Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo 8815084444, 9788815084446

Con questo saggio Claudio Giunta propone una rilettura della poesia italiana medievale, intesa a rimetterne in luce l�

279 98 156MB

Italian Pages 552 [549] Year 2002

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo
 8815084444, 9788815084446

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Claudio Giunta Versi a un destinatario Saggio sulla poesia ilaliana del Medioevo

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insiem e delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet:

http://www.nnilino.it

CLAUDIO G IU N TÀ :

A.

Versi a un destinatario Saggio sulla poesia italiana del M edioevo

IL MULINO

Questo libro è stato pubblicato con il contributo del «Lila Wallace - Reader’s Digest Publication Subsidy at Villa I Tatti».

ISBN 88-15-084444 Copyright © 2002 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso intemo o didattico, non autorizzata.

Indice

Introduzione

p.

9

1. Preliminari sull’oggetto della ricerca, la periodizzazione e il m etodo, p. 9. - 2. Interpretazioni attualizzanti della poesia medievale, p. 16. - 3 . Intertestualità, p. 30. - 4. ‘Authorship’, p. 48. - 5. Dialogicità, impegno, realismo, p. 62.

I.

Il modo dialogico

71

1. D ue testi del Duecento, p. 71. - 2. Testi di cor­ rispondenza, p. 86. - 3. Prose e poesie destinate a un singolo, p. 96. - 4. In diacronia: i temi, p. 102. - 5. In diacronia: la form a retorica, p. 107. - 6. Destinatari della poesia d ’amore, p. 117. - 7. L ’uom o in generale, p. 130. - 8. Committenza, p. 140. - 9. Collaborazione, p. 150.

II.

Le rime di corrispondenza 1. D ue tipi di tenzone, p. 167. - 2. Modelli epi­ stolari, p. 170. - 3. Retorica della lode, p. 181. 4. Altre formule ‘fìsse’ di matrice epistolare nelle rime di corrispondenza, p. 186. - 5. Il modello della «quaestio», p. 194. - 6. L ’influenza dei due modelli in diacronia, p. 205. - 7. L a fisionomia del genere nel Trecento e nel Quattrocento, p. 213. - 8. Rime di corrispondenza come lettere in versi, p. 223. - 9. Sui rapporti con la tradizione trobaaorica: tenzoni-«joc», p. 231. - 10. Tenzoni fittizie, p. 255.

167

III.

La tradizione comico-realistica

p. 267

1. Contro l’interpretazione metaletteraria, p. 267. - 2 . 1 sonetti di Cecco Angiolieri a Dante, p. 273. - 3. Cecco Angiolieri: i sonetti amorosi, p. 278. 4. Cecco Angiolieri: i sonetti comico-realistici, p. 291. - 5. Rustico Filippi, «Q uan d o D io», p. 302. 6. Cavalcanti, «G uata, M anetto», p. 306. - 7. Una ridefinizione del ‘genere’ comico-realistico, p. 321. - 8. Sull’evoluzione del ‘genere’, p. 329. - 9. Tradizione comico-realistica e poesia di corris­ pondenza, p. 338. - 10. Il mancato incontro tra introspezione e creaturalità, p. 351.

IV.

Sulla lirica

355

1. L a verità della poesia, p. 355. - 2 . 1 siciliani, p. 359. - 3. L a prima generazione toscana, p. 364. 4. Cino e Io stilnuovo, p. 369. - 5. Le ballate del «D ecam eron», p. 373. - 6. Q uando la lirica diventa vera, p. 380. - 7. Il tu lirico, p. 392. - 8. Retorica lirica e retorica della comunicazione quotidiana, p. 405. - 9. A chi parla la poesia d’amore, p. 410. - 1 0 .1 nomi, p. 423. - 11. D can­ zoniere, p. 429. - 12. L a «Vita nova», p. 436. 13. Il «Canzoniere», p. 439. - 14. M acroretorica dei canzonieri e microretorica dei testi, p. 449.

V.

Significato e destino della poesia ‘oggettiva’ 1. L ’arte ridotta sotto la categoria dell’utile, p. 455. - 2. D i che cosa si poteva parlare in poesia, p. 465. - 3. L ’età del poeta doctus, p. 472. - 4. Il sistema dei generi medievali paragonato a quello moderno, p. 487. - 5. D op o u Medioevo, p. 503.

455

( Conclusioni

p. 513

Bibliografia

525

Indice dei nomi

539

H o scritto buona parte di questo libro allo «H arvard University Center for Italian Renaissance Stu d ies» (Villa I T atti), dove sono stato borsista nell’Anno A ccadem ico 19992000. A questa istituzione, e agli amici trovati o ritrovati a Firenze, va la mia sincera gratitudine. S on o m olto grato, inoltre, a quanti, durante e d op o la stesu ­ ra, m i hanno aiutato con il loro consiglio: Pietro G . Beltrami, Stefano Carrai, M aría H ernández Esteban, G u id o M azzoni, A r­ m ando Petrucci, M arco Santagata, G ianluigi Sim onetti, Paolo S q u illa to ti, A lfredo Stussi, Sergio Vatteroni, M ichelangelo Z a ficarello. 1

Introduzione

1. Preliminari sull’oggetto della ricerca, la periodizzazione e il metodo 1.1. Breve o lungo periodo? Questo libro non tratta di un genere o di un autore in particolare ma di un periodo della storia letteraria che si estende approssimativamente dai primi documenti della poesia in volgare italiano al petrarchismo. Ciò non signifi­ ca che nelle pagine che seguono il lettore troverà una sto­ ria della poesia di questi due secoli ma solo che quasi tut­ te le osservazioni che farò si riferiranno ad autori e a testi cronologicamente compresi entro i due termini indicati. È, nel panorama storiografico attuale, una scelta abba­ stanza anomala da richiedere una giustificazione. Per convenzione e comodità d’uso, i manuali scandis­ cono la storia letteraria per secoli; fanno cioè quello che da molto tempo hanno cessato di fare i manuali di storia tout court, per non dire di quelli che, affrontando temi e concetti più vicini all’antropologia che alla storia (le forme di convivenza sociale, i modi di produzione eco­ nomica, le mentalità), non hanno altra scelta se non quella di proiettarsi su tempi lunghissimi1. C ’è dunque, o con­ veniamo che ci sia, una storia della letteratura italiana del Quattrocento così come ce n’è una del Seicento o del 1 Ciò in sintonia con la crìtica che alla periodizzazione dei manuali era stata mossa da Marc Bloch: «Nello scompiglio delle nostre classifi­ cazioni cronologiche si è introdotta una moda, abbastanza recente, cre­ do, e tanto più invadente, in ogni caso, quanto poco è razionale. Noi, volentieri, contiamo per secoli» (Apologia della storia, Torino, Einaudi 1969, p. 154).

Novecento. Sebbene nessuno dubiti che eventi politicomilitari di grande rilievo o, a maggior ragione, episodi che appartengono alla stessa serie storico-letteraria (come, ti­ picamente, la pubblicazione di un’opera destinata a gran­ de risonanza) ‘facciano data’ ben più delle scadenze dei cento anni, questa coscienza non sembra ancora aver in­ crinato la fiducia nel tradizionale impianto per secoli. S’intende però che quest’inerzia, se a livello manualistico si giustifica per uno scopo didattico, non ha alcuna ragion d’essere oggettiva, nella natura dei fenomeni osservati, e andrà superata. Questo superamento può avvenire in due direzioni. Si può restringere l’orizzonte dell’indagine concentrandosi su una generazione (come è normale fare, per esempio, nello studio della letteratura spagnola del Novecento), o su una ‘scuola’ (categoria però già sospetta in quanto ri­ specchia un giudizio preformato, anteriore all’analisi), op­ pure isolando un arco di tempo ancora più ristretto: così un capolavoro della storiografia letteraria come American Renaissance fa centro sul quinquennio 1850-1855; e così - per dire dell’Italia e di un’età che, coincidendo grosso modo col termine ante quem che abbiamo fissato per la nostra ricerca, ci riguarda più da vicino - alla letteratura di un decennio sono dedicati i saggi che Mario Martelli ha raccolto in un volume recente2. E si può, al contrario, ampliare l’orizzonte dell’indagine e intraprendere ricer­ che di lungo o lunghissimo periodo. Come vedremo subi­ to, ci sono buone ragioni per ritenere che proprio questo sia, nello studio della letteratura medievale, l’approccio migliore, cioè quello più corretto dal punto di vista teori­ co e, insieme, quello che promette di dare i risultati più interessanti. Il che non significa sempre più sicuri o inec­ cepibili o filologicamente fondati. A mano a mano che si allarga la prospettiva, una perdita di esattezza nei partico­ lari appare inevitabile. Ma guarire dal feticismo dei parti-

2 M. Martelli, Letteratura fiorentina del Quattrocento. Il filtro dej anni Sessanta, Firenze, Le Lettere 1996.

colari è probabilmente la prima condizione, e la più ne­ cessaria, per poter dare una descrizione veritiera di qual­ siasi ‘epoca lunga’ della letteratura, e di questa sopra tut­ te. 1.2. Una storia delle funzioni letterarie Una simile ridefinizione dei tempi della storia lettera­ ria invita a una parallela revisione dei metodi e una nuova selezione degli oggetti sui quali dev’essere esercitato il giudizio. Qui daremo perciò il minore spazio possibile ai due soggetti che ‘fanno’ la storia della letteratura ma non sono in se stessi la letteratura: gli autori e le opere. O me­ glio, ce ne occuperemo di scorcio, da due prospettive la­ terali. Trattando, in primo luogo, autori e opere come esempi di quello che è e di quello che non è in un dato momento del Medioevo la poesia (a questo scopo verran­ no talvolta citati e commentati per esteso testi che ho rite­ nuto adatti a caratterizzare in breve lo stato della poesia nella loro epoca). E, in secondo luogo, adoperando que­ sta materia prima della storia letteraria come funzione diacronica: concentrandoci dunque non sugli autori e sul­ le opere ma sull’influenza che gli uni e le altre ebbero sul­ la letteratura delle età successive. Questo sacrifìcio delle personalità e questa risoluzione delle opere nel flusso della Letteratura sono legittimi, in uno studio sulla poesia medievale, perché in quest’epoca tanto le une quanto le altre raramente spiccano per origi­ nalità. L ’orizzonte letterario medievale muta molto più lentamente rispetto a quello moderno sia perché la dialet­ tica fra tradizione e innovazione tende a identificare nel primo termine, nella fedeltà al passato e alla norma, il ‘po­ sitivo’ dell’arte, nel secondo, nell’invenzione dei moderni, l’elemento censurabile; sia perché delle nuove idee esteti­ che e delle nuove opere rivoluzionarie (quali possono es­ sere, nell’ambito nostro, la Vita nova e il Canzoniere) si tarda, per varie ragioni (la più banale e importante delle quali è legata a circostanze pratiche come l’assenza di un

polo culturale - corte, capitale, accademia - sufficientemente forte da favorire la fissazione di un codice), si tar­ da, dicevo, a comprendere il reale significato e la portata: sicché esse o restano inerti o vengono banalizzate nell’u­ so, integrate nel quadro delle forme e dei temi già speri­ mentati. Su che cosa dunque fondare l’analisi, se non sugli uo­ mini e sulle opere? Nel saggio Storia o letteratura? (1965), prendendo spunto dal Rabelais di Lucien Febvre, Barthes auspicava che la storia della letteratura si trasformasse in storia delle funzioni letterarie, ed è in questo modo che possiamo definire anche noi, in prima approssimazione, il campo d’indagine di uno studio diacronico sulla letteratu­ ra medievale: O ra, l’essere della letteratura ricollocato nella storia non è più un essere. D issacrata, ma a mio avviso tanto più ricca, la lettera­ tura tom a ad essere una di quelle grandi attività um ane, di for­ ma e funzione relative, di cui Febvre ha instancabilm ente recla­ m ato la storia. Solo al livello delle funzioni letterarie (produzio­ ne, com unicazione, consum o) p uò quindi collocarsi la storia, e non a quello degli individui che le hanno esercitate. In altre parole la storia letteraria è possibile solo se si fa sociologica, se si volge alle attività e alle istituzioni, non agli individui3.

La vicenda di un’opera nella storia della ricezione (il consumo) corrisponde dunque ad una delle funzioni lette­ rarie che possono essere oggetto di riflessione in una ri­ cerca di lungo periodo. A metà strada tra il momento del­ la produzione e il momento della ricezione dei testi, la storia della tradizione manoscritta (che qui intenderò sop­ rattutto come storia della morfologia del libro di poesia) ci parla del modo in cui materialmente si organizzava, per autori e lettori, l’esperienza letteraria: traendo le sue in­ formazioni dalla strategia di ordinamento e di scrittura dei testi, come pure dalle caratteristiche materiali dei co­ dici stessi e dai modi e luoghi della loro confezione e dif­ 3 Barthes, Storia o letteratura?, pp. 103-104.

fusione. In modo simmetrico (e tenendo fermo il proposi­ to di fare storia della letteratura e non «storia dei lettera­ ti»4), un’analisi diacronica dei canzonieri d’autore, cioè del modo in cui essi vennero organizzati, a maggiore o mi­ nore distanza dai modelli canonici (Dante e Petrarca, gli elegiaci latini), potrà aiutare a comprendere come evolva l’idea del libro di rime - dunque, mediatamente, della poesia stessa - nella concezione dei produttori. Ancora, c venendo adesso finalmente alla letteratura come sistema autoregolato, connesso ma non direttamente dipendente dalla produzione e dal consumo, avranno un posto di ri­ lievo nel canone delle funzioni letterarie - e costituiranno anzi il vero e proprio centro d’interesse per ogni ricerca impostata sul lungo periodo - i generi, i topoi, le costanti tematiche e espressive e in generale tutte quelle forme storiche oggettive che ogni autore trova di fronte a sé pri­ ma ancora di porre mano alla propria opera. 1.3. L'arco cronologico Indicati così sommariamente alcuni dei punti di vista dai quali la storia della letteratura può essere osservata, resta ancora da giustificare la scelta di applicare questi ul­ timi all’età medievale nel suo complesso e non a un arco cronologico più ristretto. Perché il lunghissimo periodo e non per esempio, come sopra ho ipotizzato, la genera­ zione? È davvero, la poesia del Medioevo, un insieme tan­ to omogeneo e compatto da far sì che le generalizzazioni non risultino inattendibili? La corte di Federico II, la Toscana e l’Emilia del tar­ do Duecento, le corti e le signorie padane del Tre-Quattrocento, i comuni centro-italiani, il Regno angioino e ara­ gonese: la storia politica del Medioevo inviterebbe a di­ stinguere e a suddividere piuttosto che a unificare, e va detto subito che scommettere sull’unità e la coerenza di 4 Ibidem, p. 97.

una ‘poesia del Medioevo’ e, per contro, sulla sua etero­ geneità rispetto ad una ‘poesia dell’età moderna’, non si può fare se non con una forte dose di approssimazione e di volontaria cecità: si tratta cioè non di ignorare ma di mettere tra parentesi quelle contraddizioni e fratture che movimentano il corso della poesia in questi due secoli e di valorizzare gli elementi di continuità. Ora, questa parzialità del punto di vista introduce - una volta superata quella della letteratura sezionata di cento in cento anni - una nuova semplificazione? Senz’al­ tro sì se con questo si vuol dire che ogni definizione con­ cettuale (dunque ogni periodizzazione) è molto più pove­ ra dei fenomeni che osserva e che è chiamata a spiegare. A questa considerazione ne va però affiancata un’altra di segno opposto, che i tempi della letteratura sono più lenti di quelli della storia evenemenziale, e che un’età così den­ sa di mutamenti politici e di trasformazioni sociali e cultu­ rali può legittimamente essere vista come un’unità se ci si concentra sul modo in cui gli uomini che vi vissero hanno guardato - scrivendola e leggendola - alla poesia. Mentre dunque il Medioevo dei manuali di storia è un immenso contenitore definito per di più ai suoi estremi da eventi puramente simbolici, che solo per convenzione vengono trattati come spartiacque della storia, la poesia medievale di cui stiamo parlando è sì un’astrazione, ma un’astrazio­ ne che ha confini cronologici molto più precisi, e non ar­ bitrari: un inizio, scontato (i primi testi poetici in un vol­ gare italiano), e una fine ovviamente meno puntuale e tut­ tavia visibile se solo si attribuisce il rilievo che meritano a due circostanze concomitanti, entrambe ben note. La prima riguarda i poeti ed è il recupero e la fedele ed espli­ cita imitazione di modelli che appartengono ad un non re­ cente passato. L ’affermarsi di un petrarchismo maturo, preannunciato da Giusto de’ Conti e da Boiardo, e la rip­ resa dello stilnuovo, e in particolare della Vita nova, nel circolo fiorentino di Lorenzo, possono essere considerati, in questa prospettiva (benché naturalmente la loro impor­ tanza per la lirica quattro e cinquecentesca sia molto aiseguale), come due facce di uno stesso fenomeno. La secon­

da circostanza è legata a questa prima ma riguarda i letto­ ri e gli studiosi di poesia, non i poeti, ed è il sorgere di una coscienza critica che porta a riflettere sulla lirica duetrecentesca come problema storiografico. A tale coscienza si dovranno, nel Cinquecento, le applicazioni filologiche di un Colocci e quelle linguistiche di un Bembo, ma essa può già esprimersi, nel tardo Quattrocento, nello studio e nel commento dei più illustri testi volgari anche lirici - ora reputati degni di essere studiati nelle Università - da parte di umanisti come Landino (attorno al 1467 va collo­ cata la sua prolusione petrarchesca, attorno al 1473 quella dantesca)’ o Marsilio Ficino (che dedica un capitolo del suo commento al Convivio platonico a Donna me prega di Cavalcanti)6; e sa farsi concreta nella creazione di un ma­ noscritto dal taglio riepilogativo e antologico come la Rac­ colta Aragonese7. In tutti e due i casi, sia dalla parte dei poeti sia dalla parte del pubblico, c’è la percezione di uno stacco e il sentimento di appartenere ad un’altra epoca, e l’intenzio­ ne di riappropriarsi della poesia del passato per via di imi­ tazione e studio. In ciò è il sintomo di una frattura: per­ ché imitazione dello stilnuovo e di Petrarca vi era stata certamente nell’età precedente, ma si era trattato di scelte individuali non esclusive e non motivate teoricamente; e perché, quanto allo studio, mai il pubblico aveva saputo riflettere sulla poesia in termini storico-estetici anziché in ’ Cfr. R. Cardini, La critica del Landino, Firenze, Sansoni 1973, pp. 87-89 nota 3. 6 Cfr. M. Ficino, E l libro dell'amore, a cura di S. Niccoli, Firenze, Olschki 1987, pp. 177-179. 7 A questo ripensamento critico e a questa assunzione della poesia del passato come oggetto d’analisi e discorso corrisponde un impegno analogo sul fronte della lirica contemporanea: impegno che si risolve nella ricerca della ragione filosofica dei testi, nella esplicitazione della teoria che li sostanzia: «Dalla Raccolta Aragonese delle antiche rime volgari al Comento di Lorenzo il Magnifico e alla Canzone d'Amore di (¡irolamo Benivieni con il commento del Pico, si disegna chiaro il recu­ pero e lo sviluppo a Firenze nell’ultimo trentennio del Quattrocento di una tradizione letteraria volgare giustificata dal concetto neoplatonico dell’amore» (Dionisotti, Introduzione a Bembo, Prose e rime, p. 18).

termini tecnici: gli scritti di poetica avevano riguardato le regole, non la qualità della poesia, e, salvo isolate eccezio­ ni, la pratica del commento alla lirica non era mai vera­ mente entrata nell’uso. 2. Interpretazioni attualizzanti della poesia medievale 2.1. Il confronto con la poesia post-romantica La domanda su che cosa sia stata la poesia italiana nel Medioevo è dunque perfettamente legittima: la scansione cronologica a cui allude non è arbitraria. Inoltre, storiciz­ zare in questo modo il problema consente di porre un pri­ mo principio di distinzione tra la nostra ricerca, orientata su un’età specifica della poesia, e quegli scritti di teoria letteraria e di estetica nei quali si mira a definire la lettera­ tura e i suoi generi nella loro essenza, per ciò che essi so­ no e non per ciò che essi storicamente sono divenuti. Qui la pretesa di sistematicità e di verità metastorica nasconde spesso un equivoco. In scritti di questa natura, infatti, il campo d’osservazione non coincide quasi mai con l’intera tradizione occidentale bensì soltanto con una frazione, per quanto significativa, di essa. Tale frazione corrispon­ de talvolta alla modernità, cioè a quell’epoca della civiltà europea che si apre col Rinascimento e giunge sino all’età attuale, talvolta soltanto al post-romanticismo: sicché sa­ rebbe facile citare frasi o pagine di ‘teorie generali della li­ rica’ (per dire del genere di cui qui ci occuperemo: ma il discorso vale per qualsiasi altro genere che abbia alle sue spalle una storia plurisecolare) le quali proprio a causa di questa preventiva riduzione dell’orizzonte d’indagine vor­ rebbero applicare alla letteratura (nel nostro caso alla liri­ ca) definizioni che si applicano invece soltanto ad un suo stato contingente, l’attuale. Questa erronea universalizzazione di moderni parametri estetici ha due possibili con­ seguenze. La prima, veniale, consiste nell’incompletezza dell’in­ formazione: si ignora o si dimentica che nel passato la

poesia potè essere, e di fatto fu, qualcosa di molto diverso da ciò che le teorie letterarie odierne intendono con que­ sto termine; e si ignora o si dimentica che le comuni eti­ chette di poesia e di lirica definiscono e si applicano di fatto - a seconda che si parli dello ieri o dell’oggi - ad og­ getti tra loro eterogenei. Ciò è stato invece osservato chia­ ramente da Adorno: Ma le m anifestazioni dello spirito lirico a noi familiare, lirico in senso specifico, di tem pi andati, brillano solo isolatam ente, così com e a volte gli sfondi della pittura antica anticipano presaghi l’idea del quadro paesistico. E ssi non costituiscono la forma. I grandi poeti del passato lontano, che secondo la storia della li­ rica rientrano nella lirica, per esem pio Pindaro e Alceo ma an­ che l’opera di W alther von der Vogelw eide nella sua p a n e p re­ dom inante, sono enorm em ente lontani dalla nostra idea prim a­ ria di lirica. E ssi non hanno quel carattere di im m ediato, di d e­ m aterializzato, che noi a torto o a ragione siam o abituati a con­ siderare criterio della lirica e che possiam o superare solo con una form azione che si consegue con fatica8.

Walther von der Vogelweide è il maggiore dei Minnesan­ ger, e in questo libro noi ci dovremo occupare di poeti che, vissuti come lui nel Medioevo, sono per la gran parte iù vicini alla sua poetica e al suo concetto di lirica che al: idee dei moderni. La gran parte, ho detto, ma dovrei forse dire tutti, dal momento che i presagi di modernità contenuti nei versi del Dante e del Petrarca lirici sono il riflesso di esperienze insolitamente avanzate, da sottrarre perciò ad una ‘media’ medievale che ci appare, in con­ fronto a queste avanguardie, molto più estranea alla «no­ stra idea primaria di lirica». Proprio a causa di tale etero­ geneità tra la poesia degli antichi e la poesia dei moderni potremo fare un uso molto limitato, e il più delle volte soltanto contrastivo, di quei contributi che, pur presen­ tandosi come globali riflessioni sul genere lirico, si appli­ cano esclusivamente a testi moderni (e tra gli altri anche

E

8 Th.W. Adorno, Discorso su lirica e società, in Note per la letteratu­ ra 1943-1961, Torino, Einaudi 1979, pp. 46-64, alle pp. 49-50.

del saggio di Adomo dal quale ho appena citato, dove la lirica e la società di cui si parla sono quelle post-roman­ tiche). La seconda possibile conseguenza è più grave, e sot­ tende anzi uno dei problemi centrali per la storiografia letteraria del Medioevo. Si tratta, in sintesi, non già dell’i­ gnoranza di un’estetica diversa da quella oggi vigente, bensì della meditata estensione delle estetiche attuali alla letteratura del passato, cioè insomma della scoperta che fili sottili collegano (nel caso che qui ci riguarda) un de­ terminato settore della lirica medievale a un determinato settore della lirica contemporanea. Questo tipo di proie­ zione del presente sul passato ha un ruolo certamente non secondario nel pensiero di due tra gli interpreti più in­ fluenti della poesia romanza delle origini. Perché in Gian­ franco Contini la curiosità del critico militante per gli svi­ luppi formalmente più estremi della lirica simbolista, Mal­ larmé e Valéry, ha fatto sì che il medievista privilegiasse quel versante della poesia romanza e quegli autori in cui l’elaborazione formale e gli esperimenti linguistici hanno rilievo maggiore: il Dante delle petrose, Arnaut Daniel. E perché a Robert Guiette la poetica simbolista volta a convertire la lirica in pura forma e musica ha ispirato una globale definizione della lirica medievale come eserci­ zio di stile e libero gioco della variazione formale, indiffe­ rente al contenuto. In anni più recenti, Jauss ha rivendica­ to la giustezza e l’opportunità di questa attualizzazione presentandola come un caso paradigmatico di corretta fu­ sione tra l’orizzonte dell’interprete e quello dei testi inter­ pretati: G uiette cercava di riabilitare il diletto im m ediato che si trae dal­ la lettura dei testi medievali, spiegan do [...] la lirica dei trovatori con il fascino di una poésie form elle, con il piacere consapevol­ mente avvertito della variazione infinita; in questo m odo egli m etteva in luce disposizioni specificam ente estetiche che erano im plicate da questi o altri generi letterari, senza tuttavia riflette­ re su quanto questa m essa in luce gli fosse possibile solo in base a una situazione più tarda, grazie a una m oderna conoscenza già

acquisita della poetica antirom antica a partire da Verlaine e M allarm é9.

Ora, l’osservazione che la poesia del Medioevo è per la gran parte una distesa di clicbés soltanto qua è là ravvivata dall’ingegno di scrittori capaci di una relativa libertà nei confronti del codice è troppo ovvia per essere nuova. Ec­ co come, attraverso un confronto con la lirica classica, l’a­ veva formulata Scheludko: La lirica classica è realistica. Benché anche in essa vi siano espressioni convenzionali e una certa tendenza alle form ule poetiche fisse, resta sem pre lirica di reali affetti e di reali esp e­ rienze am orose. L e cose stanno diversam ente presso i trovatori. Le loro creazioni sono di solito prive di fondam ento oggettivo: dietro i pensieri e le parole non si riconoscono i contorni della vita reale. N on si tratta cioè di libere effusioni sentimentali bensì di dotte com posizioni artistiche, che appartengono più al­ la sfera dell’eloquenza che a quella della poesia [...]. E poiché i testi sono degli esercizi di retorica in cui fl m ondo interiore del poeta non gioca alcun ruolo, d a un lato essi non apportano al­ cun cam biam ento o am pliam ento d ’orizzonte nel m ateriale tra­ dizionale, dall’altro la rappresentazione dei sentimenti e dei rap­ porti am orosi finisce per essere sem plificata e stilizzata. Invece di descrizioni indivicfuali troviam o così form ule e clichés già p ro n ti10.

Come si vede, il problema della formularità della lirica galloromanza è qui già correttamente enunciato. Né a Scheludko va attribuito altro merito che non sia quello della sintesi chiara ed efficace: si trattava infatti - occorre ripeterlo, ad evitare il miraggio, di rado evitato, dei ‘muta­ menti di paradigma’ - di una nozione largamente presen­ te nel dibattito sin dagli albori della filologia romanza11. 9 H.R. Jauss, Estetica e interpretazione letteraria, Genova, Marietti 1990 p. 33. ìó D. Scheludko, Beiträge zur Entstehungsgeschichte der altprovenzatischen Lyrik, in AR, X I 3 (1927), pp. 273-312, a p. 310 (trad. mia). 11 Già per esempio in F. Diez, Die Poesie der Troubadours, Leipzig, Barth 1883, nel capitolo sul Minnelied, in patt. pp. 119-120; ma cfr. so-

In che cosa consiste dunque il nuovo apporto dato al­ la discussione da Guiette e dagli studiosi che nel secondo dopoguerra ne hanno ripreso e ampliato le tesi? Da una parte, nell’aver voluto considerare questo dato di fatto og­ gettivo alla stregua di un problema che dev’essere spiega­ to: laddove altri avevano invitato a considerare l’artincialità e la ridondanza dello stile come il proprium di ogni classicismo12. Dall’altra parte, nell’aver dedotto da tale spiegazione le leggi di un sistema estetico del tutto diver­ so rispetto a quello moderno. Negli studi di Dragonetti, Zumthor, Jauss, l’approfondimento di queste leggi ha messo capo a una tassonomia delle forme poetiche e a una complessiva definizione della lirica medievale. L ’essenziale, il nucleo che non varia di tale definizione è che la poesia di questa età non è mai comunicazione, es­ pressione di un contenuto razionale, bensì sempre orna­ mento, gioco con il linguaggio nel quale il tema entra co­ me pretesto. A ciò si collega, come ho accennato, un’ipo­ tesi ‘forte’ sulla ricezione. Poiché la nostra ricerca ci por­ terà a conclusioni per molti versi opposte, cioè a sottoli­ neare precisamente l’importanza che nella poesia medie­ vale possono avere il contenuto e la volontà di una comu­ nicazione autentica, e ad occuparci di testi e tradizioni nei quali il messaggio conta più della forma, sarà bene sofferv marsi brevemente su tale ipotesi. ' 2.2. ‘Poesia formale' Apprezzare questa lirica monocorde - si è sostenuto - si può soltanto se si è in grado di apprezzare le minute prattutto l’introduzione di C. Appel a Bemart von Ventadom, Seine Lie­ der, Halle a.S., Niemeyer 1915, pp. XXTV-XXVI, dove nel confronto con le posizioni di Zingarelli e di Stronski è già delineato il problema che sarà più tardi al centro del dibattito sulla poesia formale. Che tra l’inter­ pretazione tradizionale della lirica romanza e quella ‘formale’ di Guiette non vi sia alcuna frattura bensì soltanto uno «spostamento d’accento» è stato già osservato da Gruber, Die Dialektik, pp. 1-2 nota 5. 12 Cfr. J. Anglade, Histoire sommaire de la littérature méridionale au Moyen Age, Paris, De Boccard 1921, pp. 23-24.

variazioni che ogni testo apporta al formulario tradiziona­ le, di vedere le piccole novità disperse nella trama del già noto. Perciò si presuppone che all’ascoltatore e al lettore medievale prema Pintertestualità, nel senso che il lettore deve negare il carattere di opera del singolo testo per attingere fino in rondo il fascino ili un gioco iniziato già prim a, delle regole conosciute e delle sorprese ancora sconosciute. Io ho altrove definito questa espe­ rienza com e la struttura della ricezione del p lu rale tantum ° .

E si descrive così il compito del poeta cortese: il grande im pegno del poeta cortese consiste nel variare gli aspetti formali di un tem a attraverso un gioco di sostituzione di figure. Q uesto stile tradizionale [...] esclude l’espressione di uno stato d ’anim o individuale. N on vi è dunque alcun effetto di sor­ presa perché al troviere non sta a cuore l’originalità delle im m a­ gini ma solo la possibilità di confrontarsi con una tradizione poetica e di dim ostrare la propria m aestrial4.

Così il talento e la competenza del pubblico: Q uesto stile, un tem po, gli ascoltatori lo capivano benissim o [...]. Ciò faceva parte dell’iniziazione alle belle m aniere e alla cortesia. D i questa tradizione essi conoscevano le norm e esteti­ che [...]. Il sentim ento della form a non p u ò svilupparsi che a partire da questa sorta di confronto relativamente cosciente: la percezione della form a ha luogo solo sullo sfondo della tradizio­ ne p o e tica15. Una poesia che im pone ai poeti convenzioni così rigide p resu p ­ pone un pubblico particolarm ente sensibile ai dettagli formali; ora, è proprio qui che si m anifesta soprattutto l’inventiva dei trovieri16.

15 Jauss, Alterità e modernità, p. 12. 14 Dragonetti, La technique poétique, p. 137 (trad. mia). 15 Guiette, D’une poésie formelle, pp. 16-17 e 23 (trad. mia). 16 Dragonetti, La technique poétique, p. 178 (trad. mia).

Il piacere che il canto procura è di confronto tra iniziati17. Prima ancora di entrare nel merito di queste ipotesi, va osservato che la domanda alla quale esse tentano di ri­ spondere - la domanda circa la monotonia e la formularità della lirica medievale - ha ragione di essere posta. An­ che altre arti, come la pittura e la musica, attingono in questa età a un repertorio di forme e di motivi molto ri­ stretto, e perciò non possono incontrare il gusto di un let­ tore odierno che non si sia prima procurato attraverso lo studio gli strumenti idonei ad apprezzare opere che ap­ partengono a un ormai remoto universo estetico. Non per questo ci meravigliamo del fatto che nei dipinti i ritratti corrispondano a tipi piuttosto che a figure reali, o dell’uso scorretto della prospettiva, o del colore dorato di cieli che dovrebbero essere azzurri: si tratta di condizioni oggettive che riguardano il mezzo dell’espressione, e che sarebbe antistorico giudicare alla luce dei canoni estetici odierni. Vi è, tra questa pittura primitiva e quella rinascimentale e moderna, evoluzione e progresso, non però una cesura tale che impedisca a noi oggi di vedere queste due età del­ l’arte come momenti di una storia unitaria e di compren­ dere le ragioni tecniche ed estetiche di quel primitivismo. Diverso è il caso della poesia. Qui infatti, in quello c l^ nel moderno sistema dei generi è considerato lo spazio1, per l’espressione dei sentimenti e dei pensieri individuali, una forma raffinatissima è messa al servizio di un conte­ nuto che, pur presentandosi sempre come vero in rappor­ to all’esperienza di chi scrive, appare invece a chi con­ fronti l’uno all’altro testo e l ’uno all’altro autore ripetiti­ vo, formulare e perciò insincero. Tra il passato e il pre­ sente del genere vi è dunque in effetti, stavolta, una cesu­ ra: la lirica sembra essere qualcosa di costituzionalmente diverso da ciò che sarà in età moderna, e diversi devono dunque essere anche il modo in cui il pubblico si accosta ad essa e le sue attese. 17 P. Zumthor, Lingue e tecniche poetiche nell'età romanica (secoli Xl-XlU), Bologna, Il Mulino 1973, p. 11.

Gli studiosi appena citati suppongono che vi sia, da parte del pubblico medievale, una integrazione di compe­ tenza, cioè la capacità di vedere l’intero del codice lettera­ rio alle spalle dei frammenti che di volta in volta vengono letti e ascoltati. A questa interpretazione è possibile af­ fiancarne un’altra, avanzata da Edgar De Bruyne negli Études d’esthétique médiévale. Anch’egli propone che vi nia, da parte del lettore o dell’ascoltatore, un’aggiunta di senso; quest’aggiunta si presenta però non come un’integ­ razione di competenza (si apprezza il testo in quanto se ne percepisce il sottile scarto rispetto alla tradizione del genere) bensì come un’integrazione di esperienza", quanto più le parole del poeta sono generiche e ‘oggettive’, tanto iù è facile che il lettore possa veder rappresentato in esse proprio personale romanzo d’amore: agli antipodi ri­ spetto a quella che è - secondo Adorno - la norma esteti­ ca della lirica moderna, è l’assenza di individuazione a fa­ vorire il rispecchiamento:

R

L a bellezza ideale [...] è perfetta e unica: solo l’intelletto è in grado di concepirla. M a com e nella realtà essa si diversifica nei vari esseri a seconda delle possibilità della m ateria, così nel­ l’arte e in particolare nella poesia, essa si presenta in una form a unica all’intelligenza di tutti, salvo poi concretarsi nella diversa sensibilità di ognuno. È all’im m aginazione individuale, ricca di esperienze uniche, nutrita di desideri e di sogni personali, che tocca di ‘far vivere’ concretam ente la bellezza ideale che il poeta dipinge con tratti tipici ed essenziali [..,]. L e variazioni che la fantasia di ciascun ascoltatore ricama sul tema fondam entale corrispondono alle variazioni letterarie che ciascun poeta opera servendosi di luoghi com uni, clichés, immagini trad izion alil8.

Entrambe queste interpretazioni postulano una parte­ cipazione attiva da parte del pubblico della poesia, sia es80 chiamato a completarne il senso (De Bruyne) oppure la forma (le norme estetiche che i singoli testi citavano 18 De Bruyne, Études, II, pp. 187-188 (trad. mia); un punto di vista analogo in A. Varvaro, Letterature romanze del Medioevo, Bologna, Il Mulino 1985, pp. I l i e 170-175.

e sottilmente violavano sarebbero state, secondo Guiette, parte della «buona educazione cortese»). Occorre invece riflettere sulla possibilità che il piacere estetico risulti da un’attitudine passiva nei confronti delle opere, un’attitu­ dine simile a auella che si ha oggi nei riguardi dell’arte co­ siddetta popolare. In primo luogo, va sempre tenuto conto del fatto che, regolarmente in Francia, talvolta in Italia (ma sempre an­ che qui, nel caso di alcuni generi anche molto longevi), la lirica era musicata. Ciò significa che la musica ha una par­ te di rilievo, talora una parte preponderante nella buona riuscita delle opere e nel gradimento del pubblico; che sti­ le e contenuto verbale del testo sono solo uno dei due in­ gredienti (o più se si aggiungono il canto e, talvolta, la danza) costitutivi dell’esperienza estetica; e che tutto ciò ha in certo modo l’effetto di deresponsabilizzare le paro­ le: avvolti in un involucro sonoro la cui forza agogica pre­ cede e supera quella delle parole, il ‘messaggio’ e la forma attraverso la quale il messaggio è espresso assumono un ruolo assai più marginale rispetto a quello che essi hanno nella poesia moderna. Lo vediamo con particolare chia­ rezza in generi come la ballata, il madrigale, la caccia: ge­ neri sicuramente musicati nei quali il contenuto verbale è meno importante, meno originale e meno vario di quelloche si trova in generi di norma non musicati come il so­ netto o la canzone. In secondo luogo, l’impressione è che non nella novità percepita sullo sfondo del codice - come ipotizzava Guiette - vada cercata la molla che fa scattare il piacere del testo, bensì al contrario nella ripetizione dei medesimi motivi e delle medesime strutture formali, cioè nel ricono­ scimento da parte del lettore di ciò che, al di là delle va­ riazioni superficiali, non muta. Parole e musica da un la­ to, ridondanza dall’altro: se le due caratteristiche che defi­ niscono la ‘poesia formale’ sono estranee alla nostra odierna esperienza della poesia, noi possiamo trovare un termine di paragone più pertinente, ed utile a chiarirci le idee circa il tipo di emozione estetica prodotta dalla lirica medievale, in quelle forme artistiche ‘di massa’ nelle quali

l’originalità del messaggio e le esigenze dello stile hanno - come hanno nella poesia formale - importanza seconda­ ria a petto di altri più facili modi di coinvolgimento emo­ tivo. Se guardiamo all’unione di parole e musica, il con­ fronto pertinente è quello con le moderne canzoni. Anch’esse si compongono infatti di un testo verbale, tanto ovvio per il contenuto (si parla generalmente d’amore, co­ me nella lirica cortese) e per il modo in cui esso viene svi­ luppato quanto elementare sotto il profilo della forma (scelta dei termini, rime, partiture ritmiche), e di una base sonora dalla cui originalità e bellezza, molto più che dalle >arole, dipende il gradimento dell’opera. Che questa sia a gerarchia, che cioè la musica conti più delle parole, ri­ sulta chiaramente dall’esperienza di ogni ascoltatore, così che su questo punto non occorre dilungarsi: di una can­ zone riteniamo il motivo musicale mentre tendiamo a di­ menticare il testo, lodiamo il fatto che sia ‘orecchiabile’, apprezziamo canzoni in lingue straniere delle quali com­ prendiamo solo in parte o non comprendiamo affatto il si­ gnificato. Si dà inoltre con frequenza sempre maggiore il caso di canzoni che ad un nuovo testo, a una nuova suc­ cessione di parole, adattano un vecchio motivo musicale, ritoccato (riarrangiato) nella strumentazione e nel ritmo: col che non siamo troppo lontani dalla pratica dei contrafacta trobadorici, cioè di quei serventesi che riprendono lo schema metrico e prosodico e la melodia cu canzoni preesistenti. Quanto all’altro tratto che abbiamo identificato come caratteristico della poesia formale, la ridondanza, a dover essere chiamati in causa per un confronto non saranno soltanto le canzoni cosiddette commerciali ma tutti quei prodotti letterari ‘di consumo’ nei quali il risultato esteti­ co è ottenuto non grazie ad uno scarto rispetto alla tradi­ zione del genere, bensì grazie alla riproposizione debol­ mente variata delle medesime strutture significanti: che nella poesia erotica saranno l’appello alla donna, il lamen­ to per l’amore non corrisposto, la gioia per l’amore rag­ giunto o sfiorato, e poche altre. Ne deriva che le tesi di Eco relative a forme artistiche popolari come il romanzo

f

giallo o rosa, o i seriáis televisivi o il fumetto o la stessa musica leggera offrono suggerimenti utili anche allo stu­ dioso di letteratura medievale19. Si tratta, osserva Eco, di generi nei quali un’elementare soddisfazione estetica è le­ gata appunto non alla scoperta del nuovo bensì al ricono­ scimento di clichés già familiari: la competenza del lettore e dello spettatore in tanto si rivela fonte di coinvolgimen­ to e piacere in quanto permette di ravvisare, al di sotto di una trama solo superficialmente mutata, la presenza di formule o strutture narrative ritornanti in ogni altro testo congenere (testo verbale, o musicale, o pittorico). Ed è appunto uno schema iterativo siffatto quello che avvince il pubblico della lirica cortese. 2.3. Il pubblico della poesia cortese Si obbietterà che in tal modo noi finiamo coll’interpretare al lume di criteri elaborati per la pseudo-arte po­ polare, per di più contemporanea, un’arte chiaramente d’élite qual è la più antica poesia romanza. Conviene però riflettere sul significato che va attribuito al termine élite in quel preciso ambito storico-sociale. Non c’è dubbio che essa possa e debba definirsi tale se si guarda al censo e aiprivilegi, una volta ammesso che i trovatori e i trovieri così come, verosimilmente, i poeti della cerchia federiciana, compongono ed eseguono le loro opere a beneficio di una ristretta cerchia di cortigiani. Ma che denaro, prestigio e potere politico facessero di queste caste di privilegiati un’élite anche intellettuale sarebbe difficile sostenere. Nella formazione del gentiluomo, nella definizione della sua figura sociale, la cultura ha generalmente, nel Medioevo, un ruolo secondario. Non sono rari i nobili analfabeti o semialfabeti, o comunque incapaci di maneg­ giare la lingua della comunicazione colta. Herbert Grundmann ha segnalato la rarità di precetti relativi ad una 19 Cfr. soprattutto Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa (1964), e II superuomo di massa (1976).

scienza non pratica, non votata ad uno scopo (quale può essere la caccia, la guerra, l’amministrazione dei beni), nei trattati sulle virtù cavalleresche20. Si tratta delle nozioni basilari del leggere e dello scrivere, ma molti membri del­ l’aristocrazia non le posseggono: ed è quindi logico pensa­ re che un numero ancora più esiguo avesse accesso alle arti della parola, alla retorica che informa l’espressione orale e scritta (sicché non bisogna affrettarsi a dar credito a questo pubblico di una preparazione tale, di un gusto tanto allenato da «non ignorare nulla delle regole del gio­ co artistico»21), per non parlare del pensiero astratto della filosofia, della teologia, della scienza. Pur con le debite eccezioni (concentrate nei ranghi altissimi della nobiltà: dove spicca sempre il caso di Federico II, così come spic­ cherà per esempio - ma in un’altra area e in un’altra età - quello di Carlo IV di Boemia), è un fatto che le persone che ascoltano o leggono la poesia volgare raramente sono quelle stesse che partecipano dell’alta cultura tramandata nelle università: una distinzione degli ambiti che può sor­ prendere oggi, posto che le belle arti appartengono a pie­ no titolo al canone della buona cultura umanistica e defi­ niscono il profilo della persona colta, ma che è da ritener­ si del tutto normale nell’età della quale stiamo trattando: né cessa di sussistere dopo il Medioevo. È dunque ragionevole presupporre che per questa éli­ te il piacere della letteratura origini da reazioni elementari - di riconoscimento, soddisfazione delle attese ecc. - in tutto simili a quelle che suscita la moderna letteratura di massa. Non solo possiamo immaginare che i veri intellet­ tuali della loro epoca avrebbero guardato con degnazione a prodotti culturali di così basso rango, ma sappiamo po­ sitivamente che tale fu la loro reazione: sia che la loro 20 Grundmann, Die Frauen: «Anche nei molti elenchi delle virtù e delle qualità cavalleresche scritti nell'età cortese è rarissimo trovare un cenno al fatto che il buon cavaliere dovrebbe saper leggere e scrive­ re» (143-144, con ampia esemplificazione nelle pagine subito preceden­ ti - trad. mia); e cfr. E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tar­ da antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli 1960, pp. 262-265. 21 Guiette, D’une poesie formelle, p. 23.

critica si appuntasse sulla lingua (il ‘non nobile’ volgare al posto del latino), sia che nella valutazione interferisse un pregiudizio moralistico (quello che porta per esempio i teologi a schierarsi contro i propagatori di falsità e im­ moralità, cioè contro chi non mira a comunicare il vero ma a dilettare). Quella dei primi poeti romanzi è dunque senz’altro arte per un’élite: ma non è quella che oggi chia­ meremmo arte d’élite, dal momento che essa non si rivol­ ge al pubblico più colto, quello addentro al pensiero este­ tico e filosofico, e muove invece da princìpi affini piutto­ sto a quelli delle attuali arti di massa: la fedeltà ai clichés tematici e formali trasmessi dal codice, il rispetto dei con­ fini tra i generi, l’adempimento delle attese del lettore e, infine (ma si tratta dell’aspetto più importante), la conti­ nuità ideologica tra produttore e pubblico, il situarsi del­ l’arte - non di tutta l’arte, si badi, ma senz’altro di quella lirica cortese isolata e studiata dai teorici della poesia for­ male - in una dimensione non antagonistica. Quelle che ai nostri occhi sono Te anomalie della poe­ sia formale si spiegano dunque, meglio che provando a ri­ comporre un codice estetico totalmente altro rispetto a quello oggi vigente o immaginando un tutto diverso concetto dell’amore, riflettendo sui due elementi che qpi­ si sono messi in evidenza: la concomitanza di musica e pa­ role (e talvolta il primato, la preminenza estetica della pri­ ma sulle seconde) e, soprattutto, la destinazione a un pub­ blico intellettualmente pigro per il quale - contrariamente a quella che è la legge per una parte, la parte più colta e avanzata dell’arte contemporanea - lo scarto alla norma non rappresenta un valore. 2.4. La ‘poesia formale’ non è una categoria storiografica Tutto ciò andava detto preliminarmente per chiarire le ragioni e il significato storico della ‘poesia formale’. Ciò che ora va aggiunto è che sotto questo nome è possibile comprendere soltanto una frazione della poesia romanza delle origini. Su questo limite non hanno riflettuto abbas­

tanza coloro che parlando della lirica amorosa prodotta nella Francia settentrionale hanno preteso di dare una vi­ sione totale della poesia del Medioevo, né quanti, tratti dal loro esempio, hanno applicato categorie d’analisi e tesi elaborate in relazione a quell’ambito ad aree, epoche e ge­ neri del tutto differenti. Poiché tuttavia i saggi di studiosi come Guiette, Dragonetti, Zumthor, Jauss non ci rivelano l’essenza della letteratura medievale ma ci descrivono una delle forme storiche che essa ha assunto, la validità delle loro teorie andrà soggetta precisamente a questa triplice limitazione. 1) Una limitazione di spazio, dato che il qua­ dro della poesia romanza delle origini non è omogeneo: sia perché riflette differenti situazioni sociali (e l’esempio più banale è l’opposizione corte-comune), sia perché ini­ ziano a profilarsi ben presto sottotradizioni nazionali tra loro scarsamente comunicanti, non foss’altro che per ra­ gioni di eterogeneità linguistica. 2) Una limitazione di ge­ nere, posto che a fianco dei generi ‘formali’ ne prosperano altri che rispecchiano tutt’altre norme esteticne. Michel Zink, per esempio, ha potuto scrivere un libro sul Due­ cento francese, età e luogo di poesia formale, dal titolo La mbjectivité litteraire, tutto centrato sull’idea di una lettera­ tura, in verso e in prosa, intrisa di autobiografia, e dunque in vario modo realistica e vera: e ciò valorizzando quegli aspetti della letteratura dell’epoca che i teorici della poesia formale avevano volutamente escluso dal loro orizzonte ma che hanno grande importanza in quanto ci permettono di cogliere i primi segni ai un lirismo personale veramente moderno. 3) Esiste infine una limitazione di tempo: si trat­ ta infatti di stabilire fino a auando i meccanismi di produ­ zione e di ricezione della lirica galloromanza si possono interpretare alla luce della poetica formale o del ‘testo plu­ rale’ descritta dai critici. Date queste tre limitazioni, si capisce che la divisa del­ la poesia formale può valere come formula tassonomica più o meno capace e attendibile, non però come categoria storiografica. In una descrizione non tipologica ma dia­ cronica della letteratura - che è l’obbiettivo che qui ci sia­ mo proposti - essa può avere un ruolo soltanto marginale:

non solo perché non è chiaro a quale arco cronologico e a quali autori e testi esattamente si applichi ma soprat­ tutto perché, nella pretesa di rivelare l’essenza della lirica medievale, essa non contempla alcuna evoluzione interna, sottolinea le omologie tra i testi mentre tace delle diffe­ renze, ed è insomma, detto altrimenti, un tipo ideale che a determinate condizioni può tornare utile ai teorici, non agli storici della letteratura. 3. Intertestualità 3.1. Arte allusiva e memoria involontaria A cogliere le differenze e insieme a mettere in luce le molteplici relazioni che intercorrono tra opera e opera e tra autore e autore mira quello che non può essere defi­ nito né un metodo né un indirizzo critico bensì una sem­ plice tecnica di analisi della letteratura: l’intertestualità. Vedremo subito, tuttavia, come la tecnica, il modo di af­ frontare la materia presupponga - proprio come nel caso precedente - una più generale ipotesi sulla natura della poesia medievale. Su entrambe è opportuno soffermarsi. La ricerca degli echi intertestuali è, com’è noto, una pratica antica quasi quanto la scienza della letteratura,' e mai veramente caduta in disuso pur nel variare delle modalità e degli obbiettivi. Si pensi alla ricerca dei furto dei poeti da parte dei grammatici greci e latini, o al com­ mento erudito ai classici, già in età umanistica, o, su un piano completamente diverso, alla critica delle fonti prati­ cata da un Rajna: casi in cui cambia l’orientamento della ricerca ma resta fermo il principio del confronto puntua­ le, e talvolta soltanto verbale, tra i testi, onde far risaltare la rete di rapporti non accidentali che li legano l’uno all’al­ tro22. Quanto all’attuale ricerca intertestuale, essa assume, 22 Cfr. A. La Penna, La teoria deW'arte allusiva’ nel «De arte poeti­ ca» di Girolamo Vida, in Tersile censurato e altri studi di letteratura fra antico e moderno, Pisa, Nistri-Lischi 1991, pp. 193-199 (e l’introduzio­ ne al volume, pp. 11-12).

almeno nel settore della poesia, due forme principali le quali corrispondono a due diversi modi di intendere le re­ lazioni tra le opere. Si dà cioè intertestualità come arte al­ lusiva, ossia come ripresa consapevole di parole o immagi­ ni adoperate in un testo preesistente che è, si suppone, sufficientemente noto alla comunità dei lettori alla quale il nuovo testo citante si dirige (se l’ipotesto fosse noto sol­ tanto all’autore - cosa possibile ma rara - l’allusione non potrebbe essere còlta, e venendo intesa come parola origi­ nale al pari di quelle che la circondano perderebbe ogni funzionalità: ovvero, non si avrebbe un’allusione). E si dà invece intertestualità come presenza non più puntuale ma diffusa, strutturale (e perciò si suppone inconscia), nella lingua di un testo o di un autore, della voce di un diverso testo o autore, voce che si specifica in parole, metafore, sintagmi, motivi, schemi ritmici e metrici ecc.: si tratta delle ricerche del tipo ‘Cavalcanti in Dante’, o ‘Dante in Ariosto’, o ‘D ’Annunzio in Montale’ ” . S’intende che è difficile distinguere tra i due tipi d ’intertestualità se ci poniamo dal punto di vista dell’autore, dato che egli può ben essere consapevole del fatto di ado­ perare, per così dire, ‘diffusamente’ parole d’altri, cioè di essere in debito col linguaggio di questo o quel determi­ nato suo predecessore: consapevolezza che farebbe rica­ dere dunque questa presenza diffusa nel capitolo della vo­ lontaria, meditata allusione. Tutto è invece più facile, o meno ambiguo, se ci poniamo dal punto di vista di chi riceve il messaggio, cioè del lettore-interprete. Nel primo caso (quello dell’allusione consapevole), infatti, l’identifi­ cazione del legame intertestuale sarà molto importante se non addirittura fondamentale per la comprensione del passo in questione (o della poesia nella sua interezza se 25 È ovvio che ricerche di questo tipo dicono, se condotte con intel­ ligenza e ampiezza di vedute (gli esempi non sono artificiali, né citati u caso), molte più cose di quante non siano contenute nell’etichetta ‘re­ lazioni intertestuali’. Ma qui m’interessa descrivere la tecnica nella sua formula astratta, senza entrare nel merito delle buone o cattive applica­ zioni.

l’allusione è strutturale: come accade nelle parodie), cioè del modo in cui l’autore ha voluto che venissero lette le sue parole. Così, per fare solo qualche esempio, sarebbe una lettura accettabile, ma inadeguata, quella che nei ver­ si della Terra desolata di Eliot: U nder thè brown fog o f a winter dawn, A crowd flowed over L on d on Bridge, so many, I had not thought death had undone so many

non vedesse il richiamo, che qui è quasi citazione, al terzo canto dell’/ nferno-, o in questa chiusa di Sereni: «Ma dim­ mi una sola parola e serena sarà l’anima mia», il ricordo della liturgia della messa («... sed tantum die verbo, et sanabitur anima mea»); o nella «finestra che non s’illumina» del primo testo delle Occasioni il ricordo della Finestra il­ luminata di Pascoli, in Myricae, e via dicendo. Nel secon­ do caso (quello della semplice presenza diffusa) è certo importante sapere per quali vie e attraverso quali media­ zioni si è formato il linguaggio poetico di un autore, ma il mancato riconoscimento degli echi cavalcantiani in Dan­ te, o danteschi in Ariosto, o dannunziani in Montale, se fa sì che la nostra conoscenza della cultura letteraria di que­ sti poeti sia imperfetta, non rende però meno chiara e adeguata, in linea di principio, la comprensione dei testi di Dante, Ariosto e Montale. Potremmo dire insomma, semplificando, che il primo genere di intertestualità è per­ tinenza del commento, il secondo del saggio monografico. 3.2. Intertestualità come metodo nello studio della poesia medievale Anche nello studio della letteratura medievale si è fat­ to spesso uso di questa tecnica di confronto, all’incirca se­ condo le due modalità che ho qui rapidamente definito: allusione e memoria. Gli studiosi si sono dunque applicati sia a scoprire presenze (come quelle di Cavalcanti in Dan­ te) sia, sulla base di analogie formali o tematiche credute

significative e intese come meditate allusioni, a scoprire repliche in testi a rigore non responsivi. Con, tuttavia, questa notevole differenza rispetto alla critica della lette­ ratura moderna: che la ricerca intertestuale non può non entrare in conflitto con quel modello ermeneutico appena descritto secondo il quale la poesia medievale è un codice omogeneo in ogni sua parte in cui sarebbe dunque non solo vano ma scorretto voler discernere le paroles indivi­ duali; per non dire di consonanze, echi tra l’una e l’altra opera: da trattarsi, secondo i teorici della poesia formale, come pure coincidenze dovute non ad altro che alla po­ vertà e alla rigidità della lingua poetica. Il libro di Jörn Gruber, Die Dialektik des Trobar, ha avuto il merito di portare in piena luce il contrasto latente tra questi due indirizzi dando alla tecnica intertestuale consistenza di vera e propria teoria. Non solo, secondo Gruber, la lirica dei trovieri e dei trovatori non ammet­ terebbe di essere descritta come poesia formale, cioè co­ me sistema inarticolato e senza storia; non solo in un co­ spicuo numero di casi un testo instaurerebbe una relazio­ ne pertinente con altri testi (tale per cui, cioè, il rapporto si pone come diretto, non mediato dal codice); ma esiste­ rebbe un’intima legge che regola questo meccanismo di rammemorazione e ripetizione, legge che concretamente si manifesta, com’è indicato nel titolo del volume, al mo­ do della dialettica hegeliana: dati due versi o due passi estratti da due testi preesistenti, un terzo autore vi allude contaminandoli e in tal modo li ‘supera’. Solleva dunque il velo, vede la verità dei testi e li interpreta correttamente soltanto chi, dotato di adeguata competenza filologica, sa scoprire quei «fili dalle molte connessioni»24 che, sotto la superficie, collegano il nuovo testo alla letteratura del passato, fili i quali implicano un legame volontario e con­ sapevole, non imputabile alla langue. Una verità per po­ chi: ed è sintomatico che la polemica contro il metodo formale di Guiette porti a una conclusione analoga circa 24 Formisano, La lirica, p. 339.

la ricezione della lirica cortese. Poesia per raffinati inten­ ditori capaci di godere del gioco della variazione formale, secondo quella teoria; poesia per «conoscitori», secondo Gruber, capaci di decifrare le allusioni e i ‘superamenti’ che si celano nella trama dei testi25. In entrambi i casi, il problema posto dalla lirica medievale è aggirato con l’e­ spediente dell’esoterismo. In primo luogo, i testi non sono mai veramente quello che sembrano; esiste una chiave na­ scosta - e però accessibile all’interprete così come al pub­ blico del tempo - che, se ben adoperata, permette di capi­ re di più, di penetrare nel suo autentico significato un’o­ pera creduta trasparente e ‘ingenua’. In secondo luogo, ciò che occorre per arrivare a questa piena comprensione dell’opera, è far luce sui rapporti che intercorrono tra es­ sa e altri testi, altra letteratura. È bene ripetere che questi due assunti hanno portato a differenti risultati, a seconda del modo in cui gli studiosi se ne sono serviti. Che nelle letterature romanze delle ori­ gini il confronto con la tradizione letteraria fosse più im­ portante di quanto non sia oggi è fuori di dubbio: essen­ do la parte di realtà rappresentabile in poesia esigua se rapportata ai parametri attuali, era naturale che molto precocemente venisse a costituirsi un codice, e che l’oriz^ zonte contro il quale veniva letta ogni nuova opera fosse un orizzonte letterario, formato da altri testi e da altri au­ tori, altre consuetudini metriche e formali, non l’orizzonte dell’esperienza. Per questa ragione, certamente, i testi me­ dievali hanno tra di loro (e non solo col codice) rapporti più stretti e più numerosi di quelli che si possono reperire tra i testi moderni. Ma, una volta riconosciuto tutto que­ sto, occorre anche dire che la dimensione metaletteraria della poesia romanza medievale è stata molto sopravvalu­ tata. E tornando a distinguere adesso tra i due indirizzi critici ai quali abbiamo accennato: è legittima e necessaria 25 Cfr. Gruber, Die Dialektik, per esempio pp. 27, 244 (sul pubbli­ co di esperti a cui si rivolge il Castellano di Couci) e 252: «Gli intendi­ tori contemporanei non dovettero ignorare queste chiare reminiscenze» (trad. mia).

lina critica delle tesi sostenute dai teorici della poesia for­ male (e nei paragrafi precedenti si è accennato, infatti, al­ le principali obiezioni che è possibile muovere contro quel metodo), ma la convinzione che tutto si tenga, e che la poesia del Medioevo altro non sia se non un intermina­ bile rincorrersi di citazioni, echi e allusioni a ciò che altri, prima, hanno scritto, non è meno falsa e triviale di quella «ccondo cui niente si tiene perché ogni analogia fra testi tleve dissolversi nella langue. Spiace, dunque, che caratteristica del dibattito italiano ■ ia stata proprio la deteriore tendenza a ‘far parlare’ tra loro testi che pure non comunicano apertamente e - a questo scopo - a semantizzare analogie formali virtual­ mente neutre scoprendovi i segnali del dialogo a distanza. È accaduto cioè che alla luce dei (pretesi) legami intertes­ tuali si sia ricostruita una lunga serie di conflitti ideologici mai esplicitamente dichiarati: conflitti tra scuole o modi di intendere la poesia da un lato, conflitti tra singoli poeti dall’altro. Si è sostenuto così che le poesie dei primi tro­ vatori sono i documenti di un dibattito (dibattito fatto per allusioni, mai frontale: non esplicito com’è in Marcabru­ no, per intendersi) tra chi difende un’idea laica della vita e libertina dell’amore e chi invece chiede che l’una e l’al­ tra si conformino ai precetti dell’etica cristiana; che il ge­ nere burlesco affermatosi sullo scorcio del Duecento in alcune città toscane altro non è se non la risposta parodi­ ca alla seriosità e ai languori dell’etichetta cortese, nella fattispecie dello stilnuovo; che i rapporti fra Dante e Ca­ valcanti e il loro dissidio intellettuale si ricostruiscono mettendo in serie e interrogando i loro testi, e che tra le pieghe della Vita nova e di Donna me prega sono nascosti accenni polemici alle rispettive poetiche e concezioni del­ l’amore: accenni che per quanto dissimulati, non frontali, non sarebbero sfuggiti agli interessati né probabilmente ai lettori contemporanei; che Guittone d’Arezzo ripete, nel­ l’avvio di due delle sue canzoni più importanti, altrettanti esordi di Giacomo da Lentini, e così facendo lo onora co­ me precursore e lo ‘supera’; che nel quinto canto dell’J«ferno Dante condanna insieme l’etica e la poesia cortese

facendo pronunciare a Francesca parole che ricordano da vicino quelle della canzone di Guinizzelli A l cor gentil, che il colloquio tra Petrarca e Laura nel secondo Trium­ p h e mortis ricalca a sua volta, e corregge cristianamente, la vicenda di Paolo e Francesca. Ciascuna di queste tesi ha naturalmente un diverso grado di probabilità, che non interessa qui misurare. Tutte però condividono le due caratteristiche di cui ho detto: la convinzione che vi sia nei testi un senso riposto, non ac­ cessibile al lettore medio, e la convinzione cne questo sen­ so riposto possa venire a galla soltanto attraverso il con­ fronto con opere preesistenti. Ma la possibilità che i rap­ porti intertestuali così ricostruiti siano reali e pertinenti non ripaga del rischio ben più concreto di sovrainterpretare, cioè di vedere allusioni là dove non ce ne sono. 3.3. La povertà della riflessione sulla letteratura nel Me­ dioevo Ma il rifiuto dell’intertestualità come metodo e come teoria - ci domandiamo ora - dovrà coinvolgere, a ritroso, anche la tecnica? Ovvero: in che conto dobbiamo tenere la ‘prassi intertestuale’ (prassi ripeto ben legittima, se in­ tesa con giudizio, nello studio dei moderni) nelle ricerche settoriali sulla letteratura medievale? Quel che è certo è che la medievistica contemporanea l’ha tenuta in conto altissimo. Negli ultimi decenni molte ricerche si sono concentra­ te sulle relazioni formali che legherebbero tra loro le ope­ re o - se l’analisi si estende alla maniera, allo stile - gli au­ tori. Ricerche dunque di questo tipo (stavolta gli esempi sono artificiali): ‘Echi dell’/ntelligenza ne\TAcerba’ (rap­ porti tra opere), ma anche ‘Cavalcanti nel Boccaccio liri­ co’ (rapporti tra autori). Ci si può domandare se e in che misura questo genere di approccio alla poesia del Me­ dioevo consegua a un nuovo modo di procedere nel com­ mento ai singoli testi: se cioè la ricerca sistematica delle fonti e dei paralleli verbali nasca come complemento

e sviluppo della ricerca puntuale dei nessi intertestuali svolta nei commenti moderni. Non c’è dubbio, tuttavia, che questa insistenza sulla forma è il sintomo di una diffi­ coltà e di una carenza. Perché: che fare se non confronta­ re i testi? Nella penuria di informazioni circa la vita degli autori che leggiamo (professione, censo, partecipazione alla cosa pubblica) e circa il loro pensiero su temi diversi dall’arte, il loro profilo intellettuale al di là della poesia, non è questo il più oggettivo e vero fra i modi in cui si può parlare della letteratura? Una ‘storia sociale’ simile a quelle che si sono scritte sulla letteratura moderna non darebbe maggiori garanzie d’oggettività: se le conoscenze che abbiamo del contesto politico e sociale sono tutto sommato buone, molto invece ci sfugge del contesto cul­ turale, cioè del pubblico della letteratura e degli ambienti nei quali la poesia circolava. Né, infine, il pensiero teorico e storico-letterario ci ha lasciato, nel Medioevo, documen­ ti che ci aiutino a comprendere le ragioni di un uso della poesia per molti versi differente da quello che è oggi il nostro. Quel genere di pensiero nasce tardi in tutta la Romània; nei trattati medievali, l’aspetto linguistico e metri­ co - cioè l’aspetto normativo - prevale largamente sulla considerazione storico-estetica: la domanda su ‘come de­ v’essere fatta una poesia’ sulla domanda circa ‘che cos’è la poesia’, e, soprattutto, su quella che mira ad accertare ‘che cosa è stata la poesia nelle generazioni che precedo­ no l’attuale’. Si scrivono saggi sulla lingua della poesia co­ me il De vulgari eloquentia o le Leys d’amor, o sulla metri­ ca, come la Summa di Antonio da Tempo. All’interno di opere come queste possono darsi senz’altro divagazioni sulla storia della materia che si sta trattando, e considera­ zioni specifiche sugli autori o la morfologia dei generi, ma resta il fatto che il loro impianto è fondamentalmente sin­ cronico, non diacronico. Analogamente, altre forme del discorso metaletterario che pure non si concentrano su questioni rientranti nella sfera della tecnica, del come fare poesia, rispecchiano anch’esse un atteggiamento indivi­ dualizzante nei confronti di testi ed autori, un disinteresse a fissare il loro posto nella storia. Si pensi alla pratica del

commento a singoli componimenti volgari, in analogia con ciò che si faceva per i più autorevoli testi classici o cristiani; e si pensi ad una forma metaletteraria di se­ condo grado come la biografia: un onore riservato sino al Trecento agli autori greci e latini e agli uomini d’azione e ora concesso anche ai nuovi classici della letteratura ita­ liana, Dante, Petrarca e Boccaccio. Quanto al commento, constatiamo che esso interessa durante tutto il Medioevo non testi lirici bensì testi dal contenuto prevalentemente ragionativo ed erudito come Donna me prega di Cavalcanti, Color di perla di Nicolò de’ Rossi o Tre donne di Dante26. Il commento è tutto tranne che una critique des beautés: è piuttosto una parafrasi o una glossa continua, e ciò in accordo con la gerarchia d’interesse fissata dall’estetica medievale, per cui il conos­ citore apprezza l’opera non solo e non tanto per il piacere estetico che essa suscita quanto per la profondità dei con­ cetti che racchiude e per il profitto conoscitivo o morale che garantisce al lettore. Quanto alle biografie, quelle dedicate a Dante, Petrar­ ca e Boccaccio hanno come centro d’interesse ‘la vita e i costumi’ piuttosto che - modernamente - l’uomo e l’o­ pera. Le informazioni che ci vengono fornite sono in sos­ tanza di due specie, biografico-documentarie le une (det­ tagli sulle amicizie, gli amori, le mansioni pubbliche), psi­ cologiche le altre (carattere e anima del poeta quali risul­ tano dalle testimonianze di conoscenti o di altri biografi, o quali si possono dedurre dai testi medesimi). Ma sulla loro arte e sulle ragioni che li rendono particolarmente degni di memoria questi scritti non dicono molto: di rado il biografo è anche critico letterario; se lo è, i suoi giudizi si limitano a constatazioni banali, o si dissolvono in un ge­ nerico entusiasmo. Nelle vite umanistiche di Dante, Pe­ trarca e Boccaccio - specie nelle più tarde come quelle di

26 Per quest’ultimo testo cfr. L. Coglievina, Un commento quattro­ centesco inedito alla canzone «Tre donne intorno al cor mi son venute», in «Interpres», 4 (1982), pp. 152-246.

Hcccadelli o di Gesualdo - l’attenzione per le opere creMte sensibilmente; ma è chiaro che è l’impostazione mo­ nografica della Vita in sé a conciliarsi male con l’attenzio­ ne per lo svolgimento storico della poesia. Circa la prei­ storia della lirica volgare, i biografi e gli studiosi non fariinno altro, fino al Cinquecento, che ripetere quanto Dante aveva scritto nella Vita nova: (lom inciossi a dire in rima, secondo scrive D ante, innanzi a lui unni 150; e furono i principi in Italia G u id o Guinezzelli bologne­ se, e G uittone cavaliere gaudente d ’Arezzo, e Buonagiunta da Lucca e G u id o da M essina, i quali tutti D ante di gran lunga so ­ verchiò di sentenze e di pulitezza e d ’eleganza e di leggiadria27. Delectatus est enim vehementissime rhythmis, qui, ut ipse refert, ante suum natalem diem coepere in usum esse annos circiter centum quinquagin ta28.

Cristoforo Landino sarà, se non il primo, uno dei primi h mettere in prospettiva le tre corone e a sfiorare i contem­ poranei. Ma anziché fornire al lettore un quadro storico attendibile della poesia italiana, la sua sommaria rassegna delle figure prime (alle tre corone si aggiungono solo Fazio degli Uberti e l’Alberti) serve semplicemente come sfondo per l’elogio del nuovo talento di Lorenzo de’ Medici: A Dante successe Francesco Petrarca [...]. Seguitò il Boccaccio, molto inferiore a lui, ma di poetico ingegno da natura instructo, c d ’invenzione m olto ornato. Potea Bonifacio U berti essere enu­ merato tra’ poeti, se in lui la natura e la exercitazione fusse stata aiutata dall’arte e dalla doctrina. M olto ha am pliato questa lin­ gua Baptista A lberto [...]. M a già fiorisce chi (se ’1 m io giudicio vale alcuna cosa) sarà ne’ prim i tra rarissim i29*.

27 L. Bruni, Le vite di Dante e Petrarca, a cura di A. Lanza, Roma, Archivio Guido Izzi 1987, p. 50. 28 G.M. Filelfo, De clarissimi poetae Dantis fiorentini vita et moribus, in Solerti, Le vite, pp. 158-185, a p. 176. 29 C. Landino, Vita e costumi di Dante, in Solerti, Le vite, pp. 186193, alle pp. 191-192.

Da ciò si evince che le vite dei poeti non sono il luogo in cui si esprime una reale, matura coscienza storico-lettera­ ria: il medaglione celebrativo dedicato ai campioni della Poesia si accorda male con quella che dovrebbe essere l’ottica - non neutrale ma attenta ai rapporti piuttosto che alle figure - dello storiografo30. 3.4. La prevalenza della ‘langue’ sulle 'paroles' Si spiega che, di fronte a un quadro tanto lacunoso e sfuggente, quello di far parlare i testi, di ricostruire la mappa dei debiti e dei crediti soprattutto formali, sia po­ tuto sembrare a molti il modo più sicuro e filologicamente corretto di procedere nello studio della letteratura medie­ vale. Da questa scelta deriva però una nuova difficoltà. Le due vie dell’intertestualità quali si sono rapidamente deli­ neate il medievista deve infatti percorrerle - l’una e l’al­ tra, per distinti motivi - con grande prudenza. Vi è dunque da un lato il problema della presenza diffi> sa di un autore nella poesia di un altro autore, presenza che si può manifestare nel lessico e nello stile, nei motivi, nei temi: a questo si pensa quando si parla del cavalcantismo o del guittonismo o dell’amaldismo di Dante, del retaggio dantesco in Petrarca, o bonagiuntiano in Guinizzelli, e via dicendo. Ora, questa lettura in chiave personalistica delle influenze letterarie trova un ostacolo nella natura stessa del linguaggio poetico medievale. Da una parte, esso ammette coincidenze e analogie profondissime, impensabili nella poesia moderna, che tuttavia non comportano necessaria­ mente l’esistenza di un legame diretto tra i testi e tra gli au­ tori interessati. Confrontiamo per esempio questi brani:50 50 Circa la prospettiva adottata dai biografi, è sintomatico il fatto che le biografie dei poeti non formino un genere a parte, e quindi delle opere autonome, ma vengano scritte e raccolte a fianco di quelle dei condottieri, dei principi, degli uomini politici o di altri artisti: e ciò ap­ punto perché quello che conta non è la loro qualità specifica di letterati bensì il fatto di aver vissuto - al pari degli altri - vite eccezionali.

(1)

A dim orando ’n ¡strano paese, di voi, mia donna, a tutora pensava,

ed ogni giorno mi parea un mese, pensandom i là dove adim orava (Chiaro, 58.1-2 e 5-6) D ap oi ch’i’ mi partì di quel paesse, mai sol un’ora non fui sen«ja doglia, né di bon core m ai non feci riso;

e ciascun giorno ben mi pare u mese (U baldo di M arco, L 415.9-12) (2)

Al core m ’è nato e prende uno disio (Jacop o d ’A quino, V 041.1) Alo core m ’è nato uno disio d ’am oroso talento (M onaldo da Sofena, P 116.1-2)

(3)

sì gran m ercato m ai non fue veduto (G uittone, X X X I I 104) C otale gioco mai non fue veduto (G iacom o da Lentini, X V M d 1)

(4)

ed ella d ’orgogloza m ainera ver’ di m e m aisenpr’è stata (Lem m o O rlandi, L 088.41-42) e tu p ur d ’orgoglioza m ainera se’ ver’ m e senpre restato (G uittone, L 0 31.61-62)’ 1

(5)

che ’1 m ondo tuto è condotto a tale (M onte A ndrea, V 284.70) E1 m ondo vile è oggi a tal condotto (P. T edaldi, ed. Rimatori comico-realistici, p. 718)

M Segnalato da J. Gruber, Laura und das Trobar Car, Hamburg, Huske 1976, p. 140.

In tutte queste circostanze, l’ipotesi che uno dei rimatori ‘dipenda’ dall’altro e lo imiti tanto fedelmente da ripeter­ ne quasi alla lettera un verso non può essere scartata a priori; ma almeno altrettanto probabile appare l’altra eventualità, che data una lingua poetica eccezionalmente rigida e povera di varianti, corrispondenze come queste siano accidentali. Non dunque ‘presenza’ inavvertita di un poeta nell’opera dell’altro ma partecipazione di en­ trambi a un codice particolarmente angusto: e ciò che va­ le per il ritorno di versi identici vale, a maggior ragione, per altre più circoscritte analogie formali. Dall’altra parte, motivi e stili che tradizionalmente ten­ diamo a interpretare come caratteristici di un autore, a un esame più largo e attento mostrano spesso di avere una vita propria, cioè di preesistere a quel tale autore e di persistere dopo di lui: senza che perciò - ed è quanto va sottolineato - questa persistenza debba significare ipso facto recupero e imitazione, anche inconsapevole, di quel poeta. Vi sono - per fare solo qualche esempio - poeti del Duecento che scrivono in maniera difficile e contorta ma che non per questo debbono essere definiti guittoniani; il trobar clus è sì una tecnica che Guittone adotta spesso nelle sue rime, ma non gli è esclusiva e non nasce con lui. E lo stesso si deve dire di quella variante del trobar clus che è lo stile petroso: che noi colleghiamo ai nomi di Guittone e soprattutto di Dante, ma che, da sé solo, non è affatto prova di guittonismo o di dantismo nei successori. Allo stesso modo, è pos­ sibile adoperare stilemi e motivi tipici degli stilnovisti, cioè più frequenti nelle loro rime (gli spiriti, il saluto, la beatitu­ dine ecc.), senza che ciò comporti una diretta dipendenza da Cavalcanti o da Dante o da Cino. In realtà, i confini tra gli stili degli individui e dei gruppi sono labili, e non si staccano mai in maniera troppo marcata dalle medie del lo­ ro tempo. È per questo che la mappa dei rapporti e delle influenze tra i poeti dovrebbe essere tracciata guardando soprattutto al contenuto dei testi, alle idee che vi vengono sviluppate: far leva sulle somiglianze formali, in un’età in cui la forma ha le caratteristiche che abbiamo descritto, porta invece spesso a stabilire nessi superficiali o illusori.

3.5. La rarità delle allusioni all’interno di un repertorio senza classici Quanto all’altro tipo di intertestualità, quello che fa tutt’uno con la cosiddetta arte allusiva, il discorso è più delicato per i diversi aspetti sotto i quali essa può presen­ tarsi. Se però come termine di paragone adoperiamo i brani di autori contemporanei citati in precedenza (Eliot, Sereni, Montale), non è eccessivo dire che nulla o ben poco di paragonabile esiste nella poesia dei primi secoli. Naturalmente, vi sono anche in quest’ultima con­ nessioni intertestuali assolutamente sicure, e di cui l’auto­ re è il primo ad essere consapevole. Così Bonagiunta Orbicciani trae il tema per una sua canzone dall ’Ars poetica di Orazio, e ne ripete lo schema retorico e le parole52*. Così Petrarca inserisce spesso nei testi del Canzoniere ver­ si che imitano, e talvolta traducono alla lettera una fonte latina; in passi c 11 1 onde discende (5 0 .1 6 -1 7 ); o « l i

ror lungo» (232.12-13), il rapporto è chiaro e puntuale: Petrarca ha coscientemente adattato al suo contesto alcu­ ni celebri versi di Virgilio (Egl. I 83: «maioresque cadunt altis de montibus umbrae») e di Orazio (Epist. I ii 62): «ira furor brevis est; animum rege, qui nisi paret imperai» (ma qui piuttosto che di arte allusiva bisognerebbe parla­ re di memoria colta che sfrutta l’opera altrui, il testo-mo­ dello, come repertorio di detti memorabili)55. Ancora: tra i siciliani è spinta a un grado estremo la tendenza a ricor­ rere non solo a temi ma anche a motivi già più volte sfrut­ tati dai colleghi: il che comporta spesso, in questa cerchia di letterati verosimilmente molto compatta, l’esistenza di alcuni legami intertestuali davvero reali e pertinenti, di ri­

52 Cfr. Giunta, La poesia italiana, p. 141 nota 20 e infra, cap. II Par- 5 !. 55 Cfr. M. Vitale, La lingua del Canzoniere («Rerum vulgarium frag­ menta») di Francesco Petrarca, Padova, Antenore 1996, pp. 8-9.

ferimenti puntuali ai versi di un predecessore H. Vi è poi, frequente anche nella lirica, l’allusione a miti e leggende, e di conseguenza ai libri che le tramandano: i paragoni con Tristano, con Erec e Enide, con Didone, e via dicen­ do. Vi è, con frequenza anche maggiore, l’allusione a luo­ ghi del libro che tutti dovevano conoscere, la Bibbia. E vi è infine la forma più aperta e chiara di intertestualità, cioè la citazione esplicita o quasi esplicita: come nella canzone Lasso me di Petrarca (citazione esplicita) o nel sonetto Amor e 7 cor gentil di Dante (quasi esplicita: il saggio cui si allude è Guinizzelli, il testo, la canzone A l cor gentil). Ma lasciando da parte le citazioni e il caso dei siciliani, del resto controverso perché a metà strada tra intertestua­ lità e interdiscorsività, si tratta sempre di una memoria culturale che non è memoria di altra poesia volgare. Per­ ché ciò fosse, perché potesse crearsi un circuito allusivo all’interno della poesia volgare del Medioevo (come poi sarà in quella contemporanea), occorrevano due fattori in­ vece assenti o solo debolmente presenti in quel quadro. In primo luogo bisogna domandarsi se vi fosse, in quell’epo­ ca, una società letteraria unificata dalla conoscenza di de­ terminati testi, versi o luoghi letterari cui il nuovo autore potesse fare riferimento con la certezza che l’allusione ve­ nisse colta dai suoi lettori. Salvo poche eccezioni - la prin­ cipale delle quali riguarda quella società e quel pubblico creati, secondo l’immagine di Auerbach, dalla Commedia - questa unificazione non vi fu. Vi furono certamente ris­ tretti gruppi di esperti capaci di far reagire i testi l’uno coll’altro, ma almeno in ambito italiano la normale fruizio­ ne dovette essere molto più frammentaria e occasionale. In alcuni sonetd stilnovisti noi intrawediamo la presenza di un significato nascosto, talvolta ricavabile soltanto at­ traverso il confronto con altri testi; la chiave dell’allusione non ce l’ha però il pubblico bensì i compagni d’arte: Dan­ te e Lapo, per esempio, nel sonetto cavalcantiano Se vedi Amore, lo stesso Cavalcanti nel dantesco Guido i' vorrei.54 54 Cfr. da ultimo A. Fratta, Correlazioni testuali nella poesia dei Sici­ liani, in MR, XVI 1-2 (1991), pp. 189-206.

Ma in secondo luogo, come si è detto della Comme­ dia, sono le opere stesse a formare nel tempo il loro pub­ blico, e il destino dei classici è tra l’altro questo: diventa­ re, per i lettori colti, parte di una memoria comune e ne­ cessaria - una memoria che ognuno deve, cioè, possedere - e, per gli scrittori, un canone di fonti cui è possibile al­ ludere con la coscienza che si verrà compresi. Così, con un’autorità mai più raggiunta da alcun altro autore nella moria della lirica italiana, Petrarca nel Cinquecento:

4

Sento l’odor da lunge e ’1 fresco e l’óra dei verdi campi, ove colei soggiorna, che co’ begli occhi suoi le selve adoma di fronde, e con le piante l’erba infiora.

Sorgi da l’onde avanti a l’u sat’ora dim ane, o sole, e ratto a noi ritorna, ch’io p ossa il sol, che le mie notti aggiorna, 8 veder più tosto, e tu m edesm o ancora. Ché sai, tra quanto scaldi e quanto giri, beltade e leggiadria sì nova e tanta, 11 perdonim i qualunque altra, non miri. E se qual alma quel bel velo amanta ancor sapessi, e quanto alti desiri, l’inchineresti, com e cosa santa.

Il lettore di questo sonetto di Pietro Bembo dovrebbe lapere di storia letteraria e vedere, sotto le parole del poe­ ta-amante, il reticolo delle citazioni petrarchesche35. Il let­ tore di questo altrettanto noto sonetto di Bemi deve sape­ re di storia letteraria così da poter vedere che questo ri­ tratto di donna è la parodia del ritratto che Bembo, nel lonetto Crin d’oro crespo, ha fatto della propria amata; gli «fugge altrimenti l’autentico elemento comico del sonetto, cioè appunto l’allusione dissacrante a quel modello e, per questo tramite, al modello di tutti i lirici, Petrarca3é:

35 Cfr. il commento di Dionisotri in Bembo, Prose e rime, pp. 589190. 1,1 Cfr. F. Bemi, Rime, Torino, Einaudi 1969, p. 95.

Chiom e d’argento fino, irte e attorte senz’arte intorno ad un bel viso d ’oro; fronte crespa, u ’ m irando io mi scoloro, 4 dove spunta i suoi strali A m or e M orte; occhi di perle vaghi, luci torte da ogni obietto ¿ s e g u a le a loro; ciglie di neve e quelle, on d ’io m ’accoro, 8 dita e man dolcem ente grosse e corte; labra di latte, bocca am pia celeste; denti d ’ebeno rari e pellegrini; 11 inaudita ineffabile arm onia; costum i alteri e gravi: a voi, divini servi d ’A m or, palese fo che queste son le bellezze della donna mia.

Non si va lontani dal vero se si dice che un fenomeno analogo, una simile rete di allusioni interne al genere lirico non si formò prima del petrarchismo per mancanza di classici. Si obietterà che sin dall’ultimo quarto del Due­ cento, e forse prima se pensiamo alla ‘falsa’ poesia popo­ lare del contrasto di Cielo d ’Alcamo o simili, il registro comico-realistico di Cecco Angiolieri o di Rustico o degli altri minori più o meno contemporanei reagisce polemicamente contro i nuovi classici della poesia stilnovista allu­ dendo, se non a precisi luoghi di quella lirica, ai suoi clichés più tipici. Io non escludo che ciò sia accaduto in qualche occasione, ma nel terzo capitolo di questo libro cercherò di dimostrare come l’impiego del registro basso per la parodia e l’irrisione della lirica aulica si diffonda davvero soltanto a partire dai burchielleschi - in forme, del resto, ben lontane dall’esplicitezza del sonetto berne­ sco citato - e come, prima di allora, quella dei cosiddetti rimatori comico-realistici fosse sì in certo senso parodia, quindi allusione, di un determinato modo di far poesia, ma soprattutto fosse difesa e illustrazione di un diverso modo di concepire la vita (e di conseguenza, ma solo di conseguenza, il suo rispecchiamento nell’arte). Un’altra obiezione avrebbe maggiore fondamento, e non potrebbe essere respinta del tutto: che senza arriva­ re a costituire un codice paragonabile a quello petrarche-

esistono pure, nei primi due secoli, testi ai quali andrà riconosciuto il rango di classici nel loro genere, com’è provato dalla diffusione manoscritta, o dall’elogio dei contemporanei, o dall’influenza sui posteri: un canone, insomma, per quanto ristretto, che per essere noto al me­ dio lettore di poesia poteva essere fatto oggetto di allusio­ ne da parte dei nuovi autori. Ciò è probabile che si sia ve­ rificato nel caso di alcuni testi, sicuro nel caso di pochi al­ tri; penso soprattutto a un piccolo gruppo di componi­ menti su cui mi soffermerò tra breve, unificati dal loro ca­ rattere non lirico, dal loro discorrere e indirizzarsi a un interlocutore esterno, e penso a pochi altri testi danteschi o rimani’7. Ma oltre a costituire una biblioteca ideale dav­ vero molto esigua, la classicità di questi testi non è natu­ ralmente quella di Petrarca, e la loro presenza in questa sorta di memoria letteraria collettiva del loro tempo resta imparagonabile a quella che nel Cinquecento permetterà di scomporre in versi memorabili (e dunque alludibili e citabili) le liriche del Canzoniere. Lo stesso stilnuovo im­ pone piuttosto una maniera che un compatto canone di testi o luoghi celebri: vale a dire che non si alluderà (o di rado) a specifici passi della Vita nova o ad altre liriche dantesche o cimane o cavalcantiane ma si farà tesoro di - e si ripeteranno nei propri testi - quelle forme e struttu­ re che nel suo complesso la tradizione suddetta aveva ela­ borato e trasmesso, dal lessico alle figure retoriche, al me­ tro, alla concezione dell’amore.

hco

*' Altro è, s’intende, il peso della tradizione del genere. In un’epoca ili ‘forme fisse’ come il Medioevo, il modo più semplice in cui i legami intertestuali possono prodursi è per memoria ‘intragenerica’, da canzo­ ne a canzone, da ballata a ballata o - come documenta P. Canettieri, Descortz es dictatz mot divers. Ricerche su un genere lirico romanzo del XIII secolo, Roma, Bagatto Libri 1995, pp. 159-221 - da discordo a di­ scordo. È chiaro tuttavia che qui abbiamo a che fare con una memoria dei poeti legata alla tecnica seguita nella confezione dei testi (per cui si imitano per esempio soluzioni metriche o formali diventate, a partire dall’uso fattone da parte di un poeta, canoniche) piuttosto che con una vera e propria arte allusiva.

Questo rapporto non differenziato, voeabolaristico con la letteratura del passato si spiega del resto perfetta­ mente in un’età in cui il divario tra le parole usate dal nuovo poeta e quelle dei suoi predecessori è così ridotto, e in cui l’imitazione dei modelli, nessuno dei quali esclusi­ vo, è tanto pedestre da rendere indistinguibile - perciò impossibile, irrazionale - un’eventuale allusione. E si spie­ ga soprattutto nell’àmbito di un genere, la lirica, in cui le ragioni dello stile prevalgono sulle ragioni del messaggio facendo passare in secondo piano qualsiasi esigenza di realismo. In termini più espliciti: si allude di solito a qual­ cosa che altri abbia scritto, non al modo in cui qualcosa è stato scritto; ma in un’età e in un genere nei quali così poco di originale viene detto, l’allusione non può che ave­ re un campo estremamente-limitato: e quando c’è, come nei sonetti di Cavalcanti e di Dante citati in precedenza, essa parla piuttosto ai poeti che ai lettori. Per tutte queste ragioni, l’allusione nel senso che noi oggi diamo a questo termine è, nella poesia medievale, un fenomeno non consueto o - che dal punto di vista critico è lo stesso - difficilmente comprovabile. Come dunque è difficile e sovente inopportuno stabilire quale parte del linguaggio poetico medievale sia di matrice cavaìcantiana o dantesca, o petrarchesca, così, per lo stesso motivo, è bene riflettere a lungo prima di parlare di un rapporto puntuale e allusivo tra due testi, anche quando questi ab­ biano tra loro forti affinità formali.4 4. ‘Authorship’ 4.1. Plagio Vi è tuttavia almeno un problema sul quale il metodo intertestuale aiuta a far luce, correggendo l’ottica tradizio­ nale: il problema, che è sia di metodo sia di sostanza, del­ la personalità del poeta e del suo rapporto con l’opera. Per chi studia la poesia del Medioevo cercando di rianno­ dare i «fili dalle molte connessioni» che collegano i singoli

testi tra loro (e non ciascun testo al codice, che è il punto di vista dei teorici della poesia formale), la figura del poe­ ta-artefice e l’idea dell’opera come creazione individuale, che reca il nome di chi l’na prodotta, restano al centro del discorso: proprio come se si trattasse di testi moderni. Un autore ne imita un altro, o lo cita, o vi allude, per appro­ varlo o per prenderne le distanze. Ciò che non cambia, nella varietà delle situazioni, è il fatto che il rapporto è sempre personale: Tartista è presente nella sua opera. È stata ed è invece opinione diffusa, e di gran lunga pre­ valente negli studi di taglio storico-interpretativo, che le cose non stiano così, che di autore nel senso moderno del termine non sia il caso di parlare per il Medioevo in quan­ to in quest’epoca di forme fisse e di clichés ripetuti all’in­ finito «l’artista sparisce quasi completamente dietro la propria opera» (Schlosser). Sarebbe questo anzi uno degli aspetti che meglio definiscono, per contrasto, l’arte del Medioevo rispetto a quella moderna. La prova? L ’inesi­ stenza dell’idea di plagio: Nell’arte del M edioevo, le caratteristiche com uni paiono annul­ lare ogni differenza stilistica individuale; gli elementi generali del linguaggio, la gram m atica astratta, sem brano soffocare gli stili personali [...]. Il m oderno concetto di plagio non esisteva o quasi, nel nostro senso, per il M edioevo3839.

Questo parere, che Schlosser esprime sull’arte medievale nel suo complesso, collima con quello che, in relazione alla poesia, hanno espresso i critici e gli storici della letteratura: Idee che associam o a termini com e plagio, copyright o d iritti d'autore sem plicem ente non esistevano Nel M edioevo l’io poetico aveva, rispetto ad oggi, m aggiore li­ bertà e m aggiore am piezza; a quel tem po, il concetto di proprietà 38 J. von Schlosser, L'arte nel Medioevo, Torino, Einaudi 1989, ris­ pettivamente pp. 107 e 29. 39 H.J. Chaytor, From Script to Print, London, Sidgwick & Jackson 1945, pp. 123-125 (trad. mia).

intellettuale non esisteva perché la letteratura non aveva a che fare con l’individuo ma con l’um anità; il criterio dell’« / in pluribus era largam ente accettato40. Il testo sem bra [...] funzionare indipendentem ente dalle circo­ stanze; l’uditore non ne attende altro che la su a letteralità stessa. D i qui l’assenza nel m edio evo della nozione di p lag io 41. In una cultura simile, le nozioni di originalità, di imitazione e di plagio assum ono tutt’altro senso rispetto a quello che esse han­ no nella cultura della stam pa [...]. Sem pre aperta, in certo senso incom piuta, l ’opera copiata a m ano, m anipolata, è in sé un invi­ to all’intervento, alla glossa, al com m ento42. Proprio perché il testo della lirica m edievale [...] non è un’opera autonom a o un originale tutelato dal copyright, ma un plurale tantum , esso è sottoposto alla variazione e alla progressiva con­ cretizzazione del significato, il discorso poetico nel gioco col co ­ dice può qui arricchire il senso del codice e quindi su p erarlo43. Il testo m oderno [si parla di D ram e di Sollers] com e segno indi­ ca dunque solo se stesso, e l’architettura narrativa dei pronom i com incia e finisce nel linguaggio. Analogam ente, secondo Zumthor, l’io che si esprim e nei testi medievali è «gram m aticale, anonimo e universalizzato», e in essi un m odello poetico preesi­ stente prende il posto della realtà referenziale [...]. Tuttavia, mentre nel M edioevo l’anonim ato nel processo di produzione poetica è reale, nell’età m oderna è ovviamente un m ito 44.

Ora, conclusioni così perentorie e così largamente condi­ vise si fondano in realtà non su ciò che le fonti dicono ma sul loro silenzio. Si constata l’esistenza di testi eccezional­ 40 L. Spitzer, Note on thè Poetic and thè Empirical T in Medieval Authors, in Romanische Literaturstudien 19)6-1956, Tübingen, Nie­ meyer 1959, pp. 100-112, alle pp. 102-103 (trad. mia). 41 Zumthor, Semiologia e poetica, p. 24. 42 B. Cerquiglini, Eloge de la variante. Histoire critique de la Philolo­ gie, Paris, Seuil 1989, p. 58 (trad. mia). 43 Jauss, Alterità e modernità, pp. 19-20. 44 E. Vance, The Modemity of the Middle Ages in thè Future: Remarks on a Recent Book, in «The Romanie Review», 64 (1973), pp. 140151, a p. 147 (trad. mia).

mente simili tra loro; si osserva che nei rari scritti teorici nulla letteratura non si parla del plagio; se ne deduce che, ti differenza di ciò che avviene tanto nell’età antica quanto nell’età moderna, nel Medioevo il furto di idee e di parole altrui non si dà o nel caso si dia - dato che ‘tutto è codice’ - viene accettato come cosa normale e conforme all’arte. Ma in primo luogo è rischioso far valere argomenti c silentio nel giudizio su un’età così povera di documenti di teoria e storiografia letteraria (e del resto del plagio non si parla, di regola, neppure nelle estetiche e nelle poetiche moderne, non perché il concetto non esista ma icmplicemente perché non ha dignità teorica, non è un problema che interessi l’analista). In secondo luogo è un errore parlare di imitazione e di plagio senza distinguere tra modelli antichi e modelli contemporanei: perché se l’i­ mitazione ‘verticale’ dei classici, anche pedestre e lettera­ le, poteva essere concessa ed era anzi, in determinate sedi cd occasioni, caldeggiata45, diversamente stanno le cose quando gli imitati sono autori che appartengono alla pro­ pria stessa tradizione. In questo secondo caso non solo l’i­ dea del plagio esiste, ma il plagiario può essere smasche­ rato e vilipeso. Contro un plagiario è diretto il serventese S'es chantan di Giraut de Bomelh; di un plagio, un plagio ai danni di Giacomo da Lentini, è accusato ü poeta desti­ natario del sonetto D i penne di paone46; ed è un plagio 45 Ed anche in quest’ambito, tuttavia, occorre cautela prima di giu­ rare sulla legittimità dei furia dai classici greci e latini. In un noto passo del Metalogicon, Giovanni di Salisbury ricorda come Bernardo di Char­ tres fosse solito riprendere gli allievi che dall’imitazione trascorrevano al plagio: «Quibus autem indicebantur praeexercitamina puerorum in prosis aut poematibus imitandis, poetas aut oratores proponebat et eonim iubebat uestigia imitati, ostendens iuncturas dictionum, et elegan­ tes sermonum dausulas. Siquis autem ad splendorem sui óperis alienum pannum assuerat, deprehensum redarguebat furtum, sed poenam saeissime non infligebat» (Ioannis Saresberiensis, Metalogicon, a cura di B. Hall, Tumholti, Brepols 1991,1 xxiv 76-82). 46 Cfr. Chiaro, Rime, p. 385; la stessa metafora della cornacchia ri­ vestita dalle penne del pavone si trova nel son. Tu se’ comachia di G io­ vanni Quirini, e anche qui probabilmente la cornacchia è metafora per un plagiario: cfr. Giunta, La poesia italiana, p. 87 nota 18.

f

quello dal quale si discolpa Cino nel sonetto Q ua’ son le cose vostre, indirizzato a Cavalcanti (1-4): Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo, Guido, che fate di me sì vi ladro? Certo bel motto volentier ricolgo: ma funne vostro mai nessun leggiadro?47 Che i letterati medievali non possedessero il concetto di plagio è dunque un’esagerazione, ma un’esagerazione di cui s’intuiscono il motivo e l’origine. E ssa nasce dalla giusta osservazione che la libertà creativa degli autori, in quest’epoca, è limitata dalle leggi insieme formali e tema­ tiche dei generi e dal retaggio di una tradizione alla quale difficilmente si deroga. Se ne deduce che in un simile con­ testo, a differenza di quanto accade in epoche più recenti, l’originalità non è un valore, e l’imitazione e il plagio sono dunque ammessi, o non sono avvertiti. E tuttavia questa deduzione non ha valore assoluto: lo spazio dell’originali­ tà (e di riflesso quello del plagio) si restringe ma non si an­ nulla; e la personalità del poeta resta sì schiacciata dal pe­ so delle convenzioni, ma non scompare. Dire che laddove « l’arte contemporanea si basa sull’idea che l’originalità, la non ripetibilità, la caratteristica individuale appartengono ai pregi dell’opera d ’arte, l’estetica medievale considerava tutto ciò che è individuale come peccaminoso, manifesta­ zione d ’orgoglio, e richiedeva fedeltà alle originarie imma­ gini ‘ispirate da D io’» 48 - significa interpretare una diffe­ renza quantitativa di ordine estetico (concernente il grado di originalità, l’ampiezza dello scarto dalla tradizione) co­ me una differenza d ’ordine antropologico, concernente l’essenza dell’uomo medievale. Osservazioni come questa sono, come minimo, non generalizzabili. E tuttavia tenta­ tivi di generalizzazione vi sono stati, ed hanno creduto di trovare conferma nella morfologia dei canzonieri. 47 Cfr. Cavalcanti, Rim e, pp. 215-216. 48 J.M . Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia 1972, p. 153.

4.2. Adespotia Il fatto che i manoscritti riportino spesso i testi senza rubrica attributiva è stato interpretato da Zumthor come un argomento a favore della sua tesi circa la preminenza dell’oggetto-testo nella ricezione della poesia medievale da parte dei contemporanei: la prova filologica di quell’eclissi del soggetto che l’intero E ssai de poétique médiévale si sforza di documentare soprattutto in base a considera­ zioni di natura form ale49. Sull’eclissi del soggetto, cioè sull’irrilevanza del nome dell’autore valgono in generale le osservazioni fatte in precedenza circa la necessità di di­ stinguere tra epoche, regioni, generi e autori, onde evitare contrapposizioni troppo nette tra Medioevo e età moder­ na; e vale sempre quanto osserva Curtius nel saggio sulla Indicazione del nome dell’autore nel M edioevo, dove si di­ mostra infondato il luogo comune romantico dell’autore che ‘si annulla nella tradizione’ tacendo il proprio nome nell’opera (un luogo comune tuttora diffuso, specie in Ita­ lia per l’apparente consenso di due passi danteschi). Tale dimostrazione, per cui Curtius si vale soprattutto di testi mediolatini, si potrebbe facilmente estendere alla poesia volgare. Quanto all’avallo che la tradizione manoscritta dareb­ be a questa già dubbia eclissi del soggetto, difficilmente questa tesi resisterebbe a una verifica approfondita sul­ l’atteggiamento tenuto da chi, in Francia come in Proven­ za e in Italia, allestì e copiò i codici che ci conservano quella poesia. L ’atteggiamento, beninteso, non i concreti risultati. Che i canzonieri trabocchino di testi non attri­ buiti è un dato di fatto noto e incontestabile. Che per al­ cuni generi ‘minori’ o di fattura più artigianale - tali per esempio la cobla esparsa in Provenza, la ballata in T osca­ na, la lauda in tutto il centro Italia - l’anonimato sia una condizione normale, al punto che la regola s’inverte e l’at­ tribuzione a un autore in carne e ossa rappresenta quasi

49 Cfr. Zumthor, Sem iologia e poetica, pp. 66-72.

un’eccezione, anche questo è noto. M a la ragione dell’a­ nonimato andrà comunque cercata nella natura stessa dei generi in questione. Quanto alle laude, si può dire che es­ se nascano adespote, l’autore essendo insieme l’erede di una tradizione che non tollera se non minime variazioni e il portavoce di una comunità di fedeli. Q uanto alle bal­ late, il loro destino non è in fondo diverso da quello degli altri generi musicali: la minore importanza e la minore originalità del testo verbale facilitano la scomparsa delle rubriche attributive (sicché accade regolarmente che ad essere indicato sia il nome del musico, non quello del p oeta)50. Ma detto questo, e constatato il fenomeno, ripe­ to che non bisogna generalizzare né cercare in un partico­ lare orientamento estetico (indifferenza alla paternità, te­ sto plurale, debolezza della authorship) la ragione di quel­ le che fino a prova contraria vanno viste come semplici la­ cune generatesi accidentalmente nella trafila delle copie. Circa il rischio della generalizzazione. Possiamo intan­ to distinguere in m odo molto grossolano tra amatori e raccoglitori, cioè a dire tra coloro che occasionalmente e casualmente si fanno copisti di versi volgari (si pensi per esempio a quelli che costellano certi protocolli notarili) e coloro per i quali la poesia costituisce l’interesse prima­ rio: la sua conservazione, non solo la sua fruizione. È ov­ vio che a riguardarci per il problema dell’adespotia sono i secondi e non i primi: che nei M em oriali bolognesi ven­ gano trascritti i testi e taciuti i nomi degli autori non stu­ pisce e altro non significa se non che a prevalere in questi atti di copia è l ’ottica del consumatore immediato, non quella dell’erudito: i notai di oggi non agirebbero diversamente se frequentassero la poesia. L a misurazione va effettuata sui veri e propri canzo­ nieri, e il responso che si ottiene sembra smentire l’opi­ nione di quanti guardano al pubblico medievale come a un mondo di lettori-ascoltatori interessati alla poesia e non ai poeti, e perciò propensi a salvare l’una e a sacrifi­ 50 Cfr. Poesie m usicali del Trecento, a cura di G . Corsi, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1970, p. X X IX .

care o a dimenticare gli altri: sia perché non è rara l’even­ tualità opposta, di copisti che tentano di supplire alle la­ cune delle fonti col loro talento filologico o con la fanta­ sia, preferendo al silenzio un’attribuzione abusiva (e qui, in una casistica ampia e varia, basti accennare al copista del canzoniere Isoldiano, il quale mosso dal desiderio di «non lasciare troppe didascalie in bianco in una raccolta su cui si sarebbe posato l’occhio del sign ore»51 inventa di sana pianta alcune attribuzioni); sia perché si trovano spesso, nei codici, rubriche che dimostrano come il silen­ zio della fonte non venisse accettato pacificamente, e la paternità delle opere stesse a cuore tanto al copista quan­ to al lettore52*; sia infine perché - ed è questo l’aspetto più importante - l’anonimato è già nel M edioevo una remora, non uno stimolo alla conservazione dei testi: il che non sa­ rebbe se l’approccio a questi ultimi fosse stato quello ‘li­ bero’ e oggettivo ipotizzato da Zum thor55. Senza volere a mia volta generalizzare dati tutt’altro che univoci, credo sia legittimo dire che rispetto a un testo attribuito un te­ sto anonimo ha tendenzialmente meno chances di essere copiato, e che il numero dei testi adespoti è inversamente proporzionale al tasso di consapevolezza letteraria e sto­

51 B. Bentivogli, La poesia volgare. A ppunti sulla tradizione mano­ scritta, in Bentivolorum m agnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascim ento, a cura di B. Basile, Roma, Bulzoni 1984, pp. 177-222, a p . 191. 52 II copista del canzoniere Escorialense e.III.23, per esempio, scri­ ve «n escio» accanto a testi dei quali ignora la paternità (cfr. per es. c. 83v); quello del ms. II IV 250 della Nazionale di Firenze usa formule come «non so di cui» o «non so l’autore» (cc. 60r e 117r); ma di uno scrupolo simile si trova traccia in molti altri canzonieri antichi. ” Certo l ’atteggiamento che i copisti tengono di fronte ai testi vol­ gari è diverso rispetto a quello tenuto dai copisti dei testi greci e latini, perché diversi sono la loro cultura e il loro rapporto con le opere; ma l’affermazione di Dain secondo cui agli occhi di molti trascrittori «è preferibile un titolo falso e apocrifo ad un’opera anepigrafa e anoni­ m a», affermazione relativa appunto alla copia dei testi classici, è corret­ ta anche se la si riferisce alla tradizione romanza (cfr. A. Dain, Les manuscrits, che cito da L a critica del testo, a cura di A. Stussi, Bologna, Il Mulino 1985, pp. 129-150, a p. 141).

riografica posseduta dal collettore. Ciò significa che, in una tradizione che come quella trobadorica sia storica­ mente connessa soprattutto nei suoi rami italiani ad un ambito di riproduzione e di ricezione alto (l’atelier di co­ pia, la corte), il principio d ’ordine nell’allestimento dei codici sarà normalmente trovato nell’autore o nel genere metrico, o in entrambi insieme (divisione secondo autori all’interno della sezione dedicata al genere), e testi che la fonte o le fonti trasmettono come anonimi più degli altri correranno il rischio di essere marginalizzati o, ripeto, battezzati abusivamente: «nella maggior parte dei casi, i primi propagatori del patrimonio poetico trobadorico [...] si rivelano particolarmente impegnati nel garantire a quanti fruiranno dei loro prodotti un corpus dotato an­ che sul piano attributivo di un’accettabile affidabilità»54. E di fatto, il numero degli anonimi nella poesia trobadori­ ca è tutto sommato contenuto55. In area italiana, una fenomenologia analoga è possibi­ le osservarla in diacronia. Alla fine del Medioevo, in quel vertice di coscienza storiografica che è la Raccolta Arago­ nese, gli adespoti non saranno più ammessi: per l’ovvia ra­ gione che quella che si vuole documentare è, per così di­ re, la storia dei poeti piuttosto che quella della poesia; e perché, com ’è altrettanto evidente, resoconto storico e Ubera fruizione della poesia in quanto prodotto scisso dal suo produttore non sono compatibili. La dedicatoria a Federigo d ’Aragona, col suo insistere sulle differenti maniere e personalità e con la sua visione agonistica della 54 M .L. Meneghetti, Problem i attributivi in àm bito trobadorico, in L ’attribuzione: teoria e pratica (Storia dell’arte, m usicologia e letteratura), a cura di O. Besomi e C. Caruso, Atti del Seminario di Ascona, Basel, Birkhàuser 1994, pp. 161-181, a p. 175. 55 Cfr. Limentani, L ’eccezione, p. 3 nota 1: «si sono conservate duemilasettecento composizioni; duecentocinquanta sono anonime, le altre appartengono a quattrocento poeti, la metà dei quali è nota da una sola com posizione»; e C. Di Girolam o, La fondazione trobadorica, in F. Brioschi e C. D i Girolamo (a cura di), M anuale d i letteratura italiana. Storia per G eneri e Problemi, 1. D alle origini alla fin e del Quattrocento, T ori­ no, Bollati Boringhieri 1993, pp. 291-296, a p. 293.

storia letteraria, ci dice che nulla è più lontano dalla men­ talità di questi lettori quattrocenteschi di quella visione ‘oggettiva’ che dissolve la voce dei singoli poeti nel G ene­ re. Il caso è sì speciale, e in più è tardo, ma è coerente con uuanto, sia pure con meno rigore, veniva fatto nelle gran­ di raccolte antiche com e L , dove i testi adespoti sono rari, c se anche non occupano una sezione a sé non si mescola­ no alle compatte sequenze guittoniane che formano buo­ na parte del codice; com e Ch, che assegna ai testi anonimi quasi soltanto i suoi fascicoli finali; com e V, che mostra con tutta la chiarezza desiderabile quanto poco un copista per passione del tardo Duecento ritenesse secondaria la soggettività dei poeti e la paternità dei testi: i fascicoli del codice si aprono infatti su autori rappresentativi di una determinata area geografica, e i molti testi anonimi vengo­ no adoperati per lo più come zeppe e relegati in coda. Certamente, la situazione è più com plessa e varia e - a conferma del fatto che in questo cam po non vi sono leggi ma al massimo tendenze generali - la caduta della rubrica può essere dovuta a cause diverse. Può senz’altro accade­ re che la seriazione dei testi per generi, non per autori, fa­ vorisca la conservazione e la trasmissione degli adespoti, che cioè essi qui vengano tollerati in quanto quella che si vuole documentare è una forma, non una serie di maniere individuali. O ppure può accadere che in un micro-canzo­ niere, in una serie intestata ad un unico poeta, la rubrica attributiva non venga ripetuta davanti ad ogni singolo te­ sto ma compaia solo al principio: caduta questa, l’intera serie rimane adespota, quindi più soggetta allo smembra­ mento e alla dispersione56. E allo stesso m odo vi sono senz’altro, nei canzonieri miscellanei, strategie diverse che corrisponderanno a difformità nella fattura e nel contenu­ to: vale a dire che la presenza di componimenti adespoti sarà più facilmente ammessa in manoscritti messi assieme 56 Sequenze di rime adespote che altre fonti ci dicono appartenere a un unico autore sono per esempio quella di Giovanni Quirini nel Marciano lat. XTV 223 ( = 4340) e quella di M arco Piacentini nel Berto* liano 114.

da amatori, per il loro uso privato, meno facilmente in manoscritti di pregio, magari compilati su com missione57; e che occorre distinguere tra miscellanee a carattere pre­ valentemente lirico, dove Padespotia rappresenta l’ecce­ zione, e miscellanee a Carattere morale-religioso: dove, posto che i testi hanno un valore d ’uso molto più pronun­ ciato, l’attribuzione ha un’importanza secondaria, ed è quindi preteribile. Di queste e di altre variabili bisogna dunque tenere conto nel giudizio sul problema dell’anonimato dei testi medievali. E se la consapevolezza che non una ma molte­ plici possono essere le cause deve, per un verso, farci dif­ fidare di ogni spiegazione unilaterale, per l’altro deve in­ durci - piuttosto che a non controllabili congetture di or­ dine estetico (oggettività della ricezione dei testi nel M e­ dioevo romanzo, eclissi dell’individualità del poeta) - alla verifica delle motivazioni m ateriali e contingenti che pos­ sono aver giocato a favore di questo fenomeno: la trafila delle copie, coi guasti che essa naturalmente comporta proprio a livello attributivo per il mutare da codice a co­ dice dei criteri di ordinamento e di rubricatura dei testi; ma anche, come ha documentato la Meneghetti per il ver­ sante trobadorico, l’arbitrio di copisti che ‘migliorano’ il loro antigrafo contaminando o congetturando, ossia acco­ gliendo da altre fonti indicazioni cfi paternità oppure im­ provvisandone di nuove in base a considerazioni di plau­ sibilità metrica, stilistica o tem atica58.

57 Com e per esempio il ms. 332 della Biblioteca del Colegio de San­ ta Cruz di Valladolid, antologia d ’età umanistica che reca solo testi at­ tribuiti, o il Casanatense d.v.5 ( = 433). 58 Osservazioni analoghe in relazione alla letteratura mediolatina, con una giusta insistenza sulle ragioni materiali e non estetiche che spiegano l’anonimato, si trovano in L. Holtz, Autore, copista, anonimo, in Lo spazio letterario del M edioevo, 1. I l M edioevo latino, I. La produ­ zione del testo, tomo I, Roma, Salerno Editrice 1992, pp. 325-351, alle pp. 345-348.

4. I . Attribuzioni divergenti Se questo è quanto va osservato circa la questione dell’adespotia, in termini non molto diversi dev’essere posta quella del conflitto tra attribuzioni divergenti, caso anche questo assai ricorrente nei manoscritti di rime e di cui - così come del caso gemello e opposto dell’adespotia andranno cercate volta a volta le motivazioni materiali e filologiche, senza pensare a speciali, cioè ‘tipicamente medievali’, ragioni estetiche. Nella introduzione alle Rime di Dante Contini accenna alla tradizione delle rime dello stilnuovo e al significato della ‘scuola’ stilnovista: Nella pratica del fatto poetico, la tendenziale indifferenziazione dei rimatori, il loro disinteresse o rifiuto a sottolineare la distin­ zione delle individualità, sono fatti un po’ ostici alla compren­ sione della mentalità occidentale dopo l’esaltazione soggettivisti­ ca recata dal grande romanticismo europeo [...]. L ’intercambia­ bilità frequente delle attribuzioni nei manoscritti, il fatto che en­ tro certi confini, in mancanza di sicure attestazioni documenta­ rie, i dati stilistici non sarebbero sufficienti a una ‘perizia’ di­ stintiva circa alcune coppie d’autori, sono il pallido riflesso esterno d’un’intercambiabilità, prima ancora, teorica. Lo spar­ tiacque fra Dante e Cino, per citare un caso tipico [...], è tutt’altro che sicuro. Incertezza giuridica - è addirittura truistico sot­ tolinearlo - che vale quanto inessenzialità della proprietà e del­ l’individuo 59. Chi vede la poesia medievale come una distesa di testi che non hanno, e non debbono avere nel ripensamento criti­ co, alcuna relazione significativa con l’io empirico che li ha prodotti, potrebbe trovare in questa pagina una con­ ferma al suo pregiudizio. A queste considerazioni di Con­ tini è tuttavia possibile muovere due obiezioni, l’una sul )iano storico e l’altra sul piano teorico. Sul piano storico, o stilnuovo sembra precisamente il ‘gruppo’ o l’epoca che peggio si presta all’ipotesi di una «/«-distinzione delle individualità»: perché come vedremo meglio nel capitolo

f

59 Contini, Introduzione a Dante, Rim e, p. 256.

dedicato alla lirica è proprio grazie a questi autori che la realtà - cioè la biografia dei poeti, i dettagli concreti re­ lativi alle vicende amorose, le circostanze dell’amicizia - fa il suo ingresso nella lirica romanza. Sul piano teori­ co e filologico, non è affatto detto che «incertezza giuri­ dica» valga quanto «inessenzialità della proprietà e del­ l’individuo». Qui di nuovo un dato di fatto d ’ordine ma­ teriale (la disparità delle attribuzioni nei manoscritti) è connesso a una motivazione d ’ordine ideale (l’indiffe­ renza dei lettori e degli stessi poeti alla proprietà lettera­ ria). Ma la connessione è arbitraria. Perché se è vero che, per le già ricordate strettezze della langue letteraria, testi medievali - e, nella fattispecie, testi stilnovisti - ru­ bricati sotto determinati nomi potrebbero essere rubrica­ ti sotto nomi diversi senza che l’errore appaia evidente all’esame stilistico (e in questa situazione ci troviamo, di fatto, quando discutiamo di componimenti pluriattribuiti), non altrettanto vero è che queste sostituzioni acci­ dentali postulino una «intercambiabilità teorica» alla fonte (cioè per i poeti) o alla foce (cioè per il pubblico). L a metafora dell’amicizia come «elemento patetico defi­ nitorio di stil nuovo» ha forzato la mano facendo diven­ tare la ‘scuola’ prima una sorta di club gentilizio («un ’a­ micizia che ricorda, in questi signori decaduti e borghesi dell’alta cultura, la parità e la solidarietà dei cavalieri oitanici»), poi un laboratorio in cui si confondono, perché irrilevanti, le proprietà e le opere individuali. Ma i testi - primo fra tutti il sonetto citato in precedenza in cui Cino si difende dall’accusa di plagio - ci fanno intravedere un’armonia meno perfetta.

4.4. ‘Mouvance’ E da ultimo, per chiudere il discorso sul tema della authorship , considerazioni analoghe andranno anche fatte a proposito di quella che Zumthor ha definito mouvance della poesia medievale, cioè lo stato sempre fluido e insta­ bile di opere che, licenziate dai loro autori, vanno poi sog-

nette a manipolazioni, sottrazioni o aggiunte da parte di coloro che le copiano e ne fruiscono: Si tratta [...] di quella mouvance dell’opera poetica medievale, che è indiscutibile nelle canzoni di gesta [...], ma la cui nozione vu, a mio parere, estesa alla maggior parte delle forme ‘lettera­ rie’ fino al Xin, se non anche al XIV secolo. Da questa regola dovremmo forse escludere il romanzo, ma la tradizione delle canzoni di ogni tipo sembra proprio mostrare, per la natura del­ le varianti che chiamerei di composizione (relative al numero c all’ordine delle strofe, a frammenti di enunciato tematicamen­ te significativi ecc.), che la nostra concezione moderna di un’o­ pera compiuta nel momento stesso in cui si termina è difficil­ mente applicabile alla realtà medievale60. Non è in discussione la tendenza che i testi medievali hanno a mutare nel corso della tradizione manoscritta; e va certamente ammesso che in molti casi tali alterazioni non sono accidentali, frutto di una svista da parte di chi li copia, bensì volontarie: una maggiore ‘apertura’ dei testi medievali a paragone di quelli moderni è innegabile. Ma occorre distinguere e specificare. Distinguere tra i generi poetici, sottolineando che la lirica oppone una certa resi­ stenza alla manipolazione: manipolazione «com presa - ha scritto appunto Contini - tra un massimo, per le opere epico-narrative, e un minimo, per i componimenti di ca­ rattere lirico »61; e specificare le cause del fenomeno. Nella teoria di Zumthor la mouvance rinvia a - e si iega alla luce di - leggi estetiche completamente diverse i quelle che governano la letteratura moderna: sarebbe questo il naturale destino di una lirica impersonale, ogget­ tiva, nella quale l’io entra soltanto come «espressione gram m aticale»62, all’indifferenza per la paternità e per gli

S

60 P. Zumthor, L a chanson de «B ele A iglentine», che cito da Formisano, L a lirica, pp. 191-208, a p. 201. 61 G . Contini, recensione a G . Pasquali, Storia della tradizione e cri­ tica del testo, in AR, X IX 2 (1935), pp. 330-340, a p. 336, ristampata in «Filologia e critica», X V 2-3 (1990), pp. 347-362. 62 Zumthor, Langue, texte, p. 171.

eventuali plagi sommandosi l’indifferenza per l’integrità dei testi. Ora, tale integrità è oggi generalmente rispettata, e ciò è segno, certamente, di un diverso atteggiamento - più rispettoso e ‘filologico’ - nei confronti delle opere letterarie e degli autori. Ma vanno di nuovo sottolineate le condizioni materiali che presiedono a questa trasforma­ zione ideale. Essa è infatti piuttosto un effetto che una causa. Le manipolazioni si spiegano in un contesto nel quale la trasmissione della letteratura avviene per via di copie manoscritte, e in cui gli scribi padroneggiano la lin­ gua dei testi che hanno sotto gli occhi e sono talvolta essi stessi rimatori a tempo perso, e nessun’aura, data dal tem­ po (come nel caso dei testi classici) o dal contenuto (come nel caso dei testi sacri), protegge le opere. È questo modo di comunicazione e di conservazione della poesia a far sì che essa ‘viva’, anche, in maniera diversa da quella che noi oggi consideriamo normale. E dunque per limitare drasticamente tanto il numero degli anonimi quanto quel­ lo delle attribuzioni controverse, quanto la proliferazione delle varianti ci vorrà, prima che un mutamento di ordine estetico, una rivoluzione nei modi della trasmissione e del consumo dei testi: l’invenzione della stampa.

5. Dialogicità, impegno, realismo 5.1. L ’orientamento su l lettore Versi a un destinatario è un titolo di Fortini; precisamente, il titolo della terza sezione della raccolta Questo muro. Esso è qui pertinente per due ragioni. In primo luogo, quelli di cui tratteremo in questo libro saranno in effetti soprattutto, anche se non solo, testi poetici che si indirizzano a lettori individuati e storici, e insomma a un i u o a u n voi realmente esistiti prima ancora che a quel destinatario di secondo grado che è la comunità dei lettori virtuali: e tale è anche il carattere delle poesie fortiniane riunite in quella sezione. Va però aggiunto che questo orientamento sul lettore ‘primario’ ha, nella poesia del

Medioevo, un significato e un rilievo del tutto particolari. Qui si osserva infatti: 1) che una percentuale sorpren­ dentemente alta di testi si rivolge - secondo modalità vol­ ta a volta differenti, in maniera ora più ora meno diretta - a destinatari in carne ed ossa, ed è stata scritta insomma perché qualcuno di molto prossimo all’autore la leggesse; 2) che un’altra considerevole porzione di testi stabilisce un dialogo non più frontale e tuttavia aperto, esplicito, con le parole o con le idee di altri autori, ciò che può av­ venire per esempio integrando le parole altrui nel proprio componimento, o approvando o respingendo le tesi del collega, o attraverso allusioni non troppo velate a ciò che questi ha affermato in una propria opera (non troppo ve­ late, sottolineo, perché come si è appena detto bisogna re­ sistere alla tentazione di far dialogare tra loro testi che presentano semplici somiglianze formali); 3) che è diffu­ sissima la tendenza a portare il dialogo dentro il monologo attraverso le figure della prosopopea e della serm ocinatio , a moltiplicare le voci, gli interlocutori all’interno dei testi medesimi, trasformando così componimenti per loro na­ tura monologici (come di solito è la lirica amorosa) in col­ loqui fittizi con oggetti o entità astratte personificate: la donna amata, l’Amore, le parti del corpo, eccetera; 4) che infine, passando da una considerazione quantitativa ad una qualitativa, sono componimenti in senso lato dialogici molti di quelli che a ragione vengono considerati come i testi-chiave della poesia medievale (e a questi mi riferivo in precedenza parlando di quelle poche poesie medievali tanto note da poter essere oggetto di allusione): per esem­ pio O ra parrà di Guittone, diretto contro i rimatori corte­ si, la canzone di Dante Donne ch'avete , dedicata alle don­ ne innamorate, Donna me prega di Cavalcanti, il primo e l’ultimo testo del Canzoniere di Petrarca, oltre ovvia­ mente alle tenzoni tra G iacom o da Lentini e l’Abate di Tivoli e tra Bonagiunta e Guinizzelli. Non distingueremo per ora tra i diversi significati di questa varia ‘dialogicità’. È chiaro che se nei primi due casi il dialogo presuppone una fuoriuscita reale dal cer­ chio chiuso del testo, cioè l ’incontro con un altro autore

o con le sue parole e idee, nel terzo il dialogo è una fin­ zione retorica che conferma quella chiusura: niente di più artificioso di un colloquio con un interlocutore che non esiste. Ma per ora sarà sufficiente dire che al di là delle differenze specifiche che separano queste famiglie di testi dialogici per struttura, essi sono accomunati da un analo­ go atteggiamento nei confronti della poesia, atteggiamen­ to che possiamo chiamare con molti nomi: perorativo, ostensivo, orientato alla discussione e al ragionamento non alla confessione, e insomma - più genericamente ma anche più esattamente - non-lirico. L a poesia del M edioevo può certamente essere de­ scritta secondo punti di vista molto diversi. È però proba­ bile che lo studio e la valorizzazione di questo suo aspetto - la dimensione dialogica nelle sue molteplici forme - permettano di comprendere meglio di ogni altro possi­ bile approccio ciò che in essa è più essenziale e tipico a paragone di quella dei secoli successivi. Ciò premesso, si spiega che a risultare secondario nella nostra ricerca sia proprio quel settore che il giudizio comune stima come l’unico degno di essere preso in considerazione dal lettore moderno: il lirismo personale dei poeti cortesi, degli stil­ novisti, di Petrarca. È comprensibile che nei manuali e nei saggi che coprono l’intero corso della letteratura ita­ liana questa tradizione lirica monologica venga privilegia­ ta: da un lato è ad essa, non all’altra su cui soprattutto ci concentreremo qui, che fa capo la maggiore tradizione poetica moderna; dall’altro, il fatto che opere come la Vi­ ta nova, il Canzoniere, le ballate cavalcantiane vengano lette ancor oggi con partecipazione e amore da un pubbli­ co più ampio di quello degli studiosi è il segno di una continuità e di un’omogeneità di ordine estetico: la defini­ zione della lirica come «breve testo in versi che dichiara o enuncia alcunché di soggettivo»63, definizione concepita per la lirica post-romantica, è possibile applicarla anche a quei testi, lontani nel tempo ma ancora accessibili e vita-

63 Fortini, Verso il valico, p. 171.

li per il lettore moderno. E tuttavia, in una generale ricon­ siderazione della poesia medievale iuxta propria principia gli sviluppi futuri, l ’evoluzione dell’arte al di là dell’età scelta come campo della nostra indagine, i nessi tra l’este­ tica attuale e quella antica - tutto questo deve restare sul­ lo sfondo e non turbare il giudizio. Il principio del dialo­ go, un dialogo svolto soprattutto (ma non solo) nella poe­ sia non-lirica (con una doppia discontinuità rispetto alla poesia moderna, che è lirica e monologica), ci offrirà un punto d ’osservazione più obbiettivo e rispettoso della ve­ rità storica, e ci permetterà di formarci un’idea più preci­ sa su ciò che realmente fu la poesia italiana nel Medioevo.

5.2. D idassi Un principio d ’analisi di tipo retorico rischia però, da solo, di rivelarsi insufficiente. L ’esistenza di un lettore ‘primario’ cui l’autore si rivolge direttamente può essere, nell’interpretazione della poesia medievale, importante tanto quanto l’argomento di cui si parla: ciò non significa, tuttavia, che il contenuto dei testi debba rimanere ai mar­ gini del discorso. M a non sarà necessario, per questo, addentrarsi nell’analisi dei temi e dei messaggi veicolati dai testi: dei temi e dei messaggi ci serviremo soltanto come di spie utili a determinare quale fosse, nella con­ cezione degli autori e dei lettori medievali, la funzione della poesia. Troviamo qui una seconda più vera ragione che spiega il titolo di questo libro e l’allusione a Fortini. C ’è un’età della letteratura italiana in cui alla poesia vengono affidati messaggi i quali mirano ad un fine pratico: convincere, convertire, ammaestrare il lettore. C ’è, più precisamente, un’età della letteratura italiana in cui una tradizione così caratterizzata convive con il genere - la lirica d’amore - che di lì a non molto conquisterà una quasi totale egemo­ nia dal punto di vista del prestigio se non subito dal punto di vista quantitativo. Sin dalla metà del X III secolo, alcuni poeti scrivono versi con il proposito non di commuovere

0 di divertire ma di orientare le opinioni dei loro lettori; la loro ispirazione e la loro opera si possono definire in tal senso didattiche. Il più importante tra questi poeti, e il primo che metta a punto un vero e proprio progetto lette­ rario centrato su questo concetto della poesia come stru­ mento di comunicazione finalizzato alla prassi, è Guittone d ’Arezzo. Circa a metà degli anni sessanta, Guittone entra nella confraternita dei Cavalieri di Santa Maria e si con­ verte a nuova vita: abiura alle sue poesie d ’amore giovanili - ma né le distrugge né, come altri poeti convertiti aveva­ no fatto, cessa di comporre versi - e comincia a scrivere testi di taglio parenetico: ce ne restano più di centotrenta tra sonetti e canzoni. Poiché l’ispirazione di questa poesia è cristiana, essa può essere considerata come uno dei mol­ ti esempi di poesia religiosa tardo-duecentesca, accanto alle laudi o all’opera didattica di Bindo Bonichi o di Bonvesin da la Riva o dell’Anonimo Genovese (ma in quegli stessi anni anche accanto, per esempio, alle Cantigas de Santa M aria e alle poesie religiose di Guiraut Riquier); mai, però, come in Guittone, la perorazione per una retta vita assume toni così impegnati e, soprattutto, così perso­ nali, tanto da formare non una semplice raccolta di com ­ ponimenti pii ma un quasi organico canone di meditazio­ ni spirituali, un libro di moralità. Su questo fronte Guittone non avrà eredi. È vero che 1 macrotesti, le sequenze ordinate di canzoni o sonetti, avranno di qui in poi prevalentemente un contenuto eti­ co-religioso, non erotico: basti pensare alle corone sui vizi e le virtù di Fazio degli Uberti o a quelle del Cavalca o di Simone Prodenzani, e alle tante altre anonime che s ’in­ contrano nei manoscritti. Ciò però non significa che il canzoniere cristiano di Guittone abbia fatto scuola ma so ­ lo che alla didassi occorrono spesso spazi più ampi di quelli della canzone o del sonetto: da questa esigenza co­ mune dettata dal contenuto, non dalla suggestione di un modello, dipende il successo dei ‘macrotesti’ poetici. Guittone non avrà dunque veri e propri eredi, ma saran­ no numerosi, nel M edioevo, gli autori che mostreranno di avere un concetto della poesia molto simile al suo. I loro

lesti non sempre si rivolgono direttamente a un interloculore, ma dato che affrontano temi di pubblico interesse come la morale, la politica, la religione, è chiaro che l’in­ tenzione comunicativa e didattica precede e quasi annul­ la, in essi, quella artistica. Questa poesia nasce per risolve­ re problemi reali e contingenti e vuole agire innanzitutto sulle opinioni e sui costumi di lettori che vivono a stretto contatto con colui che scrive. Non bisogna dimenticare, per esempio, che i testi didattici dei poeti sopracitati, Bonvesin e l’Anonimo Genovese, ma ancne quelli di Iacopone e dei laudisti più tardi, come il Bianco da Siena, so ­ no rivolti ad un pubblico ristretto ed omogeneo che l’au­ tore, per così dire, vede davanti a sé: non l’anonimo (e inesistente, almeno nel senso moderno dell’espressione) pubblico dell’arte ma i confratelli dell’ordine. Benché la dedica non sia nel testo ma, talvolta, nelle rubriche che l’introducono o, implicitamente, nei manoscritti confezio­ nati ad uso della confraternita, sono anche questi versi a un destinatario. Nelle pagine finali di questo saggio verrà proposto al lettore un confronto tra questo filone della poesia medie­ vale e quella parte - una parte rilevante benché minorita­ ria - della poesia post-romantica che ha avuto come sco­ po, per usare le parole di Lautréamont, la verità pratica, cioè una concreta applicazione nella sfera dell’etica o del­ la politica. S ’intende che questo impegno non è diverso soltanto nella sostanza ma anche nel modo. D a un lato, non è una fede ma un’ideologia quella che ispira i poeti contemporanei ‘impegnati’. D all’altro, se si prescinde da quell’arte di tendenza che è la poesia partitica o l’inno, costoro non rinunciano ai valori dello stile, non abbassa­ no la poesia a sermone: la loro didassi è mediata, ed è questo uno degli elementi che più vistosamente distin­ gue i moderni - questo filone della poesia moderna - dai medievali, la cui didassi è sempre frontale. Nonostante queste ed altri importanti differenze, è probabile che la coscienza di questa tradizione militante a noi più prossima possa aiutarci a comprendere meglio le ragioni di quell’altra, lontana e diversa poesia militante.

Credo infatti non solo che la poesia medievale possa esse­ re descritta come un sistema unitario all’interno del quale, pur nella diversità delle maniere, sono individuabili inte­ ressi ed atteggiamenti comuni; ma anche che nessuna me­ tafisica ‘alterità’ separi la poesia medievale da quella m o­ derna: che quindi una descrizione - ripeto - unitaria ed autonoma della prima non possa stare senza un confronto con la seconda, con ciò che la poesia fu dopo il Medioevo e con ciò che essa è oggi.

5.3. Una diversa attualizzazione Si potrebbe obiettare che quello che qui si propone è un tentativo di attualizzazione non meno arbitrario di quello da cui ho preso le distanze in precedenza perché fondato su una troppo disinvolta ‘fusione d ’orizzonti’. Il difetto di quelle attualizzazioni stava nell’applicazione anacronistica di categorie estetiche elaborate per lo studio dei moderni a opere o tradizioni che appartengono ad un’altra età della letteratura. Nel nostro caso, tuttavia, il confronto - non l’attualizzazione - non mira a far emer­ gere corrispondenze né formali né tantomeno tematiche tra testi così distanti, né intende portare nuovi argomenti alla tesi circa la ‘modernità della letteratura medievale’. L a modernità dei versi a un destinatario di cui in questo libro soprattutto ci occuperemo non sta né in ciò che essi dicono (dal momento che i loro contenuti - la loro parenesi di matrice cristiana, il loro impegno civile - sono troppo contingenti per poter interessare i lettori di oggi) né nel modo in cui lo dicono (posto che non di uno stile si tratterà ma di molti, e spesso di semplice indifferenza allo stile), bensì nella concezione della poesia a cui essi m o­ strano di aderire. Se ammettiamo, riducendo ad un’opposizione a due termini quelle che sono ovviamente opzioni molto più sfumate, che la poesia possa essere da un lato discorso, sviluppo di un’idea, impegno volto a modificare la vita e le opinioni del lettore, dall’altro meditazione soggettiva,

diario sentimentale indifferente alla realtà esterna, non c’è dubbio che a prevalere nella tradizione letteraria europea, e in quella italiana più che mai, è stato il secondo ideale di poesia, non il primo. Certamente vi fu una redistribuzione dei compiti tra prosa e poesia, nel senso che a quest’ultima progressivamente vennero tolti quei contenuti ragio­ nativi che richiedevano, per un’espressione davvero libe­ ra, la maggiore duttilità della prosa. £ senz’altro agì come sprone alla selezione tematica la forza d ’attrazione di un modello come Petrarca, soprattutto perché tale modello ebbe successo e trovò seguito in quei ristretti circoli di di­ lettanti - piccoli gruppi intellettuali, corti signorili - che >er secoli nanno rappresentato l’unico vero pubblico dela poesia: sicché la natura ‘privata’ della lirica sarebbe il degno specchio di una società di rentiers priva di passione etica e civile. M a piuttosto che discutere delle cause, interessa qui ribadire che tale predominio non è un carattere originario della nostra tradizione poetica bensì il risultato di un con­ flitto e di una selezione. I poeti in largo senso morali dei primi secoli e un genere cu lunghissima fortuna come la tenzone testimoniano di un concetto della poesia ben di­ verso da quello che in avvenire ispirerà la gran parte dei lirici italiani. E da questi, dalla poesia come luogo del cuore e dell’introspezione ma anche del distacco dal mon­ do, prenderanno a loro volta le distanze alcuni dei mag­ giori fra i moderni. Ora, non bisognerà pensare, natural­ mente, né a un ritorno mediato e riflesso di quell’ideale ‘militante’ (quali furono per esempio il recupero della poesia barocca prom osso dagli ermetici, o il cavalcantismo e il dantismo di Pound e a Eliot) né a un incontro tra gli antichi e i moderni favorito dalle leggi universali del linguaggio (simile a quello che farebbe meglio intendere la poesia formale del M edioevo alla luce della lirica di Mallarmé e Valéry)M. Non si tratta di rivendicare la m o­ dernità di autori, generi e testi ormai irrevocabilmente

f

M Cfr. Jau ss, A lterità e m odernità, pp. 306-323.

lontani dal nostro gusto ma di valorizzare un’identità di funzione: importa vedere che la poesia fu nel Medioevo e poté essere di nuovo, in tempi a noi più vicini, nell’oriz­ zonte d ’esperienza che è il nostro, uno strumento di giu­ dizio sulla realtà. E dal momento che il confronto tra p as­ sato e presente muoverà da questa premessa, il nostro punto eli vista sarà esattamente antitetico a quello di colo­ ro che nell’ideale di un’arte autonoma e nel puro gioco della variazione formale e sonora hanno trovato il comune denominatore che lega insieme la lirica cortese e una par­ te (una parte, stavolta, maggioritaria) della poesia contem­ poranea. Spesso infatti, nel corso di questo libro, ci occu­ peremo di una letteratura eteronoma, oggettiva, comuni­ cativa e, in un senso amplissimo, realistica. S ’intende che queste determinazioni coprono i settori della morale, della politica, della religione; ma dato che questi ultimi formano insieme soltanto uno dei tre grandi filoni poetici che con diversa fortuna attraversano il M e­ dioevo (il filone che qui chiameremo della poesia oggetti­ va), per completare il quadro sarà necessario estendere la ricerca sul rapporto tra poesia e realtà tanto al genere umile della letteratura medievale, cioè al filone burlesco o comico-realistico, quanto al genere sublime della lirica amorosa. Nel primo caso ci domanderemo quale parte ab­ bia nell’opera dei comico-realistici la concreta esperienza della realtà e quale parte abbia invece la polemica lettera­ ria (anti-lirica e anti-aulica); nel secondo, si tratterà di ve­ dere in che m odo le categorie di vero e di falso possano applicarsi alla ‘poesia formale’ dei lirici amorosi del M e­ dioevo. In entrambi i casi, in linea con il programma che si è delineato sin qui, l’indagine sui temi sarà al servizio dell’indagine sulla retorica della poesia, con particolare ri­ guardo per la funzione-destinatario; in entrambi i casi, cioè, quello che ci sforzeremo di appurare non è tanto che cosa dicono i testi quanto piuttosto come, e soprattutto a chi lo dicono.

I l m odo dialogico

1. Due testi del Duecento F o n te di sa p ie n z a n o m in ato, frate G u itto n e , sie te al m io p arere: o ra d i d irm i d eg g iav i p ia ce re se d al B en p u r o M a le è d iriv ato , 5 o se M al c o m e B en e e b b e su o stato , c o m ’o m sen n a to - d ee tu tta stag io n e se g u ir ragio n e - n o n v an a o p p in io n e ch e d a ragion si p arte. N e d io p e r a lc u n ’arte - v e d e r p o sso , 10 se D io se m p re etern ale e b b e valo re, ricco re, - a i sa v e r tu tt’a b o n d an z a, e p e r certan za d a n u lla m alen an za - co n ta stato , e Pán gel b o n c re a to - fu d a lui, 15 c o m e p o i d i tan ta b o n ita te sia p riv ato.

È la prima stanza di una canzone com posta nella seconda metà del Duecento da un M atteo forse - così come il de­ stinatario Guittone - nativo di Arezzo *. L ’autore, che nel­ la rubrica del manoscritto che tramanda il testo è chiama­ to «M atteo paterino», cioè Matteo l’eretico, compendia in poco più di ottanta versi la dottrina catara, mostrando di aver presente - tante e tanto estese sono le corrispon­ denze - il trattato di metafisica noto come Liber de duobus principiiSy prodotto nell’ambito della setta di Desenzano verso la metà del X III secolo: o, se non veramente 1 II testo è edito e commentato in C. Giunta, Letteratura ed eresia nel Duecento italiano: il caso d i M atteo Paterino , in «N uova rivista di letteratura italiana», III 1 (2000), pp. 9-97.

il Liber , un suo derivato o estratto. Terminata lesposizione, Matteo si rivolge a Guittone - a chi cioè, come mem­ bro dei Cavalieri di Santa Maria, aveva autorità e modo di perseguire gli eretici - perché esprima il proprio punto di vista e, al bisogno, corregga: S a g g io p re g ia to a cui m ia can zo n m a n d o p e r c o rtesia d im a n d o - resp on sion e e la d isc re ta v o stra in ten zion e, non d isp u ta n d o - m a m e am e n d a n d o se cci à d i fallo re sì ch e v o stro v a lo re e v o strio n o re - n o n n e sia b a ssa to .

E cco invece la prima stanza di una canzone di G uido C a­ valcanti tram andata, tra gli altri, anche dal manoscritto che trasmette Fonte d i sapienza (cc. 27v-28r)2: Io n o n p e n sa v a ch e lo c o r g iam m ai av esse d i so sp iri to rm e n to tan to, ch e d e ll’an im a m ia n a sc e sse p ia n to m o stra n d o p e r lo v iso agli o c c h i m orte. N o n sen tìo p a c e né rip o so alq u a n to o sc ia c h ’A m o re e m a d o n n a trovai, ) q u al m i d isse: « T u n o n c am p era i, ch é tr o p p o è lo v a lo r d i c o ste i fo rte ». L a m ia v irtù si p a rtìo sc o n so la ta p o i ch e la ssò lo c o re a la b a tta g lia o v e m a d o n n a è stata: la q u al d egli o c c h i su o i v en n e a ferire in tal g u isa , c h ’A m o re ru p p e tu tti m iei sp iriti a fu ggire.

E

Io non pensava è stata scritta nell’ultimo quarto del X III secolo, soltanto pochi anni dopo Fonte d i sapienza. Sono entrambe canzoni, entrambe com poste da autori toscani e, com e ho detto, hanno potuto essere trascritte sulle p a­ gine dello stesso manoscritto: ma difficilmente si potreb­ bero immaginare componimenti più diversi. Tale diversità 2 G to da Cavalcanti, Rim e, pp. 31-35.

la possiam o misurare attraverso quattro parametri: il m e­ tro, lo stile, il tema, la forma retorica.

1.1. M etro Lo schema metrico di Io non pensava è un’ordinata al­ ternanza di endecasillabi e settenari. M ancano misure m e­ no consuete, come il quinario, o decisamente anomale, co­ me il quaternario, entrambe presenti in Fonte d i sapienza ; non vi sono rime interne; le stanze hanno tutte esattamen­ te la stessa struttura, cioè lo stesso numero di versi, dello stesso tipo, nella stessa successione, mentre è legittimo il sospetto che in Fonte d i sapienza fosse ammessa sin d ap ­ principio - prima cioè dell’intervento dei copisti, che com ­ plicò ulteriormente le cose - l’eterostrofia. Quanto insom­ ma lo schema di Io non pensava è trasparente e razionale, tanto quello di Fonte d i sapienza è astruso e difficile da ri­ durre a norma. Ora, M atteo Paterino è con ogni probabili­ tà un poeta dilettante: le fonti manoscritte non tramanda­ no alcun altro suo testo. Più che di eccentricità e di speri­ mentalismo potrebbe trattarsi allora, semplicemente, di scarsa padronanza della tecnica metrica. Al di là delle pos­ sibili insufficienze individuali, tuttavia, ciò che va osserva­ to è che M atteo appartiene a un’epoca nella quale in que­ sto settore non si era ancora pervenuti a una compiuta for­ malizzazione; egli gode perciò di una libertà - libertà da norme che dicano ciò che è legittimo fare e ciò che non lo è, riducendo la gamma delle opzioni possibili - che i suoi successori non conosceranno. In questa età di particolari­ smo metrico , tale libertà si può manifestare in due modi. In primo luogo, il poeta può trattare in maniera ai no­ stri occhi eccentrica un genere ‘classico’ com e può essere appunto la canzone, adottando soluzioni metriche e pro­ sodiche inconsuete e che, nella storia successiva del gene­ re, tenderanno a scomparire: Si pensi alle canzoni a stanze asimmetriche di Chiaro Da­ vanzali o ai sonetti con fronte di dieci versi di Monte Andrea.

P u ò d e l resto ac c ad e re , sp e c ie a p p u n to agli inizi d e lla n o stra trad izio n e, ch e u n o sc h em a sia irre g o lare so lta n to in ra p p o rto alle c o n su etu d in i m etrich e italian e p e rc h é la n o rm a è c e rc ata al­ tro v e, p e r e se m p io nella trad izio n e tro b a d o ric a . S i co n sid e rin o le c an zo n i G rev e p u o t'o n e D e l m eo v o ler d ir V om bra d i Inghilfred i. N e ll’im a e n ell’a ltra il c o n g e d o ricalca la sirm a d e ll’u ltim a stan za n o n so lo , c o m ’è n o rm ale, n el m o d u lo (sch e m a e m isu ra d ei v ersi), m a an ch e n elle rim e, nel se n so ch e nella sirm a d ella q u in ta stan za e nel c o n g e d o le u sc ite d ei v ersi so n o id en tich e. Q u e s to ra d d o p p io d ella sirm a d e ll’u ltim a stan za rico rre con fre ­ q u e n z a n ella p o e sia in lin g u a d 'o c, e d è in vece e stre m am e n te ra ­ ro in Italia. In q u e sto c aso , d u n q u e , l ’e cce n tricità altro non è ch e il riflesso d i u n a relazion e d iretta, n o n m e d iata, con la m e ­ trica tro b a d o ric a : relazio n e ch e, tra tta n d o si d i u n rim ato re c o m e In gh ilfred i, v icin o an ch e p e r altri a sp e tti a q u e lla trad izio n e , non h a n u lla d i so r p r e n d e n te 3.

3 Circa Fuso dei trovatori, cfr. Chambers, An Introduction, p. 32; L. Biadene, L a form a metrica del commiato nella canzone italiana ae i secoli X III e X IV , in In memoria d i N. C aix e U. A. Cartello . M iscellanea d i filo ­ logia e linguisticay Firenze, L e Monnier 1886, pp. 357-372, a p. 361, ri­ porta soltanto tre esempi di commiati che riprendono lo schema e le ri­ me dell’ultima stanza: due sono le canzoni di Inghilfredi appena citate, la terza è la canzone Alegram ente, che il canzoniere V (166) attribuisce ad Arrigo di Castiglia. Q uesto dato da una parte consolida il rapporto tra Inghilfredi e Arrigo, già provato dalle forti corrispondenze verbali e metriche che sussistono tra le canzoni Dogliosam ente e con gran m alenanza (di Inghilfredi) e la suddetta Alegram ente e con grande baldanza (cfr. S. Aspetti, Carlo I d ’A ngiò e i trovatori. Com ponenti «provenzali» e angioine nella tradizione m anoscritta della lirica trobadorica , Ravenna, Longo 1995, pp. 188-189 nota 86); dall’altra, conferma che l’impiego di questa tecnica metrica estranea all’uso dei poeti italiani, e che non avrà fortuna nella nostra tradizione, è il segno di una conoscenza ravvicinata della tradizione trobadorica. Il che a sua volta è coerente col fatto che Inghilfredi si rivela essere, nella canz. D el meo voler, il primo imitatore italiano di Am aut Daniel, e con altri fatti di stile: Yincipit Greve puot’on piacere a tutta gente («Difficilmente si può andare a genio a tutti») rical­ ca, per esempio, un costrutto provenzale: cfr. per es. Yincipit di Cerveri de Girona, A greu pot hom conóixer en la m ar, in B dT 434, 1; e cfr., per altri debiti, G . Lachin, L a tradizione provenzale negli ultim i sicilian i Un commento a l canzoniere d i Inghilfredi, in MR, I 2 (1974), pp. 279303. Se si aggiunge infine che Arrigo fu protagonista e dedicatario di vari serventesi trobadorici sia prima sia durante la sua lunga prigionia seguita alla sconfitta di Tagliacozzo (1268), tanto maggiore appare la

In secondo luogo, la libera iniziativa in campo metrico può esprimersi attraverso la creazione di forme metriche nuove (benché spesso derivanti da forme preesistenti) le quali - anch'esse - non passeranno al vaglio dello stilnuovo e di Petrarca. Mentre la prima forma di particolarismo riflette di solito personali inclinazioni stilistiche (o anche, più banalmente, semplici carenze tecniche), questa secon­ da può invece amplificarsi in piccole famiglie di testi, mi­ crotradizioni destinate a non durare nel tempo, ed ha dunque dal punto di vista storiografico un interesse mag­ giore. L o sperimentalismo in questo settore riguarda so­ prattutto le forme non strofiche, e di qui possiam o ricava­ re un paio di esempi. a . N e lla p o e sia d el D u e c e n to è d iffu sa la co b la e sp arsa , cio è la stan za d i c an zo n e iso la ta a sc h em a m etric o lib ero . È , c o m e la b a lla ta , un g en ere con tin en tale, atte stato cio è a B o lo g n a 4 e in T o sc a n a (G o n e lla , L e m m o O rla n d i, D a n te , C av alca n ti), n o n tra i p o e ti fe d e ric ia n i5. D a lle co b las p ro v en zali, ch e a p p a rte n g o n o sp e sso al reg istro um ile e co llo q u iale o ch e v e n g o n o u sa te nelle c o rrisp o n d e n z e in versi, q u elle italian e si d istin g u o n o p e r u n a co sta n te in ton azio n e lirico -au lica: in altre p a ro le , l’e sten sio n e è p iù o m en o q u ella d el so n e tto m a le p re te se d i g ra n d e stile s o ­ n o q u e lle d el g en ere m etric o d a cu i la cob la è e stratta, la c a n z o ­ ne. C o m e h o d etto , stan z e iso la te sc risse ro C av alca n ti e D an te , m a lo stiln u o v o varrà u g u alm e n te c o m e u n a b a rrie ra : la cob la e sp arsa n o n è d el tu tto asse n te d al siste m a d e i g en eri tre ce n te sco (ne c o m p o n e alm en o u n a, p er e se m p io , F ra n c e sc o d i V an n ozz o ) 6, m a, riferen d o ci se m p re all’esten sio n e e al reg istro , il su o

probabilità - per questi autori e questa formula metrica - di un legame diretto con la poesia in lingua d'oc, o con gli ambienti nei quali questa circolava: cfr. M. de Riquer, I l significato politico del sirventese proven­ zale; in Concetto , storia, m iti e im m agini del M edio Evo , a cura di V. Branca, Firenze, Sansoni 1973, pp. 287-309. 4 Nei M em oriali, cfr. C LPIO , nn. lObis, 15, 33. 5 Cfr. Giunta, L a poesia italiana, pp. 71 e 174-175. 6 Cfr. Vannozzo, Le rim e , p. 219: il testo (C LX II) viene definito dall’editore «m adrigale»; la rettifica è venuta dallo stesso A. Medin, R i­ tornando sulle rime del Vannozzo, in «Studi medievali», nuova serie, 2 (1929), pp. 152-162, a p. 152.

p o sto se m b ra e sse re sta to p re so d a u n a fo rm a m e tricam e n te un p o ’ m e n o lib era, il m ad rigale. b. Il so n e tto c a u d a to con c o d a q u a d ristic a Y Z Y Z o con c o ­ d a tristica Z Y Z o X Y Z se m b ra e sse re a d o p e ra to nel D u e c e n to so lta n to aU’in te m o d el c o m p re n so rio p isa n o in cu i vivon o P a ­ n u c c io d al B a g n o e i m in o ri attestati d al m s. L (cfr. L 3 1 6 , 3 1 9 , 3 2 0 , 3 2 9 , 3 3 2 ). N e lla p o e sia p o st-d u e c e n te sc a il so n e tto c a u d a to av rà sì largh issim a d iffu sio n e , m a m isu ra e m o rfo lo g ia d e lla c o ­ d a n o n sara n n o m ai o q u a si m ai p iù q u elle citate, b e n sì se m p re o q u a si se m p re Z Z o y Z Z . D i q u i l ’in certezza d e g li stu d io si nel d efin ire testi c o m e q u elli p an u c c ia n i, non e sse n d o su b ito ch iaro se s i tratti d i coblas esparsas o a p p u n to , c o m e p a re p iù p r o b a b i­ le, d i so n etti cau d ati.

L ’influenza dello stilnuovo e di Petrarca sulla poesia dei secoli successivi si manifesterà anche attraverso una più rigida legislazione metrica. Certo, i poeti sapranno an­ cora inventare nuovi generi che conosceranno maggiore o minore fortuna; tuttavia, lo spazio per le invenzioni me­ triche individuali andrà a poco a poco restringendosi. D a questo punto di vista, l ’atteggiamento di coloro che - co­ me i burchielleschi o, per certi versi, i rimatori umbri del medio e tardo Trecento - si pongono in posizione di forte scarto rispetto alla tradizione toscana maggiore è sintoma­ tico. L o scarto non è mai metrico. N on vi è né un ritorno a quella preistoria che precede la normalizzazione, cioè alla metrica dei duecentisti, né trasgressione rispetto alle forme e agli schemi adoperati dai grandi lirici. Lo scarto riguarda invece proprio quella sfera che nel Duecento sembra meno soggetta all’iniziativa individuale: lo stile. Ciò è vero non soltanto nel caso-limite dei burchielleschi. Se, per aiutarci ancora con degli esempi, pensiamo all’o ­ pera di poeti di un’altra età come l’Ariosto o il Casa, ve­ diamo che la loro originalità non sta nell’aver mutato nel­ la loro struttura esterna le forme metriche tradizionali, l’ottava e il sonetto, bensì nell’aver usato quelle antiche forme come veicoli di un linguaggio e di un contenuto nuovi. L a regola della poesia tardo-medievale e moderna sino al romanticismo, quando il libero arbitrio degli autori co-

mincerà ad estendersi anche alla forma esterna dei testi, sembra essere questa: una sempre crescente libertà retori­ co-stilistica entro un sistema dei generi metrici conservati­ vo e sostanzialmente stabile o in lenta e controllata evolu­ zione. L a situazione duecentesca ci appare opposta. In quest’epoca infatti è al livello dello stile che si registrano fissità e ridondanza (e perciò si parla di poesia formale) mentre la gestione del metro è, entro certi limiti, libera. Sul piano del metodo ciò ha due conseguenze: la prima è che qui trovano la loro legittimazione teorica quelle ana­ lisi che vertono sui puri fatti tecnici - scissi dallo stile - di un sistema metrico ancora in fase di elaborazione come, poniamo, lo studio deU’anisosillabismo o la descrizione della varia morfologia di un genere metricamente molto caratterizzato come il discordo. L a seconda è che di que­ sti diversi equilibri tra stile e metro al di qua e al di là del­ la regolarizzazione dantesca e petrarchesca occorre tenere conto nelle ricerche suU’intertestualità. Se infatti l’obbiettivo è quello di connettere tra loro in maniera diretta testi ed autori, tali connessioni dovranno fondarsi, in diacro­ nia, sempre più su elementi stilistici e tematici e sempre meno sul metro, posto che il sistema metrico va incontro ad una omogeneizzazione entro la quale ogni linea di rap­ porto si perde. Allo studioso del Duecento s’impone inve­ ce una strategia contraria, considerato che non lo stile ma il metro sembra essere, in quest’epoca, il luogo in cui l’in­ venzione individuale ha più libero córso: ciò che spiega tra l’altro perché, limitatamente a questo periodo della nostra tradizione e a questo genere di ricerche, un’attenta lettura dei repertori metrici sia utile tanto quanto un’at­ tenta lettura dei testi.

1.2. Stile Il linguaggio e le immagini adoperati in Io non pensa­ va non pongono particolari problemi di interpretazione. Il lettore odierno potrà esitare di fronte a termini come viso ‘l’organo della vista’, valore ‘forza’, ruppe (Cassata:

aruppe) ‘costrinse’, che non hanno, nella lingua attuale, lo stesso significato che avevano un tempo. M a si tratta di difficoltà legate alla naturale evoluzione della lingua, diffi­ coltà quali si possono incontrare di fronte a qualsiasi testo del passato, e non a complicazione dello stile. L a difficol­ tà a capire i versi di M atteo Paterino deriva invece anche da una certa volontaria oscurità dell’espressione, tanto più perniciosa in quanto il tema affrontato è già di per sé oscuro. E tuttavia, la contraddizione tra il contenuto ‘da trattato’ del testo e lo stile tutt’altro che da trattato (per­ ché tutt’altro che limpido e lineare) di cui si serve Matteo non appare insuperabile. L ’impressione, non solo in que­ sto caso ma anche in quello di altre canzoni morali di area guidoniana, è infatti che la ‘liricizzazione’ di temi estranei alla, o inconsueti nella, tradizione poetica romanza non potesse compiersi se non attraverso l’adozione di quelli che sono i connotati più vistosi del discorso in versi: gli artifici metrici e rimici. In altri termini, l’aumento del tas­ so di figuralità - e qui, nella canzone di Matteo, di quella particolare figuralità che identifica la poesia come poesia - innesca una sorta di meccanismo di compensazione: un correttivo formale teso a ‘poetizzare’ un tema più conso­ no alla prosa, e anzi nella fattispecie alla prosa latina. L ’o­ pacità dello stile e l’artificiosità del metro sono così condi­ zione necessaria e sufficiente a connotare come oggetto artistico una meditazione sul più impoetico dei temi. L a conquista di Dante e Cino anche nel campo della poesia morale (e non solo in quello della lirica amorosa) consisterà nella liberazione da questi gratuiti artifici for­ mali; i testi danteschi sono, a giudizio del loro stesso auto­ re, profondi per i problemi che mettono sul tappeto e le cognizioni che presuppongono, non complessi per quanto concerne la lettera, e infatti abbisognano di un commento continuo (il Convivio) che ne porti alla luce tutte le impli­ cazioni, non di una parafrasi: L a v iv an d a d i q u e sto con v ivio sa rà e d i q u a tto rd ic i m an iere o r d i­ n ata, cio è [d i] q u a tto rd ic i c an zo n i sì d ’am o r c o m e d i vertù m a ­ teriate, le q u ali san za lo p re se n te p a n e av ean o d ’ alcu n a oscu rita-

ile o m b ra , sì ch e a m olti lo ro b ellezza p iù ch e lo ro b o n ta d e era in g ra d o . M a q u e sto p a n e , cio è la p re se n te d isp o sizio n e , sa rà la luce la q u ale o g n i c o lo re d i lo ro sen ten za farà p arv e n te ( C on vi­ vio , I i 14-15).

Nel caso della canzone di Matteo, tuttavia, a giustificare l’oscurità della forma concorre probabilmente un altro elemento che, se qui è accessorio, in altre occasioni ha un’importanza primaria: e cioè il fatto che Fonte di sapienza è un testo di corrispondenza, una lettera spedita ad un altro poeta. Senza approfondire qui questo aspetto, limitiamoci a osservare che non sono rari i casi in cui la forma retorica di un testo - e, nella fattispecie, il suo indi­ rizzarsi a un destinatario storico - influenza la sua forma linguistica: come se il confronto delle idee tra i tenzonanti finisse per estendersi anche al piano tecnico-formale, di­ ventando un confronto tra le rispettive abilità di retori.

1.3. Tema Il tema di Io non pensava è il tema tradizionale del­ l’amore. Caratteristici di un’età e di un ambiente sono, certamente, i m otivi attraverso i quali il tema è svolto (la battaglia nel cuore, l’avvertimento del dio Amore ecc.); ma il lettore moderno non ha difficoltà a vedere che molti elementi comuni accomunano questa poesia a testi di al­ tre età e di altre letterature che possono definirsi, perciò, congeneri: Io non pensava è una lirica così come liriche erano state quelle degli elegiaci latini, o saranno quelle dei petrarchisti europei. L a canzone di Matteo Paterino è invece esemplare di un’età della letteratura nella quale alla poesia in volgare potevano essere affidati anche con­ tenuti di grande serietà e impegno, che avevano uno stret­ to rapporto sia con il dibattito intellettuale (qui quello tra seguaci dell’eresia e ortodossi) sia con la vita concreta (dal momento che la lotta è anche d ’armi, non solo d ’i­ dee): contenuti che, ed è quanto va sottolineato, la prosa in volgare - in qualsivoglia volgare romanzo - non aveva

ancora saputo esprimere. È istruttiva, a questo proposito, un’altra osservazione di Dante nel primo libro del Con­ vivio. Dante sta esponendo le ragioni che lo hanno determi­ nato alla scelta del volgare quand’ecco che la polarità tra latino e lingua materna su cui fin 11 si era impostato il di­ scorso cede per qualche riga a una polarità tutta interna all’uso del volgare, tra prosa e poesia (I x 12): C h é p e r q u e sto c o m e n to la g ran b o n ta d e d el v o lg a re d i sì [si v e ­ d r à ]; p e rò ch e si v e d rà la su a v ertù , sì c o m ’è p e r e s s o altissim i e n o v issim i co n cetti con v en evo lm en te, su fficie n te m e n te e a c o n ­ ciam en te, q u a si c o m e p e r e sso latin o, m an ife stare ; [la q u ale non si p o te a b e n e m an ifestare] nelle c o se rim ate p e r le accid en tali a d o m e z z e ch e q uivi s o n o co n n e sse , cio è la rim a e lo te m p o e lo n u m e ro rego lato : sì c o m e n o n si p u ò b e n e m an ife stare la b e lle z ­ za d ’u n a d o n n a , q u a n d o li ad o rn am en ti d e ll’az zim are e delle v e ­ stim en ta la fan n o p iù am m irare ch e e ssa m e d e sim a.

Ciò che va sottolineato è il fatto che il confronto è istitui­ to, per l’appunto, tra la prosa di Dante e la poesia volgare e non fra prosa e prosa. Nel De vulgati eloquentia , la lirica di Dante, Cino e Cavalcanti è posta al termine, cioè sulla vetta, di una tradizione trilingue - d ’oc, d ’oi'l, di sì - alla cui descrizione e analisi è consacrata una parte consisten­ te del trattato. N ulla del genere accade nel prologo del Convivio. Certo quest’opera è il primo esempio di prosa scientifico-filosofica italiana in cui il confronto con i m o­ delli latini si sviluppi su un piano di parità anziché confi­ gurarsi come semplice traduzione, o parafrasi, o epitome. Ma il silenzio sugli esperimenti di prosa saggistica in vol­ gare compiuti prima del Convivio (da Brunetto Latini, per esempio, o da Bono Giamboni) resta sorprendente: la mi­ litanza, cioè il giudizio sui predecessori e sui contempora­ nei che ha un ruolo così importante nel D e vulgati (e, sia pure per allusioni, nella Vita nova), non ha qui spazio al­ cuno. Ovvero: l’impegno e la polemica sono spesi tutti sul piano della scelta linguistica, del conflitto tra «sole nuovo e sole usato», perché in essa risiede, per Dante, l ’assoluta

novità della sua opera. Nel giudizio postum o della Com­ media, Donne ch'avete corrisponderà a un nuovo inizio, alla scoperta di una nuova strada per la poesia dopo le fal­ se partenze del Notaro, di Guittone e ai Bonagiunta; ma il Convivio è un inizio tout court, che come tale non deve porsi il problema dei precursori. Così, un p o ’ inaspettata­ mente, l’unico cenno a un diverso uso del volgare è fatto in direzione non di un’altra prosa ma della poesia, e di questa vengono messi in rilievo proprio quei limiti, quelle costrizioni (connesse alla rima, al ritmo e al numero rego­ lato) che rendono particolarmente ardua l ’interpretazione di Fonte d i sapienza e, ai nostri occhi, particolarmente biz­ zarra la scelta di usare i versi per un contenuto così com ­ plesso. Ora, nel passo citato, Dante non oppone questo com ­ mento in volgare alle «cose rimate» in genere (categoria nella quale ricadrebbe per esempio la lirica d ’amore) ma a quella poesia la quale si sforza di «manifestare alti ed eccezionali concetti e contenuti dottrinali, con la stessa sufficienza e correttezza del latin o»7. Il termine di parago­ ne è così tre volte determinato: poesia (e non prosa), poe­ sia in volgare di sì, e poesia di alto concetto, morale o filo­ sofico. S ’intende che quello che Dante dice qui si può ri­ ferire, prima di tutto, alle sue stesse canzoni, e che questo giudizio sui limiti delle cose rimate e sulla maggiore liber­ tà e verità della prosa spiega insomma perché è nato il Convivio-, per sfiducia circa la tenuta razionale e discorsi­ va della poesia. Tale sfiducia non tocca, a quanto pare, gli intellettuali delle generazioni prestilnoviste, e non solo quelli che si esprimono in lingua di sì, dal momento che in tutta la Romània nella poesia, piuttosto che nella prosa in volgare, si era concretata la forma del saggio: si pensi alla tradizione degli ensenhamens o, per citare un autore esemplare, ai serventesi e alle epistole in versi di Guiraut Riquier.

7 Così Vasoli in Dante, Convivio, p. 68 nota.

Com e osserva Dante e come possiam o verificare noi stessi leggendo la canzone di M atteo Paterino, 0 saggio o trattato in versi va tuttavia soggetto sia alle costrizioni della rima e del numero sia, talvolta, ad ulteriori artifici metrico-retorici aggiunti liberamente dall’autore. Da que­ sto ostacolo formale non deriva soltanto l ’impossibilità di dimostrare appieno «la gran bontade del volgare di sì»: deriva anche, inevitabilmente, un rapporto più teso e dif­ fìcile con il lettore. Nel conflitto tra prosa e poesia nel campo della saggistica così come ci viene presentato da Dante nel Convivio noi vediamo dunque anche un conflit­ to tra due diverse maniere di porsi dinanzi al problema della destinazione dell’opera. Di fatto, da un intento di­ dattico, da una volontà di parlare a tutti, anche agli incol­ ti, si dicono motivati i primi prosatori in volgare. È vero che questo diventerà, clopo il Convivio, una specie di cli­ ché esordiale, ma ciò non significa che - per fare solo qualche esempio - le parole che l’Anonimo Romano, o sant’Antonino, o M atteo Palmieri adoperano per giusti­ ficare la loro (o, nel secondo caso, l’altrui) scelta non ri­ flettano il vero pensiero di questi autori, e anzi non corri­ spondano in fondo alla realtà dei fatti; davvero il volgare oteva servire a un pubblico più vasto e davvero la scelta nguistica vale quanto una presa di posizione in favore di una più larga diffusione del sapere8.

E

8 «Anche questa cronica scrivo in vulgare, perché de essa pozza tra­ re utilitate onne iente la quale simplicemente leiere sao, corno soco vul­ gati mercatanti e aitra moita bona iente la quale per lettera non intenne. Dunqua per commune utilitate e diletto fo questa opera vulgare, ben­ ché io l ’aia ià fatta per lettera» (Anonimo Romano, Cronica, ed. critica a cura di G . Porta, Milano, Adelphi 1979, p. 6). «Rivolto poi verso i mia carissimi cittadini, in me medesimo mi dolsi, molti vedendone che, disiderosi di bene et virtuosamente vivere, sanza loro colpa, solo per non avere nodtia della lingua latina, mancavano d ’inumerabili precepri che molto arebbono giovato il loro buono proposito» (M. Palmie­ ri, Vita civile, ed. critica a cura di G . Belloni, Firenze, Sansoni 1982, p. 5). A proposito dell’Amore di carità di Giovanni Dominici e della sua opzione per il volgare, sant’Antonino scrive: «U t edam illiterads doctrinam spiritualem relinqueret, librum in vulgati venusto composuit stylo,

Al contrario, la comunicazione di contenuti in senso lato scientifici (come, per restare al nostro testo di riferi­ mento, la dottrina catara) per mezzo della poesia ritaglia un pubblico più ristretto proprio perché - e anche questo c detto da Dante nel passo citato - nell’espressione in ver­ si il fatto formale soverchia il messaggio: anche i testi con­ cettualmente più impegnati sono dunque innanzitutto og­ getti artistici destinati non, come nel caso della prosa, ad ogni persona colta in grado di leggere il volgare, ma solo a quel gruppo necessariamente più limitato di conoscitori che hanno buoni occhi per le «accidentali adom ezze» della forma. Q uando in testi come la canzone di Matteo Paterino queste adom ezze diventano artificio e raggiungo­ no un simile livello di complessità, c’è davvero da dom an­ darsi per chi fossero scritti testi simili e se si siano mai trovati lettori capaci di penetrarne il senso. E la risposta la troviamo di nuovo ben chiara nella forma retorica di que­ sti componimenti: perché si tratta di testi di corrispon­ denza che sono stati scritti p er un solo destinatario e che costui, in primo luogo, ha il compito di decifrare.

quem Amorem Caritatis intitulavit [...], nec simile in vulgari reperitur» (fiisto rile , IH xxiu 2, citato in G . Dominici, I l libro d'am ore a i carità , a cura di A. Ceruti, Bologna, Romagnoli-DalTAcqua 1889, p. X ). Al di qua del Convivio , cfr. l’anonimo autore della Som m etta: «ad utilità de’ non litterad alcuna sommetta ordinerò in volgare m odo» (I. HijmansTromp, L a «Som m etta» falsam ente attribuita a Brunetto Latini, in CN , LIX 3-4 [1999], pp. 177-243). E a motivazioni analoghe si richiamano infine, naturalmente, i volgarizzatori: cfr. per esempio il prologo al vol­ garizzamento della Scala d el Paradiso , in Prosatori m inori del Trecento , I, a cura di G . De Luca, Milano-Napoli, Ricciardi 1954, p. 3; sui volga­ rizzamenti dei trattati scientifici, cfr. F. Geymonat in «Q uestioni filosofiche» in volgare mediano d ei prim i del Trecento, edizione critica e com ­ mento linguistico a sua cura, 2 voli., Pisa, Scuola Normale Superiore 2 0 0 0 ,1, p. X III. Su tutto questo, anche per altre testimonianze, cfr. M. Feo, Tradizione latina, in L IE , V. Le questioni, Torino, Einaudi 1986, pp. 311-378, in part. pp. 354-357.

1.4. Tem i e generi letterari in diacronia Se così si presenta, nelle sue linee essenziali, il rappor­ to tra prosa e poesia sullo scorcio del X III secolo, ci si de­ ve dom andare ora quale sarà di qui in poi, nella nostra tra­ dizione letteraria, il destino di questi temi ‘oggettivi’: poli­ tica, morale, teologia. Rinviando per un quadro più detta­ gliato al quinto capitolo, qui osserverò soltanto che sem ­ pre più, nel corso del M edioevo, essi verranno affidati alla prosa, latina e volgare, per la ragione spiegata da Dante: che la prosa consente una più libera, ordinata e - per riba­ dire ancora una volta il nesso tra tema e stile - comprensi­ bile espressione del pensiero. Ciò non significa, come ve­ dremo, che la poesia si restringa alla sfera del soggettivo (cioè del canto d’amore), dato che a questa scelta monote­ matica solo alcuni - non tutti - si risolveranno di fatto so ­ lo più tardi, in epoca di petrarchismo ‘ortodosso’. Ma, da un lato, questioni molto tecniche come quella discussa in Fonte d i sapienza o in certi testi guidoniani finiranno per essere considerate poco compatibili coi versi. Quale mez­ zo verrebbe adoperato, un secolo più tardi, per difendere davanti al custode dell’ortodossia - qui frate Guittone - il proprio eterodosso punto di vista? Q uale venne adoperato di fatto quando sul principio del Cinquecento l’Europa fu scossa una seconda volta dai movimenti ereticali? L a lette­ ra in prosa, il pam phlet, generalmente in latino, segno che il dogm a non rientrava ormai più nel repertorio dei sog­ getti poetabili e che la comunicazione esoterica dei testi in versi inviati ad personam aveva lasciato il posto al m oder­ no dialogo con tutta la comunità intellettuale. Su un altro versante, anche la parenesi cristiana torne­ rà a calarsi nella forma tradizionale dell’omelia. Valga an­ che qui un paragone. Un secolo dopo Guittone, il gesuato Giovanni Colombini fa proseliti tra la Toscana e l’Umbria meridionale raggiungendo un’ampia notorietà e una gran­ de autorità morale; scrive anche delle lau d i9. Quella che

9 Cfr. Poeti m inori, pp. 1079-1081.

possiamo considerare la sua eredità di pensiero, il suo messaggio, resta però consegnata non a questi pochi versi ma al suo epistolario. D ue secoli dopo Guittone, G irola­ mo Savonarola predica a Firenze; è in grado di esprimersi sia in prosa sia in versi, e anzi nei suoi versi si avverte l’ap ­ prendistato petrarchista. Ma le poesie che di lui ci riman­ gono sono poco più di una dozzina, e la loro composizio­ ne non varca la metà degli anni Ottanta. Nella maturità, Savonarola fa sua la tesi rigoristica dell’arte come menzo­ gna. Il ruolo a cui Guittone aveva piegato ogni forma di espressione letteraria - la difesa dei valori cristiani e l’am­ maestramento dei lettori - compete, per Savonarola, solo alla prosa delle prediche e delle lettere. Apologeticum egli censurerà la poesia proprio a causa di quella bella e fuorviarne apparenza delle forme cui Guittone non ave­ va voluto rinunciare neppure nella seconda parte della sua vita: Infatti, se c o n d o il F ra te , an ch e se l ’arg o m e n to è sa c ro ed è rettam ente sv o lto (sen za alc u n a co n tam in azio n e, c io è , co n la m ito lo ­ gia c la ssic a ), la p o e sia c o n serv a u n a c o m p o n e n te ‘d ia b o lic a ’ (rin tracciab ile n egli allettam en ti d ella fo rm a e d ello stile, cio è di un’arte reto ric a d i m atric e cla ssic a e p a g a n a [...]) tale d a in fi­ ciarn e la reale utilità e la p o ten z iale p o sitiv ità, attiran d o l’atte n ­ zione d ei lettori su lla v u o ta b ellezza este rio re e sp in g e n d o i p o e ­ ti a c u rare e a g lo riarsi p iù d ell’ab ilità lette raria ch e d ella p r o ­ fo n d ità d o ttr in a le 10.

L ’esemplarità di Fonte d i sapienza ha dunque, per gli aspetti considerati sin qui, confini cronologici ben precisi. Metro, stile e argomento di questa canzone rispecchiano in sostanza gli usi di quella che per brevità possiam o chiama­ re la generazione guittoniana. E ssa presenta infatti, svilup­ pate ad un grado estremo, caratteristiche che sono tipiche di molti dei componimenti scritti in quest’epoca: la com ­ plessità e varietà del metro, lo sperimentalismo formale, 10 F. Bausi, Ugolino Verino, Savonarola e la poesia religiosa , in Studi savonaroliani. Verso il V Centenario, a cura di G .C . Garfagnini, Firen­ ze, Sismel - Ed. del Galluzzo 1996, pp. 127-135, a p. 133.

rim pegno. Se considerata da un altro punto di vista, però, Fonte di sapienza è il documento di una concezione della poesia che sarà condivisa da molti, autori e lettori, non solo nell’età pre-stilnovista. Tale punto di vista corrispon­ de al quarto dei parametri cui possiam o ricorrere nel con­ fronto tra Fonte di sapienza e Io non pensava-, dopo il m e­ tro, lo stile e il tema, la forma retorica. Una volta di più, non c ’è scarto tra Io non pensava e la media esperienza del lettore odierno. Com e la gran parte della poesia moderna, la canzone di Cavalcanti è una m e­ ditazione che non ha un preciso destinatario: un testo in­ dirizzato ‘a se stesso’. M atteo Paterino dichiara invece sin dal primo verso l’intenzione di parlare a un singolo (e di ricevere risposta). Ebbene, in che senso il fatto di conce­ pire il testo come una sorta di comunicazione privata, di­ retta ad un unico destinatario, può dirsi un carattere rap­ presentativo non di una generazione o di un secolo ma, stavolta, dell’intera poesia medievale?

2. T esti di corrispondenza 2.1. Quante e quali poesie d i corrispondenza Una parte considerevole della poesia italiana del M e­ dioevo è poesia di corrispondenza. Sarebbe stato possibile servirsi di tabelle e grafici che dicessero quanti sono i testi e quanti e quali gli autori coinvolti. M a sarebbe stata un’esattezza menzognera. Quantificare è difficile per due ragioni. In primo luogo perché della categoria di poesia di corrispondenza si possono dare definizioni più o meno estensive: alcuni vorranno includervi le sole tenzoni delle quali siano conservati tutti quanti i membri (e varrà dun­ que per loro l’equazione tra poesia d i corrispondenza e tenzoni)-, altri considereranno ‘di corrispondenza’ anche quei componimenti che pur non appartenendo a vere e proprie tenzoni sono tuttavia esplicitamente indirizzati ad amici, patroni o, soprattutto, colleghi poeti (per fare due esempi molto diversi, i testi d ’accompagnamento co­

me il sonetto dantesco M esser Brunetto, questa pulzelletta, 0 le canzoni-lettera come Spirto gentil di Petrarca); altri infine propenderanno per una definizione ancora più estensiva: oltre che alle tenzoni e ai testi esplicitamente in­ dirizzati ad un destinatario storico, costoro faranno rien­ trare tra le rime di corrispondenza anche quei testi sem ­ plicemente offerti ad un’altra persona, e persino quei testi inviati ad un destinatario collettivo, come possono essere 1 fedeli d ’amore di cui si parla nella Vita nova, o gli stessi lettori dell’opera nel caso che essi vengano esplicitamente citati e apostrofati. Ancora, costoro si chiederanno se nel­ la famiglia delle rime di corrispondenza non convenga far rientrare anche quell’enorme percentuale di testi amorosi nei quali lo sfogo o la meditazione sentimentale si risolvo­ no in colloquio in absentia coll’amata, cioè insomma in lettera d ’amore: «D onna, l’amor mi sforza...» (Guinizzelli, III 1). In secondo luogo, parlare in termini di percentuali - quanti testi si possono considerare rime di corrispon­ denza sul totale dell’opera di un autore - sarebbe fuor­ viarne perché i valori relativi ai singoli poeti sono spesso imparagonabili tra loro, e ciò a causa del fatto che le no­ stre fonti non sono né oggettive né complete. Esistono p a­ recchi poeti medievali i quali non scrivono se non rime di corrispondenza, e sono spesso poeti di due o tre sole poesie: quelle com poste per rispondere ad un amico che come lui ingannava il tempo scrivendo di tanto in tanto dei versi o per partecipare a una tenzone con un autore più titolato (poniamo: le tenzoni a più voci sull’interpre­ tazione di un sogno aperte da Cino o Dante da Maiano o Dante Alighieri, nelle quali hanno voce in capitolo an­ che rimatori semisconosciuti). M a ciò è dovuto al fatto che per costoro la poesia assolve a una funzione sociale o latamente culturale, non lirica: sarebbe sbagliato misu­ rare il successo della tenzone (e generi affini) nel sistema dei generi sulla base di quest’unico dato. Viceversa, esi­ stono poeti, pur molto prolifici, dei quali quasi non ci re­ stano rime di corrispondenza. Ma ciò, a sua volta, è spes­ so dovuto al fatto che l’opera di questi autori è raccolta

in canzonieri personali a, diciamo così, dominante lirica, nei quali occasioni ‘pubbliche’ come le tenzoni non p os­ sono avere molto spazio (si pensi a N icolò de’ Rossi 0 a Petrarca): anche in questo caso sarebbe scorretto in­ terpretare tale assenza come documento dell’impopolarità di un genere o di una forma la cui diffusione, anche tra 1 grandi lirici, dovette essere ancora maggiore rispetto a quella, già ampia, che ci è documentata dalla tradizione manoscritta. Ma quanto a quest’ultima, è bene non farsi illusioni circa la sua imparzialità. L e rime di corrispondenza sono testi d ’occasione la cui ‘durata’, di solito, non va molto oltre il momento dello scambio. Se il contenuto dei componimenti lirici e morali può avere un certo interesse per qualsiasi lettore anche dopo che sia passato molto tempo dalla loro scrittura, il contenuto delle tenzoni riguarda in genere soltanto i due autori coinvolti, ed è quasi sempre inattuale, ossia non attualizzabile come lo sono i pensieri d ’amore e la parenesi. Inoltre, i trattatisti o ignorano le tenzoni o si limitano a poche e sommarie indicazioni tecniche, e sono rari i ma­ noscritti medievali che mostrano di considerare le tenzoni com e un genere autonomo separandole dai normali sonet­ ti. Infine, si tratta di un genere i cui membri hanno, tra lo­ ro, rapporti molto labili. Vi può essere, in altre parole, una certa unità nelle canzoni o nei sonetti di un autore, o perché prodotti in uno stesso lasso di tempo, o perché nati in margine al medesimo evento, o perché ispirati ad un’idea grosso m odo analoga, e questa unità può essere riconosciuta e rispettata nella tradizione manoscritta. Le venti canzoni di Bindo Bonichi, per fare solo un esempio, omogenee sia per il metro sia per il tema morale, circola­ rono in sequenza compatta, e così le testimonia un nume­ ro consistente di codici, alcuni dei quali ignorano del tut­ to la sua restante produzione. L a forza d ’aggregazione delle tenzoni - quasi sempre eterogenee per contenuto, scritte sempre in momenti diversi, sotto la spinta dell’oc­ casione - è molto minore: mai, né materialmente né ideal­ mente, esse formano una famiglia all’intem o della globale produzione di un autore, così da imporsi ai copisti come

un unico macrotesto. È verosimile che tutte queste circo­ stanze abbiano rappresentato altrettanti ostacoli alla con­ servazione delle rime di corrispondenza, tanto da parte di coloro che le scrissero quanto da parte dei lettori di poesia. Ciò risulta particolarmente chiaro quando l’interesse del copista-allestitore non è solo conservativo ma in pri­ mo luogo selettivo. Prendiamo il caso della Raccolta Ara­ gonese. Prima vera antologia della nostra tradizione lette­ raria, voluta da Lorenzo il Magnifico e da lui organizzata in collaborazione col Poliziano, essa presenta al dedicata­ rio Federico d ’Aragona un’ampia selezione degli autori che dalle origini a Lorenzo compreso avevano scritto «nella lingua toscana poeticam ente»11. In questa selezio­ ne, le tenzoni hanno una parte ridotta se guardiamo al jrimo secolo (i siciliani, la prima generazione tosco-emiiana, gli stilnovisti), misera se guardiamo al Trecento e al Quattrocento: di un tenzonatore assiduo come Franco Sacchetti vengono dati quasi solo i sonetti sciolti, le can­ zoni e i componimenti per musica, e questo benché gli al­ lestitori della Raccolta fossero riusciti probabilmente a «m ettere le mani sull’au to grafo»l213. Anche il poeta della Raccolta Aragonese, quel Cino Rinuccini del quale po­ chissime altre fonti indipendenti dalla Raccolta tramanda­ no le rime, compare qui solo ed esclusivamente con la sua produzione lirica: per leggere le sue tenzoni - cioè gli uni­ ci suoi componimenti noti che non figurino nella Raccolta - dobbiam o ricorrere a manoscritti che stanno al di fuori di questa costellazione,3. E poiché l’antologia fa perno su­ gli autori più rappresentativi e degni di memoria, non c’è traccia, naturalmente, di tutti quei minori per i quali, co­ me ho detto, sia a causa di limiti soggettivi sia a causa di circostanze oggettive (una viva ‘presenza sociale’ della poesia), le rime erano soprattutto o esclusivamente rime

f

11 Lorenzo de’ Medici, Epistola a don Federico d'A ragona, p. 5. 12 E. Pasquini, Trapianti quattrocenteschi di Cino da Pistoia, in Le botteghe della poesia, Bologna, D Mulino 1991, pp. 353-408, a p. 396. 13 Cfr. Rinuccini, Rim e, p. 41.

di corrispondenza. D ato tutto questo, non è un azzardo sostenere che la qualità dei testi di corrispondenza - occa­ sionale, soggettiva, prosaica ecc. - abbia inciso sia sul mo­ do sia sull’ampiezza della loro diffusione. Q u e sta selezion e, ch e p en alizza q u ei testi p ra tic i ch e so n o le rim e di co rrisp o n d e n za , n o n stu p isc e d al m o m e n to ch e u n a s e ­ lezio n e an a lo g a è o p e ra ta an ch e d alle m o d e rn e an tologie: p o i­ ch é an ch e q u i vale 3 p rin c ip io - im p licito : m ai il p ro b le m a d e l­ l ’e q u ilib rio tra i gen eri e d ella rap p re se n ta tiv ità d ella se lezio n e è affro n tato e sp lic ita m e n te - se c o n d o cu i la p o e sia ch e con v ien e p ro p o rre p e r d a re al le tto re un q u a d ro v eritie ro d ella le tte ratu ra m ed iev ale n o n è la p o e sia d i c o rrisp o n d e n z a . S i tratta di u n a sc e lta p ien am en te legittim a se il p a ra m e tro è q u e llo , c o m u n q u e n o n facilm en te d efin ib ile, d ella q u a lità d e i te sti e d ella lo ro v ic i­ n an za ai gu sti d el letto re m o d e rn o : scelta, d u n q u e , n o n so lo le ­ gittim a m a n ecessaria p e r e se m p io n elle an to lo g ie sco lastich e . M a la sc e lta d iv en ta fu orv iarn e se q u ello ch e e ssa so tte n d e è, c o ­ m e d i so lito è, un g iu d iz io sto rio g ra fic o : p o s t o ch e in u n a d e ­ scriz io n e d ella p o e sia m e d ie v ale p e r q u ello c h e e ssa fu in sé, e n o n p e r ciò ch e e ssa p u ò e sse re p e r noi, alle rim e d i c o rri­ sp o n d e n z a an d rà d a to un rilievo m o lto m ag g io re . (Si p re se n ta q u i in so m m a il p ro b le m a d e ll’an to lo g iz zaz io n e d e lla p o e sia e d ei riflessi ch e e ssa p u ò avere su ll’in terp re taz io n e d i u n ’e p o c a letteraria: p ro b le m a a n a lo g o a q u ello stu d ia to d a A . Q u o n d a m , P etrarch ism o m ed iato , R o m a, B u lzo n i 1974. C o n la d ifferen za ch e m en tre nel C in q u e c e n to si tratta d i u n p ro b le m a d i testi - q u ali e q u an ti - afl’in te m o d i un g en ere il cu i p rim a to non p u ò e sse re m e sso in d isc u ssio n e , nel M e d io e v o si tratta in n an zi­ tu tto di un p ro b le m a di g en eri, e il fatto ch e a d e sse re la rg a m e n ­ te p riv ilegiato sia an ch e q u i il g en ere lirico n o n è il fru tto d i u n ’o sse rv azio n e o g g ettiv a d ei d ati m a d ip e n d e , p e r l ’a p p u n to , d a u n ’in d e b ita e ste n sio n e d ella n o rm a fu tu ra su l p a ssa to .)

2.2. G eneri metrici e generi tem atici Per le ragioni sin qui indicate, il dato numerico è dun­ que importante ma va per così dire scorporato, le sue oscillazioni trattate come spie di mutamenti qualitativi. La scelta di impostare la ricerca su tempi lunghi trova qui la

sua giustificazione. Form a e contenuto delle rime di corri­ spondenza cambiano nel tempo, nello spazio e sotto l’in­ fluenza delle poetiche individuali, e il m odo della loro va­ riazione rispecchia differenti concezioni della letteratura: la tenzone finisce così per essere anche un’ottima pietra di paragone per comprendere l’evoluzione dell’intero quadro poetico medievale. Ma si dà almeno fra tante va­ riazioni, per chi osserva, un principio unitario di fondo? Ovvero: che cosa lega, al di là della costruzione retorica a dialogo, rime di corrispondenza eterogenee per tema, forma ed età, e che cosa ci autorizza a considerarle insie­ me, separandole dai corpora dei rispettivi autori, come se un filo rosso corresse tra l’una coppia e l’altra, allo stesso tempo collegandole tra loro e astraendole dal flusso della poesia contemporanea? Si pone insomma, a questo pun­ to, il problema dell’identità del genere. Temi e metro definiscono di solito i generi poetici. E simmetricamente: i generi poetici sono composti da te­ sti che si somigliano per il tema trattato o per il metro usato o, più spesso, per tutte e due le cose insieme. E si­ stono così generi metrici come il sonetto, la ballata, la canzone. E d esistono generi tematici: generi i quali, cioè, pur esprimendosi tendenzialmente attraverso un unico metro, si definiscono soprattutto in ragione del loro con­ tenuto, e così transitano facilmente dall’una all’altra lette­ ratura e dall’una all’altra lingua: sono pastorelle, per esempio, tanto quelle provenzali, che si servono del metro della canzone H, quanto quelle presenti nei Carmina Buran a e in altre raccolte mecuolatinel5, quanto, in Italia, quel­ la di Cavalcanti, che è una ballata. E sono albe, per fare un altro esempio, tanto la mediolatina Cantant omnes volucres'b quanto quella trascritta nei M em oriali bolognesi M Ma se guardiamo al contenuto è una pastorella anche per esem ­ pio la dam a Per am or soi g ai di Guiraut d ’Espaigna: cfr. Chambers, An Introducilo», p. 221. 15 Cfr. le indicazioni di A. Jeanroy, L a poesie lyrique des troubadours, 2 voli., Toulouse-Paris, Privat-Didier 1934, II, p. 284. 16 Cfr. P. Dronke, M edieval Latin and thè R ise o f European LoveLyric, 2 voli., O xford, Clarendon Press 1966, II, pp. 352-353.

(B 16 Partite, amore, a Deo), quanto quelle del trovatore che si può considerare come lo specialista nel genere, Giraut de Bomelh. E vi sono poi generi che potremmo defi­ nire di frontiera, che né sono facilmente caratterizzabili dal punto di vista del metro né trattano sempre un tema specifico, e nei quali però si possono evidenziare alcune costanti, o quasi-costanti, sia nell’uno sia nell’altro setto­ re: e li possiam o chiamare - facendo di due caratteri de­ boli un solo criterio forte - generi metrico-retorici: tale per esempio è il caso del discordo. Ora, la differenza capitale tra il sistema dei generi franco-provenzali e quello italiano sta nella tendenziale scomparsa dei generi tem atici17. L a cosa non sorprende: è comprensibile infatti che generi artificiali come l’alba o la pastorella, nati come proiezioni dei valori o (è il caso della pastorella) dei disvalori cortesi, o come forme fisse di una poesia che confina col teatro (e che come questo è recitata o cantata di fronte a un pubblico il cui piacere estetico non è com prom esso dal fatto di ‘conoscere la tra­ m a’) - è comprensibile che questi generi oggettivi tenda­ no a scomparire nel contesto italiano, dove l’influenza della società cortese è minore e transitoria, e dove la poe­ sia assume solo di rado, e solo per determinate forme me­ triche, i tratti del pubblico spettacolo. L e eccezioni con­ fermano e illuminano la regola. Esiste, come ho ricordato, una pastorella scritta da G uido Cavalcanti, l’unica pastorella italiana che ci sia per­ venuta. A parte poche sfumature, lo schema-base del ge­ nere è riprodotto con fedeltà: il poeta-cavaliere si avven­ tura nel bosco, vi incontra una pastora e le domanda se 17 Generi tematici nei quali, s’intende, si tratta di temi letterari, ris­ satisi per tradizione, e insomma ‘insinceri’. Ben diverso, evidentemente, è il caso di quei testi accomunati da un tema che è tratto non dal codice letterario ma dalla vita reale. L a morte di un amico o di un patrono o della donna amata viene, per esempio, commemorata nel planò: don­ de una tradizione - fatta di testi omogenei non solo per l’argomento ma anche per certe caratteristiche formali e retoriche, per i topoi ecc. - che nel passaggio dalla poesia provenzale a quella italiana non si oblitera ma continua.

lia compagnia; la pastora risponde di essere sola e dopo un breve dialogo, alla richiesta del poeta, gli si concede. A questa pastorella L apo degli Uberti ‘risponde’ con un sonetto che ironizza su quelli che sono, a suo parere, i ve­ ri gusti sessuali di Cavalcanti (1-4)l8: G u id o , q u a n d o d icesti p astu re lla v o rre ’ c h ’av essi d e tt’un b el p asto re : ch é si con v en , a d om ch e v o gli o n o re, co n tar, se p ò , v e ra c e su a novella.

Che cosa ci sorprende in questi versi? Precisamente que­ sto: che un genere convenzionale e fittizio venga interpre­ tato alla lettera, realisticamente, com e se davvero si potes­ se pensare che l’episodio riferito da Cavalcanti abbia un fondamento biografico. Ora, senza dubbio L apo sa che quell’episodio non è accaduto realmente, e sa che lo stes­ so Cavalcanti, nel momento in cui cita e riusa un genere codificato nella tradizione provenzale, pretende che le sue parole vengano lette alla luce delle leggi e dei clicbés di quel genere, e non come se il dominio fosse, qui, la vita reale. M a il volontario equivoco circa le tendenze sessuali di Cavalcanti si spiega, anche, col fatto che la pastorella non è un genere veramente ambientato in Italia, e i testi (il testo) cne vi appartengono possono essere interpretati in m odo tendenzioso, come se l’universo al quale appar­ tengono fosse quello della vita quotidiana, al a i fuori della letteratura, e non quello della convenzione poetica. Ecco un primo caso - un altro ne vedremo nel capitolo seguen­ te, e sarà il jo c partii - in cui un genere della tradizione ralloromanza si trova esposto ad equivoci - equivoci voontari, qui - una volta trapiantato nel sistema socio-lette­ rario italiano. La tendenza, nella nostra tradizione poetica, è dunque quella di rinunciare ai generi tematici e, per contro, di conservare o di moltiplicare i generi metrici. Il sonetto e la canzone sono per esempio - con un margine più

f

18 Cito da Cavalcanti, Rim e, pp. 182-183.

o meno ampio lasciato all’innovazione individuale - for­ me metricamente fisse, aperte ai temi più svariati; la balla­ ta è in certo modo un caso a parte, in quanto da un lato ha una forte caratterizzazione metrica, dall’altro è anche tendenzialmente monotematica, venendo consacrata di solito al canto d ’amore (e non per esem pio alla teoria del­ l’amore o ad altri temi oggettivi), e analogo sarà il caso del madrigale. L a tenzone intesa come genere si definisce per le proprietà opposte, ovvero per non possedere nessuna di queste due proprietà: né la stabilità e autonomia metri­ ca né la specializzazione tematica. In primo luogo, non esiste un metro della tenzone bensì vi sono varie forme metriche, già esistenti, che la tenzone prende a prestito. Il sonetto è di gran lunga quel­ la preferita, ma s’incontrano anche tenzoni in canzoni, in ballate, in serventesi e persino in sestine. Nella tenzone tra Provenzano Saivani e Ruggeri Apugliese la forma me­ trica adoperata è, come in Provenza, la canzone a coblas doblas; ma si tratta di un’eccezione iso latal9. Nella poesia italiana delle origini si dà sì il caso di contrasti a voci al­ terne nel perimetro di uno stesso testo, ma, a parte pochi sonetti duecenteschi, il dialogo è sempre fittizio, opera di un solo autore che mette in scena enti o oggetti personifi­ cati (per esempio i contrasti di Bonvesin, o la ricca tradi­ zione di dialoghi sacri in metri narrativi). In secondo luogo, la tenzone è il vero genere polite­ matico; sembra infatti che per i poeti medievali non ci sia argomento, per quanto arduo e ‘prosaico’, che non si presti ad essere discusso in versi in un dialogo a due o più voci. In terzo luogo, un genere non si definisce solo sulla base di costanti strutturali e tematiche ma anche sulla b a­ se di una rete di più o meno salde relazioni ‘intrageneriche\ Vale a dire che, da una parte, ad un testo è sempre data la possibilità di riferirsi come a un modello - attra­ verso allusione o citazione - ad altro testo che appartenga

19 Cfr. PD I, pp. 907-911.

ni medesimo genere letterario; e che dall’altra vi sono, nel­ lo storia dei generi, scansioni, periodizzazioni suggerite da opere nodali le quali introducono variazioni nel sistema anche senza che nei successori si dia memoria consapevo­ le del caposcuola. Sicché per esempio vi è, nella storia della lirica, un’età che precede il Canzoniere e un’età che lo segue e deve misurarsi con questo modello; e un ruolo analogo svolge, nella novellistica, il Decameron. Esiste quindi sempre, nei generi letterari, un coefficiente di tra­ sformazione interna e di interna comunicazione tra i testi; ed esistono opere che per la loro eccellenza, per la capaci­ tà di ridefinire le forme e arricchire il contenuto del gene­ re, s’impongono come pietre di paragone per la tradizione successiva, sia che questa li approvi imitandoli sia che li contesti: opere che realizzano alla lettera la condizione espressa dal cliché ‘essere dei classici nel proprio genere’. Non così le tenzoni. Nella maggior parte dei casi, infatti, esse ricavano il loro argomento direttamente dalle circo­ stanze della vita, senza u bisogno di mediazioni letterarie: salvo eccezioni che confermano la regola (è possibile, ad esempio, che la tenzone tra il Notaro e l’Abate di Tivoli abbia influenzato altre tenzoni duecentesche), le relazioni intrageneriche - ossia la dipendenza, il ricordo di una tenzone del passato entro una tenzone più tarda - qui mancano del tutto. Genere senza metro, senza temi caratteristici, senza chiari ed esclusivi caratteri formali (quali hanno, per esempio, la frottola o sottogeneri come il plazer e Yenueg), genere senza classici: come definire allora la tenzone e, con essa, il campo della nostra ricerca? L ’unica cosa che resta costante, l’unico denominatore comune a tutte le tenzoni è la struttura a dialogo: un poeta scrive a un altro poeta ricevendone in cambio, di solito, una risposta. Tale principio non identifica tuttavia un genere letterario bensì un modo del linguaggio e, di riflesso, della letteratura. Èd è appunto sul m odo che dovremo concentrare la nostra attenzione.

3. Prose e poesie destinate a un singolo Non è facile, come si è visto, determinare con esattez­ za il peso percentuale delle tenzoni nei canzonieri; e non è facile indicare delle caratteristiche che possano dirsi esclusive della tenzone. Ciò è però meno importante che cogliere nei suoi vari aspetti una propensione al dialogo che affiora anche ma non soltanto nella tenzone, e di cui quest’ultima non è che la manifestazione più evidente. Se, in altri termini, ci poniamo dal punto di vista astratto dei generi letterari, la tenzone può essere considerata come una forma relativamente autonoma, una forma che è legit­ timo isolare alTintemo del sistema dei generi letterari e di cui si può scrivere la storia. Se invece dimentichiamo le barriere tra i generi e ci concentriamo sulla forma retori­ ca, la struttura discorsiva che possiam o considerare come tipica della tenzone - il rivolgere la parola a un interlocu­ tore e la disponibilità ad assorbire una seconda voce al­ l’interno del proprio testo - la vediamo affiorare in forme diverse (in forme meno esplicite e totalizzanti) in testi che appartengono, a rigore, a generi poetici ben distinti dalla tenzone.

3.1. Dediche In questa nuova prospettiva, il campo della nostra ri­ cerca si trova ad essere notevolmente ampliato. Per esplo­ rarlo con ordine ricorreremo a una distinzione molto sommaria. Ogni testo letterario ha, nel momento stesso in cui viene fatto circolare, un pubblico che sfugge al con­ trollo dell’autore: i lettori contemporanei, quelli dei secoli futuri, noi. Ma ferma restando questa amplissima, e a ri­ gore infinita, ‘comunità dei lettori’, un testo letterario può anche indirizzarsi a un pubblico più ristretto, designato o nominato alTintemo del testo medesimo. Q uando nella poesia Falsetto Montale scrive «Esterina, i tuoi vent’anni ti minacciano...», noi possiam o distinguere un destinatario primo, Esterina, a cui il poeta si rivolge col discorso

diretto, e un destinatario secondo, che sono i comuni let­ tori, destinatari del testo pubblicato e del libro (non ci in­ teressa adesso la questione, che pure dovrà essere posta, dell’esistenza reale o simulata del destinatario interno). Naturalmente si può immaginare un testo che sia privo di destinatario interno, ed è anzi questa la condizione nor­ male della lirica moderna (la condizione, per esempio, del testo che precede e di quello che segue Falsetto negli O ssi di seppia). M a di fatto, soprattutto nel Medioevo, tale de­ stinatario non solo è presente in un gran numero di testi, ma si diversifica anche in una vasta gamma di personaggi, oggetti, astrazioni. Tale varietà nella natura dei destinatari interni - che contrasta con il quadro molto più omogeneo della lirica moderna, dove il destinatario è generalmente la donna amata - può essere descritta e ordinata secondo punti di vista diversi. Ci si può domandare, per esempio, se il destinatario interno sia reale o fittizio (cioè se vi sia o meno autentica comunicazione), e ce lo domanderemo nel capitolo dedicato alla lirica d ’amore a proposito del­ l’interlocutore più comune, la donna amata. O ppure si possono analizzare i dati in diacronia in m odo da vedere come la presenza del destinatario interno evolva sia quan­ titativamente sia qualitativamente. Pur tenendo conto di entrambi questi punti di vista, muoveremo per ora da una suddivisione ancora più semplice tra destinatari che corri­ spondono a persone storicamente individuate e note al­ l’autore, e che possono essere nominate, e destinatari che rappresentano categorie o meglio tipologie umane che non hanno nome. È diffuso in ogni tempo e in ogni luogo l’uso di dedica­ re un’opera letteraria ad un amico o a un personaggio illu­ stre, sia che si tratti di opere che hanno come primo scopo quello di intrattenere e dilettare (dunque per esempio i li­ bri di rime, di racconti, i romanzi, i testi teatrali ecc.), sia che si tratti di opere che mirano ad insegnare qualcosa a chi legge. In passato accadeva spesso che le dediche fos­ sero accompagnate da lunghi elogi che spiegavano le ra­ gioni dell’omaggio. Col tempo, e col progressivo formarsi di un’opinione pubblica colta e di una sempre più ampia

società letteraria (ciò che ha reso meno personale, più me­ diato, il rapporto tra autore e lettore), questa abitudine non è scom parsa ma si è trasformata in conformità alla nuova situazione sociale. Le dediche sono oggi general­ mente più brevi, non spiegano perché proprio quel dedi­ catario sia stato scelto, non ne illustrano i meriti, non fan­ no quasi mai corpo col testo - ciò che un tempo general­ mente avveniva - ma lo precedono. Il rapporto preferen­ ziale tra l’autore e un lettore non cessa perciò di esistere, ma la natura di questo rapporto e la ragione della dedica rimangono non dette, private, perché quel rapporto non ha il suo fondamento nel contenuto specifico dell’opera (nel senso che ciò che l’autore vi scrive riguardi o interes­ si il dedicatario più di ogni altro possibile lettore, o che l’opera stessa sia stata scritta pensando a lui) ma in un le­ game personale che spesso prescinde del tutto dal conte­ nuto dell’opera in questione. L a dedica ai figli o ai genito­ ri, cioè a persone che nella maggior parte dei casi non leg­ geranno il testo che viene loro offerto, è un buon esempio di questo passaggio dal pubblico al privato e dall’intrinse­ co all’estrin seco20.

3.2. D estinatari nom inali Il dedicatario può tuttavia essere coinvolto in maniera più diretta nel testo, diventandone il destinatario interno-. vale a dire l’interlocutore al quale chi scrive rivolge o fin­ ge di rivolgere le sue parole trattandolo come un perso­ naggio dell’opera. N eppure in questo caso, tuttavia, il rapporto che così si determina fa del testo una comunica20 T utt’altra, ripeto, la situazione nel passato, soprattutto prima del­ l’invenzione della stampa, quando le dimensioni molto ridotte del pu b­ blico facevano sì che al rapporto diretto con un lettore - come se il testo fosse una specie di lettera scritta a lui solo - fosse plausibile alludere, indicandolo com e ragione e occasione dell’opera. Quintiliano, per fare solo un esem pio, dedica Ylnstitutio oratoria a Marcello Vitorio, mecenate delle lettere e padre di Geta: a quest’ultimo il trattato può essere utile - scrive Quintiliano - come prima guida nell’arte oratoria (I, pr. 6).

/ione veramente privata, che riguardi soltanto lo scrivente c il lettore prescelto. Nei loro scritti morali o didattici, gli autori classici si rivolgono spesso direttamente a un amico o a un confidente o a un discepolo, usando il tu come se si trattasse di semplici lettere personali. L ’esten­ sione di tali scritti, il loro impegno concettuale e l’ampiez­ za dei temi trattati contrastano, tuttavia, con l’occasionalità del genere epistolare: s’intende facilmente che ciò che sotto la finzione retorica il saggista ha di mira - benché non vi accenni mai - è un destinatario secondo, vale a di­ re il pubblico dei lettori suoi contemporanei. Anche gli scrittori morali del M edioevo seguono questo doppio b i­ nario; anch’essi dedicano spesso i loro insegnamenti ad un unico allievo o ad un gruppo di allievi che viene no­ minato e apostrofato direttamente nell’opera, ma anch’es­ si verosimilmente intendono rivolgersi a un pubblico più numeroso. Così per esempio è probabile che le letteretrattato di Guittone d ’Arezzo, tutte inviate a corrispon­ denti reali, chiamati per nome e per cognome, fossero concepite sin da principio come pagine edificanti da gi­ rare a una più ampia cerchia di lettori. Tale cerchia com ­ prendeva sicuramente altri membri della confraternita; ma in essa finirono per essere inclusi anche lettori laici, fosse o non fosse questo ulteriore allargamento nelle in­ tenzioni di Guittone: posto che è un manoscritto laico (ovvero non destinato a contenere solo testi cristiani come i laudari, prodotti nei conventi ad uso dei conventi me­ desimi) quello che ospita la più cospicua raccolta di let­ tere guittoniane. E se Guittone, che scrive delle vere e proprie lettere ad hominem, con tanto di indirizzo, in­ tende farsi sentire da destinatari di secondo grado, la cosa sarà tanto più vera per quanti si servono sì della forma del trattato, ma la personalizzano immaginando di tenere un monologo di fronte ad un discepolo: così Albertano da Brescia, che nei suoi trattati morali recupera la tradi­ zione latina dei L ibri ad filiu m 21. 21 Cfr. YIntroduzione di P. Navone a Albertano da Brescia, Liber de doctrina dicendi et tacendi, Firenze, Ed. del Galluzzo 1998, p. X X IX ;

Un simile metodo d ’esposizione, centrato su un unico destinatario, è quasi del tutto estraneo alla nostra espe­ rienza. Certo, le opere di natura didattica o morale posso­ no anche oggi essere dedicate a un individuo particolare, ma è chiaro che esse parlano direttamente alla comunità dei lettori presenti e futuri, senza che occorra la mediazio­ ne reale o fittizia di un tu. Q uesto mutamento nella retori­ ca della didassi ha due ragioni principali. In primo luogo, nella società del libro a stampa - e a maggior ragione nel­ la società dell’editoria di m assa - lo scrittore non vede, non conosce più personalmente il suo pubblico. I legami di patronato si allentano, il numero dei possibili e non im­ maginati né immaginabili lettori cresce a dismisura: esiste una comunità delle persone colte e ad essa compete il giu­ dizio sull’opera. Certo, quest’ultima può, in origine, esse­ re legata al rapporto personale con un discente o con un determinato gruppo dì allievi, ma nel momento in cui essa assume la sua forma definitiva e viene consegnata al tipo­ grafo, le tracce di questa preistoria dell’opera general­ mente svaniscono. In secondo luogo, simmetricamente, la ridefìnizione e l’ampliamento del pubblico modificano il ruolo dello scrivente. Alla figura del maestro - legata a un uditorio scolastico, al limite ad un unico discente - si so ­ stituisce quella dell’intellettuale modernamente inteso: uno studioso che lavora in solitudine per il progresso del­ la scienza, e sottopone i frutti del proprio lavoro alla veri­ fica di altri intellettuali. Va da sé che questo passaggio dalla precettistica rivol­ ta a un tu alla teoria astratta, declinata impersonalmente, dev’essere inteso in maniera sfumata: e bisogna per esem ­ pio precisare che l’appello diretto a un tu ha luogo di so ­ lito nella didassi più semplice, poiché opere di impegno e mole maggiori o di taglio scientifico, non etico, rinun­ ciano spesso, anche nel M edioevo, a questo elementare impianto allocutivo. M a al di là delle opportune distinzioper i precedenti latini, cfr. G .F . Gianotti, / testi nella scuola , in Lo spa­ zio letterario di Roma antica , IL La circolazione del testo , Roma, Salerno Editrice 1989, pp. 421-466, alle pp. 433-438.

ni - che possono aiutare a circoscrivere e a spiegare il fe­ nomeno, ma che non lo negano - , non c ’è dubbio che il fatto di rivolgere il discorso a un destinatario interno il quale ‘sta per’ un pubblico più ampio corrisponda a una strategia retorica molto diffusa nella comunicazione colta del M edioevo nei settori più disparati (non venivano em a­ nate in forma di lettera, prima di essere raccolte nei ca­ noni, le decretali pontifìcie che fondano il diritto ecclesia­ stico?). Ciò che qui c ’interessa in maniera particolare è il fatto che a tale strategia ricorrano vari testi italiani di carattere didattico-morale: testi, questa volta, in versi. Si legga per esempio la prima stanza di una canzone databile alla se­ conda metà del Duecento: Messer lo conte Guido, a mio parere, a signor valoroso si conviene aver tre cose, e sanza quelle bene non si può già signoria mantenere, 5 cioè volere, sapere e potere: in queste tre cose si mantiene parte d’onor, com’a signor conviene che vuol in sua grandezza provedere. E s’a voi par che per poco sapere 10 falli in questo mio dir, faccia mia scusa la gentilezza ch’in voi è rinchiusa, che non s’acquista per monte d’avere ma vien propriamente dal Signore, che può dar e tener grazia e onore. Nulla di sicuro si può dire intorno al destinatario del testo (forse uno dei conti G uidi, una delle più insigni tra le dinastie toscane dell’epoca) così com e intorno al suo autore (forse un ‘vicino’ o un allievo di Guittone, forse Guittone stesso)22. Quanto al contenuto, nelle tre stanze successive l’autore sviluppa il programma anticipato nella prima indicando quale linea di condotta deve seguire chi, come il conte G uido, ha responsabilità di governo. 22 I dettagli in Giunta, Due poesie.

L ’interesse di questo testo risiede per noi, ancora una volta, tanto nel tema che vi viene affrontato quanto nella sua forma retorica. In primo luogo, così come la dottrina catara illustrata in Fonte di sapienza, anche i precetti de regimine principis sono, nella tradizione medievale, un ti­ pico tema da prosa latina: ma si è visto come i rimatori si approprino, in quest’epoca, di temi ‘da trattato’ che ver­ ranno giudicati più tardi incompatibili con la poesia. In secondo luogo, la scelta, in poesia, di un tema ‘da trattato’ di natura in largo senso scientifica o morale va spesso d ’accordo con un rapporto di tipo personalistico con' il lettore: lettore che può essere un altro poeta, nel qual ca­ so il genere che si realizza è quello della tenzone; o può essere non un collega ma il destinatario, noto all’autore, a beneficio del quale l’opera è stata concepita e scritta. In entrambi i casi, chi scrive ha di fronte a sé, almeno in pri­ ma istanza, interlocutori che può fisicamente vedere. Ve­ rifichiamo così non solo come proprio le tenzoni, piutto­ sto che i generi monologici, siano il luogo in cui nella let­ teratura medievale vengono affrontati argomenti da ‘loici’, ma anche come, molto spesso, testi didattici i quali non appartengono a tenzoni siano, in realtà, lezioni private che il poeta impartisce ad un unico allievo. M esser lo con­ te Guido è appunto un componimento di questo tipo. 4. In diacronia: i temi M esser lo conte Guido è un insegnamento morale di­ retto ad un principe, databile con ogni probabilità al tar­ do Duecento e significativo - ed entro certi limiti rap­ presentativo di un’epoca della letteratura - sia per il tem i svolto sia per il rapporto frontale che lega l’autore ad un solo lettore. Se ora ci domandiamo come cambino le cose in diacronia, e come questo cambiamento si in­ serisca nella generale trasformazione della poesia del M e­ dioevo, quella che registriamo è, simmetricamente, una duplice evoluzione, tematico-registrale da un lato, retorica dall’altro.

In primo luogo, alla vera intenzione didattica e mora­ lizzatrice di un testo come M esser lo conte Guido si sosti­ tuisce l’encomio: il poeta non insegna ma elogia, la poesia come comunicazione si converte in poesia come orna­ mento senza messaggio. Leggiamo per esempio le prime line stanze della canzone Benigno magno, scritta da Anto­ nio di Bonsignore sul finire del Trecento, circa un secolo dopo M esser lo conte G uido 23: retazione. L e tenzoni sono, a loro m odo, macrotesti rea­ izzati a quattro mani: in questo caso, però, la collabora­ zione non è sincronica ma si svolge in progresso di tem po, e la separazione delle voci risulta ben evidente: il testo è, se si vuole, uno solo, m a si com pone di sezioni relati­ vamente autonome. Distinto, anche se non opposto, è il

f

caso di quelle tenzoni che adottano schemi metrico-retorici propri della tradizione provenzale come le coblas doblas o le coblas tensonadas. In prim o luogo va osservato che si tratta di esperimenti duecenteschi del tutto isolati, che non aprono un filone alternativo a quello delle nor­ mali tenzoni in sonetti. D ell’unico caso di coblas doblas si è già detto (cfr. supra, par. 2.3). Q uanto allo schema a co­ blas tensonadas, in cui è previsto che le voci dei poeti si alternino all’interno della stessa stanza, esso è ripreso dai rimatori italiani soltanto nel sonetto; ma qui l’alternanza è per lo più fittizia: gestita da un unico autore che si sd o p ­ pia per esem pio nei personaggi dell’Amante e dell’Amata. I casi di effettiva collaborazione tra due poeti all’interno di un sonetto così strutturato sono, a quanto mi risulta, soltanto tre in tutto il D uecento (mentre non pare ve ne sia alcuno nei due secoli seguenti)73. La canzone di Provenzano e Ruggeri e i sonetti dialogati si distinguono dalle normali tenzoni in sonetti per due aspetti: il prim o è che qui la collaborazione è sincronica, e prevede la com pre­ senza dei due autori nell’atto della scrittura del testo; il secondo è che il testo che così si realizza è uno solo: a dif­ ferenza dei sonetti, le ‘battute’ - della lunghezza di una stanza o di 1-4 versi - non hanno autonom ia metrica. N ella poesia italiana del M edioevo non vi sono altri casi di collaborazione tra due autori nella stesura di un unico com ponim ento che si possano considerare assolutamente certi. D al momento che anche in quest’epoca, co ­ me si è detto, l’idea di lirica è associata a quella di since­ rità e assenza di artificio, i poeti non concepiscono le loro opere o quelle altrui come esercizi retorici bensì come rappresentazioni veritiere di una passione o di uno stato d ’animo: l’idea che due diversi poeti collaborino, fonden­ dosi in un’unica voce, ad un unico testo soggettivo con­ 73

Monaldo da Sofena collabora con frate Ubertino nel sonetto C i­ (cfr. R im e an tich e, p. 91); Monte Andrea collabora con Schiatta Pallavillani e con ser Cione rispettivamente in V 778-779 (sonetti di 28 versi con fronte e sirma raddoppiate) e in V 864 {idem ). tato son o a la corte d ’A m o re

traddice a questa visione ingenua - cioè nemica di ogni artificio - dell’arte. E d è significativo il fatto che anche nella «scu ola che più ha il senso della scuola» - m a in cui anche si insiste con più decisione sulla verità sentimentale dei testi - non si diano lavori di gruppo, e anzi la proprie­ tà letteraria venga difesa contro i possibili plagiari74. O ccorre dunque ben riflettere prim a di accettare co­ me genuine rubriche doppie apposte su Uriche am orose a struttura m onologica (in cui parla, cioè, la voce di un solo personaggio-am ante) come Sol per pietà o F vidi don­ ne, che si trovano attribuite a G u id o e a Iacopo Cavalcan­ ti, o com e S ’eo trovasse pietanza, che si trova attribuita ora a Re Enzo e Sem prebene da Bologna, ora a Re Enzo e G u ido G uinizzelli75. In questi casi infatti non si tratte­ rebbe né di consulenza tecnica prestata da un poeta ad un altro (consulenza che, come abbiam o visto, gli autori ac­ cettano e sollecitano) né di un dialogo a due voci ma della scrittura a quattro mani di un testo ‘non divisibile’, e in cui uno e uno solo è l’io lirico che si esprime. Rientra in questo quadro ma va considerato a parte il caso della ballata D ’una amorosa voglia, che il canzoniere P, testimo­ ne unico del componimento, attribuisce a due autori: Riccuccio da Firenze e Albertuccio dalla Viola. Stavolta infatti - diversamente dai casi appena menzionati - il testo è dialogato, e la ru­ brica doppia sembra alludere a una divisione dei ruoli di tipo teatrale: un poeta interpreta il ruolo maschile, l’altro quello fem­ minile. Ecco il commento di Avalle: «Nel più antico dei nostri canzonieri, il Pai. Banco Rari 217 del­ la Nazionale di Firenze, abbiamo ad esempio una ballata che porta una doppia rubrica: “ Riccucio de Fiorenza” e “Albertucio dala Viola” . L ’ipotesi più plausibile è che la ballata (com­ posta da Riccucio?) comprendesse originariamente oltre alla ri­ presa solo una stanza e che sia stata poi ‘vestita’, secondo la 74 La citazione è tratta da Contini, Introduzione a Dante, Rime, p. 256. 75 Cfr. rispettivamente C. Giunta, La ‘giovanezza’ di Guido Caval­ canti, in CN, LV 3-4 (1995), pp. 149-178, alle pp. 168-178, e Giunta, La poesia italiana, pp. 163-171.

j terminologia di Bembo [...], vale a dire fornita di un’altra stanza dal secondo dei due poeti (Albertucio?). La tecnica non è nuo­ va, in quanto ha, se non altro, un parallelo in una ballata attri­ buita a Gianni Alfani, Guato una donna dov’io la scontrai, e già segnalata da Contini [...], che un ramo della tradizione mano­ scritta presenta ridotta ad una sola stanza preceduta dalla ripre­ sa ed attribuisce ad un altro poeta»76. Ma un esame più attento della rubrica porta a respingere questa ipotesi. Essa si presenta infatti in questo modo: vaca cat Riccucio de florenga. Albertucio dalaviola Si tratta di una tecnica diffusa soprattutto nei manoscritti in littera textualis, che permette di cassare una porzione di testo sen­ za ricorrere alla rasura e senza guastare la pagina con una mac­ chia d’inchiostro: la scritta va-cat (qui per uno scorso vaca-cat) annulla la parola alla quale viene sovrapposta. Petrarca, per esempio, la adopera per tre volte nel codice degli abbozzi per segnalare che la sirma di un sonetto dev’essere spostata - passa­ re ad un altro sonetto - o soppressa (cc. Ir, lv e 2v). Il nome di Riccuccio compare quindi insieme a quello di Albertuccio per un errore nella seriazione delle rubriche: un errore d’anticipo, dal momento che di seguito, dopo una ballata adespota, il copi­ sta ha trascritto proprio i testi di Riccuccio77. L ’ip o te si d i u n a ste su ra a q u a ttr o m a n i d i te sti a m o ­ ro si g e stiti d a u n u n ic o io p o e tic o n o n p u ò d u n q u e c o n ­ ta re s u p r o v e c o n c lu d e n ti. P e r q u a n to r ig u a rd a in v ece i te sti ‘o g g e ttiv i’ n o n d ia lo g ic i (tali so n o le te n z o n i c ita te in p r e c e d e n z a ), la q u e stio n e s i p o n e p r o b a b ilm e n te in te r ­

76 Avalle, A i lu ogh i, p. G u ato una don n a, cfr. in fra ,

105. Circa la ‘vestizione’ e l’analogia con par. 9.3. 77 Che il nome di Riccuccio sia espunto era già stato osservato da L. Gentile nel catalogo de I cod ici F a la tin i d ella R . B ib lio teca N azio n ale C en trale d i F iren ze, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione 1889,1, p. 586, e ribadito da S. Santangelo, L e ten zo n i p oetich e n ella le tteratu ra ita lia n a d e lle o rig in i, Genève, Olschki 1928, pp. 24-25, e S. Debenedet­ ti, O sserv azio n i su lle p o e sie d e i M e m o riali b o lo gn esi, in S tu d i filo lo g ic i, Milano, Franco Angeli 1986, pp. 77-107, alle pp. 106-107 nota 60.

mini un p o ’ diversi, e ciò per due ragioni. D a un lato, l’ipotesi della collaborazione tecnica, dell’aiuto richiesto ad un collega più esperto perché corregga le imperfezioni metriche o linguistiche, sem bra qui più fondata. Chi scri­ ve poesia d ’amore è di solito abbastanza addentro alle re­ gole dell’arte da non aver bisogno di consigli su com e fare materialmente un testo; al contrario, quelli della poesia morale, politica o burlesca sono temi di pubblico dominio sui quali chiunque poteva avere un’opinione: soprattutto nel Trecento e nel Q uattrocento è cosa abbastanza com u­ ne che questa opinione venga espressa in versi, anche da dilettanti digiuni di nozioni tecniche. L a rubrica seguente, che introduce la canzone Napoli, benché 7 mio lamento è indarno nel ms. G addiano Rei. 198 (c. 83v), m ostra co ­ me un personaggio probabilm ente non del tutto a suo agio con le norme del m etro e della lingua letteraria p o ­ tesse com unque scrivere una canzone sull’attualità politi­ ca, affidando poi a un poeta di professione il com pito di ripulirla: «Q u esta è una canzona morale facta per lo malo stato de N apoli per Landulfo de Lam berto, e degrossata e poi aconcia per m isser Paulo de l’Aquila, prim o cava­ liere de la co ro n a »78. D all’altro lato, l’idea dì una colla­ borazione paritaria, senza distinzione tra form a e conte­ nuto, appare più plausibile quando invece che di senti­ menti individuali i testi in questione trattano di temi - co­ me la politica o la morale - che non coinvolgono diret­ tamente l ’io poetico: cioè che l ’io poetico rappresenta ma non vive. È forse il caso della ballata Kavalere messer L a ­ po, trascritta su una coperta pergam enacea conservata nell’Archivio di Stato di Bologna e ‘firm ata’, nel corpo stesso del testo, da due autori: «Q u esta fici Cibalino I e un altro (so) com pagnon | (lo) qual à nome Piacen­ tin o »79; ed è forse il caso del sonetto giocoso Guardatevi 78 Cfr. R. Coluccia, T rad izio n i au lich e e p o p o lari n ella p o e sia d e l R e ­ gno d i N a p o li in età an g io in a, in MR, Il 1 (1975), pp. 44-153, a p. 105. 79 Cfr. F. Pellegrini, L a ven detta d i C ib alin o , rim a in ed ita d e l sec. X III, in M iscellan ea in on ore d i A lb in o e N in a Z en atti, Verona, Franchi­ ni 1913, pp. 39-48 (w . 37-39).

dal lupo , che Filippo Scarlatti attribuisce, nel suo zibaldo­ ne, addirittura a tre autori insieme: «Sonetto facto per M aestro Simone e Philippo Scherlattj e Baccio da M onte G h o n zj»80.

9.3. ‘Vestizione delle ballate Tutto ciò che si è osservato sin qui sulla rarità delle collaborazioni tra poeti nel M edioevo sem bra essere smentito da un’osservazione di Bem bo nelle Prose della volgar lingua : « [L e ballate], quando erano di più d ’una stanza, vestite si chiamavano, e non vestite quando erano d ’una sola; sì come se ne leggono alquante nel Petrarca, fatte e all’una guisa e all’a ltra »81. Ballata vestita è dunque secondo Bem bo quella che conta più di una stanza; ballata non vestita o nuda quella form ata dalla ripresa e da una sola stanza; ‘vestire’ una ballata significa (o meglio signifi­ cava, nell’età a cui si riferisce Bem bo, il quale non ha espe­ rienza diretta del fenomeno, non parla della poesia del suo tempo) aggiungere una o più stanze ad una ballata monostrofica. Ciò prospetta l’eventualità di una collaborazione in diacronia: nel senso che l ’aggiunta, la vestizione’ p o ­ trebbe essere fatta, in un secondo tem po, da un autore di­ verso da quello a cui si devono la ripresa e la prim a stanza. N ei Poeti del Duecento , Contini osserva come la balla­ ta G uato una donna sem bri dare ragione a Bem bo. Nel canzoniere Escorialense (Esc) e affini il testo è attribuito a G iovan da Senno degli U baldini; nel Chigiano (Ch) a G ianni Alfani. Al disaccordo circa l’attribuzione si ac­ com pagna una disparità m orfologica: nel prim o caso il te­ sto si com pone infatti della ripresa e di una sola stanza, nel secondo della ripresa, di tre stanze e di una replicazio­ ne finale. Conseguente è l’ipotesi che il testo abbia avuto 80 Cfr. E. Pasquini, V en tu ri G in o ri L isci, 3 ),

ta 36, e 436. 81 Bembo,

I l codice d i F ilip p o S c a rla tti (Firenze\ B ib lio teca

in SFI, 22 (1964), pp. 363-580, alle pp. 379 no­

P ro se d e lla v o lgar lin g u a,

Il 11.

due redazioni, una in form a di ballata nuda (stadio atte­ stato da E sc) e l’altra in form a di ballata vestita (stadio at­ testato da Ch); ipotesi che sem bra avvalorata da ciò che l’autore scrive nell’ultima stanza e nella replicazione: 25

Tu se’ stata oggimai sette anni pura, danza mia nova e sola, cercando ’1 mondo d’un che ti vestisse; ed hai veduto quella, che m’imbola la vita, star pur dura 30 e non pregare alcun che ti coprisse. Però ti conven gire a lei pietosa e dirle: « I’ son tua cosa, madonna; tu che sai, fa ch’i’ sia ben vestita di tuo’ vai». 35 «Se tu mi vesti ben questa fanciulla, donna, uscirò di culla». «E saprò s’i’ serrai alcuna roba vaia, sì l’avrai».

Il poeta lamenta che questa «d an za» sia stata per sette anni «p u ra » (Contini: «sinonim o di sola»), vagando per il m ondo nella ricerca vana di qualcuno che la vestisse: ha anche chiesto l’intercessione della donna amata, perché incaricasse qualcuno di coprirla, ma senza risultato. O c ­ corre dunque che la danza si presenti un’altra volta al co ­ spetto della donna dicendole: «S o n o tua: fa dunque che io venga vestita con i tuoi abiti». N ella replicazione si svolge, secondo Contini, «un dialogo tra il poeta e la don­ na, che finge di intendere alla lettera». L a parafrasi d o ­ vrebbe dunque essere la seguente: «[P o eta]: Se mi vesti (cioè se vesti per me) questa fanciulla, o donna, uscirò dalla culla» (ma, osserva Contini, «p are inevitabile la cor­ rezione uscirà»-, dunque: «qu esta fanciulla uscirà dalla culla»). D el distico finale, che Contini attribuisce alla donna, si può intuire il senso complessivo: «S e ho riposto [serrai] degli abiti di vaio, allora li avrai (per coprirti)»; ma il prim o emistichio di 37, « E sap rò », resta inspiegato; né convincono il dativo etico al v. 35: «se tu mi vesti ben questa fanciulla» e, in generale, la successione delle voci

negli ultimi sette versi, dove a parlare in discorso diretto sarebbe prima il testo (32-34), poi il poeta (35-36), quindi la donna (37-38): successione che non è scandita da verba dicendi introduttivi del discorso diretto, contro l’uso pre­ valente in un’epoca nella quale non c ’erano i diacritici a sottolineare le pause tra le battute, e soggetti e verbi era­ no perciò generalmente esplicitati. C redo dunque che sia preferibile attribuire anche i versi della replicazione al te­ sto, o semmai alla replicazione stessa personificata. Ciò com porta qualche rettifica al testo Contini (virgola dopo ben, donna non più vocativo m a com plem ento predicativo del soggetto) e alla parafrasi: 35

Se tu mi vesti ben, questa fanciulla, donna uscirà di culla. E saprò s’i’ serrai alcuna roba vaia, sì l’avrai.

Resta oscuro il senso del distico finale (saprò oppure s’a­ pro, o pposto a serrai? E a sua volta, serrai oppure s’errai, dove serrare sarebbe congruente con il ‘cercare per il m ondo’ del v. 27?); ma ai w . 35-36 bisogna intendere: «S e m i vesti bene, questa fanciulla (cioè la ballata, che parla riferendosi a se stessa) uscirà donna dalla culla». Q uale che sia la giusta scansione e, di riflesso, la giu­ sta interpretazione degli ultimi versi, la ballata Guato una donna ci offre alcuni elementi di giudizio utili circa il p ro ­ blem a della ‘vestizione’ delle liriche nel M edioevo. In pri­ m o luogo, nella terza stanza l’autore si riferisce alla ballata chiam andola «danza mia nova e sola»; ne deduciam o che anche ciò che precede - la ripresa e le prim e due stanze - è stato scritto da lui («danza m ia»), che la m ano è una sola. L ’ipotesi della collaborazione a distanza, dell’inter­ vento di un ‘postillatore’ sull’opera di un altro poeta ha perciò scarso fondam ento: ed è probabile che l’opposizio­ ne tra G iovan da Senno degli U baldini (Esc) e G ianni Alfani (Ch) sia indipendente da quella tra redazione breve e redazione lunga. In secondo luogo, l’autore stesso fa ri­ ferimento alla vestizione del testo (w . 27, 34, 35) e ai

«v ai» (34, 38). Può trattarsi, come scrive Contini, di «v e­ ste m usicale», oppure «d i accoglienza e protezione attra­ verso l’immagine dell’investitura», oppure ancora, «in ac­ cordo con la definizione bem bina, della ballata non vesti­ ta o vestita a seconda che di una o più stanze». Q uest’ultima ipotesi è però contraddetta dal fatto che nell’ultima stanza e nella replicazione - cioè in quella zona che ap ­ parterrebbe alla ballata già vestita , alla redazione più este­ sa - si dice che la vestizione deve ancora avvenire. Ciò si­ gnifica che il poeta non chiede alla donna amata altri versi da aggiungere al suo testo ma, e torniam o alla prima alter­ nativa proposta da Contini, una sim bolica investitura o una veste musicale. L ’ipotesi dell’investitura, ossia del m etaforico gradim ento da parte dell’amata, è plausibile (anche se non è chiaro perché la fanciulla-testo «uscirà di culla»); ma alla luce di altre testimonianze due-trecente­ sche occorre concludere invece che vestire una ballata si­ gnifica sem pre, nel M edioevo, dotarla di un accom pagna­ mento musicale. E cco tre testi grosso m odo contem pora­ nei a G uato una donna. 1) L a ballata Per una ghirlandetta di D ante (18-24): Le parolette mie novelle, che di fiori fatto han ballata, 20 per leggiadria ci hanno tolt’elle una vesta ch’altrui fu data: però siate pregata, qual uom la canterà, che li facciate onore. 2) Il sonetto doppio Se Lippo amico di D ante (13-20), che presenta al destinatario un altro testo: forse la cobla Lo meo servente core (se così fosse, soggette a ‘vestizione’ non sarebbero soltanto le ballate): Lo qual ti guido està pulcella nuda, che ven di dietro a me sì vergognosa 15 ch’a torno gir non osa, perch’ella non ha vesta in che si chiuda; e priego il gentil cor che ’n te riposa

che la rivesta e tegnala per druda, sì che sia conosciuda 20 e possa andar là ’vunque è disiosa. 3) Il sonetto di Giovanni Q uirini Io t ’apresento, che trascrivo dal ms. M arciano Lat. X IV 223 ( = 4340), c. 21v, m odernizzando la grafia secondo i criteri consueti: Io t’apresento questa donzeletta, giovene ignuda sì come tu vedi, che vergognosa avanti li tuo’ piedi 4 umilemente s’inginochia et getta, pregando che pietà in te si metta, e che di questa vesta, che tu credi che più l’onori, grazia li concedi: 8 a ciò che vada e vegna poi soletta cum pregio adorna là dove desia, del titol del tuo nome incoronata, 11 cum’ fecer mie sorelle altra fiata. Tu se’ cortese, e cotal ambasata non spera il mio fator che sia irritata: 14 lo quale è tuo e seria tutavia. Il testo poetico, paragonato a una giovane donna, ha bisogno, per poter «andare dattorno» liberamente, da so ­ lo, di una veste che il destinatario è evidentemente in gra­ do di fornire. Se restasse ancora qualche incertezza sullo scioglim ento della metafora (ma «una vesta ch’altrui fu d ata» non sem bra poter essere altro che «la m elodia d ’un’altra ballata» [Contini]), una testimonianza più tarda, databile agli ultimi anni del Trecento, toglie ogni dubbio. Si tratta di una tenzone tra Franco Sacchetti e il m usico e poeta Francesco degli Organi. N el sonetto Veggendo tante piaghe (242a), Sacchetti prega l’amico di mettere in m usica un testo (che il sonetto accom pagna), identificato da Franca Ageno con la ballata Perché virtù (172): «D u n ­ que, col dolce suon, che da te piove | anzi che quel’ orribil giunga in terra, | priego ch’adorni le parole nove» (242a 12-14). N el sonetto di risposta, Francesco dice di aver «vestito» (di note) la canzone (nome generico che

può designare, così come una cantica della Commedia, an­ che una ballata) e la rispedisce al mittente: «V estita la canzon, che ’1 cor commove, | rimando a te, sì ch’ornai per la terra | cantando potrà gire, qui ed altrove» (242b 12-14). Vestire il testo significa dunque musicarlo: è la m usica la veste che permette alla ballata di andare libera per il m ondo; ovvero - usciam o finalmente dalla m etafora - è la m usica che fa della ballata un testo completo, fruibile da parte del pubblico attraverso il canto. N essuno vuole una ballata senza musica: e perciò essa si definisce nuda, inca­ pace di andare in giro da sola, in stato di minorità fino a quando non le viene assegnata una m elodia82. Resta così assodato, per tornare all’aspetto che più c’interessa, che se la vestizione del testo allude ad una collaborazione, questa è una collaborazione che si svolge in diacronia, e che vede all’opera non due poeti impegnati a trovare le parole di un unico testo ma un poeta e un musico.

82 A queste concordi testimonianze ne va aggiunta un’ultima la cui interpretazione appare meno scontata. A c. 173v del ms. 1289 della Bi­ blioteca Universitaria di Bologna è trascritta la ballata A m or, tu fie r i e s a n ’ com e t i p iace. Alla rubrica che la introduce - «Ballata del conte Ricciardo» (cioè del trecentista Ricciardo da Battifolle) - è stata aggiun­ ta in un secondo tempo la postilla: «non vestita» (cfr. Corsi, in R d T , p. 426, con l’elenco delle edd. precedenti). La ballata è monostrofica, sic­ ché la postilla potrebbe accreditare la spiegazione di Bembo: non vesti­ ta, cioè composta da una sola stanza, senza posteriori aggiunte. Ma ol­ tre al fatto che la rubrica può voler dire «non musicata» (così Corsi, senza incertezze), occorre tener presente che il codice bolognese risale alla seconda metà del Cinquecento, e la postilla «non vestita» sarà dun­ que coeva o più tarda: vale a dire che a vergarla fu un lettore del Bem­ bo, o un letterato che, come il Bembo (e, a questa data, forse anche sul suo esempio), adoperava la locuzione vestire un testo nell’accezione che era andata prendendo piede nel Cinquecento: un’accezione estranea, stando a quanto dicono le fonti, all’uso medievale. Per una diversa in­ terpretazione circa il problema della ‘vestizione’ delle ballate (un’inter­ pretazione concorde con quanto scritto da Bembo nelle P ro se : vestizio­ ne come aggiunta di stanze supplementari), cfr. G. Gomi, I l nodo della lingua e il detto ¿ ’A m ore. S tu d i su D a n te e a ltri d uecen tisti , Firenze, Olschki 1981, pp. 82-85.

9.4. Conclusioni In conclusione possiam o dire che, circa il tema della collaborazione, le differenze tra la poesia m oderna e quel­ la medievale non sono molto profonde. L a possibilità di una collaborazione che investa la sostanza del testo, cioè le parole e i concetti, è piuttosto remota, e sem bra addirit­ tura da escludere quando nel testo in questione l’io poeti­ co sia coinvolto come protagonista. L a possibilità di una collaborazione puram ente tecnica è invece contemplata e affermata esplicitamente com e cliché retorico, m a rara­ mente attuata, almeno nel cam po della Urica d ’arte. È ra­ gionevole pensare che talvolta vi fossero, proprio come oggi, verifiche e richieste di pareri tra colleghi, e che pri­ ma della pubblicazione i testi venissero fatti circolare al­ l’interno di una ristretta cerchia di amici letterati. Q uesta era per esem pio l’abitudine di N icolò da Correggio, che a persone fidate faceva «rivedere e assettare» i suoi versi, «p o i che cognosceva nessuno doversi in facto proprio fi­ dare del iudicio s u o » 83. M a si tratta qui di un normale scam bio di idee tra letterati e non di una collaborazione. La situazione a Uvello popolare-borghese, tra i dilettanti della poesia, è probabilm ente un p o ’ diversa. Il sonetto di Antonio Pucci menzionato in precedenza ci dice in che m odo la ‘collaborazione’ poteva svolgersi: qualcuno for­ mula il tema ed un altro (Ü poeta vero, che conosce le re­ gole dell’arte) lo mette in versi. Q ui però ci troviamo in un am bito di committenza, benché dim essa, e non di creazione a due; il concittadino del Pucci non agisce di­ versamente da com e agiscono i prìncipi nei confronti degh artisti che stanno alle loro dipendenze: lim itandosi cioè a ‘dare la m ateria’ del testo che vuole venga realizzato. M a, anche se le tracce che si possono trovare nella tradi­ zione m anoscritta sono scarse (per esem pio la rubrica ci­ tata sopra relativa a Paolo dall’Aquila), sarà accaduto sen­ z’altro che persone cólte abbastanza da poter scrivere dei 83 Cfr. Nicolò da Correggio, Bari, Laterza 1969, p. 543.

O pere,

a cura di A. Tissoni Benvenuti,

versi di proprio pugno si rivolgessero poi a un rimatore più esperto per averne suggerimenti e correzioni: sem bra im probabile che tutti i dilettanti che soprattutto nel T re ­ cento vengono coinvolti in corrispondenze in sonetti p o ­ tessero esprim ersi in versi senza ricevere un aiuto perlo­ meno tecnico. In tutto ciò non vi è, ripeto, nulla di sostanzialmente diverso rispetto alla situazione post-medievale. Che la poesia sia una creazione individuale e non un lavoro ‘di bottega’ nel quale si annulla la soggettività dell’artista è un concetto che appartiene tanto all’estetica dell’età m oderna quanto a quella del M edioevo. L a differenza tra le due non sta in una diversa concezione del rapporto che sussiste tra autore e testo bensì nel diverso tipo di relazio­ ne che si stabilisce tra la poesia e il pubblico. Ciò va sot­ tolineato con forza perché l’idea della poesia com e puro esercizio formale che può essere eseguito in collaborazio­ ne si lega a quella del testo in perenne mouvance, ‘rivissu­ to ’ in libere variazioni, e a quella della «inessenzialità del­ la proprietà e dell’in d ivid u o »84, cioè a tesi che tra la p o e­ sia m oderna e quella medievale pongono una sorta di di­ vario ontologico: laddove il divario è di tipo funzionale e retorico. L ’apertura della poesia del M edioevo è un’a­ pertura reale; il fatto che essa obbedisca ad un codice e che questo codice sia più povero di quello su cui lavora­ no i poeti m oderni non significa che il suo luogo si trovi nella letteratura, cioè nella rete di rapporti che unisce l’una opera all’altra. L a particolarità di molti testi poetici medievali consiste invece precisam ente nel fatto che, pur trattandosi di prodotti altamente formalizzati e ‘letterari’, ancorati alla tradizione, essi trovano la loro ispirazione e il loro scopo - ossia, in termini più schematici, le loro cause e i loro effetti - al di fuori della letteratura. Q uesta tensio­ ne verso la vita concreta si riflette sia nella scelta di temi che oggi rientrano nella categoria dell’impoetico sia nel­ l’atteggiam ento retorico che abbiam o docum entato nei

84 Contini, In troduzion e a Dante,

R im e,

p. 256.

paragrafi precedenti: l’orientarsi del m essaggio verso un lettore individuato. D i fronte a queste, che vanno considerate com e deter­ minazioni essenziali della poesia medievale, l’interesse per ogni altra relazione intraletteraria deve passare in secondo piano. Salvo quando tale relazione, essendo anch’essa frontale ed esplicita, non ha bisogno d ’essere scoperta dall’interprete ma semplicem ente constatata. Ciò può ac­ cadere attraverso due vie: nella citazione fatta a chiare let­ tere, all’interno di un testo, delle parole di un autore del passato; e nel dialogo diretto tra testi. D ella prim a even­ tualità direm o brevemente più avanti (cap. V par. 3.3); della seconda ci occuperem o invece subito nel capitolo seguente, dedicato alle rime di corrispondenza.

Le rime di corrispondenza

1. D ue tipi di tenzone Fatta eccezione per le rime degli stilnovisti, la poesia italiana del D uecento più copiata - e quindi, si pu ò im m a­ ginare, più nota al lettore m edievale - non è una po esia ma sono due: i due sonetti che com pongono la tenzone tra Bonagiunta Orbicciani e G uido Guinizzelli. E ssa figu ­ ra in due dei tre grandi codici databili al X III secolo e in molti m anoscritti tre, quattro e cinquecenteschi. Tali m a­ noscritti ignorano, talvolta, la restante produzione dei d u e poeti, segno che la tenzone poteva trasmettersi attraverso tre distinti canali: nel corpus di Bonagiunta, nel corpus d i Guinizzelli, com e autonom o pezzo di poesia; la cita infine un commentatore di Dante, l’Anonim o Fiorentino. U na presenza tanto assidua nei canzonieri si dovrà in parte al caso, in parte alla notorietà che ai due poeti era derivata dalla loro rappresentazione nel Purgatorio dantesco, in parte all’oggettivo interesse che il pubblico medievale p o ­ teva nutrire per questi testi. Si tratta infatti di un vero e proprio duello, di un conflitto di poetica che vede o p p o ­ sti da un lato un conservatore, nem ico dell’intellettuali­ smo che andava prendendo piede nella poesia più recente, e dall’altro un rivoluzionario accusato dal corrispondente di contam inare lirica e filosofia. Se anche la tenzone non è uno spartiacque nella storia della poesia duecentesca (perché il conflitto che vi è adom brato non è quello tra stilnuovo e antistilnuovo), essa è com unque un im portan­ te docum ento di poetica, e la sua fortuna nella tradizione manoscritta e la sua notorietà, anche presso i critici m o­ derni, rispecchiano l’oggettivo rilievo del suo contenuto. Consideriam o adesso, invece, la tenzone tra il pisano Gerì Giannini e un rimatore che il ms. L designa attraverso

le sole iniziali e la patria, «Si. G ui. da Pistoia», e che si può forse identificare con il Siribuono G iudice sotto il cui nome il ms. P trasmette una canzone (P 065)

4

Magna ferendome tuba ’n oregli d’orrato ch’ognor in te pregio regna, lo cor mi stringe, pur volendo vegli, com’eo pensando tuo conto devegna, e con onni argomento m’aparegli pugnando c’ad amico t’aggia e tegna

12 E, perch’ho ditto de l’amistà nostra, responsion chero qual ti sembra meglio: véglia tuttor la mantegnamo u fresca. Essendo stato «co lp ito » dalla fam a del poeta pistoiese e volendo stringere amicizia con lui, G erì ha pensato di stabilire un prim o contatto attraverso un sonetto: il corri­ spondente vorrà essere suo am ico? N ella sua replica per le rime, Siribuono loda il senno e l’arte di Gerì, ringrazia per il «d o n o » del sonetto, ne accetta l’offerta d ’amicizia. A bbiam o qui un caso esattam ente opposto rispetto a quello della tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli. Il m essaggio che i due poeti si scam biano riguarda infatti soltanto loro: né il (nullo) valore estetico né il contenuto della tenzone possono destare l’interesse di un comune lettore. L a sua sfortuna nella tradizione manoscritta riflet­ te questo stato di cose: L è l’unico codice che la tramandi. Vi è dunque 1) un tipo di tenzone oggettivo-ragionativo, in cui si dibatte una questione che può avere un certo interesse non soltanto per i due scriventi: per esem pio se la vecchia maniera di com porre versi, comunque vada in­ tesa, sia preferibile alla nuova. E vi è 2) un tipo di tenzone soggettivo-colloquiale, in cui invece l’occasione dello scam bio è offerta da un fatto privato che riguarda soltan­ to i due corrispondenti. Q uesta distinzione grossolana 1 L ’identificazione, proposta da Zambrini, è stata accolta da Conti­ ni, P D I, p. 331 (la forma abbreviata in rubrica andrebbe perciò corret­ ta in «Giu.»), ma rimane dubbia. Cito da P D I, pp. 332-333.

non dà ragione dei molti casi intermedi e va dunque usata soltanto per una caratterizzazione molto generale; m a aiuta a cogliere una diversità reale, una reale divaricazione. L ’ap­ partenenza al prim o o al secondo tipo determina infatti un’opposizione di genere molto netta. Com e avviene nei normali scam bi di lettere tra conoscenti, alle spalle del suo corrispondente G erì Giannini non vede e non immagina alcun pubblico: la trascrizione della tenzone nel codice tra­ sform a in oggetti artistici ‘socializzabili’ degli scritti che erano stati concepiti per la comunicazione privata. Al con­ trario, il contenuto della tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli - com e quello di altre tenzoni meno fortunate nella tradizione m anoscritta e però anch’esse d ’argomento sp e­ culativo - è condivisibile , tale cioè che ogni lettore può in­ teressarsi al tema in discussione e prendere partito. Si tratta dunque di testi poetici che s ’indirizzano al pubblico dei let­ tori attraverso la mediazione del dialogo con un corrispon­ dente m a che nascono sociali nel significato più am pio del termine (prova ne è il fatto che Guinizzelli non si rivolge frontalmente a Bonagiunta ma parla, in maniera generica, dell’«u om o saggio»). Potrem m o dunque dire che soltanto il prim o dei due tipi indicati (oggettivo-ragionativo) merita il nome di tenzone in quanto presuppone una diversità di pareri e un autentico contrasto, mentre per il secondo (soggettivo-colloquiale) sono più calzanti i nomi di ‘corrispon­ denza in versi’ e ‘rime di corrispondenza’. E potremm o d e­ scrivere e classificare le tenzoni medievali in famiglie più o meno prossim e a questi due estremi: l’oggettività della tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli (o quella anche m ag­ giore delle tenzoni su temi scientifici o etici o simili: dove il riferimento alla persona del corrispondente è soppresso del tutto), la soggettività della tenzone tra G erì e Siribuono. T ale classificazione può essere organizzata, a sua vol­ ta, secondo due diversi punti di vista: uno sincronico e ti­ pologico, che individui le fonti, i modelli formali sia della tenzone soggettiva sia di quella oggettiva; e uno diacroni­ co, che descriva il mutevole rapporto tra i due tipi di ten­ zone nella storia della poesia, ossia l’evoluzione del gene­ re. Adotterem o innanzitutto il primo punto di vista.

2. M odelli epistolari L a discussione di un tem a oggettivo, che porta i poeti a mettere in cam po il loro raziocinio e la loro cultura, e che ha risonanza pubblica; il dialogo su un tema privato (come l’amore vissuto, non teorizzato) o su nessun tema (come nella tenzone tra G erì e Siribuono), che non ri­ guarda se non chi vi prende parte: a queste due diverse form e della tenzone corrispondono due diversi modelli retorici, cioè due diversi generi del discorso che prestano il loro linguaggio al linguaggio delle corrispondenze in verso. E sse sono la lettera in pro sa e la quaestio scolastica.

2.1. L e norme dell’epistolografia come sapere diffuso N el capitolo precedente si è detto della tendenza di molta poesia medievale a rivolgersi non ad un generico pubblico di lettori ma ad uno o più interlocutori indivi­ duati. Q uesta proiezione verso l ’esterno giunge al m assi­ mo grado quando il testo poetico si modella sul genere prosastico per eccellenza comunicativo: la lettera. Che il discorso in versi a un tu imiti struttura e m odi d ’espres­ sione delle normali corrispondenze in prosa è del tutto naturale. D urante il M edioevo, l’epistolografia ebbe nel canone delle discipline umanistiche un peso oggi difficil­ mente immaginabile. L e tecniche secondo le quali dove­ vano essere scritte le lettere erano fissate dalla tradizione e insegnate nelle università dai m aestri del dictamen : trat­ tati interi venivano com posti sul tema, com e prontuari a cui il discente poteva rivolgersi non solo per rinfrescarsi la m em oria circa le partizioni e il form ulario che doveva­ no essere in ogni caso rispettati, m a anche per trovare già pronti dei campioni esem plari, dei modelli di lettere con­ cepiti in funzione dei diversi destinatari (funzionari p u b ­ blici, ecclesiastici, notabili ecc.). Q uale e quanto im por­ tante fosse il ruolo dell’epistolografia nella vita pubblica e nel rapporto tra le corti e gli stati risulta per esem pio chiaramente ad ogni pagina della Retorica di Brunetto L a ­

tini, dove i precetti del D e inverinone ciceroniano vengo­ no applicati alle circostanze della vita civile e, specificamente, alla comunicazione scritta. M a, anche al di fuori dell’università e delle cancellerie, non va dimenticato che la lettera era, per la grande m aggioranza degli alfabeti o dei semialfabeti, l’unica possibile forma di contatto con la cultura scritta: le poche regole fondam entali che defini­ vano il genere form avano così un bagaglio di nozioni lar­ gamente diffuso. Si aggiungano infine due ulteriori circo­ stanze, connesse stavolta più specificamente ai temi e agli autori di cui ci stiam o occupando: che una parte cospicua dei poeti due-trecenteschi era com posta da notai, cioè da individui legati per professione a quel tipo di espressione scritta; e che molti di loro alternarono l’attività artistica a quella di epistolografo, per uno scopo didattico di natu­ ra privata o, diciamo, sem ipubblica (è il caso di frate Guittone) oppure per conto del comune (Brunetto L ati­ ni), o del principe (Pier delle Vigne, lo stesso D ante d u­ rante l’esilio). D ato tutto questo, non si farà fatica a capire perché forme e tecniche dell’epistola in prosa finiscano per per­ meare in maniera così vistosa la letteratura: dovremmo stupirci del contrario. M a appunto: la letteratura o soltan­ to i testi di corrispondenza? Com e abbiam o visto, soprat­ tutto nel D uecento questa seconda famiglia tende ad al­ largarsi, ad espandersi fino ad annettersi opere che si defi­ niscono, almeno in prima istanza, in base a tratti pertinen­ ti diversi dall’allocuzione a un tu. A bbiam o verificato, per esem pio, il carattere personalistico (il che può anche voler dire: simulatamente personalistico) di buona parte della poesia m orale del M edioevo: i versi d ’argom ento edifican­ te o religioso s ’indirizzano (o simulano d ’indirizzarsi) per lo più a un interlocutore reale (o che si simula reale) il quale per così dire m edia il rapporto tra l’autore dell’o p e­ ra e il pubblico più am pio dei lettori. Ebbene, anche in casi com e questo, in cui il tu del destinatario interno è ri­ dotto a poco più che una convenzione, persistono nei te­ sti elementi tipici della comunicazione epistolare.

2.2. L ’influenza della retorica epistolare su form e poetiche diverse dalla tenzone Torniam o per esem pio su un testo al quale abbiam o già accennato, l’antico serventese veronese degli Insegna­ menti a Guglielmo pubblicato da C ontini2. N ei novanta versi che si sono conservati, l’Anonim o Veronese racco­ glie una serie di elementari precetti relativi al retto com ­ portam ento e alle buone maniere; m a nei versi d ’esordio, in cui è contenuto l’appello al corrispondente-allievo, è fa­ cile veder emergere il form ulario dell’epistola in prosa:

4

Compagno Guliemo, tu me servi tropo, e no me lo gitar possa adosso; mandote saluto quanto e’ posso: Deo te faga a bon porto arivar. Ve’ e recevo go ke te mando in scrito, e no fastidiare lo me’ dicto: pregote ke tu ’1 debie governare.

Il terzo verso è una salutatio scritta secondo i crismi del- ’ l’arte retorica3; il quarto una form ula augurativa anch’essa topica nelle corrispondenze in p ro sa 4; il quinto contie­ ne un riferimento del mittente al proprio stesso testo (del ' tipo in uso ancor oggi nelle lettere ‘ricevi questa m ia’, ' o sim ili)5; il sesto e il settimo sono rispettivamente una di- ' chiarazione di m odestia e un invito a conservare (governa­ re) le parole dell’amico, e anche in questo caso non m an­ cano i riscontri con la retorica delle lettere. ‘1 O p pu re consideriam o, sem pre a titolo d ’esem pio, quelle canzoni che G uittone invia a discepoli, amici o p a - (

i

Cfr. P D I, pp. 516-519. ■; 3 Cfr. per esempio Dotto Reali a Meo: «A te, Meo Abbracciavacca, ' Dotto Reali, menkno frate dell’ordine dei Cavalieri di beata Maria, ; manda salute» (L a p ro sa d e l D uecento, p. 98). 3 4 Cfr. per esempio Guittone, L e ti. XIII 2, subito dopo la s a lu ta tio :} «Amici frati, padri e signor miei, bono omni gaudio e ormi gioia met­ ta e tegna in voi onne die vostro el dibonaire bon Signore Nostro». j 5 Per casi analoghi nell’epistolografia latina, cfr. Lanham, «S alu ta-^ rio » F o rm u las, p. 61. J) 2

troni: testi non di tenzone m a anch’essi in senso lato di corrispondenza, e che dunque condividono per più aspet­ ti la retorica delle lettere in prosa, com ’è facile vedere confrontando Pepistolario e le rim e6. D ue casi duecente­ schi: l’età in cui è m assim a l’im portanza dell’epistolografia nella form azione dei letterati è anche quella in cui le for­ mule dell’uri dictandi lasciano un’impronta più profonda sulla poesia. Il fenomeno è meno diffuso nei secoli succes­ sivi, ma non scom pare del tutto. E cco per esem pio come, con due perfette salutationes, iniziano i due capitoli trilin­ gui di M atteo Correggiaio. Eugugo el Coregato tuo Matteo salutem copiosam velut gl de bien, de boneur, de pres et tote goie. Pietro Suscendullo, amico dilletto, Matheus Corigiarius cum salute sa arme e sun cors a toy servir otraye7. Q uesto conguaglio del discorso in versi sull’epistolo­ grafia non interessa tuttavia soltanto la poesia didattica ma anche la lirica d ’amore. Che un testo erotico parli di­ rettamente alla donna è, soprattutto nella lirica del M e­ dioevo, del tutto normale. Altro è però com porre testi che sono la registrazione di un discorso pronunciato di fronte all’amata, e altro è com porre testi che per le for­ mule che vi vengono im piegate e per la struttura rinviano 6 Cfr. E. Pasquini, In tersezio n i fr a p rosa e p oesia n elle L ettere d i in G u itto n e d ‘A rezzo n e l settim o centenario d ella m orte. Atti del Convegno Internazionale di Arezzo, a cura di M. Picone, Arezzo, Cesati 1995, pp. 177-204. Si pensi soprattutto alla giuntura formata dal titolo di m essere e dal nome del destinatario a inizio di testo: giuntura tipica della comunicazione epistolare e tipica (anche se non esclusiva) del Guittone poeta - «Messere Berto Frescubaldi, Iddio» (159.1: iden­ tico per struttura a 154.1, 156.1, 219.1) - per il semplice motivo che Guittone più di ogni altro scrittore del Medioevo tende ad avvicinare i due modi del discorso letterario. 7 L e rim e d i M a tte o C orreggiari, a cura di E. Lamma, Bologna, Roitmgnoli-DalTAcqua 1891, pp. 45 e 48. ( ìuittone,

al dictamen. Nella tradizione galloromanza era diffuso il ge­ nere del salut, vera e propria lettera in versi che l’autore invia alla donna amata, e che dell’epistola in prosa imita sia la struttura sia, per così dire, il contesto: alludendo per esem pio alla necessità di trovare un m essaggero fedele che consegni lo scritto, o sollecitando una risposta da parte del­ la donna (ciò che non accade nelle normali canzoni d ’am o­ re) 8. Il genere del salut non è presente nella tradizione ita­ liana, ma una situazione analoga a quella descritta nel salut si ha, qui, ogni volta che il poeta allude alle circostanze esterne, al contesto che fa da sfondo alla scrittura del testo. In un passo come il seguente, per esem pio, Cecco Angiolieri mostra di servirsi del sonetto com e di una lettera, e de­ scrive il processo di creazione e di fruizione com e fatti strettamente privati: il poeta scrive soltanto per la donna amata, e affiderebbe il suo sonetto-lettera a un m essaggero, ma dal momento che non ne trova (nel salut : dal momento che nessuno sarebbe abbastanza fidato) incarica il sonetto stesso di presentarsi a lei «d a la sua parte»; e la donna, dunque, non altri, ascolterà il m essaggio («e d ille...»)9: Sonetto, dapoi ch’i’ non trovo messo che vad’a quella che ’1 me’ cor disia, merzé, per Dio!, or mi vi va tu stesso 8 Sul rapporto tra il salu t e l’epistolografia in prosa cfr. Parducci, L a ‘lettera d ’a m o re ’-, l’In troduzion e di P. Bec a L e s salu ts d ’am o u r du tro ub ad ou r A rn a u d de M areu il, Toulouse, Privai 1961; E. Melli, l ‘s a lu t’ e l ’epistolografia m edievale , in «Convivium», XXX 4 (1962), pp. 385398; e Ruhe, D e am asio, pp. 97-119. 9 Angiolieri, III 1-6 (e per un caso analogo più antico cfr. il conge­ do di U no p iase n te ìsgu ard o , di Pier delle Vigne, dove la canzonetta è incaricata di andare dall’amata, di salutarla e di trasmettere un mes­ saggio). Anche la raccomandazione di ‘stare in disparte’, di non farsi sentire da nessuno, corrisponde a un’esigenza di riservatezza del tutto ovvia in quella comunicazione reale di cui qui si imita la dinamica; e la troviamo infatti anche in testi poetici realmente inviati a corrispondenti come Sonetto, se M euccio di Dante (8 «Ma fa’ che ’1 tragghe prima da un lato») e in Salu ta A n to n io di Iacopo Flabiani: «Saluta Antonio Tem­ po humel e piano | e datigli secreta mente in mano» (in F. Novati, P o eti ven eti d e l Trecento, «Archivio Storico per Trieste, l’Istria ed il Trenti­ no», I 2 (1881), pp. 130-341, a p. 139, w. 1-2).

4

da la mia parte, sì che bene istia; e dille ca d’amor so’ morto adesso, se non m’aiuta la sua cortesia, e quanto tu le parli, ista di cesso, ch’i’ho d ’ogni persona gelosia.

U no dei topoi retorici più diffusi nella lirica antica, la personificazione della canzone e il suo invio alla donna amata, sfrutta la m edesim a am biguità - il testo è scritto e tuttavia riceve l’incarico di parlare, è insieme m essaggio e m essaggero: Canzon, [...] ora ti piaccia che di te mi fidi, e vadi ’n guis’a lei, ch’ella t’ascolti; e poi le dì, quando le sè presente: «Questi sono in figura d’un che si more sbigottitamente» (Cavalcanti, IX 43-56). M a è chiaro che dal punto di vista funzionale si possono considerare come lettere in versi, sia pure indirizzate ad un interlocutore fittizio o assente, tutti quei com ponim en­ ti in cui il discorso am oroso assum e i tratti della confes­ sione e della dichiarazione frontale alla donna. Ciò appare chiaram ente quando il poeta sollecita, nel testo, una ri­ sposta da parte dell’amata, risposta che s’intende affidata a una lettera in prosa o, oralmente, a un m essaggero, non ad altra poesia: «O rm ai risponda m andatemi a dire; | voi che m artiri per m e sofferite» (N otaro, X V II 170-1); «e dille [la canzone alla donna] corneo m oro per suo amore; | e m andim i per suo m essaggio a dire ] com ’io conforti l’am or chi lei po rto» (Pier delle Vigne, A m ore , 36-38: in PD I, pp. 121-122)10. 10 Cfr. Dragonetti, L a technique p oétiqu e, p. 307: «Que la chanson courtoise soit conçue comme un message poétique, le vocabulaire de l’envoi, envoyer, mander, le montre assez; elle se rattache par là à la tra­ dition poétique épistolaire très cultivée au moyen âge dans la littérature latine, tradition qui eut son incidence sur la poésie courtoise».

2.3. Poesia come «tenzone tacita» N el commento al De inventione di Cicerone, Brunetto Latini spiega perché questa sussunzione dell’arte nella sfera della comunicazione privata può considerarsi legitti­ ma. Si tratta di un passo noto e più volte commentato, ma forse non ancora valorizzato adeguatam ente per quanto può dirci circa le idee dei contem poranei di D ante in m a­ teria di ‘teoria della letteratura’: Cosie usatamente adviene che due persone si tramettono [‘spe­ discono’] lettere l’uno all’altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o inn altro, nelle quali contendono d’alcuna cosa, e così fanno tencione. Altressì uno amante chiamando merzé al­ la sua donna dice parole e ragioni molte, et ella si difende in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce quelle del pregatore. In questi et in molti altri exempli si puote assai bene inten­ dere che Ila rettorica di Tullio non è pure ad insegnare piategiare alle corti di ragione, avegna che neuno possa buono advocato essere né perfetto se non favella secondo l’arte di rettorica

(76.14). L o ‘sponitore’ Brunetto Latini è giunto a quel punto cru­ ciale del D e inventione in cui si elencano e si analizzano le «sei parti della diceria»; il suo obiettivo è quello di esten­ dere la validità delle prescrizioni ciceroniane in fatto di retorica ‘oratoria’ (orale) dall’originario contesto forense a quello civile delle lettere e a quello per definizione pri­ vato del dialogo tra amanti - anche poetico: «in proxa o in rim a». Solo «un grosso intenditore» (un lettore su ­ perficiale) penserebbe infatti «ch e Tullio parlasse delle piatora che sono in corte, e non d ’altro» (76.3). L ’esten­ sione dei princìpi ciceroniani dal discorso forense al dicta­ men si spiega e giustifica nel quadro di generale m uta­ m ento della funzione della retorica nel passaggio dall’età antica al M edioevo. «D o p o la fine dell’Antichità - ha scritto Kristeller - , la pratica del discorso pubblico a cui l’educazione retorica rom ana si era soprattutto votata venne a cessare. L a retorica del prim o M edioevo si ridus­ se così a una teoria della com posizione in prosa, e come

tale occupò un posto di prim o piano nel curriculum » n. L ’applicazione dei princìpi ciceroniani alla poesia, e in particolare alla poesia d ’amore, rappresenta invece u n ’i­ potesi originale. Certo, chi com pone le poetrie m ediolati­ ne non ignora le tecniche dell’oratoria, ma difficilmente si potrà trovare una fonte in cui il parallelo tra retorica fo­ rense, epistolare e poetica venga portato avanti con tanta determinazione, e difficilmente si troverà affermata con altrettanta chiarezza l’unità di questi tre generi del discor­ so in virtù del loro comune indirizzarsi a un destinatario che dev’essere persuaso. Perché l’analogia tra questi di­ versi ambiti stesse in piedi occorreva però fare fulcro non sul m om ento della controversia - dato che spesso nello scam bio poetico ed epistolare il contrasto m anca del tutto - ma su quello, invece comune, della petitio n: Et ben è vero che Ilo ’nsegnamento ch’è scritto in adietro pare che ssia molto intorno quelle vicende che sono in tencione et in contraversia tra alcune persone, le quali contendano insieme l’uno incontra all’altro; e potrebbe alcuno dicere che molte fiate uno manda lettera ad altro ne la quale non pare che tencioni contra lui (altressì come uno ama per amore e fa canzoni e versi della sua donna nelli quali non à tencione alcuna intra llui e la donna), e di ciò riprenderebbe il libro e biasmerebbe Tullio e lo sponitore medesimo [cioè Brunetto] di ciò che non dessero in­ segnamento sopra ciò, máximamente a dittare lettere, le quali si costumano e bisognano più sovente et a più genti, che non12 11 P.O. Kristeller, R en aissan ce Philosophy a n d th è M edioeval TradiLatrobe, The Archabbey Press 1966, p. 24 (trad. mia). 12 La quale nella diceria (il discorso orale) viene assorbita dalla con­ ciusto. Che la p etitio sia un momento essenziale del discorso forense, Brunetto lo afferma nonostante il silenzio di Cicerone su questo punto; cfr. P. Sgrilli, R etorica e società. T e n sio n i an ticlassich e n ella «R etto rica» d i B ru n etto L atin i, in MR, III 3 (1976), pp. 380-393: Brunetto «non si limita a condurre il proprio discorso sul dettare a lato di quello del D e In v en tio n e sul dire, ma interviene sulla materia stessa di pertinenza di Cicerone per affermare che la p e titio deve costituire obbligatoriamente anche la ragione della diceria: “p e titio , avegnaché Tullio no Ila nomi­ nasse intra Ile parti della diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal ma­ niera ch’appena pare che diceria possa essere sanza petizione” (76.25)» (p. 388). tion,

fanno l’aringhiere e parlare intra genti. Ma chi volesse bene considerare la propietà d’una lettera o d’una canzone, ben po­ trebbe apertamente vedere che colui che Ila fa o che Ila manda intende ad alcuna cosa che vuole che sia fatta per colui a cui e’ la manda. Et questo puote essere o pregando o domandando o comandando o minacciando o confortando o consigliando; e in ciascuno di questi modi puote quelli a cui vae la lettera o la canzone o negare o difendersi per alcuna scusa. Ma quelli che manda la sua lettera guernisce di parole ornate e piene di sen­ tenzia e di fermi argomenti, sì come crede poter muovere l’ani­ mo di colui a non negare e, s’elli avesse alcuna scusa, come la possa indebolire o istornare in tutto. Dunque è una tencione ta­ cita intra loro, e così sono quasi tutte le lettere e canzoni d’amo­ re in modo di tencione o tacita o espressa; e se così no è, Tullio dice manifestamente, intorno ’1 principio di questo libro, che non sarebbe di retorica. Si tratta dunque, in prim o luogo, di un abile tentativo di recupero e di attualizzazione della retorica classica. L a tesi-guida del commento di Brunetto Latini (e lo scopo stesso che lo ha m osso al commento) è che gli insegnamenti del D e inventione ciceroniano non sono lettera m orta ma si possono spendere nella vita contem poranea, negli uffici pubblici com e nei rapporti tra privati. N on so ­ lo la Retorica mira ad un fine pratico, vale a dire alla for­ mazione di coloro che andranno a ricoprire cariche p u b ­ bliche, ma gli stessi esem pi introdotti nel commento a b e ­ neficio del lettore sono tratti sovente dalla cronaca com u­ nale. M ai però come nel paragrafo che si è citato l’obietti­ vo è perseguito con tanta chiarezza e tanto lim pida è la di­ mostrazione. O ccorre infatti mettere in rapporto tre d i­ stinti ‘generi letterari’: la controversia forense di cui tratta Cicerone, la lettera in prosa e la poesia d ’amore. M a - o s­ serva Brunetto - che co s’è m ai uno scam bio epistolare se non un particolare tipo di controversia (una «tencione ta­ cita») nella quale, proprio com e nel discorso forense, ogni lettera è arricchita da «parole ornate e piene di sentenzia e di fermi argom enti»? E che cosa sono le canzoni d ’am o­ re se non tipi particolari di epistole, petizioni in verso alla dam a «in m odo di tencione o tacita o espressa»? L a re­

ductio ad unum è così legittimata da una doppia affinità: affinità della situazione nella quale il parlante (o lo scri­ vente) è posto, dal momento che in tutti e tre i contesti - oratorio, epistolare, poetico - è presupposta l’esistenza di un tu o di un voi , presenti o assenti, che rappresentano i primi destinatari della comunicazione; e affinità funzio­ nale, a causa della perfetta convergenza degli obiettivi: convincere (e quindi ottenere) o confutare.

2.4. L a poesia d ’amore come caso dell’oratoria O ra, al di là del suo valore di docum ento per la storia della ricezione della retorica classica, questa pagina del commento al De inventione ci interessa proprio per quanto vi si dice intorno alla poesia. L a vediam o di solito ricono­ sciuta e classificata in base al suo contenuto (soggettivo, sentimentale, lirico ecc.) o in base alla sua forma linguistica o al metro. M a una delle conseguenze del ragionamento di Brunetto è che anche la lirica finisce per essere riportata integralmente sotto l’ombrello dell’oratoria: ciò che conta per la sua definizione è dunque una qualità retorica. A bbia­ m o visto qual è il comune denom inatore dell’arringa, della lettera e della canzone: la presenza di un pubblico o di un destinatario. In tanto la lirica può dirsi parte della «retorica di T ullio» in quanto anziché essere - come in altre epoche è - poesia centrata sull’io, essa è prim a di tutto ‘poesia ad un tu’, cioè allocuzione e discorso alla donna amata. Ciò che Brunetto sostiene in questo brano in maniera non del tutto esplicita - perché la letteratura ha, nella sua dim ostrazione, u n ’im portanza secondaria - non è perciò diverso da ciò che D ante dirà più chiaramente in un passo della Vita nova sul quale dovrem o tornare a lungo più avanti: « E lo prim o che cominciò a dire sì come poeta vol­ gare si m osse però che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole d ’intendere li versi lati­ ni». A ciò segue una considerazione sui temi, o meglio sul tema della poesia volgare: « E questo è contra coloro che rimano sopra altra materia che am orosa, con ciò sia cosa

che cotale m odo di parlare fosse dal principio trovato per dire d ’am ore». L a selezione tematica non è dunque altro che una conseguenza del particolare statuto com u­ nicativo assegnato dalla tradizione (e da Dante) alla lirica volgare: dei due periodi citati, il primo esprim e un apriori, Ü secondo un’implicazione necessaria. L a poesia si ri­ volge alla donna; alla donna si parla esclusivamente d ’a­ more (e questa è la prem essa minore non esplicitata da Dante): quindi la poesia deve parlare esclusivamente d ’a­ more. Brunetto non sem bra ammettere poesia am orosa diversa da quella che si concreta nell’appello alla donna e nella petitio («una tendone tacita intra loro»); Dante formula una legge ancora più generale: non ammette p o e­ sia che non sia d ’amore perché essa è nata allo scopo di parlare alle donne. L e due tesi hanno dunque un diverso raggio d ’azione e una diversa origine: quella di Brunetto nasce da una ri­ flessione sulla natura atem porale della poesia, quella di Dante è una considerazione di tipo storico. M a per entram­ bi l’elemento essenziale, quello che ‘fa’ la poesia, è, più an­ cora del tema, l’atteggiam ento retorico, l’oggetto verso il quale si orienta il discorso: perché la poesia è quel genere letterario in cui l’autore parla a una donna. Q uanto all’i­ dentificazione tra poesia e lirica amorosa, essa non solo non tiene conto di un altro im portante versante della p o e­ sia duecentesca, m a sarà lo stesso D ante a contraddirla p o ­ co tem po dopo aver concluso la Vita nova , scrivendo le canzoni m orali e progettando addirittura, e in parte realiz­ zando, un trattato didattico m isto di prosa e poesia. Alla domanda: «d i che cosa parla la poesia?», noi dovremo per­ ciò rispondere: non soltanto d ’amore, ma anche tra l’altro di morale, religione, politica. E alla domanda che, come ab ­ biam o visto, sia Brunetto sia D ante presuppongono nelle loro riflessioni, «a chi parla la poesia?», risponderemo: non solo alla donna, visto che (oltre a poter essere autoriflessiva e ‘lirica’ nel m oderno senso del termine, senza destinatario - un’eventualità però meno frequente di quanto si possa pensare, almeno in origine) i destinatari principali sono al­ meno due: la donna amata, appunto, e gli altri poeti.

Per quanto riguarda questa seconda opzione, tuttavia, è degno di nota il fatto che Brunetto non parli né delle ri­ me di corrispondenza - quali sono per esem pio il serventese a G uglielm o o le canzoni di G uittone citate in prece­ denza - né della tenzone. È possibile che il genere non avesse ancora, nella Firenze degli anni Sessanta in cui Brunetto stende il suo commento, quella diffusione che avrà di lì a poco grazie a Chiaro D avanzati e a M onte A n­ drea. M a è anche possibile che, a buon diritto, l’esem pio della tenzone non fosse considerato pertinente nel m o­ m ento in cui poesia, epistolografia e oratoria venivano d i­ m ostrate simili perché tutte e tre fondate sul contrasto, ta­ cito o esplicito, e sulla volontà di persuadere. L a tenzone poetica non aveva allora né avrà in seguito queste caratte­ ristiche: a differenza dell’arringa nei tribunali, o del di­ scorso deliberativo nelle assemblee, essa non nasce quasi mai da un contrasto di opinioni, e il suo scopo non consi­ ste generalm ente nel far cambiare idea al corrispondente, convincendolo della propria ragione. Ciò significa, da un lato, che il paragone con l’arte oratoria dev’essere lasciato cadere: tra coloro che partecipano a una tenzone non vi è infatti generalmente, nonostante il nome, «controversia o tencione»; dall’altro, che il paragone con le lettere in prosa deve concentrarsi non sul m omento della vera e propria petitio, volta ad ottenere e a ‘far fare’, bensì su quel frasario retorico che in entrambi i generi del discorso serve a mettere il corrispondente in una disposizione d ’a­ nimo favorevole: le «parole ornate» che «m uovono l’ani­ m a» del destinatario, ma senza punte polemiche o secondi fini. E d è proprio questa la strada che seguirem o nei pro s­ simi paragrafi.

3. Retorica della lode L e artes dictandi raccom andavano da un lato l’uso del­ le form ule di umiltà, dall’altro l’elogio e l’apprezzam ento dei meriti del destinatario:

A persona mittentis captabitur benivolentia, si de suis factis vel officiis vel affectibus alìquid humiliter protulerit. A persona ve­ ro recipientis captabitur, cum non solum mittentis humilitas set et recipientis laudes convenienter notabuntur13. E cco l’esordio di una lettera-modello in volgare, dai Par­ lamenti di G uido Fava: In la vostra presentia posto ademando humili mente cum prego audientia. Quanto abo maiore reverenda in la vestra bontà, quanto eo so maiore savere essere in voi, quanto de maiori me­ riti resplende la vostra persona, tanto dubito piu de favelare denango dela vostra signoria. E quello che savravi dire inanime altri, per Io timore c’ho de voi, non posso proponere in lo vostro conspecto. Ma la vostra gratia, la vosto benignità me conforta ch’eo genga dubitatione diga quello che la necessità me costringe. Unde eo clamo margè alla vostra paternità...14 E d ecco come quegli stessi accorgimenti vengono applica­ ti alle rime di corrispondenza. 1) L a lode: Alto di senno e di saper fontana da cui discende rivo d’ogni bene, nido verace ove natura tiene ciò che riceve da virtù soprana, dritta salute fosti che risana e alza e abbassa sì come convene, stella lucente donde luce viene che per ragione lima cosa vana13. 2) L a lode associata all’autodenigrazione, di solito in sonetti missivi che sottopongono al destinatario un quesi­ to che chi scrive non ha saputo risolvere:15

15 Alberico da Montecassino, R atio n e s dictandi, in Rockinger, B rief­ p. 18. 14 Guido Fava, P arlam en ti, pp. 232-333. 15 Reolfino da Ferrara a Aldobrandino: cfr. F. Brugnolo, I toscan i n e l V eneto e le cerehie toscan eggian ti , in S to ria della cultura veneta, II. I l Trecento, Vicenza, Neri Pozza 1976, pp. 369-439, a p. 372. steller,

Ma forse che m’inganna lo savere ch’e’ n’aggio poco, avengna che m’è danno. Voi ne dimando, che n’avete assai16. A cquei ch’è sommo dicitore altero e ched è spèro d’ogni tenebroso, con grand’umiltà mercé li chero che faccia clero me, che son pensoso. (L 331.1-4) Allo stesso m odo, e proprio perché - come scrive Brunet­ to nel Tresor (III 10) - la retorica della prosa non è diver­ sa dalla retorica della poesia, in una quaestio de nobilitate cui sono chiamati a rispondere Pier delle Vigne e T addeo da Sessa, il proponente scrive: «nam impericia mea non sufficit sic inplicitam dirigere questionem , ut potè que sensus exigit alcio re s»17. 3) A supporto e giustificazione della lode si cita la fa­ ma di ‘esperto’ di cui gode il destinatario (così, scrive Brunetto, nel discorso pubblico, per «acquistare la benivolenza degli uditori» occorre dire «com e la gente crede di loro tutto bene et onestade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra questo fatto » [La Rettorica, 100.1]). Aldendo dire l’altero valore che ’n vostro core regna a compimento, distringemi d’aveme acontamento, per dicimento o per altro labore. E conoscensa aggio che ’n me fiore no è locore... (L 327.1-6) Lo vostro fermo dir fino ed orrato approva ben ciò bon ch’om di voi parla. (Dante da Maiano, 3.1-2) 4) D al momento che si tratta di quesiti per lo più teorici, o che chiamano in causa l’esperienza delle cose 16 Anonimo a Monte Andrea (llOa 7-9). 17 Cfr. M. Del Giudice, L a «C o n te n tio d e n o b ilitate et an im i probitate » secondo i l codice d i F ita lia , in «Bollettino del Centro di studi filo­ logici e linguistici siciliani», 14 (1980), pp. 393-400, a p. 398.

del m ondo, è logico che la lode ruoti soprattutto intorno alla conoscenza e all'ingegno del corrispondente. Il sapere teorico è per esem pio al centro degli elogi che si scam bia­ no D ante e D ante da M aiano nella ‘tenzone del duol d ’a­ m ore’: [...] voi, cui paragone voco di ciascun c’àve in canoscenza loco (Dante da Maiano, 2 6-7) [...] di saver ver’ voi ho men d’un moco (Dante, 2a 6) ché ’1 vostro pregio in tal loco è poggiato che propiamente om noi poria contarla (Dante da Maiano, 3 5-6) conosco ben che scienz’à di gran nomo, sì che di quanti saccio nessun par l’à (Dante, 3 a 3-4) per me più saggio converriasi, corno vostro saver ched ogni quistion serra (Dante da Maiano, 3b 3-4). 5) M entre la ricerca di un sapere pratico, di un’espe­ rienza concreta dell’amore, è quella che spinge Binduccio da Firenze a rivolgersi a Cino, che anche altri poeti consi­ deravano come una sorta di autorità in fatto di cortesia (150a 1-6): Però che siete d’Amor sì secreto, fra gli amanti cavalcate la rota più che non fe’ tra’ pittor Pollicreto; né ’1 bon Tristan non seppe d’arpa nota, né si non seppe David l’alfabeto, com’ voi sapete me’ cui l’Amor dota. 6) M a poiché si tratta di quesiti in verso, di una poesia ragionativa che resta pur sem pre poesia, accade che l’elo­ gio riguardi anche l’eccellenza artistica del corrisponden­ te; così per esem pio nella tenzone tra Bonagiunta e un anonim o che lo paragona a Folchetto, a Peire V idal

e a O sm ondo (sulla cui identità si veda la prem essa al te­ sto di Contini): Di ciausir motti Folchetto tu’ pari non fu, né Pier Vidal né ’1 buon di ’Smondo: però m’inchino a te sì com’ fe’ Pari a Venùs, la duchessa di lor mondo18. Q ueste lodi e dichiarazioni di fiducia sollecitano a lo ­ ro volta, da parte di chi risponde, il ricorso a formule di m odestia, così che ad essere condizionati dalla buona nor­ ma del galateo epistolare non sono soltanto i missivi ma l’intera tenzone. Curtius ha distinto opportunam ente que­ sto locus retorico (la «dichiarazione d ’incapacità») dalle formule di devozione che sottendono una disparità di li­ vello tra autore e destinatario dell’opera, e che sono per­ ciò indipendenti dal tema affrontato nel te sto 19. 7) Nelle tenzoni, il corrispondente ammette di non sa­ per risolvere il quesito che il m ittente gli ha sottoposto (ma poi azzarda com unque una risposta): conoscitore bon sarei contento esser di ciò che ffu tuo piacimento dimandamento farmi... (Bacciarone a Natuccio, Tua scritta, 2-4)20 Ma non m’à Dio prestato ingegno tale, ni ad aprir gl’entelecti el podere, ben ch’io volesse, ch’el non v’è il sapere; sì che ti fa l’amor iudicar male. Volesse Dio che pur la terza parte fosse de quel che vuoli, et anchor meno (Dondi, XX I 5-10) 18 Cfr. P D I, p. 275. 19 Curtius, L etteratu ra europea (E xcu rsu s II: F orm u le d i devozione e u m iltà, pp. 453-459): «La dichiarazione di incapacità si distingue dalle formule di devozione e di sottomissione prima di tutto perché essa si ri­ volge al lettore e non (o per lo meno non necessariamente) a persona di grado sociale diverso da quello di chi scrive. Ciò che è comune a queste tre diverse formule è il concetto dell’autodiminuzione» (p. 456). 20 P D I, p. 325.

8) T opica è anche, sem pre da parte di chi risponde, l’allusione a una fam a che si sente di non meritare: Se loda fra la zente de me sona e zaschun bon om se n’adorna e apresta, de tal proposta alegr’è mea persona e tengolome ’n corona ed in festa, po’ ch’e’ non a?a cognossenza bona, ni sia cortese [...] (Paolo Zoppo a ser Manno, Ser Manno, 1-6)21 Se l’alta disclezion di voi mi chiama (per altrui voce, non per mio aprovato) loda, s’è per saggiar, nonn-ha salute: ma, qual ch’io sia, lo mio cor si richiama, per vostro onor seguire e fare a grato (Chiaro a Ubertino, 11-5) Form ule d ’umiltà molto simili a queste si incontrano, di nuovo, nelle lettere in prosa, e nei m odelli epistolari delle artes dictandi: «Q uam vis in me prudentia non existat et cognitio veritatis...»22.

4. Altre form ule fisse ’ di matrice epistolare nelle rime di corrispondenza 4.1. Inscriptio, salutatio, conclusio Al di sotto di questo form ulario della lode è inoltre frequente, nelle tenzoni, il ricorso a una microretorica e a una term inologia anch’esse mutuate dal linguaggio tecnico della corrispondenza in prosa. L ’apostrofe al d e­ stinatario in apertura di testo è un dispositivo che serve a stabilire o a rinnovare il contatto, un segnale fatico. M a 21 R im a to ri b o lo gn esi d e l X I I I secolo, p. 139. 22 Guido Fava, P arlam en ta et epistole, in A. Gaudenzi, I suoni, le fo rm e e le p arole d e ll’odiern o dialetto d ella città d i B o lo gn a, Torino, Loescher 1889, p. 131.

resta com unque una tecnica non necessaria e non canoni­ ca: non quanto, per esem pio, nella tenzone provenzale, dove l’apostrofe all’inizio di ogni cobla ha un significato e un’utilità più evidenti, dato che si tratta di testi effettiva­ mente recitati in praesentia2i\ ed è sintomatico il fatto che essa sia soprattutto presente nei versi di un poeta come G uittone d ’Arezzo, il quale, come si è detto, tende a in­ terpretare la poesia come una variante dell’epistola in prosa, una lettera versificata. Così, tutte le form ule di apostrofe che egli e i poeti della sua cerchia adoperano nelle rime si trovano anche, con leggere variazioni, nell’e ­ pistolario: si confronti per esem pio il verso «P erò, bel dolse amico, il sofferire» (L 338.15) con la prosa «M a cer­ to, bel dolce amico, se dire verta volem o» (Leti. X X V 4); o il verso «D iletto e ccaro mio, nova valore» (Guittone, L 272.1) con la prosa «D eletto e caro mio, da tacere ora quanto G ianni Bentevegna» (G uittone, Leti. I I ) . L a menzione del nome del corrispondente nei testi missivi è cosa normale, e che non ha particolari connota­ zioni stilistiche, essendo possibile incontrarla, per dire, tanto nei sonetti burleschi di Rustico quanto in quelli m e­ ditativi di Petrarca. N ei testi invettivi, tuttavia, si ottiene talvolta un effetto d ’ironia e comica deferenza sia attra­ verso l’aggiunta del cognome, specie se celebre e altiso­ nante (come nei missivi di C ecco Angiolieri a Dante: D an­ te Alighier, Cecco, tu’ serv e amico e Dante Alighier, s ’i ’ so ’ bon begolardo), sia attraverso l’anteposizione al nom e del­ l’epiteto che com peteva ai notai, messer(e) o ser(e): «A voi, m essere Iacopo comare, Rustico s’acom anda fedel­ m ente» (42.1-2)2324. 23 Cfr. S. Kay, Subjectivity in T rou b ad ou r Poetry, Cambridge, Cam­ bridge University Press 1990, p. 146. 24 Anche il ser Martino della C om m ed ia , il ser Durante del F iore, il «ser costui» di un sonetto forse dantesco {A m ore e m onna L ag ia ) testi­ moniano probabilmente di questa genericità d’uso (cfr. Contini in Dan­ te, R im e, p. 501). Che l’epiteto potesse essere adoperato ironicamente e per spregio è confermato del resto dalla novella LXIV di Sacchetti, il cui protagonista, «Agnolo di ser Gherardo, uomo quasi giullare», chia­ mato «ser Benghi» dai concittadini per burla, viene ripreso così dalla

Nelle lettere, l ’apostrofe al destinatario può dare luo­ go a giochi etimologici sul nom e o alla cosiddetta interpretatio nominis. Nelle Rationes dictandi attribuite ad Alberico da M ontecassino, quest’ultima è raccom andata come risorsa della captatio benevolentiae : Consuetudinis est preterea, ut ex recipientis nomine materiam sumamus salutationis, ut eum magis ad benevolentiam provocemus hoc modo: si videlicet vocatur Benedictus, vel Gratianus, vel Iohannes, quod gratia Dei interpretatur, vel Benignus, vel Amatus, vel similibus nominibus, sic in cuiuslibet salutatione possumus exordiri [seguono esempi]25. L ’artificio viene consigliato anche nelle poetrie : «Argumentum sive locus a nomine est quando per interpretationem nominis de persona aliquid boni vel m ali persuadetu r » 26. N on stupisce, dunque, trovarlo usato con grande frequenza nelle tenzoni italiane. Q ui si può distinguere tra semplici giochi sul nome, com e quelli fatti dai corrispon­ denti di Palam idesse Bellindote, om onim o di un cavaliere della Tavola R oton da27, e vere e proprie interpretationes, attraverso le quali - in armonia con quanto suggerito nei trattati di retorica - il nome del destinatario è m esso in re­ lazione con una sua qualità o un suo vizio morale. D el no­ me si constata allora l’appropriatezza:

moglie: «Sì, che tu se’ uscito della memoria affatto, o vecchio mal vissu­ to; che maladetto il dì ch’io ti fu’ data per moglie [...]. Ed è peggio che, perché tu se’ chiamato ser Benghi, di’ che tu vi se’ per notaio. Doh, tri­ sto, non ti conosci tu? [...] Non consideri tu che tu se’ lavoratore di la­ na, e altro non hai se non quello che tu guadagni?». 25 Alberico da Montecassino, R atio n e s dictandi, in Rockinger, Briefsteller, p. 18; sulla probabile apocrifia del trattato cfr. la voce dedicata ad Alberico nel D B I (A. Lentini), voi. I, pp. 643-645. 26 Matteo di Vendóme, A rs Versificatoria I 78, in Farai, L e s arts p oétiques, p. 136. 2' «Palamidesse amico [...] | Ben sai che magno pregio fue d’Artù | e gra- lumera celar per lanterne» (Chiaro, 54.1-6); «Pallamidesse, c’al ‘Merlin’ dai corso» (Monte, 97.14); «Oi tu che sè errante cavaliero, | de l’arme fero e de la mente saggio, | cavalca piano, e dicerotti il vero» (Orlanduccio, in P D I, p. 473).

«Lo nom’al vero fatt’ha parentado: | le vacche par che t’abbiano abracciaio» (Guittone a Meo Abbracciavacca); «Se ’1 nome deve seguitar lo fatto, | vera vita è la tua, fra Guittone» (Ubertino a Guittone, interpretato come ‘guitto’); «Poi di tutte bontà ben se’ dispari, | tu, Bonagiunta, di noia rimondo» (Anonimo a Bonagiunta); «Monte che n’alto sali, eo veggio mo’ ’n te | savere» (Rinuccino a Monte Andrea). O ppure, al contrario, del nom e si constata l’im proprietà, la m ancata corrispondenza tra il nome e la qualità o il di­ fetto che esso lascia divinare: «Leal Guittone, nome non verteri» (Bandino a Guittone); «Per nome Paulo molto per fanone, | per gentilezza Paulo de traverso [...] Qualch’om v’apella Paulo in intensione | da dritto seno tengolo diverso» (Pietro da Bologna a Paolo Zoppo: dove Paolo è interpretato come paulum ‘poco’); «Non vi dovrebbe di mesi villannj, | chiamar algun, ma tuto dir cortese» (Giovanni Quirini a Matteo Mezzovillani). Nelle lettere, il nome del destinatario com pare all’ini­ zio della form ula di salutatio. I trattati sottolineano l’im ­ portanza della salutatio nell’epistola - «la salutazione è così parte della pistola com e l’occhio dell’u o m o »28 - e ne regolamentano la forma. I tratti caratteristici sono due: l’im piego della terza persona, non della prima (per­ ché è la lettera che parla, e porta il saluto del mittente), e la frequente soppressione del verbo (optat, mittit ecc.), che viene sottinteso29.

28 Latini, L a R ettorica, 76.27. 29 Cfr. per esempio Ugo da Bologna, R atio n e s dictandi, e Corrado, Su m m a de arte p ro san d i, in Rockinger, Brie/steller, risp. pp. 55 e 461. Sull’uso della terza persona cfr. anche la P alm a di Boncompagno da Signa: «Salutatio est quoddam ineffabile gaudium mentis, quod aliqua voce vel actu exprimi non potest. Eo modo anima movetur ad optandum alicui saluterò per verba tertie persone». Quanto al verbo, esso può essere sottinteso ma può anche, specie in antico, essere espresso: cfr., anche per i brani poetici che cito subito sotto, l’ampia rassegna di Lanham, « S a lu ta tio » F orm u las, pp. 31-42.

Nelle rime di corrispondenza, questo schema è osser­ vato alla lettera da Gianni Alfani nel suo missivo a C aval­ canti: «G u id o , quel G ianni ch’a te fu l’altr’ieri | salute, quanto piace alle tue risa». D ove è da notare l’elisione del verbo reggente; l’anteposizione - secondo buona norm a epistolare30 - del nome del destinatario al proprio; l’e ­ spansione «quanto piace», analoga a quelle che si trovano nei formulari latini: «salutem et quicquid excogitari potest m e liu s»31. Analoga fedeltà alle regole della salutatici in prosa si osserva in un sonetto di area angiolieresca (1-4): Salute manda lo tu’ buon Martini, Berto Rinier, de la putente Magna. Sacci ch’i’ ho cambiati i grechi fini a la cervugia, fracida bevagna (anche «sacci che...» è una form ula di ascendenza episto­ lare - notum sit vobis quod... - che introduce alla narra­ tici) 32. In altri casi, l’adesione alla norm a è m eno scrupolo­ sa, e il saluto si fa in prima persona, ma la matrice episto­ lare è lo stesso evidente (e la variante è contem plata per esem pio da Corrado di H irsau: «n on multum [est] contrarium ratio n i»)33: «Salute e gioia mandovi, ser Pace, | eo vostro amico sol per udienza» (P 178.1-2); «S o lo per ac­ quistar vostra contia | porgo salute a voi, sagio om o e fran co» (Binduccio a Cino, 150a.l-2).

30 Cfr. Alberico da Montecassino, R atio n e s dictandi, in Rockinger, p. 41; e Cugusi, L ’ep istolografia, p. 385: «L ’inversione [cioè l’anteposizione del nome del destinatario al nome del mittente], sugge­ rita da deferenza nei confronti del destinatario, ebbe grande fortuna nel tempo, soprattutto nelle lettere ufficiali e presso i cristiani». 31 Boncompagno, T ab u le salu tation u m , V 22. 32 Cfr. Cugusi, L ’epistolografia, p. 403; in volgare, si pensi a formule come contio sia a vo i , sap iate q u e e simili, nelle lettere senesi pubblicate da ultimo da A. Castellani, L a p rosa italian a delle origini, I. T e sti toscan i d i carattere pratico, voi. 1: T rascrizion i, Bologna, Patron 1982, pp. 200, 402 e p assim . 33 Su m m a de arte p rosan di, in Rockinger, B riefsteller, p. 461. B riefsteller,

Nelle lettere, la conclusio prevede spesso una nuova formula d’umiltà e rispetto, qualcosa di simile al ‘servo vostro’ in uso an­ cora modernamente. E lo stesso accade nelle rime di corrispon­ denza, nel Duecento: «Spetialmente vostro mi conservo, | ancor ch’io sia d’i servi d’Amor servo» (Picciolo, Prego ch’audir, 5556); nel Trecento: «Del visitar lo meo cor ve ringraccia, | ch’a tiò siti dengnato, e me condonno | sempre servir a voi, qui vo­ stro sono» (Matteo Mezzovillani, Vostro saper, 15-17); «Servo son vostro, e con amor sincero | a’ piacer vostri tutto mi profe­ ro» (Antonio da Faenza a Sacchetti, 257a 15-16); e nel Quattrocento: «per voi si mostri | accettarlo per servo ai servi vostri» (Antonio di Meglio, L ’alma pensosa, 79-80, citato da F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifi­ co, Pisa, Nistri 1891 [Firenze, Le Lettere 1977], pp. 358-359, da vedere anche per altri esempi coevi). Chiude la lettera, allora come oggi, la sottoscrizione. E sono appunto sottoscrizioni in versi quella di N icola in un missivo a Cino: «e quest’è la risposta di N iccola» (1 58d .l4); o quella di Antonio da T em po nel sonetto E ’ non si può cielar a Iacopo da Im ola, con incluso l’indiriz­ zo del mittente: «A ntonio Chan di T em po si è ’1 mio no­ me: | D a Pava fui, testé a Vinegia storne»34.

4.2. Terminologia ‘tecnica’ A bbiam o così verificato com e le parti della lettera possano essere trasferite in poesia e possano m odellare le parti del sonetto e della canzone di corrispondenza. Resta da dire di un ultimo aspetto un p o ’ meno visibile di que­ sta retorica comune, cioè della terminologia. Al pari delle form ule appena passate in rassegna, singole locuzioni o vocaboli tecnici, impiegati principalm ente nell’epistolo­ grafia, trapassano sia nella lirica sia nelle corrispondenze in verso. L ’Abate di Tivoli apre così il suo terzo m issi­ vo a G iacom o da Lentini: « Con vostro onore facciovi uno ’nvito | ser G iacom o valente, a cui mi ’nchino» (X V IIIe 134 Morpurgo,

R im e in edite,

p. 161.

2); la stessa form ula s ’incontra nell’Anonimo G enovese, e anche qui la sua funzione è quella di richiamare rispet­ tosamente l’attenzione del partner. « È prego no ve increxa, | respondi’me, per vostro honor» (138.4-5). È un’e­ spressione di riverenza tipica dell’epistolografia e del di­ scorso pubblico: «Supplica la mia parvitade [...] che vui, per Deo e per lo vostro onore» (Guido Fava, Gemma purpurea, in La prosa del Duecen­ to, p. 7); «De amico ad amicum [...]. Voi m’audirite e intenderite per lo vostro honore» (Guido Fava, Parlamenti, p. 234); «Alla vostra gentilisia debia plaxere audire noi per la sua grada e ho­ nore»; «Voi, misere Alberto [...] audiriti e intenderite noi per lo vostro honore» (Id., Parlamenti, pp. 242 e 243); U n’altra tecnica d ’esordio vuole che ci si raccom andi al destinatario; lo fa per esem pio G uittone nella lettera alla Com piuta Donzella: «Soprapiacente Donna, di tutto com ­ piuto savere, di pregio coronata, [...] G uitton, vero devo­ tissimo fedel vostro, de quanto el vale e pò se m edesm o racomanda». Anche questo esordio cum commendatione si trasmette dalle lettere alle rime di corrispondenza: «A voi, messere Iacopo comare, | Rustico s’acomanda fedelmen­ te» (Rustico, 42.1-2; e cfr. la nota di Marrani, con altri esempi pertinenti); «Però che séte paragon di sagio | e d’ogni caono scenza fina giunta, | a voi mi racomando, non per sagio | né per maestro, ma per Bonagiunta» (Bonagiunta, XÙ 1-4). Vi è infine un lessico comune ai due campi, relativo al la­ to per così dire materiale della comunicazione: scrittura del testo, consegna, replica, e via dicendo. T ra i vari esem pi, segnalo il verbo rescrivere, che sia nelle epistole in prosa sia nei testi in verso ha il preciso significato di ‘scri­ vere in risposta’: «A ciascun’alma presa e gentil core | ... | in ciò che mi riscriva ’n suo parvente» (Dante); «Così rescritto el meo parer ti rendo» (Dante da Maiano a Dante, D i ciò che stato, 12); «anzi per rima più te ne riscriva» (Orlandi a Dante, Poi che traesti, 10); «Ma

Dante, rescrivendo a messer Cino» (Cecco d’Ascoli, Acerba, III

1974). Il confronto potrebbe continuare se dal piano della struttura e delle formule ci spostassim o su quello dei m o­ tivi. In ogni tipo di comunicazione scritta personale, in prosa o in verso, si danno infatti alcuni motivi ricorrenti: per esem pio il rimprovero all’amico perché da troppo tem po non si fa sentire, o la preghiera perché il corri­ spondente sia riservato circa il contenuto del m essaggio35. Q uesti ed altri motivi sono presenti nelle rime di corri­ spondenza. U na descrizione più dettagliata dei contatti tra poesia e prosa a questo livello sarebbe tuttavia di poca utilità dal momento che qui non si tratta tanto di contam i­ nazione tra la retorica epistolare e quella della tenzone, cioè di travaso della prima nella seconda, quanto della complanarità dei due generi, ossia dell’assunzione, da parte delle rime di corrispondenza, di quegli stessi conte­ nuti quotidiani e occasionali che sono propri della com u­ nicazione privata in prosa. Ciò significa che il conguaglio form ale della tenzone sull’epistola in prosa, che qui si è cercato di documentare, non è la causa ma l’effetto, il ri­ flesso di un conguaglio tematico e funzionale. L e corri­ spondenze in versi possono trattare gli stessi argomenti delle lettere in prosa, possono ripeterne i motivi e svolge­ re la loro stessa funzione (cioè la comunicazione di un m essaggio privato, che non ha alcun interesse per altri let­ tori), e perciò possono imitarne il linguaggio. Nella tenzo­ ne tra G erì e Siribuono che ho citato com e esem pio la di­ scussione non verteva su alcun tema oggettivo ma serviva ad avvicinare, a far diventare amici il mittente e il destina­ tario. Per chiudere il cerchio e com pletare il parallelo tra poesia e prosa di corrispondenza non resta dunque che m ostrare come proprio questi potessero essere anche il registro e la funzione delle lettere. Un buon esem pio è la lettera inviata da G iacom o arcivescovo di Capua a Pier 35 Una rassegna di questi 403 e 407-408.

loci

in Cugusi,

L ’epistolografia,

pp. 402-

delle Vigne; poche righe in cui lo scrivente offre al desti­ natario la sua amicizia e il suo servizio3é.

5. I l modello della «quaestio» 5.1. L ’influenza della « quaestio» sulla poesia medievale È nota l’importanza della quaestio - e della sua varian­ te ad uso dei retori, la quaestio disputata - nell’evoluzione del pensiero medievale. Q uesto m etodo d ’indagine fonda­ to sul confronto tra tesi opposte e sul superam ento di tale opposizione per forza di dim ostrazione logica fece le sue prime prove in Bem oldo di Costanza e in A belardo, nel X I e X II secolo, si rafforzò e perfezionò grazie alla tradu­ zione del corpus aristotelico per raggiungere infine piena maturità nel X III secolo, penetrando in ogni cam po del sap ere3637. Il fenomeno ha tuttavia portata ancora più vasta, perché il m etodo non si limita a m odificare le tecniche dell’analisi e dell’argomentazione ma influisce sulle strut­ ture stesse della mentalità tardo-medievale, sicché, per ci­ tare l’esem pio più memorabile, il dem onio può, nel X X V III canto dell’Inferno, far sua l’anima di G u id o da M ontefeltro grazie a una sottigliezza da loico, ben degna degli scolastici del tem po di Dante. Posta questa generale influenza sui processi di pensiero degli intellettuali del M edioevo (dunque anche dei poeti), dobbiam o ora verifi­ care se ad essa abbia corrisposto, nei testi in versi, un’e­ guale incidenza al livello dei temi e, soprattutto, delle 36 E qui, come spesso anche nelle poesie di corrispondenza, l’assen­ za, accanto ai complimenti e alle lodi, di un vero e proprio messaggio fa sì che lo stile inclini al concettismo: «Amicitiae novellae sinceritas quae a vestrae curialitatis effluvio amicabiliter traxit exordium, statina Stu­ dium scribentis allexit ac inextricabili quadam dilectionis ymagine Jacobinum animum informavit. Processus tarnen habitus caritativis argu­ mentum arguitur quod ibi me vestra praecessit dilectio ubi vos in amorem credideram prevenisse...» (ed. Huillard-Bréholles, V ie et corre­ spondan ce, p. 358). 37 Cfr. Grabmann, Storia d e l m etod o , I, pp. 281-282.

strutture retorico-argomentative. Poiché il nostro tema principale sono i generi dialogati, è su questi che ci con­ centreremo particolarmente, non senza però aver detto che l’influenza della quaestio scolastica si fa sentire anche nei generi m onologici e lirici. G ià in un’altra circostanza ho richiamato l’attenzione sulla canzone In quanto la na­ tura , data adespota dall’unico testimone, il ms. P, ma at­ tribuibile a Bonagiunta O rbicciani38. L ’interrogativo che in essa viene discusso (4-6: «u n d ’à più dirictura | lo gran cognoscim ento, | da nodrim ento o da natura, quero») proviene direttamente dall’/lrr poetica di O razio (408409): «N atura fieret laudabile carmen an arte | quaesitum est». Q uesto passo dell’Arr non era però un luogo com u­ ne. E sso non ebbe cioè, nel M edioevo, notorietà pari a quella dei versi - citati e glossati in continuazione nelle lecturae oraziane - che al principio dell’opera trattano delle norme del decorum e della scelta del soggetto39. La scelta della fonte e del tema da parte di Bonagiunta è in­ dicativa di un costum e mentale: anche nei classici si cer­ cano e si riutilizzano quei brani che più sono in armonia e più si prestano al m etodo dilemmatico che veniva ado­ perato negli studia medievali. E d è poi il m odo stesso in cui Bonagiunta sviluppa il tema a confermare che il tenta­ tivo è stato proprio quello di ricavare dalle parole di un classico la tram a per una quaestio e di metterla in versi. Q uello appena menzionato è un caso estremo e, che io sappia, isolato nella poesia monologica del M edioevo, ma è probabile che una ricerca mirata porterebbe a sco­ prire infiltrazioni del m etodo scolastico in altri testi coe­ v i40. Q uanto ai generi dialogati, l’aver fatto riferimento 38 Cfr. Giunta, L a p oesia italian a, p. 141. 39 Cfr. M.-B. Quint, U ntersucbun gen zu r m ittelalterlichen H oraz-Rezeption, Frankfurt am Mein, Lang 1988, pp. 211-212. 40 L ’influenza, se non del metodo, della mentalità scolastica si av­ verte, per esempio, nella canzone A m or, nova ed an tica van itate di Lapo Gianni (XTV), le cui stanze sono bipartite non solo metricamente ma anche retoricamente: mentre la fronte si apre sempre con un’invocazio­ ne ad Amore e con un’affermazione intorno alla sua natura, la sirma si apre con l’espressione Provo ciò, o Provol, cui segue la dimostrazione

non precisam ente alla quaestio disputata m a a un generico spirito dialettico che pervade i più diversi ambiti della vita intellettuale dopo il Mille servirà per intanto a non pecca­ re di determinismo, cioè a non interpretare com e prove di una filiazione diretta quelli che sono in realtà indizi di un contatto ambientale pertinente sì per la storia del genere ma non (o non in m odo verificabile) per la sua genesi. N on direm o dunque che le questioni quodlibetali discus­ se nelle università produssero la tenzone, provenzale o italiana, né - benché qui l’analogia form ale tocchi il suo grado estremo - il jo c partii (il quale potrebbe essere con­ siderato come una sorta di parodia della quaestio disputa­ ta , una sua versione secolarizzata). C i limiteremo invece a dire che in un’età e in regioni nelle quali la poesia volga­ re già da sé, per ragioni storico-sociali che almeno in certa misura è possibile individuare e descrivere, era una forma di comunicazione o di spettacolo e non, o non solo, una form a d ’espressione lirica com ’è oggi - in quell’età e in quelle regioni il m etodo scolastico fondato sulla quaestio aveva rivoluzionato le form e in cui scienza e filosofia veni­ vano portate di fronte al pubblico delle università e ai let­ tori: al m onologo frontale del docente e del trattatista, alla sem plice esposizione di teorie la cui veridicità era garanti­ ta dalle auctoritates, si era sostituita la lenta conquista del vero attraverso una lunga catena di argomentazioni prò e contra. E direm o perciò che, al pari del dictamen, il m e­ todo della quaestio influenzò un certo num ero di autori e di testi agendo, rispetto al dictamen, su quell’altra forma di dialogo che abbiam o esem plificato con la tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli: cioè prestando termini, locuzio-

della tesi appena enunciata. Affinità tra la struttura della q u aestio e quella di alcune canzoni morali di Dante sono state notate da B. Nar­ di, D a l « C on vivio» a lla «C o m m e d ia » (se i sa g g i d anteschi), Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo 1992, p. 15. Nel son. 132 di Petrarca, infine, S ’am o r non è, «il discorso non solo si conforma allo schema della q u aestio scolastica [...] ma ne rispetta anche la successione canonica se­ condo il modulo della q u aestio an sit, cui seguono quella q u id et q u a lis» (Santagata in Petrarca, C an zon iere , p. 643).

ni, strutture e persino temi alla tenzone di tipo ‘oggettivoragionativo’. Q uesta influenza si avverte sin dai prim ordi del gene­ re, nella poesia siciliana. E cco la fronte del sonetto Solici­ tando (X IX a) di Iacopo M ostacci, inviato a G iacom o da Lentini e a Pier delle Vigne: Solicitando un poco meo savere e con lui mi vogliendo diletare, un dubio che mi misi ad avere, a voi lo mando per determinare. Il tema ‘cortese’ non deriva ovviamente al M ostacci dalle quaestiones scolastiche; il fatto che alcuni poeti discutano di questioni teoriche come la natura dell’amore si spiega sì alla luce di quella invadenza della dialettica a cui ho accennato, e che genera anche e principalmente la quae­ stio , ma appunto per questo il rapporto con essa rimane areale, non puntuale. Puntuale diventa soltanto al v. 4: « a voi lo m ando per determ inare», perché la determina­ no è precisam ente il giudizio che il docente form ula al termine della quaestio disputata assegnando la ragione e il torto: Les historiens sont d’accord pour dire que la quaestio disputata comprend deux moments: une séance de discussion et une au­ tre où le maître apporte sa solution. La première est connue sous le nom de disputatio, la seconde est appelée determinatio. Dans la disputatio ont proposait le thème, on avançait les argu­ ments [...], Dans la determinatio, le maître apportait sa solution doctrinale et répondait aux arguments avancés tout en les réor­ ganisant éventuellement dans un ordre théorique plus adéquat à son but41.

41 L e s q u estio n s disputées, p. 59; e cfr. ora M. Picone, L a tenzone de am ore tra Jaco p o M ostacci, P ier della V igna e il N o taio, in II genere « ten ­ zone» , p. 23.

5.2. Terminologia ‘tecnica’ D i qui possiam o prendere lo spunto per un esam e molto som mario del retaggio della terminologia scolastica nella nomenclatura letteraria e nella poesia di corrispon­ denza. Q uanto alla nomenclatura, è possibile che nel p re­ ciso significato di confronto dialettico, cioè di quaestio di­ sputata,, vada inteso il termine questione che il copista di P adopera talvolta per introdurre sonetti missivi conte­ nenti un interrogativo, in genere di natura teorica; ed è possibile che alla formula spesso usata nelle reportationes - «quaestio talis fuit proposita» - vada avvicinato il nome di proposta con cui talvolta vengono definiti i sonet­ ti m issivi42. Q uanto alla presenza del lessico della quaestio nei testi, essa si osserva facilmente in alcuni termini tecni­ ci come, di nuovo, questione , definire (cioè determinare, decidere), sentenza, apporre e simili: «Dico dunque che ’1 caso è difinito» (Lapo Salterelli, Vostra quistione, 13); «Provenzano, or tramettiamo | questa nostra kostune» (Ruggeri Apugliese a Provenzano Saivani, v. 82); «a ciò che voi m’avete adimandato, | vo’ che vi piaccia che disfinigione | ne faccia» (Pacino, Poich’io son, 4-6); «Però vostra quistion rimane in cheto» (cioè non ha ragione di porsi: Cino a Binduccio, 150.9); «Fòr di rasgioni, le quistioni c’appo- \ ne, son corrette» (Monte, 103.7-8; Minetti, p. 266, rinvia alla Retorica di Brunet­ to: «la causa proposta [...], la quistione aposta»)\ «Amico, pro­ veduto ha mia intenzione | [...] | ma non ne so ben trar vera sen­ tenza» (Chiaro, 122.1-4); «Sentenza aspetto, e, di ciò mi confido, | per essa provarò per argomento» (Gonella a Bonodico, Una rason, 9-10); Sentenza appartiene alla quaestio scolastica ma ad essa giunge dal lessico forense: decidere una discussione teori­ ca ma, prima, decidere una causa. Al linguaggio giudizia­ rio rinvia inoltre, com e ha osservato Menichetti, una for­ m ula come quella usata dal perugino Ridolfo: «che contra

42 Cfr.

L e s question s disputées,

p. 241.

di te quistion movo et argo», calco dell’espressione foren­ se «accu so et a rg u o »43. E nello stesso am bito va cercata probabilm ene l’origine di un altro termine apparentem en­ te non connotato - riprendere, riprensione-. «Qual om riprende altrui ispessam ele, | a le rampogne vene a le fiate» (Abate di Tivoli, XVIIIc 1-2); «ond’e’ ripreso sò che sono assai» (Monte, 41.13); «E però te n’è posta riprensione» (Schiatta, 42a 3); «È non ti calglia mai di ripigliare | cosa onde conoscente voi non siate» (Monte, 50.7-8); «avegna ch’io perdon’ vostro ripreso» (Chiaro, I 48); «di ciò ch’i’ ho detto mi puoi far ripresa» (Chiaro a Dante, Se credi, 4); «e guarda non ti far riprenditore | ca fora sè di quello che contendi» (Rinuccino, V ille 3-4); «Adunque, amico, guarda che riprendi, | ché ben ài senno, ardimento e modo» (Orlandi, XVII 9-11). L a norm ale dinamica del dialogo, in versi o in prosa, b a­ sta forse a spiegare perché il motivo della riprensione, del rimprovero e del biasim o, si presenti con tanta frequenza: il dibattito può sem pre scendere dal piano delle idee a quello della vita concreta, e concentrarsi sui vizi e le d e­ bolezze dell’avversario. D ai contesti dei brani appena ci­ tati vediam o tuttavia che la riprensione esprim e sem pre una divergenza di ordine concettuale e teorico, non etico, che in questione è il pensiero, non la condotta di vita del corrispondente. N el brano seguente, tratto ancora dalla Retorica di Brunetto Latini, questa matrice intellettualisti­ ca è evidente, dal m omento che riprensione vale ‘obiezio­ ne, correzione’ nel gergo dei polemisti: Ma certo e’ dovea così riprendere coloro che giungeano alla ma­ teria di quest’arte confortamento e disconfortamento e consolamento; e lui riprende Tullio nominatamente perciò ch’elli era più novello e perciò dovea essere elli più sottile, e riprendelo an­ cora però che ssi traea più innanzi dell’arte; e riprendendo lui pare che riprenda li altri. Ma però che Tubo non disfina lo ri­ prendimelo delli altri... (La Rettorica, 23.2).

43 Cfr.

P o e ti perugin i,

I, p. 184.

E tuttavia il termine ha radici ancora più profonde, che ci riportano nuovamente all’am bito forense. L a reprehensio è infatti una delle partizioni classiche dell’oratoria secon­ do Cicerone; ecco il passo del De inventione tradotto da Brunetto: « E t dice che riprensione è quella parte della di­ ceria nella quale il parliere reca cagioni e ragioni et argo­ menti per li quali attuta e m enom a et indebolisce il confermamento aell’aversario» {La Rettorica, 1 6 2 4 ). D a que­ sta ‘parte della diceria’ ricavano il termine-chiave di ri­ prensione i testi poetici che si sono citati.

5.3. Formule, tecnica argomentativa e temi Se dal livello delle parole ci solleviamo a quello della form a retorica e della struttura dei testi di corrisponden­ za, constatiamo la presenza di una tecnica argomentativa che appartiene tanto all’epistola in prosa quanto alla quae­ stio disputata senza essere specifica né dell’un tipo di di­ scorso né dell’altro. Il ricorso alle parole altrui, siano quelle della saggezza popolare o siano quelle dei saggi che si sono espressi sul tema, è frequente tanto nella dialettica quanto nel dictamen, e in generale in ogni testo, pronun­ ciato o scritto, che abbia com e suo scopo la dim ostrazio­ ne di una tesi. N ella quaestio , l’argomentazione si sviluppa e rafforza grazie alla citazione prò o contra di brani estratti dall’opera degli scrittori più autorevoli. N ell’epistologra­ fia morale, analogamente, quelle citazioni servono ad ar­ ricchire e a suffragare le opinioni di chi scrive. In alcuni casi la poesia è semplicemente una form a dell’epidittica, ed è per questo che le poetrie mediolatine suggeriscono di aprire il testo con un proverbio che catturi subito l’assen­ so del lettore: «praem ittendum est generale proverbium , id est communis sententia, cui consuetudo fidem attri­ buii, opinio communis assensum accom m odat, incorruptae veritatis integritas ad q u iescit»44. O ppure di chiudere il 44 p oétiques,

Matteo di Vendóme, p. 113.

A rs versificatoria,

I 16, in Farai,

L e s arts

testo con un detto che ne sintetizzi il contenuto e resti m emorabile: «Sum itur autem finis a proverbio, quando tota materia decursa elicimus quam dam sententiam communem, quae pendet ex m ateria»45. M a anche nelle rime di corrispondenza lo scopo è spesso quello di dimostrare un assunto. D i qui il senso e l’utilità di un avvio senten­ zioso: «O m o ch’è saggio non corre leggero» (Guinizzelli a Bonagiunta); o di una form ula di chiusura lapidaria, co­ me quelle che si trovano spesso nelle code dei sonetti di tenzone. M a di qui soprattutto la tendenza a servirsi del­ l’argom ento ex auctoritate , cioè a citare e, tecnicamente, ad allegare il parere di un personaggio rinomato per la sua saggezza come san G regorio: «se più de l’arco tuo saietta fièr qua | allegherò quel testo di G re g o rio »46; o ad accu­ mulare le autorità che convalidano la propria tesi: « E io ve ’1 m osterrò con uvacciansa, | segond’uzansa del bon Salam one, | e P etr’A lfonso» (L 356 5-7). Il proverbio ini­ ziale - secondo il suggerim ento delle poetrie - pu ò essere allora un proverbio d ’autore: «G eronim o, com ’ credo voi sapete, | dice che scude chete | d ’umiltà facci’om contra ’1 d isp e tto »47; e così la m assim a che chiude il testo - qui ad ­ dirittura una citazione nella lingua originale: « S e vói d ’Am or o d ’altro bene stare, ! magistra sit tibi vita aliena , | disse C ato en su ’ versificare» (Angiolieri, l l l b 12-14). E poiché il tema della poesia è spesso l ’amore cortese (ma a volte l’amore com e problem a astratto, non com e espe­ rienza), ecco che anche da questo ambito possono prove­ nire i detti memorabili, così che i ‘saggi’ m oderni si trova­ no a fianco degli antichi nel rango di autorità: è ciò che accade a Guinizzelli nel sonetto (teorico ma non, in senso stretto, di corrispondenza) Amore e 7 cor gentil di Dante. Il prim o aspetto nel quale è possibile verificare l ’in­ crocio tra linguaggio della poesia e linguaggio della non­ 45 Goffredo di Vinsauf, D ocum en tarn de arte versificandi, III 5, in Farai, L e s a rts poétiques, p. 320. 46 Ridolfo a Manfredino, Tu com enciaste, 12-13 (P oeti p erugin i, I, pp. 190-191). 47 P D I, pp. 329-330 (Anonimo a Terramagnino, 1-3).

poesia è dunque la form a dell’argomentazione, cioè la ter­ minologia e l’im palcatura retorica. D al momento che essa è uno spazio regolamentato da consuetudini e leggi, G u i­ do Orlandi, parlando dei tre diversi tipi d ’amore (com u­ ne, carnale, naturale), può fare al suo corrispondente una richiesta come questa {Più ch’amistate intera , 8-11): Saver lo voglio se ’1 primo [genere d’amore] v’assale come disio per farne gioia e festa con voi, meo sire: fat’esto latino, usandoci rettorica corretta. («V oglio sapere se vi assale il prim o tipo d ’amore, se mi siete amico, per festeggiare la cosa con voi: chiaritemela, seguendo le leggi della retorica»). Il modo dell’argomentazione è invece, come abbiam o appena visto, il secondo aspetto della tenzone influenzato dalla prosa ragionativa ed epidittica. Chi scrive un testo di corrispondenza può e talvolta deve rafforzare le sue tesi con una citazione autorevole. Anche questo è uno spazio regola­ mentato da consuetudini e leggi, e perciò D ante da M aiano può porre al suo destinatario, D ante Alighieri, una condi­ zione che riguarda non, come nel sonetto di O rlandi, la for­ ma del risposta, ma il suo contenuto (Lasso, lo dol, 9-11): Però pregh’eo ch’argomentiate, saggio, d’autorità mostrando ciò che porta di voi la ’mpresa, acciò che sia più chiara D ‘'autorità: «citando testi filosofici o com unque sentenzio­ si (auctoritates ), come nelle dimostrazioni scolastiche in piena regola» (Contini). Com e già abbiam o visto trattando del rapporto tra epistolografia e tenzone, vi è infine un terzo livello di in­ terferenza, quello del tema scelto come spunto per la di­ scussione. Q ui la ricerca si fa ancora più com plessa, per­ ché così come la tenzone è una form a tematicamente aperta, il più aperto e inclusivo dei generi poetici m edie­ vali, allo stesso m odo la quaestio può affrontare virtual­ mente ogni argomento: libertà che, va ripetuto, è il segno

di una comune inclinazione alla dialettica, all’approfondi­ m ento attraverso il dialogo di ogni aspetto del reale, non di un rapporto di filiazione tra i due generi. Certo ogni tenzone in cui si discutano questioni di tipo scientifico 0 etico-filosofico può essere eguagliata alla disputatici ac­ cademica. M a in tutta la poesia italiana del M edioevo vi è solo una tenzone che sem bra trarre il suo argom ento di­ rettamente dal repertorio delle quaestiones, e precisam en­ te dalle quaestiones giuridiche. Si tratta dello scam bio in sonetti doppi tra D ino C om pagni e L ap o Salterelli, e la differenza rispetto alle normali tenzoni di carattere erudi­ to consiste nel fatto che qui non viene affrontato un p ro ­ blem a di natura puram ente teorica ma il mittente sottopo­ ne al destinatario un caso concreto, sul quale questi è chiamato a fornire un parere da specialista, codice alla mano. Il caso è il seguente: una donna, sposatasi tre volte, m uore lasciando due figli e il terzo marito, il quale si ri­ sposa ed ha, dal nuovo matrimonio, un’altra figlia. M uore anche lui: a chi dei tre figli tocca l’eredità? L ap o propone un com prom esso: dividere il patrimonio in parti uguali fra i tre figli48. L o svolgimento è dunque qui, piuttosto che quello della quaestio - dove si glossano le fonti e si discutono 1 princìpi generali - , quello della disputatio, dove non si elabora la teoria ma la si applica ai casi49. M a di questione , genericamente, si parla nel missivo e nel responsivo: O sommo saggio di scienz’altera, secondo legge impera fior d’equitate e naturale usaggio, 48 Cfr. Compagni, R im e, pp. 327-329. 49 Cfr. L e s qu estio n s disputées, pp. 31-40; di casi analoghi, e delle norme corrispondenti, si tratta nel C orpus iu ris civilis, II. C od ex lustin ian u s, ree. P. Krueger, Berolini, Weidmann 1906 (V 9, D e secundis n uptiis ), e nel commento di Cino: C y n i P istorien sis in C odicem doctissim a com m entarla, 2 voli., Torino, Bottega d’Erasmo 1964 (L ib. V, tit. IX, rubrica EX: «Mater ubi habet bona diversorum maritorum et diver­ sos liberos, veniunt liberi cuiuscunque matrimonii ad bona ex ilio ma­ trimonio quesita»).

per Dio, me date una sentenza vera d’una quistion leggera ch’è nata di diritto maritaggio. (Compagni, 1-6) Vostra quistione è di sottil matera, di ragione stranera; onde convienmi provedenza maggio che mio senno non porta, più intera scienza che non era lo mio proveder di tal loco saggio. (Lapo, 1-4) Per capire quale posto questa tenzone occupi nella tradizione del genere, e il suo rapporto con il m odello della quaestio disputata, può essere utile il confronto con il jo c partii, cioè con quel tipo di dialogo nel quale i poeti s’im pegnano a discutere un problem a scelto dal mittente difendendo due opposti punti di vista: varietà galloro­ manza della tenzone che, com e vedrem o, ha ispirato an­ che alcuni poeti italiani. O ra, il jo c partit è precisam ente quel sottogenere in cui, a differenza di quanto accade nel­ le normali tenzoni, si affrontano questioni oggettive, che sollecitano il raziocinio e la capacità dialettica dei partners, non la loro esperienza. Ciò non significa che del ‘ca­ so ’ non si possa indicare l’origine in un evento presentato come reale, in un episodio della vita di corte. D ue dam e - scrive Sordello a Bertran d ’Alam anon - am ano due ca­ valieri, ma l’una chiede al suo amato di distinguersi in battaglia, l’altra chiede al suo di astenersi da ogni com bat­ timento, perché teme di perderlo: chi delle due ama di più il proprio cavaliere? L a tenzone tra C om pagni e L a p o som iglia a questo jo c per entram bi gli aspetti che qui ho indicato, cioè sia per la natura del tema sia per il m odo in cui esso è introdotto: entram bi i quesiti ruotano attorno a situazioni oggettive, che non riguardano i tenzonanti in prim a persona; ed entram bi i quesiti sono o sim ulano di essere tratti dalla vita e non da un repertorio di ‘casi’ . M a la differenza sta in questo, che mentre il quesito del joc, e di qualsiasi joc, si lascia com unque sem pre riassorbire nella casistica, e può sem pre essere riformulato in termini

generali e astratti (nel jo c di Sordello, per esem pio, ‘deve l’amore essere anteposto all’onore che si acquista in b a t­ taglia?’), il quesito posto da Com pagni a L a p o è troppo settoriale perché da esso possa ricavarsi una norma. È poesia d ’occasione nel senso più angusto del termine: di una sola occasione.

6. L ’influenza dei due modelli in diacronia D op o aver descritto i due più im portanti m odelli reto­ rici che stanno alle spalle delle rime di corrispondenza medievali, la lettera in prosa e la quaestio scolastica, ci è ora possibile tracciare un bilancio che tenga conto di entram bi i modelli insieme e ne valuti la diversa influenza in diacronia, dalle origini alla fine dell’epoca da noi presa in considerazione. V edrem o allora facilmente che le ‘p re­ senze’ della lettera e della quaestio nelle rime di corri­ spondenza sono regolate grosso m odo da un rapporto di proporzionalità inversa, ossia che i due m odelli sono d o ­ minanti in momenti diversi della storia del genere; o, an­ cora più precisam ente, che la tenzone oggettiva il cui ana­ logo retorico è la quaestio disputata si fa più rara col tem ­ po, e più frequente la tenzone-carteggio. O ccorre però non perdere di vista lo svolgimento ge­ nerale, né separare la storia dei generi da quella della lette­ ratura. Q uesta evoluzione o involuzione nella storia delle rime di corrispondenza rim anda a un fenomeno di portata più am pia e a una tendenza che riguarda tutta la poesia medievale, indipendentem ente dalla disparità di genere. Vi è cioè una progressiva diminuzione nell’im pegno e nello spessore concettuale delle tenzoni, ma com e (e perché) vi è, nei testi m onologici, un rifugio nel contingente e nel pri­ vato, una minore capacità o volontà di affrontare temi ideologicam ente rilevanti, e la tendenza a far confluire questi temi nella prosa, e - per contro - a ‘personalizzare’ la poesia, a risolverla in lirica. Avremo di tutto ciò una vi­ sione più chiara nel quinto capitolo, quando ci occupere­ mo di questa storia m aggiore. Per cominciare a tracciare

quella minore delle rime di corrispondenza è opportuno tornare indietro, ai due testi citati all’inizio di questo capi­ tolo com e esem pi di opposte tipologie.

6.1. Temi eruditi in tenzoni post-duecentesche U na tenzone com e quella tra G erì e Siribuono è due­ centesca ma potrebbe altrettanto bene risalire al Trecento 0 al Quattrocento: il suo contenuto non è legato ad una particolare fase storica del genere. Sonetti di corrispon­ denza senza m essaggio, o il cui unico m essaggio è l’inten­ zione di stringere amicizia col destinatario, li scrivono an­ che altri duecentisti. M a mezzo secolo dopo, in pieno Trecento, Antonio da Tem po fa esattamente la stessa cosa usando le stesse parole (parole che rispecchiano non cer­ to un rapporto intertestuale bensì un’affinità di situazione e d ’intenti)50: I’ vederei però ben volentieri di. vostra scentia per vostro trovare, 11 però ch’io penso negli mei pensieri d’esser amicho a vostro commandare; sì che m’indutie mia voglia, ch’i’ spieri che mi digiate un soneto mandare. Invece la tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli difficil­ mente potrebbe essere altro che duecentesca. Perché nel­ la poesia dei due secoli seguenti sono rare o assenti le oc­ casioni di discussione sopra questioni di poetica (esse in­ fatti vengono affidate a mezzi diversi dal sonetto in volga­ re: l’egloga, l’epistola in latino); e più in generale perché le tenzoni nelle quali si discuta seriamente e polemicamente su un tema oggettivo che stia a cuore a entrambi 1 corrispondenti, li tocchi personalm ente, sono rare dopo lo stilnuovo. 50 E ’ non s i p u ò cielar, inedite, p. 161). ‘

9-14, a Iacopo da Imola (Morpurgo,

R im e

Ciò non significa che manchino del tutto, dopo il Duecento, tenzoni vere e proprie in cui due o più autori confrontano le loro idee su un tema di natura extra-sog­ gettiva, e persino su argomenti di notevole im pegno intel­ lettuale. N el capitolo precedente ho sottolineato la singo­ larità della canzone di M atteo Paterino, osservando che un testo com e quello non avrebbe potuto essere scritto dopo Petrarca e neppure forse dopo lo stilnuovo, essendo questo il prim o ‘grande stile’ che circoli e s’im ponga al di là dei confini municipali e regionali: un m odello sotto ogni profilo avverso a quello rappresentato da M atteo P a ­ terino. Q uesto giudizio resta, come vedrem o, valido nella sostanza, ma va calibrato e giustificato meglio, perché in realtà un com ponim ento analogo alla canzone di M atteo Paterino, per lo m eno sotto il profilo tematico, lo trovia­ mo nel Q uattrocento, in T oscana, e si tratta proprio di una tenzone. M i riferisco al sonetto Se i prim i moti , invia­ to da A lberto C apponi a D om enico da Prato (circa 13701432); e alla replica per le rime di quest’ultimo, Per del primo uom. Il problem a centrale è quello del libero arb i­ trio, negato dall’uno, afferm ato dall’altro, e gli argom enti citati da C apponi a conforto del proprio punto di vista so ­ no della stessa specie di quelli usati da M atteo Paterino: l’onniscienza divina, la predestinazione, il significato del sacrificio di G esù. Ripeto che la tenzone tra C app on i e D om enico da Prato rappresenta un’eccezione perché raramente, d opo il Duecento, le rime di corrispondenza vennero adoperate per il dibattito su temi di questo sp e s­ sore. M a proprio il confronto con la canzone di M atteo Paterino ci perm ette di vedere chiaramente come, d ato uno stesso tema, in questo lasso di tem po siano cam biati la form a e il significato della tenzone-quaestio. Innanzitutto, la form a metrica adoperata è il sonetto e non la canzone, e il fatto che un tema com plesso co m e il libero arbitrio venga com presso in uno spazio di quattordici versi non può non riflettersi su un’argomentazione che re­ sta, tanto nel missivo quanto nel responsivo, affrettata e su ­ perficiale. In secondo luogo, D om enico da Prato rispon de, ma m ostra di considerare pretestuoso, una «so fistich eria»

inutile, l’interrogativo propostogli (vedremo tra breve co­ me la critica all’intellettualismo del mittente diventi uno dei tratti caratteristici della tenzone-quaestio nel tardo M edioevo): Ma nulla ha a far con questo il parlar mio de i primi moti, e rispondendo ride l’animo al vario tuo sofisticare. (9-11) Infine, la tenzone sul libero arbitrio non riflette un puro interesse teoretico ma ha un’origine per così dire m onda­ na: D om enico aveva accennato al problem a in un suo so ­ nétto am oroso inviato a T om m aso Viviani, L i prim i moti, ma servendosene come di un espediente ‘cortese’ per ras­ sicurare il corrispondente circa il fatto che non era dipeso dalla sua volontà, e non nascondeva insidie, l’aver «g u ar­ dato la sua d a m a »51. A bbiam o dunque da un lato un tema di grande im pegno, da trattato filosofico, svolto però su un registro minore, sia per la form a metrica prescelta sia per le circostanze occasionali da cui nasce il dialogo; dal­ l’altro un minore coinvolgimento tanto da parte del m it­ tente quanto da parte del risponditore, e l’assenza di ogni spirito polem ico. Il mittente non è né nella posizione del­ l’eretico né in quella del ricercatore disinteressato: il d u b ­ bio teologico offre l’occasione - una fra le tante possibili - per com porre versi, ma il risultato del dibattito non conta; o meglio, posto che il C appon i si limita a dom an­ dare la soluzione dei suoi dubbi senza esprim ere il pro­ prio punto di vista, vero dibattito non c’è. L a tenzone o g ­ gettiva, affine alle dispute scolastiche, continua ad esistere nel Trecento e nel Q uattrocento, m a sem pre più il tema erudito appare com e un’occasione trovata di proposito, alla quale né il mittente né il risponditore annettono trop ­ pa importanza. 51 La rubrica del ms. Laurenziano PI. XLI 31 dice: «Sonetto del detto ser Domenico per lui mandato a ser Tommaso Viviani, il qual te­ meva che esso ser Domenico non guardasse la dama sua» (cfr. L iric i to­ scani, I, p. 568).

6.2. I l filtro dello stilnuovo: dalle tenzoni ‘oggettive alle tenzoni ‘soggettive’ T ale tendenza ad usare una questione oggettiva e teo­ rica com e pretesto per la com unicazione privata è viva an­ che tra i poeti del D uecento. Il terzo dei sonetti sangimignanesi pubblicati da Castellani è un sonetto di corri­ spon den za52: Udendovi laudar, maiestro Pello, ke sete pien di molta sapienza, dentr’al cuor sent’un amor novello 4 d’aver oimai la vostra canoscen§a, e voi pregare k’alkun ramicello mi dimostriate per dritta sentenza di mutamenti k’in questo orticello 8 son fatti per oculta previdenza. Saver vorrei per ragion naturale perché monta Tomo in signoria 11 folle, vile e senz’ogne bontade; et quello ch’è saputo mai non sale, ed è conpiuto d’ogne cortesia, ma nolli torna a grand’utilitade. L a fronte del sonetto dice chiaramente perché e a quale scopo il mittente pone a m aestro Pello questa dom anda: egli lo conosce per fam a e ora vuole entrare in contatto con lui, conoscerlo di persona; un quesito in versi rappre­ senta l’occasione ed il tramite ad atto 53. N el commento al sonetto A ciascun’alma, nel terzo paragrafo della Vita no­ va, D ante illustra e giustifica teoricamente un simile proce­ dimento quando dice che quel sonetto gli era servito com e biglietto da visita per entrare in corrispondenza, lui quasi esordiente, non con uno ma con più poeti fiorentini. 52 A. Castellani, T re so n e tti scritti su lla coperta d ’un registro d e l co­ m un e d i S an G im ig n an o (1270-1271 circa), in S a g g i d i lin guistica e filo lo ­ g ia italian a e rom anza (1 9 4 6 -1 9 7 6 ), 3 voli., Roma, Salerno Editrice 1980, II, pp. 59-72. 53 Un’identica struttura (e un’identica motivazione) ha il son. A ldendo dire, inviato da Natuccio a Bacciarone (P D I, p. 324).

F u dunque sem pre possibile adoperare l’erudizione com e pretesto per il dialogo: tra l’altro perché è caratteri­ stico delle poetiche m edievali il convincimento che gli au­ tori debbano dim ostrare la loro saggezza e cultura in cam ­ pi diversi da quello strettam ente artistico. M a mentre ciò si verifica in continuazione nelle tenzoni ‘oggettive’ trequattrocentesche, nel D uecen to il dibattito e lo scontro delle idee rappresentano spesso il vero movente e il vero scopo delle tenzoni. N o n bisogna infatti proiettare all’indietro, sui siciliani e sulla prim a generazione tosco-em ilia­ na, condizioni che, nel settore delle rime di corrisponden­ za, sono soltanto degli stilnovisti. Per questi ultimi la ten­ zone è già, come sarà p e r i loro successori, lo spazio della com unicazione privata ovvero, dato il carattere tenden­ zialmente m onotem atico della loro poesia, della privata esperienza sentimentale. L a scuola sollecita anzi il con­ trollo, la confessione e il dialogo in un codice ristretto, in­ com prensibile a chi non ne faccia parte. D ante rim prove­ ra Cino per la sua volubilità, e allude, scrivendo a Caval­ canti, a una donna che è «su l numer de le trenta»; Alfani parla, sem pre in tenzone con Cavalcanti, di una «giovane da P isa» che entram bi conoscono ma che il lettore non può conoscere. L a tenzone stilnovista è perciò anche - com e vedremo m eglio nel quarto capitolo - la breccia attraverso la quale la verità biografica entra nella poesia d ’am ore sotto forma di persone, eventi, circostanze note soltanto al corrispondente. Anche motivi apparentem ente im personali com e l’interpretazione di un sogno - motivo introdotto nella poesia italiana da G uittone, m a appunto nei termini di un referto oggettivo54 - vengono riportati nell’orbita della lirica: il sogno di D ante, Cino, Francesco da Barberino e del loro contem poraneo D ante da M aiano è sem pre il sogno della donna amata, e, com e appunto la norm ale poesia lirica, dice qualcosa intorno ai sentimenti del poeta e alla sua fortuna o sfortuna in amore.

54 Cfr. la

L ett.

XII di Guittone ad Amerigo di Narbona.

È sintomatico che gli stilnovisti, i teorici dell’amore più raffinati, i più scrupolosi nel definire il codice etico e com portam entale del perfetto amante, non affrontino praticam ente mai questo tema nelle loro corrispondenze in versi. Analoga, se guardiam o al solo aspetto della p er­ sonalizzazione della tenzone, è la situazione tre-quattrocentesca: anche qui, tema di dialogo non è la teoria m a la concreta esperienza dell’amore. M a al di qua dello stilnuovo le cose stanno in m aniera diversa. In prim o luogo, la tenzone nasce sì, coi siciliani, com e dialogo sull’amore, ma l’am ore oggettivato com e problem a, ente di cui si v o ­ gliono conoscere la natura e i modi: l’A bate e il N otaro discutono se Am ore sia o non sia un dio, Iacopo M ostacci pone la stessa dom anda al N otaro e a Pier delle Vigne. Il tema dell’amore com e esperienza vissuta, le richieste di consiglio circa la propria personale vicenda entrano più tardi nel repertorio del genere e, se pure non restano spunti minoritari, certamente non eliminano del tutto le tenzoni am orose ‘oggettive’. Si verifica qui il fenomeno esattam ente contrario a quello che abbiam o registrato nello stilnuovo: la filosofia dell’amore non viene mai esp o ­ sta organicam ente in un testo m onologico, canzone o so ­ netto, ed è invece sem pre materia di dialogo. In secondo luogo, le tenzoni di carattere personale, am orose o no, le tenzoni in cui i poeti parlano di sé e si consigliano su problem i che non possono avere alcun in­ teresse per un lettore terzo, rappresentano, nel com plesso delle tenzoni prestilnoviste, una minoranza trascurabile. Il tema caratteristico tra i siciliani è, com e ho detto, la teoria dell’amore. L e tenzoni di G uittone e dei guittoniani com e M eo e D otto Reali sono per lo più di argom ento teologi­ co; quelle degli altri prestilnovisti trattano occasionalm en­ te di questi due temi e, in aggiunta, di diritto, scienza, m orale e, soprattutto, politica. Possiam o e dobbiam o d o ­ m andarci se vi fosse in questi scam bi un reale interesse per il tema in discussione o se tutto non era che un sem ­ plice pretesto per esercitarsi nella poesia e stabilire o m antenere un contatto con gli altri rimatori. C ’è del ve­ ro in entram be le alternative ma più, se ci limitiamo al

Duecento, nella prima. La tenzone tra i lucchesi Bonodico, G onella e Bonagiunta verte sul tema ‘com ’è possibile che il ferro limi il ferro’. U n interrogativo com e questo non è né più né meno ozioso di quelli che si leggono nei repertori di quaestiones che in quegli stessi anni venivano discusse nelle università, e che rappresentavano sì l’o cca­ sione per esercizi dialettici (qui poetici) m a anche un mezzo per im padronirsi realmente di un argom ento55. Allo stesso m odo, non potrem o dubitare della serietà, dell’autentico valore dottrinale delle tenzoni teologiche cui partecipano D otto Reali o G uittone; i due poeti sono entram bi degli ecclesiastici, e la materia dei loro sonetti missivi o responsivi è ricavata dai testi sacri: decisamente la form a ‘artistica’ non abbassa il contenuto a puro lusus. L o stesso vale per il G uittone morale, e anzi qui ci è p o s­ sibile seguire il doppio registro delle lettere e delle rime, e vedere com e esse si sovrappongano e integrino a vicen­ da. Un sicuro interesse per l’argom ento prescelto sussiste infine nelle tenzoni politiche, dove la discussione ruota at­ torno ad eventi e personaggi reali, non alla pura teoria, e può diventare violenta. N essun dubbio, quindi, che in tutti questi casi i poeti prendano sul serio i temi dei quali trattano. D ove il quesito che offre lo spunto per il dialogo è più astratto e accadem ico, com e nella tenzone-quaestio prom ossa da D ino Com pagni, il fine non sta tanto nella risposta quanto nella discussione stessa, nella verifica del­ le rispettive capacità dialettiche (verifica di cui, la sfera dell’arte essendo ai nostri occhi indipendente da quella della dialettica e della retorica, noi fatichiam o a cogliere il senso: onde la risoluzione dei testi di questa specie in p u ­ ra ‘form a’; ma condizioni diverse, di fusione tra poesia 55 Cfr. J. Pinborg, M e d ie v al P h ilo sop h ical L iteratu re, in T h e C am ­ bridge H isto ry o f L a te r M e d ie v al Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press 1982, pp. 11-42: «Molte d isp u tation es erano ovviamen­ te semplici mezzi di esercizio intellettuale, e nascevano in ossequio a quello che era il normale costume accademico. Cionondimeno, le d i­ sp u tation es e i loro referti scritti ci mostrano degli studiosi alle prese con ciò che Chenu ha ben definito una “ ricerca collettiva della verità”» (p. 28).

e arti della parola si davano nel M edioevo: il jo c partii ne è, com e vedrem o, la più chiara testimonianza). Vi è an­ che, certamente, nell’uso del metro e delle rime, una com ­ ponente ludica, un elemento puram ente formale: ma così com e accade in qualsiasi altro testo poetico. L a dom anda da porsi non è dunque se nelle tenzoni che abbiam o cita­ to i poeti fossero m ossi da un reale desiderio di conoscere e di confrontare le loro opinioni ma se in generale, nel M edioevo, i temi della morale, della politica, della religio­ ne, i temi insom m a della realtà extra-soggettiva potessero essere trattati in poesia in maniera seria e problem atica; se la poesia potesse adem piere a una funzione che in altre età com pete alla prosa. N e parlerem o più diffusam ente nel quinto capitolo.

7. La fisionom ia del genere nel Trecento e nel Quattrocento 7.1. Il conflitto tra virtù civile e virtù militare N el X IV e nel X V secolo le tenzoni ‘oggettive’ avvici­ nabili al m odello della quaestio disputata continuano ad essere scritte. A ccade anzi qualcosa di più: il repertorio tematico dei generi m onologici si restringe, perdendo par­ te di quella varietà che lo aveva contraddistinto nella T o ­ scana del D uecento, e viene m onopolizzato dalla lirica e dalla m orale spicciola; e la tenzone diventa, per determ i­ nati contenuti (come il dogm a e l’eresia, nell’esem pio com m entato sopra), l’unica possibile via d ’accesso alla poesia. Per vedere com e la banalizzazione delle corri­ spondenze in verso corrisponda a una tendenza generale, non però a una legge, e contem pli quindi delle eccezioni, sarà sufficiente un solo esem pio. N ella Firenze di Cosim o il Vecchio è vivo il dibattito sul rapporto tra autorità mili­ tare e autorità civile. N ella dedicatoria a Cosim o prem essa alla traduzione latina della Consolatio in Apollonium, at­ tribuita a Plutarco (dicem bre 1463), Alam anno Rinuccini rievoca la pubblica disputa che aveva opposto l’am bascia­ tore di M ilano N icodem o Tranchedini - sostenitore della

superiorità del potere militare - allo stesso Cosim o, che aveva difeso invece il prim ato di quello civile: «u ter dignitate praestantior in ciuili societate habendus esset, imperator uidelicet rei militaris, an qui summae reipublicae gubernandae p ra esse t»56. L o stesso problem a è sotteso in questo passaggio tratto da u n ’orazione di G iannozzo M a­ netti: « [ L ’esercizio militare] è più degno che qualunque altro esercizio umano si sia, eccetto solo il governo della republica, il quale per quest’una cagione si è più principa­ le, però che la disciplina politica e civile dà ordine e co­ m anda all’arte militare quello s’abbia e debbia fare nel p i­ gliare delle im p rese»57. Ebbene, il tema affrontato nel dibattito alla corte di Cosim o trova una pronta registrazione in poesia, in due tenzoni che dovettero essere com poste in anni non lonta­ ni dai fatti ricordati dal Rinuccini. Q ui tuttavia il discorso si sposta dal piano dell’autorità a quello più astratto del­ l’etica. Che quella militare e quella civile fossero le virtù som m e era un principio largam ente condiviso: e ad esso si era attenuto per esem pio Petrarca nella scrittura del De viris illustribus, nel m om ento in cui si trattava di decidere di chi, di quali classi di uomini scrivere la biografia: «scrib o de viris illustribus [...]. Nichil ibi de medicis nec de poetis quidem aut philosophis agitur, sed de his tantum qui bellicis virtutibus aut m agno reipublice studio floruerunt, et preclaram rerum gestarum gloriam consecuti su n t» 58. M a era diventata legittima e anzi urgente, in que­ sto nuovo contesto, la dom anda circa il rapporto - dun­ que la gerarchia - tra le due:

56 A. Rinuccini, L e tte re ed o razion i , a cura di V.R. Giustiniani, Fi­ renze, Olschki 1953, pp. 61-62. 57 Sia la lettera di Alamanno Rinuccini sia l’orazione di Manetti so­ no segnalate e citate da M. Martelli, Firen ze, in L I E , Storia e geografia, II. L ’età m odern a, voi. 1, Torino, Einaudi 1988, pp. 25-201, a p. 25. 58 Petrarca, Invective, II 217-224.

Dichiarata mi sia giusta sentenza: qual atto è più famoso, o qual men degno, o l’onor della spada o la scienza59.

4

8

Poi che ’1 benigno celo per adornarte sopra ciaschun le grazie Sue ti dona, et sono agiunte a tua gientil persona scienzie quanto aver si può per arte, dimmi se per antiche o nuove carte diterminatamente si ragiona qual sia più degna o più verde corona, o di chi seghua Apollo o di chi Marte60.

Pur tenendo conto di episodi come questi, il rapporto percentuale tra tenzoni oggettivo-ragionative e tenzoni personali, che un tem po era a vantaggio delle prime, si ri­ balta a m ano a mano che ci si avvicina all’età dell’um ane­ simo: i poeti che anche nelle corrispondenze in versi p ar­ lano di sé, chiedono un parere circa un problem a che ri­ guarda loro e soltanto loro, sono più num erosi dei poeti che propongono al destinatario un quesito teorico. Inol­ tre, com e si è detto, la seria volontà di ricercare e di di­ scutere che motivava i duecentisti sem bra venir meno, e il quesito assum e quel ruolo che già gli abbiam o visto svol­ gere nel sonetto sangim ignanese citato poco fa, di puro pretesto al dialogo e al far poesia. Si prenda ad esem pio il sonetto O novella Tarpea, inviato da Antonio Beccari a Petrarca, una lunga serie di complimenti che si conclu­ de con un interrogativo: « E voglia alquanto me certificare | qual fu prim o, Speranza o vero A m ore» (13-14)61. E fa­ cile vedere com e la dom anda non sia altro che un prete­ sto, com e essa non nasca da un autentico desiderio di sa­ pere ma sia stata escogitata dal mittente per poter avviare un dialogo col più illustre dei poeti contemporanei. 59 Dal missivo di Niccolò Cieco O vivo fo n te , 12-14 (L irici toscani, II, p. 209). 60 Da un missivo anonimo tradito dal ms. Vat. lat. 4830 insieme a due risposte per le rime (cc. 115r-v). 61 Cfr. Beccari, R im e , pp. 187-188.

7.2. Scambi più brevi e a due sole voci N é è soltanto una questione di quantità relativa o di sincerità, dato che questa diminuzione di im pegno con­ cettuale si rispecchia nella form a: e non solo nella forma linguistica dei testi (la tenzone continua ad essere, com ’e ­ ra stata nel Duecento, il luogo dell’artificio stilistico e del­ la sperimentazione a causa di quella proiezione, o meglio di quello spostam ento del conflitto dal contenuto alla for­ ma cui già ho accennato: cap. I par. 1.2) ma anche - ciò che è più interessante perché nuovo e diverso rispetto al passato - nella loro dinam ica materiale. N el X III secolo accadeva spesso che gli scam bi si p ro ­ lungassero ben oltre l’iniziale botta e risposta, e vi erano così tenzoni - tenzoni di carattere teorico, soprattutto - com poste da quattro, sei, otto e più sonetti. Al contra­ rio, è raro che nel Trecento e nel Q uattrocento le corri­ spondenze in versi superino la m isura dei due sonetti, ra­ rissim o che superino quella dei quattro; se ciò accade ac­ cade non, come ci aspetterem m o alla luce del precedente duecentesco, nel settore delle tenzoni d ’argom ento m ora­ le o scientifico o politico, m a in quelle burlesche di B u r­ chiello o di Pulci: segno del fatto che la discussione erudi­ ta non è più né il m otore né lo scopo del genere e che es­ so ha preso invece una piega marcatam ente personale. N el Duecento, inoltre, non erano state rare le tenzoni a più voci - per invio, da parte del mittente, a più destina­ tari insieme, o per l’intervento di vari poeti in uno scam ­ bio iniziato tra due. Analoga era la dinam ica dei torneyamen trobadorici, i jo c partit a più voci che proprio sullo scorcio del X III secolo, con G uiraut Riquier, sem brano godere di un particolare favore. M a non occorre certo pensare a modelli: si trattò invece di un naturale sviluppo della form ula delle tenzoni a due, in un contesto nel quale la poesia poteva assum ere la form a e la dinam ica del lavo­ ro di gruppo. C iò che va sottolineato è che queste colla­ borazioni a tre o a quattro cessano quasi ovunque già a partire dall’età dello stilnuovo: a conferm a del fatto che i temi affrontati nei testi di corrispondenza non possono

più suscitare l’interesse e favorire la partecipazione di altri poeti, che il dialogo si è ristretto ad un àm bito strettam en­ te p riv ato 62.

7.3. Perché le ‘tenzoni’ diventano ‘rime di corrispondenza’ L ’accorciam ento delle tenzoni e la riduzione del nu­ m ero dei partecipanti sono dunque altrettante spie utili per com prendere come evolva e com e si trasformi il gene­ re d opo lo stilnuovo. Sem pre più di rado la tenzone è la sede di un vero dibattito, ed è sintomatico che in alcuni responsivi a missivi in cui si propon e un quesito di natura teorica trapeli insofferenza e fastidio per questo antiquato m odo di tenzonare. Ad Antonio da Tem po, che gli aveva dom andato qual è la differenza tra «anim o, chor, mente et intellecto», A ndrea Zam boni risponde che chi propone quesiti simili ha poco sale in z u cca63. A Pietro M ontanaro che gli aveva proposto un tipico quesito da jo c partii il Vannozzo replica che il suo è un «m atto d u b b io »64. E a partire dal secondo Trecento prende corpo in T o sca­ na una tradizione di missivi burleschi in cui quesiti para­ dossali o irrilevanti o triviali prendono il posto delle dotte questioni che erano al centro delle tenzoni più antiche, con parodia implicita di queste ultim e65. C om e spiegare questa evoluzione? Com e spiegare la banalizzazione dei contenuti che nel giro di non molti an­ ni trasform a il genere tenzone nel genere ‘rime di corri­ spondenza’? D a un lato, è ovvio che essa - essendo la tenzone un genere sì conservativo e dotato di una fisio­ nom ia e di una funzione sue proprie, e tuttavia non del tutto autonom o - va inserita nel quadro più largo della

62 L ’eccezione più rilevante è la tenzone avviata da Cecco di Meletto, che coinvolge altri quattro poeti tra cui Petrarca: cfr. Beccari, R im e, pp. 118-122. 63 Cfr. Morpurgo, R im e in edite, p. 163. 64 Nel son. Socrate, P lato , v. 14 (Vannozzo, L e rim e, p. 45). 65 Cfr. Giunta, Prem esse.

storia della poesia medievale, e cioè rispecchia tendenze generali che più avanti cercheremo di descrivere. D all’al­ tro, esistono certamente motivazioni specifiche, e tra esse due sem brano essere le più importanti: 1) L e rime di corrispondenza sono anche, nel M edioevo, un genere sociale, un’arte di m assa, così com e lo saranno in età più vicine a noi la poesia encomiastica o celebrativa o, un secolo fa, la più scialba lirica sentimentale. Saper im postare una tenzone, saper rispondere ad un sonetto missivo: a p o s­ sedere queste minime competenze non erano, allora, soltan­ to quelli che oggi accetteremmo di definire poeti. D i qui la necessità, per Antonio da Tem po, di illustrare nella sua Summa le leggi formali della tenzone: in un’epoca e in una regione in cui, a giudicare dalle non molte testimonianze residue, la proporzione si era capovolta ed era la lirica m o­ nologica, erano i testi ‘isolati’ a rappresentare l’eccezione, e la scrittura di rime di corrispondenza era la norma. L ’in­ gresso di questi dilettanti nel cam po della poesia per un ver­ so determina un incremento nel numero delle tenzoni (cui partecipano anche coloro che mai o quasi mai scrivono testi monologici), per l’altro fa sì che il loro contenuto sia sempre più spesso occasionale e personale (tenzone-carteggio), e sem pre più di rado teorico-oggettivo (tenzonz-quaestió)\ fa sì cioè che a contare sia il gesto dell’invio in sé, il fatto di visitarsi con sonetti ’ 66, mentre il contenuto risulta indiffe­ rente. L e rime di corrispondenza del padovano Giovanni D ondi - scambiate con medici, artisti, parenti e compagni di tutti i giorni - sono il migliore esem pio di questo fenomeno. 2) Il secondo elemento che può aiutarci a spiegare questa evoluzione non riguarda direttamente la sfera della poesia bensì, prim a, l’universo culturale nel quale essa ve­ niva prodotta. Com e ho detto, la fioritura di tenzoni di ti­ po oggettivo-ragionativo in Italia coincide con il dilagare degli esercizi di dialettica nella ratio studiorum di tutte le 66 Con l’espressione usata dal Lana a proposito di Dante e Bonagiunta (cfr. L a «D iv in a C o m m ed ia» nella figurazione artistica e n el seco­ lare com m en to , a cura di G. Biagi, G.L. Passerini e E. Rostagno, Tori­ no, Utet 1931, voi. II, p. 491).

facoltà e di tutte le discipline, dalla medicina al diritto, dalle artes alla teologia. N ello stesso X III secolo, in Fran ­ cia, prospera un sottogenere della tenzone, un suo deriva­ to: il jo c partii , le cui analogie con il procedim ento della quaestio sono evidenti sia dal punto di vista strutturale sia dal punto di vista terminologico. N on si tratta qui, ripeto ancora una volta, di risalire alle fonti e di ricostruire delle genealogie bensì di riconoscere la concomitanza tra il pie­ no sviluppo della tenzone ragionativa da un lato e, dall’al­ tro, il ruolo di grande rilievo ricoperto dalla quaestio nella vita intellettuale dell’epoca: concomitanza che né si spiega in termini di causa ed effetto né può però, evidentemente, ritenersi casuale, e della quale si potranno perciò indicare - più genericamente ma anche più correttamente - ‘cause am bientali’ quali sono appunto la diffusione dell’aristotelism o e la penetrazione del m etodo dialettico nei rami più svariati del sapere, e la partecipazione di molti rimatori del tem po a quel genere di cultura. D ata questa conformità di sviluppo tra genere dialogi­ co e sovrastruttura culturale, si può ipotizzare che la con­ trazione nel numero delle tenzoni ‘dialettiche’ si sia ac­ com pagnata tra l’altro ad una perdita di centralità della quaestio nel quadro della cultura accadem ica, e che l ’in­ sofferenza per la tenzone-quaestio docum entata poco so­ pra sia contemporanea e coerente con l’insofferenza per la quaestio. E un’ipotesi fondata. L ’età dell’oro della dia­ lettica si chiude infatti con il X III secolo, e durante tutto il Trecento si rafforzano le resistenze e le riserve nei con­ fronti del m etodo scolastico, e sem pre più alla ‘logica dei m oderni’ si oppone un diverso m odo di organizzare la ri­ cerca intellettuale, fondato sul confronto con gli autori classici e sull’educazione retorica e letteraria: « L ’interpre­ tazione storica e grammaticale prende quasi ovunque il posto dell’analisi dialettica e dell’argomentazione, allo sti­ le si attribuisce maggior valore, e si tende ad evitare la ter­ m inologia scolastica»67. Il ‘passare di m oda’ delle tenzoni 67 P.O. KristeUer, M edieval A spects o f R en aissan ce ham, Duke University Press 1974, p. 10 (trad. mia).

L earn in g,

Dur-

ragionative e l’insofferenza per le ‘questioni’ che abbiam o rilevato nei testi poetici citati in precedenza vanno dun­ que visti sullo sfondo di questo generale m utam ento d ’in­ dirizzo della cultura umanistica.

7.4. Liricizzazione delle rime di corrispondenza L ’ingresso di nuovi dilettanti nel cam po dell’arte e la diminuita influenza del m etodo scolastico non si possono considerare le cause ma contano certamente tra le cause che hanno trasform ato la tenzone in un genere poetico prevalentemente soggettivo, nel quale la discussione non riguarda la realtà esterna ma la persona dei corrisponden­ ti. Q uesta soggettivizzazione dei temi ha, sotto il profilo storico, due sbocchi. Sem plificando, possiam o dire che 1) da un lato la tenzone viene sussunta nella lirica, diventa un genere lirico (e per questa parte la tendenza del genere riflette e conferma una tendenza generale della poesia del M edioevo); 2) dall’altro, la tenzone non più soltanto si av­ vicina - com e vedevamo accadere nel D uecento - m a si assimila agli scam bi epistolari in prosa. Consideriam o la prim a possibilità. N on abbiam o p ro ­ ve sufficienti per affermare che il sonetto nasca in funzio­ ne della tenzone68; ma a giudicare dai docum enti che i m anoscritti ci hanno tram andato, possiam o senz’altro d i­ re che la tenzone nasce non com e form a per il dialogo su vicende personali bensì com e genere oggettivo, l’unico ge­ nere oggettivo-ragionativo che figuri nel repertorio dei si­ ciliani, rappresentando com e il rovescio e il com plem ento teorico della lirica am orosa, lo spazio - l’unico spazio - per la m essa a punto di una filosofia dell’amore. Il più im portante poeta toscano della generazione pre-stilnovista, G uittone, interpreta il genere in maniera diam etral­ mente opposta se guardiam o ai contenuti, nell’identica maniera se guardiam o invece all’opzione soggettività vs

68 Cfr. Giunta,

D u e saggi.

oggettività, dato che per lui le corrispondenze in versi so­ no quasi sem pre l’occasione per chiarire articoli di fede o problem i morali. Ciò che si verifica già in un contem po­ raneo di G uittone, Bonagiunta Orbicciani, e poi sistem a­ ticamente nello stilnuovo, è l’attrazione delle corrispon­ denze in versi nell’orbita della lirica soggettiva. Il poeta parla di sé, chiede consiglio al corrispondente su come agire: com e far fronte alla passione, come conquistare la donna amata, eccetera. O non chiede neppure consiglio ma espone semplicemente la sua situazione servendosi del dialogo invece che del monologo. Con lo stilnuovo, que­ sta evoluzione del repertorio dei temi dal prevalentemente oggettivo al prevalentemente soggettivo può dirsi com ple­ ta ta 69. N ella successiva storia del genere non vi saranno inversioni di tendenza ma soltanto conferme: in Petrarca, per esem pio, i cui sonetti di corrispondenza dentro e fuo­ ri dal Canzoniere vertono generalmente sull’am ore per Laura. O nei prim i petrarchisti come G iusto de’ Conti o Boiardo, che nei loro canzonieri ammettono sì sonetti in origine implicati in una corrispondenza in versi, ma sem ­ pre am orosi, tematicamente omogenei agli altri com poni­ menti inclusi nel libro. E non diverso è, in linea di m assi­ m a, l’atteggiam ento tenuto dai lirici del Cinquecento. M a che cosa diventino le poesie di corrispondenza per i lirici del tardo M edioevo, e come muti - insieme alla loro natu­ ra - il loro ruolo aggregativo e sociale, noi possiam o ve­ derlo con chiarezza nelle rime del fiorentino Alberto degli Albizi. Stando alle rubriche del ms. Chigiano L.IV .131 (cc. 348v-356r), il più ricco fra i testimoni delle sue rime, su 69 È soprattutto degna di nota, tra gli stilnovisti, l’assenza di tenzo­ ni morali e politiche, che pure avevano avuto e avranno un ruolo im­ portante nella storia del genere. Salvo rare eccezioni (per esempio la tenzone tra Cino e Dante dopo l’esilio), i loro missivi risultano polariz­ zati sui due opposti registri del cortese e del burlesco: sicché la biogra­ fia entra nelle corrispondenze in versi tanto al livello più alto, della fin 'am o r, quanto al livello più basso della triviale esperienza quotidiana: è evidente il contrasto coi quesiti teorici di natura morale, teologica o cortese che erano al centro delle tenzoni più antiche.

un totale di 24 testi, ben 23 sono indirizzati a un destina­ tario. Se però andiam o oltre le rubriche e leggiam o questi componimenti, ci accorgiam o che soltanto una piccola percentuale di essi ha al suo interno chiare marche m issi­ ve, cioè parla direttamente al personaggio nom inato in ru­ brica. L e altre sono poesie liriche m onologiche (l’io riflet­ te su, e parla a, se stesso), in alcune delle quali il discorso si volge addirittura verso la donna am ata70. A bbiam o a che fare dunque senz’altro con poesie di corrisponden­ za, nel senso che esse vennero inviate a ‘destinatari prim i’ e avviarono a m odo loro una comunicazione personale, non però con poesie di tenzone, considerato che il m itten­ te non fa alcun riferimento - nel testo - alla persona del destinatario e che, coerentemente, non ne riceverà rispo­ sta. Si tratta, insomma, di testi di dedica che il destinatario-amico riceve non perché essi siano veramente pensati per lui e a lui rivolti ma perché possono interessarlo come docum enti circa lo stato d ’animo del mittente o com e o g ­ getti d ’arte. N on è questa una prassi del tutto nuova, nel M edioe­ vo: rubriche presenti in altri canzonieri fanno pensare che l’invio-dedica di singoli com ponim enti am orosi soggettivi, non atteggiati a dialogo, fosse in uso già nel Duecento. Il che vuol dire, tra l’altro, che non c’è bisogno di pensare ad un errore del copista quando incontriamo rubriche co­ me «G u id o a D ante A lleghieri» (Ch, c. 39r, prim a della ballata Fresca rosa novella, rivolta alla donna), o «M esser Cino da Pistoia a T errino» (Ch, c. 41v, prim a della ballata I ’ m i son tutto dato , rivolta alla donna) - ossia che l’ipotesi dell’errore, ipotesi plausibile quando si tratti di un caso isolato, diventa antieconomica quando si tratta di molti. E certo il fenomeno dovette essere più diffuso di quanto oggi non paia: giacché entrando nei manoscritti m iscella­ nei queste dediche, non necessarie alla com prensione dei 70 II primo sonetto della serie, per esempio, «mandato a Giovanni Nicoli», è di fatto una lunga invocazione ad Elena, senza riferimenti al destinatario menzionato nella rubrica: S ia benedecto il n om e tuo H e le ­ na... (c. 348v).

testi e anzi in certo m odo contraddittorie rispetto al loro contenuto, potevano scom parire. M a quella di Alberto degli Albizi è un’operazione sistematica: la poesia parla di sé a se stessi m a insieme si rivolge sempre, prim a che a un invisibile ‘pubblico dei lettori’, ad un singolo interlocuto­ re. N on diversamente faceva G uittone d ’Arezzo in molte delle sue rime. M a mentre in queste ultime l’invio trovava posto all’interno del testo, e il contenuto era di solito o g ­ gettivo e condivisibile, tale cioè da poter suscitare real­ mente l’interesse del dedicatario, tutto nei testi di Alberto degli Albizi è introvertito e centripeto: la form a retorica orientata sull’io, il registro lirico, il tema am oroso. Così, mentre G uittone socializzava, usando com e occasione per le corrispondenze in verso, quei temi che nella cultura post-duecentesca vennero ritenuti inadatti alla poesia dia­ logica e dopo il M edioevo inadatti alla poesia tout court, Alberto degli Albizi fa dei suoi ‘sonetti di corrispondenza’ il veicolo di un contenuto interamente soggettivo, li d is­ solve nella lirica. Il nome del destinatario - confinato in rubrica, pronto a scom parire nella trafila delle copie (e con lui ogni traccia dell’originaria intenzione di dialogo) - è quanto rimane dell’antica dimensione comunicativa e sociale delle corrispondenze poetiche.

8. Rim e di corrispondenza come lettere in versi 8.1. Omologia di funzioni tra lettere e rime di corrispon­ denza L a sussunzione nella lirica: è questa la sorte toccata al­ la tenzone se guardiam o ai piani alti della tradizione p o e ­ tica del M edioevo, a quegli autori che in generale, anche nelle loro rime non di corrispondenza, e seguendo l’esem ­ pio dei loro modelli, gli stilnovisti e Petrarca, avevano scelto di trattare principalm ente il tema dell’amore. M a il passaggio d all’oggettivo al soggettivo, il ripiegam ento sul­ la sfera privata può anche attuarsi, com e ho anticipato, in una diversa form a e produrre un diverso risultato: non

più una prom ozione della tenzone a poesia lirica solo si­ mulatamente aperta e comunicativa bensì al contrario il suo abbassam ento a com unicazione personale su temi o c­ casionali e prosaici: l’oppo sto del lirico, il quotidiano. C osì il sonetto-lettera - che com e abbiam o visto rappre­ sentava una delle due possibili varietà dei sonetti di tenzo­ ne, e di cui già nel prim o secolo è facile trovare esem p i7172 - si diffonde soprattutto tra quei poeti dilettanti a cui ho accennato in precedenza, o tra i refrattari alla lirica come Giovanni D ondi o il Saviozzo. Si ripetono e si am plificano i tratti form ali che ho d e­ scritto come tipici: l’apostrofe, l’elogio del corrisponden­ te, le formule d ’umiltà, il saluto al principio o alla fine del testo (e l’invenzione stessa del sonetto caudato finisce per rivelarsi funzionale a questo scopo: prova del fatto che la pressione del nuovo contenuto può m odificare non solo la form a linguistica m a la struttura stessa dei testi ) 12. Si ri­ prendono vecchi clichés epistolografici com e quello dell’obbligo alla riservatezza (cfr. supra, nota 9); e se ne in­ troducono di nuovi o relativamente nuovi. È per esem pio un Leitmotiv del canzoniere del D ondi la richiesta di let­ tere e/o poesie di corrispondenza (la specificazione è in­ differente perché form a e funzione dei due generi sono le stesse) a interlocutori che non rispondono: 4

...et stan le orechie in vano, perché non oden quel suave, humano vostro parlar, come prima solea

12 Et ben ch’io sia contento in altre volie dimando per rimedio a quel martiro, ch’i’ v’oda et vegia almen per sente folie. O antichi mey compagni, i’ non credea che voi dovisti mai cossi lasiarmi, 71 Cfr. la tenzone tra Gerì e Siribuono citata in avvio di capitolo o, poco più tardi, il sonetto Com par, che tu tto tem po, in cui Lippo chiede a un amico dei talli di vite (P D II, p. 784). 72 Cfr. Giunta, D u e saggi.

4

ché de natura mia mutato parmi, che mi crediate in altra forma rea.

3

0 caro mio dilecto compagno, ti mancha carta? è sì lo inchiostro persso che non rispondi per prosa o per verso?73

Q uesti brani e le relative rubriche - che senz’altro risalgo­ no all’autore, sia o no autografo il codice dal quale sono tratte - m ostrano chiaramente che la tenzone si è ormai ridotta a un surrogato dello scam bio epistolare in prosa: si parla di conversazione interrotta, non si distingue, nell’ul­ tim o brano, tra prosa e verso perché, com e si è detto, la natura del m ezzo non m odifica e neppure influenza il m essaggio. E il m essaggio può dunque essere quello bana­ le, privato, quotidiano, privo di qualsiasi valore e inten­ zione artistica che normalmente (vale a dire in un’altra età della poesia: quella presente, per esempio) verrebbe giu­ dicato incom patibile coi versi; il D ondi chiede al fratello di m andargli i suoi cani: (X L V I 1-8): O caro mio dilecto fradello, non t’aricorda la promessa mia, qual me fecisti, quando da Pavia, per andar a Valenza, zoiel bello, tu te partisti, senza alcun torbello de rimandarmi, per sancta Maria, tolta dimora, per l’usata via, 1 cani miei? Ma si’ stato fello!

8.2. Sonetti m issini accom pagnati da lettere in prosa Vediam o dai manoscritti che questa identità di funzio­ ne e conguaglio della poesia sulla prosa, del sonetto sulla lettera, potè portare anche all’abbinam ento dei due generi 73 Rispettivamente sonn. XIII, XXIII («Sociis antiquis duobus [...] a solita conversatione cessantibus») e XXV («Eidem nil ad premissa respondenti»).

all’interno del m edesim o testo. Poesie inviate a un amico possono naturalmente essere sem pre accom pagnate da lettere, a guisa di introduzione e commento: esem pi se ne trovano in quantità negli epistolari degli umanisti, a parti­ re da Coluccio, ma già prim a in quelli di D ante (che invia a M oroello M alaspina, prem essa appunto una lettera-razo, la canzone montanina) e di Petrarca. Ciò che qui interessa mettere in rilievo è l’esistenza, nell’am bito della poesia volgare, di una tradizione di sonetti m issivi preceduti da lettere in prosa latine o volgari e nati ad una con esse: una tradizione non com patta e non am pia, quindi piuttosto un gruppo di ‘prosim etri’ i quali con ogni probabilità si igno­ rano a vicenda, m a che proprio per questa ragione - per­ ché non vi è tra loro alcuna affinità dovuta ad ipotetiche leggi di genere - prom ettono di rispecchiare fedelmente lo stato della poesia di corrispondenza nelle varie epoche in cui vennero com posti74. In G uittone e nei guittoniani il rapporto tra prosa e poesia è il seguente: una breve lettera (in volgare) intro­ duce il sonetto, che tratta per esem pio della necessaria d e­ vozione a D io da parte dei nobili (G uittone a G iacom o d ’Architano), della continenza (D otto Reali a M eo, Non volontà ), della m isericordia divina (M eo a G uittone, Voi sento ) riassum endone il contenuto, sollecitando il corri­ spondente («al sonetto di sotto rispondi con paraule e con operazione») o aggiungendo precisazioni e richieste di varia natura («m ostralo a frate G ad d o e a F in fo » )75. L a prosa ha dunque una funzione puram ente servile, tra­ smette le informazioni pratiche; il ‘testo’, l’opera, è il so ­ netto, che segue m aterialmente la lettera ma che certo cronologicam ente la precede. L o schem a lettera + sonetto non sem bra avere seguito negli eredi diretti di G uittone, Chiaro e M onte. Viene ri­ preso invece dagli stilnovisti, m a con differenze rilevanti

74 I primi dati in Giunta, C h i era il f i ' A ld o b ran d in o , p. 137. 75 Le citazioni dalla lettera di Meo a Bindo e dalla lettera di Dotto Reali a Meo, in L a p rosa d e l D u ecen to , risp. pp. 96-97 e 98-99.

sia nella form a sia nella divisione dei com piti tra prosa e verso. Cino invia a D ante il sonetto Dante, quando per caso s ’abbandona, in cui dom anda all’amico se un nuovo am ore po ssa soppiantare quello vecchio. D ante risponde per le rime col sonetto Io sono stato con A m ore insiem e , ma lo fa precedere d a una breve epistola scritta in latino e non più, com e in G uittone, in volgare («E xulanti Pistoriensi Florentinus exul inm eritus...»), che riassum e il con­ tenuto del m issivo cimano, lo loda, presenta il responsivo suddetto («Redditur, ecce, sermo calliopeus [‘poetico’] in feriu s»)76 e aggiunge alcune dotte divagazioni sul tema della trasm utazione delle passioni, con citazioni da O vidio e da Seneca. In questo caso la lettera non è dunque sol­ tanto una lunga rubrica, la sua funzione non è puramente servile ma com pletiva : com e un com m ento, chiarisce e amplifica la risposta data nel sonetto restando sem pre aderente al problem a in discussione. Vi è qui dunque un diverso equilibrio, meno sbilanciato, tra prosa e poesia. Ciononostante, tutti questi sonetti di corrispondenza - sia quelli di area guittoniana sia quelli di Cino e D ante - form ano delle vere e proprie tenzoni, centrate su un te­ ma oggettivo, com plesse nella form a e nel contenuto, im ­ personali e autonom e in sé anche senza l’ausilio delle let­ tere che le integrano con dati circostanziali e privati. Q u e­ sta autonom ia viene meno nei due ‘prosim etri’ trascritti a c. 2r-v del ms. Laurenziano Acquisti e D oni 831. Perché qui i sonetti, com e indica la congiunzione coordinante in avvio di testo, continuano il discorso iniziato nella lettera (anche qui latina): nel prim o, il racconto di un sogno e la richiesta al corrispondente di un parere in m erito (E t così essendo lo spirito affannato)-, nel secondo, l’elogio del «d ulce eloquium » del destinatario (E t come q u ii che tra la fronde bella). In questi due casi, lettere e sonetti non solo stanno sullo stesso piano ma sono fusi insieme a for­ m are un unico m essaggio che dobbiam o immaginarci sia stato scritto in un tem po solo: la divisione dei ruoli e il

76 Cfr. Dante,

E p istole,

p. 532.

dislivello a vantaggio del testo poetico che abbiam o rileva­ to nei prosim etri duecenteschi sono scom parsi. Riappaiono, quella divisione dei ruoli e quel dislivello, in un testo - l’ultimo di questa specie che considererem o qui - trasm esso dal ms. Laurenziano Rediano 184, ma ciò che accade è che stavolta le parti sono invertite. L a rubrica dice: «Sonetto di M anetto detto m andò a D om enico M an­ nelli insieme con una lettera a Barzalona». M anetto è M a­ netto da Filicaia, rimatore fiorentino di metà T recen to 77: Carissimo fratei, s’io ben discerno, tre anni o più credo che sien passati che mai per lettera insieme vicitati 4 noi non ci siamo, né state né verno, considerando nostro amor fraterno e con quanto buon cuor ci siamo amati e spesso sotto boce consolati 8 ch’a dirlo sare’ poco un gran quaderno. Ma la mia mente di ciò m’acagiona dicendo: «Ove tu sia non sa niente, 11 e tu sai certo ch’egli è a Barzalona». Di che, sanza restare, acortamente, presi la penna, come tal persona che spacciare vuol corner subitamente. 15 Onde primieramente, di quanto scrivo sotto a tal sonetto consolar voglia alquanto il tuo Manetto. Q uesto sonetto ha tutte le caratteristiche della lettera pri­ vata in p rosa : l’esordio su «carissim o fratei»; il ricordo dell’affetto passato e il lam ento per il lungo silenzio (2), la form ula che giustifica la scrittura della lettera (12); la ri­ chiesta di risposta (17); la firm a finale. Ciò che m anca è il m essaggio, cioè quella parte dell’epistola che corrisponde alla narratio. Perché questo vuoto? Perché - com e ci vie­ ne detto nella rubrica e nella coda - esso è affidato alla vera e propria lettera in pro sa che il m anoscritto non tra­ 77 Cfr. A. Lanza, I l canzoniere manzi», 35 (1974), pp. 109-119.

d i M an etto da F ilic a ia ,

in «Studj ro­

smette (certo perché appartiene ad un altro ‘genere’), ma che in origine doveva seguire im mediatamente il sonetto. M entre dunque nei prosim etri duecenteschi la prosa in­ troduceva e commentava i versi, qui il rapporto è capo­ volto: è il sonetto che contiene le informazioni circostan­ ziali, il protocollo, e che precede e giustifica la lettera pur essendo stato scritto ovviamente dopo quest’ultima. Alla poesia tocca ora, in questo prosim etro di tardo Trecento, quel ruolo servile che nel D uecento era stato della prosa: coerentemente, ne imita la form a - il sonetto è scritto co ­ me una lettera - e ne assum e il contenuto puram ente in­ formativo: il sonetto dice le cose che la lettera - non la poesia, non l’arte - ha di solito il com pito di dire. Q uest’ultimo esem pio ci riporta dunque ad un conte­ sto borghese, di rimatori dilettanti, e a u n ’età in cui sp es­ so ai sonetti di corrispondenza sono affidati m essaggi di natura personale e pratica, in netto contrasto con lo spiri­ to della tenzone duecentesca. Sono molti i testi poetici medievali che possono essere definiti ‘di corrispondenza’, m a pochi sono quelli che davvero imitano la struttura e la form a interna della lettera, che si presentano com e vere e proprie lettere in versi. D salu t gallorom anzo è, com e ho accennato, una di queste, e ciò venne reso visivamente, talvolta, dai miniatori dei m anoscritti78. In Italia, i codici di rime volgari dotati di un corredo iconografico sono ra­ ri, m olto più rari che in Provenza, e questo soprattutto a causa del fatto che la trasm issione della poesia italiana fu per lo più opera di copisti per passione non legati ad un committente o ad una corte. T ra le eccezioni ce n ’è una poco nota, il ms. Conventi Soppressi 122 della B iblio­ teca Laurenziana: non miniato ma - a conferm a di quanto si è appena detto circa l’origine e la destinazione borghese di questi codici - decorato con semplici disegni a penna eseguiti forse dalla stessa m ano che trascrive i testi. Sia per questo apparato figurativo sia per i molti testi che vi sono contenuti, in buona parte inediti o malnoti, il mano-

78 Cfr. Parducci,

L a 'lettera d ’am o re',

p. 110 nota 1.

F ig . 1. Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Conventi Soppressi 122, c. 81v e dettaglio (in alto); c. 69v e dettaglio (in basso).

scritto merita uno studio approfondito. Io mi limito so l­ tanto a segnalare quelle che sono le prim e e probabilm en­ te le uniche testimonianze di un’elementare iconografia delle corrispondenze in verso. A c. 81v, a fianco di un so ­ netto m andato da Pasquino da Siena a G iovanni di Buonaventura, due figurine rappresentanti il mittente e il d e­ stinatario parlano, nell’attitudine che è caratteristica degli oratori (la m ano sollevata, l ’indice p ro teso )79: il che fa pensare a un dialogo piuttosto che a un carteggio. A c. 69v, accanto a un sonetto inviato da N add o ad Antonio di Cecco, ecco invece due mani protese Tuna verso l’altra, e tra le due mani, che passa dall’una all’altra, l ’icona del sonetto-lettera: la lettera (vedi fig. 1).

9. Su i rapporti con la tradizione trobadorica: tenzoni-«joc» 9.1. I l quadro com plessivo A bbiam o così riassunto nelle sue linee generali la sto ­ ria della tenzone nel M edioevo italiano. Oltre le linee ge­ nerali non credo sia possibile né opportuno andare. Si tratta infatti, come già si è detto, di un genere che cono­ sce u n ’evoluzione piuttosto che una vera e propria storia scandita da figure ed opere cardinali, svolte, acquisizioni definitive: ciò che invece accade nella storia della lirica. D i rado i testi del passato (testi congeneri, s’intende: altre tenzoni) vengono assunti com e modelli: « l ’azione delle opere sulle o pere» di cui parlava Brunetière è, in questo caso, quasi nulla. L e tenzoni sono spesso, e sem pre più d op o lo stilnuovo, com ponim enti occasionali che traggo­ no spunto dalla realtà piuttosto che dalla letteratura: sic­ ché chi scrive rime di corrispondenza da dilettante può benissim o ignorare tanto la poesia del passato quanto il m odo in cui altri hanno scritto rime di corrispondenza - ignoranza che è più rara in chi com pone lirica amorosa. 79

Cfr. M. Baxandall, P ittu ra e d esperien ze Torino, Einaudi 1978, p. 71.

Q uattrocen to,

so c iali n e ll’Ita lia d el

Perciò è sem pre possibile collocare i vari testi all’interno di determinati filoni o tipologie quasi atem porali (quello della tenzone-carteggio, quello della tenzon z-quaestio, e simili), salvo poi verificare, com e abbiam o fatto, in quali epoche e in quali aree queste tipologie sono m aggiorm en­ te diffuse. N on è invece corretto presentare i dati come se essi form assero una consecuzione necessaria, una cate­ na di cause ed effetti. L e grandi personalità poetiche, che nei generi forti vengono considerate i motori delle trasfor­ mazioni, qui non sem brano avere m olta importanza: p ar­ tecipano, anch’esse, ad un genere che almeno in parte sem bra sottratto all’influenza delle poetiche individuali. In questo settore più che altrove, dunque, i risultati più interessanti si ottengono dom andandosi come la situazio­ ne è evoluta non nello spazio di una generazione ma nel medio-lungo periodo, e questa è di fatto la strada che si è percorsa sin qui. C i si può chiedere però se a questo abbozzo di storia non sarebbe il caso di prem ettere un abbozzo di preisto­ ria. Poiché stiam o parlando di letteratura italiana m edie­ vale si pone infatti con particolare urgenza il problem a dei rapporti con le altre letterature romanze e soprattutto con quella provenzale, che ha avuto una così grande in­ fluenza sulla genesi della nostra tradizione poetica. P uò dirsi u n ’informazione com pleta e attendibile quella che ignora o liquida in pochi cenni un precedente tanto im ­ portante? O ccorrerà distinguere. Su un piano generale, se guardiam o cioè alla storia della poesia medievale, questo richiamo all’unità dell’area romanza è senz’altro legittimo. Il confronto con la tradizione gallorom anza è infatti fon­ dam entale almeno sotto due aspetti. Il prim o è quello del­ la genesi di forme, metri, generi, elementi di poetica che avranno poi in Italia uno sviluppo autonom o, che porterà spesso m olto lontano dall’antica matrice: dove s’intende che la conoscenza delle origini non ha solo un interesse erudito m a si rivela im portante per l’interpretazione di te­ sti che sono, anche a loro insaputa, carichi di passato. Il secondo aspetto è quello della consapevole continuità, cioè del continuo riferirsi (per via di allusione, citazione,

riuso), soprattutto d a parte di autori dei prim i due secoli come G iacom o da Lentini, D ante, Petrarca, Boccaccio, alla letteratura franco-provenzale. D i questo secondo legam e riflesso abbiam o testim o­ nianze non soltanto pratiche ma anche teoriche, dato che nel D e vulgari eloquentia D ante, per i suoi ragionamenti sulla storia della metrica e della retorica poetica, stringe in un unico discorso esem plari francesi, provenzali e ita­ liani. M a, d ’altra parte, questa relativa om ogeneità cultu­ rale non im plica che tra l’una e l’altra tradizione nazionale non si debbano porre delle barriere, la più im portante delle quali è, naturalmente, la lingua. D a un punto di vista puram ente statistico bisogna pensare che la poesia in lin­ gua provenzale fosse accessibile ad un num ero m olto ri­ dotto di intellettuali: la grandissim a parte dei lettori ma anche, probabilm ente, buona parte degli scriventi, doveva avere esperienza soltanto della produzione in volgare di sì. D a un punto di vista pratico, docum entario, sono p o ­ chi gli autori che com pongono testi tanto nell’uno quanto nell’altro idioma, e quei pochi sono figure di scarsa im ­ portanza: poeti bilingui ve ne sono molti, durante tutto il M edioevo e oltre, ma l’altra loro lingua è il latino. Allo stesso m odo non esistono canzonieri che tram andino in­ sieme poesie in provenzale e poesie in italiano (il che sa ­ rebbe avvenuto se, per ipotesi, quei testi fossero stati una lettura ordinaria, non destinata soltanto agli esperti), né dovettero essere num erosi i canzonieri solo provenzali tra­ scritti in area tosco-emiliana, cioè nella zona in cui si svi­ luppò nel prim o secolo la poesia italiana. (Tutt’ altra è, com ’è noto, la situazione nelle corti nord-orientali della p e ­ nisola, dal m om ento che num erosi m anoscritti trobadorici, e tra questi alcuni dei più ricchi e importanti, sono sta­ ti esem plati in Veneto. M a neppure qui i due idiom i con­ vivono, almeno in poesia, e quest’am pia diffusione dei trovatori non darà origine infatti ad alcuna tradizione liri­ ca in volgare italiano: anche la prim a poesia veneta in questa lingua - ormai m olto più tardi, all’inizio del T re­ cento - sarà un effetto del trapianto di m odelli toscani, non il proseguim ento di quella orm ai lontana tradizione

locale in lingua d ’oc.) Anche per queste ragioni, dunque, è giusto considerare l’unità della tradizione rom anza co ­ me un’idea regolativa e non come un feticcio: la poesia italiana ha in realtà sin da principio, e sempre più via via, caratteri abbastanza forti e peculiari da consentirne una descrizione autonoma. Specie se, poi, questa descrizione sia di natura storica ed abbracci un arco di tem po piutto­ sto esteso: ché in tal caso, com e ho accennato nell’intro­ duzione, una critica interna della letteratura quale pu ò es­ sere quella che mette a confronto testi italiani a testi p ro ­ venzali è di poca utilità, altri essendo i problem i davvero significativi. L a dom anda circa l’im portanza della preistoria p ro ­ venzale per uno studio del M edioevo italiano, dom anda a cui abbiam o sin qui risposto in astratto e su un piano generalissimo, dobbiam o ora riferirla al nostro caso con­ creto, cioè alla poesia dialogata. Ebbene, anche da questo punto di vista più settoriale il confronto con i trovatori può rivelarsi utile nel dettaglio, per l’analisi di determinati temi o form e retoriche ‘da tenzone’ che passano dall’una all’altra letteratura, ma nel com plesso, per la visione gene­ rale del problem a, esso ha un’importanza secondaria. È giusto osservare che dalla tenzone provenzale quella ita­ liana eredita un tratto caratterizzante qual è la norm a del­ la ripresa rimica. M a agli effetti della storia delle forme contano di più gli elementi di discontinuità, vale a dire anzitutto il m etro e, col m etro, la situazione comunicativa che esso adom bra: posto che la tenzone trobadorica è in sostanza una canzone scritta a quattro mani, una stanza a testa, e recitata di fronte ad un pubblico, laddove la ten­ zone italiana si com pone di testi autonomi, concepiti e trasm essi alla stregua di lettere, e, non che realizzarsi di fronte a un uditorio, è la negazione stessa della ‘pu bblici­ tà’, il meno condivisibile dei generi poetici. Stando così le cose, l’indagine sulle fonti pu ò prendere due vie: l’una consiste nella ricerca di corrispondenze tem atiche tra i te­ sti delle due tradizioni, volte a provare la ripresa d a parte dei tenzonanti italiani di questioni già dibattute dai trova­ tori, quindi un diretto legam e intertestuale. Lavori sulle

fonti di questo tipo sono già stati com piuti dai com m enta­ tori e dagli editori dei testi italiani, e prim a da H . Stiefel in una m onografia dedicata specificam ente al tema. Si tratta tuttavia di episodi, rari e isolati, non di una im itatio sistematica. L ’altra via consiste sì nello stabilire un con­ fronto fra le due tradizioni e nel valorizzare gli elementi di continuità, ma facendo riferimento non alla forma lingui­ stica dei testi né ai temi - settori nei quali le convergenze sono rare e, nella loro singolarità, poco significative - bensì a determinati tipi, o varianti, o sottogeneri della tenzone. È ciò che farem o ora concentrando la nostra at­ tenzione prim a sul jo c p artii e poi sulla tenzone fittizia.

9.2. I l jo c partit nella tradizione gallorom anza Il jo c partit è una variante della tenzone galloromanza. M entre la tenzone è un dialogo che si sviluppa liberam en­ te, senza seguire uno schem a preordinato, e verte solita­ mente su questioni personali, o che com unque toccano da vicino la vita e le idee dei due poeti coinvolti, il jo c ha un percorso obbligato: m esso sul tappeto da parte di chi ini­ zia lo scam bio un problem a sul quale due soli punti di vi­ sta sono possibili, i due corrispondenti si dividono i ruoli e il prim o difende l’una, il secondo l’altra opinione, finché dopo un dibattito di alcune stanze che non m uta m ai le ri­ spettive posizioni il giudizio è rim esso a un terzo perso­ naggio, di solito uno spettatore autorevole o una figura della corte. D i tali giudizi sono rimaste scarse tracce nella tradizione manoscritta, benché siano num erosi i testi che vi fanno riferimento (nessuno nella poesia in lingua d ’oil, quattro in quella in lingua d ’oc)80. È realistico pensare che essi fossero espressi - qu an d ’erano espressi - per lo più a voce, al termine della perform ance dei poeti. Tralascio qui di considerare i vari problem i, tuttora in parte non risolti, relativi alla storia e alla m orfologia di

80 Cfr. Neumeister,

D a s Spiel,

p. 16 nota 24.

questo genere - se la distinzione tra tenzone e jo c p artii ri­ fletta o m eno l’uso e la terminologia dei trovatori; se fosse necessaria la com presenza dei due poeti davanti ad un pubblico o se il jo c potesse essere talvolta un esercizio scritto, un dialogo tra autori fisicamente distanti; quale fosse il margine per l’improvvisazione (se per esem pio i tenzonanti concordavano in anticipo il tema e dispone­ vano di un carnet di temi e svolgimenti po ssibili)81 - e mi limito a richiamare l’attenzione su due elementi. Il prim o è la forte som iglianza con quegli esercizi dia­ lettici che erano, nelle università, le disputationes: con le quali il jo c coincide per vari aspetti tra cui la struttura a dilemma, l’appello finale ad un giudice (che fa le veci del m agister) nonché, spesso, per l’astrusità e la gratuità degli argomenti in discussione, il m odo in cui il tema

81 Informazioni su tutti questi aspetti si trovano nella monografia di Neumeister, D a s S p iel , sopr. pp. 14-37. Quanto alla terminologia, cfr. ora Billy, P o u r un e réhabilitation (in base all’uso dei poeti, dei trattati e dei canzonieri, propone di classificare come tenson «ogni discussione in versi in cui si svolgano delle argomentazioni», a prescindere dalla forma metrica adottata dai poeti; e come tenson ab partim en , ossia ‘ten­ zone con jo c p a r tii’, quei dialoghi in versi in cui «la questione trattata prospetta più tesi da difendere» [p. 297]). Quanto alla dinamica dello scambio e dell’esecuzione, è chiaro che il genere avrà avuto leggi molto flessibili, ed è chiaro che l’awenuta conservazione dei testi pone limiti ben precisi all’ipotesi dell’improvvisazione (salvo che si pensi a una scrittura p o st eventum)-, cfr. su questo il giudizio di P.G. Beltrami, Per la sto ria d e i trovatori: un a discussion e, in «Zeitschrift für französische Sprache und Literatur», 108 (1998), pp. 27-50: «Non c’è tenzone né p artim en senza collaborazion e di due autori alla costruzione del discor­ so. Poiché per decidere sulle condizioni effettive dell’elaborazione sia­ mo comunque costretti a ricorrere all’immaginazione, non so immagi­ nare come questi testi potessero prodursi da un effettivo contrasto, da una situazione realmente polemica; ma posto anche che il testo-dibatti­ to potesse prodursi, talvolta, per improvvisazione, esso era destinato, o fu destinato nel caso di tutti i testi conservati, ad una diversa fruizio­ ne, in cui le due parti sono due personaggi, le voci sono quelle di due attori. Altrimenti, come sarebbero giunti, questi testi, a impaginarsi nel­ la forma del ‘libro’ con la quale ci è giunta la poesia trobadorica?» (pp. 34-35).

è svolto contando più della dignità stessa del tem a82. S ’in­ tende che tra università e corte cam bia, se non il loro ri­ lievo oggettivo, il genere degli argomenti, posto che ai te­ mi eruditi subentra, di solito, la casistica am orosa o quella ricavata dalla vita di corte; ciò non toglie che quaestiones relative alla genesi o alla natura d ’amore, e insom m a al versante intellettuale della passione, trovino spazio anche nelle aule; dagli elenchi pubblicati da G lorieux appren­ diam o per esem pio che nella facoltà di T eologia parigina si poteva dibattere su un quesito com e «U trum complacentia visus sit causa am oris», che sem bra ricavato dal D e am ore del Cappellano; oppure su casi più sottili che ci av­ vicinano, piuttosto che a trovieri e a trovatori, ai siciliani e al D ante della Vita Nova: «U trum habitus connaturales animae qui sunt notitia et am or, sint substantia animae vel sint accid en tia»83. Che il contenuto e le idee siano, nel jo c , m eno im por­ tanti della virtù dialettica, risulta con chiarezza da affer­ m azioni com e q u e sta84: De Berguedan, d’estas doas razos al vostre sen chausetz en la meillor, qu’ieu mantenrai tant ben la sordejor q’ie-us cuich vensser, qui dreich m’en voi jutgar. Un simile vantaggio - lasciare all’avversario la razo m iglio­ re e difendere la sordejor - sarebbe schiacciante se a d e ­ cidere del jo c fosse la giustezza delle tesi sostenute e non la sapienza dialettica con la quale il poeta sviluppa quelle 82 E vi è infine anche un retaggio linguistico, termini e strutture sin­ tattiche caratteristiche che dalla d is p u ta lo si trasmettono al j o c : cfr. Neumeister, D a s S p ie l , pp. 51-58. 83 Cfr. P. Glorieux, L a littératu re quod lib étiqu e, 2 voli., Paris, Vrin 1935, II, pp. 241 e 80. 84 Aimeric de Peguilhan e Guillem de Berguedan, D e B e rg u e d an , 14 (cfr. T h e P o em s o f A im eric d e P egu ilh an , ed. by W.P. Shepard and F.M. Chambers, Evanston, 111., Northwestern University Press 1950, pp. 116-120): «De Berguedan, scegli, di queste due alternative, quella che ti sembra migliore: io difenderò la peggiore così bene che - giudi­ cando secondo giustizia - ti sconfiggerò» (trad. mia).

tesi, giuste o sbagliate che siano. N ella tenzone tra Bonifa­ cio Calvo e Luchetto G attilusio di vero e falso si parla sol­ tanto, un p o ’ inaspettatamente, alla fine del dibattito, ma le parole di Bonifacio hanno per così dire effetto retroatti­ vo, perché rivelano quale fosse la materia del contendere e assegnano le parti del vincitore e del vinto85: Mantenen tort e zo don non ai cura, vos ai vencut, Luchetz, don sui ioios, car ai monstrat qu’eu sai tan plus de vos, c’ab tort conten miels qe vos ab drechura. Sapere significa qui ‘saper essere retoricamente scaltro’; due affermazioni - «h o vinto» e «h o torto» - che in circo­ stanze normali sarebbero in contraddizione l’una con l’al­ tra posson o stare insieme, qui, perché alle categorie asso ­ lute di vero e falso si sono sostituite quelle, relative, di ‘bene o male argom entato’. Il secondo elemento che dev’essere sottolineato è il forte legam e funzionale con il pubblico delle corti. E vero che questo si può dire di quasi tutta la lirica gallorom an­ za, m a non esiste probabilm ente genere che più del jo c presenti chiari, nello stile e nei temi, i tratti dell’arte socia­ le. D al m om ento che il jo c non ha valore conoscitivo, non dim ostra una tesi (o meglio la dim ostra e la confuta a un tem po senza raggiungere una conclusione), né ha, d ’altra parte, la suggestione lirica del grande canto cortese, d o b ­ biam o pensare che il m om ento dell’esecuzione fosse qui particolarm ente importante, e che almeno una parte del piacere del testo derivasse dalla possibilità, per gli astanti, di prendere posizione rispetto al dilemma proposto. D i fatto, anche nel quarto libro del Filocolo i jo c sono un m o­ m ento della festa cui prende parte Fiam m etta con i suoi com pagni e compagne: non semplicem ente testi, letti o re­ 85 Bonifacio Calvo e Luchetto Gattilusio, Luchetz, se-us platz, 61-64 (cfr. Bertoni, I tro vato ri , pp. 430-433): «Sostenendo il torto e ciò di cui non mi do pensiero, vi ho vinto, Luchetto, e di questo fatto io sono alle­ gro, perché ho mostrato ch’io so molto più di voi, giacché stando dalla parte del torto tenzono meglio di voi che avete ragione».

citati, ma una form a d ’intrattenimento paragonabile alla danza o al can to 86. Il contesto culturale e sociale in cui vi­ ve la m aggior parte dei poeti italiani è naturalm ente molto diverso. Anche qui il peso che nella form azione di un in­ tellettuale hanno il m etodo e la retorica scolastica è gran­ de. Per la poesia, il rapporto con le strutture della quae­ stio e della disputatio si può dire anzi quasi fondativo: ma è un rapporto che si va facendo progressivam ente sem pre più debole. N el Trecento il prestigio della dialettica cono­ sce un declino relativamente rapido; scem a di riflesso - e ciò è em erso chiaramente dalla som m aria storia della tenzone che abbiam o tracciato nelle pagine precedenti - la sua influenza sui generi letterari. Sul piano dell’orga­ nizzazione sociale, la discontinuità è poi ancora più netta. N ellTtalia trecentesca si dà certamente la corte com e for­ mazione socio-politica, non però una cultura cortese dai caratteri sufficientemente definiti. Soprattutto in ambito letterario l’iniziativa resta in m ano a liberi intellettuali che con le corti hanno, se lo hanno, un rapporto non organi­ co: « Il lirico del Trecento, più che intorno alle corti (che, tranne poche eccezioni, non hanno ancora la com plessità di quelle principesche) gravita intorno al sig n o re »87. E quanto al D uecento, una volta chiusa la breve ed isolata esperienza federiciana, il nesso che veramente conta per spiegare certi aspetti dei generi e dei testi che qui stiamo considerando è quello tra poesia e civiltà (pubblico) co­ munale.

9.3. Jo c partit ‘m ancati’ nel Duecento italiano Q uesto rapido confronto tra l’area gallorom anza e l’Italia era necessario per introdurre il discorso sul posto occupato dal jo c partit nella nostra tradizione poetica. Sul­ la scorta di quanto si è osservato fin qui possiam o dire 86 Cfr. G. Boccaccio, Filocolo, pp. 381-384; e sul carattere ‘cortigia­ no’ del jo c e di forme affini cfr. Neumeister, D a s Spiel, pp. 85-86. 87 Santagata, L a lirica d i corte , p. 22.

che alla diffusione di questo genere ostavano dunque due fattori: un allentamento del legam e tra le strutture della poesia e la form a della disputatio, a m ano a m ano che ci si addentra nel Trecento; e un diverso rapporto tra la poesia e il pubblico, cioè in sostanza il fatto che gli autori non recitino più i loro testi di fronte a un uditorio m a li scriva­ no in vista di una fruizione privata: fruizione attraverso lo scritto che se può essere m essa in dubbio talvolta per al­ cuni generi m onologici - le ballate in ispecie - è presso­ ché certa per quelli dialogati. Sem pre su un piano generale, occorre tenere conto di un terzo elemento. M entre la tenzone, anche in Provenza, pu ò consistere in un rapido scam bio di battute, un botta e risposta di due sole strofe, il jo c p artii non riesce, fallisce il suo scopo se non si sviluppa per almeno quattro o sei stanze più i congedi: tutto sta infatti nel discutere, accu­ m ulando ragioni e confutando quelle dell’avversario, un problem a formulato nella prim a stanza dal proponente. Leggiam o per esem pio la prim a cobla del jo c tra Sordello e Bertran d ’A lam anon88:

5

Bertrans, lo joy de dompnas e d’amia q’avetz avut ni ja nulla sazo aures, cove que perdatz per razo, o-l pretz d’armas e de cavallairia; pero selha creira, cuy etz aclis, ses plus, qu’ades siatz ab armas fis. Qual voletz mai laissar, a vostra via, o retener? q’ieu say ben qual penria.

L ’ultima battuta di Sordello è evidentemente un’esca, un invito a proseguire il dialogo: l’allusione («io so bene qu a­ le prenderei») deve invogliare il partner a dire la sua. L ’in­ 88 Trad. Boni, pp. 102-106: «Bertrando, supponiamo che sia neces­ sario che voi perdiate il diletto che avete avuto e che mai in qualche momento avrete dalle dame o da un’amica, o la gloria data dalle armi o dalla cavalleria; e tuttavia colei a cui siete devoto crederà, senz’altro, che voi sempre siate perfetto nelle armi. Quale cosa preferite lasciare o conservare, durante la vostra vita? Ché io so bene quale prenderei».

vito viene raccolto dal corrispondente, che replica sce­ gliendo uno dei due corni del dilem m a (la gloria delle ar­ mi), e lasciando l’altro a Sordello (l’amore), sicché il joc, correttamente im postato, si prolunga per altre quattro stanze e due congedi. Il jo c tra Sim on e Albertet N ‘A lbert, chauçeç (B d T 436, 2), ha uno svolgimento analogo; date (da Sim on) queste due possibilità: incontrare ogni giorno la propria donna in un palazzo, vestita e calzata, in piena luce, oppure averla ogni notte nuda, nel letto, m a sem pre al buio - che cosa è m eglio? D ica il partner ciò che gliene pare: « C ’al mieu senblant ieu sai ben cal pernia» («io so bene quale alternativa sceglierei»)89. Leggiam o ora il sonetto di Rustico Filippi D ue cavalier. Due cavalier valenti d’un paraggio aman di core una donna valente; ciascuno l’ama tutto in suo coraggio, 4 che d’avanzar d’amar saria neiente. L ’un è cortese ed insegnato e saggio, largo in donare ed in tutto avenente; l’altro è prode e di grande vassallaggio, 8 fiero ed ardito e dottato da gente. Qual d’esti due è più degno d’avere da la sua donna ciò ch’e’ ne disia, 11 tra quelli c’ha ’n sé cortesia e savere e l’altro d’arme molta valentia? Or me ne conta tutto il tuo volere: s’io fosse donna, ben so qual vorria. Q uesto è il prim o tem po di un jo c partit. Il tema è trovato chiaramente nella letteratura, ovvero nella casistica cor­ tese che già era al centro dei jo c provenzali; m a anche la struttura sem bra riprendere quei modelli: com e nei te­ sti trobadorici appena citati, il poeta pone una dom anda al suo corrispondente ma fa capire di conoscere già la verità e di essere pronto a dirla, s ’intende in un successivo 89 Cfr. J.H. Marshall, D e u x p artim e n s p roven çau x du ch an son n ier in M iscellan ea d i stu d i in on ore d i A u re lio R on caglia a c in q u a n ta n n i d al­ la su a lau rea, 4 voli., Modena, Mucchi 1989, III, pp. 809-817.

T,

sonetto, dopo aver letto il falso parere del partner. « S ’io fosse donna, ben so qual vorria» - la stessa form ula che concludeva la stanza d ’esordio di Sordello e quella di Simon. N el responsivo, Bondie sceglie, correttam ente, uno dei due corni del dilemma: migliore è l’amante «cortese e saggio ed insegnato». L a chiusa fa eco alla chiusa di R u­ stico: « s ’io fosse donna, a quel m ’aprenderia». Ci aspette­ rem mo una controreplica da parte di Rustico, poi un nuo­ vo intervento di Bondie, e così via. Invece il dialogo si conclude qui: Rustico, che pure aveva detto di sapere b e ­ ne quale fosse l’opzione migliore, non aggiunge altro, e lo scam bio, che aveva avuto un tipico avvio da jo c, mette ca­ p o a una tenzone di due soli sonetti - una tenzone atipica e ‘innaturale’ perché il risultato non è un dibattito sull’eti­ chetta cortese né un duello retorico né il resoconto di un’esperienza personale. N on il tema però deve sorpren­ derci, ma la brevità, che letteralm ente cam bia il genere del testo. E per questa ragione che gli scam bi di due so­ netti non si possono chiamare joc. la lunghezza è un carat­ tere prim ario, non secondario del genere. N el sonetto Vostro saver (P 149), il lucchese Bartolo­ m eo dom anda a Bonodico se una donna debba preferire, tra due amanti, quello ardito o quello riservato. Anche in questo caso tema e svolgimento sono tipici del jo c p a rtii90: 4

8

Di dui amanti molto piacentieri, ch’aman di fino core un’alta amanza, l’un ha baldeza e mostra volentieri ciò che gli avèn per lei con arditanza; l’altr’è dottoso e biasma li parlieri, ch’a la sua donna contan lor pesanza. A cui degia donar so intendimento la gentil donna, che di ciò è sagia?

90 R im a to ri siculo-toscani, pp. 94-95 (w. 3-10); e cfr. Marrani in Ru­ stico Filippi, I so n etti , p. 70.

L a replica di Bonodico è una professione di m odestia e di relativismo. L a donna non am a se non chi le piace, non im porta se costui sia riservato o passionale, e in ogni caso il mittente, che è molto più saggio, conoscerà la risposta giusta ( G ià non sete, 9-14): Amar non pò contra ’1 suo piacimento donna valente, col fin amor sagia: 11 voi ne savete ’1 ver, che mi negate. Altro non vo’ dichiaro, ch’eo non sento: non richerete in me più ch’eo non n’agia, s’eo vi discrivo fallo, voi mendate. Che cosa accade qui? Che Bonodico elude il problem a e chiude la discussione mentre dovrebbe lasciarla aperta scegliendo una delle due possibilità (o l’am ante riservato o quello ardito) senza cercare di conciliarle. M od estia e relativismo vanno infatti contro le leggi del jo c p artii, che im pongono di non essere m odesti e di non aderire alla p o ­ sizione assunta dal partner e di difendere invece il proprio punto di vista anche al di là del vero (si ricordino le parole di Bonifacio Calvo citate sopra). M odestia e lodi per il col­ lega sono invece, come sappiam o, elementi q u asi necessari nelle normali tenzoni, per lo m eno in Italia; e qui abbiam o dunque un caso istruttivo di sovrapposizione delle leggi di un genere sulle leggi di un genere affine (m a alm eno per questo aspetto antitetico: il jo c partit, ripeto, non tollera infatti m odestia ed elogi): anche in quest’occasion e il ri­ sponditore ha ridotto a una norm ale corrispondenza in so ­ netti (ma non norm ale in quanto vi si parla di un exemplum fictum e non di private esperienze) quello che era iniziato come un jo c. L a contraddizione, l ’errore - con­ traddizione e errore ancora più vistosi che nel caso prece­ dente dal m om ento che qui la m ancata replica da parte del proponente Bartolom eo non corrisponde a una scelta: da­ to il tenore della risposta egli non può replicare - stanno in questo, che un tema da jo c p artit viene svolto al m odo di una tenzone: cioè adottando la retorica e, soprattutto, le dimensioni, la ‘durata m edia’ di una tenzone.

9.4. Perché il jo c p a rtit non ebbe fortuna in Italia Ci si può d o m an d are se in casi come questi il rispon­ ditore volontariam ente non ‘sta al gioco’, cioè rifiuta di portare avanti un dibattito fasullo com’è quello del jo c o se egli invece non capisce le intenzioni del proponente perché ignora o dim entica le leggi del genere. Q uel che è certo è che, oggettivam ente, la form a del sonetto non aiuta nella costruzione del jo c partit. Quello che ho indi­ cato come il terzo elem ento di discontinuità tra Provenza e Italia è infatti il p iù im portante: la sostituzione del so ­ netto alla cobla com e battu ta del dialogo in versi, sia ten­ zone o sia jo c, ha tra i su o i effetti quello di distanziare gli autori che vi sono coinvolti e di dilatare i tem pi dello scam bio. N é va dim enticato il fatto che, non essendovi un pubblico che assiste alla recitazione dei testi, non c ’è nep­ pure, tra gli autori, un accordo preventivo circa la durata del dialogo: o una d u rata m edia da rispettare. Tutto que­ sto da un lato fa sì che i poeti italiani siano, nel dialogo, m olto più liberi risp etto ai loro predecessori, ma d all’altro rende più difficile e lab o rio so cucire insieme lunghe serie di com ponim enti. V ale a dire che per quanto sia indub­ biam ente un genere m etrico votato «all’aggregazione te­ stu a le »91, il sonetto ha, a paragone della cobla, un’autono­ mia form ale m olto m aggiore. Perciò, mentre la tenzone provenzale è un testo scritto a quattro mani, di lunghezza variabile, la tenzone italiana è un insieme di testi, ciascu­ no virtualmente au ton om o (e talvolta realmente autono­ mo, scisso dal co m pagn o , nella tradizione manoscritta); un insieme anch’esso di lunghezza variabile, ma il più del­ le volte com posto di due-quattro elementi: quando lo scam bio dura più a lu n go ciò non dipende da una decisio­ ne prelim inare di colui ch e formula l’invio (o dalle ipoteti­ che esigenze di un p u b b lico che non c’è, o non c ’è anco­ ra) ma dal fatto che la discussione si complica o che altri autori vi s ’introm ettono con propri sonetti.

91 Gomi,

M e trica e a n a lis i,

p. 68.

Q uesta assoluta m ancanza di costrizioni e regole (nel tem po, nello spazio, nell’estensione) fa insieme la fortuna della tenzone - che è alla lettera il genere poetico più po­ polare del M edioevo - e la sfortuna del jo c in Italia. D al punto di vista formale, il sonetto non basta a garantire la continuità di un dibattito che, nel caso del jo c, non può esaurirsi in un botta e risposta m a deve essere prolungato. D al punto di vista della ricezione, si è già osservato che il jo c è, se mai ve ne sono, un genere sociale, fatto per diver­ tire e stim olare intellettualmente il pubblico delle corti o - nell’ottica di Köhler - p er collaudarne l’ideologia. L a poesia italiana è invece, almeno in quest’epoca, un’arte senza committenti: davanti agli autori non vi è alcun p u b ­ blico determinato, e le tenzoni (le norm ali tenzoni) han­ no, spesso, circolazione soltanto privata. C ’è poco spazio, dunque, o non ce n ’è affatto, per quel tipo di fruizione ‘corale’ - con il coinvolgimento degli spettatori che par­ teggiano per l’una o per l’altra tesi, il giudizio finale, ecc. - che il jo c p artii presuppone. A beneficio di chi, allora, im bastire lunghi dialoghi su questioni che non hanno al­ cun interesse reale? Q uesta dom anda ci invita a fare un ulteriore passo avanti e a porci il problem a del contenuto dei joc. Scorrendo il repertorio del G RLM A si vede facilm en­ te che i cam pi tematici dai quali vengono estratti i soggetti per i jo c sono quelli dell’etica cortese e dell’amore: non però di solito l’amore inteso com e avventura individuale (confessione, lam ento, racconto, richiesta di consiglio) ma l’am ore-oggetto, la casistica92. Perciò le dom ande-tipo so­ no di questo tenore: se la donna debba preferire un cava­ liere ricco a uno povero; se sia meglio una donna con un bel corpo o una con un bel viso; se sia meglio amare senza essere amati o essere amati senza amare. Difficilm ente gli autori italiani e il loro pubblico potevano essere interessa­ ti a questioni simili, in vario m odo connesse ad un orm ai 92

Cfr. G ru n d riss d er rom anischen L iteratu ren des M ittelalters Band 13/1, Fascicule 7 (L e s gen res lyriques), Heidelberg, Winter 1990. {G R L M A ),

tram ontato ordine cavalleresco (a quella cultura e atm o­ sfera, se non davvero a quella prassi). E perciò una con­ traddizione soltanto apparente che i pochi veri jo c italiani peschino dallo stesso repertorio tematico. Ciò si deve p re ­ cisamente al fatto che il jo c non diventa mai veramente un genere italiano, non si riem pie mai di contenuti più attuali e prossim i all’esperienza dei lettori, contenuti che del re­ sto verrebbero abbassati a pu ro pretesto per un esercizio dialettico cui sono indifferenti il vero e ü falso. Così gli esem plari italiani sono per buona parte calchi di modelli trobadorici, talvolta con riprese letterali. R apporti pun­ tuali sono stati docum entati, tra gli altri, da Stiefel e da R ajn a93. Piuttosto che sulla qualità di questi testi occorre tuttavia insistere sul numero. Naturalm ente, la distinzione tra le ‘com uni’ tenzoni e le tenzoni che si possono considerare jo c non è affatto netta, così com e non era netta - dobbiam o credere - nella coscienza dei poeti. Se guardiam o alle testimonianze esterne, nessuno dei metricisti italiani del M edioevo ac­ cenna al jo c, né com e genere autonom o né com e sottoge­ nere della tenzone; e mentre in alcuni manoscritti si ri­ scontra la tendenza più o m eno chiara a raggruppare le tenzoni in sezioni o sequenze com patte, niente di simile accade per il jo c, ciò che invece aveva potuto verificarsi nella tradizione dei trovatori e dei trovieri94. N é di fatto 93 Cfr. H. Stiefel, D ie italienische T enzone des X I I I Jah rh u n derts u n d ih r V erhältnis zu r proven zalischen T enzon e, Halle a.S., Niemeyer 1914; P. Rajna, L ’episodio d elle q u estio n i d ’am ore n e l «F ilo c o lo » d e l Boccaccio, in «Romania», 31 (1902), pp. 28-81; e Id., U na question e d'am ore. 94 Cfr. rispettivamente Billy, P o u r une réh abilitation , p. 279, e R. Crespo, I l raggruppam en to d e i «je u x -p a rtis» n ei canzonieri A, a e b, in L y riq u e rom an e m édiévale: la tradition d es chansonniers, Actes du Col­ loque de Liège, Liège, Bibliothèque de l’Université 1989, pp. 399-426. In un solo caso, che io sappia, tenzoni italiane riportabili alla tipologia del j o c vengono trascritte in sequenza. Alle cc. 56r (col. b) e 56v (col. a) del ms. Magi. VII 1040 (nella decima sezione del codice, secondo la de­ scrizione di D. De Robertis, C en sim en to d e i m an oscritti d i rim e d i D a n ­ te (I), SD 37 [1960], pp. 142-273, alle pp. 211-12; e cfr. più ampiamen­ te Id. U n codice d i rim e an tich e ora ricostituito [Strozzi 6 2 0 ], SD 36 [1959], pp. 137-205), in mezzo a rime popolari francesi e italiane, è in-

è possibile trovare, nei testi, appigli per una distinzione netta. D irem o dunque che som igliano a jo c, ne condivido­ no l’aspetto caratteristico, quelle tenzoni in cui a un que­ sito di natura teorica, meglio se form ulato in form a di di­ lemma, risponditore e proponente danno soluzioni o p p o ­ ste e non conciliabili.

9.5. Una rassegna delle tenzoni italiane classificabili come «joc partii» U na simile definizione esclude le tenzoni scientifiche a soluzione aperta (per esem pio quella tra i poeti lucchesi sulle virtù del ferro) e quelle politiche; ma anche, ad esse­ re rigorosi, quelle in cui la teoria è applicata a un caso in­ dividuale. Si considerino per esem pio la citata tenzone di D ante (Alighieri o da M aiano) con Chiaro, di quattro so ­ netti, e quella ancora di D ante (com e sopra) e Puccio Bellundi, in due sonetti. N ella prim a il poeta, innamorato, chiede a Chiaro se debba farsi avanti e «richiedere d ’am o­ re» l’am ata o restare silenzioso; Chiaro gli risponde di d i­ chiararsi apertamente; D ante rifiuta il consiglio e si p ro ­ pone di «am are e non cherere» per rispetto alla donna; fatti copiata la te n z o n e jo c cui abbiamo già accennato, formata dai sonn. D u e cavalier e D a p o i che, il primo però con attribuzione a Palamidesse invece che a Rustico, il secondo senza attribuzione. Di seguito, la tenzone/òc studiata da Rajna, tra uno sconosciuto Adriano (T re g io ­ v a n i so n ) e un altrettanto sconosciuto «Frate Anton da Pisa» (Perché non siam o ). È possibile che la consecuzione sia casuale, ma non si può neppure escludere che lo scriba, italiano ma esperto anche di poesia francese, fosse alienato a riconoscere esemplari di jo c quando li trovava, e di proposito abbia voluto riunirli insieme. Meno significativa è la suc­ cessione in Ch (c. 99r-v) delle tenzonicele tra Verzellino e Dino Fresco­ baldi e tra Rustico e Bondie (qui però senza attribuzione); dal momento che tra le due coppie è trascritto il sonetto sciolto Deh, gio van etta di Dino Frescobaldi; e meno significativa è la scrittura in sequenza, nel co­ dice Mezzabarba (Marciano It. Di 191), di due tenzoni che ricordano anch’esse, per tema e svolgimento, il jo c . quella fra Dante e Chiaro Da­ vanzali e quella fra Dante e Puccio (cc. 61v-62v) - poiché qui a contare è probabilmente l’identità di mano (di una delle due mani, quella di Dante), non l’identità di genere.

Chiaro replica che se crede di ottenere l’amore della d a­ ma senza confessarle prima il suo resterà deluso, e ripete il consiglio di farsi avanti. N ella seconda tenzone, D ante, com battuto tra l’am are una «d o n n a di p araggio», cioè una nobile, e il non amarla, chiede consiglio a Puccio; questi «risponde, dopo com plim enti nelle quartine, in m odo francamente positivo: Am ore si posa dove lo porta il suo desiderio, incurante delle qualità dell’oggetto» (Contini). O ra, il tema di entram be queste tenzoni sottende un quesito di natura teorica, la teoria dell’amore cortese, e potrebbe essere form ulato in maniera impersonale. N on cioè: ‘amo una donna e sono in dubbio se dichiararmi o m eno’; bensì: ‘l’amante cortese deve confessare il suo am ore o deve tacerlo?’; e non: ‘m i chiedo se io debba am are una donna di nobile condizione oppure n o ’; bensì: ‘è lecito amare una donna che nella gerarchia sociale o c ­ cupa un posto più elevato del p ro p rio?’. Avremmo, in tal m odo, dei veri e propri jo c, e di conseguenza, probabil­ mente, delle discussioni prolungate e non dei semplici botta e risposta. M a la declinazione del tema in chiave personale ci induce a considerare questi scam bi piuttosto com e delle tenzoni, benché vicine al jo c per la loro form u­ lazione dilemmatica. D ate queste prem esse e fissati questi requisiti, la defi­ nizione che ho elaborato sopra si può applicare in m anie­ ra più o m eno stringente soltanto a pochi esem plari due­ centeschi e a pochissim i esem plari risalenti ai due secoli successivi. E chiamerei dunque jo c piuttosto che tenzoni, nel X III secolo, solo gli scam bi seguenti: 1. Chiaro Davanzati e Pacino (ed. Menichetti, nn. 109-113): se l’Amore sia o non sia un dio (nove sonetti)95. 95 E notevole il fatto che nei due sonetti conclusivi i due poeti ag­ giungano una coda quadristica: di endecasillabi (Pacino) e di settenari (Chiaro). Sia per la struttura metrica sia per il contenuto - ciascuno dei due tenzonanti ribadisce le sue ragioni - esse corrispondono ai congedi che concludono le tenzoni trobadoriche: il che, insieme al tema e alla terminologia impiegata, rende ancora più saldo il legame con quella tra­ dizione (se n’era accorto il Colocci, che nel ms. Vaticano lat. 4823, co-

2. Federigo da l’Ambra e ser Pace (P 159-66): che cosa sia me­ glio, amare e soffrire o non amare affatto (otto sonetti, non per le rime). 3. Ricco da Firenze e ser Pace (P 176-79): sulla natura d’Amore e se sia meglio amare una donna o una fanciulla (quattro so­ netti) 9é. Vi sono inoltre scam bi di due soli sonetti nei quali sia il te­ ma sia la formulazione del tema, nel missivo, rinviano al jo c partit\ essi debbono però essere considerati a parte in quanto violano quella che ho indicato com e una delle leggi form ali del genere, la legge relativa alla ‘durata’ del dialo­ go, al num ero - non meno di due a testa - degli interventi. 4. Bartolomeo, Vostro saver, e Bonodico, Già non séte (in Rima­ tori siculo-toscani, pp. 94-95): se sia più degno d’amore l’amante riservato o quello ardito. 5. Rustico Filippi, Due cavalieri, e Bondie Dietaiuti, Da che ti piace (V 623-24): se sia più degno d’amore l’amante cortese e saggio o quello valoroso.

pia di V, in margine all’ultimo sonetto di Pacino annota: «Coda del so­ netto, quasi congedo di tutti» [c. 382r]). 96 Non includo nell’elenco la tenzone del ‘duol d’amore’ fra Dante e Dante da Maiano perché il quesito posto nel primo missivo (quale sia il maggior dolore in amore) non è espresso in forma dilemmatica. Ma al jo c p a rtii rimandano sia la lunghezza dello scambio sia le obiezioni che Dante da Maiano solleva ad ogni replica sia, infine, l’impiego di formu­ le caratteristiche di quel genere: per esempio l’allusione ai «manti» che sostengono un diverso punto di vista (L o vostro fe rm o dir, 11) o il riepi­ logo e la preghiera di dire il vero: «vostro saver che chiari ancor, se vole, | se ’1 vero o no, di ciò mi mostra saggio» (ibidem , 13-14), da con­ frontare per esempio con il verso che chiude la prima strofa del jeu-part i tra Ferri e Jean Bretel: « J’en veul de vous savoir la verité» (cfr. O. Schultz-Gora, V ier un edierte Jeu x-p artis, in B a u ste in e zu r rom anischen Philologie. F estgab e f u r A . M u ssa fia , Halle a.S., Niemeyer 1905, pp. 90107, a p. 106); e, in Italia, con Ricco, S a lu te e gioia, 14: «s’è ver [la con­ trobiezione], parlate, k’eo risposta atendo»; e con Bartolomeo, Vostro saver, 14: «scrivendomi di ciò la veritate» - entrambi estratti da tenzo­ ni-/«:.

6. Verzellino, Una piacente donna, e Dino Frescobaldi, Al vostro dir (in Frescobaldi, Canzoni e sonetti, pp. 62-65): se sia meglio amare una donna matura o una fanciulla. 7. Ser Pace, Ricorro ala fontana, e Dello da Signa, Non come par­ vo (P 156-57): se si possa essere virtuosi senza amore. Com e si vede, gli esem pi non sono molto numerosi, gli scam bi (salvo i casi [1] e [2]) hanno un’estensione ri­ dotta e soprattutto, se anche non dipendono direttamente dalle fonti galloromanze, i quesiti che vi vengono affron­ tati rim andano a questa gam m a e a questo giro d ’interessi. Il fatto che, com e abbiam o visto, in alcuni ‘quasi-ybc’ il te­ m a che trovatori e trovieri avrebbero trattato in maniera oggettiva (‘è bene dichiararsi all’amata oppure n o ?’) ven­ ga invece subordinato ad una evidentemente fittizia espe­ rienza personale (‘mi devo dichiarare oppure n o ?’) - que­ sto fatto è significativo: m ancando una vera e propria tra­ dizione di genere e m ancando un pubblico che sia coin­ volto nella discussione, un interrogativo astrattissim o vie­ ne m ascherato da caso di coscienza; all’interno della m e­ desim a form a poetica (la tenzon t-joc) assistiam o qui, tra m odelli trobadorici e ‘copie’ italiane, a un cam bio di regi­ stro, dal teorico-oggettivo al (falso) lirico. Possiam o allora ipotizzare che a m ano a m ano che il legam e con la tradi­ zione provenzale si allenta e, come sopra si è osservato, a m ano a m ano che decresce il peso della dialettica nella form a m entis degli intellettuali del M edioevo, anche lo spazio della tenzone-ybc si restringa ulteriormente. I dati di cui disponiam o conferm ano questa ipotesi. Vi è innanzitutto, nel Trecento, una sorta di ‘scuola del B occaccio’: scuola di chi cioè sia in prosa - nel quarto libro del Filocolo e nella decim a giornata del Decam eron, novelle 4 e 5 - sia in verso - nel sonetto D ue belle donne, con risposta del Pucci - aveva elaborato delle ‘questioni d ’am ore’ analoghe per struttura e per tema al jo c partii. Il Pucci stesso, a sua volta, propon e ai suoi corrispondenti dilemmi ‘cortesi’ nel sonetto Una che m ’ha d’am ore il cor ferito (se sia meglio avere, del corpo di una donna, la p ar­ te dalla vita in su o quella dalla vita in giù), nel sonetto

Uno ha tre figlie, e nella canzone Perch’io so poco, che trae il suo argom ento dalla novella IX 1 del D ecam eron 97. D al­ la prim a delle tredici questioni d ’am ore del Filocolo di­ pende probabilm ente il veneto Pietro M ontanaro nel missivo Com e zio sia cosa al Vannozzo (una donna, corteggia­ ta da due uomini, pone una ghirlanda in capo all’uno, dal capo dell’altro la toglie, ponendola sul proprio: chi è il prescelto?); nel saggio Una questione d ’am ore, in cui p u b ­ blica e commenta questa tenzone, Rajna segnala altre quattro tenzoni-yoc trecentesche che svolgono un motivo molto simile (cam biano il num ero dei pretendenti e lo scenario ma il ‘caso ’ resta in sostanza lo stesso): motivo del quale Rajna trova tracce, ben oltre la letteratura trobadorica (in un torneyamen fra Savaric, G aucelm Faidit e U c de la Bacalaria), in G iam blico e nel retore Fortunaziano (III-IV sec. d.C.). Con il M ontanaro e il Vannozzo ci troviamo in u n ’età successiva a quella di Boccaccio, sullo scorcio del T recen­ to. Rim anda ad anni non lontani il sonetto di Ja c o p o da M ontepulciano Lo ’nfiam m ato pensier, che pone ad A nto­ nio del Bene un quesito d ’amore strutturato com e un /o c 98. E a una stagione ancora leggermente più avanzata appartengono le brevi tenzoni-/oc cui prende parte - sem ­ pre com e risponditore - Franco Sacchetti (nn. 66a-b, 124a-d, 160a-b). Sta infine a sé per varie ragioni - non ul­ tima la statura del poeta che vi è o vi sarebbe coinvolto - la tenzone tra Stram azzo da Perugia e Petrarca. O tto so ­ netti, tutti sulle stesse rime: è un più «perfetto piacere» - dom anda Stram azzo a Petrarca - stringere una nuova amicizia o «avere l’u so», cioè godere di un’amicizia già contratta da te m p o ?99 97 Cfr. Pucci, L ib ro , p. 276; A. Bettarini Bruni, Un q u esito d ’am ore tra P ucci e Boccaccio, in SFI, 38 (1980), pp. 33-54. 98 Cfr. L. Gentile, R im e in edite d ’Iacopo da M on tepulcian o e d 'altri a lui, in GSLI, 3 (1884), pp. 222-230, alle pp. 229-230; il codice che tra­ smette la tenzone è lacunoso, e non è chiaro in che cosa precisamente consista il quesito. 99 Cfr. F. Petrarca, R im e disperse, a cura di A. Solerti, Firenze, San­ soni 1909, pp. 114-121.

9.6. Tem i e term inologia A questo elenco si potranno fare senz’altro delle addi­ zioni, non credo però num erose, e queste verranno più probabilm ente ancora dal Trecento, non dal Q uattrocen­ to: il destino dei generi tematici nel lungo periodo è, co­ me s’è detto, quello di scom parire, e il jo c non fa eccezio­ ne (che poi motivi da jo c p artii circolino ancora a lungo nella letteratura popolare e popolareggiante è un altro di­ scorso, anche questo avviato da Rajna nel contributo cita­ to). Circa i dati sin qui raccolti, si possono fare intanto al­ cune considerazioni. In prim o luogo, se vale - come deve valere - il princi­ pio per cui la durata dello scam bio non è una caratteristi­ ca accessoria del genere ma un suo tratto essenziale, indi­ viduante, questi sonetti trecenteschi non form ano dei veri e propri jo c p artii bensì delle tenzoni le quali prendono spunto da morivi affini a quelli del joc, e tuttavia - fatta eccezione per lo scam bio tra Stram azzo e Petrarca - non li svolgono così com e il genere richiederebbe. In secondo luogo, quanto alla gam m a dei temi, siamo in generale piuttosto nella sfera del pittoresco e - se mi si passa l’ana­ cronism o - del folclorico che in quella della ‘cortesia’. V a­ le a dire che com ’è venuta m eno - coll’accorciarsi della durata dello scam bio - la funzione di esercizio retorico, così è accaduto per quella di collaudo dei princìpi della fir i am or. i temi sono ormai pretestuosi, puram ente decora­ tivi. D i quest’ultimo fatto sono prova, in terzo luogo, le reazioni stesse dei risponditori. Lorenzo M oschi risponde ad Antonio Pucci che il quesito propostogli non è nuovo: « S e mi ricorda bene, i’ ho già udito | altra fiata il partito che suona | il tuo sonetto» (1-3) 10°. E si è già ricordato (supra, par. 7.3) com e il Vannozzo liquidi il quesito p ro ­ postogli com e un «m atto d u b b io » orm ai superato, inat­ tuale, e che non m erita risposta. N on è necessario pensare alla conoscenza puntuale, d a parte dei corrispondenti, 10

100 Cfr. Pucci,

L ib ro ,

p. 319.

delle fonti - che pure ci sono - rielaborate o plagiate dai m ittenti101. È invece giusto vedere in queste reazioni un segno di stanchezza e insofferenza nei confronti degli in­ terrogativi artificiali del joc. C iò è coerente col declino, in questa stessa epoca, del tipo della tenzone-quaestio, che è per così dire la famiglia entro la quale la tenzone-joc en­ tra com e sottogenere particolare, sottogenere la cui pecu­ liarità sta nell’im postazione dilemmatica. G ià in età più antica era potuto accadere che i quesiti proposti fossero giudicati irrilevanti e venissero accolti con ironia o dispet­ to dal destinatario. Paulet aveva definito «jes de ioglaria» il tema sottopostogli da G uiraut R iqu ier102; e qualcosa di giullaresco, di basso, doveva essere connaturato al genere, se nelYensenhamen di G uiraut de Calanso saper «partire un jo c » è indicato com e un requisito essenziale per un giullare, così com e fare capriole, o suonare le nacchere e la zam po gn a103. E in T oscana, D ante da M aiano aveva risposto con uno sberleffo alla visione descritta da D ante in A ciascun’alm a e alla richiesta di consiglio. M a è solo nel tardo M edioevo, sull’onda di una generale avversità e diffidenza nei confronti dei sofism i della logica, che si giungerà al pieno rifiuto di quelle form e poetiche che di tali sofism i si m ostravano più debitrici, tanto sul piano strutturale quanto sul piano dei contenuti. A bbiam o già verificato com e non vi sia se non molto raramente, da parte dei poeti italiani, una chiara com ­ prensione delle strutture del jo c partit gallorom anzo, e co ­ m e di conseguenza altrettanto scarsa sia la capacità di ap ­ propriarsene e di riusarlo in maniera corretta, e di assor­ birlo insom m a nel sistem a dei generi italiani. Per com ple­ tare il discorso non ci resta che constatare come, sop rat­ tutto nel D uecento, lo spirito e la term inologia del jo c 101 Così Rajna, U n a qu estio n e d ’am ore, p. 565, a proposito delle pa­ role del Vannozzo («i dubii vostri [...] son per vechieza rinovati e span­ ti»): «il Vannozzo sa di trattazioni anteriori e da potersi chiamare anti­ che». 102 Cfr. S e n h ’en Jo rd a (B d T 248, 77), v. 36 (M.P. Betti, L e ten zon i d e l trovatore G u ira u t R iq u ier, in SMV, 44 [2000], pp. 7-193). 103 Cfr. Limentani, L ’eccezione, pp. 245-246.

partit abbiano, ciononostante, lasciato una traccia anche in tenzoni che né per contenuto né per struttura risultano avvicinabili a quel genere. Q u an d o per esem pio Pacino dichiara, al termine della tenzone con Chiaro: «Partire vo­ glio orm ai di questo gioco, | poi ch’io v ’ho detto assai del mio parere» (112a 15-16); o quando Francesco Smera, in un m issivo rim asto senza risposta (M ette lo so l), scrive: «V ostro parer cernite d ’esto gioco, | cem itelm e, vostro sa­ vere lo scovra» (7-8)104 - il gioco di cui si parla nei due testi è effettivamente il jo c, il quesito a struttura dilem m a­ tica. Q uesta spia lessicale non sorprende, però, in questi casi, perché si tratta appunto di jo c (o di avvìi di jo c) a tut­ ti gli effetti, nei quali la fedeltà al genere trobadorico va ben al di là della sfera verbale. Diverso è il caso di Guittone, 85.4-5: « E veggio che del gioco non ài par te. | Però parto vinciuto» - perché il testo in questione non fa parte di un jo c ma conclude la cosiddetta tenzone con la donna villana, che col jo c non ha nulla a che vedere né per la struttura né per l’assetto tematico. V ediam o così che, c o ­ me spesso accade, il lessico ‘tecnico’ di un genere ha una vita propria, di solito più larga e ramificata di quella del genere ste sso 105. In questa prospettiva, com e libere ripre­ se di un lessico orm ai soltanto debolm ente connotato e non com e allusioni al genere del jo c, vanno considerate non solo le altre occorrenze di gioco e di partito in testi italiani, ma anche l’im piego di parole com e vincere, gio­ stra, e simili.

104 Cfr. R im e antiche, pp. 136-137. 105 Va anzi osservato che nel testo di Guittone vi è V allusione al les­ sico del jo c piuttosto che il suo vero e proprio uso, dal momento che né gioco né tantomeno p artire hanno qui la stessa accezione che hanno in provenzale, e almeno per quanto riguarda il secondo termine la somi­ glianza si ferma al livello del significante (dato che p artir significa ‘divi­ dere’, non - come il p arto di Guittone - ‘andarsene’).

10. T em oni fittizie 10.1. C ontrasti Com e vedremo in dettaglio nel quarto capitolo, la liri­ ca am orosa p u ò essere distinta, dal punto di vista della sua form a retorica, in due grandi famiglie: un tipo defini­ bile com e introspettivo-narrativo nel quale il poeta espri­ me i suoi sentimenti, m edita sul suo passato o sulla sua condizione attuale in assenza di interlocutori diretti, che è com e dire rivolgendosi in m aniera implicita a quegli in­ terlocutori che sono i lettori di ogni tem po; e un tipo defi­ nibile come conativo nel quale il discorso assum e la form a di u n ’apostrofe alla donna, beninteso in assenza della donna stessa. A questi due m odelli retorici si conform a, con m aggiori o minori variazioni, la poesia d ’am ore di tut­ te le epoche. M a la lirica m edievale ne contem pla un ter­ zo: l’apostrofe in praesentia , cioè il dialogo con una figura femminile dotata di parola. T ale dialogo pu ò realizzarsi attraverso due varianti principali. È virtualmente un contrasto am oroso qualsiasi scam bio a due voci, l’una m aschile l’altra femminile, che abbia luogo nello spazio m etrico di un unico com pon i­ mento, riem piendolo per intero o quasi per intero. L a d e ­ finizione è empirica m a dovrebbe servire intanto a dare dei confini al sottogenere così da separarlo dal sottogene­ re gemello, cioè dall’altra variante del dialogo uom o-don­ na: la tenzone fittizia, che è un contrasto, un dialogo m e­ tricamente scisso, in cui cioè ciascuna battuta si estende per lo spazio di un intero com ponim ento. O ra, nonostan­ te la situazione comunicativa sia in sostanza la stessa - un amante che corteggia un’am ata, talvolta ostile, talvolta ar­ rendevole e solidale - questa difform ità strutturale auto­ rizza a parlare di due differenti generi lirici, e a distingue­ re nell’analisi. Consideriam o questi versi di G iacom o da Lentini: Ed io baciando stava in gran dilatamento

con quella che m’amava, e disse: «T t’ameraggio e non ti falleraggio a tutto ’1 mio vivente» (XVI 21-30). Q ui l’innesto della voce femminile non com porta dialogo: è la sem plice citazione di parole che la donna potrebbe aver pronunciato, o ha pronunciato di fatto, m a in un luo­ go e in un tem po diversi da quelli del testo. Si tratta per­ ciò di una tecnica di gestione del discorso lirico, soggetti­ vo, nella quale la voce dell’altro personaggio non ha vera­ mente parte. Che cosa succederà, invece, quando, pur re­ stando fermo il controllo del poeta sull’enunciato, il m o­ nologo ‘a intarsi’ si aprirà a un dialogo reale, a un’effettiva integrazione della voce femminile nel testo? Incontrerem o allora testi ‘con didascalia’ com e il seguente: L ’altr’ieri fui in parlamento con quella cui agio amata: fecemi grande lamento c’a forza fui maritata; e dissemi: «Drudo mio...» {Le rime della scuola siciliana, p. 495 = CLPIO, V 076.1-5) D opodiché la ‘battuta’ della donna prosegue per due stanze e mezzo; nelle ultime due il drudo risponde, senza però che il suo discorso sia introdotto - a differenza di quello della donna - da un verbum dicendi. In questo caso, a m antenere l’enunciato in una dim en­ sione lirico-soggettiva sono i tem pi verbali: invece di esse­ re dato in presa diretta, il dialogo viene filtrato dal ricor­ do, cioè dal racconto dell’io lirico; è una specie di discor­ so riferito in cui le battute dei due personaggi sono o p o ­ trebbero essere intervallate d a form ule del m etalinguaggio com e dice, disse, rispose. Elim iniam o anche la didascalia di cui l’autore si serve per introdurre il dialogo. Il risulta­ to sarà il contrasto nella sua form a finalmente ‘p u ra’, og­ gettiva, drammatica. Naturalm ente, questa trafila rispec-

chia un ordine logico, non storico. Al contrasto ‘p u ro ’ non si arriva, in Italia, per progressiva sottrazione degli elementi soggettivi m a per una strada m olto più diretta, ossia per imitazione di un genere già frequentato dai tro­ vatori e già noto ai siciliani. Su di esso esiste una recente m onografia, e a quella rim ando senz’altro sia per il censi­ mento e l’esam e degli esem plari duecenteschi sia per la rete dei contatti con i testi in lingua d ’oc e in la tin o 106.

10.2. L a tem one fittizia come sottogenere della tenzone, non della lirica L a tenzone fittizia giunge al termine della successione logica cui ho accennato. N on solo l ’io lirico non m edia più in alcun m odo le battute della donna (il che avviene, a rigore, anche nel contrasto ‘senza didascalia’), ma a que­ ste ultime viene anche assegnato uno spazio m etrico auto­ nomo: a un testo maschile replica un testo femminile. E com e del contrasto è possibile indicare i precedenti in am bito gallorom anzo e m ediolatino, così la tenzone fittizia trova degli esatti equivalenti in Provenza nelle canzoni a coblas alternate in cui si affrontano il poeta-amante e una donna in n om in ata I07. D a questo punto di vista, tut­ tavia, il caso delle tenzoni fittizie è leggerm ente diverso ri­ spetto a quello del jo c partii. L a tenzon e-joc è una variante d ’im portazione, estranea al sistem a dei generi italiano e, come abbiam o visto, tale rimane. L a tenzone fittizia italia­ na può certamente essersi ispirata a quella provenzale; ma la sua origine e la sua diffusione si spiegano altrettanto bene se s ’immagina che al dialogo uom o-donna sia stata estesa la tecnica adoperata in un genere in piena espansio­ ne nella seconda m età del D uecento, cioè la tenzone tout court. Siam o di fronte, in altre parole, a uno di quei rari 106 Cfr. C o n trasti am o ro si nella p o e sia italian a an tic a , a cura di A. Arveda, Roma, Salerno Editrice 1992. 107 Cfr. A. Rieger, T robairitz, Tubingen, Niemeyer 1991, pp. 307460.

casi in cui un genere servile come la poesia di corrispon­ denza sem bra aver influenzato il genere più illustre, la liri­ ca am orosa, com unicando a questa strutture e m odi ‘dia­ logici’ finalizzati, in origine, alla reale interazione con gli altri poeti. L ’autonomia metrica che il genere concede alla parte femminile introduce una differenza sostanziale rispetto al contrasto. Q ui l’assenza di didascalie, quindi di m ediazio­ ni da parte dell’io lirico, dà al testo una fisionomia di tipo schiettamente teatrale. L ’autore simula di aver registrato un colloquio con l’amata (o sim ula un colloquio che tipi­ cam ente avrebbe potuto avere luogo) e trascrive per così dire in presa diretta, senza indicazioni diegetiche. T utta­ via, il lettore non dubita che a organizzare e a scrivere il testo sia il solo personaggio maschile, l’autore insomma, il cui nome cam peggia, isolato, in ru b rica108: il contrasto si presenta dunque com e testo a due voci scritto però da un unico autore. Nella tenzone fittizia, il rapporto tra le due voci è diverso, e la simulazione è portata a un livello più alto. L a donna ci è presentata in questo caso non solo co ­ me controparte del dialogo e titolare delle parole che pro­ nuncia, m a anche come autrice del testo in cui quelle p a ­ role si trovano scritte: allo stesso m odo che, nelle autenti­ che rime di corrispondenza, il sonetto responsivo è scritto (com ’è ovvio) dal poeta cui il missivo era stato indirizzato. L a tenzone fittizia si presenta perciò anch’essa come ‘m acrotesto’ a due voci, solo che qui le due voci vengono fatte corrispondere, nella simulazione, a due differenti au­ tori. Ciò ha un’interessante conseguenza al livello di quel­ la che possiam o chiamare la coscienza del genere lettera­ rio. Vale a dire che mentre il contrasto viene percepito 108 Regola che conosce se non sbaglio una sola eccezione: «Mazzeo di Ricco e la moglie». La dicitura è anomala perché doppia, come ho detto, ma soprattutto perché ben di rado, nella lirica romanza delle ori­ gini, a essere cantato è l’amore tra coniugi. La rubrica sarà, verosimil­ mente, creazione dei copisti: un caso da manuale di ‘moralizzazione’ della f i n ’am o r (adulterina, com’è noto, o per lo meno extra-matrimonia­ le per definizione, posto che quello che viene cantato è un desiderio non ancora soddisfatto) da parte di chi ne ignora ormai le regole.

dopotutto com e un particolare m odo del discorso dell’io, rientrante quindi a tutti gli effetti nel dom inio della lirica, la tenzone fittizia è accolta piuttosto come una variante, un sottogenere della tenzone. G li indizi che ci portano a questa conclusione sono due. D a un lato, la strategia di registrazione dei testi nel canzoniere V: il quale, com e testimone per lo più unico di M onte Andrea e Chiaro Davanzati, cioè dei più fecondi produttori di tenzoni fittizie, rappresenta, per questo aspetto, il solo test veramente attendibile. All’allestitore del codice le tenzoni fittizie di un dato autore saranno giunte insieme agli altri suoi testi: precisam ente, se im m a­ giniamo a m onte una preventiva divisione tra canzoni e sonetti, insieme ai suoi sonetti. M a V è particolarm ente attento alle distinzioni di genere e separa, nella seriazione, sonetti di tenzone da sonetti sciolti. O ra, se le tenzoni fit­ tizie venivano considerate com e form e particolari che il discorso lirico-soggettivo p u ò assum ere, esse avrebbero dovuto conservare il posto che presum ibilm ente occupa­ vano nelle fonti, all’interno del corpus ‘Urico’ del loro au­ tore. Se invece esse venivano considerate com e form e p a r­ ticolari della tenzone, ecco che il loro posto avrebbe d o ­ vuto essere tra queste, fianco a fianco, cioè, con le tenzoni di altri autori. D copista di V si risolve per questa seconda soluzione. Raccoglie in un’unica serie quasi tutte le tenzo­ ni fittizie, dim ostrandosi cosciente della specificità di que­ sto sottogenere, e le sistema nelle prime sei carte del fase. X X III, neUa sezione dedicata alle tenzoni autentiche, che coinvolgono corrispondenti reali, dim ostrandosi cosciente del fatto che esse sono una specie non della Urica m a, ap ­ punto, deUa tenzone: Fase. XXIII

703-15 716-21 722-36 737-38 739-41 742-57 758-61

Tenzone Tenzone Tenzone Tenzone Tenzone Tenzone Tenzone

fittizia fittizia fittizia fittizia fittizia fittizia fittizia

di di di di di di di

Guittone Guittone Chiaro Chiaro Chiaro Chiaro Chiaro

762-65 766-67 768-69 770-72 773-77 778-80

Tenzone fittizia di Monte Andrea109 Tenzone reale tra Guittone e Monte Andrea Tenzone reale tra Monte Andrea e Chiaro Tenzone reale tra Monte Andrea e Chiaro Tenzone reale tra Chiaro e Cione Tenzone reale tra Monte Andrea e Schiatta

Il prim o indizio è dunque questo: in V la registrazione delle tenzoni fittizie è fatta guardando alla struttura dei componimenti, cioè al fatto che essi si presentano esterior­ mente come tenzoni a due voci, non alla loro effettiva qua­ lità interna, che è lirica, solo apparentem ente dialogica. M a (secondo indizio) perché il conguaglio sulle reali rime di corrispondenza sia perfetto occorre che le rubri­ che preposte ai testi ‘femminili’ diano credibilità alla si­ mulazione. L a dicitura « L a donna», che introduce i sonet­ ti responsivi nella serie L 161-72 o nella serie L 205-10 è, per l’appunto, questo effetto di realtà: constatata la p re­ senza di una seconda voce, essa simula la presenza di un secondo autore, o meglio di una seconda autrice. E se qui la finzione si svela subito per quello che è, perché « L a donna» è una dizione troppo generica, un personaggio e non una persona in carne e ossa, si pensi invece alla questione ancora istruttiva della N ina siciliana. Secondo D e Sanctis, che ragionava sulla base dei dati raccolti dalla filologia ottocentesca al di qua della scuola storica, costei era «u n ’anima piena di tenerezza e d ’im m aginazione»: con la Com piuta Donzella, la sola altra poetessa duecen­ tesca di cui restasse memoria. M a mentre l’esistenza della Com piuta (di un’autrice designata o autodesignatasi con questo setihal) è possibile, forse probabile, il nome della Nina è tram andato da una fonte più che sospetta, e che va 109 In questa tenzone sono da notare due particolarità relative ai so­ netti femminili (il primo e il terzo): da un lato il fatto che essi siano ano­ nimi, e dall’altro il fatto che non abbiano la modificazione (cioè il disti­ co supplementare nella fronte), che è invece caratteristica di Monte ed è infatti presente nei sonetti maschili (il secondo e il quarto) a lui attri­ buiti: è possibile che entrambi - il secondo soprattutto - siano accorgi­ menti tesi ad accreditare la finzione.

insom m a interpretata: «m onna N in a» è, secondo la G iu n ­ tina di rime antiche del 1527, l’autrice di un sonetto re­ sponsivo a D ante da M aiano. A dolfo Borgognoni, che co­ me altri filologi della sua epoca dubitava della genuinità di molti dei componimenti com presi nel libro m a inatte­ stati nei m anoscritti, pensò a una falsificazione dei Giunti: non solo non sarebbe mai esistita la N ina, ma l’intera ten­ zone sarebbe un centone cinquecentesco. D im ostrata da Santorre D ebenedetti l’autenticità del canzoniere di D an ­ te da M aiano, cadono anche le riserve sulla tenzone e sul sonetto della Nina. D el resto uno scam bio di form a e con­ tenuto analoghi, anch’esso in tre m embri, è appunto quel­ lo, senz’altro duecentesco, tra un anonimo e la Com piuta Donzella: il ‘falso cinquecentesco’ sarebbe stato perciò, dal punto di vista della m orfologia del genere, perfetta­ mente plausibile. L o stesso si può dire dell’esistenza di una N ina poetessa? Ovvero: il responsivo che la G iuntina le attibuisce non è in realtà opera dello stesso D ante da M aiano? E questa l’opinione di chi ha studiato con più at­ tenzione il problem a, ed è u n ’opinione ragionevole: «u n a contraffazione d ’epoca», che mette di fronte un poeta in carne ed ossa, responsabile di tutti e tre i sonetti, e un «antagonista fic tu s» m . Semmai, andrà considerata la possibilità che non il so ­ netto di «M onna N in a» sia u n ’invenzione dei G iunti, ma che lo sia «m onna N ina»: non il testo ma il nome. T ale in­ venzione sarebbe la spia di una diversa percezione del ge­ nere: la rubrica attributiva sarebbe cioè funzionale alla lettura ‘attualizzante’ di una form a lirica orm ai dim entica­ ta. N el Cinquecento, in u n ’età in cui le donne davvero scrivevano poesie, era lecito il dubbio che quella che d ia­ logava con D ante da M aiano fosse davvero la voce di una poetessa, ed era lecito colm are il vuoto della docum enta­ zione con un nome fittizio. Se invece l’invenzione di «m onna N in a» si deve ai contem poranei di D ante da 10 110 Cfr. S o n e tti e can zon i d i d iv ersi an tich i a u to ri to scan i , a cura di D. De Robertis, 2 voli., Firenze, Le Lettere 1977,1, pp. 59 e 86; e Bettarini in Dante da Maiano, R im e , pp. XXVIII XXLX.

M aiano, o a D ante stesso, quello che abbiam o di fronte non è altro che un effetto di realtà più efficace della scrit­ ta « L a donna»: tanto efficace da aver tratto in inganno non solo i curatori della Giuntina, che registrano la tenzo­ ne nell’X I libro, quello riservato ai «Sonetti de i sopradet­ ti autori m andati l’uno a l’altro», ma gli stessi storici della poesia antica sino a tutto l ’Ottocento.

10.3. A ncora il filtro dello stilnuovo: la scom parsa delle tenzoni fittizie Possiam o ricapitolare così. Il ‘genere lirica’ imita il ‘genere tenzone’; per fare questo, il poeta si inventa un’interlocutrice diretta (il che avviene anche nelle apostrofi in absentia) e si inventa le sue parole (il che avviene anche nei contrasti); m a fa di più, organizza queste parole in un testo metricamente autonom o e finge che sia la donna a scriverlo. L a som ma di queste tre finzioni è, necessaria­ mente, un m assim o di non-verità: dei vari m odi in cui può presentarsi il discorso am oroso nel M edioevo, la tenzone fittizia è dunque tra tutti il più insincero, perché è quello in cui è più evidente la m ediazione letteraria. T ale m edia­ zione, se dall’analisi vogliam o tentare ora di passare alla sintesi, si m anifesta sotto due aspetti: come tecnica e co­ me gioco. Com e tecnica. Una cieca devozione alle form ule e ai clichés: dal m om ento che la situazione comunicativa è fis­ sa (l’uom o parla/dom anda, la donna risponde) è inevita­ bile che la gam m a dei contenuti sia molto ristretta: esiste una variante cortese del dialogo nella quale la donna può accettare o può respingere le profferte dell’amante; ed esi­ ste una variante burlesca che ha buon gioco a capovolgere i manierismi delle tenzoni cortesi mettendo di fronte una ‘donna villana’ e un pretendente che mira alla m era so d ­ disfazione sessuale. A sua volta, questa fissità di contenuti determina una contrazione delle possibilità formali: la ri­ dondanza che i critici colgono confrontando tra loro le tenzoni fittizie dei duecentisti si dovrà alla rigidità che

è connaturata al genere piuttosto che alla com une dipen­ denza da un archetipo (nel caso, G uittone) o ad interte­ stu alità111. Com e gioco. L ’autore si sdoppia, dà corpo a un’interlocutrice fittizia: ma questo sdoppiam ento è, sia pure soltanto in teoria, ancora al servizio del registro lirico-sog­ gettivo. Il dialogo si presenta cioè non com e un’astratta esercitazione retorica - com e è, in altre epoche e in altre letterature, il contrasto tra enti personificati - ma come un pezzo di vissuto al quale la suddetta diversificazione delle rubriche (Dante da M aiano vs Nina) ha il preciso com pito di acquistare credibilità. A ccade però talvolta che siano le stesse rubriche ad aprire uno spiraglio sulla finzione. L a serie V 685-87 costituisce una tenzone fit­ tiz ia112: Monte, «tenzone iij», Né fu, ned è, né fia omo vivente Cione, Nesuno potè amar coralemente Monte, D ’amor son preso, si che me ritrarne Se le rubriche sono esatte (e la qualità difficilior di quella che precede il secondo testo ce lo fa supporre), i testi m a­ schili (1 e 3) sono da attribuire a M onte Andrea, quello femminile (2) a ser Cione. L a conseguenza è che un gene­ re pseudo-soggettivo (il dialogo tra l’io e la sua proiezione femminile) si fa, qui, apertam ente oggettivo; nel m omento in cui un uom o simula d ’indossare i panni della donna, il lettore è avvertito che anche i sonetti maschili debbono essere messi a carico non di chi materialmente li ha scritti 111 Non occorre pensare, insomma, a particolari strategie allusive di fronte a calchi interni di questo tipo: «Or pensa di ten er altro viaggio, | certo sii ch’està volta e la poi | ch’e’ d’esto fatto ormai te p arle rag g io » (Guittone, nel sonetto che conclude la prima tenzone con la donna: 48.12-14); e «Ben puoi ten er ormai la lingu’acorta \ e dir ciò che u piac’e star fidato, | che ’nn-alcun modo non responderaggio » (Guittone, nel sonetto che conclude la seconda tenzone con la donna: 86.12-14); e allo stesso modo la scarsità delle soluzioni formali contemplate dal codice spiega a sufficienza contatti intragenerici come quelli che si osservano fra le tenzoni fittizie di Chiaro e Ubertino. 112 Cfr. Avalle, A i luoghi, pp. 105-106.

m a dell’idealtipo dell’amante cortese: la lirica si assimila alla rappresentazione teatrale. Q ual è il futuro di questa tecnica? Com e evolve nel lungo periodo? Studiando le vicende della tenzon e-joc ab ­ biam o potuto verificare com e la fortuna di quel sottoge­ nere della tenzone sia andata decrescendo nel tem po: una diffusione discreta fra i toscani del Duecento, scarsa fra i trecentisti, probabilm ente nulla nel Quattrocento. Il d e ­ stino della tenzone fittizia è analogo, ma la cesura tra il prim o secolo e i secoli successivi è ancora più netta. Si tratta, in breve, di una form a tipicamente siculo-toscana: familiare cioè alla generazione o alle generazioni di poeti che precedono D ante. D i G uittone restano due tenzoni fittizie; di M onte due; di Chiaro sei (una delle quali non in sonetti ma in canzoni); di Rustico una; pochissim e altre si trovano, adespote, nei canzonieri duecenteschi. L o stilnuovo vale, per questo com e per molti altri aspetti, come una barriera (e il fatto che tenzoni fittizie si trovino nella Corona d i casistica am orosa del cosiddetto Am ico di D an ­ te, ai nn. X V III-X X I, è indice - uno tra gli altri - dell’e­ straneità di questo autore alla poetica della ‘scuola’: è un prestilnovista, o un attardato). Al di là di questa barriera il genere della tenzone fittizia non scom pare ma si trasfor­ ma, cam bia oggetto: cessa quasi del tutto di essere un m o­ do retorico della lirica am orosa (il terzo possibile dopo quello introspettivo-narrativo e quello conativo) e diventa un m ezzo per rappresentare contenuti di carattere sì per­ sonale, m a che appartengono alla sfera del quotidiano e del creaturale n\ Antonio Beccari inscena un dialogo,

113 Le eccezioni riguardano, per esempio, un minore già incline a tradurre la lirica amorosa in discorso e rappresentazione oggettiva, Tommaso di Giunta nel C on ciliato d ’A m o re (cfr. V. Turri, U n poem etto allegorico-am oroso d e l secolo X IV , Roma, Loescher 1888); oppure, al di là ormai del periodo da noi considerato, pochi rimatori cortigiani più inclini alla drammatizzazione del sentimento che all’introspezione (per esempio Filippo Nuvolone: cfr. G. Dilemmi, D alle corti a l B e m b o , Bolo­ gna, Clueb 2000, p. 26); o un poeta autentico che recupera la tenzone fittizia manieristicamente, come un genere della lirica ‘popolare’: Poli-

a sonetti alterni, con la sua valigia; Sim one Prodenzani con la sua scarsella; il Vannozzo con il liuto, con l’arpa, con la freccia che l’ha ferito, e i finti dialoghi servono, volta a volta, a mettere in luce, a raffigurare icasticamente la miseria in cui versa il poeta, l’ingratitudine degli amici, il suo coraggio in battaglia. L ’am bito al quale questi testi vanno ricondotti non è però quello della tenzone fittizia am orosa del D uecento bensì quello dei conflictus m edio­ latini e delle tenzoni ‘da giullare’ presenti nel corpus trobadorico: e ciò è tanto più vero per figure com e il Beccari o il Vannozzo, che trascorsero la loro carriera di poeti in aree nelle quali la m emoria di entram be le tradizioni era ancora particolarm ente v italeL14. Resta da capire il perché di questa frattura così brusca in corrispondenza con lo stilnuovo e dell’im provviso d e­ clino del genere. Si tratta di una trasform azione di natura soltanto form ale o è il segno di un mutam ento più profon­ do, che coinvolge la sostanza ideologica, non solo quella retorica, della poesia? Per rispondere a questa dom anda dobbiam o tornare sulla definizione della tenzone fittizia com e m odo Urico per eccellenza insincero in cui le figure degh amanti sono ridotte a tipi, ad un passo dal teatro. Se a questa simulazione d ’affetti paragoniam o la poetica stil­ novista con i suoi predicati - necessitanti anche sul piano etico - di gentilezza e nobiltà, di verità dei sentimenti e disinteresse nella lode, vediam o facilmente l’incom pati­ bilità tra le due posizioni, e la fatalità della rottura. M a è im portante vedere che essa ha im plicazioni più ampie, riguardanti l’atteggiam ento che in generale, durante il M edioevo, i poeti tennero nei confronti della lirica d ’am o­ re; riguardanti, più precisam ente, la questione della verità o della non verità del contenuto della Urica. In tal senso, ziano (cfr. i rispetti XXTV-XXV delle R im e, edizione critica a cura di D. Delcorno Branca, Firenze, Accademia della Crusca 1986). 114 Non mi soffermo su altre varianti minoritarie della tenzone fittizia: il dialogo tra il poeta e Amore, tra il poeta e il suo proprio testo, tra oggetti o enti personificati, ecc.; si tratta di tipi attestati durante tutto il Medioevo, non però con una frequenza tale da determinare delle vere e proprie sottotradizioni.

la scom parsa della tenzone fittizia ha il valore di un discri­ mine, piuttosto che tra due poetiche o tra due maniere, tra due epoche della poesia italiana del M edioevo. D el si­ gnificato di questo passaggio e del m odo in cui concreta­ mente esso ebbe luogo parlerem o nel quarto capitolo.

La tradizione comico-realistica

1. Contro l’interpretazione m etaletteraria Com m entando nel prim o capitolo la canzone di M at­ teo Paterino ho osservato che un testo simile sarebbe qua­ si inimm aginabile in anni posteriori allo stilnuovo, im pos­ sibile d op o Petrarca. Q uesti due filtri resero infatti im pra­ ticabili temi, stili e metri che nel corso del D uecento ave­ vano goduto di piena dignità letteraria. In questo quadro, la poesia burlesca o comico-realistica occupa una posizio­ ne del tutto particolare. N ell’ultimo quarto del X III seco­ lo essa metteva in scena situazioni e personaggi quanto mai lontani dai sentimenti sublim i e delle atm osfere rare­ fatte che i lettori potevano trovare nella poesia stilnovista. C iò considerato, il prevalere del m odello stilnovistico-petrarchesco nel lungo periodo avrebbe dovuto condannare il genere all’estinzione o a u n ’incerta sopravvivenza in m argine alla grande tradizione della lirica d ’arte, magari con funzione di parodia o di controcanto rispetto a quest’ultima. L e cose non andarono esattamente così: perché il D ante della Com m edia finì per coonestare motivi e livel­ li di linguaggio che il D ante della Vita nova aveva contri­ buito a bandire dal dominio della lirica; e perché sempre m eno quella di scrivere versi fu un’attività limitata alla piccola cerchia degli intellettuali di professione (notai, funzionari statali, chierici), e questa trasform azione della poesia in arte a largo spettro sociale, questa crescita nel num ero e nella varietà dei produttori, com portò anche l’accoglim ento di temi estranei alla tradizione più scelta: per esem pio, talvolta, il com ico e il grottesco della vita quotidiana. M a dopo Petrarca il problem a del rapporto tra la ri­ fiorente poesia burlesca - non più dunque soltanto la

vena popolare che poteva ignorare qualsiasi tipo di tradi­ zione letteraria, aulica o giocosa che fosse - e la poetica ‘ufficiale’ si poneva da sé: l’ignoranza non era più perm es­ sa. Su questo conflitto, che ebbe com e teatro la T oscana del prim o Q uattrocento, ci sofferm erem o più avanti. Ciò che invece va detto sùbito è che u n ’interpretazione dei giocosi duecenteschi che faccia centro sulla loro presunta intenzione parodica nei confronti del m odello lirico corte­ se, che cerchi insomma il vero di questa poesia al di sotto delle sue immagini grossolane e della sua creaturalità, e lo trovi in un sofisticato gioco metaletterario, un’interpreta­ zione simile non solo dim inuisce il suo oggetto - dal m o­ m ento che la poesia burlesca viene a perdere consistenza propria, e diventa riflesso o piuttosto reazione a una poeti­ ca avversa e dominante - ma corre anche il rischio dell’a­ nacronismo. N on è detto, infatti, che il grande stile cortese che risulterà egemone nella storia della poesia italiana d o ­ po D ante e soprattutto dopo Petrarca fosse già tale nella seconda m età del D uecento. N on solo è probabile che a quell’epoca la poesia d ’am ore contem plasse una gamma tematica e espressiva assai più am pia di quanto non appaia a chi guardi le cose a posteriori, d opo la sistem azione stil­ novista, ma occorre anche tenere presente che l’egemonia cortese era m essa in discussione, proprio in quel periodo, dalla poetica moralistico-cristiana di G uittone d ’Arezzo. N é è provato che una simile egem onia, possibile forse a F i­ ren ze1, si estendesse a una zona periferica com e Siena, d o ­ ve vivono e scrivono C ecco Angiolieri e M eo dei Tolomei.

1.1. L a lettura in chiave parodica contro quella in chiave biografico-docum entaria È facile verificare, tuttavia, com e la lettura in chiave metaletteraria sia precisam ente quella più accreditata ne1 Qui grazie anche a una tradizione ‘cortese’ minore che sembra mediare tra i siciliani e lo stilnuovo: cfr. G. Folena, L a cultura poetica d e i p rim i fio ren tin i, in GSLI, 147 (1970), pp. 1-42.

gli studi soprattutto dopo la m onografia dedicata da M a­ rio M arti ai poeti giocosi (1953). Q uel libro nasceva con un preciso obbiettivo: dim ostrare infondata l’interpreta­ zione di stam po naturalistico-autobiografico che di questi testi avevano fornito i filologi della scuola storica (e in ciò M arti era stato preceduto dalla storiografia idealistica)2; e docum entare, di contro, i filtri letterari attraverso i quali il genere giocoso chiedeva d ’essere letto. L o scopo venne raggiunto in pieno, e va riconosciuto a M arti sia il merito di aver fatto luce su alcuni dei modelli mediolatini e fran­ cesi che stanno alle spalle dei giocosi italiani sia quello di aver saputo affrontare il tema in maniera organica m iran­ do a definire il quadro generale, il codice, e non soltanto le singole personalità artistiche. M a proprio la scoperta delle radici letterarie del gene­ re e, per esem pio, delle analogie che vi sono tra C ecco A ngiolieri e Rutebeuf, o i goliardi, costituisce un serio ostacolo ad interpretare la poesia com ico-realistica del tardo D uecento in chiave di parodia della contemporanea lirica aulica (e dunque nell’Angiolieri se non, alla luce d el­ la cronologia relativa, in Rustico, in chiave di antistilnovi­ smo). C ’erano buone ragioni per correggere l’interpreta­ zione biografico-docum entaria avanzata da A lessandro D ’A ncona, che inaugura la critica m oderna sui giocosi; m a ce n ’erano di altrettanto buone per respingere con an­ che m aggiore decisione quella, diametralmente opposta, che era stata form ulata dai critici idealisti, i quali per un eccesso di reazione avevano creduto di dover liquidare la materia giocosa come «illusione letteratissima di una for­

2 Cioè soprattutto dal Trecento vallardiano di Sapegno, dal Croce P o esia p op olare e p o e sia d ’arte (1933), da Luigi Russo, L a letteratura «com ico-realistica» nella T oscan a d e l D uecento, in R itra tti e d ise g n i sto ri­ ci, prima serie, Firenze, Sansoni 1960 [ma 1946]), da Apollonio, U om i­ n i e fo rm e . Da quest’ultimo traggo un giudizio, esemplare di tutta que­ di

sta tendenza critica, sul carattere soltanto verbale del realismo angiolieresco: «la maggior parte del realismo dell’Angiolieri, quando non è im­ plicita esemplificazione polemica contro la scuola amorosa, è giuoco di amplificazione verbale» (p. 296).

ma non v issu ta»3. S ’intende che la poesia - anche questa poesia, che ci appare così im m ediata e vera - non è lo specchio della vita: e M arti ha insegnato appunto quanta parte abbia, in essa, la tradizione letteraria. M a s ’intende anche che un fondam ento di realtà le va riconosciuto, ed è dopotutto secondario che si tratti di una realtà vissuta, o resa com e caricatura, oppure contem plata in altri. E in­ som m a eccessivo pretendere che la poesia com ico-realisti­ ca sia ‘letteraria’ né più né m eno di quella cortese. T ra­ m ontata l’età delle corti, la lirica aulica attingeva da una tradizione orm ai consolidata buona parte del materiale che le occorreva per prolungare la finzione. M a gli oggetti e gli stati d ’animo rappresentati nella poesia comico-reali­ stica - le taverne, il gioco, la fame, l’immoralità, il conflit­ to tra padre e figlio - appartenevano, prima che alla reto­ rica del genere, alla concreta esperienza di ognuno. Vale a dire che, una volta fatta la tara degli eccessi e delle ipercaratterizzazioni grottesche che sono i contrassegni for­ mali del genere burlesco, il valore di docum ento storico che dobbiam o attribuire a questi testi resta com unque ri­ levante. E le obiezioni al saggio di D ’Ancona sull’Angiolieri potranno riguardare il trattam ento del nesso vita-let­ teratura, non il tentativo di ricostruire lo sfondo storico­ sociale contro il quale questa poesia dev’essere letta, né quello di inquadrare l’esperienza di Cecco, in termini non parodici, nel contesto della letteratura duecentesca4. 3 Apollonio, U om in i e fo rm e , p. 294. 4 Cfr. A. D’Ancona, Cecco A n g io lie ri da Siena, p o e ta um orista d e l secolo decim oterzo , in S tu d i d i critica e sto ria letteraria , prima serie, Bo­ logna, Zanichelli 1912, pp. 165-275 (risp. pp. 182-220 e 233-248). Ma dal momento che è ricorrente, nelle critiche a questo saggio, l’accusa di ingenuità, di incapacità a tenere separate vita e letteratura, non sarà inutile dire che il comparatista D’Ancona era naturalmente ben consa­ pevole dei rapporti che intercorrevano tra l’Angiolieri e i goliardi o la letteratura in lingua d ’o il (cfr. pp. 221-222 e 231-233). L ’approfondi­ mento delle matrici letterarie e la ricerca delle fonti costituivano però, in lui, l’antefatto e non il fine di un’analisi che doveva trovare il suo compimento sul piano della realtà e non su quello della letteratura: se anche oggi dovranno essere respinte come troppo meccaniche le dedu­ zioni psicologiche o sociologiche formulate da D ’Ancona a partire dai

Con questo, non si negherà certo il carattere antilette­ rario della poesia dei giocosi. Solo che la carica antilette­ raria e parodica è, per così dire, in re , nel rifiuto del regi­ stro poetico aulico (che, detto rozzamente, sublim a la realtà e ne considera gli aspetti meno materiali e terreni) e nel recupero di una tradizione anch’essa a suo m odo dotta, m a orientata nella direzione opposta: il rispecchia­ mento della vita quotidiana, la luce gettata sul lato meno nobile delle passioni umane. L a polem ica dei giocosi sta dunque già tutta nella loro iniziale scelta di cam po: essi sono antistilnovisti perché lo stilnuovo rappresenta, negli anni dei quali ci stiam o occupando, la quintessenza della lirica ‘alta’. Bisogna però evitare di confondere questa evi­ dente opposizione di registri con un’opposizione di scu o ­ le o, peggio, di individui. Il prezzo che si paga per questo errore è, ripeto, duplice, di m etodo e di sostanza insieme. D a un lato si finisce per affermare il carattere sem pre su ­ balterno del genere burlesco, poiché esso sem bra poter nascere soltanto come reazione o parodia di un preesi­ stente genere aulico (laddove la giustezza di questa gene­ ralizzazione andrebbe dim ostrata caso per caso, cercando alle origini delle diverse tradizioni letterarie: che il regi­ stro basso segua e non preceda quello alto è cosa general­ mente vera in virtù del ruolo che la poesia ai suoi inizi ri­ copre all’interno della cultura ufficiale, nelle celebrazioni o nel culto: ma per esem pio è cosa nota che le poesie del prim o trovatore, Guglielm o IX , abbondano di elementi definibili ‘comico-realistici’ i quali non sem brano entrare in collisione con alcuna precedente ‘tradizione cortese’) 5. D all’altro lato si attribuiscono al registro aulico-cortese, nel D uecento, un’egemonia e un potere d ’attrazione dei sonetti di Cecco, l’indicazione di metodo - il tentativo di leggere questa poesia come documento e non soltanto come monumento - non deve essere ignorata. 5 Sulla possibilità che, anziché rivolgersi contro una forma concor­ rente di lirica amorosa, la poesia di Guglielmo sia una sorta di risposta laica e materialista ai versus latini adoperati nella liturgia, cfr. P.G. Beltrami, A n cora su G u glielm o I X e i tro v ato ri antichi, in «Messana», 4 (1990), pp. 5-45, alle pp. 35-37.

quali è legittimo dubitare. Poiché se è certo che il genere ‘b asso ’ diventa subalterno, a m ano a m ano che il canone stilnovistico-petrarchesco s’im pone nella lirica tre e quat­ trocentesca, non è affatto detto che esso nasca subalterno, com e replica a un codice in quegli anni ancora in fase di formazione.

1.2. L ’assenza, nei testi com ico-realistici, d i polem iche di­ rette contro i lirici cortesi Tutto ciò che si è osservato sin qui andrebbe sfum ato e corretto se nelle poesie dei giocosi duecenteschi noi tro­ vassim o i segni di una polem ica diretta contro l’ideologia cortese e lo stilnuovo, o almeno indizi tali da farci prende­ re seriamente in considerazione quest’ipotesi. Anche co ­ loro che sostengono la tesi o ppo sta a quella che qui cer­ cherò di dimostrare converranno che testimonianze chia­ re ed esplicite in tal senso non ce ne sono. D ei molti testi delle origini che si possono far rientrare nella famiglia dei contre-textes burleschi, nessuno include prese di posizio­ ne esplicite contro l’altro versante della poesia contem po­ ranea, la lirica d ’amore propriam ente detta: si potrà dun­ que parlare per ora di m odi differenti d ’interpretare la poesia e l’amore, non di conflitti dichiarati tra questi di­ versi modi. G li unici conflitti di cui è davvero corretto parlare coinvolgono, nel D uecento, poeti seriam ente anti­ cortesi perché fedeli a un ideale più alto, la m orale e la re­ ligione, oppure gli stessi poeti d ’amore, quando accade che per incom patibilità di vedute circa il ruolo e i com piti dell’amante G u id o O rlandi prenda le distanze da C aval­ canti (e viceversa), oppure O nesto e D ante censurino la condotta di Cino, o quando, più raramente, il disaccordo verte su questioni di poetica (è il caso della tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli). D unque, n ei testi burleschi, nessun segno visibile di parodia, cioè di irrisione nei confronti del codice concor­ rente. M a, cosa ancora più im portante, i registri non si fronteggiano mai veramente neppure nel luogo che nella

letteratura delle origini era deputato al conflitto, la tenzo­ ne. Se le chiavi per com prendere la poesia comico-realisti­ ca fossero davvero la parodia e la polem ica avremmo il d i­ ritto di aspettarci che questa polem ica venisse prim a o poi a galla, e che poeti dell’uno e dell’altro indirizzo si affron­ tassero apertamente discutendo i loro diversi punti di vi­ sta: carnalità contro spiritualità in amore, quotidianità dello stile e del lessico contro preziosism o, eccetera. M a un simile confronto non ha luogo mai: né Rustico né M eo dei Tolom ei né Pieraccio T edaldi né i tanti minori ‘com i­ ci’ che popolano i canzonieri scam biano rime con poeti della tradizione più ortodossam ente cortese. D a tutto ciò em ergono due dati: da un lato il carattere isolato, non comunicativo dell’esperienza dei giocosi; dal­ l’altro l’assenza di intersezioni tra essa e l ’universo corte­ se. Si obbietterà che esiste alm eno un caso in cui entram ­ b e queste proposizioni si rivelano false, un caso in cui cioè il giocoso ci appare sia comunicativo, in quanto orientato al dialogo, sia polem ico nei confronti addirittura del capofila degli stilnovisti. U n caso, o meglio tre: i tre sonetti che C ecco Angiolieri inviò a D ante tra la fine del X III e i primi anni del X IV secolo. M a prim a di accettare questo punto di vista e proseguire oltre occorrerà distin­ guere, in questi testi, ciò che effettivamente ricade nel cam po del com ico e dell’invettiva, o della querelle lettera­ ria, da ciò che appartiene invece alla normale retorica del­ le corrispondenze in verso.

2. I son etti d i Cecco A n giolieri a D ante 1) Il sonetto L assar vo’ lo trovare de Becchina non rientra evidentemente né nella categoria dei conflitti di poetica né in quella degli attacchi personali, posto che il m essaggio è sì rivolto a D ante, ma il bersaglio del so ­ netto è il «M ariscalco», ovvero il luogotenente degli Angiò a Firenze, identificato con D iego di Larhat (D el L u n ­ go) o con Am erigo di N arbona (M assèra): a lui vanno le accuse di villania («p ar fiorin d ’òr, ed è de recalco»)

e di viltà («pare un gallo, ed è una gallina») che occupano i prim i otto versi. N é è sfiorato il tema della letteratura né, in realtà, il testo può definirsi un vero e proprio sonet­ to di tenzone, che chiami a colloquio il corrispondente: ci troviamo invece di fronte a quella particolare declinazione del giocoso in cui a un interlocutore (il poeta o l’amico cui il sonetto è inviato) viene presentato un episodio o uno spettacolo comico relativo ad un terzo personaggio: la vittima del vituperium . Il destinatario del sonetto (qui D ante) sta dunque dalla stessa parte di chi l ’ha scritto (qui Cecco), contro un terzo che viene deriso (qui il fidu ­ ciario degli Angiò): la stessa triangolazione che incontria­ m o, per esem pio, nel cavalcantiano G uata, M anetto, o nel sonetto Io fo ben boto a D io di Rustico Filippi, che rivol­ gendosi direttamente a un ser Cerbiolino ironizza sulla vi­ ta e i costumi di un certo G higo. Q uesto l’avvio di Cecco: Lassar vo’ lo trovare de Becchina, Dante Alighieri, e dir del Mariscalco: ch’e’ par norin d’òr, ed è de recalco; par zuccar cafetin ed è salina. Q uesto l’avvio di Rustico: Io fo ben boto a Dio: se Ghigo fosse, ser Cerbiolin, chell’hai tanto lodato, per pillicion di quella c’ha le fosse, non si riscalderia, tant’è gelato. N essun punto di contatto, evidentemente, salvo questo, essenziale: che ad essere m essa in atto in questi sonetti è una stessa strategia com unicativa tendente a coinvolgere il lettore della missiva (D ante, Cerbiolino) nella presa in giro ai danni di chi probabilm ente mai lo leggerà (il Mariscalco, G higo). N on rispose, per quanto ne sappiam o, il personaggio apostrofato da Rustico, Cerbiolino; e non ri­ spose D ante, per il buon m otivo che qui i destinatari dei sonetti sono convocati com e spettatori, non com e corri­ spondenti.

2) Il sonetto D ante A lighier, Cecco, tu ’ s e r v e am ico venne scritto per segnalare una contraddizione che l’Angiolieri riteneva di aver colto nell’ultimo sonetto della Vi­ ta nova, O ltre la spera che più larga gira. Q ui D ante prima dice che il suo pensiero, avendo contem plato l’immagine di Beatrice nell’empireo, non pu ò poi venir com preso dal­ la mente, insufficiente a tanta magnificenza: «V edela tal, che quando ’1 mi ridice, | io nollo ’ntendo, sì parla sottile al cor dolente, che lo fa parlare». M a la seconda terzina corregge in parte questa affermazione: « S o io che parla di quella gentile, ¡ però che spesso ricorda Beatrice, | sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care». L a mente riesce o no ad afferrare il pensiero, il poeta arriva o no ad intenderei L e due afferm azioni citate sem brano escludersi a vicenda; dunque - com m enta Cecco - «contradice | a sé m edesm o questo tu’ trovare». N el prologo al sonetto, nel penultimo p aragrafo della V ita nova, D an te spiegherà, forse repli­ cando indirettamente alle riserve di Cecco, che, se resta irraggiungibile il contenuto del pensiero, il ‘tem a’ della vi­ sione - Beatrice in excelsis - è chiaro, e pu ò essere inteso. L ’intenzione polem ica, dissacrante, beffatoria che i critici riconoscono nel mis sivo di C ecco è in realtà tutt’altro che esplicita: ed è probabile che la forza con cui questo convincimento si è radicato negli interpreti sia d o ­ vuta almeno in parte alla tacita sovrapposizione del terzo missivo di C ecco a D ante (di cui subito sotto), questo sì chiaramente invettivo e burlesco. Com e in quasi tutte le altre rime di corrispondenza, il tono è com plim entoso (lo scrivente è il servo, il destinatario è il segnore, intimo del dio d ’Am ore e dotato di «gentil cuore»). Certo potrebbe trattarsi di uno di quei casi in cui, com e dice D ante nel Convivio, «è loda nella punta delle parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre» (I ii 7), ma anche se così fosse non sarebbero m eno vere le due considerazioni seguenti. In prim o luogo, C ecco non parla nella su a solita veste di poeta com ico, non oppone cioè al sublim e di O ltre la spe­ ra (sublime form ale e tematico, posto che qui si ragiona di metafisica) una risposta in chiave burlesca m a sfida Dante sul suo stesso terreno di serissim o poeta d ’amore. Se, per

ipotesi, questo sonetto l’avesse scritto Cino, nessuno pen­ serebbe a una parodia o a una polem ica contro la lirica cortese: sarebbe una gara tra loici, una dim ostrazione di superiore attenzione e sottigliezza da parte del rispondito­ re, che coglie in fallo l’amico, cioè proprio una di quelle fittizie querelles che s’immagina potessero avere luogo nell’am bito della ‘scuola’. Sarebbe m a è, visto che niente ci autorizza a interpretare questo testo alla luce degli altri m em bri della corrispondenza tra C ecco e D ante (esso d o ­ vrebbe precedere la scrittura della Vita nova-, il terzo missivo angiolieresco appartiene agli anni dell’esilio: tra l’uno e l’altro corrono non meno di dieci anni!), né alla luce dell’immagine vulgata (e, com e vedrem o meglio, falsa) dell’Angiolieri come rim atore esclusivamente giocoso. In secondo luogo, non è in alcun m odo lecito dedurre da questo attacco personale (se tale lo si vuol considerare) un intento polem ico nei confronti della poesia stilnovista o, ancora più in generale, nei confronti dell’ideologia cor­ tese. Semplicemente, il sonetto di Cecco nulla dice intor­ no a questi argom enti6. 3) Il terzo sonetto di C ecco a Dante, D ante A lighier, s ’i ’ so ’ buon begolardo, è l’unico che rientri a pieno titolo nella classe dei testi burleschi. M a il contrasto non ha nul­ la di letterario, e l’opposizione tra i registri o altre consi­ mili questioni di poetica non entrano minim amente nel discorso. Si tratta invece di un attacco personale che prende di mira le miserie della vita cortigiana di D ante esule: diventato «lom b ard o » dopo aver riparato presso gli Scaligeri, egli - afferma C ecco - ha dovuto praticare tutte le meschine attività che assicurano fortuna in ambienti di 6 La conclusione contraria per esempio in Marti, C u ltu ra e stile, pp. 107-108: «[il sonetto suggerisce], nella sua evidente ispirazione, quale davvero dovesse essere la reazione di un Cecco Angiolieri alla poesia stilnovistica di un Dante e di un Cavalcanti»; p. 115: «polemiche reazio­ ni allo stilnuovo»; p. 116: «più che documento di una troppo particola­ re e poco importante polemica su di una presunta contraddizione [...], è il simbolo di una cosciente e decisa presa di posizione». E nel com­ mento di Lanza (Angiolieri, L e rime)-, «il sonetto è una pungente pole­ mica contro le sottigliezze della lirica stilnovista».

quel genere: parlare a vanvera (« s ’i’ so ’ buon begolardo [ = fanfarone] | tu me ne tien’ ben la lancia a le reni»), dir male di tutti (tale probabilm ente il senso del v. 5: « s ’io ci­ mo il panno, e tu vi freghi el cardo»), scroccare pranzi (« s ’io desno con altrui, e tu vi ceni»). Un attacco persona­ le: e com e tale infatti venne recepito dal pistoiese G uelfo Taviani, che replicò per le rime a Cecco prendendo le di­ fese non del D ante poeta stilnovista ma dell’uom o. È giu­ sto - osserva Taviani - che un ‘filosofo’ com e D ante non si curi del denaro o lasci che altri provvedano per lui, per­ ché l’unica sua m issione è studiare e scrivere. N essuno di questi tre sonetti ebbe risposta da parte di Dante. Se risposte vi furono, dobbiam o pensare che es­ se non ci siano state conservate: cosa rara, più rara di quanto in genere non si creda nelle rime di corrisponden­ za dei primi secoli. Circa il prim o sonetto, si è detto che il vituperium ai danni di un personaggio assente non sol­ lecita risposta da parte di chi riceve il sonetto, che qui com pare solo in veste di testim one o di complice. Al se­ condo sonetto di C ecco D ante rispose - se sono corrette le deduzioni dei critici - al m om ento di inserire O ltre la spera nella Vita nova, specificando, nella prosa, le ragioni che rendevano non pertinente la critica di Cecco. M a va anche osservato che D ante A lighier, Cecco, tu ’ serv’e am i­ co è già a suo m odo un testo responsivo. N on solo infatti esso si riferisce direttam ente a O ltre la spera («al tu’ sonet­ to in parte contradico») senza che occorra esplicitare di quale sonetto dantesco si stia parlando (il che presuppone un rapporto strettissim o tra i due testi: un preventivo in­ vio ‘per conoscenza’ di D ante a Cecco o la replica tem ­ pestiva di quest’ultimo ad un sonetto appena pubblicato) ma da quello ricava anche ben tre rime su quattro, secon­ do l’ordine B > B {-ore), C > C {-ice), E > D {-are). Q uanto al terzo sonetto angiolieresco: qui dovremmo aspettarci da parte di D ante non un testo responsivo, com e negli al­ tri casi, bensì il m issivo cui C ecco reagirebbe con la sua lunga catena di im properi. L a serie dei periodi ipotetici che occupa la fronte del sonetto (« s ’io m ordo ’1 grasso,

e tu vi sughi el lardo; | s’io cimo ’1 panno, e tu vi freghi el cardo», ecc.) lascia infatti supporre che le controaccuse di Cecco fossero state precedute dalle accuse di Dante: sen­ za di che non si vede da dove provengano le maligne con­ getture (s’io...) che l’Angiolieri rivolge contro se stesso prima di stornarle sul corrispondente. Il v. 12, inoltre, sem bra alludere a un precedente intervento dantesco: « E se di tal materia vo’ dir piùe, | D ante, risponde...». L a possibilità che l’antefatto, il prim o m em bro mancante di questo dialogo fosse un com ponim ento in versi appare tuttavia molto remota. N on solo è im probabile che nel perduto sonetto di D ante potesse essere contenuta la filza di accuse su cui si appoggia C ecco per controbattere; ma le rime difficili sulle quali è im postato il testo di Cecco sem brano scelte liberamente, non costringono a forzature nella scelta dei vocaboli o nella sintassi (come spesso ac­ cade nei responsivi su rime care), e insom m a si addicono meglio a un testo di proposta che a un responsivo. Pense­ remo perciò ad un antefatto orale: un battibecco da taver­ na oppure ‘voci’ m esse in giro da D ante sulla reputazione dell’amico-rivale, e che questi avrebbe raccolto trasferen­ do lo scontro sul piano della poesia.

3. Cecco A ngiolieri: i son etti am orosi 3.1. «Q ualunque ben» (X X V I) Siam o così giunti a questo risultato parziale: non esi­ ste alcun testo burlesco che rechi in sé esplicite dichiara­ zioni anticortesi; e non esiste alcun autore, tra quelli che tradizionalmente vengono contati tra i burleschi, che d ia­ loghi, su questioni di ideologia letteraria, con un rap pre­ sentante della tendenza poetica concorrente. Si obietterà che una delle leggi della parodia consiste nel non affron­ tare di petto il testo parodiato m a nel corroderlo dall’in­ terno, giocando sull’am biguità e lasciando che il lettore smaliziato percepisca l’ironia: tale, secondo i critici, la tec­ nica dei comico-realistici, e in particolare di Cecco Angio-

lieri. Io credo che vada negata anche questa eventualità. M a poiché una simile interpretazione ‘obliqua’ è precisamente quella che più di ogni altra ha orientato la lettura dei testi burleschi del D uecento, accreditando la tesi dello scontro tra i codici e tra i registri in base alla quale - ripe­ to - i poeti comici ridicolizzano i poeti cortesi adoperan­ do i loro stessi clichés tematici e espressivi, la replica an­ drà condotta più attentamente a partire dai testi. E bene chiarire subito che entriamo qui in un dom i­ nio nel quale tanto le opinioni sono radicali e tanto recisa­ mente si escludono a vicenda quanto è difficile convince­ re della loro giustezza chi non sia già persuaso a priori, per il buon motivo che ciò che gli uni interpretano come parodia agli altri può sem brare u n ’affermazione del tutto innocente, e viceversa: è questione di sensibilità ai giochi metaletterari, m a è questione anche di prudenza, e dove il caso è dubbio un eccesso di prudenza sem bra preferibile, in linea di principio, a un eccesso di sensibilità. Nelle p a ­ gine che seguono farò continuo riferimento a due lavori in particolare: al libro di M arti sui giocosi, che com e ho detto segna una tappa im portante nella storia degli studi sull’argomento, e all’edizione di Cecco Angiolieri intro­ dotta e commentata da Antonio Lanza. Si tratta di contri­ buti in cui è sviluppato al meglio, cioè al più alto grado di conoscenza dei problem i, il punto di vista opposto a quel­ lo che io vorrei qui sostenere; a buon diritto, dunque, essi potranno essere adoperati qui com e cam pioni di un diffu­ so orientamento critico7. Tanto M arti quanto Lanza hanno stilato una rassegna dei passi angioliereschi nei quali sem bra chiara, benché mai davvero esplicita, l’imitazione in chiave parodica dei motivi stilnovisti. Ciò che lascia perplessi, in questi rege­ sti, è anzitutto il fatto che vengano confusi il livello stili­ stico dei testi, il quale certo ha poco a che vedere con quello degli stilnovisti sia dal punto di vista retorico sia 7 Orientamento condiviso da ultimo, tra gli altri, da R. Castagnola, in II gen ere «te n zo n e », pp. 147157.

C o n trasti a m o ro si in Cecco A n giolieri,

dal punto di vista sintattico-lessicale, e il livello dei conte­ nuti, che è invece perfettam ente om ogeneo all’ideologia cortese e stilnovista. Iniziamo, con M arti (p. 108), dalla fronte del sonetto X X V I: Qualunque ben si fa naturalmente nasce d’Amor, come del fior el frutto, ché Amor fa Tomo essere valente. Ancor fa più: ch’e’ noi trova sì brutto che per lui non si adorni amantinente; e non par esso poi, sì ’1 muta tutto. Dunque, po’ dicer bene veramente che chi non ama sia morto e destrutto. «Q uesti - commenta M arti - sono gli effetti d ’Am ore co­ me li può descrivere uno che rida». M a in realtà, nei versi citati, di questo riso è difficile trovare traccia; né d opo di essi troviamo un fulm en burlesco che capovolga questa del tutto seria e ‘cortese’ identificazione tra bene e A m o­ re: c ’è anzi una nuova caratterizzazione dell’Am ore come fenom eno per eccellenza m orale (9-10: «C h ’orno vai tanto quanto in sé ha bontate, | e la bontà senza A m or non pò stare»), nonché la dedica del com ponim ento a «tutti inna­ m orati e innam orate». L ’afferm azione che «A m or fa To­ mo esser valente», precisata da quello sùbito seguente, che esso ha l’effetto di nobilitare anche gli spiriti meschini di cui s ’im padronisce, ci riporta anzi a quella tesi sulla na­ tura d ’am ore che Avalle ha illustrato am piam ente e che rappresenta la quintessenza dello spirito cortese romanzo: la difese tra i primi Andrea C appellano nel D e A m ore , la conferm ò un poeta non sospetto di anti-cortesia com e Aimeric de Peguilh an8. Q uesta tesi verrà sì contraddetta, non però dai poeti comico-realistici com e Cecco o Rusti­ co ma, in maniere diverse, dai fautori di un’ideologia più aristocratica e dai moralisti com e G uittone o Chiaro Davanzati: i primi obiettarono che il sentimento d ’am ore vi­ sita in realtà solo gli spiriti già nobili, mentre disdegna Cfr. Avalle,

A i lu ogh i ,

pp. 17-34.

i vili, i meschini e, per citare Cecco, i «b ru tti» (e tale è per esem pio il punto di vista difeso da Guinizzelli nella can­ zone A l cor gentil)-, i secondi, m olto più radicalmente, af­ fermarono che anziché essere un valore nobilitante, non­ ché una condizione necessaria per la felicità dell’uom o, l’am ore è la più immorale e deleteria delle passioni. N e deriva che in u n ’ipotetica gerarchia di fedeltà ai valori della cortesia il sonetto Q ualunque ben andrebbe fatto rientrare nella fascia più alta, quella in cui si esprim e il m assim o ossequio alla potenza rigenerante di Amore. P uò darsi che questa tesi sull’effetto nobilitante di Amore non sia sostenuta da Cecco con un lessico ap p ro ­ priato, che per esem pio m orte e distruzione (8) siano termi­ ni troppo forti; un rimatore di provata ortodossia come Bonagiunta Orbicciani aveva saputo esprim ere lo stesso concetto con un’espressione più sfumata: «A m ore ha in sé vertode: | del vii uom face prode, | s ’egli è villano in corte­ sia lo muta, | di scarso largo a divenir lo aiuta» (Ben m i eredea, 33-36). E può darsi che brutto in punta di verso non sarebbe passato al vaglio stilnovista. M a il fatto è che qui Cecco sta addirittura parafrasando il trattato di Andrea Cappellano, il quale tra gli effetti di Am ore pone il seguen­ te: «am or horridum et incultum omni facit form ositate pollere»; ovvero, come suona nel volgarizzamento trecen­ tesco: «quello ch’è disconcio e disadorno, amore lo fa chia­ ro d ’adorn ezze»9. P uò darsi insom m a che le immagini e il lessico sporgano qui leggermente, altrove in maniera più vistosa, dalle m edie espressive degli stilnovisti, m a è ap ­ punto una sem plice questione di livello stilistico, non di te­ mi né di ideologia, dal momento che qui gli uni e gli altri sono a tutti gli effetti in linea con l’ideologia della fin am or.

9 Le citazioni rispettivamente da D e am ore, p. 9, e dal volgarizza­ mento tradito dal ms. Riccardiano 2318 (A. Cappellano, T rattato d ’Am ore, a cura di S. Battaglia, Roma, Perrella 1947, p. 13). Stando così le cose, è molto probabile che brutto vada inteso proprio in relazione al­ l’aspetto fìsico, non a quello morale (diversamente Lanza: «villano»).

3.2. «A cui è ’n grado» (X X V II) L ’identica tesi sugli effetti di Am ore viene proposta da Cecco nel sonetto X X V II. L ’uom o che ne è vittima, se reo, torna buono, se buono diventa migliore, «e mai non pensa che d ’avere onore». Si ripetono qui le argom enta­ zioni che abbiam o incontrato nel sonetto precedente, e non ho che da rimandare al citato saggio di Avalle per un lungo elenco di luoghi paralleli. M arti si concentrava sulla prim a parte del sonetto: A cui è ’n grado de l’Amor dir male or lo biasmi ’n buon’or, che Dio li dia! ch’io, per me, non terrò quella via, ma in dirne ben non ci vo’ metter sale. perch’egli è padre de la cortesia: chi d’Amor sente di mal far no i cale. «N o n si può riconoscere - commentava M arti - un tenta­ tivo stilistico verso i m odi ‘tragici’; ma una m oderata con­ traffazione, una scherzosa variazione ‘com ica’» (p. 109). C ’è dunque nuovamente un pregiudizio ‘com ico’; m a qui esso risulta ancora più dannoso perché im pedisce di vede­ re che il sonetto di Cecco s ’inserisce all’interno di una m i­ cro-tradizione tutta interna all’ideologia cortese: non quella dei componimenti in favore di Am ore bensì più esattamente quella dei com ponim enti scritti contro coloro i quali nei loro versi descrivono l’amore com e un senti­ mento negativo. Costoro sono, negli anni di C ecco e poco prim a, quei poeti che non sanno o - convertiti - non v o ­ gliono più scindere la sfera dell’arte da quella della m ora­ le e della fede; la voce ‘dall’esterno’ che C ecco ci fa senti­ re nei primi due versi è dunque una voce ben reale e p re­ sente. Si potrà di nuovo discutere se la scelta di cam po com piuta daU’Angiolieri in favore di A m ore si affidi a mezzi espressivi adeguati, se il tono sia quello giusto, ma non si può - in base a ciò che si dice nel testo - negare

che questa scelta venga fatta, coerente (questo è l’essen­ ziale) con quella dei contem poranei lirici della firia m o r 101.

3.3. «Io tem o» (IV ) Il sonetto IV riprende il tema tradizionale delle conse­ guenze che l’innamoramento ha sul corpo dell’amante. U m otivo cavalcantiano del tremito al cospetto della donna verrebbe «sottoposto da Cecco ad un abile trattamento parodistico in una direzione program m aticam ente antiaulica ed anticortese» u. M a io non vedo alcuna disparità né ideologica né registrale né lessicale tra la scrittura tragica cavalcantiana di questo m otivo (X X X III 1-4): Io temo che la mia disaventura non faccia sì ch’i’ dica: « I’ mi dispero», però ch’i’ sento nel cor un penserò che fa tremar la mente di paura, e quella presuntam ente antiaulica e anticortese di Cecco (IV 1-4): D cuore in corpo mi sento tremare, sì fort’è la temenza e la paura 10 E finiremo per concludere che anche il tono è quello giusto, che così ci si poteva esprimere affrontando una questione ideologicamente cruciale per i contemporanei: quello della moralità o immoralità di Amore è, non dimentichiamolo, il problema attorno al quale seriam en te ruota buona parte della poesia duecentesca. Non stiamo cioè parlando di un gioco per intellettuali come potrebbe essere la lunga querelle sulla natura d’Amore (querelle in cui la divinità d’Amore, affermata o negata, è una metafora senza vere ricadute sul piano dottrinale), ma di opposti orientamenti ideali che adombrano un opposto concetto dell’esistenza, e, nell’accezione più larga, di un conflitto tra la morale laica e quella d’ispirazione religiosa: dall’altro fronte, per difendere questa seconda opzione, Guittone aveva scritto - per esempio nella canzone O tu, de n om e A m o r - versi forse più eleganti ma non meno violenti. 11 Lanza in Angiolieri, L e rim e , p. 9; e cfr. anche, su questo sonetto, p. XXIX: «satira [...] perfida e maligna della nuova scuola poetica [...]; impietosa sghignazzata sul topos cavalcantiano del tremore del poeta».

ch’i’ ho vedendo madonna in figura, cotanto temo di lei innoiare. Un linguaggio più aspro e violento s ’incontra nel seguito del sonetto, e questi versi M arti citava per dim ostrare che «tu tto ciò, davvero, non può essere stilnuovo» (p. 110): E non poria in quel punto parlare: così mi si dà meno la natura ched i’ mi tengo in una gran ventura 8 quand’i’ mi posso pur su’ piei fidare. Infino a tanto che non son passato, tutti color che me veggiono andando 11 sì dicon: «Ve’ colui, ch’è smemorato!». Ed io nulla bestemmia lor ne mando, ch’elli hanno le ragioni dal lor lato, però che ’n ora in or vo tramazzando. È certo che non appartengono allo stilnuovo l’espressione colloquiale ‘star ritto sui p ied i’ e il termine bestem m ia. M a ai rilievi in negativo devono seguire quelli in positivo. Si vedrebbe così che è dantesca la reazione degli astanti di fronte al volto trasfigurato dell’amante: «T u risomigli a la voce ben lui, | ma la figura ne par d ’altra gente» (Sè tu co­ lui, 3-4). E guinizzelhana l’im m agine (w . 5-6) della lingua che si blocca e non può parlare per il timore e l’emozione: « E d io dal suo valor sono assalito | con sì fera battaglia di sospiri | ch’avanti a lei de dir non seri’ ard ito» (V II 9-11). E insomma è cortese, o aulica, o com unque non burlesca e non scherzosa l’idea che il sentimento d ’am ore travolga con questa forza i sensi e la mente di chi lo prova.

3.4. «Se tutta l'acqua» (X V II) 11 sonetto X V II volgerebbe in parodia un m otivo per eccellenza dantesco: «la m ancanza che i beati sentono della donna angelicata, e il desiderio che hanno di lei» n:12 12

Marti in P o e ti giocosi, p. 135.

4

8

Se tutta l’acqua balsamo tornasse e la terr’òr deventasse a carrate, e tutte queste cose me donasse Quel che n’avrebbe ben la podestate perché mia donna del mondo passasse, e’ li direi: «Missere, or l’abbiate!»; ed anzi ch’ai partito m’accordasse sosterrei dura morte, en veritate.

«N ei versi angioliereschi - com m enta M arti - è D io stes­ so che scende direttamente a patti col p o e ta » 13: parad os­ so com ico che alluderebbe ironicamente alla m orte e al­ l’ascensione di Beatrice. Il nesso tra le due situazioni poetiche è però m olto labile. C iò che nella Vita nova vie­ ne presentato al lettore com e situazione reale, non come pu ra im m aginazione («A ngelo clama in divino intelletto [...] M adonna è disiata in som m a cielo» ecc.), qui non è altro che u n ’iperbole inserita all’interno di una struttu­ ra retorica adeguata. T ale struttura per un verso si avvici­ na alla form a òsN adynaton, in quanto come quello p o ­ stula eventi irrealizzabili, per un altro partecipa dei re­ quisiti dell 'am plificano, dal m om ento che istituisce un p a ­ ragone tra il po ssesso della donna e il possesso delle più ingenti ricchezze. E in quanto il primo termine supera e sovrasta il secondo (‘neanche per tutto l’oro del m on­ d o...’) il tipo retorico delYam plificatio può essere precisa­ to nella figura di superam ento ( Überbietung ) descritta da Curtius: Spesso, per ‘magnificare’ una persona o una cosa, viene asserito che essa ha maggior valore di tutte le altre persone o cose consimi­ li e viene adoperata, in tal caso, una particolare forma di paragone, che potremmo definire del ‘sopravanzamento’: viene cioè afferma­ ta, di fronte ad esempi famosi scelti dal patrimonio tradizionale [qui di fronte a cose che ognuno riconosce belle e impagabili], la 13 Marti, C u ltu ra e stile , p. 112; e cfr. Lanza in Angiolieri, L e rim e, p. XXXII: «Cecco affronta il tema piegandolo alla concezione assolutamente materialistica che ha della vita, in cui tutto è misurato secondo un metro economico».

su p erio rità, anzi l ’unicità d ella p e rso n a o c o sa ch e si vu o le lo d a ­ re'

Constatate le ascendenze cólte di questa figura (nego infatti - è bene ripeterlo - il carattere anticortese di que­ sta poesia, non il suo radicam ento nella letteratura), l’uni­ co confronto pertinente sarà con quei com ponim enti in cui un’analoga struttura retorica è m essa a frutto per esprim ere il concetto che anche Cecco, in definitiva, vuo­ le esprimere: la forza delle passioni e la durata degli affet­ ti. Concluderem o allora che quanto alla materia del con­ tenuto, e fatta salva la diversa resa form ale, non c ’è sostan­ ziale differenza tra la fronte di questo sonetto angiolieresco e, poniam o, il lungo adynaton che è il sonetto M adon­ na mia, quel d ì eh’A m or consente di Guinizzelli: «tornerà l’acqua in su d ’ogni riviera, | il cieco vederà, ’1 m uto p ar­ lente...» (cioè, in una sintassi più vicina a quella di Cecco: ‘se anche l’acqua risalisse il letto dei fiumi, se anche i cie­ chi vedessero...’). Prescindendo dunque dalle incom patibilità stilistiche, che com e ho già detto non bastano a dim ostrare un’inten­ zione parodica, nulla autorizza, nel testo, a non prendere sul serio il voto di devozione e fedeltà di Cecco; nulla ci autorizza a pensare che il poeta voglia intendere il contra­ rio di quello che dice e voglia, soprattutto, prendersi gio-14 14 Curtius, L etteratu ra eu rop ea , pp. 182-183. A sua volta, il ‘supera­ mento’ altro non è che una variante particolare di una macrofigura ben diffusa già nella poesia classica, il pnam eb. «un dispositivo di messa a fuoco in cui uno o più termini servono a mettere in rilievo il punto di speciale interesse» (W.H. Race, T h e C la ssic a l P riam e l fro m H o m e r to B o eth iu s, Leiden, Brill 1982, pp. 9-10): «punto di speciale interesse» che nel sonetto di Cecco è rappresentato dalla vita e dall’amore della donna, su p erio ri a qualunque ricchezza Dio possa donare all’amante. L ’elegia I xiv di Properzio si offre, in questa prospettiva, come il termi­ ne di confronto più pertinente, sia che si guardi al contenuto (la supre­ mazia dell’amore su ogni altra possibile gioia) sia che si guardi alla struttura retorica (nella prima parte dell’elegia, il poeta fa una rassegna di piaceri - quello provato da Agamennone per la caduta di Troia, quello provato da Ulisse al ritorno a casa ecc. - per dichiarare che nes­ suno è paragonabile a quello di cui egli ha goduto la notte precedente).

co della poesia - più elegante ma ideologicam ente affine - di D ante e Cavalcanti. Il contenuto di questo sonetto potrebbe infatti essere sottoscritto dal più ortodosso dei rimatori cortesi. N on esiste nulla, per quanto ricco e m e­ raviglioso, che valga quanto la vita della donna amata (non, si badi bene, il suo amore: la sua sem plice esisten­ za). Che cosa accadrebbe in un sonetto realm ente burle­ sco o parodico? Che questa proposizione verrebbe cap o ­ volta nei termini seguenti: non c ’è nulla al m ondo che il poeta non darebbe per la m orte della donna. Il sonetto di Pieraccio T edaldi Q ualunque m 'arrecassi è questo rove­ sciam ento e questa parodia. N e trascrivo qui di séguito la fronte perché sia chiara la differenza tra un testo effettiva­ mente estraneo alla cortesia e un testo - quello angiolieresco - che vi rientra perfettam ente nonostante qualche asprezza stilistica:

4

8

Qualunque m’arrecassi la novella vera, o di veduta o vuoi d’udita, che la mia sposa si fusse partita di questa vita, persa la favella, io gli darei guarnacchia o vuoi gonnella, cintura e borsa con danar fornita, e sempre mai ch’i’ dimorassi in vita lui servirei con chiara voglia e snella15.

3 5 . L a distanza stilistica dallo stilnuovo non im plica paro­ dia o polem ica « Il lessico - scrive M arti - è sem pre di tipo ‘com ico’, anche quando, com e spesso accade, diventa iperbolico ed acceso; la sintassi non ha certo l’alta regolarità e l’am piez­ za dello stile ‘tragico’, è sem pre irregolare, franta, conver­ sativa, com e avviene inter colloquen tes» 16. L o stile di C ec­ co è diverso dallo stile di D ante e Cavalcanti. M a ciò deve significare che lo stile di C ecco irride, capovolge, fa la 15 R im a to ri com ico-realistici, pp. 711-712. 16 Marti, C u ltu ra e stile, p. 117.

parodia dello stile di D ante e Cavalcanti? G li esem pi già discussi dovrebbero essere sufficienti a dim ostrare che questa implicazione non è affatto necessaria. Il punto di vista opposto è però tanto radicato da rendere opportuna qualche altra verifica. Prendiam o allora il sonetto X I, un testo che com e tan­ ti altri è stato interpretato in chiave antifrastica: «la fanta­ sia nostra facilmente corre all’episodio di Beatrice che to­ glie il saluto a D ante e ai conseguenti pianti di D ante nel­ la camera dei sospiri. Q u est’avvicinamento ci perm ette di sentire le intenzioni mimiche e contraffattrici di C e c c o » 17. E cco il testo: Or non è gran pistolenza la mia, ch’i’ non mi posso partir dad amare quella che m’odia e niente degnare 4 vuol pur vedere ond’i’ passo la via? E dammi tanta pena notte e dìa che de l’angoscia mi fa sì sudare che m’arde l’anima e niente non pare: 8 certo non credo ch’altro ’nferno sia. Assa’ potrebb’uom dirm’: «A nulla giova», ch’ell’è di tale schiatta nata, ’ntendo, 11 che tutte son di così mala pruova. Ma perch’i’ la trasamo, pur attendo ch’Amore alcuna cosa la rimova: 14 ch’è sì possente che ’1 può far correndo. In sintesi, il m essaggio del poeta è il seguente: ‘non posso smettere di amare colei che mi odia e non vuole vedermi, e mi tortura notte e giorno. A nulla valgono i pareri e le consolazioni degli altri: la amo troppo, e aspetto che Am ore le faccia cam biare id ea’. N el contenuto di questo sonetto non c ’è nulla di veram ente estraneo al codice del­ la cortesia. Ci sono però - si obbietta - immagini e parole che davvero non sem brano in linea con quella tradizione: la materialità del sudore e dell 'inferno, goffe m etafore del­ la sofferenza d ’amore, l’eco popolaresca della pistolenza , 17 Marti in P o e ti gio cosi , p. 129.

F odio , FAm ore che corre ecc. E c ’è soprattutto il topos m i­ sogino dei w . 10-11: ‘mai innamorarsi, perché le donne sono tutte della stessa razza traditrice’ 18. O ppure tornia­ mo alla fronte del sonetto X V II, dove si ipotizza che la terra diventi «o ro a carrate», ci si rivolge a D io con una form ula colloquiale com e «M esser, or l’abbiate», si am­ mette una rima come capeglr. carnegli\ ha avuto buon gio­ co M arti ad opporre a questa prosaicità le atm osfere rare­ fatte di Donne ch’avete. U n altro caso. U na raffinata figu­ ra di elocuzione, riducibile di nuovo alla form ula descritta sopra àéù ’ lJberbietung, è abbassata e stravolta in questo m odo, nel sonetto X X V III: Sed i’ avess’un sacco di fiorini, e non ve n’avess’altro che de’ nuovi, e fosse mi’ Arcidoss’e Montegiuovi con cinquicento some d ’aquilini, non mi pari’ aver tre bagattini senza Becchina... N on aggiungo altri esem pi perché siam o già in grado di porci la dom anda fondam entale: è possibile, nella T o ­ scana del tardo Duecento, parlare d ’amore in questo m o­ do e con questo vocabolario senza voler parodiare, insie­ me, il grande stile cortese e stilnovista? Chi nelle rime di Cecco vede un’unica grande figura di antifrasi ritiene evidentemente che ciò non sia possibile; e anzi estenderà la chiave dell’antistilnovismo a buona parte della rimeria di registro ‘m ediocre’ del Trecento, da N icolò d e’ R ossi ai poeti perugini, dal Faitinelli al T e d a ld i19. Ebbene, 18 Vero è però che questo giudizio sulle donne non rispecchia il pensiero del poeta ma quello del suo ‘consolatore’: a quest’ultimo incli­ nerei infatti ad attribuire, diversamente da Lanza e dai precedenti edi­ tori (Massèra, Marti, Vitale), non solo il secondo emistichio del v. 9 ma anche i due versi seguenti, in questo modo: «Assa’ potrebb’uom dirm’: “A nulla giova, | ch’ell’è di tale schiatta nata, ’ntendo, | che tutte son di così mala pruova”» (dove in tendo vale ‘voglio dire’, come per esempio in Guittone, L 024.48). 19 Cfr. Marti, C u ltu ra e stile , p. 106, e Lanza in Angiolieri, L e rim e , pp. XXXIV-XXXVI.

è perfettamente possibile che nell’uno o nell’altro com poni­ mento di questi autori al registro basso corrisponda un’e­ splicita presa di posizione contro l’eredità stilnovista; e va da sé che, a un dato punto del Trecento, scrivere un sonetto m isogino voleva dire non solo aderire (magari per scherzo) a uno dei luoghi comuni più triti e diffusi, in letteratura co­ me nella cultura popolare, m a anche attaccare, o per lo m e­ no coscientemente ignorare il canone poetico che si era o r­ mai stabilmente affermato nellTtalia centro-settentrionale20. M a occorrono, d ’altra parte, due distinzioni. In prim o luogo, altro è la poesia m isogina (che non aspetta né il tardo Duecento né il Trecento per sorgere e che vive perfettam en­ te anche in assenza di una controparte cortese), e altro è la poesia erotica che non ci appare in linea con forme e concet­ ti dello stilnuovo, o perché insiste sulla fisicità del rapporto am oroso, o perché si serve di un vocabolario m eno scelto, o perché pur senza sottoscrivere la condanna che era venuta da parte dei moralisti interpreta l’amore in m aniera negati­ va, come prigione, dolore, tortura: perché insomma ci offre, in generale, una descrizione più veritiera, m eno idealizzata dell’esperienza erotica. Un simile genere di poesia am orosa in Italia esiste, nasce proprio con l’Angiolieri e si continua per esem pio in certi testi di N icolò de’ R ossi o del Beccati, o del Vannozzo: poeti che non si possono chiamare anti-stilnovisti per la semplice ragione che fare diversamente rispet­ to a un determinato canone stilistico non significa necessa­ riamente fare contro. In secondo luogo, va ripetuto che ciò che vale per il Trecento o il prim o Q uattrocento non vale per il tardo D uecento nel quale operano C ecco e Dante. 20 Ciò tuttavia non giustifica letture ‘in parallelo’ per esempio di un sonetto misogino del Faitinelli da un lato, E n bo n a verità, e della poesia stilnovista dall’altro: «continuano le accuse del tradizionale misoginismo, giustificato letterariamente dall’opposizione allo Stilnovo» (Marti in P o e ti giocosi, p. 423, in pari, note 1, 2, 5). Vi sia o no in questo o in altri testi un sotterraneo riferimento allo stilnuovo, i motivi misogini hanno cittadinanza in letteratura in dipen den tem en te dalla poesia corte­ se. Che la lettura incrociata di testi burleschi e testi cortesi corresse il rischio di diventare una procedura troppo meccanica e unilaterale ave­ va già osservato Contini, R asse g n a b ibliografica, pp. 222-223.

Il m odello poetico-ideologico che si fisserà progressi­ vamente nel corso del X IV secolo, e diventerà normativo d opo Petrarca (quando perciò com porre d ’am ore signifi­ cherà conformarsi all’uso stilnovistico-petrarchesco, e ogni deroga sarà il segno o di inettitudine - nei tanti rim a­ tori dilettanti del tardo M edioevo - o di una consapevole presa di distanze dal modello), non doveva avere, a quel­ l’epoca, la stessa forza normativa e, per così dire, lo stesso grado di necessità. Si dà parodia di codici storicamente consolidati e, sotto il velo dell’ironia, prontam ente ricono­ scibili. Sarà parodia quella del Berni di Chiome d'argento fino, che ripete a rovescio i luoghi comuni della lode p e ­ trarchesca e bem bina; era stata parodia quella dei contretextes che fioriscono tra X II e X III secolo in margine al grande canto cortese in lingua d ’oc. È dubbio che nel tar­ do D uecento esistesse già un codice tanto strutturato da far sì che tutto ciò che veniva scritto in maniera non con­ form e ad esso (e si parla di forme, non di contenuti) ve­ nisse interpretato come una presa di posizione contro di esso. È ancora più dubbio che di fronte ad uno dei testi angioliereschi che si sono citati un lettore senese o un fio­ rentino del tem po avrebbero reagito com e se si fosse trat­ tato di una parodia di Dante e Cavalcanti: essi avrebbero forse percepito la differenza di tono e di stile, non una così im palpabile intenzione polemica. In conclusione, la m aniera degli stilnovisti rappresentava ancora una delle opzioni possibili, non quell’opzione ovvia e necessaria per ogni poeta d ’amore che diventerà gradualm ente nel corso del Trecento. L e deroghe ad essa potevano ancora p assa­ re inosservate: cioè non erano percepite come deroghe.

4. Cecco Angiolieri: i sonetti comico-realistici 4.1. Realismo creaturale, non parodia Fin qui si è trattato di allusioni, tanto velate da di­ m ostrarsi, all’analisi, inesistenti o assai im probabili: in so­ netti scritti ‘com e se’ l’io lirico professasse la fin amor,

qualcosa, a detta degli interpreti (il tono, il linguaggio, un dettaglio espressivo), tradirebbe il sottinteso parodico. Sappiam o però che esiste u n ’altra maniera, un altro ver­ sante della poesia angiolieresca dove non è più questione di raffinata commistione fra codici ma di una volontaria discesa nel grottesco e nel triviale. S ’intende che in que­ st’àm bito non soltanto lo stile m a anche e soprattutto i motivi (il sesso, le liti fam iliari, la taverna) tradiscono una distanza rispetto allo stilnuovo. M a proprio perché la distanza è tanto evidente sem bra fuori luogo trattare co­ me testi parodici sonetti in cui la parodia, se mai c ’è, è su ­ bito sopravanzata e inglobata nel com ico. Un paio di esempi. Il sonetto dialogato «Accorri, accorri, accorri, uom, a la strada» mette in scena un dialogo a tre voci tra il poeta, un passante e una donna dalle maniere piuttosto spicce; altrove, in altri sonetti concepiti secondo la stessa strate­ gia retorica, il terzo personaggio m anca e tutto si risolve in un botta e risposta tra C ecco e Becchina. N on sem bra necessario pensare a una «caricatura del concetto stilnovi­ stico d ’am ore» (Marti), dal m om ento che sappiam o che il contrasto tra il corteggiatore e la fanciulla non solo è un m otivo -standard nella poesia popolare ma ricorre anche con frequenza nei generi dialogati mediolatini e romanzi (sicché è sem m ai di queste form e m anierate della lirica cortese che i contrasti am orosi di C ecco rappresentano l’antitesi, non dell’ideologia cortese nel suo com plesso né dello stilnuovo, che per altro, significativamente, non co­ nosce il genere del sonetto dialogato). Il sonetto M e’ m i so’ cattiveggiar sun un letto è un re­ soconto dei sogni ad occhi aperti di Cecco: im padronirsi dei soldi degli altri, tenere finalmente «in braccio» B e c­ china. N on sem bra necessario concludere che qui ci tro­ viamo di fronte allo «stravolgim ento parodistico» (Lanza) del plazer cortese (visto anche che il plazer è una rassegna di oggetti o di eventi belli d a contemplare, non da p o sse ­ dere); oppure ad una «b effa delle dolci visioni stilnovistiche {Guido, i’ vorrei...-, Amore, io chero...)» (M arti), cioè a quello che a rigore si dovrebbe chiamare un capovolgi­

m ento del souhait stilnovista, come se in poesia il deside­ rio della ricchezza e del piacere sessuale fossero com pren­ sibili soltanto com e parodia di altri desideri meno grosso­ lani e terreni. M a qui arriviamo in effetti al nocciolo del problem a. Si pu ò essere d ’accordo sul fatto che desidera­ re la donna «in braccio» e il denaro degli altri è atteggia­ m ento ben poco ‘cortese’. M a perché non concedere che un rimatore po ssa raffigurarsi com e becero e materiale (e persino essere becero e materiale) senza per questo volersi im barcare ipso facto in una polem ica letteraria? O gni testo com ico-realistico è certo anticortese nei fatti, ma perché pretendere che lo sia anche nelle intenzioni?

4.2. Un confronto con Peire Cardenal, «A r m i puesc» A bbiam o la possibilità di fare una controprova. Fin qui ho sostenuto in sostanza che i conflitti che la critica tende ad interpretare sul piano della letteratura, come re­ se dei conti tra ‘scuola realistica’ e ‘scuola cortese’, vanno riportati sul piano della realtà: m eglio insom m a una lettu­ ra ingenua e letterale che una lettura trop po sensibile a mal dim ostrabili echi intertestuali. Esiste però almeno un sonetto che non sem bra riducibile a questa mia posi­ zione, nel senso che la polem ica metaletteraria vi appare, a prim a vista, assolutam ente centrale. Se infatti c ’è un te­ sto che ha tutte le caratteristiche per essere definito p aro ­ dico e polem ico, quello è il sonetto F sono innamorato (68) di C ecco Angiolieri: u n ’eccezione, se sono giuste le osservazioni svolte sin qui, e un’eccezione ben significati­ va. Per capire in quale senso lo sia, dobbiam o prim a rife­ rirci brevem ente al più fam oso serventese del trovatore Peire Cardenal, un lungo controcanto ai luoghi comuni di quella poesia cortese che mette in scena donne bellissime, folli innamoramenti, passioni incontenibili21:

21 Peire Cardenal, L e p o e sie , pp. 191-200: «Ora posso dirmi con­ tento di amore, che non mi toglie la fame né il sonno, né a causa sua

4

Ar mi puesc yeu lauzar d’amor, que no-m tol maniar ni dormir, ni-n sent freydura ni calor, ni non badalh ni non sospir ni-n vauc de nuetz aratie

Che qui siano im plicitamente prese di mira le iperboli dei trovatori in lode della donna o di se stessi (gap erotico: il sentimento del poeta è più alto e più puro di quello di qualsiasi altro amante) è, credo, evidente. N on meno evi­ dente è il fatto che un simile esercizio di ironia può avere luogo soltanto in un contesto nel quale l’ideale contestato - in breve, l’ideale della fin am or - abbia autorevolezza e diffusione tali da rappresentare un bersaglio im m ediata­ mente visibile da parte dei lettori. T ale era orm ai il conte­ sto creato dalla tradizione trobadorica agli inizi del X III secolo, e gli spettatori avranno sorriso di questa garbata ma efficace corrosione dell’uri am andi cortese. T ale era anche l’ambiente toscano alla fine del D uecento? Com e il serventese di Peire, il sonetto 68 di C ecco è un ‘canto di gioia’ intonato per celebrare non, com e era costume, l’amore raggiunto, bensì la liberazione dai trau­ mi che l ’am ore produce su chi gli si assoggetta:

4 9

F sono innamorato, ma non tanto che non men passi ben leggeramente; di ciò mi lodo e tegnomi valente, ch’a l’Amor non so’ dato tutto quanto. Però non pensi donna che sia nata che l’ami ligio com’i’ veggio molti, sia quanto voglia bella e delicata, ché troppo amare fa gli omini stolti

I versi della fronte sono il pretto rovesciamento dei valori cortesi: all’interno di questo m ondo ci si concede infatti

sento freddo o caldo, e non sbadiglio né sospiro, e non vado errando di notte» (trad. Vatteroni).

per intero all’Amore, e in tanto ci si può ‘lodare e ritenere valenti’ (cfr. per esem pio G iacom o da Lentini, M olti amadori, 9: « S u ’ è lo core e suo son tutto quanto»); naturale, poi, che per questa mentalità l’amore non sia mai troppo (com ’è invece per Cecco: v. 12). Eppure, se confrontato con quello di A r mi puesc, il m ordente polem ico di questo sonetto è decisam ente inferiore; il suo carattere è asserti­ vo, non negativo, e valga il confronto con la catena anafo­ rica di ni che scandisce le prim e tre stanze del serventese di Peire: ‘non sono ferito né abbattuto, non sono preso né rubato...’. Il fatto è - e veniamo finalmente al punto es­ senziale - che Peire ha di fronte a sé un bersaglio dichia­ rato e citato , e tale bersaglio dobbiam o identificarlo non tanto nell’atteggiam ento ‘estrem o’ e dissennato dell’am an­ te cortese, bensì nelle parole pronunciate dall’amante stes­ so nella sua veste di poeta. Perdere la fam e e il sonno, sbadigliare e sospirare, vagare nottetem po - questi che Peire dice di evitare sono sì, anche, i nefasti effetti dell’a ­ m ore su chi lo prova, ma sono soprattutto, nel contesto del serventese, gli effetti d ’am ore quali li hanno cantati, am plificandone la portata, generazioni di trovatori. L ’iro­ nia non cade su un m odo di com portarsi bensì su un m o­ do di com porre versi, su un m odo di trattare il tema eroti­ co in poesia: tant’è vero che alcune delle negazioni di P ei­ re non riguardano azioni che l’amante com pie o subisce materialmente (per es. appunto perdere il sonno o la fa­ me), bensì quelle che sono semplici m etafore adoperate com unemente nella lirica dell’amore cortese: «n i ha mon cor en gatie, | ni soi sos pres ni sos liatz» («né ha il mio cuore in pegno, e non sono suo prigioniero e a lei non so ­ no legato»; e si vedano, a conferma, i puntali rinvìi di Vatteroni ai luoghi trobadorici in cui tali m etafore sono usa­ te, naturalm ente in accezione positiva). M a se occorresse ancora una prova, ecco che la catena di ni si spezza e cede il posto, all’altezza del v. 19 e per i tre seguenti, a una serie di ni die i quali avranno di mira non, evidentemente, dichiarazioni di amanti qualsiasi, ma i so ­ prassalti passionali descritti, detti appunto, nella poesia:

ni die qu’ieu soy d’amor forssatz, ni die que mos cors m’es emblatz. Ni die q’ieu muer per la gensor, ni die que l belam fay languir22. Q uesti n i die sono insom m a la chiave della parodia di Peire: parodia che dissacra non il reale com portam ento am o­ roso degli uomini bensì gli iperbolici clichés che intorno a quel tema si erano generati nella tradizione lirica. Sono osservazioni scontate, che nulla aggiungono all’interpreta­ zione tradizionale di A r m i puesc\ questa prem essa era p e ­ rò necessaria per poter affrontare nella giusta prospettiva il sonetto di Cecco. Com e si presenta infatti la parodia di F sono innamorato ? In essa il lettore raffinato (ma forse troppo raffinato) percepirà gli echi della lirica am orosa ‘ufficiale’ sui quali sopra ho richiamato l’attenzione. Il to ­ no è però, come si è detto, asseverativo: il poeta dichiara quale sarà, d ’ora in poi, la sua condotta nelle faccende d ’amore, e a tal fine ci dice ciò che egli è e ciò che sarà , non (se non in un punto di cui tratterò subito) ciò che (ovviamente sbagliando) sono e fanno gli altri: il suo m o ­ vente non sem bra insom m a essere la polem ica nei con­ fronti degli altri amanti o poeti-amanti. M a soprattutto, a differenza di Peire, C ecco non sem bra reagire ad alcuna affermazione che egli abbia sentito o letto. I ni die e le m etafore adoperate da Peire ci garantivano che ad essere negati e colpiti da ironia erano, nel suo testo, atteggia­ menti prim a di tutto verbali, l ’armamentario retorico della fin ’amor. In T sono innamorato c ’è sì un punto in cui gli altri amanti entrano nel discorso ad esem plificare un tipo di com portam ento am oroso opposto a quello che C ecco ritiene conveniente, ma ecco come si presenta il paragone: «P erò non pensi donna che sia nata | che l’ami ligio com ’i’ veggio m olti». Veggio, e non - per ipotesi - sento.

22 Peire Cardenal, L e poesie, p. 197: «Non dico che sono forzato da amore, né dico che il mio cuore mi è rubato. Non dico che muoio per la più nobile, né dico che la bella mi fa languire» (trad. Vatteroni).

Continuiam o a leggere i due testi in parallelo. M entre in A r me puesc la parodia investiva i m odi in cui l’amore era stato filtrato dalla poesia cortese, dunque un vizio pri­ ma di tutto verbale (tanto che Peire può rincarare la dose servendosi anche della particolare parodia form ale descrit­ ta d a Elwert) 23, qui l’opposizione si gioca tutta sul piano della realtà, dei concreti rapporti uom o-donna: C ecco non protesta contro ciò che gli altri poeti-amanti dicono intorno alla loro passione, m a contro il m odo in cui gli al­ tri amanti (di poesia, di cose dette, non è questione) la vi­ vono concretamente. N ell’un caso (Peire) il poeta ha deci­ so di capovolgere tutti i clichés erotici sentiti e letti nelle liriche dei trovatori: la com petenza letteraria del pubblico 0non l’esperienza diretta) adem pie il testo, ne coglie al v o ­ lo il significato parodico; nell’altro caso (Cecco), il poeta ha visto amanti dissennati, devoti fino al totale oblio di sé, e dichiara risolutamente che non vuole fare la loro fine. D a questa piccola differenza di obiettivi deriva una conse­ guenza ben più rilevante sul piano dell’interpretazione: mentre quando leggiam o il serventese di Peire non d u b i­ tiamo neppure per un attimo dell’esistenza di un bersa­ glio letterario, in C ecco tale bersaglio è m olto più dissi­ m ulato, e a rigore potrebbe non esserci affatto. M entre cioè la conoscenza del ‘codice cortese’ è indispensabile per la com prensione del testo di Peire, che lo rilegge sotto figura d ’antifrasi, il sonetto angiolieresco è perfettamente autonom o, e potrebbe essere letto e com preso a sufficien­ za, se così si può dire, anche da chi ignori l’esistenza di un’altro contem poraneo filone poetico in cui si affermano proprio quei valori cortesi cui Cecco nega validità. Q u e ­ sto lettore saprà infatti per esperienza, e non per lettura, cosa significhi ‘amare tro p p o ’, ‘essere troppo ligio’ o ‘can­ giare il cuore e divisare il volto’ (mentre, ripeto, un verso com e « N i die q u ’ieu muer per la gensor» sollecita la m e­ 23 Cfr. W.T. Elwert, F orm ale S a tire b e i P eire C ard e n a l (in sbeson dere zu r K an zo n e « A r m i p u esc ieu lau za r d ’am o r»), in Syntactica u n d S tilisti­ ca. F estsch rift f ü r E rn st G am illsch eg, Tübingen, Niemeyer 1957, pp. 111-119.

moria letteraria, non la reale esperienza in am ore del p u b ­ blico). E cco dunque che F sono innamorato è sì, certa­ mente, un testo anti-cortese nei fatti, nel senso che p ro p o ­ ne un m odello di com portam ento che nessun poeta ‘cor­ tese’ accetterebbe; che lo sia anche nelle intenzioni, che cioè qui siano prese di mira altri poeti i quali propongono nei loro versi un altro m odo di amare, ciò è possibile ma non necessario. E sarà dunque una com prensione adegua­ ta quella che senza andare oltre la lettera del testo vi ve­ drà un invito, che il poeta rivolge prim a di tutto a se stes­ so, a non prendere l’am ore troppo sul serio ( non adeguata sarebbe invece una lettura di A r m i puesc secondo questa stessa chiave); sarà una com prensione più sottile, m a non necessariamente più profonda e più vera, quella che ‘farà parlare’ il testo con (in contraddizione con) altri testi del­ l’avversa tradizione stilnovista.

4.3. I sonetti osceni Il discorso non cam bia m olto se dai com ponim enti di­ ciamo creaturali-grotteschi ci volgiam o a considerare quelli francamente osceni. Anche qui converrà affrontare sùbito alcuni casi concreti, scelti tra i più rappresentativi. 1) «S e si volessero negare - scrive M arti - gli elementi p a ­ rodistici e polem ici della poesia am orosa del senese, non si saprebbe davvero com e spiegare le grosse oscenità» di un sonetto com e S ’i' potesse d’amico in terzo am ico 24, in cui si leggono versi di questo genere: « e se l’avesse [l’a ­ m ore della donna], guardare ’1 su ’ onore | in ogni lato ch’è sotto al bellico [ = l ’o m belico]» (7-8). 2) « N é - scrive ancora M arti - si può equivocare sulla buffa antitesi fra lo stilnovistico “ dolce gentil donna” e la terrestre e sensuale 24 24 In realtà il sonetto è trasmesso senza attribuzione dal ms. Ch, che ne è testimone unico. Ma poiché almeno per certi aspetti (e questo del­ l’oscenità e dei sottintesi parodici è uno di quelli) è senz’altro possibile lavorare sulla tradizione giocosa come su una koin è, poco importa ai nostri fini se esso sia o no un testo angiolieresco.

“ gioia” desiderata dal p o e ta » 25 nel son. X V III: «F h o sì gran paura di fallare | verso la dolce gentil donna mia | ch’i’ non l’ardisco la gioi’ dom andare» (1-3). 3) E p o ­ trem mo immaginare, infine, una Beatrice che adoperi le stesse parole di Becchina, disposta finalmente a conceder­ si all’amante: «C ecco, l’umiltà tua m ’ha sì rim ossa | che giam m a’ ben né gioia ’1 m i’ cor sente | se di te nove mesi non vo grossa» (X X III 12-14)? Volutamente ho scelto tre esem pi eterogenei, che ri­ specchiano, per dire così, gradi diversi di trivialità: triviali­ tà estrem a nell’ultimo esem pio, visto anche che a parlare è una donna (3); minima nel secondo, dove il riferimento osceno, se pure c ’è, è indicato eufem isticamente col term i­ ne ben cortese della gioia (2); mentre potrem m o definire di grado medio, stem perata com ’è nella battuta com ica, la tri­ vialità del prim o brano ( 1 ). N ei casi simili a 2, in cui cioè il discorso sull’eros coinvolga anche la sfera della corporeità, sarà da tenere presente il fatto che la dimensione fisica del­ l’esperienza d ’amore npn è assente neppure dalla lirica d ’arte più squisita. L ’opinione opposta fa leva su un con­ cetto un p o ’ troppo restrittivo tanto di codice cortese quanto di stilnuovo (troppo schiacciato, quest’ultimo, sulla posizione di D ante e sullo stile della lode): è un fatto che, sia alla corte di Federico II sia in Toscana, rimatori che non si possono far rientrare nella famiglia dei comico-reali­ stici scrissero testi in cui il tema della soddisfazione sessu a­ le, se pure non arrivava a costituire il fulcro del discorso (ciò che avrebbe com portato precisam ente uno slittamento nel registro comico), era trattato senza alcuna reticenza26. N ei casi simili a l e , soprattutto, a 3, bisognerà invece resistere alla tentazione di form ulare sùbito l’equazione tra realismo e volgarità da una parte e antistilnovismo 25 Marti, C ultura e stile , p. 111. 26 Per la corte di Federico II cfr. le indicazioni di Lanza in Angiolieri, L e rim e, pp. XI-XII e XV-XVI, che cita i nomi di Rinaldo d’Aquino e Giacomino Pugliese; per la Toscana si pensi alla pastorella di Ca­ valcanti, o a certi passaggi del Dante petroso, o, soprattutto, a Bonagiunta, il discordo Q u an d o veggio la rivera e la canzone F in am o r m i conforta.

dall’altra. Tale equazione sarebbe legittima se versi triviali potessero essere concepiti e scritti soltanto per reazione a versi sentiti come troppo immateriali: il che non è, o non è provato. Si tratta, invece, in conclusione, di registri, o meglio di generi poetici differenti che non occorre affat­ to mettere in rapporto, e men che meno leggere come se l’uno fosse lo specchio deform ato dell’altro. Il canzoniere burlesco di C ecco sarebbe perfettam ente com prensibile anche se non ci fosse, sull’altro versante, una controparte ‘aulica’. Sapere che questa controparte è esistita non ci aiuta a capire meglio i testi angioliereschi m a ci fa sapere che almeno due erano le anime della poesia del Duecento. 4.4. Un solo stile a l servizio di molti generi diversi N on discuterò ora gli altri passi, le altre prove addotte dagli studiosi e dai com m entatori in favore della tesi secon­ do cui i versi di C ecco sarebbero un continuo esercizio p a ­ rodico e anticortese, perché tutte quante si possono ridur­ re ai tipi già discussi (tipi in cui una deviazione di ordine stilistico rispetto alle m edie della ‘scuola’ viene fraintesa come deviazione di ordine ideologico) e perché tutte quan­ te poggiano su questa petizione di principio: C ecco ci è n o ­ to soprattutto com e rim atore com ico-realistico, dunque anche le sue rime d ’am ore - che all’apparenza nulla hanno di comico-realistico - devono avere, al fondo, un sottinteso parodico. L e sue rime burlesche e triviali, poi, sono, per il sem plice fatto di sviluppare temi estranei alla tradizione cortese, il più esplicito- dei m anifesti anti-stilnovisti. L ’ipotesi o p p o sta, che qui ho cercato di sostenere, porta invece a opposte conclusioni circa la fisionom ia ar­ tistica di C ecco Angiolieri. L a critica gli ha negato quella qualifica di rimatore bifronte, ora serio ora comico, che si applica invece com unemente a R ustico27. M a l’ipotesi del bifrontism o può essere abbandonata solo se si accetta in cam bio quella del ‘polifrontism o’, solo cioè se si sanno ve­ 27 Cfr. Contini, In troduzion e a lla «C o gn izion e e Lanza in Angiolieri, L e rim e , pp. VII-IX.

d e l dolore» ,

p. 614,

dere, intrecciate nel suo canzoniere, talora sovrapposte al­ l’interno di un m edesim o testo, non due ma più e più sfu­ m ate m aniere poetiche. L ’Angiolieri risulta insom m a, a una lettura spregiudicata dei suoi cento sonetti, uno dei più inquieti e sperim entali tra i rimatori duecenteschi. P er­ ciò anche u n o di quelli per cui è più difficile trovare una definizione adeguata, che riesca a dar conto di una tastiera straordinariam ente varia, in cui al burlesco pu ro (per es. 8 2 ,1 0 7 ) si alterna il cortese altrettanto puro (poco importa se di m atrice guittoniana o stilnovista: 1, 2, 4), quindi il cortese contam inato di realtà (28, 41), quindi il registro m oralistico (98, 103, 104), quello autobiografico e aneddo­ tico (73, 94), quello invettivo (79, 83, 102), e via dicendo. L a distinzione tra dim ensione comica e dim ensione corte­ se non può essere netta com e in Rustico: perché la poesia d ’amore ‘seria’ di C ecco non ha il carattere araldico e sti­ lizzato che fa di quella del suo predecessore fiorentino un paradigm a di classicità; e perché, simmetricamente, la vo­ cazione com ico-realistica non significa in lui, com e signifi­ cava in Rustico, adesione esteriore ad un genere letterario ‘oggettivo’ m a costituisce un momento essenziale nella rappresentazione dell’io: e ci appare dunque, se si può az­ zardare questo termine anacronistico, più sincera. M a que­ sto avvicinamento ad un grado medio dell’espressione non vuol dire che non sia necessario distinguere tra le varianti del sistema; né che, per esem pio, un sonetto com e II cuore in corpo (4) - trattato dai critici, s ’è detto sopra, com e pa­ rodia dei trem ori cavalcantiani - vada interpretato alla luce della m orale (questa sì volutamente grossolana e parodica) espressa in S ’i fosse foco. N on bifrontismo, dunque, nel senso che questa etichetta ha assunto nella storiografia let­ teraria: artificiale alternanza di registri estremi, l ’aulico e il triviale, che non interferiscono tra loro. Bensì, se una defi­ nizione dev’essere tentata, monostilismo, però al servizio di opinioni e registri trop po disparati perché ci si possa davvero accontentare del nom e di ‘comico integrale’ 28. 28 p. 614.

Adoperato da Contini, In troduzion e

alla «C ogn izion e d e l d olore»,

5. Rustico Filippi, «Q uando D io»

C i siam o concentrati su C ecco Angiolieri perché è lui il più com plesso e interessante tra i poeti burleschi del suo tempo. Ciò tuttavia non è sufficiente. Poiché sostengo che è bene non leggere alcuna poesia burlesca del D u e­ cento attraverso i filtri metaletterari che la tradizione criti­ ca ha sovrapposto ai testi, questa tesi andrà ora verificata sui canzonieri di altri autori. A parte quelli di C ecco che abbiam o appena analizza­ to, esiste almeno un paio di altri sonetti i quali, secondo rinterpretazione corrente, si spiegano com e esercizi di p a ­ rodia e di rovesciamento dei clichés stilnovistico-cortesi. H a osservato M engaldo com e la parodia sia rara nelle ri­ me di Rustico Filippi, posto che in lui «registro comico e registro cortese presentano [...] una tessitura linguistica nettamente separata, senza interferenze»29: vale a dire che in Rustico il com ico basta a se stesso, trova nel reale e nel­ la propria tradizione di genere forze sufficienti a sorreg­ gersi senza che gli occorra cercare un bersaglio polem ico nell’ambito della letteratura ‘seria’. Ciò, precisa ancora M engaldo, fatte salve «p och e eccezioni», delle quali la più cospicua è quella rappresentata dal sonetto 44: Quando Dio messer Messerin fece ben si credette far gran meraviglia ch’ucello e bestia ed uom ne sodisfece, 4 ch’a ciascheduna natura s’apiglia: ché nel gozzo anigrottol contrafece, e ne le ren giraffa m’asomiglia, ed uom sembia, secondo che si dece, 8 ne la piagente sua cera vermiglia. Ancor risembra corbo nel cantare, ed è diritta bestia nel savere, 11 ed uomo è sumigliato al vestimento. Quando Dio il fece, poco avea che fare, ma volle dimostrar lo suo potere, 14 sì strana cosa fare ebbe in talento. 29 Mengaldo,

In troduzion e

a Rustico,

S o n e tti ,

p. 11.

U n D io che per «fare m eraviglia» inventa una creatura m ai vista, un incrocio grottesco di uccello, animale terre­ stre e uom o; è, osservava Contini, «la caricatura di un te­ m a co rte se »30, quello della creazione m iracolosa della donna, che col suo solo essersi verificata è pegno dell’on­ nipotenza divina. D ei passi paralleli {qui - si sostiene - implicitamente parodiati) proposti dai commentatori basterà ricordare M onte Andrea, 80.12-13: «V olle il Sengnore D io, la Sua possanza, | farne m ostranza, quando vi form òne»; o l’anonima Angelica figura (P 119), 15-17: «N o n credo veramente | ked altro avesse a mente, | quan­ do fé D io sì bella criatura». Il gioco parodico sarebbe inoltre conferm ato al v. 8, dove la «cera verm iglia», ossia paonazza, sem bra volgere al m ostruoso le «varie cere ro­ see e delicate della lirica antica» (M engaldo). L a retorica che nella poesia della lode duecentesca serve ad esprim e­ re stupore di fronte alla bellezza sovrumana dell’amata è qui calata in un tessuto m etaforico che ne inverte il se­ gno: disgusto, non ammirazione. U na simile interpretazione non soddisfa del tutto per due motivi. D a un lato non è chiaro per quale ragione il codice cortese verrebbe parodiato al livello del lessico e dei motivi senza essere neppure sfiorato a livello temati­ co: la descrizione del brutto potrebbe suonare irriverente nei confronti dei poeti d ’am ore ‘seri’ se qui l’oggetto dello scherno fosse una donna, posta la tendenza di costoro a idealizzare corpo e spirito delle loro amate; ma qui è in questione la natura bestiale di m esser M esserino, e non si vede di quale cliché cortese quest’indugio su un uom o - non su una donna - repellente costituirebbe il rovescia­ mento. Se l’effetto di controcanto è affidato tutto alle p o ­ che coincidenze lessicali e m etaforiche che si sono citate 30 Contini, L e tte ratu ra ita lia n a , p. 115; analogamente Vitale (R im a­ to ri com ico-realistici , p. 139) e Mengaldo (Rustico, S o n e tti , p. 48); acuta­ mente argomentata ma a mio giudizio non condivisibile è la recente in­ terpretazione di Marrani, I so n e tti , pp. 157-158: il messer Messerino de­ scritto qui non sarebbe un uomo bensì il membro maschile - un doppio senso che a me pare assente anche dagli altri sonetti citati da Marrani a riscontro, Q u an d o se r Pepo e E l M u scia s i f a dicere.

sopra, il gioco sem bra davvero troppo sottile, ed è lecito supporre che la parodia non sarebbe stata neppure perce­ pibile da parte di un lettore appena un p o ’ più ingenuo dei filologi moderni. In secondo luogo, resta da spiegare perché qui il vituperio si serva di immagini così peregrine (nulla di simile troviamo nelle invettive contro le donne laide e le vecchie, che sono sem pre m olto più dirette): un corpo e un animo deformi, costruiti con i ‘pezzi peggiori’ degli uccelli (voce di corvo, gozzo di pellicano) e dei qu a­ drupedi (fianchi di giraffa, scienza di «diritta bestia», sen­ za specificazione). Ricorderem o naturalm ente che la fu ­ sione di più nature insieme è uno dei tratti ricorrenti nella figurazione del m ostro, dai centauri a G erione, e che anzi per l’appunto è tradizionale, nel mito, l ’incrocio di uom o e animale. M a dovremo anche ricordare che di un ibrido identico ed opposto rispetto a quello confezionato d a R u­ stico si parla in una delle leggende legate al pittore greco Zeusi. Chiam ato dagli abitanti di C rotone a dipingere la figura di Elena nel tem pio di G iunone, Zeusi fece raduna­ re le più belle fanciulle della città e ne scelse cinque, cia­ scuna eccellente sulle altre per un diverso dettaglio fisico: «N eq u e enim putavit omnia; quae quaereret ad venustatem, uno se in corpore reperire posse ideo quod nihil simplici in genere om nibus ex partibus perfectum natura exp o liv it»31. L ’opera che ne risultò fu una ‘synthetic lady’ di tale bellezza da eternare il nom e del suo autore. Il mito di Zeusi conobbe una straordinaria diffusione nel Medioevo latino e romanzo. Il recupero più noto ed importante fu quello compiuto da Bertran de Bom, che nella canzone Domna, puois de me no-us chal (BdT 80, 12) immagina di ricostrui­ re una «domna soisseubuda», cioè artificiale e ideale, formata dalle membra di alarne gentildonne della corte (se dunque la sintesi è immaginaria, le varie parti che la compongono appar­

31 Cicerone, D e in ven tion e, Et i 2-3; sulle altre fonti che riferiscono l’aneddoto e sulla sua fortuna nella tradizione classica informa S. Maffei nell’introduzione a Luciano di Samosata, D escrizio n i d i opere d ’arte, To­ rino, Einaudi 1994, pp. L-LI.

tengono a personaggi reali, e la poesia va intesa evidentemente come un sapiente omaggio collettivo alle dame che costituivano il pubblico del trovatore). La canzone di Bertran de Born fu imitata almeno due volte, da Cerveri de Girona nella Recepta de xarob (BdT 434a, 17) e da Elias de Barjols in Belhs Guazanhs, s’a vos plazia (BdT 132, 5 )32. In quest’ultimo testo cambia il ses­ so dell’ibrido ma le regole restano immutate: il poeta costruisce infatti la figura del cavaliere perfetto («cavalher soisseubut») sommando Te virtù di cortigiani realmente esistiti, per fare sì che il risultato finale - un cavaliere nuovo e bello - sia degno dell’a­ more di Belh Guazanh: «Q u’ieu sai qu’a vos tanheria | amics cabalos [...] | farai n’un tot nou qu’er bos» (9-11). E anche in Ita­ lia, la ‘selezione’ di Zeusi entrerà stabilmente nel protocollo del­ la descriptio puellae e lascerà tracce concrete, in poesia, per esempio in un sonetto del trecentista Ricciardo da Battifolle (Fi­ lippina, se Zeusi che dipinse), nel Furioso e prima ancora, con qualche significativa variante, nel sonetto A fare una bella donna soprano di Nicolò de’ Rossi33. Il richiam o a Zeusi ci perm ette di aggirare i due osta­ coli che si opponevano a una lettura in chiave anti-cortese del sonetto di Rustico. Il puzzle m ostruoso, com posto dai pezzi peggiori di uccelli e animali terrestri, è il rovescio grottesco della bellezza suprem a che Zeusi aveva ricavato dalla som m a di altre bellezze: sicché M esserino non è - come implicitamente afferm ano i commentatori - il contrario di midon, Fanti-Beatrice, bensì l’anti-Elena. A destare l’effetto com ico non è infatti la presa in giro del codice cortese bensì l’allusione a un frammento della cul­ tura ‘alta’ qui ironizzato e m utato di segno e insom m a am ­ bientato in un contesto burlesco. Solo in questo senso, e non perché essa sia legata da un rapporto parodico alla contem poranea letteratura cortese, anche la poesia dei co ­ 32 Cfr. M. de Riquer, L o s trovadores. H isto ria literaria y textos, 3 voli., Barcelona, Editorial Planeta 1975, III, pp. 1196-1198. 33 II sonetto è il n. 108 dell’ed. Brugnolo: la donna perfetta vi viene formata mettendo insieme membra non di donne famose ma, per così dire, di ‘tipi geografici’: «Viso di Grecia, ochio senese, | ungare die, capo marchesano», eccetera; per le altre occorrenze cfr. S. De Laude, N o ta su «O rlan d o fu r io s o » X I, 7, in «Strumenti critici», 71 (1993), pp. 81-86.

mico-realistici merita la qualifica di dotta : in quanto co­ storo non solo hanno piena coscienza della tradizione del loro genere (lo ha dim ostrato M arti), m a sanno anche tra­ sfigurare un dato di realtà (che c’è, è presente: nel caso in esame la deform ità di M esserino) presentandocelo attra­ verso un filtro letterario o figurativo, e insomma generica­ mente culturale. Un ulteriore esem pio, che soltanto per caso ci riporterà al com plesso di leggende legate al nome di Zeusi, dovrebbe rendere la dim ostrazione ancora più chiara e convincente.

6. Cavalcanti, «G uata, M anetto» 6.1. I l versante comico degli stilnovisti Accanto al Cavalcanti ‘cantore degli spiriti’ e al loico di Donna me prega esiste un Cavalcanti giocoso. M a sul ri­ lievo di questa esperienza nella carriera di G uido, così co­ me sulle parentesi comiche di D ante o (in tenzone) di Cino o di Guinizzelli, va fatta questa riserva: che si tratta in realtà di un doppio registro troppo squilibrato in favore della poesia aulica perché questo bifrontism o po ssa consi­ derarsi significativo al pari di quello di Rustico o (coi di­ stinguo che si sono fatti) di Cecco. E un fatto che, sop rat­ tutto per i poeti toscani, resterà aperta per tutto il M e­ dioevo la possibilità di ‘non fare sul serio’, cioè di dim en­ ticare per brevi momenti le leggi della lirica e scrivere alla m aniera dei giocosi senza che ciò com porti alcuna tensio­ ne interna e men che meno propositi polem ici verso l’e­ sterno - il codice cortese, i com pagni d ’arte. D ionisotti ha osservato come questo d op pio binario persista nella F i­ renze m edicea, e debba entrare nel giudizio sulla poesia di Machiavelli; ma vale retrospettivam ente anche per i prim i secoli l’ammonimento a non sopravvalutare la p o r­ tata ideologica di questi occasionali esercizi di stile: «non bisogna confondere questa disponibilità comica, tipica dei toscani e della loro lingua, e così diversa dall’industria e asprezza della letteratura grottesca d ’altre regioni d ’Ita­

lia, con esperim enti e propositi artistici che si pongono su un altro p ia n o » 34. N on più di tre fra i testi cavalcantiani che si sono con­ servati possono essere ascritti al registro comico-realisti­ co: i sonetti Se non ti caggia la tua santalena, Novelle ti so dire, odi, Nerone e Guata, Manetto, quella scrignutuzza. L a prim a cosa da sottolineare è che si tratta di tre poesie di corrispondenza inviate ad altrettanti destinatari reali per divertirli o per prendersi gioco di loro. E un dato tutt’altro che irrilevante perché, com e ribadirò più avanti, lo specifico dei ‘veri’ rimatori burleschi contem poranei di G u ido sta precisam ente nel fatto che il discorso poetico è, nel loro caso, orientato sull’io di chi scrive, mentre è scar­ sissim o lo spazio concesso a destinatari diretti che non siano i voi che leggono il testo o che prendono parte all’a­ zione o allo spettacolo che il testo descrive (diverso anco­ ra il caso di Rustico, che non ha dei veri corrispondenti bensì delle vittime). M eglio di qualsiasi altra considerazio­ ne quantitativa, questo oppo sto orientamento sul tu, in Cavalcanti com e in Cino o in D ante, dice i limiti del loro im pegno su questo versante della poesia: da un lato, il realismo com ico trova spazio nelle rime occasionali, cioè nelle brevi lettere in versi che vengono inviate a destinatari m agari non poeti (non risulta che lo fossero né Nerone né M anetto); dall’altro, il realismo com ico viene tenuto a debita distanza dall’io lirico, il quale vive soltanto nella finzione della fin ’amor e nel confronto con la tradizione letteraria cortese: dunque nell’altra cinquantina di testi che com pleta il corpus cavalcantiano. L ’avvicinamento tra - per usare le categorie di Spitzer - io lirico e io em pirico che era il program m a e l’obiettivo dei veri com ico-realisti­ ci, quelli che adoperavano il registro basso per mettere in scena se stessi, non ha luogo nei lirici ‘seri’ in tem poranea vacanza dalla fin ’amor, qui il registro basso è funzionale al colloquio con gli altri, e l’io em pirico non viene m ai vera­ mente chiamato in causa.

34 C. Dionisotti,

M ach iavellerie ,

Torino, Einaudi 1980, p. 250.

6.2, D ue interpretazioni di «G uata, M anetto» Circa i sonetti X L V (Se non ti caggia ) e L II (Novelle ti so dire) di Cavalcanti, è chiaro il loro legam e con un epi­ sodio della realtà: in un caso l’acquisto incauto di una ca­ sa in cam pagna da parte di un am ico35, nell’altro la viltà coperta di arroganza di N erone Cavalcanti. N onostante la chiarezza della lettera, il sonetto L I sem bra invece conte­ nere un m essaggio cifrato: Guata, Manetto, quella scrignutuzza, e pon’ ben mente com’è divisata e com’è drittamente sfigurata 4 e quel che pare quand’ella s’agruzza! Or, s’ella fosse vestita d’un’uzza con cappellin’ e di vel soggolata ed apparisse di die accompagnata 8 d’alcuna bella donna gentiluzza, tu non avresti niquità sì forte né saresti angoscioso sì d’amore 11 né sì involto di malinconia, che tu non fossi a rischio de la morte di tanto rider che farebbe ’1 core: 14 o tu morresti, o fuggiresti via. D i questo sonetto sono state date tre interpretazioni. L a prim a è quella che vi vede una variante più divertita, cioè meno acre, dell 'improperium in vetulam, diffusissim o 35 Se non c’è motivo di dubitare della storicità dell’episodio cui Ca­ valcanti allude, va però detto che il sonetto si colloca nel solco di una tradizione dai chiari connotati letterari. Sui possibili antecedenti latini informa G. Tanturli, L a tenzone d e l C avalcanti, X L V , con G ioven ale, III, in O perosa parva. P er G ia n n i A n to n in i, Verona, Valdonega 1996, pp. 33-40; ma anche nella tradizione italiana il tema dell’amico autoesiliatosi in campagna dà materia a vari autori: cfr. A. Bruni Bettarini, Po­ stille a i p o e ti p e ru g in i d e l T recen to , in SFI, 29 (1971), pp. 147-189, alle pp. 177-178, e V. Dometti, A sp e tti e fig u re della p o e sia m in ore trecente­ sca, Padova, Piccin Nuova Libraria 1984, pp. 44-45. Una diversa inter­ pretazione è ora proposta da M. Cursietti, I dop p i se n si d e l son etto « S ’e ‘ non ti cagia la tu a sa n ta le n a », in «La parola del testo», III 1 (1999), pp. 75-83.

nella letteratura medievale e ripreso per esem pio, in anni non lontani da Cavalcanti, da Guinizzelli (Volvol le levi) e da Rustico (Dovunque vai). Avremmo dunque di fronte un Cavalcanti giocoso e irriverente, ma capace di una leg­ gerezza e di un’ironia estranee al ‘genere’; e il risultato è, di fatto, distante sia dalla grossolanità di Rustico sia d al­ l’irruenza di G uinizzelli36. Si tratta di una lettura pruden­ te, m a che concede ancora troppo alle implicazioni m eta­ letterarie. In realtà, il m otivo -cliché dell’im properio con­ tro la vecchia non è qui pertinente per due ovvie ragioni. L a prim a è che in Guata, M anetto è assente proprio il m o­ dulo più essenziale dell’im properio, l’apostrofe al perso­ naggio cui sono rivolti gli insulti (si confrontino G uiniz­ zelli: «V olvol te levi, vecchia rabbiosa»; e Rustico: «O i buggeressa vecchia puzzolente»). L a seconda è che la «scrignutuzza» in questione non è una vecchia, o quanto­ meno nulla nel sonetto dice che lo sia: la polarità che s ’in­ staura è tra bruttezza e bellezza (la «bella donna gentiluzza» del v. 8, che farebbe un com ico contrasto con la «scri­ gnutuzza»), non tra vecchiaia e gioventù. L a seconda ipotesi di lettura è stata avanzata da G io r­ gio A gam ben in margine ad una più am pia riconsiderazio­ ne della teoria d ’amore dei duecentisti, e pu ò essere rias­ sunta nel m odo seguente. L a trattatistica m edica m edieva­ le descrive un particolare genere d ’amore, Yatnor bereos, che si definisce com e «u n ’angoscia malinconica causata dall’am ore di una donna», la quale provoca insonnia, inappetenza, debolezza, incostanza nelle passioni, e in­ som m a uno stato di alterazione psico-fisica che può p o r­ tare, se non curato, alla morte. Effetto m anifesto di que­ sto m orbo diffuso particolarm ente tra « i signori e i nobili a causa dell’abbondanza di delizie» (ciò che, com ’è noto, 36 Per questa lettura cfr. ad esempio Marti, C u ltu ra e stile, p. 102: «Cavalcanti [...] non aveva disdegnato di saggiare fugacemente lo stile ‘comico’, ridisegnando il tradizionale motivo della vecchia». Anche De Robertis (Cavalcanti, R im e, p. 206) ricorre all’area stilistica degli improp eria in v etu lam , in particolare a V olvo l te lev i di Guinizzelli, ma solo per misurarne la distanza dal sonetto cavalcantiano; analogamente Cas­ sata, p. 234.

*




»

predisponeva secondo la scienza medievale all’iper-eccitazione dei sensi) è un turbam ento della facoltà estimativa generato dalla visione, e quindi dal pensiero e dal d eside­ rio, con le parole del Cappellano, «form ae alterius sex u s » 37. T ra le cure che il trattatista suggerisce allo scopo di guarire da questa mania, una consiste nel presentare al­ l’innamorato «u n a vecchia laidissim a d ’aspetto con grandi denti e barba»: costei accusi la donna amata di essere sporca e spudorata, le strappi la veste, dica (mentendo) che il suo corpo è coperto a i piaghe e di altre brutture, e se tutto ciò proprio non basta «tiri fuori all’im provviso il panno m estruale sotto la sua [dell’innamorato] faccia, urlando: “ Così è la tua amica, c o sì!” ». Q uesto stravagante remedium amoris permette, conclude Agam ben, di leggere in modo nuovo il sonetto di Cavalcanti Guata Manet­ to, quella scrignutuzza, la cui intenzione giocosa si chiarisce pro­ prio in riferimento a una terapia medica assolutamente seria. La cura radicale che Guido suggerisce a Manetto è infatti esatta­ mente quella proposta dal medico di Montpellier: la vista ripu­ gnante della «scrignutuzza» accanto alla «bella donna gentiluzza» avrà l’effetto immancabile di guarire con una risata qualsiasi malattia d’amore o morbo malinconico («tu non avresti niquità sì forte | né saresti angoscioso sì d’amore | né sì involto di ma­ linconia...»)38. N on entrerò qui nel merito della generale reinterpre­ tazione dell’amore cortese che Agam ben propone a parti­ re dalle opere della tradizione m edico-filosofica cui ap ­ partiene G ordonio; ma l’im pressione che, in essa, l’accu­ mulo delle possibili ‘fonti’ e dei dati eruditi finisca per co­ stituire talvolta piuttosto un ostacolo che un aiuto alla com prensione dei problem i è conferm ata da questa rilet­

37 Le prime due citazioni provengono dal L iliu m m edicale di Ber­ nardo Gordonio, docente a Montpellier attorno al 1285, nella traduzio­ ne di Agamben, Stanze, pp. 132-133; la terza dal D e am ore di Andrea Cappellano, p. 3. 38 Agamben, Stan ze, p. 135.

tura di Guata, Manetto. N ulla infatti assicura che la «b e l­ la donna gentiluzza» d ebba essere identificata con la donna amata dal corrispondente (che am erebbe à ’amor hereos, e andrebbe perciò curato), né, com e si è detto, ci sono elementi che facciano pensare alla «scrignutuzza» com e ad una vecchia, né questa donna - brutta, dunque, non necessariamente vecchia - ha qui bisogno di parlare o di com piere azioni particolari (così invece la megera descritta da G ordonio), bastando la sua m uta immagine a scatenare l’effetto desiderato. Infine, e più importante: l’effetto, almeno com e ci viene presentato da Cavalcanti, non è quello di «guarire con una risata qualsiasi malattia d ’am ore o m orbo m alinconico» bensì quello di esporre al «rischio de la m orte» il riguardante, di farlo morire dal ridere. E d è di questa conseguenza paradossale, del tutto inattesa non solo nel codice poetico m a, se così si può dire, nell’esperienza com une (dato che non si vede perché la vista di una donna brutta debba far morire dal ridere), che dovrà prim a di tutto rendere conto l’inter­ prete.

6.3. Una terza interpretazione in chiave parodica Una terza interpretazione del sonetto è stata proposta da M arcello Ciccuto (Una figura del disamore ). Su di essa devo sofferm arm i con più attenzione sia perché si tratta di una lettura particolarm ente articolata e densa di spunti sia perché la tesi che vi viene sostenuta - in sintesi estre­ ma: Guata, M anetto com e m anifesto anti-stilnovista - p o r­ ta in una direzione esattam ente opposta rispetto a quella in cui vanno le osservazioni da me fatte sin qui sul burle­ sco del tardo Duecento. Il M anetto cui è inviato il sonetto cavalcantiano - so ­ stiene Ciccuto - va identificato col fratello di Beatrice, M anetto Portinari, dedicatario di un testo dantesco in morte della sorella (Vn X X X I I, Venite a intender) e inti­ mo amico dello stesso D ante {Vn X X X II 1: «am ico a me immediatamente d opo lo prim o»). Rivolgendosi dunque

a un personaggio due volte coinvolto nel mito beatriciano, Cavalcanti - scrive Ciccuto - «scende in cam po con evi­ dente intenzione di inconciliabilità, praticando senza schermi di sorta linguaggio, tema, stilemi rigorosam ente avversi a quelli appena proposti da D ante come consenta­ nei alla nuova loda». D i qui l’ipotesi che la scrignutuzza raffigurata nel sonetto rappresenti insom m a il contraltare polem ico, perché terrestre e deform e, «d i quella fanciulla “ venuta | da cielo in terra a m iraeoi m ostrare” e addirittu­ ra a far vedere “ perfettamente onne salute” »; sicché la scrignutuzza sarebbe Beatrice stessa capovolta, spogliata delle sue virtù qualificanti di donna-miracolo e di inter­ mediaria tra l’um ano e il divino, e ridotta parodisticam en­ te a ‘figura del disam ore’: «G u id o riferisce a M anetto del­ l’incongrua rappresentazione da lui avvertita nel fuoco della legenda sanctae Beatricis operando uno strappo tan­ to deciso da definire paradossalm ente e com icam ente in­ ferma la divinizzata sorella». Così interpretato, il sonetto di Cavalcanti rappresenta un caso da manuale di o p p o si­ zione tra stili e registri che si trasform a in opposizione tra poetiche: il motivo dantesco della lode viene irriso, il b u r­ lesco è lo strumento di questa irrisione, e tutto ciò che si è detto sin qui contro l’idea del burlesco com e anti-cortesia viene, se non proprio dim ostrato falso, certo rim esso seriamente in discussione. Prim a di avanzare a mia volta una nuova interpreta­ zione di Guata, M anetto devo però osservare che la rete di relazioni intertestuali e interpersonali ricostruita da Ciccuto non appare convincente. E possibile, non positi­ vamente provabile, che il M anetto cui si rivolge Cavalcan­ ti sia il fratello di Beatrice; com e scrive D e Robertis, « l ’i­ dentificazione, dall’È rcole in poi, del destinatario con M anetto Portinari fratello appunto della Beatrice di D an ­ te non ha altro fondam ento che nella dedica di un sonetto di D ante in m orte di Beatrice [...] a uno stretto consan­ guineo di lei» - M anetto, si suppone, «n ell’assiom a che gli amici degli amici sono nostri amici: in materia com e q u e­ sta, una petizione di principio». Contini suggeriva il nom e di M anetto Scali, capoparte dei Bianchi, m a potrebbe es-

sere benissim o un altro M anetto ignoto alle cronache39. M a se anche l’identificazione fosse corretta, e qui il dia­ logo m ettesse effettivamente di fronte i due migliori amici di D ante, non per questo nella scrignutuzza sarem m o auto­ rizzati a vedere una deform azione giocosa di Beatrice. L a relazione antifrastica che s’instaurerebbe tra questo sonetto cavalcantiano e i testi danteschi è tutt’altro che solida per almeno due ragioni. In prim o luogo, la tradizione lirica del D uecento non sem bra conoscere casi di rovesciamento ve­ ramente com parabili a questo. È vero che esistono le don ­ ne villane di G uittone o di Ubertino; m a non è secondario il fatto che questi caratteri s’incontrino solo all’interno di un genere oggettivo e tendente al teatrale com e la tenzone fittizia, dove ad essere m esso in discussione e rovesciato è l’intero apparato della cortesia, non la sola figura fem m i­ nile. In secondo luogo, il ritratto di una gobbetta brutta e rabbiosa e vestita con com ica eleganza non contraddice in realtà l’ideale femminile dantesco perché quell’ideale si

39 Del resto, per la lettura in chiave anti-dantesca e anti-cortese, l’invio a Manetto - Portinari o Scali o altro che sia - è com unque pro­ blematico. Ho già detto (a proposito di Cecco, L a s s a r vo ' lo trovare ) che l’appello a un destinatario perché assista ad uno spettacolo o mediti, con l’autore del testo missivo, su un evento divertente o ripugnante, o partecipi come testimone-complice al vituperio di un terzo personag­ gio (qui la scrignutuzza), è una tecnica perfettamente ambientata nel comico duecentesco. Non si capisce invece perché per l’irrisione di Beatrice - dunque per un’operazione di notevole significato ideologico - Cavalcanti debba servirsi di un testo occasionale, inviato per di più non a Dante o a un rimatore della cerchia fiorentina ma a un non-poeta che p o treb b e essere il fratello stesso di Beatrice (Ciccuto, che data il so­ netto a dopo la V ita n o va , osserva giustamente che «Guido di fatto of­ fenderebbe la sorella morta di Manetto»). L ’impressione è che un ec­ cesso di fiducia nella forza dimostrativa dei legami intertestuali (visto che tutto ciò presuppone un fitto reticolo di rimandi e allusioni per an­ tifrasi tra il presente sonetto e la V ita nova-, cfr. pp. 18-22) e il pregiudi­ zio circa quel «disdegno» di Guido del quale questo testo verrebbe così ad essere il documento più esplicito (cfr. p. 22) abbiano portato a scam­ biare per parodia la gratuita comicità di G uata, M an etto. Concorde nel­ la sostanza con quella di Ciccuto è la lettura di G. Gomi, G u id o, i ’ vor­ rei che tu, M an etto e d io, in D a n te p rim a d ella «C o m m e d ia », Fiesole, Cadmo 2001, pp. 43-58.

definisce anzitutto sulla base di qualità etiche e non esteti­ che. Abituati a trovare, nella poesia delle origini, donne di bellezza ineffabile, superiori ad ogni paragone con l’umano (e infatti assimilate volta a volta a gioielli, astri, fiori) d o ­ vremmo stupirci più di quanto in genere non accada della strana classifica di bellezze che incontriamo all’inizio della Vita nova, quando tra le sessanta donne più belle di Firen­ ze «adivenne [che] in alcuno altro num ero non sofferse lo nome de la mia donna stare se non in su lo nove». Si sa che qui la num erologia spiega ogni cosa: il nove è il num e­ ro di Beatrice, ed è fatale che nell’elenco essa occupi que­ sta posizione. L a circostanza è però buona spia di ciò che veramente conta nel m ito dantesco di Beatrice qual è co­ struito nella Vita nova e nelle rime della lode in ispecie, e di ciò che separa questo nuovo mito dal Frauenkult cui ci aveva abituato la tradizione romanza: non certo l’aspetto fisico, la bellezza suprem a della donna amata sulla quale avevano insistito i lirici delle età anteriori dilungandosi in descrizioni che, non per caso, in Dante m ancano del tutto, ma da un lato la sua natura di m iracolo e di intermediaria tra um ano e divino, dall’altro le doti (per citare la più fa­ m osa tra le rime della lode) di «gentilezza e on està» - qua­ lità che, se certo hanno rapporto con l’aspetto esteriore, ri­ guardano però fondam entalm ente la sfera dello spirito: «nobile (in senso spirituale)» e provvista di «decoro, digni­ tà, grazia, um an ità»40. D ovrem o concludere perciò che chi avesse voluto p a­ rodiare il mito di Beatrice non avrebbe avuto motivo di descrivere un corpo ripugnante e grottesco, com e Caval­ canti fa in Guata, M anetto , ma avrebbe insistito sul carat­ tere tutto terreno e sensuale (e - entro un’ottica genuina­ mente ‘cortese’ - amorale) dei rapporti tra uom o e donna; e diremo perciò che, in tal senso, è la Becchina di Cecco la donna che nei sonetti più scanzonati e spinti (per es. X X III o L X II) può essere considerata non l ’anti-Beatrice (perché questa qualifica presuppone una volontà parodica

40 De Robertis in Dante,

V ita N u o va,

p. 181.

che, com e si è detto, nessuno è davvero in grado di dim o­ strare) bensì l’opposto della Beatrice di Dante: non fisicamente sgradevole, quindi (Becchina è descritta una volta com e un «terren p a ra d iso »)41, ma aspra, spigolosa, scorte­ se, avida, sensuale, insomma tanto legata alla terra quanto Beatrice è celeste. 6.4. Come m orì Zeusi L a tesi della parodia e dello scontro tra codici poetici - fuorviarne, come abbiam o visto, nella discussione sui giocosi ‘pu ri’ - non sem bra dunque aiutarci neppure nella lettura di Guata, Manetto. H o detto sopra che il dettaglio meno com prensibile di tutto il testo, che proprio per que­ sto l’interprete non può perm ettersi di ignorare, è conte­ nuto nella seconda terzina: la vista di una simile bruttezza farebbe, alla lettera, morire d al ridere M anetto. Ora, un’al­ tra leggenda legata alla figura del pittore Zeusi sem bra da­ re ragione proprio di questo dettaglio. Com e morì Zeusi? Nel De verborum significata del lessicografo Pom peo F e ­ sta (Il sec. d.C) leggiam o questo passo: «P ictor Zeuxis ri­ su m ortuus, dum ridet effuse pictam a se [anum] y p a u v » 42. Paradossi (e pericoli) del talento: il prodigioso 41 La bruttezza era stata e sarà, di fatto, una prerogativa femminile nei testi effettivamente parodici, dove alle normali disgrazie della vita di ogni giorno si somma la convivenza con una donna fisicamente ripu­ gnante. Si pensi per esempio a Rutebeuf: «Et si n’est pas jone ne bele: | Cinquante anz a en son escuele, [ C’est maigre et seche» (L e m ariage R utebeuf, 35-37); «Je pris ma fame darreniere, | Qui bele ne gente nen iere» (L a com plain te R utebeuf, 5-6); o a Burchiello, H o p e r vaga una trecca che m'accora-, «Al fin fa un inchin, sì bello e magno, | che con le chiappe si bascia ‘1 calcagno». Sulla funzione secondaria che ha la bel­ lezza nella definizione del ‘miracolo’ Beatrice si veda ora Santagata, A m ate e am an ti, pp. 19-22. 42 Sexti Pompei Festi D e V erborum sign ificatu q u ae supersun t cum R auli epitom e, ed. W.M. Lindsay, Lipsiae, Teubneri 1913, p. 228; poi in G lo ssa ria latin a, voi. IV (Placidus, F e stu s), ed. W.M. Lindsay, Paris, Les belles lettres 1930, p. 315; il brano di Festo è già stato avvicinato al so­ netto cavalcantiano da E. Scarpa, M o rire d a l ridere, in LN, XXXVIII 34 (1977), pp. 101-107.

realismo delle sue figure uccise Zeusi, m orto dal ridere contem plando l’immagine di una vecchia che lui stesso aveva dipinto. Cercare la ‘chiave’ di un com ponim ento nel rapporto di imitazione o parodia o contraddizione che lo leghereb­ be ad altre opere letterarie è sem pre un’operazione ri­ schiosa. M a voler concedere il meno possibile all’intertestualità non significa negare che in questa poesia dotta possa esserci, invece, memoria culturale-, quella che si rav­ visa tra il sonetto cavalcantiano, con la sua gobbetta ridi­ cola che farebbe morire dal ridere il riguardante, e questa antica leggenda è dunque qualcosa di più di un’aria di fa ­ miglia. I particolari in più che troviamo in Guata, M anetto non meritano troppa attenzione: occorreva ricavare un so ­ netto da un aneddoto di due righe, e qualche aggiunta era pur necessaria43. M a su una variazione occorre sofferm ar­ si brevemente. L a scrignutuzza, come ho ripetuto, non ci viene presentata come una vecchia, ma Festo parlava chiaramente di anus. L o scarto dalla probabile fonte è si­ gnificativo, anche se non tale da revocare in dubbio la p a ­ rentela tra i due testi. E sso ci suggerisce però di chiamare in causa un secondo sonetto, tanto simile a Guata, M anet­ to nello stile e nel contenuto da essere considerato dalla critica una «puntuale e abbastanza banale im itazione» del sonetto cavalcantiano44; è tram andato, adespoto, dal can­ zoniere Chigiano: 43 Tra queste, proprio la «bella donna gentiluzza» che Agamben identificava nella donna amata dal corrispondente. Essa ha, in realtà, la medesima funzione che hanno gli abiti eleganti coi quali la scrignutuzza s’immagina vestita: mantello (uzza), cappellino, soggolo. Il cozzo tra la bruttezza fisica e la magnificenza degli orpelli (tra questi appunto, co­ me elementi di un décor sontuoso, l’accompagnatrice gentiluzza) peg­ giora infatti le cose, e genera l’effetto comico. Lo testimonia, in tutt’altro contesto, Dante (D ve II i 10): pensieri di bassa lega, pur se rivestiti di una lingua scelta, appariranno ancora peggiori, non migliori, «quemadmodum - questa la specificazione che ci riguarda - turpis mulier si auro vel serico vestiatur». 44 De Robertis in Cavalcanti, R im e, p. 206; valutazioni analoghe, tra gli altri, in Bruni Bettarini, L e rim e, p. 90, e in Ciccuto, U n a fig u ra d el disam ore, pp. 29-30. Testo secondo Bruni Bettarini, L e rim e, pp. 97-98.

Deh, guata, Ciampol, ben questa vecchiuzza, com’ell’è ben diversamente vizza, e quel che par quand’un poco si rizza, 4 e come coralmente viene ’n puzza; e com’apunto sembra una bertuzza del viso e delle spalle e di fattezza, e quando la miriam, come s’adizza, 8 e travolge e digrigna la boccuzza. Ché non dovresti sì forte sentire d’ira, d’angoscia, d’affanno o d’amore, 11 che non dovessi molto rallegrarti, veggendo lei che ffa maravigliarti sì, che per poco non ti fa perire gli spiriti amorosi nello core. Q ui nessuna divergenza: Xanus zeusina è una vecchiuzza avvizzita che, guardata dall’autore e da Ciam polo (resta fermo il m odulo comico già descritto: mittente e destina­ tario del testo contem plano insiem e , com e complici, uno spettacolo divertente), si irrita e fa movimenti scom posti. M eno precisa la corrispondenza nel finale perché al ‘m o­ rire dal ridere’ di Zeusi è m essa la sordina: Ciam polo d o ­ vrebbe soltanto rallegrarsi a tal punto da veder quasi m or­ ti «gli spiriti am orosi nello core». Ciò detto, molte ipotesi sono possibili. L a meno p ro ­ babile è che anche Deh, guata, Ciampol sia una sottile pre­ sa in giro della lirica cortese: valgono, in contrario, le ra­ gioni esposte discutendo di Guata, M anetto , e vale a m ag­ gior ragione il ritrovamento della fonte alla quale l’uno e l ’altro sonetto attingono, benché in m odo leggermente diverso. Chiarito, quanto al tem a, il rapporto con la leg­ genda di Zeusi, le somiglianze formali tra i due sonetti co ­ stringono a riflettere sul loro reciproco rapporto, e insom ­ ma chi dipenda da chi. G li interpreti non dubitano della priorità di Guata, Manetto. È probabile che su questa convinzione influisca l’inconscio pregiudizio per cui l ’ade­ spoto, specie se m onoattestato, viene sem pre dopo l ’attri­ buito, specie se l’attribuzione chiama in causa un autore tanto autorevole com e Cavalcanti. Vero è che un dettaglio formale potrebbe rafforzare questa tesi. L a doppia affrica­

ta dentale in rima, che è una specie di contrassegno del com ico45, com pare solo nelle sedi A {-uzza) del testo cavalcantiano, mentre in Deh, guata, Ciam pol A {-uzza) con­ suona con B {-izza). N ella pratica del ‘rincaro qualitativo’ sono contemplati anche casi simili a questo: il testo-copia riprende una o tutte le rime del testo-m odello ma rende più arduo l’esercizio per esem pio aggiungendone di più difficili, o introducendo Yaequivocatio tra i rimanti, o co­ m unque insistendo più di quanto nel testo-m odello non fosse su determinate eccentricità form ali46. Se però guar­ diamo al grado di vicinanza alla fonte latina, Yanus di Zeusi trova puntuale corrispondenza nella vecchiuzza del­ l’Anonimo, non nella scrignutuzza di G uido. Ciò obbliga a invertire l’ordine dei testi? È chiaro che Deh, guata, Ciampol si dim ostra più vicino all’aneddoto nella form a in cui ci è stata tram andata da Festo. N ulla però vieta di pensare che Cavalcanti abbia volutamente variato la fonte antica (o che non abbia ritenuto necessario specificare nel suo sonetto che la scrignutuzza era una vecchia) e che l’A ­ nonimo, dopo aver letto Guata, M anetto, abbia ripreso con m aggiore fedeltà la leggenda (a lui nota per altra via) introducendo nella sua ‘risposta’ il rincaro formale cui s ’è accennato. Io propenderei per la prima ipotesi, dunque per la consecuzione Festo-Anonim o-Cavalcanti; ma la co ­ sa è irrilevante ai fini della com prensione dei sonetti, e una volta dato conto di tutte le possibilità nessuna deci­ sione nell’uno o nell’altro senso è veramente necessaria.

6.5. M emoria culturale dei comico-realistici D ata la scarsa o nulla diffusione del De verhorum si­ gnificate nel M edioevo, specie nell’area centro-settentrio­ nale (se ne conserva oggi un solo esem plare dell’X I seco­ lo), è molto im probabile che l’aneddoto sia giunto a C a­

45 Cfr. Giunta, L a p oesia italian a, p. 80. 46 Sul rincaro qualitativo cfr. Giunta, D u e

saggi.

valcanti e all’Anonim o per il tramite di F e sto 47. M a quali che siano stati gli intermediari tra la fonte antica e i due poeti toscani (e ferma restando la possibilità che l’aned­ doto abbia circolato per altre vie, indipendentemente da Festo), ciò che a noi ora interessa è la lezione che possia­ mo trarre dal ritrovamento di questa fonte circa i m odi d ’esistenza e i presunti sensi secondi del genere burlesco. Scarterem o dunque in prim o luogo quelle interpreta­ zioni che dietro al testo vedevano altri testi, cioè il com ­ plesso della tradizione cortese, irrisa o nei suoi risvolti medico-filosofici (Agamben) o nella sua idealizzazione della donna (Ciccuto). L a form ula di D e Robertis, che nel sonetto vede « l ’indulgente e divertita caricatura di una bertuccia azzim ata» ha invece il vantaggio di non tradurre immediatamente in letteratura la figura della scrignutuzza ma di conservarle spessore di immagine reale. Persino in un caso come questo, così affollato di letteratura (la fonte comune, la sicura relazione tra Deb, guata, Ciampol e Guata, M anetto , l’adesione consapevole al registro bu r­ lesco e l’im piego di un artificio caratterizzante com e la doppia zeta in rima), è probabilm ente questo il procedi­ mento corretto. Si è dim ostrato che i sonetti dell’Anoni­ mo e di Cavalcanti sono collegati, forse scritti a breve di­ stanza di spazio e di tem po, e che entrambi dipendono da una leggenda, cioè da un’invenzione letteraria relativa a un antico pittore greco. N on si è però dim ostrato che quelli dei due poeti italiani sono puri e semplici esercizi letterari. Certo è possibile che sia così: l’esecuzione di un tema, di un soggetto letterario che, per quanto attualizza­ to (riferito cioè non a Zeusi m a a M anetto e a Ciam polo), 47 Per un quadro sintetico sulla tradizione dell’opera festina e del­ l’epitome che ne trasse Paolo Diacono (epitome in cui l’aneddoto su Zeusi non compare), cfr. la voce F e stu s di P.K. Marshall, in T exts an d T rasm ission. A Survey o f th è L a tin C lassic i, ed. by L.D. Reynolds, Ox­ ford, Clarendon Press 1983, pp. 162-164; quanto invece alla diffusione «tutta meridionale e cassinese» del D e verborum sign ificatu nel Medioe­ vo si veda, anche per un ampio riesame della bibliografia precedente, C. Villa, U no schedario d i P ao lo D iacono. F esto e G ra m o d i C en eda, in IMU, 27 (1984), pp. 56-80, la cit. da p. 64.

non ha vero rapporto con la realtà osservata {guata...) d a­ gli autori dei sonetti e dai loro corrispondenti. N ulla però ci autorizza ad escludere che invece questo rapporto vi sia, e che il ricordo di un aneddoto leggendario abbia p o ­ tuto servire a Cavalcanti o all’Anonim o o a entram bi co­ me spunto per la rappresentazione di personaggi reali, di rinomate bruttezze note anche ai destinatari dei sonetti: e insomma, se il guata che apre i due com ponim enti non richiama l’attenzione dell’am ico su un’immagine dipinta o scolpita o immaginata (nel qual caso andrà rimeditata la variante «questa scrignutuzza», attestata dal ms. 445 della Biblioteca Capitolare di Verona e simmetrica a «questa vecchiuzza» dell’Anonim o), bisognerà pur considerare l’i­ potesi di un bozzetto ‘dal vero’. Il dilemma e la soluzione da dare al dilemma hanno poca im portanza una volta chiariti i termini generali della questione, ma ne hanno m olta se da questo caso partico­ lare ci volgiam o all’intera tradizione comico-realistica del prim o secolo. H o detto, accennando alla storia della criti­ ca sui giocosi, che l’interpretazione ‘naturalistica’ di D ’Ancona è stata in più punti corretta e integrata dagli studiosi novecenteschi ma non veramente superata. C er­ care ogni volta il fondam ento di realtà di questi testi, valo­ rizzando il rapporto con la vita concreta di coloro che la scrissero e la lessero, prim a che con il codice letterario: è questo un com pito anche per il lettore m oderno. Si trat­ ta, naturalmente, di trovare un punto di equilibrio che né porti a leggere i sonetti angioliereschi alla stregua di pagi­ ne di diario (che è la sem plificazione positivista) né riduca l’intera produzione dei giocosi duecenteschi a un innocuo divertimento (che è la sem plificazione idealista)48. Siam o 48 In tal senso, va riconosciuto a Petrocchi il merito di aver richia­ mato per primo alla necessità di un’integrazione tra i risultati conseguiti dalla storiografia idealistica e da Marti da un lato, e le istanze (se non il metodo) positiviste dall’altro: «Per quanto si debba giustamente profi­ lare la Scuola dei poeti giocosi in una tradizione di cultura, [non] si può annullare del tutto quella vecchia istanza della critica romantica e positivistica che era volta a interpretare in chiave psicologica se non proprio autobiografica i temi che essi trattavano» (G. Petrocchi, I p o e ti

oggi più sensibili di quanto non fossero gli storici ottocen­ teschi alle m ediazioni che com plicano il rapporto tra lette­ ratura e realtà. Il prim o m ediatore è rappresentato dalla tradizione del genere, cioè da quel com plesso di temi e m o­ tivi ricorrenti, di figure retoriche e di stilemi che costituisce la m em oria letteraria del poeta burlesco nonché - e questo va tenuto presente quando s ’intenda discriminare tra ciò che in questi testi è ‘verità’ e ciò che invece è ossequio ai luoghi comuni del comico-realistico - il prim o ostacolo al rispecchiamento diretto e spregiudicato della realtà. L a se­ conda m ediazione non deriva dalla volontà di parodiare, mentre si ritraggono gli aspetti creaturali e grotteschi della vita quotidiana, l’opposta concezione idealizzante della poesia cortese, bensì da quella che simmetricamente p o ­ tremmo definire la m emoria culturale, o la cultura tout court di questi poeti dotti. Q uesta è del resto in ogni tem po una delle tecniche del comico: non si ignora affatto l’esi­ stenza di una tradizione culturale ‘alta’, fatta di miti (Zeusi) e artifici retorici (anafore, adynata , priam el ecc.), e anzi a tale tradizione si attinge e si allude nelle poesie burlesche, ma l’innesto di questi elementi colti entro una cornice tri­ viale o comica, anziché nobilitare l’oggetto raffigurato, acuisce l’effetto parodico. V a ribadito che né l’una né l’al­ tra form a di m ediazione sono il frutto di un dialogo tra poesia burlesca e poesia cortese, cioè di un attacco frontale che la prim a abbia portato alla seconda. E sse rimandano invece ad un diverso atteggiam ento nei confronti della tra­ dizione culturale e della realtà; solo in seconda istanza ad un diverso concetto del ruolo della letteratura. 7. Una ridefinizione del ‘genere comico-realistico 7.1. S u l ‘carnevalesco’ D ai dati raccolti sin qui sarà ora possibile partire per una ridefinizione dell’identità artistica dei giocosi una volta in S to ria d ella letteratura italian a, voi. I. Milano, Garzanti 1976, pp. 577-607, a p. 577).

realisti,

L e o rigin i e i l D uecento,

am m esso che, se non arriva a costituire una ‘scuola’, il co ­ dice burlesco individua com unque una koinè che pur nella disparità degli stili presenta determinate costanti. Per le ra­ gioni appena esposte si è rinunciato a una definizione re­ lativa e subalterna: poesia giocosa come capovolgim ento e irrisione dei clickés cortesi. M a allo stesso m odo è bene respingere definizioni totalizzanti che non siano state prima vagliate con scrupolo sui testi. In concreto: sarebbero di scarsa utilità, nella nostra prospettiva, le categorie elabora­ te da Bachtin nel suo saggio su R abelais49. D a un lato, quelle categorie riflettono un interesse piuttosto antropologico che storico-culturale: servono cioè a definire e a descrivere l ’umana tendenza al riso e al­ la parodia, non però a interpretarne le diverse concretiz­ zazioni storiche. N elle pagine sul M edioevo, in particola­ re, il fascino delle visioni d all’alto o di certi vertiginosi ta­ gli diacronici non ripaga delle troppe generalizzazioni in­ controllabili, delle petizioni di principio, dei giudizi a p o ­ dittici circa la distribuzione della serietà e del riso nelle varie età della storia u m an a50; né, più in generale, del cu ­ rioso manicheismo che porta a identificare sem pre e co ­ m unque nel riso (e nella classe dei concetti assai eteroge­ nei che vi sono implicati: il grottesco, il corporeo o - regi­ na delle generalizzazioni - il ‘popolare’) l’elemento sano e progressivo della cultura, laddove è l’istituzione, con una definizione altrettanto schematica, a rivelarsi, nella

49 M. Bachtin, L ’opera d i R a b e la is e la cultura pop olare, Torino, Ei­ naudi 1995. 50 Penso per esempio ai cenni sul rapporto tra parodia medievale e parodia moderna: «La parodia medievale non somiglia affatto alla pa­ rodia letteraria, puramente formale, dell’epoca moderna. Anche la pa­ rodia letteraria, come qualsiasi altra parodia, abbassa; ma questo abbas­ samento ha un carattere puramente negativo, privo di ambivalenza ge­ neratrice. Ed è per questo che la parodia come genere, e gli abbassa­ menti di qualsiasi tipo, non potevano conservare nell’epoca moderna l’enorme significato che avevano prima» (p. 27). O all’opposizione, al­ trettanto arbitraria e volontaristica, tra un riso ‘grottesco’ medievale connotato da «forza positiva, rinnovatrice e rigeneratrice», e un riso moderno invece «negativo, retorico, triste» (p. 53).

seriosità delle sue espressioni, il luogo dell’ipocrisia, della censura e dell’oppressio n e51. D ’altra parte, e venendo così al nostro caso, proprio il fatto che quella dei comico-realistici italiani sia dopotutto poesia colta e di scuola, che com e tale non potrebbe esse­ re assorbita nell’onnipresente (in Bachtin) e sfuggente ‘tradizione com ica popolare’, spiega perché in essa non si ritrovi quella sorprendente rete di sim boli che Bachtin ri­ tiene di scoprire nell’opera di Rabelais e nel carnevalesco sin dall’età classica, e che porta a ravvisare nello scatologi­ co, nel corporale, nel m angereccio, nel m ortuario, m etafo­ re ambivalenti le quali ‘stanno p er’ altrettanti miti positivi attinenti non solo alla vita naturale (fecondità, prosperità, nascita) ma anche alla sfera storico-sociale52. Più di ogni altra cosa, questa assenza di riscatto al­ lontana le immagini della poesia comico-realistica dalla letteratura carnevalesca studiata da Bachtin. In quest’ultima, il carattere oggettivo della rappresentazione - il cor­ po, la piazza, il banchetto - fa sì che l’insistenza sull’e ­ lemento triviale abbia un rovescio positivo ed euforico: 51 Peggio quanto questo manicheismo lascia il piano dell’antropolo­ gia e si fa criterio di interpretazione storica. Un simile atteggiamento produce ‘profili diacronici’ i quali - è il caso del seguente, sul Medioevo - nella loro unilateralità e nella vaghezza delle categorie che li innervano (cultura ufficiale, generi di ideologia elevata, tono serio) si sottraggono a qualsiasi verifica: «La cultura ufficiale del Medioevo è caratterizzata da un tono esclusivamente serio. Il contenuto stesso dell’ideologia me­ dievale, con il suo ascetismo, il credo oscuro nella provvidenza, il ruolo dominante attribuito a categorie come il peccato, la redenzione, la soffe­ renza, il carattere stesso del regime feudale consacrato da tale ideologia con le sue forme di oppressione e di intimidazione, hanno determinato l’estrema unilateralità del tono, la serietà glaciale e sclerotica». 52 Cfr. per esempio p. 355 (dove è da sottolineare - perché caratte­ ristico del modo di procedere di Bachtin - il fatto che la supposta sco­ perta di queste ‘corrispondenze’ profonde tra corporeo ed extracorpo­ reo si adempie in un «sistema» semiotico nel quale tutto, confusamente, si tiene): «La concezione grottesca del corpo costituisce così una parte integrante, inseparabile, di questo sistema. E questo fa sì che in Rabe­ lais il corpo grottesco si mescoli non solo ai motivi cosmici, ma anche ai motivi utopico-sociali e storici, e, prima di tutto, a quelli dell’avvicenda­ mento delle epoche e del rinnovamento storico della cultura».

quella «verità interiormente libera, gioiosa e m aterialisti­ c a » (p. 311) di cui Rabelais sarebbe per eccellenza il testi­ mone. N ei poeti italiani, il registro com ico-realistico è adoperato quasi sem pre in funzione dell’io lirico: sicché non si avrebbe torto ad afferm are che, diversamente da ciò che accadrà per esem pio nel Q uattrocento, il burlesco duecentesco altro non è se non una form a più spinta e più sincera di lirism o personale. Q uan do, com e avviene so ­ prattutto in Rustico, la poesia si orienta su un tu e non su un io, ciò porta alla satira e all’invettiva (generi la cui sto ­ ria comincia in sostanza, per Bachtin, con l’età m oderna), non alla gioiosa raffigurazione della realtà: le stesse iper­ boli che nel carnevalesco servono a esprim ere la sovversio­ ne delle leggi del m ondo e a scatenare l’effetto comico, qui non sono altro se non un artificio retorico codificato nel genere del vituperium. Q uando invece, com e accade nella m aggioranza dei casi, il registro basso è adibito auto­ rappresentazione del soggetto , allora le m iserie della vita quotidiana (la povertà, il sudicium e, il tradim ento, ecc.), per quanto trasfigurate e dram m atizzate dalla fantasia del poeta, vengono presentate com e reali, vissute dall’io em pi­ rico, e non c ’è niente da ridere. Anche per questo, e non solo per il loro bifrontism o (o polifrontism o), la provincia di Rustico e di C ecco e degli altri minori non è lontana, dopotutto, da quella dei lirici aulici della loro generazione (per esem pio M onte A ndrea), mentre p o co essi hanno a che spartire col ‘realismo grottesco’ bachtiniano.

7.2. Il fondam ento nella vita della poesia comico-realistica D a Bachtin è tuttavia possibile trarre u n ’altra indica­ zione. L a tradizione carnevalesca - osserva Bachtin - rin­ via ad un conflitto di valori, e tali valori riflettono non già un diverso m odo di concepire la letteratura ma un diverso m odo di concepire l’esistenza: da una parte stanno la m o ­ rale e la cultura ufficiale, le regole del decoro e della m i­ sura, i dogm i della Chiesa, insom m a la civiltà repressiva; dall’altra la violazione delle buone maniere e del buon gu ­

sto, il libero sfogo dei sensi, il rapporto im m ediato con la vita della natura. Che questi due opposti m odi d ’intendere la realtà generino due tipi differenti di letteratura è un dato reale m a secondario, perché il conflitto prim ario sussiste, bisogna ribadirlo, tra visioni del m ondo e non tra poetiche. Allo stesso m odo, ci si deve dom andare se anche Vim­ plicita polem ica dei com ico-realistici non vada riferita, anziché ad altra letteratura, ai costumi della società nella quale essi si trovavano a vivere. Q uale fosse in questa società il peso dell’etica cristiana, non occorre dire. N oi oggi riusciam o a stento ad intendere com e la poesia d ’a ­ more laica del M edioevo abbia potuto essere interpretata ‘realisticam ente’ dai m oralisti contem poranei e co m b at­ tuta com e blasfem a e virtualmente nociva al retto vivere. L a Vita nova fu in fondo questo tentativo di assolvere con la m istica l’amore idolatra per una creatura terrena, ma la m ediazione tra sfera religiosa e sfera erotico-cortese aveva già avuto luogo per esem pio nell’ultim a stanza di A l cor gentil, quando l’amante, im m aginando di presen­ tarsi al cospetto di D io, giustifica il suo errore con un paragone tra la donna e l’angelo: il problem a - problem a in prim a istanza non letterario ma etico - e la possibile contraddizione erano dunque ben presenti alla coscienza di questi poeti-am anti e, d obbiam o supporre, dei loro lettori. Se l’erotism o sublim ato dei trovatori e dei d u e­ centisti italiani destava sospetto, si può immaginare quali reazioni dovessero sollevare i luoghi comuni della rimeria giocosa: la com m istione disinvolta di dettagli creaturali e m emorie sacre, le maledizioni all’indirizzo della m adre e del pad re, le espression i volgari, la celebrazione d el­ l’am ore carnale. Tutto ciò non soltanto urtava contro la morale dei benpensanti, ma irrideva apertam ente gli in­ segnamenti della religione. Sostenere che questa irrisione non fosse avvertita o venisse scusata in nome delle leggi del ‘genere letterario’ significa probabilm ente dare troppo credito alla coscienza letteraria dei duecentisti e, insieme, sottovalutare il potere coercitivo della m orale corrente. Con questa stessa m orale, com e è noto, aveva difficili rapporti anche u n ’altra categoria di ‘artisti’ m edievali,

i giullari. E se C ecco e R ustico non furono giullari nel senso proprio del termine, certo il loro atteggiam ento nei confronti della poesia si avvicina a quello degli ioculatores, non solo nella scelta dei soggetti e nella quotidianità dello stile ma anche per esem pio nel recupero di un m o­ dulo retorico caratteristico della comunicazione giullare­ sca, l’appello ai ‘signori’, innominati, o l’ammiccamento a lettori o ascoltatori dei quali si desidera la com plicità53. Si sa in quale lunga vicenda di condanne e riabilitazioni si rispecchi la storia dei giullari nel M edioevo, ora accolti ora banditi dalle corti e dai com uni, e sem pre guardati con sospetto dalla gerarchia ecclesiastica: torm entato d e ­ stino che è la prova di un torm entato rapporto con (per dirla con Bachtin) la ‘cultura ufficiale’. N ulla sappiam o della ricezione di Rustico e di Cecco; ma le marche retori­ che appena citate e la frequente am bientazione cittadina lasciano immaginare, per questi testi, una fruizione ‘di p o ­ p o lo ’ più che di circoli intellettuali: al centro, dunque, di un cam po di tensioni non m olto diverso da quello che d o ­ vette suscitare la poesia giullaresca. Non sarà superfluo aggiungere, in ultimo, che l’interpreta­ zione in chiave metaletteraria della più antica poesia burlesca non ha mai avuto l’avallo esplicito di Contini. La scheda che in­ troduce l’Angiolieri nei Poeti del Duecento si limita a dare noti­ zia, in una sommaria storia della critica, dell’inversione di rotta 53 «Volete udir vendetta smisurata | c’haffatta di sua donna l’Acerbuzzo?» (Rustico, 32.1-2); «Or odite, signor’, s’i’ ho ragione» (Angiolieri, 63.1); cfr. F. Suitner, L a p o e sia satirica e giocosa n ell'età d e i com uni, Padova, Antenore 1983, pp. 125-127. Tra le varie spie di cui è possibile servirsi per separare l’esperienza dei giocosi dall’esperienza dei rimatori ‘aulici’, questa dell’indirizzo ad un vo i o a un tu indefiniti è probabil­ mente una delle più attendibili. Non perché non accada che anche i se­ condi si rivolgano direttamente ad un pubblico, ma perché di tale pub­ blico (per quanto fittizio, reale solo nella finzione artistica) essi precisa­ no di solito la natura e la composizione: «De la mia donna vo’ cantar con voi, | madonne da Vinegia» (Alfani, V 1-2); «Oi amadori, intendete l’affanno» (Bonagiunta, disc. II 1); «O voi che per la via d’Amor passa­ te» (Dante, Vn 2.14) ecc. (rari i controesempi: per quello, apparente, di Cino, «Signor, e’ non passò mai peregrino», cfr. la nota di Contini, P D II, p. 646).

segnata dagli studi di Russo, Sapegno e Croce rispetto all’ap­ proccio naturalistico-autobiografico (D’Ancona, Momigliano). In particolare, scrive Contini, Sapegno «ravvisa fin negli atteg­ giamenti più empì dell’Angiolieri una posa millantatoria, un’am­ plificazione parodistica, vedendo nello stile dei realisti un con­ trappunto agli stilnovisti» (p. 368). In sede di resoconto, dun­ que, nessuna presa di posizione. E vero che qualche anno prima, recensendo la monografia di Marti, Contini aveva citato questa tesi di Sapegno con un consenso più netto: agli stilnovi­ sti, «secondo un’idea del Sapegno ormai bene affermata, un au­ tore come Cecco fa il contrappunto» (p. 221); insieme però pre­ cisava che «polarità, come si è definito questo strumento di me­ ra ricerca, non significa naturalmente affatto opposizione invar­ cabile». Precisazione necessaria, dal momento che l’abuso di questa formula aveva portato a «peccati, pur veniali, di rigida applicazione» (p. 222), cioè a casi in cui l’assunto della costante parodica portava a vedere pointes anti-stilnoviste dove non ve n’era invece alcuna traccia. Nei Paralipomeni angioliereschi (1962) e nella Postilla angiolieresca (1964) il problema interpretativo non viene toccato; tor­ na invece ad essere centrale nell’Introduzione alla Cognizione del dolore di G adda54. È noto che in questo saggio i prodromi del­ l’espressionismo gaddiano vengono cercati, in una rapida pro­ gressione verso le origini, nelle varie ‘linee’ dialettali che s’in­ trecciano al di sotto della tradizione letteraria illustre, toscana; 54 Poiché si tratta di uno dei lavori di Contini che più hanno in­ fluenzato la storiografia letteraria del secondo Novecento, non sarà inu­ tile aggiungere che proprio in alcuni passi della recensione a Marti si trovano i primi germi di quel ‘disegno storico della letteratura espres­ sionistica italiana’ che verrà sviluppato più compiutamente, un decen­ nio dopo, nel saggio su Gadda: «Il Marti vede chiaro il filo artigianale che senza troppo forti discontinuità porta dai suoi autori al Sacchetti, al Pucci, ad Antonio da Ferrara, al Burchiello, al Pistoia, al Pulci [...]. Val quanto dire che egli avrebbe senz’altro potuto riconoscere in questi pa­ raggi un’intenzione espressiva e magari espressionistica a cui conferisce unità, pur nel variare degli istituti [...], la polarità rispetto all’equilibrio tonale, l’intrinseca polemica avverso il classicismo prima stilnovistico e poi petrarchistico [...]. In particolare, va ascritto a merito dell’istinto del Marti avere perlomeno intuito che la poesia dialettale nasce entro confini parodici ed espressivi, e ciò molto prima del cinquecento pavano; e che la sua nascita seguì la linea regionale della stessa poesia in lin­ gua illustre e ‘trascendentale’»: R asse g n a bibliografica, pp. 221-222. Per un commento a questo passo, cfr. in fra, la nota 64.

anche è noto che, la scomposizione e la ricomposizione avve­ nendo sulla base di un criterio linguistico-registrale, Contini vo­ lutamente astraeva dalle diverse motivazioni estetiche e ideali, e non faceva insomma questioni di contenuti. Visto sotto questa luce, il paragrafo su Cecco si presenta come una specie di breve diversione dalla strada maestra seguita nel saggio. Dopo aver concluso che «il bilinguismo di poesia illustre e poesia dialettale è assolutamente originario, costitutivo della letteratura italiana», Contini abbandona infatti per poche righe il bilancio linguistico e osserva: «Il ‘comico’ ha adepti integrali, come l’Angiolieri [...]; egli tra l’altro svolge fior di temi empi, che forse, per eccesso di vaccinazione contro il danconiano poète maudit, siamo stati tutti un po’ troppo crocianamente corrivi a intendere come innocui divertimenti letterari»55. Stante quanto si è osservato in prece­ denza si potrà eccepire sulla ‘comicità integrale’ di Cecco, come pure sull’idea del poète maudit, che corrisponde a una estremiz­ zazione delle tesi di D ’Ancona, non al loro effettivo contenu­ to56. Ma sono dettagli. Essenziale è, su un piano generale, l’im­ plicazione - suggerita, benché non veramente affermata nel sag­ gio - tra l’uso eversivo del linguaggio e la difesa di posizioni ete­ rodosse, l’eversione sul piano dei concetti. Da un punto di vista più particolare, che è poi il nostro, essenziale è il richiamo ad osservare meglio, dietro la «dialettalità» di Cecco, l’esistenza di «temi empì», e insomma a non trascurare il contenuto ideologi­ co dei testi: è un’indicazione preziosa, che tanto più risalta in un saggio tutto orientato sul tema della polarità linguistica e in un critico poco incline alla valorizzazione dei ‘contesti’, e certo non sospetto di ideologismo57. 55 Contini, In troduzion e a lla «C o g n iz io n e », p. 614. 56 A tradurre il ritratto danconiano di Cecco nei termini dell’esteti­ ca contemporanea aveva provveduto del resto lo stesso Contini, P D II, p. 367: «Fin dal titolo, egli [D’Ancona] lo definisce un ‘umorista’ [...], e anche avrebbe potuto chiamarlo allo stesso modo uno scapigliato o un p oète m au d it». 57 Nella stessa direzione va il breve profilo preparato per la L e tte ra ­ tura italian a d elle origini, dove l’immagine di Cecco ‘puro letterato’ ela­ borata dalla critica recente (e però già messa in discussione dal Petroc­ chi: cfr. qui la nota 48) è giudicata «non meno unilaterale» del luogo comune danconiano dello «sventurato che piange». In due contributi degli anni Settanta, infine, in linea con quanto osservato nel saggio su Gadda, Contini coglie già nel Duecento i primi segni di una tradizione di poesia di registro e contenuto ‘basso’ antitetica alla lirica antica. Non si tratta tuttavia in prima istanza dei comico-realistici bensì di quella

8. Sull’evoluzione del ‘genere’ 8.1. Burchiello e i burchielleschi Fin qui è stato sufficiente osservare le cose in sincro­ nia, ignorando le leggere sfasature cronologiche che sussi­ stono tra i rimatori giocosi dell’età di Dante. Il quadro si com plica se, abbandonato il D uecento, ci dom andiam o com e evolva la poesia comico-realistica nel secolo e m ez­ zo seguente. Q uesta estensione della ricerca è tuttavia o p ­ portuna perché, com e si vedrà, rientreranno in gioco a questo punto quelle implicazioni metaletterarie e quei sottintesi parodici che dalla critica erano stati riferiti, im ­ propriam ente, ai sonetti di C ecco e di Rustico. Com e si sia risolto il conflitto tra queste diverse con­ cezioni del m ondo e dell’arte, tra l’opzione comico-reali­ stica e il ‘grande stile’ dei lirici, basta a dirlo un esam e an­ che som m ario della tradizione manoscritta. A parte Cecco Angiolieri, i rimatori comico-realistici del Due-Trecento sono scarsam ente presenti nei canzonieri di rime antiche. Che un poeta certo abbastanza noto ai suoi tem pi com e Rustico Filippi, dedicatario del Favolello di Brunetto L a ti­ ni, sia tram andato per la stragrande m aggioranza della sua produzione soltanto dal canzoniere V è strano m a non troppo, posto che lo stesso destino accom una il Rustico giocoso e il Rustico cortese, e che identica è la sorte di fiorentini della prim a generazione com e Chiaro e M onte Andrea: qui è probabile che la barriera alla diffusione non sia stata la frequentazione del registro basso-creaturale ma, più in generale, il nuovo gusto venuto con gli stilnovi­ sti. M a anche M eo dei T olom ei è noto soltanto grazie al Chigiano e all’Escurialense; il Tedaldi è tutto nel Vat. lat.

«poesia dialettale riflessa» che Dante, nel D e v u lg ati e lo q u e n za, liquida come «sterpaglia» (I xi 1) che va «strappata via» dalla selva dell’arte (I xi 3). Inoltre, il rapporto di antitesi nei confronti della tradizione corte­ se non significa irrisione o parodia di questa bensì concentrazione su quella parte di realtà che essa aveva dovuto ignorare: cfr. Contini, L a p oesia ru sticale , pp. 14-15; e Id., E sp ression ism o , p. 103.

3213, e dei perugini mediotrecenteschi non avrem mo n o ­ tizia se non si fosse conservato il ms. Barb. lat. 4036. D i altri giocosi minori ci resta non più di un paio di sonetti, che è troppo poco anche per dei sem plici rimatori d ’o cca­ sione, mentre fonti indirette ci parlano di rimatori-giullari dei quali le raccolte m anoscritte non hanno serbato trac­ cia 58. Certo il naufragio avrà travolto anche am pie zone della lirica cortese, ma è logico pensare che il taglio abbia riguardato in prim a istanza questi piani bassi dell’arte. Ciò dipende evidentemente dal gusto dei collettori di ri­ me, cioè del pubblico, tra T re e Quattrocento. E i gusti, a loro volta, dipendono dalla direzione che dopo lo stilnuovo avrà preso la poesia italiana: non la riunione tra let­ teratura e realtà, che era la strada intrapresa dai burleschi, bensì, al contrario, una ancor più netta separazione tra i due domìni. A m ano a m ano che si avanza nel M edioevo, la scelta tra l’opzione cortese e quella com ico-burlesca appare dunque meno pacifica. D o p o lo stilnuovo e soprattutto dopo Petrarca un canone lirico esiste, ed è un canone che esclude compresenze: che assorbe cioè in foto il codice cortese e altrettanto fermamente respinge il registro burlesco-realistico. È anche per questa ragione che il com ico di Rustico o di C ecco Angiolieri ha un significato diverso rispetto al comico dei burchielleschi. In estrema sintesi, dirò intanto che mentre il confronto col versante ‘ufficia­ le’ della letteratura non ha alcuna im portanza per i primi, esso inizia a diventare pertinente per i secondi. Vale a di­ re che un conto è recuperare form e e temi dei goliardi adattandoli al genere m etrico anche aulico del sonetto in un’epoca in cui non si hanno ancora vere e proprie scuole poetiche né tradizioni rispetto alle quali occorra prendere posizione, e in cui i vari registri - il giocoso, il cortese, lo gnomico, il religioso - hanno uguale diritto di cittadinan­ za nella lirica d ’arte; altro (ed è il caso dei quattrocentisti) 58 Considerazioni analoghe sulla tradizione manoscritta dei comico­ realistici sono già in V. Rossi, R asse g n a b ib liografica , in GSLI, 49 (1907), pp. 373-396, a p. 384.

è coltivare una poesia del triviale o del non-senso in p re­ senza di una tradizione orientata orm ai da più di un seco­ lo nella direzione opposta: la tradizione che, per intender­ si, era sul punto di confluire nella Raccolta A ragonese59. In questa transizione e in questo scarto rispetto alla prima tradizione giocosa è uno dei sensi della poesia b u r­ chiellesca. Realism o e autobiografia erano stati la cifra della poesia giocosa nell’età di Dante. Q uesta com ponen­ te non scom pare nei quattrocentisti, m a ad essa si affian­ cano quelle seconde intenzioni parodiche che non poteva­ no avere corso nel D uecento data l’assenza di un paradig­ ma poetico concorrente che fosse davvero vincolante. N el valutare natura e obbiettivi di questa parodia occorre p e ­ rò, anche in questo caso, cautela. Si è detto di un codi­ ce stilnovistico-petrarchesco progressivam ente egemone. N ella T oscana del prim o Q uattrocento esso esprim e rim a­ tori come Buonaccorso da M ontem agno il G iovane, N ic­ colò Tinucci, o il Roselli; m a è la selva dei minori toscani studiati da Flam ini quella che dà più nitida l’im pressione 59 È sintomatico che mentre nella silloge ‘di rappresentanza’ offerta a Federigo d’Aragona Burchiello e l’arcipelago comico che a lui faceva capo risultano assenti, le sue rime siano presenti nella biblioteca del Magnifico in un prestigioso codice monografico, l’attuale ms. Laur. PI. XL 48, su cui cfr. M. Zaccarello, «B u ffo n non d i com un n é d ’alcun sire »: il B urch iello p ossed u to da L oren zo (L au r. PI. X L , 4 8 ), in L a T oscan a a l tem po d i L oren zo il M agnifico. P olitica, Econ om ia, C ultura, A rte, Pisa, Pacini 1996, II, pp. 609-632. La dedicatoria premessa alla Raccolta Ara­ gonese non faceva distinzione di registri, e, com’è ben noto, nel libro uno spazio era assicurato anche ai poeti contemporanei, Lorenzo inclu­ so: «Segue costoro [i lirici ‘classici’ sino a Petrarca] di poi più lunga gregge di novelli scrittori [...]. Questi tutti, signore, e con essi alcuni della età nostra, vengono a renderti immortale grazia» (Lorenzo de’ Medici, E p isto la a don Federico d ’A rag o n a, pp. 5-6). Questa amplissima scelta andava incontro alla volontà espressa da Federico di avere un quadro esauriente degli scrittori che «nella Toscana lingua poeticamen­ te avessino scritto». Ma dalla selezione i curatori avevano ritenuto di dover escludere, fosse a causa della scarsa intelligibilità dei testi bur­ chielleschi fuori di Toscana o fosse per un troppo più severo concetto della dignità della poesia, «alcune cose men rozze»: vale a dire, tra l’al­ tro, quella che oggi ci appare come la parte più vitale e nuova della poesia toscana del primo Quattrocento.

di una sorta di koinè tanto ramificata da rappresentare davvero, per chi non volesse perpetuare la finzione corte­ se, un ideale bersaglio polem ico. L ’interpretazione in chiave parodica d i una parte della poesia burchiellesca - di una parodia, voglio dire, interna al codice poetico volgare - è dunque legittima, e tale è stato, del resto, l’orientam ento degli specialisti60. C ion o­ nostante si tratta, a guardare con più attenzione, di una parte estremamente esigua: di pochi testi, cioè, anzi di p o ­ chi frammenti, sempre gli stessi, nella m aggior parte dei quali la parodia anti-lirica è tanto esile da far dubitare se essa veramente vi sia o non rappresenti piuttosto il p ro ­ dotto di letture troppo sottili61. Il fatto è che in Burchiello e nei rimatori della sua cerchia la parodia della lirica auli­ ca rappresenta soltanto un aspetto, quantitativamente se­ condario, di una polem ica che ha portata più ampia. Si consideri la coda del sonetto Sospiri azzurri: «D ice Cato, e non erra, | se una pecchia cacasse quanto un bue, | rinvilierebbe il mele a due a d ue»; o quella del sonetto Fiacco magogo: «m a nella prim avera, | siccom e dice Seneca a L u ­ cilio, | la salsa nichil vale senza serpillo»: qui evidente­ mente è m essa in parodia la tendenza, tipica della cultura

60 Cfr. tra gli altri Guerri, L a corrente p o p o lare , pp. 94-101; M. Fubini, S u lla p oesia d e l Burchiello, in S tu d i su lla letteratura d e l R in ascim en ­ to, Firenze, La Nuova Italia 1971, pp. 29-49, alle pp. 43-44; Messina in Burchiello, S o n e tti in editi, pp. 15-18, D. De Robertis, U n a p rop osta p e r Burchiello, in «Rinascimento», 8 (1968), pp. 3-119, a p. 21; A. Lanza, Polem iche e berte letterarie nella F iren ze d e l prim o R in ascim en to (13751 4 4 9 ), seconda edizione, Roma, Bulzoni 1989, pp. 360-400. 61 Si cita generalmente il son. M o lti p o e ti han g ià descritto A m o re,

attribuibile all’Orcagna, in cui l’interrogativo circa la natura d’Amore, vero cardine dell’ideologia cortese, è liquidato in questo modo: «Amore è un trastullo, | che porta in campo nero fava rossa | e cava il dolce mel dalle dure ossa». E si citano, di Burchiello, una goffa menzione dei T rion fi nel son. S e tu vo lessi fare-, i primi versi del son. S o sp iri azzurri, letti come ironica allusione all’esordio della dantesca T re donne-, e l’in­ tera canzone V oi che sen tite, «solenne ricomposizione burlesca di fram­ menti e allusioni» ai «preziosismi dei rimatori contemporanei» (Guerri, L a corrente pop olare, pp. 97-98). Ma a parte il primo, di Orcagna, nes­ suno di questi esempi è del tutto convincente.

ufficiale e a quell’epoca dei prim i umanisti - a rafforzare l’argom entazione con l’ausilio delle auctoritates. O ppure si consideri la serie di allusioni m itologiche che s ’intrec­ ciano ai dati più banali della realtà m unicipale (Narciso, Priam o, Plutone da una parte, gli em polesi, il torrente M ugnone dall’altra) nel sonetto Cappucci bianchi (o, caso ancora più m acroscopico, nella canzone dell’O rcagna A l­ lo scoperto cielo): qui è m essa in parodia la tendenza, propria di certa prosa o di certa lirica erudita figlia di Boccaccio più che di Petrarca, a im preziosire il dettato con aneddoti colti di ardua decifrazione. O si consideri, per finire su questo punto, la fronte del sonetto Dormen­ domi una notte02: Dormendomi una notte, presso al giorno, in vision mi venne un tal timore: e’ mi parea che le ventiquattr’ore portassero un vassoio di pane al forno. Appresso appresso, senza far soggiorno, mi parea spuntare un trombadore: con trentaduo carrette con romore di mattonaie mi correan dintorno L a visione: di una delle form e più ossessivam ente presenti nell’arte medievale Burchiello - o un suo imitatore - ci dà questa trascrizione in chiave ‘borghese’. C ’è probabilm en­ te ironia nei confronti degli insulsi sogni allegorici che in­ festavano da secoli la letteratura, e c’è forse un cenno va­ gam ente blasfem o al capostipite di quella tradizione, \’Apocalissi; ma è sicuro e determ inante il fatto che qui la p a ­ rodia non si esercita né su un autore né su un testo né su un m odo di gestire il discorso poetico bensì su un genere - non soltanto lirico e non soltanto letterario, posto che la visione rientra, prim a di tutto, nella sfera dell’apologetica - che ogni lettore doveva percepire com e om ogeneo alla cultura alta.62

62 In Burchiello,

S o n e tti in e d iti ,

p. 7.

8.2. Il secolo senza poesia comico-realistica I riferimenti parodici al mito, l’irrisione delle auctoritates , il travestimento burlesco di form e della com unica­ zione dotta: non solo dunque appare m utato, rispetto al­ l’ultimo Duecento, il rapporto con l’altro versante della poesia, cioè col codice dell’am or cortese (rapporto che, ri­ peto, mentre nell’un caso si configurava com e un’alterna­ tiva senza conflitto corrisponde, nell’altro, ad un ragiona­ to rifiuto), ma varia anche l’atteggiam ento del poeta nei riguardi della memoria culturale sua e dei suoi lettori. O ra, la distanza che separa quel giocoso duecentesco non parodico e non agonistico nei confronti della più p a ­ ludata cultura contem poranea da questo burlesco quat­ trocentesco che si pone invece in aperto contrasto con le poetiche dominanti, questa distanza non si riesce a colm a­ re con la storia, speculando cioè sull’evoluzione del gene­ re nel corso del XTV secolo. Vale a dire che lungo la linea che da Angiolieri e Rustico va a Burchiello è difficile siste­ mare figure intermedie in cui si renda sensibile il p assag­ gio dall’una all’altra maniera del burlesco. N on mi riferi­ sco qui alla contestata genesi del rimare ‘alla burchia’, per la quale da Burchiello si è risaliti all’O rcagna, quindi al Sacchetti: è questa una realizzazione estrema e ben circo­ scrivibile del comico, riferibile piuttosto ai generi del non­ senso com e il fatras, e dunque im portante in sé ma secon­ daria se considerata nel quadro generale del burlesco m e­ dievale. Penso invece al destino toccato nel breve e nel m edio periodo alla proposta di C ecco e di Rustico. L ’ac­ coglienza dei trecentisti fu, complessivamente, distratta. N oi oggi possiam o facilmente com binare gli sparsi tasselli presenti nei canzonieri e nelle antologie e fingerci - com e è possibile e legittimo fare per la poesia ‘aulica’ - una sto ­ ria della poesia giocosa, m a è un fatto che in una storia così concepita sono poche le tappe davvero significative e molti invece, e ancora più significativi, i silenzi. Il fatto che, a differenza di molti predecessori, il m assim o lirico del secolo non si conceda excursus nel registro ‘b a sso ’ p o ­ trebbe non essere probante, posto il carattere appartato

e in certo senso artificiale dell’esperienza volgare di P e­ trarca: un poeta nel quale lo sperim entalism o non rispon­ de alle varie sollecitazioni del reale ma si esercita sui m a­ teriali ricevuti dalla tradizione aulico-cortese63. M a che un autore molto più corrivo com e Boccaccio riservi alla p ro ­ sa le inflessioni e i temi comico-realistici e per contro trat­ ti la lirica com e lo spazio del diario sentimentale e del confronto con la più squisita tradizione letteraria, che in­ som m a il suo genio mimetico non abbia prodotto nulla, in versi, di anche lontanamente paragonabile al Decameron : ciò dice quanto fosse debole, alla metà del Trecento, il ri­ chiamo del registro burlesco, almeno sui poeti più colti e consapevoli di quell’e tà 64. Si obietterà che né Petrarca né Boccaccio possono es­ sere presi a cam pioni delle ‘m edie’ liriche del loro secolo. In effetti, la rigidità del codice lirico ereditato dallo stilnuovo si tem però, nella gran parte dei rimatori trecente63 Cfr. Contini, P relim in ari, p. XVIII; e Santagata in Petrarca, C an ­ pp. XLI XLIV. 64 Se dunque è legittimo considerare la tradizione comico-realistica in maniera organica, come un ‘modo’ o genere del discorso poetico en­ tro il quale è possibile isolare alcune costanti sia sotto il profilo stilistico e tematico sia sotto il profilo ricezionale, più cautela occorrerà nel giu­ dicare dell’effettiva articolazione storica di tale tradizione. In tal senso, sul «filo artigianale» che dall’Angiolieri e dagli altri giocosi duecente­ schi porta «al Sacchetti, al Pucci, ad Antonio da Ferrara, al Burchiello, al Pistoia, al Pulci e ai minori di quella medesima provincia» (Contini, R assegn a bibliografica, p. 221) sarà opportuna una precisazione. Il pro­ blema è in sostanza questo: quella linea che dipartendosi dall’Angiolieri e dai giocosi suoi contemporanei giungerebbe «senza forti discontinui­ tà» (Contini) sino ai burleschi rinascimentali si definisce soltanto per via di negazione, come lunga serie di resistenze alla maniera dei rimato­ ri aulici; e integra autori dalla diversissima fisionomia, che nulla hanno di veramente comune salvo la non appartenenza al suddetto canone aulico-cortese e un contatto più stretto, meno mediato, col reale. Per que­ sta ragione non sembra corretto parlare di continuità della tradizione burlesca, dagli albori della lirica italiana al Rinascimento. E il nome stesso di tradizione, che anch’io qui adopero, non è forse appropriato. Esso presuppone l’esistenza di una topica e di un linguaggio comuni a fondatori ed epigoni: un repertorio, una memoria letteraria. Ma negli autori che tra Duecento e Quattrocento illustrerebbero la ‘funzione Angiolieri’ tale dimensione repertoriale ha tutto sommato scarso rilievo.

zoniere,

33 5

schi, per un verso grazie al contatto con form e d ’arte di matrice o di destinazione popolare-borghese (si pensi alla poesia per m usica), per l’altro grazie alla dilatazione dello spazio concesso all’io poetico colto proprio nei suoi aspetti più ‘realistici’ e creaturali (si pensi alle confessionilamento del B eccari)65. M a fu proprio questo progressivo assestam ento su un registro intermedio capace di integra­ re al sublime del lirismo duecentesco le sollecitazioni prò-; venienti dalla vita di ogni giorno, dalle vicissitudini dell’io ‘biografico’ agli eventi politici, alla m orale spicciola, a ri­ durre gli spazi del burlesco. N ell’ultim o quarto del D u e­ cento esisteva di fatto una polarità tra il registro comico, e il registro della lirica cortese: lo scrupolo col quale il canzoniere V separa le due maniere nei fascicoli dedicati a Rustico è la prova che tale polarità non solo non sfuggi*, va ai lettori contem poranei m a era considerata pertinente ai fini di una classificazione. N el Q uattrocento toscano lai stessa polarità si trasform erà in dichiarata opposizione,; e il burlesco rappresenterà effettivamente il contravveleno; ai languori e alla vana erudizione dei prim i allievi di P e­ trarca. Ebbene, nella poesia trecentesca la polarità tra i due registri si trova ad essere quasi ovunque neutralizza-; ta per il buon motivo che il codice della cosiddetta lirica; d ’arte accoglie motivi e stili di antica pertinenza com ico­ i realistica. L ’esem pio di C ecco Angiolieri potè certamente influi­ re sulla concezione dell’am ore e della poesia di rim atori spesso in bilico tra la perpetuazione della finzione cortes© e l’autobiografia in versi com e il Beccari o il Vannozzo. S© la «grande novità petrarchesca» consisterà nel fatto che la lirica sarà votata d ’allora in poi al rispecchiam ento delle, vicende interiori dell’io poetico, di «u n io che parla di sé » profondam ente diverso dall’io ‘mera espressione gramma-i ficaie’ della poesia duecentesca, la funzione-Angiolieri ri­ flette lo stesso fenomeno, la stessa transizione dall’ioi astratto all’io concreto, solo ad un diverso livello, quella' 65 330.

Cfr. Contini,

P relim in ari,

p. XIX; e Balduino,

Boccaccio,

pp. 301-

della vita esteriore del soggetto 66. M a mentre questa com ­ ponente della poetica di C ecco potè filtrare nei poeti ‘cor­ tesi’ del Trecento, il burlesco al suo stato grezzo - le in­ vettive di Rustico o di M eo dei Tolom ei, i contrasti con Becchina o i quadretti familiari dello stesso Cecco - non trovò veri continuatori. Oltre che nella suddetta fusione dei registri, è p ro b a­ bile che la ragione di questa assenza vada cercata nella ge­ nerale ridefinizione del sistem a dei generi letterari: cioè nel trasferimento di alcuni dei soggetti ‘comico-realistici’ che nel D uecento erano ancora appannaggio delle tradi­ zionali form e della lirica (canzoni e sonetti) a generi p o e ­ tici nuovi o rinnovati (la frottola, il capitolo ternario, l’o t­ tava narrativa, le semplici form e della poesia per musica) e, soprattutto, alla prosa. È ben vero, infatti, che nel T re­ cento tocca alla prosa, sulla scia dell’esem pio dantesco, veicolare i contenuti di m aggiore im pegno e spessore ideologico, laddove «la poesia si fa espressione di vicende personali, si restringe all’esercizio retorico o si piega alle varie esigenze dell’intrattenim ento»67. V a però aggiunto che un analogo taglio e, simmetricamente, un’analoga in­ tegrazione, investono l’estrem o opposto della gam m a te­ matica, cioè il grottesco e il creaturale: tutto lascia im m a­ ginare che anche l’aneddotica triviale che per i duecentisti poteva ancora costituire m ateria da sonetto trovi, nel T re­ cento, una collocazione più adeguata nella prosa, specialmente nel genere nuovo della novella.

66 Le citazioni da Santagata, D a l son etto, p. 163; cfr. inoltre Balduip. 328: «Fra i tanti paradossi della poesia trecentesca, vi­ ge però anche una (e sia pur vitale) contraddizione che può essere così definita: in un’epoca e in ambienti in cui la poesia è un fatto per eccel­ lenza pubblico e sociale, sempre più spesso compaiono e si affermano rimatori che puntano direttamente e scopertamente (talora ingenua­ mente e stucchevolmente) sulla sfera e sulla cronistoria del p riv ato (che è cosa ben diversa, come s’è cercato di chiarire, dal soggettivo petrar­ chesco». 67 Santagata, D a l son etto, p. 166. 110 , Boccaccio,

9. Tradizione comico-realistica e poesia di corrispondenza 9.1. In Provenza D op o queste considerazioni som marie sulla m orfolo­ gia del genere burlesco dobbiam o ora concentrarci sulla sua forma retorica, e più precisam ente sulla direzione del messaggio. Sappiam o ormai che essa, almeno in origine, non si rivolge contro la poesia cortese in quanto genere; e sappiam o che neppure si rivolge frontalmente ai poeti, cortesi o burleschi che siano: non suscita corrispondenze in versi. Q uesta assenza di com unicazione con i com pagni d ’arte può sorprendere chi sappia che, al contrario, nella tradizione in lingua d 'oc il burlesco aveva trovato spazio anche e soprattutto nelle tenzoni e nei testi indirizzati a un interlocutore reale. L ’invettiva, la lite simulata tra i giullari o tra gli stessi trovatori davanti al pubblico della corte era una delle forme che poteva assum ere lo spetta­ colo della poesia. U na tenzone com e quella della quale trascrivo qui le prim e due stanze può essere considerata come un cam pione esem plare di questo genere eminente­ mente teatrale68: Ara-m digatz, Rambaut, si vos agrada, Si-us es aissi, cum eu auch dire, pres, Que malamen s’es contra vos guidada 68 Cfr. Bertoni, I trovatori, pp. 211-215: «A lb e rt: Or ditemi, Rambaldo, qualora vi piaccia, se vi è accaduto ciò chi io odo dire: che, cioè, malamente siete stato trattato dalla vostra donna in Tortona, per la qua­ le avete scritto invano molte canzoni; ma essa ha fatto di voi un tale sir­ ventese, da esserne voi disonorato ed essa stessa svergognata, poiché il vostro amore non le dà né onore né vantaggio, ond’ella si è, così, allon­ tanata da voi». « R a im b a u t: Alberto Marchese, vero è che ho amata l’ingannatrice, a proposito della quale mi avete gettata la sfida. Essa si è al­ lontanata da me e dalla virtù; ma non ne ho colpa, perché in nessuna cosa ho peccato verso di lei; per contro, l’ho sempre amata e onorata. Ma tenetevi pure, voi e lei, la vostra fede, quella fede che avete spergiu­ rata cento volte per amor di denaro, della qual cosa si dolgono di voi i Genovesi. E a ragione, ché loro malgrado, avete loro impegnata la strada».

5

Vostra dompna de sai en Tortones, Don avetz faich mainta cansson en bada; Mas ili a faich de vos tal sirventes Don etz aunitz, et ili es vergoignada, Que vostr’amors no-il es honors ni bes, Per q ’ella s’es aissi de vos loignada.

10 Albert Marques, vers es q’ieu ai amada L ’enganairitz don m’avetz escomes, Que s’es de mi e de bon pretz ostada; Mas non puosc mais, qu’e ren no-il ai mas pres, Anz l’ai totz temps servida et onrada; 15 Mas vos e lieis persegua vostra fes, C’avetz cent vetz per aver periurada, Per qe-is clamon de vos li Genoes, Que, malgrat lor, lor empeignetz l’estrada. Albert M arques è il m archese Alberto M alaspina; il corri­ spondente, che nella terza stanza verrà descritto com e «privo d ’avere», né più né m eno che un giullare, è il tro­ vatore Raim baut de Vaqueiras. L e condizioni generali nel­ le quali si realizzava la gran parte delle tenzoni (collabora­ zione dei due poeti ad un testo scritto, com presenza degli stessi, o di altri esecutori, di fronte ad un uditorio) e la condizione particolare di questo dialogo, cioè la spropor­ zione tra il signore e il poeta, che pure non arretra di fronte all’insulto - ciò da un lato ci assicura che si trattava in genere di conflitti creati artificialmente, e conditi di ter­ mini volgari e di aneddoti grossolani per il divertimento degli astanti; dall’altro, ci dice che quello della tenzone era una sorta di spazio franco nel quale le leggi della cor­ tesia lasciavano il posto a quelle della rappresentazione comica e grottesca. Prim a di vedere che cosa accada, per questo aspetto, nella tradizione italiana, osserviam o come le infiltrazioni del registro comico-invettivo si estendano anche a generi non dialogati i quali però integrano riferimenti polemici ad interlocutori vivi e reali ed eventualmente presenti nel momento della recitazione del testo. L a fam osa galleria dei trovatori di Peire d ’Alvernhe è uno degli esem pi più

riusciti e più noti di questo um orism o conviviale, sia che il testo sia stato com posto per essere recitato di fronte agli interessati - cioè di fronte ai poeti dipinti in caricatura, uno per ogni stanza del serventese - sia che la recitazione avesse luogo davanti ad un pubblico non ‘professionale’ e però a giorno di ciò che avveniva nel m ondo delle lette­ re, tanto da poter decifrare allusioni non sem pre lim pide alla biografia o alla poesia dei ritrattati6970: E1 terts, Bernarts de Ventadorn, qu’es menre d’en Borneill un dorn; en son paire ac bon sirven per trarir’ab are nanal d ’alborn e sa maire calfava-1 fom et amassava l’issermen. Insom m a, sia che si tratti di generi dialogati frontali come la tenzone o il jo c p a rtii10 o lo scam bio di esparsas sia che del dialogo sussista solo la m ossa iniziale, l’attacco a un interlocutore che non è m esso nelle condizioni di rispon­ dere, il registro burlesco appare particolarm ente conge­ niale a questa famiglia di testi ‘orientati verso l’esterno’.

9.2.

Vituperio e invettiva nelle tenzoni italiane del D ue­ cento

Il quadro italiano appare profondam ente diverso, ed è probabile che la ragione di questa diversità stia anche e soprattutto nella mutata condizione di ricezione dei te­ 69 Cito da L. Rossi, P e r l ’in terpretazion e d i « C a n ta ra i d ’aq u e sts trob a d o rs» (323, 11), in C an tarem d ’aq u estz trobadors. S tu d i occitan ici in on ore d i G iu sep p e T avan i, Alessandria, Ed. dell’Orso 1995, pp. 65-111, a p. 109; trad. a p. 79: «E il terzo (a essere accusato), Bemart de Ventadom, ch’è più piccolo di don Borneil d’una mano: in suo padre ci fu un buon cicisbeo per lanciare con archetto a mano d’avornello; e sua ma­ dre scaldava il forno e ammassava i sarmenti». 70 Infatti persino nel più artificiale e ‘oggettivo’ dei generi trobadorici, il j o c p a rtii appunto, accade che la difesa del proprio punto di vista trascini ad un linguaggio aggressivo.

sti. In assenza di un m om ento di espressione orale, in as­ senza di un pubblico da intrattenere, il vituperium - cioè la variante dialogica del burlesco - perde di attualità, sp o ­ standosi sem m ai dalle vere e proprie rime di corrispon­ denza al genere affine, m a distinto, dei sonetti-apostrofi a personaggi che non hanno la facoltà di rispondere: il ca­ so, per esem pio, di Rustico. C iò non significa che il m o­ m ento del conflitto sia del tutto assente dalle tenzoni ita­ liane. M a da un lato la dim ensione privata dello scam bio invita a non esasperare i toni che l’occasione della disputa pubblica tendeva invece a inasprire; d all’altro, tali conflit­ ti sono, per dire così, oggettivi, riflettono una disparità di vedute su temi etico-politici, o sull’ortodossia am orosa, mentre rifiutano quella com ponente personalistica, creaturale, che nelle tenzoni trobadoriche forniva lo spunto per irridere un avversario - lo si è visto - vile, sfortunato con le donne e miserabile. Tenzoni che non sono tenzoni: prive cioè del contenuto polem ico e dell’asprezza di tono che il loro nom e lascerebbe presu pp orre71. M a occorre 71 Fa eccezione la più famosa delle tenzoni medievali, quella tra Dante e Forese Donati: sei sonetti pieni di minacce, maledizioni e insul­ ti indirizzati non solo al corrispondente ma anche a padri, madri e mo­ gli. Proprio l’eccezionaiità del caso ha portato alcuni a ritenere che si tratti in realtà di un falso composto più di un secolo dopo la data pre­ sunta per burla, in un circolo di ammiratori di Dante (restando aperta la questione se si sia trattato di una «tenzone fittizia, d’un solo, in per­ sona di due individui reali e contemporanei burlati con nomi danteschi, Alaghiero e Forese; oppure [di] una tenzone vera, tra due che si danno reciprocamente quei soprannomi»: Guerri, L a corren te p o p o lare , p. 123). La tesi, anche recentemente riproposta, non è implausibile se si guarda allo stile e ai motivi svolti nei sonetti, dato che la poesia del pri­ mo Quattrocento offre, sull’uno e sull’altro versante, termini di parago­ ne più calzanti rispetto a quella del Duecento. Ma in primo luogo, com’è noto, i dati filologici non consentono di abbassare troppo la data della tenzone. Se è forse aggirabile l’ostacolo posto dall’Anonimo Fio­ rentino, il quale riferisce alcuni versi della tenzone all’altezza dell’episo­ dio di Forese in Pg. XXIII, e che scrive il suo commento alla C om m edia in un’età che può oscillare dal penultimo decennio del secolo (Barbi) a, appunto, i primi anni del Quattrocento (Guerri), non così è possibile li­ quidare la testimonianza dei manoscritti: il Chigiano L.VIII.305 e il Banco Rari 69 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, entrambi

a questo punto ritornare sul problem a dell’obbiettività delle fonti e sull’eventualità, già prospettata, che una spontanea censura si sia abbattuta soprattutto su testi di questo genere e registro. Nella Lettera X I, G uittone si rivolge, con un com po­ nimento dalla com plessa struttura metrica, al conte di Romena, suo patrono e ospite alla corte di P oppi. Oltre che per confermare la propria fedeltà e gratitudine, G u it­ tone scrive per un altro scopo: pregare il conte di d i­ spensarlo dalTobbligo di ‘scendere in cam po ’ contro il «b o n G uidaloste». Risulta chiaro, dal testo, che non si tratta di un duello vero e proprio ma di un confronto poetico, di una tenzone nel vero senso della parola; del rivale si dice infatti che « s ’a lancia prò foe, | è a la lingua via p iù e » 72. Il G uidaloste qui nominato è probabilm ente quello stesso ioculator de Pistoria che le provvisioni del comune di Siena dicono essere stato assoldato, nel 1255, per com porre una canzone (o una ballata) in m em oria della presa di T orniella73. Contro di lui, inoltre, è rivolto il sonetto 212 di G uittone, che s’inquadra perfettam ente nel clima acceso e polem ico descritto nella lettera al con­ te di Romena:

4 9

Guidaloste, assai se’ lungiamente a scola dei cortesi adimorato: come villano e sì desconoscente te trova l’orno, e sì mal costumato? E tu vai predicando ’n ogni canto

medio-trecenteschi, collaterali e risalenti dunque, per quattro dei sei so­ netti della tenzone, ad una fonte comune ancora più alta nella genealo­ gia. In secondo luogo, non mancano del tutto neppure nel tardo Due­ cento testi, in prosa e in verso, in cui si adopera un linguaggio allusivo e violento simile a quello della tenzone tra Dante e Forese: cfr. L. Rossi, 1 so n e tti d i]a c o p o da L e o n a , in II gen ere «te n zo n e », pp. 111-132, alle pp. 118-122. 72 L ettere, XI, w. 32-34. 73 Cfr. A. D ’Ancona e O. Bacci, M an u ale d ella letteratu ra italian a, voi. I, Firenze, Barbèra 1904, p. 34; Torraca, Stu d i, pp. 54-55.

a fanciulli, a villani e a catono, che giostre molte hai vente e prò’ se’ manto. Il contatto col giullare, il ricorso all’invettiva, la pre­ senza, sullo sfondo, di una corte signorile, tutto ciò lascerebbe supporre che anche l’eventuale ‘duello’ tra G uidaloste e G uittone avrebbe dovuto aver luogo entro un con­ testo scenico non troppo diverso da quello che è ipotizza­ bile per le tenzoni trobadoriche. Se in questo caso ogni ulteriore congettura deve arrestarsi di fronte ai vuoti della docum entazione (ci manca infatti la voce di G uidaloste, nonché gli altri eventuali testi guittoniani), la tradizione m anoscritta ci ha invece conservato una coppia di testi che pur senza fornire alcuna indicazione sulle circostanze in cui venne prodotta sem bra recare chiare le caratteristi­ che della corrispondenza ‘pu bblica’, non privata. Vi ritro­ viamo infatti le iperboli invettive, le minacce, le allusioni alla vita dissoluta, insom m a un tipo di comunicazione tan­ to chiassoso e violento da lasciar supporre, alle sue spalle, non solo un conflitto fittizio, improvvisato per l’occasio­ ne, ma anche un’esecuzione pubblica o una lettura di fronte a terzi. G li autori sono M onaldo da Sofena e M ino da C o lle74: Ser Mino meo, troppo mi dai ’n costa, per c’hai veduto che poco ti costa; ma fuggi pur per qual vuoi ripa o costa, ch’io non ti giunga, se venir de’ còsta. E del corpo ti ritrarrò una costa, e poi dirai a li tuoi amici: - Co’ sta questa briga? Però ch’io veggio costa! Diranno: - Mal per te, ma a noi non costa. Verrai a tal, che perderai la vita; se Dio ti scampa, baldamente vita di ber già mai senz’acqua vin di vita. Deo, ch’or vedess’io pur qual cagion vi t’ha commosso, a tanto mal fare t’invita! Ma or savrai com’è la cosa, a vita.

Oi ser Monaldo, per contraro avento tu se’ infollito e gitti penne a vento; e puoi ben dir sì contraffatt’awento, in detto e ’n fatto ch’io non aggia vènto. Ora mi di’: per tuo gridare a vento, bene che fai? Come fa l’orsa, avvento, quando mi voglio, buon molino a vento e forza tal, che te di sotto avvento. Se gran distrette mie braccia ti danno, che fiar pur somiglianti a quelle d’anno, non ne fia altro: piangerà’ti il danno. Ché tuoi parenti ed amici, che ’nd’hanno di te rincrescimento, dicon: - Dà nno! Non aspettar tu male, ond’io ti danno.

74 Cito da R im a to ri com ico-realistici, pp. 225-227; ma leggo diversa­ mente i rimanti dei w. I 6-7 (edd. «e poi dirai a li tuoi amici: - Costa | questa briga, però ch’io veggio co’ sta») e ritocco, di conseguenza, l’interpunzione: «Come sta, come si mette questa zuffa? Perché vedo che mi costa cara!».

In questi sonetti di M ino e M onaldo il Leitmotiv è d a­ to da spropositate m inacce di violenza fisica (« E del cor­ po ti ritrarrò una costa») che, verosimilmente, non an­ dranno intese nel loro senso letterale ma alla stregua di metafore, funzioni di una violenza puram ente verbale. Ciò che sappiam o della loro vita e della loro professione è sufficiente ad escludere che i tenzonanti - l’uno p ro b a­ bilmente notaio, l’altro (Mino) uno dei m aggiori gram m a­ tici e retori del suo tem po - facessero sul se rio 75. M a la stessa am biguità (che qui diventa, in realtà, com presenza) tra una battaglia non m etaforica, armi in pugno, e una battaglia poetica s’incontra nella canzone a i G uittone al conte di Romena, qui con la com plicazione di sottintesi (il rapporto tra i due poeti-rivali, il ruolo arbitrale del conte) non del tutto decifrabili: 27 ma di tal omo e tanto com’è ’1 bon Guidaloste, non voi’ romper le coste a le gran iostre - e valorose suoe, 31 ché tanto, com’el dice, hane già rotti. E s’a lancia prò foe, è a la lingua via piùe, che sol valer se dice in giostrar motti76. Se interpreto bene le allusioni di G uittone, il giullare G u i­ daloste non ci è presentato qui soltanto com e un temibile avversario nella tenzone poetica, m a anche com e un forte com battente nel senso non m etaforico del termine, un 75 Cfr. H. Wieruszowski, M in o da C olle d i V al d ’E lsa, rim atore e dettatore a l tem po d i D an te, in P olitics a n d C u ltu re in M e d ie v al Spain a n d Italy, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1971, pp. 347-357; sul­ la ripresa, nella ballata di Mino A l cor m ’è nato, di una canzone di Rambertino Buvalelli (dunque sulla conoscenza, da parte sua, della poesia trobadorica), cfr. Torraca, Stu d i, p. 55. 76 «Ma (trattandosi) di tale e tanto uomo quale è il coraggioso Gui­ daloste, non voglio romper(mi) le costole nelle sue grandi e valorose giostre, poiché, a quanto dice, tanti ne ha già sconfitti. E se fu prode con la lancia, fu tale anche più con la lingua, che, così si dice, vale solo per giostrare parole» (Margueron).

«p ro d e » nell’uso della lancia (e non im porta se, com ’è probabile, il riconoscim ento è ironico e vuol essere inteso antifrasticamente); la stessa nomea, o meglio la stessa sciocca vanteria risulta per altro dal citato sonetto 212: «vai predicando [...] | a ’ ffanciulli, a’ villani e a catono | che giostre m olte ài vente e p rò ’ se’ m anto» - dove non sem bra dubbio che si tratti di giostre armate, di scontri tra cavalieri: altrimenti non si spiegherebbero l’aggettivo pro­ de e la meschina gloriole raccolta tra i fanciulli e i villani). Se dunque per i poeti-notai M onaldo e M ino le allusioni a un confronto cruento, fisico e non solo verbale, dipen­ dono solo dall’adesione alle leggi di un genere poetico che si nutriva di questi simulati eccessi (ma diventa necessario a questo punto dom andarsi d a dove vengano, quali origini abbiano queste leggi), i due testi guittoniani ci riportano sul piano dei fatti: che giullari o marginal-men della corte si cim entassero nei due cam pi, la giostra cavalleresca e la giostra poetica, è del resto u n ’eventualità del tutto plausi­ bile, e coerente con il rango sociale di questi personaggi.

9.3. L a violenza come figura retorica Per capire quale posto questi testi occupino nella tra­ dizione romanza dovrem o rivolgerci a quella «accadem ia tabernaria» poetante in lingua d ’oc, attiva nella M arca tre­ vigiana tra il secondo e il terzo decennio del Duecento, sulla cui fisionom ia hanno fatto luce gli editori di Sordello e, più recentemente, F o len a77. Anche qui infatti il confine tra violenza verbale e violenza fisica non appare chiara­ mente tracciato, e alcuni poeti sem brano avere esperienza tanto dell’una quanto dell’altra. In una esparsa scritta con­ tro il trovatore Figueira, Sordello accenna alla ferita che a costui aveva inflitto m esser Augier: Sitot m’asaill de sirventes Figeira ab sa lenga falsa e menssongieira,

3

sofrir lo-m taing, tal paor ai no-m feira ab l’espada ab qe-1 feri n’Auziers, car no Ili vale capiros ni viseira de la galta no-ll’en fezes cartiers78

Cuffia e visiera sono attributi del cavaliere che scende in cam po durante il torneo o che si arma per il com batti­ mento. Se lo intendiam o alla lettera, il passo ci dice in so ­ stanza che Figueira, oltre a com porre serventesi ‘falsi e m enzogneri’, com batteva armi in m ano nella giostra, o menava vita di brigata venendo coinvolto di tanto in tanto in duelli cruenti con i com pagni. A un colpo di sp a­ da m em orabile fa riferimento anche Aimeric de Peguilhan in una tenzone con lo stesso Figueira; la m ano che lo vi­ bra è ancora quella di m esser Augier: Anc tan bella espazada no cuit qe om vis com det n’Auzers sus el vis a-n Guillelm Gauta-segnada, q’el vis lo feri tant fort c’un petit n’a l’un oill tort79 Altrove, in testi provenienti dalla stessa cerchia di giullari, si tratta di una violenza più casereccia, di colpi scam biati inter pocula con armi meno nobili della spada: Anc al temps d’Artus ni d’ara no crei que homs vis tant bel colp cum en las cris pris Sordel d’un’engrestara80 78 Trad. Folena: «Anche se Figueira mi assale nei suoi serventesi con la sua lingua falsa e menzognera, mi tocca sopportarlo per la paura che ho che mi ferisca di spada, come feri lui messer Augier, quando né cuffia né visiera non valsero a impedire che gli squartasse la gota» (p. 502). 79 Trad. Folena: «Mai sì bel colpo di spada non credo sia stato visto come quello che messer Augier dette sulla faccia a messer Guglielmo Gota-segnata, che egli lo colpì così forte in faccia che n’ebbe per un po’ un occhio torto» (pp. 503-504). 80 Trad. Folena: «Mai al tempo d’Artù o oggidì credo si sia visto un colpo così bello come quello che Sordello si prese sul ciuffo con un boccale» (p. 500).

Che cosa pensare di questo strano intreccio di invetti­ va, polem ica in versi e vere e proprie aggressioni, spada o boccale in pugno? Q uanto alle risse da osteria, non d o ­ vrebbe esserci alcuna difficoltà ad accettarne la verità sto ­ rica: la vita precaria dei giullari doveva contem plare disav­ venture com e quelle ricordate da Aimeric. Q uanto ai duelli più seri, con la spada e l’armatura, tre interpreta­ zioni sono possibili. Possiam o cioè intenderle come m eta­ fore di confronti verbali in cui la ‘stoccata’ corrisponde a un Witz particolarm ente corrosivo; possiam o pensare che spada, celata e armatura siano bensì metafore, le quali però rimandano non alla pratica delle tenzoni orali ma appunto alle risse tra giullari; possiam o infine intenderli alla lettera, e speculare sulla vita violenta che questi per­ sonaggi dovevano condurre e sulla loro eventuale parteci­ pazione a giostre e tornei oltre che a incruente tenzoni poetiche. Posto quanto osservato sopra circa il ‘doppio m estiere’ di G uidaloste, ci sono buone ragioni per ritene­ re che qui non si tratti di m etafore ambientate in un parti­ colare genere letterario (la tenzone giullaresca) ma di duelli reali, di percosse reali. A interpretare in questo stesso m odo le minacce con­ tenute nella tenzone tra M onaldo da Sofena e M ino da Colle ostano, com e ho già accennato, alcuni fattori: in pri­ mo luogo, i protagonisti non sono marginal-men m a seri professionisti e uomini di penna; in secondo luogo, le im ­ m agini adoperate dai due rim atori sono troppo cruente per poter essere prese sul serio; in terzo luogo, altro è a l­ ludere , nella tenzone poetica, a violenze reali, a offese fi­ siche, e altro è promettere quelle offese. In questo caso, dunque, le m inacce di M ino e M onaldo non debbono es­ sere prese alla lettera, non vogliono esprim ere ciò che di­ cono esplcitamente. M a allora perché, ci si può dom an­ dare, vengono form ulate? L ’unica risposta possibile sem ­ bra essere quella accennata sopra: il plesso tematico della violenza corporale è stato assorbito nel codice letterario come figura retorica. N ato com e motivo giullaresco dotato di un suo proprio fondam ento nella realtà esso diventa, nel passaggio dall’una all’altra cultura poetica, dall’una

all’altra società, una mera risorsa espressiva: così, con que­ ste iperboli sanguinarie, si esprim ono non i giullari ma gli intellettuali-poeti che ne imitano la maniera. M a con un accorgim ento ‘curiale’ che svela la simulazione. Anche in un’occasione come questa, infatti, nella quale sem bra che la tensione dialettica sia m assim a e che tutto graviti intor­ no al m essaggio, nessuno dei due com ponim enti rinuncia a quegli artifici - la ripetizione di due sole rime equivoche mantenute lungo tutto il sonetto, e che di volta in volta diventano rime frante o rime per l’occhio, l’oscurità delle m etafore - che connotano la contem poranea lirica d ’arte di matrice guittoniana. Se sul piano tematico-tonale è visi­ bile il ricorso al form ulario giullaresco, vero è però che la caduta è subito risarcita da una tessitura form ale ricercata che ha insomma l’effetto di riassorbire, facendo leva sugli espedienti metrico-retorici per statuto legati alla Poesia, le concessioni fatte al teatro: le ipotesi avanzate sopra circa il possibile innesto in una lignée giullaresca e circa un’even­ tuale esecuzione dei testi di fronte ad un pubblico risulta­ no pertanto indebolite da questo virtuosism o, meglio a p ­ prezzabile alla lettura che all’ascolto.

9.4. Un confronto con la tradizione antico-francese Il registro burlesco-invettivo nelle tenzoni tornerà d e­ cisamente in auge nell’età di Burchiello, quindi, con ancor più vigore, in quella di Lorenzo. Prim a, n ell’esperienza breve e periferica dei perugini. È un recupero significati­ vo. A m ano a mano che il registro com ico cessa di essere un m odo di rappresentazione della realtà e si converte in puro stile, cresce anche il peso percentuale che vi hanno le rime di corrispondenza: segno del fatto che la poesia comico-realistica perde la propria autonom ia e va trasfor­ m andosi in una lingua settoriale preposta soprattutto al dialogo in versi. N on sarà dunque un caso che i poeti p e ­ rugini della metà del Trecento sviluppino anch’essi (come Rustico) una sorta di bifrontism o tra il registro ‘alto’ e il registro colloquiale, ma che tale bifrontism o (diversam en­

te che in Rustico) si realizzi attraverso una contem pora­ nea distinzione di generi: cosicché il M oscoli, il Ceccoli, e gli altri m inori di quella cerchia saranno d opo tutto stanchi ripetitori dello stilnuovo nelle rime d'am ore che form ano il grosso dei loro canzonieri individuali, riservan­ do invece alla tenzone il grottesco e il triviale. D iversa, nonostante le poche eccezioni che si sono ricordate, era la fisionomia del ‘m o d o ’ comico-realistico nell’età di Dante: diversa per molti aspetti m a per uno soprattutto, che i so­ netti di Rustico e di Cecco sono di solito m onologhi (sep­ pure m onologhi recitati di fronte a un pubblico, o inviati a un destinatario storico) e non frammenti di dialogo. Il confronto con la poesia dei trovatori (l’ambiente del gio ­ vane Sordello, le tenzoni burlesche raccolte da Pierre B e c )81, adatto appunto a illustrare le eccezioni com e lo scam bio tra M onaldo e M ino, cessa dunque, nel caso dei m aggiori ‘com ici’ del D uecento, di essere pertinente. Può essere allora utile am pliare il contesto e vedere che cosa, in quegli stessi anni o p o co prim a, stava accadendo in area francese. Anche qui il consolidarsi di una civiltà cittadina aveva favorito, da parte dei poeti, un contatto più autentico con la realtà, al di fuori dei m anierism i cortesi; e aveva così preso corpo una tradizione di poesia personale e ‘borghese’, non più cortigiana, intensamente creaturale: centrata per esem pio sul tem a della consunzione e della m orte (H élinant de Froidm ont, i Congés di Arras) o, nei dits di fine secolo, su aspetti più banali, meno drammatici della vita quotidiana. Ciò com portò, proprio com e nei contem poranei testi giocosi italiani, un abbassam ento del tono lirico e - contro la sublim azione cui l’io poetico era sottoposto nella tradizione cortese - una visione d i­ sincantata della situazione del soggetto. L a definizione del dii (e qui in particolare della poetica di R utebeuf) data da M ichel Zink ci riguarda perché pu ò applicarsi 81 Cfr. Folena, T radizion e e cu ltura , pp. 498-514; e P. Bec,, B u rle ­ sq u e e t o b scén ité chez les troubadours. L e contre-texte au M oyen A ge, Pa­

ris, Stock 1984.

legittimamente anche a questa variante ‘personale’ della poesia italiana delle origini: La poesia di Rutebeuf conferma che il dit, genere in se stesso in­ forme, si definisce attraverso l’esibizione dell’io davanti agli altri e davanti al mondo. Scomparsa la melodia, che permetteva al pubblico di appropriarsi della canzone, il poeta non cerca di permettere per altra via questa appropriazione bensì, al contra­ rio, la rende impossibile imponendo la sua presenza. Egli parla di sé e sostiene di raccontare la sua vita, benché sia vano, ovvia­ mente, chiedersi quanta verità possano contenere queste false confidenze82. Q uesta breve descrizione del dit può aiutarci a rispon­ dere alla dom anda circa le ragioni dell’assenza, nei giocosi duecenteschi, di una vocazione al dialogo burlesco e non solo al m onologo: vocazione che, com e si è detto, si m ani­ festa invece tanto in alcuni trovatori quanto in alcuni p o e­ ti italiani tre-quattrocenteschi, dai perugini a Burchiello, al Pulci, al Pistoia. Il punto è che la dram m atizzazione dell’io, in R utebeuf com e in C ecco Angiolieri, non pu ò stare senza una almeno simulata esigenza di resa realisti­ ca, di ritratto ‘dal vero’ della voce recitante. In questo senso, com e osserva Zink, il problem a della veridicità di questa po esia finisce per essere secondario. N on conta cioè la verità oggettiva degli eventi o dei sentimenti narra­ ti quanto piu ttosto la coerenza interna del sistem a: fare come se gli eccessi descritti fossero effettivamente la rap ­ presentazione scrupolosa della propria condizione spiri­ tuale e (per la prima volta nella letteratura italiana) m ate­ riale. Ebbene, le leggi della tenzone sono maglie già trop ­ po strette per uno sfogo che si vuole sincero. L ’orienta­ mento sulla persona del destinatario e non sulla propria, il rispetto dei clichés retorici connaturati al dialogo, la p e ­ rorazione, per non dire dei tratti puram ente formali com e la ripresa delle rime, tutto ciò toglierebbe pathos alla con­ fessione. M a soprattutto, l’ottica pseudo-autobiografica

82 Zink, L a

subjectivité ,

p. 62 (trad. mia).

adottata da questi poeti fa sì che essi debbano rinunciare ad ogni interferenza esterna che com prom etta l’unità d ’a ­ zione - le vicende dell’io biografico - stornando l’attenzio­ ne del lettore dalla persona del protagonista a quella dei comprimari. Per quanto dim essa, prosaica, triviale, è una form a di lirismo: e la lirica è precisam ente il genere nel quale la presenza di interlocutori reali è meno richiesta.

10. I l mancato incontro tra introspezione e creaturalità Il lirismo personale di Rustico e di Cecco Angiolieri non influì se non superficialm ente sul successivo corso della poesia italiana. M a occorre ricordare, in conclusio­ ne, che accanto all’alternativa giocosa u n ’altra se n ’era presentata nel corso del D uecento, più im portante perché si trattava di u n ’alternativa al m odello cortese non solo consapevole ma questa sì, a tratti, frontalmente polemica: i versi morali e cristiani di G uittone, di alcuni minori del­ la sua cerchia, del Bonichi. T ale alternativa som iglia a quella dei comico-realistici anzitutto in questo, che anch’essa cerca il suo pubblico al di fuori di quella chiusa comunità dei ‘competenti dell’arte’ nella quale si produce e si consum a la lirica dell’am ore cortese. À sua volta, que­ sta disponibilità a comunicare, questa apertura verso un pubblico più largo e socialm ente diversificato - apertura che non si esprim e dunque attraverso il canale privato delle rime di corrispondenza bensì attraverso i ‘pubblici’ appelli agli ascoltatori o ai peccatori, o ai cristiani tutti - è il riflesso di un com une m odo di intendere il ruolo e il dom inio della poesia. L o si p u ò definire in m olti m odi: riavvicinamento della letteratura alla realtà; ridim ensiona­ mento della tradizione letteraria a vantaggio dell’esperien­ za individuale; volontà di rappresentare la vita concreta del soggetto e il suo m ondo (nei giocosi); volontà di inci­ dere sulla vita concreta del lettore attraverso il racconto della propria reale esperienza spirituale e attraverso la didassi (nei m oralisti cristiani). Certo è - e l ’opposizione ideologica va rilevata pro prio perché siam o in grad o di

superarla valorizzando un diverso tipo di accordo tra le due tendenze - che m oralism o e im m oralism o s’incontra­ no nell’esigenza di una poesia in senso lato realistica che non ruoti intorno alle immaginarie avventure sentimentali del poeta ma metta il lettore di fronte ai valori o ai disva­ lori che egli ha m odo di sperim entare concretamente nella sua esistenza. In entram bi i casi, quelli che noi leggiam o sono versi a un destinatario che non è poeta in quanto ciò che vi viene detto lo riguarda come uomo: o perché cono­ sce bene la misera realtà di cui si parla o perché deve con­ vincersi a mettere in pratica i consigli di virtù che gli ven­ gono predicati. Ricom porre quella frattura tra letteratura e vita quotidiana che rappresenta la ragione stessa della poesia dell’amor cortese: con presupposti e obbiettivi d i­ versi, è questo il progetto al quale, nella seconda metà del X III secolo, lavorano tanto i comico-realistici quanto i moralisti-cristiani. Q uesta convergenza, tuttavia, non portò se non di ra­ do ad un’unione delle forze. L e due ‘linee’ che rappresen­ tarono nel D uecento una valida alternativa alla poesia cortese, e che al di là della polarità ideologica ci sono a p ­ parse unite da un analogo atteggiam ento di integrazione verso la realtà extraletteraria e da un’analoga fiducia nella funzione sociale della poesia - queste linee raramente en­ treranno in contatto. N ella tradizione lirica italiana avrà sì luogo, con Petrarca, un intreccio tra la dimensione reli­ giosa e l’autobiografia. Solo che esso sarà polarizzato ver­ so l’alto, depurato da ogni traccia di creaturalità; e si rea­ lizzerà nello spazio consacrato al tema di più perfetta tra­ dizione letteraria, l’amore: il soggetto concreto di cui se­ guiam o l’itinerario m orale si raffigura sem pre e com un­ que com e un uom o innam orato che a questa idea ossessiva subordina ogni altro aspetto della sua vita interiore. Q u e­ sta riduzione dello spirituale all’eròtico restringe ulterior­ mente il cam po dell’esperienza dell’io, esperienza già d i­ mezzata a causa dell’esclusione dall’orizzonte cortese della com ponente creaturale: entro questi strettissimi confini « l ’io parla di sé » nella tradizione che fa capo allo stilnuovo e a Petrarca. Possiam o dom andarci com e diversamente

avrebbero potuto andare le cose senza questa duplice sele­ zione tematica: senza il conguaglio tra lo spirituale e l’erò­ tico e senza l’estrom issione dell’elemento creaturale dalla lirica; e possiam o tentare una risposta attraverso un nuovo confronto tra la situazione italiana e quella francese. Sin dal Duecento, non solo i congés ma anche i dits e i poèm es de l’infortune di R utebeuf arricchiscono i temi della confessione personale e dell’autobiografia e del la­ mento sulle m iserie umane con una com ponente m orali­ stica e riflessiva che si fa talvolta esplicitam ente religiosa. In tal m odo, l’immagine che il poeta ci restituisce è quella di un io non scisso, al tem po stesso spirituale e carnale. Q ui infatti l’elemento creaturale (uno specifico giocoso che i poeti-predicatori italiani quasi non conoscono) con­ vive con la seria e sincera m editazione sulla vita (a rove­ scio: una dim ensione ‘religiosa’ che era rimasta estranea ai nostri giocosi): 4

8

Bien me doit li cuers larmoier, C’onques ne me soi amoier A Deu servir parfaitement, Anz ai mis mon entendement En geu et en esbatement, C’onques n’i dignai saumoier

19 J ’ai to u z jors en graissé m a p an ce D ’autrui chateil, d ’au tru i su sta n c e 83.

È precisam ente a tale form ula autobiografica, con accen­ tuazione ora della com ponente comica ora di quella tragi­ ca, che rimonta la più originale ‘poesia personale’ del M e­ dioevo francese: fi in q u esta esibizion e d ell’io che si trova l ’aw e n ire d e ll’id ea stessa di p o e sia [...] L e false-vere con fid en ze d i G u illau m e d e

83 L a repen tan ce R u teb eu f. «Ho ben ragione di piangere, dal mo­ mento che mai ho saputo dedicarmi a servire Dio, e tutto ciò che ho latto è stato giocare e divertirmi, e mai ho pregato [...]. Ho sempre in­ grassato la mia pancia dei beni altrui» (trad. mia).

M ach au t, la p o esia d el q u o tid ian o e d elle co se d ella vita d i Je a n F ro issart e di E u sta c h e D e sc h a m p s, i T estam en ti p o e tici d e l s e ­ colo X V , com e quello di V illon [...], in so m m a tu tta la p o e sia della fine del M ed io ev o d eriv a d a q u esta d ram m atizzazion e d e l­ l ’io, la cui esibizion e c o m p o rta q u asi sem p re u n a c o m p o n en te d e riso ria 84.

Su questi che sono, in sintesi, gli effetti della funzioneR utebeuf in Francia, noi possiam o m isurare un’ultima volta la ben diversa incidenza della funzione-Angiolieri nella letteratura italiana del M edioevo. Incidenza molto marginale, si è detto, se ci limitiamo a isolare, nella sua produzione e in quella a lui successiva, il com ico ‘p u ro ’; un p o ’ più consistente, se ci sforziam o di leggere le tracce non dei versi ma dell’ideologia e, se così si pu ò dire, del m etodo angiolieresco nelle rime am orose dei trecentisti minori (m etodo che consiste, in sostanza, nella ripresa di concetti cortesi calati in una form a più dim essa e collo­ quiale). M a non si può fare a meno di considerare che una valida alternativa al sistem a dei valori cortesi avrebbe potuto scaturire soltanto dal connubio tra questa visione disincantata e beffarda della realtà e l’istanza religiosa che si era espressa nella poesia di Guittone. L ’uom o nella to­ talità delle sue determinazioni contro l’immagine artefatta e parziale che ne dava la letteratura cortese: a questa sin­ tesi - sintesi non anacronistica, posto che essa potè realiz­ zarsi in Francia, lungo la linea che da R utebeuf porta a Villon - non giunse se non di rado la poesia italiana del M edioevo85.

84 Zink in Rutebeuf, O euvres com plètes, p. 22 (trad. mia). 85 Le eccezioni più significative si trovano tra le laude, in particola­ re tra le laude iacoponiche, e in quei testi penitenziali laici nei quali alla descrizione di una vita malvissuta s'intreccia il sentimento della caduci­ tà e della morte, e il proposito di convertirsi: cfr. Giunta, C h i era il f i ’ A ld o b ran d in o , pp. 125-128 (col rinvio alle pagine di Auerbach sulla fu­ sione tra umile e sublime propria di una parte dell’arte cristiana del Medioevo: cfr. soprattutto M im e sis, I, pp. 157-158).

Sulla lirica

«Naturalmente il poeta parla sempre di se stesso: altri­ menti come potrebbero nascere dei canti?». G. Lukàcs, L ’an im a e le fo rm e «Quando gli domandai di cosa trattavano le romanze, Tembinok’ rispose: “Innamorati, alberi e il mare. In ogni caso, di vero non c’è nulla, è tutto falso” . È un concetto condensato di poesia lirica (anche se sembra avere dimenticato le stelle e i fiori) che sarebbe diffici­ le correggere». R.L. Stevenson, N e i m ari d e l su d

1. L a verità della poesia H a scritto D e Bruyne: «le avventure reali dei poeti moderni ci interessano tanto poco, dal punto di vista arti­ stico, quanto quelle dei poeti medievali. Che l’amore sia stato vissuto o semplicem ente immaginato, poco c’imporla » '. Poiché in questo capitolo ci concentrerem o sop rat­ tutto sul problem a del tasso di verità contenuto nella p o e ­ sia erotica medievale converrà subito fare i conti con ri­ serve di questo tipo, riserve che sem brerebbero vanificare in partenza tutti i nostri sforzi. Si osserva giustamente che è oziosa la dom anda rela­ tiva alle circostanze pratiche, contingenti della poesia: non la si com prende meglio accum ulando dettagli sulla vi­ ta di chi l’ha scritta e tantom eno su quella di chi ne è sta­ to l’oggetto. M a - si può osservare di rim ando - ciò che 1 De Bruyne, E tu d e s, II, p. 161. Un punto di vista simile (in relazio­ ne agli amori giovanili di Dante) per esempio in B. Nardi, D an te e la cultura m edievale, Bari, Laterza 1949, p. 37: «La pretesa di dedurli [gli umori suddetti] dalle rime è per lo meno imprudente, poiché la poesia ci rende immagine del mondo interiore del poeta e dei sentimenti che l'agitano, ma non ci obbliga a pensare ad altra realtà da quella che la sua fantasia costruisce».

è indifferente al critico può interessare lo storico. Il suo punto di vista gli perm ette infatti di scartare le minuzie della biografia e di affrontare il problem a del rapporto tra letteratura e realtà nei suoi termini più generali, e tanto più quando la realtà è una realtà sentimentale. Sono, quelle dei poeti, avventure reali o avventure immaginarie? Per apprezzare e capire una poesia d ’am ore - D e Bruyne ha ragione - non è affatto necessario porsi questa dom an­ da. Se anche fosse immaginaria, la storia dell’amore tra Petrarca e Laura non sm etterebbe di commuoverci, così com e non smette di farlo quella tra D idone e Enea, che è sicuram ente immaginaria: in entrambi i casi quella che conta non è l’aderenza del racconto a un’esperienza real­ mente vissuta ma la capacità di descrivere con profondità e verosimiglianza sentimenti nei quali i lettori di ogni tem ­ p o si possano rispecchiare. Se tuttavia l’oggetto della n o ­ stra indagine non è un testo m a l’intera produzione di un autore o, in una prospettiva ancora più ampia, la natura della poesia in una determ inata epoca, ecco allora che la dom anda sulla verità o sulla non verità degli affetti e delle figure che li ispirano diventa, da irrilevante, cruciale. Che la sua im portanza sfugga al lettore odierno, è un fatto fa­ cilmente spiegabile: la dom anda circa la verità della p o e­ sia post-rom antica non ha bisogno di essere posta non perché sia insensata m a perché la risposta è nota. E ssa è infatti il genere letterario per eccellenza non fittizio, il luogo in cui chi scrive dice la verità (il che spiega, per in­ ciso, perché sia anche il genere preferito dagli scrittori di­ lettanti e perché ‘tutti, in gioventù, hanno scritto poesie’: l’apparente assenza di m ediazioni tra sentimento ed espressione avvicina la lirica a quell’altra form a letteraria ingenua e a tutti accessibile che è il diario). M a il quadro è meno nettamente definito se invece della poesia post-ro­ mantica consideriam o quella medievale. Un saggio di Philippe Lejeune sul genere dell’autobio­ grafia s ’intitola, con una frase di R im baud, Je est un autre. Chi parla nel testo? Chi è realmente il personaggio che d i­ ce io? Q uale filtro separa l’esperienza dal suo racconto?

Sostiene Lejeune che di fronte all’autobiografia, esatta­ mente com e di fronte ai generi ‘fittizi’, domande come queste sono pertinenti dal m om ento che anche in questo genere in cui è m assim a, e anzi qualificante, la pretesa di verità, e in cui coincidono le figure dell’io che agisce e dell’io che ricorda, vi è o può esservi discontinuità tra vissuto e narrato: chi scrive scrive di sé ma il suo resocon­ to, facendo parte della letteratura, si macchia di finzione, non nel senso che esso ‘non dica la verità’, ma nel senso che dalla letteratura accetta determinazioni formali e te­ matiche, schemi, insomma m ediazioni dalle quali, in linea teorica, una form a di com unicazione che si vuole sincera e oggettivante dovrebbe andare esente2. E siste un altro genere letterario nel quale l’io parla di sé, ed è la lirica. Il discorso intorno alla pretesa di ve­ rità e alla verità oggettiva degli enunciati si fa qui tuttavia ancora più spinoso per m olte ragioni ma principalmente per due che si possono riassum ere in questi termini. In prim o luogo, la sostanza degli enunciati riguarda di solito eventi della sfera interiore, cioè emozioni, sentimenti, idee, e non semplicem ente l’ordinata successione di fatti che com pone, nella sua form a più elementare, un’auto­ biografia (anche quando si tratti di un’autobiografia sen­ timentale o intellettuale, dove per quanto labile, un lega­ me con gli eventi che hanno luogo al di fuori dell’io deve sussistere: senza di che l’autobiografia perde il suo nome e diventa m editazione filosofica, saggio alla Montaigne). In secondo luogo, la form a in cui vengono espressi gli enunciati manifesta a priori un’intenzione artistica. Il di­ scorso sull’io è form ulato in versi, la confessione ci viene presentata im mediatamente come ‘pezzo di letteratura’, col che il giudizio sulla verità o la non verità dell’enun­ ciato (o meglio, dato che non si tratta di eventi ma di affetti, sulla sua sincerità o non sincerità) si trova a dover tenere conto di due legislazioni differenti: quella della realtà extraletteraria, in nom e della quale si continua 2 m éd ias,

Ph. Lejeune, Je est un Paris, Seuil 1980, p. 7.

au tre. L ’au to b io grap h ie, de la littérature aux

a chiedere se l’enunciato è conform e a verità e a sincerità; e quella dell’arte, ossia del testo m edesim o, in base alla quale una dom anda simile non ha ragione di essere posta, non più di quanta ne abbia quella circa la storicità del viaggio ultraterreno di D ante o degli eventi che il N arra­ tore racconta nella Recherche : dom ande che rivelano, quantom eno, una visione ingenua della relazione che in­ tercorre tra gli autori e le loro o p e re 3. A dottando la form a della letteratura (e qui quel veicolo due volte letterario che.è il verso), il discorso sull’io ne eredita anche uno d e­ gli atouts più caratterizzanti: la sospensione dell’increduli­ tà da parte del lettore, cioè il diritto di afferm are il falso - l’emotivamente falso - presentandolo com e vero. Tutto questo, bisogna precisare ora, secondo l’erm e­ neutica corrente. Perché vedrem o tra poco com e nell’età medievale la lirica e l’interpretazione della lirica sembrino obbedire a regole leggerm ente diverse; vedrem o com e la suddetta legislazione ingenua in virtù della quale si appli­ cano alla poesia i criteri della sincerità e della verità in rapporto ¿ l e effettive vicende dell’io, abbia in quest’ep o ­ ca un’insospettabile forza d ’attrazione sia per chi produce sia per chi legge poesia. Realismo, cioè verità biografica, della lirica m edievale? Certo bisognerà riformulare la questione in maniera meno schematica. M a già l’aver p o ­ sto la dom anda deve farci riflettere sul fatto che le inter­ pretazioni più accreditate della poesia romanza delle ori­ gini si fondano sul presupposto esattamente contrario, as­ sum ono cioè che tra lirica e biografia non vi sia, nel M e­ dioevo, alcuna relazione significativa. E infatti opinione prevalente che anche nella poesia medievale l’io ‘sia un altro’, che cioè il soggetto dell’enun­ ciato non coincida col soggetto dell’enunciazione che m a­ terialmente produce il testo. Il significato e le m odalità di questa scissione vengono spiegati attraverso la nozione di ‘poesia form ale’: il poeta parla di sé com e - cioè nei ter­ mini stessi in cui - di sé hanno parlato i poeti che l’hanno 3 101.

Cfr. N. Frye, A n ato m ia

d ella critica,

Torino, Einaudi 1969, pp. 97-

preceduto, adoperando le m edesim e espressioni, riferen­ do alla sua persona i m edesim i sentimenti, idee, stati d ’a ­ nimo che costoro avevano cantato nei loro versi; ciò che fa la m onotonia della lirica erotica medievale non è dun­ que la voce eterna e sem pre uguale dell’amore bensì la persistenza di un codice linguistico che ciascun poeta in­ terpreta con ridottissim o m argine di variazione. Nelle sue linee essenziali, è questa u n ’idea vecchia quanto la filolo­ gia romanza, ed è un’idea difficilmente contestabile. M a nel secondo dopoguerra, questa eterogeneità tra io b io ­ grafico e io poetico ha offerto lo spunto per una generale interpretazione della lirica medievale sulla cui validità ci siamo interrogati a suo luogo (.Introduzione , parr. 2.2-2A ). N on ritorno perciò su quanto ho già detto, ma ricordo in sintesi che le obiezioni toccano principalmente: a) la ‘d u ­ rata’ del paradigm a della poesia formale, cioè l’arco di tem po nel quale esso può ritenersi valido e veritiero; b) l’applicabilità di questa prospettiva ad aree geografiche che non siano la Francia del nord, la regione sulla cui produzione letteraria le ricerche intorno alla poesia for­ male si sono sviluppate; c) la possibilità che questa p ro ­ spettiva, invece di dim ostrarsi adeguata alla realtà dei te­ sti, crei una realtà om ologando componimenti e autori tra i quali sussistono differenze profonde, che la ‘chiave’ del­ la poesia form ale non perm ette di vedere.

2. I sicilian i 2.1. Giacom o da Lentini, «M adonna, dir vo voglio» Il codice Vat. lat. 3793, il più importante testimone della poesia italiana delle origini, si apre con la canzone M adonna, dir vo voglio di G iacom o da Lentini. In realtà, G iacom o non è l’autore bensì il traduttore di questo te­ sto: l ’originale, A vos, m idontq , appartiene al trovatore Folchetto da M arsiglia. Che la poesia italiana s ’inauguri - poco im porta se solo simbolicamente o anche storica­ mente - con una traduzione dal provenzale dice quanto

forte sia il legame che unisce l’una tradizione all’altra e quanto profonda la fedeltà dei siciliani ai loro modelli. M a ciò che qui interessa è che difficilmente si potrebbe immaginare una più netta alterità tra l’io biografico (cioè il poeta al quale il codice V attribuisce il testo, G iacom o da Lentini) e l’io poetico. N ella canzone di Folchetto l’io che si esprim e nel testo può sì essere una convenzione, può sì avere «u n ’esistenza soltanto gram m aticale»4, ma l’autore può ugualm ente si­ mulare che tutto ciò che egli dichiara corrisponda a verità, a una effettiva realtà sentimentale: la finzione può essere avvertita dallo studioso che sappia con quanta frequenza form e e contenuti analoghi si presentano nella letteratura trobadorica, ma la relazione tra io biografico e io poetico non cessa di proporsi com e relazione d ’identità. G iacom o da Lentini pu ò appropriarsi delle parole di Folchetto, non, evidentemente, del loro contenuto. In V, tuttavia, il testo è rubricato tra le canzoni del N otaro, e nessun segnale av­ verte del suo carattere ‘secondario’: com e se la voce che parla, l’esperienza e gli affetti che vi vengono rappresentati, appartenessero a G iacom o. N on si tratta né di una lacuna isolata né di un errore da attribuire al copista, dal momento che anche altri testi scritti alla corte di Federico II si richia­ mano, imitandoli o traducendoli, integralmente o in parte, ai m odelli provenzali, e sem pre senza che venga dichiarata la fon te5. T ra i siciliani, il legam e tra io biografico e io p o e­ tico, tra realtà dei sentimenti ed espressione lirica, è tanto debole che il poeta può perm ettersi di far propri i versi - cioè la vita e le emozioni - di un altro autore senza chiari­ re che si tratta, appunto, di una citazione. L e biografie, constatiamo, sono intercambiabili. N on c ’è dunque alcun rapporto tra ciò che il poeta vive e ciò che dichiara nei suoi versi: l’io poetico è fungibile. Chi parla? L ’amante che ogni lettore, nel m ondo ideale della cortesia, potrebbe essere. 4 Zumthor, L an gu e, 5 Cfr. F. Brugnolo,

tex te, p. 171. I sic ilia n i e l'a rte d e ll’im itazion e: G iacom o da L en tin i, R in ald o d ’A q u in o e Iacop o M o stacci ‘tra d u tto ri’ d a l proven zale,

in «La parola del testo», n i 1 (1999), pp. 45-74.

2.2. L a tem one tra Giacom o da Lentin i e l’A bate d i Tivoli M adonna dir vo voglio è un esem pio estrem o di insin­ cerità. M a il fatto stesso che essa si integri senza problem i con gli altri testi originali prodotti dai siciliani sia dal pun­ to di vista tematico sia dal punto di vista formale, ci mette sull’avviso e ci porta a concludere che questa insincerità è un predicato dell’intera scuola federiciana. N on è que­ sta, del resto, l’opinione corrente tra gli studiosi? N on è inteso che le parole dei poeti siciliani sono pure formule retoriche senza fondam ento nell’esperienza e che i loro amori sono avventure della mente e non del cuore? In realtà, l’opinione corrente su questo punto non è qualco­ sa che si riesca a determinare facilmente. Per gli amatori di poesia si tratta di una questione triviale; per i filologi, eli un problem a che non rientra nella loro giurisdizione. Chi si affidasse al canone della ‘poesia form ale’ non avrebbe che da applicare la regola al caso particolare: mentono, i siciliani, così com e mente ogni altro poeta ro­ manzo. M a le cose sono in realtà più complesse. Il gioco, l’arte, consiste nel rappresentare com e reali passioni e affetti fittizi, ereditati dalla tradizione letteraria. Ma la finzione riceve due diversi tipi di convalida. D a un lato il poeta rassicura, nel testo, della genuinità dei suoi sentimenti, insiste a dire (all’interno della finzione) che non sta fingendo. Si tratta di un artificio già noto alla p o e ­ sia gallorom anza6. Il suo rovescio è: accusare di sim ula­ zione e m endacio gli altri poeti-amanti. Anche questo è un motivo polem ico di grande diffusione, che non serve se non a accreditare, per contrasto, la propria qualità di amante devoto. T ra i siciliani, tuttavia, esso subisce alm e­ no in un caso una trasform azione interessante: diventa cioè, da generica accusa ai falsi amanti, lo spunto per un attacco di natura personale. L a tenzone tra l ’A bate di T i­ voli e G iacom o da Lentini è per l’appunto un dibattito sulla natura d ’am ore che si trasform a a poco a poco in 6 p oétiqu e,

Cfr. Zink, L a su b jectiv ité, pp. 52 e 76; Dragonetti, p. 192; e Meneghetti, I l p u b b lico , pp. 121-175.

L a tech n ique

una disputa intorno alla sincerità dei sentimenti: ciascuno dei due poeti dichiara insieme la verità e la profondità dei propri e, per contro, la superficialità di quelli dell’avver­ sario. Com e si accorda, ciò che si è appena detto sulla con­ venzionalità della poesia erotica siciliana con testi com e questi, che dim ostrano quanto ai poeti stia veramente a cuore il problem a della verità dei sentimenti? N oi non ci stupiam o, infatti, nel vedere che un autore giura sulla sincerità della propria poesia, anche se sappiam o che i materiali di cui egli si serve per crearla non appartengo­ no alla sua reale esperienza ma alla tradizione letteraria; non ci stupiam o perché è del tutto normale che all’inter­ no di una finzione si cerchi di guadagnare credito agli in­ fingimenti. Q ui assistiam o tuttavia a qualcosa di diverso: un dialogo, nella form a di un piato di fronte ad un tribu­ nale, nel quale ciascuno dei due poeti sostiene di essere l’unico fedele d ’amore e accusa l’altro di mentire: p er voi lo d ico, am ico, im p rim am en te, ca non cred o ca lealm en te am iate. C h e s ’A m o r vi strin gesse coralm en te, non p arlereste p er divinitate. (X V III c 3 -6) p u r u n o p o c o sia d ’am o r feruto, sì si ragen za e fa su o p arlam en to , e dice: «D o n n a , s ’io non aggio aiuto, io m e ’n d e m oro, e fo n n e saram en to ». P e rò gran n o ia m i fan n o m enzionieri, sì ’m p ro n tam en te d icon lo r m en zogn a (X V III d 5-10)

In questa seconda replica del N otaro il sospetto di m enzogna non tocca soltanto i sentimenti del corrispon­ dente, ma anche le parole - cioè la poesia - che questi pronuncia o potrebbe aver pronunciato; ai w . 7-8 si la­ m enta che del cliché del ‘m uoio per am ore’ abusino uom i­ ni feriti soltanto «u n p o co » da amore, laddove il vero in­ nam orato tace la sua passione. M a rimproverare un altro per aver abusato di un cliché, censurare le esagerazioni di amanti superficiali significa attribuire un valore di verità

oggettiva a queste formule e, soprattutto, significa riflette­ re sulla corrispondenza tra ciò che viene detto e ciò che effettivamente chi parla sente nel cuore: si dà insomma una lettura in chiave realistica dell’amore cantato nelle poesie, una lettura ben diversa da quella fondata sui con­ cetti di convenzione e di lirica form ale a cui sopra ho fat­ to riferimento. Chi ha ragione? E che cosa dobbiam o pensare? Che queste dichiarazioni, rese durante un dialogo in versi, p er­ ciò esterne al grande canto cortese e perciò stesso più ido­ nee a rivendicare un valore di verità, corrispondano a sen­ timenti reali? O tutto si riduce invece a un gioco letterario in cui i due poeti, ben consci della convenzionalità dei lo ­ ro simulati affetti e delle loro parole mettono in scena an­ che in questo caso - di fronte a un pubblico che è anch’esso a parte della finzione - i ‘d op p i’ che sono i veri protagonisti delle loro canzoni d ’am ore? Che insomma qui a parlare non sia - come non è nei testi lirici - l’io b io ­ grafico bensì quell’astrazione senza identità che è l’io liri­ co? Propenderei per questa seconda risposta, così come - credo - la gran parte dei lettori. M a su questa finzione al quadrato occorre m editare, perché ciò dim ostra a fo r­ tiori che il problem a della verità della poesia era chiara­ mente avvertito anche dai contem poranei. E ssi non si li­ mitano infatti a produrre testi lirico-soggettivi nei quali il discorso dell’io, pur essendo intessuto di motivi topici, presenta se stesso come autentico, aderente alla biografia di colui che parla; ma garantiscono, a ll’interno dei testi m edesim i, la verità dei sentimenti e, dunque, del canto. N on solo: dibattono in tutta serietà con altri rimatori in­ torno al rispettivo grado di innam oram ento e alla rispetti­ va sincerità. Q uesto dibattito e queste proteste di sincerità ci sono oggi quasi incomprensibili: che senso ha gareggiare in sincerità e profondità di sentimento quando tutto si ri­ solve in una pura esercitazione letteraria? D obbiam o fare uno sforzo di im m edesim azione e pensare che il nostro m odo odierno di guardare alla lirica antica differisce per molti aspetti dal punto di vista dei produttori e dei primi

consumatori. T ra l’altro in questo: che per costoro, con ogni evidenza, la sincerità conta com e un valore anche al­ l’interno della finzione.

3. L a prim a generazione toscana 3.1. L a letteratura come specchio della vita: G uittone d ’Arezzo Leggiam o ora questi versi di Bonagiunta O rbicciani (X I 13-21), con G uittone il m aggiore tra i poeti della p ri­ ma generazione toscana: T a n t’allegrezza nel m eo core a b b o n d a di sì alto servaggio 15 che m ’ha e tiem m i tu tto in su o volere, che non p o sa già m ai, se non c o m ’on d a, m em b ran d o il su o v isaggio c h ’am m o rza o g n ’altro v iso e fa sp are re in tal m an era che là ’ve ella ap p are 20 n essu n la p u ò gu ard are, e m ettelo in errore.

D al punto di vista stilistico e ideologico, essi non sono molto più originali di quelli dei siciliani: si rappresentano uno stato d ’animo (l’allegria) e una condizione (il servag­ gio) ricorrenti nella poesia delle età precedenti; la donna amata dal poeta è raffigurata non secondo realtà m a con­ formemente ai luoghi com uni cortesi della suprem a b el­ lezza, della m eraviglia degli astanti, dell’im possibilità di guardare. Anche se non si tratta di una traduzione come è quella del N otaro nessuno vorrà azzardare un giudizio di sincerità, cioè di verità biografica, su un testo com e questo. M a intorno a questo am ore topico, insincero, a s­ solutam ente separato dalla realtà, si sviluppa nella T o sca­ na del D uecento un dibattito in cui si affrontano non già due maniere di intendere la letteratura ma due m aniere di vedere la vita: un dibattito, perciò, tutt’altro che accade­

mico (com e ancora poteva essere quello tra l’A bate e il Notaro), perfettamente serio: tra i poeti ‘cortesi’, sosteni­ tori della fin ’am or e della lirica am orosa da un lato, e i poeti cristiani com e G uittone d ’Arezzo dall’altro. Il conflitto tra le due posizioni si fa esplicito, per esem pio, in una canzone com e Ora parrà di Guittone:

5

O ra p arrà s ’e o sav erò can tare e s ’eo varrò q u an to valer già soglio, p o i che del tutto A m o r fu g g h ’e d isvoglio, e p iù che cosa m ai fo rte m i sp are: eh’a om ten uto saggio a u d o contare che trovare - non sa n é valer p u n to o m o d ’A m o r non p u n to.

L ’uomo «tenuto saggio» (ma non saggio in realtà) è p ro ­ babilmente Bernart de V entadorn, il quale nella canzone Chantars no pot aveva detto precisam ente che nulla vale il canto se non viene dal cuore, e da un cuore innam ora­ to 7. N on è tuttavia la posizione del poeta cortese a inte­ ressarci: afferm are che il canto d ’am ore corrispon de ad un amore vissuto è, si è visto, un espediente retorico dif­ fuso e perfettamente spiegabile. Ci interessano invece gli argomenti usati e lo scopo perseguito da G uittone a p ar­ tire da Ora parrà e in tutta la sua produzione poetica su c­ cessiva all’ingresso nella confraternita dei Cavalieri di Santa M aria. Egli infatti non com batte contro la poesia di soggetto am oroso in nome di un diverso concetto dell’arte o per ripugnanza nei confronti di testi leggeri che p o sso ­ no arrecare danno morale a chi li ascolta o legge (così la Chiesa non vedeva di buon occhio i giullari o coloro che sulle piazze intrattenevano il pu bblico con cantilene di contenuto profano). In G uitton e, la battaglia contro la poesia e i poeti d ’amore non è altro che la diretta conse­ guenza della sua battaglia contro l’amore adultero. Il p ro ­ gram ma di una poesia di stam po etico-religioso è dunque 7 Cfr. A. Tartaro, I l m an ifesto d i G u itto n e, Roma, Bulzoni 1974, pp. 54-55: «Chantars no pot gaire valer, | Si d’ins dal cor no mou lo chans: | Ni chans no pot del cor mover, | Si no i es fin’amors coraus».

preceduto e motivato dalla richiesta di una vita condotta secondo i dettami del cristianesimo: «M a chi cantare vole e valer bene, [...] Dio fa sua stella» (16-23). E come cantare bene comporta che l’uomo valga bene, cioè viva in maniera morale (sicché cessare di comporre poesie sull’a­ more significa abbandonare quel sentimento: 3 «p oi che del tutto Amor fuggh’e disvoglio»), così cantare male, os­ sia comporre versi sul tema dell’amore, significa vivere male, agire in maniera dissennata e immorale (10-11 «ché ’n tutte parte ove distringe Amore | regge follore in loco di savere»). Nell’interpretazione di Guittone, i versi sono lo specchio della vita: perciò la lotta che egli conduce contro i poeti cortesi in un testo come Ora parrà, modella­ to come si è detto - ma e contrario - su Chantars no pot di Bernart de Ventadorn, questa lotta non ha nulla di lette­ rario, ma mira a trasformare nella realtà comportamenti che - codificati nei versi - vengono intesi come reali. Possiamo perciò concludere che la lirica erotica della prima generazione toscana non si stacca dai clichés tema­ tici ed espressivi che le derivano dalla tradizione proven­ zale e siciliana: si tratta ancora, per adoperare la termino­ logia odierna, di poesia formale. E tuttavia, l’interpreta­ zione della letteratura erotica come specchio della realtà, ignara di finzioni, che sottostava alla tenzone tra l’Abate e il Notaro, viene portata qui a conseguenze ancora più estreme. Guittone e i rimatori della sua cerchia prendono alla lettera i lirici cortesi: canta d ’amore soltanto chi è davvero innamorato. Ma questo amore cantato e vissuto sconviene tanto ad un’arte quanto ad una condotta di vita cristiane: o perché si tratta - secondo tradizione cortese - di amore adultero, extraconiugale (e la coscienza di ciò affiora chiaramente proprio nei sonetti delYars am andi guidoniana, dove si suggerisce, tra l’altro, la migliore stra­ tegia per conquistare una donna sposata); o perché si ri­ tiene che la devozione nei confronti della donna distolga comunque il poeta-amante da pensieri più eletti: l’etica, Dio. La poesia viene così trattata alla stregua di una fonte d ’informazioni capace d ’illuminare la biografia, e che giu­ dica e condanna la vita: poiché l’autore parla di sé in pri­

ma persona, la distinzione tra lasciva pagina e vita proba non ha ragione di sussistere. 3.2. La «Com m edia», le «vidas» Ma non è questo anche il punto di vista di Dante nel X X V I canto del Purgatorio ? Quasi tutte le anime espianti nella Commedia scontano peccati realmente commessi, dei quali Dante ha notizia o attraverso la letteratura o at­ traverso la memoria dei suoi contemporanei o per essere stato egli stesso testimone dei mali di cui quegli uomini si sono resi responsabili. In Pg. X X V I questa continuità tra vita terrena e destino ultraterreno sembra spezzata. Sui due personaggi che incontriamo nel canto, Guinizzelli e Arnaut Daniel, Dante non fornisce infatti alcun partico­ lare biografico, né sembrano esserci al di fuori del testo, nella pubblica fama o nelle fonti, elementi che giustifichi­ no il fatto di trovarli qui, nel girone dei lussuriosi. In altri termini, tra la loro reale condotta di vita e la loro condi­ zione di espianti non è posta - non esplicitamente, alme­ no - alcuna relazione di causa ed effetto. Non entro qui nel merito dei complessi problemi d ’interpretazione posti da Pg. X X V I. È certo una strana coincidenza che Dante taccia soltanto sulla colpa terrena delle due ultime anime espianti (le ultime, cioè quelle collocate nel girone più al­ to del purgatorio, ad un passo dall’Eden e dalla salvezza), e che queste due anime rappresentino, secondo il Dante del De vulgarì cloquentia e della Commedia, i vertici della lirica italiana e provenzale: è probabile che qui il deside­ rio di nominare i propri padri prevalga sulla consueta vo­ lontà esemplare (un peccatore-tipo, scelto tra i più rino­ mati, a rappresentare un peccato); ed è probabile che ab­ bia luogo, per giustificare la presenza dei due poeti su questa balza, un’equazione tra letteratura e vita, un volon­ tario (?) fraintendimento circa l’attendibilità e la verità della poesia d ’amore. Detto in maniera molto schematica: la lirica di Guinizzelli e di Arnaut viene letta alla stregua di un diario o di una frammentaria autobiografia, come

documento e non solo come monumento, e questa inter­ pretazione realistica giustifica e spiega la loro collocazione tra i lussuriosi e rende insieme omogeneo il ‘caso’ dei due poeti a quello delle altre anime del purgatorio8. Leggere la lirica d ’amore come se essa fosse il riflesso di un’esistenza dissoluta, non in linea coi princìpi cristia­ ni: è questo il denominatore comune che lega Guittone e il Dante di Pg. X X V I. L e vidas e le razos trascritte in alcuni manoscritti trobadorici prospettano, come è noto, una ricezione un po’ diversa, perché non (o solo di rado) orientata in senso moralistico; in esse, tuttavia, quell’iden­ tificazione tra arte e esistenza individuale che era stata ab­ bozzata dai due poeti italiani può dirsi compiuta. Da un lato infatti vi si riafferma con decisione l’idea che il canto è la conseguenza di un amore sincero (il che porta a sot­ tolineare le eventuali eccezioni: «m as non fez gaires de las cansos, quar anc non fo fort enamoratz de neguna; mas ben se saup feingner enamoratz ad ellas ab son bel parlar»)9, e anzi di più, che l’amore stesso non solo sug­ gerisce le parole al poeta (come dirà Dante in Pg. XX IV ) ma gli insegna i fondamenti dell’arte10. Il nesso tra vita e poesia non potrebbe essere più stretto; quello che conta non è l’apprendistato letterario ma la reale esperienza del­ l’amore: prima si ama e soltanto dopo si è in grado di scrivere. D all’altro lato, se in Guittone e nella Commedia è la poesia d ’amore in sé a risultare sospetta e censurabile dal punto di vista dell’etica cristiana, e non occorre soffer­ marsi sul contenuto specifico dei testi, è proprio dai testi, dai loro specifici enunciati, che le vidas e le razos traggono spunto per le loro trame. L ’interpretazione delle opere 8 Cfr. Giunta, L a p oesia ita lia n a , pp. 47-74. 9 V ida di Uc de Saint Ciré: cfr. Boutière e Schutz, B iograph ies, p. 240. 10 Cfr. per esempio la vida di Guiraudo lo Ros: «Et enamoret se de la connessa, filla de son seignor; e l’amors qu’el ac en leis l’enseingnet a trobar»; o quella di Aimeric de Peguilhan: «Et enamoret se d’una borgesa, soa visina. Et aquella amore li mostret trobar» (cfr. Boutière e Schutz, B iograph ies , risp. pp. 345 e 425).

fornita dalle vidas e dalle razos è un’eziologia: si rendono espliciti i dati di realtà che l’opera letteraria ha trasfigura­ to. Ma si tratta anche di «storie che insegnano a vivere, che pongono modelli comportamentali ben precisi e coerenti, simboli e ‘miti’ edificanti, meritevoli d ’ammirazione e d ’i­ m itazione»11. In particolare, vera o falsa che sia (e senz’al­ tro talvolta vera talvolta soltanto verisimile) la notizia così ricorrente nelle vidas secondo cui il poeta invecchiato, ab­ bandonate le rime erotiche, si ritira in convento, l’idea di una conversione reale alla fine della vita si proietta all’indietro, e fa sì insomma che finisca per essere espresso, o sottinteso, un identico giudizio di realtà anche sugli amo­ ri cantati nell’età giovanile: dunque sul canto medesimo.

4. Cino e lo stilnuovo Torniamo in Toscana, ma qualche anno dopo Bonagiunta e Guittone, tra la fine del Due e l’inizio del Tre­ cento. In un sonetto inviato al marchese Moroello Malaspina, Cino afferma di essersi innamorato di una donna che non lo corrisponde (1-4): C ercan d o di trovar m inerà in oro di quel valor cui gentilezza inchina, punto m ’ha ’1 cor, m archese, m ala spina, in guisa che, versando il sangue, i’ m oro.

Ospite probabilmente dei Malaspina in Lunigiana, Dante risponde all’amico a nome di Moroello riconoscendogli grandi doti poetiche ma una volubilità eccessiva e una certa propensione a sim ulare12. Le parole con cui Dante 11 S. Guida, Religione e letterature romanze, Soveria Mannelli, Rub­ bettino 1995, p. 105; cfr. inoltre V. Bertolucci Pizzorusso, Il grado zero della retorica nella vida di]aufre Rudel, in SMV, 18 (1970), pp. 7-26, al­ le pp. 18-19; Meneghetti, Il pubblico, p. 203. 2 Cfr. rispettivamente 1-4: «Degno fa voi trovare ogni tesoro ; la voce vostra sì dolce e latina, . ma volgibile cor ven disvicina, ! ove stec­ co d’Amor mai non fe’ foro»; e 12-14: «S’i1vi vedesse uscir de gli occhi

definisce, per contrasto, se stesso, ricordano da vicino quelle adoperate dal Notaro a difesa della sua buona fede e sincerità («d ’onne parte amoroso pensieri | intrat’è in meve com’agua in ispugna»): «Io, che trafitto sono in ogni poro | del prun che con sospir’ si medicina». Ciò che qui è detto in uno stile fiorito ed elegante, denso di meta­ fore, Dante lo ripeterà in un sonetto forse più tardo in maniera più diretta, e con maggiore severità: 6

.... ho di voi [Cino] più volte udito che pigliar vi lasciate a ogni uncino.

Chi s ’innam ora sì com e voi fate, or qua or là, e sé lega e dissolve, 11 m ostra ch’A m or leggerm ente il saetti. Però, se leggier cor così vi volve priego che con vertù il correggiate, sì che s ’accordi i fatti a ’ dolci detti. (52.5-14)

Nella richiesta finale, che le azioni rispecchino le paro­ le, cioè i versi, che non vi sia scissione tra l’io biografico e l’io poetico, vediamo affiorare un’esigenza analoga a quella a noi già nota da più fonti, che la lirica sia il veico­ lo di esperienze e sentimenti autentici: il che non accade se, per l’appunto, i versi sono dolci e leggiadri - come so­ no quelli di Cino - e il comportamento è quello di un li­ bertino. In questo caso, però, il percorso logico è opposto a quello seguito, per esempio, nella tenzone tra l’Abate di Tivoli e il Notaro: non si chiede alla poesia di riflettere fe­ delmente la realtà, ma alla realtà, all’atteggiamento di Cino nelle relazioni amorose, di modellarsi sulla poesia. L ’auto­ difesa di Cino non ha importanza per il nostro discorso. Importa, invece, che sul tema della sua infedeltà e volubili­ tà in amore siano stati scritti all’interno della sua cerchia non meno di altri quattro sonetti di corrispondenzaIJ. ploia I per prova fare alle parole conte, non mi porreste di sospetto in ponte». 15 Si tratta del sonetto Molto li tuoi pensier (148a), in cui Guelfo Taviani afferma che, a causa del suo dividersi tra due donne, Cino verrà

Il più raffinato dei poeti cortesi dichiara nei suoi versi di essere innamorato, ma la sua condotta, nei fatti, è quel­ la di un simulatore o di un libertino: figure entrambe in conflitto con l’etica cortese. Queste testimonianze su Cino vanno considerate sotto due aspetti. Da una parte, ripeto, l’accusa di simulazione presuppone, sia in cni la formula sia in chi cerca di respingerla (come fa Cino nel citato so­ netto 160), l’idea che la lirica non sia simulazione, ed ecco perché il caso-Cino può essere inserito a buon diritto in questa rassegna d ’esempi, dopo Guittone e Giacom o da Lentini14. Ma, dall’altra parte, c’è qui qualcosa di nuovo rispetto agli esempi precedenti. I ripetuti e puntuali ac­ cenni alla reale condotta di Cino nella sua veste non di poeta ma di amante, le concordi allusioni alla facilità con cui egli s’innamora, addirittura la bigamia, sfacciata nega­ zione del contratto cortese: come dobbiamo interpretare tutto ciò? Daremmo prova di ingenuità e di anacronistico biografismo se attribuissimo a queste voci un fondamento

escluso dalla corte di Amore; del son. Pen sando com e tu o i (149a), dello stesso Taviani, in cui Cino viene accusato di ‘amare ad arte’, formula che esprime anche in altre occasioni, nel Duecento, la contraddizione tra l’esercizio della lirica amorosa e l’inconsistenza del sentimento (cfr. Giacomo da Lentini, II 49-50; Ugo da Massa di Siena, P 136.12; e lo stesso Cino, 134.12-13, negando di meritare l’accusa); del son. D olce d ’am ore am ico di un altro corrispondente di Cino, Gherarduccio; del son. Prego il nom e di Cacciamonte. Critiche come aueste andranno probabilmente tenute presenti per l’interpretazione del son. 160 di Ci­ no. Troppo indiretto, a mio avviso, per essere un vero e proprio sonetto di corrispondenza (così Marti in P oeti, p. 851), esso è forse la risposta pubblica alle pubbliche riserve avanzate sulla sua dignità d’amante: «Non temo lingua ch’adastando fiede; ; ché l’uom che per invidia va biasmando I sempre dice ’1 contraro a quel che crede» (12-14). H Allo stesso titolo potremmo citare altri sonetti missivi grosso mo­ do coevi in cui la fedeltà del poeta-amante viene messa in dubbio: cfr. per esempio Terino a Onesto, XVa 1-4: «Se vi stringesse quanto dite Amore, : che vi mettesse in dubbio di finita, I no stareste lontano dal segnore, I messer Onesto, chi vi può dar vita»; e Monte a Lapo del Rosso, 109.1-8: «Sò bene, amico: molto tra’-ti ’nanti ' in dir che se’ in sengnoria d’Amore [...] . E, perché lo dimostri con tuoi canti, | non credo che risponda, a ciò, lo core; 1ché molti son che s’apellano amanti, I che, d’amorosa via, ciascun è fòre».

nella realtà? Probabilmente no. È possibile che all’origine di questa cattiva fama vi sia stato un singolo episodio, no­ to ai poeti della cerchia di Cino, oppure un atteggiamento abituale, un’attitudine ‘non cortese’ diventata costume; è comunque difficile credere che allusioni così precise non abbiano un fondamento nella vita, nel reale com por­ tamento di Cino. Quella verità e quella realtà di cui siamo andati in cer­ ca sinora la troviamo dunque qui, nelle reazioni suscitate tra la fine del X III e l’inizio del XIV secolo dal caso-Cino. Qui gli amori del poeta non sono quelli interpretati dall’io lirico nelle rime, dietro il doppio schermo dell’etica corte­ se e della tradizione letteraria, ma quelli che nei fatti Cino può aver vissuto: la poesia ci parla della biografia. Biso­ gna però sottolineare il fatto che non stiamo parlando del grande canto cortese, ovvero di liriche nelle quali il poeta parla di sé, ma di sonetti di corrispondenza, di tenzoni: non è l’io biografico che finalmente viene a combaciare con l’io lirico, ma è, per così dire, il ‘tu biografico’ che fa il suo ingresso nella poesia d ’amore, che scalza il ‘tu liri­ co’ cui ci avevano abituato le tenzoni d ’argomento erotico scambiate tra i poeti delle generazioni precedenti. H o indicato nell’introduzione i due aspetti sui quali soprattutto avremmo dovuto concentrare la nostra atten­ zione: il realismo della poesia medievale e l’orientamento verso l’esterno caratteristico di una parte di essa. Trovia­ mo qui, nel settore della lirica erotica, cioè in quello per definizione più refrattario al realismo e alla dimensione del dialogo, una prova ulteriore del fatto che queste due linee di ricerca si fondono in realtà in una sola, che la proiezione del discorso poetico verso l’esterno è essa stes­ sa il principale veicolo del realismo in poesia in quanto fa sì che venga gettato un ponte tra il mondo autoriflessivo della letteratura e la società. Parlare di sé agli altri com­ porta spesso un incremento di sostanza biografica. Nella canzone Prego eh’audir, l’autore (Picciolo) descrive la sua condizione sentimentale al corrispondente (Onesto da Bologna) e, cosa non consueta nella poesia d ’amore due­ centesca, largheggia in dettagli: parla della circostanza in

cui ha incontrato la donna amata, e menziona il nome del­ la città in cui l’incontro è avvenuto: «N el tempo ch’è ’n Bologna ballo e gioco j ballando quella che l’aire innamo­ ra...» (15-16). Nel sonetto Guido, quel G ianni che Alfani invia a Cavalcanti si parla di una «giovane da Pisa» che tutti e due gli amici conoscono e che trasmette i suoi salu­ ti a G uido. Parlare degli altri, come fanno i poeti che giu­ dicano Cino, fa sì che si rinunci agli infingimenti della cortesia e si riferiscano e si giudichino i fatti. Le rime di corrispondenza sono dunque, tra le altre cose, una delle porte attraverso le quali, alla fine del secolo, la verità ir­ rompe nella poesia.

5. Le ballate del «Decam eron» Mezzo secolo più tardi. L e dieci giornate del Decame­ ron si chiudono ciascuna con una ballata, recitata a turno da uno dei giovani della brigata. H o già osservato che, al­ l’interno del sistema dei generi poetici medievali, la balla­ ta è quello in cui le caratteristiche proprie della cosiddetta poesia formale appaiono con maggiore evidenza: estranei­ tà del testo alla reale esperienza del poeta, cioè massima distanza tra io biografico e il lirico, e, simmetricamente, totale adesione a un codice letterario particolarmente po­ vero di termini e di motivi. Genere spesso letteralmente teatrale, eseguito di fronte ad un pubblico che partecipa all’esecuzione cantando e danzando, la ballata è un para­ digma di artificio e di insincerità: come altri generi musi­ cati del tardo Medioevo, essa rappresenta, attraverso un codice quasi del tutto privo di inflessioni personali, le si­ tuazioni tipiche della fin'am or. Certo non sempre - e anzi probabilmente di rado - parole e musica nascevano insie­ me: di solito, le ballate venivano scritte e poi, in un secon­ do tempo e da altri, musicate; e molte, senz’altro, non vennero musicate affatto. È logico pensare, infine (e que­ sto vale per la ballata come per altri generi lirici contem­ poranei), che l’unione tra parole e musica si sia realizzata una volta, nel momento della prima esecuzione del testo,

e che di lì in poi esso sia stato recepito ‘nudo’, soltanto per iscritto, per la semplice ragione che la scrittura della musica richiede una competenza maggiore di quella che occorre per la registrazione delle parole, e che la fruizione visiva, sulle carte di un manoscritto, è più facile e imme­ diata di quella auditiva. Per quanto riguarda le ballate del Decameron, tutta­ via, l’unione di parole, musica e canto è affermata ogni volta, in ognuna delle dieci giornate, a chiarissime lettere. Il testo che metricamente si presenta come una ballata è anzi, regolarmente, definito canzone, nell’accezione non specializzata (qualsiasi testo in versi accompagnato da musica) che corrisponde a quella ancor oggi in uso: «...cantando Emilia la seguente canzone amorosamente: Io son sì vaga...» (e al termine del testo: «questa ballatela finita...», I Conci. 17-22); «la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone; la quale così incominciò...» (VII Conci. 9). Ma si tratta di uno spettacolo di gruppo, e la canzone è accompagnata da danze; mentre uno dei perso­ naggi canta il testo, altri s ’incaricano dell’accom pagna­ mento musicale e dell’organizzazione del ballo: «com andò la reina che una danza fosse presa e, quella prendendo la Lauretta, Emilia cantasse una canzone dal leuto di D io­ neo aiutata» (I Conci. 16); «m enando Emilia la carola» (II Conci. 11). Non solo, la brigata partecipa anche in un al­ tro modo: risponde, cioè ripete in coro la ripresa al termi­ ne di ognuna delle stanze cantate dal solista: «Q uesta ballatetta finita, alla qual tutti lietamente avevan risposto...» (I Conci. 22); «L a Lauretta allora [...], rispondendo l’altre, cominciò così...» (Ili Conci. 11). Infine, Boccaccio ci in­ forma di un’altra circostanza che dobbiamo tenere ben presente se vogliamo comprendere il ruolo delle ballate nel Decameron. Al termine di ogni giornata noi leggiamo soltanto una ballata, una per ognuna dei dieci personaggi, ma altre, molte altre la brigata ne canta ogni sera: «A p ­ presso questa, se cantaron più altre» (X Conci. 7); «D a poi che Dioneo tacendo mostrò la sua canzone esser fini­ ta, fece la reina assai dell’altre dire, avendo nondimeno commendata molto quella di Dioneo» (V Conci. 20).

Possiamo dunque riassumere in questo modo. La bal­ lata ci appare come il più artificiale e oggettivo dei generi lirici medievali. Le ballate del Decameron ci appaiono co­ me rappresentanti del tutto tipiche del genere: in esse il messaggio, le parole del poeta, sono solo una delle com­ ponenti dell’opera, al pari del canto solista, di quello del coro, della musica e delle danze. Inoltre, il fatto che quel­ le trascritte da Boccaccio siano solo alcune delle ballate effettivamente recitate dalla brigata ci dice due cose. La prima sulla funzione delle ballate nell’economia del libro: esse hanno un ruolo decorativo, non diegetico. Anche qui infatti viene rispettato il principio dell’alternanza osserva­ to nell’elezione dei re e delle regine di ciascuna giornata, per cui le dieci ballate vengono recitate a turno dai dieci giovani della brigata; tuttavia, le poesie che noi leggiamo ci vengono presentate non come quelle effettivamente cantate dai giovani durante il soggiorno nella villa ma co­ me il frutto di una selezione operata da Boccaccio sulla base del suddetto principio di alternanza delle voci: cento e non più di cento sono le novelle, ma in nessun luogo è detto che le ballate debbano essere dieci, una per gior­ no. Esse sono anzi senz’altro di più. Ne consegue che le ballate hanno una funzione nel libro (una funzione, ho detto, puramente decorativa e clausolare, come un fre­ gio), non invece nella storia che il libro racconta (come ce l’hanno invece, ovviamente, le cento novelle). E di fatto quando, all’inizio del Decameron, Pampinea avanza la di impiegare il tempo non giocando ma novel­ [>roposta ando (cioè, precisamente, raccontando ciascuno ogni giorno «una sua novelletta»: I Intr. 112), e definisce così contenuto e struttura dell ’opera, nessuna norma viene fis­ sata per regolamentare il canto alla fine delle giornate. Nasce di qui una seconda considerazione. Secondarie nell’economia del libro, le ballate lo sono a maggior ragio­ ne nell’economia della narrazione. Quelle che Boccaccio trascrive e che noi leggiamo sembrano distinguersi dalle altre ballate, cantate nella medesima seduta, solo per il fatto che queste ultime sono ‘libere’, eseguite senza che nessuno lo richieda, laddove una sola, ogni giorno, viene

esplicitamente ‘ordinata’ dal re o dalla regina: vi è, per così dire, una sola ballata ufficiale1516. Ma al conferimento dell’incarico di cantare non corrisponde la prescrizione di un determinato motivo (come accade con le novelle, uni­ ficate ogni giorno da un argomento diverso). Leggiamo infatti: «Bella giovane, tu mi facesti oggi onore della coro­ na, e io il voglio questa sera a te fare della canzone; e per­ ciò una fa che ne dichi qual più ti piace» (VI Conci. 40). L ’unico possibile vincolo è di tipo linguistico-registrale. Al termine della quinta giornata, Elissa affida a Dioneo il compito di cantare. Dioneo propone testi burleschi come Monna Aidruda, levate la coda, o Alzatevi i panni, monna Lapa, e simili, e viene ripreso dalla regina, che lo ammoni­ sce: «Dioneo, lascia stare il motteggiare e dinne una bella, e se no, tu potresti provare come io mi so adirare» (V Conci. 14). Dirne una bella: esiste dunque un canone di dignità espressiva dal quale non è possibile derogare, ma i testi sono pezzi intercambiabili che vengono eseguiti per la gioia del canto e della danza, non perché abbiano una particolare funzione nell’intreccio u>. Non crediamo a ciò che dice la poesia amorosa del Medioevo; ancora meno crediamo alla ballata, genere arti­ ficiale per eccellenza; ancora meno crediamo a ciò che di­ cono le ballate del Decameron, testi per musica eseguiti dai giovani della brigata per puro svago prima di coricar­ 15 Cfr. II Conci. 16: «Appresso questa [ballata], più altre se ne can­ tarono e più danze si fecero»; IV Conci. 18: «Ma poi che egli ebbe a quella posta fine, molte altre cantate ne furono infino a tanto che l’ora dell’andare a dormir sopravenne»; Vili Conci. 8: «Alla fine la reina, per seguire de’ suoi predecessori lo stilo, non obstanti quelle che volonta­ riamente avean dette più di loro, comandò a Panfilo che una ne dovesse cantare». 16 Si noti che il canone linguistico-stilistico si dà soltanto per le bal­ late, non per le novelle: la settima giornata è, come è noto, lo spazio de­ stinato al racconto di novelle molto prossime, sotto il profilo registrale, alle canzoni che Dioneo vorrebbe cantare al termine della quinta. Ciò conferma quanto ho osservato nel capitolo precedente circa i due regi­ stri non comunicanti di Boccaccio: una prosa che può aprirsi a conte­ nuti realistici e creaturali, una poesia che deve tenersi stretta al dettato della tradizione aulica.

si. Ma i personaggi del Decameron non condividono que­ sto scetticismo. Al term ine d ell’ottava giornata, Panfilo riceve l’incarico di can­ tare. Il suo è un canto di gioia: ha trovato l’am ore in «alto e raguardevol lo c o » (v. 11), e p u r dichiarando di volerlo celare, p er­ ché così com anda la cortesia, afferm a di aver stretto tra le b rac­ cia e baciato la donna am ata. E cco com e reagisce la brigata: «niun ve n ’ebbe che [...] non notasse le parole di quella [balla­ ta], ingegnandosi di quello volersi indovinare che egli di conve­ nirgli tener n ascoso cantava; e quantunque vani varie cose an­ elassero im aginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne» (V ili Conci. 13). Al term ine della settim a giornata tocca a F ilo ­ mena, che canta d i (e si rivolge a) un am ante lontano, ab b rac­ ciato e baciato un tem po, del quale im plora il ritorno: «E stim ar fece questa canzone a tutta la brigata che nuovo e piacevole am ore Filom ena strignesse; e per ciò che per le parole di quella pareva che ella più avanti che la vista sola n ’avesse sentito, te­ nendola più felice, invidia per tali vi furono ne le fu avuta» (VII Conci. 15). N ella ballata che chiude la quarta giornata, Filostra­ to si lam enta e accusa A m ore p er essere stato abbandon ato d al­ la donna am ata, e invoca la m orte. Al term ine, B occaccio com ­ menta: «D im o straro n o le parole di questa canzone assai chiaro qual fosse l’anim o di Filostrato e la cagione: e forse più dichia­ rato l’avrebbe l’aspetto di tal don n a nella danza era, se le tene­ bre della sopravenuta notte il rossore nel viso di lei venuto non avesser n asco so » (IV Conci. 18).

Che cosa dobbiamo concludere? Che i personaggi del Decameron non percepiscono alcuna discontinuità tra io biografico e io lirico. Che quelli che nella struttura del li­ bro appaiono a noi, per le buone ragioni che ho esposto sopra, semplici cammei decorativi, sono considerati inve­ ce, nell’intreccio, frammenti di diario, componimenti nien­ te affatto oggettivi e insinceri bensì lirico-autobiografici, non letteratura ma vita. Se le novelle rappresentano, ad evidenza, la sfera dell’oggettivo, il luogo nel quale l’identità del personaggio-narratore si annulla nel racconto, il quale non riguarda m ai l'io che narra, e se nella cornice quasi nul­ la ci viene detto intorno all’identità dei giovani che com­ pongono la brigata, dobbiam o considerare le ballate come

il vero spazio concesso, nel Decameron, all’espressione della loro soggettività: dobbiamo stare al gioco e ricostrui­ re la loro personalità anche attraverso ciò che ciascuno di essi dice nei versi che gli vengono assegnati, proprio per­ ché questi versi non sono affatto percepiti, nel testo, come ‘poesia formale’, bensì come l’espressione immediata del­ l’interiorità dei personaggi. Dalle ballate, quindi, appren­ diamo che Fiammetta ha una tresca con un «bello aman­ te» misterioso, e ne è gelosa (X Conci. 10-14); che Filome­ na ha «un nuovo e piacevole amore», del quale ha sentito «più avanti che la vista sola» (VII Conci. 10-15); che Elis­ sa soffre per un «crudele» che non la ama (VI Conci. 4246); che Filostrato è stato abbandonato da una delle fan­ ciulle della brigata, e sostituito con un altro amore (IV Conci. 11-17). Ma se - per chiudere il discorso e chiarire ulterior­ mente questo punto - per afferrare il particolare statuto delle ballate del Decameron occorre questa catena di de­ duzioni, tutto è molto più semplice con la ballata che tro­ viamo, inserita nella diegesi, nella settima novella della de­ cima giornata. Qui infatti appare in maniera lampante ciò che nelle ballate di fine giornata si può solo intravedere. La giovane Lisa, figlia di uno speziale fiorentino, s ’inna­ mora del re Pietro III d ’Aragona ma non osa confessarlo né ai genitori né tantomeno all’interessato. Decide così di rivolgersi al «finissimo cantatore e sonatore» Minuccio d ’Arezzo e lo prega di intercedere per lei e di informare il re del suo amore. Minuccio esegue, il re si intenerisce, vi­ sita la giovane e, come premio per la sua devozione, le dà in sposo un giovane della sua corte, gentiluomo «m a po­ vero», provvedendola di una ricchissima dote. Ora, per svelare a Pietro che Lisa è innamorata di lui, Minuccio trova questo «m odo onesto»: insieme a Mico da Siena, «assai buon dicitore in rima a quei tempi», compone una ballata nella quale è riassunta la vicenda di Lisa: una don­ na prega il dio d ’Amore perché visiti un certo «m essere» - il quale neppure sa dell’esistenza di lei - e gli riveli le sue pene e il suo amore:

M erzede, A m ore, a m an giunte ti chiamo, ch ’a M esser vadi là dove dim ora. D ì che sovente lui disio e am o, sì dolcem ente lo cor m ’innam ora. (5-8)

Invitato a intrattenere gli ospiti in occasione di un pranzo a corte, Minuccio intona la ballata. Tutti i presenti, il re compreso, seguono il canto «adom brati» e «taciti e sospe­ si». D opo che Minuccio ha terminato: il re il dom andò donde questo [cantol venisse che m ai più non gliele pareva avere udito. «M on sign ore», rispose M inuccio «e non sono ancora tre giorni che le parole si fecero e ’1 su o n o »; il quale, avendo il re d om andato per cui, rispose: « I o non l’oso scovrir se non a voi». (25-26).

Minuccio gli rivela così tutta la storia: la giovane innamora­ ta è Lisa, l’ignoto messere è lui stesso, il re. Dal nostro punto di vista sono due gli elementi degni di nota. Il primo è che Lisa affida a un poeta, e questo poeta affida a una ballata il compito di informare il re. Il secondo è che que­ st’ultimo non dubita neppure per un momento che la bal­ lata non sia il resoconto di una vicenda reale e chiede subi­ to «per cui», a istanza di chi sia stata fatta. Entrambi gli atteggiamenti sono la prova di una ‘ingenuità’ che noi già conosciamo: per il re, così come per Lisa e per Minuccio, ma in realtà come per tutti i personaggi del Decameron, la lirica non è finzione bensì, al contrario, il luogo nel quale i sentimenti si esprimono nella loro forma più pura, senza mediazioni. (Non si obbietterà che il libro stesso è finzione e che, fittizi i personaggi, debbono esserlo anche i loro sen­ timenti. Perché quello che conta qui non è la verità extraletteraria - di cui non è mai questione, trattandosi da cima a fondo di un’opera di fantasia - bensì l’idea di lirica che Boccaccio attribuisce ai suoi personaggi: un’idea fondata sul presupposto che le parole della poesia rispecchino una reale condizione sentimentale, non diversa, perciò, da quel­ la che spiega la reazione guittoniana, le condanne dante­ sche, gli autoschediasmi delle vidas: la lirica dice la verità.)

6. Quando la lirica diventa vera 6.1. Indistinzione tra io biografico e io lirico I poeti cortesi non concepiscono una lirica d’amore che non sia sincera, e ripetono che tra la loro esperienza e i loro versi vi è la più piena identità. Dal fronte opposto, i poeti cristiani avallano queste affermazioni. Guittone e Dante nel canto X X V I del Purgatorio, in diverso modo e con diversa decisione, propugnano un’idea di letteratura e di vita esattamente opposta, e reagiscono moralistica­ mente all’etica laica che parla attraverso quei testi. Così fa­ cendo, tuttavia, essi implicitamente confermano che la poesia erotica dice il vero, che mette in scena eventi e stati d ’animo legati alla reale esperienza dell’autore. È su que­ sto punto che occorre insistere: così come le poesie di fra­ te Guittone si presentano come la diretta conseguenza di una scelta esistenziale (l’entrata in convento), e sono dun­ que oggettivamente vere, e non danno adito ad alcuna scissione tra io biografico e io poetico, allo stesso modo - nella prospettiva polemica dei moralisti - non c’è alcuna soluzione di continuità tra reale esperienza erotica e canto. Vediamo così che quella distinzione tra io biografico (l’autore, l’individuo in carne e ossa che compone il testo) e io lirico (il personaggio che gestisce il discorso nel testo: non altro, nella nostra interpretazione attuale, che un sim­ bolo, il portavoce dei lettori o di un ceto, sociale o intel­ lettuale), quella distinzione che a noi moderni pare così ovvia e necessaria, se non vogliamo scambiare l’arte per la cronaca, sembra essere estranea al paradigma estetico dei medievali. Essi credono alla verità della poesia d ’amore, e ciò sia quando, come produttori, sono ideologicamente solidali con essa (è il caso dell’Abate di Tivoli e del N ota­ to nella tenzone), sia quando come ‘ex produttori’ con­ vertiti prendono le distanze dai valori che la lirica amoro­ sa difende, sia infine quando (nelle vidas) si tratta di offri­ re ad un pubblico distante nel tempo e nello spazio dai produttori dei testi una chiave di lettura che dia modo di comprendere nel loro reale significato opere delle quali

altrimenti il lettore non saprebbe vedere il fondamento storico. Noi sappiamo, o meglio noi sospettiamo forte­ mente che questo fondamento storico non ci sia, che la poesia d ’amore sia letteratura che si nutre di altra lettera­ tura. Molti sono gli indizi che fanno pensare che le cose stiano davvero così, almeno fino a una certa data; ma gli intellettuali del tempo sembrano sostenere un punto di vi­ sta diverso: per loro l’opera è l’uomo. Oppure, ed è il rovescio dello stesso fenomeno, l’opera non è l’uomo, e questa mancata corrispondenza desta stu­ pore e scandalo: ne percepiamo gli echi nei corrispondenti di Cino da Pistoia. Non si arriva mai, in altri termini, a dire che la poesia è, nella sua essenza, finzione, ma si possono esprimere dubbi sulla verità dei sentimenti e delle parole di un singolo poeta. Con ciò evidentemente si precisa e rafforza il modello ermeneutico descritto qui sopra: mentire si può soltanto entro le coordinate di un sistema nel quale per ‘contratto di genere’ si è tenuti a dire la veri­ tà. In un contesto in cui tutti fingessero, in cui cioè l’io si annullasse sempre in un io ‘sociale’ privo di vera sostanza biografica, che senso avrebbe accusare o auto-accusarsi di essere un fenhedor, un simulatore di affetti in realtà non provati? Alcuni poeti possono riconoscere di aver afferma­ to il falso (è il caso di Guittone nei sonetti amorosi tràditi da L); altri debbono difendersi dal sospetto di ‘amare ad arte’; ma le menzogne parziali non fanno che confermare la verità del totale: è possibile mentire, dunque la lirica amorosa dev’essere, nella sua essenza di genere, veritiera.

6.2. D alla lirica come menzogna alla lirica come parziale verità: il ruolo della competenza tecnica, della musica e del contesto sociale H o specificato: fino a una certa data. Fino a una certa data, fino a un determinato momento del Medioevo l’idea che vi sia una totale alterità tra io biografico e io lirico, poesia ed esperienza, è probabilmente corretta, nonostan­ te le considerazioni in contrario degli autori e dei lettori

contemporanei. Non è solo questione di somiglianza for­ male e tematica tra i testi, o di imitazione-traduzione di testi altrui fatti circolare sotto il proprio nome, ma di un’i­ dea della lirica, delia sua natura e della sua funzione, pro­ fondamente diversa da quella che oggi riconosciamo co­ me nostra. Se in estrema sintesi vogliamo fissare i contor­ ni di quella idea di lirica, e vedere in che cosa essa si dif­ ferenziasse da quella odierna (a parte naturalmente la questione del rapporto tra io biografico e io poetico, su cui stiamo appunto cercando di fare luce qui), possiamo mettere in rilievo questi tre aspetti: che quella poesia era sentita da molti piuttosto come artigianato che come arte, dunque come una sfera nella quale la saggezza, cioè la cul­ tura e la conoscenza delle cose, e il mestiere, cioè la com­ petenza tecnica, contavano più dell’ispirazione; che chi scriveva poesia d’amore era fortemente influenzato dal contesto sociale nel quale viveva (di qui per esempio la possibilità che l’io lirico sia ‘figura’ di ogni amante della corte); che i versi erano accompagnati dalla musica, e quest’ultima poteva avere una posizione di grande rilie­ vo, essere il vero motore del coinvolgimento estetico in occasione di recite davanti ad un pubblico (quasi sempre, dunque, nella tradizione dei trovatori, talvolta - spesso, nel caso di determinati generi - in quella italiana). Tecnica, società, musica, queste determinazioni pote­ vano rappresentare altrettanti ostacoli all’effettivo rispec­ chiamento del soggetto nel testo, e altrettante remore alla sua sincerità. Quando finalmente la poesia dirà la verità? Quando non ci sarà discontinuità ma piena identificazio­ ne tra io biografico e io poetico? Quando - si potrà dun­ que rispondere - i poeti non verranno più ossequiati co­ me saggi, esperti di una disciplina così come gli avvocati lo sono del diritto o i soldati della guerra: quando cioè la poesia verrà considerata un’arte che non si impara. Quan­ do, in secondo luogo, il mandato sociale dei poeti d ’amo­ re si annullerà o diminuirà tanto da poter essere ritenuto accessorio. E quando infine musica e poesia prenderanno strade diverse, e il risultato estetico, la ‘bellezza’ della poesia, resterà affidato esclusivamente alle parole e al

contenuto del componimento. Ma appunto: quando, in quale epoca della letteratura romanza, ebbe luogo questo triplice affrancamento? La conquista da parte dell’artista di una personalità individuale e non sociale, il divorzio tra musica e poesia, l’idea dell’arte come ispirazione e senti­ mento e non o non solo come tecnica: ecco tre eventi, tre condizioni che ci appaiano strettamente legate - come cause o come effetti - al completo realizzarsi della 'sog­ gettività letteraria’, ma che proprio per questo è impor­ tante collocare nel tempo con la maggiore precisione pos­ sibile. Fino a quando, dunque, malgrado le sue assicura­ zioni in contrario, il poeta non parla di sé ? Questa domanda sottende un confronto con la nostra attuale concezione della lirica. Essa vuole che la lirica sia il genere in cui vi è perfetta omogeneità tra l’io empirico, che scrive il testo, e l’io lirico che lo interpreta, tra ciò che il poeta afferma e ciò che il poeta sente. In che senso e perché questa verità sentimentale sia diversa rispetto a quella della lirica scritta in Europa prima dell’età ro­ mantica è stato spiegato da Barthes: Se chiamo prosa un discorso minimo, il veicolo più economico del pensiero, e se chiamo a, b, c, certi attributi particolari del linguaggio, inutili ma decorativi, come il metro, la rima o il ri­ tuale delle immagini, tutta la superficie delle parole starà nella doppia equazione di Jourdain: Poesia = Prosa + a + b + c Prosa = Poesia - a - b - c Da cui risulta con evidenza che la Poesia è sempre differente dalla Prosa. Ma questa differenza non è di essenza bensì di quantità [..,]. La poesia classica era semplicemente sentita come una variazione ornamentale della Prosa, il frutto di un’arte (cioè di una tecnica), mai come un linguaggio diverso o come il pro­ dotto di una sensibilità particolare [...]. Si sa che niente resta di struttura nella poesia moderna, la poesia che parte, non Questa a Baudelaire, ma da Rimbaud [...]: i poeti fanno ormai della lo­ ro parola come una Natura chiusa, tale da abbracciare al tempo stesso la funzione e la struttura del linguaggio. Allora la Poesia

non è più una Prosa intessuta di ornamenti, o privata di libertà. È invece una qualità irriducibile17. La svolta della quale noi dobbiam o dare conto è tutta­ via, rispetto a questa descritta da Barthes, rispetto al pas­ saggio dalla poesia come ornamento alla poesia come lin­ guaggio autonomo, più radicale. Ciò di cui stiamo parlan­ do non sono infatti differenti modalità di rispecchiamento dell’io, cioè gradi diversi di verità della poesia, come quan­ do da uno stadio di minore sincerità, ancora obbediente alle regole di decorum imposte dalla tradizione, si venne, col romanticismo, a uno stadio di maggiore o di totale identità tra il vissuto e il pensato da un lato, lo scritto dal­ l’altro. Stiamo parlando invece di una transizione dalla to­ tale assenza di relazioni tra io biografico e io poetico (è il caso, per esempio, della canzone ai Folchetto di cui si apGiacomo da Lentini) ad una corrispondenza tra [>ropria e due istanze, ancorché parziale e imperfetta. Nel primo caso l’evoluzione è per così dire quantitativa, riguarda il grado di verità della poesia; nel secondo caso l’evoluzione è qualitativa: tra un testo in cui il soggetto che parla non è il poeta e un testo in cui il soggetto che parla - per quanto camuffato, per quanto la sua voce ci giunga filtra­ ta dai luoghi comuni - è il poeta. Tra questi due testi esi­ ste una differenza sostanziale che il nome di ‘lirica’, esteso a entrambi i domìni, non permette di cogliere con chia­ rezza. Ma la prima forma di lirica si avvicina al teatro, 17 Barthes, Il grado zero, pp. 31-32; questo passo è stato valorizzato e discusso da G. Mazzoni, Il posto d i Montale nella poesia moderna, in Montale e il canone poetico del Novecento, a cura di M.A. Grignani e R. Luperini, Roma-Bari, Laterza 1998, pp. 382-416: egli giustamente vede nel romanticismo i primi segni di quel mutamento d’essenza che Bar­ thes colloca invece all’altezza di Rimbaud: «È un processo che, come i concetti romantici di originalità e di genio, ha cambiato il modo in cui oggi viene letta la poesia premodema. A differenza di quanto ritiene Barthes, che lo fa risalire a Rimbaud, esso attraversa tutto il secolo: quando Wordsworth, nella prefazione alla seconda edizione delle Lyrical Ballads, protestava contro la poetic diction, era guidato dall’idea che il linguaggio della lirica dovesse essere, appunto, il prodotto di una sen­ sibilità particolare» (p. 392).

perché mette in scena personaggi ed eventi fittizi ed esem­ plari. La seconda si accosta invece, con le mediazioni di cui si è detto, all’autobiografia. Ora, circa la transizione dal primo al secondo ‘genere’ di lirica sono possibili due ipotesi. La prima, più prudente, è che si sia trattato di un processo graduale: a poco a poco, da «bella finzione» che era in origine, la lirica è diventata confessione e diario; un tempo semplici portavoce della tra­ dizione letteraria, i poeti hanno sempre più arricchito di di autobiografia la loro rappresentazione dell’io [>articelle irico sino a quando - e questa meta va appunto collocata nell’età romantica - nessuno schermo ha più separato l’au­ tore dalla sua proiezione poetica. La seconda ipotesi postu­ la una rivoluzione: in una determinata epoca della poesia romanza un determinato testo ha, semplicemente, mutato le regole del gioco introducendo un soggetto reale, storico, laddove la tradizione letteraria aveva posto un soggetto - se mi si passa il bisticcio - oggettivato, non un uomo ma una funzione sociale. La prima spiegazione ‘gradualista’ ha una sua tranquillizzante razionalità: la storia della letteratura non fa salti; se salto vi fosse stato, se cioè il passaggio tra l’uno e l’altro modo o sistema poetico fosse stato traumati­ co, improvviso perché determinato da un’invenzione dovu­ ta ad un singolo individuo, una frattura così importante do­ vrebbe risultare tanto chiaramente visibile da rendere inuti­ le tutta questa nostra ricerca: e invece, sembrerebbe, frattu­ re di questa portata non sembra di doverne registrare nel­ l’arco della lirica italiana medievale. Del resto, è perfetta­ mente logico pensare che la gestione ‘teatrale’ e impersona­ le del discorso amoroso abbia dato spazio in più di un’oc­ casione alla lirica come noi oggi la intendiamo, cioè alla ve­ ritiera espressione dei sentimenti del soggetto: spesso fu omaggio alla signora della corte, ancora più spesso fu sem­ plice esercizio di stile, senza oggetto, ma talvolta potè esse­ re autentico ‘canto per amore’ , vero, per dir così, in genera­ le, nella direzione dell’affetto se non nei dettagli18. Ripeto: 18 Così Scheludko, Über den Frauenkult, p. 38: «Come dobbiamo figurarci il rapporto tra queste poesie e le concrete esperienze del poe-

è ragionevole pensare che le cose siano andate così. Ma neppure la seconda ipotesi - quella secondo la quale alcuni testi avrebbero accelerato questa evoluzione - è priva di fondamento, perché ci sono buone ragioni per pensare che qualcosa di molto simile a una svolta nel modo di fare e di pensare la poesia lirica si sia prodotto negli anni dello stilnuovo, realizzandosi prima e più chiaramente che altrove nella Vita nova di Dante.

6.3. La svolta nell’età della «V ita nova» Che ne è, sullo scorcio del Duecento, di quelle che ho indicato come le principali remore alla scrittura di testi autenticamente soggettivi, rispecchianti la realtà e non i luoghi comuni della tradizione letteraria: il condiziona­ mento della musica, la risoluzione del lirico nel sociale e il concetto grammaticale e artigianale della poesia? È certo che il peso di questi tre fattori ci appare a quest’epoca di­ minuito tanto rispetto all’età dei trovatori quanto rispetto ai primi decenni della lirica italiana. Sulla musica, nessuna conclusione certa è possibile. Ciò che sembra di poter dire è tuttavia che il ‘divorzio tra musica e poesia’, anziché imporsi nella tradizione italiana sin dall’inizio, come carattere discriminante rispetto alle performances trobadoriche, si sia realizzato gradatamente oppure, in determinati generi come la ballata, non si sia realizzato m ai19. La Vita nova ha, in questo sviluppo, una ta? Si tratta solo di finzioni o si tratta di sentimenti reali, e di parole ri­ volte a una persona reale? In molti casi possiamo senz’altro concludere che le poesie non hanno nulla a che fare con la realtà: ciò risulta chiaro dal loro contenuto. Ma non dobbiamo generalizzare. Poiché i Minne­ sanger erano uomini come rutti gli altri, non è detto che le reali espe­ rienze amorose non entrassero mai nella composizione delle poesie d’a­ more. Al contario, è più che verosimile che al di sotto dei clicbés vi sia­ no spesso reali sospiri, reali nostalgie, reali sentimenti» (trad. mia). 19 Cfr. N. Pirrotta, Musica tra Medioevo e Rinascimento, Torino, E i­ naudi 1984, pp. 37-51; e Id., Poesia e musica e altri saggi, Firenze, La Nuova Italia 1994, pp. 1-21.

posizione del tutto peculiare. Perché quale che sia la rela­ zione tra la musica e la poesia alla fine del secolo, e quale che sia stata la relazione tra la musica e le liriche della Vi­ ta nova prima della loro immissione nel libro, la creazione del libro stesso introduce sotto questo aspetto un cambia­ mento essenziale. L e canzoni trobadoriche dovevano esse­ re musicate, la parola poetica non si poteva concepire se non accompagnata dal suono. I sonetti e le canzoni italia­ ne, anche quelle filosofiche come Amor che ne la mente, potevano essere musicate. Ma la reinvenzione del prosimetro - cioè il suo impiego nella lirica personale - ha tra le altre questa conseguenza: rende necessario un divorzio tra poesia e musica che era stato sino ad allora soltanto possibile o probabile. Per la prima volta nella tradizione romanza, componimenti lirici nei quali è rappresentata l’esperienza del soggetto non possono essere fruiti se non attraverso la lettura: l’esecuzione pubblica e l’ascolto - condizioni, ripeto, necessarie o possibili nella tradizione lirica precedente - sono qui esclusi per principio, per in­ compatibilità con le norme che regolano la struttura stes­ sa del genere. Se un correttivo alla monotonia della poesia formale poteva essere rappresentato dalla varietà dell’ac­ compagnamento musicale, questa possibilità viene meno, nella Vita nova , e il valore estetico dell’opera si giudica esclusivamente sulla base delle parole. Tale mutamento è tuttavia, a sua volta, conseguenza di un fatto strutturale di cui diremo distesamente più avanti (par. 12): la riunio­ ne in sequenza cronologicamente orientata dei pezzi lirici, il loro inserimento in una cornice prosastica. Quanto al secondo fattore. Era, quella dei trovatori, una G esellschaftslyrik ? L ’elemento soggettivo si annulla­ va, in essa, nel sociale? Ovvero, nei termini probabilmen­ te troppo categorici di Köhler, «la poesia medievale parla sempre a nome di una comunità e mai come individuo so­ ciale»?20 Benché, come abbiamo visto, nella poesia dei 20 E. Köhler, Vergleichende soziologische Betrachtungen zum roma­ nischen und zum deutschen Minnesang, citato in A. Rieger, La dialectique du réel et du poétique chez les troubadours. Les quatre 'protagonistes’

trovatori sia spesso presente la rivendicazione della verità dell’enunciato lirico, si conviene ormai che in essa l’io poetico sia soprattutto questo, un’istanza sociale, o più precisamente - se si accetta una tesi di Köhler che varrà verosimilmente solo in determinate epoche e in determi­ nati casi - il portaparola di un ceto. Sembra probabile che un ruolo analogo sia toccato anche ai lirici siciliani, e che i loro testi non siano stati concepiti come frammenti di un canzoniere personale bensì come i protocolli di una spe­ cie di galateo erotico ad uso della corte di Federico II. Quando per esempio leggiamo questi versi di Pier delle Vigne:

3

Uno piasente ¡sguardo coralmente m’ha feruto, und’eo d’amore sentomi infiammato;

10

Li occhi mei ci ’ncolparo, che volsero riguardare, ond’io n’ho riceputo male a torto, quand’elli s’avisaro cogli occhi suo’ micidari, 15 e quelli occhi m’hanno conquiso e morto (PD I, p. 123)

e li confrontiamc

1

;ioni usate da Piero nella

lettera d ’amore Huillard-Bréholles, una lettera in latino composta da ‘lasse’ prosastiche intercalate da esametri o pentametri, non possiamo concludere se non che entrambi sono esercizi retorici senza rapporto con la personale esperienza dello scrivente, ossia testi-mo­ dello in cui non si esprime un affetto ma piuttosto si inse­ gna il modo in cui esso può essere espresso21. de la ¡in amors, in «Revue des 1angue« romanes», LX XX V II 2 (1983), pp. 241-257, a p. 254 (trad. mia). 21 Cfr. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance, pp. 153-154 (per l’attribuzione) e 417-421. Sul ruolo degli occhi nell’innamoramento: «Cum enim oculi mei vestros quondam ocellos conspexerint et vestram faciem ad solis similitudinem rutilantem, confestim captus est animus intuentis et eximiore dilectionis vinculo catenatus»; sulle ferite: «Per vos diu passus sum vulnera, per vos cupio sentire fomenta. Manus quae

È possibile, infine, che un mandato paragonabile a questo abbiano ricevuto alcuni poeti della prima genera­ zione toscana gravitanti - come si può ricavare da vari in­ dizi - attorno a piccole corti regionali22. Ma nella Firenze 0 nella Pistoia di fine secolo non c’è alcun elemento che faccia pensare ad un patto di rappresentanza che leghi 1 poeti a determinate formazioni sociali, e men che meno a corti: al di qua, ovviamente, dell’esilio di Dante e di Cino. U n’esigenza di autonomia, un atteggiamento di sovra­ na indifferenza nei confronti di ogni condizionamento esterno contraddistingue anzi la poesia degli stilnovisti: ne deriva la ricerca di un pubblico eccellente non sotto il profilo del censo ma sotto il profilo intellettuale e morale. E dal momento che questo pubblico colto e gentile e mo­ ralmente irreprensibile si identifica spesso con la cerchia degli amici e dei colleghi poeti, l’interprete moderno si trova talvolta a dover decifrare un codice ristretto pieno di allusioni a circostanze e persone che gli sono ignote. È il caso, già illustrato, dei sonetti di corrispondenza nati in margine alla cattiva condotta di Cino; o è il caso di questo celebre sonetto dantesco:

dedit exitium, vulneris debet afierre levamen»; sulla morte per amore: «Pro te dulcissima morior [...]. Respice miserum tui quidem amoris de­ siderio morientem». D confronto tra il Pier delle Vigne poeta d’amore e il Pier delle Vigne retore è già in P. Dronke, La lirica d'amore in lati­ no nel secolo XIII, in Aspetti della letteratura latina nel secolo X III, Atti del primo Convegno intemazionale di studi dell’Amul, Firenze, La Nuova Italia 1986, pp. 29-56, alle pp. 53-54. Circa l’influenza della re­ torica epistolare sulla retorica lirica cfr. le testimonianze raccolte in Ruhe, De amasio, pp. 299-369. 22 Alcuni testi italiani del Duecento alludono infatti, o si indirizza­ no, a personaggi della nobiltà locale coi quali i poeti erano evidente­ mente in contatto, si tratti di contatti occasionali o di un rapporto di di­ pendenza analogo a quello che legava i trovatori ai signori provenzali: personaggi come il conte Guido Guerra, il conte di Santa Fiora, Corra­ do di Sterleto, Moroello Malaspina sono membri dell’aristocrazia.i qua­ li sicuramente - in quanto destinatari di testi - ebbero una parte nello svolgimento della poesia volgare del loro tempo.

4

8

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler nostro e mio, sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’1 disio.

Questa personalizzazione dell’esperienza amorosa o, con maggiore precisione, la sua proiezione su uno sfondo di relazioni tutte private, chiude i conti con l’io ‘sociale’ che - secondo l’ipotesi di Kòhler - era stato fulcro e ra­ gione della lirica sia nella tradizione galloromanza sia in quella siciliana. Tra il lettore e l’io lirico nessuna identifi­ cazione è più possibile perché il discorso assoluto dei tro­ vatori e dei siciliani si cala qui nella particolarità di una si­ tuazione individuale, in un circuito di allusioni nel quale il pubblico non deve poter penetrare: Guido t vorrei è sì un sogno letterario (anzi doppiamente letterario: perché ricava il suo motivo-guida dalle storie di Artù e perché la sua costruzione ottativa lo iscrive nella linea del plazer, o meglio del souhait italiano e provenzale); ma il vasello incantato è metafora di un reale desiderio di separatezza e di ritiro nella sfera privata: impensabili, l’uno e l’altro, nell’esperienza dei poeti di corte. Constatiamo così che il contenuto del testo si accorda perfettamente con la forma retorica prescelta dall’autore - il colloquio con un altro poeta - e con l’esoterismo dei riferimenti biografici (i no­ mi degli amici-colleghi e delle rispettive amanti). Se da questo che è dopotutto un caso-limite di rifugio nel particolare ci rivolgiamo alla maniera stilnovista nel suo complesso, possiamo vedere facilmente come vi sia un denominatore comune tra questa volontà di separatezza - qui non detta, ovattata nell’atmosfera da féerie - e il ten­ tativo, ripetuto ed esplicito, di selezionare i lettori estranei alla ‘scuola’ sulla base di un requisito etico. I congedi del­ le canzoni di Cino, Dante e Cavalcanti (ne ho citati alcuni supra, cap. I par. 6.1) sono appunto il luogo nel quale

questa selezione avviene nel m odo più chiaro, sono dispo­ sitivi tesi a rendere impossibile l’identificazione tra il let­ tore - qualsiasi lettore che non condivida realmente, bio­ graficamente, l’esperienza e i valori affermati nel testo - e l’io poetico. Vale la pena di riflettere su questa divari­ cazione, perché qui si rivela con particolare chiarezza il senso del passaggio dalla Gesellschaftslyrik al lirismo per­ sonale degli stilnovisti. Se infatti nel primo caso la poesia è il luogo di una mediazione simbolica in cui i valori della fin ’am or rappresentano, trasfigurandola, la coscienza di un ceto sociale, nello stilnuovo l’intesa con il pubblico si gioca sul piano dell’esistenza concreta: il contenuto dei te­ sti stilnovisti, quali che siano le mediazioni letterarie an­ cora presenti, corrisponde più intimamente al sentimento individuale. Tale realismo - e veniamo così al terzo fattore di cam­ biamento - determina un nuovo equilibrio tra il peso del­ la tradizione e quello dell’iniziativa personale. Non solo crescono di numero e si diversificano i motivi della lirica amorosa, ma il prestigio dei poeti cessa di essere valutato soltanto in proporzione alla loro saggezza, cioè alla cono­ scenza delle regole dell’arte, ed entra in gioco l’ispirazio­ ne. Così, all’immagine tipicamente medievale del poetaartefice, padrone della tecnica, si affianca quella più mo­ derna del poeta toccato dalla grazia. Se i trovatori e i tro­ vieri, per adempiere le convenzioni del genere, insisteva­ no sulla verità dei loro sentimenti e, per conseguenza, del­ la loro poesia, Cino e Dante rivendicano un primato non nell’ordine dell’esperienza ma in quello della creazione artistica; la loro eccellenza - essi scrivono - non è stata acquistata attraverso lo studio e l’applicazione delle rego­ le bensì grazie a quella particolare disposizione spirituale (qui rappresentata come diretta comunicazione col dio d ’Amore) che per il lettore moderno si definisce come ta­ lento o genio: E io a lui: « I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando».

Merzé di quel signor ch’è dentro meve, nessun non dótto che favelli ’n rima, e che ciò possa dir meo core stima, poi, quando ’1 sente, l’uomo intender deve ch’i’ son quel sol che sua vertù riceve, faccio ed acconcio tutto con sua lima, ed ogni motto con lui movo, prima ch’i’ ’1 porga fra le genti chiaro e breve” .

7. Il tu lirico La verità o la falsità della poesia hanno coinciso, sin qui, con la verità o la falsità dell’esperienza del soggetto. Non per dirimere la questione, ma per orientarci tra le due alternative abbiamo sottolineato l’importanza di alcu­ ni fattori contestuali: la distanza dal pubblico (minima nelle corti, massima nel contesto municipale), la presenza o l’assenza della musica, il contrasto tra disciplina e ispi­ razione. Abbiamo anche avanzato l’ipotesi che negli anni dello stilnuovo (e nella Vita nova in particolare) si sia veri­ ficata non certo la scomparsa delle convenzioni ma un lo­ ro ridimensionamento, e un progresso in fatto di sinceri­ tà. Ma dal momento che si tratta di poesia d ’amore, quel progresso, se vi fu veramente, dovette coinvolgere, oltre al soggetto che ama e scrive, anche l’oggetto del canto: la donna amata. La domanda circa l’identità e la verità del­ l’io ne implica così un’altra, speculare, circa il personag­ gio su cui nella lirica amorosa si orienta il messaggio: tu. 7.1. L a poesia deve parlare d ’amore Scrive Dante in un passo della Vita nova cui ho già avuto m odo di accennare (16.6): E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la ” Dante, Pg. XXTV 52-54; e Cino, 160.1-8.

quale era malagevole d’intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore. Queste parole sono insieme un giudizio sulle origini del­ la lirica romanza e un programma. Al giudizio è facile obbiettare che le cose non andarono probabilmente in maniera così semplice e che nella nascita della poesia volgare giocarono altre circostanze; e quanto al program ­ ma (parlare alle donne, e soltanto d’amore), è stato facile osservare (cap. Il par. 2.4) che il primo a contraddirlo fu proprio Dante con le canzoni morali composte dopo la Vita nova2*. Il passo citato ci fornisce tuttavia almeno due informazioni molto importanti, l’una di natura tema­ tica, l’altra di natura retorica. Quanto alla prima, indica­ re l’amore come unico possibile soggetto della poesia si­ gnifica prendere le distanze dal tentativo guittoniano di fondare un canone alternativo, fondato sulla religione e sulla parenesi (come abbiamo visto nel par. 3.1), quel tentativo è tematizzato in Ora parrà, dove Guittone attac­ ca un poeta colpevole di aver sostenuto precisamente ciò che sostiene anche Dante, che a valere è soltanto il canto d ’amore sincero. Ma la chiave delTantiguittonismo non spiega tutto. In realtà, sino allo stilnuovo, i poeti scrivo­ no sugli argomenti più vari, benché l’amore resti di soli­ to quello egemone: tutti i poeti, compresi i due che a buon diritto si possono considerare come i precorritori dello stilnuovo, Bonagiunta e Guinizzelli. In questo sen­ so, la frase «e questo è contra coloro che rimano...» vale meno come dichiarazione storiografica e militante (dato che non sceglie una linea all’interno della tradizione 2* Ed è notevole che, nel giudizio dei primi storici della poesia, il merito principale del Dante lirico stia precisamente nell’aver saputo parlare di altro che d'amore-, i predecessori di Dante - spiega Boccaccio nel Trattatello - non usavano la poesia come «strumento d’alcuna artifi­ ciosa materia, anzi solamente in leggerissime cose d’amore con essa s’e­ sercitavano. Costui mostrò con effetto con essa ogni altra materia po­ tersi trattare» (p. 458).

precedente ma implicitamente la mette tutta in discussio­ ne) che come convalida di ciò che a quella data Dante, Cavalcanti e Cino dovevano aver fatto: parlare prevalente­ mente d ’amore è di molti, anche se non di tutti; parlare solo d’amore, sulla base di un preciso giudizio estetico, non solo di un gusto, definisce la poetica degli stilnovisti. Le parole di Dante non alludono dunque soltanto alla querelle , tipica del Duecento, tra poeti-moralisti e poeti cortesi; al di là delle prese di posizione moralistiche o li­ bertine, al di là dunque di considerazioni di natura extraletteraria, esse pongono questa domanda: «qual è il tema giusto per la poesia volgare?». L ’argomentazione di cui Dante si serve per difendere la sua tesi sulla superiorità della lirica d’amore è di natura storica e retorica, vale a dire che egli osserva un elemento di tipo retorico-comunicativo con occhiali da storico e vi riconosce un carattere originario della tradizione lirica volgare: è opportuno - scrive Dante - comporre soltanto poesia d ’amore perché a questo tema fu consacrato il vol­ gare sin dai primordi, e fu consacrato a questo tema per­ ché i poeti non avevano altra intenzione, adoperandolo, se non quella di farsi comprendere da donne ignare di la­ tino. La sua ragione d ’uso è dunque meramente funziona­ le: cessata tale funzione (il parlare d ’amore a una donna) cessa anche la necessità di adoperare il volgare al posto del latino. Su questa doppia deduzione, che Contini ha giudicato «tutt’altro che risibile»25, dobbiamo riflettere adesso a nostra volta.

7.2. La lirica come discorso Quali sono innanzitutto, stando a questo brano, fine e funzione della lirica amorosa? Essa si definisce a partire da un tu e non da un io. Determinata, legittimata a nasce­ re da un’istanza comunicativa (farsi capire da una donna),

25 Contini, La poesia rusticale, p. 14.

la poesia lirica non si qualifica come confessione, medita­ zione solitaria, espressione di «alcunché di soggettivo»26, secondo il punto di vista moderno, ma come discorso-, un discorso che non a caso, come abbiamo visto nel secondo capitolo, può adottare le tecniche di persuasione e di cap­ ta lo tipiche del genere oratorio e di quello epistolare. Se questa definizione di lirica non ci soddisfa è perché igno­ ra quella che per noi (come per ogni estetica che abbia subito ed accolto l’influenza di Petrarca) ne è la ragione essenziale, cioè appunto la libera manifestazione del sog­ getto, al di fuori di ogni determinazione contestuale, e si tiene a quello che sempre ai nostri occhi è un carattere se­ condario e particolare dell’enunciazione poetica: la situa­ zione comunicativa in cui il soggetto simula di essere cala­ to, la presenza reale o fittizia, dall’altra parte del testo, di una lettrice. Ciononostante, tale definizione appare, sul piano do­ cumentario, ineccepibile. Quello di Giacomo da Lentini è il primo nome di poeta che emerga dalla tradizione sici­ liana; le sue canzoni aprono il canzoniere V; il suo corpus è l’unico, tra quelli dei rimatori del Regno, che permetta a noi oggi così come, probabilmente, ai toscani dell’ulti­ mo Duecento, di delineare un profilo d ’autore minima­ mente articolato. Se la situazione comunicativa attorno al­ la quale si organizza la lirica è e dev’essere, secondo D an­ te, il discorso diretto e senza mediazioni alla donna, il pri­ mo poeta che soddisfi a questa esigenza è anche il primo poeta italiano: « E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna». Delle quindici canzoni del Notaro soltanto tre adottano la strategia retorica che ho descritto (cfr. infra , par. 9.3) come introspettivo-narrativa (la forma del monologo senza ascoltatori); le altre si presentano co­ me prime battute di un dialogo, domande o preghiere a una donna alla quale è rivolto frontalmente il discorso: Madonna, dir vo voglio...

26 Fortini, Verso il valico, p. 171.

Ora, il colloquio con l’amata in absentia è una di quel­ le poche forme o macroforme retoriche che sembrano ap­ partenere alla poesia tout court, senza limiti di spazio e di tempo: il più ‘naturale’ dei modi d ’espressione lirica. La frequenza con cui questa strategia retorica viene impiega­ ta dal Notaro è tuttavia troppo alta - e, vedremo, troppo più alta di quella che si osserva nei poeti più tardi - per­ ché ci si possa accontentare di una spiegazione così vaga: se è normale che, come tanti prima e dopo di lui, anche il primo poeta della tradizione italiana abbia sfruttato quelì’effetto di sospensione che può suscitare un dialogo a una voce sola, una domanda rimasta senza risposta, me­ no normale deve apparirci il fatto che questo modulo al­ locutivo sia presente in tutte o quasi tutte le sue canzoni. Per spiegare perché il dialogo in absentia abbia qui una simile diffusione si possono avanzare alcune ipotesi.

7.3. Memoria della convenzione cortese La prima è che il contesto nel quale si sviluppò la pri­ ma lirica romanza abbia influenzato, oltre al contenuto, la stessa organizzazione retorica dei testi. Anche le canzoni dei trovatori si presentano molto spesso come allocuzioni a una donna. Se in questa figura vada riconosciuta la si­ gnora della corte o una donna diversa, realmente amata, o una pura astrazione, o se infine nello spazio del testo si succedano le due presenze, l’amata fittizia o reale e la de­ dicataria il cui nome è coperto da senhal21, tutto ciò è sì rilevante ma non cambia i termini della questione: la lirica non è una meditazione dell’io sopra U proprio amore bensì un discorso dell’io a un 'interlocutrice (l’amata, la dedicataria o entrambe) apostrofata come se fosse presen­ te. Con ciò - riferendoci ancora a quella scala di possibili­ tà i cui poli estremi sono l’autobiografia e la rappesentazione teatrale - la poesia si approssima al teatro, non ri­

21 Cfr. Scheludko, Uber den Frauenkult, p. 26.

flette o dice ma rappresenta, e questo è coerente con ciò che sappiamo circa il modo in cui la lirica dei trovatori giungeva al suo pubblico: come spettacolo non solo di pa­ role ma anche di gesti e musica. Anche quella di Giacom o da Lenóni è poesia di corte. Se nulla di certo possiamo dire intorno alla sua ricezione (se avvenisse solo per iscritto o anche oralmente, in lettu­ re pubbliche, e con o senza accompagnamento musicale), il legame con la tradizione dei trovatori è in ogni caso de­ terminante. Così, come si è accennato, è verosimile che anche per lui, e per i siciliani in generale, la lirica non sia il luogo della rappresentazione di un soggetto storicamen­ te dato ma una funzione sociale; che l’io che si esprime nel testo non parli, per così dire, a titolo personale, ma ri­ peta la convenzione dell’omaggio cortese: per cui quanto più vago, ripetitivo e tradizionale è il messaggio, tanto me­ glio esso si presta a dar voce a valori comuni che il lettore-ascoltatore può riconoscere come suoi. Stornare l’at­ tenzione dall 'io e concentrarla sul tu, ciò che comporta l’impiego di tipi discorsivi fissi come la preghiera, la lode, il ringraziamento: potrebbe essere questo il corollario re­ torico all’insincerità e all’angustia formale della lirica di corte. La nascita di una lirica davvero soggettiva e sincera e di un’espressione più variata e aderente alla realtà com­ porterà anche un progressivo ridimensionamento di que­ sta retorica orientata su un’amante immaginaria.

7.4. Farsi capire dalle donne Una seconda ipotesi, che non esclude la precedente ma la integra, è quella suggerita da Dante nella Vita nova-. l’uso del volgare deriva dalla necessità di far comprendere la poesia d ’amore alle donne. Per quanto si possa rimane­ re perplessi di fronte a una connessione tra forma e fun­ zione così poco mediata, questo giudizio riflette probabil­ mente condizioni culturali e linguistiche oggettive. S ’in­ tende che ogni forma di comunicazione artistica si rivol­ ge, in quest’epoca, a un’esigua minoranza. Le dimensioni

del pubblico si riducono ancora se consideriamo le forme artistiche mediate dalia parola, e diventano davvero mi­ nime se si tratta di parola scritta, entrando qui in gioco ii problema dell’alfabetismo e dell’istruzione scolastica. Non entro nel merito di una questione così complessa, e che non può essere affrontata da un unico punto di vista ma richiederebbe descrizioni parziali e analisi differenzia­ te nello spazio e nel tempo, tagli diacronici e diatopici, e mi limito a fissare tre punti essenziali per il nostro di­ scorso. In primo luogo, l’istruzione ufficiale, cioè l’insegna­ mento del latino e delle varie discipline che del latino si servivano come veicolo, era riservata ai maschi. Le donne, prive di un ruolo nella macchina dell’amministrazione cortese o comunale o nelle professioni, non frequentava­ no di solito la scuola: che la stragrande maggioranza di es­ se non conoscesse il latino, come suggerisce Dante, è cosa certa28. In secondo luogo, non sempre l’istruzione segue ed è proporzionale al prestigio, cioè non sempre un eleva­ to rango sociale si accompagna a una formazione cultura­ le più solida. Al contrario, non è raro che il leggere e lo scrivere, considerati arti meccaniche accessorie rispetto, per esempio, alla gestione delle cose militari o all’educa­ zione cavalleresca, vengano ‘delegati’ dai principi ai loro collaboratori: notai, epistolografi, segretari29. La percen­ 28 Non occorre dire che questo squilibrio tra uomini e donne per­ durerà, immutato nella sostanza, ben oltre il Medioevo, si può dire sino ai giorni nostri. Ne ¡1 rosso e il nero, Julien stupisce i commensali citan­ do a memoria, a partire da una frase scelta a caso da uno degli ospiti, lunghi brani del Vangelo in latino. Ma dopo aver osservato la reazione delle signore presenti s’interrompe: « J ’ai honte, en vérité, de parler à longtemps devant ces dames, dit-il [...]. Si M. Rubigneau, c’était le membre des deux académies, a la bonté de lire au hasard une phrase la­ tine, au lieu de répondre en suivant le texte latin, j’essaierai de la tra­ duire impromptu» (Le rouge et le noir, Paris, Flammarion 1964, p, 168). Dal che si deduce che anche nella Francia della restaurazione era giudicato sconveniente parlare o leggere in latino di fronte a donne che, evidentemente, non erano in grado di capirlo. 29 Cfr. le osservazioni di Grundmann citate n é ï In induzione, par.

2.3.

tuale delle persone colte, istruite in gram ática , cambia dunque ma non di molto se invece che alla popolazione presa nel suo complesso ci rivolgiamo agli alti ranghi della nobiltà. È molto probabile che in mezzo a quel pubblico cortese che immaginiamo assistere alle performances dei trovatori e dei giullari ben pochi fossero gli individui in grado di ascoltare, e men che meno dunque di leggere, te­ sti in una lingua diversa dal volgare natio. Ciò considera­ to, potremmo essere tentati di riscrivere il giudizio dante­ sco in termini più semplici ma più esatti: «il primo che iniziò a comporre in volgare lo fece per farsi comprendere da un pubblico - maschile e femminile - che non sapeva il latino»: non è questa precisamente la ragione indicata da tutti quegli intellettuali del Medioevo che, potendo servirsi sia del volgare sia del latino, optano per il primo per il desiderio di parlare a un uditorio più num eroso?50 Ma bisogna tener conto a questo punto di un altro elemento. Noi constatiamo infatti che agli albori della cul­ tura romanza, nei settori più disparati della comunicazio­ ne scritta, è spesso proprio alle donne che spetta il ruolo di consumatrici e destinatarie dei testi volgari. Michel Zink (L a p ré d ic a tio n , pp. 135-137) ha documentato per esempio come la gran parte dei sermoni in volgare duecenteschi provenga da ambienti cistercensi nei quali la presenza di beghi­ ne era particolarmente folta, e come per le religiose, ignoranti di latino, venisse tradotta, oltre ai sermoni, la stessa regola di San Benedetto. La situazione in area tedesca è analoga. Herbert Grundmann ha mostrato come durante l’XI e il XII secolo la traduzione o la creazione di L ie d e r sacri in volgare tedesco an­ dassero spesso incontro alla richiesta delle monache o delle donne appartenenti all’alta nobiltà: Al Salterio si aggiungono gli adattamenti del C a n tic o d e i C a n tic i c degli inni mariani [...]: se anche non sono composte da donne,

50 Cfr. G. Nencioni, Essenza del toscano, in D i scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Bologna, Zanichelli 1983, pp. 32-56, a p. 42; e supra, cap. I par. 1.3.

è da esse che queste opere sono preferibilmente usate e lette. Il cantico di San Trudperto (sec. XII) è stato scritto esplicitamen­ te per delle monache [...], e analogo è il caso degli inni mariani in tedesco del Prete Wemher (1172), dedicati a nobildonne e da esse copiati e divulgati. Inoltre, le poesie di Wernher del Basso Reno e quelle del cosiddetto Wilde Mann [il poeta tede­ sco Alexander der Wilde, sec. XIII] ci sono note solo attraverso un manoscritto allestito ad uso di una donna**. Un fenomeno analogo si verifica più tardi, nel XIII e nel XIV secolo, per le omelie e per gli scritti di mistica (pp. 151-156). Anche in questo caso l’uso del volgare non si deve - secondo Grundmann - né all’influenza delle sette ereticali né a quella dei nuovi ordini minori bensì appunto alla più larga partecipa­ zione delle donne alla vita religiosa, ai bisogni delle monache. Sia per esempio il caso del mistico tedesco David von Augsburg: «anch’egli predicò in tedesco, ma probabilmente scrisse solo in latino; solo in un secondo tempo i suoi trattati vennero tradotti in tedesco [...], e, così tradotti, oggi li leggiamo in ma­ noscritti appartenuti quasi sempre a conventi di monache» (p. 155). E vi erano del resto, accanto alle traduzioni e alla produ­ zione di carattere religioso, anche scritti morali composti speci­ ficamente ad uso del pubblico femminile la ic o : non l’uditorio indistinto delle monache che partecipano alle funzioni religiose ma un pubblico di vere lettrici, il pubblico della canzone X L IX di Guittone e della stessa D o g lia m i re ca di Dante.

L ’impiego del volgare per la trasmissione del sapere soddisfa dunque realmente a un’esigenza soprattutto fem­ minile, e la ragione di ciò è evidente. G li uomini, quel ri­ stretto numero di laici e, soprattutto, di chierici interessati alla comunicazione della cultura, cioè alla lettura e all’a­ scolto e alla produzione di testi, conoscevano il latino per averlo appreso sui banchi di scuola o in convento. Priva in genere di una regolare istruzione scolastica, la maggior parte delle donne può partecipare alla vita culturale attra­ verso l’unica lingua alla sua portata, il volgare materno 3132„ 31 Grundmann, Die Frauen, pp. 137-138 (trad. mia). 32 Cfr. Salimbene (citato da Grundmann, Die Frauen, p. 135, nota 13): «Legisti sicut una mulier legit psalterium, que quando est in fine

Si spiega perciò la raccomandazione della badessa, in questo brano tratto da un ‘romanzo’ scritto negli stessi anni della Vita nova, la Blanquerna di Raimondo Lullo: « L ’endemain l’abeesse manda chapitre et establi que toutes les dames filassent en .1. leu et que l’une leust aucun livre qui fust en romanz porce que les dames le peiissent entendre»,5. Se questo fu in sintesi il ruolo delle donne nello svilup­ po di una comunicazione colta in volgare, il discorso da fare per quanto riguarda la sfera della letteratura laica è distinto ma s’inserisce perfettamente in questo quadro e porta a conclusioni analoghe. Perché in questo campo così ampio, all’accesso di un nuovo pubblico femminile intellettualmente vivo e curioso ma ignaro di latino seguì una risposta da parte degli autori: vale a dire che le donne ci appaiono insieme come prime destinatarie e come com­ mittenti di letteratura in volgare. Chrétien de Troyes scri­ ve lo Cbevalier de la Charrette su mandato di Maria di Champagne; Benoit de Sainte-Maure dedica il Roman de Troie alla madre di Maria, Eleonora d ’Aquitania; e in ge­ nerale è noto come entrambe abbiano avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo della letteratura del loro tem­ po: alla corte di Eleonora, nipote di Guglielmo IX , sog­ giornano Bem art de Ventadorn e altri trovatori, alla corte di Maria Andrea Cappellano scrive il breviario dell’etica cortese, il De am oreu. Ma il fenomeno non riguarda sol­ tanto la grande nobiltà. Molti altri esempi, tratti sia dalla tradizione tedesca sia da quella francese, cita Grundmann, ignorat et non recordatur quid legerit in principio; sic multi sunt legentes et non intelligentes»: il latino delle donne era appunto per lo più quello elementare del salterio. Nei ranghi più alti della nobiltà, le don­ ne potevano certamente arrivare a una conoscenza più profonda, a leg­ gere e - più di rado - a scrivere correttamente: di qui le dediche a don­ ne di poesie e di trattati in latino (cfr. Grundmann, ibidem, pp. 134135). Ma sono eccezioni. ,5 R. Lulle, Livre d'Evasi et de Blanqueme, texte établi et présente par A. Llinarès, Paris, Puf 1970, p. 96. u Su questo patronage anche e soprattutto femminile cfr. Meneghetti, Il pubblico, pp. 42-48 e 146.

e conclude: «T ra i laici, in effetti, sono quasi solo le don­ ne a saper leggere e scrivere e a fare di queste capacità un uso non solo pratico ma anche artistico; sono le donne che hanno il tempo e il gusto necessari per apprezzare le opere letterarie» (p. 148, trad. mia). Conclusione che può, in sostanza, ritenersi valida anche per la tradizione in lin­ gua d ’oc, vista la frequenza con cui i trovatori si rivolgono alle dame di corte o vi alludono attraverso senhal. Nell’I­ talia centrale, soprattutto nel Duecento, l’influenza delle corti non è determinante. Ciononostante, neppure qui mancano esempi di dedica a e di committenza da parte di donne. Sotto questa luce, dunque, le parole di Dante ci appaiono davvero «tu tt’altro che risibili»: l’invenzione della poesia volgare potè essere motivata anche dalla vo­ lontà di facilitare la comprensione delle donne perché in realtà fu il volgare tutto ad essere spesso usato al loro ser­ vizio, affinché capissero,5. 7.5. L ’amore come tema specificamente fem m inile Nel brano su cui ci stiamo concentrando, Dante mette in relazione tre termini: le donne, l’amore, il volgare. Le spiegazioni che abbiamo proposto sin qui mettono l’ac­ cento rispettivamente sul primo e sul secondo: da un lato la concreta presenza, di fronte al poeta, della dama di cor,5 Altri dati in McCash, The Cultural Patronage, e in F. Bruni, Figu­ re della committenza e del rapporto autori-pubblico: aspetti della comuni­ cazione nel basso Medio Evo, in Patronage and Public in thè Trecento, a cura di V. Moleta, Firenze, Olschki 1986, pp. 105-124. È dunque vero quello che Dionisotti osserva a proposito della dedica alle donne dell’Arcadia di Sannazaro, che si tratta di un luogo comune della letteratu­ ra romanza, non di un atto attraverso il quale l'autore identifica il suo pubblico: cfr. C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, in GSLI, 140 (1963), pp. 161-211, a p. 176. Ma ciò non significa che questo fon­ damento nella prassi fosse assente anche nei tempi più antichi, quando le condizioni della ricezione erano diverse: vale a dire che il motivo di­ venta, a forza di essere ripetuto, un luogo comune, ma può rispecchia­ re, all'epoca della sua nascita e della sua prima diffusione, una condi­ zione reale, un reale aspetto del rapporto tra autore e pubblico.

te, o il suo ricordo, depositatosi nella forma retorica; dal­ l’altro l’uso e la destinazione del volgare nella comunica­ zione scritta e nell’arte del Medioevo. D obbiam o ora con­ centrarci di nuovo sul termine medio che collega, secon­ do il parere di Dante, le donne e 0 volgare: l’amore. Parlando della canzone Donna me prega di G uido C a­ valcanti ci siamo posti tra l’altro il problema di chi fosse la donna che chiede a Cavalcanti che cosa sia l’amore. Abbiamo visto che un codice cinquecentesco collega la canzone cavalcantiana a un sonetto di G uido Orlandi: quella risponderebbe alle domande sulla natura d ’amore poste da questo. Non è possibile dire con certezza se que­ sto collegamento è corretto o se i due testi sono indipen­ denti l’uno dall’altro, ma è interessante osservare ora che il motivo del ‘trattato d ’amore’ scritto e inviato a una don­ na - motivo di cui abbiamo potuto verificare la larga dif­ fusione nel Duecento - venne ripreso dal più fedele imita­ tore di Cavalcanti, il trevigiano Nicolò de’ Rossi. Non nel­ la canzone Color di perla, che ripete metro e forma di Donna me prega, ma nel sonetto 136:

4

8

Madonna mi domanda, et a mi pla$e responder segondo ’1 mio intellecto: Amore è uno accidente che fa$e en suo simil ultra modo affecto; nasce dag ogli cum sensibel pa$e, nutrise en core, non cum’ en subieto; posa, dove reminesencia iage, quasi per spera cerne ’1 suo obieto.

Due le cose da osservare: che Nicolò riprende chiaramen­ te l’esordio e il tema di Donna me prega ma dà alla donna amata, madonna, il ruolo che Cavalcanti aveva dato a una donna qualsiasi; e che, imitando Donna me prega, Nicolò dimostra di interpretarla come un testo realmente indiriz­ zato a una donna: è possibile (non probabile) che Caval­ canti finga di rivolgersi a una donna e parli in realtà a Guido Orlandi, ma Nicolò de’ Rossi ignora questa cir­ costanza, oppure non ne tiene conto. Lo stesso possiamo

fare noi: né Donna me prega né M adonna m i domanda hanno bisogno di occasioni esterne che ne giustifichino la forma retorica, perché essa è giustificata a sufficienza dal tema. Poiché nella tradizione romanza l’amore è un argo­ mento tipicamente femminile, i poeti non solo parlano di una donna - descrivendola e lodandola - ma si rivolgono anche direttamente ad una donna: abbiamo appena visto con quanta frequenza ciò avvenga in Giacom o da Lentini. Ora, l’orientamento del discorso sull’oggetto del senti­ mento piuttosto che sul soggetto differenzia la poesia ero­ tica medievale sia rispetto alla lirica classica36 sia rispetto alla lirica moderna, e in questo nuovo ruolo di protagoni­ sta attribuito alla donna si può dire risieda l’essenza stessa della ‘cortesia’. I testi di Cavalcanti e di Nicolò de’ Rossi che ho citato - così come la canzone Donne ch’avete di Dante - dimostrano che le donne potevano essere anche allieve e confidenti, cioè esperte in materia di teoria dell’a­ more (o aspiranti tali). Si tratta però di eccezioni: perché il ruolo delle donne nella lirica cortese è, generalmente, passivo: esse ricevono la lode o la preghiera, e stanno per­ ciò su un piano diverso, più alto, rispetto a quello di colui che loda e prega; e perché non è di teoria che si parla di solito ma dei concreti rapporti tra l’amante e l’amata. D obbiam o dunque considerare il giudizio di Dante intor­ no alla poesia volgare che parla o dovrebbe parlare alle donne cía una nuova prospettiva, e chiederci se questo le­ game tra l’amore come tema e la forma retorica dell’apo­ strofe alla donna non abbia un fondamento nella prassi, nella vita reale prima che nella letteratura.

36 Dato che anche negli elegiaci latini il colloquio è per lo più con gli amici letterati, o comunque con una pluralità di interlocutori tra i quali c’è, ma non in posizione eminente, la donna: cfr. A. La Penna, L ’integrazione difficile. Un profilo d i Properzio, Torino, Einaudi 1977, pp. 63-64.

8. Retorica lirica e retorica della comunicazione quotidiana È stato osservato che il ‘colloquio con l’assente’ nella lirica amorosa imita, cioè trapianta in un contesto profano la retorica della preghiera: il fedele (l’innamorato) parla al suo dio (la donna am ata)37. È un paragone pertinente, ma che rimane estrinseco fino a quando non si scenda sul piano concreto e si constati come storicamente il discorso in versi alla donna abbia preso a prestito dalla retorica sa­ cra strutture discorsive e termini caratterizzanti (per esempio quelli relativi all’elogio e alla descrizione delle qualità fisiche e morali). Ciò appare con chiarezza per esempio nel sonetto di Rinuccino Gentil Donzella , dove l’enumerazione delle virtù della donna ricalca lo schema appositivo che è tipico della preghiera, e dove la struttura retorica adotta quello che Norden ha definito il Du-Stil della predicazione, ossia la ripetizione anaforica di tu (qui di voi) 38:

4

Gentil Donzella, di pregio nomata, degna di laude e di tutto onore, ché par de voi non fu ancora nata né sì Compiuta de tutto valore, >are che 'n voi dimori onne fiata a deità de l’alto deo d’amore; de tutto compimento siete ornata e d ’adornezze e di tutto bellore: ché ’1 vostro viso dà sì gran lumera che non è donna ch’aggia in sé beltate

f

8

37 Cfr. E. Gans, Naissance du Moi lyrique. Du féminin au masculin, in «Poétique», 46 (1981), pp. 129-139. 38 Citato da E. Auerbach, La preghiera di Dante alla Vergine (Par. XXXIII) ed antecedenti elogi, in Studi su Dante, Milano, Feltrinelli 1988, pp. 273-308, a p. 273. Sui contatti fra la retorica della lirica profa­ na e quella della poesia sacra cfr. P. Dronke, Amour sacré et amour pro­ fane au Moyen Âge latin: témoignages lyriques et dramatiques, in Source o f Inspiration, Roma, Ed. di Storia e Letteratura 1997, pp. 375-395. Per l’attribuzione di Gentil Donzella a Rinuccino, cfr. Carrai in Rinuccino, 1 sonetti, pp. 118-124 (da cui cito).

11 ch’a voi davante non s ’ascuri in cera; per voi tutte bellezze so ’ afinate, e ciascun fior fiorisce in sua m anera lo giorno quando voi vi dim ostrate.

Quello che sussiste tra questa invocazione all’amata e qualsiasi formula dossologica (per esempio: «Vergine madre, figlia del tuo figlio») è un legame di natura pura­ mente linguistica. La poesia prende a prestito dalla realtà extraletteraria un modello di discorso (e qui più esatta­ mente da una diversa situazione comunicativa: quella del­ la preghiera), ma è chiaro che la funzione e lo scopo dei due generi sono diversi, così come diversi sono i rispettivi destinatari. La retorica sacra deve perciò essere conside­ rata come una fonte di ispirazione per ciò che è del lin­ guaggio, ma non è qui che bisogna cercare il fondamento nella prassi di quella particolare struttura della lirica che è l’invocazione alla donna amata. La strada giusta è invece quella indicata da Giovanni Nencioni nel saggio Antropologia poetica ? (in «Strumenti critici», 19, pp. 243-258). Osserva Nencioni come il con­ centrarsi dell’analisi letteraria sullo stile dei testi e sulle funzioni semiotiche (il saggio è del 1972) abbia fatto sì che rimanesse in ombra il legame che sussiste tra «le for­ me del codice poetico» e le «form e della comunicazione sociale» (pp. 256-257). Egli propone perciò di affidare al­ la semiotica il compito di ristabilire il perduto nesso tra significanti e significati concentrando l’attenzione su quel­ le strutture sintattiche complesse, definite forme «iperlinguistiche o antropologiche» (p. 249), le quali, ‘declassate’ ormai a semplici formule fisse, vive soltanto nel codice poetico, recano in sé memoria della loro antica funzione pragmatica e sociale. Distinto da una linguistica disattenta ai problemi della comunicazione’9, distinto da quella se­ miotica del racconto (Propp) che risolve il problema della 59 59 «Si deve però far carico alla linguistica di [...] non aver posto al centro dei modelli teorici dell’atto linguistico la comunicazione come tale, ossia la ragione sociale di ogni messaggio» (p. 244).

forma del contenuto in una trama di strutture e di fun­ zioni astratte ignorandone la concreta realizzazione lin­ guistica‘l0, distinto infine da quelle discipline che fanno della sostanza del contenuto dei testi il loro unico oggetto d ’indagine, scavalcando in tal modo ogni mediazione for­ male, l’approccio proposto da Nencioni getta un ponte tra funzione poetica e funzione comunicativa, testo e real­ tà, invitando a ritrovare, nelle strutture della poesia, la traccia delle «strutture linguistiche e antropologiche» (p. 257) che le hanno prodotte. L ’esempio del quale egli si serve per chiarire il suo pensiero è particolarmente inte­ ressante per noi perché si tratta appunto del ‘dialogo con l’assente’. Che cosa c’è di più ‘artistico’, di meno sociale di que­ sta forma discorsiva? «C osì frequente e così [...] naturale nella poesia anche moderna», scrive Nencioni, essa non ha alcun ruolo nella realtà quotidiana, perché non è un atto di comunicazione previsto dal sistema del­ la lingua parlata, non è un atto costitutivo di rapporto sociale. Ben sappiamo che la norma linguistica non consente di emette­ re un messaggio, cioè avviare un discorso, gratuitamente: un at­ to segnico coinvolge uno o più destinatari e quindi impegna an­ zitutto la responsabilità dell’emittente (p. 253).

E tuttavia vi sono, a guardare meglio, speciali situazioni «non fittizie, cioè poetiche, ma reali, sociali», nelle quali il colloquio con l’assente è ammesso: «la lamentazione fune­ bre, quelle iscrizioni sepolcrali in cui si attarda l’uso dell 'alloqui cinerem , e la pregherà pubblica e privata» (p. 253). Del dialogo col defunto, in particolare, vi sono in poesia esempi celebri: «basta pensare al saluto fraterno di Catullo, a Leopardi che interroga Silvia, a Montale che ‘,0 «L e ‘funzioni’ del racconto (se con esse si vuole identificare la ‘struttura’, espondendosi al pericolo di abbandonare quasi totalmente la forma o di renderla accessoria e marginale) non sono definibili indi­ pendentemente dal modo in cui vengono significate, cioè sono quello che sono soltanto nella pienezza della loro estrinsecazione segnica» (pp.

247-248).

parla al padre, alla madre, alla moglie defunti» (pp. 254255). Il genere del discorso non letterario ma ‘sociale’ a cui questi testi vanno avvicinati è - osserva Nencioni - il rito negromantico. Si prendano i due colloqui che si inter­ secano in A Silvia, quello con Silvia e quello con la Spe­ ranza: « l’evocazione dei morti, prima di divenire un gene­ re poetico, fu un rito arcaico, un atto di effettiva ricono­ sciuta comunicazione con l’aldilà» (p. 255). Non so se sia davvero il rito negromantico la matrice di questa lirica mortuaria in cui il poeta parla al defunto come se fosse presente, o se non sia meglio pensare alla forma più consueta, e tuttora viva, del compianto fune­ bre: la conclusione tuttavia non cambia, dal momento che in entrambi i casi è postulata una derivazione della poesia da occasioni e forme «offerte dalla vita». Se questo lega­ me è diventato, col tempo, tanto evanescente da poter es­ sere a malapena colto si pensi allora al ‘genere’ poetico opposto a quello considerato da Nencioni, genere del quale nel primo capitolo ho fornito alcuni esempi: il col­ loquio del morto col vivo in cui le parti si invertono ed è il morto che emette il messaggio in absentia, il vivo che lo riceve. Qui, a differenza del caso precedente, il rappor­ to con la sfera della comunicazione sociale è tanto eviden­ te da non aver bisogno di essere sottolineato: e infatti questi testi ci appaiono - e sono di fatto - non altro che la trascrizione in versi di iscrizioni funerarie. Ecco dunque un esempio lampante di genere letterario modellato su una forma «offerta dalla vita». Va però osservato, a que­ sto punto, che sia nei casi citati da Nencioni sia in quello appena ricordato la ‘fonte’ del dialogo (poetico) con l’as­ sente è sì trovata nell’ambito della comunicazione sociale, non però di una comunicazione che si possa considerare poiché tanto la preghiera rivolta a Dio quanto Quotidiana: compianto funebre, tanto revocazione negromantica quanto il monito che il morto rivolge al vivo sono forme del discorso altamente formalizzate, che non vengono im­ piegate nella comunicazione corrente ma soltanto in cir­ costanze speciali, e sono insomma esercizi retorici che non appartengono alla letteratura artistica ma confinano

con essa, tanto che non sarebbe del tutto scorretto parlare di forme o generi paraletterari progressivamente assorbiti e ‘promossi’ nella sfera dell’arte. Ora, questo radicamento nella vita concreta, e in una situazione comunicativa che può definirsi non eccezionale se non davvero ordinaria, appartiene invece alla lirica d’a­ more, ovvero al colloquio con l’amante che in questo ge­ nere veniva messo in scena dai poeti del Medioevo. Vi è qui infatti la memoria di una «form a di comunicazione sociale» molto più elementare e comune di quella cui ab­ biamo accennato sinora: il corteggiamento. Rileggiamo le parole di Brunetto Latini nella Retorica: Cosie usatamente adviene che due persone si tramettono lettere l’uno all’altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o inn altro, nelle quali contendono d’alcuna cosa, e così fanno tendo­ ne. Altressì uno amante chiamando merzé alla sua donna dice parole e ragioni molte, et ella si difende in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce quelle del pregatore [...]. Dunque è una tencione tacita intra loro, e così sono quasi tutte le lettere e canzoni d’amore in modo di tencione o tacita o espressa (76.14).

La poesia d ’amore ha, vista secondo questa prospettiva, uno scopo esclusivamente pratico, che la eguaglia appun­ to al rituale del corteggiamento: persuadere la donna amata. Nella lirica aulica soprattutto ai suoi inizi, nella poesia popolare o popolareggiante sempre, persino nelle canzoni odierne, il dialogo in absentia è la struttura retori­ ca che media questa intenzione: si parla direttamente alla donna perché ciò che interessa non è chiarire a se stessi o ai lettori la natura dei propri sentimenti bensì convince­ re l’amata del proprio amore, e suscitarlo in lei. E se nel­ l’apostrofe e nel discorso rivolti direttamente al defunto ravvisavamo un residuo letterario, un approssimarsi della «comunicazione sociale» (che al suo grado zero non con­ sente che si parli a un assente) alla comunicazione artisti­ ca (che ammette invece questa possibilità), ciò non accade nel caso della lirica amorosa rivolta ad un tu perché essa

non riprende dalla realtà un modello di comunicazione ri­ tuale bensì imita un tipo di discorso che ha radici nell’e­ sperienza quotidiana, nelle normali circostanze della vita: il colloquio con la donna amata è in absentia nella poesia, in praesentia nella realtà. 9. A chi parla la poesia d’amore 9.1. La direzione del messaggio poetico Il diverso orientamento del discorso poetico, sulla donna o sull’io, definisce due diverse funzioni della poe­ sia. La lirica quale noi oggi la intendiamo è introspezione, ripiegamento del soggetto su se stesso, sentimenti e pen­ siero tradotti in parole senza però destinatari e senza pub­ blico. La poesia d ’amore come discorso a una destinata­ ria, così come privilegia una diversa funzione del linguag­ gio, quella conativa rispetto a quella emotiva, allo stesso modo mira a un altro scopo e svolge un altro contenuto, impostato su una retorica distinta: mette cioè la retorica della perorazione al posto di quella - meno rigida - del­ l’analisi. E d è dunque proprio sulla retorica che dobbia­ mo concentrarci nuovamente per vedere come evolve, nel corso del Medioevo, quella macrofigura che è la direzione del messaggio poetico, e se e come muta l’equilibrio tra i due modi della lirica amorosa che abbiamo individuato: l’introspezione e il discorso. Nella tabella (pp. 416-417) raccoglierò alcuni dati percentuali relativi alle rime di au­ tori vissuti nell’arco di tempo che rappresenta il nostro campo d ’indagine, il periodo compreso tra gli esordi della lirica italiana e il petrarchismo, con l’aggiunta di qualche esempio più tardo, di primo Cinquecento, per vedere co­ me vanno le cose fra gli imitatori ‘ortodossi’ di Petrarca. Tali dati riguardano la strategia discorsiva adottata nei te­ sti amorosi: a che cosa o a chi il poeta indirizza il proprio discorso. Le categorie adoperate per raggrupparli e distin­ guerli rinviano ciascuna a uno dei destinatari - reali o fit­ tizi, singolari o collettivi - cui il poeta ha potuto rivolger­

si. Tutte tranne una, la categoria dei testi introspettivonarrativi: testi nei quali, come ho detto, l’autore descrive o ricorda la sua vicenda sentimentale ma lo fa senza rivol­ gersi a un interlocutore particolare. Si tratta di una suddi­ visione molto sommaria, che è tuttavia sufficiente al no­ stro scopo, e da cui potremo prendere spunto per alcune ulteriori osservazioni sulla retorica lirica nel Medioevo. Dalla statistica restano esclusi naturalmente i testi mo­ rali o religiosi, politici ecc. Si considerano, in altre parole, soltanto le poesie di soggetto amoroso; anche alTintemo di questa famiglia, tuttavia, è stato necessario distinguere. Non ho tenuto conto dei testi teorici sull’amore, cioè di quei testi che definiscono la natura dell’amore, o difendo­ no, o al contrario avversano l’amore cortese: ‘genere’ dif­ fuso soprattutto nel Duecento, ma che sporadicamente riaffiora anche nei secoli successivi; né ho tenuto conto dei testi di donna, non rari, di nuovo, specie nel Duecen­ to, e delle tenzoni fittizie, su cui ci siamo soffermati nel secondo capitolo. Per quanto è possibile, inoltre (dove vi sia cioè la chiara testimonianza di una rubrica), ho anche cercato di tenere fuori dal computo generale i testi amo­ rosi scritti su commissione, pratica diffusissima soprattut­ to nell’età della lirica cortigiana. Qui il fatto che il poeta non parli della sua personale esperienza ma esprima i sen­ timenti di un committente, e che il testo sia in genere un omaggio alla donna che quest’ultimo (e non l’autore) ama, ha un’ovvia influenza sulla forma retorica: si tratta quasi sempre di poesie che si rivolgono direttamente ad un tu (come potrebbe infatti l’autore ricordare, oppure meditare su un amore che non è il suo?) e integrarle nel corpus avrebbe falsato i dati. Quella che c’interessa appro­ fondire è, per così dire, la libera retorica degli autori e non quella indotta da una circostanza esterna qual è ap­ punto la committenza: il che ha portato sia a una screma­ tura all’interno del corpus di ciascun autore sia alla totale esclusione di poeti specializzati nella scrittura di liriche amorose su commissione, e che insomma parlano più spesso per gli altri che per sé (per esempio Benedetto Biffoli o Angelo Galli).

Una distinzione analoga sarebbe stato bene fare in re­ lazione al metro: sia perché la gestione della forma retori­ ca nei due generi maggiori, la canzone e il sonetto, è spes­ so diversa, anche all’interno del corpus di uno stesso auto­ re; sia perché in generi come la ballata o il madrigale - ge­ neri più strettamente legati al codice tradizionale, meno aperti alla soggettività - la forma retorica adottata è per lo più la diretta allocuzione alla donna. Tenere conto di que­ ste variazioni avrebbe tuttavia comportato un’eccessiva dispersione dei dati, e ne avrebbe reso ancora più ardua l’interpretazione, e meno visibile l’evoluzione in diacro­ nia: vi sono senz’altro relazioni significative tra retorica e metro, ma metterle in evidenza e studiarle non è lo sco­ po principale della nostra ricerca. Ci accontenteremo per­ ciò di qualche rapido cenno circa l’opera di alcuni autori in cui l’influenza del metro sulla direzione del discorso poetico si manifesta in maniera particolarmente evidente e significativa, e ci limiteremo ad escludere dalla statistica quei poeti specializzati in un’unico genere metrico ‘mino­ re’, per esempio Lapo Gianni o Gianni Alfani, dei quali restano quasi esclusivamente ballate. Dei casi, infine, in cui il poeta parla a un altro poeta, cioè delle rime di corriondenza, abbiamo discusso a lungo nei capitoli prece­ S nti: esse sono sovente d ’argomento amoroso ma appar­ tengono raramente al registro lirico, che è quello sul quale ci stiamo concentrando ora, presentandosi più spesso sot­ to forma di quesiti teorici, richieste di consiglio ecc. (della possibilità che un testo lirico, privo di segnali missivi, ven­ ga tuttavia inviato a un corrispondente ‘per conoscenza’, ho accennato nel cap. II par. 7.4). Si consideri ora la tabella 1 (pp. 416-417). 9.2. D estinatari ‘minori’ Innanzitutto, qualche rapida osservazione sulle cate­ gorie ‘minori’, prima di dire delle due principali, che da sole si spartiscono la grande maggioranza dei testi. Rivol­ gere direttamente la parola ad Amore è l’unico atteggia­

mento retorico senza tempo, l’unico equamente diffuso durante tutto il periodo qui considerato, dalle origini al Rinascimento. G li stilnovisti e Petrarca adottano spesso questa finzione, e ciò dovette contribuire al suo successo e alla sua lunga durata: le rime di un poeta ideologica­ mente vicino tanto agli uni quanto all’altro, Cino Rinuccini, sono per più di metà delle allocuzioni ad Amore. La ti­ pologia è ovviamente molto varia: si va dall’invocazione isolata, all’inizio o alla fine di un componimento che per il resto è tutto centrato sull’analisi dei sentimenti o sul ri­ cordo, al monologo incalzante centrato invece effettiva­ mente sul dio d ’Amore, sui suoi pregi e difetti (ovvero, sui pregi e difetti del sentimento che il dio simboleggia). In quest’ultimo caso, l’invocazione ad Amore può essere adoperata come elemento strutturante: nella canzone Amor, non ho podere di Guittone, per esempio, essa apre ciascuna delle sei stanze; nella canzone Ai, Deo merzé di Monte Andrea (e potrebbe trattarsi di una sorta di rinca­ ro sul modello guittoniano), apre sia la fronte sia (salvo che in un caso) la sirma di ciascuna stanza. Una periodizzazione è invece possibile e opportuna per tutte le altre categorie. L o stilnuovo significa anche, se non proprio l’invenzione, l’acquisizione definitiva e ideo­ logicamente motivata di nuovi destinatari della poesia. Guittone (una volta) e Chiaro (due) rivolgono direttamen­ te la parola alle ‘donne gentili’ e alle ‘donne innamorate’, le chiamano a testimoni del loro amore e le pregano di inter­ cedere presso la donna amata. Ma qui esse sono ancora fi­ gure artificiali, caratteri della convenzione cortese allo stesso modo in cui lo sono, per esempio, le malelingue o i gelosi. È solo con Cino e, soprattutto, con Dante, che il pubblico delle donne - destinatarie rispettivamente di set­ te e sei testi - acquista realtà e spessore, e dallo sfondo si porta in primo piano trasformandosi, da spettatore, in confidente ed esperto delle vicende d ’amore. Ciò conside­ rato, non si sbaglia se, scartando i pochi precedenti, si dice che questa particolare macrofigura - l’allocuzione alle donne - rappresenta un lascito degli stilnovisti alla retorica della poesia amorosa tre-quattrocentesca.

Una conclusione altrettanto netta si può trarre a pro­ posito di un secondo destinatario interno: coloro che ascoltano o leggono, distinti non in base al sesso bensì in base all’eccellenza dell’animo e dei costumi e all’esperien­ za del vero amore, ossia i cuori gentili, gli amici innamo­ rati. Al di qua dello stilnuovo, rari casi o nessuno: l’appel­ lo al pubblico - un pubblico indefinito, senza qualità par­ ticolari - ricorre soltanto in ambito di poesia colloquiale, ai confini del giullaresco. Guittone parla frontalmente, in un testo, a un interlocutore ‘plurale’ (e a uomini, non a donne) ma si tratta, come ho già accennato, dei tradizio­ nali comprimari della finzione cortese: i m alparlieri. D an­ te per primo introduce nelle sue rime il pubblico degli amanti puri, dando forma così a una comunità di anime elette rese affini dalla diretta esperienza dell’amore: un elitismo complementare a quello che, nei congedi delle canzoni, porta a selezionare lettori colti e moralmente ir­ reprensibili. Con lo stilnuovo assistiamo quindi ad un primo am­ pliamento della gamma dei destinatari interni della poesia. Un secondo ampliamento ha luogo con Petrarca, ma se­ gue una direttrice opposta. L e donne e i cuori gentili sono un pubblico ‘umano’; chiamarli in causa significa socializ­ zare i sentimenti: ed è questo il sigillo retorico della scuo­ la, del gruppo o (Contini) dell’amicizia. Nel Canzoniere si registra il fenomeno contrario: non la socializzazione, non l’appello a interlocutori che appartengono al pubblico della poesia, bensì la proiezione dei sentimenti sulle cose. Ed è questo dunque, a sua volta, il sigillo retorico della so­ litudine di Petrarca, la proiezione sul piano formale della sua vocazione introspettiva, nonché il suo più vistoso ap­ porto alla retorica lirica europea: posto che dopo di lui sa­ rà concesso ai poeti (e il successo del modulo retorico ri­ sulta chiaramente dai dati raccolti nella tabella) di parlare ai pensieri, agli occhi, al cuore o ad altre parti del proprio corpo, o alle membra della donna amata o, soprattutto, di fingere una comunicazione diretta col mondo naturale, e chiamare la terra, le valli, i fiori, i fiumi, le stelle, a testi­ moni della propria gioia o, più spesso, del proprio dolore:

To every natural form, rock, fruit, or flower, Even the loose stones that cover the highway, I gave a moral life: I saw them feel, Or linked them to some feeling: the great mass Lay bedded in a quickening soul, and all That I beheld respired with inward meaning'".

9.3. Testi conativi vs. testi introspettivo-narrativi Possiamo affrontare ora la questione principale e con­ centrarci sulle due prime colonne della tabella, quelle in cui sono riportati i valori relativi 1) ai testi amorosi in cui l’io lirico si rivolge frontalmente alla donna amata (conati­ vi) e 2) ai testi amorosi introspettivo-narrativi. La prima famiglia è quella più facile da definire: si tratta di poesielettere rivolte a un’interlocutrice la quale - in astratto - può avere le tre fisionomie seguenti. Può essere: a) una donna immaginaria (tali abbiamo supposto essere, in ge­ nerale, le donne dei poeti siciliani); b) una donna che esi­ ste davvero, o che è esistita, ma a cui il poeta non pensa come alla vera destinataria del testo (si pensi per esempio ad alcune interlocutrici reali eppure assenti della poesia contemporanea come la Felicita di Gozzano o l’Esterina di Montale); c) una donna che esiste e che, presumibil­ mente, leggerà il testo. Ciascuna di queste tre varianti in­ dividua un genere e un registro particolari, ma poiché quello che c’interessa mettere in luce qui è l’atteggiamen­ to retorico, possiamo sorvolare sulle differenze e parlare complessivamente di testi amorosi indirizzati a un tu che è la persona amata. La seconda famiglia comprende quelle liriche in cui il discorso sull’amore non ha bisogno di cercare o di fin­ gersi un interlocutore esterno: il poeta parla a se stesso, cioè indistintamente ad ogni lettore. Il contenuto di que­ ste riflessioni è vario ma, come ho anticipato, due sono " Wordsworth, The Prelude, III 127-132 (in The Poetical Works, p. 651).

(NfN '