa è, piuttosto, necessaria. E se que­ sta casualità parrebbe, per un attimo, essere garanzia di ugua­ li possibilità per tutti, come il banditore-sacerdote del sorteg­ gio a più riprese proclama70, si dice poi tuttavia che soltanto chi ha saputo praticare nella vita precedente la filosofia e ha estratto e scelto né tra i primi né tra gli ultimi sarà fortunato e si aggiudicherà una vita felice. La cosa equivale a dire che so­ lo i filosofi hanno la reale chance e il destino di essere felici. Il gioco del sorteggio è dunque una messa in scena per giustifi­ care un'affermazione altrimenti ingiustificabile: l'eccellenza della sorte filosofica. In perfetta continuità con il Pedone, del resto: ancora la commedia della morte, anche se questa volta

67. Come è noto, Luciano è d'altra parte solito parodiare scene di viag­ gio nell'aldilà. Per le tecniche di questa parodia nella Storia vera cfr. A. Geor­ giadou, D. Larmour, Lucian's Science Fiction Nove!. True Histories: Interpre­ tation and Commentary, Brill, Leiden 1998. 68. Cfr. Repubblica, 62oa. Ritorna dunque la metafora del teatro anche nell'oltremondo di Er, come ha finemente indicato Giuseppe Serra nelle pa­ gine dedicate alla riflessione generale sul tragico del suo Edipo e la peste. Po­ litica e tragedia nell"'Edipo re", Marsilio, Venezia 1994, p. 14. 69. D ' altra parte, che il racconto di Er, in quanto archetipo delle storie incredibili, stesse sullo sfondo delle incredibili storie narrate nella Storia ve­ ra era già opinione dello scoliaste antico. yo. Cfr. Repubblica, 619b ss.

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la commedia non si svolge sulla terra, come nel carcere di So­ crate, ma nell'altro mondo. Luciano svela e manda in frantu­ mi la sottile strategia platonica. Innanzitutto gli dèi non sono qui soltanto gli organizzatori dell'assegnazione delle vite, so­ no i loro venditori, e nemmeno troppo onesti, dal momento che darebbero via persino l'invendibile, come Democrito ed Eraclito o Aristippo, e spacciano tutto allo stesso modo per straordinario: ciascuna vita è, di volta in volta, la migliore di tutte! E se, nella lotteria oltremondana di Platone, la fortuna più grande è aggiudicarsi una vita da filosofo, esercitando la scelta con oculatezza e discernimento, nel mercato infero di Luciano le vite dei filosofi sono invece assegnate davvero a ca­ so, a chicchessia, al primo che si fa avanti e che non sa assolu­ tamente nulla di ciò che prende, sicché la reale casualità lu­ cianea svela l'apparente casualità platonica e la filosofia per­ de così, senza più speranze, ogni sua eccezionalità. Senza più speranze perché essa viene profanata persino nelle sue plato­ niche ascendenze divine e sopracelesti, raggiunta dalla dissa­ crazione proprio là dove sembrava essere più al sicuro e defi­ nitivamente salvata, là, ai piedi della Necessità cosmica. Certo, se dietro Luciano c'è Platone, Aristofane sta dietro entrambi, l'Aristofane delle Nuvole, s'intende. Ma non solo e non tanto per quello in cui si riconosce il debito di Platone e quindi di Luciano verso Aristofane: e cioè la risposta polemi­ ca e riconsacrante al Socrate degradato delle Nuvole, nel caso di Platone e del Fedone, e il funzionamento del gioco comico buffone-spalla in funzione anti-intellettuale, nel caso di Lucia­ no, sicché i filosofi che sfilano via via sulla scena delle Vite so­ no tutti il Socrate aristofaneo delle Nuvole e i compratori, a lo­ ro volta, sono tutti degli Strepsiadi. Questo è senz'altro vero, ma c'è di più. C'è che Aristofane, per primo, almeno a nostra conoscenza, e comunque senza dubbio per eccellenza, aveva tematizzato il legame tra morte e magistero filosofico, facendo dei discepoli di Socrate, nelle Nuvole, dei morti vivi e di So­ crate il loro psicopompo, mettendo così alla berlina la meléte thandtou, la pratica ascetica e contemplativa della morte in vi­ ta, sulla quale la recita del filosofo, la sua pretesa di purezza e 42

di superiorità, faceva perno più che su ogni altra cosa7 1• E con Aristofane che, di fatto, incomincia la tormentata commedia del filosofo morente, che Platone torna a far sua e Luciano, sul confine estremo dell'antico, ritrasmette a noi in senso parodi­ co, antiplatonico e anti-filosofico, rinnovando per l'ultima vol­ ta, forse, il luccichio della parodia di Aristofane. 4.2. Riscritture cristiane

C'è un altro modello che la parodia di Luciano non lascia in­ tatto. Si tratta di un paradigma che, affondando le sue origini nel IV secolo di Platone, di Senofonte e di Aristotele, conosce una vasta fioritura nell'ellenismo pre-cristiano e una vera e pro­ pria esplosione in quello successivo. Si tratta della biografia e, specificamente, all'interno del suo vastissimo e variegato pa­ norama, della biografia filosofica72• Le Vite e il Peregrino ne de­ clinano i due versanti: le prime quello più propriamente dot­ trinario, il secondo quello della condotta morale. Ma se le Vi­ te, come vedremo meglio più oltre, risolvono la biografia in dossografia, è al Peregrino che Luciano affida la parodia delle implicazioni più spiccatamente intellettuali del genere biogra­ fico. In qualche modo, anzi, si potrebbe dire che il Peregrino rinfreschi la stinta retoricità della biografia, ricordandone alla memoria del lettore e così rinnovandone, nel metterle a nudo, le ambizioni culturali e sapienziali. Ma il vero e più grande sti­ molo a questo rinnovo viene, senza dubbio, a Luciano dalla vi71 . Sulla recita del filosofo tra l'Aristofane delle Nuvole e il Platone del Simposio cfr. A. Beltrametti, Variazioni del fantastico. Aristofane, Platone e la recita del filosofo, in " Quaderni di Storia " , XXXIV, 1991, pp. 130-50. Diversa e altrettanto fondamentale è la prospettiva antropologica in cui si muove il li­ bro di Diego Lanza dedicato al Socrate comico platonico-aristofaneo come trasgressore del senso comune, cfr. Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Finoc­ chio e altri trasgressori del senso comune, Einaudi, Torino 1997. 72. Su questo sviluppo storico cfr. A . Momigliano, Lo sviluppo della bio­ grafia greca, trad. it. Einaudi, Torino 1974 e, per il rispecchiamento della bio­ grafia nel genere parallelo dell'autobiografia, M . - F. Baslez, Ph. Hoffmann, L. Pernot (éds . ) , L'invention de l'autobiographie d'Hésiode à Saint Augustin, PENS, Paris 1993 .

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vacità del genere biografico in ambiente cristiano, nei primi due secoli della nostra era, dove esso prende il nome di "van­ gelo". Che cosa è infatti la scrittura evangelica se non biogra­ fia? 73 Certo, non soltanto biografia esemplare di una grande natura - megdlai physeis, diceva infatti il Plutarco delle Vite pa­ rallele 74 -, ma piuttosto, e ben più pretenziosamente, vita esemplare d'una natura divina, anzi dell'uomo divino, figlio dell'unico grande dio che regge le sorti dell'universo. Dopo gli studi ancora fondamentali e rimasti sostanzialmente insupera­ ti di Hans Dieter Betz75, è evidente che la letteratura evangeli­ ca si sviluppa nel solco tracciato dalla biografia filosofico-are­ talogica nata intorno alla figura del "sapiente divino e ispira­ to". Ma, d'altra parte, basta leggere quel Discorso vero di Cel­ so tramandatoci dalla confutazione di Origene per constatare come era evidentissima agli antichi stessi, agli intellettuali e ai filosofi di n secolo, l'imitazione evangelica dei modelli biogra­ fico-filosofici greci: a più riprese Celso accosta la figura di Cri­ sto e le vicende della sua vita a quelle dei grandi sapienti divi-

n Cfr. i seguenti, imprescindibili lavori: D. E. Aune, The New Testament in Its Literary Environment, Cambridge University Press , Cambridge 1988, in particolare pp. II-76; R. Burridge, W hat Are the Gospels? A Comparison with Graeco-Roman Biography, Cambridge University Press, Cambridge 1992; K. L. Schmidt, The Place of the Gospels in the Genera! History o/ Literature, University of South Carolina Press, Columbia 2002 (ed. or. Der Rahmen der Geschichte Jesus, Trowitzsch, Berlin 1919) , libro poi ripudiato dal suo autore. 74· Cfr. Vita di Demetrio, r, 7· Cfr. al proposito, per il rapporto modello ideale-realtà storica, le precisazioni di G. Cerri, B. Gentili (a cura di) , Storia e biografia nel pensiero antico, Laterza, Roma-Bari 1983. 75· Cfr. H . D . Betz, Jesus as a Divine Man , in F. Thomas-Trotter (ed . ) , ]e­ sus an d the Historian, Westminster, Philadelphia 1968, pp. II4-33; O. Betz, The Concept of the So-called "Divine Man" in Mark's Christology, in D . E. Aune (ed . ) , Studies in New Testament and Early Christian Literature, Brill, Leiden 1972, pp. 229 -40. H. D. Betz riprende gli studi di L. Bieler, Theios Aner. Das Bild des "Gottliche Menschen" in Spiitantike und Friihchristentum, Wissen­

schaft!iche Buchgesellschaft, Darmstadt 1967 (ed. or. Oskar Hofels, Wien 1935-36) . Cfr. altresì M. Smith, Prolegomena to a Discussion o/Aretalogies: Di­ vine Man, the Gospels and Jesus, in "Journal of Biblica! Literature " , xc, 1971, pp. 174-99. Più recentemente cfr. E . V. Gallagher, Divine Man or Magicia n? Celsus and Origen on Jesus, Chicago University Press, Chicago 1982.

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ni, veggenti ispirati, guaritori e maestri di tecniche dell'estasi come Museo, Orfeo, Zoroastro, Pitagora76 o ancora Zal­ moxis77. Ma non c'erano solo gli esempi del passato da oppor­ re a quello di Cristo. C'erano anche, tra I e II secolo d.C., esem­ pi contemporanei, come quello di Apollonia di Tiana e di Ales­ sandro di Abonutico, maghi e profeti divenuti famosi presso­ ché in tutto il vasto mondo dell'impero, addirittura adorati co­ me dèi, sui quali si diffusero una serie di racconti e scritture biografiche, testimoniatici oggi dalla Vita di Apollonia di Tiana di Filostrato, di III secolo, e dall 'Alessandro falso pro/eta dello stesso Luciano, il quale faceva di Alessandro, nel suo libello, un successore e perfezionatore degli insegnamenti e della le­ zione del grande Tianeo 78. Del resto, assistiamo specular­ mente, da parte cristiana e proprio a partire dal II secolo, con i primi apologisti, alla cristianizzazione del Socrate platonico secondo il Fedone79, ricompreso come Cristo al cenacolo de­ gli apostoli: è un esempio strategico, questo, di come effetti­ vamente fosse in corso un sistematico processo di appropria­ zione cristiana dei grandi modelli biografici e intellettuali of­ ferti dalla letteratura filosofica greca 80. Si diceva dunque, po-

76. Cfr. Celso, Il discorso vero, l, 16 ( che leggiamo nell'edizione curata da Giuliana Lanata, Adelphi, Milano 1987 ) . Ma di questi paralleli è disseminato tutto il libro di Celso. 77· Cfr. Celso, Il discorso vero, II, 55· 78. Cfr. Alessandro, 5 · Sul possibile rapporto tra le figure di " santoni " lu­ cianei e quella di Cristo cfr. G. Anderson, Sage, Saint and Sophist: Holy Men and Their Associates in the Early Roman Empire, Routledge, London-New York 1994, in particolare pp. 34-54. 79· Cfr. quanto afferma e documenta M . M. Sassi, La morte di Sacra te, in S. Settis (a cura di) , I Greci, vol. nh, Einaudi, Torino 1997, p. 1327. 8o. Tra questi modelli c'è anche, e fra i più importanti, quello cinico. Non possiamo, in questa sede, affrontare il problema, che merita specifica e separata trattazione. Rinviamo pertanto al quadro della discussione critica più recente. Sull'appropriazione cristiana del cinismo cfr. almeno F. G. Downing, Cynics and the Christian Origins, Clark, Edinburgh 1992; H. D. Betz, ]esus an d the Cynics: Survey an d Analysis o/ a Hypothesis, in "Journal of Religion " , LXXIV, 1994, pp. 443 -75; B . Withrington, ]esus the Sage: The Pilgrimage o/ Wisdom, Fortress, Minneapolis 1994. Contro questa ipotesi cfr. almeno P. Rhodes Eddy, ]esus as Diogenes? Reflections an the Cynic ]esus Thesis, in

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co prima, che il fomite della nuova attenzione, da parte greca, per la biografia filosofica e soprattutto per le sue implicazio­ ni culturali dovettero essere proprio l'immagine e la vita di Cristo nonché il pullulare incontrollabile di scritture biogra­ fiche a lui dedicate 8' , note con il nome di vangeli. Il Peregrino lucianeo va letto, a nostro awiso, anche su questo sfondo. È vero che non ci sono elementi tali da presupporre nel Pere­ grino la lettura dei vangeli, né di quelli sinottici, né di quelli "apocrifi", anche se bisognerebbe circonfondere queste af­ fermazioni di tutta la prudenza necessaria, dato l'enorme nau­ fragio della letteratura evangelografica. Ma è altrettanto pro­ babile, se non certo, che Luciano non potesse non conoscere il fenomeno delle scritture evangeliche. Se Celso aveva senza dubbio lettura diretta del Vangelo di Matteo e del racconto giovanneo della passione, nonché di più d'uno scritto gnosti­ co 82 , non si vede perché Luciano non potrebbe. E a maggior ragione perché il Peregrino mostra di conoscere il fenomeno del boom evangelografico, là dove afferma: Fu proprio allora che [Peregrino] si mise a imparare la straordina­ ria sapienza dei cristiani, mettendosi a far comunella con i preti e i dottori di Palestina. E sapete che successe? In quattro e quattr'otto gli bagnò il naso come a un branco di mocciosi: profeta, caposetta, gran sacerdote divenne e tutto da solo ! Spiegava e interpretava i li"Journal of Biblica! Literature " , CXV, 1996, pp. 449-69 . Il modello cinico è so­ prattutto presente in Paolo: cfr. A. J . Malherbe, Paul an d the Popular Philo­ sophers, Fortress, Minneapolis 1989 e F. G . Downing, Paul and the Pauline Churches, Routledge, London-New York 1998. Su Luciano e il cinismo, con particolare riferimento a Peregrino, cfr. l'ancora valido J. Bernays, Lukian und die Kyniker, Hertz, Berlin 1879 e H. G. Nesselrath, Lucien et le Cynisme, in " L' Antiquité Classique " , LXVII, 1998, pp. 121-35. 8 1 . È noto che i vangeli furono ben più numerosi di quelli conservatici dal­ la sorvegliatissima e ristretta tradizione sinottica, vangeli che noi oggi definia­ mo " apocrifi " , " gnostici " . Cfr. a questo proposito, nell'immenso panorama bi­ bliografico, il recente e importante libro di B. D. Ehrman, I Cristianesimi per­ duti. Apocrifi; sette ed eretici nella battaglia per le Sacre Scritture, trad. it. Ca­ rocci, Roma 2005. 82. Cfr. le osservazioni di Giuliana Lanata in Celso, Il discorso vero, cit. , p p . 49- 50.

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bri sacri e lui stesso ne scrisse molti, mentre quelli lo veneravano co­ me un dio83.

La frase «spiegava e interpretava i libri sacri e lui stesso ne scris­ se molti» mostra che Luciano era perfettamente consapevole del vulcanico fiorire di scritture presso le moltissime comunità cristiane orientali, da noi troppo limitativamente definite "gnostiche", nelle quali si redigevano libri liturgici, raccolte di detti di Gesù, i cosiddetti l6gia, e vangeli veri e propri. Se dun­ que Luciano non mostra la sua eventuale conoscenza dei tan­ ti, troppi vangeli cristiani in circolazione, non è necessaria­ mente perché non li conoscesse, ma forse e piuttosto perché non gli interessavano in quanto testi. E semmai gli interessava­ no in quanto fenomeno culturale e operazione intellettuale. In che cosa poteva consistere, allora, questo interesse? E quali ne sono le ricadute sul Peregrino? È luogo comune e universalmente condiviso nella lettera­ tura critica ritenere che Luciano, tra i pochi autori non cristia­ ni 84 a testimoniarci, nel Peregrino, la figura storica di Cristo, non abbia compreso la portata culturale del cristianesimo e si sia limitato a una semplice, irridente satira. Questi i passi in di­ scusswne: [Peregrino] Divenne il loro [dei cristiani] legislatore n onché il loro Signore, oltre a quello là che ancora venerano, quel tale che è stato messo al palo in Palestina [Cristo] per aver introdotto nel mondo questo nuovo culto 85.

8 3 . Cfr. PAR. I I ( corsivo mio) . Sembrerebbe di poter cogliere in questo passo un'eco delle scuole catechistiche gnostiche e della loro copiosa attività di scrittura, su cui cfr. G. Filoramo, Le scuole catechistiche e la gnosi, in Cam­ biano, Canfora, Lanza (a cura di) , Lo spazio letterario, ci t., vol. 113, pp. 559-86. Sul lavoro delle scuole catechistiche gnostiche e sulle loro pratiche retoriche cfr. anche l'interessante I. G6mez de Liaiìo, El cfrculo de la Sabtduria, 2 voli. , Siruela, Madrid 1998. 84. Cfr. il rapido ma efficace quadro di I . G6mez de Liaiìo, Le immagi­ ni di Gesù nel cristianesimo delle origini, trad. it. Mondadori, Milano 2005, pp. I-79· 8 5 . Cfr. PAR. I I .

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Questa gente [i cristiani] è d 'incredibile velocità nel far corpo co­ mune e in men che non si dica riesce a spendersi completamente. Sic­ ché il bravo Peregrino ne ottenne di ricchezze da quelli lì, ma tante bene, con la scusa che era in carcere, e si racimolò un bel gruzzolet­ to ! Quei poveri disgraziati si sono tutti convinti di potersi guada­ gnare l'immortalità e la vita eterna, per la qual cosa disprezzano la morte e vi si danno per lo più spontaneamente ! E poi il loro primo legislatore, Cristo, li ha convinti d'essere tutti fratelli tra loro, se so­ lo una volta si siano convertiti e abbiano rinnegato gli dèi greci per inginocchiarsi davanti a quel sapiente condannato al palo e vivere se­ condo le di lui leggi. Disprezzano tutti i beni materiali allo stesso mo­ do e li ritengono comuni, accettando tutti questi precetti senza nes­ sun fondato convincimento. Sicché, se un qualsiasi ciurmatore che sappia l'arte e la parte del proprio tornaconto capitasse in mezzo a costoro, in men che non si dica si troverebbe ricco buggerando per bene quei poveri grulli 86•

Certamente Luciano irride. Ma né più né meno di sempre. E quell' idée reçue sulla limitatezza della satira lucianea sembra piuttosto tradire il cristianesimo implicito e irriflesso della cri­ tica 87 piuttosto che illuminare il senso dell'operazione di Lu­ ciano. Innanzitutto va osservato che Peregrino, nei passi testé riportati, è esplicitamente presentato da Luciano come un imitatore di Cristo e forse di più, un suo vero e proprio doppio . In quanto doppio di Cristo e come ogni doppio, Peregrino contende all'originale la sua parte, il ruolo. Ricadiamo così nel territorio della mimesi, cioè nell'universo al contempo della rappresentazione e del racconto. La lettura che Luciano offre del cristianesimo è dunque una lettura in chiave mimetica . E si tratta di una lettura avanzata non soltanto da Luciano, ma anche da un altro accorto osservatore della brama di martirio dei cristiani:

86. Cfr. PAR. 1 3 . 87. I n questo il senso, il quadro di Eric Dodds ha purtroppo fatto scuo­ la, cfr. Cristiani e pagani in un'epoca d'angoscia. Aspetti dell'esperienza reli­ giosa da Marco Aurelio a Costantino, tra d . i t . La Nuova Italia, Firenze 1970.

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Si tratti di sciogliersi dal corpo o di spegnersi o di disperdersi o di sopravvivere, l' anima deve essere pronta. E questa prontezza deve essere frutto di riflessione, non di una forma di militanza, come nel caso dei cristiani: deve essere, al contrario, razionale, dignitosa e, so­ prattutto se si mira alla persuasione altrui, senza teatralità ! 88

I cristiani, dunque, fanno teatro, secondo Marco Aurelio 89 . Si tratta di un altro caso di mancata comprensione e sottovaluta­ zione del cristianesimo? Difficile sostenerlo. Si tratta di un sot­ tilissimo, certamente ironico, appunto intellettuale alla scom­ messa per converso tutta pubblicitaria e reattiva dei cristiani, un appunto che comporta, al contrario, profonda consapevo­ lezza della potenza intrinseca al martirio, della sua presa emo­ tiva e del suo effetto pubblico: i cristiani trasformano la filoso­ fica commedia della morte, commedia "da camera", come quella del Fedone, commedia sorvegliata e razionale, in una teatrale militanza all'aperto e allo scoperto. Come i filosofi gre­ ci, anche i cristiani fanno teatro, non più, tuttavia, e non sol­ tanto tra le righe della scrittura, ma sui palcoscenici delle piaz­ ze e dei circhi. Sempre di teatro si tratta. L'unica differenza che passa tra il primo e il secondo è la volgarità e il fanatismo. E la polemica intellettuale di Marco Aurelio è forte perché non è certo rivolta alla carne da cannone dei martiri da piazza, ma piuttosto, con tutta verosimiglianza, a quegli intellettuali cri­ stiani che si stanno impossessando dei paradigmi ideali e bio­ grafici della filosofia greca, in primis del Socrate morente di 8 8 . Cfr. Marco Aurelio, Pensieri, XI, 3· Il termine che abbiamo reso con " senza teatralità " è in greco atrag6tdos. 8 9 . E dunque non sarebbero diversi dai retori e dai sofisti, in particolare quelli appartenenti alla cosiddetta Seconda sofistica, secondo l'espressione fi­ lostratea, cfr. Vite dei sofisti, I, 27. Sui sofisti di II secolo come attori cfr. M. Civiletti (a cura di) , Filostrato, Vite dei so/isti, Bompiani, Milano 2002, pp. 46-7. Centrale è in questo quadro la figura di Elio Aristide, di cui cfr. ad esempio Discorsi sacri, IV, 22, che leggiamo sul filo di S. Nicosia (a cura di) , Elio Ari­ stide, Discorsi sacri, Adelphi, Milano 1984. Sulla teatralità di Aristide nel ce­ lebre episodio dell'incontro con Marco Aurelio cfr. inoltre M. Tasinato, Tem­ po svagato. Marco Aurelio: il savio, il distratto, il solitario, Mimesis , Milano 1990, pp. II-26.

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Platone. La polemica di Luciano si svolge sullo stesso piano di quella di Marco Aurelio, cioè sul crinale della mimesi, ma non passa attraverso i toni compassati della scrittura filosofica, bensì attraverso il rovesciamento parodico. E Peregrino è una parodia di Cristo, perché, come si diceva, ne è un doppio mi­ metico, perché, specificamente, di quella vita esemplare rac­ contata e riraccontata dai vangeli parodizza la pretesa assolu­ ta di unicità, di inimitabilità, di originalità, di evento straordi­ nario90 . Peregrino, dice Luciano, è venerato come un dio dal­ la comunità cristiana riunita intorno a lui, anch'egli è un dio, dice ancora Luciano, «oltre a quello là che ancora venerano»9 1 : di Cristo Peregrino è dunque un deuteragonista . Gesù ritorna così a essere uno dei molti "sapienti ispirati" della tradizione, modello riproducibile come i tanti altri che da secoli si avvi­ cendano. L'aspirazione cristiana ed evangelografica all'inter­ ruzione del processo mimetico, della moltiplicazione mimeti­ ca, risulta essere dunque perfettamente e profondamente com­ presa da Luciano, proprio perché egli ne denuncia l'aperta fal­ sificazione ideologica92. Sicché Cristo torna a essere un sophi­ stés 93, uno tra gli svariati che, come prima di lui Orfeo, Pita­ gora o Empedocle, ha introdotto nel mondo la sua teleté94, il 90. Del resto, nonostante l'istanza fondamentale dell'inimitabilità di Cri­ sto, i teologi cristiani ben sapevano che, nel confronto con la reazione non cristiana, da un lato, e all'interno stesso del dibattito cristiano-gnostico, dal­ l' altro, l'identità di Cristo era diventata qualcosa di vistosamente polimorfi­ co. Ed è Origene nel Contro Celso a cercare di normare, senza negare, questo polimorfismo. Su tutto ciò cfr. G6mez de Liafio, Le immagini di Gesù, cit. , p p . !7-25. 9 1 . Il greco dice: metà goun eketnon hon eti sébousi. 92. Sulla storia di Cristo depositata nei racconti evangelici come agente dissolutore del ciclo mimetico dovremmo rimandare all'opera intera di René Girard, ma qui trascegliamo in particolare Vedo Satana cadere come la folgo­ re, trad. it. Adelphi, Milano 2001 , il suo vero libro di antropologia neotesta­ mentaria, e Menzogna romantica e verità romanzesca, trad. it. Bompiani, Mi­ lano r98r, che, all'esordio di Girard come critico, applicava alla letteratura , al romanzo di Proust, Stendhal e Dostoevskij , quei principi di antropologia neotestamentaria definiti più tardi. 93· Cfr. PAR. 1 3 . 9 4 · Cfr. PAR. I I .

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suo culto iniziatico, la sua dottrina segreta, il suo rituale mi­ sterico. Il cristianesimo ne esce dunque ricondotto, qui nel Pe­ regrino come nel Discorso vero di Celso, a una forma di sophfa, di sapienza, o, meglio, a una delle tante filosofie della salvezza che da secoli e secoli la tradizione greca conosceva sotto il no­ me di "misteri"95. In questo senso si spiegano, a nostro avviso, i molti riferimenti ai culti segreti che disseminano il racconto del periodo cristiano di Peregrino96• Che poi i "misteri cristia­ ni" venissero liquidati da Luciano come ciarlataneria non è frutto di accanimento specificamente anticristiano: semmai Luciano estende al cristianesimo quella vera e propria cultura del sospetto contro le pratiche misterico-soteriologiche che era ben viva, pur accanto ad altri atteggiamenti, nella tradizione antica a partire dalle Baccanti euripidee97• Ma a Luciano interessano, più che Cristo e i suoi seguaci, le ricadute sulla scrittura che il preteso messaggio antimimetico di Cristo e della sua vicenda comporta9 8. Alla distanza di quasi centocinquant'anni dalla morte del Galileo, il fenomeno cri-

9 5 · Per il legame tra cristianesimo e immaginari misterici cfr. G. Sfameni Gasparro, Cristianesimo ed Ellenismo: terminologia e schemi m isterici nel lin­ guaggio gnostico, in " Studi e Materiali di Storia delle Religioni " , LXVI, 2000, pp. 33-70. Si pensi, in ogni caso, per converso e specularmente, alla dichiara­ ta riappropriazione cristiana dei misteri dionisiaci, in III secolo, da parte di Clemente di Alessandria tra Protrettico e Stromati, su cui cfr. F. Massa, Co­ noscenza e riconversione del dionisismo in Clemente Alessandrino, in A. Bel­ trametti (a cura di) , Materiali e studi per le "Baccanti" di Euripide. Storia, me­ morie, spettacoli, Ibis, Como 2007, pp. 217-51. 96. Li discutiamo in dettaglio nelle note di commento ad loc. che seguo­ no la traduzione del testo. 97· Sul senso del rapporto misteri-menzogna nelle Baccanti rimando ad alcune mie pagine, cfr. M . Stella, Misteri o menzogne di Dioniso? Una rt/les­ sione sullo statuto del culto e del rito nelle "Baccanti" di Euripide, in Beltra­ metti (a cura di) , Materiali e studi, cit . , pp. 169-78 e al cap. IX del libro di D. Susanetti, Euripide. Fra tragedia, mito e filosofia, Carocci, Roma 2007. 98. D'altra parte, che il problema sollevato dalla figura dell"' uomo divi­ no" fosse squisitamente mimetico è mostrato anche dalla Vita di Apollonia di Tiana, in cui non Cristo, ma il grande santone " pagano" ingaggia la sua bat­ taglia contro spettri e inganni della mimesis. Su tutto questo cfr. M . Tasinato, Figurata malia. Il taumaturgo e la phantasia tra paganesimo e cristianesimo, Bi­ blioteca dell'Immagine, Pordenone 1988 .

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stiano ha assunto proporzioni difficilmente trascurabili. E quel «sapiente condannato alla pena del palo», cioè alla crocifissio­ ne, si awiava ormai a essere qualcosa di più che uno dei tanti veggenti ispirati tra i sudditi dell'impero. Questo era sicura­ mente chiaro agli intellettuali greci e romani del tempo. Con delle differenze, certo, e assai preziose per noi, tra l'altro. La ce­ lebre e durissima reazione di Frontone99, ad esempio, testimo­ nia una polemica anticristiana condotta sul filo di soli e triti luo­ ghi comuni. Ma già l'anatomia di Celso rivela scenari assai più complessi. Della finezza di Marco Aurelio si è già detto. Il Pe­ regrino di Luciano rischia però di essere addirittura illuminan­ te. C'è un punto del Peregrino che, per quanto sia sostanzial­ mente scivolato all'attenzione critica, fa pensare: E tuttavia lui [Peregrino] , così com'era circondato dalla folla, si to­ glieva il capriccio della celebrità guardando dall'alto la massa dei suoi ammiratori , senza rendersi conto, il poveretto, che molto più grandi sono le masse che seguono i condannati alla croce o al patibolo '00•

È questo forse il segnale più importante, perché accuratamen­ te dissimulato, dell'attenzione di Luciano per la morte di Cri­ sto e per il suo senso. La dissimulazione non riesce infatti a na­ scondere, a ben vedere, che dietro la morte di Peregrino, tra «i condannati alla croce o al patibolo», sta la morte di quel con­ dannato alla croce, una morte divenuta celebre, una morte la cui fama era sorprendentemente dilagata - in questo senso dunque «seguita da più grandi masse» - nei mille e mille rivo­ li della scrittura evangelica, nonché ricordata e continuamen­ te riconfermata nelle mille e mille comunità che si diffondeva­ no a macchia d'olio per i territori dell'impero. Una morte il cui messaggio di salvezza rischiava di essere ascoltato sul serio e più di altri, molto più di altri. Anche Peregrino, prima di mo­ rire, lancia, significativamente, un messaggio di salvezza: «E dunque voglio - disse - beneficare gli uomini insegnando loro 99· In Minucio Felice, Octavius, 8, 4-9, 7· roo. Cfr. PAR. 34·

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il disprezzo della morte» ror , sentendosi altrettanto apostrofare da una richiesta di salvezza: «Salvati per il bene della Gre­ cia! » 1 02 . Certo, dietro il proclama soterico della morte di Cri­ sto echeggiava quello della tradizione filosofica greca, quello epicureo, ad esempio, con la sua ambizione di liberare l'uomo da tutte le paure, e soprattutto dalla paura della morte. Echeg­ giava, primo di tutti, quello del Fedone platonico, là dove il gio­ vane narratore, precisando che Teseo salvò i quattordici gio­ vani dal Minotauro, ma anche se stesso, lo diceva altresì im­ plicitamente di Socrate, il quale, con la sua morte, salvava la verità e la fiducia dei discepoli, ma contemporaneamente la sua stessa fama e la sua integrità di filosofo 103• Proprio perché ne è perfettamente consapevole, Luciano rovescia questo an­ nuncio di salvezza, e dei filosofi e dei cristiani. Come i filosofi pensavano di raccontare, ciascuno secondo i propri principi, l'unica verità, così i cristiani pretendono di raccontare la sola storia degna di essere raccontata, la vita di Cristo, la sua paro­ la e la sua morte. Ai cristiani Luciano sembra rispondere: m e r­ cz; déjà vu, perché il loro "credo" comportava lo stesso seque­ stro che la filosofia, da Platone in poi, aveva esercitato sulla scrittura e sul racconto. Ma il sequestro cristiano sembrava es­ sere anche più forte, più potente, perché non viveva più in scuole di retori e dotti, ma in comunità di gente, come Marco Aurelio diceva e Luciano ben sapeva, troppo pronta a morire per quel suo racconto. Luciano sta invece dalla parte di una scrittura e di un racconto che non conosce e non vuole cono­ scere sequestri né ipoteche. Questa sua ferma posizione non può certo essere ricondotta al conservatorismo d'un tipico in­ tellettuale greco chiuso nel suo gioco memoriale con il passa­ to 1 04. Non foss'altro perché, a volte, la scelta di conservare è

ror. Cfr. PAR. 33· 102. Ibzd. 103. Cfr. Fedone, 58 b. Ho discusso questo passo e il significato del paral­ lelo mitico nel mio libro platonico L'illusion philosophique, cit. , pp. 44 ss. 104. Che è poi l'immagine tradizionale di Luciano ancora oggi assai lar­ gamente diffusa .

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frutto di un'accurata meditazione sul presente. Nel tenere que­ sta sua posizione, Luciano è in controtendenza a una tradizio­ ne plurisecolare. Così come è in controtendenza a certi esplo­ sivi fenomeni contemporanei - è il caso del cristianesimo, ap­ punto - in cui egli non riconosce alcuna conquista intellettua­ le. D'altra parte e soprattutto doveva essere evidente a Lucia­ no che i cristiani non mantenevano ciò che promettevano. Quella massa di scritture, su cui Luciano non manca di attira­ re l'attenzione del lettore, rifrangeva infatti l'unità del raccon­ to unico e vero in molte storie fatalmente alternative. Gli as­ sertori della verità e della salvezza esclusive si contraddiceva­ no nell'avidità di scrivere e riscrivere la stessa storia, variando, integrando, rivendicando versioni su versioni e producendo una massa di livres de poche 105 che viaggiano per il mondo. E di questa contraddizione, che dimostrava palesemente come quello del racconto unico fosse soltanto e necessariamente un miraggio, Luciano doveva sorridere. Facciamo per un istante l'ipotesi che tra le mani di Luciano sia passato uno di questi li­ bri, ad esempio il Vangelo di Tomaso. E che l'occhio di Lucia­ no sia caduto su questo l6gion di Gesù ivi antologizzato: Gesù disse ai suoi discepoli: «Fatemi un paragone, ditemi a chi ras­ somiglio» . Simon Pietro gli rispose: «Sei simile a un angelo giusto». Matteo gli rispose: «Maestro, sei simile a un saggio filosofo». To­ maso gli rispose: «Maestro, la mia bocca è assolutamente incapace di dire a chi sei simile». Gesù gli disse: «lo non sono il tuo maestro, giacché hai bevuto e ti sei inebriato alla fonte gorgogliante che io ho misurato» 106•

105. È noto che l'editoria evangelografica, con le sue esigenze di massima diffusione e, per così dire, di " tascabilità " , rivoluzionò la storia del libro. Cfr. G. Cavallo, Discorsi sul libro, in Cambiano, Canfora, Lanza (a cura di), Lo spazio letterario della Grecia antica, cit . , vol . IIJ , pp. 613-50. 106. Cfr. Vangelo di Tomaso, l6gion 1 3 , in L. Moraldi (a cura di), I Vange­ li gnostici, Adelphi, Milano 1984. Per la datazione del testo, che si fa risalire alla prima metà del II secolo, cfr. il commento del curatore alle pp. 8r ss. Sul­ l'importanza e la centralità del l6gion 13 e sul suo complesso significato nel contesto della misterica gnostica cfr. H . - C . Puech, Sulle tracce della Gnosi, trad. it. Adelphi, Milano 1985, pp. 502-20.

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Luciano avrebbe sorriso nel vedersi affrontare, contempora­ neamente e vis-à-vis, sulla bocca di Gesù e dei discepoli, lo spet­ tro della mimesi, da un lato, con il suo gioco delle copie e dei doppi - per non dire, poi, di quelle due parole: «Saggio filo­ sofo»! - e, dall'altro, la rivendicazione di assoluta inimitabilità, quasi un esorcismo di quello stesso spettro che riconosce in Gesù qualcosa di già visto... Qui sta, del resto, tutta la partita delle scritture cristiane rispetto e contro la tradizione greca. Lu­ ciano oppone a questa partita, come alla filosofia, il suo Pere­ grino, che, sotto il segno della parodia, è un proclama di "por­ te aperte alla mimesi". Ci si lasci aggiungere, "da buon politei­ sta". Non sul versante cultuale e rituale, va da sé, verso il quale Luciano pare proprio essere assai indifferente, quando non ir­ ritabile, ma su quello narrativo. Il politeismo non è, del resto, né una religione, né tanto meno una fede, ma un regime narra­ tivo in cui molte storie e potenzialmente tutte le storie sono pos­ sibili e compossibili 107• La risata e la parodia di Luciano è que­ sta: è impossibile raccontare una storia sola perché il senso di una storia sta proprio nel fatto che ne esiste almeno un'altra. Parafrasando l'apologo nietzscheano sulla morte degli dèi anti­ chi, letteralmente scoppiati dal ridere quando uno si alzò di­ cendo, gelosamente, «io sono l'unico dio» '0 8, potremmo con­ cederci una fantasia: quel riso fragoroso che risale echeggiando sino a noi dal libro di Luciano è forse il riso delle antiche storie su quella di Cristo, oltre che l'annuncio della loro morte. 4 · 3 · La riscrittura della disciplina: la storia della filosofia nello specchio parodico delle Vite Ora che abbiamo parlato di Pitagora , resta da dire dei pitagorici più illustri; dopo, di quelli che sono stati chiamati da alcuni filosofi " spo­ radici " ; dopo ancora, mi occuperò della successione dei filosofi de­ gni di nota fino a Epicuro, come già si è detto. Abbiamo anche di107. Si torni a leggere l'aforisma 143 , Il vantaggio più grande del politei­ smo, della Gaia scienza nietzscheana, cit . , pp. 172- 3 . 108. Cfr. Cosi parlò Zarathustra, trad. it. Adelphi, Milano 1976, parte III, p . 214.

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scorso di Teano e Telauge; bisogna ora, e in primo luogo, parlare di Empedocle, che, secondo alcuni, fu discepolo di Pitagora '09.

Chissà quanti libri di questo genere saranno passati per le mani di Luciano, quante Vite e opinioni deifiloso/i illustri avrà letto... Se non questo in particolare, di Diogene Laerzio - per evidenti motivi cronologici -, i tanti, tantissimi altri che lo hanno prece­ duto e preparato: Le successioni dei/iloso/i di Sozione, ad esem­ pio, oppure di Alessandro Poliistore. Chissà quante Epitomi, e quanti più specifici trattati Sugli Stoici o Sui cinici e quante più generali raccolte di aréskonta, che i Romani chiamavano placita e noi traduciamo con "dottrine" dei filosofi! Di fatto, manuali di storia della filosofia corredati o meno di cappelli o più consi­ stenti quadri biografici degli autori analizzati e antologizzati. Li­ bri che circolavano per tutto il territorio dell'impero, nelle scuo­ le dei retori e dei filosofi, nelle case degli intellettuali, di un Ci­ cerone o di un Seneca come, appunto, di Luciano uo. Dopo una prima lettura delle Vite, attenuatosi l'effetto ab­ bagliante e ridicolo di quella stralunata scena da piazza, ci si ac­ corge che i sorrisi o addirittura le risate che ci siamo appena go­ duti hanno bisogno di una più pacata rilettura. La chiave ari­ stofanea non basta a illuminare il gioco del testo. Per quanto vi si ispirino apertamente, le Vite di Luciano non sono le Nuvole di Aristofane. Le Nuvole parodizzano la figura dell'intellettua­ le 111 , sotto il nome pretestuoso e la maschera di Socrate, in tut­ ti i possibili aspetti della sua attività, quella di insegnante, di re-

109. Diogene Laerzio, VIII, r, 49 · no. Nel vasto panorama della letteratura critica basti qui rimandare a G . Cambiano (a cura di) , Storiogra/ia e dossografia nella filosofia antica, Tirrenia, Torino 1990 e alle linee teoriche e di sviluppo indicate dai saggi e dalla bi­ bliografia ivi raccolti . m. E non solo le Nuvole e Aristofane, ma tutta la commedia antica, co­ me si evince dall'analisi dedicata da Olimpia Imperio alla figura del sofista­ intellettuale, cfr. Figura dell'intellettuale nella commedia greca, in A. M. Be­ lardinelli, O . Imperio, G . Mastromarco, M . Pellegrino, P. Totaro (a cura di) , Tessere. Frammenti della commedia greca: studi e commenti, Adriatica, Bari 1998, pp. 43-130.

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tore, di grammatico e studioso della lingua, fino alle sue più al­ te ambizioni di mistico veggente, di fronte e per un pubblico che ne ha conoscenza diretta e condivisa. Parodizzano una pra­ tica, degli atteggiamenti che esistono nella cultura e nella realtà vive della città m. Certamente anche le Vite sono dirette contro pratiche e atteggiamenti correnti dei filosofi. Ma per ridere fi­ no in fondo della parodia di Luciano, per capirla, abbiamo bi­ sogno di qualcosa in più. Laddove in Aristofane bastano la sa­ pienza drammaturgica del comico e la memoria culturale, il ri­ so di Luciano passa anche e soprattutto attraverso la citazione e la memoria testuale. E nel farsi strada in quella selva di cita­ zioni che le Vite sono, nel districarsi, passo dopo passo, dalle loro reti, siamo messi di fronte a qualcosa che non avevamo so­ spettato subito. La coppia Democrito-Eraclito fa ridere così com'è, è vero, perché il gioco della scrittura lucianea funziona, a un primo livello, sopra l'allusione testuale. Ma da dove vien fuori quello strano duo del burlone e del piagnone? Da un mo­ dello libresco, nato nelle scuole di retorica e di filosofia del­ l'impero e divenuto poi celeberrimo n3• Vien fuori dal biografi­ smo a piede libero e dall'aneddotica dotti sviluppatisi all'inter­ no della tradizione filosofica. Più in generale, le parole, i di­ scorsi pronunciati dai modelli filosofici messi in vendita nelle Vite sono patchworks di citazioni. È particolarmente interes­ sante il caso eracliteo, perché si tratta di un vero e proprio cen­ tone. Soprattutto per confronto con il caso pitagorico. Pitago­ ra ed Eraclito sono i filosofi più antichi della comunità di sa­ pienti qui evocata nelle Vite. Su di essi grava il peso di una tra­ smissione che, fino a Luciano, è vecchia di quasi settecento an­ ni. Una trasmissione già complicata alla sua origine dai modi di produzione, circolazione, fruizione e conservazione della scritn2. Per questo rapporto tra pubblico e commedia sul filo della memoria culturale e letteraria cfr. le pagine fondamentali di G. Mastromarco, Introdu­ zione ad Aristofane, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 141 ss. n3. Cfr. F. Decleva-Caizzi, Pirrone e Democrito, in " Elenchos " , V, 1984, pp. 3 - 2 1 . Il Democritus ridens è associato all'Heraclitus lugens in un fram­ mento del De ira di Sezione, maestro di Seneca, conservato da Stobeo, Flori­ legio, III, 20, 53·

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tura in cui quelle scritture stesse nacquero. Di Pitagora, poi, non sappiamo neppure se scrisse, mentre ci riteniamo sicuri, oggi, del libro di Eraclito sulla natura. Tant'è, Pitagora è stato tramandato fin dai primi pitagorici sotto forma di precetti ora­ li, i cosiddetti akousmata, mentre Eraclito, perdutosi presto il libro, è giunto ai posteri sotto forma di citazioni dal suo famo­ so logos physik6s. E proprio così Luciano fa parlare il suo Pita­ gora e il suo Eraclito: le parole del primo sono una rapsodia di precetti risalenti a Pitagora, quelle del secondo sono citazioni dal libro del celebre filosofo di Efeso. Peraltro, alcune righe del centone naturalistico eracliteo di Luciano riproducono non la tradizione dei frammenti considerati d'autore, ma piuttosto una riscrittura ippocratica 11 \ spia incontrovertibile, questa, che Luciano sta raccogliendo da un bacino in cui, alle citazio­ ni credute risalire all'autore e riportate come tali, si mescolano le riformulazioni dell'autore disperse in un po' per tutto il pa­ trimonio della letteratura filosofica. È, evidentemente, il baci­ no delle epitomi e dei compendi, di quelle storie della filosofia, di quelle raccolte storico-biografiche che compilano i loro me­ daglioni dei filosofi, con tanto di dossier più o meno ristretti o allargati delle testimonianze. Stessa cosa dicasi nel caso di So­ crate. Il cliente interessato a comprarlo, a un certo punto, gli chiede: «E un riassuntino della tua filosofia?» 115• Il termine per "riassunto" è to kephdlaion, termine chiave della manualistica filosofica. E ancora si prenda Diogene. Conversando con il suo acquirente, egli esibisce come il suo modo di vita sia «una via breve alla notorietà», parafrasando e distorcendo una formula tipica della dossografia, riportata da Diogene Laerzio 1 16, la quale definiva il cinismo come "una via breve alla virtù". E gli esempi si potrebbero moltiplicare, perché di fatto innervano il testo intero di Luciano. Tutto ciò è assai rilevante in quanto apre un'ulteriore prospettiva sulla parodia allestita nelle Vite. Dietro la brillante scena da piazza sta dunque un modello e un 114. Quella del Regime, I, 5· 115. Cfr. PAR. r 8 . 116. Cfr. VI, 103.

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genere letterario o, meglio, paraletterario ben preciso: quello della storiografia filosofica nata nelle cerchie degli specialisti afferenti a precise scuole e realizzatasi editorialmente nel tipo del manuale. Luciano, con le Vite, mette quel genere allo spec­ chio. Che cosa sono - sembra egli chiedere ai suoi lettori tra le righe -, che cosa sono mai diventati quei maestri di saggezza, quelle figure eccezionali e strane, nei libri dei professori di fi­ losofia e dei loro allievi, nei loro commentari e nei loro com­ pendi, dove si è ormai perso il senso del confine tra l'opera ma­ gistrale e i suoi rimasticamenti? Che cosa è ormai quel Socrate che, sovrapposto senza mediazioni a Platone, risponde a do­ mande nelle quali, per bocca del cliente, si riproducono le so­ lite, trite, ma soprattutto opache, sopite, misere questioni at­ torno a cui si articola il lavoro esegetico delle scuole, dei loro maestri e dei loro manuali: «che vita conduci», ed è l'istanza biografica, «qual è il sunto della tua filosofia», ed è l'istanza dossografica, sicché ecco la "vita", l"'opera", e poi !'"antolo­ gia"... Sono diventati, quei maestri, degli idioti, dei mezzi di­ sgraziati, dei maniaci. E l'acutissima parodia di Luciano sma­ schera anche, con estrema lucidità, alcune tra le più consolida­ te metodologie di questa riduzione alla demenza: in primis, l'ir­ riflessa abitudine di spremere la scrittura degli autori nel tor­ chio dei realtà, sicché, quando Socrate si presenta al suo com­ pratore, può dire «sono pederasta e un maestro dell'eros», pre­ cisando che un bel ragazzo può tuttavia dormire con lui, sotto il suo mantello, sine iniuria, mentre le luccicanti pagine plato­ niche, il discorso di Alcibiade nel Simposio cui si allude, le sue straordinarie implicazioni intellettuali, muoiono, uccise dal­ l'ansia sapiente dei cercatori di notizie, di "cose" da dire e da ridire nelle loro scrupolose ricostruzioni dello status quaestio­ nis. E Platone è ancora fortunato, sembra suggerire Luciano, perché può farsi scudo del suo personaggio protagonista, So­ crate: ma che dire, ad esempio, di Pirrone, il quale, non aven­ do scritto nulla, al pari di Socrate, ma non avendo avuto come lui la fortuna d'un discepolo come Platone, viene, il poveretto, identificato con le sue dottrine sulla sospensione del giudizio e sull'indecidibilità e indifferenza di tutte le cose, e così ridotto 59

a un morto in piedi, catatonico e apatico, la cui unica aspira­ zione è «diventare come un verme»? Veramente esilarante è, a questo punto, la risposta del cliente pirroniano: «Se non altro ti comprerò per questo». Chi mai se lo comprerebbe un tizio del genere, se non uno che deve sapere e dire a tutti i costi qual­ cosa su Pirrone, magari in un solido profilo storiografico? Ma ciò che doveva davvero irritare Luciano, poi, a giudicare dalla veemenza della sua parodia, era la folle serietà, involontaria­ mente ridicola, l'incosciente saccenteria di queste pratiche e di questi metodi della scuola. Lo si vede bene dal Crisippo delle Vite. In quella insopportabile figura di velenoso trombone che sentiamo parlare di pagina in pagina non viene soltanto irriso e passato al fil di lama della satira lo stoicismo, nell'ascetica al­ terigia della cui morale Luciano certamente non poteva rico­ noscersi. Il Crisippo che Luciano rappresenta nelle Vite è so­ prattutto il libro che parla di Crisippo, è il capitolo su Crisip­ po d'un qualsiasi manuale, è il quadro dossografico, tra etica, gnoseologia e logica, zeppo di nomenclature stilate per essere apprese e riprodotte, zeppo d'elenchi tassonomici di sillogismi e sofismi, il cui effetto generale si risolve in una strabiliante for­ ma di ebetismo. La pazzesca serietà con cui schiere di compi­ latori hanno ammassato paradossi su paradossi crisippei si specchia così nella comica serietà del compratore che, mentre il filosofo pretende di trasformarlo in pietra con un sillogismo indimostrabile, incomincia ad avvertire una paralizzante rigi­ dità alle membra! Si può dire che una parodia veramente riuscita funzioni àja­ mais. E che il suo oggetto ne risulti parodizzato altrettanto per sempre. L'effetto sortito dalle Vite è una parodia memorabile e mirabile - forse rimasta insuperata - della storiografia filosofi­ ca che, dai tempi di Luciano, rischia di raggiungere anche noi. Se per un attimo solleviamo la testa da quel denso lavoro di commento e interpretazione che le Vite ci inducono a svolgere, ci sorprenderemo a tenere tra le mani le nostre, moderne rac­ colte dossografiche, che recano, anziché il nome di Alessandro Poliistore, quello di Hermann Diels e di Walter Kranz, oppure di Hans von Arnim, per citare soltanto i grandi capolavori del 60

genere. Ci sorprenderemo anche nel constatare che il quadro dossografico degli autori riprodotto e parodizzato da Luciano è, fin nei minimi particolari, lo stesso nostro, quello che noi an­ cara riproduciamo. Ma forse non c'è da stupirsi. C'è semplice­ mente da rilevare l'eccezionale tenacia di un genere che dura da quasi duemilacinquecento anni, se vogliamo risalire proprio in cima, sino alle sue radici platoniche- è il caso del breve excur­ sus storico della filosofia tracciato in alcuni paragrafi del Pedo­ ne - 117 e aristoteliche - è il caso di Metafisica I - veri e propri quadri storiografici del sapere filosofico precedente, per quan­ to fossero in gioco, con Platone e Aristotele, ben altri intenti e alti obiettivi intellettuali 118• Non c'è da stupirsi, si diceva. Per­ ché la lingua dei morti è, appunto, tenace 119• È più tenace di quella dei vivi. E Luciano ben lo sapeva, lui, che sostanzial­ mente scrisse "dialoghi dei morti" per tutta la vita. Così come sapeva che l'unica possibilità di risveglio da quell'oblio in cui dormivano il sapere e la conoscenza intorno a lui, un oblio dal nome "tradizione", era il reagente della parodia. Forse, la pa­ rodia della tradizione filosofica era, per Luciano, l'unico modo rimasto onde alzare la voce negli orecchi dei dormienti e ricor­ dare che la filosofia non si identifica con la sua storia né può es­ servi identificata, perché la filosofia non vive nella storia della disciplina, ma nella scrittura e nella cultura. Le Vite di Luciano sono un buon libro da leggere. Uno di quei libri che fa bene leggere. Non solo perché fa ridere, ma per il modo in cui ci fa ridere. Quella successione di paradigmi del n7. Cfr. M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question o/Intellectual Genre, in M. M. Sassi (a cura di), La costruzione del discorso filosofico nell'età dei Presocratici, ED0! , Pisa 2006, pp. 329-53. n 8 . Su cui cfr. il saggio fondamentale di E. Berti, Sul carattere dialettico della storiogra/ia filosofica di Aristotele, in Cambiano (a cura di) , Storiogra/ia e dossogra/ia, cit. , pp. 101-25, ma cfr. anche W. Leszl, Aristate/es on Unity o/ Presocratic Philosophy: A Contribution to the Reconstruction o/ Early Retro­ spective View o/ Presocratic Philosophy, in Sassi (a cura di) , La costruzione del discorso filosofico, ci t . , pp. m-79· n9. Cfr. le penetranti osservazioni di Diego Lanza sul rapporto di ri­ specchiamento tra antichi e moderni in Dimenticare i Greci, in Senis (a cura di) , I Greci, cit. , vol. III, pp. 1443- 64.

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sapere che ci sfilano davanti nelle sue pagine funziona un po' co­ me un'eterotopia che sovverte tutte le familiarità del pensiero 120, del nostro pensiero: trasformando in pura assurdità ciò che la tradizione ha reso tranquilla familiarità, ci lascia poi con tutto il senso del limite di non aver pensato noi in un altro modo. 5 L'indiscrezione epistolare: strategie della scrittura nel Peregrino p . L'io apocrifo dell'autobiografia

Nello scegliere la formula espositiva più consona al suo Pere­ grino, agli intenti e allo spirito di quella sua gustosa operetta, Luciano deve essersi ricordato a più riprese delle Lettere pla­ toniche. Oltre a essere quel "divino sapiente" che la tradizio­ ne riconosce in lui, Platone era anche un uomo. È una consi­ derazione di sconcertante banalità, che farebbe alzare le so­ pracciglia a chiunque. Ma quali sarebbero le reazioni se que­ sta considerazione fosse l'implicito presupposto di un raccon­ to sull"'uomo Platone"... magari dell'uomo Platone in perso­ na, nella forma di un io autobiografico che affabula e rivela di sé insospettabili retroscena? Attenzione scientifica, immanca­ bilmente. Ma forse anche, alternativamente, la risata di chi ha spirito per lo scherzo. Immaginiamo un Platone - che è poi quello delle celeberrime Lettere autobiografiche 12 1 - tutto in­ tento a giustificare la sua condotta politica in Sicilia, a dire «io non ho fatto questo», «io non ho mai detto, non ho mai scrit­ to» e «questi erano amici, mentre questi altri erano nemici» oppure «Atene mi faceva schifo», oppure ancora tutto impe­ gnato a pagare le tasse, a reperire finanziamenti, a racimolare

120. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. Rizzoli, Milano 1967, pp. 5 ss. 121 . Corpus che qui interpretiamo seguendo certi suggerimenti offerti da ] . Derrida, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, Aubier-Flammarion, Paris 1980.

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la dote delle sue quattro nipoti, a spedire anfore d'olio e altri regali, a sistemare gli allievi, anche indiretti, e magari non trop­ po amati, mandandoli in Sicilia da Dione 122• Questo sipario aperto sulla vita di Platone è, appunto, uno scherzo della scrit­ tura. L'epistolario platonico, oggi, dopo l 'infinita quaestio del­ l'ultimo secolo e mezzo, si può ben considerare falso 123• Con­ sapevolmente o meno, i falsari che hanno messo in scena la scrittura autobiografica ed epistolare di Platone si sono trova­ ti a inventare un revers indiscreto, cronachistico, chiacchiero­ ne, persino un po' maligno, dell'austero e autentico corpus dia­ logico. E a proposito di revers, il Roland Barthes apologista del piacere testuale diceva che «il testo è (dovrebbe essere) la per­ sona disinvolta che mostra il didietro al Padre politico» 124. Questa irriverenza, questo mostrare una parte inopportuna, e la sfrenata loquacità che l'accompagna, non sono un vezzo. So­ no, al contrario, un segnale importante, sono l'effetto di una presa di posizione contro lo scritto di verità e l'onore della sua autorialità. Se tale presa di posizione è probabilmente invo­ lontaria nel caso dei falsari platonici, è invece senz'altro con­ sapevolissima in Luciano. La forma e l'ordine del Peregrino sono quelli dell'epistola, la missiva inviata da Luciano al suo amico Cranio. C'è tuttavia una complicazione ulteriore. Perché si tratta di una lettera che vede contemporaneamente come protagonisti Luciano stesso, ascoltatore e spettatore di Peregrino, e quindi l'incredibile Pe­ regrino. C'è dunque un parlar di sé che è anche allo stesso tem122. Cfr. l'intera Lettera VII, per lo scenario politico, e, almeno, la Lettera per quello privato. Per i numerosi problemi connessi alla Lettera VII ri­ mandiamo a M. Tuili, Dialettica e scrittura nella Lettera VII di Platone, Giar­ dini, Pisa 1989. 123 . Finanche, crediamo noi, quella Lettera VII da molti, moltissimi anco­ ra salvata forse solo perché vi si parla esclusivamente di politica, come se l' ar­ gomento politico fosse qualcosa di valido in sé e certamente consono al de­ coro della scrittura platonica. Su questo problema cfr. L. Brisson, La Lettre VII de Platon. Une autobiographie?, in Baslez, Hoffmann, Pernot (éds . ) , L'in­ vention de l'autobiographie, cit. , pp. 37-46. 124. Cfr. Il piacere del testo, in Id., Variazioni sulla scrittura. Il piacere del testo, trad. it. a cura di C. Ossola, Einaudi, Torino 1999 , p. 11 5. XIII ,

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po un parlar d'altri. Sicché Luciano fa, nella forma epistolare, dell'autobiografia e al contempo della biografia su altri. Come si vede, Luciano duplica, anzi moltiplica il gioco dell'indiscre­ zione' 25 sia contro se stesso, sia contro l'altro. Di più. Luciano racconta di aver assistito in prima persona alla morte di Pere­ grino, rischiando addirittura di suo in quella calca minacciosa e dimostrando palesemente davanti a tutto il pubblico il suo odio per il personaggio. C'è dunque un'affermazione sovrae­ sposta dell'"io c'ero" che rinforza contemporaneamente l'i­ stanza dell'io autobiografico e dell'io biografico altrui. Ma ci rendiamo immediatamente conto che si tratta di una super-fin­ zione, del potenziamento di una finzione 1 26, al pari di quella che noi oggi chiamiamo mise en abtme '27• Perché l'io autobiografi­ co epistolare, come è stato ormai messo in evidenza da un'am­ pia letteratura critica, incrina ad desperationem la verità e la ri­ scontrabilità proprio in quanto gioca con una voce in prima persona che si può soltanto supporre come vera e che, in ogni caso, è irredimibilmente irrecuperabile restando fatalmente as­ sente e condannata alla sostituzione del dialogo in presenza 1 28•

125. Luciano Canfora parla, a proposito del Peregrino lucianeo, di «ma· levolo e petulante scavo biografico>>, cfr. Storia della letteratura greca, Later· za, Roma-Bari 1986, p . 574· n6. Che Luciano abbia assistito poi davvero alla morte di Peregrino, co­ me tutti noi crediamo, è davvero un'altra storia ! 127. Su cui cfr. in particolare L. Dallenbach, Il racconto speculare, trad. it. Pratiche, Parma 1992. Sulla mise en abtme lucianea cfr. M. Fusillo, Le miroir de la lune, in " Poétique " , LXXIII, 1 9 8 8 , pp. 1 09 - 3 5 e D . Larmour, Sex with

Moonmen an d Winewomen: The Reader as Explorer in Lucian 's Vera Historia, in " Intertexts " , I, 1997, 2, pp. 131-46. n8. Niente che non avesse già detto Platone nel suo Fedro, facendo di­ scutere Socrate dell'epistola amorosa di Lisia, come ho cercato di mostrare in alcune mie pagine, cfr. M. Stella, Ilfalso Lisia: la scrittura della contraffazione nel "Fedro" platonico, di prossima pubblicazione su " Quaderni di Storia " , lu­ glio-dicembre 2007. Sui temi e i problemi legati all'epistolografia e al suo io cfr. innanzi tutto e a mo' di introduzione teorica il saggio magistrale di J. La­ can, Seminario su "La lettera rubata", in Id., Scritti, trad. it. a cura di G. Con­ tri, Einaudi, Torino 1974, vol. I, pp. 7-6o. Cfr. poi, specificamente per il mon­ do antico, O. Longa, Tecniche della comunicazione nel mondo antico, Liguo­ ri, Napoli 1981; P. Cugusi, Evoluzione e /orme dell'epistolografia latina nella

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L'epistola è dunque topicamente, dalla tradizione antica a quel­ la del romanzo epistolare moderno e contemporaneo, il luogo della menzogna, dell'equivoco, della non -verificabilità dello scritto. p. Anonimia ovvero il rifiuto dell'autorialità

Ma Luciano non limita il suo gioco, pur già spinto, a fingere la presenza del proprio io nell'assenza del messaggio differi­ to. Una volta proclamato a gran voce il suo ruolo di testimo­ ne oculare, egli si ritrae quindi come in cornice, riportando il lungo racconto di un anonimo sulla vita di Peregrino, per poi riapparire come narratore dello spettacolare suicidio e infine chiudere l'epistola con una formula di buon augurio. Ben 23 dei 45 capitoli del Peregrino sono occupati dalla voce dell'a­ nonimo. Si potrebbe pensare che questo sconosciuto sia un porte-parole dell'autore. Già... ma chi è l'autore? L'autore del­ l'epistola è l'io, che è tuttavia un semplice personaggio, un'i­ dentità apocrifa 129 , come quella di tutti i personaggi. Il vero autore non è l'io presente, ma il "colui che non c'era". Lo in­ segna Platone nel suo Fedone, facendo dire all'omonimo gio­ vane narratore del dialogo «Platone non c'era» 13 0• Lo inse­ gnava a Senofonte e a tutti i socratici che, al contrario, s'af­ fannavano a dire «io c'ero», «io l'ho conosciuto! ». Sapeva

tarda repubblica e nei primi due secoli dell'impero: con cenni sull'epistologra­ fia pre-àceroniana, Herder, Roma 1983; M. Tasinato, Il velo, il morto, la scrit­ tura. Interpretazione dell"'Ippolito" euripideo, Centro stampa Palazzo Maldu­ ra, Padova 1985; A. Chemello (a cura di) , Alla lettera: teorie e pratiche episto­ lari dai Greci al Novecento, Guerini, Milano 1998. Per il moderno ci siamo par­ ticolarmente avvalsi di V. Kaufmann, L'equivoco epistolare nelle lettere di Ka/ka Flaubert Proust Baudelaire Mallarmé Valéry Artaud Rilke, trad. i t . Pra­ tiche, Parma 1994; P. Hartmann, Le contrae! et la séduction. Essai sur la subjec­ tivité amoureuse dans le roman des Lumières, Champion, Paris 1 9 9 8 ; C h . Planté, Deviazioni della lettera, i n F. Moretti (a cura di) , Il Romanzo. Temt; luoght; eroi, Einaudi, Torino 2003 , vol. IV, pp. 213-36. 129. Sulla quale è imprescindibile la lettura di A. Kilito, I:autore e i suoi doppi, trad. it. Einaudi, Torino 1988. 130. Cfr. 59d.

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Platone che se mai avesse ceduto alla debolezza di dire «io c'e­ ro», la sua scrittura "socratica" sarebbe diventata, come quel­ la di Senofonte, puro pettegolezzo. Nel gioco della scrittura autoriale, della scrittura d'autore, non paga il vantarsi d'es­ serci. Lo sapeva Platone. E lo sapeva molto bene anche Lu­ ciano, che cita il platonico «Platone non c'era» nella sua ope­ ra più sfacciatamente falsa, la Storia vera, e lo rispedisce al mittente, quasi una vendetta postale, sotto forma di un bef­ fardo «Solo Platone non c'era. Era a Platonopoli» l 3 l . L'anoni­ mo del Peregrino non è dunque una maschera dell'autore. È qualcosa di più problematico, di meno facile, per così dire. È un vero e proprio punto cieco del racconto. Si sa che un rac­ conto cambia di valore a seconda di chi lo dice. Ma che ne è del racconto se la storia è narrata da quel qualcuno che è im­ mancabilmente un nessuno? Resta semplicemente una storia, che vale tanto quanto il qualcuno-nessuno che l'ha detta. Co­ me rifiuta ogni filosofia della verità e della virtù, così Luciano rifiuta la recita del super-io autoriale. Anzi, ancora una volta fa parodia, ne fa parodia, svendendo il se stesso autore come io apocrifo e ribadendo attraverso l'anonimia che nessuna pa­ rola può vantarsi di far testo più di un'altra. E Luciano, che non rassicura mai, né consola i suoi lettori, ci lascia soli, forse anche scornati, con la nostra domanda - dobbiamo ammet­ terlo - un po' sempliciotta: ma allora che cos'è, che senso ha la storia di Peregrino? 5 - 3 · Una scrittura curiosa per lettori (ancor più) curiosi

È chiacchiera! La risposta è necessaria. Non si deve tuttavia sottovalutare, la chiacchiera. Certo, c'è quella di Diogene Laerzio e dei bio-dossografi, degli storici della disciplina, di­ remmo noi oggi, essa stessa invisa a Luciano. Ma ce n'è anche un'altra. Già accennavamo, più sopra, a quello scenario indi131. Cfr. II, 17·

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screto, inopportuno e pettegolo aperto sull'onorabilità del­ l'autore dallo sguardo invadente del falso io. Stiamo dunque al gioco: seguiamo da vicino i passi di Luciano a Olimpia, là do­ ve egli si è recato e nei suoi pressi ha visto il rogo di Peregrino, ed esaminiamo come si è comportato. Nessun interprete, credo, ha oggi dubbi che Luciano si sia recato alle Olimpiadi del 165 e lz', per giunta, abbia assistito alla morte di Peregrino. Al punto che se qualcuno domandasse «ma perché Luciano è andato a Olimpia: per vedere le Olim­ piadi o per Peregrino?», subito sarebbe considerato, nella mi­ gliore delle ipotesi, un ingenuo. Eppure, ci sono due scenari nel Peregrino, uno è quello dei giochi panellenici, l'altro è quello del rogo. E gli scenari si intrecciano. Nel suo racconto Lucia­ no non dice mai perché si sia recato a Olimpia. Non dichiara mai di esservi andato per vedere i giochi. È fuor di questione, va da sé, se vi sia andato realmente o no. È interessante vede­ re, invece, se il motivo della presenza a Olimpia di Luciano ha un qualche ruolo nella strategia narrativa. E la necessaria con­ clusione è che lo spettacolo dei giochi non ne riveste alcuno. Si dice, è vero, una volta, delle gare: dopo il lungo racconto del­ l'anonimo sul folle Peregrino, il nostro Luciano, per evitare le laceranti urla di reazione dell'inenarrabile Teagene, braccio de­ stro e apologeta sfegatato del suo santone, se ne va, stufo, a ve­ dere i giochi perché correva voce che i giudici di gara stessero procedendo al sorteggio. Intanto sono già trascorsi 31 paragra­ fi dall'inizio della storia e quella menzione delle gare ci cade tra capo e collo, davvero accidentalmente, come se Luciano se ne fosse improvvisamente ricordato e dunque dimenticato per molto tempo. Per caso Luciano si è perso dietro al racconto su Peregrino? Appena nominate, le Olimpiadi vengono frettolo­ samente liquidate: «Ma ormai le Olimpiadi volgevano al ter­ mine, le più belle di quelle che ho visto, e ne avevo già viste quattro! » '32• È un'affermazione che fa pensare. Evidentemen­ te Luciano è un ghiottone di spettacoli. Sarà amore per i di132. Cfr. PAR. 3 5 ·

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versivi? E c'è poi quella precisazione «e ne avevo già viste quat­ tro», che stimola le nostre indagini. Ha stimolato, almeno, le indagini di molti e molti studiosi che hanno cercato di stabili­ re, con numerose soluzioni alternative, la cronologia del dialo­ go. Noi siamo piuttosto intrigati da un'altra cosa. L'anonimo aveva detto che Peregrino diede l'annuncio del suo suicidio nell'Olimpiade precedente, con grande apparato e grande cla­ more33 . Verrebbe così da sospettare che Luciano fosse già al corrente del fatto, magari per averlo appreso direttamente, se tra quelle quattro volte sta anche la penultima Olimpiade. In­ somma, ci sta forse suggerendo il nostro narratore che si è fat­ to un viaggio fino a Olimpia per vedere appositamente la mor­ te di Peregrino, senza tuttavia volerlo affermare esplicitamen­ te? Oppure, e forse è ancor più interessante, sarebbe andato per assistere alla grande festa, ma si è lasciato deviare e tra­ sportare dalla più golosa attrazione del rogo? Più oltre, egli si sofferma sulla descrizione dell'ultimo discorso pubblico di Pe­ regrino alla folla. Facendo ancora ostentazione di fretta, Lu­ ciano sostiene di aver sentito poco, a causa della ressa, e si pre­ cipita subito a concludere con un secco «così me ne andai» 134. Ci sentiremmo dunque in diritto di archiviare quelle ultime pa­ role di Peregrino, rassegnandoci a non saperne nulla, ma im­ mediatamente dopo Luciano ci sorprende con un «E tuttavia ho ascoltato abbastanza! Diceva che...» 135 , dilungandosi per un altro paragrafo su quel discorso e sulle reazioni della mas­ sa. Questo tornare a raccontare è come un tornare a vedere. Sicché la dimostrazione d'indifferenza, «c'era troppa gente, non ho sentito», in realtà non tiene per nulla. Infine, come e perché Luciano ha assistito al rogo di Peregrino? Gli è capita­ to per caso? No. Cioè, dice lui che sì, voleva andarsene, ma che per il parapiglia generale non riuscì a trovare nessun mezzo di trasporto. Pertanto è restato e, com'è come non è, un amico lo

133. Cfr. PAR. 20. 134. Cfr. PAR. 32. 135. Cfr. PAR. 33·

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ha invitato a vedere il rogo'36. Così, Luciano si alza all'alba, si fa quattro chilometri a piedi e arriva sul luogo dello spettaco­ lo. Estintosi il rogo, tutto sembrerebbe finito. Ma così non è. Non solo, come abbiamo già visto, Luciano si attarda a rac­ contare un sacco di balle sulla morte miracolosa di Peregrino ai ritardatari che non sono riusciti ad arrivare in tempo. Egli è ancora avido di storie. E promette di terminare con un: «an­ cora un'ultima cosa ti voglio raccontare- ti farà ridere a cre­ papelle - e poi prometto che ho finito» '37• Se quest'ultima co­ sa non diventassero ben tre nel giro dei tre paragrafi finali. La prima è che durante una tempesta, in un viaggio dall'Asia ad Atene - Luciano stesso era su quella nave (ma allora Luciano aveva conosciuto Peregrino! - verrebbe da dire a tutti gli ap­ passionati di ultime notizie) -, ebbene, Peregrino se la fece sot­ to in modo indegno e si rifugiò a piangere con le donne '38• La seconda è che pochi giorni prima di morire il santone si fece una pantagruelica scorpacciata da scoppiare, vomitò tutta la notte e gli venne un gran febbrone da cavallo '39• E la terza, davvero l'ultima, che non molti giorni prima del rogo - ed è di nuovo Luciano il testimone (ma allora lui aveva addirittura vi­ sto Peregrino poco prima del rogo! ) -, costui ancora si intrat­ teneva a mettersi il collirio per curarsi gli occhi, come se nel­ l'altro mondo gli orbi non ce li volessero'40• E così, davvero, Luciano ha dato fondo al più sfigurante bavardage. A che cosa abbiamo dunque assistito? Se Peregrino ci pre­ sta il nome per una scherzosa storpiatura, abbiamo assistito al­ la capricciosa, labirintica, bizzarra peregrinazione narrativa d'un narratore quanto meno ondivago, incoerente, volubile, in­ somma, molto incline alla distrazione e ognora in preda alla no­ vità del momento. Questo chiacchierare o, meglio, questo scri­ vere come se si chiacchierasse, è, evidentemente, una finzione

136. Cfr. PAR. 3 5 · 1 3 7 . Cfr. PAR. 43 · 138. Ibzd. 139. Cfr. PAR. 44· 140. Cfr. PAR. 45·

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di cattiva destrezza nell'arte del racconto. E una finzione che, al contrario, nasconde una brillantissima destrezza e si chiama curiositas. Come hanno dimostrato le fondamentali ricerche di Maria Tasinato, curiositas è una funzione intellettuale che viene variamente messa a punto, secondo diverse strategie e in diver­ si contesti, nei primi due secoli dell'impero, per poi avviarsi a una gloriosa ricezione da parte della cultura cristiana tardo-an­ tica e medievale; e sono in particolare Apuleio e Luciano, in questo vasto panorama, a identificare la curiositas con l'arte del racconto 141, con «la brama insaziata di mescolarsi alla fabu­ la» 142. La "scrittura curiosa", la scrittura del curioso, è quella che ha definitivamente smontato il gioco platonico della verità, la filosofia, e quello aristotelico del verosimile, la retorica. E che tuttavia non rinuncia, per questo, alla funzione della conoscen­ za. C'è qualcosa di intermedio tra retorica e filosofia, tra vero e verosimile, tra conoscenza vera e conoscenza opinabile? C'è qualcosa che si chiama tentazione, che non è né verità, né pa­ rola per la parola. Se vogliamo, è ancora, sì, il vecchio tiro pla­ tonico dell'intermedio, cioè dell'universo demonico, e Apuleio associa esplicitamente la curiosità al demonico nel suo De deo Socratis 143• Ma quel gioco è completamente rovesciato. Perché la conoscenza non vi riveste più la forma della mancanza in fun­ zione d'altro, della verità: essa è piuttosto desiderio di racconta­ re come se si venisse a sapere una storia. I panni di cui la scrittu­ ra curiosa si riveste, per farsi spazio tra quella del filosofo e quella del retore, sono, parodicamente, equivoci, un po' goffi, un po' ciarlatani e come artatamente riaggiustati, hanno qual­ cosa, come dire, del civettuolo fatto in casa, insomma dello stra­ no innaturale: sono, queste vesti, l'irrequietezza, l'insaziabile amore per l'inaudito, per lo scandalo, la fame di spettacoli, il

141 . Cfr. M. Tasinato, La curiosité. Apulée et Augustin, Verdier, Lagrasse 1999 (ed. or. La curiosità. Apuleio e Agostino, Pratiche, Parma 1994) . 142. Cfr. ancora Ead . , La curiosità del demone. (Omaggio a Pierre Klos­ sowskz), in " Romanistische Zeitschrift fur Literaturgeschichte - Cahiers d'Hi­ stoire des Littératures Romanes " , III-IV, 1988, pp. 403-10, in particolare p. 410. 143. Cfr. ad esempio 16, 1 55-156.

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gusto dello sparlare, del correr dietro, di bocca in orecchio, al­ le voci in temerario volo sulle ali rapidissime dell'aria. È così che Luciano si comporta nel Peregrino. Il suo è tutto un racco­ gliersi attorno a capannelli di gente che pendono dalle labbra d'un declamatore e tutto un raccogliere indiscrezioni a destra e a manca, un continuo spostarsi da un luogo a un altro, da Eli­ de, dove ascolta Teagene, a Olimpia, e poi ad Arpina, dove as­ siste al rogo, per ritornare quindi a Olimpia, e poi egli è anco­ ra sulla nave in viaggio dalla Troade ad Atene, e infine ancora chissà dove a spiare Peregrino mentre si mette il collirio! E che piacere prova nello sciorinarci quella valanga di esperienze e di spostamenti! Ma, allora, non è un po' sfacciato e finanche di­ sonorevole tutto questo? Lo è, certamente. Luciano è spesso di­ sonorevole e non lo nasconde. Si pensi al prologo di un'altra sua epistola biografica, l'Alessandro. Là egli ci getta in faccia - è proprio il caso di dirlo - lo scopo del suo racconto, cioè ripulire la stalla di Augia, se non tutta, almeno il più possibile, por­ tando fuori quelle poche ceste che riescano a farti capire quanta fosse tutta quella enormità di merda che tremila buoi potrebbero fare in molti anni '44.

E non condivide magari un po' di questo disonore con lo stes­ so svergognatissimo Peregrino? Non subisce forse anche Lu­ ciano, come Peregrino, il fascino irresistibile degli spettacoli, delle storie, dei viaggi? Non condivide con lui forse lo stesso universo della chiacchiera, della recita, della vanità? È suffi­ ciente a Luciano l'irrisione che egli destina all'idiozia di Pere­ grino, per rendersi immune da ogni sospetto? Ci ricorderemo allora di un passo della Storia vera. Luciano ci confessa ivi, co­ me tante volte fa, e come gli abbiamo visto fare nell'Alessandro, le ragioni per cui gli è venuta voglia di narrare le avventure che stiamo per leggere. Ebbene, questa ragione si chiama «vana­ gloria (kenodoxia) di lasciare ai posteri qualcosa»'45• Ci verrà 144. Cfr. Alessandro, 1 . 145. Cfr. Storia vera, 4·

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altresì in mente lo strabiliante finale del Sogno'46, in cui Lucia­ no assiste alla sua stessa apoteosi in cielo, sul carro trainato da Pegasi alati, mentre dalla terra, di città in città, di paese in pae­ se, il pubblico lo applaude e lo invoca: una vera smargiassata da inguaribile vanesio! Ma non era proprio la kenodoxia il mag­ gior fallo di Peregrino? Si protesterà che in questi due casi, nel­ la Storia vera e nel Sogno, Luciano prende in giro la vanagloria di filosofi e retori. Certo. Ma prende in giro anche se stesso. Il fatto è che Peregrino e la sua fatuità sono contagiosi. E questo contagio ha un nome, che non è "Peregrino", ma "raccon­ to" '47• Una volta terminata la lettura, richiuso il libro di Lucia­ no intitolato a Peregrino, forse ci coglierà il sospetto che quel contagio abbia raggiunto anche noi. Che quel libro abbia fatto anche di noi dei curiosi. Del resto, anche noi lettori abbiamo spiato, insieme a Luciano, Peregrino. Ma c'è il rischio che noi siamo stati vieppiù curiosi del narratore. Intossicati dal gioco, non paghi di tutto quel chiacchierare del racconto, ci siamo messi a sbirciare le mosse di Luciano, là a Olimpia, come cul­ lati dalla inconsapevole certezza di non essere visti, di non es­ sere in gioco, noi, ben protetti dall'al di qua della pagina. Ep­ pure... siamo sicuri di non essere stati visti da nessuno? Le ri­ ghe finali del libro ci riservano una sorpresa. Che pensi avrebbe detto Democrito di questo? N on gli avrebbe riso dietro, chissà quanto, come si merita? E di che cosa avrebbe riso in particolare? Ridi dunque anche tu, caro amico mio, e ridi bene quan­ do senti qualche altro grullo che ne dice meraviglie '48.

Invocando il riso del Democrito pazzo costruito dalla leggen­ da e attraverso la controfigura di Cranio, destinatario del suo 146. Cfr. PAR. n. Per la dimensione non autobiografica di questo scritto lucianeo cfr. G. Raina, Il "Sogno" di Luciano tra autobiografia e mitopoiesi, in " Maia " , nuova serie, LXIII, 2001, pp. 399-403 . 147. Sul racconto come contagio e sull'orrore platonico per il contagio del racconto cfr. M. Tasinato, Dalla parte di Ione: frustoli per un dialoghetto platonico, in " Esercizi filosofici " , V, 2ooo, pp. 15-34. 148 . Cfr. PAR. 45·

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scritto, Luciano sembra dirci: «Chissà quanto avrete riso! Ma che cosa vi ha fatto ridere di più, eh? Ridete, ridete, tutte le volte che qualche scemo verrà a dirvi panzane come queste! ». E così ci rendiamo conto che il narratore ci ha, in qualche mo­ do, gabbati. Non abbiamo forse appena finito di sentire un grullo che ci ha raccontato proprio quelle panzane, uno che si chiama Luciano? Non abbiamo appena finito di riderne? Ma di che cosa abbiamo riso in particolare? Non sarà di noi stes­ si? 149 Apuleio direbbe che non ci siamo accorti delle orecchie d'asino spuntare di pagina in pagina ai lati della nostra testa. Luciano, che ha uno spirito diverso e il gusto dei toni forti, ma soprattutto è un artista del venenum in cauda , ci rinfaccia co­ sì che, pur di soddisfare la nostra mostruosa curiosità, ci sia­ mo sobbarcati pure noi le nostre brave "sporte di merda".

I49 · Il riso di Luciano, infinitamente culturalizzato, come indichiamo nella nota I di commento sul nome del destinatario Cronio al PAR. I del Pere· grino, non è dunque scevro di aspetti inquietanti, perché tocca direttamente l'identità del soggetto, anche se questo non può ormai che essere soltanto un lettore .

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Vite dei filosofi all'asta

[r] ZEUS Tu metti giù i banchi e prepara, ché stanno arrivan­ do. E tu vai a prendere le vite e mettile in fila. Ma prima da­ gli una rinfronzolita r, ché devono sembrare belle e attirare un sacco di clienti. E tu, dai, Ermes! Apri la vendita e chiama la gente! ERMES2 Vengano, signori acquirenti, vengano al banco! E che la fortuna sia con voi! 3 Si vendono vite filosofiche di ogni sor­ ta e per tutti i gusti. E se qualcuno non ha i soldi subito, por­ ti un garante e pagherà l'anno prossimo! ZEUS Guarda quanta gente! Su, vediamo di non perder tem­ po e di non tenerceli qui troppo. Incominciamo la vendita. Quale vuoi che porti per prima? 4 Quello là, il capellone5, lo ionico. Guarda che aria vene­ rabile!

[2]

ERMES

ZEUS

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Ehi, tu, pitagorico, scendi giù! Vieni qui a farti vedere dal pubblico. ZEUS Mettilo in vendita. ERMES Vendo la vita migliore, la più venerabile! Chi se la com­ pra? Chi vuol essere un superuomo? Chi vuole conoscere l'ar­ monia dell'universo? Chi vuole reincarnarsi? CLIENTE Beh, non sembra male! Ma che cos'è che sa in parti­ colare? ERMES Matematica, astronomia, mostruoseria, geometria, ar­ tisteria, stregoneria 6. Eccoti qua un indovino coi fiocchi! CLIENTE Ma si può fargli delle domande? ERMES Come no! E che la fortuna sia con te! ERMES

[3]

Di dove sei? Samòs mife'7. CLIENTE Dove hai studiato? VITA PITAGORICA Del Nilo lungo la riviera, fra quanti ivi san saggi e canoscenti8• CLIENTE

VITA PITAGORICA

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Ma... senti un po': se ti compro, che mi insegni? VITA PITAGORICA I' son colei che nulla insegno e sovvenir ti/ac­

CLIENTE

cto9. CLIENTE

E com'è che mi faresti ricordare?

Mondando l'alma tua de la sozzura in che s'immonda. CLIENTE Ma metti che sono già pulito... Dunque com'è che si fa a ricordare? VITA PITAGORICA Ristando muto in tutta pace e sanza favellar per cinque soli. CLIENTE Senti, senti! Ehi, allora sei tu il maestro ideale del fi­ glio di Creso! Ma io sono un ciancicone e mica voglio far la statua! Comunque... poi... dopo tutto 'sto silenzio e 'sto quin­ quennio...? VITA PITAGORICA Sendo musica quinci e quindi geomètra. CLIENTE Veh, che scemata! Devo mettermi a suonare la chi­ tarra per diventare sapiente? VITA PITAGORICA

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[4]

VITA PITAGORICA

E poscia il nummero.

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Ma contare lo so già! VITA PITAGORICA E come il nummero s'enumera? CLIENTE Uno, due, tre, quattro. VITA PITAGORICA Non vedi tu esser diece el quattro che ti sem­ bra, e il diece quindi trigono per/etto per lo qual la nostra gen­ te giura?11 CLIENTE Madonna che giuramento! Il quattro! Giammai più divine parole io sentii né di più sacre! 12 VITA PITAGORICA Poscia, /rate mio, ti saran conti e la terra e l'ae­ re e l'acqua e 'l /oca, quali eglino abbian movimenti e quali sen­ do ne la /orma movono se stessi. CLIENTE Perché? L'aria, il fuoco e l'acqua hanno una forma? l3 VITA PITAGORICA E schietta molto.' Che mover sanza /orma non si ponna. Poscia ancor ti sarà conto el nummero com'esso è dea e mente e armonia del tutto. CLIENTE Fantastico! CLIENTE

[5]

VITA PITAGORICA

Aggiugne a quante cose dette: apprenderai

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a divisar diversamente esser te mesmo e 'l quale sembri e 'l qua­ le sie. CLIENTE Eh?! Io sono ... un altro? Non sono questo qui che sta parlando con te ora? VITA PITAGORICA Tu se' te mesmo in esto punto e in esto loco. Ma tempo /ue che sembiante avevi d'altra carne e d'altro nome. E verrà tempo che altro ancora tu sarai14•

[6] CLIENTE Eh? Sarò immortale? Cambierò molte forme? Va bene, va bene. Ma tu come mangi? VITA PITAGORICA D'animal non faccio fiero pasto. E tutte l'al­ tre cose io manduco che /aba non sieno15• CLIENTE E perché? Le fave ti fanno schifo? VITA PITAGORICA I' non le schz/o, no. Fatt' è maravigliosa e san­ ta la lor natura: che primieramente tutto seme sono. E se tu trai­ le da le scorze loro ancor di verde tinte, vedrai come somiglino a le viril vergogne. E se a li raggi del pianeta, quando annotta, per più /iate cotte mostrile, vedrai tu /arsi quelle di sanguigno rosse16• Ma più ne cale d'esto che ti dico: è con le /abe che del­ l'alte carche /assi l'elezion ne la città d'Atene17•

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Stupendo. Parli come un prete! Ma... spogliati un po'... che ti voglio vedere anche nudo18• Perdinci! Hai una co­ scia d'oro19! Ma questo è un dio, non un essere umano! 20 Lo CLIENTE

compro, e come se lo compro! A quanto lo metti? Dieci mine21•

ERMES

CLIENTE

Affare fatto.

Scrivi il nome dell'acquirente e di dove viene. ERMES È un italiano, pare! Da quelle parti... di quella Grecia ZEUS

là di Crotone e di Taranto... E non è uno solo! Sono più o me­ no trecento, i compratori, tutti in comunità22• ZEUS E se lo portino via. Prendine un altro.

[7]

ERMES

ZEUS

Vuoi il sudicione, là, quello del Mar Nero? 23

Sissì!

ERMES

Ehi, tu, con la bisaccia! Scamiciato, tu! 24 Vieni qui a

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farti un giro tra il pubblico. Io vendo la vita di un uomo vero! La vita migliore, una vita nobile, una vita libera! Chi se la compra? 2 CLIENTE Ma che dici, tu, banditore? Vendi uno libero? 5 ERMES Sì, perché? CLIENTE Ma non hai paura che ti denunci per riduzione in schiavitù e che ti citi davanti all'Areopago? ERMES A questo non gliene frega niente di essere venduto. Pensa di essere libero in qualsiasi caso 26• CLIENTE Ma a che ti serve un sudicione così? Guarda che aria disgraziata! Solo zappare può o portare l'acqua! ERMES No, non solo... Mettilo a fare la guardia e vedrai che è meglio di un cane! Che poi del cane ha anche il nome'7• 28 CLIENTE Ma di dov'è? Cosa fa? ERMES Chiediglielo tu. È meglio. CLIENTE Ma mi fa paura! Guarda che faccia da brutto ceffo! Quello lì abbaia e magari morde anche, per dio! Guarda: al-

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za il bastone! E aggrotta le sopracciglia! E che occhiatacce storte e arrabbiate! ERMES Ma dai, non spaventarti: è addomesticato!

[8]

CLIENTE

Ehm, dunque, innanzitutto, carissimo: di dove

vieni? VITA DI DIOGENE CLIENTE

Da tutti i posti!

Eh?

Eccoti qui un cittadino del mondo! 29 Ah... ma... proprio non ti ispiri a nessuno? VITA DI DIOGENE A Eracle3°. CLIENTE Uhm! E perché non ti metti la pelle di leone, anche? Il bastone ce l'hai già! VITA DI DIOGENE Eccotela qui, la pelle di leone: è il mantel­ VITA DI DIOGENE

CLIENTE

laccio mio! Io faccio la guerra al piacere, come lui31. Nessuno me lo ordina. Lo faccio io. Ho scelto io: voglio dare una ripu­ lita alla vita umana32• CLIENTE Ah, però, una bella scelta! Ma tu che cosa sai in par­ ticolare? O meglio, che mestiere fai? VITA DI DIOGENE Il medico, faccio: libero la gente dalle pa­ turnie33 . Io predico la verità e la libertà di parola34.

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[9]

CLIENTE

Però ... bene, predicatore! Ma se ti compro che vi­

ta mi fai fare? VITA DI DIOGENE

Prima ti piglio e ti spoglio d'ogni lusso, ti

metto sotto chiave con la povertà e ti getto sul groppone un mantellaccio; poi ti faccio sgobbare e sudare35, dormire per terra, mangiare quel che capita e bere acqua. Tutto quello che hai, se mi dai retta, lo getti ai pesci. Macché matrimonio, figli, patria! Queste cose per te devono essere tutte bischerate36• Lascia la casa di tuo padre e vai ad abitare in una tomba, in una torre smozzicata e abbandonata o anche in una botte37• Riempiti la bisaccia di semi e di libri scritti anche sul dietro. Vivi così e sarai felice più del re di Persia. E se qualcuno ti fru­ sta o ti tortura, non ti farà né caldo né freddo38• CLIENTE Che cosa? Se mi frustano non deve farmi male? Guarda che non ho mica la pelle di una tartaruga o il guscio di uno scarafaggio! VITA DI DIOGENE Il tuo motto sarà un verso di Euripide, con un piccolo ritocco. CLIENTE

Sarebbe?

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[ro] VITA DI DIOGENE Il duolo affliggerà lo spirto tuo, ma non la lingua39• Ma la cosa più importante è questa. Devi far la fac­ cia tosta! Fa' il villano40: offendi tutti, re e poveri diavoli, e ti guarderanno con gli occhi bassi! Penseranno che hai del fe­ gato! Fa' un accentaccio forestiero e una vociaccia brutta, in­ somma, fa' il cane, fa' il grugno e la camminata che gli si con­ viene. Fa' la bestia, fa' il selvatico! Getta via pudore, garbo e convenienza! Non devi arrossire mai più! Va' nei posti pieni di gente e lì fa' il solitario e il musone! Non metterti a parlare con la gente, sia se la conosci e anche se non la conosci: per­ deresti il tuo ascendente. Fa' davanti a tutti in bella vista quel­ lo che nemmeno in privato oseresti: e quando fai l'amore, in­ ventane di strane e strane bene! 4' E per finire... quando ne avrai voglia tu... crepa! con un polipo o una seppia nella stroz­ za. Questa è la felicità che ti offro io.

[n]

Ma va', va', ché dici diavolerie da bestie! VITA DI DIOGENE Sì, ma cose facili, alla mano, per tutti, che non hai bisogno di educazione e di tanti giri di parole42: una bella strada lì per te dritta dritta alla notorietà! 43 Perché an­ che se sei un grullo qualsiasi, metti un ciabattino, un pesciCLIENTE

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vendolo, un muratore, uno strozzino, nulla impedisce che ti si ammiri! 44 Basta che tu faccia lo spudorato e il villano e abbia imparato per bene a dire insulti! CLIENTE Non ho bisogno di te per imparare queste cose. Però... forse... potresti fare il marinaio o badare all'orto, al­ l'occasione. Sempre che il tizio qui ti voglia vendere per... due oboli al massimo. ERMES E come no! Prego, prendilo! Sapessi che bellezza libe­ rarsi di quello lì e delle noie che ci crea, delle sue urla, delle sue angherie e della sua mala lingua!

[12]

ZEUS

Dai, chiamane un altro. Quello di Cirene45, là, tutto

intabarrato nella porpora e incoronato! 46 ERMES Signori, attenzione tutti! Merce fina! Roba da ricchi! Questa vita qui è più dolce del miele, è supersopraffina! A chi piace il lusso? Chi se la piglia questa delicatezza? CLIENTE Ehi, tu! Vieni qui e dimmi cosa sai fare. Ti compro se mi servi. ERMES Ma non dar noia, tu, e non far domande! Non lo vedi che è sbronzo? Non può risponderti, ha la lingua impastata! 47

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E chi se lo piglierebbe mai un pervertito del genere come schiavo? Guarda che vizi! E come puzza di profumo! CLIENTE

Guarda che traballone, non sta in piedi... come fa l'onda! Va be'... di un po' tu, Ermes, com'è e che sa fare. ERMES Ah, è un gran compagnone. Beve bene... uno da orge con flautista, il tipo giusto per un padrone libertino che sta sempre a fare all'amore48• E poi s'intende di dolci ed è esper­ tissimo di cucina, insomma un vero sofista della dolce vita! 49 Ha studiato ad Atene, ha fatto lo schiavo nelle corti di Sicilia e lì fu molto apprezzato. Per farla breve: il suo principio è di­ sprezzare tutti, di tutto servirsi e da tutto prendersi piacere. CLIENTE Vedi di trovarti un altro ricco. Non sono il tipo, io, da comprarmi una vita da gavazzane! ERMES Caro Zeus, questa ce la teniamo qui, mi sa...

[13] ZEUS Allora levalo e portane un altro. Piuttosto... i due là: l'allegrone e il piagnone, quello là di Abdera e quell'altro di Efeso! Bisogna venderli insieme, mi raccomando! 5o

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Venite qui al centro. Si vende una coppia di vite che di migliori non se ne trova, le più sagge di tutte! CLIENTE Accidenti a Zeus! Che contrasto! Uno non smette di ridere e l'altro sembra che abbia appena seppellito un morto: non fa che piangere! Ehi, tu! Che hai da ridere? VITA DI DEMOCRIT05' E tu me l'chiedi? Tutto nel mondo è bur­ la: ed io dell'uom mi burlo/52 CLIENTE Eh?! Vorresti dire che ci ridi dietro a tutti noi? Che non valiamo un fico? VITA DI DEMOCRITO Nulla di serio v'è/ Il mondo è vacuo, è d'a­ tomi una ciurla/53 ERMES

[14] CLIENTE Sei tu che sei "vacuo" e stupido! Ma guarda che villano, non la smette di ridere! E tu perché piangi, tu? Mi sa che è meglio parlare con te! VITA DI ERACLITO Perché di tanti palpiti? Dolore e pianto san le cose umane o figlio/ E tutto muore/ San le presenti pompe vane e più funeste le future: ruina e distruzion de l'universa mole54• Di questo il pianto mio si duole.

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Tutto si muove, tutto si con/onde: di dolce e amaro, saper e non saper, picciolo e grande55 , è come un ciceòn56: tutto si porta e si trasporta, or sopra or sotto, nel gioco dell'aiòn57. CLIENTE E che sarebbe l"'aiòn"? VITA DI ERACLITO È un bambolo che in gioco pone le pedine sue: or qui le muove ed ora lz'. CLIENTE E gli uomini che cosa sono? VITA DI ERACLITO Son dèi mortali58• CLIENTE E gli dèi? VITA DI ERACLITO Son uomini immortali. CLIENTE Ehi, tu, ma parli per enigmi? Fai indovinelli? Non si capisce nulla di quel che dici, sembri Apollo! 59 VITA DI ERACLITO Perché di voi io non mi curo. CLIENTE E infatti nessuno con un po' di sale in zucca ti com­ prerà! VITA DI ERACLITO Ed io esorto il fior di giovanezza al pianto, e chi compra e chi non compra.

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Ma questo vuol proprio dire esser malati! Se non è follia?! Io non li compro questi due! ERMES Ecco: e anche questi ce li teniamo! ZEUS Avanti il prossimo!

CLIENTE

[15] ERMES Vuoi che venda quello di Atene? Il chiacchiero­ ne?6o ZEUS Sì, proprio! ERMES Tu, vieni qui! Vendiamo una vita per bene, una vita in­ telligente! Chi se la piglia? È la più rispettabile! CLIENTE Dimmi un po': che sai fare di buono? 61 VITA DI SOCRATE Sono pederasta e maestro dell'eros! E come faccio a comprarti! Io ho bisogno di un in­ segnante per mio figlio, che è un bel ragazzino! 62 VITA DI SOCRATE E chi meglio di me per stare con un bel ra­ gazzo? Guarda che non intendo mica il corpo, quando dico "eros". Io intendo le anime belle! Sta' tranquillo! Da nessuno

CLIENTE

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sentirai dire che gli ho fatto qualcosa di male, anche se ha dor­ mito con me sotto lo stesso mantello63• CLIENTE Uhmmm... non ti credo... un pederasta vero che si dà da fare per l'anima, soprattutto se ha l'occasione di dormire "sotto lo stesso mantello" ... Giuro! Guarda: sui cani e sui platani! Accidenti! Che dèi strani! 64 VITA DI SOCRATE Come? Credi che i cani non siano dèi? E dun­ que Anubi, l'egiziano, che cosa sarebbe? E Sirio, lassù nel cie­ lo? E allora Cerbero, laggiù all'inferno? [I6]

VITA DI SOCRATE

CLIENTE

[17] CLIENTE Però, hai ragione! Scusa, mi sono sbagliato. Ma dimmi un po': che vita fai? VITA DI SOCRATE Vivo in una città tutta per me: ho adottato una costituzione estera e con regole tutte mie65• CLIENTE Mi piacerebbe saperne almeno una di queste tue idee. VITA DI SOCRATE Questa è la più importante e riguarda le don-

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ne: nessuna donna deve essere di un uomo solo e tutti quelli che vogliono ci possono andare a letto66• CLIENTE Eh?! Hai abrogato la legge sui puttanieri? VITA DI SOCRATE Ma certo, porco Zeus! E con tutte le leggine correlative. CLIENTE E sui ragazzetti? VITA DI SOCRATE Dunque: pure loro li metto nel letto dei mi­ gliori, come premio. Dico quelli che hanno fatto qualcosa di eccezionale, qualcosa di... giovanilmente insolente!

[r8]

CLIENTE

Orbo, che generosità! E un riassuntino della tua

filosofia? Le idee! I modelli dell'essere! Perché tutto quello che vedi, la terra, quel che ci sta sopra, cioè il cielo, il mare... per tutte queste cose ci sono delle immagini invisibili, fuori dal tutto! 67 CLIENTE E dove sono? VITA DI SOCRATE Ma da nessuna parte! Ché se fossero da qual­ che parte, non ci sarebbero! 68 CLIENTE Mah... io proprio non li vedo 'sti modelli che tu dici! VITA DI SOCRATE

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Ovvio! L'occhio della tua anima è cieco! lo, invece, le vedo, eccome!, le immagini, la tua, vedo un altro me: tutto è doppio! 69 CLIENTE Ah, questo è proprio da comprare, uno così intelli­ gente e con la vista così buona! Di' un po'... quanto mi fai per questo? ERMES Due talenti. CLIENTE Affare fatto. I soldi te li do dopo. VITA DI SOCRATE

[r9]

Come ti chiami? Diane e vengo da Siracusa70• ERMES Prenditelo e buona fortuna. E adesso chiamiamo la vi­ ta epicurea! Chi se la piglia, questa? 7' È allieva di quella che continuava a ridere e di quell'altra sbronza, che abbiamo mes­ so in vendita poco fa72• Meglio di loro sa fare una cosa sola: bestemmiare73• Ma per il resto è proprio tutta uno zucchero e una golosaccia!74 CLIENTE Quanto costa? ERMES Due mine. ERMES

CLIENTE

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CLIENTE

Ecco: ma, tanto per sapere, questo qui, che cosa man­

gia? Uhmmm... mangia roba dolce, roba col miele e soprat­ tutto fichi secchi75. CLIENTE Ah, be'... allora non c'è problema: gli compriamo dei fichi a buon mercato76. ERMES

[2o] ZEUS Avanti il prossimo: quello là, quello tutto rasato e al­ tero, quello del Portico! n ERMES Giusto! Guarda che tono! Neanche l'aspettasse una piazza intera di gente! Si vende la virtù in persona! La vita del­ le vite! Chi vuole esser l'unico a saper tutto?78 CLIENTE Come dici? ERMES E sì! Solo lui sa! Solo lui è bello! Solo lui è giusto! E coraggioso e regale e oratore, ricco, legislatore e quant'al­ tro!?9 CLIENTE Ah! Allora è anche il solo cuoco, il solo ciabattino, il solo muratore eccetera eccetera?

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ERMES

Ovviamente!

[21] CLIENTE Vieni qui, bellezza, e di' al tuo acquirente, cioè io, che tipo sei e prima di tutto se ti dà fastidio essere com­ prato e fare lo schiavo. VITA DI CRISIPPO Nient'affatto! Si tratta di cose non arbitrali. E ciò che è non è arbitrale80, si dà il caso sia adia/oro81•

Non ci capisco niente! No? Non capisci che l'adia/oro può essere ora precipuo ora invece non precipuo? 82

CLIENTE

VITA DI CRISIPPO

No, nemmeno questo. È chiaro! Non sei familiare con la nostra no­ menclatura e non sei dotato di apprensione immaginativa83• Ma un filosofo84, uno che abbia studiato logica, queste cose le sa e conosce altresì l'intera casistica e relative differenze del­

CLIENTE

VITA DI CRISIPPO

l'accidente predicativo e dell'accidente parapredicativo! 85 CLIENTE Per l'anima della sapienza! Non volermi privare del-

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la tua spiegazione: che cosa sono l'accidente predicativo e pa­ rapredicativo? Non so come, ma sono rimasto colpito dal rit­ mo di queste due parole! VITA DI CRISIPPO Non te ne priverò. Supponiamo che un tale sia zoppo e che con il piede zoppo incespichi in una pietra e si procuri inavvertitamente una ferita: il fatto di essere zoppo è l'accidente predicativo de "il tale", mentre la ferita che si è procurato è il suo accidente parapredicativo.

[22] CLIENTE Madonna, che acutezza di pensiero! E che cos'è che sai d'altro in particolare? VITA DI CRISIPPO Con le parole io lego e avvinco gli interlocu­ tori, l'imbavaglio e li riduco al silenzio, come se imponessi lo­ ro una museruola. E questo potere ha il nome tanto decanta­ to di sillogismo86. CLIENTE Accidenti a Eracle! Che forza invincibile e che vio­ lenza! VITA DI CRISIPPO CLIENTE

Ebbene, ascolta: tu hai un figlio?

Perché?

VITA DI CRISIPPO

Supponiamo che un coccodrillo te lo porti

via sulla riva di un fiume mentre passeggia e che poi ti pro-

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metta di restituirtelo, ma a condizione che tu gli dica se ha davvero intenzione di restituirtelo ... : che cosa diresti?87 CLIENTE Eeh! È una domanda difficile! Non saprei che rispo­ sta dare per riavere mio figlio... Ma tu sì, accidenti a Zeus, che sapresti rispondere e salveresti mio figlio, prima che lui se lo mangi! VITA DI CRISIPPO Non ti preoccupare! Te ne insegnerò di più eccezionali. CLIENTE Ad esempio? VITA DI CRISIPPO Il mietitore, il signore e soprattutto l'Elettra e l'incappucciato 88. CLIENTE

Ma che sarebbero questa Elettra e questo incappuc­

ciato?

Ma Elettra, la famosa Elettra! La figlia di Agamennone, quella che sa e contemporaneamente non sa le stesse cose. Quando infatti si trova di fronte Oreste, quando VITA DI CRISIPPO

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ancora lui non si è rivelato, lei sa che Oreste è suo fratello, ma non sa che proprio quello è Oreste. E adesso ascolta la storia dell'incappucciato: è ancora più straordinaria. Dimmi: tu co­ nosci tuo padre? CLIENTE Certo! VITA DI CRISIPPO Bene. Supponiamo che io ti presenti un tale incappucciato e ti domandassi: «conosci quest'uomo?», che cosa risponderesti? CLIENTE Ovviamente che non lo conosco. [23] VITA DI CRISIPPO Eppure quello era proprio tuo padre. Pertanto se tu non conosci quell'uomo, è evidente che tu non conosci tuo padre. CLIENTE Ma no! Perché se gli tolgo il cappuccio, scopro la ve­ rità. Ma dimmi un po': a che pro tutta questa tua sapienza? Che cosa intendi fartene di tutta questa montagna di virtù? VITA DI CRISIPPO Per quanto riguarda i cosiddetti principali per natura 89, cioè la ricchezza, la salute e altro ancora, vivrò se­ condo natura. Ma prima è necessario che io mi affatichi su li­ bri scritti in piccolo aguzzandomi la vista e confronti com-

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menti su commenti e mi riempia di solecismi 90 e di parole strane. Ma soprattutto va detto che non è possibile essere sa­ piente se non si è bevuto tre volte l'elleboro91• CLIENTE Però, che discorso nobile! Sei così eccezionale che mi spaventi! Ma il fatto che sei l'ebreo di Malta in persona9\ uno strozzino93 - perché questo sei, come tutti quelli che bevono l'elleboro e sono molto virtuosi-, che ne diciamo, eh? VITA DI CRISIPPO Sì, dunque...: sarebbe giusto che solo il sa­ piente potesse prestare a usura. Non è infatti sua propria l'ar­ te del sillogismo? Ebbene: l'una e l'altra sono forme di spe­ culazione, una sugli interessi e l'altra sulla logica94• Sicché parrebbero essere proprie di uno stesso uomo, cioè del filo­ sofo. E non solo prendere gli interessi secchi, come tutti gli al­ tri, ma anche gli interessi sugli interessi. O forse non sai che gli interessi si distinguono in primari e secondari, e che que­ sti sono per così dire una filiazione dei primi? 95 Guarda quel che recita il sillogismo: se si prenderanno gli interessi primarz; ne consegue che si prenderanno anche gli interessi secondari: ma si prenderanno quelli primarz; dunque si prenderanno quel­ li secondari96•

[24] CLIENTE Ma allora possiamo dire la stessa cosa sullo sti­ pendio che prendi per le lezioni dei ragazzi: o non è evidente che solo il filosofo piglia soldi per insegnare la virtù?

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VITA DI CRISIPPO

Vedo che ci intendiamo! Perché io non pren­

do mica per me, ma per il bene di chi me li dà! Esistono i pro­ dighi e i parsimoniosi: io cerco di fare il parsimonioso, men­ tre gli allievi sono tutti dei prodighi 97. CLIENTE Eppure dovrebbe essere il contrario: i giovani do­ vrebbero essere parsimoniosi e soltanto i ricchi prodighi. Questo sfotte! Guarda che ti tiro addosso il sillogismo anapodittico 98• CLIENTE È un tiro pericoloso?

VITA DI CRISIPPO

[25]

VITA DI CRISIPPO

Non saprai più che fare. Diventerai mu­

to. Perderai la ragione. Vuoi quello più potente? Adesso te la farò vedere io con il sillogismo della pietra! 99 CLIENTE Mi trasformerai "in pietra"! ? E chi sei, bello mio, Perseo?•oo VITA DI CRISIPPO CLIENTE

Eccoti servito: la pietra è un corpo?

Sì!

VITA DI CRISIPPO

E allora: un essere vivente non è forse un

corpo? CLIENTE

Sì!

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E tu sei un essere vivente? CLIENTE Così pare... VITA DI CRISIPPO E allora se sei un essere vivente, ne consegue che sei una pietra! CLIENTE Eh no, per Zeus! Liberami! Fammi tornare uomo! VITA DI CRISIPPO Sì... non è difficile. Ecco come ritorni uomo: dimmi, ogni corpo è un esser vivente? CLIENTE No. VITA DI CRISIPPO Ebbene: la pietra è un essere vivente? CLIENTE No. VITA DI CRISIPPO Tu sei un corpo? CLIENTE Sì. VITA DI CRISIPPO E se sei un corpo, non sei forse vivo? CLIENTE Sì. VITA DI CRISIPPO Allora ne consegue che non sei una pietra, ma un essere vivente. CLIENTE Meno male! Mi sentivo già le gambe fredde e dure come Niobe! Ah, maaa...: ti compro! Eccome! Quanto mi costa? VITA DI CRISIPPO

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Dodici mine. Prendi. ERMES Ma lo hai comprato tu solo? CLIENTE Ma no, accidenti a Zeus! Tutti questi che vedi qui! ERMES Quanti sono! E hanno tutti delle belle spalle... proprio adatti a fare il mietitorei02• ERMES

CLIENTE

[26] ZEUS Non perder tempo in chiacchiere! Chiamane un al­ tro, il peripatetico! ro3 ERMES Ehi, dico a te. Bellone? Riccone? Forza! Compratelo, è il più intelligente! Sa dawero tutto! CLIENTE E com'è? ERMES Equilibrato, distinto, sa vivere... 104, ma soprattutto è doppio! CLIENTE Eh? ! ERMES Fuori è in un modo, dentro in un altro. Per cui, se lo compri, ricordati, quando lo chiami, di precisare se vuoi quel­ lo essoterico o quello esoterico 105• CLIENTE

Che cosa pensa in particolare?

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ERMES

Dice che tre sono le forme del bene: quello dell'anima,

quello del corpo e quello esterno106. Beh, è ragionevole! E quanto costa? Venti mine!

CLIENTE ERMES

Ma è una fortuna! Ma no, caro! Pare infatti che anche lui abbia un gruz­ zoletto, sicché non passerà molto che riguadagnerai. E poi lui ti dirà quanto vive una zanzara, fino a che profondità il mare

CLIENTE ERMES

è illuminato dal sole e com'è fatta l'anima delle ostriche! IO? CLIENTE Accidenti a Eracle! Che precisione, che sapienza! ERMES Non solo! Ne sentirai ben di più e di ben più sottili sul­ la riproduzione, sulla nascita, sulla placenta che avvolge l'em­ brione nell'utero e che l'uomo è una creatura che ride, men­ tre l'asino non ride, non costruisce e non naviga! CLIENTE Ma che sapere eccezionale! E com'è utile! Sissì, lo compro per venti mine. [27] ZEUS

ERMES

Bene!

Chi c'è ancora?

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ERMES

È rimasto questo scettico qui'08• Ehi, Battista'09, vieni

qui, che ti vendiamo in fretta. La maggior parte della gente se ne sta andando e i clienti sono rimasti in pochi. E sia! Chi se lo compra, questo? CLIENTE Io. Ma prima voglio sapere che cosa sa. VITA DI PIRRONE Nulla'10• CLIENTE Che vuoi dire? VITA DI PIRRONE Che secondo me non esiste proprio nulla CLIENTE Nemmeno noi? VITA DI PIRRONE Nemmeno. CLIENTE Nemmeno tu? VITA DI PIRRONE Questo lo ignoro ancora di più CLIENTE Accidenti che problema! Ma che significa questa bi­ lancia che hai qui? VITA DI PIRRONE Peso le argomentazioni e le confronto, e se m.

m.

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poi vedo che sono proprio uguali e dello stesso peso, allora so che non so qual è la più vera 1!3• CLIENTE Ma che sai fare decentemente? VITA DI PIRRONE Tutto! Tranne inseguire uno che scappa. E perché? Perché non riesco a com-prendere! ll4 CLIENTE E va be'! D'altra parte sembri proprio uno lento... anzi... fermo! Ma perché te ne stai lì come un baccalà? ll5 VITA DI PIRRONE Per non sapere più nulla, non sentire più nul­

CLIENTE

VITA DI PIRRONE

la, non vedere più nulla! II6 CLIENTE Vuoi dire diventare orbo e sordo? VITA DI PIRRONE E senza giudizio, senza percezione... insom­ ma come un vermell7. Se non altro ti comprerò per questo! Quanto fa? Una mina attica. CLIENTE Ecco. Che ne dici, ehi! Ti ho comprato? CLIENTE ERMES

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VITA DI PIRRONE CLIENTE

Non consta.

Oh già! Ti ho comprato, invece, e ho pagato! Mi appello all' epoché118: devo discettare al

VITA DI PIRRONE

proposito. Intanto incomincia a venirmi dietro, e fai il servo co­

CLIENTE

me si deve. VITA DI PIRRONE CLIENTE

Chi può sapere se dici la verità?

Il venditore, la mina che ho pagato e questi che stan­

no qui! VITA DI PIRRONE

Perché qui c'è qualcuno?

Io ci sono di sicuro! Lascia solo che ti metta alla ma­ cina del mulino e ti convincerò con il discorso più debole119 che il sono il padrone! VITA DI PIRRONE Appellati all' epoché. CLIENTE

Accidenti a Zeus! Mi sono già espresso chiaramente! Dai, su, smettila di fare resistenza e segui chi ti ha com­ prato. Quanto a voi, vi chiameremo domani. Metteremo in vendita anche vite comuni, di artigiani e di ambulanti120• CLIENTE

ERMES

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La morte di Peregrino

Caro Cranio\ un saluto da Luciano2• [r] Sai quell'animaccia nera3 di Peregrino4, o come lui stesso preferiva farsi chiamare, Proteo? 5 Bene: gli è capitato proprio lo stesso che al Proteo d'Omero! Tante cose è stato e tante forme ha cambiato in nome del successo, che ti finisce per di­ ventare fuoco! Fino a tal punto per il successo! 6 E adesso se ne sta là, il grullo, come un tozzo di carbone. Come Empedo­ cle, non fosse che questi cercò di non farsi vedere mentre sal-

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tava giù nel vulcano 7. La buona lana d'uomo, invece, aspetta la festa nazionale più affollata che ci sia 8, si fa una pira alta co­ me non mai e vi si getta sopra davanti a tanti testimoni, non senza aver dato l'annuncio ai Greci con largo anticipo di que­ sta sua bravata 9. [2] Mi sembra già di vederti sganasciare alle spalle10 di questo vecchio rimbambito! n Mi sembra di sentirtene dire una delle tue: «Che grulleria! Che vanagloria! Che. . . » e tutto quello che diciamo noi di simili figuri! Solo che tu te ne stai lontano e al sicuro, mentre io queste cose le ho dette di fronte al rogo e per di più in presenza di una folla d'ascoltatori12• E alcuni se ne ebbero a male, rimminchioniti com'erano dall'ammirazione per la mattìa del vecchio. Certo, v'eran di quelli che ne ride­ vano. Ma poco ci è mancato che non venissi fatto a pezzi dai cinici13, come Atteone dai cani14 o suo cugino Penteo dalle menadi15• [3] Lascia dunque che ti racconti con ordine la vicenda di que­ sto dramma16: sai che drammaturgo fosse lui e quante ne ha messe in scena17 per tutta la vita, senza paragone con Sofocle e con Eschilo. Bene. Come arrivai a Elide, mentre passavo per il ginnasio18, sentii un cinico19 con una vociaccia asprigna ur­ lare le solite triviali esortazioni alla virtù, per non dire delle villanie contro tutto e tutti. A un certo punto lo strillone va a

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parare su Proteo: cercherò come meglio posso di ricordare quello che disse. Ravviserai lo stile di sicuro, ché di strilloni così ne hai già incontrati. [4] «C'è qualcuno che osa dire: "Proteo è un vanaglorioso"! Per la Terra e per il Sole! Per i fiumi e per il mare! Per il patrio Eracle! Proteo! Lui,che è stato incarcerato in Siria,lui,che per la sua città ha rinunciato a cinquemila talenti, lui, che è stato scacciato da Roma, lui, che è più venerabile del Sole, lui che potrebbe contendere con l'olimpio Zeus in persona! Lui si è risolto a uscir di vita per la porta del fuoco, e v'han di quelli che lo tacciano di vanagloria? E che? Eracle non fece così? E che? Asclepio e Dioniso non lo fecero col fulmine? E che,dun­ que? Empedocle non lo fece gettandosi nel vulcano?»20• [5] Sicché, mentre Teagene' la menava in quel modo - ché così si chiamava quel cornacchione -,io chiesi a uno tra i pre­ senti: «Che è questa cosa del fuoco? Che han da fare Empe­ docle ed Eracle con Proteo?». E quello: «Tra poco- disse­ Proteo si farà bruciare alle Olimpiadi». «Come? - dissi - e perché?». E mentre quello cercava di rispondermi,il cinico si mise a sbraitare tanto che era impossibile dar retta a un altro. E così mi toccò sentire il resto di quel diluvio di parole che lui

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andava rovesciando a catinelle, per non dire di certe iperboli da non credere: Diogene2 e il suo maestro Antistene3, e per­ sino Socrate4, non erano nemmeno degni di stargli accanto! Sicché chiama a battaglia anche Zeus in persona! E quando infine gli parve che i due contendenti fossero alla pari, pro­ ruppe in questo finalino: [6] «Due, infatti, sono i capolavori del mondo: l'olimpio Zeus e Proteo. Il primo l'ha forgiato e costruito Fidia25, ma il se­ condo la natura stessa! 26 E ora questo divino simulacro27 si al­ lontanerà da noi per attingere dèi sul suo cocchio di fuoco28 !asciandoci orfani»29• E così, tutto madido di sudore per l'im­ presa oratoria, piangeva e piangeva da far ridere30 e si strap­ pava i capelli, attento a non tirare troppo, finché alcuni cini­ ci, confortandolo, non lo menarono via tra gli ululati31• [7] Dopo questo, ne salì un altro sulla tribuna. Non aspettò che la calca si disperdesse e versò le sue libagioni sulle vittime ancora fumanti32. Per prima cosa si mise a sghignazzare per bene finché si scapricciò. Poi prese a dire33: «Quel rintronato di Teagene ha messo il punto alle sue ribalderie con le lacrime di Eraclito, sicché io fo il contrario e incomincio con la risata di Democrito»34, e rise talmente tanto che trascinò anche la maggior parte di noi.

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[8] Quindi, ricompostosi, disse: «E che altro si può fare, cari miei, quando si ascolta di tali ridicolaggini, quando si vede dei vecchi a far le capriole e per che? Per una glorietta da quattro lire? Ma date retta a un bischero, se volete sapere di che pa­ sta è il "divino simulacro" che si vuole far bruciare: io l'ho te­ nuto d'occhio dall'inizio, l'ho seguito passo passo e ne ho sen­ tito delle belle sul suo conto dai suoi concittadini, gente che lo conosceva bene! 35 [9] Eccolo, dunque, questo "capolavoro dell'arte", questo ca­ none di Policleto36: quando ha incominciato a mettere la bar­ ba, s'è dato a fare il puttaniere in Armenia finché una volta s'è beccato un sacco di legnate e se l'è svignata giù per il tetto con il suo bravo rafano nel culo! 37 Dopo di che ha pensato bene di dare una sforzatina a un bel figliolo che gli costò tremila dracme e meno male che i genitori del figliolo erano povera gente, se no andava a finire dritto dritto davanti al governato­ re d'Asia! [w] Ma lasciamo pur perdere simili amenità! Perché allora era fango non plasmato, non era ancora quel capolavoro, quel simulacro divino che vediamo oggi. Piuttosto è il caso di sa­ pere quel che fece a suo padre. Ma via, lo sapete tutti! L'ave­ te già sentito che strangolò suo padre perché non sopportava che invecchiasse oltre i sessant'anni! E poi, quando il fattac­ cio si sparse ai quattro venti, si condannò all'esilio da se stes­ so e da allora è stato un continuo mutar pelle!

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[n] Fu proprio allora che si mise a imparare la straordinaria sapienza dei cristiani38, mettendosi a far comunella con i pre­ ti e i dottori di Palestina39. E sapete che successe? In quattro e quattr'otto gli bagnò il naso come a un branco di mocciosi: profeta, caposetta, gran sacerdote40 divenne e tutto da solo! Spiegava e interpretava i libri sacri e lui stesso ne scrisse mol­ ti4', mentre quelli lo veneravano come un dio. Divenne il loro legislatore42 nonché il loro Signore43, oltre a quello là che an­ cora venerano, quel tale che è stato messo al palo in Palesti­ na 44 per aver introdotto nel mondo questo nuovo culto45•

[n] Sicché, per questo motivo, Proteo venne preso e sbattu­ to in prigione, cosa che, pure questa, gli procurò non poco successo in seguito, a lui, al suo mostruoso stampo e alla sua sitibonda vanagloria. Quando fu dunque incarcerato, i cri­ stiani tennero la cosa per una disgrazia e mossero il mondo per tentare di liberarlo dal carcere. Ma siccome questo era im­ possibile, gli mostrarono tutta la loro devozione in altro mo­ do e non tiepidamente, ma con grande sollecitudine. Già fin dall'alba si potevano vedere vecchie vedove e orfani far la po­ sta davanti al carcere46. I capoccia della setta, poi, dormivano perfino all'interno del carcere, ché le guardie le avevano cor­ rotte per bene. Per non parlare dei pranzi epuloneschi che vi si facevano e delle letture liturgiche. E per giunta, il perfetto Peregrino - si faceva ancora chiamare così - veniva da loro apostrofato col nome di "novello Socrate" 47.

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[r3] Anzi, v'eran di quelli che venivano dalle città d'Asia, man­ dati dai cristiani a loro spese, a portar soccorso, difesa e conforto a questo figuro. Questa gente è d'incredibile velocità nel far corpo comune e in men che non si dica riesce a spen­ dersi completamente. Sicché il bravo Peregrino ne ottenne di ricchezze da quelli lì, ma tante bene, con la scusa che era in carcere, e si racimolò un bel gruzzoletto! 48 Quei poveri di­ sgraziati 49 si sono tutti convinti di potersi guadagnare l'im­ mortalità e la vita eterna, per la qual cosa disprezzano la mor­ te e vi si danno per lo più spontaneamente! E poi il loro pri­ mo legislatore, Cristo 5°, li ha convinti d'essere tutti fratelli tra loro5', se solo una volta si siano convertiti e abbiano rinnega­ to gli dèi greci per inginocchiarsi 52 davanti a quel 53 sapiente condannato al palo 54 e vivere secondo le di lui leggi. Disprez­ zano tutti i beni materiali allo stesso modo e li ritengono co­ muni 55, accettando tutti questi precetti senza nessun fondato convincimento. Sicché, se un qualsiasi ciurmatore che sappia l'arte e la parte del proprio tornaconto 56 capitasse in mezzo a costoro, in men che non si dica si troverebbe ricco buggeran­ do per bene quei poveri grulli.

[r4] Poi Peregrino fu rilasciato dal governatore della Siria, un uomo che aveva il gusto della filosofia. Costui si rese ben con-

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to che Peregrino era un matto e soprattutto che, se fosse stato condannato a morte, ne avrebbe ancora guadagnato della glo­ ria. Sicché lo lasciò andare non ritenendolo nemmeno degno di punizione. Quando ritornò a casa, l'affare della morte di suo padre scottava ancora e molti gliene davano la colpa. D'altra parte, i beni di famiglia si erano volatilizzati durante la sua as­ senza: gli erano rimasti solo i campi per un totale di quindici talenti. E il patrimonio che aveva lasciato il vecchio ammonta­ va, nel suo insieme, a talenti trenta! Non, come ha detto quel­ l'insulso ridicolo di Teagene, cinquemila! Ché nemmanco la città intera di Pario con i suoi cinque borghi 57 costerebbe sì tanto, uomini, bestie e tutto il resto compreso! [15] Ma si diceva che l'accusa e le denunce erano ancora belle calde e c'era da aspettarsi che qualcuno l'avrebbe prima o poi citato in tribunale. Il popolo, poi, era adirato assai con lui, per­ ché ancora rimpiangeva il buon vecchio, almeno così diceva chi l'aveva conosciuto, morto ammazzato con tanto vituperio. E ora state a sentire di che cosa è stato capace quel trappola­ ne di Proteo per cavarsi dal pericolo. Si presenta all'assemblea di Pario tutto zazzeruto con un mantellaccio laido, bisaccia e bastone in mano, travestito da capo a piedi per la recita 58, in­ somma: così acconciato dice a costoro che voleva donare alla città e al popolo il patrimonio !asciatogli dal suo beneamato

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padre. Non fece in tempo a sentire queste parole che il popo­ lo, poveracci con la bocca sempre aperta ad aspettare il boc­ cone, si mise a urlare che solo lui era filosofo, solo lui amava la sua città, solo lui era il degno emulo di Diogene e di Cratete59• Sicché, ai suoi nemici scese la lingua in gola, e se qualcuno avesse osato ricordare l'affare dell'omicidio, sicuramente lo avrebbero coperto di pietre. [r6] E così se ne andò via una seconda volta a vagabondare, ma pur sempre con il grosso sostegno dei cristiani che gli faceva­ no da scherani e provvedevano a tutto. E per un po' di tempo se la passò così. Poi trasgredì anche la regola di costoro- pen­ so che sia stato visto mangiare qualcosa di vietato 60 -, e sicco­ me questi non lo volevano più con loro e lui di conseguenza non aveva di che vivere, pensò bene di dover chiedere indie­ tro alla città i suoi beni. Scrisse dunque la sua brava petizione pensando che le sue cose gli sarebbero state restituite per or­ dine dell'imperatore. Ma la città fece la sua controambasceria e nulla avvenne: l'ordine fu che tutto restasse come egli stes­ so aveva una volta per tutte deciso e senza che fosse compul­ sato da alcuno. [ry] Sicché se ne fece un terzo viaggio in Egitto, da Agatobu­ lo 61• Colà si mise a far l'asceta delle meraviglie: rapandosi mezzo il capo, bruttandosi la faccia di fango, scrollandosi la fava davanti a un bel raduno di folla e facendo pubblica di-

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mostrazione di ciò che costoro chiamano "l'indifferente" 62: frustare e farsi frustare il culo con una verga, e molte altre di queste bravate da gabbamondo! [I8] E di lì, con questo bel bagaglio, se n'andò in Italia per na­ ve. Non ne era ancora smontato che già urlava villanie contro tutti, e massimamente contro l'imperatore che si sapeva oltre­ modo mite e mansueto63, sicché rischiava al sicuro. D'altron­ de all'imperatore poco ne caleva di quelle bestemmie e non sti­ mava degno di alcuna punizione uno che s'era rivestito dei panni del filosofo, e poi per delle semplici parole, senza consi­ derare ch'era uno che aveva fatto della villania un vero e pro­ prio mestiere. E tuttavia, tra i gonzi, la fama di costui cresceva in virtù di questi bei comportamenti, e tutti gli occhi erano per lui e per la sua matteria. Finché il prefetto di Roma, un uomo saggio, lo cacciò dalla città perché ci aveva pigliato troppo gu­ sto in quel suo modo di fare, con la motivazione che Roma non aveva bisogno d'un filosofo di quella sorta. Ma fu proprio que­ sto a fargli crescere la notorietà: era sulla bocca di tutti come quel filosofo che era stato scacciato per il suo parlar franco e per la sua indomita libertà. Sicché, per questo veniva accosta­ to a Museo, a Diane, a Epitteto64 o a qualsiasi altro che si fos­ se trovato in quella stessa situazione. [19] Dopo di che, se ne va in Grecia ora a dir villanie contro gli Elei65, ora a sobillare i Greci perché imbraccino l'armi con­ tro i Romani, ora a parlar male d'un uomo illustre, colto e ce­ lebre, che tra l'altro aveva beneficato la Grecia portando l'ac-

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qua a Olimpia e mettendo fine alla sete di cui morivano gli spettatori dei giochi 66, come di uno che aveva fatto dei Greci femminucce, perché bisognava che gli spettatori olimpici prendessero pur la tempera col soffrire la sete e, per Zeus, cre­ pando finanche a frotte delle violente malattie che fino ad al­ lora, a causa della secchezza del luogo e in quel gran parapi­ glia di gente, spopolavano. E mentre andava così dicendo si beveva l'acqua che quell'altro aveva portato.

[20] Poco ci mancò che la folla gli corresse dietro per ammaz­ zarlo, ma la buona lana si rifugiò nel tempio di Zeus e scampò alla morte. All'Olimpiade successiva portò poi davanti ai Gre­ ci un certo qual discorso che egli aveva composto nei quat­ tr'anni trascorsi 67, in cui faceva l'elogio di colui che aveva por­ tato l'acqua e la difesa della propria fuga d'allora. Ma ormai la gente se ne impipava di lui e non lo degnava più di uno sguar­ do- tutte le sue trovate sapevano ormai di stantio e non riu­ sciva più a trovarne di fresche per stupire la gente, per impo­ sturarla e farsi guardare, cosa questa che costituiva il suo eter­ no assillo. Bene: ecco allora che gli viene quest'alzata d'inge­ gno del rogo e ne dà pronto annuncio ai Greci subito dopo le Olimpiadi: per le seguenti si sarebbe dato fuoco.

[2r] E ora si va dicendo che voglia dar compimento all'impo­ stura: dicono che stia scavando la fossa, che stia facendo la le-

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gna! E promette di dar prova della più grande forza d'animo! Eh no, cari miei! Allora era meglio mettersi calmi ad aspetta­ re la morte, non svignarsela così alla chetichella! Ma se dav­ vero ci vuole levare l'incomodo, mica c'è bisogno del fuoco, mica deve fare il teatro! 68 Faccia in altro modo, se vuol mori­ re! Ve ne son mille! E se poi proprio ha le smanie di far l'E­ racle sulla pira 69, perché non scegliersi, quatton quattoni, un bel monte con tant'alberi e colà darsi fuoco in santa pace, tutt'al più portandosi dietro il suo Filottete7°, tipo Teagene? No! Lui, a Olimpia, nel più gran parapiglia della festa, e po­ co ci manca che lo faccia in scena, va a darsi fuoco! Non che non sia degno di bruciare, no, per Eracle: bisognerà pur che un assassino di suo padre, un senza dio, paghi il fio delle sue ribalderie! È che mi pare lo faccia troppo tardi: è già da tem­ po che avrebbe dovuto pagarla soda, ma dentro il toro di Fa-

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laride! 71 Altro che morire così in un solo istante divorato dal­ le fiamme! Perché mi si dice anche che non c'è modo più spe­ dito di morire che con il fuoco. Basta aprire la bocca e si è su­ bito morti. [22] E per di più, questo bello spettacolo d'un uomo che si dà fuoco qui, in un luogo santo, dove l'usanza impedisce di sep­ pellire finanche chi ci muore, è pensato a bella posta, credo io, per consacrarsi! 72 Avete certo sentito di quel tale che tem­ po addietro per far parlare di sé, siccome in altro modo non ci riusciva, diede fuoco al tempio di Artemide in Efeso73. E questo qui ha in mente di fare più o meno la stessa cosa, tan­ ta è la smania di gloria che ha dentro. [23] E aggiunge anche che lo fa per il bene dell'umanità, per insegnare agli uomini a disprezzare la morte e a prender la tempera nelle asperità. Mi piacerebbe proprio chiedere non a lui, ma a voi, se vi garba che anche i gaglioffi vadano a scuola da costui a imparare coraggio, disprezzo della morte, roghi e altri spaventi del genere! Eh no che non vi garba! E com'è che Proteo potrebbe discriminare tra il far del bene ai brav'uomi­ ni e rendere i birboni ancor più tosti e sfrontati? [24] Ma diamo pure per possibile che ci vadano quelli soltan­ to che vogliono vedere con oneste intenzioni. E allora torno a chiedervi: vi garba o no che anche i vostri figliuoli si facciano emuli di costui? No, rispondereste. Che poi non so perché vi faccio questa domanda: ma se nemmeno i suoi stessi discepo-

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li lo vogliono emulare! 74 Chiediamolo qui a Teagene, perché, dal momento che emula il suo maestro in tutto il resto, non lo segue e va a soffrire insieme a lui mentre attinge Eracle, visto che in un colpo solo potrebbe conoscere tutte le felicità get­ tandosi a capofitto nel fuoco! Ché l'emulazione non sta nella bisaccia, nel bastone e nel mantellaccio! No: queste son forme sicure e facili per chiun­ que! È la sostanza che bisogna emulare: e allora fatti una bel­ la pira di legno di fico, ma proprio verde, e salici sopra a soffo­ care nel fumo! Perché il fuoco non è solo d'Eracle e d'Ascle­ pio, ma anche degli assassini e dei sacrileghi, che lo subisco­ no per giusta punizione. Sicché è meglio che vi ammazziate col fumo. Sarebbe proprio la morte giusta per voi. [25] Tra l'altro, Eracle, se anche ha osato fare quel che ha fat­ to, è perché il sangue del centauro l'aveva dissennato e gli man­ giava l'ossa. E questo qui, che motivo ha per gettarsi nel fuo­ co? Per Zeus! È che vuol fare pubblica prova di sopportazio­ ne come i brahamani 75. L'ha detto Teagene che gli somiglia, co­ me se anche tra gli Indiani non ce ne fosse di matti vanaglo­ riosi. Ma allora che li imiti davvero! Perché i brahamani non si gettano a piedi giunti sulla pira! Lo dice Onesicrito, il coman­ dante di Alessandro che racconta del rogo di Calano! 76 Eh no: loro, una volta innalzata la pira, le si mettono vicino, senza muovere un muscolo, e si fanno rosolare. Soltanto dopo ci sal-

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gono sopra con dignità, e bruciano senza muoversi neppur d'un fiato! Che c'è di particolare allora nel gettarsi tra le fiam­ me e morire divorato dal fuoco? C'è che quello spera di saltar fuori magari anche mezzo abbruciato, com'è vero che la pira se l'è scavata bella profonda in una bella fossa! [26] D'altra parte v'han di quelli che dicono che già mutò d'avviso: va raccontando d'un sogno per cui Zeus impedireb­ be di contaminare un luogo santo! Ma su questo stia pur tran­ quillo: nessun dio s'adonta se Peregrino fa una brutta fine, ci posso giurare! Per lo meno, a questo punto, non gli è facile cavarsene fuori: i suoi intrinseci cagnacci gli stanno alle calca­ gna, lo spingono sul rogo, gli infiammano il cervello, sicché non danno ala alla vigliaccheria! Che se poi quello, gettando­ si sulla pira, ne abbrancasse un paio e li portasse via con sé, almeno farebbe con questo una buona azione. [27] Sentivo or ora che nemmeno più Proteo gli va d'esser chiamato, ma Fenice 77, perché la fenice, l'uccello indiano, si dice che salga sulla pira quando s'è fatto troppo antico. E già ne racconta delle belle e va dicendo di certi antichi oracoli se­ condo cui è destino ch'egli diventi un demone della notte! 78 Ma non è chiaro che vuole altari, che spera di farsi erigere sta­ tue d'oro?79

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[28] Per Zeus! E non è nemmeno inverosimile che nel muc­ chio degli scervellati vi sian di quelli che diranno d'esser stati guariti dalla febbre quartana per sua mano e che di notte vi si son scontrati con questo demone della notte! Per non dire di questi sciagurati dei suoi discepoli che andranno imposturan­ do un oracolo80, nonché un tempio, sul sito del rogo: non da­ va forse Proteo, il Proteo vero figlio di Zeus, ch'è diventato padrino di costui, non dava egli oracoli? E son pronto a giu­ rare che i suoi sacerdoti si produrranno in pubbliche dimo­ strazioni: flagellazioni, bruciamenti e altre mostruoserie del genere, se addirittura non ci faranno iniziazioni notturne in suo onore e una bella processione con le fiaccole intorno al luogo della pira! 8' [29] D'altra parte non è molto tempo che Teagene, me l'ha detto un amico, diceva che persino la Sibilla ha proferito ora­ coli su di lui82• E addirittura ne riferiva le parole: Allor che Proteo tra i cinici l'eccelso83 erigerà gran foco di Zeus tonante84 presso il sacro loco e nella vampa spintosi verrà d'Olimpo al gran cacume, a voi che tutti pasturate i frutti della terra85 ingiungo venerar l'eroe possente che di notte erra e in trono siede con Efesto ed Eracle gran nume.

[30] Ecco, questo è quel che Teagene va dicendo aver sentito

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dalla Sibilla. lo invece ne ho un altro di oracolo, ed è di Baci­ de86. Sicché dice Bacide e attenti a come conclude: E allorquando un cinico che cangia sempre nome e l'animo si danna87 per la gloria s'awenterà di sopra d'un bel foco, volpi e segugi88 che vanno presso lui debbon rifare il lupo insiem ai fati sui. E chi per manco di cor si tenga a scanso del calor d'Efesto89, bisogna che gl'Achei di pietre insiem lo coprano ben presto, acciò ch'essendo freddo in core non facci più il fervente parolaio dopo la borsa sua nutrita molto col mestiere d'usuraio:

è un uom di Patre90 che serba quindici talenti nel salvadanaio.

Che ve ne pare, miei cari? Chi è peggior oracolo? Bacide o la Sibilla? Sicché è tempo che questi impostori seguaci di Proteo si guardino intorno in cerca d'un posto dove darsi fuoco, o, come dicono essi, "inaerarsi" !». [3r] Quando quell'uomo ebbe finito di parlare, tutti si misero a urlare: «Bruciamoli subito! Al rogo, al rogo!». E lui scese dalla tribuna dicendo tra le risate «A Nestore non sfuggì il gri­ do»9\ intendendo dire Teagene, che, come sentì quelle urla, si precipitò immediatamente e salendo sulla tribuna si mise di

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nuovo a gracchiare e a dirne di cotte e di crude sull'uomo che ne era appena sceso. Purtroppo non conosco il nome di quel benefattore. lo me ne andai che ancora quello urlava da scop­ piare. Volevo vedere gli atleti, perché si diceva che i giudici92 fossero già entrati nel Pletrio93. [32] E questo è quel che avvenne a Elide. Quando arrivammo a Olimpia, il portico del tempio era pieno di gente che in par­ te biasimava, in parte lodava la decisione di Proteo, al punto tale che i più vennero alle mani, finché arrivò lo stesso Proteo in persona accompagnato da una gran coda di gente e, dalla tribuna dei banditori, incominciò a dirne su di sé e sulla vita che aveva fatto e sui rischi che aveva corso e sulle noie che ave­ va avuto dall'essere filosofo94. Quante ne disse! Però io ne ho sentite poche95, a causa del gran parapiglia di gente. Mi prese poi la paura di finir calpestato dalla folla - che ne avevo vista di gente fare quella fine- e così me ne andai con tanti saluti al sofista morituro96 che si recitava l'epitaffio prima ancora d'esser morto. [33] E tuttavia ho ascoltato abbastanza! Diceva che voleva co­ ronare una vita d'oro con una corona d'oro: era necessario che chi aveva vissuto la vita d'Eracle morisse anche come Eracle, involandosi nell'etere! «E dunque voglio - disse- beneficare gli uomini insegnando loro il disprezzo della morte. Bisogna

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che tutti gli uomini diventino miei Filotteti!»97• A quel punto il gruppo dei gonzi si metteva a piangere e a urlare: «Salva la Grecia!», mentre quelli con un po' di dignità urlavano in ri­ sposta: «E falla finita una buona volta!». Al che il vecchio si smarrì, perché sperava che tutti sarebbero stati dalla sua par­ te, che non lo avrebbero lasciato al fuoco e che dunque avreb­ be dovuto, pur contro voglia, rimanere in vita. Ma quel «e fal­ la finita!», così imprevisto, che gli capitombolò sulla testa, lo sbiancò ancor peggio di quel colore da cadavere che aveva di solito. Per Zeus, gli venne pure la tremarella, tanto che do­ vette mettere il punto al discorso. [34] Io me la ridevo proprio di gusto, come potrai immagina­ re, perché non mi sembrava proprio degno di commiserazio­ ne un uomo così pervertito dall'amor della gloria, né più né meno di tutti gli altri che si dannano al suo stesso modo. E tut­ tavia lui, così com'era circondato dalla folla, si toglieva il ca­ priccio della celebrità guardando dall'alto la massa dei suoi ammiratori, senza rendersi conto, il poveretto, che molto più grandi sono le masse che seguono i condannati alla croce o al patibolo98• [35] Ma già ormai le Olimpiadi volgevano al termine, le più belle di quelle che ho visto, e ne avevo viste già quattro!99 Ciò nondimeno restai, perché era impossibile trovare un qualsia­ si mezzo di trasporto con tutta quella gente che se ne stava an­ dando via. Quell'altro intanto, che aveva ciurlato nel manico tutta la notte con la storia del rogo, alla fine si decise a dare l'annuncio dell'avvenimento. E dal momento che un amico mi ci invitÒ100, mi alzai nel cuore della notte e di buona lena mi misi in cammino alla volta di Arpina 101, dove doveva svolger­ si lo spettacolo del rogo. Sono circa venti stadi da Olimpia,

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andando verso est dalla parte dell'ippodromo. Non appena fummo arrivati, trovammo la pira innalzata dentro d'una fos­ sa di circa un metro e mezzo. Era fatta di legna resinosa e gli spazi vuoti erano riempiti con frasche, di modo che prendes­ se fuoco il più alla svelta possibile! [36] E non appena la luna si levò - bisognava pur che anche la luna assistesse a questo bello spettacolo102 -, quello viene avanti bello acconciato come il suo solito e accompagnato dal­ la crema dei cinici, tra cui spiccava quella buona lana dell'uo­ mo di Patre, Teagene, con la sua bella fiaccola anche lui, co­ me Proteo: che deuteragonista, eh? Sicché alcuni da una par­ te, altri dall'altra accendevano la pira che s'incendiò fino al cielo, fatta com'era di resine e frasche. Lui- stammi bene at­ tento- si spogliò della bisaccia, del mantellaccio e del basto­ ne d'Eracle e rimase in brache di tela: lercio e fetido a bella posta! Poi chiese dell'incenso da gettare sulla pira e, avutolo, ve lo gettò e, infine, si rivolse a mezzogiorno - perché pure questo, il mezzogiorno103, rientrava in quel suo far teatro- e disse: «Oh, spiriti di mia madre e di mio padre, accoglietemi benevoli!». Dette queste parole, si gettò nel fuoco: le fiamme lo avvolsero alte tutto intorno e nessuno lo vide più. [37] E tu ti stai smascellando di nuovo, ti vedo, mio caro Cra­ nio: che finale, questa rappresentazione! Quanto a me, per

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Zeus, quando si mise a invocare lo spirito della madre, non ci trovai nulla di strano. È quando si mise a invocare lo spirito del padre che non riuscivo più a trattenermi dal ridere al pen­ siero dell'assassinio! I cinici, invece, se ne stavano tutt'intor­ no alla pira senza piangere e facevano la recita del dolore man­ tenendo il silenzio e tenendo gli occhi fissi al rogo. Al che io mi avvicino e gli dico: «Ma andiamocene via, deficienti! Vi pa­ re un bello spettacolo stare a vedere un vecchio che si dà fuo­ co e ci riempie tutti del suo fumo schifoso? O per caso state aspettando un pittore che vi ritragga come i discepoli di So­ crate in prigione?»104• Quelli si sono arrabbiati, hanno inco­ minciato a insultarmi e me le sono prese anche, ma poi, non appena li ho minacciati di prenderli e buttarli nel fuoco a rag­ giungere il loro maestro, si sono messi tranquilli. [38] Andandomene via riflettei a lungo, amico mio: è proprio vero che l'amore per il successo è l'unico desiderio cui non ci si può sottrarre! Non lo possono gli uomini più straordinari, figurarsi quello lì che ha vissuto più di tutti una vita stupida, insensata e perfettamente degna del fuoco! [39] Tra l'altro incontrai della gente che stava venendo a ve­ dere e pensava di vederlo ancora vivo, perché il giorno prima avevano sentito dire che avrebbe salutato il sole nascente pri­ ma di gettarsi sul rogo, al modo dei brahamani. Sicché, ne ri­ mandai indietro molti dicendo che ormai era tutto finito, tran­ ne quelli che erano proprio fanatici e volevano vedere il posto

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del rogo e magari raccogliere qualche reliquia 105• E che barba star lì a raccontare e rispondere a tutte quelle domande parti­ colareggiate! Che se poi ne incontravo uno sveglio, gli rac­ contavo le cose così nude e crude come le racconto a te, ma se ti beccavo uno di quei gonzi pronti a bersi qualsiasi cosa, gli mettevo in scena tutta una storia di mia invenzione, che non appena la pira fu accesa e Proteo ci si gettò sopra, subito si sentì un gran terremoto e un boato e dal centro del rogo si alzò in volo un avvoltoio dicendo con tonante voce umana: «La terra lascio e l'Olimpo attingo»106• E loro restavano lì istupiditi, si gettavano a terra in ginocchio e mi chiedevano se l'avvoltoio era andato a est o a ovest: io gli rispondevo quello che mi veniva in mente lì per lì 107.

[40] Quando ritornai alla festa, t'incontro un vecchio tutto bianco che, per Zeus, con la barba che si ritrovava e quell'a­ spetto venerabile, aveva un'aria del tutto affidabile'08: ebbe­ ne, costui andava dicendo, tra l'altro, che subito dopo il rogo aveva visto Proteo con una veste bianca e addirittura lo aveva poc' anzi lasciato mentre camminava su e giù per il Portico

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delle Sette Voci 109 splendidamente incoronato di ulivo IlO. E per finire aggiunse la storia dell'avvoltoio, giurando di averlo visto egli stesso alzarsi in volo dalla pira, proprio quell'avvol­ toio che io poco prima avevo fatto volare per canzonare i gon­ zi e gli idioti! III [4r] E immagina quello che ne conseguirà: le api che non si aggrappoleranno in quel posto! Le cicale che non vi si mette­ ranno a cantare! I corvi che non voleranno lì sopra come sul­ la tomba di Esiodo! 112 E tutte le panzane di questa sorta! E già mi sento che gli verranno innalzate un sacco di statue a Elide e nelle altre città delle Grecia a cui Proteo diceva di aver spe­ dito delle lettere. Si dice infatti che abbia spedito a tutte le più importanti città della Grecia delle lettere con le sue ultime vo­ lontà nonché consigli e precetti 113: addirittura aveva scelto al proposito alcuni suoi discepoli tra i più anziani con la nomi­ na di "messaggeri dei morti" e "corrieri dell'aldilà"n4• [42] Questa fu dunque la fine di quell'animaccia nera di Pro­ teo, uomo, per dirla in breve, che non si curò mai della verità e che, al contrario, tutto disse e tutto fece per il successo e per la celebritàns, al punto di gettarsi nel fuoco, senonché non do-

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veva godere di quell'ultimo successo perché non lo poteva più vedere. [43] Voglio, per finire, raccontarti ancora una cosa che ti farà ridere a crepapellei16• Sai già quella storia che hai sentito da me non appena ero tornato dalla Siria: che io mi ero ritrova­ to sulla stessa naven7, in partenza dalla Troade con lui e la bi­ sboccia che non fece durante la navigazione. Per non parlare del bel ragazzino che convinse a fare il cane per avere anche lui in qualche modo il suo Alcibiadei18, e poi la tempesta che ci colse di notte nel bel mezzo dell'Egeo e l'onde gigantesche che se ne scatenarono e lui che stava lì a guaiolare con le don­ ne, lui, quel mirabolano sedicente sprezzatore della morte! [44] Ma non ne sai un'altra! Poco prima della sua morte, cir­ ca una settimana prima, si era ingozzato di cibo all'inverosi­ mile: vomitò per tutta la notte e gli venne un gran febbrone! Questo me l'ha raccontato Alessandro, il medico che fu chia­ mato per dargli un'occhiata. Mi disse appunto che lo trovò a rotolarsi sul pavimento, incapace di sopportare la febbre e che mendicava senza il minimo ritegno per un po' di refrigerio, ma lui non gli aveva dato nulla! E, anzi, gli aveva risposto che se aveva tanta voglia di morire, ebbene, la morte gli si era pre­ sentata alla porta spontaneamente, per cui doveva semplice­ mente seguirla senza alcun bisogno del fuoco! E allora lui ri­ spose: «Ma non ne avrei alcun successo! È un modo troppo comune di morire!».

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[45] Questo è quello che mi raccontò Alessandro. Ma poi io stesso lo vidi non molti giorni prima di morire curarsi gli oc­ chi con un collirio! Lo vedi? Oh, non sai tu che Eaco119 non li vuole i birci? Come se uno che sta per essere crocifisso si cu­ rasse un dito rotto! 12° Che pensi avrebbe detto Democrito di questo? Non gli avrebbe riso dietro come si merita? Chissà quanto avrebbe riso e di che cosa in particolare! E dunque ri­ di anche tu, caro amico mio, e ridi bene quando senti qualche grullo che ne dice meraviglie.

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Note

Vite dei filosofi all'asta r. Il greco dice kosmésas, cioè " adornare " , " abbellire " , " rivestire " e ogni altra azione appartenente alla sfera semantica del cultus, dell'ornato. Ci sem­ bra di poter cogliere qui un chiaro riferimento parodico al contesto infero del Gorgia platonico. Nel dialogo di Platone, Zeus emanava una " riforma giudi­ ziaria " destinata a moralizzare per sempre il tribunale dei morti e le sue sen­ tenze. Pare opportuno riportare qui il testo: «Ci penserò io - disse [Zeus] a metter fine a tutto questo. Fino a ora le sentenze erano inquinate, perché i giudicandi - proseguì - venivano giudicati ancora vestiti di tutto punto, cioè ancora vivi. Sicché - continuò - molti, che pur avevano l'anima macchiata, si presentavano rivestiti d'un bel corpo, d'una illustre discendenza, d'un patri­ monio cospicuo e poi, quando si apriva il giudizio, si portavano un codazzo di testimoni tutti pronti a giurare sulla loro giusta condotta di vita. È gio­ coforza che i giudici venissero abbagliati da tanto apparato, soprattutto per il fatto che essi stessi giudicavano tutti rivestiti di quelle stesse cose, ricoper­ ta com'era la loro anima di occhi, di orecchi e dell'intero corpo. Tutti questi paludamenti, sia i loro, sia quelli dei giudicandi, erano di impedimento ai giu­ dici. Per prima cosa, dunque - disse -, bisogna smetterla con quest'abitudi­ ne di sapere anticipatamente il giorno della propria morte, perché adesso co­ sì avviene. [ . . . ] Poi, è necessario che essi vengano sottoposti a giudizio com­ pletamente spogliati di tutti questi rivestimenti: devono infatti essere giudi­ cati quando sono morti. E anche il giudice deve essere nudo pure lui, e dun­ que morto, perché deve poter contemplare immediatamente con la sola ani­ ma l'anima sola di ciascun morto, senza tutto quel corteo di parenti e clienti e dopo che essi hanno lasciato sulla terra tutta quella pletora di ornamenti. Soltanto così la sentenza può essere giusta ! » ( 523c r - 523e 6) . Se, dunque, l'o­ rizzonte simbolico di questo dialoghetto lucianeo è tutto informato a un con­ testo infero (cfr. supra, pp. 40 ss. ) , ci troviamo qui di fronte a uno Zeus che, contrariamente a quello platonico del Gorgia, ingiunge al suo Ermes, dio psi­ copompo per eccellenza, di contraffare le anime per poterle meglio smercia­ re. Il gioco sulla contraffazione è molto forte: Zeus è, d'altra parte, il dio " at­ tore " per eccellenza, simulatore e dissimulatore, al punto di essere immorta­ lato da un titolo come Zeus tragedo. Per effetto di questa sottile, ma potente allusione platonica indotta dal verbo kosméo, la scena delle Vite si apre dun­ que sul tema della mimesis come contravveleno della verità.

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2. Per la ripartizione delle battute si fa qui riferimento all'integrazione di Itzkowitz (1992 ) . 3 · Un'altra allusione ironica, sembra, a l contesto infero, e i n questo caso a una specifica scena di Repubblica X. Appena prima di aprire il sorteggio del­ le vite, il ministro della cerimonia, prophétes, si produce in questa formula sa­ cra: «la responsabilità è di chi sceglie, il dio non ne ha alcuna» (617e 4- 5 ) . 4· I n greco l a parola bios, vita, è maschile. Ciò d à luogo a u n gioco lin­ guistico molto forte che si protrae per l'intero testo: la vita del filosofo via via messa in vendita come paradigma viene a confondersi con il filosofo via via evocato come personaggio, sicché, ad esempio, il Pitagora antico maestro di sapienza tende a confondersi con il paradigma di vita da lui e a lui ispirato. Si tratta di un gioco soltanto apparentemente " innocuo " . In realtà esso rive­ la e coinvolge al contempo un aspetto assolutamente centrale del testo: il rap­ porto tra l'imitabile (paradigma) e l'inimitabile (personaggio) che investe l'in­ tero arco problematico della mfmesis (cfr. supra, pp. 17 ss . ) . In questa sede ci limiteremo a discutere alcuni aspetti testuali e le loro ricadute nella traduzio­ ne italiana. Dato il gioco di sovrapposizione paradigma-di-vita/personaggio, una scelta possibile in sede di traduzione sarebbe stata quella di uniformare il personaggio alla vita trasponendo tutto al femminile, ma tale scelta è parsa subito eccessivamente normalizzante delle ambiguità volutamente orchestra­ te da Luciano. Altrettanto normalizzante è parso, viceversa, trasporre tutto al maschile. Si è pertanto optato diversamente, tenendo conto non solo dei sin­ goli contesti in cui il gioco si pone e ritorna, ma anche di chi, Ermes o Zeus, pronuncia di volta in volta la battuta. Lungo tutto il testo è infatti possibile cogliere una differenza sostanziale tra i due dèi organizzatori della vendita . Zeus pare a tutti gli effetti essere un proprietario alquanto involgarito e ab­ brutito: ha fretta, vuole " realizzare " , vuole vendere e sbarazzarsi della merce . Ermes è invece ironico, sulfureo, intelligente e si diverte parlando con i clien­ ti. Alla luce di queste osservazioni, ci è sembrato che, laddove Zeus non di­ stingue e non è interessato a distinguere, forse vuole addirittura nascondere la distinzione tra copia (paradigma) e originale (il personaggio) , Ermes ha in­ vece ben contezza della cosa , e soprattutto del fatto che, in una vendita, confondere l'originale con la copia è una truffa, come si dice, bella e buona. Si è pertanto optato per questo metodo: quando è Zeus a parlare, si norma­ lizza al maschile onde opacizzare la distanza tra vita filosofica e personaggio, per lasciare poi che sia Ermes a ripristinare la trasparenza, parlando contem­ poraneamente al maschile e/o al femminile, a seconda della battuta di Zeus e del contesto generale. C'è poi un terzo personaggio, il cliente. Il cliente, di fatto, non distingue mai tra vita e personaggio, perché non è interessato alla qualità di quello che compra, ma a procurarsi piuttosto un semplice schiavo. Il cliente apostroferà pertanto solo al maschile la vita che sta comprando e in­ terrogando. Poiché sarebbe ridondante e forse inutile avvertire il lettore del­ le singole scelte di traduzione passo per passo, lo invitiamo da subito, sulla base delle indicazioni qui fornite, a verificare personalmente, di luogo in luo­ go, le diverse soluzioni da noi proposte . 5· Capellone: tratto esotico che ben si combina con il noto abbigliamento orientaleggiante di Pitagora, ispirato a quello dei magi orientali e attribuitogli

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dalla tradizione, cioè la corona d'oro, la tunica bianca e i pantaloni, cfr. Eliano,

Storie varie, 12, 32; Diogene Laerzio, VIII, 19; Giamblico, Vita di Pitagora, 149. Abbigliamenti solenni si attribuivano anche ad Anassimandro e a Empedocle, cfr. Diogene Laerzio, VIII, 70, che riporta Diodoro di Efeso. In ogni caso, il tra t­ to dei lunghi capelli potrebbe risalire all'Aristofane delle Nuvole, cfr. in/ra, no­ ta 6. Va inoltre ricordato come il tema del cultus adottato dal sofista sia già ben presente nella scrittura platonica, cfr. ad esempio Ippia, 368b e Ione, 5 3 0b. 6. Catalogo ridicolo di arti e conoscenze che fa il verso al modello della sapienza e del sapiente totale, a ogni aspirazione alla pansofia e al ruolo di pansofo: l'archetipo è costituito da Aristofane, Nuvole, 331-333: « [Le Nuvole] mantengono un numero incredibile di sapienti: Turiodivinatoriologi, Iatro­ tecnologi, Capelloningioiellaticonlamanicurologi, Rovinamusica e Meteoro­ fregnaccioni» (su queste figure di sapienti ispirati cfr. Gemelli Marciano, 2006 ) . Più in generale, il catalogo totale di arti e conoscenze è da considerar­ si un vero e proprio topos intellettuale (oltre che, va da sé, letterario e retori­ co) trasversale, nella letteratura europea, a molti generi, eppur tutti accomu­ nati da un intento vuoi parodico, vuoi polemico, vuoi contro-ideologico in­ torno a uno o più nodi di una tradizione culturale. Ci limiteremo qui a indi­ care, oltre alle Nuvole, alcune opere della nostra letteratura i cui cataloghi del sapere sono divenuti celebri: il Prometeo attribuito a Eschilo, il Fedone pla­ tonico, il Gargantua et Pantagruel di Rabelais , il Faust di Marlowe e di Goethe, passando per il Don Giovanni di Molière, tutti testi che riflettono in­ torno al rapporto conoscenza-empietà. 7· La vita di Pitagora parla in dialetto ionico. A nostro avviso, nessun tra­ duttore di quest'opera lucianea ha sinora reso soddisfacentemente il décalage linguistico tra questo ionico e il neoattico del contesto. Tutt'al più, i tradut­ tori si limitano a qualche opzione vagamente più colta o arcaica per segnala­ re lo scarto, ma si tratta di scelte deboli che poi finiscono per perdersi dopo poche battute. La differenza tra il greco di Pitagora, da un lato, e quello del cliente, di Ermes e di Zeus, dall'altro, è invece fortissima e non è soltanto les­ sicale, né si limita semplicemente a eleggere qualche uscita nominale o ver­ bale ionica di contro a quelle attiche: la differenza coinvolge ampiamente la sintassi e l'intero ardo verborum. Abbiamo così dovuto decidere per una re­ sa forte, coniando una lingua ispirata al modello della Commedia dantesca, per alcune ragioni che ci pare qui opportuno precisare. Innanzitutto, come impone la memoria letteraria, lo ionico è per eccellenza la lingua di Omero, cioè, a maggior ragione per uno scrittore di II secolo d . C . , e dopo il metico­ loso lavoro di categorizzazione filologico-letteraria dei dotti alessandrini dal III secolo a . C . in poi, la lingua di un padre delle lettere, esattamente come lo è Dante per noi. In secondo luogo, la Commedia dantesca altro non è, nel suo insieme, che un grande " dialogo dei morti " , come lo sono quasi tutti i dialo­ ghi lucianei, ivi compreso questo. C'è poi un terzo elemento, quello dell'in­ tellettualizzazione. I dialoghi lucianei sono tutti informati ad un alto livello di intellettualizzazione (di cui la parodia è il segnale più evidente) , esattamente come il linguaggio dantesco della Commedia. Questo perché tanto la scrittu­ ra di Luciano quanto quella di Dante nella Commedia sono il risultato di una profonda meditazione a posteriori sulle tradizioni culturali delle rispettive ci-

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viltà cui i due autori appartengono e di cui si considerano epigoni. Avvertia­ mo infine che nel trasporre la lingua di Pitagora nell'italiano dantesco abbia­ mo cercato, eccezion fatta per alcune necessarie e imprescindibili licenze, di mantenerci il più possibile aderenti alla lettera del testo greco. 8. Cioè in Egitto. L'Egitto è, nella tradizione, la terra della sapienza per antonomasia nonché la meta quasi obbligata dei sapienti e dei filosofi (Ber­ na!, 1991) . 9· Da qui in poi, le risposte di Pitagora delineano quell'immagine tradi­ zionale che, evidentemente, all'altezza del II secolo inoltrato, è già depositata e andrà quindi arricchendosi, per tutto il tardo antico fino all'intero Rinasci­ mento, di tratti sapienziali, magici, mistici, esoterici, per approdare quindi al­ le moderne ricostruzioni degli studi storico-religiosi. Diciamo " ricostruzioni" in quanto la figura di Pitagora è già leggendaria al tempo di Platone, se non certamente anche prima, ed è destinata per noi a rimanere tale, nell'assenza di documenti e fonti di prima mano. Nemmeno all'altezza di Platone, nei cui dia­ loghi sono presenti tracce significative della cosiddetta " dottrina pitagorica " , sappiamo quali testi o quali racconti circolassero. U n dato è certo: è a partire dal tardo ellenismo, come Luciano attesta, che Pitagora diventa per noi quel­ la figura di sapiente totale circonfusa di sacralità a tutt'oggi considerata vali­ da. Come si diceva, le risposte della vita pitagorica interrogata dal cliente de­ lineano l'immagine di Pitagora e del pitagorismo come la conosciamo ancora oggi. Ripercorriamo nell'ordine i diversi tratti: a) teoria dell'anamnesi, cioè della conoscenza- rimemorazione; b) pratica di purificazione dell' anima (kdtharsis) e tecnica ascetica, che attualmente vengono ricondotte a una ma­ trice sciamanica; c) studio in chiave esoterico-sapienziale della matematica, del numero, della geometria, dell'astronomia, intese come forme dell'armonia co­ smica; d) teoria della metempsicosi; e) vegetarianesimo e osservazione di tabù alimentari (come quello della fava, appunto) . Sulla base di questi elementi, gli storici delle religioni hanno riconosciuto in Pitagora la figura dello iatr6man­ tis, figura di guaritore-purificatore-stregone, tecnico e maestro dell'estasi e del viaggio dell'anima, detto altresì "maestro di verità " , secondo la celebre defi­ nizione di Marcel Detienne (Detienne, 1983), diffusa nell'Oriente semitico (Grottanelli, 1982 e Pugliese-Carratelli, 1990) , ma ricondotta alternativamente da Meuli, Cornford, Dodds, Burkert (Burkert, 1972) allo sciamanesimo sibe­ riano. Peraltro, è interessante rilevare come sia Clemente di Alessandria, Stro­ mati, I, 21, a !asciarci un vero e proprio elenco di iatromanti che annovera: Pi­ tagora per primo, e quindi Abari iperboreo, Aristea, Epimenide, Zoroastro, Empedocle, Formione, Poliarato, Empedotimo, nonché Socrate (Couliano, 1991, pp. 121 ss. ) . Non ci si deve stupire se questo elenco ritorni te! quel, inclu­ so lo stesso Socrate, in tutti gli studi storico-religiosi su Pitagora, il pitagori­ smo e lo " sciamanesimo greco " , variamente arricchito di elementi dionisiaci e orfici. In ogni caso, il Pitagora lucianeo è costruito sul modello del veggente ispirato ciarlatano che già Aristofane, nelle sue Nuvole, ma più in generale la commedia antica tutta, avevano cristallizzato in una figura letteraria ben di­ stinta (Mastromarco, 1994, pp. 141 ss. e Imperio, 1998 ) . 1 0 . Racconta Erodoto, I , 85, che uno dei figli d i Creso era muto e che parlò solo quando vide il padre in pericolo durante la presa di Sardi.

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n. Si tratta di un'allusione alla tradizione pitagorica del giuramento su­ premo in nome della tetractys, cioè della " tetrade" , considerata al contempo come numero quattro, come serie dei primi quattro numeri uno, due, tre, quattro e, infine, come somma di questi stessi, cioè dieci (I+ 2+ 3 + 4 = w). La tetractys è espressamente nominata in un'opera attribuita allo stesso Lu­ ciano, Per lo sbaglio nel saluto, 5, in cui si dice: «Il giuramento supremo, che si chiamava tetractys, rappresentazione del numero perfetto, era altresì detto da alcuni "principio della salute " : fra questi è anche Filolao». La tetractys è citata poi in un'altra opera, Philopatris, 12, florilegio lucianeo di età bizanti­ na. Qui essa compare appunto come formula di giuramento in uno scambio di battute tra Crizia, l'empio parente di Platone, e altri personaggi. Ma, più in generale, la tradizione attribuisce le speculazioni sulla tetractys a Filolao da cui, secondo Diogene Laerzio, VIII, 84-85, Platone avrebbe comprato, attra­ verso Diane di Siracusa, i segretissimi libri pitagorici per il prezzo di cento mine. Importanti elementi quanto all'uso simbolico dei numeri presso i pita­ gorici si trovano in Aristotele, Metafisica, 985b 3 ss. e nei Trattati di teologia del numero, 82, Io, attribuiti a Giamblico. I2. Il cliente innalza il suo linguaggio piegando il tono alla paratragedia e alla parodia. Il motivo del giuramento ridicolo è un vero e proprio Leitmo­ tiv delle Nuvole di Aristofane. Come qui il pitagorico giura per la tetractys, là Socrate giura per il Respiro cosmico, per il Caos e per l'Etere (v. 627 ) , redar­ guendo Strepsiade, che giura sugli dèi tradizionali, nonché insegnandogli a giurare sulle nuove divinità ( cfr. tutta la scena dal v. 380 in poi) . Il vecchio istruirà poi a sua volta il figlio Fidippide sui giuramenti imparati da Socrate ( vv. 8I6 ss. ) . I 3 . L' allusione è , con tutta probabilità, all'idea che i l numero e l a figu­ ra geometrica informi a sé tutte le cose e la materia. Cfr. ad esempio, nella selva delle attestazioni, la testimonianza di Aristotele, Metafisica, I, 5, 986a I 5 , ma anche quella di Diogene Laerzio, VIII, 24, che riporta Alessandro Po­ liistore . I4. Pitagora stesso aveva vissuto molte vite secondo la tradizione, che, co­ me c'è da aspettarsi, si contraddice in merito all'identità di tali " reincarna­ zioni " . Eraclide Pontico annovera Etalide, figlio di Ermes, Euforbo, ferito da Menelao nella guerra di Troia, e poi ancora Ermotimo e Pirro, nonché un pe­ scatore di Delo. Dicearco e Clearco parlano di Euforbo, Pirandro, Etalide e d'una bella prostituta. Le testimonianze più tarde parlano invece solo di Euforbo (Burkert, I972, pp. I38-4o; Rohde, I982, pp. 757-62 ) . I5. Si tratta d i uno dei più celebri precetti pitagorici, detti dalla tradizio­ ne akousmata o symbola. Si trattava di insegnamenti tramandati oralmente e da intendersi non in modo letterale, bensì simbolico, come dicono Porfirio, Vita di Pitagora, 4I e Giamblico, Vita di Pitagora, 82. Il precetto è pertanto de­ stinato, nel suo vero significato, a rimanere oscuro e aperto a molte interpre­ tazioni. Pitagora illustra qui il suo stesso divieto di non mangiar fave in un modo che sembra riassumere le principali spiegazioni avanzate dall'esegesi posteriore: in altri termini, Luciano sta parodiando la tradizione dossografi­ ca. Diogene Laerzio, VIII, 34 ss. precisa che Aristotele, nel suo libro sui pita­ gorici, ricordava il divieto di mangiar fave così motivandolo: esse sono mol-

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to simili ai testicoli, ricordano altresì le porte dell'Ade, possono inoltre con­ taminare chi se ne nutre, riproducono la natura del tutto e, infine, sono sim­ bolo dei governi oligarchici in quanto utilizzate per il sorteggio. Come si ve­ de, due di queste motivazioni si ritrovano riprodotte nel discorso del Pitago­ ra lucianeo. Va notato che Aulo Gellio, IV, n, 1 - 5 contesta la tradizione, affer­ mando che Pitagora in realtà si nutriva preferibilmente di fave per le loro pro­ prietà lassative, adducendo l'autorità di Aristosseno (autore di una nota vita di Pitagora) e arrivando a negare persino il divieto sulla carne. r6. C'è forse qui, in questo tingersi di sangue della fava, il rimando a una credenza embriologica attribuita alla scuola pitagorica da Diogene Laerzio, VIII, 24. Il seme, composto, secondo i pitagorici, da materia cerebrale, im­ metterebbe nella matrice sangue, dal quale poi si formano le carni, i nervi e le ossa dell'embrione. L'allusione scatterebbe per effetto dell'identificazione tra fava e genitali maschili. 17. La prassi del sorteggio elettorale è un tratto tipicamente democrati­ co. In un passo assai celebre di Senofonte, Memorabili, I, 2, 9, Socrate si tro­ va a biasimare il sorteggio con la fava come pratica democratica deteriore, fa­ cendo così trasparire la propria affinità con alcune rivendicazioni oligarchi­ che. D'altra parte, come ricordavamo qui sopra, Aristotele spiega il tabù sul­ le fave con il fatto che esse erano impiegate dai governi oligarchici per il sor­ teggio. La discrepanza non deve stupire: lo statuto del sorteggio nella città antica è annoso e complesso problema . In Costituzione degli Ateniesi, 43 ss. si delinea una fisionomia inequivocabilmente democratica del sorteggio, in conformità con alcuni passi della Politica. Complicano però il quadro Politi­ ca, II, 12, 1273b 35-1274a 21, dove Solone viene descritto come conservatore del­ l'elezione oligarchica e Costituzione degli Ateniesi, 8, r, dove ancora Solone appare ideatore d'un sistema intermedio tra il sorteggio democratico e l'ele­ zione oligarchica (Glotz, 1956, pp. 247 s s . ; Camassa, 1982, p. 8r; Demont, 2ooo) . Il fatto che Aristotele, secondo Diogene Laerzio, veda nell'elezione con la fava una pratica tipicamente oligarchica si giustifica perfettamente in un quadro così contraddittorio. Ma qual è l'intenzione di Luciano? Evocare, sembrerebbe, il topico coinvolgimento politico dei sapienti (filosofi) nelle vi­ cende delle città in cui hanno vissuto. Pitagora svolse del resto, secondo la tradizione, il ruolo di mediatore e ispiratore politico nella città di Crotone, se non anche in altre della Magna Grecia. Ora, certamente Pitagora si attesta su posizioni oligarchiche e il fatto che Luciano citi espressamente la democrati­ ca Atene come luogo per eccellenza del sorteggio elettorale potrebbe ride­ scrivere così il significato del precetto pitagorico: astenersi da qualsiasi coin­ volgimento nei regimi democratici. Va notato da ultimo che, nel riferire la ce­ lebre rivolta dei Crotoniati contro Pitagora e i suoi seguaci, Giamblico, Vita di Pitagora, 254 ss. riporta il discorso di un oratore schierato contro il sapien­ te, un popolare dal nome Ninone, il quale invitava i concittadini ad aggredi­ re i pitagorici quando stavano per votare o per prendere la scheda del voto. r8. Ancora un'allusione al tema platonico dell'anima nuda, per cui cfr. su­ pra, nota r . 19. Persino nuda, l a vita pitagorica risulta ornata e contraffatta ! I n ogni caso, l'allusione è qui a uno dei molti aneddoti leggendari della vita di Pita-

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gora (cfr. Eliano, Storie varie, IV, 17) . Il motivo della coscia d'oro come su­ prema impostura torna in Luciano nell'Alessandro, 38, 40. 20. Secondo la tradizione, Pitagora era venerato a Crotone come uomo divino e addirittura come Apollo iperboreo (!'Apollo del Nord, ispiratore de­ gli sciamani) : cfr. Eliano, Storie varie, II, 26; Diogene Laerzio, VIII, n; Giam­ blico, Vita di Pitagora, 140. 21 . Il prezzo è piuttosto basso. Si tratta pertanto di una sapienza solo ap­ parentemente straordinaria, ma in realtà dappoco. 22. Il numero dei compratori, 300, e la loro provenienza, Crotone, si ri­ ferisce a una tradizione precisa e, in particolare, al coinvolgimento politico di Pitagora. Sono principalmente Porfirio, che riferisce Dicearco ( Vita di Pila­ gora, 56), e Giamblico, che riferisce Apollonia ( Vita di Pitagora, 248-251 e 254 ss. ) , a narrarci la storia. Giamblico, in particolare, afferma che la comunità riunitasi intorno a Pitagora a Crotone era di 300 cittadini illustri: erano essi diventati reggitori della città. Contro i pitagorici mosse la restante parte dei Crotoniati capeggiati da Cilone, un cittadino ricco e famoso che era stato escluso dai 300, alleatosi alla fazione detta popolare. 23 . È questa la vita di Diogene di Sinope, filosofo cinico, vissuto nel IV secolo a . C . , allievo del socratico Antistene fondatore della scuola. In realtà, la linea di continuità Antistene-Diogene-cinici, data per scontata da tutta la tradizione antica, è stata messa in dubbio dai moderni (Giannantoni, 1993) . 24. È qui riprodotta la tipica mise trasandata del cinico: mantello usura­ to, bastone, bisaccia. 25. Ermes mette all'asta una vita libera, mentre il cliente intende un uo­ mo libero: di qui la battuta da commedia. In realtà, si allude parodicamente alla vera e propria ideologia della libertà professata da Antistene e poi dai ci­ nici: la libertà è una forma di sovranità su se stessi che solo la virtù può dare, cfr. Stobeo, Florilegio, III, ro, 9 1 . 2 6 . Si fa qui riferimento all'assoluto disinteresse del cinico per l e condi­ zioni di vita esterne e alla sua scelta totalmente autarchica. In realtà, dietro questa indifferenza nei confronti delle condizioni di vita sta il precetto ami­ stenico dell'unità di tutti i beni, per cui, se si possiede il vero bene, cioè la virtù, si possiedono anche tutti gli altri, come ricorda Diogene Laerzio, VI, n, 12. 27. I cinici prendevano il loro nome dal ginnasio di Cinosarge ad Atene, dove Antistene raccoglieva i suoi discepoli. Con un gioco di parole, Diogene fu chiamato poi " cane" per la vita volutamente misera da lui condotta. 28. Per «cosa fai?» il greco ha tfna tiskesin epangélletai. Askest5 è parola tecnica che metaforizza, in Antistene, l'esercizio intellettuale, cfr. SSR VA r6J: >, 89c 6-n. È stato notato che il richiamo a Eracle non solo non è puramente esornativo, ma è funzionale a ri-mitizzare l'immagine del filosofo (Loraux, 1991b; Stella, 1998, pp. 242 ss. ) . 3 1 . L a metafora bellica è, anche questa, tradizionalmente antistenica. Cfr. Diogene Laerzio, VI, 3, che cita Diocle, dove la virtù compare come arma e la filosofia come una battaglia di pochi beni contro la totalità dei mali. Il riferi­ mento è alla nota polemica antiedonistica di Antistene e dei cinici. Diogene Laerzio afferma che Antistene andava ognora ripetendo di preferire la follia alle sensazioni e dunque al piacere che ne poteva derivare. E tuttavia già in Platone è largamente presente la metafora della dialettica come battaglia, ma­ che (Canino, 1998 ) . 3 2 · Luciano accentua l'aspetto della volontarietà, come indicano i termi­ ni ekousios, proairoumenos e ou keleust6s. Abbiamo qui ancora un riferimen­ to al volontarismo eraclea. E, tuttavia, il termine proairoumenos può riman­ dare alla proairesis stoica, in particolare a Epitteto, cioè alla scelta prelimina­ re che il soggetto deve esercitare su ciò che è buono e su ciò che non lo è (Ha­ dot, 2006, pp. 33- 5 ) . 33· I l greco ha pathe, cioè stati e/o affezioni dell'animo, ovvero emozioni e pulsioni: il tema della purificazione delle emozioni è connesso a quello del­ la " guerra al piacere " . 34- Libertà di parola: parrhesia. Diogene era considerato dalla tradizione un vero e proprio teorico della parrhesia, cfr. Diogene Laerzio, VI, 69, al pun­ to da trasformarla in anaideia, sfrontatezza, cfr. Diogene Laerzio, VI, 32; 46; 69 . 35· «Sgobbare e sudare>>: il greco ha ponos, con riferimento alle fatiche di Eracle. 36. Quanto all'abbandono di casa, parenti, padre, madre e patria, è im­ pressionante la vicinanza del testo lucianeo con quanto Epitteto fa dire a Dio­ gene su Antistene: «Egli mi ha insegnato ciò che dipende da me e ciò che non dipende da me: la fortuna non dipende da me, i parenti, gli amici, la reputa­ zione, il posto dove vivo, il modo di vivere, niente di tutto questo dipende da me>>, cfr. Diatribe, III, 24, 67-68. Quanto al disprezzo del buon nome, cfr. an­ che Diogene Laerzio, VI, n.

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37· E noto che Diogene sapesse vivere anche in una botte. Quanto alla torre, Diogene Laerzio, VI, 98 riporta due versi dalle tragedie del cinico Cra­ tete, allievo di Diogene, che così recitano: «La mia casa non è una torre, non è un tetto, ma dove ci è possibile vivere l bene, in ogni punto di tutto l'uni­ verso, lì la mia città, lì la mia casa». Si noti anche il riferimento all'inclinazio­ ne cosmopolita. 38. Si sancisce qui l'equivalenza già antistenica di dolore/fatica e bene, per cui cfr. Diogene Laerzio, VI, 2. Nel contesto lucianeo, questa equivalenza diventa addirittura una felicità maggiore di quella del Gran re di Persia . 39· Citazione da Euripide, Ippolito, 612. 40. Da qui in poi la strategia del discorso cambia. Luciano rappresenta ora la degradazione della filosofia cinica e antistenica a mero esibizionismo finalizzato all'acquisto di una facile notorietà. 41 . Se finora Luciano ha riprodotto la tradizione antistenica, ecco che adesso se ne distacca. Antistene era un fiero avversatore del piacere sessuale, come attestano le testimonianze, cfr. SSR VA 127-128 . L'invito a praticare un ses­ so " strano" è tipico di Diogene. Racconta Diogene Laerzio, VI, 46 che un gior­ no Diogene si stava masturbando nella piazza del mercato e, nel bel mezzo di quell'occupazione, andava dicendo: «magari mi passasse la fame scrollando­ mi così anche la pancia ! >>. 42. Paideia e logos, dice il greco. Nella filosofia antistenica la paideia, l'e­ ducazione, e l'esercizio del logos, non solo come razionalità, ma come lin­ guaggio finalizzato alla ricerca della virtù, erano centrali. La prospettiva di Antistene è qui brutalmente rovesciata. 43 · Il greco dice epitomos haute sai pros doxan be hod6s, cioè, letteral­ mente, «questa è la via breve alla notorietà>>. Luciano sta evidentemente pa­ rafrasando un'espressione proverbiale, riportata da Diogene Laerzio, che si era soliti ripetere nella dossografia e nella manualistica a proposito dei cini­ ci, individuando appunto nella condotta di vita cinica la via breve verso la virtù, cfr. Diogene Laerzio, VI, ror «Come Aristone di Chio, [i cinici] bandi­ scono la logica e la fisica e si dedicano solo all'etica>>, per indicare «la via bre­ ve verso la virtù (ryntomon ep'aretèn hod6n)>> (cfr. anche VII, 121 e Goulet­ Cazé, 1986) . Luciano stravolge parodicamente l'espressione trasformando la via breve alla virtù nella via breve al successo. 44· Altro brutale rovesciamento dell'etica cinica che non ricerca la fama. Ma forse, nel riferimento ai calzolai, ai pescivendoli, ai carpentieri e ai cam­ biavalute, deve essere letta anche un'allusione al noto motivo socratico, così forte nei dialoghi platonici, del ta hautoii prattein (del " fare quello che è pro­ prio a ciascuno" ) , per cui ogni uomo dovrebbe perseguire e realizzare ciò che gli è proprio. In Platone il ta hautoii prattein ha un significato evidentemen­ te politico, poiché è proprio del popolo ubbidire e dei filosofi comandare o suggerire soluzioni di governo. Rimandiamo, per tutto questo, a Repubblica, 433a-444c, in cui l'ozkeiopragia (434c 8 ) , l'occuparsi di quanto è proprio a cia­ scuno, si contrappone alla polypragmoryne (444b 2) , la sovrapposizione di tut­ ti i ruoli sociali e morali. 45· È questa la vita di Aristippo di Cirene, fondatore della cosiddetta scuola cirenaica, discepolo di Socrate.

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46. Il ritratto lucianeo di Aristippo, compreso il suo cultus raffinato, to­ talmente opposto a quello di Diogene, allude a quella che si potrebbe chia­ mare l'ideologia del piacere cui questo discepolo di Socrate e la sua scuola si appellano. Fulcro della filosofia cirenaica è l'identificazione del piacere con il bene, dove il bene, agath6n , è contemporaneamente " bene " e " buono " , cioè piacevole. Tutti i beni/piaceri s i equivalgono i n nome d i questa unità, cfr. Diogene Laerzio, II, 87. Ciò poteva anche raggiungere risvolti più estremi: Diogene Laerzio, II, 88 afferma infatti che per Aristippo il piacere è un bene anche se nasce dalle cose più indecenti e anche se induce ad azioni sconve­ nienti. Il ritratto che qui si fa di Aristippo, completamente ubriaco, dedito al sesso e al cibo, deve essere ricondotto a questa tradizione. 47· Aristippo non parla. In Contro i matematici, VI, 53, Sesto Empirico ri­ ferisce che, secondo i cirenaici, tutto era " affezione" , pathos, e che quindi la voce, la phoné, non essendo affezione, non doveva essere considerata tra le co­ se reali. C'è, dunque, in questo silenzio, una parodia dell'aphonie cirenaica? 48 . Tutto il modo in cui viene rappresentato Aristippo ricorda il celeber­ rimo ritratto di Alci biade in Simposio, 212 ss. Come è noto, Alcibiade arriva a cena da Agatone, all'improvviso e senza invito, completamente sbronzo tan­ to da non poter reggersi in piedi e doversi sostenere appoggiandosi agli ami­ ci e a una flautista. 49 · Sophistès hedypatheias, dice il greco. Hedypdtheia è termine tecnico che indica " il movimento dolce accompagnato da sensazione " , come dice Diogene Laerzio, II, 85 (per i cirenaici la sensazione/percezione, aisthesis, è movimento, kinesis) , " movimento" espressamente definito hedypdtheia da Ateneo, XII, 544a. 50. Si tratta di Democrito di Abdera e di Eraclito di Efeso, qui venduti in coppia perché complementari nelle loro manifestazioni timiche, il pianto e il riso. La coppia del piagnone e del burlone compare per la prima volta, a quanto sappiamo, in un frammento Sull'ira di Sozione, maestro di Seneca, conservato da Stobeo, Florilegio, III, 20, 53· C'è poi la testimonianza di Lu­ ciano stesso. Quanto al Democrito che ride lo troviamo in Cicerone, De ora­ tore, Il, 58, 235; Orazio, Epistole, Il, r, 194; Giovenale, X, 33, 47· 51. Democrito, come Eraclito, parla ionico. Anche Pitagora parla ioni­ co, ma in forza di una strategia completamente diversa. L'effetto che Lucia­ no vuole sortire attraverso la parlata ionica di Pitagora è decisamente sa­ pienziale o, meglio, para-sapienziale. La verbalità di Democrito e di Eracli­ to è invece tutta tesa a creare un effetto esclusivamente timico o, meglio, ci­ clotimico, dall'estremo riso al pianto estremo, ripercorrendo, sul filo di una parodica evocazione, la memoria del riso comico e del pianto tragico. Ab­ biamo dunque deciso di rendere lo ionico di Democrito con il linguaggio dell'opera buffa ( cfr. infra, nota 52) e quello di Eraclito con il linguaggio del­ l' opera seria. 52. Parafrasiamo qui, e nella battuta successiva di Democrito, i versi fi­ nali del Falstaff di Verdi-Boito, atto III, parte II, che così recitano: «Tutto nel mondo è burla. l L'uom è nato burlone. l La fede in cor gli ciurla, l gli ciur­ la la ragione. l Tutti gabbati ! Irride l l'un l'altro ogni mortai. l Ma ride ben chi ride l la risata finai>>.

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53· Si mette alla berlina la nota teoria atomistica di Democrito. Il vuoto

(keneà panta) e gli atomi sono i due principi del cosmo democriteo. Cfr. a questo proposito almeno le testimonianze di Diogene Laerzio, IX, 44 e Sim­ plicio, Il cielo, 294, 33, che riporta Aristotele (fr. 208 Rose ) . Quanto all'infi­ nità, apeirfe, degli atomi, si allude evidentemente all'altrettanto nota teoria democritea dei mondi infiniti. 54· È la dottrina eraclitea dell' ekpyrosis, secondo cui il cosmo è periodi­ camente sconvolto da una conflagrazione universale dalla quale riparte un al­ tro ciclo ( cfr. Diogene Laerzio, IX, r, 8 ) . Gli stoici hanno avuto un ruolo fon­ damentale nell'attribuzione a Eraclito di questa credenza. Aezio, II, 32, 4 (Doxographi Graeci, p. 364 = 22 B 13 DK) connette l' ekpyrosis eraclitea a quel­ la stoica di Diogene di Babilonia ed entrambe al cosiddetto grande anno co­ smico, cioè al periodo di tempo impiegato dal sole, dalla luna e dai pianeti per ritornare alla loro posizione originaria. Questo grande anno consterebbe per Eraclito, secondo Aezio, di 10.8oo anni solari. 55· Queste parole hanno tutta l'aria d'essere un patchwork eracliteo. Il motivo è quello della compresenza, se non coincidenza , degli opposti in un'unica forma, espresso allegoricamente da Eraclito nella nota affermazio­ ne: «La via all'insù e quella all'ingiù sono una sola e la stessa>> (hodòs ano ka­ to mia kai he aute' ) , cfr. 22 B 6o DK. Si noti che G. S. Kirk (1954, p. 109) cita proprio questo passo delle Vite lucianee, considerandolo come una riformu­ lazione del citato aforisma eracliteo. D'altra parte, la presenza dei due av­ verbi ano kato accanto al participio (panta) perichoréonta appare un esplici­ to richiamo all'immagine della duplice "via " , mentre il verbo perichoréo al­ lude alla celeberrima definizione platonica dell'insegnamento di Eraclito da­ ta in Crati/o, 402a: panta choret, «tutto scorre>>. Vale la pena di citare un pas­ so pseudo-ippocratico, Sulla dieta, 1 , 5 (il testo è generalmente ritenuto di IV secolo a . C . ) , intessuto di echi eraclitei, linguisticamente e retoricamente as­ sai vicino al testo di Luciano: «Tutto scorre (chorei te panta): l'umano e il di­ vino si scambiano (ameib6mena) dall'alto in basso dal basso in alto (ano ka­ to)>> . Si nota, nel testo di Luciano, parallelamente a quello di attribuzione ip­ pocratica, la presenza dei verbi choréo e amefbomai insieme al nesso avver­ biale ano kato. In particolare, amefbomai esprime in Eraclito l'azione per ec­ cellenza del fuoco cosmico, come risulta dall'aforisma: pyròs antamoibé ta panta kai pyr hapdnton, «tutto si cambia in fuoco e il fuoco in tutto>>, cfr. 22 B 90 DK (su tutto questo cfr. West, 1993, pp. 168-72) . 56. Il ciceone era bevanda sacra somministrata all'iniziando nei misteri eleusini: «Ho digiunato, ho bevuto il ciceone, ho preso dal cesto coperto, ho lavorato e ho rimesso nel cesto alto e da lì nell'altro cesto>>. Questo avrebbe detto l'iniziato d'Eleusi secondo la testimonianza di Clemente di Alessan­ dria, Protrettico, 21 , 2, che riporta il synthema, cioè la formula pronunciata dagli adepti alla fine del rituale. Il ciceone era in realtà una sorta di zuppa d'orzo, acqua e menta e si beveva in ricordo di quel ciceone che Demetra stessa, secondo l'Inno a Demetra, 192-211, aveva ingerito per dissetarsi du­ rante le sue peregrinazioni in cerca della figlia Kore. È evidente che nel pas­ so lucianeo il ciceone diventa una metafora cosmologica: il cosmo sarebbe, come il ciceone, una mescolanza i cui componenti convivono distinti e con-

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fusi insieme. La tradizione attribuisce effettivamente a Eraclito questa me­ tafora (Teofrasto, La vertigine, 9, III, 138 Wimmer = 22 B 125 DK). Ma fonda­ mentale è la mediazione stoica: Marco Aurelio, Pensieri, IV, 27; VI, w; IX, 39 definisce ciceone la mescolanza del divenire, mentre Plutarco attribuisce a Crisippo la metafora del ciceone come immagine del perpetuo movimento universale, cfr. Sulle contraddizioni degli Stoici, 34, 1049f. 57· L'ai6n è l'eternità, intesa come tempo eterno del cosmo. Pare effetti­ vamente che Eraclito sia stato il primo a personificare ai6n: nel celeberrimo frammento 22 B 52 DK, esso è descritto come un fanciullo divino e regale che muove le pedine nel gioco della dama: «L'eternità è un fanciullo, che gioca e muove le pedine: la regalità è nelle mani di un fanciullo». Clemente di Ales­ sandria identifica in Pedagogo, I, 22 l' ai6n con Zeus . 58. Anche in questa battuta e in quella successiva si riproduce uno dei no­ ti aforismi eraclitei. Il frammento 22 B 62 DK dice: «Gli immortali sono mor­ tali, i mortali immortali, che vivono la loro morte e muoiono la loro vita». Qui mortalità e immortalità sono legate tra di loro come accade in Eraclito per ogni altra coppia di opposti. 59 · Il legame di Eraclito, del suo linguaggio, con quello dell'oracolarità delfica è più che evidente. L'intento del sapiente è precisamente quello di pre­ sentare sé come prophétes del dio e il proprio sapere come conoscenza di ori­ gine divina. D'altra parte il frammento 22 B 93 DK recita : «Il signore, cui ap­ partiene quell'oracolo che sta a Delfi, non dice, né nasconde, ma accenna». Tutta la sapienza eraclitea vuole dunque rifare il gioco dell'oracolo di Delfi, che non enuncia verità, ma soltanto vi allude. 6o. Si tratta di Socrate. Quanto al «chiacchierone» (in greco stomylon) , il riferimento è alla ben nota pratica della diatribé, conversazione dialogata, socratica. Il dialogo è condotto da Socrate preferibilmente e prevalentemen­ te con i bei giovani ( cfr. infra, nota 61 ) . E già all'interno della scrittura plato­ nica la mania di Socrate di intrattenersi tutto il giorno a parlare coi ragazzi è stigmatizzata da Callide nel Gorgia, 484c 4-486d 1 . 6 1 . Socrate s i presenta dunque come pederasta, paiderastés, amante dei (bei) ragazzi e sophòs ta erotzkd, maestro del desiderio. Luciano coglie, per metterlo poi alla berlina, uno dei motivi centrali della scrittura platonica e, di conseguenza, uno dei tratti fondamentali del Socrate platonico. In Simposio, 216d 2-3 Alcibiade afferma: «Socrate lo vedete sempre tutto in amore con i bei ragazzi (erotzkòs didkeitai tòn kalòn) . E gira sempre loro intorno e fa l'im­ bambolato». All'inizio del Protagora, 309a, poi, l'anonimo amico chiede a So­ erate: «Da dove spunti, Socrate? Sicuramente sei andato come al solito a cac­ cia del bell'Alcibiade. Anch'io l'ho visto recentemente e mi è sembrato pro­ prio ancora un bell'uomo, ma uomo fatto, Socrate, che ormai gli spunta bar­ ba ! » . Nel Carmide, Socrate confessa di essere arrossito e rimasto senza fiato per aver intravisto il pube del bellissimo Carmi de tra le pieghe lente della ve­ ste: «Ed io, caro amico mio, vidi ciò che nascondeva la veste e mi attraversò una vampata ! Persi il controllo di me stesso e pensai che era Cidia il più sa­ piente maestro dell'amore, quando disse, parlando a un amico di un bel fi­ gliolo: " guardati, cerbiatto, dal portar via ad un leone la sua parte di carne" ! » (155d 3-7) . Quanto all'essere sophòs ta erotikd, v a ricordata l a scena centrale

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del Simposio, quella in cui Socrate si presenta come ammaestrato nelle " cose d'amore " , dalla sapientissima sacerdotessa Diotima, cfr. 20Id-2I2C 3· Nell'in­ tero Fedro, infine, Socrate compare come maestro assoluto dell'eros, forma di invasamento creativo e speculativo. Scena d'amore privata e quasi " coniu­ gale " , per la sua intimità e tenerezza, è invece l A ' lcibiade I, dove, a un Alci­ biade ormai maturo e prossimo all'esordio nella vita pubblica ateniese, So­ crate dichiara tutto il suo rapimento, con una formula divenuta celebre: «Ii mio amore per te sarà in tutto simile a quello della cicogna: coverò in te un amore alato che poi, in cambio, sarà circondato dalle tue cure ! » (IJ5e I-J) . È noto che nella scrittura platonica l'eros e la bellezza sono una delle vie fon­ damentali, se non la via principale, la più alta, alla conoscenza e alle forme d'arte in cui essa si esprime. Ma Luciano, come le regole della degradazione parodica impongono, rescinde tutto l'aspetto intellettuale dall'eros platonico e dunque dall'eros socratico per non !asciargli che l'aspetto più propriamen­ te carnale, soprattutto attraverso le risposte disincantate del cliente. Socrate ne esce come un vecchio un po' lubrico e costantemente infoiato. 62. Tipica situazione del dialogo platonico, quella che vede un padre al­ la ricerca d'un buon maestro per i figli: è il caso del Lachete, ma anche del Teagete. E tuttavia, più in generale, il paradigma maestro-allievo sta sullo sfondo della maggior parte dei dialoghi. Ma va notato come, prima ancora che dal dialogo platonico, questa situazione sia stata messa in scena dalla commedia aristofanea, nelle Nuvole. 63. I.: allusione è assai specifica a un passo del Simposio platonico. Si trat­ ta del discorso di Alcibiade, verso la fine del dialogo, là dove il giovane rac­ conta di una notte passata con Socrate. Egli aveva invitato Socrate a cena, mentre i suoi genitori erano assenti, e, già innamorato di lui, aveva fatto di tutto per trattenere il più a lungo possibile l'amico, onde averlo con sé anche l'intera notte: così fu. Quando Socrate si decise a dormire da Alcibiade, il gio­ vane gli propose di diventare suo amante offrendogli la protezione del nome e della ricchezza, oltre che la sua bellezza fisica, in cambio di consigli, guida e ammaestramento alla filosofia. Alcibiade si infilò quindi sotto il mantello di Socrate e allacciò le braccia intorno al suo corpo, precisando infine: «mi al­ zai la mattina successiva come se avessi dormito con un fratello maggiore o con mio padre», cfr. 2I9d I-2. 64. La battuta è , in realtà, piuttosto pesante, perché allude, evidente­ mente, al processo per empietà (e corruzione dei giovani) intentato contro Socrate nel 399 a . C . da Anito e Meleto, all'indomani del rientro in Atene dei democratici fuorisciti e nonostante il celebre decreto d'amnistia . Secondo Diogene Laerzio, II, 40 e Senofonte, Memorabili, I, I, I, e come Platone stes­ so conferma nell'Apologia, 24b 8-c 3 (ma cfr. anche Eutz/rone, 3b- d ) , l'accusa di empietà, in greco graphè asebeias, contro Socrate, si articolava in tre pun­ ti: Socrate non riconosce gli dèi che la città riconosce; Socrate introduce nuo­ ve divinità, kainà daim6nia; Socrate corrompe i giovani. In questo contesto, ci interessa particolarmente il secondo punto della graphè asebeias, cui Lu­ ciano si riferisce intenzionalmente. Le " nuove divinità " sarebbero qui il cane e il platano. Nei dialoghi platonici, spesso Socrate esordisce in sonori «por­ co cane ! » ( celebre è quello, ne ton kyna, di Pedone, 98e 5 ) . Quanto invece al

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giuramento sul platano, si allude con molta precisione a Fedro 236d 10-e 3, do­ ve Fedro, nel tentativo di convincere Socrate a pronunciare un contro-di­ scorso in risposta a quello di Lisia, afferma: «Ti giuro . . . per chi vuoi che giu­ ri, eh ? Per chi? Vuoi che giuri per questo platano qui? Che se non fai il tuo discorso, io, davanti a questo platano, non ti mostrerò mai più e non ti par­ lerò mai e poi mai più di nessun altro discorso di chicchessia ! >>. Il tono è ap­ parentemente scherzoso anche nel Fedro: poco prima, 229c 4 ss., Fedro ave­ va tendenziosamente chiesto a Socrate se credeva nel vecchio mito del rapi­ mento di Orizia da parte di Borea e Socrate aveva risposto di sì, se non altro perché non aveva tempo da perdere a razionalizzare su Ippocentauri, Chi­ mere, Gorgoni e Pegasi, quando non conosceva ancora se stesso ! Il giura­ mento sul platano è dunque dichiaratamente un po' denigratorio nei con­ fronti degli dèi e dei racconti tradizionali. 65. Luciano allude al Platone politico della Repubblica (ma non è esclu­ so un riferimento alle Leggi) . Gli elementi caratterizzanti di quest'allusione sono: la città tutta per sé, l'ordinamento straniero e le leggi personali. Non è vero, innanzitutto, che Socrate plasmi nella Repubblica una città per se stes­ so, semmai essa è immaginata per i ram polli dell'alta società ateniese come Glaucone e Adimanto, i fratelli di Platone, che costituiscono nel dialogo gli interlocutori privilegiati di Socrate . Verrebbe anzi il lecito sospetto che, da una città come quella della Repubblica, Socrate rischierebbe d'essere il primo escluso. Se Luciano stravolge così il senso della Repubblica platonica lo fa, senza dubbio consapevolmente, ispirandosi a un tipico motivo comico ari­ stofaneo: il progetto assurdo del buffone comico, egoisticamente individua­ listico e ridicolo. Due soli esempi: la pace tutta per sé che Diceopoli negli Acarnesi vuole stipulare privatamente con Sparta e, soprattutto, la città aerea che la coppia comica Pistetero-Evelpide vuole edificare per stanchezza e de­ lusione nei confronti della città in cui abitano. Lo stesso dicasi per le leggi pri­ vate. Quanto all'ordinamento straniero, Luciano allude quasi sicuramente al­ le posizioni (da intendersi in senso molto lato) filolaconiche di Platone nella Repubblica e nelle Leggi, come, ad esempio, la costituzione di una comunità guerriera elitaria, la funzionalizzazione della donna alla città-accampamento, l'abolizione della proprietà privata. E va ricordato, a questo proposito, che gli interlocutori dell'anziano e anonimo ateniese nelle Leggi sono un genera­ le spartano, Megillo, e un notabile cretese, Clinia . 66. È la famosa pensata della comunanza di donne e figli, che nella Re­ pubblica stessa, nel quinto libro, è presentata da Socrate come una posizione rischiosa e immediatamente esposta al ridicolo. Il discorso platonico è in realtà estremamente serio perché adombra il problema del controllo eugene­ tico in una possibile città perfetta. Luciano gioca su un piano di forte degra­ dazione comica, facendo passare l'idea di Socrate come progetto di una gran­ de orgia collettiva. Va da sé che l'abolizione della legge sui puttanieri non è elemento platonico, e nemmeno la proposta di dare i ragazzini in premio al letto degli uomini migliori: Luciano fa qui parlare Socrate come la Prassago­ ra delle Ecclesiazuse aristofanee, l'eroina comica che si fa capofila d'una so­ cializzazione di tutti i beni, di tutte le proprietà e di tutte le attività compre­ se quelle sessuali, legiferando puntualmente sull'ordine in cui, ad esempio, le

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brutte e vecchie devono fare sesso prima delle belle e delle giovani onde non essere escluse dai privilegi della riforma . 6 7 . Dopo l'erotico e i l politico, veniamo all'aspetto più strettamente teo­ rico della filosofia platonica. Luciano mette sullo stesso piano le " idee " , idéai, come " paradigmi dell'essere " , ta ton onton paradeigmata, e le " immagini in­ visibili " , eik6nes aphanets, che stanno fuori dall'essere, confondendo voluta­ mente l'uso platonico dei termini " idea " e " immagine " . " Immagine " , nella speculazione platonica, è l'effetto di riproduzione sostanzialmente priva di verità sortito da tutti i sa peri che si fondano sull'opinione: si tratta dunque di un termine non sovrapponibile a quello di idea e di paradigma . A titolo d'e­ sempio, cfr. lo statuto dell'immagine in Repubblica, V, 598b ss. 68. All'apparente assurdità della risposta di Socrate, sta sotteso il princi­ pio che le idee non possono avere una consistenza sensibile, poiché godono esclusivamente di verità antologica. 69. Tutto è doppio, dice Socrate. Qui Luciano si fa sostenitore parodico di un'interpretazione della cosiddetta filosofia platonica delle idee che a tutt'oggi è accreditata e annovera copiose bibliografie. Si tratta della cosid­ detta " teoria dei due mondi " , per cui, posto che esista un mondo delle idee intelleggibili in quanto essere e modelli di tutte le cose esistenti, il mondo del­ le cose esistenti risulterà essere una mera copia o immagine dell'essere, un mondo parallelo di particolari sensibili, soggetti a sensazione e opinione (Fer­ rari, 2000, pp. 394- 5, nota 4) . 70. Dione, cognato di Dionigi, tiranno di Siracusa, è il celebre compagno d'avventure politiche di Platone. L'incontro tra i due avvenne nel 388 a . C . , in occasione del primo viaggio di Platone in Sicilia. Rimandiamo il lettore alla narrazione della celeberrima Lettera VII platonica. 71. Si tratta di Epicuro e del genere di vita a lui ispirato. 72. Tutto il ritratto di Epicuro che segue riproduce gli stereotipi della lunga tradizione di calunnie costruita intorno alla figura del filosofo, a parti­ re dalla questione del " furto di idee " che Epicuro avrebbe perpetrato ai dan­ ni di Democrito e di Aristippo. Diogene Laerzio, X, 4 apre il racconto della vita di Epicuro con la rassegna di tali calunnie, diffuse soprattutto dagli stoi­ ci (da Diotima a Posidonio, ma è nominato anche Dionigi di Alicarnasso) , se­ condo i quali egli avrebbe spacciato per proprie la dottrina atomistica di De­ mocrito e quella edonistica di Aristippo. Fare di Epicuro un allievo di De­ mocrito e di Aristippo era dunque un topos della tradizione dossografica. Va notato che Luciano non associa Epicuro a Democrito per la dottrina atomi­ stica, ma per l'attitudine al riso ( come del resto è per l'attitudine al vino e al­ la gozzoviglia che il filosofo viene associato ad Aristippo) . Il riso è un motivo importante nella filosofia epicurea, come risulta da Sentenze vatican e, 41 : «Ri­ dere e filosofare e attendere alla vita quotidiana e a tutto quello che la con­ cerne e non cessare mai di far risuonare le parole della retta filosofia», dove il riso è simbolo della libertà e della superiorità del sapiente. n L'empietà di Epicuro, dyssébeia, è un altro topos della tradizione. In realtà, Epicuro mai rinnegò l'esistenza degli dèi, come risulta dall' Epùtola a Meneceo, I2J: «Innanzitutto credi che la divinità è un essere vivente incorrut­ tibile e felice, come attesta la comune nozione del divino, e non aggiungerle

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nulla che sia estraneo all'incorruttibilità o alieno alla felicità [. . . ] . Gli dèi in­ fatti esistono: la conoscenza che noi ne abbiamo è evidente, ma essi non so­ no quello che i più credono che siano, perché essi sconfessano ciò che essi stessi credono degli dèi. Empio (asebés) non è chi rinnega gli dèi dei più, ma chi agli dèi aggiunge le opinioni dei più: [ . .. ] poiché sono false supposizioni ciò che i più esprimono sugli dèi>>. Come si vede, compare in questo passo lo spettro dell'accusa di empietà contro i filosofi che rinnegano la communis opi­ n io sugli dèi della tradizione. 74· La golosità di Epicuro era diventata falsamente proverbiale. Dioge­ ne Laerzio, X, 7 ci informa che, secondo le calunnie antiepicuree, il filosofo era solito spendere una mina al giorno per mangiare. In realtà, da quanto ci resta, sappiamo che Epicuro esortava costantemente alla frugalità, come ri­ sulta, ad esempio, dall'EpiStola a Meneceo, 131: «l cibi poveri danno lo stesso piacere di quelli elaborati, quando il dolore del bisogno sia interamente spa­ rito; e pane ed acqua danno il piacere supremo, quando se ne cibi chi ne ha bisogno. Abituarsi a un regime semplice e povero è dunque salutare e rende l'uomo pronto alle necessarie occupazioni della vita>>. 75· I cibi dolci sono qui, evidentemente, metafora dell'invito epicureo a ricercare il piacere. Un piacere che non va tuttavia frainteso, come lo fu assai spesso dalla tradizione polemica o meno colta. Riportiamo qui un passo mol­ to significativo dell'EpiStola a Meneceo, 131: «Quando dunque diciamo che il fine è il piacere, non intendiamo i piaceri dissoluti o quelli che consistono nel­ l' esteriorità - come credono alcuni che o sono ignoranti o dissentono da noi o non ci comprendono bene -, ma il non soffrire dolore fisico e non avere tur­ bamento nell'anima>>. 76. Il testo greco dice «fichi della Caria>>. La merce della Caria era pro­ verbialmente scadente. Probabilmente Luciano vuole rifare il verso alla fru­ galità epicurea, recuperando dunque un tratto autentico, forse l'unico tratto qui autentico, pur nell'inversione parodica. 77· Si tratta della vita stoica, che si sovrappone alla figura di Crisippo. 78. Il saggio stoico è per antonomasia austero e altero. Sull'austerità del sag­ gio cfr. ad esempio SVF 3, 639, mentre sul suo distacco altero (megalophrosyne) cfr. ad esempio Marco Aurelio, Pensieri, III, n e X, 8 . 79· Parodia dell'eccellenza assoluta ed esclusiva accordata dagli stoici, più in generale, e da Crisippo, in particolare, al sapiente. Luciano elenca que­ ste qualità: bello, giusto, coraggioso, re, retore, ricco, legislatore. Di quasi tut­ te abbiamo riscontro puntuale nelle testimonianze antiche: sulla bellezza cfr. ad esempio Cicerone, I limiti del bene e del male, III, 75: «a ragion veduta si dirà [il saggio] bello, perché le fattezze della sua anima sono più belle di quel­ le del corpo>>; quanto all'attività legislativa, Clemente di Alessandria attri­ buisce al saggio, tra l'altro, l'arte del legislatore (nomothetiké, SVF 3 , 619 ) ; sul­ la conformità alla legge cfr. ad esempio Stobeo, Florilegio, II, 102 ( = SVF 3 , 614) ; sulla regalità cfr. ad esempio Diogene Laerzio, VII, 122: «Non solo i saggi so­ no liberi, ma anche re, non dovendo il potere del re obbedienza alcuna>>; sul­ la ricchezza cfr. ad esempio Stobeo, Florilegio, II, 101 ( = SVF 3, 593) : «Essi di­ cono che la vera ricchezza è il bene e la vera povertà il male [. .. ] . Per questo

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dicono che solo il filosofo è ricco e libero», ove si chiarisce che gli stoici allu­ dono a una ricchezza metaforica, rovesciata parodicamente da Luciano in ric­ chezza propriamente detta. Vogliamo inoltre rimandare al passo di Filone, La sobrietà, 56, 2, p. 226, 16 Wendland ( = SVF 3, 6o3 ) , che lascia al lettore misu­ rare quanto da vicino Luciano parodizzi, non solo sul piano ideologico, ma anche su quello retorico, il topos del catalogo di qualità attribuite al saggio stoico: «Lui solo [il filosofo] è di buona nascita perché ha adottato dio come padre [. .. ] ; non solo ricco, ma ricchissimo, perché prospera tra beni che so­ no i soli a essere abbondanti, pregevoli, non soggetti al tempo, ma di volta in volta nuovi e giovani; non famoso, ma illustre, perché non contaminato dal­ l' adulazione [ . .. ] ; lui solo è re, perché ha ottenuto da colui che su tutto è ege­ mone il dominio incontrastato di un potere illimitato; lui solo è libero, per­ ché si è liberato dalla padrona più oppressiva, la vuota opinione». Come si vede, la triplice anafora lucianea di monos fa il verso alla tipica anafora di monos che struttura gli elenchi stoici delle virtù riconosciute al filosofo. So. Il greco dice: ou [. . . ] eph 'hemin tautd estin . Nella speculazione stoica sul fato e sul libero arbitrio, l'espressione ta eph 'hemin e il suo opposto ta ouk eph 'hemin indica quelle scelte, quelle attività, quegli stati ecc. che sono o non sono soggetti all'individuo in quanto essere razionale nonostante il dominio indiscusso del fato, l'heimarméne, sull'intero cosmo. La tradizione attribui­ sce generalmente a Crisippo il tentativo di conciliare appunto il destino e la possibilità dell'uomo di esercitare le proprie facoltà ad agire, con l' argomen­ to - recitano le testimonianze - che l'impulso di cui sono dotati tutti gli esse­ ri viventi è relativamente dipendente dal fato. Tra le altre, sono importanti, sulla questione, le testimonianze di Alessandro di Afrodisia (Il destino, 26, p. 196, 13 Bruns = SVF 2, 984; 33, p. 205, 1 Bruns = SVF 2, 1001; 35, p. 207, 4 Bruns = SVF 2, 1003 ) , Origene (I principi, III, p. 108 Delarue = SVF 2, 988 ) , Cicerone (Il destino, 39) , Gellio (Notti attiche, VII, 2 ) . Quanto alla traduzione del to eph'hemin, alcuni rendono in italiano con il termine " libertà " , che a noi non pare tuttavia appropriato. Insoddisfacente ci pare anche la traduzione lette­ rale, assai diffusa, "le cose che sono in nostro potere" o " che dipendono da noi " , in quanto il to eph 'hemin è un vero e proprio sintagma tecnico-gergale stoico e la traduzione letterale appiattisce la specificità linguistica. Abbiamo dunque optato per la soluzione " cose arbitrali e non arbitrali " , pur forzando un poco l'italiano, perché da un lato essa scarta rispetto alla lingua d'uso, dal­ l' altro conserva etimologicamente il concetto di " arbitrio" che è la questione sottesa al to eph'hemin . 8 1 . I l greco dice adidphoron, letteralmente " indifferente " . I n Crisippo e nell'etica stoica l'indifferente è, secondo la definizione riferita da Diogene Laerzio, VII, 102, ciò che non è né bene né male in senso morale, come ad esempio vita, salute, piacere, bellezza, forza, ricchezza ecc. Nella traduzione conserviamo per traslitterazione il greco, poiché il termine " adiaforo" è in uso nella terminologia dell'attuale storiografia filosofica. 82. In greco proegména, cioè " preferibili " , il suo opposto essendo apo­ proegména, i " non preferibili " . Nell'etica stoica e crisippea ciò che è indiffe­ rente (adiaforo) sul piano morale ( cioè non è né bene né male) può tuttavia essere preferibile o non preferibile. Preferibile è ciò che ha un' apprezzabilità

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forte, non preferibile ciò che ha una decisa negatività, secondo, ad esempio, la testimonianza di Sesto Empirico, Contro i matematici, Xl, 59, ma cfr. anche Diogene Laerzio, VII, 105 e I27. Cicerone, I confini del bene e del male, III, 50, attribuisce il conio linguistico proegména, apoproegména a Zenone. Quanto alla traduzione italiana di proegménon , abbiamo seguito la soluzione che Ci­ cerone ne offre in I confini del bene e del male, III, 53, cioè «praepositum ve! praecipuum», da cui la nostra scelta di "precipuo" , poiché scarta rispetto al linguaggio comune. 83. In greco kataleptikè phantasia, che noi abbiamo reso con " apprensio­ ne immaginativa " per enallage. Nella gnoseologia stoica e crisippea in parti­ colare, almeno secondo la testimonianza di Aezio, Precetti, IV, 12, I (Doxo­ graphi Graeci, p. 401 , I4 = SVF 2, 54) , la phantasia è una rappresentazione che si produce in presenza di un oggetto reale, ad esempio il " cogliere con la vi­ sta il bianco " , in presenza di un oggetto bianco. Phantasia kataleptiké, poi, secondo, ad esempio, Diogene Laerzio, VII, 46, è una rappresentazione vera perché proviene dalla realtà o, come si diceva prima, si definisce in presenza di un oggetto reale e costituisce, pertanto, il criterio di verità. Secondo Sesto Empirico (Contro i matematici, VII, 242) katalepttkè phantasia è un vero e pro­ prio imprimersi e stamparsi nell'anima della cosa reale percepita e per Cri­ sippo, in particolare (Contro i matematici, VII, 227 ) , è un cambiamento del­ l' anima, come se l'anima subisse un'alterazione in contatto con l'oggetto pro­ duttore della phantasia. 84. In greco spoudaios. Nella terminologia stoica, e già con Zenone (cfr. ad esempio SVF I, 216), spoudaios è largamente sinonimo di saggio e soprat­ tutto di filosofo (Vegetti, I983, pp. 25 ss. ) . La figura dello spoudaios è già di Platone, dove gioca, tra l'altro, il ruolo del cittadino modello, cfr. ad esempio Repubblica, 423c-d. Se ne appropriano poi l'etica e la politica aristotelica (Ga­ staldi, 1987), da cui la trasmissione agli stoici. 8 5 . In greco symbama kai parasymbama, termini della semantica stoica. In particolare, rymbama è predicato, ciò che si predica d'un nome in una fra­ se (come «Socrate passeggia») , mentre parasymbama è ciò che si predica di un caso obliquo ( come «A Socrate dispiace», dove non si ha un vero e pro­ prio predicato, ma un para predicato, perché l'azione non è riferibile a un sog­ getto) , cfr. SVF 2, 184. Ora , sulla base dell'esempio di symbama e parasymba­ ma che Crisippo dà al cliente, i traduttori rendono in genere i due termini con "accidentale " e " sovraccidentale" ( " accidente" e " sovraccidente " ) , essendo infatti la zoppia di un uomo accidentale, cioè un accidente (nel senso aristo­ telico ) , ma la ferita che lo zoppo si procura inciampando sovraccidentale, ov­ vero un sovraccidente, in qualche modo restituendo la specificità terminolo­ gica dei due lessemi al valore comune del verbo da cui essi derivano, cioè sym­ baino, "accadere " . È indubbio che Luciano giochi su entrambi i piani, ma la semplice resa di symbama e parasymbama con " accidentale " e " sovracciden­ tale " opacizza tutta la specificità del contesto tecnico di provenienza . Abbia­ mo dunque reso symbama con " accidente predicativo" e parasymbama con "accidente para predicativo" , per salvare entrambi i livelli di significato. 86. La logica stoica e, in particolare, quella crisippea si erano sempre più raffinate in casistiche minuziosissime. Molti sono i libri di logica scritti da Cri-

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sippo e molte le trattazioni sui sillogismi, come appare anche da un rapido sguardo al catalogo delle opere offerto da Diogene Laerzio, VII, 189. 87. Ciò che qui viene illustrato da Crisippo al cliente è uno dei suoi co­ siddetti sofismi. Esso non ha soluzione, poiché, se il cliente rispondesse che il coccodrillo ha deciso di restituirgli il figlio, il coccodrillo replicherebbe no e se lo mangerebbe, mentre se dicesse che il coccodrillo ha deciso di non re­ stituirglielo, il coccodrillo consentirebbe e se lo mangerebbe comunque. Ma va segnalata qui la particolare raffinatezza della parodia lucianea . Le testi­ monianze antiche ci parlano effettivamente di un "argomento del coccodril­ lo" , cfr. SVF 2, 286, il quale consisterebbe in un ragionamento aporetico sul piano della predicazione (dporon en kategoriai) . Il nome di " coccodrillo" è dunque puramente metaforico, ma Luciano riconverte la metafora in signifi­ cato proprio (cfr. anche in/ra, nota 8 8 ) , facendo di un coccodrillo il protago­ nista del sofisma. È da notare, peraltro, che questo passo delle Vite è stato in­ corporato da von Arnim nella sua raccolta dei frammenti stoici e inserito nel­ la sezione sulla logica crisippea, cfr. SVF 2, 287. Tale inclusione fa pensare. Se un passo parodi co viene così antologizzato, c'è senz' altro una ragione, essen­ do la parodia rovesciamento puntuale di pratiche discorsive attestate e dun­ que specchio di ciò che viene parodizzato. Ma è anche vero che le Vite sono una parodia delle dossografie antiche, dei manuali antichi di storia della filo­ sofia e dunque del metodo con cui essi costruiscono la storia della filosofia, decontestualizzando e trasformando, tra l'altro, i testi letterari in fonti e do­ cumenti ( cfr. supra, pp. 55 ss. ) . Dell' " Elettra " non troviamo attestazione, per quanto fosse consuetudine degli stoici attingere al patrimonio mitico e tragi­ co (euripideo in particolare), nella confezione di sillogismi e sofismi, nonché di complesse analisi semantiche. Riportiamo infine la definizione di sofisma che ci viene da Galeno, V, p. 72 Ki.ihn ( = SVF 2, 272): «i cosiddetti sofismi, che sono ragionamenti falsi confezionati ad arte per sembrare veri. Il fatto che sia­ no falsi vien fuori dalla conclusione, che non è vera». 88. Quanto all"' incappucciato" e al " signore " , ne troviamo testimonian­ za presso le fonti antiche. Va qui segnalata, ancora come sopra, la particola­ re strategia lucianea, che trasforma i nomi dei sofismi crisippei, pure metafo­ re del tipo specifico di procedimento logico-linguistico sotteso al relativo so­ fisma, in nomi di significato proprio, sortendo così un effetto parodi co di par­ ticolare sottigliezza. Nel caso dell"' incappucciato" , ad esempio, il nome " in­ cappucciato" allude al seguente procedimento deduttivo: non A, non B, dun­ que anche non C, non D fino a non Z; ma A è X, dunque anche . . . Z è X, come ci è testimoniato da Diocle in Diogene Laerzio, VII, 82. Prendendo per pro­ prio il significato del nome "incappucciato" , Luciano fa costruire a Crisippo l'argomento del padre incappucciato non riconosciuto dal figlio. Del " signo­ re " , un particolare sofisma su ciò che gli stoici chiamavano "i possibili " , ci dà testimonianza, tra gli altri, Epitteto, Diatribe, Il, 19. 89. In greco ta prata katà physin , che noi abbiamo reso con " i principali per natura " . Al riguardo particolarmente importanti, tra le altre, le testimo­ nianze di Cellio, XII, 5, 7 e Plutarco, Le nozioni comuni, 26, 1 071a ( = SVF 3, 195), in cui si chiarisce che le cose prime per natura non sono beni in senso mora­ le, ma costituiscono tutto ciò che il corpo per natura ricerca, come il piacere,

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e tutto ciò che il corpo rifiuta, come, ad esempio, il dolore. La salute rientra senz'altro in questa categoria, ma non la ricchezza, che viene inserita per in­ trodurre il tema dell'avidità di guadagno del filosofo, sapientemente celata da complesse formulazioni e nobili scopi. 90. " Solecismo" è qualunque scorrettezza di carattere morfo-sintattico o lessicale. Sappiamo dal catalogo di Diogene Laerzio che Crisippo scrisse più di un libro sui solecismi. 91. L'elleboro è pianta con cui si preparavano decotti per guarire, tra l'al­ tro, dalla follia: cfr. ad esempio Aristofane, Vespe, 1489, dove Xantia consiglia a un Filocleone in delirio per il vino di bersi un decotto d'elleboro, ma anche Platone, Eutidemo, 299b e Teofrasto, Storia delle piante, IX, 10, 2. Tale cre­ denza e pratica antiche si tramandano sino alla modernità. Una celeberrima incisione anonima del XVI secolo che rappresenta il mondo sotto il berretto del matto (Norimberga, Germanisches Nationalmuseum) reca il motto: «0 caput elleboro dignum ! » . In Storia vera, Il, 18, nel riferirei il lungo catalogo dei sapienti riuniti nell'isola dei beati, Luciano sottolinea l'assenza degli stoi­ ci, ancora tutti impegnati a risalire l'erta china della virtù. A Crisippo, in par­ ticolare, continua Luciano, era impedito l'accesso all'isola prima che avesse bevuto per la quarta volta l'elleboro. È evidente che si vuole mettere alla ber­ lina il ferreo razionalismo stoico tacciandolo di mattìa. E non è certo di follia ispirata che si tratta, ma di vera e propria malattia mentale ! (Per la cura del­ la mania mediante l'elleboro cfr. Pigeaud, 1995> pp. 234 ss. ) . 9 2 . Abbiamo tradotto qui "ebreo d i Malta" perché antonomasia d i im­ mediata comprensione per il lettore moderno, ma il greco dice «quanto a es­ sere uno Gnifone», nome a noi del tutto ignoto, per quanto il contesto lasci trasparire che si tratti di personaggio proverbialmente avido. Nello scritto lu­ cianeo Timone, 58 Gnifone compare come esemplare parassita. 93· La questione della conoscenza a pagamento e della sua moralità è an­ tica ed è posta essenzialmente da Platone in molti suoi dialoghi, per quanto gli strali platonici si abbattano in particolar modo su Protagora e su Gorgia, sen­ za parlare di Ippia . Ci pare opportuno citare qui un passo dell'Ippù1 Maggio­ re, di particolare interesse: «SOCRATE È proprio vero che la vostra arte ha da­ to un bel contributo a mescolare gli interessi pubblici con quelli privati. Il so­ fista Gorgia da Leontini se ne arrivò qui da casa sua a fare l'ambasciatore, ché già era considerato abilissimo a fare gli interessi pubblici dei Leontini, e la gen­ te credette che egli parlò benissimo, mentre, contemporaneamente, faceva conferenze e dava lezioni private ai ragazzi guadagnando un sacco di soldi, sol­ di della nostra città ! Ma se vuoi, c'è anche il nostro comune amico Prodico ! Che ha avuto molte volte qui e altrove incarichi pubblici. Ultimamente, poi, è venuto da Ceo a trattare un affare comune e ha avuto un gran successo in as­ semblea, mentre, contemporaneamente, faceva conferenze e dava lezioni pri­ vate ai ragazzi, facendo soldi da non credere ! [ . . . ] E prima di loro, altrettanto fece Protagora ! IPPIA Ma allora, Socrate, non sai le più belle ! Se tu sapessi quanti soldi ho fatto io, rimarresti di sale ! Guarda: lasciamo pur perdere gli spiccioli e veniamo al fatto che quando sono andato in Sicilia - e Protagora stava proprio lì ed era famoso ed era molto più vecchio di me - e guarda che io ero molto giovane - beh, in poco tempo ho fatto molto più di centocin-

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quanta mine, e, pensa, in una sola città, Inico - ma davvero piccola, eh ! - ho fatto più di venti mine ! E quando sono ritornato a casa, ho dato questi soldi a mio padre, lasciando lui e altra gente completamente allibiti ! Guarda, credo proprio di aver guadagnato più di due qualsivoglia sofisti messi insieme che vuoi tu ! » (282b 3-e 8 ) . Ora, nell'Atene del V secolo a.C. di cui scrive Platone nei suoi dialoghi la polemica contro il sapere a pagamento ha evidentemente un senso preciso per chi, come Platone appunto, appartiene a famiglie di chia­ ra fama e la cui ricchezza è pressoché esclusivamente terriera: si tratta di una polemica nettamente antidemocratica rivolta a una società in cui le attività in­ tellettuali si trovano in rapidissimo corso di professionalizzazione. Già Ari­ stotele, del resto, è professore di scuola e privato retribuito. Ma certamente es­ sa non ha più senso nel mondo di Luciano, assai lontano ormai da quello di Platone, un mondo in cui, da secoli e secoli, la figura dell'intellettuale è com­ pletamente professionalizzata e comunemente retribuita: Luciano stesso è un intellettuale libero professionista, talora con incarichi pubblici. Questa pole­ mica contro la sapienza a pagamento è dunque in Luciano un mero topos fi­ losofico e, in particolare, un parodico contro-omaggio a Platone. 94· Qui Crisippo gioca sul doppio significato del verbo " speculare " , in greco logfzomai, nella duplice accezione teorica ed economica, gioco che ha perfetta rispondenza in italiano. Non soddisfa pertanto la soluzione di molti traduttori, che rendono logfzomai con " fare sillogismi" e quindi con " mette­ re insieme (o calcolare) gli interessi " , dichiarando che non è possibile ripro­ durre il gioco di parole del testo greco. 95· Ulteriore gioco linguistico. " Interesse" è in greco tokos (da tikto, ge­ nerare), che, nell'accezione comune, significa " figlio" . Ora, gli " interessi se­ condari " , ovvero gli interessi sugli interessi, sono definiti da Crisippo apago­ noi, cioè, metaforicamente, " discendenti " . Tutto il ragionamento di Crisippo è dunque un ludus linguistico sul campo metaforico della generazione. 96. Abbiamo qui un tipico esempio di sillogismo crisippeo anapodittico, un sillogismo che cioè non necessita di dimostrazione, perché ricava imme­ diatamente la conclusione dalla premessa. La struttura logica di questo sillo­ gismo è così descritta, tra gli altri, da Diocle in Diogene Laerzio, VII, 79: «Se il primo, il secondo, ma si dà il primo, dunque anche il secondo>>, ma cfr. an­ che Alessandro di Afrodisia (Commento agli "Analitici primi" di Aristotele, p. 373, 28 Wallies = SVF 2, 253 ) : «Se A, B, ma A, allora B>>. 97. Il tema del guadagno e del ricavare denaro dall'attività intellettuale era comunque oggetto di ampio dibattito all'interno della scuola stoica e Crisip­ po, in particolare, stando almeno alle testimonianze, ne trattò nel primo libro delle sue Vite, cfr. Diogene Laerzio, VII, r88 e Plutarco, Sulle contraddizioni de­ gli stoici, 20, 1043e ( = SVF 3, 693 ) . È proprio Plutarco a dirci: « [Crisippo] nelle Vite afferma che il saggio farà il mestiere di sofista chiedendo ad alcuni disce­ poli un pagamento anticipato e con altri accordandosi sul prezzo>>. 98. Per la struttura del ragionamento anapodittico cfr. supra, nota 96. 99· Quello che troviamo qui di seguito è un tipico esempio di sillogismo assolutamente falso, che Alessandro di Afrodisia (Commento agli "Analitici primi" di Aristotele, p. 283, 7 Wallies = SVF 2, 257) così descriverebbe: «A si di­ ce di ogni B , B si dice di ogni C, C si dice di ogni D; dunque A si dice di D>>. Nel

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caso qui proposto dal Crisippo lucianeo, avremmo dunque: A = pietra si di­ ce di B = corpo, B = corpo si dice di c = essere vivente, C = essere vivente si dice di D = te (il cliente) ; dunque A = pietra si dice di D = te ( cliente) . Ales­ sandro di Afrodisia chiama questo sillogismo, sulla scorta della logica aristo­ telica, " teorema della sintesi" , descrivibile anche come sistema di sillogismi subordinati (in cui si omette la conclusione " A si dice di o " ) e sovraordinati (in cui si omette la proposizione " A si dice di c " e " c di o " ) . Crisippo presenta invece questo sillogismo come un tipico anapodittico, ma, va da sé, la confu­ sione è voluta e costituisce, anzi, un procedimento pianificato del rovescia­ mento parodico lucianeo. roo. Perseo tramutava in pietra chiunque con la testa della Gorgone da lui stesso tagliata . ro1 . Niobe, madre di dodici figli, sei giovani e altrettante giovani, fu pu­ nita da Apollo e da Artemide per essersi vantata dell'abbondanza della sua prole al cospetto di Leto, madre dei fratelli divini. I suoi figli e le sue figlie fu­ rono tutti uccisi e Niobe fu trasformata in roccia, cfr. Omero, Iliade, XXIV, 60J. 102. Ritorna il riferimento al sofisma del "mietitore " , cfr. PAR. 22. 103. È la vita aristotelica. 104. Si mettono qui alla berlina le virtù tipiche dello spoudaios aristoteli­ co, l'uomo-cittadino retto (métrios, epieikés, harm6dios toi bioi, dice Luciano con esplicito riferimento all'Etica Nicomachea) , il quale è «il " canone e la mi­ sura " del comportamento morale (EN VI, 6, IIIJa 32 ss. ) , che è in questo cam­ po " misura di ogni cosa" (IX, 5, n66a 12 ss.), la cui valutazione dei piaceri di­ scrimina fra quelli nobili e degni e quelli perversi e corrotti (EN x, 5 , rq6a 15 ss.)» (Vegetti, 1990, p. r82) . Luciano attribuisce dunque ad Aristotele le qua­ lità del modello etico che egli stesso ha costruito nella sua scrittura. 105. Il riferimento è all'ordinamento editoriale dell'opera aristotelica . È Aristotele stesso a definire più di una volta " essoteriche " alcune sue opere, ad esempio nell'Etica Nicomachea, no2a r8-28, dove egli precisa di aver trat­ tato adeguatamente il nesso anima-società nei propri scritti " essoterici " . Es­ soterici sarebbero dunque gli scritti letterari di Aristotele, quelli destinati a un vasto pubblico perché volutamente non specialistici. Per contro, " esote­ rici " sono i trattati, le opere specialistiche destinate a un pubblico ristretto, in primis il pubblico della scuola, familiarizzato con il linguaggio tecnico del­ la filosofia. Mentre degli scritti essoterici ci sono giunti soltanto frammenti, ci sono pervenuti invece quelli esoterici pubblicati e ordinati nella seconda metà del I secolo d . C . da Andronico di Rodi. 106. Luciano si riferisce qui alla suddivisione aristotelica del bene-uno platonico. Nei primi capitoli dell' Etica Nicomachea e dell' Etica Eudemia Ari­ stotele sferra la sua critica all'unità del bene platonico, liquidato come im­ possibile logico e nozione inservibile sul piano etico-pratico, cfr. rispettiva­ mente i capp. I, 8 e I, 4 delle due opere etiche. 107. Qui di seguito Luciano sbeffeggia la storia naturale aristotelica e so­ prattutto le sue derive post-aristoteliche. ro8. È la vita pirroniana, essendo Pirrone il fondatore della scuola scetti­ ca qui rappresentata.

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109. Il testo greco dice " Pirria " , che è un soprannome e significa " rosso di capelli" . Si tratta di un nomignolo dispregiativo di norma appioppato agli schiavi (cfr. Timone, 22) . La nostra traduzione ha optato per " Battista " , per­ ché nome tipico del personaggio maschile di servizio. no. Questa e tutte le altre risposte della vita pirroniana a seguire sono co­ struite, sul filo della parodia, intorno alla fraseologia scettica, di cui ci infor­ ma Sesto Empirico nel suo vero e proprio manuale, se non dizionario, della filosofia scettica, meglio noto come Ipotiposi pirroniane. Il modello pirronia­ no sostiene qui di non poter sapere nulla sulla base del principio dell'irrap­ presentabilità delle cose. m. Dietro a questa risposta è possibile ravvisare la discussione scettica intorno al cosiddetto " criterio" inteso come fede o giudizio nell'esistenza (ve­ rità) o nell'inesistenza (falsità) delle cose. Come è noto dalle Ipotiposi pirro­ niane, II, 1 4 ss., gli scettici confutano il criterio di esistenza/verità così come di inesistenza/falsità, sicché si giunge alla più completa aporia nella determi­ nazione dell'esistenza o meno, della verità o meno, delle cose. n2. Quanto all'inesistenza/irrappresentabilità dell'uomo, è forse utile ci­ tare quanto afferma Sesto Empirico nel mentre confuta il " criterio " , cfr. Ipo­ tiposipirroniane, II, 22: «Mi pare dunque [ . .. ] che non solo l'uomo non si pos­ sa comprendere, ma nemmeno se ne possa avere la nozione. E, invero, noi sentiamo che in Platone Socrate confessa apertamente di non sapere se è uo­ mo o qualche altra cosa» (trad. di O. Tescari riveduta da A. Russo) . La tratta­ zione di Sesto prosegue poi con la confutazione di tutte le definizioni di uo­ mo offerte dalle principali scuole filosofiche. n3. La bilancia che la vita pirroniana tiene in mano è sonoro sfottò di un altro principio scettico, vale a dire l'ugual peso, in greco isosthéneia, delle ar­ gomentazioni, che poi sfocia nell'indecidibilità. Citiamo ancora Sesto Empi­ rico, Ipotiposi pirroniane, I, 188: «Per l'ugual peso dei fatti contrari, riusciamo all'equilibrio. E intendiamo per " ugual peso" la uguaglianza rispetto a quel­ la che appare essere la forza persuasiva, per i " fatti contrari " , così, come co­ munemente s'intende, " fatti contrastanti " , per "equilibrio " , il non assentire né in un senso né nell'altro». Ma per l' isosthéneia cfr. anche Sesto Empirico, Contro i logici, II, 159, 288 . n4- Scherzo sul principio scettico dell'akatalepsfa, cioè della imprendi­ bilità/incomprensibilità/irrappresentabilità delle cose, essendo il termine akatalepsfa deverbativo di katalambdno, " comprendere " . Sesto Empirico spiega in Ipotiposi pirroniane, I, 200 che il filosofo scettico definisce incom­ prensibili quelle cose non evidenti le quali, indagate dogmaticamente, risul­ tano assolutamente oscure . n 5 . Il cliente scherza qui sull'inerzia scettica che è conseguenza della sospensione di ogni giudizio. In realtà Sesto Empirico protesta contro la taccia di inerzia appioppata ingiustamente agli scettici a causa di un frain­ tendimento tra quanto genuinamente sostenuto dagli scettici puri e quanto invece affermato dagli accademici di tendenza scettica (Ipotiposi pirronia­ ne, I, 226) . n6. Gioco parodico sulla cosiddetta aphasfa scettica, che è in realtà la ri­ nuncia tanto all'affermazione quanto alla negazione. Luciano estremizza evi-

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dentemente il concetto scettico di afasia, facendone la rinuncia completa al­ la parola e altresì alla vista e all'udito. 117. Ancora parodia della cosiddetta ataraxfa, ovvero imperturbabilità scettica, che deriva dalla sospensione di ogni giudizio, cfr. Sesto Empirico, Ipotiposi pirroniane, I, 8; ro; r8; 25; 30; 31. 118. �epoché è l'astensione da ogni giudizio. Citiamo ancora le Ipotiposi pirroniane, I, 8: «Lo scetticismo esplica il suo valore nel contrapporre i feno­ meni e le percezioni intellettive in qualsivoglia maniera, per cui, in seguito al­ l'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospensione del giudizio, quindi, all'imperturbabilità». 119. In greco katà ton cheiro logon . C'è forse qui un'allusione al celebre motivo sofistico della tenzone tra il discorso forte e quello debole, tra il di­ scorso giusto e quello ingiusto, come nelle Nuvole aristofanee? 120. Interessante la chiusa con l'annuncio della futura vendita di vite co­ muni, vite di artigiani e di ambulanti. Luciano giunge in questo modo all'az­ zeramento definitivo della vita filosofica mettendola sullo stesso piano di quella non filosofica.

La morte di Peregrino r. Questo è dunque il nome del destinatario cui è indirizzato lo scritto lu­ cianeo. È consuetudine della tradizione esegetica ravvisare in Cranio vuoi il filosofo medioplatonico (allievo di Numenio) che Porfirio cita a più riprese nel suo L'antro delle Ninfe (Simonini, 1986, pp. 89-90) , vuoi un filosofo epi­ cureo (ma di un Cranio epicureo, in ogni caso, non abbiamo alcuna notizia) , come suggerirebbero, d'altra parte, i richiami a Democrito presenti nel testo di Luciano ai PARR. 7 e 45· A nostro avviso il problema si pone in modo di­ verso dal gioco delle identificazioni con questo o quel personaggio storico. Il nome "Cranio" ci pare a tutti gli effetti nome parlante all'incrocio di almeno tre diversi piani di senso: da un lato, quello della lingua comica che riusa il linguaggio popolare; dall'altro, quello del rispecchiamento tra il destinatario del libello e il filosofo Democrito; infine quello del simbolismo astrologico. Innanzitutto, l'antroponimo " C ranio" rimanda al dio Cronos. Nella langue poetica della commedia di V secolo e non solo, Cronos può significare " vec­ chio pazzo " , " vecchio scemo " , " rimbambito" , cfr. ad esempio Aristofane, Nuvole, 929; Vespe, 1480 (ma cfr. anche, fuori dalla commedia, Platone, Euti­ demo, 287b ) : tipicamente comica è infatti l'associazione di vecchiaia e follia e, d'altra parte, molti protagonisti aristofanei sono vecchi pazzi presi da as­ surde manie. Il Cratilo platonico, poi, attesta che nel linguaggio popolare e comune essere definito " figlio di Cronos " risulta un motteggio, se Socrate specifica: «Che poi uno al sentirlo [sci!. Zeus] chiamare di primo acchito " fi­ glio di Cronos " potrebbe credere che si tratti di un'impertinenza, invece c'è una ragione» (396b 1-3) . Se il nome Cranio allude dunque alla figura comica dello stolto, meglio si comprendono i due richiami a Democrito di cui si di­ ceva sopra. Li ricordiamo brevemente. Il primo, al PAR. T l'anonimo orato-

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re che sferra il suo contrattacco contro Teagene e Peregrino/P roteo afferma, già dall'esordio, di rifarsi esplicitamente al riso di Democrito. Il secondo, al PAR. 45: Luciano chiede retoricamente a Cronio se non pensa che Democrito avrebbe riso nel vedere Peregrino far uso d'un collirio per curarsi gli occhi qualche tempo prima di salire sul rogo, allo stesso modo di uno che prima di salire sulla croce si curasse un dito rotto. Il Democrito qui evocato, soprat­ tutto nella seconda occorrenza, è piuttosto esplicitamente, a nostro avviso, quello dello pseudo-epistolario ippocratico, che si attesta tra I e II secolo d.C. (Lettere r o - 2 1 , 23 Littré ) : il Democrito melancolico, creduto folle dai suoi con­ cittadini ed esaminato su richiesta diretta degli Abderiti niente meno che dal grande medico Ippocrate, il Democrito che ride dell'assoluta fatuità e nullità dell'uomo e della sua esistenza, ma, al contempo, anche il Democrito assor­ to in una costante attività contemplativa e speculativa, dedito alla scrittura, all'indagine naturale e filosofica, alla ricerca delle cause dell'umana infelicità (cfr. Lettera 17 e le profonde motivazioni che del proprio riso Democrito ivi espone a Ippocrate) . Anche il Democrito delle Vite ( cfr. supra, Vite, nota r) non può che iscriversi nel contesto dello pseudo-epistolario ippocratico. Questo Democrito, trasgressore del senso comune, insensato perché spec­ chio dell'insensatezza del mondo, rievoca da un lato la figura dell'old/ool co­ mico, dall'altro appare come un vero e proprio doppio dello stesso Cronio: Cronio ride della follia umana esattamente come fa il Democrito dell'episto­ lario pseudo-ippocratico. Ma si potrebbe formulare un'ipotesi ulteriore. Sup­ ponendo che il nome Cronio alluda a Cronos in quanto dio planetario, cioè al pianeta Saturno, non potremmo forse ravvisare nel dedicatario dello scrit­ to lucianeo la rappresentazione dello spirito saturnino (Saturnino sarebbe del resto il calco latino di Cronio), tanto folle e melancolico quanto predisposto, dal pianeta che lo governa, alla teoresi e alla contemplazione filosofica, allo stesso modo del Democrito pseudo-ippocratico? Ora, è noto che l'immagine di Saturno come astro della melancolia e delle attività intellettuali emerge di­ stintamente nel nostro Rinascimento con Marsilio Ficino, il quale fonde per primo la sindrome melancolica di antichissima ascendenza ippocratico-ari­ stotelica (cfr. Problema XXX) con il saturnismo tardo-antico e medievale, dan­ do luogo a quella figura del personaggio geniale in cui l'infelicità e la più ele­ vata contemplazione convivono in una natura insieme vessata e metafisica (Klibansky, Panofsky, Saxl, 198 5 ) . Ma, alla luce degli studi di Ioan P. Coulia­ no possiamo andare oltre. Couliano si è impegnato a indagare il tema dell'a­ scesa/ discesa dell'anima attraverso le sfere dei pianeti, mostrando come esso compaia già con estrema chiarezza nell'ellenismo astrologico popolare e col­ to addirittura precristiano e si saldi fortemente al tema delle influenze plane­ tarie sulle indoli umane. È imprescindibile citare qui un passo di Couliano, dove l'autore così riassume i risultati dei propri studi: «Da un punto di vista cronologico, il primo a presentare questa teoria [scil. il passaggio dell'anima attraverso le sfere planetarie e le influenze che da queste essa riceve] è stato lo gnostico cristiano Basilide di Alessandria, seguito dal figlio (o discepolo) Isidoro. La teoria è stata probabilmente ripresa da Numenio di Apamea; è si­ curamente presente nelle parti dell'Apo crz/o di Giovanni che precedono il

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Contro le eresie di Ireneo e nelle altre dottrine gnostiche riassunte da Ireneo verso il 180 d . C . ; diventa poi un elemento centrale nel neoplatonismo che ini­ zia con Giamblico; ritorna nei neoplatonici greci Proda, Ierode, Damascio, Simplicio e Prisciano di Atene ed Ermea e Olimpiodoro di Alessandria; rive­ ste un ruolo decisivo per il neoplatonico latino Macrobio e il suo giovane con­ temporaneo Servio; acquista un'importanza notevole nell'ermetismo, appare nella versione modificata del manicheismo e permea uno dei più fecondi mi­ ti gnostici nel trattato Pistis Sophia per poi riapparire in un episodio sporadi­ co della mitologia del bogomilismo. Vorrei inoltre sottolineare brevemente le varianti di tale teoria: 1) Probabilmente per il medioplatonismo e sicuramen­ te per il successivo neoplatonismo, questa dottrina si limita ad affermare che al momento della sua nascita l'anima discende dalla Via Lattea attraverso le sfere dei sette pianeti e da ognuno di questi riceve determinate qualità ne­ cessarie al nuovo essere per la vita sulla Terra. Le qualità planetarie sono quel­ le comunemente attribuite ai sette pianeti dall'astrologia ellenistica. 2) Nello gnosticismo, partendo da Basilide [. .. ] la dottrina è negativa: dai sette gover­ nanti planetari (arconti) l'anima, durante la sua incarnazione, acquisisce i set­ te vizi che formano il suo spirito contraffatto [ . .. ] . 3 ) Con il neoplatonismo ci troviamo di fronte a una versione positiva dello spirito contraffatto nella dot­ trina dell'ochema o veicolo dell'anima, che è vagamente presente nello stesso Platino e consiste nell'unione di elementi platonici, aristotelici, astrologici. La fonte di questa dottrina è il trattato pseudo-ermetico Panaretos che ap­ partiene alla vulgata astrologica ermetica e può essere fatto risalire al II se­ colo a . C . Il trattato è andato perduto, ma appare riassunto nell'Eisagogika di Paolo d'Alessandria ( dopo il 370 d . C . ) e ulteriormente esposto nel com­ mento su Paolo d'Alessandria scritto nel 475- 509 da Eliodoro, un discepolo ateniese di Proda. [ . . . ] Il Panaretos si occupa della teoria dei kleroi o " sor­ ti" dei diversi pianeti, cioè di quelle qualità che i pianeti assegnano a ciascun individuo e che possono essere dedotte dalla lettura dell'oroscopo dopo aver seguito alcuni calcoli matematici piuttosto semplici>> (Couliano, 1991, pp. 190- 1 ) . Certo, dalle fonti a nostra disposizione esaminate da Couliano la melancolia in quanto tale non appare associata a Saturno: il Panaretos attri­ buisce a Saturno la fatalità; il cap. 25 del Poimandres gli attribuisce invece la " menzogna che tende tranelli " ; Servio (Commento all"'Eneide", VI, 714 e XI, p) gli attribuisce ora l'umore ora il torpore; Proda (Commento al "Timeo", I, 199 e V, 237) e Macrobio ( Commento al "Sogno di Scipione", I, 12, 13-14) la fa­ coltà contemplativa, theoretik6n e logistik6n . Se Macrobio e Servio, i quali ri­ conoscono nell'attività contemplativa il tratto saturnino per eccellenza, sono troppo distanti dal II secolo di Luciano, è pur vero tuttavia - cosa stranamente non rilevata da Couliano - che il Plutarco del Volto della luna, 941 ci narra del pianeta C ronos Ogigio- Saturno attorniato dai suoi servitori, i quali ogni trent'anni (cioè quando Saturno è nel Toro) fanno vela a Ogigia ove presta­ no servizio per altrettanti trent'anni, ma si ritrovano poi, almeno la maggior parte, a rimanere presso il dio-pianeta, dedicandosi agli studi matematici e fi­ losofici, senza darsi alcun altro pensiero. È chiarissima in questo testo - uno dei tre scritti capitali di escatologia astrale plutarchea - l'associazione di Cro211

nos- Sa turno all'esercizio speculativo e contemplativo, e ci pare vi si possa ad­ dirittura ravvisare un testimonio di quella tradizione detta " i figli dei piane­ ti" (cioè le inclinazioni e i mestieri che discendono da un dio planetario) che Friz Saxl ascriverebbe soltanto all'astrologia medievale orientale indo-irani­ ca penetrata quindi nell'Europa umanistica e rinascimentale (Saxl, 1985, pp. 274- 9 ) . Parrebbe dunque che all'altezza del II secolo d . C . , quando scrivono appunto Plutarco e Luciano, si possa effettivamente parlare di un nesso tra saturnismo e attività teoretica perfettamente enucleato e, se non si nomina esplicitamente la melancolia, è tuttavia vero che la menzogna, l'inganno, la fa­ talità attribuiti dal Panaretos e dal Poimandres a Sa turno sono perfettamente allineate al quadro ippocratico-aristotelico della melancolia. Ma c'è un dato ulteriore. Nell'epistola 17 pseudo-ippocratica, Ippocrate afferma che Demo­ crito ha "traslocato " da questo mondo ad abissali spazi siderei installandosi al loro vertice, là dove tutte le arti nobili hanno sede, i vi liberando la sua men­ te in una indisturbata attività intellettuale. Ci pare evidente che l'autore del­ l'epistola stia qui alludendo a una psicanodia, ovvero all'ascesa dell'anima at­ traverso le sfere planetarie. C'è da chiedersi se quel vertice e quel punto d' ar­ rivo della psicanodia di Democrito sia proprio la sfera di Cronos-Saturno, co­ me farebbe supporre il riferimento alle " arti superiori " , che altro non posso­ no essere se non la filosofia, gli studi scientifici e matematici. Tirando le fila di questa complessa strategia, possiamo dunque inferire che Luciano ponga il suo libello sotto gli auspici di una contemplativa e filosofica stultitia che si fa specchio dell'insensatezza mondana e su questa riversa gli strali del suo umor nero (per lo humor democriteo cfr. Hersant, 1991, pp. 9-23 ) . 2. L a formula d i saluto e u prattein viene considerata pressoché unani­ memente dalla critica un calco platonico, e forse lo è . Ma più importante è la palese allusione al genere epistolare in quanto tale. Rimandiamo per questa discussione supra, pp. 62 ss. 3 · In greco kakodaimon , letteralmente " dal cattivo genio " . I.: insulto (che ricorre anche ai PARR. 13 e 42, mentre ai PARR . 7 e 42 ricorre katdratos) è fre­ quente nella commedia, ad esempio Nuvole, 104. Segnaliamo qui che questo insulto, nelle sue sfumature comiche, sopravvive ancora nel teatro di Shake­ speare, Riccardo III, I, III, 143-144: «QUEEN MARGARET [astde] Hide thee to beli for shame, and leave this world, l thou cacodemon: there thy kingdom is» (corsivo mio) (REGINA MARGHERITA [a parte] Vai a nasconderti all'inferno, e lascia questo mondo, l tu anima nera: quello è il tuo regno) . 4 · Anche Peregrinos è nome parlante. Innanzitutto s i tratta d i una gre­ cizzazione del nome italico Peregrinus, derivato dall'aggettivo peregrinus, che significa specificamente " straniero " . C'è chi ha inferito che questo nome sia indizio di cittadinanza romana (Jones, 1986, pp. n7-32) . Ma ciò pare davvero difficilmente sostenibile. Assai recentemente Detering (2004) ha non soltan­ to riaffermato che Peregrino è nome simbolico, ma che esso allude altresì al celebre caposetta gnostico Marcione, contemporaneo di Luciano. Di più: De­ tering è convinto che Peregrino sia in realtà Marcione e che tutto il libello lu­ cianeo consista in una satira contro il marcionismo. Ma se, come lo stesso De­ tering riconosce, la figura del cristiano siriano marcionita poteva tranquilla-

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mente passare in quel tempo per il cristiano tout court (e, d'altra parte, i con­ fini tra ortodossia ed eterodossia a livello di II secolo d . C . , proprio quando esplode il fenomeno gnosi, sono assolutamente !abili e assai difficili da defi­ nire ) , è ancora così importante identificare Peregrino con Marcione? C'è poi un'altra domanda: a Luciano interessava parodiare il cristiano per eccellenza o piuttosto l' Idealtypus d'un " uomo divino" - il greco direbbe theios anér ­ che, passando per tutte le forme del sacro, può essere anche occasionalmen­ te, ma non fondamentalmente cristiano? La domanda rimane aperta. A no­ stro avviso, il punto debole dell'analisi di Detering consiste nel fatto che es­ sa rischia di chiudere definitivamente l'interpretazione del Peregrino lucianeo nel considerarlo un pamphlet antimarcionita. In ogni caso, può essere accet­ tata la spiegazione che Detering offre del nome " Peregrino" . Egli fa giusta­ mente notare che nel marcionismo l'epiteto " straniero" identificava tout court Dio (il dio buono alieno alla creazione, va da sé) e che, per diretta conse­ guenza, l'appellativo " straniero" diventava direttamente sinonimo, tra le co­ munità cristiane marcionite e forse non soltanto, del cristiano (marcionita) se­ guace del " dio straniero" . Detering è infine convinto che il nome Peregrino sia stato assunto dal nostro personaggio durante la sua frequentazione con i cristiani. Ilaria Ramelli (2005) pensa, invece, che la figura del Peregrino lu­ cianeo sia piuttosto costruita a partire da elementi tipici del montanismo (!' as­ sunzione di cibi vietati, l'investitura di profeta e tiasiarco, l'ascesi, l'anarchia ) . Infine, per quanto l o scritto lucianeo sia d i gran lunga l a testimonianza più estesa su Peregrino, alcuni altri autori ne hanno citato il nome e descritto la figura, sia in positivo che in negativo, tra II e IV secolo d . C . : si tratta di Aula Gellio, VII, 3 e XII, I, I, che incontrò effettivamente e ammirò Peregrino ad Atene, attorno al I6o d . C . ; Taziano, Orazione ai Greci, 25; Atenagora, Amba­ sceria per i cristiani, 6; Pausania, VI, 8, 3; Filostrato, Vite dei so/isti, II, I, 33; Ter­ tulliano, Ai martiri, 5; Ammiano Marcellino, XXIX, I, 38-39. 5 · Ci informa Aula Gellio, XII, I , I che Peregrino assunse l'ulteriore epi­ teto (cognomentum) " Proteo" in un secondo momento, confermando quan­ to lascia intendere anche Luciano al PAR. 12. Ma perché Proteo? Proteo è il vecchio del mare dalle capacità profetiche che può trasformarsi in tutti gli animali e persino negli elementi, come risulta dal racconto di Menelao in Odissea, IV, 354 ss. L'ironia del soprannome non sta soltanto nella metamor­ ficità, ma anche nel fatto che il Proteo del mito è un "maestro di verità" (De­ tienne, I983, pp. I?-33 ) . Ma va segnalato che il soprannome Proteo non è pre­ rogativa esclusiva di Peregrino. Più di un secolo prima esso era stato attri­ buito al celeberrimo mago e sapiente Apollonia di Tiana. Filostrato raccon­ ta al proposito un aneddoto strabiliante. Durante la gravidanza, la madre di Apollonia ebbe una visione: le apparve un demone egizio, Proteo in perso­ na. La donna gli chiese di chi si sarebbe sgravata e il demone rispose «di me», rivelando poi il suo nome ( Vita di Apollonia di Tiana, l, 4) . Ora, il nomigno­ lo "Proteo" attribuito a Peregrino non è un'invenzione di Luciano, come te­ stimonia Gellio, ma non è certo senza malizia che, nella prospettiva lucianea, egli condivide questo nome con Apollonia di Tiana. Il Peregrino Proteo ap­ pare una replica dell'Apollonia Proteo, del quale, è bene ricordarlo, Luciano

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ci offre la prima e più antica menzione nel suo Alessandro o il falso profeta, 5· Vale la pena di ricordare come Luciano ivi definisce la vita di Apollonia: una tragoidfa, una messa in scena, un teatro, elemento che ricorrerà, come vedre­ mo, anche nel Peregrino. Tutto farebbe dunque pensare che nelle intenzioni di Luciano la bislacca contraffazione di Peregrino giunga ad appropriarsi an­ che della fama d'Apollonia. 6. In greco doxes héneka. Il tema della vanagloria ricorre in modo pres­ soché ossessivo in tutto il testo e ad esso viene ascritta la vita intera di Pere­ grino, ogni sua azione o pensiero: cfr. doxokopfas, PAR. 2; ken6doxon, eis ke­ nodoxfan, PAR. 4; doxarfou kataptystou héneka, PAR. 8; doxokopfan, PAR. n; hos doxan apolfpoi, PAR. 14; éndoxon genésthai, PAR. 22; kenod6xous anthr6pous, PAR. 25; doxes hyp'erinyi thymòn orintheis, PAR. 30; dysérota tes doxes dnthro­ pon, PAR. 34; to phil6doxon , PAR. 38; éndoxos ho tropos, PAR. 44· L'amore del successo, della fama, della gloria personale è l'unica pulsione e, si può dire, l'unica emozione che anima Peregrino. Il problema della fama, buona o cat­ tiva, e quello della philodoxfa, il vizio che le corrisponde, sono argomenti di discussione molto forti nell'etica cinico-stoica. Gli stoici consideravano la fa­ ma un bene preferibile, proegménon, secondo la terminologia specifica, ma non fondamentale (a questo proposito cfr. supra, Vite, 21 ) . In realtà, l'atteg­ giamento di Crisippo rispetto ai beni preferibili non pare fosse poi così tra­ sparente se Plutarco ( cfr. Le contraddizioni degli stoici, 30, 1047e) riporta il detto del filosofo secondo cui solo un pazzo poteva vivere senza dar peso al­ la ricchezza, alla salute e agli altri proegména. Anche Seneca testimonia lo sta­ tuto controverso della fama e della lode nello stoicismo, cfr. Epistole a Luci­ fio, 102, 5· In realtà, era convinzione stoica che solo il saggio fosse non solo di buona fama (éndoxos) , ma addirittura illustre (eukleés), perché la sua è una lode esente da millanteria e ben radicata nella verità, cfr. SVF 3, 603. La doxokopfa, la kenodoxfa e la philodoxfa di Peregrino potrebbero dunque es­ sere un forte motivo di parodia antistoica. Già nelle Vite Luciano attacca quella che ritiene essere l'ipocrisia dell'etica stoica e, per di più, come rivela ivi il passo su Diogene (PAR. n), egli attribuisce le stranezze e i paradossi com­ portamentali dei cinici al solo desiderio di notorietà. Ma probabilmente l'o­ rizzonte di Luciano è ancora più vasto. La vanagloria del saggio non è tanto amore per il lusso, per i gioielli, per il guadagno e dunque per la popolarità, bensì desiderio d'incarnare il modello assoluto del filosofo e del sapiente. Lu­ ciano è convinto che la saggezza, e dunque ogni filosofia che le è sottesa, sia una forma di vanità. Su come la filosofia sia rasentata continuamente dal ri­ schio della vanagloria e su che cosa sia questa vanagloria cfr. Marco Aurelio, VIII, 1. Ricordiamo infine che Luciano stesso, come il suo contemporaneo Marco Aurelio, non si esclude dal novero dei filosofi e degli scrittori affetti da kenodoxfa: in Storia vera, 1 , 4 Luciano afferma di aver voluto scrivere per pura kenodoxfa ! Su quest'ultimo importante aspetto cfr. supra, pp. 37-8. 7· Se qui viene citato Empedocle non è soltanto perché si tratta di un'al­ tra morte per fuoco, ma anche, e forse soprattutto, perché nella tradizione an­ tica egli aveva fama di mago, purificatore, iatromante, uomo divino e sapien­ te ispirato, come Peregrino avrebbe voluto presentarsi. Certo, Luciano è an-

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che assai ironico con Empedocle, là dove dice che almeno costui ebbe il pu­ dore di nascondersi al pubblico. In realtà il suicidio di Empedocle nel crate­ re è soltanto una delle tante leggende sulla morte del filosofo: le riporta tutte Diogene Laerzio, VIII, 2, 67 ss. Più importante sul piano concettuale è sottoli­ neare come Luciano, fin dall'esordio, si premuri di accostare all'azione di Pe­ regrino, al suo suicidio, un modello, katà ton Empedocléa, dice il testo. Come quella della vanagloria, anche la questione dei modelli, siano essi filosofici, mi­ tico-letterari e finanche artistici, riveste un ruolo di primo piano nel pamphlet lucianeo. Per la discussione di questi aspetti teorici cfr. supra, pp. I8 ss. Qui ci limitiamo a segnalare la serie dei modelli invocati: PAR. 4: Eracle, Asclepio, Dioniso e ancora Empedocle; PAR. 5: Diogene, Antistene; PAR. 6: lo Zeus olimpio di Fidia; PAR. n: Cristo; PAR. 12: Socrate; PAR. I5: ancora Diogene e Cratete; PAR. I 8 : Musonio, Dione, Epitteto; PAR. 2I: Eracle (e Filottete per il suo seguace Teagene ) ; PAR. 24: ancora Eracle e Asclepio; PAR. 25: ancora Era­ cle; PAR. 2T la fenice; PAR. 33: ancora Eracle; PAR. 36: ancora Eracle; PAR. 4J: ancora Socrate per allusione ad Alcibiade. Al PAR. 37, infine, i discepoli di Pe­ regrino sono paragonati ai discepoli di Socrate in carcere. 8. Peregrino si diede fuoco nelle Olimpiadi del I65 d . C . , data che funge anche da termine post quem per la datazione dell'opera. Discutiamo tutta la questione cronologica più oltre, cfr. infra, nota 99· Luciano usa il termine Pa­ negire, non Olimpiadi. Le Panegire erano feste di rilevanza nazionale, tra le quali le Olimpiadi erano appunto le più frequentate. 9· L'annuncio del mirabolante suicidio è dato da Peregrino in persona ai PARR. 32 e 33· Al PAR. 20 si dice però che già durante le Olimpiadi precedenti, quelle del I6I, Peregrino aveva avuto l'idea del suicidio per fuoco e ne aveva diffuso fin d'allora, ben quattro anni addietro, la prima notizia ( cfr. ancora nota 9 9 ) . IO. I l riso è u n elemento fondamentale i n questo scritto lucianeo. C'è il riso di Cranio, qui all'inizio e verso la fine della vicenda, ai PARR. 37, 43, 45· C'è poi il riso del narratore anonimo - quello che racconta la " vera storia" di Peregrino - al PAR. 7 ( ride assai in ben due riprese) e al PAR. 31. C'è poi il riso di Luciano ai PARR. 7 ( ride tra la folla trascinato dal riso dell'anonimo) , 34, 37, 40. Si tratta di un riso spesso fragoroso, se non esagerato, come quel­ lo dell'anonimo al PAR. 7, e decisamente aggressivo. È un riso posto sotto l'e­ gida del Democrito pazzo rappresentato nello pseudo-epistolario ippocrati­ co, come abbiamo già avuto modo di dire ( cfr. supra, nota I, cui rimandiamo direttamente) . n. Peregrino è dunque u n vecchio rimbambito e ridicolo, tei koryzei tou gérontos, dice il testo. Ma cfr. anche il PAR. 8, dove l'anonimo narratore de­ scrive Peregrino come uno di quei vecchi che fanno le capriole per una glo­ rietta da quattro lire (andras gérontas doxariou kataptystou héneka [. .. ] kybi­ stontas en toi mesoi) . Va poi ricordata la figura del vecchio anonimo dall'aria venerabile e austera che racconta balle inverosimili sui falsi portenti verifica­ tisi subito dopo la morte di Peregrino, nel luogo della pira, al PAR. 40. E c'è inoltre Cranio stesso, il dedicatario ridanciano dello scritto, che, come ab­ biamo cercato di mostrare nella nota I , rinnova nel suo nome l'immagine del dio antico d'anni, Cronos . C'è infine Democrito, il vecchio che ride per ec-

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cellenza. La vecchiaia che ride e di cui si ride ha, a nostro avviso, un valore simbolico assai forte in questo testo, perché diventa immediatamente lo spec­ chio della filosofia e della scrittura. Luciano dedicò un intero scritto alla vec­ chiaia, I longevi, un libello che si risolve in una lista stramba, e a dire il vero un po' sinistra, dei grandi vecchi del potere e della filosofia: la filosofia ne esce quasi come un intrattenimento spettrale e tetro che sfida la vita. n . Qui Luciano fa evidentemente il verso al tema della testimonianza au­ toptica e della pretesa di verità, topos del genere dell'h!Storia, da Erodoto in poi (Canfora, 1974; Montanari, 1978 ) . Ricordiamo a questo proposito come la Storia vera lucianea sia per l'appunto una parodia della testimonianza autop­ tica : in I, 4 dichiara Luciano: «Scrivo dunque di cose che non ho mai visto, né ho mai vissuto, né ho appreso da altri, e soprattutto di cose che non esi­ stono affatto e non potrebbero nemmeno incominciare a esistere». Ma c'è forse di più. La pretesa di verità e il racconto vero sono anche istanze fonda­ mentali della scrittura filosofica a cominciare da Platone, nell'opera del qua­ le ben sappiamo quanto peso rivesta il racconto vero. Citiamo, esempio per tutti, il grande mito di Er di Repubblica X. La parodia di Luciano è dunque rivolta qui anche e forse soprattutto alla filosofia. 13. Nel corso intero del testo Peregrino è costantemente seguito - al di là della parentesi cristiana - da un corteggio di cinici, filosofi e discepoli, tra cui Teagene. 14. Luciano gioca con il doppio significato del nome " cinici " . I filosofi ci­ nici prendono il nome non dal " cane " , ma dal ginnasio di Cinosarge dove si riunivano ad Atene, anche se poi prevalse la paraetimologia che connetteva il nome della scuola al cane, per il tipo di vita generalmente condotto da co­ loro che aderivano al cenacolo. Il gioco di parole dà l'avvio al paragone miti­ co di Atteone, il giovane sbranato dai cani, dopo essersi trasformato in cer­ vo, e così punito da Artemide perché egli osò spiarla nuda al bagno. Cfr. Ovi­ dio, Metamorfosi, III, 131 ss . , ma anche Euripide, Baccanti, 230, 1227, 1291. 15. Penteo è il cugino di Atteone, entrambi nipoti di Cadmo. Come rac­ contano le Baccanti di Euripide, egli venne fatto a pezzi dalle menadi, segua­ ci del dio Bacco, perché si rifiutava di riconoscere quest'ultimo come dio. Cfr. anche Ovidio, Metamorfosi, III, 513-577. Nelle Baccanti, poi, le menadi vengo­ no chiamate " cagne" di Dioniso (731, 1146, 1189 ) , sicché risulta immediato il legame con la fine del cugino Atteone. È curioso ricordare che Suda, s.v. Loukian6s, attribuisce a Luciano la morte per sbranamento. Certamente, il Luciano sbranato dai cani è imitazione della morte di Euripide, che avvenne, come racconta Satiro, nelle medesime circostanze. La morte per sbranamen­ to è tipica dell'ateo e dell'empio. E si tratta di un cliché inventato dai cristia­ ni intorno al discusso tragediografo. Anche Luciano, per quanto afferma di Cristo e dei cristiani nel Peregrino, era sicuramente ritenuto degno della stes­ sa morte. 16. «La vicenda di questo dramma», in greco, tou prdgmatos diaskeué, espressione che va messa in relazione con ten katastrophèn tou drdmatos nel fi­ nale del racconto, PAR. 37· Luciano pensa dunque al suo racconto come al plot di un dramma romanzesco. D'altra parte, subito sotto, Luciano afferma che Peregrino era un drammaturgo più prolifico degli stessi Eschilo e Sofocle. Ma

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qui il teatro è soltanto metafora del racconto d'intreccio, in linea, del resto, con la rilettura della drammaturgia di V secolo offerta da Aristotele nella Poetica. 17. In greco etrag6idei. Il verbo tragoidéo può significare sia "mettere in scena" o " comporre un soggetto tragico" che " recitare in una tragedia " , "fa­ re l' attor tragico " . Poiché Luciano ha appena detto che Peregrino era un drammaturgo, pensiamo che sia qui da preferire il significato di " mettere in scena " , sicché Peregrino ne risulta sia come artefice sia come interprete e re­ gista dei suoi drammi. Si tratta d'una parodia della recita del filosofo d'a­ scendenza almeno platonica, cfr. supra, pp. 34 ss. 1 8 . Elide in realtà stava a indicare l'intera regione, mentre il suo ginnasio era luogo di intrattenimenti per gli atleti di Olimpia e altresì luogo di eventi e conferenze. 19. Si tratta appunto di Teagene, che terrà il palcoscenico fino alla fine insieme a Peregrino. Luciano dà qui un esempio di quella che doveva essere una tipica diatribé cinica nella sua forma più popolare e spettacolare. Carat­ teristica della diatriba era una elocuzione enfatica e urlata, fatta di sentenze brevi e ad effetto con alto potenziale patetico (Norden, 1986, pp. 141 ss. ) . Nel leggere le parole pronunciate da Teagene viene in mente la parodia intellet­ tuale diretta da Petronio nel Satyricon contro le pratiche diatribiche dei de­ clamatori fanfaroni, in particolare la celebre scena del confronto tra Encol­ pio e Agamennone sulla decadenza della retorica che fa il verso ad argomen­ ti e temi senecani e tacitiani. La verbalità di Teagene ricorda in più di un pun­ to quella di Encolpio e di Agamennone, cfr. Satyricon, 1-4, 4· D'altra parte, il Peregrino lucianeo è un piccolo romanzo costruito intorno alla figura di un intellettuale ciarlatano. Dobbiamo forse immaginare, per confronto, che la fi­ gura dello scholasticus spacciabubbole fosse topi ca di una koiné romanzesca diffusa per tutta l'area ellenistica greco-romana? 20. Si riportano qui vari esempi di morte per fuoco. Eracle morì salendo vivo sulla pira per sfuggire al dolore e alla follia provocatigli dalla veste avve­ lenata con il sangue del centauro Nesso. Così raccontano Sofocle nelle Tra­ chinie e Seneca nell'Ercole sull'Eta. Asclepio, figlio di Apollo e divino guari­ tore, fu ucciso dal fulmine di Zeus perché osò resuscitare un morto, cfr. già Esiodo, fr. 125 Rzach. Dioniso non fu in realtà ucciso con il fulmine: come rac­ conta Euripide nelle Baccanti, 1-6o, Zeus folgorò Semele, figlia di Cadmo e ma­ dre umana di Dioniso, dopo essersi congiunto con lei. Il dio prelevò quindi il feto e se lo cucì in una coscia per portare a termine la gravidanza interrotta. La folgorazione è dunque qui simbolo non di morte, ma di nascita portento­ sa. Di Empedocle abbiamo già detto ( cfr. supra, nota 7 ) . In ogni caso va sot­ tolineato che la morte per fuoco è ora divinizzante ora magica ora attributo di regalità (Stella, 2oo6b ) . Ma, dietro la morte per fuoco di Peregrino, c'è forse la combinazione di un motivo ascetico con uno filosofico di matrice specifi­ camente stoica. Lo farebbe supporre quanto afferma l'anonimo narratore del­ la vita di Peregrino nel finale del PAR. 30, dicendo che il santone e il suo cor­ teggio definiscono la cremazione un " inaerarsi" , exaer6sousin: touto gar ten kausin kaloiisin . Sembrerebbe che la scelta della pira si giustifichi dunque con l'idea di " unirsi all'aria o all'etere" . Ora, se da un lato il salire sulla pira è pra­ tica comune degli asceti indiani - come si dice al PAR. 25 -, dall'altro bisogna

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ricordare che nella psicologia e nella cosmologia stoica c'è un rapporto molto stretto tra anima, pneuma, fuoco ed etere. Per gli stoici l'anima è pneuma cal­ do e infuocato (SVF 2, 773 ) , mentre Galeno dichiara, per parte sua, che nella speculazione stoica la sostanza dell'anima e il pneuma sono la stessa cosa (XI, p. 731 Ki.ihn SVF 2, 777 ) , e quindi Aezio conferma (Precetti, IV, 3, 3 SVF 2, 779 ) che l'anima degli stoici è pneuma intelligente e caldo. Secondo Zenone ( come testimonia Cicerone, Accademici secondi, I, 39; I confini del bene e del male, IV, 12; Discussioni tuscolane, I, 19) , l'anima è fuoco, e si tratta evidente­ mente del fuoco pneumatico. Quanto al pneuma, Plotino, Enneadi, IV, 7, 4 as­ serisce che gli stoici «presuppongono [in merito al genere dell'anima, psyches eidos] un pneuma dotato di intelletto e un fuoco intellettuale (ennoun to pneu­ ma kai pyr noer6n )». L'etere è poi definito dagli stoici aithérion pyr, fuoco ete­ reo (cfr. Galeno, XIX, p. 477 Kuhn) , mentre Cicerone, La natura degli dèi, II, 40 aggiunge che nella cosmologia stoica l'etere è fuoco celeste. Quanto al fuo­ co, si parla evidentemente di quello etereo, quello da cui traggono generazio­ ne gli elementi e l'intero cosmo ( cfr. ancora Galeno, XIX, p. 477 Kuhn ) . È dun­ que evidente che anima-fuoco-etere-pneuma formano un unico complesso. " Inaerarsi" vorrebbe dunque dire liberare, attraverso il fuoco, il pneuma psi­ chico-fuoco etereo di cui l'anima è composta, per restituirla quindi al cosmo e rifonderla in esso. C'è infine un ulteriore elemento che è il caso di notare. Il pneuma è divino e la sua caratteristica fondamentale è il metamorfismo: «Gli stoici così definiscono l'essenza del divino: pneuma intelligente e infuocato, senza forma, ma in grado di tramutarsi in ogni forma voluta e di rendersi ugua­ le a ogni cosa» (Aezio, Precetti, I, 6 SVF 2, 1009 ) . Viene in mente, in questo caso, la metamorficità di Peregrino-Proteo che, come Luciano stesso dice al­ l'esordio del suo scritto (PAR. 1 ) , «Tante cose è stato e tante forme ha cambia­ to in nome del successo, che ti finisce per diventare fuoco>>. 21 . Di un tale Teagene di Patre, filosofo cinico, ci parla Galeno, x, p. 909 Kuhn. Fu a Roma, dove declamò nel ginnasio di Traiano. 22. Quanto a Diogene di Sinope, cfr. supra, Vite, 7- II e le note di com­ mento relative al testo. 23 . Antistene, seguace di Socrate, e pressoché coetaneo di Platone, auto­ re molto prolifico e attivo, è qui considerato, come, del resto, da tutta la tra­ dizione antica, maestro di Diogene e fondatore del cenacolo cinico. A questo proposito cfr. Epitteo, Diatribe, III, 24, 67-71 e Diogene Laerzio, VI, 21 . Que­ sti autori riferiscono del fatidico incontro tra Antistene e Diogene, incontro che convertì definitivamente alla filosofia del primo il secondo. In realtà, la critica moderna ha messo in questione il legame Antistene-Diogene e ha sol­ levato molte obiezioni alla veridicità di questa tradizione (Dudley, 1937, pp. 3-40; Giannantoni, 1993 ) . Platone, Pedone, 59b cita Antistene come uno dei seguaci di Socrate presenti nel carcere l'ultimo giorno di vita di Socrate, men­ tre Senofonte ne fa personaggio parlante nel suo Simposio. 24. Del modello socratico e della sua importanza abbiamo parlato supra, pp. 33 ss. 25. Il richiamo è alla celeberrima statua crisoelefantina di Zeus olimpio, scolpita da Fidia negli anni Trenta del v secolo a . C . e descritta da Pausania, v, II e da Strabone, VIII, 353 ss. =

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26. Si noti come qui Teagene sovrapponga e confonda l'artificiale e il na­ turale, secondo un atteggiamento tipico della cosiddetta Seconda sofistica. Pe­ regrino è, d'altra parte, l'immagine per eccellenza della contraffazione. Viene inoltre in mente il Discorso olimpico di Dione, dove l'orazione del retore si di­ pana di fronte alla statua di Zeus realizzata da Fidia, venendo l'artificiale re­ torico a identificarsi completamente con l'artefatto plastico. È possibile che ci sia qui, nel Peregrino, una memoria di Dione, rovesciata nel contesto parodi­ co? Per l'arte come metafora della mimesis in Luciano, cfr. Andò (1975) . 27. Divino simulacro, in greco dgalma. I.',dgalma è la statua del dio, la sua immagine sacra, dedicata nel tempio. I', idea del filosofo come " divino simula­ cro " ha un effettivo luogo di nascita, che è rappresentato da un famoso passo del Simposio platonico (216d 7 ss. ) . Come ivi dice Alcibiade, Socrate ha sempre l'aria di scherzare e non è minimamente interessato alla bellezza o alla ricchez­ za dei giovani che frequenta, anzi disprezza tutte queste qualità: «ma quando fa sul serio e si apre, io so che nessuno ha mai visto i divini simulacri (agdlma­ ta) dentro di lui. Io sì che li ho visti, una volta, e sono divini, sono d'oro, sono bellissimi e meravigliosi, a tal punto che praticamente bisogna fare come So­ crate comanda». È noto che Alcibiade costruisce questa immagine per simili­ tudine con le statuette !ignee dei Sileni, personaggi mitici teriomorfi - tra il ca­ vallo, l'asino e l'umano - facenti parte del corteggio di Dioniso, le quali conte­ nevano, a mo' di astuccio, statuette più piccole di altri dèi, talora preziose. 28. Abbiamo tradotto «cocchio di fuoco»: il greco dice ochoumenon epì tou pyr6s, letteralmente «trasportato sul fuoco>> o meglio ancora «viaggiando sul fuoco>>, se si dà valore mediale al participio. Ci sembra di poter cogliere in questa immagine un'ulteriore allusione al viaggio astrale dell'anima-pneu­ ma-fuoco etereo. l', anima viene rappresentata come un veicolo, 6chema, che viaggia attraverso le sfere planetarie, nella tradizione neoplatonica e, specifi­ camente, in Proclo. Ma è stato mostrato che l'immagine affonda le sue radi­ ci nella prima metà del II secolo a.C. (Couliano, 1986, pp. 138-9 ) , e di fatto ri­ sale ad Aristotele, La riproduzione degli animali, 736b, laddove il filosofo, «partendo probabilmente da un suggerimento di Platone (Leggi 898c) , in­ ventò un involucro per l'anima composto di fuoco astrale, che avrebbe per­ messo all'anima di entrare nel corpo>> (Couliano, 1991, p. 196) . Non va tutta­ via neppure escluso il rimando a un motivo archetipico della mitologia sola­ re, e in particolare al celeberrimo esodo della Medea euripidea, laddove l'e­ roina si allontana per sempre da Corinto sullo spetta colare carro di fuoco in­ viatole dal Sole. 29 . Il motivo dell'orfanezza è qui indiscutibilmente desunto dal Fedone platonico, laddove Fedone racconta al suo interlocutore Echecrate che, una volta Socrate lava tosi e prepara tosi a bere il veleno, «noi restammo là, ripar­ lando tra di noi di quello che si era detto, lamentando in parte la disgrazia che ci era capitata, e pensavamo che avremmo vissuto il resto della nostra vita co­ me degli orfani, privati del padre>> (n6a 3-8 ) . Luciano parodizza qui il para­ digma tipicamente platonico della filosofia come " paternità dell'anima" e del filosofo come " padre intellettuale " . Ma vale la pena di ricordare ai lettori, sul­ la scorta di quanto abbiamo detto nell'Introduzione ( cfr. supra, pp. 35 ss.) a proposito del possibile rapporto di rispecchiamento tra il Fedone platonico e

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i vangeli cristiani, che nel Vangelo di Giovanni, 14, 18 così si esprime Cristo nel suo ultimo colloquio con i discepoli, dopo la cena: «Non vi lascerò orfa­ ni, verrò di nuovo da voi». 30. Piangere da far ridere, dunque. Anche il motivo della mescolanza di pianto e di riso, di dolore e di piacere, è tema centrale del Fedone platonico, perché, sul filo di questa mescolanza, Platone gioca tutto il risvolto timico della filosofia o, meglio, rimette in gioco la filosofia come emozione, e speci­ ficamente come thaumdsion pathos, come " sensazione straniante " o più sem­ plicemente " straniamento" (Stella, 20o6a, pp. 61-9 ) . Questo è il passo chiave del Fedone: « [FEDONE] Io ho vissuto, in quell'occasione, una sensazione di straniamento (thaumdsia épathon). Perché non era come se stessi assistendo alla morte di un amico . . . perché - tu capisci Echecrate - lui sembrava calmo, i suoi gesti e le sue parole non tradivano alcuna inquietudine e lui si prepa­ rava a morire con una tale tranquillità e con una tale nobiltà che si sarebbe detto che se ne stava andando all'Ade per volontà del destino e che una vol­ ta arrivato là ci si sarebbe trovato bene come nessun altro. Perciò non prova­ vo la minima sensazione di tristezza, seppur sarebbe stato comprensibile da­ te le circostanze, ma nemmeno la minima sensazione di piacere, come acca­ deva generalmente quando si parlava tra di noi di filosofia, e i nostri discorsi vi si avvicinavano molto . . . insomma, io sentivo, all'idea che quell'uomo sa­ rebbe morto di lì a poco, una sensazione strana (dtop6n ti pathos) e un'inso­ lita mescolanza di dolore e di piacere (aéthes krasis ap6 te tes hedones synkek­ raméne homou kai apò tes lypes) . Tutti noi, più o meno, avvertivamo questa stessa sensazione, ed ora ridevamo, ora piangevamo» ( 58e- 59a 9 ) . Il paralleli­ smo e lo stravolgimento parodico operato da Luciano è potente: egli degra­ da la mescolanza di piacere e di dolore, degrada la sconcertante mescolanza di pianto e di riso a un " piangere da far ridere " , trasformando il sorvegliato equilibrio platonico in un'esagerazione ridicola e liquidando l'emozione filo­ sofica come una farsa volgare. 31. Teagene si comporta qui come la Santippe del Fedone e il suo doppio maschile, Apollodoro. Quanto a Santippe, così dice di lei Fedone: «Come en­ trammo, trovammo Socrate appena sciolto dalle catene e Santippe - tu la co­ nosci - accanto a lui con il bambino in braccio. Come ci vide, Santippe si mi­ se a lamentarsi e disse le solite cose che dicono le donne: " Socrate, questa è l'ultima volta che i tuoi amici parleranno con te e tu con loro " . E Socrate, dan­ do uno sguardo a Critone, gli disse: "Critone, riportatela a casa " . Sicché al­ cuni servi di Critone la portarono via, mentre lei gridava e si batteva il petto» (6oa 3-8) . Quanto ad Apollodoro, Fedone racconta a Echecrate che tutti lo­ ro, fedeli compagni e amici, si misero a piangere quando videro Socrate bere il veleno, e che in particolare «Apollodoro, che non aveva mai smesso di pian­ gere per tutto il tempo, proprio in quel momento scoppiò in un tale pianto e si mise a lamentarsi tanto che non rimase più uno che non piangesse, tranne Socrate» (n7d 3-6) . Socrate condanna immediatamente questi atteggiamenti, protestando che aveva fatto mandare via le donne allo scopo di non assistere a simili scenate (n7d 7-e I ) . Ed è proprio a partire dall'esclusione del femmi­ nile e dell'emozione in controllata che prende avvio la " seconda navigazione" della morte filosofica (Loraux, 1991a ) .

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32· Si tratta di una parafrasi america da Iliade, Xl, 775· 33· Inizia qui il racconto della vita di Peregrino che Luciano mette in boc­ ca a un simpaticissimo e informatissimo narratore anonimo. Con sorvegliata consapevolezza dei tempi diegetici, Luciano precisa infatti soltanto alla fine del di lui racconto: «Purtroppo non conosco il nome di quel benefattore» (PAR. 3 I ) . Sul significato dell'anonimia cfr. supra, pp. 65 ss. 34· L'Eraclito piangente e il Democrito che ride citati dall'anonimo sono quelli tratteggiati da Luciano nelle Vite ai PARR. I3-I4, cui rimandiamo insie­ me alle corrispondenti note di commento. Per il Democrito che ride cfr. an­ che qui, note I e ro. 35· Il narratore anonimo vanta sia una conoscenza autoptica sia una co­ noscenza per sentito dire da testimoni diretti. Si tratterebbe in sé di motivi topici della semiotica narrativa, non fosse che il particolare accanimento per­ secutorio contro Peregrino e la dovizie d'informazione tradiscono nell'ano­ nimo l'interesse tipico del curiosus, su cui cfr. supra, pp. 66 ss. Ma c'è un ri­ svolto ulteriore su cui forse non è improficuo appuntare l'attenzione. Il Van­ gelo di Luca, I , I-4, si apre con una dichiarazione di osservazione meticolosa in prima persona di tutti i fatti (parekolyth6ti pasin akribòs) e fin dal princi­ pio (dnothen) . La rivendicazione dell'anonimo nel racconto di Luciano è per­ fettamente sovrapponibile a questa: paraphyldxantos ed epiterésantos equi­ valgono al parekolyth6ti di Luca, ex arches ad dnothen, mentre entrambi gli autori ricorrono allo stesso avverbio akribos. Ora, è evidente che il comune modello di Luciano e di Luca è Tucidide e la topica dell'autopsia invalsa nel­ l'uso narrativo del racconto storico già a partire da Erodoto, prima ancora di Tucidide. Ma è vero che, a differenza di Tucidide, sia Luciano che Luca rac­ contano entrambi due vite incredibili e portentose, raccontano thaumata, di­ rebbe il greco. Inoltre, nel PAR. n, l'anonimo narratore afferma che i cristiani «io [Peregrino] veneravano come un dio. Divenne il loro legislatore nonché il loro Signore, secondo soltanto a quello là che ancora venerano, quel tale che è stato impalato in Palestina». Sicché Peregrino diventa un doppio di Cri­ sto. Potrebbe allora Luciano, già parodizzatore per eccellenza del racconto in sé (tanto filosofico come romanzesco), parodizzare altresì, alla luce di que­ ste considerazioni, le pretese di verità esibite dai racconti su Cristo, chiama­ ti vangeli? 36. È noto che Policleto avesse scritto un trattato sulla scultura, il cosid­ detto Kanon. Il " canone " policleteo era incarnato dal suo Don/oro, statua di un portatore di lancia realizzata sulla base di precisi studi matematico-geo­ metrici. È ovvio che qui il canone di Poli cleto diventa metafora ironica della perfezione morale e intellettuale di Peregrino. 37· Gli adulteri erano puniti tradizionalmente in questo modo dal mari­ to tradito. La penetrazione sodomitica dell'adultero con la radice urticante e irritante colpiva simbolicamente, attraverso la passivizzazione sessuale, la di­ gnità e l'integrità del maschio adulto. La pena del rafano è motivo presente nella commedia aristofanea, cfr. Nuvole, I083 e Pluto, I68. 38. Il cristianesimo viene dunque definito una sophia, una sapienza, pos­ siamo ben dire una filosofia. Rimandiamo il lettore a quanto è detto al pro­ posito supra, pp. 43 ss.

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39· In greco rispettivamente hiereusin , grammateusin, cioè " sacerdoti" e "scribi " . Si tratta di due termini neotestamentari. In particolare, la parola grammateus è da riferirsi ai funzionari della comunità giudaica e non certo cri­ stiana. È evidente che Luciano sta sovrapponendo le pratiche delle comunità cristiane a quelle giudaiche. Viene in mente la situazione delle scuole catechi­ stiche in ambiente gnostico (Filoramo, 1993 ) . In genere si dice che Luciano non distingue tra giudei e cristiani, allo stesso modo di molti altri intellettua­ li pagani, perché non comprende la specificità cristiana (Betz, 1961, p. 8 ; Ma­ cleod, 1991, p. 272 ) . A nostro avviso, la questione si pone diversamente. In­ nanzitutto Luciano non fa altro che riprodurre l'alta e innegabile permeabi­ lità reciproca tra comunità giudaiche e cristiane nel II secolo d . C . , una per­ meabilità attestata, ad esempio, dal fenomeno gnostico. In secondo luogo, for­ se a Luciano non interessa distinguere , ma piuttosto accumulare e sovrap­ porre, con l'intento di rappresentare una comune e diffusa ciarlataneria in cui si intrecciano religione, iniziazione, filosofia e scrittura, sul filo di una strate­ gia già tipica della langue comica, a partire innanzitutto da Aristofane. 40. In greco rispettivamente prophétes, thiasdrches, xynagogeus. Il termi­ ne chiave di questa triade è, a nostro avviso, il secondo. Si tratta di vero e pro­ prio hapax letterario, in quanto esso non compare in nessun testo della lette­ ratura greca e raramente nelle testimonianze epigrafiche, dove non assume al­ cun valore speciale. Non è da considerarsi nemmeno specifico delle comu­ nità giudeo- cristiane. A nostro avviso, questo termine ha tuttavia una voluta coloritura misterica, poiché significa letteralmente " capo del tiaso" , cioè di un' eteria iniziatica. Esso allunga anche sugli altri due lessemi, prophétes e xy­ nagogeus, l'ombra del lessico misterico. Prophétes è il ministro del culto, l'of­ ficiante. Più complesso il significato da attribuire a xynagogeus, che invece è tipico delle comunità giudeo- cristiane palestinesi. Dal momento che xynago­ geus significa letteralmente " colui che riunisce, convoca" una riunione, un simposio, un'assemblea ecc., si potrebbe avanzare, sulla scorta di thiasdrches e di prophétes, la seguente interpretazione: " colui che riunisce, convoca il tia­ so " , cioè la comunità degli iniziati. D'altra parte synagogé significa anche " adunanza dei figli di Israele " , cioè " sinagoga " , intesa sia come società dei fe­ deli, sia come luogo di culto. Sicché xynagogeus potrebbe significare sia ve­ scovo, sia capo della sinagoga. Luciano sovrappone dunque volontariamente e allusivamente il contesto misterico a quello liturgico giudeo- cristiano. Da ultimo va segnalata un'ulteriore possibile interpretazione di prophétes. Il ter­ mine potrebbe anche significare "veggente " , secondo chi, almeno, ritiene che Peregrino incarni il prototipo del cristiano montanista (Ramelli, 2005) . È no­ to infatti che Montano, l'eresiarca di Frigia (II secolo d . C . ) , pretendeva di par­ lare le parole del Santo Spirito (Lane-Fax , 1988, pp. 404 ss . ) . 41 . Peregrino sarebbe dunque stato interprete delle sacre scritture e d egli stesso autore di testi teologici. È interessante riportare al proposito l'ipotesi di Detering (2004, pp. 6-7) , il quale ricorda che Marcione redasse commenti ed esegesi di testi cristiani, delle epistole di Paolo, del vangelo di Luca, e scris­ se diverse opere teologiche oltre a lettere e salmi ( cfr. anche Von Harnak, 1985; Ehrman, 2005, pp. 138-44) . Che si tratti qui o meno di parodia del marcioni-

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smo, poco interessa . Piuttosto, il rimando alla carriera esemplare di Marcio­ ne come scrittore ed esegeta conferma che Luciano ha in mente una precisa situazione storica e culturale e conosce le diverse pratiche della scrittura nel­ le comunità giudeo-cristiane (gnostiche) . 42. Cristo è definito nomothétes, cioè " legislatore " , i n Matteo, 5, 17-18 e Luca, r6, 17. 43 · Il greco dice prostdtes, letteralmente " colui che presiede, che sta a ca­ po" : della comunità (iniziatica) , della sinagoga, di entrambe? Tuttavia, pro­ stdtes vale anche " patrono " ed è inoltre termine comune nelle testimonianze epigrafiche, dove designa generalmente il leader di una comunità nell'am­ biente giudaico. È inoltre possibile che l'insieme delle titolature evocate da Luciano, prophétes, thiasdrches, xynagogeus, nomothétes, prostdtes, venga a indicare, nel suo complesso, l'episcopato cristiano (Detering, 2004) . 44· Si tratta, ovviamente, di Cristo. Luciano sovrappone qui crocifissio­ ne e condanna del palo, giacché anaskolopfzo significa propriamente " legare al palo" e non crocifiggere. Anche Celso, Discorso vero, II, 36; VII, 40; VIII, 39, ricorre, come Luciano, al verbo anaskolopfzein, anziché a quello proprio ana­ staur6o o apotympanfzo. In Celso non si ravvisa nessun intento specifico nel­ l'uso di anaskolopfzo in luogo di apotympanfzo, sicché si potrebbe pensare a una tollerata intercambiabilità tra i termini. Ma nulla esclude che il contesto lucianeo implichi risvolti parodici (sul supplizio della croce cfr. Gernet, 1983, pp. 254 ss. e Cantarella, 1991, pp. 41 ss . ) . 4 5 · I l greco dice teleté, che noi abbiamo tradotto con " culto " . L a teleté è in realtà la pratica di iniziazione misterica. Per la sovrapposizione tra cristia­ nesimo, filosofia e misteri cfr. supra, pp. 50-r . 4 6 . I l fatto che siano soprattutto donne e bambini orfani ad affollarsi in­ torno al carcere di Peregrino è un motivo parodi co. Celso, Discorso vero, III, 44, afferma che il cristianesimo è un culto per ignoranti e creduloni, dunque, soprattutto, per donne e mocciosi. Celso parodizza senz'altro l'elezione dei semplici sostenuta dalla tradizione evangelica, per cui cfr. ad esempio Mat­ teo, II, 25 e Luca, ro, 21-22. Nel caso di Luciano, è piuttosto macroscopico il rovesciamento del Pedone, dove si escludono donne e bambini dallo spetta­ colo della morte filosofica, mentre nel Peregrino questi esclusi non sono solo presenti, ma si moltiplicano in una gran folla. E tuttavia, alla luce del Discor­ so vero di Celso, non è imprudente scartare un'allusione lucianea più diretta al cristianesimo come " religione degli umili " ? 47· Kainòs Sokrdtes, "novello Socrate" , appunto. Tutto questo paragrafo parodizza esplicitamente la scena del Pedone platonico, già peraltro evocata allusivamente in precedenza . Come i compagni di Socrate, i seguaci di Pere­ grino usano visitare il maestro in carcere, sfruttando la flessibilità se non la corruttibilità delle guardie. Il parallelo tra Socrate e Cristo è topico della let­ teratura cristiana tra II e III secolo d . C . : «La vicenda di Socrate [ . . . ] viene già accostata a quella di Cristo e dei suoi fedeli nell'autodifesa di alcuni martiri cristiani, messi sotto processo tra II e III secolo d.C. [ . . . ] Luciano appuntava intanto la sua satira su Peregrino [ . . . ] che aveva inscenato uno spettacolare suicidio durante i giochi olimpici del 165 d.C. Una volta che era stato incar-

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cerato, una folla di cristiani era corsa a provvedergli da mangiare, e dare pub­ blica lettura di scritti sacri, e celebrarlo come "novello Socrate " : e Luciano si appropria, con ripetuta ironia, del paragone» (Sassi, 1997, p. 1327 ) . Evidente­ mente Luciano trasferisce a Peregrino il posto di Cristo nella topica compa­ razione Socrate-Cristo. 48 . È interessante notare che Paolo in I Corinzi, 9 dibatte a lungo della cosiddetta exousia apostolica, facoltà concessa a ciascun apostolo di vivere a spese della comunità. Sembrerebbe, a quanto dice Luciano, che Peregrino si sia avvalso di questa precisa facoltà. 49 · A partire da qui, sino alla fine del paragrafo, Luciano ritesse una se­ rie di topoi della libellistica anticristiana. Lo ricaviamo dal Discorso vero di Celso. Sulla credulità dei cristiani cfr. ad esempio I, 8 : «Infatti spesso in casi del genere taluni imbroglioni, puntando sullo scarso discernimento di chi si lascia ingannare con facilità, lo menano per il naso a loro pia cimento; e lo stes­ so avviene nel caso dei cristiani. Taluni, non volendo dare o ricevere conto dell'oggetto della loro fede, ricorrono a frasi come " La tua fede ti salverà " o ancora " La sapienza in questa vita è un male, la follia è un bene "», ma cfr. an­ che I, 23; II, 8 e 44; VI, 12. Sulla mancanza di amore per la vita e sull'offerta di sé alla morte cfr. ad esempio VIII, 54: «Essi [i cristiani] offrono sconsiderata­ mente il loro corpo alle torture e alla crocifissione. Non amano la vita. Sono simili a malfattori che a giusto titolo subiscono le punizioni che meritano per le loro ruberie>>, ma anche I, 26: «Pochissimi anni or sono costui introdusse questo insegnamento, e fu considerato dai cristiani figlio di Dio. Essi si sono lasciati ingannare e hanno accettato un discorso che rovina la vita umana>>. In altri frammenti Celso accusa i cristiani di vera necrofilia, perché essi adorano un morto (VII, 36) . Quanto all'autoconvinzione di immortalità dei cristiani, cfr. II 77, dove è un giudeo tradizionalista a parlare così causticamente: «Cer­ to, speriamo anche noi di risorgere con il nostro corpo e di avere una vita eter­ na; e speriamo che il modello e l'iniziatore di questa vita sarà colui che viene mandato a noi, dimostrando così che non è impossibile per un dio far risor­ gere qualcuno con il suo corpo. Ma dov'è, affinché possiamo vederlo e cre­ dere in lui?>> (trad. di G. Lanata) . 50. Siamo noi a esplicitare il nome " C risto" per disambiguare i l testo, che di Cristo non fa mai esplicita menzione. In realtà, c'è chi non è convinto che tale "primo legislatore " sia Cristo, evocato tuttavia inequivocabilmente alla fine di questo stesso periodo attraverso la perifrasi " s apiente impalato " . Pilhofer, Baumbach e Hansen (2005, p. 64, nota 47) ritengono infatti che que­ sto " primo legislatore " sia non Cristo, ma piuttosto san Paolo. Secondo tale interpretazione, Luciano direbbe dunque che il primo legislatore dei cristia­ ni, cioè Paolo, insegnò loro a essere fratelli, ad abbandonare gli dèi pagani e a venerare esclusivamente il " sapiente impalato" di Palestina, cioè Cristo. Ma la duplice e contemporanea citazione di Cristo e san Paolo nel medesimo gi­ ro di frase non comporta forse un'allusività eccessiva? È pur vero che il tema del rifiuto degli idoli e dell'adorazione del solo Cristo è anche paolina (ad esempio I Tessalonicesi, 1, 9 ) , ma che cosa ci autorizza effettivamente a com­ plicare il gioco della parodia lucianea? Certo, questo non esclude in ogni ca­ so che Luciano potesse conoscere la tradizione paolina, se non quella scritta,

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almeno quella diffusasi oralmente. Sottolineiamo da ultimo che, in ogni caso, la rescissione della figura di Cristo da quella di Paolo in questo passo lucia­ neo è forse dovuta a un'interpretazione non soddisfacente della sintassi. Per questo cfr. in/ra, nota 53· 51. È la cosiddetta "fratellanza " , in greco philadelphfa, delle comunità cri­ stiane cui si appella san Paolo, ad esempio in I Tessalonicesi, 4, 9 e II Tessalo­ nicesi, I, 3, ma che ricorre come motivo forte innanzitutto nel Nuovo Testa­ mento. L'amore reciproco tra i cristiani è deriso anche da Celso nel Discorso vero, 1, I e liquidato come pratica segreta che viola le istituzioni tradizionali. 52. C'è chi vede qui, nel motivo della prostrazione, proskynesis, di fron­ te a Cristo, un ulteriore motivo paolina, cfr. Filippesi, 2, ro, che tuttavia è già diffuso nel Vangelo di Matteo, da confrontarsi anche con Luca, 24, 52 (Pilho­ fer, Baumbach, Hansen, 2005) . 53· È forse da imputare a questo ekeinon il motivo per cui, come abbia­ mo indicato supra, nota 50, alcuni interpreti hanno rescisso la figura di Cri­ sto, definito «quel [ekeinon, appunto] sapiente impalato», dalla figura del " primo legislatore " , identificato piuttosto con san Paolo. Il determinativo ekeinon sembrerebbe in effetti separare il sapiente dal legislatore . Ma in realtà l' ekeinon scaturisce da un'improwisa virata del focus narrativo, la qua­ le sovrappone alla voce del narratore anonimo quella dell'autore Luciano. Si tratta, insomma, di un caso lampante d'interferenza autoriale nella finzione del racconto. D'altra parte, va detto che il gioco di Luciano consiste nel non nominare mai esplicitamente Cristo, per tenere sempre teso il filo della peri­ frasi parodica. Il risultato è che ci troviamo di fronte a un eccesso di appella­ tivi i quali rifrangono e moltiplicano il soggetto del discorso. 54· Cioè sempre Cristo, definito sophistés, sapiente, e nel senso negativo del termine. Luciano sovrappone sapienza, sophfa, e culto, secondo un pun­ to di vista già affermatosi nel teatro e nella filosofia della polis antica . L'im­ magine del filosofo come " uomo divino" risale almeno a Pitagora. Quanto al teatro, e precisamente alle Baccanti euripidee, i misteri di Dioniso sono visti da Penteo come un'aberrante e astuta forma di sophfa. 55· La comunità dei beni tra i cristiani è descritta negli Atti degli aposto­ li, 2, 44-46. Colà si afferma che quanti avevano possedimenti e denaro li ven­ devano e li ridistribuivano a ciascun membro della comunità. 56. Goes e technftes, dice il testo greco, cioè, rispettivamente, " mago" ed " esperto" . Agli occhi della libellistica anticristiana, il mago-ciarlatano è per eccellenza e innanzitutto Cristo stesso. Al proposito cfr. quanto afferma Cel­ so, Discorso vero, l, 6: «Gesù riuscì a compiere miracoli a lui attribuiti in for­ za di arti magiche» (trad. di G. Lanata) . Ma, più in generale, i cristiani tutti sono considerati da Celso stregoni da quattro soldi, cfr. I, 6 e 68; VIII, 37· 57· In realtà, a Pario non rimangono tracce né archeologiche né epigrafi­ che della presenza e della storia di Peregrino. Non abbiamo dunque riscon­ tro alcuno di quanto afferma l'anonimo narratore sulla ricchezza e sull'ere­ dità di Peregrino. Quanto al fatto che l'anonimo accenni a cinque " borghi" o " distretti" circonvicini, sappiamo che il territorio di Pario era piuttosto esteso e dai confini non sicuramente definibili (Frish, I983, p. 47) .

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58. E il travestimento tipico del cinico. Cfr. i PARR. 7-9 delle Vite. 59 · Cratete, allievo di Diogene, secondo la tradizione. Diogene Laerzio, VI, 87 riporta la storia d'una sua devoluzione di beni personali in favore del­ la città. 6o. Luciano fa dunque riferimento a una trasgressione rituale di Pere­ grino, che sarebbe consistita nel nutrirsi di cibi proibiti. C'è chi pensa che si tratti delle cosiddette " carni offerte agli idoli " di Paolo, I Corinzi, 8 e di Atti degli apostoli, 15, 29 (Betz, 1961 , p. n; Pilhofer, Baumbach, Hansen, 2005, ad loc. ) . Ma forse si tratta più semplicemente della violazione d'una regola ko­ sher, dal momento che le comunità cristiane di Palestina erano in realtà co­ munità giudeo-cristiane ligie alle regole igieniche tradizionali. 61 . Di Agatobulo non sappiamo pressoché nulla. Luciano lo cita anche in Demonatte, 3 come allievo di Demetrio e maestro di Demonatte, ma senz' altro aggiungere. Lo scolio ad loc. associa Agatobulo a Epitteto e De­ metrio come filosofi molto celebri del loro tempo. Dal ritratto lucianeo, Aga­ tobulo parrebbe essere un cinico estremista, caposcuola di pratiche ascetiche desunte forse da tecniche dell'estasi brahamaniche. 62. Le pratiche di indifferenza ascetica in ambiente cinico-stoico sono le­ gate al tema dell' adidphoron, di cui abbiamo discusso nella nota 81 relativa a Crisippo, nelle Vite, cui rimandiamo direttamente. Diogene Laerzio ne dà ampia testimonianza (ad esempio VI, 9 e 105; II, 46 e 69), come anche Epitte­ to, Diatribe, I, 24, 6. 63. Si pensa, per comune accordo, che si tratti di Antonino Pio. 64. Musonio è il filosofo stoico che fu maestro di Epitteto, quando costui era ancora schiavo di Epafrodito, il potente segretario di Nerone. Musonio fu considerato, pare ingiustamente, uno degli ispiratori della congiura pisoniana contro l'imperatore, e venne esiliato, nel 65 d.C., nell'isola di Giara. Quanto a Epitteto, non sappiamo quando fu liberato, ma sappiamo che conobbe anch'e­ gli l'esilio nel 90, per volere di Domiziano. Si stabilì quindi definitivamente a Nicopoli, dove morì forse verso il 130. Dione è il celeberrimo retore di Prusa, detto Crisostomo per la sua facondia, pure lui esiliato da Domiziano per la sua amicizia con il nobile Flavio Sabino, caduto in disgrazia presso l'imperatore. 65. Non sappiamo nulla in merito. Semplicemente, la Vita di Antonino Pio, 5, 5 ci informa che l'imperatore dovette reprimere ribellioni anche in Gre­ cia e in Egitto. 66. Erode Attico è il celebre oratore , maestro a Roma degli " infanti " Marco Aurelio e Lucio Vero, che gli furono affidati personalmente dall'im­ peratore Antonino Pio, nonché politico di grande rilievo in Grecia e a Roma stessa, dove ottenne il consolato. Uomo di cospicua ricchezza, contribuì ad abbellire più d'una città della Grecia e specialmente Atene, dove fece co­ struire l' Odeton, sulle pendi ci dell'Acropoli, ancora perfettamente agibile. Sull'acquedotto da lui fatto costruire a Olimpia ci resta un'iscrizione datata 153 d . C . , proveniente dal Ninfeo, dal quale è verosimile che oratori, filosofi e Peregrino stesso solessero arringare la folla nelle loro pubbliche esibizioni. 67. Cfr. infra, nota 99· 68. Peregrino viene dunque accusato di teatralità. L'accusa di teatralità contro il sapiente-filosofo è antica almeno quanto le Nuvole di Aristofane, do-

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ve assistiamo, teatro nel teatro, alla recita di un Socrate maestro di ciarlata­ neria. I.: accusa risuona poi fortissima nel Fedone platonico, anzi, vi viene let­ teralmente interiorizzata, perché qui è Socrate stesso a paragonarsi all' attor tragico: «Quanto a me, ormai, " m'invola il fato" , direbbe un attor tragico, ed è quasi ora che mi avvii al bagno>> ( n 5a 5-6), quindi al buffone comico: «Ma insomma, se mi si ascolta davvero, credo che nessuno - nemmeno uno che fa­ cesse il poeta comico - mi potrebbe spacciare per un ciarlatano che chiac­ chiera a vanvera ! >> (7ob ro-c 2). Il narratore anonimo del racconto lucianeo evoca poi un paradigma tragico specifico, quello della morte di Eracle, per smontare l'apparente singolarità del gesto di Peregrino e ricondurlo a un mo­ dello riproducibile. Va infine ricordato che l'accusa di teatralità era frequen­ te contro i cristiani, cfr. Marco Aurelio, Pensieri, IX, 3 · 6 9 . I l modello d i Eracle sulla pira diventa ricorrente nella cristologia del­ la prima cristianità e viene assunto come paradigma di confronto con la mor­ te miracolosa di Cristo. Bisogna dunque riconoscere una almeno triplice mo­ tivazione nel richiamo così forte e insistente su Eracle. Se da un lato c'è il ri­ ferimento alla tradizione mitica greca, dall'altro c'è l'assunzione di Eracle a esempio di vita da parte dei cinici e forse, ancora prima, da parte di Antiste­ ne, e c'è infine l'appropriazione cristiana dell'eroe sofferente come prefigu­ razione del Cristo morto e assunto in cielo in una miracolosa apoteosi (A une, 1990, pp. 3-19 ) . 7 0 . Secondo i l mito fu Filottete ad appiccare i l fuoco alla pira d i Eracle, non osandolo né Iolao, né gli altri compagni, cfr. Diodoro Siculo, IV, 38; Igi­ no, Miti, 102; Ovidio, Metamorfosi, IX, 229-234. 71. Falaride è il tiranno di Agrigento, celebre per il toro di metallo nel quale faceva arrostire i suoi nemici . 72. Viene qui appena accennato il motivo della parodia del sacro, svi­ luppato in seguito nei PARR. 28 e 39-41. Cfr. in/ra, nota 81. 73· Luciano si riferisce a Erostrato, un tale che diede fuoco al tempio di Artemide, a Efeso, nel 356 a . C . , cfr. Eliano, La natura degli animali, VI, 40; Strabone, XIV, 22, 640. 74· I.: accusa di codardia contro Teagene e contro i cinici seguaci di Pe­ regrino, accusa di non voler seguire nella morte il maestro, ricorda la critica di Celso agli apostoli di Cristo, cfr. Il discorso vero, Il, 45: «Allora, i compagni che ne avevano condiviso la vita e ascoltato la voce, e che lo consideravano un maestro, vedendolo torturato e ucciso non morirono con o per lui e non si lasciarono convincere a disprezzare le torture, anzi negarono persino di es­ sere suoi discepoli; e ora voi volete morire con lui ! >> (trad. di G. Lanata) ; cfr. anche II, 9 · 75· L a sapienza e l e pratiche ascetiche brahamaniche cominciano a esse­ re note ai Greci a partire dalle conquiste di Alessandro. Una delle più affa­ scinanti e suggestive descrizioni dei brahamani ce l'ha lasciata Filostrato (III secolo d . C . ) nella sua Vita di Apollonia di Tiana, m, 15. Apollonia - a detta di Filostrato, che a sua volta riferisce la testimonianza di Damis - soggiornò per quattro mesi presso di loro in una regione tra l'Ifasi e il Gange, dove Ales­ sandro non giunse, sopra un'altura fortificata: «Damis racconta che essi dor­ mono sulla terra, e che questa distende erba a loro volontà, ma che egli li vi-

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de sollevarsi per aria fino a due cubiti sopra il suolo: non per suscitare mera­ viglia, giacché rifuggono da tali esibizioni, ma perché ritengono che tutto ciò che fanno elevandosi sopra la terra, come il sole, riesca gradito al dio. Il fuo­ co che traggono dai raggi solari ha natura corporea, ma essi non lo ardono sull'altare, né lo serbano nei focolari: come i raggi del sole che si rifrangono nell'acqua, esso appare sospeso e ondeggiante nell'etere [ . .. ] . Sebbene sem­ brino vivere allo scoperto, traggono un'ombra sopra di sé, cosicché non si ba­ gnano quando piove e possono resistere al sole tanto quanto vogliono. [ . . . ] Usano tenere le chiome lunghe [ . . . ] . Portano un turbante bianco e incedono a piedi nudi, e si avvolgono al corpo l'abito in una foggia tale da lasciare sco­ perta una spalla e il braccio. La materia di cui sono fatti gli abiti è una lana prodotta spontaneamente dalla terra [. .. ] dalla quale stilla un liquido grasso simile all'olio. Con questa lana si fanno un abito sacro [ . . . ] . L'anello e il ba­ stone che portano hanno il potere di operare ogni cosa, e sono entrambi ve­ nerati come strumenti arcani» (trad. di D . Del Corno ) . 7 6 . Onesicrito e r a stato allievo di Diogene e pilota di Nearco, ammira­ glio di Alessandro. Nella sua storia delle imprese di Alessandro (cfr. Strabo­ ne, XVI, 63 ss.) egli riferiva delle pratiche brahamaniche ravvisando in esse pa­ ralleli con il modo di vita dei cinici. I rapporti tra brahamanesimo e cinismo sono stati recentemente esplorati (]ones, 1993; Muckensturm, 1993 ) . Quanto invece a Calano, si tratta di un saggio e asceta indiano che a Taxila incontrò Alessandro nel 326 a.C. e lo seguì fino all'anno della propria morte, che av­ venne nel dicembre del 325. Calano era entrato a tutti gli effetti nella corte di Alessandro, pare con un ruolo di spicco (Bosworth, 1998 ) . Calano si diede fuoco in Persia a Pasargade. E tuttavia, probabilmente, se Luciano ricorda il rogo di Calano come primo esempio di morte per fuoco del saggio, altri casi, più vicini a lui, dovettero essere quelli che concretamente lo ispirarono. Ad esempio, il caso di Zarmanochegas, detto anche Zarmaros, che si diede fuo­ co nell'Atene di Augusto intorno al w a . C . , come raccontano Strabone, XVI, 73, 719-720 e Cassio Dione, LIV, 9, ro. Va sottolineato che Cassio Dione, tra gli altri possibili motivi, attribuisce alla philotimfa, cioè alla brama di notorietà, la scenografica fine di Zarmanochegas, poiché alla stessa spiegazione ricorre Luciano nel caso di Peregrino. 77· Sarà un caso che sulle monete imperiali della consecratio dell'impe­ ratore post mortem compaiano, a partire da Traiano, la fenice e la pira? Qui la fenice è sicuramente simbolo di sopravvivenza dopo la morte. Su questo uccello meraviglioso cfr. Erodoto, II, 72; Ovidio, Metamorfosi, xv, 392 ss.; Ta­ cito, Annali, VI, 28. 78. Il greco dice daimoni nyktophylaki e cfr. subito sotto, al PAR. 28, an­ cora daimona nyktophylaka. Gli eroi diventano demoni protettori dopo la lo­ ro morte già in Esiodo, Opere e giorni, 122 ss. È evidente che la trasformazio­ ne in entità demonica è una tipica consecratio che ripete quelle di molti altri sapienti cui la tradizione attribuisce morti miracolose e successive riappari­ zioni (Rohde, 1982, pp. 1 56-62; Dodds, 1978, pp. 247 ss . ) . I casi più vicini a Pe­ regrino sono quelli di Apollonio di Tiana, sulla cui morte molte cose si rac­ contano, tra le quali che fu assunto in cielo nel tempio di Dictinna, cfr. Filo­ strato, Vita di Apollonia di Tiana, VIII, 30, e che riapparve poi sotto forma di

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visione a un giovane dedito alla filosofia, convertendolo alla credenza del­ l'immortalità nell'anima, cfr. VIII, 31, e il caso di Alessandro di Abonutico, cui Luciano stesso consacrò il suo Alessandro ovvero il falso pro/eta. Il santone taumaturgo, il theios anér, è vera e propria figura antropologica che conosce tra I e II secolo d . C . un rinnovato successo e molteplici, nuove formulazioni, saldandosi, peraltro, a quella di Cristo (Bieler, 1967; Betz, 1968; Smith, 1971; Betz, 1972; Gallagher, 1982) . 79· Secondo la testimonianza di Atenagora, Ambasceria per i cristiani, 26, 2, esisteva effettivamente una statua di Peregrino a Pario, anche se per nulla d'oro. Viene tuttavia in mente il caso di Gorgia, che si sarebbe fatto erigere una statua d'oro a Delfi, secondo Plinio, Storia naturale, XXXVIII, 83, mentre Cicerone, Sull'oratore, III, 32, 129 afferma piuttosto che furono i Greci a de­ dicargliela. Cfr. anche Pausania, X, 78, 7· So. Questi prevedibili tentativi di imposturare un oracolo rimandano, evidentemente, allo scenario dell'Alessandro dello stesso Luciano. 81. Messa alla berlina del sacro e soprattutto delle cerimonie iniziatiche e misteriche . Più sotto ( cfr. PAR. 4!) Luciano forgia addirittura un paio di de­ nominazioni, nekrangélous e nerterodr6mous, per i seguaci di Peregrino, or­ mai divenuti, dopo la di lui morte, ministri del suo culto ( cfr. in/ra, nota 114) . Va tuttavia notato che i rituali, se così si può dire, dei "misteri di Peregrino" descritti da Luciano, con le loro flagellazioni e i loro bruciamenti, ricordano in realtà uno scenario da punizione oltremondana, così come lo descrive Lu­ ciano stesso nel suo scritto La necromanzia, ma come secoli prima aveva già descritto Platone, Repubblica, X, 615e-616a. Vengono anche in mente le cacce infernali della cosiddetta schiera di Ecate (Rohde, 1982, pp. 744- 51; Vernant, 1987) . Tutta la scena è comunque ispirata a un gusto del noir e della ghost story tipico dell'età di Luciano. La Vita diApollonio di Filostrato ne è letteralmente intessuta, tra esorcismi, purificazioni, apparizioni sovrannaturali (Tasinato, 1988 ) . Sul piano più specificamente teorico, le storie di fantasmi costituisco­ no in Luciano un forte controcanto parodico del racconto di verità e riaffer­ mano, per metafora, i diritti della mimesis e della phan tasia sulla filosofia, co­ me accade nel finale dell'Amante della menzogna. 82. La Sibilla è la leggendaria figura di veggente invasata da Apollo che predice su una roccia, in una grotta, senza strumenti né ornamenti, e che nel corso della tradizione si moltiplicò in molte altre figure. Si contano fino a 17 Si bilie, le nove ioniche, le cinque italiche, le tre orientali. Già la cita Eraclito, 92 DK, e quindi Aristofane, Pace, m9; Platone, Fedro, 244b e Teagete, 124d; ma anche Cicerone, La divinazione, I, 4, 79; Plinio, Storia naturale, VII, 119; Cle­ mente di Alessandria, Stromati, I, 21 , 132, senza nominare le testimonianze tar­ do-antiche. Noi possediamo un corpus in 14 libri di Oracoli sibillini, una rac­ colta di responsi oracolari su guerre, catastrofi, terremoti, che fu con tutta probabilità costituita intorno al v secolo d.C. Interessante è quanto dice Cel­ so in Discorso vero, VII, 53, sull'abuso cristiano degli oracoli sibillini: «Avreste anche potuto, con maggiore verosimiglianza, proporre come figlia di Dio la Sibilla, che alcuni di voi già sfruttano: invece, siete capaci di interpolare a ca­ saccio nei suoi scritti molte espressioni blasfeme». Celso fa dunque intende­ re che i cristiani si erano appropriati della tradizione pagana degli oracoli si-

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